Statale 17 - Storie minime transumanti
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Anteprima del libro
Statale 17 - Storie minime transumanti - Barbara Summa
Scritti Traversi
STATALE 17
Storie minime transumanti
di Barbara Summa
STATALE 17
Storie minime transumanti
di Barbara Summa
© 2009 - Edizioni Exòrma
Via Fabrizio Luscino 73 - Roma
Tutti i diritti riservati
www.exormaedizioni.com
Progetto editoriale Orfeo Pagnani
Coordinamento Fausto Rapinesi
Collana Scritti Traversi
ISBN 978-88-98848-75-1
Impaginazione omgrafica, roma
Foto Gabriele Merolli e Virgilio Cinque
Si ringraziano
Paola Ardizzola, Paolo e Susanna Baldi, Berend e i nonni Dijk (i migliori babysitter del mondo), Anna Colasacco, Gabriele D’Oltremare, Giancaterino Gualtieri, Daniele Kihlgren, Paola Lattanzi, la Famiglia Vicari
Il Velino dalla A24
EXCUSATIO NON PETITA
Ognuno ha il suo luogo del cuore ed il mio sta tra Campo Imperatore e le sorgenti del Tirino e tra i due la casa dei miei bis-nonni a Ofena. In realtà sono cresciuta al mare, faccio la globe-trotter dalla nascita, ma, gratta sotto, sono e resto una montanara abruzzese dell’interno, con l’anima transumante aperta al cammino e quella stanziale chiusa e diffidente, che si tollerano ma ritengono ognuna di aver fatto la scelta migliore.
A questo libro stavo lavorando su suggerimento di mio marito, un olandese che dalle terre piatte si è sposato sugli altipiani sotto al Gran Sasso, e che trovava un peccato che tutte le cose che sapevo della zona Alta Valle del Tirino-Piana di Navelli e L’Aquila, diciamo pure il primo tratto del Tratturo Magno, non venissero messe su carta.
Poi è arrivato il terremoto, portandosi via il posto che per me identifica così strettamente chi sono e da dove vengo. Lasciandomi con un’urgenza di partire e andare a vedere con i miei occhi e l’impossibilità materiale a farlo, che due figli in età scolastica non si possono delegare come niente.
Parto, non parto? No, non parto, non me la sento, e poi no, non ce la faccio, parto, devo vedere, parlare con i miei amici, farmi del male. Insomma, un mese così.
Una sera tutto questo è tracimato, mi sono seduta al computer e quando mi sono alzata c’era il nocciolo di questo libro, una guida sentimentale ed assolutamente soggettiva. L’ho scritta pensando a chi quei posti li conosce molto bene e forse riuscirà a riconoscersi in queste pagine, ma soprattutto per chi del mio luogo del cuore conosce solo le immagini di macerie del telegiornale. Perché sappiate che quelle sono un dettaglio e non la vera natura del posto e della gente.
Un libro il cui inizio si è fatto da sé sotto l’urgenza di quei giorni di aprile ma, per farlo diventare quello che è, ci è voluto un lavoro di gruppo. E tanti calci di incoraggiamento da parte di chi condivideva la mia urgenza. Un viaggio. Un viaggio con l’amico Occhiomagico fotografo.
Quel viaggio che in fondo temevo e che un caro amico per sms, il secondo giorno, ha definito your trip to hell
. Esagerato, mi sono detta io. Ma era solo il secondo giorno.
Noi tre, perché alla fine eravamo in tre ovvero io, Occhiomagico e l’Artista Borderline a fare il Virgilio della situazione (se fossi Nduccio, cabarettista dialettale, i tre sarebbero stati ije, Mundine e Ciaccaficure), siamo partiti con un gran senso di avventura, perché finalmente dopo tanto parlare stavamo facendo. Fare questo libro come un modo per fare qualcosa di utile.
Sapevo che darmi un progetto da seguire era il filtro adatto per farmi rivedere la mia terra con un minimo di distacco. Ma ci siamo sopravvalutati. È stato a trip to hell
e lo abbiamo capito pienamente mesi dopo. È stato anche un viaggio che ci ha allontanati, avvicinati ed arricchiti.
Non è stato facile rientrare a Ofena e all’Aquila, perché questo non doveva essere un libro sul terremoto, ma non possiamo neanche far finta che non ci sia stato. È diventato il racconto di due viaggi e un diario: il viaggio nella memoria e il viaggio materiale.
Il mio diario emotivo dal 6 aprile al 7 giugno.
ISTRUZIONI PER L’USO: LA PARLATA
Noi ab-bruzzesi raddoppiamo le occlusive, per questo per i terremoti invochiamo Sant’Emid-dio. La -s- la pronunciamo -sc- e diciamo quindi di sci, per rispondere affermativamente. In genere non pronunciamo chiaramente la vocale finale nelle parole, che risulta quindi quel suono di -e- che va sotto il nome scientifico di schwa. Ve lo dico subito così non devo stare a far segni strani dopo, tutte le trascrizioni dialettali in cui trovate una -e- in fondo, fate finta che non sia una -e-, ma una specie di vocale incerta.
Nell’aquilano ci sono poi altre cosette carine: ci sono paesi, per esempio, dove una volta gli uomini e le donne parlavano due dialetti diversi, un po’ come in certe tribù esogamiche dell’Amazzonia. Solo che da noi dipendeva dalla transumanza: i pastori vivevano nove mesi l’anno in Puglia e quindi per strada accoglievano ogni sorta di innovazioni, anche linguistiche.
Le donne invece restavano a casa a custodire il focolare sacro ed erano quindi più conservative nei modi linguistici e nelle usanze (e in parecchie lo sono ancora).
