Relazione Sulla Philosophy For Children
Relazione Sulla Philosophy For Children
Relazione Sulla Philosophy For Children
Giulia Dapero
Virginia Ghiara
Riccardo Rudellat
Basandosi sulla tripartizione del pensiero, egli inizia a focalizzare la propria attenzione
sul pensiero critico. Analizzando i primi anni di vita di ogni individuo nota che, non
1
M. LIPMAN, Thinking in Education (second edition), Press Syndicate of University of Cambridge,
Cambridge 20032; tr. it. di A. LEGHI, Vita e Pensiero, Milano 2005, p.297.
2
Cfr. M. SANTI, Ragionare con il discorso. Il pensiero argomentativo nelle discussioni in classe, La
Nuova Italia, Firenze 1995, p.66.
3
Con ciò si intende la teoria elaborata in campo psicologico che prevede la suddivisione del pensiero in:
critico, creativo e caring (o emotivo).
2
appena ne è fisicamente in grado, il bambino osserva con sguardo curioso ciò che lo
circonda cercando di analizzare gli elementi della realtà. Secondo Lipman questa
“vivacità e spontaneità” viene bruscamente interrotta non appena egli viene inserito nel
contesto scolastico, nel quale si ritrova a dover apprendere, in modo passivo,
conoscenze che gli vengono “imposte”. Contrapponendosi quindi al modello standard
di educazione, il filosofo americano ritiene importante permettere al bambino di
sviluppare, in modo quanto più autonomo possibile, le capacità di risolvere i problemi,
scegliere tra posizioni differenti, adottare una decisione e apprendere nuovi concetti,
ossia, appunto, di imparare a pensare criticamente. I tre elementi che risultano centrali
nella formazione di questo tipo di pensiero sono:
3
La creazione di nuove prospettive, di nuovi valori, di nuovi rapporti, di nuovi
modi di organizzare il mondo è parte integrante di ogni buona ricerca.4
Gli elementi alla base del pensiero creativo non sono gli stessi che Lipman
riscontra all’interno del pensiero critico, in questo caso risultano infatti centrali:
1. l’originalità
2. la produttività
3. la fantasia
4. l’indipendenza
5. la sperimentazione
6. l’olismo
7. l’espressività
8. l’auto-trascendenza
9. la sorpresa
10. la generatività
11. la maieutica
12. l’inventiva
4
AA.VV., Philosophy for Children: un curricolo per imparare a pensare, a cura di M. SANTI, Liguori,
Napoli 2005, p.36.
4
Il pensiero caring si realizza, infatti, come pensiero attento al valore, e per
questo è un pensiero impegnato nell’aver cura, attivo e normativo, attento a
conservare e migliorare; è un pensare premuroso e sollecito.5
Credo che proviamo emozioni ogni volta che dobbiamo fare una scelta o
prendere una decisione e che tali scelte e decisioni siano i confini principali
del giudizio. In realtà, il ruolo dell’emozione è talmente importante per il
pensiero – il pensiero che conduce al giudizio e quello che allontana da esso –
che sarebbe difficile discernere l’una dall’altro. In effetti, essi possono essere
completamente indistinguibili; possono essere identici, nel qual caso sarebbe
perfettamente sensato affermare che l’emozione è la scelta, è la decisione, è il
giudizio. E’ questo il tipo di pensiero che, in riferimento a questioni
importanti, chiamiamo caring.6
Pierce immagina una similitudine che rende bene il rapporto che esiste tra
credenza, dubbio e ricerca: la credenza è come una nave nel porto; il dubbio
equivale all’essere pronti a salpare; la ricerca è la fatica e l’impegno del
navigare, che cessa solo quando un altro porto viene raggiunto.7
Alla concezione di Pierce può essere fatto risalire il fondamento della comunità di
ricerca proposta da Mead e successivamente da Lipman. Con questa espressione si
intende un gruppo di individui mossi da un interesse comune che decidono di
intraprendere un percorso di ricerca e analisi basato su criteri e regole condivise.
5
G. D’ADDELFIO, Filosofia per bambini ed educazione morale, La Scuola, Brescia 2011, p.9.
6
M. LIPMAN, Thinking in education, cit., p.294.
7
AA.VV., op. cit., p.87.
5
All’interno della comunità di ricerca ogni individuo si riconosce come un membro
attivo del gruppo, non esistono gerarchie ed è essenziale il rispetto per ogni persona e
per ogni sua opinione.
Lo scopo della comunità di ricerca è la creazione di un prodotto, questo non deve
per forza essere generale e definitivo, l’obbiettivo è approfondire ed analizzare, non
pervenire a risposte certe e immutabili. Il metodo della comunità di ricerca è quello del
dialogo, non della semplice conversazione. All’interno di esso devono essere presenti
tutte le capacità di ragionamento prima menzionate, deve avere delle regole e delle
strutture logiche decise a priori e a cui ci si dovrà sempre rifare, ogni proposta ed ogni
affermazione deve essere adeguatamente argomentata e gli altri avranno il compito di
giudicarla attraverso il ragionamento critico. Questa struttura non rende però il dialogo
già orientato in partenza, saranno sempre le argomentazioni proposte da ciascun
partecipante a guidare il gruppo creando una relazione tra aspetti critici e creativi.
