Papyrus
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Anteprima del libro
Papyrus - Emanuele Martignoni
Prologo
Nell’anno del Signore 1551 un piccolo borgo prealpino dell’Arcidiocesi di Milano fu il crocevia di una serie di accadimenti che provocarono inquietudine e fermento nelle faccende religiose e politiche.
Un giovane cavaliere di Sassonia fu insignito di un incarico per via del quale ebbe modo di inoltrarsi, suo malgrado, nelle trame sottese degli uomini di potere, di stringere amicizie, di combattere inaspettati nemici, di ritrovare l’amore.
Al centro della vicenda, un manoscritto di epoche lontane che avrebbe potuto cambiare le sorti del mondo.
Parte Prima
Febbraio 1551
I
Il cavallo nero di Falander entrò sbuffando nel borgo di Bàrs. Il paese, un piccolo villaggio senza mura adagiato su un pianoro tra le verdi valli prealpine, si mostrava candido e accogliente: il profumo della legna che bruciava nei camini, in giro poche persone che salutavano gentilmente portando sulle spalle gerle colme perlopiù di ciocchi da ardere, qualche bambino che giocava rotolandosi nella neve fuori dalle povere casupole che emanavano odori di minestra calda e carni bollite; l’atmosfera dava un senso di ritrovata tranquillità di cui il cavaliere sentiva il bisogno, dopo il suo lungo e frenetico viaggio. Sapeva che quella non sarebbe stata la sua meta definitiva, solo un approdo provvisorio ma necessario alla missione che gli era stata consegnata. Raggiunse la piccola piazza al centro del borgo, legò lo stallone a una staccionata e varcò la soglia dell’unica locanda del luogo; salutò cordialmente l’oste chiedendo una zuppa calda e del buon vino e una camera per la notte e si accomodò a un tavolo vicino alla finestra. Quando uno straniero giunge in un posto ove pressoché tutti tra loro si conoscono, desta la curiosità dei presenti, soprattutto in tempi nei quali si ha notizia di certi stravolgimenti relativi al governo religioso e politico del mondo; ma rimangono frammenti di cose lontane se si vive in un luogo che tutto sommato è estraneo alle beghe e ai pericolosi intrecci della vita di palazzo. Uno straniero però è fonte di novelle, arriva da altre terre e ha visto il mondo là fuori, si presume. Così avvenne che l’oste, spinto da una naturale e non invadente curiosità, domandasse al cavaliere che cosa lo avesse condotto in quel borgo così lontano da tutto. Falander non fu particolarmente loquace, un po’ per la stanchezza, un po’ per evitare sospetti o fraintendimenti circa la sua missione, ma non esitò ad affermare di essere partito dalla lontana Sassonia non molti giorni prima, di aver cavalcato incessantemente per almeno dodici ore ogni giorno e di essere diretto a Firenze prima e a Roma poi per motivi culturali e spirituali. Non proferì parola sul suo vero mandato, non fece intendere che era a servizio di un certo potente nobile tedesco che aveva abbracciato la causa riformista, non disse che doveva recuperare un prezioso manoscritto che avrebbe potuto segnare per sempre le sorti della Chiesa cattolica. Non lasciò trapelare che la sua vera meta fosse Trento. Né ovviamente ebbe l’ardire di accennare al fatto che quel manoscritto non fosse molto lontano da lì.
La cena fu ottima. Non essendoci altre persone nella locanda, Falander e l’oste ebbero poi modo di discorrere a lungo. Il cavaliere, sempre attento alle parole da pronunciare, raccontò di aver percorso quella strada verso sud perché meno battuta di altre e, poiché il suo viaggio era una sorta di pellegrinaggio, sapeva che per questa via avrebbe potuto soffermarsi in alcuni monasteri.
«Mi sembra che andiate molto di fretta, per essere un pellegrino» disse l’oste. «In così pochi giorni siete arrivato dalla Sassonia a qui...»
