Memorie della vita di Giosue Carducci (1835-1907)
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Memorie della vita di Giosue Carducci (1835-1907) - Giuseppe Chiarini
VITA
DI
GIOSUE CARDUCCI.
MEMORIE DELLA VITA
DI
GIOSUE CARDUCCI
(1835-1907)
RACCOLTE
DA
UN AMICO
(GIUSEPPE CHIARINI).
© 2024 Librorium Editions
ISBN : 9782385747121
ALLA MEMORIA
DI
ADRIANO LEMMI.
PROEMIO.
Feci la conoscenza personale del Carducci nell’estate del 1855. Lo avea veduto tre anni avanti a San Giovannino delle Scuole Pie alle lezioni di filosofia, dove andavo qualche volta benchè avessi terminati l’anno innanzi gli studi. Egli entrò ch’era già cominciata la lezione, entrò con passo ardito e franco e con la testa alta, e andò a mettersi al suo posto nei gradi più bassi dell’anfiteatro. Io aveva sentito parlare di lui con ammirazione dai suoi compagni di scuola, da alcuno dei quali ebbi copia di qualche sua poesia, che mi parve molto bella. Più tardi uno di quelli stessi compagni mi diede a leggere manoscritta la canzone su Dante che il Carducci aveva composta nel 1854 per una Accademia delle Scuole Pie, della quale dovrò parlare più avanti. La canzone avea fatto un po’ di chiasso, specie fra i giovani, e ne corsero delle copie manoscritte, una delle quali appunto fu data a me. Io ne restai vivamente ammirato, e me ne crebbe il desiderio, che già avevo, di conoscere di persona l’autore. Avevo fatta da poco la conoscenza di Enrico Nencioni, stato condiscepolo del Carducci alla scuola di retorica del Padre Barsottini, e suo amicissimo. Esposi a lui il mio desiderio, ch’egli fu lieto di sodisfare. Il Carducci faceva allora il secondo anno di studi alla Scuola Normale Superiore di Pisa; ma veniva spesso nei giorni di vacanza a Firenze, dove aveva parenti, presso alcuno dei quali andava ad alloggiare. Quando lo andai a trovare in compagnia del Nencioni, egli abitava presso una zia, in via Borgognissanti. Andammo di mattina (era di domenica) fra le nove e le dieci. Egli era prevenuto, sapeva che io era un grande ammiratore, anzi adoratore, del Leopardi, che amavo i classici, che facevo dei versi, che ammiravo grandemente i suoi. Ci venne incontro in maniche di camicia; ci demmo subito del tu, come s’usa fra giovani, si cominciò a parlare di letteratura, si parlò del Leopardi, del Giordani; io gli chiesi qualche cosa di suo, egli mi trascrisse lì per lì sopra un grande foglio di carta gli ultimi due sonetti da lui composti, quello che comincia Poi che mal questa sonnacchiosa etade e l’altro Ai sepolcri dei grandi italiani in Santa Croce; dopo di che ci lasciammo, ed io me ne tornai lieto e contento come se portassi meco un tesoro.
Ci rivedemmo qualche volta nei giorni appresso in compagnia del Nencioni, di Ottaviano Targioni Tozzetti, di Giulio Cavaciocchi e di altri amici del Carducci e del Nencioni, che diventarono anche amici miei. Egli tornò indi a poco a Pisa, poi andò a passare le vacanze autunnali in famiglia a Pian Castagnaio, dove suo padre era medico condotto; io dovei per ragione d’impiego andare ad Arezzo, dove stetti fino ai primi del 1856. Avevamo promesso di scriverci: io fui il primo; egli mi rispose da Pian Castagnaio il 4 settembre 1855, dicendomi che là infieriva il colèra (il quale infieriva pure ad Arezzo), e che aveva dovuto lasciare gli studi per curare gli ammalati. Fino dai primi casi egli con un suo fratello ed altri due giovani senesi avean prestato volontari l’opera loro; in seguito di che il Municipio aveva composto di essi e di altri tre una commissione di assistenza gratuita, incaricando lui della direzione.[Vedi note pag. 433]
Al riaprirsi dell’anno accademico 1855-56 il Carducci tornò alla Scuola Normale; io ai primi del 1856 tornai, come ho accennato, a Firenze. D’allora in poi le mie relazioni con lui e cogli altri amici fiorentini furono continue, quasi giornaliere. Ma prima di proseguire, sarà buono dire qualche cosa della infanzia e della prima giovinezza del poeta. Il che farò, lasciando quanto più è possibile la parola a lui stesso, e giovandomi delle testimonianze altrui. A questa parte della Vita saranno dedicati i due primi capitoli: di ciò che narrerò negli altri fui testimone io stesso. E poichè l’antica amicizia ha mantenuto fra noi una corrispondenza epistolare che va senza interruzione dall’anno 1855 a questo in cui scrivo, attingerò, oltre che dalla memoria, da questa specie di domestico archivio ciò che mi parrà conferir meglio a delineare viva e vera la figura dell’uomo e dello scrittore.
