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Giorgio Colli Empedocle

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Giorgio Colli Empedocle

A cura di Federica Montevecchi

Adelphi eBook
Quest’opera è protetta
dalla legge sul diritto d’autore
È vietata ogni duplicazione,
anche parziale, non autorizzata

Prima edizione digitale 2019

© 2019 ADELPHI EDIZIONI S.P.A. MILANO


www.adelphi.it

ISBN 978-88-459-8210-1

EMPEDOCLE

NOTA DELLA CURATRICE

Sono qui presentati due studi dedicati da Giorgio Colli (1917-1979) a


Empedocle d’Agrigento: essi proseguono la pubblicazione degli scritti inediti
del filosofo torinese alla quale si dedicò con generosità e acume suo figlio
Enrico – scomparso prematuramente nel 2011 – con l’intento di far conoscere
l’originalità teoretica e la straordinaria attività intellettuale del padre.
Il primo studio, dal titolo Anima e immortalità in Empedocle, risale al 1939,
fa parte quindi degli scritti giovanili di Colli nei quali la ricerca filologica sui
testi del pensiero greco è già inseparabile, in sintonia con la lezione
nietzscheana, dalla riflessione teoretica. Non a caso esso si può ricondurre ai
piani preparatori di Ellenismo e oltre, che prima di essere un progetto editoriale
a

appare quale programma per una vita votata alla conoscenza. Nel piano più
b

definito di tale programma, cioè il piano 4, Anima e immortalità in Empedocle è

1
compreso nella terza delle quattro parti che costituiscono il progetto,
significativamente dopo le sezioni intitolate Filologia non più morta e Ricerca
di un sistema-Tentativi sistematici e prima di quella dal titolo Ricercando altre
anime. Si tratta di un percorso in cui la possibilità teoretica è legata al nome di
Nietzsche, ritenuto il filosofo che ha cercato di vivere e di giudicare il proprio
tempo – la modernità – come un greco, e che proprio per questo ha rinnovato la
domanda filosofica, consentendo di tornare a guardare agli antichi Greci con
occhi liberi da vincoli nei confronti della tradizione e dei tecnicismi. Un ritorno
che per Colli ha significato trovare interlocutori decisivi con cui confrontarsi a
partire da un sentire comune, quello che lo ha guidato a ricercare nella storia
del pensiero ‘altre anime’ affini nelle quali risuonasse una medesima vissutezza.
Esempio concreto di questo ritorno agli antichi Greci, soprattutto
dell’approccio impiegato da Colli, è il secondo studio pubblicato nel presente
volume, costituito dalle dispense delle lezioni tenute nell’anno accademico
1948-49 all’Università di Pisa. Esse rinviano in particolare a Phýsis krýptesthai
phileî-La natura ama nascondersi, lo scritto, esito di uno studio decennale, in
cui viene ribaltata la prospettiva storiografica usuale, secondo la quale i Greci
più antichi non sarebbero altro che pre-socratici, vale a dire precursori della
vera filosofia destinata a realizzarsi con Platone e Aristotele. Il volume,
dedicato in modo significativo alla memoria di Friedrich Nietzsche, fu
pubblicato proprio nel 1948 e valse a Colli la libera docenza nell’ateneo pisano,
dove fino alla morte improvvisa tenne le sue lezioni di Storia della filosofia
antica: nell’insieme dei temi affrontati sembra specchiarsi quel percorso di
c

riflessione e di studio che trova compimento negli scritti e nelle traduzioni cui
Colli lavorò nell’arco della sua vita. In particolare le lezioni su Empedocle, che
dovevano essere completate da un corso successivo mai tenuto, permettono,
insieme allo scritto del 1939, di definire più precisamente l’interpretazione che
Colli propone di Empedocle, al quale egli si riferisce fin dalla tesi di laurea e d

poi spesso nei suoi scritti successivi, omaggiandolo persino, sulla scia di
Hölderlin, con una tragedia in tre atti rimasta incompiuta, tuttora inedita.
La lettura colliana di Empedocle è inquadrata all’interno di una cornice
teorica costituita dal complesso rapporto fra sostanza e divenire, tra unità e
molteplicità. Nell’affrontare questo nodo metafisico, centrale per comprendere
la grecità e il pensiero stesso, Colli muove nelle lezioni, così come in Phýsis
krýptesthai phileî, dalla critica rivolta a quelle letture sclerotizzate che, a partire
da Zeller, pongono l’eredità teofrastea in continuità con quella aristotelica.
Teofrasto, invece, sarebbe stato il primo a considerare la storia della filosofia
un oggetto di studio scientifico, tanto da risultare una fonte più attendibile di
Aristotele che, pur avendo a disposizione le stesse informazioni del suo
discepolo, parlò dei filosofi più antichi mosso dai problemi della sua propria
filosofia, indifferente all’esattezza storica. Attraverso Teofrasto, in particolare
attraverso i frammenti del primo libro delle Opinioni dei fisici, sarebbe dunque
possibile riscattare il pensiero di Empedocle, e di tutti i filosofi cosiddetti
presocratici, dalla categoria del monismo ilozoistico con la quale Aristotele
avrebbe ridotto in termini razionali e unitari «quelle che erano originariamente
2
affermazioni mistiche», che vedevano nella phýsis l’eco di una dimensione
e

nascosta, indeterminabile e indicibile. Questa polarità fra dimensione fisica e


dimensione metafisica, fra molteplicità e unità costituisce una
prospettiva altra non soltanto nei confronti della tradizione monista
materialista ma anche di quella metafisica dualista. Colli, infatti, mostra come
per Empedocle non ci siano due realtà, una trascendente l’altra, ma
che noumeno e fenomeno sono avvinti, «l’uno costituendo l’intemo, la radice,
e l’altro l’esterno, la manifestazione di una stessa fondamentale realtà». E f

la radice metafisica, l’interiorità di ogni individuale realtà è costituita dal suo


impulso vitale di carattere conoscitivo che reagisce su quanto incontra, nel
tentativo di congiungersi con il tutto e di ritrovarsi in esso: si tratta del sentire
universale, «un phroneîn fondamentale dalle mille sfumature di gioia e dolore;
una convulsa mescolanza di sentimenti reagenti gli uni sugli altri e determinati
da questi reciproci contatti conoscitivi, primordiali e senza intenzionalità». Per
g

il giovane Colli proprio il sentiretestimonierebbe in Empedocle l’immortalità


dell’individualità che tanto più tende intuitivamente ad avvicinarsi al punto di
vista di dio, cioè all’unità, quanto più perfeziona, attraverso il progressivo
distacco dalla prospettiva molteplice e mortale del vivere, la proporzione e la
simmetria degli elementi eterni che la compongono e che nel sangue pericardico
trovano la loro espressione più completa. Empedocle, infatti, è un mistico
proprio perché vive e considera come inseparabili la dimensione mortale e
quella immortale: esse sono gli aspetti coesistenti di una medesima natura la cui
trascendenza è irriducibile ad una spiegazione razionale, fatto che Colli, a
differenza di Kant, non riterrà un limite, bensì una fonte di vitalità intellettuale.
Va da sé che questa lettura di Empedocle è decisiva sia rispetto alla dottrina
teoretica di Colli – tanto che la si può intendere come un passaggio
fondamentale per comprendere il rapporto di natura polare
fra immediatezzaed espressione –, sia rispetto agli studi specifici su Empedocle.
In particolare, rispetto a questi ultimi, essa apre una prospettiva interessante da
cui considerare anzitutto il secolare dibattito sul contrasto inconciliabile fra
l’Empedocle del Perì phýseos e quello dei Katharmoí, cioè fra la dottrina fisica
e quella etica: Colli vedrebbe nel diverso tono dei frammenti attribuiti ai due
poemi una mutata posizione spirituale di Empedocle, non «una radicale
trasformazione di idee o, peggio ancora, un atteggiamento serio di fronte ad uno
divulgativo e convenzionale». h

Altrettanto importante è l’apporto di queste pagine agli studi sulla relazione


fra sensi e ragione nella dottrina empedoclea e sul rapporto di questa con quella
di Anassimandro, oltreché la valorizzazione di Teofrasto che precorre la
riscoperta di quest’ultimo avvenuta negli anni Sessanta del Novecento.

Gli studi che compongono questo volume sono conservati nell’Archivio


Giorgio Colli presso la Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori di Milano
secondo le seguenti e rispettive segnature:
– Anima e immortalità in Empedocle è classificato nella Serie: Opere, scritti,
appunti –sottoserie: 1935-1945 (07, fase. 010), ed è costituito da 17 fogli
3
dattiloscritti. Delle tre stesure esistenti si è scelto di trascrivere la seconda,
l’unica che sul frontespizio reca una data (15/11/1939) e che risulta completa,
vale a dire revisionata e corredata del testo greco, rispetto alle altre due che si
presentano invece come bozze di lavoro.
– Le dispense relative alle lezioni su Empedocle sono classificate nella
Serie: Corsi universitari 1948-1978 (23, fase. 001), e sono formate da 138
pagine dattiloscritte.

La presente edizione è stata condotta, in accordo con l’editore, rispettando lo


stile delle curatele che Enrico Colli ha realizzato degli scritti inediti del padre,
adottando cioè nelle note il suo metodo occorrenziale che attraverso i rimandi
fra gli scritti mira a favorire la comprensione di nodi teoretici, tematici e della
loro genesi.
I due studi pubblicati in questo volume sono trascritti nella loro interezza: gli
unici interventi non segnalati hanno riguardato la punteggiatura, dove
necessario, e la correzione di alcuni tempi verbali, al fine di agevolare la lettura
e la comprensione. Proprio per consentire una più ampia leggibilità si è scelto
di porre le citazioni greche in nota e di inserire nel corpo del testo le traduzioni:
quelle non presenti nei dattiloscritti sono state recuperate da altre opere di Colli
e i pochi casi di traduzioni ex novo hanno tenuto conto dell’interpretazione
colliana. Per quanto riguarda le singole parole o espressioni in greco ripetute o
discusse da Colli, esse appaiono tradotte la prima volta, e quindi vengono citate
traslitterate o tradotte a seconda della loro rilevanza nel testo.

Nel congedarmi da queste pagine il mio ringraziamento va ad Antonio


Staude, che mi ha fornito una prima trascrizione parziale degli scritti qui
presentati, e a Chiara Colli Staude per l’attenzione con cui ha letto, insieme ad
Antonio, il presente volume. Va da sé che eventuali errori sono di mia
responsabilità.
Un ricordo indimenticabile serbo delle conversazioni fiorentine con Enrico
Colli e della sua generosa intelligenza.

ANIMA E IMMORTALITÀ IN EMPEDOCLE


Molti studiosi della filosofia greca hanno ritenuto irreconciliabili tra loro, o
addirittura antitetici, i due poemi di Empedocle: la scienza del poema Sulla
natura (Περὶ Φύσεως) e la religiosità delle Purificazioni (Καθαρμoί) non
possono secondo loro essere ricondotte ad una vera unità. Per ultimo, il
Wilamowitz ha ripreso questa tesi, portandola anzi alle sue estreme
i

conseguenze: il poema Perì phýseos è inspirato ad un completo materialismo e


non solo non attribuisce l’immortalità all’anima, ma neppure crede all’esistenza
di un’anima, non essendo gli uomini altro che l’incontrarsi e il dissolversi degli
elementi. Neppure nei Katharmoί viene ammessa un’anima secondo il
Wilamowitz: i daímones (δαίμoνες) che vi compaiono sono dèi nascosti negli
uomini e nelle piante, che rimangono loro estranei e non ne costituiscono

4
l’anima. Lo stesso autore inoltre, richiamandosi ad alcuni passi di Pindaro,
ricorda come in Agrigento fosse vivo il culto degli eroi, e ad esso vuole
riaccostare le dottrine esposte nei Katharmoí: anche la trasmigrazione delle
anime non sarebbe stata accolta da Empedocle nel suo significato proprio, ma
gli sarebbe servita soltanto a spiegare il cammino del daímon(δαίμων)
attraverso il mondo, sino al suo giungere nel regno degli eroi alle isole dei beati,
o per dirla con Empedocle, sino alla sua divinizzazione.
L’autorità dello scrittore richiede che questa tesi venga oppugnata a fondo.
Altrimenti la coerenza spirituale di Empedocle, e la sua stessa personalità
filosofica verrebbero ad essere seriamente scosse.
Già il Rohde aveva fatto osservare come non vi sia un contrasto insanabile
tra i due poemi, e come rispetto al problema dell’anima non sia vero che uno
non ne ammetta l’esistenza mentre l’altro la proclama immortale. Egli sostiene
invece che Empedocle ha una duplice concezione dell’anima: da un lato essa
j

viene considerata come pura composizione degli elementi, costituente in quanto


tale la personalità sensitiva dell’uomo e destinata quindi a perire, dall’altro
come individualità puramente spirituale ed immortale, ch’egli
chiamadaímon. Secondo il Rohde questa concezione è caratteristica della
filosofia greca, e trova i suoi sviluppi nelle dottrine psicologiche di Platone e di
Aristotele. Senonché l’interpretazione del Rohde presuppone che Empedocle
sia già arrivato alla distinzione tra materia e spirito. Che invece una tale
distinzione sia sconosciuta dai Presocratici in genere e quindi anche da
Empedocle è stato affermato dal Bignone, il quale ha fatto con ciò un gran passo
verso una comprensione più vasta dell’Agrigentino. In seguito a questa sua idea
il Bignone può affermare che «la dottrina fisica e la mistica di Empedocle, che
si completano in tanti punti, potevano stare l’una accanto all’altra nella teoria
dell’anima, senza che ne fosse realmente sentito il contrasto». Non solo, ma il
k

Bignone riporta il frammento 15 del poema Perì phýseos:

Nessun uomo sapiente queste cose nel cuore avrebbe potuto divinare:
fintantoché vivono quella che appunto chiamano vita,
fino ad allora sono, e presso di loro stanno miserie e beni,
prima invece di comporsi come mortali e <dopo > essere stati disfatti, allora
non sono alcunché. 1

e dà una dimostrazione, a mio parere convincente, che il passo si riferisca


l

all’esistenza di un’anima individuale prima della nascita e dopo la morte. Il che


costituisce già una notevole prova contro la tesi del Wilamowitz di un assoluto
materialismo del poema Perì phýseos.
Ricorderò infine l’opinione del Joël, secondo il quale non vi è materialismo
nel poema Perì phýseos, e gli elementi sono intesi misticamente come la
sostanza vitale del mondo. Egli può quindi dire che non vi è alcuna
contraddizione tra la dottrina degli elementi del poema Perì phýseos e quella
dell’immortalità dei Katharmoí: «derivano entrambe dal medesimo impeto
verso l’eternità, che da una parte si trova oggettivamente negli elementi,
5
dall’altra soggettivamente nell’anima». Soltanto partendo da una tale
2

interpretazione mistica di Empedocle si può giungere a scoprirne la coerenza e


l’unità filosofica e a mettere in chiaro lo spirito unitario che attraverso i suoi
due poemi anima la sua concezione dell’anima e dell’immortalità, senza
arrestarsi alla facile constatazione delle apparenti contraddizioni che
Empedocle, spinto dall’impulso poetico, lasciava nei suoi versi.

Esaurito così rapidamente l’esame delle varie opinioni sull’argomento, vengo


ora a svolgere il mio punto di vista, partendo proprio dal poema fisico. Dirò
anzitutto che è indubbio esista una differenza notevole tra i due poemi, ma che
questa differenza è tale da rispecchiare più che altro una mutata posizione
spirituale e non una radicale trasformazione di idee o, peggio ancora, un
atteggiamento serio di fronte ad uno divulgativo e convenzionale. Per parte mia,
propenderei a credere che questa diversità, più che altro di spirito, esistente nei
due poemi sia dovuta semplicemente al fatto ch’essi appartengono a due fasi
successive della vita di Empedocle. Dal momento però che uno studio completo
sul rapporto tra i due poemi esula dall’ambito che mi sono ora proposto, lascio
la questione in sospeso, accontentandomi di far notare come in contrasto
all’opinione del Diels e del Wilamowitz, che ritengono giovanile il poema Perì
phýseos, stia la fondata dimostrazione del Bidez, che lo riporta invece
m

all’ultima fase della speculazione empedoclea. Ad ogni modo, sia pure soltanto
3

per quel che riguarda la concezione dell’anima, cercherò di far vedere come il
pensiero fondamentale di Empedocle sia unitario: anzi, per far sì che meglio sia
controbattuta la tesi del Wilamowitz, dal poema Perì phýseos stesso, ch’egli
dice «pienamente materialistico», trarrò la prova che Empedocle crede
4

all’esistenza di un’anima e alla sua immortalità.


Empedocle è un mistico, e l’anima e il mondo sono per lui una cosa sola, così
come lo spirito e la materia. Possiamo quindi dire che egli tiene un duplice
atteggiamento nel guardare la realtà, uno soggettivo ed uno oggettivo, o per dir
meglio, uno poetico ed uno scientifico. Queste due posizioni sono per lui
complementari: sia che noi le troviamo riunite nello stesso frammento, sia che
le osserviamo disgiunte, dobbiamo sempre tenerle contemporaneamente
presenti per poter capire pienamente Empedocle. Questa caratteristica filosofica
di Empedocle è per me molto simile a quella che possiamo constatare in
Schopenhauer: numerosi raffronti tra i due filosofi ha già fatto il Bignone, ed io
potrei generalizzare questo giudizio e dire che la realtà vista nel suo aspetto
oggettivo è per Empedocle l’insieme degli elementi come per Schopenhauer la
volontà, che la realtà invece resa poetica e vista dal soggetto è il dinamismo
spirituale dell’Agrigentino allo stesso modo del mondo come rappresentazione
del filosofo tedesco. Da questo punto di vista ci si può rendere perfettamente
conto della differenza tra i due poemi di Empedocle: quand’egli scrisse il
poema Perì phýseos si sentiva più disposto a considerare la realtà
scientificamente, nello scrivere invece i Katharmoí era essenzialmente un
poeta.

6
Empedocle non usa, è vero, la parola anima (ψυχή), se non una volta
neiKatharmoí, e in un contesto non importante. Ciò non conduce però a
n

credere, come invece ha dedotto con leggerezza il Wilamowitz, che il concetto


di anima gli sia rimasto estraneo: se la parola psyché è adoperata soltanto dai
filosofi ionici (Eraclito la usa abbastanza frequentemente), ciò non vuol dire
che ai filosofi italiani sia rimasto sconosciuto, oltre che il termine, anche il
concetto. Teofrasto ci dice che per Parmenide la psyché
e il pensare(νoεῖν) sono la stessa cosa. Lo stesso si può dire di Empedocle, che
5 o

nella terminologia segue molto fedelmente l’Eleata: ad indicare l’anima egli si


serve delle espressioni pensiero, sentire, individualità (νóημα, ϕρoνεῖν,
ἦθoς). Egli dice al frammento 103:
6

tutte le cose per volontà del caso hanno un’interiorità. 7

Tutti gli esseri hanno quindi un’anima. Ma di che natura è quest’anima? A


ciò egli risponde genericamente nel frammento 107:

tutte le cose infatti in virtù di questi (gli elementi) armonizzandosi si


solidificano e prendono corpo,
e per mezzo di questi sentono e godono e soffrono. 8

Ogni anima non è che una certa composizione di elementi: l’individualità è


proporzione di elementi immortali, che pensa, soffre e gioisce. Dicendo questo
Empedocle è ad un tempo scienziato e poeta: scienziato perché gli individui da
un lato gli appaiono freddamente come una composizione di elementi secondo
un dato rapporto matematico, poeta perché egli sente l’essenza vitale di ognuna
di queste individualità, quella che noi chiameremmo anima e ch’egli chiama
invece sentire ϕρoνεῖν), e l’intuisce nel suo eterno significato poetico. Ma con
questo l’anima rimane ancora qualcosa di generico: una determinazione
maggiore rispetto all’anima dell’uomo ci dà il frammento 105:

Nutrito (il cuore) nei flutti del sangue che si scaglia incontro,
là dove è per lo più ciò che è chiamato dagli uomini principio di conoscenza:
infatti il sangue che sta attorno al cuore è negli uomini principio di
conoscenza. 9

Tutti gli interpreti hanno spiegato il passo materialisticamente. Anche il


Rohde, che pure ammette una duplice concezione dell’anima in Empedocle,
riferisce il frammento in esame all’anima mortale. Senonché
quest’affermazione dell’Agrigentino è al tempo stesso una constatazione
scientifica ed un’intuizione mistica: ciò che rivela che Empedocle non è un
materialista è l’aggettivo περικάρδιoν (che sta attorno al cuore). Egli non riduce
semplicemente il pensiero a materia, ma dà una specificazione a questa materia
che non è più scientifica, ma mistica: «il pensiero è per gli uomini il sangue che
sta intorno al cuore». Empedocle evidentemente parla così perché quando
7
intuisce la verità sente il suo petto pieno di un sentimento universale, sente in
modo particolare tumultuare in sé questo sangue intorno al cuore, e pensa che
appunto lì, nel suo cuore, sia racchiusa la verità delle cose, la loro essenza
ultima. È questo un pensiero comune del misticismo: così le Upanishad,
Giordano Bruno, Böhme e lo stesso Goethe ci dicono che la verità sta nel cuore,
è il cuore stesso.
Già da questo risulta, contrariamente a quanto crede il Wilamowitz, che l’idea
di un’anima fosse ben netta in Empedocle. Vediamo ora di determinare meglio
questa concezione, di chiarire le qualità di quest’anima e se essa sia o no
immortale. Faccio osservare che nel frammento esaminato poco sopra
Empedocle, pur enunciando una teoria valida per l’anima umana in genere,
parla in fondo, come tutti i mistici, della propria anima. Diventa dunque
interessante il sapere se egli faccia una distinzione di dignità e di durata tra
l’anima degli uomini mediocri e quella dei conoscitori. A questo proposito
riporto i versi 3-4 del frammento 2:

Avendo raccolto nella loro vita una piccola parte di vita


individui dal breve destino, subito alzatisi come fumo dileguano. 10

Qui Empedocle parla evidentemente di uomini mediocri: dal frammento


parrebbe che la loro anima sia mortale o tutt’al più perdurante nel modo
omerico. Parlando invece di se stesso, egli si proclama dio ed immortale. Così
p

il verso 4 del frammento 112:

... Io sono per voi un dio immortale, non più mortale. 11

Anche nel poema Perì phýseos troviamo la stessa dichiarazione:

... la parola che viene dalla divinità ascoltando. Da questi passi risulterebbe
q

una duplice concezione dell’anima, ciò che è chiaro anche dal frammento 2 già
citato:

... tu per altro, poiché ti sei staccato qui presso di me,


saprai, non più comunque di quello cui può giungere la mente mortale. 12

Empedocle insegna qualcosa agli uomini che è inconoscibile alla loromente


mortale: vi è una differenza sostanziale tra l’anima degli uomini e la sua, che
13

sola conosce il vero ed è immortale. Anche il Rohde parla di una duplice


concezione dell’anima in Empedocle, spiritualistica e materialistica: io parlerei
piuttosto di un’anima divina e immortale del conoscitore e di un’anima
dell’uomo mediocre che sembrerebbe invece mortale e riscontrerei in entrambi
i poemi questa concezione. Ma questa distinzione non è così netta come
potrebbe a prima vista apparire, perché i Presocratici in genere vedono la realtà
come qualcosa di continuo, di ξυνóν, ed Empedocle ammette dei passaggi tra
l’umano e il divino, tra l’immortale ed il mortale, come già aveva fatto
8
Eraclito. Se esaminiamo per esempio il concetto di mortalità in Empedocle,
r

vediamo che tutto il suo sistema filosofico è basato su di un riconoscimento di


eternità a tutte le cose e che il termine «mortale» è da lui adoperato in senso non
convenzionale. Questo risulta già chiaramente dai frammenti 8, 9, 11 e 12, cioè
da tutta la sua polemica, in stretto stile e spirito parmenideo, contro la realtà di
un nascere e di un morire. Ma Parmenide attraverso la sua critica al divenire
giungeva a negare ogni realtà a tutti gli esseri individuati. Il passo capitale di
Empedocle invece consiste nel negare il concetto del divenire concedendo al
tempo stesso realtà agli individui: ne viene che in un certo senso ogni
individualità è immortale. Il verso 14 del frammento 35 dice:

subito nascevano quelle cose mortali che prima avevano imparato di essere
immortali. 14

Ciò che «ha imparato» ad essere immortale non potrà mai più dimenticarsene,
per la necessità della sua stessa natura. L’improprietà stessa dell’espressione
«ciò che era immortale divenne mortale» dimostra che Empedocle parla qui
convenzionalmente: la parola stessa le cose mortali(θνητά) è da lui usata come
termine tradizionale e non nel suo senso proprio, perché le cose thnetá non sono
che particolari atteggiamenti degli elementi immortali, che fra breve vedremo
avere una loro realtà ed eternità. Ad ogni modo diversa dev’essere l’eternità di
quegli individui, che egli tradizionalmente dice «mortali», da quella degli dèi-
elementi o di Empedocle come dio: del resto poco sopra abbiamo a questo
proposito parlato di una duplice concezione dell’anima. Un chiarimento su
questo punto ci dà il verso 35 del frammento 17:
diventano ora queste ora quelle cose e continuativamente sempre uguali. 15

Il Diels traduce ὁμoῖα «qualcosa di simile», il Bignone più giustamente


16

«uguali». Non si è finora notato come in questo verso sia già contenuta
pienamente la dottrina cosmica dell’«eterno ritorno» di Nietzsche. Ogni cosa
17

singola ritornerà eternamente uguale a se stessa (si noti l’espressione


rafforzata continuativamente sempre ). 18

Tutti gli individui sono destinati a perire, quando si sciolga il composto di


elementi da cui sono formati, e a questa sorte non sfuggono neppure gli dèi, che
vengono chiamati dalla lunga vita (δoλιχαίωνες) in fr. 21, v. 7 e in fr. 23, v.
9. Ma essi tutti sono al tempo stesso immortali perché il ciclo della vita che nel
19

suo procedere causa la loro morte ritorna eternamente su se stesso e li


ricostituisce eternamente nella loro identica individualità. Così ogni
individualità è immortale, e proprio partendo dal punto di vista del poema
fisico: non vi è quindi contraddizione con i Katharmoí. L’uomo mediocre però
ha per così dire un’immortalità limitata, in quanto vive sì eternamente, ma un
attimo alla volta (ὠκύμoρoι-individui dal breve destino del fr. 2 ecreature di un
giorno-ἐϕημερίoισιν del fr. 3, v. 4), e manca quindi di continuità. Ma
Empedocle si proclama immortale (ἄμβρoτoς) e non soltantodalla lunga
vita (δoλιχαίων): la sua quindi è immortalità nel senso vero della parola. Allo
9
stesso modo gli elementi sono eterni oltre che per il ciclo, anche in tutta la
durata del ciclo. Quindi il compito dell’uomo superiore, del conoscitore, è di
vivere per uno spazio quanto può lungo, di essere un arco più ampio possibile
nella circonferenza della vita per essere eterno in modo continuo, come gli
elementi. Diverrà così il vero superuomo, che ha una dignità divina pari a quella
degli elementi, diverrà l’individualità conoscitiva per eccellenza, che interpreta
e dà un significato al mondo.
Ma perché soltanto Empedocle, soltanto il conoscitore deve essere veramente
immortale, mentre gli altri uomini sono destinati in breve tempo a perire e non
partecipano che a una forma condizionata di immortalità? Per capire questo
bisogna che ritorniamo a studiare il modo che ha Empedocle di concepire
l’anima, cercando di penetrare più addentro nei particolari. Abbiamo visto
prima che l’anima considerata oggettivamente non è altro che il sangue: su che
cosa sia più intimamente il sangue ci informa il frammento 98:

La terra si incontrò in rapporto quasi uguale con questi,


cioè con Efesto, la pioggia e l’etere sfavillante ormeggiandosi nei perfetti
porti di Cipride se di poco prevalse. Sia poi maggiore o minore il rapporto
da questi elementi si formarono il sangue e le forme degli altri tessuti
(unificanti) carnosi. Il sangue, ossia l’anima, non è altro che la composizione
20s

dei quattro elementi e di Afrodite. Non solo, ma questa composizione tende ad


essere in parti uguali. Senonché ogni anima rappresenta evidentemente
un’individualità: ora il sangue non può essere uguale in tutti gli uomini, non
può essere composto dagli elementi in un rapporto costante di uguaglianza,
perché altrimenti non vi sarebbe più alcuna distinzione tra gli individui. Questa
difficoltà è risolta dal pressappoco(μάλισταa) del verso 1: il rapporto è
soltanto pressappoco uguale. Ancora più esplicitamente il verso 4 indica come
variabile il rapporto di Afrodite con gli altri elementi. Ogni individualità
corrisponde quindi ad una diversa composizione del sangue. In che cosa dunque
si distingue l’anima del grande individuo, come dev’essere il suo sangue?
Riportiamo al riguardo un passo molto importante di Teofrasto, rimasto sinora
quasi inosservato: «Quelli, dunque, nei quali la mescolanza è di particelle eguali
e simili, non troppo distanti tra loro e neppure troppo piccole o troppo grandi,
costoro sono quelli che conoscono di più e che hanno le sensazioni più acute;
vengono poi quelli che, in proporzione, sono più vicini a questi, mentre quelli,
nei quali la mescolanza ha caratteri opposti, sono i più ignoranti».21t

L’uomo superiore, colui che potremmo chiamare il dio conoscitivo, ha quindi


l’anima formata dagli elementi e da Afrodite, in parti perfettamente uguali. Se
osserviamo bene quest’anima troviamo che essa è la stessa cosa
dello Sphaîros (Σϕαῖρoς), anche questo non è altro che la composizione dei
quattro elementi e di Afrodite in uguale rapporto. Lo Sphaîros e il dio
u

conoscitivo hanno dunque la medesima individualità: la loro differenza non è


che quantitativa. A conferma di ciò si veda il verso 3 del frammento 98 citato
poco sopra:

10
ormeggiandosi nei perfetti porti di Cipride. 22

La parola ormeggiandosi (ὁρμισθεῖσα) accenna ad una staticità che è propria


dello Sphaîros e l’espressione nei perfetti porti richiama ad un concetto di
23

compiutezza e di perfezione che Empedocle non suole attribuire se non


allo Sphaîros. In questo modo diventa anche sotto un altro aspetto più chiaro
l’intero sistema empedocleo. Dal complesso dei frammenti non risulta vi sia
un’altra entità che abbia un’importanza cosmica e una dignità pari a quella dei
sei princìpi, se non lo Sfero. Ma la divinità e la perfezione delloSphaîros poteva
apparire limitata se esso era destinato a perire quando in lui penetrasse l’Odio
(Nεῖκoς): con la concezione invece del dio conoscitivo, che ha la sua medesima
natura ed individualità, anche lo Sphaîros ottiene la sua immortalità attraverso
tutti gli altri stadi del ciclo cosmico. Il conoscitore viene quindi ad essere come
un piccolo Sphaîros, un microcosmo di verità. Non è però naturalmente una
coincidenza totale quella tra lo Sphaîros e il dio immortale (θεὸς ἄμβρoτoς),
perché lo Sphaîros annulla in sé il mondo intero e tutto quanto lo comprende,
mentre il filosofo ha in sé lo Sphaîros e fuori di sé il mondo in preda al Neîkos,
ed è appunto la suprema individualità conoscitiva in quanto può stabilire un
rapporto tra la realtà perfetta interna e l’esterna imperfetta.
Siamo ora in grado di ricostruire nella sua complessità la concezione
dell’anima di Empedocle. Ogni anima, ogni individualità non è altro che una
data composizione degli elementi, secondo una certa
proporzione. L’individualità in genere è instabile, e questa sua instabilità è ciò
v

che Empedocle dice mortalità. Le uniche individualità stabili sono o gli


elementi separati, l’acqua da sola per esempio, che non tende a nessuna altra
cosa, sufficiente a se stessa nella sua solitudine (stadio in cui trionfa l’Odio),
oppure la perfetta commistione di tutti gli elementi (stadio in cui trionfa
l’Amore,Sphaîros e dio conoscitivo). Le altre individualità sono invece instabili
in duplice modo, sia cioè per la tendenza che ha ogni elemento ad isolarsi nella
sua universalità, sia per la tendenza dell’Amore (Φιλία) allo Sphaîros, a
confondere cioè gli elementi in parti uguali e tutti insieme. Così per esempio i
frammenti 57 e 61 accennano a un primo stadio di formazione di individualità,
stadio che Bignone assegna al periodo che conduce allo Sphaîros. Queste
individualità primitive sono instabili, sono colli e schiene vaganti che tendono
a riunirsi, spinti dalla Philía, che tendono quindi a perire quali individualità per
dar luogo ad altri individui più perfetti, in cui cioè la fusione degli elementi sia
più simile a quella dello Sphaîros. Questo processo di perfezione è già
progredito quando nascono gli uomini: la loro individualità è nel sangue, che è
il composto più perfetto in quanto lo costituiscono tutti gli elementi, in parti più
o meno uguali. Secondo il reciproco rapporto degli elementi nel sangue si
distinguono gli uomini grandi dai mediocri: nei primi il sangue è un micro-
Sphaîros, negli altri invece il sangue è composto di elementi in quantità
diseguale. Quest’ultima forma di individuazione è dunque ancora instabile,
perché gli elementi tenderanno a disgregarsi, e questo giustifica perché
Empedocle dica mortali gli uomini in generale. Il conoscitore invece, che ha il
11
sangue equamente composto, sarà immortale: ma la Philía agisce ancora in lui,
tende ad espanderlo ed aumentarlo ancora. La sua individualità è ormai
immortale, ma può ancora potenziarsi in se stessa. Empedocle lo dichiara anzi
espressamente che la personalità è qualcosa che tende ad aumentarsi e ad
accrescersi:

l’interiorità degli uomini si potenzia secondo la realtà contigua. w24

Questo potenziamento interiore dell’anima e in genere la formazione della


spiritualità dell’uomo superiore è chiarita inoltre dal fr. 110:

Se infatti fissandoti con slancio profondamente nella tua densa interiorità


ispirato contemplerai i princìpi con pura ansia essi tutti ti saranno avvinti per
l’eternità.
E molta altra ricchezza conoscitiva, da questi, acquisterai: rimanendo uguali
infatti essi si potenziano in ogni individualità, secondo l’intima natura di
ciascuno. 25

Se invece ti volgerai alle preoccupazioni dei mortali:

tosto nel ciclo del tempo i princìpi ti abbandoneranno,


bramando di giungere alla loro propria stirpe; sappi infatti che tutti hanno
un’interiorità e una parte di conoscenza. 26

I princὶpi (σϕ᾽) del verso 1, oggetto di contemplazione (ἐπoπτεύσεις), non


indicano, come vogliono il Diels e il Bignone, «le dottrine del maestro» bensì
gli elementi (Th. Gomperz) . Infatti i vv. 8-10 si riferiscono evidentemente agli
27

elementi, e dal contesto del frammento risulta che il soggetto essi tutti del v.
x 28

3 è lo stesso che ritorna nei vv. 8-10.y

Notevoli sono poi i verbi usati nei primi versi: epopteýseis è un termine
mistico che significa contemplare nell’estasi sino a coincidere con l’oggetto
contemplato, e parésontai ha il senso di essere presente, di appartenere. Il
conoscitore nel contemplare le verità, cioè gli elementi, se ne impadronisce, li
fa propri, li fa entrare in sé, li compone in modo perfetto. La sua anima
raggiungerà così, per mezzo della conoscenza, una stabilità perfetta nella sua
composizione, e questo «per tutto il tempo (δι᾽ αἰῶνoς), come giustamente
traduce Bignone, ossia per l’eternità. Non solo, e qui sta il particolarmente
interessante del frammento, ma altre verità, altre quantità di elementi dovrà
acquistarsi con i propri sforzi: «e molta altra ricchezza conoscitiva, da questi,
acquisterai». Egli riunirà in armonia e composizione perfetta gli elementi,
29

formerà un micro-Sphaîros potenziantesi eternamente, farà una fusione delle


coscienze singole degli elementi in una coscienza sovrumana del mondo. Se 30

invece si comporterà diversamente il composto che costituisce la più alta anima


e la più alta intuizione si romperà ed ognuno degli elementi se ne tornerà alla
propria stirpe, dove lo spinge la sua coscienza particolare. Dice il verso 10:
«sappi infatti che tutti hanno un’interiorità e una parte di conoscenza». Esso si
31

12
riferisce agli elementi e particolarmente al loro stato di isolamento di cui parla
il verso precedente. Per questo Empedocle dice che essi hanno soltanto una
parte di pensiero: infatti «tutto» il pensiero appartiene unicamente
all’individualità conoscitiva. Questo ultimo verso non si giustificherebbe
all’infuori della mia interpretazione: non si capirebbe per esempio perché si
debba parlare di interiorità senziente (ϕρóνησις) a proposito degli elementi.
Da questo frammento risulta che la conoscenza non è qualcosa che si acquista
d’un tratto, ma un lungo cammino, la forma suprema di vita, che si protrae oltre
i limiti dell’esistenza terrena: «rimanendo uguali infatti essi si potenziano in
ogni individualità, secondo l’intima natura di ciascuno». L’espressione
32

potrebbe parere sovrabbondante, ma tale non è in effetti se si tiene presente il


duplice atteggiamento di Empedocle di fronte alla realtà: dei due sinonimi
individualità (ἦθoς) e intima natura (ϕύσις) il primo si riferisce al punto di vista
soggettivopoetico (cfr. l’eracliteo «L’éthos è per l’uomo un dio»), il secondo
33

invece a quello oggettivoscientifico.