«Non vi sbagliate. Ma siamo nella stagione fredda e ho preferito affrettarmi verso le regioni italiche, sapendo di trovarvi maggior tepore.»
«Come potete vedere, caro mio, siamo nel pieno dell’inverno anche qui; di tepore ce n’è solo nelle case dove arde legna nei camini. Ma voi siete uomo di mondo, immagino: saprete il fatto vostro!»
Per sua fortuna, Falander aveva conosciuto l’Italia anni prima e sapeva che lasciandosi alle spalle i monti, le Prealpi e la pianura tagliata a mezzo dal fiume Po si sarebbe raggiunta quella parte della penisola nota per il clima più mite anche nelle stagioni fredde e fu questo che spiegò al locandiere citando nomi di città e paesi di cui descrisse particolari che avrebbero tolto ogni dubbio al suo interlocutore circa la certezza del suo viaggio.
«Ma so che qui vicino si trova un monastero» aggiunse infine, «che avrei desiderio di visitare. È il motivo per cui ho fatto sosta nel vostro paese. Non ne conosco però l’ubicazione: voi mi sapreste indicare come arrivarci?»
«Ah, le monache!» replicò l’oste. «Dovete salire la collina a est dal sentiero di destra; è battuto, non dovete temere di smarrirvi nel bosco. Quando giungerete alle casupole di pietra dei pastori, superatele e seguendo la via più stretta arriverete dritti al monastero. A cavallo ci vuol meno di mezzora, minuto più minuto meno. Col vostro destriero farete anche prima! A proposito: vuole che mettiamo in stalla il cavallo?»
«Sarebbe molto gentile da parte vostra.»
«Seguitemi. Sistemiamo il cavallo, poi vi accompagno in camera.»
«Non so davvero come ringraziarvi!»
«Pagandomi prima di partire! Ah, ah, ah!»
«Su questo potete contarci. È una questione di principio!»
Si avviarono così alle stalle della locanda ove misero a riposare il destriero con abbondanza di fieno e acqua. Quindi l’oste accompagnò Falander alla stanza al piano superiore e nell’augurarsi la buonanotte si diedero appuntamento per la colazione dell’indomani. Il cavaliere udì in fondo al corridoio le voci festose di una donna e di alcuni bambini e immaginò fossero i familiari dell’ospitale locandiere che salutavano il rientro in casa del capofamiglia. Così era di fatto. Si ritenne fortunato per essere arrivato in quel luogo; in fondo l’uomo gli fece perlopiù domande di circostanza, senza insistere sui motivi del suo peregrinare.
L’indomani Falander si svegliò di buon mattino, dopo un sonno profondo e rilassante. Si sciacquò il viso e si rivestì, quindi aprì le imposte e s’avvide che la neve stava scendendo copiosa, probabilmente già da qualche ora visto quanta se n’era posata intorno. Se la sarebbe presa comoda, per ora non aveva necessità di correre. Con il mantello ripiegato sull’avambraccio destro e la spada in mano nella sua guaina scese i gradini di legno che portavano alla sala della locanda; l’oste era già al lavoro, affaccendato nella riparazione di una sedia dondolante.
«Oltre che locandiere, anche falegname! Buongiorno, signore!»
«Buongiorno a voi, cavaliere! Vedo che vi siete alzato di buon mattino: ho fatto troppo rumore?»
«Affatto! È solo una questione di abitudine; ho dormito a meraviglia.»
«Mi fa piacere. Se vi accomodate» disse l’oste indicando un tavolo apparecchiato, «vi porto del latte appena munto e qualche delizia».
«Con piacere. Il profumo che si sente è davvero invitante!»
«La mia signora sa far cose in cucina che farebbero risorgere i morti!»
«Curioso modo di dire. Posso chiedervi il vostro nome, se non sono scortese? Mi pare che non ci siamo ancora presentati...»
