Opere di Cechov
Di Bruno Osimo, Čechov e Antón Čéchov
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Info su questa serie
Fermo restando che un testo del 1896 non può avere di solito lo stesso registro e lo stesso lessico di un testo del 2024, le frasi devono suonare verosimili in bocca a chi le pronuncia.
Questa è stata la nostra preoccupazione principale traducendo il capolavoro di Čechov.
L’altra dominante è stata il rigore filologico. Quando si traduce un gigante, non solo letterario ma anche filosofico e umano, bisogna mettere da parte – se necessario: con Čechov a noi è successo molto di rado – il proprio gusto personale e lasciar emergere quanto possibile la poetica dell’originale.
Il dramma è costruito intorno alla figura di un uomo tanto inutile quanto pieno di sé, Serebrâkóv, docente universitario che è riuscito a convincere tutti intorno a sé – sia in casa che nel mondo accademico – di valere, di avere delle idee, di avere studiato e di avere qualcosa da insegnare. Anche nella tenuta dove è ambientato il dramma, finora tutti hanno vissuto per lui, e durante il dramma si ha lo svelamento, lo smascheramento, a opera proprio di zio Vanâ. («Vanâ» è il vezzeggiativo di «Ivàn», nell’elenco dei personaggi è citato come Ivàn Petróvič Vojnìckij, e nel corso di tutto il dramma le battute del personaggio sono indicate come «Vojnìckij».)
A margine di questo motivo ci sono due amori impossibili. La donna più bella del dramma ha deciso di “suicidarsi” da viva o di punirsi sposando il trombone assai più vecchio Serebrâkóv, ma in realtà segretamente ama, ricambiata, il medico Àstrov, un alter ego di Čechov stesso, ma per motivi etici non vuole cedere al corteggiamento di lui. E la nipote di Vànâ, Sóf’â Aleksàndrovna detta Sónâ, è invece perdutamente innamorata di Àstrov, che non la considera, ma lei finge di non accorgersene e le va bene così, sceglie questa sua condizione di amante respinta come sua condizione permanente, stabile, come sua ragione di vita. La sua nevrosi – come quella di Eléna Andréevna – fa sì che la sua realizzazione come persona consista nel non riuscire a essere felice, nel non perseguire la felicità ma la sofferenza.
Quando la bolla di Serebrâkóv viene smontata da zio Vanâ, la percezione esterna generale è però che quello “spostato” sia Vanâ, non il professore narcisista. Il narcisismo, l’autoreferenzialità sono perdonati, e invece è duramente sanzionato il suo svelamento.
L’unica persona seria che esce quasi immune dalla vicenda è Àstrov, che si preoccupa del futuro (di noi oggi), e pianta boschi per le generazioni a venire, perché ha già capito quello che succederà con l’industrializzazione selvaggia. In un certo senso ha già capito la deforestazione e il buco dell’ozono. Ma non per questo è più felice, e tutti lo considerano un bislacco, e lui si dà all’alcol per obnubilare questa dura realtà.
In Čechov c’è sempre questo contrasto tra apparenze elevate e basso cabotaggio delle aspirazioni effettive. C’è sempre qualcuno che suona o canticchia motivetti stupidi, qualcuno che dice cose ovvie o proverbiali. Il proverbio, la frase fatta, è un artificio che Čechov usa per rivelare la póšlost’, la trivialità, la volgarità della cultura dominante. Perché Čechov non nasconde mai il mistero dell’esistenza né a sé stesso né a noi e, lungi dal farne motivo di superstizione religiosa, sa di non sapere e cerca di mettere a nudo la nevrosi dell’uomo
civilizzato, la psicopatologia della vita quotidiana.
