Le notti bianche
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È forse poco, anche se resta il solo in tutta la vita di un uomo?»
Le notti bianche è un racconto giovanile di Fëdor Dostoevskij, pubblicato per la prima volta nel 1848, sulla rivista Otečestvennye zapiski (Annali patri), n. 12. L'opera prende il nome dal periodo dell'anno noto col nome di notti bianche, in cui nella Russia del nord, inclusa la zona di San Pietroburgo, il sole tramonta dopo le 22.
Fëdor Michajlovič Dostoevskij (Mosca, 11 novembre 1821 – San Pietroburgo, 9 febbraio 1881) è stato uno scrittore e filosofo russo.
È considerato, insieme a Tolstoj, uno dei più grandi romanzieri e pensatori russi di tutti i tempi. A lui è intitolato il cratere Dostoevskij sulla superficie di Mercurio.
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Le notti bianche - Fedor Dostoevskij
Fëdor Dostoevskij
Le notti bianche
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Indice dei contenuti
PRIMA NOTTE
SECONDA NOTTE
LA STORIA DI NASTENKA
TERZA NOTTE
QUARTA NOTTE
MATTINA
LE TAPPE DELLA FOLLIA
IL PRIMO AMORE
PRIMA NOTTE
La notte era bella, meravigliosa – una di quelle notti, caro lettore, che soltanto la giovinezza può comprendere pienamente.
Il cielo così stellato, così tranquillo, che riguardandolo ci si domandava: «È possibile che esistano uomini cattivi sotto un simile cielo, così bello e festosamente scintillante?»
E questo pensiero è anch’esso un pensiero di mente giovane, caro lettore, della più ingenua giovinezza. Oh, possiate avere spesso di tali pensieri!
Pensando ai «cattivi» io pensai pure, e non senza compiacimento, al modo col quale avevo impiegato il mio tempo durante la giornata che era appena allora finita.
Durante la mattinata ero stato assalito da uno strano disappunto: mi sembrava che tutti mi sfuggissero, sicchè in breve mi ritrovai assolutamente solo.
Certamente, ciascuno di voi sarebbe in diritto di chiedermi: «Che cosa intendete dire con la parola ‘tutti’?»
Fatto sta che io, durante gli otto anni dacchè vivo a Pietroburgo, non sono riuscito a farmi un amico, uno solo. Ma a che mi servirebbero gli amici?
Amica mia è Pietroburgo intera.
Però, se questa mattina m’era sembrato che tutti mi sfuggissero, s’allontanassero da me, ciò era dipeso certo dal fatto che tutti si affrettavano a lasciar la città per andarsene in campagna. Ed io mi spaventai all’idea di trovarmi solo.
Da tre giorni quest’idea era germinata in me senza che potessi spiegarmene il perchè. Durante questi tre giorni errai per la città, profondamente triste, senza nulla comprendere di ciò che mi avveniva dentro.
A Newsky, nel giardino pubblico, sulle rive del fiume non incontrai neppure uno di coloro che conoscevo e che mi conoscevano.
Senza dubbio, neppure uno di quelli che incontrai si ricordava di avermi mai veduto.
Ma io li conoscevo tutti, e tutti in particolar modo. Avevo già studiate le loro fisionomie e mi erano note le loro gioie più intime, le loro più angosciose tristezze.
Mi sono legato di stretta amicizia ad un vecchietto che incontravo quasi tutti i giorni, ad una cert’ora, sulla Fontanka.
Era un venerabile piccolo uomo dal viso altero di sognatore, il quale, camminando, sussurrava sempre qualcosa a se stesso. Egli agitava sempre la mano sinistra, tenendo nella destra un lungo bastone dal pomo d’oro. Anch’egli mi notò e, si direbbe, abbia cominciato a volermi bene.
Se talvolta qualche incidente m’impedisce di trovarmi alla solita ora nel solito luogo, sono sicuro che egli verrà assalito da un accesso d’ipocondria.
Ed ecco perchè stiamo quasi sempre per salutarci, specialmente quando ci troviamo di buon umore.