CAPITOLO I.
(1835-1854.)
Ricordo d’infanzia: «Via, via, brutto te.» — La famiglia Carducci e il padre del poeta. — I primi anni e i primi studi a Bolgheri e a Castagneto. — La famiglia Carducci a Firenze e Giosue alle Scuole Pie. — Giosue a retorica dal Padre Barsottini — Il Carducci e il Nencioni. — Passione di Giosue pei libri. — Il primo passo. — Il Carducci a Celle. — Primi sonetti satirici. — Accademia dei Risoluti e Fecondi. — Canzone del Carducci su Dante letta all’Accademia.
«Io della mia infanzia, scrive il Carducci, non ho memorie nè belle nè buone nè curiose.
«Il mio più antico ricordo mi pone subito, ahimè, in relazione con un essere dell’altro sesso, come si direbbe con la lingua d’un certo uso, che, secondo i manzoniani, dovrebbe anche essere la lingua del buon gusto. Mi ritrovo in un luogo nè bello nè brutto — forse un giardinetto presso la casa ove nacqui, — a una giornata nè di primavera nè d’inverno nè d’estate nè d’autunno. Mi pare che tutto, cielo e terra, sopra, sotto, e d’intorno, fosse umido, grigio, basso, ristretto, indeterminato, penoso.
«Io con una bambina dell’età mia, della quale non so chi sia o chi sia stata, dondolavamo, tenendola per i due capi, una fune; e mi pare che così dicevamo o credevamo di fare il serpente. Quando a un tratto ci si scoperse tra i piedi una bella bodda: è il nome, nel dialetto della Versilia, d’un che di simile al rospo.
«Grandi ammirazioni ed esclamazioni di noi due creature nuove su quell’antica creatura.
«Le esclamazioni pare fossero un po’ rumorose. Perchè un grave signore, con gran barba nera e con un libro in mano, si fece in sull’uscio a sgridarci, o meglio a sgridarmi. Non era mio padre: era, seppi molto tempo dopo, un marito putativo d’una moglie altrui alloggiata per certo caso ivi presso.
«Io brandendo la fune, come fosse un flagello, me gli feci incontro gridandogli: Via, via, brutto te!
»D’allora in poi ho risposto sempre così ad ogni autorità che sia venuta ad ammonirmi, con un libro in mano e un sottinteso in corpo, a nome della morale.»[1]
Questo aneddoto mostra già nel fanciullo una delle qualità più caratteristiche dell’uomo. Perciò l’ho messo qui, affinchè sia come il battesimo della vita del nostro poeta.
***
Il piccolo ribelle nacque il 27 luglio dell’anno 1835 alle ore 11 di sera in Val di Castello, frazione del comune di Pietrasanta, da Michele Carducci e Ildegonda Celli. Gli furono dati all’atto del battesimo, ch’ebbe luogo due giorni dopo, i nomi di Giosue, Alessandro, Giuseppe, essendo compare un suo zio Natale Carducci.[Vedi l’atto di nascita nelle note a pag. 434]
La famiglia Carducci, stabilita da gran tempo fra Serravezza e Pietrasanta, discendeva dai Carducci di Firenze; e il nonno del poeta, Francesco Giuseppe, andava orgoglioso di tale discendenza, e si compiaceva molto, nella intimità della famiglia e degli amici, di evocarne le gloriose memorie. Ma quelle memorie, troppo lontane, non ebbero alcuna influenza sui suoi sentimenti politici: e nemmeno la familiarità sua col poeta repubblicano Giovanni Fantoni, di cui era grande ammiratore. Egli era e rimase un fedele suddito del Granduca di Toscana; e come tale odiò le novità e le rivoluzioni. Il padre del poeta invece, il dottore Michele, avea nel sangue l’istinto della battaglia e della libertà. Fin da scolare prese parte alle cospirazioni politiche, fu carbonaro, e dei pochi Toscani che pei fatti del 1831 patirono relegazione e prigionia. Quando gli nacque il primo figliuolo Giosue, egli a Val di Castello era medico di una società francese che aveva assunto l’escavazione di certe miniere di piombo argentifero, poste tra Val di Castello e Serravezza. Ma o fosse l’indole sua irrequieta, o che non gli piacesse, o non gli convenisse, l’ufficio presso la società mineraria francese, o che, come altri dice, gli desse fastidio la sospettosa vigilanza della polizia, ben presto abbandonò la Versilia per la maremma toscana, e verso il 1838 andò medico condotto a Bolgheri, frazione di Castagneto, e feudo dei Conti della Gherardesca.