Il micro-Sphaîros tende a divenire Sphaîros: senonché vi è evidentemente un
limite oltre il quale gli altri composti corporei che costituiscono l’uomo non
reggono di fronte all’espansione della più intima essenza corporeo-spirituale,
del sangue che ha la struttura dello Sphaîros. L’uomo allora perisce: di qui si
spiega la personalità tragica di Empedocle.
La stabilità di un composto, la sua forza di coesione direi quasi, è ciò che
determina la sua durata. Così per esempio un composto costituito da due soli
elementi di cui uno in grande prevalenza è instabilissimo: l’elemento prevalente
cercherà di raggiungere la sua stirpe e di rompere quindi l’individualità, oppure
il composto nel suo complesso tenderà ad aggregarsi ad un altro che contenga
gli elementi ad esso mancanti. Avvenuto il mutamento, l’individualità, il
composto perisce in quanto tale, dando luogo ad uno differente: la sua
immortalità è salvata solo dall’eterno ritorno. Dove invece la coesione è grande,
dove cioè gli elementi sono tutti o quasi tutti presenti in un solo composto,
l’individualità non tende a disgregarsi bensì ad attrarre a sé altri composti, altre
quantità di elementi, in modo di fare di se stessa il centro semplice di
individualità complesse, che rimane sempre uguale mentre quelle le nascono e
muoiono intorno, e che si potenzia sempre più quantitativamente pur rimanendo
immutata la sua struttura qualitativa.
Queste individualità perduranti sono quelle che Empedocle chiamadaímones:
qui si dimostra la perfetta coerenza tra il poema fisico e iKatharmoí. Senonché
neppure i daímones durano eternamente: il frammento 115 al v. 5 dice che essi
hanno una vita di lunga durata (μακραίωνoς), ma non eterna, e questo si spiega
per la necessità cui soggiacciono tutte le individualità di tendere ad una sola
suprema, di dover alla fine perire per dar luogo allo Sphaîros. I daímones sono
composizioni molto stabili degli elementi, ma neppur essi hanno in sé i princìpi
delle cose in quantità uguale e proporzione perfetta: è questa loro differenza
qualitativa, sia pure anche minima, che ne fa delle individualità simili ma pur
sempre distinte (cfr. quanto abbiamo detto sul málista del v. 1 del fr. 98: esso
si riferisce veramente al sangue, ma il sangue è pensiero e non altro che pensiero
13
sono i daímones). L’uomo tendendo alla verità trae fuori dall’intimo di se stesso
il suo daímon e lo accresce facendolo diventare prevalente: si accosta poi ad
altri uomini dicendo loro la verità ed accrescendo nell’anima di essi il
loro daímon. Tutti idaímones aspirano in qualche modo alla verità, tutti
tendono a diventare dèi. Alla fine, quando l’individualità- daímon avrà prevalso
su tutte le altre individualità che le sono congiunte e che formavano assieme ad
essa l’individualità complessa «uomo» nasceranno degli dèi: «di qui emergono
dèi eccellenti per onore».34

I daímones che divengono dèi sono molti: così come lo è Empedocle lo può
diventare anche Pausania, se segue i suoi insegnamenti. Ma la verità è una sola,
come una sola è l’individualità suprema, lo Sphaîros. Quindi vi è ancora
qualcosa di instabile nei daímones-dèi, ed anche essi debbono perire per dar
luogo all’unico dio veramente reale.
Si comprende ora appieno il significato della metempsicosi in Empedocle. La
metempsicosi è il cammino completo del daímon sino alla sua divinizzazione,
attraverso tutte le individualità complesse che si formano e si sciolgono attorno
a lui. Dice il frammento 117:
Perché già una volta io sono stato fanciullo e fanciulla
e arbusto e uccello e muto pesce che guizza dal mare. 35

Nel cespuglio e nell’uccello vi era già il daímon, ma la sua individualità


stabile scompariva quasi, congiunta com’era a tutti i composti instabili che
formano in modo preponderante il cespuglio e l’uccello. Il daímon va poi
potenziandosi successivamente nel fanciullo (κoῦρoς) e nella fanciulla(κóρη),
e diventa infine dio in Empedocle. Da questi due versi inoltre viene individuato
poeticamente il daímon di Empedocle: egli è già stato fanciullo e
fanciulla perché sempre si è avvicinato a giovinetti e a fanciulle per educarli e
sempre è stato con loro in intimità, è già stato muto pesce che guizza dal
mare perché nei pesci ha sempre ammirato il silenzio di chi ha in sé delle verità
36

inesprimibili, è stato uccello perché l’eroismo l’ha fatto volare verso l’etere. Il
cammino invece del daímon nel frammento 146:

Alla fine veggenti e cantori e medici


e signori tra gli uomini abitatori della terra si trovano,
di qui emergono dèi eccellenti per onore. 37

è probabilmente diverso da quello seguito dal daímon di Empedocle, meno


poetico direi, più adatto forse a Pausania. Si può anche dire che Empedocle
creda il suo daímon più elevato di quello esistente ad esempio in Pausania: il
suo è anzi il daímon perfetto, assolutamente uguale nell’individualità
allo Sphaîros, mentre gli altri si avvicinano soltanto ad una tale struttura, e sono
tutti destinati a perire. Questo daímon massimo è l’unico che non venga meno
quando si forma lo Sphaîros: ad ogni modo il suo carattere subisce una
trasformazione, pur rimanendo immutato nella sua essenza. Egli non è più
un’individualità attiva nella sua conoscenza per il fatto di aver fuori di sé
14
altri daímones con cui entrare in rapporto o di poter guardare un mondo in cui
sia commisto l’Odio a paragone dello Sphaîros che ha dentro di sé ma è un
contemplatore incosciente che non sente più nulla all’infuori di sé, neppure
il Neîkos che sta intorno alla sua sfera e di cui egli nella sua beatitudine si è
dimenticato.
La metempsicosi però non è solo dei daímones: vi sono altre individualità
che, pur senza avere la loro stabilità, sono fatte in guisa da attrarre individualità
minori, rimanendo immutate mentre queste nascono e muoiono, e dando quindi
luogo alla metempsicosi. A questo fenomeno mi pare debba riferirsi il
frammento 127:

Tra gli animali selvaggi leoni che hanno il loro riparo sui monti e dormono
in terra
diventano, e allori tra gli alberi dalla bella chioma.38

che non sembra riferirsi ad una trasmigrazione di daímones.

EMPEDOCLE

I
FONTI INDIRETTE

a. Aristotele

È opportuno iniziare l’esame critico della filosofia di Empedocle con lo


studio delle fonti indirette, cioè delle testimonianze sulla sua dottrina dedotte
da opere di filosofi o storici antichi. Tale studio è essenziale, dato che,
nell’estrema frammentarietà di quanto ci è tramandato come testualmente
empedocleo, l’interpretazione complessiva di quel pensiero è ancora oggi legata
strettamente all’antica tradizione storiografica. Ci limiteremo a trattare il
problema nelle sue radici, esaminando le testimonianze fondamentali degli
autori più antichi e più rilevanti. Lasciando da parte le scarse notizie di Platone,
il cui valore come fonte storica è troppo incerto, le fonti più antiche rimangono
Aristotele e Teofrasto. 39

Aristotele ha per primo esposto e criticato sistematicamente il pensiero dei


filosofi a lui anteriori. Le sue testimonianze e le sue interpretazioni sono così
divenute il fondamento di tutta la posteriore trattazione storica della filosofia
presocratica, non soltanto nell’antichità, ma si può dire sino ai giorni nostri.
L’interpretazione ilozoistica e naturalistica dei filosofi presocratici, ancora oggi
dominante, deriva sostanzialmente da lui. In queste condizioni,
l’approfondimento critico del valore di Aristotele come storico della filosofia
porta con sé un giudizio su tutta quanta la storiografia che da lui dipende; nel

15
caso che tale giudizio debba essere negativo, sgombra la strada ad una diversa
comprensione dei Presocratici, nel nostro caso di Empedocle.
Le testimonianze di Aristotele su Empedocle sono numerose: sceglieremo le
più importanti, e in genere quelle riferentesi ai princìpi filosofici basilari. Non
si potrà sviscerare il problema, dato che tali testimonianze si connettono
all’interpretazione generale di Aristotele sui presocratici. Anche quest’ultima
dovrà essere affrontata, ma necessariamente non indagata compiutamente. Il
materiale a disposizione di Aristotele era vasto, a quanto si può arguire
dall’ampiezza delle sue notizie e dalle sue citazioni numerose. Nonostante ciò
la sua infedeltà come storico è già stata frequentemente rilevata dalla critica
moderna. Per ricordare solo qualche esempio, basta pensare allaCostituzione
degli Ateniesi (Ἀθηναίων πoλιτεία) le cui fonti di scarso valore e partigiane
hanno un valore storico assai limitato, o parecchi suoi giudizi sulla filosofia
platonico. z

Passiamo ora all’analisi dei più importanti passi aristotelici riguardanti la


filosofia di Empedocle. Riferendosi ai princìpi di tale filosofia, Aristotele dice:

 1) Metaph., 984 a 8 sgg.: «Empedocle, aggiungendo la terra ai già


detti elementi [cioè acqua, aria, fuoco], sostiene ve ne siano quattro, che
permangono eternamente e non divengono se non unendosi e
separandosi, per variazioni quantitative, verso l’unità e dall’unità». Il
40

passo non ha nulla di particolarmente notevole, se non l’espressione


finale, che, come si vedrà meglio in seguito, fa rientrare il sistema
41

empedocleo nella generale impostazione monistica della filosofia


presocratica.

 2) Metaph., 1069 b 22 sgg. [Aristotele sta trattando dell’essere in


42

potenza-δυνάμει ὄν]: «E questo è l’uno di Anassagora – è meglio infatti


dire così che non il caos – e la mescolanza di Empedocle e di
Anassimandro». Il senso è indubbio ed il voler supporre il testo corrotto,
43

come hanno fatto Schleiermacher e Lütze, è pura arbitrarietà. Notevole


è l’interpretazione monistica, estesa qui oltre che a Empedocle, ad
Anassagora; si ha qui un esplicito parallelo tra la filosofia di Empedocle
e quella ionica. All’identificazione con ildynámei ón del principio di
questi filosofi presocratici non è certo data grande importanza da
Aristotele: essa gli è venuta in mente come osservazione incidentale,
come diversivo. Ci si può tutt’al più domandare come faccia Aristotele
ad indicare senz’altro il dynámei óncon la mescolanza (μῖγμα). A ciò
contribuisce a rispondere il terzo passo:

 3) Phys., 187 a 20-23: «gli altri invece dicono che fuori dall’uno
44

vengono separate le contrarietà in esso presenti, come asseriscono


appunto Anassimandro e quanti poi affermano che esistono uno e molti,
per esempio Empedocle e Anassagora: anche costoro difatti sostengono
che le altre cose si separano dalla mescolanza». Questo passo è assai
45

16
importante per la ricostruzione storica della filosofia presocratica. Forse
perché qui si sente storico fedele, Aristotele evita di stabilire nuovamente
un parallelo con la propria dottrina. Ritroviamo, come nel passo
precedente, il riassestamento monistico tra Anassimandro, Empedocle ed
Anassagora. Lo Zeller ha voluto vedere in anche costoro (καὶ oὗτoι)
un’opposizione ad Anassimandro, al quale non sarebbe quindi
applicabile l’uno e i molti (ἓν καὶ πoλλά). Ciò non è per altro possibile:
evidente è la stretta connessione dianche costoro con dalla
mescolanza (ἐκ τoῦ μίγματoς); l’ultima frase sarebbe perfettamente
oziosa se non significasse un’estensione del mîgma ad Empedocle ed
Anassagora. Del mîgma a dire il vero non si era parlato a proposito di
Anassimandro, ma l’espressione «fuori dall’uno vengono separate le
contrarietà in esso presenti» gli equivale senza dubbio nelle intenzioni
46

di Aristotele. Pensare che l’esistenza dei contrari in seno all’unità sia qui
considerata potenziale significa far dire troppo ad Aristotele: il «vengono
separate le contrarietà in esso presenti» dice chiaramente l’opposto.
47

Nella frase «fuori dall’uno ... le contrarietà in esso presenti» è spiegato


48

il valore dato da Aristotele a mîgma: si tratta di un concetto mistico, di


qualcosa che è al tempo stesso unità e molteplicità. Lo Stagirita poteva
vedervi un antecedente alla sua dottrina, poiché quel qualcosa non era
decisamente né unità né molteplicità, pur racchiudendole entrambe. Ad
Empedocle ed Anassagora poi egli attribuisce l’uno e i molti e siccome
potrebbe sorgere il dubbio che presso di loro l’uno e i molti fossero
considerati coesistenti esteriormente l’uno accanto agli altri, egli si
affretta a precisare nella frase successiva che anche qui i due termini sono
da intendersi congiunti nel mîgma. Cadono in tal modo le pretese
divergenze tra i due passi aristotelici: in entrambi è chiara l’immediata
attribuzione del mîgma ad Anassimandro.

 4) Metaph., 1053 b 15 sgg.: «Tra quelli l’uno dice che l’Uno è


49

l’amore, l’altro che è l’aria, l’altro ancora che è l’indeterminato». Il 50

primo caso prospettato si riferisce evidentemente ad Empedocle; l’unica


difficoltà sta nell’apparente contraddizione tra questo passo che sembra
identificare il principio unitario di Empedocle, l’Amore, con un
elemento, e i passi precedenti, che l’identificavano con
lo Sfero(Σϕαῖρoς). La cosa più probabile è che Aristotele abbia voluto
intendere con Amore (Φιλία) lo stadio cosmico in cui per l’appunto
trionfa la Philía. Ammettendo ciò si avrebbe in questo passo una nuova
conferma della suddetta interpretazione monistica. In caso contrario si
dovrà vedervi un’incomprensibile quanto superficiale testimonianza. In
ogni caso il parallelo con gli Ionici è ribadito.

Anche a prescindere comunque da quest’ultimo passo incerto, esiste nelle


testimonianze citate con i numeri 2 e 3 una grave incoerenza interpretativa, cui
già si è accennato: mentre infatti Aristotele identifica in 2 il mîgma, cioè
17
loSphaîros, di Empedocle con il dynámei ón, esclude poi in 3 questa
identificazione. Ciò ci induce sin d’ora a pensare che nel riferire queste notizie
Aristotele non è mosso da una costante preoccupazione di obiettività storica. In
ogni modo, siano o no storicamente fedeli, i passi citati hanno rivelato anche
degli elementi comuni, che evidentemente Aristotele si preoccupa di mettere in
rilievo. Anzitutto l’unificazione interpretativa tra filosofi ionici, Empedocle ed
A nassagora; in secondo luogo il carattere monistico di tale interpretazione;
infine la distinzione tra lo stadio di unificazione e quello di separazione, che da
quello deriva come da una realtà superiore («unendosi e separandosi verso
l’unità e dall’unità» in 1, e «fuori dall’uno vengono separate le contrarietà in
51

esso presenti» in 3).


52

Ciò posto è indispensabile – per appurare l’attendibilità delle testimonianze


aristoteliche, per scegliere eventualmente le più obiettive, e in definitiva per
aprirci la strada verso una comprensione della filosofia empedoclea – esaminare
i passi riferentesi alla filosofia presocratica in generale, da cui soltanto i passi
citati possono essere chiariti. Il punto cruciale a questo fine è secondo noi
rintracciabile nella trattazione dell’infinito che ci dà il terzo libro
della Fisica. Qui anzitutto egli distingue nei suoi predecessori due
53

fondamentali concezioni dell’ápeiron: gli uni, cioè i Pitagorici e Platone,


l’avevano considerato come sostanza (καθ’ αὑιó), gli altri, invece, i fisici,come
predicato (κατὰ συμβεβηκóς), che viene attribuito ad un principio materiale (oἱ
δὲ περὶ ϕύσεως ἅπαντες ἀεὶ ὑπoτιθέασιν ἑτέραν τινὰ ϕύσιν τῷ ἀπείρῳ τῶν
λεγoμένων στoιχείων, oἷoν ὕδωρ ἢ ἀέρα ἢ τὸ μεταξὺ τoύτων). Lo Zeller per
aa

primo ha spiegato chiaramente come Aristotele sia giunto a quest’ultima


affermazione: concepire un ápeiron in sé, come sostanza e principio materiale
(e non altrimenti se non materiali egli vedeva iprincìpi –ἀρχαί – dei fisici), era
impossibile per la sua mentalità che congiungeva indissolubilmente corporeità
e limitazione, e d’altra parte scorgere in esso la propria materia (ὕλη) gli
sembrava spingersi troppo oltre. Noi traduciamo: «i fisici tutti quanti pongono
sotto all’infinito una natura diversa dai cosiddetti elementi, quale l’acqua,
oppure l’aria, oppure qualcosa di mezzo tra le due». Questa traduzione ci
sembra impeccabile qualunque poi debba risultare il suo contenuto, ed anche la
più naturale. Zeller ha visto le cose diversamente: cioè «tutti infatti pongono
come sostrato dell’illimitato un corpo elementare da esso diverso». Ci ab

chiediamo anzitutto perché, data la interpretazione zelleriana, vi sarebbe stato


bisogno di aggiungere diversa(ἑτέραν) a una natura (τινὰ ϕύσιν) che
costituisce il sostrato; non occorrono troppe spiegazioni per capire che il
soggetto è diverso dal predicato. Comunque poi la costruzione è dura,
dovendosi sottintendere il da esso diverso (von ihm selbst) . Non basta:
tradurre i cosiddetti elementi(τῶν λεγoμένων στoιχείων) come fanno lo Zeller
e altri è assolutamente ingiustificato. Con questa espressione Aristotele
54

intende sempre i quattro classici elementi, non scoperti da Empedocle, ma


appartenenti alla coscienza popolare greca: essi sono per lui il simbolo
dell’immediata apparenza fenomenica e dell’ingenua credenza di essa. Come si
18
possono chiamare così le omeomerie e gli atomi, cui Zeller estende il
riferimento, e soprattutto l’intermedio (μεταξύ) tra aria e acqua? Abbandonato
ac

lo Zeller, troviamo in Lütze un’altra interpretazione, basata su un nuovo


riferimento di diversa(ἑτέραν), riportato questa volta a ciò che precede.
Aristotele avrebbe cioè voluto rilevare l’antitesi tra la concezione dei fisici e
quella attribuita un momento prima ai Pitagorici e a Platone. Neppure a questo
modo però si eludono le difficoltà. In sostanza, costruendo rigorosamente, si
farebbe dire ad Aristotele che i fisici sottopongono all’ápeiron un sostrato
differente da quello datogli da Platone e dai Pitagorici, il che è una lampante
assurdità, non avendo questi ultimi filosofi attribuito alcun sostrato all’ápeiron,
dal momento che esso stesso è sostanziale. E se poi anche non si volesse
scegliere la costruzione più logica e nella parola in esame si vedesse
semplicemente un rilievo di Aristotele sulla diversità della sostanza dei fisici da
quella pitagorica e platonica, ricadremmo pur sempre in quanto abbiamo
obiettato prima allo Zeller.
L’infinito di cui si parla adesso non è diverso da quello dei Pitagorici e di
Platone, cambia la sua posizione nei sistemi ma esso rimane pur sempre per
Aristotele il concetto di infinito, che non ha nulla a che fare con la materialità.
Ora, come può egli pensare di distinguerlo dal sostrato corporeo dei fisici, se
tra le due cose non è neppur pensabile un rapporto, come può immaginare quale
termine di raffronto una natura (ϕύσις) in Platone, quando questa parola
significa per lui materialità? Assai notevole infine è il parallelo con un passo di
Teofrasto: «dice che il suo principio non è né l’acqua né alcuno dei cosiddetti
elementi, ma una certa altra natura indeterminata». Il significato della frase
55ad

non lascia adito ad alcun dubbio: la «certa natura» è differente dai «cosiddetti
elementi». Ritornando ora al passo aristotelico, osserviamo come il diversa, di
cui per l’appunto si è voluto cercare un riferimento più o meno forzato, vada
congiunto nel modo più immediato e naturale al genitivo dai cosiddetti
elementi.
Aristotele avrebbe cioè considerato principio (ἀρχή) di questi primi fisici, cui
attribuisce l’infinità, una certa natura diversa dai quattro elementi, natura
chiamata secondo i filosofi aria, acqua o qualcosa di mezzo. Ciò a prima vista
è difficile da comprendere, sorgendo spontanea la domanda perché mai
debbano rientrare in questo caso tra gli elementi l’acqua o l’aria. Si consideri
per altro che ad Aristotele i classici quattro elementi, condizionantisi l’un l’altro
come opposti, limitati e finiti, dovevano apparire ben diversi da un unico
sostrato corporeo dichiarato infinito, gli toccasse pure il nome di acqua o di aria.
Egli distingue due forme di materialità, una immediata, pura apparenza, oggetto
della nostra sensibilità, l’altra per contro, come l’aria di Anassimene, in qualche
modo diversa da quella comunemente da noi percepita. Aristotele non parla
infatti se non a mo’ di spiegazione dell’acqua e dell’aria: il termine introdotto
in posizione preminente è il generico phýsis. Ci troviamo di fronte alla
distinzione, altrove non sempre mantenuta, trastoicheîon e arché, in cui solo
quest’ultima è principio materiale non immediato ed efficiente ad un tempo.
Tutta la costruzione non è poi tanto arbitraria quanto a prima vista si direbbe;
19
Aristotele doveva ridurre in termini razionali quelle che erano originariamente
affermazioni mistiche. Avvicinandosi a questi Presocratici egli era anzitutto
colpito da due elementi: da un lato li vedeva trattare i loro princìpi non
altrimenti se non materialisticamente, dall’altro canto invece constatava che
essi avevano sostenuto l’esistenza dell’infinito. Tale contraddizione, che
avrebbe senza dubbio attratto un temperamento mistico, dava per contro del filo
da torcere a un logico. Aristotele risolse la questione dando all’ápeiron il valore
di attributo. Senonché il corpo infinito che risultava allora essere
lo stoicheîon non era già più ai suoi occhi materialità immediata; la costruzione
dei sistemi ionici si completa così per lui in una forma particolare di
trascendenza primitiva. A ciò era anche aiutato dalle parole stesse di quei
filosofi, secondo cui la realtà dell’arché è separata e diversa dall’apparenza
fenomenica.

Potrebbe lasciare sconcertati, dopo quanto si è detto, leggere un poco oltre in


questo capitolo della Fisica il passo 203 b 3-15, in cui Aristotele pare
contraddirsi nel modo più completo (e la stessa cosa già si era lasciata sfuggire
ingenuamente in 203 a 3). Egli dice: «ed è anche giustificato che tutti
considerino l’infinito come principio», spiegando poi che non può
56

esserviarché dell’ápeiron, altrimenti questo perderebbe la propria infinità:


dovrà quindi necessariamente essere stato esso stesso un’arché. E concludendo:
«difatti (l’infinito) è senza morte e senza distruzione, come asseriscono appunto
Anassimandro e la maggior parte degli indagatori della
natura». L’ápeiron sarebbe così d’un tratto ridivenuto sostanziale; ma lo
57

straordinario si è poi che mentre prima tutti i fisici avevano considerato


l’infinito come attributo, adesso con un’espressione equivalente si dice che «la
maggior parte degli indagatori della natura» (cfr. anche b 4) lo vedono anche
58

come arché.Tra questi sono compresi evidentemente Talete e Anassimene, il


cui principio dovrebbe quindi chiamarsi del pari ápeiron, prima ancora che
acqua o aria, e inoltre Empedocle e Anassagora, se ricordiamo il precedente
parallelo. Senonché, se procediamo un altro poco avanti, vediamo Aristotele
ritornare sui suoi passi: «... se poi l’infinito è predicato, non potrebbe essere un
elemento delle cose che sono...» (204 a 14-15) e decidersi: «l’infinito allora
59

esiste come predicato» (204 a 29). Orbene, non era stato per l’appuntocome
60

predicato l’ápeiron, quando anzitutto lo si era attribuito ai fisici? Questa sorta


di indovinello non è poi alla fine insolubile, e mostra ancora una volta quanto
oscillante sia il valore di Aristotele come storico. Il passo suddetto in 203 b 3-
15 sembra essere una confessione; se un fisico, come ad esempio
Anassimandro, ha parlato semplicemente dell’àpeiron, non si potrà certo
affermare che ne abbia voluto fare un attributo di qualcos’altro; se
l’ápeiron significa realtà mancante di confine (πέρας), non si potrà supporre
null’altro che lo preceda in dignità o lo limiti, anzi sarà esso, che è proclamato
l’arché, il principio di tutto il resto. Ma se dobbiamo riportare le dottrine di
questi antichi, pare dica Aristotele, in modo che pur nella loro ingenuità
conservino un qualche senso, non potremo restituirle nella loro veste espressiva
20
originale, e saremo costretti a tradurle secondo un’impostazione teoretica più
evoluta. Solo eccezionalmente cioè Aristotele si abbassa a una visuale storica;
da ciò è facile trarre una conclusione capitale per le nostre ricerche: doversi
logicamente presumere dinanzi ad ogni testimonianza aristotelica, così ad
esempio per il passo della Fisica discusso nel testo, un’intenzionale
trasformazione dell’originale.
Naturalmente si darà gran peso, quando essi compaiano, ai pochi sprazzi di
verità storica. Nel nostro caso, la frase «è anche logico e giustificato che tutti
considerino l’infinito come principio; non è infatti possibile che esso esista
invano...» è addirittura rivelatrice. Aristotele aveva appena terminato di
61

constatare il valore di attributo che ha l’ápeiron nei fisici e di riaffermare che


tutti quanti costoro mostrano grande interesse per il concetto di infinito. Da ciò
deriva il proprio desiderio di trattare un argomento tanto discusso, ed è «anche
logico e giustificato che tutti considerino l’infinito come principio; non è infatti
possibile che esso esista invano». Quindi in realtà i fisici avevano trattato
l’ápeiron come arché e non in quanto attributo, «né che a esso appartenga
un’altra possibilità se non come principio... Ed è anche logico e giustificato
62

che» ha evidentemente valore concessivo: Aristotele non si stupisce affatto che


63

quei filosofi siano giunti ad una simile conclusione, insostenibile invece per lui.
Qualcosa sta in contrasto a questa concessione, cioè il suo modo di vedere,
quale ha esposto prima e ritornerà fra poco. Non si può interpretare
diversamente Aristotele, a meno di supporre che qui vi sia la sua trasformazione
e prima per contro la testimonianza fedele sui fisici, dal momento che
l’opposizione fra i due passi è irriducibile. Questa seconda ipotesi non regge
però non appena si consideri che l’impostazione in 203 a 16-18 era basata
sul come predicato, il che non ci trasporta di certo in mezzo all’ambiente e al
modo di ragionare presocratico. E si legga invece avanti nell’altro passo. La
dimostrazione che l’ápeiron sia l’arché, se non proprio nelle parole, nello
spirito è profondamente presocratica (quasi quasi vedremmo in essa le tracce di
un primitivo ragionamento di Anassimandro, che si mostrerebbe così il vero
maestro di Parmenide). Poi Aristotele ricorda che questo infinito è ingenerato
e incorruttibile (ἀγένητoν καὶ ἄϕθαρτoν), e la cosa non ha per lui che scarso
interesse speculativo, contrariamente alla normalità delle sue testimonianze.
Questa fedeltà si accentua ancora in ciò che segue, dove si citano le parole stesse
di Anassimandro, «abbracciare ... governare» (accettate come tali dallo Zeller,
64

non invece dal Diels); e poi ancora, con espresso riferimento, «senza morte... e
senza distruzione». In conclusione, per quanto le nostre ricerche siano rivolte
65

in queste pagine a scoprire piuttosto il vero punto di vista di Aristotele, non sarà
certo inutile, anzi più prossimo al nostro scopo finale, l’aver determinato come
lo Stagirita ritenesse in estrema analisi di dover attribuire congiuntamente a
Talete, Anassimandro, Anassimene, Empedocle e Anassagora, prima ancora di
qualsiasi principio materiale, l’ápeiron quale essenza primordiale, nel caso ci si
volesse avvicinare il più possibile alle dichiarazioni ingenue di quei filosofi.
Riassumiamo adesso i nostri primi risultati. Attraverso l’analisi precedente si
scopre la ragione delle discordanze e delle varietà delle testimonianze.
21
Aristotele non si propone che raramente il compito di storico: in questo caso
identifica l’arché di tutti i fisici con l’ápeiron. Si è visto perché tale
dichiarazione (Phys., 204 b) debba essere considerata una testimonianza fedele.
La cosa non è stata vista, e getta una nuova luce sull’interpretazione
complessiva dei Presocratici. Certo, per quanto storica, questa testimonianza è
semplificativa. Aristotele tende a schematizzare e a ridurre a un principio
unitario le filosofie presocratiche che, per quanto ci risulta dai frammenti, non
avevano questa tendenza. Il fatto stesso di ridurre all’ápeiron tutti i sistemi
presocratici ci fa pensare che anche quando è storico Aristotele tende ad
unificare le diversità delle prospettive individuali. Quado vuol dare a questa
testimonianza storica una formulazione teoretica, Aristotele identifica
il mîgmacon il dynámei ón (Metaph., 1069), limitando la concezione ad
Anassimandro, Empedocle, Anassagora. L’ammettere questo non è gradito ad
Aristotele. Ancora più storico egli è in Phys., 187 a, dove si parla di uno e molti,
stadio dotato già implicitamente di una particolare trascendenza, di cui il
divenire, che si presenta come separazione dei contrari, significa quasi
l’esplicazione e lo sviluppo nel tempo. Queste testimonianze storiche sono però
in netta minoranza: il più delle volte Aristotele imposta secondo la sua struttura
teoretica le dichiarazioni divergenti dei Presocratici e giunge alle particolari
costruzioni interpretative del come predicato. Dato che i Presocratici tutti
parlano di ápeiron e che tutti d’altra parte si riferiscono a qualche principio
corporeo, non rimane che considerare il loro ápeiron come predicato, poiché
per Aristotele ogni corpo è limitato ed esso non può quindi avere un’infinità
sostanziale. Egli sceglie quindi in ogni Filosofo il principio materiale che ha un
maggior rilievo nei frammenti o nelle opere, gli attribuisce come predicato
l’ápeiron, gli mantiene quella particolare trascendenza materiale che vi ha
riscontrato come uno (ἕν) contrapposto al mondo deicosiddetti elementi,
dimenticando che si trattava di uno e molti, e viene così a costruire la tesi
del monismo ilozoistico, che è rimasta poi per sempre infissa negli storici della
filosofia posteriori come interpretazione fedele, mentre si trattava di una sua
costruzione. Per giungere a questa egli distingue due forme di materialità, l’una
il complesso fenomenico dei cosiddetti elementi, l’altra un solo elemento
corporeo, che per la sua infinità ha perduto l’immediatezza sensibile, ed è
chiamato phýsis, dotato di una trascendenza e costituente lo stadio al di là degli
elementi. In questo modo si è stabilito che nelle testimonianze sui Presocratici
la visuale storica è la trascendenza, l’infinità del principio, la coesistenza di
unità e molteplicità dell’arché, il divenire come riflesso di questa coesistenza
(tutte queste cose saranno però da dimostrare direttamente), e la costruzione
aristotelica è il monismo ilozoistico, l’infinito come attributo.
Confermiamo ora tale interpretazione con i passi principali che rimangono.
Lo stesso libro della Fisica dice poco oltre: «ma in verità neppure è possibile
che il corpo infinito sia uno solo e semplice, né in quanto il corpo infinito, come
dicono alcuni, sia ciò che è al di là degli elementi – ciò da cui costoro fanno
generare gli elementi – né in quanto esso sia semplicemente tale. Vi sono infatti
alcuni che così intendono l’infinito, e non già come aria oppure acqua, affinché
22
dal loro infinito non venga distrutto il resto; in questo senso difatti i corpi infiniti
hanno tra loro rapporti di contrarietà; per esempio l’aria è fredda, l’acqua poi è
umida, il fuoco invece è caldo: se uno di essi fosse infinito, il resto già
risulterebbe distrutto. Ma in tal caso dicono che il corpo infinito è qualcosa di
diverso, da cui deriva questo mondo. Ma è impossibile che esso sia così
costituito, non già per il fatto di essere infinito (su questo punto invero bisogna
dire qualcosa di comune, che valga ugualmente per tutti i casi, e per l’aria e per
l’acqua e per checchessia), ma per il fatto che al di là dei cosiddetti elementi
non esiste un corpo sensibile così costituito: in ciò da cui derivano, difatti, tutte
le cose anche si dissolvono, cosicché esso sarebbe allora al di là dell’aria e del
fuoco e della terra e dell’acqua. Ma non risulta che vi sia nulla. E non è davvero
possibile che il fuoco sia infinito, né che lo sia nessun altro degli elementi.
Infatti generalmente – e prescindendo dal fatto che uno degli elementi sia
infinito – è impossibile che il tutto, anche se fosse limitato, sia o diventi uno
solo degli elementi, come appunto afferma Eraclito, quando dice che in un certo
tempo tutte le cose diventano fuoco (e lo stesso discorso vale anche per l’uno,
quale i fisici stabiliscono al di là degli elementi): tutte le cose difatti mutano da
contrario a contrario, per esempio dal caldo al freddo». 66ae

Ci troviamo di fronte alla critica della concezione di un corpo infinito; si è


parlato del caso in cui questo corpo sia composto, ed ora si suppone uno e
semplice. Il passo presenta molti lati di interesse, che non sono stati però sinora
coordinati in una visione unitaria. Ci si è accontentati d’interpretare secondo
l’apparenza, senza penetrare nella stringatezza aristotelica. La prima cosa che
colpisce è la particolare espressione «ciò che è al di là degli elementi». Il Lütze,
67

che ha tentato l’unica interpretazione sinora degna di nota, crede di potervi


ritrovare il metaxý. Senonché
af è lecito osservare che la
preposizione pará (παρά) con l’accusativo, il cui significato normale è di
«accanto a», «neben», indica talora una contrapposizione, e prende allora il
senso di «oltre», «al di là», come per accennare ad una parentela e ad un’antitesi
di posizione. Notevole è inoltre il parallelo fra la frase suddetta e «una natura
ag

diversa ... dai cosiddetti elementi». L’interesse principale dell’autore ci sembra


68

nei due casi volto a rilevare una trascendenza; il «ciò che è al di là degli
elementi» è più sintetico ma viene rafforzato dal successivo «ciò da cui gli
elementi». Qualcosa da cui si dice derivino gli elementi non è evidentemente
69

posto sul loro medesimo piano. Aristotele vuol parlare anche qui
congiuntamente dei sistemi ionici, identificando l’elemento trascendente
nell’acqua, l’aria o il metaxý infiniti. L’indagine seguente cercherà appunto di
dimostrare che non si può intendere altrimenti il passo; da ciò risulterà tra l’altro
una nuova conferma alla nostra interpretazione di una natura diversa.Subito
dopo nel testo incontriamo «né in quanto semplicemente talpe», a torto 70

trascurato dai filologi. Il corpo infinito, dice Aristotele, non è ammissibile né


71

come «al di là degli elementi né in quanto semplicemente tale». Tradurre ad


72

esempio, seguendo il Carteron, «ni d’aucune manière», non è certo


soddisfacente. Si prospettano due casi di corpo infinito: il primo, secondo
l’opinione di Lütze, sarebbe il metaxý, per il secondo invece non si lascerebbe
23
pensare un’altra soluzione all’infuori di acqua, aria e fuoco. Troviamo anzitutto
strano che il caso del metaxý sia fatto precedere, mentre altrove in Aristotele
esso segue sempre le altre archaí, che in fondo debbono essere presupposte.
Quanto al secondo caso non si capisce perché Aristotele avrebbe dovuto
cavarsela con un generico «né comunque», trattandosi al contrario di qualcosa
ben determinato, e neppure molto lungo a dirsi, «né acqua, aria o fuoco».
Pensiamo di risolvere la questione dando ad haplôs(ἁπλῶς) un altro valore,
quello originario di «semplicemente». Il primo esempio abbraccia secondo noi
tutti quanti gli Ionici, il secondo poi è anch’esso un caso specifico, in cui il
corpo infinito non è più visto nel suo particolare atteggiamento di essere «al di
là degli elementi», ma è considerato semplicemente come tale, un corpo
infinito. Questa interpretazione trova conferma in quel che segue: «vi sono
infatti alcuni che così intendono l’infinito». Si sono fatti due esempi, e
il così (τoῦτo) si riferisce quindi logicamente al secondo, cioè al «né in quanto
semplicemente tale». Tale riferimento non è possibile evidentemente in tutte le
altre interpretazioni, che in effetti riportano il toûto al primo caso: vediamo per
contro se quadra con la nostra. Il testo aristotelico riporta la critica di alcuni
contro i sostenitori del corpo infinito come aria o acqua: in tal modo, essi
dicono, non sussisterebbero più i contrari, cioè il mondo sensibile, perché uno
di loro, se infinito, dovrebbe necessariamente distruggere tutti gli altri. Siamo
ora in grado di dimostrare come costoro non possono essere i teorici
del metaxý. È da osservare anzitutto che citando i sostenitori dell’acqua o
dell’aria Aristotele non intende fare una numerazione chiusa; da quel che segue
risulta compreso anche il fuoco, e nulla di strano vi sarebbe se inoltre vi fosse
sottinteso anche il metaxý. Nulla da stupirsi del pari se quest’ultimo non fosse
allora stato presente ad Aristotele dal momento che normalmente viene
considerato un caso accidentale nella teoria ionica, e segue l’aria e l’acqua,
trattato alla loro stessa stregua. Tutto andrebbe bene secondo la nostra tesi: ci
troveremmo di fronte ad un’obiezione dei fautori del «corpo infinito in quanto
semplicemente tale» contro quelli del «corpo infinito in quanto ciò che è al di
là degli elementi», cioè dell’acqua, aria, ecc. Ma c’è qualcosa di più
73

importante. Forse che sarebbe concepibile un metaxý tra acqua e aria


completamente all’infuori della legge dei contrari, o non dovrebbe piuttosto tale
corporeità partecipare dell’acqua e dell’aria? È possibile che Aristotele assuma
senz’altro come esatta questa affermazione? Un passo aristotelico ci dà l’unica
risposta logica a tale interrogazione. Trattando per l’appunto delmetaxý egli
ripete la critica del passo in esame: «... quel qualcosa difatti risulterà aria e
fuoco, in connessione alla contrarietà. Ma uno dei due contrari è una
privazione». Come potrebbe allora far difendere il metaxý con una critica cui
74ah

è convinto anch’esso soggiaccia? Senonché dal seguito del nostro testo, «Ma in
tal caso ... mondo», parrebbe sorgere una difficoltà. Che l’espressione «diverso
75