Non molto tempo fa, io ed il piccolo vecchio siamo stati due giorni senza vederci. Poi, incontrandoci, si fece entrambi lo stesso gesto per levarci il cappello di testa. Ma subito ci si ricordò che non ci conoscevamo abbastanza per scambiarci un saluto rispettoso e così scambiammo solo uno sguardo di simpatia.
Mi accade così anche con le case.
Si direbbe che quando io passo ciascuna d’esse mi corra incontro, mi guardi da tutte le sue finestre e mi dica:
«Buon giorno! Come stai? Io sto benone. Nel mese di maggio mi porranno sulle spalle un altro piano.»
Oppure:
«Come va la salute? Io, domani, incomincerò a subire delle riparazioni.»
Oppure:
«Mancava poco che bruciassi. Mi sono tanto spaventata!»
E così di seguito.
Tra le case, ne ho delle mie preferite; anzi: delle vere amiche. Una di esse ha l’intenzione, nella prossima estate, di farsi curare da un architetto di grido. Io, certamente, andrò nel luogo dov’essa s’innalza per vedere come la va con la cura. Dio la guardi e la protegga dai medici.
Non dimenticherò mai l’avventura che capitò ad una assai bella casettina color rosa-tenero, una casettina di pietra che mi guardava sempre con tanto affetto ed aveva, per le sue vicine sgarbate, un così evidente piglio di alterigia che il mio cuore balzava dalla contentezza quando le passavo vicino.
Un giorno la mia piccola amica mi disse con un’inesprimibile tristezza:
«Mi vogliono dipingere di giallo, i briganti, i barbari!» Ed infatti non hanno risparmiato niente, nè le colonne nè le balaustre, e la mia piccola amica diventò gialla come un canarino, e mancò poco che la bile mi si spargesse nelle vene: da quel giorno non ebbi più il coraggio di andarla a vedere, la mia casettina bella, ora che era così sfigurata, la mia piccola amica dipinta coi colori del Celeste Impero.
Così, caro lettore, ora avrai capito come io conoscessi tutta Pietroburgo.
Ho già detto come durante tre giorni io sia stato tormentato da una strana inquietudine della quale non ho potuto capir subito la causa. Non mi sentivo bene in nessun luogo: nè per istrada nè in casa. Durante due sere cercai di capire: «che cosa mi manca, dunque? Perchè non mi sento a mio agio?!»
E mi sorprendevo nell’atto di notare, per la prima volta, la sordidezza delle pareti di casa mia, la bruttezza delle mura affumicate e quella del soffitto coperto di ragnatele che Matrienanota coltivava con tanto successo. Esaminai la mia mobilia, pezzo per pezzo, e mi domandai davanti a ciascuno: «È forse qui che c’è la magagna?»
In tempi normali, bastava che una sola seggiola fosse fuori di posto perchè io montassi in bestia.
Poi, mi affacciai alla finestra.
Niente: nessuna nuova causa d’irritazione.
Pensai di chiamare Matriena e di farle dei rimproveri paterni per la sporcizia in cui lasciava languire la mia camera e per l’abbondanza delle ragnatele sul soffitto. Matriena mi guardò con grande stupefazione senza nulla rispondere alla mia paternale.
Fu tutto quello che potei ottenere da lei.
Uscì dalla stanza senza salutarmi, neppure con un gesto della mano. E le tele di ragno rimasero al loro posto, indisturbate.
Soltanto questa mattina compresi di che si trattava, la ragione della mia inquietudine: sono scappati tutti in campagna… Perdonatemi la parola impropria, ma io non sono abituato a scrivere in bello stile. Sì, tutta Pietroburgo se n’è andata in campagna.
…E subito ogni distinto gentiluomo che passava in vettura si mutava, a’ miei occhi, in uno stimato padre di famiglia che si reca a trascorrere giorni allegri, dopo le abituali occupazioni in città, presso i familiari, in una casina di campagna. Tutti i passanti, dopo tre giorni, avevan cambiato d’andatura, ed ognuno pareva dicesse chiaramente: «Io non sono qui che di passaggio; tra due ore sarò anch’io partito.»
