Binario Est
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Anteprima del libro
Binario Est - Marco Carlone
L’autore
Marco Carlone Video reporter e fotografo freelance, collabora principalmente con la RSI – Radiotelevisione svizzera facendo brevi dall’Italia e dai paesi dell’Europa centro-orientale, mentre sulla carta stampata scrive e fotografa principalmente per La Nuova Ecologia
, il mensile di Legambiente. Ha all’attivo pubblicazioni con più di 20 testate italiane e straniere. Nei suoi lavori giornalistici si occupa principalmente di ambiente, piccole comunità, conflitti sociali e geografie. Da circa 10 anni si è particolarmente invaghito di tutti i luoghi che stanno ad est di Trieste. Da un anno lavora altresì con un’associazione che organizza viaggi responsabili, accompagnando piccoli gruppi di viaggiatori nei paesi dei Balcani. Da sempre è appassionato di ferrovie: era uno di quei bambini che andavano a guardare con i nonni i treni alla stazione. Solo che, da allora, non ha ancora mai smesso di farlo.
camera con vista – 23
Bottega Errante Edizioni
Via Pradamano 4
33100 Udine
www.bottegaerranteedizioni.it
info@bottegaerranteedizioni.it
Editing: esagramma
Copyright © 2022 Bottega Errante
ISBN 979-12-80219-47-3
È vietata la riproduzione totale e parziale del testo
senza l’autorizzazione dell’autore e della casa editrice
Marco Carlone
Binario Est
Bottega Errante Edizioni
Un prologo, per niente balcanico
Sono seduto con le ginocchia che mi toccano quasi il petto nel corridoio di un vagone letto. È la notte del 26 dicembre sul serpentone infinito: l’Intercity Notte 1963 Milano Centrale-Siracusa/Palermo. Era il vecchio Trinacria
, quando ancora i treni di rango avevano un nome proprio, come quello di un amico che ormai si conosce bene. Una catena di carrozze che attraversa lo stivale sul filo dei binari. Parte dalla cattedrale italiana dei treni, Milano centrale, con le sue volte sempre griffate D&G o dedicate a qualche profumo di marca. Inizia il suo viaggio spalla a spalla con i businessmen armati di valigetta e «Sole24ore» che prendono la Freccia. Ma l’1963 è tutt’altro che una freccia. Quando mette il naso fuori dalle volte in metallo si lancia dritto nelle nebbie della bassa – anche se di nebbia oggi manco c’è l’ombra – e si dirige verso i binari ingrigiti della Lomellina. Pavia, Voghera, Tortona, poi si arrampica sui Giovi, le montagne che separano la Pianura padana dal mare. Il viaggio parte subito in salita, a meno di 150 chilometri dal punto di partenza, giusto per scaldare la gamba. Subito dopo è il mare ligure.
Piazza Principe è una stazione moderna ma d’altri tempi, con le sue tettoie in metallo eleganti e il soffitto in legno a cassettoni. Oltre il binario 20 un grande muraglione separa l’area ferroviaria dai quei quartieri tutti genovesi che si sviluppano in verticale sulle alture. Li posso solamente intuire, è buio pesto: si vedono i cordoni di lucine natalizie accendersi e spegnersi, accendersi e spegnersi, accendersi e spegnersi ritmicamente. Il serpente riprende a correre lungo la costa – ma sono le 22.41, chi la vede? – entra ed esce da mille gallerie.
