ARLECCHINO Di Donato Sartori
ARLECCHINO Di Donato Sartori
ARLECCHINO Di Donato Sartori
Amleto Sartori (1915-1962), mio padre, scultore ritenuto non a torto il novello reinventore
della maschera dei tempi moderni, visse tra le due guerre, antifascista la cui compagna
Miranda Ancona era di origine ebraico-ortodossa, subì le conseguenze razziali e
appartenne ai movimenti di liberazione. Subito dopo la seconda guerra, durante il
momento di recupero socio-culturale post-bellico venne chiamato dal teatro
dell’università di Padova diretto dal regista Gianfranco De Bosio, per studiare e realizzare
il recupero della maschera nel teatro scomparsa da oltre due secoli. Qui avvenne una serie
straordinaria di coincidenze storiche: la prima è che quasi contemporaneamente alla fine
dell’incubo bellico si riprese lentamente la normale attività culturale in tutta Europa. Ci
si indirizzò quindi alla ricerca delle proprie radici storico culturali. Fu un incentivo per
studiosi, artisti, uomini di teatro per indagare sulle tipologie dei personaggi della
Commedia dell’Arte, forse la maggior forma teatrale che avvinse non solo l’Europa dal
Rinascimento a Goldoni; la seconda (coincidenza) fu quella che toccò proprio a lui,
Amleto, scultore di straordinarie capacità artistiche, perfetto conoscitore dell’anatomia
umana, ritrattista di fama d’indagare sulle maschere di teatro. La maschera in Sartori era
insita nel DNA artistico sin dall’età puerile (entra infatti all’età di nove anni in qualità di
garzone presso una bottega di intagliatore in legno). Successivamente, mentre svolgeva i
normali impegni scolastici di giorno, produrrà nelle ore notturne una straordinaria
quantità di opere, ritratti, disegni e incisioni ma soprattutto sculture in legno che
sarebbero servite da arredo per la casa di un noto antiquario padovano; la cosa durò
ancora per 15 anni. Queste sculture rappresentavano esseri fantastici, figure grottesche,
insomma maschere; quelle maschere che lo accompagneranno sino alla prematura
scomparsa nel 1962. Fino ad allora molte realtà culturali e soprattutto uomini di rilievo si
accorsero del valore della scoperta di Sartori; dapprima il regista Giorgio Strehler,
fondatore, assieme a Paolo Grassi del Piccolo Teatro di Milano, che sperimentò le prime
maschere in cuoio di Amleto sin dalle prime edizioni di Arlecchino servitore di due padroni
di Carlo Goldoni, spettacolo storico con l’allora interpretazione straordinaria di Marcello
Moretti, oggi, presente ancora in prestigiose tournée intorno al mondo con
l’interpretazione degli eredi Ferruccio Soleri ed Enrico Bonavera, le cui maschere furono
realizzate da me in qualità di continuatore dell’opera paterna. Da J. L. Barrault a Parigi
a Eduardo De Filippo a Napoli, dai teatri stabili italiani ai più prestigiosi teatri
internazionali, non solo d’Europa, vollero avvicinarsi alle opere dei Sartori, padre e figlio,
nei più disparati spettacoli di teatro. Uno dei più straordinari interpreti moderni fu Dario
Fo che soggiogato dalla malia delle maschere decise anch’egli di indossare quella di
Arlecchino in un memorabile spettacolo condotto con Franca Rame per il pubblico
veneziano nel 1985: Hellequin, Arlekin, Harlekin, Arlecchino. Amleto muore giovane ma
trasmette a me un gravoso testimone che, come figlio-allievo, decido di cogliere.
2. Il ’68 a Parigi
I moti europei del ’68 mi colsero a Parigi ove frequentavo la scuola di teatro di Jacques
Lecoq. I movimenti culturali e politici di quel momento storico maturarono in me la
decisione di indagare, tra le arti visive ed il teatro di ricerca, l’idea di unificare i vari
ambiti artistici e creativi sotto un unico cappello: la pluridisciplinarietà della maschera.
Le ricerche iniziate, oltre trent’anni fa, sull’origine delle figure nel Teatro all’improvviso
e l’incontro con le feste popolari in America Latina e con feste e riti cristiani importati
dalle comunità ecclesiastiche al seguito dei conquistatori delle Americhe, tutt’oggi ancora
viventi in alcune remote regioni, mi convinsero ad addentrarmi sempre più in questa area
culturale poco indagata e ancor meno conosciuta: la maschera medioevale utilizzata nei
riti ecclesiastici ai primordi del secondo millennio. Fu nel 1981, nel corso di un convegno
organizzato a Montecatini Terme dall’Università di Semiotica di Urbino, ove venni
chiamato ad esporre una nostra collezione di maschere (composta da una grande quantità
di nostre opere artistiche e teatrali ma anche da una rilevante presenza di maschere
etniche provenienti da tutto il mondo) che conobbi, tra gli altri relatori, Jean-Claude
Schmitt che mi avvinse con la sua straordinaria relazione, facendomi scoprire il varco tra
il mondo ctonio e la dimensione dei viventi percorso da una infinità di straordinarie figure
psicopompe. Proseguii per anni in questa direzione spostandomi spesso in diverse località
e Paesi del mondo ove, tra arte, storia e cultura raccolsi, faticosamente, un tassello dopo
l’altro, le tessere di questo gigantesco mosaico che, poco a poco, mi apparve in tutta la
sua complessità. Nei primi anni novanta tra i boschi di conifere e betulle nel profondo
nord della Svezia, nell’Helsingland, al gelido confine con la Lapponia, scoprii l’esistenza
ancora viva di fate, figlie delle più antiche Erodiade, Morgana, Satia, Abbundia, Perchta
e Holda, gli spiriti folletti (Trolls), della maga delle acque Vittra, stretta parente
dell’Anguana alpina e dello spirito dei boschi per eccellenza la Skugs-Rå, fata-strega dalle
sembianze femminili dai seni ed i capelli lunghi, che correndo a mezz’aria (gettando le
tette all’indietro) scompare allo sguardo del cacciatore furioso (Odino-Hellequin) aprendo
un foro che si dilata sulla schiena. Fu proprio qui che ebbe inizio il mio lungo viaggio nel
mondo inferico di Hellequin, Herleking, Herlaquin e della tanto temuta familia Herlechini.