Se una finestra si apriva sulla mia strada, una finestra sul cui davanzale avevano tamburinato poco prima piccole dita bianche come lo zucchero, e vi si affacciava una leggiadra testolina di gentil fanciulla per chiamare il venditore ambulante di fiori, supponevo che la giovinetta, con quei fiori, volesse far primavera nel suo appartamento in cui si soffocava dal caldo. Invece tutto ciò significava che anch’essa, tra pochi giorni, sarebbe andata in campagna e avrebbe portati con sè i fiori or ora comprati.
Aggiungo inoltre, poichè ho fatto progressi nella mia nuova scoperta, che io so, dall’aspetto esteriore di una tale o tal altra persona, in quale sito di villeggiatura vada a dimorare, abitualmente o eccezionalmente.
Gli abitanti di Kamenvy, delle isole Aptekarsky o della strada di Peterhov, si distinguono per le maniere ricercate, per l’eleganza delle toilettes estive che indossano e per le belle vetture che posseggono. Gli abitanti di Pergolov hanno una nota particolare di bontà e di saggezza; quelli delle Isole Krestovsky sono dotati di una inimitabile gaiezza.
Incontravo processioni di carrettieri che andavano pigramente, briglie alla mano, davanti ai carri carichi di mobilia, di tavole, di seggiole, di divani turchi e non turchi, di utensili da cucina: il tutto seguito assai spesso da una cuoca, la quale, seduta su montagne di fagotti, covava i beni dei suoi padroni… Osservavo scivolar via sulla Neva battelli anche essi carichi di masserizie… E carretti e battelli si moltiplicavano a’ miei occhi… Mi sembrava che tutta l’immensa città se n’andasse e, tra breve, ogni strada sarebbe rimasta deserta.
Questo continuo esodo di gente e di roba che se n’andava in campagna, mi aveva rattristato, offeso. Poichè io non potevo andarci, in campagna. Eppure, io ero pronto a partire.
Avrei potuto montare su un carretto, ma nessuno dei conducenti mi offriva ospitalità. Si sarebbe detto che nessuno si occupasse di me, che tutti mi ritenessero uno straniero.
Avevo camminato lungamente e per molto tempo, sì che finii per ritrovarmi oltre la cinta daziaria. Immediatamente la gioia m’invase: avanzavo nei campi senza fatica, come se un pesante fardello mi fosse caduto all’istante dall’anima.
Tutti coloro che passavano in carrozza mi guardavano con simpatia, tanto che mi avrebbero quasi salutato.
Erano tutti contenti: non so perchè. Fumavano buoni sigari; io ero felice come non mai. Mi credevo tutt’a un tratto in Italia, tanto era sorprendente la natura d’intorno. Sorprendente per me, povero cittadino mezz’ammalato, mezzo attossicato dall’atmosfera avvelenata della città.
C’è qualcosa d’ineffabilmente commovente nella campagna pietroburghese, quando, in primavera, essa dispiega tutte le sue forze recondite, si espande, si veste a nuovo e s’inghirlanda di fiori. Mi fa pensare a quelle giovinette languenti, anemiche, che non eccitano se non la pietà, qualche volta l’indifferenza, e che, ad un tratto, da un giorno all’altro, diventano meravigliosamente belle e miracolosamente sane.
Voi rimanete stupefatti dinanzi ad esse, e vi domandate: «Quale potenza occulta ha insinuato un fuoco inatteso in quegli occhi prima tristi e pensosi; chi ha colorito di sangue quelle gote prima pallide e smunte; chi ha invigorito di passione quei tratti prima inespressivi?» E vi domandate: «Perchè s’alza e s’abbassa così ritmicamente il petto di quelle rinate fanciulle? Mio Dio! Chi ha potuto dar loro questa forza, questa subitanea gioia di vivere, questa nuova bellezza? Chi ha gettato un così splendente raggio su quei sorrisi?»
Vi guardate intorno, cercate qualcuno, indovinate…
È passato l’istante incantevole. Forse domani ritroverete lo stesso sguardo triste e pensieroso di prima, lo stesso viso pallido ed emaciato. È il suggello del dolore, del rimpianto; è il rammarico per un ritorno effimero di salute e di forza. Deplorate che codesta bellezza si sia dileguata così presto. Ahimè, non avete avuto nemmeno il tempo di poterla amare!
Rientrai in città assai tardi. Suonavano le dieci.
