Sinner - Un Peccatore
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Info su questo ebook
In che cosa credo? Soldi. Sesso. Macallan 18.
Esistono parole per descrivere gli uomini come me… playboy, donnaiolo, dongiovanni.
Mio fratello, che era un prete, ne usa solo una.
Peccatore.
*Sinner - Un Peccatore è un romanzo autoconclusivo che racconta la storia di Sean, il fratello di Padre Bell. Non è necessario leggere Priest – Un Prete o Messa di Mezzanotte per leggere questo romanzo.
Sierra Simone
Sierra Simone is a USA Today and Wall Street Journal bestselling author and former library employee (who spent too much time reading romance novels at the information desk). Her notable works include Priest, American Queen, and Salt Kiss. She lives with her husband, teens, and two giant dogs in the Kansas City area.
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Anteprima del libro
Sinner - Un Peccatore - Sierra Simone
Capitolo 1
Smoking Armani, scarpe Berluti, orologio Burberry.
Occhi azzurri, capelli biondi e una grande bocca fin troppo maliziosa.
Sì, so di apparire bellissimo mentre scendo dalla mia Audi R8 ed entro nell’ospedale per partecipare all’evento di beneficenza.
Lo so io, lo sa il parcheggiatore che prende le chiavi e la ragazza che lavora al bar. Le mostro la tipica fossetta Bell mentre accetto lo scotch che mi porge, e lei arrossisce. Poi mi volto verso la folla brulicante di ricchi, sorseggio il Macallan e mi chiedo da dove mi convenga cominciare.
Perché questa sera è il mio giro d’onore.
Prima di tutto, questo pomeriggio ho firmato l’accordo Keegan, ovvero una pila sexy di documenti che permetteranno il trasferimento di un intero isolato disabitato nel centro della città a un costruttore di New York, e Dio mio, sapeste i soldi che possiede quella gente. Non parlo di generici tanti
soldi, ma di una quantità più simile a quella proveniente dall’industria del petrolio. Non soltanto la mia azienda guadagnerà un sacco, ma questo accordo mi aiuterà ad assicurare la mia posizione presso lo studio Valdman e Soci, proprio in tempo per il pensionamento di Valdman. Avranno bisogno di qualcuno che si sieda in quell’ambito angolo d’ufficio, a contare tutte quelle monetine d’oro.
Secondo, sono stato io a concludere l’accordo, non Charles Northcutt, fanculo quel tipo, e vorrei sbatterglielo in faccia questa sera. So che sarà qui perché non rinuncerebbe mai all’opportunità di bere gratis e passare il suo tempo con delle annoiate mogli trofeo.
Terzo, ho trascorso molte notti a lavorare al caso Keegan, quindi la mia vita sessuale ne ha risentito, e adesso sono su di giri. Ho alcuni contatti abituali salvati nel cellulare e c’è sempre il club esclusivo di cui sono membro, ma questo è il mio giro d’onore. Merita qualcosa di speciale. E di nuovo.
Mi guardo ancora intorno. Valdman è in un angolo con la moglie, sta ridendo e ha il viso arrossato, anche se l’evento di beneficienza è appena cominciato, e Northcutt è proprio accanto a lui, ovviamente.
Lecchino del cazzo.
Questa però è la mia serata e ci sono donne bellissime ovunque mi giro; magari, a una veloce occhiata, posso sembrare soltanto un altro maschio bianco con troppi soldi in un mare di uomini come me, ma io ho un vantaggio. Sono un peccatore con i capelli perfetti e le fossette, e so come fare perché si convincano che il peccato sia il paradiso in terra.
Mando giù lo scotch, poso il bicchiere e mi lancio nella mischia.
Un’ora dopo sento qualcuno sfiorarmi il gomito.
«Per tua informazione, papà è qui.»
Mi volto e vedo un uomo della mia età offrirmi un altro drink, dandomi una buona scusa per allontanarmi dalla mia attuale conversazione e osservare la sala.