Collegandosi a questa idea Lipman sottolinea come all’interno della comunità sia
necessario condividere esperienze personali, in quanto ciascuna di queste permetterà
una crescita dell’individuo. Egli rimarca anche il fatto che tra i partecipanti della
comunità non ci debba essere alcuna competizione, il clima dovrà infatti essere
amichevole e la valutazione collaborativa e mai accusatoria.
8
P. HADOT, exercices spirituels et philosophie antique, Etudes augustiniennes, Paris 1981; tr. it. di A. M.
MARIETTI, Einaudi, Torino 1988.
6
2. Proposte concrete
2.1 Il Curriculum
9
Cfr. M. SANTI, op. cit., p.113.
10
Tra questi si possono citare a titolo esemplificativo: M. LIPMAN, Pixie, IAPC, Upper Montclair, NJ
1981; M. LIPMAN, Kio and Gus, IAPC, Upper Montclair, NJ 1982; M. LIPMAN, Elfie, IAPC, Upper
Montclair, NJ 1987.
7
o LA COSTRUZIONE DELL’AGENDA
Una volta letto il testo insieme, attraverso un lavoro collaborativo, si devono
individuare gli elementi principali su cui poi si svilupperà il dibattito. Per semplificare
questo compito viene chiesto ai bambini di indicare quali sono a loro avviso i concetti
più problematici e una volta esposti, questi vengono segnati su una lavagna. Sarà
proprio da qui che partirà il momento centrale, ovvero quello del dibattito.
o CONSOLIDARE LA COMUNITÀ
Questo è il cuore della Philosophy for Children, una volta messi in luce gli aspetti
problematici il gruppo dovrà infatti intraprendere un percorso di analisi fondato sulle
esperienze personali e sviluppato sull’argomentazione delle loro posizioni, ormai facili
da esporre grazie alla precedente immedesimazione con i personaggi dei racconti
iniziali. All’interno del dibattito dovranno emergere: un ragionamento cooperativo, una
sensibilità per le sfumature cariche di significato, un’abilità di valutazione degli
argomenti altrui (sia dal punto di vista contenutistico sia da quello logico formale) e una
capacità autocritica e di autocorrezione. Il gruppo deve “cercare di spingersi fino a dove
lo conduce l’argomentazione”11.
11
M. LIPMAN, Thinking in education, cit., p.117.
8
Modello Standard Philosophy for Children
9
5. richiedere di formulare definizioni;
6. far emergere le assunzioni;
7. indicare le fallacie di natura logica o argomentativa;
8. richiedere ragioni (il dialogo infatti deve essere sempre argomentativo);
9. fare in modo che vengano sempre esaminate le alternative in modo che possa
scaturire il confronto;
10. non farsi prendere dalla preoccupazione di giungere a una conclusione.
L’insegnante di cui parla Lipman è una guida che deve tendere a scomparire nella
classe, l’apprendimento deve infatti essere sempre collaborativo e reciproco, egli non
dovrà mai porsi come colui che detiene il sapere. Ovviamente non è facile svolgere un
ruolo del genere, specialmente se si è abituati a comportarsi secondo il metodo
standard. Una maestra di Padova descrive così la sua esperienza di Philosophy for
Children:
12
AA.VV., op. cit., pp.339-340.
10
necessario concentrarsi non solo sull’educazione degli studenti, ma anche su quella dei
facilitatori. La proposta appoggiata dal maggior numero di filosofi e insegnanti sembra
essere a questo punto l’acquisizione delle competenze attraverso la stessa esperienza
dialogica del filosofare insieme: il facilitatore si forma grazie alla partecipazione ad una
comunità di ricerca, in questo modo sarà successivamente in grado di partecipare al
dibattito dando il giusto spazio ai pensieri dei bambini. Lipman stesso riconosce che le
difficoltà siano molteplici, ma afferma che l’insegnante che decide di consacrare la
propria vita professionale allo studio sul modo migliore per preparare gli allievi a
giudicare è “un esempio della dimensione del giudizio orientata verso il futuro” 13, è
proprio questo aspetto a gratificare e a compensare le fatiche dovute a tale impegno.
13
M. LIPMAN, Thinking in education, cit., p.317.
11
3. Il metodo di valutazione della pratica
Così come per le altre pratiche filosofiche, risulta difficile valutare gli effetti
dell’esperienza della Philosophy for Children. Inizialmente in America si è deciso di
adottare alcuni tra i test più noti e utilizzati nelle scuole, successivamente è stato invece
creato un test ad hoc in grado di rispondere a questa esigenza: il New Jersey Test of
Reasoning Skills. Esso presenta però alcuni aspetti problematici, come per ogni altro
test, infatti, è necessario selezionare i dati da considerare come evidenze del successo o
del fallimento della pratica. In questo caso si è deciso di analizzare le abilità di pensiero
dei bambini, ma i dati che si possono analizzare sono le capacità di ragionamento
specifiche e isolabili (ad esempio la capacità di ragionamento induttivo o di capire
relazioni simmetriche), e ciò pare in evidente contrasto con l’ideale di educazione al
pensiero complesso alla base della Philosophy for Children.