***
Tra Bolgheri e Castagneto la famiglia Carducci passò ben undici anni, che il poeta chiama la sua triste primavera e dei quali parla egli stesso così: «Mio padre era un manzoniano fervente.... Ridottosi a vivere in condotta in uno dei più oscuri paeselli della maremma, viveva coi contadini, e, nelle ore di riposo o di sosta, con alcuni pochi libri di storia e letteratura che, oltre i non pochi dell’arte sua, aveva raccolti ed amava. Figuravano tra questi bellissime le opere del Manzoni, con i giudizi del Goethe, le analisi critiche del Fauriel, i commenti del Tommaseo; e quei volumi, rilegati con certa pretensione di lusso, mostravano impressi nelle costole a oro certi fregi che rendean figura come di casette con due alberetti davanti. Io, ragazzo di circa dieci anni, credevo che quella fosse la canonica di Don Abbondio; e leggevo e rileggevo I promessi sposi. Perchè fino a quattordici anni non ebbi quasi altro maestro che mio padre, il quale altro non m’insegnava che latino; ma, un po’ per l’indole sua, un po’ per i doveri di medico, mi lasciava molta libertà e molto tempo per leggere.
«E io insieme alle opere del Manzoni lessi l’Iliade, l’Eneide, la Gerusalemme, e la Storia Romana del Rollin, e la Storia della Rivoluzione Francese del Thiers; i poemi con ineffabile rapimento, le storie con un serio oblio di tutto il resto: e, aiutato da qualche conversazione di mio padre con certi amici ed ospiti, per ragazzo ne intendevo anche troppo. Invasato così di ardore epico e di furore repubblicano e rivoluzionario, io sentivo il bisogno di traboccare il mio idealismo nell’azione; e per ciò in brigata co’ miei fratelli e con altri ragazzi del vicinato organizzavo sempre repubbliche, e repubbliche sempre nuove, ora rette ad arconti ora a consoli ora a tribuni, pur che la rivoluzione fosse la condizion normale dell’essere, e cosa di tutti i giorni l’urto tra i partiti e la guerra civile.
«La nostra repubblica consisteva di ragunanze tumultuose e di battaglie a colpi di sassi e bastoni, con le quali intendevamo riprodurre i più bei fatti de’ bei tempi di Roma e della rivoluzione francese. In coteste rappresentazioni, del resto, il rispetto alla storia non era certo spinto a quegli eccessi pedanteschi che soglion guastare o raffreddare l’effetto vivo drammatico. Che benedette sassate applicai un giorno a Cesare il quale era su ’l passare il Rubicone! Per quel giorno il tiranno dovè rifugiarsi non so dove con le sue legioni, e la repubblica fu salva. Ma il dì appresso Cesare mi colse in una macchia, affermando sè essere Opimio e quello il luco delle furie: invano io protestai contro l’anacronismo e per la mia qualità di Scipione Emiliano: egli mi fece togliere in mezzo da’ suoi cretensi come un Gracco qualunque e flagellare, mentre io chiedevo che almeno rispettasse la storia lasciandomi libero di farmi uccidere al mio schiavo. Come picchiavano e rideano quei cretensi! Me ne vendicai, per altro ed in breve, e storicamente, quando, presa d’assalto una rimessa che facea da Tuileries, stimai bene di lasciar libero il corso al furor popolare su gli svizzeri prezzolati di Luigi XVI.
«Ma il rumore di questi grandi fatti giungeva qualche volta alle orecchie del mio manzoniano padre, il quale allora, nulla commosso dalle mie oneste ferite, mi condannava pur troppo a lunghe prigionie; in mezzo alle quali egli di quando a quando riappariva per rivedermi il latino, e mi lasciava tre libri su ’l tavolo, dicendomi serio ed asciutto: — Leggete qui, e persuadetevi che il taratantara classico non è più per questi tempi. — I tre libri erano: la Morale cattolica di Alessandro Manzoni, i Doveri dell’uomo di Silvio Pellico, e la Vita di San Giuseppe Calasanzio scritta da certo padre Tosetti (parmi) del secolo passato.
«Che idea fosse quella del manzoniano mio padre di dare a leggere la Morale cattolica a un ragazzo, io non so: so che d’allora in poi per un gran pezzo morale cattolica e frati, doveri dell’uomo e santini, furono per me la stessa cosa; e odiai, odiai quei libri, d’un odio catilinario. Essi mi rappresentavano la mortificazione, la solitudine, la privazione di libertà e d’aria e di combattimento, la fame delle grandi letture, un nuovo carcere tulliano. Trovavo uno sfogo ad affacciarmi alla finestra, declamando la parte di Guglielmo de’ Pazzi:
Soffrire, ognor soffrire? altro consiglio
Darmi, o padre, non sai? Ti sei tu fatto
Schiavo or così che del mediceo giogo
Non senti il peso e i gravi oltraggi e l’onte?