... da cui deriva questo mondo» sia perfettamente equiparabile al «ciò che è al
76

di là degli elementi da cui gli elementi» non ci sarebbe neppur bisogno di dire:
77

tutt’al più essa conferma ancora il significato di trascendenza prima rivelato. Si


presenterebbe naturale il collegamento di questa frase con quanto precede, né
24
si potrebbe più riferire alsemplicemente il passo sinora discusso. Non riteniamo
però necessario giungere a questa conclusione, nulla impedendo che Aristotele
abbia considerata terminata qui la trattazione sul corpo infinito puro e semplice,
e sia senz’altro passato all’altro caso in questione. L’innegabile durezza del
passaggio si spiega con il carattere estremamente stringato di tutto quanto il
passo. Il soggetto di dicono (ϕάσιν) non può fraintendersi con quello
diintendono (ποιοῦσι), poiché in mezzo sta l’hanno (ἔχoυσι), con un altro
soggetto, ricavato forzatamente dal fra loro (αὐτῶν) precedente. Inoltre tutto il
periodo «vi sono infatti alcuni ... il resto già risulterebbe distrutto» potrebbe
78

essere stato inserito quasi parenteticamente da Aristotele, non essendo a rigore


necessario per lo scopo principale della dimostrazione. Questa s’impernia sulla
critica al «corpo infinito in quanto ciò che è al di là degli elementi», e il caso
del «corpo infinito in quanto semplicemente tale» è incidentale. E passiamo al
contenuto della frase: «Ma in tal caso dicono che il corpo infinito è qualcosa di
diverso, da cui deriva questo mondo». Ciò sarebbe piuttosto ozioso, se
accettassimo la tesi combattuta, essendo già stato detto prima. Secondo noi
invece l’inciso ha un suo valore indispensabile, è una contro-obiezione posta da
Aristotele in bocca ai sostenitori del «corpo infinito in quanto ciò che è al di là
degli elementi». La critica aveva rilevato che per ammettere un unico principio
infinito non bisogna scegliere alcun corpo possedente determinate qualità
sensibili, ed essi ribattono appellandosi alla loro trascendenza, secondo cui è
possibile parlare di un principio sensibile sottratto alla legge dei contrari, poiché
questi intervengono soltanto in un ulteriore stadio cosmico. Quel principio
possiede sì una qualità sensibile (e nel caso del metaxý possiamo dire ne abbia
due), ma con ciò le altre qualità che formano questo mondo non sono da essa
affatto soffocate, esistendo su di un piano diverso. (Ottenuta tale costruzione, è
lecito trarne un corollario, che cioè i fautori del semplicemente non attribuivano
certo al loro corpo infinito alcuna trascendenza. Vedere quindi in esso l’arché di
Anassimandro, come vorrebbe lo Zeller, è impossibile, dal momento che il
concetto da cui deriva questo mondo si applica indiscutibilmente al Milesio,
secondo quanto ammettono tutti, tra gli altri Zeller stesso). Il passo procede poi
nella sua critica. Le parole in parentesi sono chiarissime seguendo il nostro
modo di interpretare. Nel checchessia(ὁτoυoῦν) è più facile scorgere
il corpo (σῶμα) puro e semplice che non ilmetaxý. Il motivo psicologico per cui
Aristotele sente qui il bisogno di avvertire il lettore di una futura critica al corpo
infinito in generale ci sembra consistere nella mancata confutazione, in ciò che
precede, dei sostenitori delsemplicemente. Perché avrebbe detto allora «né in
quanto semplicemente tale»? Per costoro, che davano alla loro teoria una
formulazione genericissima, non valeva evidentemente una critica specifica.
Inoltre la parentesi riduce ad un’unica stregua casi che per altro verso risultano
differenti. Normalmente ci attenderemmo allora che questi ultimi fossero stati
già prima presentati, mentre secondo la tesi a noi contraria non si sarebbe
discussa sinora che una sola teoria. Stando così le cose, che necessità dovrebbe
esserci di inserire proprio a questo punto una simile osservazione incidentale e
introdurre l’acqua e l’aria, la cui trattazione comincerebbe solo più tardi? Dal
25
modo di esprimersi poi della parentesi è logico dedurre che i casi prospettati
all’infuori di essa sono considerati in modo divergente, il che va benissimo per
noi, e proprio al contrario invece per le altre interpretazioni, se si pensa che la
critica fatta più tardi al «ciò che è al di là degli elementi» è identica a quella
degli elementi (si veda poco dopo: «E lo stesso discorso anche...»). In ciò che
79

segue notevole è la conferma della nostra interpretazione del τὸ παρὰ τὰ


στoιχεῖα, data l’aggiunta di cosiddetti(καλoύμενα). Nella frase ulteriore non vi
sono più dubbi sul significato dipará: esso accenna chiaramente ad uno stato
cosmico di unificazione. Invece di «ciò che sta al di là degli elementi» si dice
qui ancora più esplicitamente «al di là dell’aria e del fuoco e della terra e
dell’acqua», dove i vari καί ribadiscono il serrato complesso fenomenico, in
80

antitesi all’enumerazione disgiuntiva usata altrove da Aristotele a proposito


delle varie archaí ioniche. Con il «ma non risulta che vi sia nulla» dovrebbe
81

concludersi secondo l’opinione comune la prima parte della critica, rivolta


contro i sostenitori del «corpo infinito in quanto ciò che è al di là degli
elementi», e iniziarsi con «E non è davvero possibile che il fuoco» una sua 82

estensione. Il davvero (δή) non ha tuttavia solo il senso temporale, ma può


indicare altresì lo sviluppo di un ragionamento; il contesto deve decidere sul
significato migliore. Se si guarda attentamente alla frase che sta prima, appare
chiaro come Aristotele in essa enunci anzitutto la tesi della teoria da lui
combattuta, e poi il proprio risultato negativo («ma non risulta che vi sia nulla»).
È dunque questo un caso tipico in cui ci attende una motivazione da quanto
segue, e siccome leggendo avanti la troviamo, non vi è più ragione di dubitare
del valore di davvero. La frase «E non è davvero ... sia» contiene anzitutto una
83

specificazione delnulla (oὐδέν) e nell’introdurla sta appunto la funzione


immediata deldavvero. Questo è così l’unico punto dell’intero passo in cui si
identifica chiaramente il «corpo infinito in quanto ciò che è al di là degli
elementi» con il fuoco o con un altro elemento infinito. Viene poi segnato
l’indirizzo della dimostrazione: Aristotele procede gradualmente nella sua
analisi, il nulla è determinato, è impossibile che il mondo diventi o sia uno solo
degli elementi. L’affermazione si estende anche al caso in cui si sostenga un
solo elemento, ma infinito, come per esempio da Eraclito. Sembra quasi che
Aristotele nel fare questa estensione si senta dinanzi a qualcosa di meno
facilmente confutabile, e se ne possono indovinare i motivi, per quanto egli non
li esprima. Ai suoi occhi era certo più logico sostenere una trasformazione dei
quattro elementi finiti in un unico finito, piuttosto che in uno infinito, e inoltre
per quest’ultimo caso possedeva già ulteriori obiezioni. Chiuso l’inciso su
Eraclito, l’obiezione viene rivolta naturalmente anche contro i sostenitori
dell’unità infinita, e per ultimo si enuncia il succo vero della critica. Tutte le
cose si trasformano per contrarietà, ed è sottintesa la conclusione: data una
pluralità di qualità sensibili antitetiche, vi sarà un incessante avvicendarsi tra
poli opposti, mai la riduzione ad un’unica qualità. È questo un perfezionamento
della critica formulata dai fautori del «corpo infinito in quanto semplicemente
tale». Mirabile è lo sviluppo dell’argomentazione. Prima si enuncia il possibile
contenuto del «corpo infinito in quanto ciò che è al di là degli elementi» («e
26
non è davvero ... degli elementi») e il risultato della critica fondata sui princìpi
84

della filosofia aristotelica (il «ma non risulta che vi sia niente» è spiegato in
«non è possibile che sia infinito nessun altro»). Poi si accenna ad Eraclito, che
85

pur non rientrando nell’argomentazione principale è colpito particolarmente da


questa critica, e infine il contenuto del «corpo infinito in quanto ciò che è al di
là degli elementi» è nuovamente lasciato all’indeterminatezza, perché non può
sfuggire in nessun caso alla critica, enunciata nella sua essenzialità («tutte le
cose difatti ... al freddo»). Si hanno ora le ultime conferme alla nostra tesi,
86

Aristotele dà qui un nome ai sostenitori del «corpo infinito in quanto ciò che è
al di là degli elementi»: i fisici (oἱ ϕυσικoί). Comunque debba intendersi tale
termine di «fisici», siano da comprendersi o no in questa designazione anche
gli ultimi Presocratici, rimane in ogni caso fuori dubbio che esso indica tutti
87

gli Ionici, non solo quindi A nassimandro, ma altresì Talete e Anassimene. Se


per salvare il significato temporale di davvero si fa terminare con «ma non
risulta che vi sia nulla» una prima parte della critica, si presentano difficoltà
insormontabili. Impostata infatti la questione sugli elementi infiniti, la frase
successiva intorno ad Eraclito non è certo risolutiva al riguardo. Ci si aspetta
ancora qualcosa, e quando si legge «E lo stesso discorso anche» è contrapposto
chiaramente al caso di Eraclito, non già all’acqua o all’aria infinite, di cui manca
ancora la confutazione. Per di più si tornerebbe di nuovo al «corpo infinito in
quanto ciò che è al di là degli elementi» mentre la sua trattazione doveva essere
stata conclusa prima. Rimane una via: considerare al contrario come incidentale
il «non è davvero che il fuoco ... sia», intendendosi quest’ipotesi già confutata
88

da quanto era stato detto al principio del passo. Tale supposizione troverebbe
un appoggio nel successivo «prescindendo dal fatto che uno degli elementi sia
infinito», che è anche possibile interpretare come un ripudio senza discussione
89

dell’infinità. Senonché questa costruzione è rovinata dall’infatti


generalmente. Se così infatti fosse veramente non vi sarebbe bisogno di alcuna
90

dimostrazione e tanto meno poi di una connessione con la critica di un unico


corpo infinito. «Infatti generalmente» implica un allargamento della
confutazione, affinché più chiaramente battuto risulti il caso dell’infinità, che
soprattutto interessa ad Aristotele; il prescindendo (καὶ χωρίς) non è cioè un
rifiuto, ma una momentanea esclusione.

Ci rimane ancora da citare un passo a conferma dei risultati precedenti, dove


è ribadito esplicitamente l’osservato carattere di trascendenza: «... ma la materia
che è sostrato, alcuni dicono essere una sola – assumendola per esempio come
aria oppure fuoco oppure qualcosa di mezzo tra i due, come ciò che è corpo e
al tempo stesso è separato». A dire il vero la nostra interpretazione potrebbe
91ai

essere elusa, riferendo il «ciò che è corpo e al tempo stesso è


separato» al metaxý soltanto. Ciò è possibile seppure non naturale. Alcuni (oἱ
92

μέν) comprende un unico indirizzo, in seno al quale non abbiamo ragione di


credere sia fatta alcuna distinzione; dove avviene la doppia biforcazione come
in ciò che segue, Aristotele si esprime diversamente: «altri invece ... tra questi,
poi, gli uni... altri (oἱ δέ... oἱ μέν ... oἱ δέ). Non è però più possibile dubitare del
27
nostro punto di vista se si legge avanti con attenzione. Viene fatta l’ipotesi della
pluralità di princìpi e la si approva nella sua formulazione più completa, quella
empedoclea. I monisti sono invece criticati: «... ma quelli che intendono bensì
la materia come una sola, al di là dei suddetti elementi, ma la considerano come
corporea e separata, sono in errore». Non c’è quindi più dubbio che l’«al di là
93

dei suddetti elementi» e la materia separata non si applichino anche ai fautori


94 95

dell’acqua e dell’aria. La costruzione del periodo è chiarissima: alcuni(acqua,


aria e metaxý) ... altri invece (pluralisti suddivisi in alcuni, altri e altri
ancora)... ma quelli che (ἀλλ᾽ oἱ μέν – di nuovo i monisti indiscutibilmente
congiunti). In caso contrario dove potremmo ritrovare l’inevitabile critica a
Talete, Anassimene ed Eraclito? I contrari ineriscono ad un principio materiale,
dice Aristotele, e a questo non può quindi toccare alcuna trascendenza:
l’obiezione, oltre che al metaxý, è ancora più evidentemente diretta all’acqua e
all’aria. Per di più la forma in cui vengono enunciate le varie qualità sensibili
che dovrebbero spettare a tale principio unico, «o leggero o pesante o freddo o
caldo», fa pensare non si voglia intendere soltanto il metaxý. Tutti questi antichi
filosofi però attraverso le loro disparità si ritrovano concordi su un punto, la
vera essenza storica delle loro dottrine, cioè questo ápeiron, che anche qui
96

concludendo Aristotele proclama la comune arché. L’espressione suddetta


rispecchia la già discussa incertezza aristotelica quanto al valore sostanziale o
attributivo di ápeiron.

Ricordiamo ancora alcuni passi che potrebbero far nascere dei dubbi contro
la nostra interprefazione. In un’altra critica dei monisti Aristotele dice: «...
97 aj

non esiste tra gli elementi, uno solo da cui derivano tutte le cose. E certo
neppure esiste qualcos’altro al di là degli elementi, per esempio qualcosa di
mezzo». Sembra qui che l’«al di là degli elementi» vada applicato soltanto
98 99

al metaxý. Questo è vero come pure è vero quindi che la trattazione del metaxý è
separata da quella dell’acqua e dell’aria. Questa separazione non implica però
alcuna antitesi, è dovuta soltanto allo svolgimento dettagliato della
dimostrazione; la critica è in ogni caso la stessa, basata sulla teoria dei contrari.
Così non vi è nessuna necessità di credere che ἄλλo introduca una posizione di
trascendenza: esso significa semplicemente «qualcos’altro» (non deve
ingannare l’uso dell’espressione in quest’ultimo senso da parte di
Teofrasto, Dox., 476, 13, se si pensa alla sua diversa visuale interpretativa).
Anche l’«al di là degli elementi», per quanto sia detto solo del metaxý, non è
affatto rilevato come sua caratteristica particolare: appena un momento prima
Aristotele, concludendo l’esame degli altri monisti, aveva dichiarato del loro
principio «che non esiste tra gli elementi uno solo da cui derivano tutte le cose»,
e già abbiamo osservato la complementarietà di questa espressione con l’«al di
là degli elementi» a significare il concetto di trascendenza. È d’altra parte
giustificato che talvolta Aristotele applichi particolarmente l’«al di là degli
elementi» al metaxý e preferisca denominare il principio degli altri fisici uno
solo da cui (ἓν τoύτων). Va così perduta l’accentuazione immediata della
trascendenza di quest’ultimo, ma ne acquista in compenso la coerenza della
28
terminologia: dal momento che Aristotele chiama la realtà materiale
senz’altro gli elementi, era un po’ arrischiato, e qui infatti egli stesso se ne
accorge, parlare di un elemento al di là dei quattroelementi, tra cui anch’esso è
naturalmente compreso. L’infinità ne trasforma, è vero, la natura (per quanto
secondo lui ciò in realtà non avvenga ed anche l’«al di là degli elementi»
soggiaccia ai contrari), ma una tale espressione è pur sempre ambigua.
Comunque sia, la nostra interpretazione non è affatto scossa. Leggendo avanti
si vede il metaxý trattato alla stessa stregua degli altri princìpi. La sua critica è
per l’appunto basata su quella degli elementi isolati («quel qualcosa difatti
risulterà aria e fuoco...»). Aristotele conclude poi «cosicché non è possibile
100

che quel qualcosa risulti mai isolato, come invece affermano alcuni che lo siano
l’infinito e l’avvolgente. Qualsivoglia di quei princìpi è soggetto alla medesima
critica».
101

Quest’ultima frase è di difficile interpretazione per la sua brachilogia; l’unico


senso plausibile ci sembra essere «qualsivoglia di quei princìpi è soggetto alla
medesima critica» oppure rimane ancora la soluzione «che non vi sia nulla al di
là degli elementi». Il metaxý, l’aria, l’acqua e il fuoco sono dunque conglobati
assieme in un’unica concezione di trascendenza. Si noti infine l’espressione che
viene ancora dopo, «Se dunque, anteriormente agli elementi, non esiste certo
nulla di sensibile...». L’anteriormente(πρóτερoν) non va d’accordo con
102

l’interpretazione dell’al di là (παρά) da noi contrastata e sta per contro


benissimo come accenno alla trascendenza; quel che precede lo estende
chiaramente oltre al caso del metaxý.
Anche un passo della Fisica (189 a 34-b 9) presenta delle difficoltà.
Aristotele sostiene la necessità di aggiungere un terzo principio ai contrari:
«Come dicono coloro che sostengono il tutto essere una certa materialità, come
acqua o fuoco o alcunché di mezzo tra questi. Sembra preferibile la medietà:
infatti fuoco e terra e aria e acqua sono implicati nelle contrarietà. Per questo
motivo coloro che pongono come sostrato qualcosa di diverso non si
comportano scioccamente. Tra gli altri i migliori sono quelli che ammettono
l’aria; infatti l’aria, meno di tutti gli elementi possiede determinazioni sensibili:
segue l’acqua». 103

L’impostazione generale corrisponde pienamente al nostro modo di vedere:


riappare l’espressione caratteristica una phýsis, già spiegata. Il monismo è qui
104

approvato, contrariamente al solito, perché più del pluralismo si avvicina


alla hýle (ὕλη) aristotelica, sfuggendo relativamente al dominio dei contrari.
L’antitesi è anche adesso tra «fuoco e terra e aria e acqua» e d’altro canto «aria
o acqua o fuoco o metaxý». Nell’un caso le contrarietà sono predominanti, nel
secondo invece quasi del tutto assenti. Neppure può dirsi che a questo proposito
spetti al metaxý un trattamento diverso che non all’acqua o all’aria; altrove
abbiamo visto una critica uguale per tutti, essere cioè questi princìpi pur ancora
implicati in qualche modo nelle contrarietà. Anche qui non si fa tra loro alcuna
distinzione se non di sfumature. Il metaxýè il preferito, ma le sue qualità sono
identiche a quelle dell’aria («per cui non è neppure privo di
giustificazione» viene riferito nella stessa misura ad entrambi: e si noti
105

29
l’espressione successiva «l’aria infatti...»). Vi è solo una difficoltà: il metaxý è
106

chiamato distinto da essi (cioè gli elementi), e tale denominazione è


107

inestensibile all’aria e all’acqua (degli altri...). Avrebbe così ragione il Lütze,


108

essendo a prima vista indubbia l’equivalenza del diverso(ἓτερoν) con l’«al di là


degli elementi». Noi ripetiamo però quanto abbiamo detto poco sopra, che
Aristotele preferisce talvolta, per scrupolo di terminologia, attribuire queste
espressioni al solo metaxý. Ci permettiamo inoltre di osservare che l’uso
di diverso in questo passo è notevolmente diverso da quello già discusso
in Phys., 204 b 29. Allora il termine era stato introdotto per rilevare la
trascendenza, rafforzato dal «da cui deriva tutto», voleva significare che l’aria
infinita è un héteron rispetto all’aria qualestoicheîon. Ora invece non si parla di
trascendenza; dicendo «distinto dagli elementi» Aristotele intende
propriamente nel toûton ciascuno degli elementi. Se al contrario avesse voluto
vedervi come altrove il complesso fenomenico unitario, l’héteron sarebbe stato
riferito altresì all’aria e all’acqua. Ricordiamo infine il passo in Metaph., K10
1066 b 33-1067 a 7, una parafrasi di Phys., 204 b 22-205 a 6, cioè della critica
del corpo infinito semplice, già ampiamente discussa prima. La
contrapposizione «né in quanto ... sia ciò che è al di là degli elementi, né in
quanto esso sia semplicemente tale», che avevamo trovato nella Fisica, non
109

sussiste più nella Metafisica.L’oὔθ᾽ ἁπλῶς è caduto, e con esso quanto seguiva
immediatamente, il che dimostra la connessione da noi stabilita allora. Per
contro il secondo termine della negazione diventa adesso «né in quanto
fuoco...», dal che riceverebbe valore la tesi da noi combattuta. Tutto ciò perde
110

però importanza non appena ci si ricordi che l’ultima parte del libro K
della Metafisica è con ogni probabilità apocrifa (cfr. però in contrario
Jaeger Ar., 225); il suo autore fraintese per primo il difficile passo, pur andando
con noi d’accordo in un punto.

b. Teofrasto

Dalle pagine seguenti risulterà un’interessante visuale storica di Teofrasto,


che segue attraverso le personalità presocratiche il primo evolversi di problemi,
la cui formulazione precisa spetta soltanto alla cultura del IV secolo. La via
111

era stata additata da Aristotele, che egli segue infatti con reverenza su molti
punti. Il maestro per altro non si era curato dell’aspetto propriamente storico
della cosa, cioè della connessione viva tra le diverse personalità e della
successione cronologica in cui si presenta lo sviluppo reale dei problemi, ed
aveva raggruppato secondo le posizioni dottrinali uomini lontani nel tempo.
Teofrasto per contro si allontana dalle impostazioni del maestro solo per fedeltà
alla sua visuale storica, riparando poi l’indisciplina con l’accentuare ancor più
del maestro la coartazione delle dottrine antiche, ricondotte a schemi della
filosofia aristotelica. Un analogo della distinzione tra atto e potenza, in forma
beninteso primitiva, viene ritrovato in tutti i Presocratici. La dossografia
posteriore accetta le impostazioni interpretative peripatetiche e trascura i

30
rapporti dottrinali o di discepolato stabiliti da Teofrasto, preferendo in proposito
riferirsi ai vari compendi biografici che cominciano a circolare nell’età
alessandrina. Lo scopo principale dell’indagine seguente sarà di dimostrare
come in tal modo sia stata falsata radicalmente la reale prospettiva storica,
disperdendo per di più l’unico elemento degno di nota, cioè la sistemazione
cronologica di Teofrasto. Dalla stessa ricerca seguirà indirettamente la necessità
di fondarsi, nello studio della filosofia presocratica, soltanto sull’esegesi dei
frammenti originali conservatici.
Lo scritto di Teofrasto che interessa il nostro problema è il primo libro
(archaί) delle Opinioni dei fisici (Φυσικῶν Δóξαι). I pochi frammenti che ne
rimangono sono raccolti nei Doxographi Graeci del Diels. La nostra indagine
112

si differenzierà da quella del Diels soprattutto per un nuovo riordinamento dei


frammenti, da cui risulterà una ben diversa visuale ermeneutica e un particolare
svolgimento di trattazione in Teofrasto.
In questa sede per altro dobbiamo limitarci a impostare soltanto nelle linee
essenziali tale analisi, in quanto soprattutto può servire a mettere in luce la
posizione data da Teofrasto ad Empedocle nella filosofia presocratica.
Teofrasto è il primo ad essersi proposto la storia della filosofia come oggetto di
studio scientifico. Noi giungeremo così a ricavare la più attendibile posizione
cronologica di Empedocle, appurando i suoi vincoli culturali e di discepolato
con filosofi anteriori. Inoltre tenteremo di cogliere l’interpretazione teofrastea
della filosofia di Empedocle che, essendo alla base di tutta la dossografia
posteriore, ci permette, una volta chiarita, di eliminare l’indagine su
quest’ultima. Naturalmente tale esame, come già è avvenuto per Aristotele, e in
misura anche maggiore, data la visuale storicistica di Teofrasto, non può
limitarsi all’unica testimonianza su Empedocle, ma presuppone una rassegna,
sia pure rapida, di tutta l’impostazione teofrastea della filosofia presocratica.
Il rapporto Anassimandro-Parmenide rappresenta a nostro avviso la chiave di
volta dell’impostazione di Teofrasto e, al tempo stesso, il punto più notevole di
divergenza dal maestro. E opportuno quindi iniziare la nostra analisi delle
testimonianze sul presumibile maestro di Parmenide. Abbiamo in proposito due
testimonianze che sembrano incontrovertibili. Da una parte Platone: «la nostra
scuola eleatica invece, che è cominciata da Senofane e anche prima» (Soph.,
242 d) e dall’altra Aristotele: «si dice infatti che Parmenide sia stato scolaro
113

di costui» (Metaph., 986 b 22). Osservate più da vicino, le due affermazioni


114

non sono eccessivamente impegnative per i loro autori: il si dice (λέγεται) di


Aristotele mostra come egli non si sentisse di giurare su quanto diceva. Platone
dal canto suo non accenna espressamente, nel passo suddetto, ad una
successione Senofane-Parmenide; oltre a ciò parlando genericamente di
una scuola eleatica (᾽Ελεατικὸν ἔθνoς), egli vuole evidentemente comprendere
tutti quanti i filosofi in un senso o nell’altro monisti. Che così egli intendesse ci
dicono infatti le parole «che è cominciata anche prima», dalle quali ci sembra
115

inoltre risultare in modo inevitabile che i filosofi intesi fossero gli Ionici.
Attraverso Platone la posizione di Senofane come capostipite non si può
comunque dire affermata. Teofrasto per contro fa una netta dichiarazione per
31
tramite di Diogene Laerzio: «e di Senofane fu discepolo Parmenide figlio di
Pyres, da Elea: di costui Teofrasto dice, nell’Epitome, che fosse stato discepolo
di Anassimandro. Per altro è certo che, dopo di avere ascoltato anche Senofane,
non fu suo seguace». 116ak

L’accenno di Platone si determina, Anassimandro si rivela per così dire l’avo


della filosofia. Il Diels ha voluto vedere nelle parole «costui ... dopo di aver
ascoltato» un’annotazione marginale del redattore che si riferisce a
117

Senofane. La critica del testo non appoggia però tale ipotesi. A parte la
al

stranezza di una glossa che citi l’Epitome (᾽Eπιτoμή) di Teofrasto (risalendo


tale opinione con ogni probabilità al III secolo a.C. ed essendo così fonte assai
antica), la cosa è esclusa in modo definitivo dall’anche (καí) della frase
successiva. Se Diogene dice: «dopo aver ascoltato anche Senofane», deve per
necessità aver parlato prima di un altro presunto maestro. Diogene ricorda
anzitutto il rapporto Senofane-Parmenide, che già ai suoi tempi doveva essere
quello comunemente accolto, ma si affretta a citare Teofrasto, il cui giudizio lo
lascia evidentemente perplesso. La frase successiva infatti significa
nell’intenzione di Diogene: sembra anzi che Teofrasto abbia ragione, dal
momento che le dottrine dei due filosofi hanno pochi punti di contatto.
Passiamo ad altre testimonianze, seguendo sempre la traccia di Teofrasto.
Una citazione diretta delle Opinioni dei fisici ci dà Alessandro di
Afrodisia:Dox., 482, 5 sgg. «Intorno a Parmenide e alle sue opinioni anche
Teofrasto nel primo libro sui fisici dice così: venuto dopo di questi Parmenide,
figlio di Pyres, Eleata (e lo stesso dice per Senofane), seguì entrambe le strade.
Infatti si dichiara per l’eternità del tutto e tenta di dare il principio di
generazione degli esseri, non opinando allo stesso modo su entrambe le
questioni, ma secondo la verità ... secondo l’opinione...». 118

Il Diels nella frase «e lo stesso dice per Senofane» ha soppresso


119

arbitrariamente l’anche, identificando nel di questi (Τoύτῳ) Senofane. Se


lasciamo per contro integro il testo, la frase significherà un’estensione a
Senofane dell’impostazione filosofica qui attribuita a Parmenide. Oltre a ciò
l’ipotesi del Diels potrebbe aver senso soltanto nel caso che Alessandro avesse
posto l’inciso dopo «venuto dopo costui». Escluso così Senofane non si
120

saprebbe davvero chi intendere nel di questi all’infuori di Anassimandro, se


ricordiamo la precedente dichiarazione di Teofrasto riportata da Diogene.
Entriamo così nel vivo del nostro problema, che come si è detto si propone di
indagare sistematicamente le testimonianze teofrastee sui princìpi della
filosofia presocratica. Già dal passo suddetto di Alessandro si possono trarre
degli indizi su quanto doveva precedere. Così il «seguì entrambe le
strade» lascia pensare che già prima fosse risultata una distinzione tra unità e
121

molteplicità, ma che il filosofo di cui si era parlato non avesse saputo trarne le
conseguenze dovute. La cosa si chiarifica maggiormente poco dopo: «non
opinando allo stesso modo su entrambe le questioni», frase inopportuna se non
122

fosse in antitesi con quanto stava scritto prima. Il predecessore di Parmenide


aveva posto i due princìpi su di uno stesso piano. Esaminando dunque i passi in
cui Teofrasto parla di Anassimandro; il primo di essi, che doveva precedere
am

32
l’altro, poiché ci presenta il filosofo come nativo di Mileto e allievo di Talete,
così si esprime: (prima parte del fr. 2 in Dox., 476, 6-15) «Dice che il suo
principio non è né l’acqua né alcuno dei cosiddetti elementi, ma una certa altra
natura indeterminata, da cui sorgono tutti i cieli e i mondi che sono in questi...
È chiaro che costui, scorgendo la trasformazione reciproca dei quattro elementi
non ritenne di porre uno di questi come sostrato, ma qualcos’altro al di là di
questi. Egli non spiega il divenire con la variazione di un elemento materiale,
ma con la separazione dei contrari per un movimento perenne». 123

Vi sono due frasi equivalenti che interessano molto per l’interpretazione


teofrastea di Anassimandro: «una certa altra natura indeterminata», e più di
124

sotto «ma qualcos’altro al di là di questi». Anassimandro è cioè il primo che


125

distingue l’oggetto immediato dei sensi da qualcosa di diverso e di infinito, che


comunque sostiene, oltre a ciò che vediamo e tocchiamo, un’altra natura. Sinora
dunque tutto va bene nel considerare Anassimandro predecessore di Parmenide,
poiché pare egli abbia scorto, almeno nella loro distinzione, «ambedue le
strade» di cui parlava il testo donde siamo partiti. Passiamo al secondo passo:
(seconda parte del fr. 4 in Dox., 479, 2-16). «E Teofrasto dice che, similmente
ad Anassimandro, Anassagora afferma queste cose: quegli infatti dice che sulla
separazione dell’indeterminato le parti affini si riuniscono le une alle altre, e
ovunque vi fossero parti d’oro si forma oro, dove parti di terra si forma terra, e
analogamente ciascuno degli altri elementi, che non sorgono ora ma già
sussistevano prima. Del movimento e del divenire Anassagora poi pose come
causa la mente, da cui fece generare per separazione i mondi e le altre creature.
E così pensando questi due filosofi – dice Teofrasto – sembrerebbe che
Anassagora abbia supposto infiniti i princìpi materiali, una invece, cioè la
mente, la causa del movimento e del divenire. Se poi qualcuno vedesse la
mescolanza di tutte le cose come una sola natura indeterminata secondo la
specie e la quantità, sembra logico ammettere che egli abbia supposto due
princìpi, cioè la natura dell’indeterminato e la mente. Di conseguenza pare che
126

egli abbia visto i princìpi materiali in modo simile ad Anassimandro». 127

Anzitutto il quegli (ἐκεῖνoς) nella prima parte della citazione si riferisce assai
più naturalmente ad Anassimandro che non ad Anassagora, come vogliono
alcuni. A confermare ciò sta la frase successiva «del movimento ... Anassagora
poi pose la mente», in cui l’esplicita dichiarazione del soggetto non sarebbe
128

necessaria se con quegli si volesse già intendere Anassagora. Oltre a ciò si può
dire che il plurale pensando (λαμβανóντων) dopo alcune righe non si giustifica
con il semplice e ormai lontano richiamo «similmente ad Anassimandro», se 129

davvero si fosse parlato prima di Anassagora e poi ancora di lui, senza


accennare concretamente all’opinione di Anassimandro. Ciò posto passiamo ad
una questione più interessante: il frammento suddetto teneva realmente nel testo
teofrasteo la posizione attribuitagli dal commento di Simplicio, come sembra
oggi accettare il Diels? Quanto precede in Simplicio è una breve scorsa al
sistema di Anassagora, proveniente essa pure con ogni probabilità da Teofrasto,
che si conclude con due citazioni dal Presocratico; segue poi il passo che stiamo
esaminando. Orbene si adatta proprio quest’ultimo in seno alla precedente
33
trattazione di Anassagora? Una prima considerazione che salta all’occhio ci
direbbe il contrario. Il richiamo diretto di Simplicio a Teofrasto, dice
Teofrasto, si trova per l’appunto all’inizio del nostro passo, ed è abitudine di
130

Simplicio in queste citazioni teofrastee appellarsi al suo autore all’inizio oppure


al termine della testimonianza. Si dovrebbe così concludere che quanto precede
non è di Teofrasto, o meglio, siccome ciò non è consigliabile per considerazioni
generali, che qui Simplicio inizia una nuova citazione da Teofrasto. Questa
impressione potrebbe essere confermata anche per un altro ordine d’idee.
Teofrasto aveva scritto un’opera particolare su Anassagora, filosofo dunque che
probabilmente teneva in gran conto. Non sarebbe allora del tutto logico che egli,
parlando di Anassagora, cercasse, contro l’apparenza di quanto un tale
pensatore aveva detto, di ridurre in parte le sue dottrine a quelle di un filosofo
primitivo e poco conosciuto. Eppure ad una tale conclusione egli riesce a
giungere nella frase finale del frammento che esaminiamo: «che egli abbia
supposto due princìpi, cioè la phýsis dell’ápeiron...». Un procedimento come
131

questo sarebbe infinitamente più a posto nella trattazione di Anassimandro; agli


occhi di Teofrasto il modo migliore di giudicare ed apprezzare il Milesio stava
nel poterne stabilire un influsso su Anassagora, nel mostrare anzi che perfino la
filosofia evoluta di quest’ultimo poteva essere espressa in quei termini antichi.
Più probative comunque delle considerazioni psicologiche sono quelle
suggerite dalla critica del testo. Il queste cose (καὶ ταῦτα) che sta proprio al
principio del nostro passo è un’espressione riferentesi a ciò che precede. «Le
cose suddette» sono un patrimonio comune di Anassimandro e di Anassagora,
e quasi non bastasse Teofrasto le chiarifica ancora seguitando: «quegli infatti
dice...». Bisognava dunque che quanto precedeva parlasse
dellaseparazione (διάκρισις), del processo cioè per cui ogni elemento tende al
suo affine. Senonché, se volgiamo lo sguardo a ciò che sta prima in Simplicio,
non troviamo nulla di simile, anzi possiamo dire il contrario. Là si parla infatti
del principio anassagoreo del tutto in ogni cosa, della struttura primordiale e
materiale della realtà, senza neppure accennare alla diákrisis: là si tratta il
problema della sostanza, qui quello del divenire con maggior aderenza storica.
Sarebbe dunque assolutamente assurdo pensare ch’egli si riferisse proprio a
questa parte – queste cose –per fondare il particolare rapporto Anassimandro-
Anassagora, quale risulta dalle frasi successive. In conclusione, sembra più che
probabile non sia originaria la posizione tenuta dal nostro passo nel testo
simpliciano, e verosimile per contro ammettere si trovasse nel corso della
trattazione su Anassimandro. Volgiamoci dunque all’unico passo teofrasteo su
quest’ultimo, prima citato. Questo come si è visto terminava: «Egli non spiega
il divenire con la variazione di un elemento materiale, ma con la separazione
dei contrari per un movimento perenne». Non si potrebbero trovare parole più
132

adatte da far precedere al queste cose.Il processo di separazione degli opposti


era evidentemente una parte importante nella dottrina di Anassimandro, e
Teofrasto non poteva accontentarsi del fuggevole accenno che si trova nel fr. 2.
La cosa doveva interessarlo, proprio dal suo punto di vista fisico.
Contemporaneamente gli viene fatto di pensare ad Anassagora, e i parallelismi
34
sono sempre graditi agli storici della filosofia. Egli passa dunque a chiarire la
teoria di Anassimandro; l’infatti (γάρ) spiega in che modo quest’ultima, di cui
forzatamente prima già dev’essersi parlato, porti in sé degli elementi
appartenenti nella stessa guisa ad Anassagora, non appena essa venga esposta.
Se d’altra parte viene ritenuta necessaria questa spiegazione, è evidente che
prima l’argomento sarà stato soltanto sfiorato. Si noti poi la perfetta
rispondenza e il progresso di determinazione delle due frasi che stanno al
termine del primo passo e all’inizio del secondo: «la diákrisis dei contrari ... 133

sulla diákrisisdell’àpeiron le parti affini si riuniscono le une alle altre».