Il padre di Elijah Iverson, infatti, è dall’altro lato della stanza, circondato dal solito gruppo di mega donatori dell’ospedale e sanguisughe. Il dottor Iverson è il primario del reparto di Oncologia e una figura sempre presente a questo genere di eventi, quindi non dovrei essere sorpreso di vederlo, ma mi sento comunque a disagio e un formicolio caldo mi attraversa la nuca. Chiudo gli occhi e, per un secondo, percepisco il rumore delle teglie e il tono di voce alto di mio padre, le suppliche della madre di Elijah, e riesco ancora a sentire l’odore stucchevole di tutti quei fiori bianchi, che sembravano bisognosi d’attenzione. Fiori da funerale, per un funerale che non avrebbe dovuto esserci.
Apro gli occhi e vedo il sorriso consapevole e triste di Elijah. C’era anche lui quel giorno, quello in cui le nostre famiglie sono passate dall’essere molto vicine a qualcos’altro. Qualcosa di freddo e distante. Elijah e io siamo rimasti uniti… avevamo fatto amicizia all’asilo grazie alle Tartarughe Ninja, un legame che dura da tutta la vita. Il resto delle nostre famiglie, invece, si è allontanato, come se non ci fossero mai stati vent’anni di barbecue e serate passate a giocare a Pictionary, babysitting e pigiama party, notti trascorse a giocare a carte, con bottiglie di vino per gli adulti e merendine mangiate di nascosto sulle scale per i bambini.
«Va tutto bene» dico. È soltanto una mezza bugia, perché ci comportiamo sempre in modo civile ed educato quando ci vediamo, il che accade spesso in una cittadina come questa, anche se il dottor Iverson mi ricorda quello che è successo quel giorno: la voragine terribile che la morte di mia sorella ha lasciato nella mia vita.
«Ehi, l’evento sembra fantastico» aggiungo, soprattutto per cambiare argomento. Lo scisma Iverson-Bell è una vecchia ferita e questa sera Elijah è già abbastanza sotto pressione. È la sua prima volta come coordinatore d’eventi per il Centro Kauffman, dopo aver lasciato il museo per cui ha lavorato finora, e so che è nervoso perché vuole che la serata vada bene. Inoltre, è l’unico evento dell’anno al quale partecipano il padre e i suoi colleghi… capisco che le rughe d’espressione sulla sua fronte e attorno alla bocca, causate dallo stress, non sono frutto della mia immaginazione.
Annuisce debolmente e osserva la stanza con i suoi occhi color caramello. Con quello sguardo attento e perentorio e la mascella scolpita, sembra quasi il gemello di suo padre. È alto, bellissimo, con la pelle scura, ma, mentre il dottor Iverson ha sempre un’espressione accigliata, Elijah è sempre pronto al sorriso e alla risata. «Finora sembra andare tutto bene» ne conviene, continuando a guardarsi intorno. «Anche se ho perso la persona che mi ha accompagnato.»
«Hai portato qualcuno?» chiedo. «Dov’è lui?»
«È una lei» replica con un sorriso che poi si trasforma in una risata, perché Elijah non frequenta le ragazze da quando ha fatto coming out, al college. «Ti prendo in giro, Sean. A dire il vero…»
Una donna con indosso l’uniforme del catering corre verso Elijah con una mappa dei posti a sedere, interrompendolo. Dopo qualche mormorio e un "dannazione" da parte di Elijah, il mio amico si scusa con un gesto della mano e corre via a spegnere qualsiasi incendio sia scoppiato dietro le quinte dell’evento, lasciandomi da solo con il mio scotch. Guardo di nuovo il dottor Iverson, che mi sta fissando. Mi saluta con un cenno del capo che ricambio e non mi sfugge la compassione gelida nella sua espressione.
So benissimo perché mi guarda così e sento una morsa al petto.
Ricomponiti e torna al giro d’onore, Bell.
Adesso però non sono più dell’umore adatto. Preferirei un altro drink e un po’ d’aria fresca: nonostante l’enorme parete di vetro che si affaccia sul panorama luccicante, mi sento claustrofobico e agitato. In questo momento, la melodia del sestetto d’archi all’angolo è troppo rumorosa e si espande nell’aria come gas, riempiendo ogni nicchia e alcova. Vado verso il terrazzo quasi senza guardare, con movimenti frenetici. Ho soltanto bisogno di uscire.
Uscire.
Uscire.