Dispetto! i cretensi e gli svizzeri eran sotto la finestra, e ridevano, e mi gettavano pomi.»[2]
Queste battaglie e le letture non erano i soli svaghi del selvatico fanciullo, dice il Borgognoni: «e’ si teneva in casa e allevava con grande amore una civetta, un falco e (imaginate!) anche un lupacchiotto.» Ma il padre, cui tutto ciò non andava a genio, «un bel giorno ammazzò il falco e regalò a un tale di Livorno il lupo.» Giosue ne fu così addolorato, che «scappò di casa e passava le giornate intere errando pei boschi in riva al mare e su pei colli cretacei.»[3] Aveva intorno a dieci anni; e cominciò fin d’allora a sentirsi tentare dalla smania di far versi; scrisse prima alcune ottave sulla presa di Bolgheri, poi alcune terzine sulla morte di Cesare e un sonetto per la morte della sua civetta. In questo tempo essendoglisi messa addosso una febbre maremmana, che gli durò due anni, il padre (che stava allora a Bolgheri), per vedere di guarirlo, lo mandò a Castagneto in casa d’un collega. Qui Giosue, sentendosi pienamente libero, cominciò, dice il Borgognoni, a farla da uomo; si legò in amicizia con un tale Alessandro Scalzini repubblicano, e nella casa di lui spiegava ai molti che accorrevano a sentirle, le poesie del Giusti, che allora andavano attorno manoscritte. Fu richiamato a casa dal padre nel 1846; ma due anni dopo, nella primavera del 1848, tutta la famiglia si trasferì a Castagneto, e Giosue vi riprese la vita di prima. «Allorchè, scrive il Borgognoni, fu affisso a Castagneto il bollettino che annunziava lo statuto largito da Carlo Alberto, il Carducci ci scrisse sotto col lapis:
Esecrato Carignano
Va il tuo nome in ogni gente,
con quanta approvazione dello Scalzini non è da chiedere. Seguì in quei giorni una dimostrazione nel paese. Se non che non si vedeva bene dove la dimostrazione andasse a parare. Allora il Carducci persuase lo Scalzini e i suoi a levare il primo grido: Abbasso tutti i re! viva la repubblica! Lo Scalzini gridò, tutti gridarono: la dimostrazione era riuscita.»[4]
***
Intanto il padre, che, uomo libero e battagliero, come s’è detto, avea preso parte fin dal principio ai moti del 1848, e tal parte che ben presto la dimora di Bolgheri non gli parve più sicura per lui, aveva trasportato le sue tende a Castagneto; ma anche qui non potè durare lungamente. In quelli anni gli umori e le voglie erano così diverse e divise, che un uomo poco prudente correva rischio d’attaccare lite ad ogni momento. Dovè dunque l’anno dipoi, al tempo del governo provvisorio del Guerrazzi, abbandonare anche Castagneto: andò come medico interino a Laiatico, ma ci stette ben poco, costretto a fuggire dalla reazione moderata toscana, che ivi lo colse. I contadini, dice il Borgognoni, lo costrinsero a baciare un busto in gesso di Leopoldo II, e lo bastonarono anche, pare, un pochino. Egli allora riparò a Firenze, dove avea parenti da parte della moglie, dove gli era più facile passare inosservato, e dove poteva provvedere meglio all’educazione dei figliuoli. Ben presto la famiglia andò a raggiungerlo, e si allogarono in una povera casa in fondo di via Romana, segnata del n. 1843. I figliuoli, che allora eran tre, Giosue di 14 anni, Dante di 13, Valfredo di 8, furono subito messi alle Scuole Pie.
Il corso classico secondario si compieva allora in tutte le scuole di Toscana in sei anni; tre anni di grammatica (1ª, 2ª, 3ª grammatica), un anno di umanità e due di retorica. Per quelli che volevano proseguire gli studi, c’era un corso di scienze (filosofia, matematiche, fisica) che durava un anno. Giosue fu inscritto nel maggio 1849 alla classe di umanità, i due fratelli a classi inferiori. Era maestro di umanità un Padre Michele Benetti, uomo colto e studiosissimo di Dante e dei classici antichi, dei quali aveva, con un discorso a stampa, preso le difese contro il Padre Ventura, che giudicava pericoloso lo studio di essi nelle scuole. Non pare ch’ei facesse speciale attenzione al Carducci: e si capisce; egli avea una classe di 62 scolari parecchio indisciplinati; e il Carducci era stato da lui poco più di tre mesi. Ma nei registri, che ancora si conservano, il maestro aveva notato che il giovinetto era «assai bene istruito», e perciò fra gli scolari «da passarsi», e che aveva tenuto una condotta irreprensibile.