Per analizzare i miglioramenti della comunità di ricerca, si utilizza inoltre un
gruppo di controllo: il primo gruppo (la comunità) svolgerà la pratica, il secondo invece
non avrà questo impegno, all’inizio e al termine dello studio si chiederà ad ogni
bambino di rispondere al test, i risultati dei due gruppi verranno poi confrontati. In
questo modo però si rischia di non dare la stessa importanza ai dati provenienti dai due
gruppi, analizzando alcune ricerche Marina Santi arriva ad affermare che “spesso
l’analisi dei risultati nei gruppi di controllo manca di adeguatezza”14.
Bisognerebbe anche definire quale attività deve essere proposta al gruppo di
controllo in alternativa alla Philosophy for Children, se infatti non vengono forniti
stimoli alternativi, allora la qualità dell’apprendimento non potrà essere confrontabile.
Si è visto inoltre come il docente-facilitatore sia uno dei partecipanti alla comunità di
ricerca ma abbia allo stesso tempo un ruolo di guida, anche il suo metodo di gestire il
dibattito sarà quindi un fattore da tenere presente nel valutare gli esiti di questa pratica
filosofica. Infatti, se anche tutti gli insegnanti si formassero allo stesso modo, ciascuno
di essi svilupperebbe poi un modo personale di svolgere il ruolo di facilitatore e guida.
È quindi possibile chiedersi se una pratica come la Philosophy for Children possa
essere valutata attraverso un test. Lo stesso Lipman, così come Santi, ha sollevato molti
dubbi in merito ad un tale metodo valutativo.
14
M. SANTI, op. cit, p.149.
12
4. La proposta di G. D’Addelfio
15
G. D’ADDELFIO, op. cit., p.9.
16
Ibi, p.64.
13
caratteristiche principali di questi fenomeni, per poi farvi ritorno, ormai arricchita e
capace di apportare cambiamenti. Secondo questo approccio fenomenologico, dunque,
D’Addelfio arriva a delineare nell’ultimo capitolo dell’opera un “profilo essenziale” di
tutte le istanze costitutive del fenomeno educativo, e, in seconda battuta, ad esplicitare,
in maniera del tutto parallela a queste istanze, le linee metodologiche da seguire per
operare interventi educativi che siano adeguati ai mondi concreti dell’educare.
Le istanze fondamentali del fenomeno educativo (e di pari passo le linee
metodologiche), diverse ma strettamente intrecciate tra loro, vengono rintracciate
attraverso una riflessione teorica che tiene conto allo stesso tempo delle ricerche
prodotte dalla psicologia17, degli spunti teorici offerti dalla Philosophy for Children, e
delle esigenze concrete dei bambini che entrano per la prima volta in una relazione
educativa, nonché in un mondo.
Proprio in questo primissimo ingresso nel mondo il bambino si trova in primo
luogo disorientato di fronte ad una realtà di cui ricerca un significato. Vi è in lui
l’esigenza di ricevere una “mappa chiara del mondo”, per selezionare in modo sensato
le informazioni che da questa realtà riceve, per comprenderla, per prendere posizione e
inserirsi adeguatamente e serenamente nel tessuto delle relazioni sociali. Di fronte ad un
simile bisogno, la responsabilità sta tutta nelle mani dell’educatore, il suo compito sarà
dare il via a questo accompagnamento del bambino nel mondo, offrendogli un punto di
partenza per una progettazione esistenziale. In altri termini, l’educando dovrà trovare di
fronte a sé una guida rassicurante, che sappia trovare la giusta via di mezzo tra una mera
trasmissione e imposizione di contenuti morali e l’assenza totale di una direzione, di cui
invece il bambino ha bisogno per compiere il proprio cammino morale. Infatti, se la
prima opzione ostacolerebbe l’esercizio del pensiero critico e creativo del bambino,
relegandolo in una completa passività, la seconda lo priverebbe di un’autorità educativa
per lui necessaria. A questo proposito D’Addelfio, ricollegandosi alla sua analisi della
condizione morale attuale dei bambini in Italia, compiuta nel primo capitolo18, si
sofferma a precisare il malinteso che ha portato ad una vera e propria crisi dell’autorità
degli educatori (tanto genitori, quanto insegnanti). Alla base di questa starebbe infatti
una visione distorta della libertà dei bambini, nonché, più in generale, della relazione
17
A cui era stata dedicata un’ampia trattazione nel secondo capitolo, cfr. pp.87-142.
18
Cfr. G. D’ADDELFIO, op. cit., pp.60-85.