L’aria notturna mi trasmette un’immediata calma refrigerante, e faccio un respiro profondo. Un altro. E un altro ancora. Finché il battito non torna regolare e la morsa al petto si allenta. Finché il mio cervello non viene invaso dai ricordi, alcuni di quattordici anni prima e altri della settimana precedente, in una sovrapposizione caotica di teglie e fiori.
Vorrei che fosse soltanto il ricordo della morte di Lizzy a farmi questo effetto. Vorrei che non ci fosse una ragione per lo sguardo di pietà che il padre di Elijah mi ha rivolto. Vorrei avere la possibilità di fare una doccia, di godermi un evento o di prender parte a un festino del sesso con una donna bellissima, senza essere costretto a tenere il cellulare sempre vicino e la suoneria a tutto volume in caso di emergenza. Vorrei poter essere soltanto felice di aver chiuso l’accordo Keegan, di avere una quantità di denaro esorbitante, un nuovo elegante superattico, un bel corpo, un uccello ancora più bello e capelli che fanno colpo.
A quanto pare, ci sono cose che i soldi e dei bei capelli non possono sistemare.
Sorpresa.
Bevo il resto dello scotch, poso il bicchiere su un tavolino alto e avanzo sulla terrazza allestita come un’oasi di verde. Di fronte a me la città si estende sulla collina con un leggero sfarfallio di luci. Alle mie spalle c’è la coltre di vetro e acciaio che demarca il mio regno. Il luogo in cui vivo, lavoro e gioco. Nell’aria riecheggia la musica estiva delle cicale e del traffico e, soltanto per un cazzo di secondo, vorrei ricordare che cosa si prova ad ascoltare quei suoni con un senso di pace. Vorrei poter fissare queste luci senza che mi ricordino quelle fluorescenti dell’ospedale, il bip dei monitor, l’odore del balsamo per le labbra.
Non c’è quasi nessun altro in terrazza, anche se la notte è giovane e sono certo che gli esponenti dell’alta società usciranno qua fuori ubriachi e in preda alle risate non appena avranno svuotato i piatti. Qualunque sia la ragione, sono grato per questo momento di solitudine prima di tornare al mio giro d’onore. Inalo un ultimo respiro all’aria aperta preparandomi a rientrare, ed è in questo momento che la vedo.
A dire il vero, la prima cosa che noto è il vestito, un accenno di seta rossa e frusciante, un orlo che danza nel vento. È come il telo rosso agitato davanti al toro. In pochi secondi torno a essere Sean Bell, giro di vittoria compreso, e faccio inversione, seguendo il seducente luccichio della seta rossa finché non trovo la donna a cui appartiene.
Dà le spalle al vetro e alle persone ricche che si divertono dall’altro lato, ed è appoggiata a uno degli enormi cavi che ancorano la parte superiore dell’edificio alla terrazza. La brezza gioca con la seta che le avvolge il corpo, agitando la gonna e mettendo in evidenza il profilo invitante della vita e dei fianchi, mentre le luci della città brillano sulla carnagione di un caldo marrone scuro delle braccia e della schiena nude. Seguo il solco della spina dorsale fino al punto in cui il vestito aderisce al sedere e poi risalgo verso le esili scapole, ricoperte da spalline incrociate e sottili.
Si volta quando mi sente arrivare e quasi mi fermo perché, cazzo, è carina e, doppio cazzo, è giovane. Non tanto da mandarmi in prigione, ma forse abbastanza da essere una studentessa del college. Di sicuro è troppo giovane per un uomo di trentasei anni.
Eppure non smetto di camminare. Arrivo allo spesso cavo di ancoraggio accanto a lei, mi ci appoggio e infilo le mani in tasca. Quando la guardo, i nostri volti sono illuminati dalle luci dorate provenienti dall’evento all’interno dell’edificio.
Spalanca gli occhi e schiude le labbra quando mi vede, come se il mio viso la sconvolgesse, come se non riuscisse a credere ai suoi occhi, ma scaccio via quel pensiero. Con molta probabilità non riesce a credere a quanto siano belli i miei capelli.
Salvo che… ho del cibo o qualcos’altro in faccia? Mi strofino la bocca e la mascella in modo furtivo per assicurarmene e lei segue quel movimento con un’avidità che accende una scintilla nel mio basso ventre.