Questa versione è stata realizzata dagli studenti del secondo (ultimo) corso 2023-2024 della laurea magistrale in traduzione presso la Scuola Superiore per Interpreti e Traduttori «Altiero Spinelli», sotto
Titoli di questa serie (19)
- L’isola di Sachalìn: (dalle note di viaggio)
1
Uno spartiacque divide da nord a sud l’isola di Sahalìn. Uno spartiacque simile divide la vita, quarantaquattro anni in tutto, di Čehov: ed è proprio il suo viaggio a Sahalìn. La pubblicazione dei racconti brevi su rivista – e poi in varie raccolte – del primo periodo, con l’analisi incessante del dottor Čehov tra le pieghe della società, che visita, come fosse un malato, guardando anche le parti più imbarazzanti, traendone diagnosi impietose e satiriche, determina due conseguenze: da un lato la famiglia Čehov, le cui entrate dipendono dai lavori (letterari) del dottor Antón Pàvlovič, esce dall’emergenza continua e può permettersi un tenore di vita meno frugale, con minori tensioni; d’altro canto il credito – morale prima ancora che economico – che Čehov ha presso Suvórin, editore del quotidiano Nóvoe vrémja con supplemento letterario settimanale, come testimonia ampiamente la corrispondenza, gli dà modo e tempo di fare progetti, di concepire uno scrivere che non sia quello del cottimista che va settimanalmente a riscuotere i cinque, poi i dieci copechi a riga per far fronte al conto dei negozianti, una vita agra alla Bianciardi, ma tempi meno stringati per la composizione delle sue opere, per un’attività artistica di più ampio respiro. Mentre il collega Freud a Vienna s’immerge in un nuovo concetto – quello di «inconscio» – rinvenendovi, sotto innumerevoli sottovesti immacolate e insospettabili panciotti con catenino d’oro e cipollotto lucido, oggetti psichici e vicende emotive non facilmente raccontabili (all’analista), ma il cui affioramento sotto forma di parole serve in taluni casi a sbloccare meccanismi nevrotici e perfino paralisi, Čehov a Mosca mette in parole quello che potremmo oggi definire una sorta di inconscio sociale, volgendolo in umorismo liberatorio. Per i primi quaranta-cinquant’anni, a detta del principe Mirskij, il Čehov più popolare in Russia è questo, il primo, l’umorista sociale. E l’equilibrio creativo Čehoviano può mantenersi soltanto fino a quando il dottore non si accorge che in un luogo remoto c’è una quantità di materiale rimosso dalla società russa e depositato lontano dalla Russia, quella europea: tre mesi via terra e via fiume, due mesi via mare sono i tempi impiegati dallo scrittore, rispettivamente, per raggiungere l’isola di Sahalìn e per farne ritorno.
- Dama con cagnolino: versione filologica a cura di Bruno Osimo
3
«Un ozio perfetto, questi baci in mezzo al bianco del giorno, con circospezione e paura d’essere visti, il caldo, l’odore del mare e il continuo balenare davanti agli occhi di persone oziose, eleganti, sazie lo avevano come rigenerato». In certi passi la voracità e la golosità – l'oralità – vengono apertamente contrapposte ai sentimenti, come qui, dove al dramma dell'amore impossibile si sovrappone il dramma della sua incomunicabilità, perché Gurov si ritrova circondato da persone che vivono l'intera loro vita ruotando intorno al cibo: «E ormai era afflitto dal forte desiderio di condividere con qualcuno i suoi ricordi. Ma a casa non poteva parlare del suo amore, e fuori casa non c’era nessuno. Non con i vicini e nemmeno in banca. E di che cosa parlare? Quindi la amava veramente? [...] "Se lei potesse sapere quanto era affascinante la donna che ho conosciuto a Âlta!". Il funzionario salì sulla slitta e partì, ma improvvisamente si voltò e chiamò: "Dmitrij Dmitrič!" "Che cosa?" "Aveva ragione prima: lo storione aveva un odorino così così!" [...] Che costumi selvaggi, che gente! Che serate senza senso, che giornate poco interessanti, insignificanti! La smania del giocare a carte, la golosità, l’ubriachezza, le conversazioni continue tutte sulla stessa cosa». Čehov ritorna sempre sulla questione dell'incontinenza dell'uomo, si tratti di sesso, di cibo, di alcol, di gioco. Questo "paradiso artificiale" nel quale vive l'homo cehovianus è però a ben vedere – a patto di riuscire a estraniarsi dallo stato di ottundimento mentale che questo ambiente genera – una gabbia, con tanto di recinto. «[...] una sorta di vita monca, senza ali, una sciocchezza, e andarsene e fuggire non si può, come se fossi rinchiuso in manicomio o in arresto». Ecco qui che entra in gioco la metafora del recinto, che racchiude in sé tutte le altre di cui abbiamo appena parlato. Čehov descrive in dettaglio il recinto della casa di Anna Sergéevna, con i chiodi, grigio: «Proprio di fronte alla casa si estendeva il recinto, grigio, lungo, con i chiodi. "Da un recinto così ti viene da scappare" pensava Gurov guardando ora le finestre ora il recinto. [...] continuava a camminare per la via e intorno al recinto e ad aspettare questo caso. [...] Camminava e detestava sempre di più il recinto grigio e già pensava irritato che Anna Sergéevna lo avesse dimenticato e che, magari, si stava già distraendo con un altro, ed è così naturale nella situazione di una giovane donna costretta dal mattino alla sera a vedere questo maledetto recinto». Ci sono animali con le ali che servono a volare via, e animali che riescono a volare come vola il tacchino, come si vede anche nel finale: «a loro sembrava che la sorte stessa avesse predestinato uno per l’altra, ed era incomprensibile perché si era sposato lui, e perché lo aveva fatto lei; e sembravano due uccelli migratori, un maschio e una femmina, catturati e costretti a vivere in gabbie separate».