14
educativa. Infatti, ai bambini deve essere lasciata la libertà di progettare autonomamente
la propria esistenza, si deve insegnare loro a scegliere “con la propria testa ed in prima
persona” (per usare le parole di Lipman), ma questo non deve trasformarsi in una mera
e “vuota” capacità di scelta. Non si deve cioè pensare che la relazione che si istituisce
tra educatore ed educando sia di tipo contrattuale, e dunque che essi siano due partner
alla pari che possono ritirarsi quando lo desiderano dal rapporto, perché, si pensa, in fin
dei conti ogni azione e decisione può essere giustificata, dal momento che non esistono
valori e fini stabili e ciò che conta è solo la capacità di usare i mezzi adeguati per
raggiungere i propri personalissimi scopi. Per dirla con le parole di Lipman:
19
M. LIPMAN, Pratica filosofica e riforma dell’educazione, disponibile su www.filosofare.org.
15
loro vita in una direzione, prima ancora che con contenuti assiologici
determinati.20
20
G. D’ADDELFIO, op. cit., p.199.
21
Cfr. M. LIPMAN, Thinking in education, cit., pp.283-294.
22
Tra questi: pensiero valutativo, affettivo, attivo, normativo, empatico.
16
psicologico, miri alla formazione globale della persona. Si tratta di quello strumento
fondamentale di cui l’educazione deve servirsi per permettere la fioritura e il benessere
esistenziale dell’individuo, dotato di un libero progettarsi, ma sempre e comunque
all’interno di un contesto interpersonale.
Dal punto di vista eidetico e pedagogico, dice D’Addelfio, l’empatia è da
considerarsi come una virtù, in quanto implica un lavoro su se stessi e una formazione
specifica del proprio intelletto e delle proprie emozioni. Inoltre, l’empatia autentica può
realizzarsi solo se si presentano contemporaneamente tre istanze fondamentali che la
costituiscono: una veritativa, una etica ed una spirituale.
L’istanza veritativa porta con sé la necessità di lasciare spazio all’altra persona,
riconoscendola per quello che è, permettendole di manifestarsi nella sua verità che è
assoluta novità per chi la incontra. Ciò implica il riconoscerne l’alterità irriducibile,
dunque l’impossibilità di oggettivarla e di identificarsi completamente:
L’istanza etica, permette invece di fare un passo in più rispetto alla prima, perché si
preoccupa di cogliere l’altro non solo per ciò che è già, che va percepito e accettato
nella sua verità, ma anche per quel “di più” che non è ancora, cioè per le sue possibilità
ideali e più autentiche, condividendo con lui la responsabilità della loro realizzazione.
Anche in questo caso, l’autrice recupera le riflessioni di Lipman sulla dimensione
caring del pensiero, mettendo in luce che esso è anche “pensiero normativo”, e dunque
fondamentale perché questa seconda istanza possa attuarsi. Il rilievo normativo del
pensiero caring implica che “prendendosi cura” di qualcuno ci si interessi anche alle
23
G. D’ADDELFIO, op. cit., p.213.
17
sue possibilità ideali, integrando così la propria considerazione di ciò che è ideale con
l’attenzione che si presta a ciò che accade in modo attuale.24
Infine, deve essere presente un’istanza spirituale, che implica la capacità di
ammettere che l’origine dei significati e del senso che ci costituiscono non vengono da
noi. Lo spirito, infatti, deve proprio essere inteso come “la capacità di accogliere dentro
di sé una storia e le persone che la costituiscono” e di riconoscere che la soggettività si
può costruire solo come risposta ad un appello che viene da altro, e che reclama una
risposta.
Se non mancherà nessuna di queste tre istanze, allora si potrà dire che l’educatore
ha messo in atto un’autentica empatia e, così, l’educando accolto in modo empatico
imparerà ad a sua volta ad essere capace di empatia verso se stesso e verso gli altri:
24
Cfr. M. LIPMAN, Thinking in education, cit., pp.291-292.
25
G. D’ADDELFIO, op. cit., pp.216-217.
18
bambino di entrare in un gruppo di ricerca dove vige il rispetto per ciascuno, e dunque
dove potrà partecipare attivamente, sentendosi libero di comportarsi in modo autentico e
creativo. Il dialogo filosofico, inoltre, dà l’opportunità di entrare in una vera interazione
con gli altri, ascoltandone esperienze e punti di vista personali, permettendo
costantemente ai bambini di esercitarsi al decentramento e ad esprimere le proprie
emozioni in maniera sempre più articolata linguisticamente, imparando così
contemporaneamente a riconoscerle in modo migliore. La comunità impegnata in una
ricerca etica dovrà quindi partire dalla domanda “Quale è la vita buona?”, avendo come
obbiettivo un miglioramento, per ciascuno, della comprensione di sé, attraverso la
realizzazione di un passaggio da un orientamento individuale ad uno comunitario, resa
possibile, ancora una volta, dal pensiero caring. Infatti:
Il pensiero caring, dunque, è quello che rende possibile lo sviluppo della propria
coscienza relazionale. A questo proposito, è bene sottolineare come anche in queste
pagine l’autrice torni a mettere a confronto relazioni che prevedono vera condivisione
comunitaria, con relazioni di tipo contrattuale, focalizzandosi questa volta sul rapporto
che un individuo può stringere con la comunità. Infatti, un rapporto contrattuale tra un
singolo ed una comunità renderebbe il primo un semplice “utente” della seconda,
capace magari anche di cooperare con gli altri membri, ma per il perseguimento di scopi
che sono prima di tutto privati ed egoistici, per cui non sarebbe ancora una volta
presente quell’alleanza necessaria per raggiungere un bene condiviso. Inoltre, anche
qualora questo individuo decidesse di sacrificare i propri scopi, il legame con la
comunità rimarrebbe comunque secondario rispetto alla costruzione della sua identità e
alla comprensione che egli ha di sé. Al contrario, l’autrice si schiera a favore di una
posizione che riconosca la natura umana come profondamente intersoggettiva, e che
definisca pertanto le relazioni con gli altri come fondamentali per la costruzione stessa
della nostra identità:
26
G. D’ADDELFIO, op. cit., p.227.
19
Il nostro compimento personale è legato alla piena e consapevole
assunzione della costitutiva interdipendenza che ci lega agli altri esseri
umani, ad un’educazione morale che accolga la relazionalità che attraversa
il nostro io, non solo come un bisogno o un dato, ma come un compito.27
27
G. D’ADDELFIO, op. cit., p.229.
28
Ibi, p.230.
29
Ibi, p.261.
20
Aristotele, il comportamento ed il carattere di un uomo costituiscono l’argomentazione
più forte per condurre qualcun altro a seguire la medesima condotta.
Nel terzo capitolo di Filosofia per bambini ed educazione morale, D’addelfio riporta i
risultati, contenuti in un proprio studio intitolato Emozioni ed educazione morale, di
un’esperienza di formazione da lei stessa condotta con il gruppo di ricerca legato alla
Cattedra di Pedagogia generale della Facoltà di Scienze della Formazione
dell’Università di Palermo, in due scuole primarie della città di Palermo, durante gli
anni scolastici 2009/2010 e 2010/2011. Si trattò di una ricerca-intervento, così definita
in quanto, attraverso questa esperienza fu al contempo compiuta, da D’addelfio e
collaboratori, una ricerca sull’educativo (dunque sui bambini), ma anche una ricerca
educativa, che coinvolse attivamente gli alunni (con e per i bambini).
Lo scopo fu quello di realizzare un percorso di educazione morale che avesse al
centro il dialogo sulla vita emotiva, servendosi dei metodi della Philosophy for
Children. L’obbiettivo fu dunque anche quello di vedere se quest’ultima potesse essere
un aiuto efficace al potenziamento di un vocabolario per descrivere le proprie emozioni,
alla maturazione nella propria vita di relazione e, in generale, alla crescita nella
dimensione caring del pensiero. In sostanza, quindi, il percorso cercò di orientarsi verso
l’approfondimento dell’aspetto secondo D’addelfio più caratterizzante della
Philosofophy for Children (intesa come programma di educazione morale): la
valorizzazione delle emozioni e, di pari passo, il lavoro sul vocabolario emotivo.
Quest’ultimo infatti, viene tenuto in grande considerazione tanto da Lipman quanto da
M. A. Sharp: il primo lo riconosce come elemento fondamentale perché i bambini
possano adeguatamente riflettere sulla propria vita emotiva30, mentre la seconda arriva
persino a definire il dare un nome alle emozioni come il primo passo dell’educazione
morale.31
La ricerca-intervento si articolò in diverse sessioni di dialogo filosofico compiute
con i bambini a partire da brani scelti tratti soprattutto da Pixie e da Nous, di argomento
30
Cfr. M. LIPMAN, Thinking in education, cit., p.152.
31
Cfr. G. D’ADDELFIO, op. cit., p.158.
21
specificatamente etico. A queste sessioni non vennero fatti partecipare gli insegnanti per
evitare che la loro presenza potesse imbrigliare i bambini nella logica “giusto o
sbagliato” riducendo la loro possibilità di aprirsi in modo fecondo in una discussione
filosofica. A questo proposito, risulta molto interessante il fatto, riportato da
D’Addelfio, che molti di questi bambini si stupirono inizialmente tanto di dover essere
loro a fare domande quanto di non dover necessariamente trovare delle risposte
definitive a queste, acquisendo gradualmente una sempre maggiore consapevolezza
della natura controversa (ma anche sempre più motivante per loro) delle questioni
filosofiche. Altro elemento significativo riportato è il fatto che la discussione di gruppo,
su concetti legati all’ambito dell’esperienza relazionale e morale, indusse molti di loro a
raccontare a ruota libera delle proprie esperienze. Da queste i ricercatori trassero dei
punti di partenza per costruire la discussione comune e per cercare di affrontare anche
alcuni problemi relazionali emersi tra i bambini. Tuttavia, cercarono di fare questo con
molta cautela, sia per evitare di rendere più vulnerabili i bambini, sia per non perdere di
vista l’obbiettivo di dialogare in vista della costruzione di un obbiettivo comune, visto
che, come afferma l’autrice stessa, “la Philosophy for Children intende essere un
dialogo disciplinato e non una conversazione, né tantomeno una forma di terapia: il
coinvolgimento personale non dev’essere mai troppo personale.”32
Infine, di grande importanza per una considerazione sull’efficacia dei metodi della
Philosophy for Children, furono le affermazioni fatte dai bambini, nelle sessioni
conclusive, sulla possibilità di provare i sentimenti di un’altra persona. L’autrice segnala
infatti come, con il procedere delle discussioni, molti tra i bambini divennero sempre
più dubbiosi sulla possibilità di provare effettivamente la medesima emozione di chi ha
subito, per esempio, una grava disgrazia, come dimostra il seguente dialogo sulla
differenza tra raccontare una storia dall’interno e dall’esterno, riportato nell’opera:
32
G. D’ADDELFIO, op. cit., p.181.
22
C.: Ma chi lo sente raccontare può provare un’emozione simile, ma
minore…per chi l’ha vissuto è molto più forte.