Con questa luce riesco finalmente a vederla bene e mi rendo conto che non è solo carina. È magnifica, incredibile. È il tipo di bellezza che ispira canzoni, dipinti e guerre. Ha il viso di un ovale perfetto, zigomi alti, grandi occhi marroni, un naso un po’ schiacciato con un piccolo piercing luccicante e labbra che non riesco a smettere di fissare. Quello inferiore è più piccolo di quello superiore e crea una sorta di broncio carnoso e morbido. Il tutto è incorniciato da fitti ricci afro.
Cristo Santo. Carina. Che parola stupida da usare per lei, non potrebbe essere più lontana dalla realtà. Le torte e i cuscini sono carini… questa donna è tutt’altro. È qualcosa che mi fa sbattere le palpebre e distogliere lo sguardo per un secondo, perché guardarla mi fa uno strano effetto alla gola e al petto. Guardarla mi fa sentire come se stessi per sollevare un velo che copre un mistero potente, come mi sentivo quando guardavo le vetrate colorate della mia chiesa.
Come mi sentivo quando pensavo a Dio.
Pensare alla chiesa e a Dio mi fa provare il solito accenno di gelido fastidio e mi costringe a ricompormi. Sicuramente starà pensando che io sia pazzo, dato che mi sono avvicinato a lei e non riesco nemmeno a guardarla negli occhi. Concentrati, Sean. Giro d’onore, giro d’onore.
«È una bella serata» esordisco.
Si volta ancora di più e le punte dei capelli le sfiorano le spalle nude, e all’improvviso voglio baciarle, spostarle i capelli e farla gemere imprimendole una scia di baci sulla clavicola.
«Già» risponde alla fine. Dio, la sua voce. Dolce, melodica e un po’ roca.
Inclino il capo verso la festa. «Dottoressa o donatrice?» chiedo, cercando di arrivare con discrezione al vero quesito… Sei venuta da sola?
Sgrana di nuovo gli occhi e capisco di averla sorpresa, anche se a me sembra una domanda del tutto normale. E poi un lampo indecifrabile le illumina gli occhi, ma scompare subito.
«Nessuno dei due» risponde e so di non aver immaginato la cautela nella sua voce.
Cazzo, non voglio spaventarla, ma non so se quello che ho in mente sia tanto meglio. È troppo giovane per invitarla a casa mia, troppo giovane per trascinarla in un angolo nascosto della terrazza e inginocchiarmi per scoprire che sapore abbia.
Dio, dovrei andarmene e attenermi al mio solito buffet di donne mondane e spogliarelliste. Raddrizzo la schiena per andare via, eppure non riesco ad allontanarmi.
Quegli occhi con screziature ramate. Quella bocca carnosa.
Parlare non può far male, giusto?
Mentre rifletto, raddrizza le spalle e solleva il mento, come se avesse preso una decisione. «Tu che cosa sei?» chiede. «Dottore o donatore?»
«Donatore» rispondo con un sorriso. «O meglio, la società per cui lavoro lo è.»
Annuisce, come se avesse già immaginato la risposta, e suppongo che sia così. La maggior parte dei medici ha uno smoking decente nell’armadio, ma siamo onesti… non sono famosi per il loro stile, mentre io sono molto alla moda questa sera. Mi sistemo il papillon, così può notare il luccichio del mio orologio e dei gemelli ai polsi.
Mi sorprende ridacchiando.
Mi irrigidisco e all’improvviso ho di nuovo paura di avere un po’ di cibo in faccia. «Che succede?»
«Stai…» Ride così tanto che non riesce a parlare. «Ti stai… pavoneggiando?»
«Non mi sto pavoneggiando» ribatto con tono indignato. «Sono Sean Bell e Sean Bell non si dà delle arie.»
Si copre la bocca con una mano e noto le dita affusolate e le unghie con lo smalto dorato. «Ti stai dando delle arie» mi accusa. Il suo sorriso è così grande che riesco a vederlo anche attraverso la mano e, Dio, vorrei leccarle la pancia per vederla sorridere in quel modo mentre scendo a baciarla tra le gambe.
«Sai, di solito le donne non ridono così di me» ribatto con tono addolorato, anche se sto sorridendo. «Normalmente sono ammirate quando mi pavoneggio.»