- Kaštanka: racconto: versione filologica
7
Una cagna giovane rossiccia – incrocio tra un bassotto e un bastardino – dal muso molto simile a una volpe perde il padrone e viene trovata da un'altra persona che, come poi risulta, fa il clown. Nel suo nuovo ambiente adottivo conosce vari altri animali, tutti dotati di nome e patronimico, che svolgono numeri diversi nello spettacolo del padrone-protettore.
- Casa con mezzanino: (racconto di un pittore)
5
Fu sei-sette anni fa, vivevo in un distretto del governatorato di T., nella tenuta del possidente Belokùrov, un giovane che si alzava molto presto, portava la poddëvka, la sera beveva birra e continuava a lamentarsi con me di non riuscire a trovare comprensione da nessuna parte in nessuno. Lui viveva nella dépendance in giardino, e io nella vecchia casa padronale, nell'enorme sala con colonne, che non aveva mobili a eccezione del divano largo su cui dormivo e del tavolo su cui facevo i solitari. Qui sempre, anche col bel tempo, c'era qualcosa che fischiava nelle vecchie stufe Amosov, e durante i temporali tutta la casa tremava e, sembrava, cadeva a pezzi, e faceva un po' paura, soprattutto di notte, quando tutte e dieci le grandi finestre venivano all'improvviso illuminate da un lampo. Condannato dalla sorte al continuo ozio, non facevo decisamente nulla. Per ore intere guardavo dalle mie finestre il cielo, gli uccelli, i vialetti, leggevo tutto quello che mi portavano dalla posta, dormivo. A volte uscivo di casa e fino a tarda sera passeggiavo senza meta. Una volta, mentre tornavo a casa, senza volere mi ritrovai in un podere che non conoscevo. Il sole si stava già nascondendo, e sulla segale in fiore si distendevano le ombre della sera. Due file di abeti vecchi, piantati uno vicino all’altro, molto alti, si ergevano come due muri continui, formando un vialetto scuro, bello. Varcai con facilità la siepe e m'incamminai per questo vialetto, scivolando sugli aghi d'abete che coprivano il terreno per qualche centimetro. Era silenzioso, buio, e solo in alto sulle cime degli alberi tremolava qua e là una luce chiara dorata che si rifletteva sulle ragnatele formando un arcobaleno. Forte, fin soffocante era l'odore degli aghi. Poi svoltai in un lungo vialetto di tigli.Anche qui desolazione e vecchiaia; il fogliame dell’anno passato frusciava con tristezza sotto i piedi e al crepuscolo le ombre si nascondevano tra gli alberi. A destra, nel vecchio frutteto, di malavoglia, con voce flebile cantava un rigogolo, anche lui vecchio, probabilmente. Ma ecco che finirono anche i tigli; passai accanto a una casa bianca con un terrazzo e un mezzanino, e davanti a me d'un tratto si rivelò una vista sul cortile padronale e su un ampio laghetto con una kupal'nâ, con una distesa di salici verdi, con un paesino sull’altra riva, con un campanile alto e stretto, sul quale ardeva una croce, riflettendo il sole che tramontava. Per un momento mi avvolse l'incanto di qualcosa di caro, di molto familiare, come se avessi già visto questo stesso panorama da bambino.