134

Comincia ora a chiarirsi nel suo sviluppo l’interpretazione di Teofrasto; egli


fa cominciare la filosofia da Anassimandro, il quale con l’introdurre il termine
di arché si separa per primo dalla materia, dal fenomeno nella sua
immediatezza. Di qui l’insistenza iniziale di Teofrasto nel fr. 2 a distinguere
l’apeiron dai «cosiddetti elementi». Posta questa primordiale antitesi tra unità
e molteplicità, per analizzare meglio la natura egli passa a studiare il rapporto
dei due termini, costituito in Anassimandro dalla separazione dei contrari.
Dall’analisi risulta come quell’antitesi non fosse tale in definitiva, come cioè la
distinzione di unità e molteplicità non rappresentasse ancora per Anassimandro
la scoperta di due realtà toto genere differenti. Teofrasto constata che i contrari,
il mondo fenomenico cioè, sussistevano anche prima, nell’àpeiron («ma sono
immanenti già prima», fr. 4; 479, 7). A che cosa si riduceva dunque per
135

Teofrasto quell’antitesi? Evidentemente all’aristotelico contrapposto


tra stoicheîa e hýle. Qui gli viene in mente Anassagora, che non si era
accontentato di quell’insufficiente distinzione, e proprio partendo dal processo
di separazione aveva dedotto un principio toto genere diverso, il noûs. Ma a
Teofrasto non importa poi tanto rilevare la differenza in dignità
tra noûs e ápeiron, quanto piuttosto venire in chiaro su un problema della
sostanza e uno del divenire della filosofia presocratica, comunque essi vengano
trattati nelle sfumature. In ciò che segue infatti egli proclama l’identità di vedute
di Anassimandro e Anassagora per quel che riguarda il primo problema, della
sostanza; nonostante ogni apparenza in contrario entrambi lo risolvono in
un’unica arché, l’ápeiron. Il problema del divenire per contro, che in
Anassimandro non si distingueva ancora a sufficienza dal primo, trova la sua
piena indipendenza con Anassagora, nella scoperta di una nuovaarché, il noûs.
Ritorniamo adesso a quel lontano punto di partenza, il passo di Alessandro di
Afrodisia riferentesi a Parmenide; da esso ci eravamo staccati alla ricerca delle
dichiarazioni teofrastee su Anassimandro, per vedere se si sarebbero adattate a
precedere il venuto di questi. Siamo ora in grado di rispondere
affermativamente. Anzitutto l’Anassimandro, con cui si chiude la citazione
teofrastea di Simplicio, si adatta perfettamente davanti al venuto di
questi.Altrettanto coerente con quel che precede è il «seguì entrambe le strade»
di cui si è già data prima un’interpretazione sommaria. Quali sono le «due
strade»? Null’altro se non il duplice problema della sostanza e del divenire, che
dall’analisi di Simplicio si è rivelato già prima come il centro dell’interesse di
Teofrasto a questo punto della sua ricerca: «infatti si dichiara per l’eternità del
35
tutto e tenta di dare il principio di generazione degli esseri». Anassimandro
136

aveva distinto i due problemi, ma il suo occhio si era rivolto alla sostanza,
Anassagora per contro era stato maggiormente attratto dal principio del
divenire; è logico che ora Teofrasto passi a Parmenide, il quale andò su
«entrambe le vie». Ugualmente a suo posto è la frase «non opinando allo stesso
modo su entrambe le questioni». Secondo Teofrasto, Anassimandro aveva
considerato i due problemi ancora da un unico punto di vista sensibile, la
razionalità non interveniva per lui a risolvere uno dei due; non così Parmenide
che guarda la sostanza secondo verità (κατ᾽ ἀλήθειαν) e il divenire secondo
l’opinione dei molti (κατὰ δóξαν τῶν πoλλῶν). Quest’ultimo dà una soluzione
ai due problemi inversa a quella anassagorea, idealizzando la sostanza e
materializzando il divenire. O meglio ancora, forse nell’intenzione di Teofrasto,
Parmenide rappresenta una maggiore idealizzazione al confronto degli altri due
filosofi, il che spiegherebbe come in questo contesto egli venga posposto ad 137

Anassagora. Teofrasto infatti gli attribuisce qui tre archaí, e il termine ha per
lui significato di separazione, per quanto in un primo stadio non assoluta, dalla
materia immediata: nella frase «stabilisce che i princìpi siano due, fuoco e terra,
la seconda intesa come materia, il primo per contro come causa e
agente», a fuoco e a terratocca un valore simbolico (come del resto aiutano a
138

interpretare i duecome-ὡς), altrimenti parrebbe strano che Teofrasto abbia


considerato uno di essi una causa, e abbia dato all’altra il nome della materia
aristotelica. Parmenide ha già visto cioè il problema del divenire sotto una certa
luce ideale, additando la strada della soluzione di Anassagora, mentre dal canto
suo ha innalzato di molto la dignità della sostanza. La spodestata natura
indefinita (ϕύσις ἀóριστoς) nel suo sistema è stata ridotta ad elemento passivo
nel processo del divenire.
Ci rimane ancora, per concludere la nostra dimostrazione, da esaminare
quanto Teofrasto dice di Senofane, se per caso non si adatti meglio a precedere
il passo riguardante Parmenide. Abbiamo in proposito il fr. 5: (Dox., 480, 4-8)
«Teofrasto dice che Senofane di Colofone, maestro di Parmenide, suppone uno
il principio, afferma cioè che unico e totale è l’essere, né limitato né illimitato,
né in movimento né in stasi. Teofrasto ammette che la memoria della dottrina
di questo filosofo appartiene ad un’altra indagine piuttosto che a quella intorno
alla natura: Senofane infatti disse che questo uno e tutto è il dio». 139

Una prima difficoltà ci viene incontro, poiché il Diels ha considerato


testualmente teofrastea la frase «Senofane di Colofone, maestro di Parmenide,
suppone». Contro di ciò possiamo elevare molte ragioni di dubbio. Anzitutto
140

le parole appartenenti sicuramente a Teofrasto sono da un lato «uno ... in


stasi» e dall’altro «altra ... della dottrina»: tra le due frasi esisteva senza
141 142

dubbio nell’originale una connessione che non ci è pervenuta testualmente. Vi


è dunque una generica presunzione di dubbio riguardo all’ampiezza di ciò che
Simplicio ha inserito per congiungere i due estremi. Inoltre la costruzione della
frase discussa è dell’accusativo con l’infinito e non può rispondere quindi
letteralmente al testo di Teofrasto, che nel passare dall’uno all’altro pensatore
fa sempre punto e ricomincia nel modo più naturale: «Anassimandro figlio di
36
Prassiade disse» oppure «Leucippo poi ... non percorse la stessa strada di
Parmenide». Perché Simplicio non citerebbe direttamente solo in questo caso?
Infine l’espressione «maestro di Parmenide» è per nulla teofrastea; tutti gli
esempi da noi posseduti sono perfettamente univoci nel dichiarare a proposito
di ogni filosofo la dipendenza da un predecessore, mai il suo influsso su un altro
che verrà. Cambia il modo di esprimersi di Teofrasto, che stabilisce delle
sfumature tra rapporti personali e di contenuto, parlando di allievo, di amico, di
studio delle dottrine di un altro, ma il metodo è sempre lo stesso. Con ciò mi
sembra fuori di dubbio che la dichiarazione provenga da Simplicio, il quale era
evidentemente intimidito da quanto aveva detto Aristotele.
Passando all’esame del giudizio teofrasteo su Senofane, salta all’occhio lo
scarso interesse con cui il peripatetico considera la sua filosofia. Senofane diede
sì una soluzione al problema della sostanza, ma ignorò per contro
completamente quello del divenire, che è poi il solo ad interessare a fondo
Teofrasto. Di qui le prime difficoltà a far precedere questo frammento al passo
di Alessandro su Parmenide. Si è detto prima che la frase «andò su entrambe le
strade» presuppone un filosofo il quale abbia per lo meno intravisto un duplice
modo di considerare la realtà, come Anassimandro con la sua distinzione
fra ápeiron e processo di separazione. Senofane invece, a quanto sembra volere
dire Teofrasto, non è neppure cosciente che esistano i due problemi, e la sua
soluzione è perfettamente unitaria e totale, non lasciando per lui nulla da
spiegare. Ci si potrebbe comunque obiettare che la distinzione fra le due strade
non era stata constatata da Teofrasto con riferimento ad uno dei due filosofi
precedenti e ad introdurla gli era bastata l’espressione «... indagine sulla
natura». Al che da parte nostra è ancora lecito ribattere che difficilmente
143

Teofrasto si sarebbe riferito ad una generica «indagine intorno alla natura»,


come se con ciò avesse enunciato una specifica «strada» di ricerca;
questa strada (ὀδóς) significava piuttosto per lui lo stabilire
un’arché alla generazione (γένεσις) e in tal senso preciso era stata
preannunciata meglio che altrove per l’appunto nel passo trattante di
Anassimandro e di Anassagora. La problematica della sostanza e del divenire,
impostazione come si vedrà cara a Teofrasto, che sembra presupposto
immediatamente nel passo di Alessandro, non trova certo un riferimento nel
frammento su Senofane. Senonché rimarrebbe pur ancora possibile sostenere
una successione del frammento teofrasteo su Parmenide e quello su Senofane,
accettando la nostra costruzione del rapporto Anassimandro-Anassagora e
considerando il frammento su Senofane un inciso che permette di riferire a
quanto precede il frammento su Parmenide; ogni dubbio cessa però non appena
ci si ricordi della frase seguente in Alessandro: «non opinando allo stesso modo
su entrambe le questioni». Queste parole si connettono stilisticamente al di
questi iniziale e «all’entrambe ... le strade», opponendosi a un filosofo o a più
filosofi che precedevano. Dal che, mentre riceve conferma la nostra spiegazione
di «entrambe le strade», si trae la decisiva deduzione che mai poteva essere
Senofane a trattare nell’identico modo il problema della sostanza e quello del
divenire, se per lo meno ascoltiamo l’interpretazione di Teofrasto del
37
Colofonese. Quand’anche poi, trascurando ogni nesso stilistico, si ricusasse alla
frase suddetta la possibilità di essere riferita a quanto stava prima,
considerandola semplicemente un’introduzione al seguente contrasto tra la
via secondo verità e la via secondo l’opinione, e lo stesso procedimento fosse
applicato alle «due strade», senza più scorgervi dietro alcun filosofo, non si
riuscirebbe con tutto ciò a convincere che il passo su Alessandro segue il
frammento su Senofane. Comunque infatti si voglia variare l’interpretazione
del «non opinando...», rimarrà incontrovertibile ciò che segue; a Teofrasto cioè
non importava certo a questo punto enumerare
le archaí della dóxa parmenidea, quanto piuttosto rilevare l’abisso, che qui per
la prima volta sembra essere introdotto nella storia della filosofia, l’essenziale
diversità di natura esistente tra unità e molteplicità fenomenica. Ciò posto, come
avrebbe potuto parlare a tal modo Teofrasto, dopo la trattazione su Senofane,
perché avrebbe considerato quasi una scoperta e una novità quello che già prima
gli era risultato a proposito del Colofonese? Si veda infatti la sua interpretazione
di quest’ultimo: la sua sostanza dovrebbe essere identica a quella parmenidea,
dal momento che univoco è il modo di esprimersi teofrasteo per entrambi, anzi,
ancor maggiore in Senofane è il distacco dal fenomenico, se il suo uno non è né
finito né infinito, mentre plasticamente limitato è quello di Parmenide – e inoltre
tanto distante è per lui la molteplicità dall’unità che questa costituisce il centro
della sua dottrina, mentre a quella egli sembra non attribuire la dignità di essere
oggetto di una trattazione scientifica. In conclusione, constatata questa identità
tra Senofane e Parmenide nell’interpretazione teofrastea, ci sarebbe da
chiedere, se davvero Senofane fosse stato considerato il maestro, perché mai
Teofrasto non avesse già insistito, parlando di lui, su questa astrattezza
dell’arché.
Con questa ricostruzione di Teofrasto si trae il nucleo del suo giudizio sui
Presocratici. Siamo ora in grado di tentare un nuovo riordinamento dei
frammenti di questo primo libro sulle archaí, il più importante dell’opera
teofrastea. Il fr. 1, che comincia parlando di Talete, lascia adito a dei dubbi seri
sulla sua provenienza teofrastea. Una considerazione fondamentale che si
oppone all’attribuzione del lungo passo simpliciano (475, 2-476, 2) a Teofrasto
sta nella forma della citazione di quest’ultimo, inserita verso la metà del passo,
dove parlandosi sempre di Talete vien detto «sebbene ci siano stati anche molti
altri che l’hanno preceduto ... come ritiene anche Teofrasto». Se i precursori di
144

Talete sono ricordati «anche» da Teofrasto, ciò significa che il resto del passo
non era ricavato da quest’ultimo, e tutt’al più si potrà estendere la citazione
teofrastea al periodo in cui è inserito il richiamo. Tale estensione è
stilisticamente consigliabile. Inoltre archaí è per Teofrasto un termine ben
preciso, usato nel senso che gli risulta dalla sua indagine storica. Come
tale archaí ha il valore di principio che comunque trascende l’immediatezza
fenomenica, cosa riscontrata pienamente per la prima volta proprio a proposito
di Anassimandro (si noti inoltre il rilievo dato alla frase «e fu il primo a
introdurre questo nome di archaí», 476, 5-6); la prova si è che la parola è
145

evitata quando si parla di Anassimene, dove pure poteva esservi motivo di


38
dubbio. Tanto meno è dunque logico che Teofrasto l’abbia usata per Talete; a
costui nessuno nega egli abbia accennato nelle Opinioni dei fisici, ma ci sembra
difficile accettare come teofrasteo nel testo di Simplicio null’altro se non il
passo «Talete il primo ... tanto da oscurare tutti quelli prima di lui» (475, 10-
14). Il Peripatetico si contenta così di accennare soltanto a Talete, che fu il
146

primo scienziato e il primo fisico, e segnò la via alla visione filosofica del
mondo, ma lo scopritore vero di questa visione è per lui Anassimandro. Costui
non ha solo una personalità, ma altresì delle dottrine definite. Facciamo dunque
seguire al breve sguardo su Talete la prima parte del fr. 2 (476, 1-15). La
successione, immediata o meno, è provata dal rapporto personale tra
Anassimandro e Talete, rilevato all’inizio del frammento. Tali rapporti
personali, cui Teofrasto ricorre di regola nell’introdurre le sue testimonianze, ci
daranno anche in seguito un criterio per quanto è possibile sicuro a stabilire lo
svolgersi della sua trattazione: ogni nuovo filosofo è da lui posto come oggetto
di un paragrafo staccato, e quei riferimenti iniziali assicurano la continuità della
cronologia e del pensiero interpretativo. Il testo di Teofrasto non continua poi
con la trattazione di Anassimene, come sta in Simplicio, ma si riattacca
immediatamente al parallelo tra Anassimandro e Anassagora nel fr. 4 (479, 2-
16).
Segue la testimonianza su Parmenide, fr. 6, anch’essa allacciata a ciò che
precede senza soluzione di continuità (482, 7-13). Al fr. 6 seguiva con ogni
probabilità il fr. 7, ma è andata perduta la connessione fra i due. Potrebbe a tutta
prima recar stupore il fatto che Teofrasto parli qui dell’essere e del non essere
parmenideo, mentre prima aveva accennato soltanto all’uno. Se si guarda però
bene al sillogismo, appare chiaro come i due termini vengano introdotti
unicamente per dimostrare l’unità. In questo accentrare l’interesse di Parmenide
intorno all’unità, Teofrasto non è un buono storico, e vedremo in seguito il
perché. È vero ch’egli non dice l’uno (τò ἕν), come Platone e Aristotele, e
grammaticalmente tratta l’unità in quanto attributo di ciò che è(ὄν), ma
nonostante questa maggiore fedeltà non mostra di aver compreso Parmenide, a
giudicare dalla presentazione naturalistica del filosofo nel frammento
precedente («che il tutto dura sempre»), che risponde al suo schema
147

interpretativo. Il passaggio dal sesto al settimo frammento si spiega con il


bisogno che ha Teofrasto di chiarire meglio il contenuto della più importante
delle due vie, quella secondo verità. Egli avrà detto pressappoco: Parmenide
giustifica nel modo seguente che il tutto sia uno. Al settimo facciamo seguire il
quinto frammento. Sulla connessione di quest’ultimo con il sesto si è già parlato
in una nota precedente: il fr. 7 inserito tra i due serve a completare la continuità
148

del pensiero teofrasteo. Dopo essere ritornato sulla prima via e di avere insistito
sul concetto dell’unità, Teofrasto trova naturale accennare a Senofane, che di
questa via è un tipico e unilaterale rappresentante. La successione dal fr. 5 al fr.
7 era probabilmente immediata. Ad eliminare la discontinuità esistente in seno
al fr. 5, stabilendo un nesso con le parole «un’altra ... dell’indagine», viene in
aiuto un passo di Aristotele, riguardante genericamente i filosofi «della scuola
di Melisso e di Parmenide», la cui costruzione ricorda talmente da vicino
149

39
quella teofrastea da far pensare le sia servita da modello: «che, se anche dicono
bene riguardo alle altre cose, bisogna tuttavia ritenere non parlino da un punto
di vista fisico. Giacché, che alcune delle cose che sono siano non generate e
assolutamente immobili, è piuttosto di un’indagine diversa precedente a quella
fisica». È proprio l’accogliere un principio astratto che preclude la via alla
150an

ricerca fisica: tale è la motivazione di Aristotele, e la stessa abbiamo ogni


ragione di credere che sia stata quella di Teofrasto. L’ammette (ὁμoλoγῶν) con
cui Simplicio introduce la frase in questione è un indizio di più in tal senso: il
«riconoscimento» di Teofrasto che non si può parlare di una fisica senofanea
deriva appunto dall’aver osservato l’assolutezza assunta nel Colofonese dal lato
astratto dell’ellenismo.
A seguire il fr. 5 si adatta perfettamente il fr. 8 su Leucippo e Democrito,
anche qui per quanto possiamo credere in modo immediato. La connessione
interna del frammento con l’interpretazione degli Eleati ci è risultata in una nota
precedente [cfr. nota 148]: ora rileviamo, come elemento esterno, il riferimento
che Teofrasto fa all’inizio di ogni nuova trattazione, in questo caso espresso da
«unitosi a Parmenide nella filosofia». Invero si potrebbe pensare che la
151

testimonianza sugli Atomisti sarebbe allora più a posto se fatta seguire al fr. 6;
con ciò si dimenticherebbe però quanto è risultato prima, la stretta dipendenza
cioè del quinto frammento dal sesto, di cui forma come un’appendice, tanto da
far credere costituissero un unico paragrafo, dedicato appunto a Parmenide. Si
osserva poi quel che segue: «non batté la stessa strada di Parmenide e di
Senofane» (notevole l’ordine di citazione). Non sarebbe appropriato parlare
152

ancora di Senofane, se la sua trattazione avesse realmente preceduto quella su


Parmenide, tanto più che il Colofonese non è certo degnato di molta
considerazione da Teofrasto. La cosa è invece chiara secondo la nostra
interpretazione: l’originale stimolatore della teoria atomistica doveva essere
Parmenide, e accanto a lui viene ricordato Senofane, sia pure in posizione
secondaria, mantenendosi la continuità con quanto stava prima. Inoltre
Parmenide e Senofane vengono qui posti su un identico piano speculativo,
ancorché il secondo vi sia giunto per merito del primo, espresso dall’antitesi
essere-non essere, che influì potentemente sugli Atomisti; il che, mentre
fornisce una prova in più sulla bontà della nostra tesi, sarebbe impossibile se il
frammento su Senofane, che preso in sé non contiene in nessun modo il suddetto
contrasto, precedesse davvero quello su Parmenide.
Giunto a Metrodoro (l’accenno al quale chiude il paragrafo su Democrito,
come mostra chiaramente l’espressione «stabilisce pressappoco gli stessi
princìpi dei seguaci di Democrito») attraverso una serrata catena di filosofi
153

che era partita da Talete, Teofrasto si dovrebbe trovare al termine della sua
scorsa sui Presocratici. Ma su altre probabilità notevoli, e che non si potrebbero
davvero far seguire, con un vincolo cronologico o di discepolato, né a
Democrito né a Metrodoro, troviamo attraverso le testimonianze di Simplicio
dei frammenti teofrastei; si pone quindi anche per quelli il problema di
determinare la posizione in seno al libro delle archaí. Teofrasto poteva parlare
alla rinfusa dei filosofi che ancora gli rimanevano, oppure ricominciare da capo
40
una seconda più breve serie di pensatori, parallela alla prima e tale da poterne
colmare le lacune. Abbiamo buone ragioni per credere che egli si sia attenuto a
quest’ultimo metodo che rispondeva al suo istinto sistematico. Si veda infatti il
fr. 3 su Empedocle, uno dei filosofi tralasciati; l’usuale riferimento introduttivo
a chi precedeva è duplice: «... vissuto non molto dopo Anassagora, fu per altro
acceso ammiratore di Parmenide...». Si ha cioè un rapporto temporale con
154

Anassagora accanto ad uno personale con Parmenide, contrariamente a tutti i


frammenti visti prima, dove unico e determinato era il riferimento. La cosa non
è però inspiegabile. Empedocle dovrebbe naturalmente seguire Parmenide, con
cui è congiunto dal vincolo di discepolato, ma ciò è impossibile perché, dopo
la trattazione su Parmenide, Teofrasto avrà parlato secondo ogni
verosimiglianza di un altro suo discepolo, Leucippo, dal momento che
quest’ultimo viene introdotto con il riferimento al solo Parmenide.
All’Agrigentino spetterà dunque un’altra posizione, e quale essa sia ci dice
appunto l’accenno al suo rapporto temporale con Anassagora dal momento che
sinora non ci è risultato alcun esempio in cui Teofrasto ricordasse dei particolari
cronologici per pura curiosità. In sostanza abbiamo trovato il primo anello della
seconda serie, Anassagora-Empedocle; mancatogli il criterio organico del
discepolato, l’autore si accontenta di un semplice nesso temporale. Orbene,
Anassagora è proprio un altro dei filosofi tralasciati e si adatta quindi
perfettamente nella seconda serie; di lui si era già accennato, è vero, a proposito
di Anassimandro, ma si trattava di un ricordo accidentale e il paragrafo speciale
a lui dedicato non è ancora entrato nella nostra ricostruzione dell’opera
teofrastea. Se andiamo ora a vedere quest’ultimo, al principio del frammento 4
dielsiano, troviamo una definitiva conferma alla nostra tesi. Il solito riferimento
iniziale suona in questo caso: «Anassagora che condivideva la filosofia di
Anassimene», ed Anassimene è per l’appunto il terzo e ultimo dei filosofi
155

notevoli che non sono stati compresi nella prima catena. Anassimene, per
contro, si riallaccia saldamente, come discepolo, ad Anassimandro, il
personaggio centrale della prima serie di filosofi.
In questa nuova successione Teofrasto fa entrare, a parte Archelao, che
chiude per così dire la trattazione di Anassagora, anche Diogene di Apollonia,
dedicandogli un paragrafo particolare, per quanto breve, ora che il nesso della
catena è diventato per forza di cose molto rigido. Vediamo ora la successione
precisa dei frammenti. Il passaggio da Democrito ad Anassimene ci è
sconosciuto; comunque Teofrasto riprende daccapo, da Anassimandro. Il
frammento su Anassimene (seconda parte del fr. 2, 476, 16-477, 5) non presenta
nulla di notevole quanto al contenuto. Ad esso teneva dietro il passo su
Anassagora e Archelao (fr. 4, cui bisogna sottrarre la parte centrale,
appartenente come si è visto alla trattazione di Anassimandro). Il contenuto è
invece qui interessante: «per primo egli permutò le opinioni sulle archaí,
introducendo la causa che mancava e facendo infiniti i princìpi materiali». Le156

espressioni «per primo egli permutò» e «la causa che mancava» lasciano
157 158

capire che di numerosi altri filosofi doveva essersi parlato prima, il che va in
perfetto accordo con la nostra ricostruzione. Questa infatti lascia seguire ad
41
Anassagora il solo Empedocle (trascuriamo Diogene d’Apollonia, che non
interessa Teofrasto per la sua mancanza di originalità), il quale per giunta è
l’unico Presocratico cui non si addirebbe la permutazione anassagorea, non
potendo sotto nessun punto di vista ridursi all’unità i suoi punti sostanziali.
Anassagora è contrapposto da Teofrasto a tutti gli altri filosofi come lo
scopritore della nuova scienza della natura: questa considerazione aiuta a
spiegare il perché egli venga trattato separatamente da quelli. La speculazione
presocratica, secondo la visuale interpretativa di Teofrasto, aveva scoperto
l’unità come principio sostanziale, più o meno connesso con la materialità;
Anassagora non appartiene più a tale ambiente storico, poiché la sua unità
acquista una dignità prima di lui sconosciuta, ed è trasformata in aitía,
«permutata» cioè a risolvere la sfera del divenire. Prima, parlando di
Anassimandro, Teofrasto aveva tentato di inserire Anassagora nella grandiosa
problematica degli antichi fisici e a quello scopo aveva costretto le sue
omeomerie ad una phýsis dell’ápeiron (ἀπείρου ϕύσις). Ora, per contro, che
egli si accosta direttamente alla personalità del Clazomenio deve seguire la via
opposta, ossia insistere proprio sulla infinità dei suoi princìpi materiali, in nome
della «permutazione» attribuitagli. Così soltanto quest’ultima acquista un
valore completo, dal momento che negli altri Presocratici il principio
sostanziale è sempre unitario, fatta eccezione per gli Atomisti, i quali pur senza
giungere a tale «permutazione» si sono già avviati, secondo quanto ci è risultato
in una nota precedente [cfr. nota 148], verso una tale direzione. Di qui ancora
una volta risulta chiaramente come la testimonianza di Simplicio che forma
l’attuale fr. 4 dielsiano non possa in verun modo riprodurre l’originale testo
teofrasteo, dopo che abbiamo in essa individuato due passi appartenenti a
trattazioni profondamente diverse per spirito e scopo.
Segue, come si è già detto, il fr. 3 su Empedocle. In esso si stabilisce un
rapporto personale importantissimo per noi: «Empedocle ... fu per altro acceso
ammiratore di Parmenide e a lui strettamente unito, e ancora di più dei
Pitagorici...» (Dox., 477, 17 sgg.). Nello stesso senso testimonia Diogene:
159

«Teofrasto poi dice che fu acceso ammiratore di Parmenide e suo imitatore nella
poesia, giacché anche questo aveva scritto in esametri la sua operaSulla
natura». Quanto all’acceso ammiratore (ζηλωτής) si può essere sicuri che
160ao

risponda all’originale testo teofrasteo, poiché a riportare la parola concordano


le nostre due fonti. Altrettanto certi è lecito per contro essere sulla non
appartenenza a Teofrasto della frase «e ancora di più dei Pitagorici», sul che
161

sembra concordare anche il Diels. Diogene infatti, che attinge a un’epitome


teofrastea, mostra di ignorarla, mentre difficilmente la sua fonte l’avrebbe
potuta tralasciare.
ap162

Ciò non è decisivo perché il contatto con Teofrasto è assai più diretto in
Simplicio che non in Diogene. Vi è però ancora una considerazione di indole
generale che ci sembra troncare ogni dubbio: sarebbe molto strano che qui
Teofrasto accennasse ai Pitagorici come ai maestri di Empedocle senza dirci
che cosa in sostanza gli avrebbero insegnato. Eppure non soltanto in questo
primo libro, ma ovunque nelle Opinioni dei fisici Teofrasto mostra di ignorare
42
in modo quasi assoluto i Pitagorici. Rimane l’e strettamente unito(καὶ
aq

πλησιαστής), che Diels contesta, quasi Teofrasto avesse parlato di


un’ammirazione d’Empedocle per Parmenide, senza per altro ammettere tra i
due alcun contatto personale. Notevole è la scarsezza d’uso del
vocabolostrettamente unito, che non incontriamo affatto nei dossografi, e
starebbe invece benissimo in bocca a Teofrasto. Ma anche qui abbiamo un
ar

argomento. Se Simplicio o chi prima di lui avesse interpretato tutta la frase «e


strettamente unito... dei Pitagorici» si sarebbe indubbiamente deciso a ciò per
aggiungere al rapporto Parmenide-Empedocle quello Pitagorici-Empedocle,
non solo, ma per far prevalere quest’ultimo sull’altro; e allora che bisogno
avrebbe mai avuto di rafforzare la «lontana ammirazione» di Teofrasto,
trasformandola in stretto vincolo personale, dal momento che proprio
quest’ultimo doveva essere il maggior ostacolo alla sua tesi?
Il testo di Simplicio continua con l’interpretazione teofrastea: «Egli pone
quattro elementi corporei, fuoco, aria, acqua e terra, che si mutano
quantitativamente unendosi e separandosi, e come princìpi dominanti, da cui
quelli sono mossi, amore e odio. Dovranno quindi muoversi secondo una
vicenda gli elementi ora unendosi a causa dell’amore, ora separandosi a causa
dell’odio. Di conseguenza secondo lui i princìpi sono anche sei. Talvolta infatti
concede all’amore e all’odio una forza efficiente quando dice (segue la
citazione del fr. 17, 7-8):... in altri casi pone anche questi come elementi alla
stregua degli altri quattro, quando dice» (segue la citazione di fr. 17, 17-20).
163

Questo passo non contiene nulla d’importante dal punto di vista


interpretativo, né aggiunge qualcosa che già non sapessimo da Aristotele.
Quest’ultimo aveva contrapposto in Empedocle unità e molteplicità, Sfero e
divenire, aveva stabilito interessanti paralleli con Anassimandro e Anassagora,
insistendo sulla trascendenza dello stadio di unificazione e trascurando la
concezione popolare dei quattro elementi. Teofrasto è qui a un livello
interpretativo assai inferiore: la sua stessa impostazione di un problema della
sostanza distinto da quello del divenire è qui lasciata cadere, come dimostra il
passo citato. A lui interessa di più Anassagora, che a suo avviso porta la
problematica dei Presocratici alla formulazione più evoluta: Empedocle è
sospinto in coda alla seconda serie, e Teofrasto gli contesta una posizione
originale e rilevante. Tutt’al più il passo ci può servire a rilevare la distinzione
terminologica, importante nella sua impostazione ermeneutica, posta da
Teofrasto, tra stoicheîon, che allude alla corporeità immediata, e arché.
Quando un Presocratico ci parla di un principio sensibile, sembra dirci
Teofrasto, intende qualcosa che è contemporaneamente materialità ed essenza
della materialità, ed è quindi giusto che noi vediamo arché sotto la seconda
luce, la più profonda, e quella cui il Presocratico voleva in estrema analisi
giungere, per quanto non si sia espresso adeguatamente. Infine tale distinzione
di valore tra arché e stoicheîa ci è confermata dal fr. 3 su Empedocle. Dapprima
gli elementi sono detti stoicheîa; philía e neîkos, invece archaí, poi, posti
questi due sullo stesso piano degli altri, si parla di seiarchaí, non già di
sei stoicheîa. Ciò perché il carattere comune di tutti questi princìpi, una volta
43
inclusivi anche l’amore e l’odio, non potrà essere più brutalmente materiale,
bensì animato ed essenziale, e Teofrasto è autorizzato a
dire archaí. Chiamare archaí i quattro elementi gli sembra troppo arrischiato,
poiché qui si trova dinanzi alla materia immediata, al puro oggetto dei sensi,
ciò che non era avvenuto per le omeomerie e per gli atomi; eppure egli sa
scoprire la vitalità degli elementi e preferisce sacrificare l’impostazione di un
problema della sostanza distinto da quello del divenire per mantenere anche in
Empedocle la propria interpretazione di arché.
Dopo Empedocle, a chiudere la trattazione teofrastea sulle archaí dei
Presocratici, non ci rimane da collocare altri se non Diogene d’Apollonia. I
filosofi della seconda serie sono visti più isolatamente, le loro teorie non
rientrano nel doppio problema della sostanza e del divenire, non ne continuano
armoniosamente la vita cui avevano dato inizio e sviluppo Anassimandro,
Parmenide e gli Atomisti. In Anassimene e Diogene infatti la sostanza è al
tempo stesso principio del divenire, ogni duplicità è assente dal sistema; in
Empedocle, già lo si è visto, si abbandona la fondamentale unità della sostanza
e alla fine i due problemi primitivi più non riescono a distinguersi chiaramente;
in Anassagora infine tutta l’impostazione presocratica viene capovolta, e pur
sussistendo ancora un’attitudine statica accanto ad una dinamica nel guardare
la realtà, non vi è più un nesso di continuità tra di esse e le visuali parallele di
Anassimandro e di Parmenide. Comunque la posizione isolata che spetta a
questo secondo gruppo di filosofi non significa affatto per Teofrasto una loro
inferiorità rispetto al primordiale ambiente presocratico, anzi tutt’altro: prova
ne sia la considerazione in cui è tenuto Anassagora, che è per lui, a quanto
possiamo capire, il più grande dei pensatori antichi, e il largo spazio dedicato a
Empedocle nel Sui sensi (Περὶ αἰσθήσεων).

Appendice 164

Prima di chiudere le nostre indagini in questo campo ci conviene arrestarci


ancora un istante sul testo di Simplicio e anche
sui Philosophumena(Φιλoσoϕoύμενα) di Ippolito, che sono costruiti su una
base teofrastea. Il Diels ha determinato nella sua opera fondamentale le due
fonti di Ippolito, un compendio biografico risalente a Sozione attraverso
Eraclide Lembo e un estratto teofrasteo, più serio e scientifico. Diventa allora
per noi interessante, data la sicurezza di questa prevalente provenienza
teofrastea, confrontare l’ordine di successione attribuito nei Philosophumena ai
Presocratici con quello prima stabilito nella ricostruzione di Teofrasto e vedere
se sia rintracciabile una parentela tra i due. L’ordine di Ippolito è: Talete,
Pitagora, Empedocle, Eraclito, Anassimandro, Anassimene, Anassagora,
Archelao, Parmenide, Leucippo, Democrito, Senofane. La successione nel
commento di Simplicio è invece: Senofane, Talete, Eraclito, Anassimandro,
Anassimene, Diogene, Empedocle, Platone, Anassagora, Archelao, Leucippo,
Democrito. Il torto del Diels è di avere dato troppo peso ad entrambe queste

44
successioni, soprattutto alla seconda. Simplicio determina l’ordine della sua
trattazione secondo lo schema puramente sistematico dato da Aristotele alla
filosofia presocratica in Phys., 184 b 15. Che un tale ordine abbia potuto essere
seguito anche da Teofrasto, come pare voglia il Diels (Prol., 105), è del tutto
impossibile, già per il solo fatto che sarebbe allora oziosa e fuori posto
l’abbondanza di particolari biografici da lui usata. Si potrebbe poi obiettare al
Diels che, ad essere coerenti, non si dovrebbe togliere allora Senofane da
capolista e trasportarlo al centro della trattazione teofrastea, e sarebbe tutt’al
più giustificato farlo precedere dal solo Parmenide (citazione da Alessandro),
cui tocca il primo posto nello schema aristotelico. Non solo, ma il fr. 9 Diels su
Platone è citato da Simplicio dopo il passo su Empedocle e prima di quello su
Anassagora, il che prova come il commentatore aristotelico non si peritasse
affatto di spezzare a suo piacimento l’originale testo di Teofrasto e riportarlo
quindi frammentariamente. Per noi la costruzione di Simplicio si spiega
diversamente, ricordando che secondo ogni evidenza egli non possedeva il
passo teofrasteo su Parmenide. (La cosa è chiara dal fatto che appena enunciato
il suo schema, Simplicio nomina, come rappresentante del secondo caso
teorico, Parmenide, senza per altro diffondersi su di lui citando Teofrasto, a
quanto vi sarebbe da attendersi. A ciò si aggiunge il passo 38, 19 sgg. di questo
suo stesso commento, in cui egli tratta sì diffusamente di Parmenide, e la
testimonianza ha un’indubbia tinta teofrastea, ma riportando da Alessandro e
senza neppure nominare Teofrasto. Da questo passo il Diels [Prol., 113] crede
di aver tratta la prova essenziale in favore della sua tesi sulla dipendenza di
Simplicio da Alessandro quanto alle citazioni teofrastee. A noi per contro esso
sembra dimostrare proprio il contrario, che cioè il nostro commentatore attinge
direttamente da Teofrasto. In questo caso particolare su Parmenide infatti
perché mai Simplicio si sarebbe accontentato di citare Alessandro e non avrebbe
usufruito il frammento teofrasteo riportato da quest’ultimo [fr. 6 Diels],
secondo la sua pretesa abitudine? Ora, il fatto che neppure voglia citare il passo
di Teofrasto ricordando di averlo ricavato da Alessandro, e si limiti a
parafrasarlo, prova ancor più la sua scrupolosità; egli cita sì in altro luogo
Teofrasto richiamandosi ad Alessandro [fr. 7 Diels], dove il frammento è
brevissimo e incidentale e la cosa non è per lui impegnativa, ma quando il
contesto è rilevante preferisce vedere l’autore con i propri occhi. È quindi logico
attendersi da lui una conoscenza diretta di Teofrasto, nel caso che si decida a
citarlo. Parrebbe però strano, dopo quanto si è detto, che pur possedendo il testo
teofrasteo egli non avesse letto la parte su Parmenide. Anche questo comunque
è spiegabile se si tengono presenti due passi dello stesso Simplicio [Phys., 133,
21 e 168, 2], in cui egli dichiara di non aver potuto rintracciare nelle opere da
lui possedute di Anassagora e di Eudemo delle dottrine che avrebbero dovuto
esservi contenute. Non è affatto fuori del caso che lo stesso gli sia accaduto per
Teofrasto: potremmo al riguardo supporre che gli scritti di quei filosofi non
siano giunti a lui nella loro veste originale, bensì raccolti in antologie. In queste
ultime non esisteva evidentemente il paragrafo teofrasteo su Parmenide, come
dimostra altresì il fr. 7, riguardante del pari Parmenide, che Simplicio si vede
45
costretto a trarre da Alessandro. Quest’ultimo è nominato da Simplicio come
garante di citazioni teofrastee solo a proposito di Parmenide. Quanto abbiamo
detto ci permette inoltre di spiegare il contrasto fra il fr. 5, in cui Simplicio
dichiara Senofane maestro di Parmenide, e la frase di Alessandro nel fr. 6, «ma
intende anche Senofane», salvando la buona fede di Simplicio. Costui infatti
165