«Sono molto ammirata» ripete, prendendomi in giro senza nasconderlo. Prova a fingere di essere meravigliata, ma non ci riesce e scoppia a ridere più forte. «Davvero molto colpita.»
«Abbastanza da permettermi di portarti qualcosa da bere?» chiedo. Fa parte del copione, ormai è diventata un’abitudine, e solo dopo averglielo chiesto mi ricordo che non so nemmeno se può bere alcolici. «Ehm… puoi bere?»
Il sorriso si affievolisce e si porta la mano sul fianco, facendo scorrere le dita lungo la seta. «Ho compiuto ventun anni la scorsa settimana.»
Qual è la regola? La metà dei miei anni più sette?
Merda, di sicuro è troppo giovane per me.
«Allora puoi bere,» affermo «ma io sono troppo vecchio per portarti da bere, è questo il vero problema.»
Inarca un sopracciglio e mi prende in giro. «Be’, sei davvero vecchio.»
«Ehi!»
Di nuovo quel sorriso. Cristo. Potrei guardare quella bocca passare da un broncio delizioso a un sorriso enorme e viceversa per il resto della mia vita.
«Qualsiasi cosa tranne il vino» dice senza smettere di sorridere. «Per favore.»
«Okay» rispondo, ricambiando con un sorriso. Sto ridendo come un ragazzino cui hanno chiesto di ballare per la prima volta a una festa delle scuole medie. Che cosa mi prende? È bastata una ragazza carina di ventun anni per trasformare il mio giro d’onore in una scalata nel territorio dei novellini impazienti. E io non sono un novellino, proprio per niente.
Eppure, il mio cuore batte forte e l’uccello si irrigidisce contro i pantaloni mentre le vado a prendere da bere. Anche se è troppo giovane. Anche se non la conosco. Anche se ha riso di me.
A dire il vero, mi piace che lo abbia fatto. Di solito mi prendono molto, molto sul serio – tra le lenzuola e fuori – e mi sorprende scoprire quanto sia bello doversi guadagnare l’ammirazione di questa ragazza.
Ecco. È questo che voglio. Conquistarla almeno un po’. Magari sarebbe sbagliato portarla a casa. Tuttavia, se questa sera, quando andrà via, sarò riuscito a farle pensare che avrebbe voluto che lo facessi, sarei già soddisfatto. Abbastanza da essermi tolto un capriccio.
Le prendo un gin tonic al bar e chiedo al barista di andarci piano con il gin. Io prendo un altro scotch e, quando ritorno in terrazza, sono felice di vedere che è ancora lì, a fissare il panorama della città con aria pensierosa e le braccia attorno al petto.
«Senti freddo?» chiedo, pronto a togliermi la giacca per darla a lei, ma fa un gesto della mano per fermarmi.
«Sto bene.» Prende il drink, beve un sorso e fa una smorfia. «Ma c’è del gin in questa roba?»
«Sei giovane» rispondo, un po’ sulla difensiva. «Hai una bassa tolleranza.»
«Sei così protettivo con tutte le donne che incontri?» chiede. «Oppure sono speciale?»
«Di sicuro sei speciale» rispondo, usando tutto il fascino e l’eleganza che ho affinato negli anni, aggiungendo la fossetta per andare sul sicuro. E lei ride.
Di nuovo.
Sospiro. «Non c’è proprio speranza, eh?»
«Per che cosa?»
Bevo un sorso di scotch e la guardo con gli occhi da cucciolo. «Per farmi piacere da te.»
Beve per nascondere un sorriso. «Mi piaci abbastanza, ma non devi fare il fascinoso con me.»
«Be’, allora che cosa funziona con te?»
Ci pensa per un momento mentre la brezza gioca con i suoi capelli, agitandoli e facendoli danzare. Sento di nuovo quella strana sensazione al petto, come se la sua chioma al vento mi lanciasse una sorta di incantesimo, riportando a galla ricordi di vetrate colorate e preghiere sussurrate.
«Mi piace l’onestà» risponde. «Prova a essere onesto.»
«Mmm» mormoro, picchiettando le dita sul bicchiere. «Essere onesto. Non so se sia una buona idea.»
«È l’unica cosa che funziona con me» mi avverte con un sorrisetto malizioso. «Ho bisogno di sincerità assoluta.»