Dei 62 scolari del Benetti soli 8 avevano in quell’anno ottenuto la nota di irreprensibile; ed i 62 erano all’esame ridotti 43, avendone il maestro dovuti espellere 8 e costringere altri a ritirarsi, per gravi ragioni d’indisciplina. Ciò che dimostra, osserva il Padre E. Pistelli, alla cui cortesia devo queste notizie,[5] che gli scolari d’oggi non sono peggiori di quelli d’allora. «Io, soggiunge il Pistelli, in 22 anni d’insegnamento ho dovuto espellere uno scolaro solo.» Gli esami furono dati dal 21 al 31 agosto; e il Carducci fu approvato con queste classificazioni: nei due latini scritti mediocre, nella spiegazione a voce di Virgilio (En., l. V) ottimo, nei precetti di letteratura bene, nella sfera armillare mediocre, nella storia toscana bene.
«Da vecchio il Benetti, dice il Pistelli, parlava sempre dei suoi scolari, e ne aveva avuti, a Firenze, a Cortona, a Siena nel Collegio Tolomei, una infinità. Ma non ho memoria d’avergli sentito ricordar mai il Carducci. Era uomo molto pio e scrupolosissimo, e forse non ricordava volentieri chi in quegli anni era chiamato il cantore di Satana.»
***
Mentre Giosue stava per finire la scuola di umanità, il padre ebbe per un momento l’idea di farlo entrare nel Liceo Militare e ne fece domanda; ma poi, quale ne fosse la ragione, abbandonò quell’idea; e terminate le vacanze scolastiche, il giovane riprese i suoi studi alle Scuole Pie.[Vedi le note a pag. 434]
Il corso di retorica durava ordinariamente due anni, e il Carducci li fece tutti due (1849-50, 1850-51). Era maestro il Padre Geremia Barsottini, «anima ardente e, a quei giorni, liberale», dice il Pistelli; un buono e brav’uomo davvero, dalla figura maestosa e imponente, che contrastava in modo singolare con la sua faccia sempre piena di sorriso e le sue maniere cortesi e carezzevoli. Era amato e stimato, non pure dagli scolari, ma da tutta la cittadinanza; ebbe fama di valente oratore; e di un suo volume di versi, un po’ rugiadosi e sdolcinati, che piacevano molto alle signore, furono fatte più edizioni. Pubblicò anche un’antologia omerica «Le bellezze d’Omero», e fu studioso dei classici; ma era e si mantenne sempre romantico. Perciò il Carducci, che pure gli volle bene, non lo tenne mai per un modello di insegnante; e perciò egli, per quanto sentisse l’ingegno del Carducci, gli preferì il Nencioni, romantico come lui.
Nel primo anno di retorica il Carducci ebbe tra i condiscepoli Torquato Gargani, ma non il Nencioni; il quale, per quanto appare dai registri, fu con lui soltanto il secondo anno (1850-51).
Pel passaggio dal primo al secondo anno di retorica non c’erano esami. Negli esami alla fine del secondo anno il Carducci fu approvato con queste note: prosa italiana, bene assai; versione scritta dal latino, ottimo; versione dal classico a voce, bene; versione scritta dall’italiano in latino, ottimo; precetti, ottimo. L’esame di greco, ch’era libero, il Carducci non lo diede. Se l’esame del Carducci fu buono, quello del Nencioni fu migliore, avendo egli avuto la nota di ottimo anche nel latino orale, e di bene nella prosa italiana, senza l’assai, che attenua. Del qual fatto è, secondo il Pistelli, da cercare la ragione nell’essere il Nencioni romantico come il maestro. Non bisogna credere però che il buon Barsottini non avesse nei due anni ch’ebbe sotto di sè il Carducci, misurato tutto il valore di lui. Attesta il Pistelli nelle sue note di avere una sola volta parlato del Carducci al Barsottini, quando questi era vecchio e malato; e il Barsottini gli disse: «Ha mantenuto tutto quello che prometteva, ed era tanto!»
Io poi ricordo. S’era negli anni fra il 1865 e il 1870: il Carducci, venuto da Bologna a Firenze a passare alcuni giorni, era con me in via Larga, non lungi da San Giovannino. A un tratto ci viene incontro il Padre Barsottini, con la faccia illuminata da quel suo sorriso gioviale, che pareva volere abbracciare e proteggere le persone colle quali egli parlava. Si fermò, prese per le mani il Carducci, e guardandolo affettuosamente, non senza un po’ di soggezione, gli disse: «Bravo il mio Giosue, tu sei diventato un gran professorone.» Più che nelle parole, c’era nel tuono della voce e in tutta l’espressione del viso del buon frate la sodisfazione del maestro che diceva fra sè: Ed io l’ho avuto scolare! Non parmi che il Carducci rispondesse con molta espansione alla espansione del maestro; egli era allora la bestia nera dei moderati toscani; e ciò lo metteva subito di cattivo umore tutte le volte che s’incontrava con qualche toscano non dei pochissimi (cinque o sei) suoi intimi. A me quell’incontro fece molto piacere; e ne serbai viva memoria. Non credo che il Carducci abbia poi riveduto più il Barsottini.