è autorizzato, secondo la testimonianza aristotelica, a stabilire il rapporto


Senofane-Parmenide, senza per questo falsificare Teofrasto, dal momento che
il diverso rapporto di quest’ultimo, Anassimandro-Parmenide, era stato
spezzato nella sua fonte e gli era così rimasto ignoto. Diversamente si era
espresso Alessandro, il quale possedeva probabilmente il testo teofrasteo nella
sua integrità). Posto questo, risulta mancante per Simplicio proprio la spina
dorsale della trattazione teofrastea; l’interesse e l’originalità di questa stavano
nella successione organica Anassimandro-Parmenide-Atomisti, e venuto a
mancare con Parmenide il connettivo necessario e il fulcro di tutta la prima serie
di Presocratici, non rimaneva a Simplicio altro di continuato se non la seconda
successione di filosofi, i cui collegamenti come si è visto sono piuttosto
esteriori. Egli credette allora che l’opera teofrastea non avesse seguito alcun
criterio sistematico o cronologico preciso, e nella restituzione dei frammenti
preferì attenersi al suddetto schema aristotelico, pur cercando di connetterlo con
quanto gli sembrava di poter salvare della costruzione di Teofrasto. Egli
possedeva della prima serie l’anello Talete-Anassimandro e poi, isolati,
Senofane e gli Atomisti; la seconda invece al completo, ma in essa l’unico
collegamento organico era quello Anassimandro-Anassimene. Gli sembrò
quindi logico restituire la successione Talete-Anassimandro-Anassimene, cui
fece precedere Senofane, secondo lo schema aristotelico, dal momento che a
questi nel suo testo teofrasteo non era attribuito alcun riferimento. Del pari non
esitò a scambiare di posto Anassagora con Empedocle volendo trattare della
pluralità finita di elementi prima della pluralità infinita, e lasciò per ultimi gli
Atomisti. Poiché inoltre trovava eccessivamente esteso il paragrafo su
Anassimandro, senza capirne la ragione non possedendo il seguito, e inoltre
riguardante a suo parere, più ancora che Anassimandro, Anassagora, preferì
inserirne una parte nel capitolo su quest’ultimo. Cambiò infine di posto Diogene
d’Apollonia, senza dare evidentemente peso alla cosa, trattandosi di un filosofo
secondario, per l’affinità di pensiero da lui riscontrata tra quest’ultimo e
Anassimene (cfr. Aristotele, De an., 405 a 21), tanto da sentirsi autorizzato dal
genericocambiamenti di affezioni di Teofrasto ad interpolare le parole che già
166

si è detto (cfr. il suo commento in Phys., 149, 32 dove, dopo di aver ricordato
che Teofrasto concedeva la rarefazione [μάνωσις] e
la condensazione[πύκνωσις] al solo Anassimene, esprime la propria opinione
in contrario).
Passiamo ora brevemente ai Philosophumena, dove però i risultati non
potranno essere altrettanto sicuri. L’esauriente indagine dielsiana (Prol., 144-
56), dopo di aver rilevato una duplice fonte dello scritto di Ippolito, un’opera
biografica di compilazione e un estratto teofrasteo, dimostra tra l’altro come i
primi capitoli di Ippolito, sino ad Anassimandro, siano dedotti per intero dal
46
compendio biografico. E infatti le tendenze pitagoriche, o quanto meno il
materiale biografico pitagorico in possesso dei suoi autori, Sozione, Eraclide
Lembo, ecc., si rivelano nell’introduzione di Pitagora, certamente assente
nell’opera di Teofrasto, e soprattutto nel fargli seguire come discepoli
Empedocle ed Eraclito. A parte questi primi capitoli, ritroviamo nel seguito di
Ippolito le due serie teofrastee, però in ordine inverso. La cosa è tuttavia
spiegabile. Il libro di Sozione, fonte lontana del compendio biografico, trattava,
secondo quanto ha concluso la critica, anzitutto di Talete e degli altri Ionici, e
in seguito, dopo di aver parlato di Socrate, Platone, Aristotele e di altri ancora,
riprendeva i Presocratici con Pitagora, gli Eleati e Democrito. Senonché
Ippolito conosceva Sozione attraverso la posteriore rielaborazione di Eraclide
Lembo, fonte essenziale del compendio biografico, in cui la successione dei
filosofi pare fosse la seguente: fisici, sette saggi, Socrate e scuole socratiche,
Pitagora, Empedocle, Eraclito, Eleati, Atomisti (cfr. Diels,Prol., 152). A
Ippolito che aveva sott’occhio il compendio suddetto e l’estratto teofrasteo,
sembrò quindi naturale dal confronto di stralciare dall’inizio della sua
trattazione la parte riguardante Socrate e i Socratici. Fece poi violenza
all’estratto teofrasteo dove la cosa gli sembrava più logica, includendo nei primi
capitoli (ricavati come si è detto per intero dal compendio biografico)
Empedocle, che veniva così a perdere il suo posto nella seconda serie teofrastea,
dato che a proposito di questo filosofo particolarmente abbondanti erano le
notizie provanti una sua dipendenza dai Pitagorici (cfr. Diog., VIII, 54-56), e
inoltre Talete isolato, che da quanto è risultato dalle nostre precedenti indagini
era stato appena sfiorato da Teofrasto, e poteva quindi essere scambiato di posto
senza danno. Si potrebbe dire allora, dato che evidentemente nel compendio
biografico a Talete tenevano dietro Anassimandro e Anassimene, che sarebbe
stato logico per Ippolito mantenere questa successione all’inizio della sua
opera. In tal modo per altro la seconda serie teofrastea, che egli si accorgeva
valer assai di più come contenuto, e cui già doveva sottrarre Empedocle,
cedendo all’ordine di quello stesso compendio, sarebbe andata del tutto in
fumo. Comunque, anche non potendo accettare completamente la successione
del compendio, l’averla ritrovata gli fece risolvere un dubbio. Questo gli
proveniva dalla lettura di Teofrasto, dove Anassimandro era collegato prima a
Parmenide e poi ad Anassimene. Ippolito non era abituato a simili biforcazioni,
che non aveva conosciuto nelle Successioni (Διαδoχαί) da lui possedute e
167

dovendosi decidere preferì la successione Anassimandro-Anassimene,


confermatagli dal suo compendio biografico. A ciò fu indotto anche da un’altra
considerazione: contro il rapporto Anassimandro-Parmenide stava una notizia
di Sozione, di cui Ippolito secondo ogni probabilità era a conoscenza, che
faceva dipendere l’Eleata dal pitagorico Aminia (Diog., IX, 21). Il Diels, Prol.,
148, ha usufruito questa notizia in favore della sua tesi sulla successione
teofrastea Senofane-Parmenide: Ippolito avrebbe tolto Senofane dal posto che
egli teneva in Teofrasto per lasciar seguire Parmenide ai Pitagorici, secondo il
compendio. Senonché, osserviamo noi, nel testo di Ippolito, Parmenide non
segue affatto i Pitagorici, poiché vi si tratta dopo Empedocle ed Eraclito e prima
47
dell’Eleata, di Anassimandro, Anassimene, Anassagora e Archelao; poteva
quindi essere aggiunto anche Senofane senza alcun danno. Ciononostante egli
non diede la preferenza a Sozione piuttosto che a Teofrasto. Dal momento che
il compendio biografico, nella rielaborazione di Eraclide Lembo, faceva seguire
a Pitagora Empedocle ed Eraclito, Ippolito trovò più semplice accettare
quest’ultima successione, che salvando l’interpretazione pitagorica delle sue
fonti biografiche si adattava meglio all’estratto teofrasteo, in cui secondo le
nostre precedenti ricerche non doveva farsi accenno a Eraclito. Tutto ciò per
contro lo persuase maggiormente della successione Anassimandro-Anassimene
a rispetto di quella Anassimandro-Parmenide: per la prima delle sue due fonti
andavano d’accordo, per la seconda in contrasto, ed egli si decise per quella,
lasciando in sospeso quale fosse il vero maestro di Parmenide. Tutta la
costruzione di Ippolito diventa così chiarissima. Dopo di aver accettato dal
compendio biografico la successione Talete, Pitagora, Empedocle, Eraclito (ciò
che gli era suggerito dal non avere Teofrasto trattato Pitagora ed Eraclito e
dall’avere appena accennato a Talete), Ippolito passa alla seconda serie
teofrastea, che gli sembrava la più fondata, e da cui viene sottratto il solo
Empedocle, e conclude con la prima serie teofrastea, lasciando cadere per le
considerazioni fatte sopra il rapporto Anassimandro-Parmenide (si noti la
concordanza nelle due fonti di Ippolito della successione Parmenide-Atomisti).
Notevole conferma alla nostra ipotesi è data nel testo di Ippolito dalla presenza
dei due capitoli 5 e 10, i quali hanno secondo ogni evidenza la funzione di
separare le tre parti distinte sopra, riepilogando in poche parole ciò che precede,
stabilendo un nesso con la trattazione successiva e richiamando nei due casi
Talete, come per ricominciare la trattazione. È anche spiegabile il posto isolato
che prende Senofane, in coda agli altri. Teofrasto non aveva degnato il
Colofonese di un paragrafo, accennandone di sfuggita dopo Parmenide, mentre
Sozione pare l’abbia tenuto in grande considerazione, facendone quasi il
fondatore dello scetticismo (secondo quanto ha dedotto acutamente il Diels
in Prol., 146), Ippolito, influenzato da Sozione, non si sentì di trascurare
Senofane, di cui certo aveva udito parlare come di una personalità notevole, e
imbarazzato sul posto da attribuirgli lo collocò verso il fondo della sua
trattazione dei Presocratici, prima di Ecfanto di Siracusa, il quale per l’appunto
secondo la sua fonte aveva sostenuto opinioni scettiche. Può forse ancora esser
degno di rilievo il fatto che Ippolito ometta di ricordare qualsiasi rapporto
temporale o di discepolato proprio a proposito dei filosofi prima discussi, quelli
cioè che potevano avergli fatto nascere dei dubbi, Anassimene, Parmenide e
Senofane (oltre a Talete e Pitagora, per i quali però la cosa è naturale, essendo
dei capiscuola). Per concludere, osserviamo come non debba trarre in errore la
concordanza tra Simplicio e Ippolito nel far precedere Eraclito ad
Anassimandro, né occorra per questo accettare l’ordine dielsiano. Tale contatto
è invece puramente casuale: in Simplicio la successione prende origine, come
si è visto, dallo schema aristotelico, in Ippolito, per un ordine di idee totalmente
diverso, dalla classificazione tra i Pitagorici di Eraclito. Quanto al rapporto
Archelao-Socrate, di cui già prima abbiamo sostenuto la provenienza non
48
teofrastea, facciamo notare che il cap. 10 di Ippolito, dove appunto è contenuto,
viene considerato dallo stesso Diels come attinto dal compendio biografico.
Risultati definitivi non possono però attendersi daiPhilosophumena, per il
semplice motivo che noi possediamo frammenti estesi del primo libro soltanto
di Teofrasto, mentre gli estratti teofrastei usufruiti da Ippolito erano
evidentemente dedotti da tutta quanta l’opera, anche da altri libri cioè in cui
l’ordine primitivo poteva essere mutato, secondo quel che si deduce dal
frammento Dei sensi (su ciò si veda Diels,Prol., 104-105). Tralasciamo quindi
le ricerche su altri dossografi, in cui le tracce teofrastee sono meno nette e
continue che in Ippolito, quali Diogene, Plutarco, ed Aezio.

II
VITA E OPERE

a. Fonti biografiche

Le testimonianze sulla vita di Empedocle sono assai numerose, e per lo più


anche attendibili, cosicché una ricostruzione fondata della vita del filosofo può
riuscirci assai meglio che nel caso degli altri Presocratici. Le fonti biografiche
168

essenziali sono contenute in Diogene Laerzio: VIII, 51-77. L’esame critico di


Diogene e delle sue fonti sarebbe quindi la condizione per appurare del tutto
questo problema, ma in questo campo, che è del resto strettamente filologico ed
esula dal nostro interesse immediato, ci affidiamo ai risultati delle più
autorevoli indagini in proposito. Secondo queste la fonte essenziale di
169

Diogene nella sua vita di Empedocle è costituita da Ippoboto, autore su cui


possiamo fare discreto affidamento. Rimandiamo quindi alla lettura diretta del
as

testo di Diogene, limitandoci a ricordare qualche tratto saliente della vita e della
personalità empedoclea ed a discutere brevemente alcune questioni interessanti
e non ancora del tutto chiarite.
Empedocle appartiene a nobile e potente famiglia agrigentina; il padre
Metone ebbe senza dubbio una parte nella vita pubblica della città, in quel
tempo una delle più interessanti e popolose della Grecità. Durante la prima
gioventù del filosofo aveva dominato in Agrigento il saggio tiranno Terone: alla
morte di questi (472) succede il violento figlio Trasideo, la cui tirannia è
brevissima. In Agrigento si afferma la tendenza democratica, che abbiamo ogni
ragione di credere fosse guidata appunto da Empedocle. Il periodo di attività
politica del filosofo va perciò situato nel decennio 470-460. E anche credibile
che in questi anni Empedocle abbia rifiutato la monarchia offertagli dagli
Agrigentini. Assieme al suo potere politico è probabile sia fiorita la sua
at170

enorme popolarità – a quanto possiamo giudicare dai suoi stessi frammenti e


dalle notizie sulla lettura dei Katharmoí (Καθαρμoί) ad Olimpia – come profeta
religioso e come mago. Verso il 450 ha termine il successo di Empedocle e
subentra la disgrazia. La notizia del suo esilio – testimoniata da Timeo – è
attendibile. Noi pensiamo, congetturando, che tale esilio sia stato determinato
49
dal disinteresse per la politica mostrato ad un certo punto da Empedocle, che
diede buon gioco agli avversari, ed in parte dalla profonda trasformazione della
vita pubblica greca verso il 450. In tale epoca i trascinatori di folle per virtù
magiche e filosofiche cominciarono ad essere visti come personaggi del
passato. Non crediamo che il filosofo sia rimasto molto toccato dall’esilio; è au

probabile comunque che egli sia ritornato in patria negli ultimi anni di vita.
Una questione su cui è opportuno insistere sta nella determinazione degli
estremi cronologici della vita di Empedocle. Il risultato sarà da porre a
av

raffronto con le relazioni di discepolato quali abbiamo stabilito nell’opera


teofrastea. Leggiamo la parte che interessa il problema nel testo di Diogene
171

Laerzio (cfr. VIII, 51-52): «Anche Eratostene negli “Olimpionici”, servendosi


della testimonianza di Aristotele, dice che il padre di Metone vinse nella
settantesima prima olimpiade (496). Apollodoro il grammatico dice nelle
Cronache: “era figlio di Metone e Glauco afferma che egli venne a Turii quando
da poco era stata fondata”. Poi continuando: “coloro che narrano come
giungesse a Siracusa, esiliato dalla patria, e combattesse assieme a questa città
contro gli Ateniesi, mi sembra che sbaglino del tutto; in quell’epoca infatti o
era già morto o era vecchissimo. Quest’ultima circostanza non risulta vera”.
Aristotele infatti dice che egli – e così pure afferma di Eraclito – morì a sessanta
anni». In questo passo non mancano le notizie attendibili. Anzitutto il 496,
172

anno che può servirci da terminus post quem rispetto alla data di nascita del
filosofo. La vittoria in tale anno ad Olimpia del nonno di Empedocle è
tramandata da ottime fonti, Eratostene ed Aristotele, quindi credibile. Il vigore
fisico indispensabile per un olimpionico rende quasi impossibile il supporre che
nel 496 il nonno di Empedocle avesse un’età tale da permettergli di essere già
nonno. Segue nel testo di Diogene la citazione testuale di Apollodoro, come è
noto la fonte essenziale per la ricostruzione della cronologia presocratica. Le
citazioni testuali di Aristotele sono assai rare, ed una di queste per l’appunto, e
delle più estese, abbiamo la fortuna di possedere a proposito di Empedocle. Il
dato più importante contenuto in questi versi di Apollodoro è senza dubbio la
notizia di Glauco di Reggio, che segnala la presenza di Empedocle a Turii, poco
dopo la fondazione di questa città, fondazione che noi sappiamo con certezza
essere avvenuta nel 444-443. La testimonianza è della massima attendibilità,
dato che Glauco di Reggio fu contemporaneo di Empedocle; si tratta addirittura
della più antica notizia indiretta sul filosofo. Da questo dato Diels e Jacoby
hanno dedotto che il 444-443 fu scelto da Apollodoro come akmé(ἀκμή) di 173

Empedocle e che di conseguenza la data di nascita di quest’ultimo fu portata


dal cronologo al 484-483. Senonché lo schematismo dell’akmé e la teoria dei
sincronismi su cui tanto insiste Jacoby, per quanto comunemente accettati, sono
ben lungi dall’essere dimostrati. Noi pensiamo al contrario che Apollodoro
aw174

abbia compiuto la sua opera con una serietà ben maggiore di quella attribuitagli
dai critici moderni, e questo stesso passo di Diogene, a prescindere da altre
considerazioni, sta a provarlo. Se veramente, come vuole Jacoby, Apollodoro
avesse posto la data di nascita nel 484-483, non avrebbe poi potuto avanzare
l’ipotesi che all’epoca della guerra fra Atene e Siracusa egli sarebbe stato
50
ὐπεργεγηρακώς, cioè «vecchissimo». Dato che la spedizione ateniese contro
Siracusa cade nel 415, Empedocle dovrebbe raggiungere in tale anno, secondo
la presunta cronologia di Apollodoro, i 68-69 anni, il che non corrisponde
affatto al concetto di vecchissimo. Si aggiunga che l’espressione «da poco ...
fondata» non costringe a pensare la visita di Empedocle a Turii nello stesso
175

anno della fondazione della città, come vuole l’interpretazione schematica di


Jacoby, e suggerisce piuttosto una data aggirantesi attorno al 440. Ciò
ringiovanirebbe ulteriormente Empedocle all’epoca della spedizione contro
Siracusa. In conclusione, noi dobbiamo pensare che secondo Apollodoro la data
di nascita di Empedocle doveva cadere non più tardi del 490, e forse qualche
anno prima. Abbiamo ogni ragione di credere che Apollodoro fosse bene
informato – si ricordi la testimonianza di Glauco – sulla cronologia empedoclea,
e non possiamo dare un peso preponderante a questa data. I due termini entro
cui dovrebbe cadere la nascita di Empedocle si sono così ristretti al 496 e 490;
del resto appunto a questi anni la riportano la maggioranza dei critici. Per parte
ax

nostra, volendo determinare ulteriormente, preferiamo il termine più recente, il


490, che può giungere sino al 488, tenendo presente la notizia di Eratostene, e
soprattutto la posizione storica, politica, e filosofica di Empedocle, che lo
distacca dalla precedente generazione presocratica e, come si vedrà meglio in
seguito, presuppone in lui un’esperienza diretta della profonda trasformazione
culturale della Grecia – non vissuta da Parmenide per esempio – subentrata
dopo la metà del secolo quinto. La durata della sua vita, come risulta dal passo
ay

citato di Diogene, è fissata per testimonianza di Aristotele a sessant’anni. Non


vi è alcun motivo per dubitare di questo dato, cosicché veniamo a conoscere
con una certa precisione anche la data di morte. Ottenuti così gli estremi
az

cronologici della vita di Empedocle, i risultati più importanti sono


l’inquadramento esatto in una fondamentale epoca storica e la conferma della
possibilità del rapporto di discepolato – stabilito da Teofrasto – tra Parmenide
ed Empedocle. Secondo la cronologia più probabile infatti – concedendo cioè
come sembra logico una base storica all’incontro tra Parmenide e Socrate
testimoniato da Platone – Parmenide dovrebbe morire verso il 450. Anche
ammettendo per altro che la sua morte risalga al 460 – assai difficile è ritrarla
più indietro – la possibilità di tale rapporto di discepolato continua a sussistere
ampiamente.
L’ultima questione che ci interessa è la fine di Empedocle. Contrariamente a
quanto pensano tutti i critici noi riteniamo storicamente possibile il suicidio di
Empedocle, quale ci è testimoniato da Diogene Laerzio. Notevole è anzitutto
l’antichità delle fonti che lo riportano: Eraclide Pontico può averlo appreso
sessant’anni appena dopo la morte del filosofo – o addirittura cinquanta,
secondo l’opinione del Bidez – da persone cioè che erano nella prima
giovinezza quando questa avvenne. Su Eraclide non si potrebbe comunque fare
grande affidamento, se la notizia non fosse confermata da Diodoro Efesio,
autore pressoché sconosciuto, ma piuttosto antico, a quanto risulta dalla critica
del testo di Diogene. Oltre a ciò, la versione caricaturale del suicidio è
ba

posteriore, secondo quanto ha dimostrato Bidez (Biogr. d’Emp., 70-72). Anche


51
prima comunque Timeo non aveva compreso il significato della fine del
filosofo, ed aveva creduto di salvarne la memoria opponendosi al racconto del
suicidio. Timeo non possedeva però altre versioni e si accontentò di fornire una
congettura personale e delle deboli confutazioni di quanto era stato tramandato
(cfr. Biogr. d’Emp., 48-49: il fatto che il sacrificio precedente la morte di
Empedocle sia avvenuto in territorio siracusano, anziché costituire
un’obiezione, si accorda ottimamente con le notizie dell’esilio del
filosofo). Altri indizi portano infine a pensare che Eraclide non inventò il suo
bb

racconto, ma lo trasse da una tradizione locale diffusa. In conclusione una


bc176

semplice riluttanza psicologica, derivante dall’incomprensione della


personalità di Empedocle e dal trovar ridicolo quanto non era sembrato tale solo
a chi era vissuto vicino a lui, spiega come da antichi e moderni sia stata
senz’altro negata la verità storica del suicidio.

b. Opere

Gli scritti di Empedocle di cui ci siano rimasti frammenti sono due: Perì
phýseos e Katharmoí. Quanto alla prima opera, non si sa se il titolo sia
originale; la cosa è però possibile, dato che possediamo testimonianze assai
antiche di tale designazione (cfr. Platone, Phaed., 96 a: «il sapere, che appunto
chiamano indagine sulla natura»). Da discutersi è anche il significato
177

presocratico del vocabolo phýsis: a nostro avviso, esso non indica «origine»,
«nascita», «natura creatrix», «realtà fisica», ma piuttosto, almeno nei filosofi
sino ad Empedocle e nel senso più profondo che si ritroverebbe nel titolo delle
loro opere, «realtà assoluta, essenziale», in ogni caso non sensibile.
bd

Contestato è poi il numero dei libri della divisione alessandrina. Abbiamo


due testimonianze in proposito: Suida, s. v. «Empedocle»: «scrisse anche in
versi due libri Sulla natura»: (secondo i mss.; nell’ed. pr. si legge ); Tzetze,
178 179

nella citazione del fr. 134: «Empedocle nel terzo libro dellaFisica». Il Diels
180

pensa che l’editio princeps di Suida sia corretta secondo questo passo di Tzetze,
a suo avviso privo di valore, e attribuisce quindi il frammento ai Katharmoí; i
libri sarebbero quindi due. A questa si oppone il Bignone (Empedocle, 311 e
App. V), sostenendo che l’attribuzione del fr. 134 ai Katharmoí è basata sulla
preconcetta interpretazione atea e materialistica del Perì phýseos, e contestando
l’errore di Tzetze; i suoi argomenti ci sembrano buoni e la sua opinione fondata.
Per l’ampiezza dei due poemi i dati ci vengono forniti da Suida (s.v.:
«Empedocle»), che attribuisce al Perì phýseos duemila versi, e da Diogene
(VIII, 77), che fa constare le due opere di cinquemila versi complessivamente.
Quest’ultima cifra è sembrata eccessiva al Diels, che ha voluto emendare il testo
di Diogene, mutando cinquemila (πεντακισχίλια) in in tutto tremila (πάντα
τρισχίλια). Anche a noi cinquemila versi sembrano troppi, ma preferiamo
lasciare intatto il testo di Diogene, attribuendo alle sue fonti un’imprecisione
nel riferire.

52
Altro problema è il rapporto cronologico tra le due opere. A nostro parere
i Katharmoí sono stati composti anteriormente al Perì phýseos. Agli argomenti
addotti dal Bidez, di per sé decisivi, possiamo aggiungere da un lato che
be

l’akmé del successo politico di Empedocle, con ogni probabilità situata intorno
il 460, non può essere cronologicamente lontana dal momento di popolarità
presupposto nei Katharmoí, e d’altro canto che il Perì phýseosmostra
un’evoluzione, una maturità ed un’indipendenza filosofica che non
appartengono ai Katharmoí, mentre questi ultimi rivelano una freschezza ed
un’immediatezza artistica propria della gioventù. Proponiamo delle date di
composizione alquanto anteriori a quelle del Bidez, il 455 per i Katharmoí e il
445 per il Perì phýseos (scritto intorno al 450 secondo Wilamowitz, in
«Berliner Sitzungsberichte», 1929, 653). Per quanto riguarda la successione dei
frammenti di Empedocle, pensiamo non sia possibile raggiungere alcun
risultato definitivo. I nessi di forma e di contenuto che si possono stabilire sono
troppo tenui e contraddittori. In tale situazione è opportuno accettare, senza
attribuirvi eccessiva importanza, la successione stabilita dal Diels con qualche
giustificata modifica, suggerita dal Bignone, quale l’attribuzione alPerì
phýseos dei cosiddetti frammenti sulle divinità (130-34) o la posposizione dei
frammenti 8-15. bf

c. Influsso di Empedocle

Ci accontentiamo di dare su questo argomento alcuni accenni riguardanti


l’influsso immediato di Empedocle sulla sua epoca e su quella appena
successiva. Due nomi ci interessano a questo proposito: Gorgia e Platone.
Quanto al primo, rimandiamo allo studio del Diels (Gorgias und Empedokles,
in «Sitzungsberichte der königl. preuss. Akad. der Wissens. zu Berlin», 1884,
343-68), che ha esaurientemente dimostrato l’influsso di Empedocle sul sofista.
Il Diels, per provare tale rapporto, parte dal Menoneplatonico (76 c), e prosegue
individuando, attraverso un frammento di Teofrasto, l’esistenza di una teoria
ottica in Gorgia che conferma l’influsso empedocleo. Per conciliare la scoperta
in Gorgia di teorie fisiche accanto al più noto nichilismo, Diels suppone uno
sviluppo successivo della sua personalità. La fase giovanile sarebbe per
l’appunto dominata dall’influsso empedocleo; più tardi l’Agrigentino avrebbe
iniziato un suo nuovo periodo, volgendolo a Parmenide e all’Eleatismo – la
coesistenza in Gorgia di elementi empedoclei ed eleatici infatti suggerisce una
volta di più il rapporto Parmenide-Empedocle, che a noi tanto interessa – e
determinando così la sua crisi di disperazione nichilistica. Gorgia si sarebbe poi
salvato dandosi alla vita pratica e politica. Ancora qui, rileviamo, nel grande
incremento da lui dato alla retorica, persiste l’influsso di Empedocle: si ricordi
la testimonianza di Aristotele (Diog., VIII, 57), secondo cui Empedocle
introdusse la retorica. Diels ha fatto un paragone fra lo stile empedocleo e quello
gorgiano, rilevandone la comune pomposità e osservando in Gorgia il tentativo

53
di mantenere uno stile poetico in prosa. Noi approviamo in pieno tutta quanta
l’analisi del Diels.
Più interessante ancora è rilevare l’influsso di Empedocle su Platone.
L’argomento è già stato toccato da diversi studiosi, ma in modo alquanto
superficiale. In questa sede ci limitiamo a ricordare alcune osservazioni nostre,
riguardanti non tanto un contatto dottrinale tra i due filosofi – per cui sarebbe
necessario affrontare l’interpretazione di Platone – quanto un parallelo stilistico
tra di loro. Tra i riferimenti dottrinali citiamo soltanto – non come prove di un
influsso, ma come semplici testimonianze – il già ricordato passo
del Menone (76 c), ed inoltre Phaed., 96 a-b (dove si accenna al sangue come
organo del pensiero), Leg., 889, e Soph., 242 c (testimonianze generiche sulla
dottrina empedoclea). Come fonte indiretta per la ricostruzione della filosofia
di Empedocle, Platone non ha per noi alcun valore; anche infatti se le sue
testimonianze fossero più numerose, non potremmo mai determinarne
l’attendibilità. Basti pensare in proposito al problema insoluto, in buona parte
per colpa di Platone, delle fonti socratiche.
Restando dunque all’influsso stilistico, i nostri studi sulla cronologia dei
dialoghi platonici (i cui risultati non possono evidentemente trovare qui
un’illustrazione) ci hanno suggerito come periodo dell’attività letteraria di
Platone che risente più da vicino di Empedocle, nella forma e nello spirito, gli
anni intercorrenti tra il 392 ed il 384. La prima opera di questo periodo,
181

secondo noi consistente nella seconda redazione del Fedone (69 e-114 c, ecc.),
rivela infatti numerosi contatti stilistici con Empedocle (cfr. il
vocabolofusione [κρᾶσις], 86 b, 86 d, 111 b, che si ritrova in Empedocle fr. 22,
4;perforare [τιτράω], 111 e, che si ritrova in Empedocle fr. 84, 9 e fr. 100,
3;incanalato [ὀχετóς], 112 c, che si ritrova in Empedocle fr. 3, 2, nel verbo
corrispondente; si veda l’espressione «che escono fuori dal mare», che ricorda
182

Empedocle fr. 117, 2: «che salta fuori dal mare»). Ancora più accentuato il
183

parallelismo tra i versi empedoclei e la prima redazione delFedro (composta


presumibilmente tra il 390 e il 388, ed estendentesi da 227 a 257 b). Si 184

confronti infatti il vocabolo derivo (ἐπoχετεύω), 251 e, che richiama Emped. fr.
35, 2; effluvio (ἀπoρρoή), 251 b, che si ritrova in Emped. fr.
89; pongo (ἐρείδω), 254 e, che si ritrova in Emped. fr. 12, 3 e fr. 110,
1; medito (ἐπoπτεύω), 250 c, che si ritrova in Emped. fr. 110, 2. Altri influssi
stilistici tra Phaedr., 249 c: «solo sia alato il pensiero del filosofo ... la divinità
è divina ... diviene egli solo perfetto», ed Emped. fr. 112, 4: «io per voi dio
185

immortale» e fr. 113; tra Phaedr., 247 a: «l’invidia non sta nel Coro
186

divino», ed Emped. fr. 36: «e mentre convenivano giù all’estremo si


187

collocava Neîkos»; tra Phaedr., 247 c: «osservabile con la mente», ed


188 189

Emped. fr. 17, 21: «guardala con la mente». 190

Nel Simposio poi, che è composto probabilmente nel 385-384, oltre ai


contatti stilistici si ritrova un notevole influsso empedocleo anche per quanto
riguarda il contenuto filosofico. A prescindere infatti dal discorso di
Erissimaco, il cui spirito empedocleo è già stato spesso rilevato, molti spunti
interessanti a questo proposito sono contenuti nel mito di Aristofane. Così il
54
caratteristico vocabolo empedocleo carattere distintivo (ἐπιχώριoν) (fr. 62, 8)
191

compare in Symp., 189 b; si veda inoltre il modo di esprimersi empedocleo nel


fr. 2, 6. L’espressione, sempre del mito di Aristofane, in 190 a: «appoggiandosi
sulle estremità», ricorda lo stile di Empedocle; e con maggiore precisione,
192

l’espressione in 190 a: «e, sopra un collo tornito circolarmente, in ogni punto


simili», ricorda Emped. fr. 27, 4. Ancora più notevole è l’accostamento di un
193

passo in 191 a: «allora, una volta divisa in due la natura primitiva, ciascuna
metà bramando la metà perduta che era la sua, la raggiungeva», con due 194

frammenti empedoclei, il 63: «ma la natura trascendente delle membra è divisa


in due: una parte nell’uomo», e il 64: «e il desiderio lo pervade, facendogli
195

ricordare attraverso la vista». La derivazione stilistica ed il parallelismo della


196

costruzione sono tanto evidenti da rendere superfluo il commento: il mito


aristofaneo doveva quindi trovarsi prefigurato in Empedocle. Già Diels ha colto
perifericamente la relazione tra queste pagine del Simposio e i due frammenti
empedoclei, limitandosi per altro a richiamare il termine caratteristico unito
attraverso l’incontro(σύμβoλoν) fra le parole aristoteliche che introducono il
fr. 63, e ilfacendogli ricordare (ἀμμιμνῄσκων) del fr. 64. Dal raffronto posto da
noi risulta tra l’altro il significato di «realtà assoluta» da attribuirsi a phýsis nel
fr. 63 di Empedocle. Dato il contesto frammentario, sino ad ora si era scelto il
significato di «origine» offerto da Aristotele. Senonché, quanto poco ci si possa
fidare di quest’ultimo a proposito dell’uso presocratico di phýsis lo si può
vedere dal fr. 8, 1 di Empedocle, unico caso accertato in cui phýsisabbia per lui
il significato di «origine», dove Aristotele (Metaph., 1014 b 36) fraintende
grossolanamente tale significato. Nel caso del fr. 63 Aristotele, che
evidentemente conosceva l’influsso esercitato su Platone da quei versi
empedoclei, non si peritò di servirsene in materia di embriologia. I due suddetti
frammenti empedoclei ci illuminano altresì sulla possibilità di influssi ulteriori
dell’Agrigentino su Platone, in particolare per quanto riguarda la teoria
della vista (ὄψις) nel Fedro, e forse anche in genere per la dottrina
dell’anámnesis (ἀνάμνησις). Altri contatti possono forse essere ritrovati con
il Timeo, anche a prescindere dalla dottrina degli elementi – patrimonio
originariamente della coscienza popolare greca – soprattutto per quanto si
riferisce allo stile: non abbiamo però approfondito il problema.

III
TEORIA DELLA CONOSCENZA

Dall’esame delle fonti indirette è risultato quanto poco esse possano


contribuire alla ricostruzione storica della filosofia empedoclea. Ci si dovrà
allora affidare all’indagine dei frammenti del filosofo rimasti. Seguiamo in tale
indagine un metodo filologico, analizzando nel testo i singoli frammenti, per
dare per quanto è possibile un’obiettività scientifica all’interpretazione
filosofica che vi si appoggia. Citiamo i frammenti secondo la numerazione della
55
quinta edizione dei Fragmente der Vorsokratiker di Diels-Kranz. Affrontiamo
anzitutto un gruppo di frammenti collegati per il contenuto, costituenti cioè
quanto ci è rimasto della teoria della conoscenza empedoclea. Essi
appartengono al Perì phýseos, e per la maggioranza, pensiamo, alla prima parte
del poema; non è probabile però che essi fossero congiunti nel testo originale,
nulla provandoci che Empedocle seguisse nel suo poema un ordine sistematico
e svolgesse partitamente i singoli problemi.

Frammento 2:
Ristretti poteri conoscitivi si sono diffusi attraverso le membra,
molte miserie li incalzano, opprimendone la conoscenza.
Avendo raccolto nella loro vita una piccola parte di vita,
individui dal breve destino, subito alzatisi come fumo, dileguano,
credendo soltanto in ciò in cui ciascuno s’imbatte,
sospinti in ogni direzione, si vantano poi di scoprire il tutto.
Così queste cose non sono né visibili agli uomini, né udibili,
né comprensibili con la mente; tu per altro, poiché ti sei staccato qui presso
di me,
saprai, non più comunque di quello cui può giungere la mente mortale. 197

Il frammento, riportato da Sesto Empirico, presenta parecchie difficoltà nel


testo, ed è importante come contenuto soprattutto perché ci fornisce gli elementi
primi della gnoseologia empedoclea.
Al v. 1 compare il termine assai notevole παλάμη («palma della mano», trasl.
«mezzo», qui «mezzo di conoscenza»). Il significato originario «palma» indica
un voler cogliere qualcosa; questa concretezza sussiste ancora nell’uso
empedocleo, cosicché una traduzione ancora più opportuna sarebbe «intime
forze vitali» caratteristiche dell’uomo, ma non ancora determinate. Arbitraria è
quindi la traduzione del Diels: «Sinneswerkzeuge» (organi di senso), in
quanto paláme non ha né in Omero né nel linguaggio poetico presocratico un
significato tecnico e ben determinato. L’unica determinazione data a poteri
conoscitivi (παλάμαι) è ristretti (στεινωπoί) (ricordiamo la variante di
Preller: angusti –στεινóπoρoι – dedotta da Teofrasto, De sens., 7), che ci fa
risultare questa attività conoscitiva come la più bassa. Se mai, una
determinazione ulteriore può venire dal verbo si sono diffusi (κέχυνται), che dà
un significato dinamico a palámai, accentuandone la concretezza già osservata.
A questa elementare struttura conoscitiva, ancora vibrante, intima ed
indeterminata, si oppone, formalmente e come contenuto, l’attraverso le
membra (κατὰ γυῖα); la traduzione di quest’ultimo termine è più complessa che
non il semplice «Glieder» (arti) di Diels. Essa comprende «organi di senso»,
«membra» in generale, ed anche facoltà conoscitive sensoriali o addirittura
rappresentazioni di tali facoltà (cfr. fr. 3, fr. 13). Le membra(γυῖα) sono
l’espressione, la manifestazione delle palámai, il solidificarsi del movimento e
dell’intimità di queste ultime in un’esterna forma visiva. Il v. 2 rende ancora
più fosco il quadro della comune conoscenza umana, rilevando che all’innata
56
limitatezza di questa si aggiunge l’azione oppressiva del mondo esterno, che
incombe a soffocare le interiori forze conoscitive, impedendone l’espansione.
La conoscenza viene così sempre più messa alla pari con un processo vitale,
che da parecchi centri interiori tende ad allargarsi, a conquistare figure, forme,
spazio, materia, e che in questa lotta riesce più o meno a seconda del grado della
sua forza intima e dell’entità degli ostacoli che il mondo esterno gli
frappone. In questo verso conoscenze (μερίμναι) equivale evidentemente
bg

a palámai. Il v. 3 è assai discusso per il testo. I codd. offrono la lettura vita di


vita (δὲ ζωῇσι βίου) priva di significato. Ecco le varie emendazioni
proposte: povero di vita (δὲ ζωῆς ἀβίoυ, Scaliger, Stein); vivono della
vita (ζώουσι βίου, Wyttenbach); nei vivi di vita (δ’ ἐν ζωοῖσι βίου,
Gataker); della propria vita (δὲ ζωῆς ἰδίου, Diels); nella loro vita (δ’ ἐν ζωῇσι
βίου, Wilamowitz, Kranz). Quest’ultima a nostro avviso è la migliore. Quanto
198

all’ultima parola del verso invece non seguiamo alcuno dei critici precedenti. I
mss. di Sesto danno in maggioranza osservata (ἀθρήσαντες); due di
essi raccolta (ἀθροίσαντες) (codd. Ciz. e Regim., secondo Mullach Fr. Ph. Gr.,
I 25) o, secondo la lettura accettata dal Diels, raccolti (ἀθροίσαντος). Di qui i
critici, a parte Kersten, che ha emendato in tollerata (ἀθλήσαντες), hanno
accolto universalmente la variante athrésantes. Senonché, a prescindere dalla
lettura controversa dei due codici di Sesto, a nostro avviso è senz’altro
consigliabile la forma athroísantes, sia essa variante o lettura diretta. Dal punto
di vista formale infatti si tratta di una lectio difficilior, e per il contenuto una
giustificazione e una conferma di tale lettura risulterà dall’esame del fr.110.
Quest’ultimo, come si vedrà, è dominato dal pensiero che la conoscenza tende
ad un accrescimento quantitativo, ogni centro di attività conoscitiva assume
dalla realtà circostante gli elementi affini che la potenziano:athroísantes indica
appunto nel fr. 2 tale accrescimento quantitativo. Segue il v. 4 di provenienza
stilistica omerica, ed irrilevante come contenuto, a parte l’accenno pessimistico.
Più interessanti i vv. 5-6, che ricordano Eraclito (cfr. ad es. frr. 1 e 17). Come
nella filosofia di quest’ultimo, viene cioè presentata l’antitesi tra la visione
dell’uomo comune, spezzata e discontinua, limitata al mondo ristretto
dell’individuo volgare, e la visione filosofica della totalità, fatta intravedere
negativamente nel v. 6, introducendo il passaggio ai versi successivi.
Il s’imbatte (προσέκυρσεν) del v. 5 ricorda l’incalzano(ἔμπαια) già visto – e
conferma in parte tale lettura – rappresentando ancora ciò che dall’esterno
s’impone al soggetto. Si può rammentare come parallelo la prima forma di
conoscenza spinoziana, l’imaginatio, in cui del pari il soggetto è essenzialmente
passivo – passivo –ma in cui anche, come nella gnoseologia empedoclea, il
fulcro della conoscenza sta in un primordiale, intimo ed irrazionale impulso del
soggetto (parallelo tra palámai e conatus). Il secondo emistichio del v. 6, così
com’è tramandato dai mss.: «si vanta di avere trovato l’intero», non può essere
199

accettato per ragioni metriche, ed inoltre perché si vanta (εὔχεται) non si adatta
a sospinti (ἐλαυνóμενοι). Lo Stein ha corretto sospinto (ἐλαυνóμενος) ed
aggiunto empiamente (μάψ) dopo intero (ὅλον); Bergk, Mullach, Diels
lasciano sospinti ed inserisconotutto (πᾶς). Osserviamo per altro che tali
57
costruzioni non si ritrovano né in Empedocle né in genere nei Presocratici, e
che inoltre esigono una trasformazione troppo sensibile del testo tramandato.
Proponiamo quindi la lettura: «sospinti in ogni direzione, si vantano poi di
scoprire il tutto», che è più semplice. L’inserzione del te (τε) per ragioni
200

metriche è nel linguaggio epico assai frequente, e trova conferma nell’usus


scribendi di Empedocle: «prima invece di comporsi come mortali» (fr. 15, v.
201

4). Inoltre eýchontaiè consigliabile perché si adatta alla costruzione generale


del periodo, che ha tutti i verbi al plurale. Psicologicamente, la corruzione
in eýchetai è assai spiegabile: l’amanuense aveva sotto gli occhi il «credendo ...
ciascuno s’imbatte» del verso precedente, e senza badare al sottile scrisse
202

«sospinti ... si vanta». Nei vv. 7-8 viene introdotta come contrapposto una
203

nuova conoscenza, la cui designazione è per ora soltanto negativa. Pare così
trattarsi di una conoscenza mistica, divina, che Empedocle evidentemente
riserva a se stesso, se si pone mente ai passi dei Katharmoí in cui egli si dice
dio e fornito di sapienza divina. Il passaggio tra i versi precedenti e questi è un
po’ duro. Notevole è l’introduzione nel v. 8 del vocabolo nóos (νóος): in questo
contesto non è però possibile stabilirne il preciso significato; questo sarà
determinato dall’esame del fr. 3. I vv. 8-9 sono rivolti evidentemente a
Pausania, cui è dedicato il Perì phýseos (cfr. fr. 1) . Il dé (δέ) del v. 8 è
integrazione del Bergk, accolta da tutti (meno Sturz); staccare (λιάζομαι) è
verbo omerico, inteso dallo Sturz come indicante il vagabondare di Pausania
prima di diventare discepolo di Empedocle, dal Diels come accennante al
distacco di Pausania dagli uomini. A nostro avviso, tale verbo significa più che
il distacco fisico dagli uomini un distacco dalle apparenze e dal mondo dei
sensi; implicitamente ciò è confermato da quanto precede nel testo del
frammento. Nel v. 9 i codd. hanno pieno comunque (πλεῖóν γε); accettiamo
l’emendazione di Karsten, seguita da parecchi, in più comunque (πλέον ἠέ):
difficilmente non pieno comunque (οὐ πλεῖóν γε) può equivalere a quanto
comunque (ὄσον γε), come vogliono quanti si mantengono fedeli alla
tradizione. In questo finale del frammento viene presentato un terzo genere di
conoscenza, quello cui può giungere Pausania, se trarrà profitto dagli
insegnamenti del maestro. Si ha qui una nuova conferma dell’influsso di
Parmenide sul nostro filosofo (per quanto ciò non possa essere qui giustificato,
non essendo questa la sede per un’interpretazione dell’Eleata): tra 204

l’inesprimibile conoscenza suprema e la visione volgare degli uomini sta il


campo del Perì phýseos. La verità, che è in possesso del solo Empedocle, è
offerta (queste cose-τάδε) a chi non può coglierla. Pure, tra i due mondi esiste
la possibilità di una connessione: la verità può assumere forma espressiva e
l’uomo ha in sé un principio divino. Il distacco dall’apparenza è la condizione
di un accostamento alla realtà superiore, che spetta a Pausania. Per questo
Empedocle scrive la sua opera.