«Sai cosa… sarò onesto con te se tu lo sarai con me.»
Mi offre la mano. «Affare fatto.»
La stringo ed è morbida e calda. Faccio scorrere le dita sul punto in cui si può sentire il battito prima di lasciarla andare, e sono felice di vederla rabbrividire un po’.
«Però vai tu per primo» dice, allontanando la mano. I suoi occhi diventano due fessure mentre mi guarda. «E non imbrogliare.»
«Imbrogliare? Moi?» Mi porto una mano sul cuore, come se la sua accusa mi ferisse, anche se in realtà non mi diverto così da anni. «Non lo farei mai.»
«Bene, perché funzionerà soltanto se sarai davvero onesto. Non approfittarne per usare una frase da abbordaggio su quanto io sia carina e quanto vorresti conoscermi meglio.»
Con la mano ancora sul petto, inclino la testa in avanti, fingendo di essere stato sconfitto. «Mi hai beccato.» È proprio quello che volevo dire… anche se tecnicamente non avrei imbrogliato. «Sono entrambe cose vere, comunque» aggiungo, guardandola negli occhi.
Agita la mano con movimenti circolari, come se volesse dirmi sì, sì, sì e poi inarca di nuovo il sopracciglio. «Di’ qualcosa che non diresti a un’altra ragazza per portartela a letto.»
«D’accordo» rispondo, appoggiando il bicchiere sul davanzale accanto a noi. «Penso che tu sia più che carina. Penso che tu sia bellissima, e non sei rimasta colpita da me, il che mi fa venire voglia di impegnarmi molto per riuscirci. Voglio fare colpo su di te, con la mia bocca…» faccio un passo avanti tenendo le mani al sicuro in tasca, così capirà che non la toccherò, «… e con le dita…» Un altro passo avanti e solleva lo sguardo sul mio, schiudendo le labbra e sbattendo le palpebre con occhi sgranati. Riesco a vedere la vena più vulnerabile della gola pulsare e il petto che si alza e si abbassa rapido. Vedo persino i capezzoli irrigidirsi sotto la seta. «… E con tutte le altre parti del mio corpo.»
Siamo così vicini che le sfioro l’orlo del vestito con le scarpe, e mantengo questa distanza. Non la tocco, non premo contro di lei, non mi strofino, uso soltanto le parole e la corrente elettrica che scoppietta tra di noi. «E voglio davvero conoscerti meglio. Voglio sapere se urli o se gemi quando vieni, voglio sapere se preferisci la mia bocca o le mani, voglio sapere se ti piace farlo lentamente e con dolcezza oppure velocemente e con forza.»
Deglutisce e mi guarda frastornata, sbattendo più volte le palpebre.
«E in questo momento riesco a vedere la V tra le tue gambe sotto il vestito e vorrei solo premervi contro il mio uccello. Vorrei scoprire se sei abbastanza sensibile da riuscire a farti venire attraverso la seta, vorrei scoprire se posso leccarti attraverso il tessuto.» Abbasso la voce. «Voglio assaggiarti, così tanto che soltanto pensarci me lo fa venire duro. Voglio vedere come la tua fica si schiude quando uso le dita, come il tuo clitoride diventa duro e gonfio quando lo succhio. Voglio che tu senta il mio naso premere contro di te mentre ti divoro, dal davanti e poi… da dietro.»
Ha gli occhi spalancati e ci sono due anelli ramati attorno alle pupille nere. «Si può… lo puoi fare?»
Inclino la testa, divertito. «Che cosa?»
Sposta il peso da un piede all’altro e abbassa lo sguardo. «Ehm… divorare. Da dietro.»
Cristo. È giovane, ma di certo non così tanto, no? È abbastanza grande da aver avuto almeno un ragazzo decente nel letto. Oddio, perché sapere che è innocente mi eccita in questo modo, cazzo? Sapere che non ne ha la minima idea… che potrei essere il primo a mostrarglielo… l’uccello spinge contro la cerniera come se fosse pronto a far esplodere le cuciture e mi sento accaldato, teso e dolorante. Inoltre, la mia lingua muore dalla voglia di sfiorare la pelle vellutata di quel posto segreto, di scoprire il suo sapore nascosto, e la faccio scorrere sui denti, perché ho bisogno di qualcosa che plachi il tumultuoso uragano dentro di me.