Per essere ammesso al corso di scienze il Carducci dovè l’anno appresso (1851-52) dare un esame di aritmetica, nel quale fu approvato; e si inscrisse alle lezioni di geometria, di fisica e di filosofia. Di geometria e di filosofia era insegnante, o, come allora dicevano, lettore, il Padre Celestino Zini, che fu più tardi direttore delle Scuole Pie, e morì arcivescovo di Siena; di fisica, il Padre Filippo Cecchi, che avea fin d’allora buon nome fra gli scienziati e che poi s’acquistò fama per lavori importanti di meteorologia e di fisica. Nel registro del Padre Zini il Carducci è notato irreprensibile per la condotta, notabile per il profitto; ma nella colonna della frequenza è scritto: «quasi assiduo»: nell’esame fu approvato a pieni voti e pluralità di plauso, come risulta dall’attestato che conservasi nell’archivio della R. Scuola Normale Superiore di Pisa.[Vedi le note a pag. 435]
Gli anni dal 1850 a tutto il 1852 furono i tre anni che il Nencioni passò, come dice nel suo Consule Planco, «in continua compagnia, in fraterna comunanza di studj e di affetti»[6] col Carducci.
Alla quasi assidua frequenza alle lezioni di filosofia può servir di commento il fatto accennato dal Borgognoni,[7] e confermatomi dagli stessi Carducci e Nencioni, delle grandi passeggiate che i due amici andavano a fare insieme pei colli di Firenze, saltando la scuola. Anche mi raccontarono come essi, specialmente il Carducci, per fare imbroncire il buon Padre Zini, lo aspettassero talora alla porta dell’aula, quando usciva od entrava, e gli esprimessero la loro ammirazione per la filosofia del Leopardi, dicendogli all’orecchio: — Padre Zini, evviva il Leopardi. — Naturalmente il buon frate attribuiva alla inesperienza e al bollor giovanile queste scappatelle, e pur rimproverandole le compativa.
***
«Quante cose, dice il Nencioni nello scritto che sopra ho citato, potrei raccontare della vita domestica e scolastica del Carducci!» Giacchè anche lui, come il Gargani, ci ha abbandonati innanzi tempo, e a me non è dato supplire che in piccola parte alla copia di notizie che loro avrebbero potuto dare sulla prima giovinezza dell’amico nostro, riferirò qui due pagine dello scritto del Nencioni, note certamente a molti, ma che tutti rileggeranno volentieri.
«Mi par di vederlo ancora, a scuola di retorica, un sabato che si doveva spiegare qualche frammento di classico latino ad libitum, escir dal suo posto, traversare impettito e fiero la scuola, e presso la cattedra del maestro levarsi di tasca con meraviglia di tutti noi un libriccino in carta pecora, un vecchio elzeviro, e cominciare a leggere.... Era un Persio senza note. Stupore nella scolaresca, e un certo imbarazzo nel nostro buono e bravo maestro, Padre Geremia Barsottini. — Lesse, costruì, tradusse, commentò, franco, preciso, sicuro, e se ne tornò al suo posto fra un silenzio d’ammirazione. — Da quel giorno fu il dittatore della scuola. Lo vedo ancora arrivare le mattine d’inverno quasi sempre in ritardo, in giacchetta di panno turchino con bottoni d’ottone, con berrettino militare, senza paletot, senza mantello, senza sciarpe, sfidando i geli, come Souvarow.
«L’adolescenza e la prima gioventù del Carducci sono state veramente spartane: quelli anni così ridenti per tutti, furon per lui anni di sacrifizj, di perseveranza, di lavoro ostinato, di dignitosi silenzi, di nobili e alteri rifiuti. E conosco una povera casa in Firenze, in fondo di via Romana, che fu testimone di giornaliere ignote lotte, — consolate solo dalle pure gioje della poetica ispirazione, da entusiasmi di ammirazioni artistiche, dalla lettura di qualche libro prestato — povera casa dove il Carducci ha scritto i primi suoi versi, le Odi oraziane, — e che a me ha insegnato più e meglio di tutti i palazzi Strozzi e Farnese, che cosa sono le realtà e le idealità della vita.
«Legato a lui fin d’allora di fraterna amicizia, gli procuravo dei libri — ed ebbi così la fortuna di fargli conoscere alcuni poeti stranieri, lo Schiller, fra gli altri, — e di italiani il Leopardi; i cui Canti (vecchia edizione Piatti) da me prestati al Carducci, destarono nel futuro poeta delle Odi barbare un vero fanatismo. Ricopiò, mi rammento, più della metà del volume; e il Bruto Minore, e la Saffo, gli imparò subito a mente. — Guido Mannering e altri romanzi dello Scott, il Guglielmo Tell, alcune scene del Fausto, lo colpirono vivamente fin d’allora: di Byron, a quel tempo, ammirava più la vita che le poesie (è vero che lo leggeva tradotto in barbara prosa). Lamartine non gli andò mai giù. Gli scritti clandestini di Giuseppe Mazzini, che riceveva da un suo stretto parente, lo facevan ruggire.... Anche l’Ortis è un libro su cui l’ho visto fremere e piangere.