Frammento 3, vv. 6-13:


Né i fiori della splendida gloria umana ti forzino

58
al punto che tu li raccolga dagli uomini, cosicché tu parli più di quanto sia
lecito
e ti assida allora con alterigia sulle vette della saggezza.
Suvvia, considera con ogni tua intima forza vitale ciascuna realtà nella sua
essenziale chiarezza, né presta fede più alla vista che all’udito,
o al rombante udito più che alle chiare sensazioni della lingua,
e neppure rifiuta di credere ad alcuna delle altre facoltà e rappresentazioni,
ovunque vi sia una strada che porti alla conoscenza, ma conosci ciascuna
realtà nella sua essenziale chiarezza.205

Il fr. 2 ci ha mostrato la distinzione tra palámai e guîa: questi ultimi sono gli
organi sensoriali e le loro rappresentazioni (cioè il mondo nel suo apparire
immediato, nella sua illusorietà sensibile), le prime il fondamento interiore ed
indeterminato di tali rappresentazioni. Questo è lo stadio del fenomeno,
dell’apparenza, in cui l’oggetto s’impone dall’esterno, costituendo mondi
limitati. Qui il soggetto conoscente, frazionato in meschini impulsi conoscitivi,
pure essendo alla base di questa oggettivazione e costituendone per così dire
l’in sé, in conclusione si perde come interiorità e la subisce. La verità assoluta
è soltanto fatta balenare alla fine del frammento come staccata non soltanto dai
sensi ma anche dal nóos, la nuova facoltà conoscitiva, introdotta senza
chiarimento: «né comprensibili con la mente». Dal contesto del v. 9 abbiamo
206

ogni ragione di identificare il nóos con la mêtis (μῆτις), che del pari non giunge
alla verità assoluta, pur rappresentando un distacco dalla conoscenza volgare.
Si tratta quindi di comprendere più da vicino la natura di questo nóos, ed il fr.
3 per l’appunto indica la via che partendo dalla conoscenza comune si solleva
verso la sfera superiore. Il fr. 2, abbandonando l’iniziale impostazione
gnoseologica, aveva distinto piuttosto genericamente tre generi di conoscenza,
ponendo mente più che altro ai diversi individui che ne sono in possesso. Il fr.
3 ritorna, approfondendola, all’analisi gnoseologica delle facoltà, che ci
interessa più da vicino. L’inizio del fr. 3 contiene un’invocazione alla Musa ed
è filosoficamente irrilevante. Cominciamo la nostra indagine dal v. 6. Anche
qui il contenuto non è di grande importanza: a noi i vv. 6-8, che esortano
Pausania a trascurare la gloria mondana, in altre parole la vita politica,
interessano soltanto come prova della fase di solitudine che caratterizza il Perì
phýseos, e ancor più come contrasto esteriore all’intimo processo conoscitivo
descritto nei versi seguenti. Il significato dei vv. 6-8 è però assai discusso.
Anzitutto si presenta il problema del passaggio dal v. 5, rivolto alla Musa, al v.
6, che sembra continuare nello stesso riferimento. Ed infatti parecchi critici
considerano come rivolti alla Musa anche i vv. 6-8. Pur mancando nel testo un
serio appoggio per contestare tale riferimento, noi seguiamo l’opinione del
Karsten, di H. Gomperz e di Wilamowitz, che suppongono una lacuna prima
del v. 6 ed intendono i versi seguenti come rivolti a Pausania. A ciò ci induce
essenzialmente il contenuto dei vv. 6-8, che non può ricevere a nostro avviso
alcun significato soddisfacente se si accetta il riferimento alla Musa.
Ricordiamo alcune traduzioni di coloro che non accettano la lacuna. Sturz fa
59
dipendereraccogliere (ἀνελέσθαι), nel senso di suscipere, aggredi, da ti
forzino(βιήσεται) e vi congiunge parlare (εἰπεῖν), seguito dalla costruzione
«più di quanto sia lecito dire su ciò» (su-ἐπί col dativo nel senso di praeter).
207

Il costrutto è alquanto forzato, e rivolto alla Musa non dà un senso plausibile.


Mullach, seguito da Bignone, suppone un soggetto sottinteso, cupiditas,
facendo di fiori (ἄνθεα) oggetto e introducendo varianti. La traduzione,
eccessivamente manipolata, suona: «e non mi impone la cupidigia di riportare
dai mortali i fiori dell’esimio onore, perché io dica più di quanto è consentito.
Osa e così fuggirai sul culmine della saggezza». La traduzione di Diels, nella
208

terza edizione, suona: «almeno tu non farti allettare da quella corona di gloria
offerta dall’onorificenza umana, a raccoglierla dal suolo per dire con insolenza
più di quanto non sia consentito». Meglio nella quinta edizione: «tu non sarai
209

sopraffatto dai fiori dell’onorificenza gloriosa dei mortali, di riceverle e


accoglierle da essi, affinché tu dica con insolenza più di quanto non consenta il
sacro ordine – e dunque troneggi sulle vette della saggezza». Va bene la
210

traduzione di ἐϕ’ ᾧ θ᾽ (cosicché) con ut, come già era stato proposto prima del
Diels, e va bene in genere tutta quanta la prima parte della traduzione, con la
doppia dipendenza di dagli uomini (πρὸς θνητῶν) dagloria (τιμή) e
da raccogliere (ἀνελέσθαι), purché contrariamente al Diels il contesto vada
inteso come rivolto a Pausania; non siamo invece d’accordo con la traduzione
del verso 8, dove presta fede (θάρσει), pur essendo tradotto come vuole Diels,
va riferito alle parole seguenti (cfr. BignoneEmpedocle, 143-44, 393). Il
contenuto del v. 8 è negativo (come voleva la terza ed. del Diels) ed è coordinato
al verso precedente: si tratta di una falsa sapienza, la cui illusione è suscitata
dalla potenza politica, e da cui Empedocle vuol tenere lontano il suo discepolo.
I versi seguenti ritornano all’impostazione gnoseologica. Nel fr. 2
lepalámai erano state determinate soltanto nella loro ristrettezza e limitazione;
qui per contro, al v. 9, esse ritornano con un valore positivo. Ciò conferma la
nostra precedente interpretazione, in quanto questa positività non può essere
spiegata altrimenti che con l’altra determinazione prima dedotta, cioè la loro
natura interiore e primordiale.
La qualità delle palámai è positiva; la loro debolezza nella costituzione degli
organi umani consiste unicamente, sembra suggerire il fr. 3, in un fattore
quantitativo. Quando infatti le palámai si presentano riunite in un complesso
unitario, dice il v. 9, la conoscenza può diventare attiva e fornirci l’oggetto nella
sua essenzialità. Mentre l’oggetto nel fr. 2 si presentava come soverchiante la
meschinità della conoscenza – fondata sullo stesso elemento, le palámai –si
spiegava con la passività del soggetto, qui la situazione è rovesciata ed è il
soggetto che penetra nell’oggetto e lo domina, nient’altro che per
un’accresciuta potenza quantitativa. Lo stesso doppio rapporto si può constatare
rispet to all’antitesi tra interno e esterno, che caratterizza il fulcro dell’attività
conoscitiva ed il mondo degli oggetti e delle rappresentazioni. Nel fr. 2
l’oggetto prevale ed il mondo risultante è quello dell’apparenza immediata; nel
fr. 3 ci si distacca dall’apparenza, il soggetto prevale ed il mondo è spezzato
nell’astratto ciascuna realtà (ἕκαστον). Notevole è quest’ultimo termine, che
60
designa qui l’oggetto. Esso accenna ad un pluralismo, non però determinato,
secondo il modo solito di interpretare Empedocle, ma indeterminato. La
conoscenza di cui qui si tratta è evidentemente positiva e il suo risultato,
l’hékaston, non può quindi essere illusorio; il principio di individuazione è così
essenziale, e la nostra conoscenza superiore non ci porta verso l’universale e
l’astratto, ma verso l’individuale ed il concreto. Quindi il
termine chiaro (δῆλον), che è il criterio della verità, non significa perspicuità e
chiarezza razionali, ma evidenza immediata ed intuitiva. I vv. 10-12 tentano poi
di chiarire questo processo conoscitivo; Empedocle deve però servirsi per le
necessità dell’espressione di termini sensibili, poiché la natura interiore ed
indeterminata delle palámai gli impedisce di parlarne in modo chiaro, e ricorre
così ai guîa, manifestazione diretta di quelle. Sorge in tal modo una certa
ambiguità nei suoi versi, in quanto il fr. 2 condannava la conoscenza sensoriale,
mentre il fr. 3 sembra esaltarla. Il contrasto non sussiste invece secondo la
nostra interpretazione: i vv. 10-12 del fr. 3 non esaltano la conoscenza
sensoriale, ma l’unificazione dei guîa, che non ha e non può avere alcuna
espressione sensoriale adeguata, non potendosi intendere se non come attività
conoscitiva interiore. D’altra parte il riferimento concreto ai sensi e alla
positività delle loro funzioni chiarisce il vero modo di intendere di Empedocle,
che non dava come si è detto a questa conoscenza superiore un valore astratto
mediato, ma intuitivo e concreto. Importante conferma alla nostra
interpretazione sta nell’emistichio «ovunque vi sia una strada che porti alla
conoscenza», dove è implicitamente ribadita la natura interiore della
211

conoscenza in questione. I guîa sono soltanto una «via», un mezzo per giungere
a tale conoscenza, che sta quindi su di un piano diverso, non riducibile ad una
singola rappresentazione sensibile o ad una somma meccanica di
rappresentazioni. La fusione delle palámai può esprimersi sensibilmente con la
totale collaborazione dei guîa, ma questi ultimi rimangono sempre
una via (πóρoς), poiché tale genere di conoscenza non si esaurisce nell’attività
dei vari organi sensoriali. Il citato emistichio del v. 12 è poi importante perché
dà infine un nome a questa nuova conoscenza: noêsai.Evidentemente con tale
termine non si può intendere altro se non la designazione della conoscenza
prospettata al v. 9; a parte il contesto chiaro del frammento, un’ulteriore
conferma è contenuta nel secondo emistichio del v. 13: «conosci ciascuna realtà
nella sua essenziale chiarezza», la cui equivalenza al «considera... ciascuna
212

realtà nella sua essenziale chiarezza» del v. 9 è lampante. Ecco quindi il


213

chiarimento che si attendeva del termine nóos, comparso nel fr. 2. Con esso si
designa la facoltà conoscitiva sopra descritta; noêsai non potrà mai tradursi con
pensare, ma piuttosto con intuire interiormente o qualcosa del genere. A nostro
avviso, in tutta questa concezione del nóos, Empedocle ha subito potentemente
l’influsso di Parmenide. I guîa –termine introdot to in questo frammento per
bh

l’appunto nel significato sopra chiarito – non dovranno isolarsi, sfibrando con
un’esclusiva impressione passiva l’intero organismo, ma collaborare,
divenendo le vie attraverso cui si esplichi l’espansione dall’intimo. L’unione
delle palámai è quindi il nóos, ed il cogliere l’hékaston nella sua vitalità si
61
chiama noêsai. Tutto ciò può dirsi la conoscenza artistica della realtà, in cui
ogni individuazione è ritenuta essenziale e scoperta come tale. Dalla stessa
concessione pluralistica parte anche Eraclito: Empedocle per altro imposta più
chiaramente la questione. Tuttavia la conoscenza suprema, trapelata nel finale
del fr. 2, non è quella del nóos: l’unione dei guîa spetta anzi, in gradazioni
diverse di potenza, a tutti gli uomini. Abbiamo in tal modo concluso l’esame
214

del fr. 3, che nella sua seconda parte non presenta nulla di notevole per quanto
riguarda la critica del testo: seguiamo ora la gnoseologia empedoclea in altri
frammenti.

Frammento 105:
Nutrito (il cuore) nei flutti del sangue che gli si scaglia incontro,
là dov’è per lo più ciò che è chiamato dagli uomini principio di conoscenza:
infatti il sangue che sta attorno al cuore è negli uomini il principio della
conoscenza. 215

Il frammento, in cui soprattutto è importante il v. 3, riflette ancora una volta


la tendenza empedoclea ad esprimere intuitivamente ogni termine astratto. Si
tratta anche qui della doppia considerazione, interiore ed esteriore, della realtà.
Il principio di conoscenza (νóημα), evidentemente sinonimo di nóos, viene
determinato, espresso come sangue (αἷμα); quest’ultimo risulta la
fenomenizzazione di quel principio unitario ed individuale che abbiamo visto
nel frammento precedente. La pura funzione interiore del noêsai, già obiettivata
nel nóema, entra nell’apparenza, prende un posto nel campo della visibilità
come sangue. Nel Perì phýseos ogni nascosta essenzialità prende una figura, ed
il sentimento fondamentale che nei momenti intensi di vita, quando la parte più
vera di un individuo coglie un oggetto, tumultua nel pet to (περικάρδιον) si
presenta qui come sangue. L’aggettivo che sta attorno al cuore (περικάρδιον)
216

non è ornamentale, ma ha la precisa funzione di arricchire il contenuto, come


quasi sempre in Empedocle, ed accenna una volta di più alla natura immediata
ed irrazionale del noêsai. Concludendo, al precedente accoppiamento palámai-
guîa viene con il frammento 105 ad aggiungersi parallelamente, per quanto su
un piano superiore, quello nóema-haîma. L’individualità di ogni uomo nasce
dalla particolare struttura dei suoiguîa ed insieme dalla natura del suo haîma;
quest’ultimo non sarà quindi uguale in tutti, ma secondo varie forme
rappresentative esprimerà i fondamentali caratteri umani. Questa impostazione
del problema risulta dal

Frammento 98:
La terra si incontrò in rapporto quasi uguale con questi,
cioè con Efesto, la pioggia e l’etere sfavillante, ormeggiandosi nei perfetti
porti di Cipride,
se di poco prevalse. Sia poi maggiore o minore il rapporto,
da questi elementi si formarono il sangue e le forme degli altri tessuti
(unificanti) e carnosi.
217

62
Il quasi (μάλιστα) del v. 1 contiene la possibilità di varie strutture; ciò è già
218

stato rilevato dal Bignone, che pone giustamente il raffronto e la distinzione


dallo Sphaîros e cita Teofrasto, De sens.,11. Decisivo per la comprensione
bi

dell’intero frammento è il v. 4, che purtroppo presenta notevoli difficoltà per la


restituzione del testo. Ecco i termini della questione. Il cod. D. di Simplicio, che
riporta il frammento nel suo commento alla Fisica, dà la lettura: «è o in parti
poco maggiori o in parti più piccole»; l’aldina invece: «è o poco più grande o
219

poco minore». (Quest’ultimo testo è mantenuto da Sturz e Karsten, con l’unica


220

modificazione in proprio grande-μεῖζον γ᾽ per ragioni metriche. Sturz traduce:


«sive quid crescat sive decrescat», intendendo minore-ὀλίγον per piccolo-
μικρόν, e piùπλέον per grande-μεῖζον). Mullach propone l’emendazione: εἴτ᾽
ὀλίγον μεῖζον εἴτ᾽ οὐ πολὺ ἔσκεν ἐλάσσων, traducendo: «fu o poco maggiore o
non molto minore». Stein accetta il cod. D. e traduce: «quo gravium
221

elementum est eo tenuiorem, quo levius est eo largiorem habet


molem», Panzerbieter, seguito da Diels, propone: εἴτ᾽ ὀλίγον μείζων εἴτε
222

πλεóνεσσιν ἐλάσσων. Diels traduce così: «o un poco più forte, o più debole
rispetto alla maggioranza»; Kranz infine si mostra perplesso di fronte
223

all’emendazione maggioranza (πλεóνεσσιν), pur non sapendo proporre nulla di


meglio. A nostro avviso tutti questi tentativi sono insoddisfacenti. Scartare
senz’altro il testo dell’aldina di Simplicio, che offre sovente buone letture, non
è consigliabile, ma non è d’altra parte neppure possibile accettarlo così come ci
è tramandato. La traduzione dello Sturz ad esempio è insostenibile.
L’emendazione del Mullach si discosta troppo sensibilmente dal testo
tramandato. Mantenere la lettura del codice, come vuole Stein, è impossibile
per il significato; la traduzione dello Stein è quanto mai contorta e sforzata. La
correzione del Panzerbieter è invece paleograficamente ottima, ma va anch’essa
scartata per la traduzione che ne risulta nella forma datagli dal Diels, il v. 4
appare come un’affermazione ridicola. Rimane la nostra emendazione, che a
prima vista sembra incidere troppo notevolmente sul testo tramandato. Tuttavia
noi pensiamo possa essere sostenuta trattandosi di una modificazione della
punteggiatura, e delle correzioni di o (εἴτε) in se (εἰ᾽ δ), e di è (ἐστίν) in o (εἴτε
δ᾽), entrambe paleograficamente possibili. Quanto al minore (ἔλασσον) infine
di verso, che secondo noi dovrebbe sostituirsi al piccolo (ἐλάσσων) del cod. di
Simplicio, crediamo di poter fornire una giustificazione. Già dovrebbe
insospettire il parallelismo del codice: grande ... piccolo (μείζων ... ἐλάσσων),
di fronte al parallelismo dell’aldina: maggiore ... minore (μεῖζον ... ἔλασσον).
In nessun caso, si è visto, è possibile tradurre soddisfacentemente mantenendo
entrambi i comparativi al femminile, oppure al neutro.
Si può supporre una doppia corruzione dei manoscritti, per cui
l’originariogrande ... minore (μείζων ... ἔλασσον) diventò, per un’analoga
incomprensione del testo di due amanuensi e per comune – ma rivolto in senso
contrario – loro spirito di simmetria, da una parte maggiore... minore(μεῖζον ...
ἔλασσον), e dall’altra grande... piccolo (μείζων ... ἐλάσσων). Il significato
diventa a nostro avviso soddisfacente. Con tale emendazione il verso è riferito
63
per la sua prima parte a quanto precede, attribuendo un carat tere di stabilità,
perfezione e serenità al sangue in cui prevale la terra, e per la sua seconda parte
a quanto segue, introducendo la possibilità di diverse combinazioni, per
annunciare dopo tale generalizzazione la forma espressiva unitaria. L’ultimo
verso non parla soltanto di sangue, ma di «altri tessuti (unificanti) e
carnosi». Con questa espressione Empedocle, come abbiamo tentato di
224

significare nella traduzione, vuole estendere ad altri tessuti del corpo umano la
funzione individuante e unificante propria del sangue – in una forma attenuata
naturalmente, dato che il frammento 105 limita al sangue tale caratteristica – ed
ancora più, pensiamo, vuole attribuire l’unificazione conoscitiva anche agli
animali, i quali dovranno avere una facoltà, inferiore a quella umana, ma
corrispondente al nóema, che si differenzia dalla pura sensazione. È questo un
esempio del principio di continuità della natura, che si può osservare assai di
frequente in Empedocle.
Con ciò la trattazione della seconda facoltà conoscitiva si può dire conclusa.
Riepiloghiamo: il nóema è comune a tutti gli uomini e si differenzia
dall’aristocratica conoscenza suprema; visibilmente il nóema è sangue, in cui la
sua natura inferiore si esprime; la sua determinazione ulteriore èperikárdion, la
fusione delle palámai si attua attorno al cuore e da questo particolare sangue è
colta la conoscenza dell’hékaston; tale localizzazione accenna chiaramente alla
caratteristica del sentimento artistico, momento culminante di vita dell’uomo
comune; l’equazione nóema-haîma è il principio d’individuazione dell’uomo e
costituisce le singolarità dei soggetti secondo il rapporto quantitativo degli
elementi componenti.
Chiarita così l’impostazione gnoseologica empedoclea, analizziamo ora più
diffusamente gli elementi primi della conoscenza, ridiscendendo dal nóema ai
presupposti strutturali del fenomeno conoscitivo. Lo spunto ci è offerto
dall’ultimo verso del fr. 98 accennante come si è detto ad una conoscenza
unificata che si estende al mondo animale in genere; ad uno stadio conoscitivo
inferiore, spettante a tutti gli organismi, ed in particolare quindi al mondo
vegetale, cioè agli esseri dotati di guîa, in quanto questi esprimono
dellepalámai, si riferisce il frammento 102: 225

Così tutti hanno avuto in sorte respiro ed odori. 226

Qui non vi è unificazione conoscitiva; si tratta di organi sensoriali staccati, o


meglio di complessi, di aggregati non unificati di interiorità e quindi di
conoscenza. Si può anzi essere in dubbio, dato il soggetto indeterminato e
neutro tutti (πάντα), che in questo frammento si accenni già alla conoscenza
elementare, di cui tra poco, appartenente anche al mondo inorganico.
Infattirespiro (πνoιῆς) e odori (ὀσμῶν) non richiamano immediatamente
organi sensoriali, sono lontani cioè dall’espressione in guîa, e sembrano
indicare, per la loro scarsa aderenza al piano dell’oggettivazione sensibile, la
conoscenza interiore nella sua primordialità. Più chiaro in questo senso è il
verso 10 del fr. 110:
64
sappi infatti che tutto ha un’interiorità ed una parte di conoscenza. 227

Qui il soggetto non è più ambiguo: pánta sono gli elementi, come risulta dalla
prima lettura del frammento 110 e come sarà confermato dalla successiva
analisi dello stesso. Si ha cioè la dichiarazione esplicita di un’estensione
universale, al mondo organico ed a quello inorganico, della conoscenza,
espressa qui non in una determinazione connessa ad un organo sensoriale
(paláme) o ad un’individualità animale (nóema o l’unificazione conoscitiva cui
accenna il fr. 98, v. 5), ma lasciata nella sua astrattezza elementare. Si ha così
una nuova importante distinzione terminologica e di contenuto, tra ϕρóνησις
(principio conoscitivo universale) e nóema (principio conoscitivo umano).
Notevole l’espressione parte di conoscenza (νώματος αἶσαν), dove è chiaro il
valore di phrónesis quale componente elementare del nóema (nómatos è
contrazione di noématos, νoήματoς). I poteri conoscitivi si dispongono così
scalarmente in phrónesis-paláme-nóema cui corrispondono le gradazioni della
realtà inorganica, organica (vegetale-animale: respiro-carne, πνoιή-σάρξ),
umana. Questo concetto di phrónesistrova una conferma ed una determinazione
del suo contenuto nel frammento 103:

tutte le cose per volontà del caso hanno un’interiorità. 228

Non pensiamo, come Diels ed altri, che Caso (Τύχη) sia personificato come
una divinità, e crediamo che il significato di «caso» possa essere accettato in
Empedocle, per quanto la cosa non sia del tutto sicura. La conoscenza
primordiale sarebbe quindi senza intenzionalità, casuale, in quanto precedente
ogni organismo ed ogni finalismo. Mentre il cosmo empedocleo si ispira ad una
concezione ora teologica, ora meccanicista, qui si presenta il caso, nella
considerazione interiore e possiamo dire noumenica. Si offre spontaneo il
parallelo con Democrito e con il fr. 52 di Eraclito.
In ogni caso poi è fuori dubbio che hápanta (ἅπαντα) indichi la realtà in tutte
le sue determinazioni. Un passo ulteriore nelle nostre esegesi ci fa compiere il
frammento 107:

tutte le cose infatti in virtù di questi (gli elementi) armonizzandosi si


solidificano
e prendono corpo, e per mezzo di questi sentono e godono e soffrono. 229

Qui è fuori discussione che con «in virtù di questi... di questi» vengono
230

indicati gli elementi. Il v. 2 afferma così che il potere conoscitivo è insito agli
elementi, cioè ai costituenti ultimi ed essenziali della realtà, forma anzi la loro
determinazione comune, la loro più nascosta natura. Di conseguenza la fonte ed
il principio gnoseologici sono la fonte ed il principio metafisici.
La natura della phrónesis, in quanto costituisce la qualità universale del reale,
comune a tutti gli esseri e a tutte le cose perché propria delle parti elementari
della loro struttura, è confermata nella sua interiore irrazionalità. La stessa cosa
65
del resto risulta già dalla lettura del v. 2; l’enumerazione dellaphrónesis accanto
alla gioia ed al dolore, in un accostamento che non è di contrapposizione, ma di
affinità, fa anzi pensare ancora una volta a Spinoza. Sembra che il «e godono e
soffrono» empedocleo rampolli, determinandolo, dal sentono (ϕρoνέoυσι),
231

come la laetitia e la tristitiaspinoziane dal conatus. Un’altra citazione ancora


serve di conferma al suddetto significato di phrónesis; si tratta del frammento
17, v. 23:

a proposito di Afrodite: «per mezzo di lei sentono l’amore e compiono opere


armoniose». 232

Il verso riceve la sua piena luce da quanto è stato detto sopra: la qualità
conoscitiva è ciò che caratterizza la natura e l’attività di un elemento. Nello
stesso spirito e nello stesso uso di sentire (ϕρoνεῖν) va inteso il frammento 108:

di quanto esteriormente si trasformano, di tanto sempre tocca loro di sentire


e conoscere altrimenti.233

Il passo è normalmente inteso dai critici come riferentesi alla parallela


trasformazione dell’uomo nella veglia e nel sonno. Eppure ciò è suggerito
soltanto dalle parole esplicative di Filopono e di Simplicio, mentre la fonte
antica che riporta il frammento in due passi distinti, Aristotele, non sembra
essere a conoscenza di nulla di simile. La cosa più logica è quindi di vedere il
chiarimento come un’aggiunta arbitraria dei commentatori aristotelici, sia
perché è pressoché impossibile pensare che possedessero il testo empedocleo
nella sua interezza, mentre per contro per questa citazione dipendono
evidentemente da Aristotele, e sia anche perché è facile scorgere l’origine del
loro errore in una vaga reminiscenza dei passi eraclitei riferentisi appunto a
questo argomento e da essi attribuiti senz’altro, per queste citazioni di
Aristotele, ad Empedocle. A nostro avviso il frammento empedocleo ha un
senso preciso e convincente preso per sé, senza bisogno di aggiunte e
chiarimenti. In sostanza esso dice che al mutamento esteriore dell’uomo,
nell’avvicendarsi dei suoi componenti corporei elementari, corrisponde un
mutamento interiore, dovuto alla trasformazione che in tal modo si opera nei
componenti elementari della sua conoscenza. Conformemente a quanto è
risultato prima, l’aspetto interiore di questa parallela trasformazione è
chiamato il sentire (τò ϕρνεῖν), che è per l’appunto la qualità conoscitiva degli
elementi. Da cui si deduce anche che ogni elemento ha una sua qualità
conoscitiva particolare: se infatti la struttura dell’organismo rimane
quantitativamente immutata in queste trasformazioni della vita quotidiana – e
qui non si parla di accrescimento o di diminuzione – il mutamento si dovrà
spiegare con un cambiato rapporto delle parti elementari componenti. Da
notarsi ancora in questo frammento l’evidente parallelo stilistico del v. 2 con
Parmenide (fr. 16, v. 2), che accenna anche ad una parziale derivazione
dottrinale.234

66
La natura interiore e conoscente degli elementi, vista prima, pone la necessità
di considerarli in una doppia luce, da un lato plasticamente ed espressivamente
come elementi fisici, dall’altro per l’appunto in questa loro natura radicale.
Come già è stato suggerito dall’analisi del fr. 108, questa doppia considerazione
non significa una doppia loro realtà su piani differenti, ma semplicemente due
aspetti, due prospettive di un’unica fondamentale realtà. La prima
considerazione è quella comunemente conosciuta, la seconda si rivela
tipicamente, oltre al frammento già citato, nel frammento 6, v. 1:

anzitutto ascolta quattro radici di tutte le cose 235

in cui notevole è l’interiore radici (ῥιζώματα). Ancor più notevole per altro è
il seguito del frammento, dove vengono enumerati gli annunziati elementi. Tale
enumerazione avviene non nella comune rappresentazione sensibile dei quattro
elementi, aria, acqua, fuoco, terra, cioè nella forma inanimata, oggettiva,
immediatamente visiva, ma come una serie di individualità essenziali divine.
La doppia considerazione è confermata ulteriormente nel frammento 38:

ebbene, ti dirò i primi ed ugualmente originari princìpi,


che si espressero (da cui si manifestarono) in tutte le cose che ora vediamo,
la terra e il mare ondoso e l’umida aria
e il titano etere che avvinghia attorno ogni cosa. 236

Assai discusso per il testo è il primo verso, in cui l’impossibile sole (ἥλιoν)
dei manoscritti rende necessaria un’emendazione. A noi sembra soddisfacente
quella del Diels in ugualmente (ἥλικα), ma la questione non può dirsi
definitivamente risolta. In ogni caso, e comunque dovesse suonare l’originario
v. 1, a noi basta l’inizio del v. 2: «che si espressero (da cui si
manifestarono)» per accertare in modo decisivo la precedente interpretazione.
237

Da esso risulta infatti che gli elementi nel loro aspetto oggettivo e corporeo non
sono altro che la manifestazione di un’anteriore realtà radicale. La realtà
espressiva degli elementi è quindi metafisicamente subordinata alla loro realtà
conoscente; di conseguenza non si tratta propriamente neppure, come si è detto
prima, di un doppio aspetto di un’unica realtà, ma con maggior precisione di un
aspetto noumenico e di uno fenomenico, per quanto ciò non significhi un
rapporto di trascendenza e debba dirsi piuttosto che i due aspetti sono
strettamente avvinti, l’uno costituendo l’interno, la radice, e l’altro l’esterno, la
manifestazione di una stessa fondamentale realtà. Si potrebbe dire che il resto
del fr. 38 suggerisce più che altro l’immagine di una successione temporale;
contro di ciò richiamiamo anzitutto i passi precedenti che attribuiscono
il phroneîn alla realtà attuale ed in secondo luogo ricordiamo che la forma
temporale è un mezzo mitico di esposizione in Empedocle, che maschera un
contenuto metafisico, come sarà dimostrato in seguito.

67
Vediamo ora l’esplicazione di questo potere conoscitivo degli elementi,
consideriamolo cioè rispetto al suo oggetto. In proposito ci informa il
frammento 109:

con la terra vediamo la terra, con l’acqua l’acqua... 238

È questa la ben nota teoria della conoscenza del simile. Da notarsi è che
ilvediamo (ὀπώπαμεν) non si riferisce soltanto alla sensazione visiva, ma alla
conoscenza dell’elementare in genere (cfr. fr. 17, v. 21). Questa conoscenza
239

del simile è al tempo stesso una tendenza verso il simile, per la già osservata
equivalenza in Empedocle tra la considerazione gnoseologica e quella fisica. Il
raggiungimento conoscitivo di un oggetto, che è la stessa cosa del soggetto, si
esprime sensibilmente come un accrescimento quantitativo, un potenziamento
corporeo degli elementi. A documentare che questa seconda considerazione fu
chiaramente presente ad Empedocle, ecco infatti il frammento 37:

potenzia ed accresce il proprio corpo la terra, e così l’etere il suo. 240

Riassumiamo ora gli ultimi risultati. L’essenza metafisica di ogni realtà è il


suo impulso vitale invisibile a reagire su quanto la circonda, a congiungere se
stessa con il tutto, ritrovandosi fuori di sé. Tale natura spetta a tutte le cose,
anche inanimate, anzi agli elementi costitutivi di tutte le cose, la cui essenza
interiore è per l’appunto la radice conoscitiva, un phroneîn fondamentale dalle
mille sfumature di gioia e dolore; una convulsa mescolanza di sentimenti
reagenti gli uni sugli altri e determinati da questi reciproci contatti conoscitivi,
primordiali e senza intenzionalità. Tutto ciò si traduce plasticamente, la
pullulante molteplicità al di là del suo statico momento immediato si
rappresenta in virtù della sua stessa natura: i rizómata si solidificano nei visibili
elementi e le complicazioni del phroneîn elementare in aggregati interiori
unificati in una vita autonoma, le palámai ed i noémata si esprimono a loro
volta in guîa e haîma. 241

Data tale struttura della conoscenza, l’accostamento alla verità è determinato


da un duplice fattore, qualitativo e quantitativo. Sotto il primo rispetto, decisiva
è la composizione del nóema, e su ciò ritorneremo. Quanto all’aspetto
quantitativo, parlando per l’appunto di una alta conoscenza, Empedocle dice
nel frammento 110: 242

Se infatti fissandoti con slancio profondamente nella tua densa interiorità


ispirato contemplerai i princìpi con pura ansia, essi, tutti, ti saranno avvinti
per l’eternità, e molta altra ricchezza conoscitiva, da questi, acquisterai;
243

rimanendo uguali infatti essi si potenziano in ogni individualità,


secondo l’essenza di ciascuno. 244

Se tu però desidererai altre cose, quelle infinite e misere che stanno fra gli
uomini,

68
ed offuscano le forze vitali, tosto nel ciclo del tempo i princìpi ti
abbandoneranno,
bramando di giungere alla loro propria stirpe; sappi infatti che tutti hanno
un’interiorità ed una parte di conoscenza. 245

Tutto questo frammento 110 è assai importante. Una conoscenza puramente


interiore è presentata in termini immediati nei vv. 1-2. L’espressione «con
slancio profondamente nella tua densa interiorità» descrive un’esperienza
246

mistica, cogliendo l’intimo sussulto che istantaneamente distacca dagli interessi


contingenti. L’ἐρείσας, usato intransitivamente, significa l’arrestarsi,
afferrandosi a qualcosa, che segue un movimento; πραπίδες è l’interiorità
del sangue intorno al cuore (haîma perikárdion), e viene determinato qui
secondo una qualità superiore, in un addensarsi carico di potenza (con slancio,
ἀδινῇσιν). Nel v. 2 l’interiorità, ormai staccata, si espande nell’apprensione
bj

della verità – i princìpi elementari – ad essa contigua, in un raggiungimento e


in uno sforzo rinnovati. Il valore mistico del v. 2 è già stato rilevato dal Bignone
(Empedocle, 480 nota). Si osservi poi che l’oggetto indeterminato della
conoscenza (in cui non può intendersi altro se non i princìpi elementari) è il filo
conduttore di tutto il frammento: tua (σϕ᾽, v. 1); essi tutti (ταῦτα πάντα, v.
3); molta altra (ἄλλα τε πóλλ᾽, v. 4); essi (ταῦτα, v. 5); ti
abbandoneranno (ἐκλείψoυσι, v. 8);loro propria (σϕῶν αὐτῶν, v.
9); tutti (πάντα, v. 10). La determinazione avviene al verso 10: si tratta degli
interiori componenti elementari della realtà, dotati del phroneîn. Tanto il
soggetto quanto l’oggetto di questa più alta conoscenza sono così interiorità.
Passando ai vv. 3-5, taûta pánta indica le essenze elementari prossime al
conoscente, che sono avvinte dalla sua potenza in una contiguità (ti saranno
avvinti –παρέσoνται, nel significato di Parm. fr. 4, v. 1; cfr. più oltre)
indissolubile per l’eternità (δι᾽ αἰῶνoς; cfr. fr. 16, v. 2). Al v. 4 álla te póll’,
sono le interiorità elementari più lontane nel tempo e nello spazio del
conoscente. L’antitesi da questi acquisterai(αὐτὰ γὰρ αὔξει) significa
bk

l’accrescimento quantitativo in una costanza qualitativa; la misura di tale


247

accrescimento è data dalla natura dell’individualità essenziale del conoscente;


è proporzionale alla sua potenza. Al v. 5 la penetrazione del noumeno si
approfondisce da individualità(ἦθoς) a essenza (ϕύσις); il primo è l’unità
interiore che individua ogni realtà (cfr. fr. 17, v. 28), comprendendo sia
la phrónesis che il nóema, la seconda invece è l’inesprimibile al di là del
fenomeno, che in ogni unità stabilisce un’ulteriore molteplicità e dissolve
l’individuazione nei suoi componenti elementari, riducendola a rapporti di
essenze inafferrabili. I vv. 6-7 richiamano il fr. 2, v. 2: la mediocrità sminuisce
quantitativamente l’interiorità del conoscitore. La vita superiore è tensione
incessante (con pura ansia, μελέτῃσιν, v. 2), potenza che si espande
inesorabilmente. Quando lo sforzo e l’ansia si allentano, le essenze assorbite si
svincolano (ti abbandoneranno, σ᾽ ἄϕαρ ἐκλείψoυσι, v. 8), bramando una
interiorità affine (bramando di tornare alla propria stirpe, πoθέoντα ϕίλην ἐπὶ
γένναν, v. 9), un’individualità che più possentemente li attrae. Connesso al
248 bl

69
frammento 110 è il frammento 12: È impossibile che (l’essere) nasca dal non
essere
e che l’essere perisca: interminabile ed eterno esso sarà sempre là, ogni volta
che uno arresti il suo slancio.249

Si tratta evidentemente della stessa conoscenza essenziale: l’oggetto in luogo


dell’indeterminato questi (ταῦτα) è qui il parmenideo essere (ἐóν). Proponiamo
un’interpunzione diversa da quella comunemente seguita e seguiamo la lettura
di Filone (a quest’ultimo proposito cfr. BignoneEmpedocle, 398 nota). Il
soggetto del v. 1 è evidentemente l’essere; poco soddisfacente l’etwas,
qualcosa, del Diels. A nostro avviso gli aggettiviinterminabile ed
eterno (ἀνήνυστoν καὶ ἄπυστoν) hanno un significato positivo: decisivo è il
raffronto con l’inintelligibile (ἄπυστoν) del fr. 8, v. 27 di Parmenide, dove esso
è attributo positivo dell’essere. Quanto ainterminabile (ἀνήνυστoν) ricorda
il senza fine (ἀτέλεστoν) del fr. 8, v. 4 di Parmenide, del pari attributo positivo
dell’essere. Questo fr. 12 parla di un’esperienza conoscitiva fondamentale, che
può indefinitamente ripetersi. La realtà è pietrificata nell’eternità in cui il
soggetto inebriato del suo slancio si confonde con l’eón. L’influsso parmenideo
non è soltanto terminologico. Empedocle dimentica l’aspirazione e la vita
250

travagliata del conoscitore e descrive l’attimo in cui la molteplicità contenuta


nell’eón si puntualizza in una statica fusione di interiorità, che incatena il reale
esaurendolo.
Concludendo, la potenza di un’individualità si esprime nell’assorbimento
251

conoscitivo della realtà interiore che cade sotto il suo dominio. Qui sta il vertice
della gnoseologia empedoclea: l’individualità divina nella sua suprema forma
di conoscenza soggiogherà, facendola entrare in sé ed annullandola quindi
come oggetto, l’universale realtà. Questo è uno stadio superiore di distacco, in
cui non esistono più né forme sensibili, né corporeità, né rappresentazioni, in
quanto non sussiste più l’oggetto e tutto si è trasformato in una
somma phrónesis trascendente. Questo è lo stadio conoscitivo più alto, che
Empedocle riserva per sé, come accenna il fr. 2 ed il passo più significativo che
vi si riferisce è dato dal frammento 134:

Le sue membra non sono provviste di una testa umana,


né dalla schiena si staccano due rami,
né possiede piedi, o veloci ginocchi, o villosi genitali:
soltanto un’essenza sacra ed indicibile sussiste allora,
slanciandosi con le sue fulminee conoscenze attraverso tutto il mondo. 252

Qui lo stadio cui sopra abbiamo accennato non è ancora del tutto raggiunto,
come dimostra il tutto il mondo (κóσμον ἅπαντα), che sussiste ancora al di
fuori. Il raggiungimento pieno si avrà nello Sphaîros, che dovremo esaminare
in seguito. A dimostrare per altro che si è qui sullo stesso piano
dello Sphaîros basta ricordare il perfetto parallelo tra i vv. 1-3 di questo
frammento e i vv. 1-2 del fr. 29, trattante appunto dello Sphaîros (cfr. anche fr.
70
27, vv. 1-2). Il passaggio dalla concezione elementare e generale diphrónesis a
questa phrónesis suprema e trascendente è segnato anche terminologicamente
dall’introduzione del nuovo vocabolo essenza (ϕρήν). bm

La considerazione gnoseologica si radica così in una metafisica che la


condiziona. Gli ultimi frammenti esaminati hanno messo in chiaro il
fondamento metafisico empedocleo. Siamo ora in grado di ricostruire nelle
linee essenziali il sistema di Empedocle. Questo compito sarà svolto nei
prossimi capitoli: tirando le somme dell’analisi precedente diamo
253

semplicemente un inquadramento introduttivo. Dal fr. 110 è risultato come la


potenza di un’individualità si esprima nell’assorbimento conoscitivo della
realtà interiore che cade sotto il suo dominio. Quest’aspetto quantitativo,
radicato come tendenza all’espansione dei componenti elementari
dell’individualità, è l’origine più profonda dell’apparenza. Come qualità
immutabili, i princìpi noumenici rimangono in un isolamento senza vita, ma il
loro impulso ad affermarsi, un’instabilità, un ansito primigenio li porta a
254

sentirsi reciprocamente, per l’interferenza che infrange le onde in cui si propaga


la loro vita, a gioire del riflusso che unifica due sfere affini ed a soffrire
dell’ostacolo di essenze eterogenee. Nasce così l’individualità, ancora
invisibile, che ampliandosi diventa visibile. Per contro, al di là di ogni
apparenza sta il mondo indicibile del phroneîn, dove le determinazioni
svaniscono. Nella divina intimità la dispersione si unifica,
la phrónesiselementare si ribalta nella phrén totale, cade ogni limite di
estraneità, si scopre in un distacco inesprimibile la straripante ricchezza
seminale, che è abissalmente insita nella molteplicità visibile. L’ambiguità
tra phrén econoscenze (ϕρoντίδες) nel fr. 134, tra unità e molteplicità,
costituisce il fremito di un caldo noumeno, che si slancia appassionato e
dominatore a fondare l’apparenza. Questo impulso, come si è detto l’aspetto
quantitativo dell’essenza, per giungere alla rappresentazione deve fondarsi su
di un’eterogeneità primordiale, il campo delle phrontídes, che pur senza essere
ancora determinate individualmente, increspano il piano del noumeno,
disponendosi in atteggiamenti fondamentali, in implicite localizzazioni, dovute
all’aspetto qualitativo dell’essenza. L’avvertimento della molteplicità, la
congiunzione delle phrontídes, è fenomeno. Le potenze e le qualità primordiali
diventano esplicite, accordandosi in domini determinati. Il dolore noumenico è
qui separazione, ostacolo, estraneità a ciò che sta attorno, la gioia è sintesi di
parti che espandendosi si sono fuse. Si ha così un’individualità rappresentativa,
entrata nella visibilità; tale aggregato plastico e mutevole è sottoposto ad una
nuova legge, la fusione (κρῆσις), principio supremo del fenomeno.
La nuova forma di questo nucleo, in cui si è coagulata una disseminata
quantità noumenica, è l’infinita possibilità, ricchezza dell’apparenza, di
combinazioni razionali, cioè di modelli di individuazione, in cui quella potenza
primordiale trova una nuova via di espressione.