L.: Se io racconto una cosa a G., lei lo può raccontare benissimo a un’altra
persona perché in origine gliel’ho raccontato io, G. è come se fossi io…o no?
Fac.: Non lo so…riflettiamo…cosa significa come se fossi io?
M.: G. non l’ha vissuto, non è L.
Fac.: infatti L. ha detto “è come se fossi io”, non “io sono G.” oppure “G. è
esattamente me.”
L.: Per me rimane molto diverso.
M.: Una cosa è raccontare, dire le cose, un’altra è dire i sentimenti.
C.: Se io mi rompo il braccio, io provo dolore
L.: …e non un altro.
G.: … e se racconti le emozioni a un’amica, la tua amica può pensarle ma non
può sentirle, almeno non come le senti tu.
R.:…e lo può immaginare…specie se le è successa una cosa simile…ma solo
un poco.
M.:…però questo poco serve a molto, serve anche ad avere sostegno.33
Questa e altre simili discussioni resero possibile mettere in luce una grande
consapevolezza acquisita dai bambini nel corso delle discussioni: la profonda esigenza
del rispetto dell’altro, come essere unico, dotato di una propria vita emotiva irripetibile,
di un proprio “segreto” che non deve mai essere violato. Ovvero, con queste
acquisizioni i bambini dimostrarono di aver colto appieno che cosa significhi quel
concetto di “empatia” nei termini in cui l’autrice stessa lo definisce nelle sue riflessioni
sull’essenza dei fenomeni educativi, che sono state riportate sopra.
33
Ibi, p.184.
23
5. Esempi di applicazioni pratiche
5.1.1 Introduzione
In ambito italiano un lavoro fondato sui principi della Philosophy for Children è stato
svolto dal filosofo G. Ferraro. Va però sottolineato come i metodi e le idee di Ferraro,
per quanto ne siano ovviamente ispirati, si distanzino per alcuni fondamentali elementi
da quelli classici portati avanti da Lipman e i suoi collaboratori.
In primo luogo va evidenziato come le lezioni tenute dal filosofo non si svolsero in
orari e ambienti propriamente scolastici: furono infatti organizzati cinque incontri
pomeridiani a cadenza settimanale ai quali parteciparono volontariamente insegnanti e
alunni provenienti da diverse classi della scuola elementare San Felice di Cancello34,
nella periferia di Caserta. Ferraro rimarca più volte nel corso dell’opera, impostata
sottoforma di diario dell’esperienza, anche grazie ai contributi degli alunni e dei docenti
coinvolti, come questa diversità di età e sesso fu un elemento di assoluta importanza e
stimolo per il gruppo35 e come mai si ci si trovò davanti a situazioni di mancanza di
rispetto o a pretesa di superiorità di alcuni membri sugli altri36.
Altro elemento di differenza con il paradigma della Philosophy for Children risiede
nel fatto che l’esperienza non fu concepita come un nuovo modello da contrapporre a
quello tradizionale per condurre ad un miglioramento delle capacità critiche dei
bambini, bensì come un ulteriore stimolo da proporre ad allievi e docenti e da affiancare
al lavoro regolarmente svolto in classe, senza alcuna presunzione di sostituirsi ad esso.
Ferraro partì quindi dall’idea di presentare la filosofia ai bambini in termini e
modalità che potessero attrarli e invogliarli ad un ampliamento della loro concezione del
34
Più precisamente parteciparono le classi II, III, IV e V elementare e i rispettivi docenti e, per lo meno in
fase preliminare e organizzativa, il direttore scolastico.
35
Nel momento del dibattito e della produzione si notò come, ad esempio, uno stesso elemento veniva
visto come stimolante e tranquillizzante dalle bambine mentre creava paura nei bambini o viceversa.
36
Cfr. G. FERRARO, La filosofia spiegata ai bambini, Filema, Napoli 20002, pp.26-27.
24
mondo e della vita più in generale. Questo va collegato alla visione che l’autore ha della
filosofia stessa:
Questo, unito alla voglia dei bambini di scoprire i significati di tutto ciò che li
circonda, portò Ferraro alla scelta dell’argomento su cui si sarebbero svolte le sue
lezioni: gli elementi naturali. L’interesse per gli elementi naturali è evidente fin dai
primi filosofi greci ma, secondo l’autore, questa attenzioni non è mai stata spinta da una
reale indagine sul principio primo e originario quanto piuttosto dalla ricerca di un
elemento capace di creare equilibrio all’interno del mondo. Alla luce di ciò, e con l’idea
di far coincidere l’inizio del percorso evolutivo della filosofia occidentale con l’inizio
della crescita personale dei bambini coinvolti, la scelta dell’argomento sembrò quasi
l’unica possibile.