- Principessa: racconto: versione filologica a cura di Bruno Osimo
4
Questa traduzione è stata realizzata con le allieve del corso di traduzione artistica russo-italiano presso la Civica Scuola Interpreti Traduttori di Milano nell'anno accademico 2013-2014. Ecco un brano tratto dalla postfazione (contiene spoiler): «Il dizionario di psicoanalisi ci dà questa definizione tecnica del Falso Sé che, in termini artistici, Čehov ci dà nel racconto. Non a caso il protagonista è un medico, ed è lui a tracciare a grandi linee la case history. La protagonista, come è tipico di questo profilo patologico, deve continuamente tacitare la propria coscienza. In questo è rivelatoria la metafora dell'uccellino: «E sentendo che ognuno d’istinto lo pensava, sorrideva ancora più affabile e tentava di somigliare all’uccellino». La self-consciousness che non manca alle persone affette da questa sindrome si manifesta esplicitamente anche in questo altro passo: «Nel tentativo di sembrare un uccellino, la principessa svolazzò nell’equipaggio annuendo da tutte le parti». Nei pazienti affetti da falso Sé, ci si crea un'immagine a cui si aspira a identificarsi, e si riesce a vivere come normale la continua alternanza tra la rotaia della realtà e la rotaia della forzata coincidenza con l'uccellino o altre metafore: la personalità diventa un binario. Un'altra dicotomia del binario è quella tra sazietà e fame, tra avidità e miseria. Mentre la servitù fa la fame, la principessa mangia a scrocco in monastero tutte le sue prelibatezze preferite, costringendo i monaci ad acquistare e a preparare cibi tutt'altri che monastici. Sull'altro versante, i cuochi costretti a lavorare in condizioni disumane diventano ciechi e vanno a chiedere la carità. A coronare queste dicotomie c'è quella tra fortuna e sfortuna, che costella l'intero racconto ed è emblematica del falso Sé: il falso Sé è sfortunato: «Mi fa paura guardarmi indietro: quanti cambiamenti, sfortune varie, quanti errori». Ma il vero Sé (nel dialogo autocomunicativo) è fortunato, come nella frase conclusiva: «Come sono fortunata!» Tutta intenta in questo dialogo interno tra falso Sé e vero Sé, un dialogo vero e proprio che in certi passi si esplicita con vere battute di discorso diretto: «Cos'altro potrei dirgli?» pensò la principessa. la principessa è totalmente incapace di empatia, cosa che le permette di vivere benissimo sotto la copertura del destino sfortunato. Nel suo narcisismo ottuso si preoccupa unicamente che le sue penne siano lucide e colorate, facendo a gara con l'uccellino».
- La sposa: racconto: versione filologica a cura di Bruno Osimo
8
Ultimo racconto di Anton Čechov del 1904. Nadja è fidanzata col figlio di un sacerdote, amico di famiglia in questa cittadina di provincia. A casa di Nadja, oltre alla mamma e alla nonna e alla servitù, c'è in questi giorni anche Saša, una sorta di figlio adottivo, un ragazzo povero e orfano educato in questa famiglia. Saša vive ormai in città per conto proprio, ma ora è qui per le vacanze, e per il matrimonio di Nadja. Tra rumori di grondaie, insonnie, incubi, quadri di donne nude, acqua corrente nelle case più tecnologiche dell'epoca, sensi del dovere, sensi di colpa, senso della volgarità delle cose andanti e voglia di vivere, si dipana un vero capolavoro della produzione di Čechov.
- Racconto della signora X: versione filologica
9
Nove o dieci anni fa, durante la fienagione, accadde che una volta poco prima di sera, io e Pëtr Sergeič, che ricopriva la carica di giudice istruttore, andammo a cavallo alla stazione per la posta. Il tempo era meraviglioso, ma sulla via del ritorno si sentirono rombi di tuono e vedemmo una nuvola nera alquanto stizzita puntare dritto verso di noi. La nuvola si avvicinava a noi e noi a lei. Sul suo sfondo biancheggiavano la nostra casa e la chiesa, gli alti pioppi si facevano d’argento. Nell’aria c’era odore di pioggia e di fieno falciato. Il mio cavaliere era particolarmente di buon umore. Rideva e diceva un’enormità di sciocchezze. Diceva che sarebbe stato interessante incontrare sul nostro cammino un castello medievale con le torri merlate, con il muschio, con le civette, dove avremmo potuto trovare riparo dalla pioggia per poi essere uccisi da un fulmine… Ma ecco che la prima onda scosse la segale e il campo d’avena, s’alzò il vento d’un colpo e nell’aria cominciò a vorticare la polvere. Pëtr Sergeič scoppiò a ridere e spronò il cavallo. «Bene!» gridò, «molto bene!»...