Infatti il Folkteatern, storico teatro svedese diretto da Peter Oskarson mi chiese di
trasferirmi in un minuscolo paesino della regione dell’Helsingland in cui era stata
convocata una straordinaria comunità culturale proveniente da tutto il mondo in occasione
di un progetto europeo dal nome altisonante: World Theater Project. Conobbi qui una
delle più prestigiose compagnie teatrali cinesi dell’Opera di Pechino, il gruppo di danza
di guerra del Mozambico, gli attori e danzatori del teatro Kuttyattam (una ramificazione
antica del più conosciuto Katakali indiano, danza sacra della regione del Kerala) oltre a
vari docenti, studiosi e storici che provenivano dalle Università del nord Europa. Il gruppo
svedese presiedeva le operazioni di ricerca ed io ebbi a disposizione l’atelier dei miei
sogni ove sarebbero nate tutte le figure fantastiche che popolavano il mondo ctonio del
lungo periodo medioevale. Maskverkstaden era il nome del laboratorio di scultura ove
ebbi, per anni, la fortuna di creare, assieme ai miei allievi e assistenti, i personaggi-
maschera che divennero le figure teatrali sperimentate da questo straordinario teatro del
mondo, come l’aveva etichettato il regista Peter Oskarson, l’artefice svedese di questo
miracolo culturale. Qui, in vari anni di indagini, venni a conoscenza di testi antichi stilati
da ecclesiasti come Orderico Vitale, Walter Mapp e molti altri amanuensi del tempo che
cristallizzarono con scritti e miniature le tradizioni orali, le credenze, le superstizioni e
paure del medioevo cercate e tradotte dal Meisen degli anni trenta e da Otto Driesen ai
primi del secolo scorso che ci tramandarono l’epopea millenaria della masnada selvaggia
e della Odinsjagten condotta dal gigante diabolico Hellequin, oppure i racconti e romanzi
coevi, ove vengono citati personaggi e le figure che animavano i turbolenti Charivari.
Nacquero così le maschere che mi permisero di sperimentare, tra gli altri materiali, il
cuoio conciato secondo le antiche tecniche vichinghe, tratto dagli animali nordici: l’alce
e la renna, ma anche la lince, le rane e i pesci. Hellequin dunque ma anche Hennequin,
Herlechinus, Herlequin, nomi che fanno ricorrere alla più emblematica delle figure della
Commedia dell’Arte: Arlecchino.
Se l’arcano ora è svelato per quanto riguarda l’imprimatur, resta da capire come e perché
la scelta del nome che diventerà la più prestigiosa maschera della Commedia dell’Arte,
riconosciuta nel mondo intero, cada proprio su Arlecchino. Tutto il basso medioevo fu
tormentato dalle più drammatiche incursioni della chiesa nella società civile e nella
politica. Le punizioni più dolorose colpiscono le donne (streghe) e lo spettacolo, qualsiasi
esso sia e, naturalmente, le maschere. La nascita del purgatorio[2] destinerà le figure del
medioevo morente ad essere relegate in questa terza dimensione ma, tracce, memorie e
credenze dure a morire rimasero aleggianti in tutto il nord dell’Europa. Chiunque si fosse
recato in Francia verso la metà del ’500 sarebbe rimasto avvinto e affascinato dalla
presenza di esseri ctonii cavalcanti attraverso i cieli corrucciati dalle tempeste nordiche
(aurore boreali) alla guida di un gigantesco demone dal nome terribile: Hellequin. Persino
Dante in un suo viaggio a Parigi rimase influenzato dalla visione di Herlequins in alcune
rappresentazioni sacre o profane e pare se ne sia valso sia nel descriverne l’immagine
della decuria demoniaca sia nel dare il nome ad Alichino il diavolo del XXI canto
dell’inferno.
5. Conclusione:
Non faremo fatica a credere che un personaggio eclettico e straordinariamente colto come
Tristano Martinelli non abbia perso l’occasione di aggrapparsi ad una figura così
carismatica per l’epoca, tanto da incarnarne le essenze più evidenti: la diabolicità mista
ad una sagace dose di comicità che unita alla satira feroce che lo contraddistingueva ne
fecero la figura teatrale più emblematica e nota nel teatro del mondo intero. La maschera
che egli stesso descrive e incide nel suo libello Compositions de Rhétorique dedicato al re
di Francia Henry IV e alla consorte Maria De Medici è certamente una figura diabolica non
solo per l’apparenza grottesca e irsuta ma anche per la presenza del famoso bernoccolo
rosso sulla fronte (elisione delle corna diaboliche) che da quella data 1585 diverrà
caratteristica di tutte le maschere di Arlecchino della Commedia dell’Arte sino ai nostri
giorni.
[1] L’opera è stata tradotta in lingua francese ed edita in Francia nel 1927: Constant Mic,
La Commedia dell’Arte ou le Théatre des comédiens italiens des XVIe, XVIIe e XVIIIe
siècles, Paris, chez J. Schiffrin, aux editions de la Pleiade, 1927.
[2] Vd. Jacques Le Goff, La nascita del purgatorio, Torino, Giulio Einaudi ed. 1982.