«Cosa singolare! i libri di erudizione, particolarmente filologica, erano per lui letture gradite, e avidamente cercate, quasi quanto i poeti. Mi ricordo che dopo avere nitidamente trascritto, con una diligenza da benedettino, le sue imitazioni da Orazio — una quarantina di odi, di cui due solamente sono restate negli Juvenilia, — egli cedè volentieri il volumetto manoscritto, in baratto con una vecchia edizione del Malmantile annotato dal Biscioni, e tornò a casa glorioso e trionfante col grosso polveroso volume, prezioso per lui più per le note erudite che per l’arguto testo fiorentino.»
A proposito della sua passione pei libri il Nencioni mi raccontò che il giorno che egli riuscì ad avere, non so se comperate o donategli, le poesie del Foscolo, per le quali spasimava da lungo tempo, tornando a casa, salì in ginocchione la scala che dall’uscio di strada conduceva diritta al povero quartiere, e giunto nella stanza dov’era sua madre, presentatole il libro, volle s’inginocchiasse a baciarlo. La mattina di poi, quando il Gargani andò da lui, lo trovò non ancora finito di vestire, che gli veniva incontro, e lì in cima alla scala, senza lasciarlo entrare, gli lesse ad alta voce, commentando con le sue ammirazioni, una gran parte dei Sepolcri.
***
Nell’anno 1852, mentre studiava, o a dir meglio (sono sue parole) non studiava affatto filosofia dagli Scolopii, il Carducci fece il primo passo verso il numero dei più, cioè degli uomini stampati. «Lo feci presto, dice, e da buon italiano, con un sonetto, un sonetto d’occasione, e quale occasione! per i coristi del Teatro di Borgo Ognissanti, o salvo il vero, della Piazza Vecchia.... Stavo vicino di casa in via Romana con Emilio Torelli stampatore, e già dei fedeli, dei veramente e onestamente fedeli, di F. D. Guerrazzi. Egli mi chiese il sonetto. Come dir di no a un democratico del ’48, che aveva tale una franca impostatura tra di soldato e di ciompo (egli fu capitano dei municipali, e sua madre era piemontese), e portava sempre uno smisurato cappello o di felpa o di paglia, all’ombra delle cui grandi ale poteva riparare una cospirazione? Diedi il sonetto; e fu stampato, anonimo. Non me ne ricordo, ma ci doveva essere qualche frase di Armonide Elideo, o, meno arcadicamente, d’Angelo Mazza.
«Il vero primo passo per altro, e questo con la ferma intenzione di peccare, solamente non seguìta dall’effetto, lo avevo mosso qualche mese innanzi. In quegli anni io scrivevo sempre: ammiravo il bello da per tutto, cioè non capivo nulla. Ebbi in una giornata di luglio il coraggio di mettere assieme in tutti i metri che mi corsero per la testa (nessun barbaro: allora, al più, rifacevo alcaiche sul modello del Fantoni) una novella romantica. L’intitolai Amore e Morte. C’era dentro un po’ di tutto — un torneo in Provenza — e il rapimento della regina del torneo fatto da un cavaliere italiano vincitore — e una fuga con dialoghi al lume di luna tra gli abeti — e il fratello della vergine non più vergine che raggiungeva gli amanti in Napoli — e un duello — e la morte del vago — e la monacazione della vaga — e un successivo impazzamento — e l’annessa morte dopo la confessione in
Endecasillabi
Catullïani
Dolci per facili
Modi toscani.
(Rossetti, Veggente in solitudine.)
················
Ricordo.... due strofe, quando la regina del torneo posava una ghirlanda su ’l capo del vincitore, che s’era tratto l’elmo:
Qui la bella di Tolosa
Del baron gli occhi fisò,
Poi tremante e vergognosa
Chinò gli occhi e sospirò.
Ma una fiamma al roseo volto,
Una fiamma le salì
Quando il nero crin disciolto
Fra le dita errar sentì.