NOTE

71
1
Οὐκ ἃν ἀνὴρ τoιαῦτα σoϕὸς ϕρεσὶ μαντεύσαιτo, / ὡς ὄϕρα μέν τε βιῶσι, τὸ δὴ
βίοτον καλέoυσι, / τóϕρα μὲν oὖν εἰσίν καί σϕιν πάρα δεινὰ καὶ ἐσθλά, / πρὶν
δὲ πάγεν τε βρoτoὶ καì <ἐπεὶ> λύθεν, oὐδὲν ἄρ᾽ εἰσί.
2
Beide stammen aus demselben Drang nach dem Ewigen, das dort objektiv in
den Elementen, hier subjektiv in Seele und Gottheit gefunden wird. K.
Joël,Geschichte der antiken Philosophie, Tübingen, 1921, p. 543.
3
Cfr. PHK 219.
4
Durchaus materialistisch.
5
Cfr. qui, p. 162, dove il verbo viene tradotto con «intuire interiormente».
6
Per la traduzione di éthos cfr. PHK 225. Sono tre i termini fondamentali per
comprendere come Colli intende Empedocle: il pensiero che è principio
conoscitivo umano, il sentire rinvia al principio conoscitivo universale e il terzo
sarebbe l’unità interiore in grado di individuare ogni realtà.
7
Τῇδε μὲν oὖν ἰóτητι Τύχης πεϕρóνηκεν ἅπαντα, la traduzione è qui a p. 171,
mentre in PHK 223 è: «là, per volontà del caso, tutte le cose sentono con
immediatezza».
8
Έκ τoύτων <γὰρ> πάντα πεπήγασιν ἁρμoσθέντα / καὶ τoύτoις ϕρoνέoυσι καì
ἥδoντ’ ἠδ’ ἀνıῶνταı, la traduzione è qui, p. 172, il secondo verso tradotto anche
in PHK 223 nello stesso modo.
9
Αἵματoς ἐν πελάγεσσι τεθραμμένη ἀντιθoρóντoς, / τῇ τε νóημα μάλιστα
κικλήσκεται ἀνθρώπoισν· / αἷμα γὰρ ἀνθρώπoις περικάρδιóν έστι νóημα, la
traduzione è qui, p. 164, del terzo verso ci sono altre tre diverse traduzioni: la
prima nelle righe che seguono («il pensiero è per gli uomini il sangue che sta
intorno al cuore»), in FS 77 («il sangue che sta attorno al cuore è il pensiero
degli uomini») e in PHK 222 («infatti il sangue, attorno al cuore, è negli uomini
pensiero»).
10
Παῦρoν δ᾽ ἐν ζωῇσι βίoυ μέρoς ἀθρήσαντες / ὠκύμoρoι καπνoῖo δίκην
ἀρθέντες ἀπέπταν, la traduzione è qui, p. 150, e diversa in PHK 220 («raccolta
– nel loro vivere – una piccola parte di “vita”, / uomini destinati a morte veloce,
come fumo innalzandosi, dileguano»).
11
Ἐγὼ δ᾽ ὑμῖν θεὸς ἄμβρoτoς, oὐκέτι θνητóς, la traduzione è in FS 72.
12

72
Fr. 2, vv. 8-9 ... σὺ δ᾽ oὖν, ἐπεὶ ὦδ᾽ ἐλιάσθης, / πεύσεαι oὐ πλέoν ἠὲ βρoτείη
μῆτις ὄρωρεν, la traduzione è qui, p. 150, il verso 8 è tradotto diversamente in
PHK 220 («tu invece conoscerai, poiché così completamente ti sei distaccato»).
13
Βρoτείη μῆτις.
14
αἶψα δὲ θνήτ᾽ ἐϕύoντo τὰ πρὶν μάθoν ἀθάνατ᾽ εἶναι.
15
γίγνεται ἄλλoτε ἄλλα καὶ ἠνεκὲς αἰὲν ὁμoῖα.
16
Ähnliches.
17
Ewige Wiederkunft.
18
ἠνεκὲς αἰέν.
19
I riferimenti corretti sono: v. 12 del fr. 21 e v. 8 del fr. 23.
20
ἡ δὲ χθὼν τoύτoισν ἴση συνέκυρσε μάλιστα, / Ἡϕαίστῳ τ᾽ ὄμβρῳ τε καὶ αἰθέρι
παμϕανóωντι, / Κύπριδoς ὁρμισθεῖσα τελείoις ἐν λιμένεσσιν, / εἴτ᾽ ὀλίγoν
μείζων εἴτε πλεóν ἐστὶν ἐλάσσων· / ἐκ τῶν αἷμά τε γέντo καὶ ἄλλης εἴδεα
σαρκóς. La traduzione è qui, p. 166, e in parte diversa in PHK 222 («terra si
incontrò in rapporto quasi uguale con questi, / Efesto, pioggia e etere sfavillante,
/ ormeggiandosi nei perfetti porti di Cipride, / se di poco prevalse. Sia poi
maggiore o minore il rapporto: / da questi elementi si generarono il sangue e le
forme degli altri tessuti carnosi»).
21
ὅσoις μὲν oὖν ἴσα καὶ παραπλήσια μέμεικται καὶ μὴ διὰ πoλλoῦ μήδ᾽ αὖ μικρὰ
μήδ᾽ ὑπερβάλλoντα τῷ μεγέθει, τoύτoυς ϕρoνιμωτάτoυς εἶναι καὶ κατὰ τὰς
αἰσθήσεις ἐκριβεστάτoυς, κατὰ λóγoν δὲ καὶ τoὺς ἐγγυτάτω τoύτων, ὅσoις δ᾽
ἐναντίως, ἀϕρoνεστάoυς.
22
Κύπριδoς ὁρμισθεῖσα τελείoις ἐν λιμένεσσιν.
23
τελείoις ἐν λιμένεσσιν.
24
La traduzione è in PHK 204: «all’anima tocca un lógos che accresce se stesso».
25
εἰ γὰρ κέν σϕ᾽ ἀδινῇσιν ὑπὸ πραπίδεσσιν ἐρείσας / εὑμενέως καθαρῇσιν
ἐπoπτεύσεις μελέτῃσιν, / ταῦτά τέ σoι μάλα πάντα δι᾽ αἰῶνoς παρέσoνται, /
ἄλλα τε πóλλ᾽ ἀπὸ τῶνδ᾽ ἐκτήσεαι· αὐτὰ γὰρ αὔξει / ταῦτ᾽ εἰς ἦθoς ἕκαστoν,
ὅπη ϕύσις ἐστὶν ἑκάστῳ, la traduzione è qui, p. 178 e uguale PHK 224-25. I
primi due versi sono tradotti da Colli diversamente in FS 78 («Se infatti
piomberai sulla verità con il tuo cuore incrollabile, / e pieno di bontà la
contemplerai con una pura ansia»).
73
26
ἦ σ᾽ ἄϕαρ ἐκλείψoυσι περιπλoένoιo χρóνoιo / σϕῶν αὐτῶν πoθέoντα ϕίλην ἐπὶ
γένναν ἱκέσθαι· / πάντα γὰρ ἴσθι ϕρóνησιν ἔχειν καὶ νώματoς αἶσαν, la
traduzione è qui, p. 179 e in parte diversa in PHK 226i vv. 8-9 e in PHK 224 il
v. 10 («tosto nel ciclo del tempo i princìpi ti abbandoneranno / bramando di
tornare alla loro propria stirpe amata / sappi infatti che tutti i princìpi hanno
sensazione e una parte di pensiero»).
27
Gomperz Griechische Denker, 197 e 445.
28
ταῦτα πάντα.
29
ἄλλα τε πóλλ᾽ ἀπὸ τῶνδ᾽ ἐκτήσεαι.
30
Cfr. FS 23-35 e 71-89.
31
πάντα γὰρ ἴσθι ϕρóνησιν ἔχειν καὶ νώματoς αἶσαν.
32
αὐτά γὰρ αὔξει ταῦτ᾽ εἰς ἦθoς ἕκαστoν, ὅπη ϕύσις ἐστὶν ἑκάστῳ.
33
Fr. 19: ἦθoς ἀνθρώπῳ δαίμων, la traduzione è in FS 42.
34
Fr. 146, v. 3: ἔνθεν ἀναβλαστoῦσι θεoὶ τιμῇσι φέριστoι.
35
ἤδη γὰρ πoτ᾽ ἐγὼ γενóμην κoῦρoς τε κóρη τε / θάμνoς τ᾽ oἰωνóς τε καὶ ἔξαλoς
ἔλλoπoς ἰχθύς, di Colli è la traduzione delle ultime tre parole in PHK 216.
36
ἔξαλoς ἔλλoπoς ἰχθύς.
37
εἰς δὲ τέλoς μάντεις τε καὶ ὑμνoπóλoι καὶ ἰητρoί / καὶ πρóμoι ἀνθρώπoισιν
ἐπιχθoνίoισι πέλoνται / ἔνθεν ἀναβλαστoῦσι θεoὶ τιμῇσι ϕέριστoι.
38
ἐν θέρεσσι λέoντες ὀρειλεχές χαμαιεῦναι / γίγνoνται, δάϕναι δ᾽ ἐνὶ δένδρεσιν
ἠυκóμoισιν.
39
I due paragrafi del primo capitolo delle lezioni, dedicate rispettivamente ad
Aristotele e Teofrasto, sono da porre in relazione dapprima con i capitoli II e
III di PHK con i quali esse sono spesso coincidenti, come si segnalerà in nota,
anche se in PHK la trattazione di Teofrasto, intitolata Storicismo peripatetico,
precede quella di Aristotele che ha per titolo Aristotele e le origini della
filosofia. Poi questi paragrafi rinviano al secondo volume di SG.
40
Ἐμπεδoκλῆς δὲ τὰ τέτταρα πρὸς τoῖς εἰρημένoις γῆν πρoστιθεὶς τέταρτoν·
ταῦτα γὰρ ἀεὶ διαμένειν καὶ oὐ γίγνεσθαι.
41
74
Cfr. PHK 134.
42
Cfr. PHK 105, SGII 157 (dove la traduzione è diversa) e 302.
43
καὶ τoῦτ᾽ ἔστι τὸ Ἀναξαγóρoυ ἕν (βέλτιoν γὰρ ἢ ὁμoῦ πάντα) καὶ
Ἐμπεδoκλέoυς τὸ μῖγμα καὶ Ἀναξιμάνδρoυ. La traduzione è diversa in
PHK 105 («e tale è l’uno di Anassagora – difatti è meglio designarlo come
“l’uno” che come “tutte le cose assieme” – e la mescolanza di Empedocle e di
Anassimandro»).
44
Cfr. PHK 106.
45
oἱ δ᾽ ἐκ τoῦ ἑνὸς ἐνoύσας ἐναντιóτητας ἐκκρίνεσθαι, ὥσπερ ᾽Aναξίμανδρóς
ϕησι καὶ ὅσoι δ᾽ ἓν καὶ πoλλά ϕασιν εἶναι, ὥσπερ Ἐμπεδoκλῆς καὶ
Ἀναξαγóρας· ἐκ τoῦ μίγματoς γὰρ καὶ oὗτoι ἐκκρίνoυσι τἆλλα. La traduzione
è quella di PHK 106 perché questa presente nelle lezioni è incompleta: «altri
affermano che dall’uno si separano le contrarietà contenutevi, come
Anassimandro e quanti dicono ritrovarsi assieme unità e molteplicità; anche
questi infatti fanno separare le altre cose dalla mescolanza primordiale».
46
ἐκ τoῦ ἑνὸς ἐνoύσας ἐναντιóτητας.
47
ἐνoύσας ἐναντιóτητας ἐκκρίνεσθαι.
48
ἐκ τoῦ ... ἐναντιóτητας.
49
Cfr. PHK 108.
50
ἐκείνων γὰρ ὁ μέν τις ϕιλίαν εἶναί ϕησι τὸ ἕν ὁ δ᾽ ἀέρα ὁ δὲ τὸ ἄπειρoν. La
traduzione è diversa in PHK 108 («tra costoro infatti c’è chi dice che l’uno è
amore, un altro afferma che è aria, e un altro ancora che è l’infinito»). Senza
poter entrare qui nel merito del dibattito sull’infinito nel mondo greco antico è
tuttavia da notare che indeterminato e infinito sono usati da Colli come
equivalenti.
51
συγκρινóμενα καὶ διακρινóμενα εἰς ἕν τε καὶ ἐξ ἑνóς.
52
ἐκ τoῦ ἑνὸς ἐνoύσας ἐναντιóητας ἐκκρίνεσθαι.
53
Cfr. PHK 95 sgg.
54
Cioè come corpi elementari isomeri, cfr. qui e PHK 100.
55
λέγει δὲ αὐτὴν μήτε ὕδωρ μήτε ἄλλo τι τῶν καλoυμένων <νυνί> στoιχείων,
ἀλλ᾽ ἑτέραν τινὰ ϕύσιν ἄπειρoν.
75
56
εὐλóγως δὲ καὶ ἀρχὴν αὐτó (cioè l’ἄπειρoν) τιθέασι πάντες, la traduzione è in
PHK 97 e in SGII 157.
57
(τὸ ἄπειρoν) ... ἀθάνατoν γὰρ καὶ ἀνώλεθρoν, ὥς ϕησιν ὁ Ἀναξίμανδρoς καὶ oἱ
πλεῖστoι τῶν ϕυσιoλóγων, la traduzione è in PHK 97 e in SGII 157.
58
oἱ πλεῖστoι τῶν ϕυσιoλóγων.
59
εἰ δὲ κατὰ συμβεβηκóς ἐστι τὸ ἄπειρoν oὐκ ἂν εἴη στoιχεῖoν τῶν ὄντων, la
traduzione è in PHK 97.
60
κατὰ συμβεβηκὸς ἄρα ὑπάρχει τὸ ἔπειρoν, la traduzione è in PHK 97.
61
εὐλóγως δὲ καὶ ἀρχήν αὐτὸ τιθέασι πάντες· oὔτε γὰρ μάτην αὐτὸ oἶóν τε εἶναι...,
la traduzione nel testo delle lezioni è qualche riga sotto la citazione greca.
62
oὔτε ἄλλην ὑπάρχειν αὐτῷ δύναμιν πλὴν ὡς ἀρχήν, la traduzione è in PHK 98.
63
εὐλóγως δὲ καί.
64
Περιέχειν ... κυβερνᾶν (sott. tutte le cose).
65
ἀθάνατoν ... καὶ ἀνώλεθρν.
66
ἀλλὰ μὴν oὐδὲ ἒν καὶ ἁπλoῦν εἶναι ἐνδέχεται τὸ ἄπειρoν σῶμα, oὔτε ὡς λέγoυσί
τινες τὸ παρὰ τὰ στoιχεῖα, ἐξ oὗ ταῦτα γεννῶσιν, oὔθ᾽ ἁπλῶς. Eἰσὶ γάρ τινες oἳ
τoῦτo πoιoῦσι τὸ ἄπειρoν, ἀλλ᾽ oὐκ ἀέρα ἢ ὕδωρ, ὡς μὴ τἆλλα ϕθείρηται ὑπὸ
τoῦ ἀπείρoυ αὐτῶν· ἔχoυσι γὰρ πρὸς ἄλληλα ἐναντίωσιν, oἷoν ὁ μὲν ἀὴρ
ψυχρóς, τὸ δ’ ὕδωρ ὑγρóν, τὸ δὲ πῦρ θερμóν· ὧν εἰ ἦν ἓν ἄπειρoν, ἔϕθαρτo ἂν
ἤδη τἆλλα· νῦν δ’ ἕτερoν εἶναί ϕασιν ἐξ oὗ) ταῦτα. Άδύνατoν δ’ εἶναι τoιoῦτoν,
οὐχ ὅτι ἄπειρον (περὶ τoύτoυ μὲν γὰρ κοινóν τι λεκτέον ἐπὶ παντὸς ὁμoίως, καì
ἀέρoς καὶ ὕδατoς καì ὁτoυoῦν), ἀλλ’ ὅτι oὐκ ἔστιν τoιoῦτoν σῶμα αἰσθητὸν
παρὰ πὰ καλoύμενα στoιχεῖα· ἅπαντα γὰρ ἐξ oὗ ἐστί, καì διαλύεται εἰς τoῦτo,
ὥστε ἦν ἂν ἐνταῦθα παρὰ ἀέρα καì πῦρ καì γῆν καì ὕδωρ· ϕαίνεται δ’ oὐδέν.
Oὐδὲ δὴ πῦρ oὐδ’ ἅλλo τι τῶν στoιχείων oὐδὲν ἄπειρον ἐνδέχεται εἶναι. Ὅλως
γὰρ καì χωρὶς τoῦ ἄπειρoν εἶναί τι αὐτῶν, ἀδύνατoν τὸ πᾶν, κἂν ᾖ
πεπερασμένoν, ἢ εἶναι ἢ γίγνεσθαι ἕν τι αὐτῶν, ὥσπερ ’Hράκλειτóς ϕησιν
ἅπαντα γίγνεσθαί πoτε πῦρ. Ό δ’ αὐτὸς λόγoς καì ἐπὶ τoῦ ἑνóς, oἷoν πoιoῦσι
παρὰ τὰ στoιχεῖα oἱ ϕυσικoί. Πάντα γὰρ μεταβάλλει ἐξ ὲναντíoυ εἰς ἐναντίoν,
oἷoν ἐκ θερμoῦ εἰς ψυχρóν, la traduzione è in PHK 110-11.
67
τὸ παρὰ τὰ στoιχεῖα.
68
ἑτέρα τις ϕύσις ... τῶν λεγoμένων στoιχείων.
76
69
ἐξ oὗ) ταῦτα (sott. fanno generare).
70
oὔθ’ ἁπλῶς.
71
ἄπειρον σῶμα.
72
τὸ παρὰ τὰ στoιχεῖα oὔθ’ ἁπλῶς.
73
Cfr. PHK 114.
74
ἔσται γὰρ ἀὴρ καì πῦρ ἐκεῖνo μετ’ ἐναντιóτητoς· ἀλλὰ στέρησις τὸ ἕτερoν τῶν
ἐναντίων (la traduzione è in PHK 114).
75
νῦν ...ταῦτα.
76
ἕτερoν ... ἐξ oὗ ταῦτα.
77
τὸ παρὰ τὰ στoιχεῖα ἐξ oὗ ταῦτα.
78
εἰσὶ γάρ τινες ... ἂν ἤδη τἆλλα.
79
Ό δ’ αὐτὸς λóγoς καί.
80
παρὰ ἀέρα καì πῦρ καì γῆν καì ὕδωρ.
81
ϕαίνεται δ’ oὐδέν.
82
oὐδὲ δὴ πῦρ.
83
Oὐδὲ δὴ ... εἶναι.
84
oὐδὲ δὴ ... στoιχείων.
85
oὐδὲν ἄπειρoν ἐνδέχεται εἶναι.
86
Πάντα γάρ ... εἰς ψυχρóν.
87
In PHK 119, nel testo invece uomini.
88
oὐδὲ δὴ πῦρ ... εἶναι.
89
καì χωρὶς τoῦ ἄπειρον εἶναι.
90
ὅλως γάρ.
77
91
τὴν ὑπoκειμένην ὕλην oἱ μέν ϕασιν εἶναί μίαν, oἷoν ἀέρα τιθέντες ἢ πῦρ ἢ τι
μεταξὺ τoύτων, σῶμά τε ὂν καì χωριστóν..., la traduzione è in PHK 120 e in
SGII 165.
92
σῶμά τε ὂν καì χωριστóν.
93
ἀλλ’ oἱ μὲν πoιoῦντες μίαν ὕλην παρὰ τὰ εἰρημένα, ταύτην δὲ σωματικὴν καì
χωριστήν, ἁμαρτάνoυσιν, la traduzione è in PHK 121.
94
παρὰ τὰ εἰρημένα.
95
ὕλη χωριστή.
96
τὸ ἄπειρον τoῦτo.
97
Queste ultime pagine dedicate ad Aristotele corrispondono con la nota 12 di
PHK 121 sgg.
98
oὐκ ἔστιν ἓν τoύτων ἐξ oὗ τὰ πάντα. Oὐ μὴν oὐδ’ ἄλλo τí γε παρὰ ταῦτα, oἷoν
μέσoν τι..., la traduzione è in PHK 122.
99
παρὰ ταῦτα.
100
ἔσται γὰρ ἀὴρ καì πῦρ ἐκεῖνo μετ’ ἐναντιóτητoς.
101
ὥστ’ oὐκ ἐνδέχεται μoνoῦσθαι ἐκεῖνo oὐδέπoτε, ὥσπερ ϕασί τινες τὸ ἄπειρον
καì τὸ περιέχoν. Όμoίως ἄρα ὁτιoῦν τoύτων ἢ oὐδέν, la traduzione è in
PHK 122-23.
102
Eἰ oὖν μηδὲν αἰσθητóν γε πρóτερoν τoύτων, la traduzione è in PHK 123.
103
ὥσπερ ϕασὶν oἱ μίαν τινὰ ϕύσιν εἶναί λέγoντες τὸ πᾶν, oἷoν ὕδωρ ἢ πῦρ ἢ τὸ
μεταξὺ τoύτων. δoκεῖ δὲ τὸ μεταξὺ μᾶλλoν· πῦρ γὰρ ἤδη καì γῆ καì ἀὴρ καì
ὕδωρ μετ’ ἐναντιoτήτων συμπεπλεγμένα ἐστíν. διὸ καì oὐκ ἀλóγως πoιoῦσιν oἱ
τὸ ὑπoκείμενoν ἕτερoν τoύτων πoιoῦντες, τῶν δ’ ἄλλων oἱ ἀέρα· καì γὰρ ὁ ἀὴρ
ἥκιστα ἔχει τῶν ἄλλων διαϕoρὰς αἰσθητάς· ἐχóμενoν δὲ τὸ ὕδωρ, la traduzione
in PHK 123 è diversa.
104
τινὰ ϕύσιν è tradotta qui «una certa materialità», mentre «una natura unica» in
PHK 123.
105
διò καì oὐκ ἀλóγως,la traduzione è in PHK 124.
106
καì γὰρ ὁ ἀήρ.
78
107
ἕτερoν τoύτων.
108
τῶν ἄλλων.
109
oὔτε ... τὸ παρὰ τὰ στoιχεῖα, ἐξ oὗ ταῦτα γεννῶσιν, oὔθ’ ἁπλῶς, la traduzione è
in PHK 124.
110
oὐδὲ πῦρ.
111
Cfr. PHK 38 sgg.
112
Cfr. SGII 245-59 e le note relative.
113
Tò δὲ παρ’ ἡμῶν Έλεατικὸν ἔθνoς, ἀπὸ Ξενοϕάνους καì ἔτι πρόσθεν
ἀρξάμενoν, la traduzione è in PHK 39.
114
ὁ γὰρ Παρμενίδης τoύτoυ λέγεται γενέσθαι μαθητής, la traduzione è in PHK
39.
115
καì ἔτι πρόσθεν ἀρξάμενoν.
116
Ξενoϕάνoυς δὲ διήκoυσε Παρμενίδης Πύρητoς Έλεάτης· τoῦτoν Θεóϕραστoς
ἐν τῇ Έπιτoμῇ Άναξıμάνδρoυ ϕησὶν ἀκoῦσαι· ὅμως δ’ oὖν ἀκoύσας καì
Ξενoϕάνoυς oὐκ ἠκoλoύθησεν αὐτῷ, la traduzione è in PHK 40, cfr. anche SGII
309.
117
τoῦτoν ... ἀκoῦσαι.
118
περὶ Παρμενίδoυ καὶ τῆς δóξης αὐτoῦ καὶ Θεόϕραστoς ἐν τῷ πρώτῳ Περὶ τῶν
ϕυσικῶν oὕτως λέγει· Τoύτῳ δ’ ἐπιγενόμενoς Παρμενίδης Πύρητoς ὁ Έλεάτης
(λέγει δὲ καὶ Ξενoϕάνην) ἐπ’ ἀμϕoτέρας ἦλθε τὰς ὁδoύς. καὶ γὰρ ὡς ἀίδιóν ἐστι
τὸ πᾶν ἀπoϕαίνεται καὶ γένεσιν ἀπoδιδóναι πειρᾶται τῶν ὄντων oὐχ ὁμoίως
περὶ ἀμϕoτέρων δoξάζων, ἀλλὰ κατ’ ἀλήθειαν μὲν ... κατὰ δóξαν δέ... Cfr. SGII
177 e PHK 41 sgg.
119
λέγει δὲ καὶ Ξενoϕάνην.
120
Toύτῳ (δ’ ἐπιγενóμενoς).
121
ἀμϕoτέρας ἦλθε τὰς ὁδoύς.
122
oὐχ ὁμoίως περὶ ἀμϕoτέρων δoξάζων.
123

79
λέγει δὲ αὐτὴν μήτε ὕδωρ μήτε ἄλλo τι τῶν καλoυμένων εἶναι στoιχείων, ἀλλ’
ἑτέραν τινὰ ϕύσιν ἄπειρpν, ἐξ ἧς ἅπαντας γίνεσθαι τoὺς oὐρανoὺς καὶ τoὺς ἐν
αὐτoῖς κóσμoυς (segue la citazione del frammento di Anassimandro) ... δῆλoν
δὲ ὅτι τὴν εἰς ἄλληλα μεταβoλὴν τῶν τεττάρων στoιχείων oὗτoς θεασάμενoς
oὐκ ἠξίωσεν ἕν τι τoύτων ὑπoκείμενoν πoιῆσαι, ἀλλά τι ἄλλo παρὰ ταῦτα·
oὗτoς δὲ oὐκ ἀλλoιoυμένoυ τoῦ στoιχείoυ τὴν γένεσιν πoιεῖ, ἀλλ’
ἀπoκρινoμένων τῶν ἐναντίων διὰ τῆς ἀϊδίoυ κινήσεως. Cfr. SGII 175.
124
ἑτέραν τινὰ ϕύσιν ἄπειρoν. La traduzione in PHK 44 e SGII 175 è: «una certa
natura infinita differente».
125
ἀλλά τι ἄλλo παρὰ ταῦτα. La traduzione in PHK 44 è: «invece ... qualcos’altro
al di là degli elementi».
126
Da notare che noûs viene tradotto qui con «mente», in PHK 46 con «interiorità
noumenica», in SGII 177 con «intuizione».
127
καὶ ταῦτά ϕησιν ὁ Θεόϕραστoς παραπλησίως τῷ Άναξιμάνδρῳ λέγειν τòν
Άναξαγóραν· ἐκεῖνoς γάρ ϕησιν ἐν τῇ διακρίσει τoῦ ἀπείρoυ τὰ συγγενῆ
ϕέρεσθαι πρòς ἄλληλα καὶ ὅτι μὲν ἐν τῷ παντὶ χρυσὸς ἦν γíνεσθαι χρυσóν, ὅτι
δὲ γῆ γῆν, ὁμoίως δὲ καὶ τῶν ἄλλων ἕκαστoν ὡς oὐ γıνoμένων, ἀλλ’
ἐνυπαρχóντων πρóτερoν. τῆς δὲ κινήσεως καὶ τῆς γενέσεως αἴτιoν ἐπέστησε
τὸν νoῦν ὁ Άναξαγóρας, ὑϕ’ oὗ διακρινóμενα τoύς τε κóσμoυς καὶ τὴν τῶν
ἄλλων ϕύσιν ἐγέννησεν. καὶ oὕτω μὲν ϕησί λαμβανóντων δóξειεν ἂν ὁ
Άναξαγóρας τὰς μὲν ὑλικὰς ἀρχὰς ἀπείρoυς πoιεῖν, ὥσπερ εἴρηται, τὴν δὲ τῆς
κινήσεως καὶ τῆς γενέσεως αἰτίαν μίαν τὸν νoῦν. εἰ δέ τις τὴν μῖξιν τῶν
ἁπάντων ὑπoλάβoι μίαν εἶναι ϕύσιν ἀóριστoν καὶ κατ’ εἶδoς καὶ κατὰ μέγεθoς,
ὅπερ ἂν δóξειε βoύλεσθαι λέγειν, συμβαίνει δύo τὰς ἀρχὰς αὐτὸν λέγειν τήν τε
τoῦ ἀπείρoυ ϕύσιν καὶ τὸν νoῦν, ὥστε πάντως ϕαίνεται τὰ σωματικὰ στoιχεῖα
παραπλησίως πoιῶν Άναξιμάνδρῳ. La traduzione è in PHK 46 e ancora diversa
SGII 177.
128
τῆς δὲ κινήσεως ... ἐπέστησε τὸν νoῦν ὁ Άναξαγóρας.
129
παραπλησίως τῷ Άναξιμάνδρῳ.
130
ϕησιν ὁ Θεóϕραστoς.
131
δύo τὰς ἀρχὰς αὐτòν λέγειν τήν τε τoῦ ἀπείρoυ ϕύσιν.
132
oὗτoς δὲ oὐκ ἀλλoιoυμένoυ τoῦ στoιχείoυ τὴν γένεσιν πoιεῖ, ἀλλ’
ἀπoκρινoμένων τῶν ἐναντíων διὰ τῆς αἰδίου κινήσεως.
133
ἀπoκρινoμένων τῶν ἐναντίων.
134
80
ἐν τῇ διακρίσει τoῦ ἀπείρoυ τὰ συγγενῆ ϕέρεσθαι πρὸς ἄλληλα.
135
ἀλλ’ ἐνυπαρχóντων πρóτερoν, la traduzione è in PHK 51.
136
καὶ γὰρ ὡς ἀίδιóν ἐστι τὸ πᾶν ἀπoϕαίνεταı καὶ γένεσιν ἀπoδιδóναι πειρᾶται τῶν
ὄντων.
137
Nel dattiloscritto: proposto.
138
δύo πoιῶν τὰς ἀρχὰς πῦρ καὶ γῆν, τὴν μὲν ὡς ὕλην, τὸ δ’ ὡς αἴτιoν καὶ πoιoῦν.
139
Mίαν δὲ τὴν ἀρχὴν ἤτoι ἐν τὸ ὂν καὶ πᾶν καὶ oὔτε πεπερασμένoν oὔτε ἄπειρoν
oὔτε κινoύμενoν oὔτε ἠρεμoῦν Ξενoϕάνην τòν Koλoϕώνιoν τὸν Παρμενίδου
διδάσκαλoν ὑπoτίθεσθαί ϕησιν ὁ Θεόϕραστoς ὁμoλoγῶν ἑτέρας εἶναι μᾶλλoν
ἢ τῆς περὶ ύσεως ἱστoρíας τὴν μνήμην τῆς τoύτoυ δóξης. τò γὰρ ἓν τoῦτo καὶ
πᾶν τὸν θεòν ἔλεγεν ὁ Ξενoϕάνης. Cfr. PHK 55 e SGII 251 che propongono
due diverse traduzioni.
140
Ξενoϕάνην τòν Koλoδώνioν τὸν Παρμενίδου διδάσκαλoν ὑπoτίθεσθαί.
141
Mίαν δέ ... ἠρεμoῦν.
142
ἑτέρας ... δóξης.
143
τῆς περὶ ϕύσεως ἱστoρíας.
144
πoλλῶν μὲν καὶ ἄλλων πρoγεγoνóτων, ὡς καὶ Θεoϕράστῳ δoκεῖ, la traduzione
è in PHK 62 e diversa in SGII 137.
145
πρῶτoς τoῦτo τoὔνoμα κoμίσας τῆς ἀρχῆς, la traduzione è in PHK 62 e in SGII
175.
146
Θαλῆς δὲ πρῶτoς ... ὡς ἀπoκρύψαι πάντας τoὺς πρὸ αὐτoῦ, cfr. PHK 64-65 e
SGII 134-37 dove il passo è riportato per intero sia in greco sia nella traduzione.
147
ὡς ἀίδιóν ἐστι τὸ πᾶν, la traduzione è in PHK 71.
148
Nel dattiloscritto la nota in questione non c’è. Si può ipotizzare che Colli
intenda «nota» come sinonimo di «considerazione»: il tal caso egli rinvierebbe
a quanto sostenuto nelle pagine precedenti.
149
περὶ Mελισσóν τε καὶ Παρμενίδην.
150

81
oὓς εἰ καὶ τἆλλα λέγoυσι καλῶς ἀλλ’ oὐ ϕυσικῶς γε δεῖ νoμίσαι λέγειν· τὸ γὰρ
εἶναı ἄττα τῶν ὄντων ἀγένητα καὶ ὅλως ἀκίνητα μᾶλλóν ἐστιν ἑτέρας καὶ
πρoτέρας ἢ τῆς ϕυσικῆς στέψεως, la traduzione è in PHK 71, cfr. SGII 328.
151
κoινωνήσας Παρμενίδῃ τῆς ϕιλoσoϕίας, cfr. PHK 72 e SGII 253.
152
... oὐ τὴν αὐτὴν ἐβάδισε Παρμενίδῃ καὶ Ξενoϕάνει... ὁδóν, cfr. PHK 72 e SGII
253.
153
ἀρχὰς σχεδóν τι τὰς αὐτὰς τoῖς περὶ Δημóκριτον πoιεῖ, la traduzione è in PHK
74 e in SGII 253.
154
... oὐ πoλὺ κατóπιν Άναξαγóρoυ γεγoνώς, Παρμενίδoυ δὲ ζηλωτής, la
traduzione è in PHK 74 e diversa in SGII 257.
155
Άναξαγóρας ... κοινωνήσας τῆς Άναξιμένoυς ϕιλoσoϕίας, la traduzione è in
PHK 75 e SGII 255.
156
Nel dattiloscritto non c’è il testo greco.
157
πρῶτoς μετέστησε.
158
ἐλλείπoυσαν.
159
Έμπεδoκλῆς ... Παρμενίδoυ δὲ ζηλωτὴς καὶ πλησιαστὴς καὶ ἔτι μᾶλλoν τῶν
Πυθαγoρείων, la traduzione è in PHK 78 e in SGII 257.
160
ὁ δὲ Θεóϕραστoς Παρμενίδoυ ϕησὶ ζηλωτὴν αὐτὸν γεγoνέσθαι καὶ μιμητὴν ἐν
τoῖς πoιήμασι· καὶ γὰρ ἐκεῖνoν ἐν ἔπεσι τὸν Περὶ ϕύσεως λóγoν ἐξενεγκεῖν, la
traduzione è in PHK 78.
161
καὶ ἔτι μᾶλλoν τῶν Πυθαγoρείων.
162
Cfr. PHK 28.
163
oὗτoς δὲ τὰ μὲν σωματικὰ στoιχεῖα πoιεῖ τέτταρα, πῦρ καὶ ἀέρα καὶ ὕδωρ καὶ
γῆν, ἀίδια μὲν ὄντα, δὲ πλήθει καὶ ὀλιγóτητι μεταβάλλoντα κατὰ τὴν σύγκρισιν
καὶ διάκρισιν, τὰς δὲ κυρίως ἀρχὰς ὑϕ’ ὧν κινεῖται ταῦτα, Φιλίαν καὶ Nεῖκoς·
δεῖ γὰρ διατελεῖν ἐναλλὰξ κινoύμενα τὰ στoιχεῖα, πoτὲ μὲν ὑπò τῆς Φιλίας
συγκρινóμενα· πoτὲ δὲ ὑπὸ τoῦ Nείκoυς διακρινóμενα· ὥστε καὶ ἓξ εἶναι κατ’
αὑτὸν τὰς ἀρχάς· καὶ γὰρ ὅπoυ μὲν πoιητικὴν δίδωσι δύναμιν τῷ νείκει καὶ τῇ
Φιλίᾳ, ὅταν λέγῃ (segue la citazione di fr. 17, 7-8), πoτὲ δὲ τoῖς τέσσαρσιν ὡς
ἰσóστoιχα συντάττει καὶ ταῦτα, ὅταν λέγῃ. Simpl. in Phys. Opin., 418. Questa
citazione e a seguire il testo delle lezioni che si conclude con «interpretazione