- L'arciereo: racconto: Versione filologica a cura di Bruno Osimo
11
Nella nostra scuola dell'obbligo, dovendo dare ai ragazzi rudimenti di testo, di lettura, di scrittura, ricorriamo a categorie rozze, dividendo i testi nei cosiddetti "generi" o, peggio ancora, "generi letterari", perché riteniamo che solo banalizzando la realtà sia possibile tramandarla alle generazioni future. Ma per chi conosce bene un autore, per chi conosce bene un singolo testo, generi e correnti possono badare a sé stessi e restare completamente fuori dal discorso. Cerchiamo di parlarci seriamente, io e te, lettore, lettrice, di cose che sappiamo perché siamo lettori, perché siamo lettori attenti, sensibili. Ogni racconto di Antòn Pàvlovič è poesia, è poesia in prosa. Qui contano le sillabe, contano le ripetizioni, le anafore. Il racconto čehoviano è un meccanismo delicatissimo che il traduttore accorto affronta con cautela, pronto a ricreare – ove possibile – quell'intelaiatura di rimandi intratestuali, allusioni, sensibilità reciproche tra parti del testo, pronto insomma a toccare meno possibile, lasciando al lettore l'oneroso – e godurioso – còmpito di decodificare, di capire, se necessario di vedere spiegato in nota.
- Ragazzi: racconto: versione filologica
6
«È arrivato Volódâ!» gridò qualcuno fuori. «È arrivato il padroncino Volódâ!» strillò Natàl’â, correndo in sala da pranzo. «Ah, Dio mio!». Tutta la famiglia Korolëv, che aspettava l’arrivo del suo Volódâ da un momento all’altro, si precipitò alle finestre. All’ingresso c’era un grande rozval’ni1 e un vapore denso saliva dalla trojka di cavalli bianchi. La slitta era vuota, perché Volódâ era già nell’ingresso e si stava slacciando il cappuccio con le dita arrossate, congelate. Il cappotto dell’uniforme del ginnasio, il berretto, le galosce e i capelli sulle tempie erano coperti di brina ed emanava dalla testa ai piedi un odore di gelo così buono che, guardandolo, veniva voglia di rabbrividire e dire: «Brrr!». La madre e la zia si precipitarono ad abbracciarlo e baciarlo, Natàl’â gli si accasciò ai piedi e cominciò a sfilargli i vàlenki2, le sorelle si misero a strillare, le porte cigolavano, sbattevano, e il padre di Volódâ, col solo gilè addosso e le forbici in mano, si precipitò nell’anticamera e gridò spaventato: «È da ieri che ti stiamo aspettando! Hai fatto buon viaggio? Tutto bene? Signore, mio Dio, lasciate che saluti suo padre! Cos’è, non sono suo padre?» «Gav! gav!» abbaiò in tono di basso Milord, un enorme cane nero, sbattendo la coda contro le pareti e i mobili. Tutto si confondeva in una manifestazione di gioia collettiva, che durò un paio di minuti. Quando il primo impeto di gioia fu passato, i Korolëv s’accorsero che nell’atrio, oltre a Volódâ, c’era anche un altro ometto, avvolto in un foulard, in uno scialle e in un cappuccio e coperto di brina; se ne stava immobile in un angolo, all’ombra di una grande pelliccia di volpe. «Volodička, e lui chi è?» chiese la madre bisbigliando....
- Ionyč: versione filologica
12
In questo racconto di Čehov si condensano alcuni dei motivi della sua poetica che troviamo in tutte le opere, sia di narrativa sia teatrali, del periodo maturo. Il tema più evidente è quello della sazietà, nemica della ragione, e della capacità di migliorarsi e di progredire.