La via costeggiava il fiume. Un lungo deserto, a quell’ora… Sì, io abito un quartiere assai remoto.
Camminavo canticchiando. Quando sono felice (o credo d’esserlo) canticchio sempre. È, penso, l’abitudine degli uomini fugacemente felici, i quali, non avendo nè amici nè camerati, non sanno con chi condividere quell’attimo di gioia.
Quella sera mi riservava un’avventura.
*
Appoggiata al parapetto del fiume scorsi, ad un tratto, una donna. Essa sembrava esaminare attentamente il corso dell’acqua torbida. Portava in testa un grazioso cappellino adorno di fiori gialli e, sul dorso, una mantellina civettuola. «È una ragazza certamente bruna», pensai.
Essa sembrò non accorgersi del rumore de’ miei passi e non si mosse affatto quando le passai accanto trattenendo il respiro mentre il cuore mi batteva a colpi accelerati. «È strano, pensai, ma questa ragazza dev’essere assai preoccupata». E tutt’a un tratto mi fermai. Mi sembrò d’aver inteso dei singhiozzi mal repressi. «Non m’inganno: essa piange». Un istante di silenzio; e poi ancora singhiozzi.
Mio Dio! il mio cuore n’ebbe una fitta.
Io sono, di solito, assai timido con le donne; ma in quel momento per me eccezionale divenni coraggioso. Tornai sui miei passi, mi avvicinai alla donna e avrei certamente pronunciato la parola «Signora» se non mi fossi ricordato d’un lampo che questa parola è utilizzata in mille analoghe circostanze da tutti i nostri romanzieri mondani.
Tuttavia, non fu questo che mi arrestò… Cercai mentalmente una parola più raramente adoperata… ma ad un tratto la donna s’accorse di me, s’addirizzò, si ricompose e, movendo celermente, mi oltrepassò costeggiando il fiume. Subito la seguii. Ma essa, accorgendosene, attraversò la strada e si mise a camminare sull’altro marciapiede. Non osai imitarla. Il cuore mi sussultava in petto come un uccello in gabbia.
Fortunatamente il caso mi venne incontro. Sul marciapiede dove l’incognita camminava comparve, assai vicino a lei, un signore in frak; un signore d’una «età seria», ma il suo modo di camminare era tutt’altro che «serio». Egli procedeva rasente il muro, prudentemente, dinoccolando il corpo e dondolando la testa.
L’incognita filava diritta come una freccia, con il passo a volte precipitato, di chi ha paura, comune a tutte le donne che, di notte, vogliono evitare l’offerta di essere accompagnate.
Il signore in frak, intanto, continuava, con la sua andatura dinoccolata, a seguirla. Ma visto che non poteva raggiungerla, tutt’a un tratto si mise a correre. Essa andava come il vento, ma il suo inseguitore man mano guadagnava terreno. Era già vicino a raggiungerla allorquando la donna gettò un grido.
Ringraziai il destino per l’eccellente bastone che avevo in mano. In un istante attraversai la strada, fui sull’altro marciapiede. Il signore in frak prese in considerazione l’argomento irrefutabile che io gli prospettai, e tacque, indietreggiò. Soltanto quand’io e l’incognita fummo da lui ben distanti, si mise a protestare in termini assai energici, ma le sue parole si perdettero nell’aria.
«Prendete il mio braccio», le dissi. «E allora lui non avrà più il coraggio di avvicinarvi».
La donna passò silenziosamente la sua mano ancora tremante di paura sotto il mio braccio.
Oh come benedivo quell’inatteso signore in frak!
Gettai un rapido sguardo sull’incognita. Era bruna, come avevo già intuito, giovane, molto bella. Sulle sue nere ciglia brillavano ancora piccole lacrime. Erano, quelle lacrime, provocate dal recente spavento o da un dolore antico? Non lo so: ma le sue labbra s’illuminarono già d’un sorriso.
Le dissi:
«Avete visto? Se poco fa non foste fuggita da me, s’io fossi stato, invece, con voi, non vi sarebbe capitato…».
«Ma io non vi conoscevo. Credevo che foste uno di quelli che…».
«Tuttavia, voi mi conoscete