Poi ci sono gli articoli di certi toponimi, come Navelli. Bella forza, ti possono dire, anche L’Aquila ha l’articolo. Sì, ma quello dell’Aquila è esplicito e la difficoltà semmai è tutta di chi deve imparare a scegliere tra, che so: Università dell’Aquila, o de L’Aquila, o di Aquila. Bisogna imparare.
Invece io parlo di quelle forme di articolo + toponimo che sono meno scontate, perché le usano solo gli autoctoni. Che, tra parentesi, dicono anche tranquillamente: domani vado ad Aquila, alla faccia dell’articolo. Ma questo è spiegabilissimo, perché prima di diventare L’Aquila, la città era Aquila degli Abruzzi.
Se invece vanno a Navelli, ti dicono che vanno ai Navelli, anzi aji Navejje. Stessa sorte tocca alla Ville (Villa Santa Lucia), ajju Castelle (Castel del Monte), alla Prate (Prata d’Ansidonia) e alla Crvare, che non è un toponimo protoslavo ma semplicemente la pronuncia di Corvara. Dall’uso corretto di questi articoli, anche se li italianizzate, si riconosce chi è della zona e chi no.
Per me che il dialetto ho fatto finta di impararlo da quasi adulta, tanto per il senso di appartenenza, il contatto dialettale erano mio padre e mia nonna che tra loro parlavano ofenese, e un giorno, a Prata d’Ansidonia, mio padre venne fermato da un signore che gli si presentò come professore di glottologia e che lo voleva intervistare perché parlava, secondo lui, un dialetto particolarmente arcaico, che magari dipendeva dal fatto che mio padre era stato allevato da due donne: sua madre e sua sorella zia Filomena.
A scuola invece si parlava italiano e al collegio di Alanno, dove confluivano ragazzini di minimo tre province e dai dialetti più diversi, pescarese, chietino, albanese (perché c’erano gli albanesi e ci sono ancora), aquilano, sulmonese, chi veniva sorpreso a parlare in dialetto andava in punizione.
E una volta, durante un temporale, scoppiò un tuono così forte che il commento viscerale fu: Odimamme, che tòno, giustificato immediatamente: Ho detto tóno, fingendo di intendere un’analisi delle qualità sonore del tuono in questione. Era in fa, era in si bemolle? Comunque tóno, in buon italiano, non tuono in dialetto.
Per cui, con l’orecchio abituato all’ofenese di casa e a tutti gli altri dialetti della zona che in fondo gli assomigliavano, a parte il castellano di Castel del Monte che invece la -s- impura la pronunciava molto sibilante, un po’ come il Sir Biss dei cartoni animati di Robin Hood, a me il contatto con il dialetto aquilano ha sempre fatto molto ridere. Che ne sapevo io infatti all’epoca che sotto L’Aquila passava un’isoglossa, che sarebbe un confine linguistico, nel senso che da un lato pronunciano certi suoni o certe parole in un modo e pochi metri più in là fanno cose completamente diverse. Ci si capisce, come no, ma è il principio che è diverso.
Allora succede che l’aquilano di città, che è un dialetto di tipo sabino, differisce profondamente dal dialetto delle sue frazioni a sud e dal resto della provincia, che sono invece di tipo vestino. Uno è dell’Italia centrale, insieme a Lazio e Marche. L’altro è meridionale.
Io sentivo gli aquilani pronunciare tutta una serie di vocali finali che, diciamocelo pure, per l’orecchio non allenato sembravano disposte un po’ alla cavolo se prendiamo come riferimento l’italiano. E la cosa mi ricordava quei dialettofoni del sud (quelli della schwa, per capirci) che quando cercano di darsi un tono ti parlano nel loro dialetto, ma ci mettono un po’ di vocali come capita sperando che sembri italiano.
Una cosa un po’ da parvenu, come dicono a Carrufo, come ru piducchie ’nfarenaete, ovvero un pidocchio che per sembrare bianco, e quindi non pidocchio, si rotola nella farina, ma sempre pidocchio rimane (noterete che a Castel del Monte e dintorni l’articolo maschile è ru). Insomma, giudicate voi l’aquilano di città dal testo di questa canzone:
So salitu ajju Gran Sassu
So rimastu ammutulitu
Me parea che passu passu
Se sajjesse ajj’infinitu.
No, per dire. Sembra sardo, a non sapere il sardo.
Un’altra cosa carina sono gli intercalari: a Ofena usano ibbì (e c’era quel Luigi proverbiale che alla fine, visto che ce l’aveva come soprannome comunque, si presentava dicendo Ji so Luiggi ibbì da tanto spesso che lo diceva), all’Aquila temè, altrove forse My jolly goodness gracious me, insomma tutti modi di esterrefarsi, sorprendersi, sottolineare l’usuale e l’inusuale. Poi, se vogliamo proprio fare gli intellettuali si scopre che temè deriva dal latino tene mentem, alla faccia di chi trova il dialetto poco fine.
Ma gli aquilani, è un fatto, parlano a modo loro. Hanno gli articoli strani: ju lupe, ju cafó mentre un altro abruzzese direbbe tranquillamente lu lupe, lu cafó (e quegli altri lì della montagna più alta ru lupe).
Mentre stai per pensare che con ju te la cavi sempre, ti sorprendono con lo pa’, lo vi’, lo tsuccaro, lo cacio, tutte quelle parole che gli inglesi definiscono uncountable e che ti rivelano per il non cittadino che sei.
Veniamo dal contado e si sente.
LUNEDÌ 6 APRILE — ORE 7.00
Il 6 aprile verso l’una di notte ero rientrata ad Amsterdam, dopo alcuni giorni in