Fissa la mia bocca, affascinata, e io la osservo mentre lo fa.
«Sì» rispondo con voce roca. «Sì, si può fare.»
«Io, ehm…» tentenna, e nonostante la luce indiretta riesco a vedere le guance arrossarsi sotto la tonalità scura della carnagione. «Non lo sapevo.»
Posso mostrartelo, vorrei dirle. Lascia che ti porti in un angolo appartato. Lascia che ti spieghi come mettere le mani sulla ringhiera per farmi vedere il sedere. Lascia che ti mostri di preciso come un uomo può usare la bocca su una donna da dietro.
Non lo dico, però. Invece abbasso la testa, abbastanza da farle schiudere ancora di più le labbra, e mormoro: «Tocca a te.»
Il rossore si espande ancora di più, arrivando fino al collo e alla clavicola. «Tocca a me?» chiede senza fiato.
«Devi essere onesta. Ricordi?»
«Oh» esclama con un sospiro, sbattendo le palpebre. «Giusto. Devo essere onesta.»
«Non si imbroglia» le ricordo. «Io sono stato sincero con te.»
«Sì» concorda con un cenno del capo, spostando di nuovo lo sguardo sulla mia bocca. «Sei stato sincero.»
Le concedo un momento, anche se in questo istante vorrei bloccarla contro il cavo di ancoraggio e strofinare l’erezione dolorante contro il vestito di seta. Seppellire il viso nel suo collo e succhiare la pelle sensibile mentre le sollevo la gonna e afferro la sua calda femminilità.
«Okay. Onestà.» Fa un respiro profondo e poi mi guarda. «Voglio che mi baci.»
«Adesso?»
«Adesso» conferma. C’è un leggero tremolio spavaldo nella sua voce e non mi piace. Voglio dire, sto quasi per inginocchiarmi e supplicarla di farmi vedere la sua fica, ma la parte migliore di me vuole che sia certa e pronta. Non voglio che finga di essere coraggiosa soltanto per essere baciata… non voglio che abbia bisogno di coraggio. Prendo il suo bicchiere e lo metto accanto al mio, poi le offro la mano.
Sembra confusa. «Non mi bacerai? Pensavo che… dopo tutto quello che hai detto…»
«Desidero davvero baciarti, ma siamo noi a decidere quando sia adesso, giusto? Magari sarà tra dieci minuti o forse tra venti. Non voglio avere fretta. E se questo fosse l’unico bacio che ci scambieremo per il resto della vita? Voglio prendermi il mio tempo. Godermelo.»
«Godertelo» ripete e poi annuisce, rilassandosi. «Mi piace l’idea.»
Accetta la mano e la porto all’interno della terrazza, sotto un tendone che cela una pista da ballo installata per gli ospiti, per il dopo cena, dove bere e ballare. Al momento è quasi vuota, c’è soltanto un cameriere che trasporta vassoi con flûte di champagne e una cassa che trasmette la musica del sestetto d’archi dall’interno della sala.
«Che ne diresti di ballare prima?» chiedo.
Si guarda intorno e vedo un po’ della sicurezza di prima tornare. «Sei sicuro di essere bravo a ballare?»
«Sono eccezionale» rispondo, infastidito. «Probabilmente il migliore al mondo.»
«Provalo» mi sfida, così lo faccio. Le afferro la vita e appoggio la mano sulle fossette sensuali del fondoschiena, come ho desiderato fin dal momento in cui l’ho vista. Mi sforzo di non far scivolare la mano più in basso e poi la attiro a me mentre le stringo la mano.
Rabbrividisce di nuovo e sorrido.
Non impiego molto a entrare in sintonia con la musica e cominciare a ballare un semplice two-step. Sono un bravo ballerino. Una nostra cugina aveva chiesto a tutti i ragazzi Bell di prendere lezioni di ballo prima del suo matrimonio e mi piace riuscire a sfruttare quell’esperienza estenuante in occasioni come questa. Sono soddisfatto quando mi rendo conto che la donna bellissima tra le mie braccia sembra colpita.