- Il duello: Novella
13
In questa novella-capolavoro del 1891, Čechov si concentra in modo particolare su un tema che tra le righe aveva già caratterizzato alcune altre opere: quello della (scarsa) differenza tra animale non umano e animale umano. Per farlo, ha scelto come protagonista lo zoologo Von Koren, che può essere considerato un Antón Pàvlovič Čechov estremamente darwiniano. L’urgenza del raffronto emerge da frasi come questa, in cui si accostano “versi” degli uni e degli altri: Laévskij indossò cappotto e berretto, mise in tasca le sigarette e si fermò perplesso; gli sembrava di dover fare qualcos’altro. Nella via conversavano piano i padrini e stronfiavano i cavalli, e questi suoni nel primo mattino umido, quando tutti dormono e il cielo riluce appena, riempirono l’animo di Laévskij di una disperazione simile a un brutto presentimento.
- Tre anni: Versione filologica del racconto lungo
14
Come spesso succede in Čechov, questa deliziosa, preziosa novella esprime di continuo una visione sull’uomo dall’esterno, dal punto di vista delle altre specie. Qui, in particolare, compaiono molti uccelli, in varie forme. Questo gioiello letterario è stato spesso pubblicato in raccolte di racconti, intitolate per esempio "Titolo... e altri racconti". È proprio un torto, una violenza assemblare per motivi commerciali opere tanto diverse e tanto preziose, tanto discrete. "Kak vsë èto póšlo", forse direbbe Antón Pàvlovič se fosse qui a vederlo – "Come tutto questo è volgare".
- Alle feste di Natale: Versione filologica del racconto
17
Questo breve racconto del 1899 si svolge tutto nell'arco di poche ore. Nella prima parte una vecchia baba che non sa più nulla della figlia da quattro anni, da quando s'è sposata ed è andata a stare in città col marito, cerca di dettare una lettera a chi è meno analfabeta di lei, un soldato a casa per le feste che intercorrono tra Natale e il 6 gennaio. Nella seconda parte la figlia riceve la lettera. Il mondo è in mano ai maschi. Le donne soccombono sempre e comunque.
- Per affari di servizio: Versione filologica del racconto
16
Versione filologica del racconto del 1899, pubblicato dapprima su rivista e poi nella raccolta delle opere di Čechov. Chiamati in provincia per un'autopsia e un'indagine a seguito del suicidio di un assicuratore, un medico e un investigatore si ritrovano in una tormenta di neve. La forza della natura modifica i loro piani più volte, e la riflessione cade sull'esistenza di due categorie di persone: quelle che si sobbarcano a tutti i pesi della vita, e quelle abituate a perseguire il piacere, viziate e sazie.
- Nel baratro: Versione filologica
15
Questo, tra gli ultimi racconti di Čechov, è considerato il più significativo tra le centinaia di opere di questio genere testuale prodotte da Anton Pavlovič. Nabokov gli ha dedicato un lungo saggio nelle sue celebri lezioni di letteratura russa. Il baratro metaforico del titolo è un baratro morale prima ancora che geografico. Al suo interno, nel paese immaginario di Ukléevo, si consumano nefandezze di vario genere, senza che questo scalfisca la coscienza dei commercianti protagonisti della storia. Profondamente poetico, anche qui come spesso nel Čechov maturo la natura, gli uccelli, il sole, le stagioni, i versi delle rane hanno un valore simbolico sottile.
- I mužikì: versione filologica del racconto
18
Questo racconto di Čechov del 1897 è ambientato tra i mužikì, parola russa che viene dalla stessa radice di muž, uomo, ma significa uomo contadino, contrapposto a bàrin, uomo ricco, signore, persona che non deve "sporcarsi" le mani col lavoro fisico. Il villaggio di contadini è misero, e il raffronto che viene fatto è con il successo professionale di chi, andando in città, ha potuto esercitare la professione di cameriere, molto più redditizia. Il fatto che il cameriere serva i signori di città, portando pietanze che nella sua vita non potrà mai nemmeno asaggiare, non è percepito in termini di opposizione di classe, ma con piacere. Il cameriere sente l'onore di vivere in un ambiente lussuoso, anche se non dedicato a lui. Il villaggio invece è piagato da povertà, alcolismo, tasse arretrate, violenza domestica.