«Finita che ebbi la novella verso le quattro di sera, e il caldo era grande (come scrivevano i vecchi cronisti), pensai a farla stampare. Perchè no? Leggevo stampati tutti i giorni tanti versi che mi parevano peggio dei miei. L’abate Stefano Fioretti pistoiese compilava allora certo foglio teatrale e letterario, intitolato non ricordo più se l’Arpa o il Liuto o il Trovatore o il Menestrello, o quale altro de’ nomi d’oggetti di spogliatoio melodrammatico che usavano ancora su quegli sgoccioli del romanticismo. Mi manca il tempo e la serenità dell’animo a raccogliere e rendere i tratti di ciò ch’era allora l’abate toscano: non prete del tutto, ma nè men secolare: molto arcadicamente o romanticamente letterato: il cappello lungo; cravattina simulante il collare sotto al solino imbiancato co ’l turchinetto; abito moderatamente talare tenuto aperto per lasciar vedere una catenella d’argento a mezzo la sottoveste abbottonata fin molto in su; tutto in nero, s’intende; nero ed argento; in argento legate possibilmente le lenti, pomo d’argento o d’altro metallo biancheggiante nella canna d’India; infine andatura un po’ solenne, ma con passi di minuetto e naso all’aria. Il Fioretti del resto era persona piacente, e galantuomo, e buon compagno: aveva l’ufficio del giornale in un de’ vicoli che rameggiano da via Calzaioli. Salgo le scale con grande trepidazione; il direttore non c’era, c’era la governante, o la cameriera, o la nipote; non so in somma che cosa fosse precisamente. Il che mi piacque, non mica per la cameriera o governante o nipote — che era del resto un bel pezzo di ragazza, tipo fiorentino del Ghirlandaio un po’ volgarizzato — ma io, figuratevi, ero troppo fresco dell’Amore e Morte e della mia creazione di Gilda. Mi piacque perchè così potei scrivere una lettera al direttore (a parlare mi sarei imbrogliato), con la quale gli lasciavo e raccomandavo la mia novella: sarei tornato il giorno dopo per la risposta. Tornai; e il piacente abate con squisita cortesia mi fece capire che la mia novella era troppo lunga e troppo letteraria per un foglio come il suo.
«Rividi poi, circa il 59, e più volte, l’abate Fioretti; e finimmo buoni amici. Mi dava o mi mandava certe sue cantate storiche. Una mi ricordo: Gli Orti Oricellari a tempo dell’ultima cacciata dei Medici da Firenze, fu musicata dal Mabellini per i parentali a Niccolò Machiavelli celebrati in Pistoia la sera del 26 luglio 1863. E me ne ricordo un’aria a più voci tra Palla Rucellai, il Machiavelli figliolo e Zanobi Buondelmonti.
Palla.
Ah.... del ribelle moto
Côrremo i frutti amari.
Machiavelli.
Ai Medici devoto
Vedrem l’Oricellari?
Palla.
Tutti i tiranni abomino
Detesto al par di te;
Ma nella plebe instabile
Non so ripor la fe’.
Buondelmonti.
Torna a regnare il popolo
Che plebe vil non è.
»Io gli lodai quella cantata. Sicuro! Gli ero debitore dell’avermi risparmiato la stampa della novella. Immaginatevi se i critici italiani avessero poi scoperto che a sedici anni feci una poesia romantica!»[8]
***
Finiti nel 1852 gli studi agli Scolopii, il Carducci andò colla famiglia a raggiungere il padre, che fino dall’anno innanzi era andato medico condotto a Celle nel Montamiata. Quivi passò quasi tutto il 1853, riordinando e compiendo con assoluta libertà, che lo condusse ad un classicismo assoluto, i suoi studi letterari. Non li aveva tralasciati mai neppure a Firenze nell’ultimo anno mentre studiava filosofia. Anzi specialmente in quell’anno le conversazioni col Nencioni, i libri ch’ei gli procurava da leggere, quelli che cercava da sè nelle biblioteche fiorentine, dove volle vedere anche i codici, contribuirono a svolgere, non senza un po’ di confusione, le attitudini sue svariatissime, di erudito insieme e d’artista. Dalla lettura dei lirici dei primi secoli nel Manuale del Nannucci, nella raccolta del Valeriani e nei codici della Riccardiana, passava a scrivere odi saffiche o alcaiche ad imitazione d’Orazio, sonetti burleschi e satirici, e, come s’è visto, anche poemetti romantici.
De’ sonetti satirici ne avea composti fin da retorica. I primi a provare la mordacità della sua musa giovanile furono i suoi compagni di scuola. Mi ricordo che il Nencioni, raccontandomi le loro inimicizie e guerricciole di scolari, mi recitava dei pezzi di sonetti carducciani veramente feroci. Il Carducci poi, mandandomi nel settembre del 1860 da Pistoia la intiera raccolta manoscritta di tutti i suoi sonetti burleschi e satirici, mi scriveva: «Ho voluto conservare due di quelli fatti da ragazzo per un’ambizioncella di mostrare come pensavo e sentivo ec. ec., e come presto incominciai l’arringo satirico, pel quale veramente sarei fatto più che per ogni altro.» E prometteva di mandarmi poi altri saggi di poesia satirica puerile, «sciatti saggi, diceva, ma che pur dicono qualche cosa, molto più certo delle poesie serie che facevo a quel tempo.»
Non ricordo bene; ma credo che fra quei sonetti ce ne fosse uno su Celle (ad imitazione di quello del Berni su Verona) il quale cominciava così:
Questa Celle è una terra di Toscana,
ed uno contro