«Non sei male» ammette. Mentre ci muoviamo sulla pista vuota, con la città che brilla attorno a noi e le cicale che friniscono, mi guarda negli occhi con un’espressione che non riesco a decifrare. È come se dietro si nascondesse molto, un passato, un certo peso, un significato importante, e riesco quasi a sentire gli inni nella mia testa e il sapore stantio e dolce dell’ostia sacra sulla lingua.
«Nemmeno tu sei male» ricambio, ma sono soltanto parole simboliche, prive di significato, che servono a riempire lo spazio attorno a noi, perché nell’aria c’è già qualcosa di denso, senza nome, antico, e il mio cuore e l’istinto rispondono con un fervore che non provavo da anni. E che mi spaventa. Mi spaventa e mi entusiasma allo stesso tempo. Poi sposta la mano dalla mia spalla alla nuca con un gesto cauto ma allo stesso tempo determinato, e sembra importante, adorabile, e ho la sensazione che il mio corpo partirà a razzo a causa del desiderio, del bisogno di proteggerla e del mistero velato che percepisco in questo momento.
«Come ti chiami?» mormoro. Ho bisogno di saperlo. Ho bisogno di conoscere il suo nome perché non credo che riuscirei ad andare via senza sapere.
Non credo che riuscirei ad andare via e basta, ma qualcosa nella mia domanda la fa irrigidire e all’improvviso alza di nuovo la guardia e si chiude a riccio tra le mie braccia. «Sto per cambiarlo» risponde in modo criptico.
«Stai per cambiare nome?» domando. «Nel senso che… stai per entrare in un programma di protezione testimoni o qualcosa di simile?»
Ride debolmente. «No. È per lavoro.»
«Lavoro? Almeno hai finito il college?»
«Sto per cominciare l’ultimo anno, ma una ragazza può studiare e lavorare allo stesso tempo, sai» risponde con tono duro.
«Fai un tipo di lavoro per cui bisogna cambiare nome?» La osservo. «Sei sicura di non far parte di un programma di protezione testimoni? Super sicura?»
«Sono super sicura» risponde. «Si tratta soltanto di un lavoro insolito.»
«Me ne parlerai?»
Inclina la testa e riflette. «No. Almeno non adesso.»
«Non è giusto» la accuso. «Mi hai stuzzicato e lo sai. Inoltre, non so ancora come chiamarti.»
«Mary» risponde dopo un secondo. «Puoi chiamarmi Mary.»
Le rivolgo un’espressione scettica. «Sembra falso.»
Scrolla le spalle e il movimento le fa stringere le dita attorno al mio collo, ed è così piacevole che vorrei fare le fusa. Sono stato a letto con donne bellissime ed esperte, anche più di una alla volta, eppure la sensazione delle dita di Mary tra i capelli corti sulla nuca è più intensa ed eccitante di qualsiasi cosa abbia mai provato. La attiro più vicino quando la musica si trasforma in una melodia più dolce e melanconica. Le cicale si uniscono alla sinfonia come se fossero state invitate a far parte del sestetto, un suono forte, confortante e familiare.
«Non ballavo così da anni» ammette Mary mentre giriamo attorno alla pista.
«Sei troppo giovane per dire cose che ti fanno sembrare vecchia.»
Mi rivolge un sorriso triste. «È vero.»
«Che non ballavi così da anni oppure che sei troppo giovane per dire cose che ti fanno sembrare vecchia?»
«Entrambe le cose» risponde, e c’è ancora quel sorriso triste sulle labbra. «Sono entrambe vere.»
La faccio roteare, perché ho bisogno di vedere il vestito che le si allarga attorno al corpo e, quando succede, devo controllare il ringhio che vorrebbe sfuggirmi. Dio, quei fianchi. Quella vita. Quelle tette piccole, sode, che non sono sorrette da un reggiseno e che entrerebbero benissimo in un palmo di mano. La spingo verso di me, facendo scivolare lentamente la mano sulla sua schiena e accarezzandole le spalline incrociate sulle spalle.
Rabbrividisce al mio tocco, schiude le labbra e mi guarda con espressione languida. Rallento, le lascio andare la mano e le traccio il profilo della mascella.
«Mary.» La mia voce è roca.
«Sean» sospira, come se non vedesse l’ora di pronunciarlo. E lo fa