- La dacia nuova: versione filologica del racconto
19
Nella cultura russa di fine Ottocento non esiste una parola precisa per significare «uomo», «donna». La società è talmente ancora scissa nelle due classi che esistevano ai tempi della servitù della gleba, che per «uomo» abbiamo due parole, bàrin e muz̆ìk, e per «donna» bàrynâ e baba. In questo racconto si mettono in risalto i problemi di traducibilità culturale esistenti tra queste due classi, che solo apparentemente parlano la stessa lingua. Non a caso il ricco a un certo punto si rivolge ai poveri dicendo: «Noi vi trattiamo come persone», fatto nuovo e insolito, che è quello che genera tutta l’incomprensione.
- Il gabbiano: versione filologica per il teatro
20
Quando si traduce si fanno necessariamente delle scelte, perché non si può tradurre tutto in modo ottimale. Nel caso specifico, quando il testo della traduzione è destinato alla recitazione, tutte le battute devono avere come dominante la recitabilità, la pronunciabilità, la plausibilità della frase. Sono considerazioni che fa in primo luogo l’autore, e che il traduttore deve fare proprie. Fermo restando che un testo del 1896 non ha di solito lo stesso registro e lo stesso lessico di un testo del 2022, le frasi devono suonare verosimili in bocca a chi le pronuncia. Questa è stata la nostra preoccupazione principale traducendo il capolavoro di Čechov. L’altra dominante è stata il rigore filologico. Quando si traduce un gigante, non solo letterario ma anche filosofico e umano, bisogna mettere da parte – se necessario: con Čechov a noi è successo molto di rado – il proprio gusto personale e lasciar emergere quanto possibile la poetica dell’originale. La tragedia (non si capisce perché l’autore la definisca «commedia») ruota intorno alla figura di una donna affetta da disturbo istrionico della personalità, Arkàdina. Come è tipico delle persone così, è molto egoriferita e le importa assai poco di chi le sta intorno. Figlio, amante, fattore, servitù, amici di famiglia vanno bene purché la adorino come fa il suo pubblico (è attrice) e non infrangano il suo delirio di autoadorazione. Ne fa le spese in primo luogo il figlio, Treplëv, che pur di apparire interessante agli occhi della madre scende nel terreno di lei – il teatro – e scrive un dramma che mette in scena nel giardino di casa, ma non riesce a sopportare la reazione maleducata e irrispettosa della madre stessa durante la rappresentazione e interrompe la rappresentazione. Si noti che il figlio decide di farsi drammaturgo per motivi esclusivamente edipici, perché capisce che sarebbe l’unico modo per attirare l’attenzione della madre. E questo corteggiamento infausto continua per tutta la durata dell’opera. L’inutilità della vita e l’insensatezza e la stupidità della morte sembrano simboleggiate dal gabbiano che Treplëv uccide senza motivo e depone ai piedi della sua amata Nina, l’attrice che gli fa da complice e collaboratrice nella recitazione del dramma iniziale. Ma nemmeno Nina riesce a capire cosa significa il cadavere del gabbiano steso ai suoi piedi, si sente imbarazzata per non capirlo e nel contempo le sembra che questo giovane viziato si prenda un po’ troppe libertà sottoponendola quasi a un test in cui le chiede di capire il senso simbolico del gabbiano morto. Nina andrà avanti fino alla fine a dire come un disco rotto «Io sono un gabbiano», senza rendersi conto che in realtà il gabbiano è Treplëv, perché è bello ma improduttivo, simbolico ma inconsistente, leggiadro ma infelice. E, in fondo, della sua morte non importa nulla a nessuno. Il pubblico di Čechov soffre per come Arkàdina riesca a godersi la vita a dispetto di tutti i drammi – in parte causati da lei – che le strisciano attorno, soffre per come Nina si rovini la vita innamorandosi dello scrittore vecchio e famoso che la “usa” e la “getta”, rifiutando caparbiamente l’amore sincero e innocuamente morboso dell’aspirante drammaturgo che ha più o meno la sua età. Un altro motivo esistenziale ed etico che pervade la tragedia è quello della fortuna letteraria. Trigórin è uno scrittore di successo. Scrivere gli riesce facile. Ma in fondo è la versione maschile della sua amante Arkàdina.