«Santo cielo! Avete ragione. Mi chiamo Martino Dei Baruffa, al vostro servizio.»
«Non siate troppo servizievole, altrimenti vi assumo! Io sono Falander Kuntz, cavaliere di Sassonia. È stato un piacere conoscervi.»
In quell’istante si aprì la porta accanto alle otri e ne uscì una pasciuta signora dai lunghi capelli castani raccolti in un foulard; in una mano aveva un piatto colmo di leccornie - salsiccia, formaggi, pane tostato - nell’altra una caraffa di latte.
«E questa è mia moglie Arianna, la meravigliosa cuoca di cui vi dicevo» riprese l’oste.
«Al vostro servizio, signore. Spero che la colazione sia di vostro gradimento» disse la donna.
«Altroché! Siete proprio delle brave persone.»
«Cerchiamo solo di essere ospitali» continuò Martino.
«Lo siete, ve l’assicuro» confermò Falander tuffandosi nella colazione. Era avvezzo a nutrirsi bene e abbondantemente di prima mattina, poiché spesso gli capitava per motivi di servizio di saltare il pranzo. Fu quindi lieto di quell’inaspettata abbuffata.
«Davvero delizioso, signora! I miei complimenti!» disse rivolto alla donna che però stava già rientrando in cucina. Si volse quindi a Martino: «Ho sentito ridere dei bambini ieri sera; presumo siano i vostri...»
«...oh, spero di non avervi recato disturbo. Sono i miei figli, sì. Pietro e Nicola, sei e sette anni. A quest’ora dormono ancora.»
«Fateli riposare e divertirsi il più possibile, prima che la vita li riempia di responsabilità!»
«Parole sante, potete scommetterci! Siete già in partenza?»
«Vado al monastero. Ma sarò di ritorno per pranzo. Pensavo di fermarmi ancora una notte in realtà, se fosse possibile. Dovessi pagarvi in anticipo, non ci sono problemi: ditemi quanto vi devo.»
«Non vi preoccupate. Salderete il conto alla partenza. Vado a prendervi il cavallo, intanto finite con calma di mangiare.»
«Grazie, molto gentile.»
Martino uscì dirigendosi verso le stalle; Falander pensò a ciò che lo aspettava da adesso in poi, al vero inizio della sua missione. Il monastero di Bàrs custodiva il segreto della sua sosta al paese: il manoscritto che gli era stato chiesto di recuperare. Il suo signore, Maurizio di Sassonia, sapeva che ivi quel documento era custodito; come gli fosse giunta la notizia Falander poteva solo supporlo, ma immaginava vi fosse qualcuno nel monastero che quel manoscritto l’aveva trovato e ne aveva informato chi di dovere. Qualcuno perciò che, a dispetto del luogo ove si trovava (un posto sacro per la cattolicità), probabilmente avanzava simpatie per le tesi riformiste di Lutero. Maurizio gli aveva detto che quello scritto era fondamentale per la credibilità del protestantesimo - così ora erano chiamate, non senza ironia ma anche con preoccupazione, le novità dogmatiche che il monaco di Wittenberg aveva divulgato attirando la simpatia di molti, soprattutto di quelli che non volevano più saperne di oboli per la Santa Sede e di indulgenze da comprare. «Chiedi del bibliotecario» gli aveva raccomandato prima di partire. Ora, chiacchierando con Martino, la sera prima aveva scoperto trattarsi di un monastero di monache, perciò difficilmente si sarebbe imbattuto in un bibliotecario, piuttosto in una bibliotecaria. Si domandava come un monastero di monache sperduto nelle Prealpi potesse nascondere una biblioteca, ma non aveva modo di dubitare del suo signore. Perciò avrebbe tentato la sorte con una certa sicurezza e calcolato rischio.
In sella al possente destriero, avvolto nel pesante mantello nero bordato d’argento, Falander procedette al