All’altezza di Santa Margherita Ligure rubo un frammento di discussione a uno studente siracusano, in fila per andare in bagno con lo spazzolino in mano. «Genova è una città da scoprire» dice all’amico con cui sta viaggiando. Il treno non dorme ancora, i suoi passeggeri camminano lungo il corridoio per ingannare la noia. Il vagone letto è un non luogo orizzontale, la verticalità non è ammessa. O sdraiati, o fuori, al massimo si aspetta di prender sonno nel corridoio appoggiandosi al finestrino e provando a indovinare cosa scorre al di là. Chi gioca al cellulare, chi chiama la mamma, chi si scazza perché in due qua non si riesce a passare, e allora quando senti arrivare il cuccettista ti devi spalmare sulla parete come un geco. Il controllore sfila spalle al muro, ha il passo deciso di chi ormai ha preso le misure del mezzo, è in possesso dello spazio. Il treno notte è l’odore plasticoso del cuscino, quello un po’ acidulo delle coperte di pile igienizzate, il fastidio del cafone che proprio non ce la fa a parlare piano nel corridoio, il pianto dei bambini che non vogliono saperne di stare fermi.
All’altezza di Chiavari due ragazzi, un siciliano e una milanese, hanno fatto amicizia. Si sono accesi una sigaretta alla stazione di Voghera – la regina delle scuse – e hanno attaccato bottone. Sembrano affiatati. Lei scenderà a Lamezia Terme, va a trovare una compagna di università. Lui raggiunge la famiglia a Catania, è uno studente lavoratore e ha dovuto fare i turni fino al giorno di Santo Stefano. Chissà se prima di Civitavecchia succederà qualcosa tra di loro. Chiacchierano nel corridoio perché stanno in cuccette diverse, non sembrano intenzionati a rientrare.
Dopo La Spezia il treno rallenta, c’è un cimitero a bordo ferrovia, si vedono tutti i lumini uno di fianco all’altro, sembrano i puntini del gioco Unisci i puntini
. Mentre riprende velocità, vedo anche una macchina con i vetri appannati e due ragazzi dentro. Nel frame che mi regala il finestrino rubo ai birboni un movimento licenzioso.
Finita la Liguria, le luci si sparpagliano dietro il finestrino. A Carrara dei grandi fari bianchi illuminano i fianchi delle Alpi Apuane, là dove si estrae il famoso marmo di Carrara. A chiazze, si intravedono i corpi sventrati delle montagne, le loro interiora squadrate in blocchi di pregiato minerale. Che strano vedere questi posti di notte. Gioco a tracciare i profili delle montagne, mischiando immaginazione e ricordi. Probabilmente sono più grandi di come le sto disegnando. A Viareggio e Pisa sale una coppia di anziani, vanno a Siracusa, hanno sei trolley, c’è il figlio che li bacia. Intanto la confidenza tra i due giovani spasimanti aumenta, lui inizia a prenderla in giro con i soliti luoghi comuni sui milanesi: «Eh, voi al nord, sempre con ’sta nebbia… Adesso vedrai giù che sole». Lei spalanca un sorriso. Le quotazioni salgono, forse lui ce la farà tra Grosseto e Orbetello. A Pisa centrale scendono di nuovo a fumare, ma il capotreno inflessibile non concede loro più di tre tiri. E allora ecco il refugium peccatorum preferito da ogni fumatore del treno notte: l’intercapedine tra i vagoni.
L’intercapedine tra i vagoni è quel luogo mistico che è treno senza essere treno, sei dentro ma con due piedi fuori, ti sembra di poter fumare anche se no, non puoi fumare qua dentro. Ma forse si ha la speranza che quando il controllore passerà e ti coglierà in flagrante, chiuderà un occhio o addirittura ti lascerà finire la cicca. Poi ovviamente il controllore passa e ti sgrida minacciando la sanzione. Mesti, i giovani spengono la sigaretta sfregandola sulla porta. Il notturno è una gara per i fumatori. A ogni fermata l’esercito dei tabagisti si lancia sul marciapiede per sfruttare ogni possibile boccata. Il minuto di libertà. Dopo Livorno, però, la missione si fa dura. Il treno non fermerà fino a Salerno, hai voglia ad aspettare, fai prima a farti venire sonno, ma tanto è l’una passata.
