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Anteprima del libro
Passanti - Andrea Mitri
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RACCONTI BREVI
MAREMOTO
Dapprima l’acqua dei pozzi risultò salata.
Poi, attraverso l’aria della nostra campagna, denso si diffuse l’odore del mare.
La mattina aprivo la finestra e lo respiravo a pieni polmoni; il dottore mi aveva detto che rachitico com'ero non poteva farmi che bene. Ma quando più tardi lavoravo con mio padre nei campi,mi infastidiva che l’odore di salsedine si mescolasse con quello dell’uva e degli orti, costringendomi a rimemorizzare la mia mappa olfattiva.
La nostra vita, comunque, non ne risultò troppo sconvolta.
Alla sera ci riunivamo come sempre intorno al fuoco, lasciando la porta aperta nell’attesa che la brezza ci portasse, adesso, fantasie di navi, balene e pirati; e la domenica, finito il bagno nella vasca, ci piaceva scoprire con la lingua una striscia salata sulle nostre spalla.
Infine arrivò l’onda.
Probabilmente la sentimmo montare sotto il vecchio mulino, filtrare attraverso i canali d’irrigazione e quindi erompere trascinando via con sé uomini, animali, cose.
Io fui tra i pochi fortunati che riuscirono ad aggrapparsi a uno stipite di porta, a un ciliegio non più in fiore, aun tavolo di noce disperatamente galleggiante. Ma gli altri vennero trascinati lungo la pianura,
sparsi e dimenticati là dove l’acqua, forse stanca di ribollire, non se
l’era più sentita di ridisegnare il paesaggio.
Una volta ritrovati i corpi, pensammo che forse sarebbe stato loro desiderio venire seppelliti in quella terra che avevano da sempre con fatica coltivato.
Pertanto caricammo i cadaveri sulle barche generosamente offerteci dalla Canottieri Olona in segno di solidarietà, legammo al collo di ognuno dei nostri cari una pietra del vecchio mulino e li gettammo nel nostro mare morto, fiduciosi che la natura avrebbe avuto pietà di loro, rimestandoli alla fanghiglia sottostante.
E diventammo marinai.
Nel punto esatto dove nel ’49 vidi passare i corridori del Giro d’Italia costruimmo la prima casa, poi gli attracchi, la taverna, la scuola. Con sabbia di riporto ci inventammo una spiaggia e col tempo riempimmo il nostro mare morto di pesci d’allevamento, sperando che una volta liberati riuscissero, evolvendosi, a dare dignità alle nostre acque, attirassero i pescatori e ci illudessero di far crescere ancora qualcosa nella nostra campagna sotterrata.
Poi, una volta scoperte le virtù terapeutiche delle nostre alghe, il nuovo paese andò sempre più stagionalmente popolandosi di malati di sciatica, fanatici della bellezza, semplici curiosi.
Tutti questi anni io li ho vissuti trasportando persone lungo il nostro mare morto, fermandomi sempre un po’ più a lungo nel punto in cui, nelle giornate limpide assenti di vento, si può intravvedere anco-
ra sul fondo, intatto, il vecchio trattore tedesco di mio zio Alfonso. Ho ripetuto mille volte la mia storia, spesso in un inglese faticosamente appreso dai dischi, spiegando a tutti il perché della scritta Mosè lungo il fianco della mia barca e considerando come in fin dei conti l’aria di mare a me, rachitico, non abbia potuto fare che bene.
Ma ancora adesso che gli anni cominciano a pesare e meno senso si dà alle proprie vergogne, mi riesce ancora difficile ammettere davanti a qualcunoche quell'enorme pesce trascinato a riva nell'estate del ’66 aveva gli stessi occhi atterriti di mio padre nel momento stesso in cui si rese conto che stava arrivando l’onda.
DEGOST
Di nome faceva Augusto. Ma per noi tutti era Degost.
Un po’ a causa della mamma inglese, ma principalmente perché nessuno si accorgeva di lui fino al momento esatto in cui appariva. Uno si girava e se lo ritrovava a fianco, alto e secco, senza che alcun rumore lo avesse preannunciato. Ed anche a ripensarci bene bene, non riusciva ad alcuno di ricordare se per caso la sua ombra aveva attraversato il proprio campo visivo prima del suo quieto sorridere.
Talvolta lo chiamavi ed era già lì.
Altre volte lo sentivi parlare ma non riuscivi ad inquadrare la sua sagoma da nessuna parte.
Degost era The Ghost, non c’era nessun altro come lui.
Era un generoso pronto a farsi in quattro per gli amici, per il gruppo. Fortissimo nelle partite di calcio del sabato, dove sbucando inaspettato in area di rigore addomesticava una palla vagante e la trasformava in gol. Alle manifestazioni studentesche era sempre in prima fila: reggeva lo striscione, urlava forte, manteneva la calma tra gli esagitati.
Non c’era persona che di lui potesse parlare male.
Innanzitutto perché non ce n’era motivo. Secondariamente poi perché avevi sempre paura che fosse lì intorno, invisibile, ad ascoltarti.
Ed allora evitavi di parlarne.
Questo alla fine lo rese triste: gli sembrava quasi che nessuno si fidasse di lui. È una cosa difficile da spiegare ancora oggi, perché lui varie volte aveva dimostrato di saper tacere una confidenza e di essere pronto a rischiare per gli altri. Ma c’era, in questo suo improvviso apparire, un modo di stare nel mondo che in molti suscitava angoscia: come se il sapere che poteva essere lì in qualsiasi momento finisse con il limitare la tua libertà personale.
Di questo nostro disagio lui, sensibile com’era, se ne accorgeva: ma non ha mai cercato di chiarire la cosa o anche solamente lamentato il fatto. Cercava solo di essere un po' più rumoroso nei movimenti, vestire in modo sgargiante, arrivare sempre puntuale agli appuntamenti, né poco prima né poco dopo, in modo che quantomeno ci facessimo un’idea precisa del suo arrivo.
Con l’andare del tempo però, tutta questa tensione finì con l’impedirci l’abbandono leggero alle nostre discussioni, ai nostri preparativi: addirittura, talvolta, ai nostri rapporti di coppia. Scattavamo per un nonnulla, una sua leggera divergenza di opinione ci faceva imbestialire. Le ragazze, quando era in giro, presero l’abitudine di recarsi al bagno due per volta, come era in uso nelle discoteche che noi alternativi ci rifiutavamo di frequentare.
Lui sentì che la situazione si faceva insostenibile.