5.1.2 Metodo
Ferraro decise di organizzare cinque lezioni pomeridiane, una ogni settimana; i classici
quattro elementi, ad ognuno dei quali fu associato un filosofo ad esso collegato38,
furono affrontati ognuno in un incontro differente; fu inoltre affidato ai docenti il
compito di allestire la sala dove si svolgevano tali incontri con materiali collegati
all’elemento del giorno (da oggetti concreti a filmati dove alle immagini si affiancavano
suoni di varia natura, a semplici disegni fatti dai bambini durante le normali lezioni).
L’elemento trattato nel quinto colloquio non fu rivelato né ai bambini né ai docenti da
parte del filosofo in modo da creare un interesse e una curiosità tali da portare l’intero
gruppo alla formulazione di ipotesi su quale esso potesse essere; solo dopo aver
ascoltato ed analizzato le opinioni di tutti su questo misterioso quinto elemento Ferraro
37
G. FERRARO, op. cit., p.13.
38
L’acqua fu quindi legata alla figura e alla filosofia di Talete, il fuoco a quella Eraclito, la terra a quella
di Empedocle e l’aria a quella di Anassimene.
25
decise di rivelare l’argomento che sarebbe stato trattato, ovvero l’essere, accompagnato,
ovviamente, da Parmenide.
Questi incontri seguirono sempre un metodo preciso basato su determinati passaggi
con l’obbiettivo di conoscere e fare proprio l’elemento trattato con un interesse che
potremmo definire filosofico nel senso più genuino del temine. All’inizio di ogni
riunione i bambini, precedentemente divisi in quattro gruppi, uno per ogni elemento,
venivano fatti entrare nella sala che, come detto, era stata adeguatamente preparata per
l’occasione, e iniziava così la scoperta dell’elemento attraverso l’osservazione di ciò che
li circondava. La preparazione dell’aula fu essenziale per stimolare negli studenti quello
stupore e quella curiosità che sono il cuore stesso della ricerca filosofica.
Ad ogni gruppo veniva poi assegnato un lato della stanza in modo tale da formare
un cerchio all’interno del quale stava il professore che, con un libro di filosofia in
mano39, svolgendo il ruolo del saggio, analizzava brevemente l’elemento con l’ausilio,
da un lato, della figura e delle parole del filosofo ad esso collegato (particolarmente
interessanti risultarono gli aforismi di Eraclito e la figura di Talete) e, dall’altro, del
ricorso a racconti e miti (esemplare è il mito di Prometeo riguardo l’elemento del fuco).
Finita questa breve quanto interessante spiegazione, durante la quale tutti i
partecipanti erano invitati ad esporre e confrontare dubbi, domande o considerazioni
personali, iniziava il momento del gioco: i quattro gruppi partecipavano a diversi
esercizi-giochi sull’elemento dell’incontro, quali, ad esempio, riconoscere i rumori che
venivano loro fatti ascoltare e collegarli al contesto reale (come ad esempio riconoscere
ed identificare il rumore del mare piuttosto che lo scoppiettare del fuoco in un camino).
Alla fine del gioco al gruppo con il punteggio migliore veniva assegnato l’elemento
della giornata (il tutto era organizzato in modo tale che ogni gruppo ricevesse uno e un
solo elemento, chi aveva già vinto partecipava comunque al momento del gioco ma
senza la possibile “ricompensa”); la “conquista mentale e conoscitiva” dell’elemento da
parte dei bambini aveva così una controparte più concreta e visibile per loro.
Si arrivava dunque all’ultima fase delle riunioni, quella produttiva. In questo
momento ogni studente aveva il compito di creare uno scritto, sotto forma di poesia o
breve racconto, sull’argomento trattato; non era richiesta una produzione scientifica e
argomentata poiché non era questo il tipo di conoscenza fornita, ma piuttosto un’opera
39
Ferraro tende a sottolineare come, nonostante l’uso reale del libro fu quasi nullo, il mostrare ai bambini
questo simbolo così forte e denso di significato fosse essenziale nel suscitare interesse e attenzione.
26
che legasse quell’elemento alle emozioni e ai sentimenti personali ed intimi che esso
suscitava in loro.
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posto all’ansia per il nostro primo incontro. […] Negli incontri successivi
però, l’ansia svanì ed io mi sentivo sempre più coinvolta. (Clementina Speri)
[...]
I bambini, guidati dal professore, parteciparono a tutte le attività proposte
(visive, olfattive e auditive) con un interesse sorprendente riuscendo ad
esprimere sensazioni e riflessioni che sinceramente non immaginavo che
possedessero. (Angelina di Nuzzo)40
P.E.C.A. è la sigla che sta per Philosophy and European Contemporary Art, si tratta di
un progetto europeo che ha coinvolto tra il 1996 e il 1998 la Spagna, la Scozia, l’Italia e
il Belgio. Il progetto era finalizzato a promuovere un’educazione estetica che
avvicinasse gli studenti all’arte contemporanea, utilizzando la metodologia tipica della
Philosophy for Children. L’unica differenza rispetto all’impostazione classica di questa
pratica filosofica consisteva nell’uso di materiali diversi dai testi narrativi come stimolo
iniziale per il dibattito: in questo caso, infatti, furono utilizzati anche quadri o domande
proposte da bambini dei paesi partners su delle opere d’arte.