Dopo l’anonima stazione di Pisa, quella di Livorno è una cattedrale illuminata a giorno. Sembra l’approdo di Alessandria d’Egitto a fine Ottocento, quando le navi dall’Europa portavano l’alta borghesia europea in Africa a fare affari con la costruzione del Canale di Suez. Merli e torrette stanno in piedi a fianco di un mazzo di palme e al regionale appena arrivato da Campiglia Marittima. «Ma vedi che la Calabria non è così bella d’inverno. La Sicilia è meglio, te lo posso assicurare». Il ragazzo spara il pallone in avanti, fa salire la squadra e lancia il contropiede. Sicuro di sé com’è, è possibile che proverà il tiro da fuori, da 35 metri, a girare.
Sfila la Tirrenica, ma nessuno se ne cura. Il controllore passa per l’ennesima volta, cambia la carta, porta l’acqua, passa dai due possibili spasimanti ad avvertire che dopo l’una non si può uscire dalle cuccette se non per andare in bagno. Il corridoio diventa un privilegio del mattino. «Dovete ritirarvi, mi dispiace». Quel mi dispiace
mi fa pensare che anche lui, a forza di passar loro davanti, abbia capito dove vogliono andare quei due.
È l’una passata, nell’1963 cala il silenzio. Il palcoscenico ora se lo prende lui, il treno, culla i suoi passeggeri di curva in curva, scandisce ritmicamente il tempo sulle giunture dei binari, tu-tun tu-tun, te-ten te-ten, tu-tun tu-tun, STENC, tu-tun tu-tun. Quando il convoglio taglia la Maremma è ormai notte fonda, si nota perché non si vedono lucine di sorta da un pezzo, fuori dai finestrini. Nelle stazioni le luci dei lampioni da puntini lontani nel buio diventano righe tracciate velocemente sul vetro. Di nuovo, l’orizzontalità del treno notte. Le ginocchia ora sono rilassate nella mia cuccetta, il tipo che dorme sopra di me continua a girarsi. Non prende sonno per colpa di quello che invece mi sta accanto e russa come una mietitrebbia.
Intanto siamo arrivati a Roma. Per l’1963 Roma non è capitale. Succede che la ferrovia, quando vuole, inverta gli spazi. O nord o sud, non c’è spazio per le mezze misure, e quindi a Roma non ferma. Chi vuoi che salga alle tre e mezza del mattino? Il notturno fa il giro dei colli e continua verso sud. Colonna Galleria, dice il cartello fuori dalla finestra. Ma che nome è? Il convoglio si infila nella valle del Sacco e prende la via interna, niente litorale. Frosinone, Anagni, il treno si fa cullare e continua la sua corsa in mezzo a montagne dai profili stondati. L’Appennino sta più indietro, verso l’Abruzzo. Cassino, Teano, Caserta, gli ulivi via via più frequenti annunciano la Campania. A Salerno i flussi si invertono: le persone che prima salivano soltanto ora iniziano a scendere, anche se è ancora buio pesto. Le fermate si fanno più vicine: Battipaglia, Agropoli, Vallo della Lucania – ma perché si chiama Vallo della Lucania se è in Campania? Fossimo in estate ci sarebbe già una bella luce calda, e si potrebbero vedere tutti gli Appennini meridionali. Il cielo è ormai azzurrino, non c’è una nuvola, qui viene chiaro prima che al nord. Appena dopo Torre una lama di luce gialla si staglia sulle cime selvagge e boscose del Cilento, le montagne a due passi dal mare. Una galleria rompe la poesia ma, appena finisce, la sorpresa: nebbia. A Centola, una galleria basta a dividere il sole campano dalla nebbia padana. Per attraversare tutta la valle il treno si lancia su un possente viadotto in cemento che corre fianco a fianco del suo antenato in mattoni, quello che prima del cemento aveva tracciato per primo la via per Sapri. Nel frattempo la nebbia bassa si dirada e gioca con la luce, sembrerebbe fatto apposta per evocare un po’ di poesia nell’immaginario del narratore. Ad Ascea altra sosta, e per la prima volta si vede il Tirreno, poi a Pisciotta-Palinuro