- Zio Vanja: versione filologica per il teatro
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Quando si traduce si fanno necessariamente delle scelte, perché non si può tradurre tutto in modo ottimale. Nel caso specifico, quando il testo della traduzione è destinato alla recitazione, tutte le battute devono avere come dominante la recitabilità, la pronunciabilità, la plausibilità della frase. Sono considerazioni che fa in primo luogo l’autore, e che il traduttore deve fare proprie. Fermo restando che un testo del 1896 non può avere di solito lo stesso registro e lo stesso lessico di un testo del 2024, le frasi devono suonare verosimili in bocca a chi le pronuncia. Questa è stata la nostra preoccupazione principale traducendo il capolavoro di Čechov. L’altra dominante è stata il rigore filologico. Quando si traduce un gigante, non solo letterario ma anche filosofico e umano, bisogna mettere da parte – se necessario: con Čechov a noi è successo molto di rado – il proprio gusto personale e lasciar emergere quanto possibile la poetica dell’originale. Il dramma è costruito intorno alla figura di un uomo tanto inutile quanto pieno di sé, Serebrâkóv, docente universitario che è riuscito a convincere tutti intorno a sé – sia in casa che nel mondo accademico – di valere, di avere delle idee, di avere studiato e di avere qualcosa da insegnare. Anche nella tenuta dove è ambientato il dramma, finora tutti hanno vissuto per lui, e durante il dramma si ha lo svelamento, lo smascheramento, a opera proprio di zio Vanâ. («Vanâ» è il vezzeggiativo di «Ivàn», nell’elenco dei personaggi è citato come Ivàn Petróvič Vojnìckij, e nel corso di tutto il dramma le battute del personaggio sono indicate come «Vojnìckij».) A margine di questo motivo ci sono due amori impossibili. La donna più bella del dramma ha deciso di “suicidarsi” da viva o di punirsi sposando il trombone assai più vecchio Serebrâkóv, ma in realtà segretamente ama, ricambiata, il medico Àstrov, un alter ego di Čechov stesso, ma per motivi etici non vuole cedere al corteggiamento di lui. E la nipote di Vànâ, Sóf’â Aleksàndrovna detta Sónâ, è invece perdutamente innamorata di Àstrov, che non la considera, ma lei finge di non accorgersene e le va bene così, sceglie questa sua condizione di amante respinta come sua condizione permanente, stabile, come sua ragione di vita. La sua nevrosi – come quella di Eléna Andréevna – fa sì che la sua realizzazione come persona consista nel non riuscire a essere felice, nel non perseguire la felicità ma la sofferenza. Quando la bolla di Serebrâkóv viene smontata da zio Vanâ, la percezione esterna generale è però che quello “spostato” sia Vanâ, non il professore narcisista. Il narcisismo, l’autoreferenzialità sono perdonati, e invece è duramente sanzionato il suo svelamento. L’unica persona seria che esce quasi immune dalla vicenda è Àstrov, che si preoccupa del futuro (di noi oggi), e pianta boschi per le generazioni a venire, perché ha già capito quello che succederà con l’industrializzazione selvaggia. In un certo senso ha già capito la deforestazione e il buco dell’ozono. Ma non per questo è più felice, e tutti lo considerano un bislacco, e lui si dà all’alcol per obnubilare questa dura realtà. In Čechov c’è sempre questo contrasto tra apparenze elevate e basso cabotaggio delle aspirazioni effettive. C’è sempre qualcuno che suona o canticchia motivetti stupidi, qualcuno che dice cose ovvie o proverbiali. Il proverbio, la frase fatta, è un artificio che Čechov usa per rivelare la póšlost’, la trivialità, la volgarità della cultura dominante. Perché Čechov non nasconde mai il mistero dell’esistenza né a sé stesso né a noi e, lungi dal farne motivo di superstizione religiosa, sa di non sapere e cerca di mettere a nudo la nevrosi dell’uomo civilizzato, la psicopatologia della vita quotidiana. Questa versione è stata realizzata dagli studenti del secondo (ultimo) corso 2023-2024 della laurea magistrale in traduzione presso la Scuola Superiore per Interpreti e Traduttori «Altiero Spinelli», sotto
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