Attraverso il dibattito all’interno della comunità di ricerca si cercò di promuovere
nei bambini lo sviluppo di un pensiero critico sull’arte, lo scopo fu quello di stimolarli a
porsi di fronte all’opera in modo autonomo, riuscendo a cogliere e interpretare anche i
significati nascosti. Le nazioni coinvolte concordarono insieme le linee di lavoro
condivise (i fini e le metodologie da utilizzare durante gli incontri), ciascuna scuola
individuò poi un percorso specifico. Il percorso della scuola italiana41 fu intitolato
“Pensieriamo l’arte” e si concentrò sulla natura delle opere d’arte. Alle discussioni di
natura estetica seguirono dei laboratori in cui i bambini vissero esperienze dirette di
creazione artistica (a loro volta, le attività laboratoriali offrirono nuovi stimoli per il
dibattito).
La comunità di ricerca fu guidata da facilitatori e da coach: gli insegnanti che
parteciparono ad almeno tre o quattro sessioni di formazione poterono svolgere il ruolo
40
G. FERRARO, op. cit., pp.36-46.
41
Si trattava di una scuola elementare di Rovigo, che ha collaborato con le classi dell’ultimo anno del
liceo socio-psico-pedagogico della stessa città.
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di facilitatori, coloro che parteciparono ad almeno una sessione poterono proporsi come
coach, il cui compito era quello di organizzare il lavoro di discussione a livello teorico
svolgendo poi una funzione di controllo. La formazione, così come in molti altri casi,
riguardò non solo le basi teoriche della pratica filosofica, ma anche la possibilità di
sperimentare attivamente la partecipazione ad una comunità di ricerca.
Durante il primo anno del progetto gli studenti si concentrarono sul rapporto delle
opere pittoriche con la realtà: ai bambini fu assegnato il compito di riprodurre dipinti
famosi, individuare le opere che li colpivano maggiormente, partecipare ad alcune
mostre e proporre domande, problemi, riflessioni durante il dibattito in classe. Il
secondo anno, invece, la comunità di ricerca fu coinvolta in laboratori più lunghi e
frequenti, finalizzati all’ideazione e alla creazione di opere d’arte. Le discussioni furono
inserite all’interno dell’agenda di classe; ve ne riportiamo qui un esempio che ci è parso
particolarmente interessante per il nostro lavoro42:
42
L’argomento di discussione riprende infatti in qualche modo quanto emerso durante il cafè philò del
31/10/2013.
29
Insegnante: Avete capito tutti la proposta di Giacomo, di mettere insieme le
cose? Se ho capito bene, per lui che cosa significa un quadro dipende da come
il pittore rappresenta le cose.
Marco: No, non sono d’accordo, perché il significato al quadro lo do io.
Diego: Non è mica vero, il significato vuol dire “che cosa è” e basta.
Giacomo: Anche per me.
Elena: Per me “che cosa significa” vuol dire, ad esempio, se vuoi dire
“paura”, oppure “speranza”, c’entra il sentimento…
Insegnante: A quanto pare ci sono diversi modi di intendere il significato di
un’opera…
Elena: Io ne avrei un altro, per me “cosa significa” vuol dire che cosa vuol
dire una cosa rispetto a un’altra, le relazioni che ci sono nel quadro e quelle
che faccio io.43
Dal dialogo sembra che i bambini siano riusciti a cogliere questioni filosofiche
rilevanti, rimanendo sempre disponibili nei confronti di posizioni diverse dalla propria.
L’insegnante aveva il ruolo di facilitare la discussione identificando i problemi, offrendo
spunti e provocazioni, promuovendo un atteggiamento democratico all’interno della
comunità di ricerca. All’interno del progetto fu inserita anche un’attività di
monitoraggio e valutazione. In questo caso furono individuati due gruppi: uno
sperimentale (36 bambini di una quarta elementare) e uno di controllo (100 bambini
provenienti da scuole e classi diverse). A tutti furono proposti pre-test e post-test relativi
ai livelli di comprensione estetica, alle competenze argomentative, al ruolo
dell’insegnante-facilitatore. I dati che riguardavano il livello di comprensione estetica
furono analizzati confrontando studenti di età e gradi scolastici diversi (per le
elementari è stato appunto considerato il gruppo sperimentale), la valutazione risultò
estremamente positiva.
43
AA.VV., op. cit., p.321.
30
rispetto a quelle mostrate dai soggetti di scuola superiore, in particolare di
quelli frequentanti il liceo artistico.44
1. Facilitatore
2. Provocatore
3. Modulatore
4. Monitor
5. Supporto
44
Ibi, p.326.
45
Lo strumento utilizzato nello specifico è stato creato da Marina Santi unificando le modalità di analisi
del discorso del test di Toulmin e del test di Edmondson.
46
È auspicabile che poco alla volta siano i bambini stessi a ricoprire questi ruoli.
31
Bibliografia
32
Indice
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