82
di arché» non è riportata in PHK. Poi il testo torna ad essere coincidente fino a
PHK 82. Cfr. Anche SGII 256-58.
164
Quest’ultima parte in PHK conclude il capitolo «Storicismo peripatetico».
165
λέγει δὲ καὶ Ξενoϕάνην.
166
μεταβάλλoντoς τoῖς πάθεσι.
167
sott. τῶν ϕιλoσóϕων, dei filosofi.
168
I paragrafi di questo capitolo sono da porre in relazione in parte con il capitolo
IV di PHK sulla cronologia presocratica e soprattutto con il capitolo VII
dedicato interamente a Empedocle.
169
Cfr. PHK 217.
170
Cfr. PHK 218.
171
Cfr. PHK 37-63 e il secondo paragrafo del primo capitolo.
172
λέγει δὲ καὶ Έρατoσθένης ἐν τoῖς Όλυμπιoνίκαις τὴν πρώτην καὶ ἑβδoμηκoστὴν
Όλυμπιάδα (496) νενικηκέναι τὸν τoῦ Mέτωνoς πατέρα, μάρτυρι χρώμενoς
Άριστoτέλει. Άπoλλóδωρoς δ’ ὁ γραμματικὸς ἐν τoῖς Χρονικoῖς ϕησιν ὡς· «ἦν
μὲν Mέτωoνoς υἱóς, εἰς δὲ Θoυρίoυς αὐτὸν νεωστὶ παντελῶς ἐκτισμένoυς <ó>
Γλαῦκoς ἐλθεῖν ϕησιν». Eἶθ’ ὑπoβάς· «oἱ δ’ ἱστoρoῦντες, ὡς πεϕευγὼς oἴκoθεν,
εἰς τὰς Συρακoύσας μετ’ ἐκείνων ἐπoλέμει πρὸς Άθηναίoυς, ἐμoί<γε> τελέως
ἀγνoεῖν δoκoῦσιν· ἢ γὰρ oὐκέτ’ ἦν ἢ παντελῶς ὑπεργεγηρακώς, ὅπερ oὐχὶ
ϕαίνεται». Άριστoτέλης γὰρ αὐτóν (ἔτι τε Ήράκλειτoν) ἑξήκoντα ἐτῶν φησι
τετελευτηκέναι.
173
Cfr. PHK 152.
174
Gran parte della nota coincide con PHK 152-53.
175
Neωστί... ἐκτισένoυς.
176
Cfr. PHK 218.
177
ἡ σoϕία, ἣν δὴ καλoῦσι περὶ ϕύσεως ἱστoρίαν.
178
Έμπεδoκλῆς: καὶ ἔγραψε δι’ ἐπῶν Περὶ ϕύσεως τῶν ὄντων βιβλία γ’.
179
Nel dattiloscritto c’è uno spazio vuoto, probabilmente per un inserimento a
penna del greco come nel resto delle lezioni. Sulla base del testo e delle fonti è
83
probabile che Colli intendesse chiarire che nell’editio princeps di Suida si legge
βιβλία γ’, cioè tre libri.
180
Έμπεδoκλῆς: τῷ τρίτῳ τῶν Φυσικῶν.
181
Cfr. PHK 239-57, cioè il capitolo VIII sulla composizione degli scritti platonici,
e relativamente all’influsso empedocleo su Platone cfr. in particolare254.
182
oἱ ἐκ τῆς θαλάσσης ἀνακύπτoντες.
183
ἔξαλoς ἔλλoπoς ἰχθύς.
184
Cfr. PHK 251-54 dove sono illustrate dettagliatamente le due fasi di
composizione del Fedro.
185
μóνη πτερoῦται ἡ τoῦ φιλoσóϕoυ διάνoια ... θεὸς ὢν θεῖóς ἐστι ... τέλεoς ὄντως
μóνoς γίγνεται.
186
ἐγὼ δ’ ὑμῖν θεὸς ἄμβρoτoς.
187
ϕθóνoς γὰρ ἔξω θείoυ Xoρoῦ ἵσταται.
188
τῶν δὲ συνερχoμένων ἐξ ἔσχατoν ἵστατo Nεῖκoς.
189
θεατὴ νῷ.
190
νóω δέρκευ.
191
Cfr. PHK 293.
192
τoῖς μέλεσιν ἀπερειδóμενοι, la traduzione è in PHK 293.
193
ἐπ’ αὐχένι κυκλoτερεῖ, ὅμoια πάντῃ, la traduzione è in PHK 293.
194
ἐπειδὴ oὖν ἡ ϕύσις δίχα ἐτμήθη, πoθoῦν ἕκαστoν τὸ ἥμισυ τὸ αὑτoῦ ξυνῄει, la
traduzione è in PHK 294.
195
ἀλλὰ διέσπασται μελέων ϕύσις· ἡ μὲν ἐν ἀνδρóς, cfr. PHK 294.
196
τῷ δ’ ἐπὶ καὶ πóθoς εἶσι δι’ ὄψιoς ἀμμιμνῄσκων, la traduzione è in PHK294.
197
στεινωπoὶ μὲν γὰρ παλάμαι κατὰ γυῖα κέχυνται / πoλλὰ δὲ δείλ’ ἔμπαια, τά τ’
ἀμβλύνoυσι μεπίμνας. / παῦρoν δ’ ἐν ζωῇσι βίoυ μέρoς ἀθρoίσαντες / ὠκύμoρoι
καπνoῖo δίκην ἀρθέντες ἀπέπταν / αὐτὸ μóνoν πεισθέντες, ὅτῳ πρoσέκυρσεν
ἕκαστoς / πάντoσ’ ἐλαυνóμενoι, τὸ δ’ ὅλoν [τ’] εὔχoνται εὑρεῖν / oὕτως oὔτ’
84
ἐπιδερκτὰ τάδ’ ἀνδράσιν oὐδ’ ἐπακoυστά / oὔτε νóῳ περιληπτά. σὺ [δ’] oὐν,
ἐπεὶ ὧδ’ ἐλιάσθης, / πεύσεαι oὐ πλέoν ἠὲ βρoτείη μῆτις ὄρωρεν. Cfr. PHK 220,
dove la traduzione del verso 4 è: «sospinti in ogni direzione; e si vantano di
aver scoperto la vita intera».
198
Cfr. PHK 220.
199
τὸ δ’ ὅλoν εὔχεται εὑρεῖν.
200
τὸ δ’ ὅλoν [τ’] εὔχoνται εὑρεῖν.
201
πρὶν δὲ πάγεν τε βρoτoί.
202
πεισθέντες ... πρoσέκυρσεν ἕκαστoς.
203
ἐλαυνóμενoι ... εὔχεται.
204
Cfr. i passi relativi alla terza via parmenidea in PHK 168 sgg. e in GP 136 sgg.
205
μηδέ σέ γ’ εὐδóξoιo βιήσεται ἄνθεα τιμῆς / πρὸς θνητῶν ἀνελέσθαι, ἐϕ’ ᾧ θ’
ὁσίης πλέoν εἰπεῖν / θάρσεϊ, καὶ τóτe δὴ σoϕίης ἐπ’ ἄκρoισι θoάζειν. / ἀλλ’ ἄγ’
ἄθρει πάσῃ παλάμῃ πῇ δῆλον ἕκαστον / μήτε τιν᾽ ὄϕιν ἔχων πίστει πλέoν ἢ κατ᾽
ἀκoυήν / ἢ ἀκoὴν ἐρίδουπον ὑπὲρ τρανώματα γλώσσης, / μήτε τι τῶν ἄλλων,
ὁπόσῃ πόρoς ἐστì νoῆσαι, / γυίων πίστιν ἔρυκε, νόει δ᾽ ᾗ δῆλον ἕκαστν.
206
οὔτε νόῳ περιληπτά.
207
πλέον ἐπ᾽ ἐκείνῳ ὃ εἰπεῖν ὁσίη ἐστίν.
208
Neque me impellet cupiditas eximii flores honoris a mortalibus reportandi, ut
plura quam fas sit enuntiem. Aude et sic in sapientiae fastigium evadito.
209
Dich wenigstens soll kein Ruhmeskranz, wie menschliche Ehrung ihn darbietet,
verlocken, ihn vom Boden aufzulesen, um mehr als erlaubt ist mit Dreistigkeit
auszusprechen und alsdann auf der Höhe der Weisheit zu thronen!
210
Und dich werden nicht die Blüten ruhmreicher Ehrung von den Sterblichen
überwältigen, sie von ihnen auf – und anzunehmen, auf dass du mehr als heilige
Ordnung erlaubt mit Dreistigkeit aussprichst – und alsdann auf der Höhe der
Weisheit thronst!
211
ὁπόσῃ πόρος ἐστὶ νοῆσαι.
212
νόει δ᾽ ᾗ δῆλον ἕκαστν.
213
85
ἄθρει ... πῇ δῆλον ἕκαστν.
214
Cfr. PHK 221-22.
215
αἵματος ἐν πελάγεσσι τεθραμμένη ἀντιθορόντος, / τῇ τε νόημα μάλιστα
κικλήσκεται ἀνθρώποισιν· / αἷμα γὰρ ἀνθρώποις περικάρδιόν ἐστι νόημα.
216
Cfr. PHK 222.
217
ἡ δὲ Χθὼν τούτοισιν ἴση συνέκυρσε μάλιστα, / Ἡϕαίστῳ τ᾽ ὄμβρῳ τε καὶ αἰθέρι
παμϕανόωντι, / Kύπριδος ὁρμισθεῖσα τελείον ἐν λιμένεσσιν / εἴ δ’ ὀλίγον
μείζων. εἴτε πλεóν εἴτε δ᾽ ἔλασσον, / ἐκ τῶν αἷμά τε γέντο καì ἄλλης εἴδεα
σαρκός.
218
Cfr. PHK 222.
219
εἴτ᾽ ὀλίγον μείζων εἴτε πλέoν ἐστὶν ἐλάσσων.
220
εἴτ᾽ ὀλίγον μεῖζoν εἴτε πλέoν ἐστὶν ἔλασσoν.
221
Sive paulo maior sive non multo minor fuit.
222
L’elemento più pesante ha una mole più tenue, quello più lieve invece più
grande.
223
Sei es ein wenig stärker, sei es der Mehrzahl gegenüber schwächer.
224
ἄλλης εἴδεα σαρκóς.
225
Cfr. PHK 223.
226
ὧδε μὲν oὖν πνoιῆς τε λελóγχασι πάντα καὶ ὀσμῶν.
227
πάντα γὰρ ἴσθι ϕρόνησιν ἔχειν καὶ νώματoς αἶσαν.
228
τῇδε μὲν oὖν ἰότητι Tύχης πεϕρóνηκεν ἅπαντα, cfr. PHK 223 che propone una
traduzione diversa.
229
ἐκ τoύτων γὰρ πάντα πεπήγασιν ἁρμoσθέντα / καì τoύτoις ϕρoνέoυσι καὶ
ἥδoντ᾽ ἠδ᾽ ἀνιῶνται, cfr. PHK 223, dove del verso 2 si ha la stessa traduzione,
mentre il verso 1 non viene citato.
230
ἐκ τoύτων ... τoύτoις.
231
καὶ ἥδoντ᾽ ἠδ᾽ ἀνιῶνται.
86
232
τῇ τε ϕίλα ϕρoνέoυσι καì ἄρθμια ἔργα τελoῦσι.
233
ὅσσoν [γ᾽] ἀλλoῖoι μετέϕυν, τóσoν ἄρ σϕισιν αἰεί / καὶ τὸ ϕρoνεῖν ἀλλoῖα
παρίσταται.
234
Cfr. PHK 225 e 227, GP 191.
235
τέσσαρα γὰρ πάντων ῥιζώματα πρῶτoν ἄκoνε, cfr. PHK 223.
236
εἰ δ᾽ ἄγε τoι λέξω πρῶθ᾽ ἥλικά τ᾽ ἀpχήν, / ἐξ ὧν δῆλ᾽ ἐγένoντo τὰ νῦν ἐσoρῶμεν
ἅπαντα, / γαῖά τε καì πόντoς πoλυκύων ἠδ᾽ ὑγρὸς ἀήρ / Tιτὰν ἠδ᾽ αἰθὴρ
σϕίγγων περὶ κύκλoν ἅπαντα.
237
ἐξ ὧν δῆλ᾽ ἐγένoντo.
238
γαίῃ μὲν γὰρ γαῖαν ὀπώπαμεν, ὕδατι δ᾽ ὕδωρ.
239
Cfr. PHK 223.
240
αὔξει δὲ χθὼν μὲν σϕέτερoν δέμας, αἰθέρα δ᾽ αἰθήρ, cfr. PHK 226 dove la
traduzione è: «terra accresce il proprio corpo, aria accresce aria».
241
Cfr. PHK 223.
242
Cfr. PHK 224-25 dove si citano solo i vv. 3-5.
243
Nel dattiloscritto è questa, in PHK 225 questi.
244
Cfr. PHK 225 dove la traduzione è: «secondo l’intima natura di ciascuno».
245
εἰ γὰρ κέν σϕ᾽ ἀδινῇσιν ὑπὸ πραπίδεσσιν ἐρείσας / εὐμενέως καθαρῇσιν
ἐπoπτεύσῃς μελετῇσιν, / ταῦτά τέ σoι μάλα πάντα δι᾽ αἰῶνoς παρέσoνται, /
ἄλλα τε πόλλ᾽ ἀπὸ τῶνδε ἐκτήσεαι· αὐτὰ γὰρ αὔξει / ταῦτα εἰς ἦθoς ἕκαστoν,
ὅπη ϕύσις ἐστὶν ἐκάστῳ. / εἰ δὲ σύ γ᾽ ἀλλoίων ἐπoρέξεαı, oἷα κατ᾽ ἄνδρας /
μυρία δειλὰ πέλoνται ἃ τ᾽ ἀμβλύνoυσι μερίμνας, / ἦ σ᾽ ἄϕαρ ἐκλείψoυσι
περιπλoμένoιo χρόνoιo / σϕῶv αὐτῶν πoθέoντα ϕίλην ἐπὶ γένναν ἱκέσθαι· /
πάντα γὰρ ἴσθι ϕρόνησιν ἔχειν καὶ νώματoς αἶσαν.
246
ἀδινῇσιν ὐπὸ πραπίδεσσιν ἐρείσας.
247
Cfr. PHK 225.
248
Cfr. PHK 226.
249
87
ἔκ τε γὰρ oὐδάμ᾽ ἐόντoς ἀμήχανóν ἐστι γενέσθαι / καὶ τ᾽ ἐὸν ἐξαπoλέσθαι.
ἀνήνυστoν καì ἄπυστoν / αἰεὶ γὰρ τῇ γ᾽ ἔσται, ὅπῃ κέ τις αἰὲν ἐρείδῃ cfr.
PHK 226 dove la citazione è però meno estesa.
250
Cfr. PHK 226, la parte conclusiva della nota.
251
Cfr. PHK 226.
252
oὐδὲ γὰρ ἀνδρομέῃ κεϕαλῇ κατὰ γυῖα κέκασται, / οὐ μὲν ἀπαὶ νώτoιo δύo
κλάδoι ἀίσσoνται, / οὐ πóδες, οὐ θοὰ γοῦν(α), οὐ μήδεα λαχνήεντα, / ἀλλὰ ϕρὴν
ἰερὴ καì ἀθέσϕατoς ἔπλετo μοῦνoν, / ϕροντίσι κóσμον ἅπαντα καταΐσσoυσα
θoῇσιν, cfr. PHK 227 dove però la citazione è meno estesa.
253
Si interrompe qui la trattazione dei frammenti empedoclei; per la parte seconda
non restano che alcuni appunti preparatori. L’indice sugli argomenti delle
lezioni pisane rivela un ritorno ad Empedocle a partire dal 1961, in seguito agli
studi su Aristotele.
254
Nel dattiloscritto insabilità, refuso che sulla base del testo si può correggere
con instabilità.

SIGLE E ABBREVIAZIONI

«Archiv f. Ges. d. Phil.»


«Archiv für Geschichte der Philosophie», Berlin, 1888-

Beloch Griechische Geschichte


K.J. Beloch, Griechische Geschichte, 4 voll., Berlin, 2 ediz., 1912-1927.
a

Bidez Biogr. d’Emp.


J. Bidez, La biographie d’empédocle, Gand, 1894.

Bignone Empedocle
E. Bignone, Empedocle. Studio critico, traduzione e commento delle
testimonianze e dei frammenti, Torino, 1916.

De Sanctis ATΘΙΣ
G. de Sanctis, ATΘΙΣ, Storia della repubblica ateniese dalle origini all’età di
Pericle, Torino, 1912.

Diels Chron. Unter. ü. Apoll. Chr.


H. Diels, Chronologische Untersuchungen über Apollodors Chronika, in
«Rheinisches Museum», 31 (1876).
88
Diels Herakl.
H. Diels, Herakleitos von Ephesos, Berlin, 1901.

Diès Le cycle mystique


A. Diès, Le cycle mystique: la divinité. Origine et fin des existences
individuelles dans la philosophie antesocratique, Paris, 1909.

Diog.
Diogene Laerzio, Vite dei filosofi.

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Die Fragmente der Vorsokratiker, di H. Diels, a cura di W. Kranz, 3 voll.,
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Doxographi Graeci, ed. H. Diels, Berolini, 1879.

F. Gr. Hist.
Die Fragmente der griechischen Historiker, a cura di F. Jacoby, 16 voll.,
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H. Frãnkel, Parmenides-studien, in «Nachrichten d. Geschichte d.
Wissenschaften zu Göttingen», 1930.

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O. Gigon, Untersuchungen zu Heraklit, Leipzig, 1935.

Gomperz Griechische Denker


Th. Gomperz, Griechische Denker: Eine Geschichte der antiken Philosophie,
vol. I, Leipzig, 1903.

Heidel On Certain Fragments of the Presocratics


W.A. Heidel, On Certain Fragments of the Presocratics: Critical Notes and
Elucidations, in «Proceedings of the American Academy of Arts and Sciences»,
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W. Jaeger, Aristotele: prime linee di una storia della sua evoluzione spirituale,
trad. it. di G. Calogero, Firenze, 1916.

«Jahrb. f. kl. Phil.»


«Jahrbücher für klassische Philologie», 1831-1897.

89
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F. Jacoby, Apollodors Chronik: Eine Sammlung der Fragmente, «Phil.
Unters.», XVI, Berlin, 1902.

Mullach Fr. Ph. Gr.


Fragmenta Philosophorum Graecorum, ed. F.W.A. Mullach, Parisiis, 1860.

«Phil. Unters.»
«Philologische Untersuchungen», Berlin, 1880-1926.

Prol.
H. Diels, in Doxographi Graeci, ed. Diels, Berolini, 1879.

Rohde Psiche
E. Rohde, Psiche: culto delle anime e fede nell’immortalità presso i Greci, trad.
it. di E. Codignola e A. Oberdorfer, 2 voll., Bari, 1914-1916.

«Sitzungsberichte der königl. preuss. Akad. der Wissens. zu Berlin»


«Sitzungsberichte der (königlich) preussischen Akademie der Wissenschaften
zu Berlin», 1882-1921, 1922-1938.

Upaniṣad
Upaniṣad antiche e medie, introduzione, traduzione e note di P. Filippani
Ronconi, Torino, 2 ediz. modif., 1968.
a

Wilamowitz Aristoteles und Athen


U. von Wilamowitz-Möllendorff, Aristoteles und Athen, 2 voll., Berlin, 1893.

OPERE DI GIORGIO COLLI

FS
G. Colli, Filosofi sovrumani, Milano, 2009.

GP
G. Colli, Gorgia e Parmenide, Milano, 2003.

PHK
G. Colli, La natura ama nascondersi, Milano, 1988 (1 ediz. Phýsis krýptesthai
a

phileî, Milano, 1948).

SG
G. Colli, La sapienza greca, 3 voll., Milano, 1977.

INDICE DEI NOMI E DELLE FONTI

90
Aezio
Alcmeone
Alessandro di Afrodisia
Aminia
Anassagora di Clazomene
Anassimandro
Anassimene
Apollodoro
Archelao
Aristofane
Aristotele
- De anima, 405 a 21; A4 408 a 13
- De caelo, 298 b 14 sgg.
- Fisica, 149, 32; 168, 2; 184b 15; 187 a; 187 a 20-23; 187 a 25 189 a 34-b 9,
81; 203 a 16-18 ; 203 b 3-15; 204 b; 204 b 22-205 a 6;204 b 29
- Metafisica, a 8 sgg.; 984 a 11; 986 b 22; 987 b 22 ; 1014 a 32 sgg.; 1014b
36; 1053 b 15 sgg.; 1063 b 15 sgg.; K10 1066 b 33-1067 a 7; 1069; 1069 b 22
sgg.
- Sulla generazione e corruzione, b 31 sgg.; 332 a 4-27 ; 332 a 20-25
Baümker, Clemens
Beloch, Karl Julius
Bergk, Theodor
Bidez, Joseph
Bignone, Ettore
Böhme, Jacob
Bruno, Giordano
Calogero, Guido
Carteron, Henri
Chilone
De Sanctis, Gaetano
Demetrio Magnete
Democrito
Deussen, Paul
Diels, Hermann
Diès, Auguste
Diodoro Efesio
Diogene di Apollonia
Diogene Laerzio
- Vite dei filosofi, II, 3; VIII, 51-52; VIII, 51-77; VIII, 54; VIII, 54-56; VIII,
55 ; VIII, 57; VIII, 63 ; VIII, 69 ; VIII, 71 ; IX, 3; IX, 21;LIX, 22

91
Doxographi Graeci; 475, 10-14; 476, 2-16; 476, 5-6; 476, 6 sgg.; 476, 6-
15; 476, 13; 476, 16-477, 5; 477, ; 477, 17 sgg.; 479, 2-16; 480, 4-8; 482, 5
sgg.; 482, 7-13
Ecfanto di Siracusa
Empedocle
- B2 DK
- B3 DK
- B6 DK
- B12 DK
- B14 DK
- B15 DK
- B17 DK
- B23 DK
- B35 DK
- B37 DK
- B38 DK
- B98 DK
- B102 DK
- B103 DK
- B105 DK
- B106 DK
- B107 DK
- B108 DK
- B109 DK
- B110 DK
- B112 DK
- B117 DK
- B127 DK
- B134 DK
- B138 DK
- B146 DK
Emperius, Adolf Karl Wilhelm
Eraclide Lembo
Eraclide Pontico
Eraclito
- B115 DK
Eratostene
Erissimaco
Ermippo
Filone
Filopono
Fränkel, Hermann

92
Gataker, Thomas
Gigon, Olof
Glauco di Reggio
Goethe, Johan Wolfgang von
Gomperz, Heinrich
Gomperz, Theodor
Gorgia
Heidel, William Arthur
Iceta di Siracusa
Ippoboto
Ippolito di Roma
- Refutatio Omnium Haeresium
Jacoby, Felix
Jaeger, Werner
Joël, Karl
Karsten, Simon
Kranz, Walther
Leucippo
Lutoslawski, Wincenty
Lütze, Friedrich
Melisso
Metone
Metrodoro
Millerd, Clara Elizabeth
Mullach, Friedrich Wilhehn August
Nestle, Wilhelm
Nietzsche, Friedrich
Omero
- Iliade, XXIII, 145
Pantea
Panzerbieter, Friedrich
Parmenide
Pausania
Periandro
Pindaro
Pitagora
Pittaco
Platone

93
- Fedone, 69 e-114 c; 74 a; 86 b; 86 b, 144; 96 a; 96 a-b; 111 b; 111 e; 112 c
- Fedro, a-257 b; 247 a; 247 c; 249 c; 250 c; 251 e; 252 b; 254 e
- Lachete, 197 d
- Menone, 76 c
- Simposio, 189 b; 190 a; 191 a
- Sofista, 242 c; 242 d
Plutarco
Prassiade
Preller, Ludwig
Proclo
Pyres
Rohde, Erwin
Rostagni, Augusto
Satiro
Scaliger, Joseph Justus
Schleiermacher, Friedrich
Schopenhauer, Arthur
Senofane di Colofone
- Ciropedia
Sesto Empirico
Simplicio
Socrate
Solone
Sosicrate
Sozione
Spinoza, Baruch
Stein, Heinrich Markus
Stenzel, Julius
Sturz, Friedrich Wilhelm
Suida
Talete
Teofrasto
- Sui sensi, 7; 11; 25-26
Terone
Timeo
Trasideo
Trasillo
Tzetze, Giovanni
Upanishad
Wilamowitz-Möllendorff, Ulrich von
Wyttenbach, Daniel Albert

94
Xanto
Zeller, Eduard
a
I diversi piani sono pubblicati nell’Appendice del volume Apollineo e
dionisiaco, a cura di E. Colli, Adelphi, Milano, 2010, pp. 219-30.
b
Ibid., p. 14.
c
Della maggior parte dei corsi accademici di Colli non sono conservati dispense
o appunti per ragioni in parte spiegate da Ernesto Berti in G. Colli,Gorgia e
Parmenide, a cura di E. Colli, Adelphi, Milano, 2003, pp. 14-18. Dal materiale
di archivio è però possibile individuare gli argomenti su cui i corsi vertevano:
interessante è che il primo di essi riguardasse Empedocle e l’ultimo Orfeo.
d
Cfr. G. Colli, Filosofi sovrumani, a cura di E. Colli, Adelphi, Milano, 2009, pp.
71-89.
e
Qui, p. 59.
f
Qui, p. 176.
g
Qui, p. 178.
h
Qui, p. 26.
i
U. von Wilamowitz-Möllendorff, Die Kαθαρμoί des Empedocles, in
«Sitzungsberichte der königl. preuss. Akad. der Wissen. zu Berlin»,1929, 626-
61.
j
Rohde Psiche, 513-15.
k
Bignone Empedocle, 267.
l
Bignone Empedocle, 268-69.
m
Bidez Biogr. d’Emp., 161-74.
n
Fr. 138: χαλκῷ ἀπὸ ψυχὴν ἀρύσας [«con il bronzo l’anima attingendo»].

95
o
Vedi l’affermazione di Teofrasto in Diog., LIX, 22. Cfr. Diels, A1.
p
Bignone Empedocle, 134-35 ritiene che il passo sia una polemica contro
Parmenide, ciò che mi sembra impossibile sia per il plurale indeterminato usato
da Empedocle, sia per il tono spregiativo di questi versi, quando noi sappiamo
da Teofrasto che Empedocle fu allievo dell’Eleata e troviamo per di più molti
punti di contatto tra le dottrine dei due filosofi.
q
Fr. 23, v. 11 (θεoῦ πάρα μῦθoν ἀκoύσας). Che il θεoῦ si riferisca ad Empedocle
è affermato dal Bidez (Biogr. d’Emp., 166), e questo giudizio è approvato dal
Rohde (Psiche, 512, 4). Il Diels lo riferisce invece alla Musa, ma senza
sufficiente giustificazione.
r
Fr. 62.
s
Accetto il testo di Simplicio, che dà, a mio parere, una costruzione migliore. Il
Bidez e il Bignone leggono invece πλεόνεσσιν.
t
Theophr., De sens., 11, cfr. Diels, A86.
u
Cfr. fr. 17, v. 27, dove tutti i princìpi che si riuniscono nello Sfero sono
dettiuguali (ἶσα).
v
Una tale concezione dell’anima è molto simile a quella dei Pitagorici. Cfr.
Arist., De an., A4 408 a 13: ὁ δὲ τῆς μίξεωνς λόγoς ἁρμoνία καὶ ψυχή [«la
proporzione della mistione è armonia e anima»].
w
Fr. 106: πρὸς παρεὸν γἀρ μῆτις ἀέξεται ἀνθρώπoισιν [la traduzione è qui, p. 82
nota, e diversa in PHK 226 («poiché il pensiero si potenzia negli uomini
volgendosi all’essenza interiore»)]. Cfr. anche Eraclito, fr. 115: ψυχής ἐστι
λόγoς ἑαυτòν αὔξων.
x
Cfr. Bignone Empedocle, 481.
y
Il Bignone ha riconosciuto nel tutti (πάντα) del v. 10 gli elementi: se questo
fosse un soggetto nuovo avrebbe dovuto essere introdotto più specificamente.
Si noti poi il preciso riscontro col tutti (πάντα) del v. 3.
z

96
Sulla falsa prospettiva storica in cui Platone è visto da Aristotele, si veda ad es.
Lutoslawski, Erhaltung und Untergang der Staatsverfassungen nach Plato,
Aristoteles und Machiavelli, Breslau 1888, pp. 83-90 e Stenzel,Zahl und Gestalt
bei Platon und Aristoteles, Leipzig 1924, vol. I. Sulla superficialità,
imprecisione e infedeltà di Aristotele rispetto alla storia ateniese cfr.
Beloch Griechische Geschichte, passim, lo stesso WilamowitzAristoteles und
Athen, I, 308-309, ed in specie De Sanctis ATΘIΣ, 162-66, 272, 275, 320-21,
387-91, 400, 408-10.
aa
Arist., Phys., 203 a 16-18.
ab
Denn alle geben dem Unbegrenzten zum Substrat einen von ihm selbst
verschiedenen elementarischen Körper. Cfr. Zeller-Nestle, Die Philosophie der
Griechen in ihrer geschichtlichen Entwicklung, I, 286. Le critiche a questa
interpretazione da parte del Baümker, in «Jahrb. f. kl. Phil.», 1885, 131, 827-
29, non sono affatto decisive.
ac
L’amplissimo modo che ha lo Zeller di intendere i cosiddetti elementi (τὰ
λεγóμενα στoιχεῖα) invero è insostenibile. Egli interpreta i cosiddetti
elementi come «diejenigen gleichteiligten Körper, welche den letzten
Bestandteil oder die letzten Bestandteile der zusammengesetzten Körper
ausmachen», cioè quei corpi divisi in parti eguali, che costituiscono le basi
ultime o le parti elementari dei corpi composti, basandosi suMetaph., 1014 a
32 sgg. Senonché il dicono (λέγoυσι) rilevato in questo passo dallo Zeller, per
quanto vasto, è riferito pur sempre a determinati pensatori, mentre
il cosiddetti (λεγóμενα) che compare nel nostro capitolo della Fisica è del tutto
indefinito e spersonalizzato. Che poi cosiddetti o così
chiamati (καλoύμενα) elementi (στoιχεῖα) formi un’espressione particolare, e
che come tale non le sia applicabile la definizione di elementi usufruita dallo
Zeller, è provato, scegliendo un esempio tra i molti possibili, da Phys., 187 a
25, dove si contrappone Anassagora a Empedocle: «... e l’uno reputa infinite le
particelle simili e quelle contrarie, mentre l’altro considera soltanto i cosiddetti
elementi» [καὶ τὸν μὲν ἄπειρα πoιεῖν τά τε ὁμoιoμερῆ καὶ τἀναντία, τὸν δὲ τὰ
καλoύμενα στoιχεῖα μóνoν, la traduzione è in PHK100] (secondo Aristotele
Empedocle è l’unico filosofo che si accontenti nella scelta dei suoi princìpi di
aderire a tale concezione popolare: questo giudizio è rintracciabile nel soltanto-
μóνoν). Una simile contrapposizione non avrebbe evidentemente senso se
anche le omeomerie potessero essere comprese secondo lo Zeller tra i cosiddetti
elementi. Se infine il significato normale dielementi fosse quello zelleriano, non
dovrebbe rintracciarsi, come invece avviene, in Aristotele l’uso
di elemento (στoιχεῖoν) al singolare o di due... quattro elementi (δύo ...
τέσσαρα στoιχεῖα) in un plurale, cioè espressamente determinato. Ammesso
anche un duplice uso aristotelico dielementi, quello voluto dallo Zeller

97
rimarrebbe pur sempre l’eccezione: meno che mai comunque ricadrà in esso
l’espressione particolare cosiddetti elementi, sempre riferita specificamente ai
quattro elementi empedoclei.
ad
Cfr. Dox., 476, 6-7.
ae
Cfr. Phys., 204 b 22-205 a 6.
af
Cfr. Lütze, Über das ἄπειρoν Anaximanders, Leipzig 1878, pp. 94-98. Egli
vorrebbe vedere in τὸ παρὰ τὰ στoιχεῖα qualcosa di esistente accanto all’acqua
e all’aria e quindi di intermedio tra loro. Senonché già nell’ampio στoιχεῖα, che
non può comprendere soltanto l’acqua e l’aria, è insito un impedimento iniziale
a questa tesi, sicché il Lütze si vede costretto a lunghe disquisizioni non
convincenti.
ag
Ricordiamo come tipico per questa seconda accezione di al di là (παρά) un
passo su Platone e i Pitagorici, Metaph., 987 b 22 dove si dice: ... ὁ μέν (cioè
Platone) τoὺς ἀριθμoὺς παρὰ τὰ αἰσθητά... Il senso è indiscutibile: «l’uno dice
che i numeri sono al di là delle cose sensibili». Un chiaro significato di
trascendenza ha in Plat., Phaed., 74 a. Per l’uso non filosofico della
preposizione in questo senso cfr. Iliade, XXII, 145 e Xen., Cyr., 5, 2, 29.
ah
Cfr. De gen. et corr., 332 a 20-25.
ai
Cfr. De gen. et corr., 328 b 31 sgg.
aj
De gen. et corr., 332 a 4-27.
ak
Diog., IX, 21.
al
Cfr. DK, I, 217, 22-23 nota.
am
Il fr. 23 (Dox., 494, 4-495, 1), che accenna alle teorie nettunistiche di
Anassimandro, non poteva appartenere al primo libro sulle ἀρχαί, il solo che a
noi qui interessi.
an
Cfr. Arist., De caelo, 298 b 14 sgg. Una generica parentela tra i due passi è già
stata vista dal Diels nei Prol., 109-10.
ao

98
Cfr. Diog., VIII, 55.
ap
Si veda inoltre il seguito nel testo del biografo, dove si cita la testimonianza di
Ermippo, secondo la quale Empedocle sarebbe stato l’allievo di Senofane, e
«solo più tardi avrebbe frequentato i Pitagorici» (ὕστερoν δὲ τoῖς
Πυθαγoρεικoῖς ἐντυχεῖν). A parte il fatto che la frase di Simplicio ci presenta il
rapporto Empedocle-Pitagorici in modo notevolmente diverso da quello di
Diogene, e che non è confutabile la provenienza di quest’ultima da Ermippo, le
cui tendenze di scrittore pitagoricizzante sono note, rimarrebbe da chiedere
perché mai Diogene non si era degnato di ricordare il suddetto rapporto, se
veramente l’aveva ritrovato in Teofrasto, quando un momento prima aveva
avuto l’occasione di citare quest’ultimo, che infatti doveva apparirgli
sull’argomento una fonte ben più attendibile di Ermippo. In conclusione sembra
logico supporre che nell’epitome usufruita da Diogene non si dicesse altro
all’infuori dell’accenno all’acceso ammiratore(ζηλωτής) e all’imitatore della
poesia (μιμητὴς ἐν τoῖς πoιήμασιν); già le parole seguenti sono probabilmente
un’aggiunta chiarificatrice di Diogene «giacché anche ... aveva scritto» (καὶ γάρ
... ἐξενεγκεῖν). Non è per contro sospettabile l’imitatore, libera trasformazione
dello strettamente unito(πλησιαστής) teofrasteo da parte dell’autore
dell’epitome, il quale non sempre citava testualmente. Quanto alla natura della
compilazione che serve qui da fonte a Diogene, possiamo identificarla con
quella della prima epitome supposta poco fa a base del fr. 6 a (attinto anch’esso
da Diogene). In entrambi i luoghi si danno infatti notizie biografiche e si cita
dal primo libro dell’opera teofrastea. Il Diels ritiene invece (DK, I, 278, 5 nota)
che in questo caso Diogene usufruisca il Sullo stile (Περὶ Λέξεως) e non
leOpinioni dei fisici, probabilmente per l’accenno alla parentela poetica. La sua
tesi è comunque provata.
aq
Ricordiamo come uniche eccezioni il fr. 18, citato indirettamente non certo dal
primo libro teofrasteo, e riguardante Iceta di Siracusa, la cui personalità è molto
incerta, e i paragrafi 25-26 del Sui sensi (Περὶ αἰσθήσεων) su Alcmeone,
pensatore originale prima che pitagorico.
ar
Cfr. l’uso di πλησιάξειν in Plat., Lach., 197 d e di πλησιασμóς in Aristotele. Il
termine potrebbe anche significare un rapporto erotico.
as
Il Wilamowitz per primo ha affrontato il problema intricatissimo delle fonti di
Diogene secondo una prospettiva ricca e costruttiva (Antigonos von Karystos,
«Phil. Unters.» IV, Berlin 1881, 320-36). Egli ha individuato come fonti per la
serie dei filosofi antichi dei libri VIII-IX, e così pure per la serie dei libri I-II,
Demetrio Magnete, Trasillo, e più importante di tutti, Ippoboto, che copia
Sozione, Satiro, Eraclide Lembo. Il Bidez (Biogr. d’Emp.) ha approfondito il
problema attraverso un’analisi particolareggiata della vita di Empedocle, che
99
ha confermato l’individuazione di Ippoboto. Non siamo però d’accordo con
questi critici nel pensare che Ippoboto sia un autore diffusamente usufruito da
Diogene, anche al di fuori della vita di Empedocle.
at
La notizia è testimoniata da Xanto (Diog., VIII, 63), autore difficilmente
individuabile, comunque abbastanza antico. Si veda inoltre il fr. 66 di
Aristotele, che può già contenere tale notizia. Richiamiamo infine le parole
seguenti in Diogene: τὰ δ᾽ αὐτὰ καὶ Τίμαιoς εἴρηκε, τὴν αἰτíαν ἅμα... («le stesse
cose ha detto anche Timeo»), che estendono a Timeo la testimonianza.
au
Di contrario avviso è Bidez Biogr. d’Emp., 158-59, 162-63. Ci allontaniamo
dall’opinione di questo filologo anche per quanto riguarda la data presumibile
della lettura dei Katharmoí ad Olimpia, secondo noi da situarsi nel 452 o nel
448, cioè due o tre olimpiadi prima di quanto vuole il Bidez.
av
Gli studi più importanti in proposito sono: Diels Chron. Unter. ü. Apoll. Chr.,
37-39; Jacoby Apoll. Chr., 271-77; F. Gr. Hist., II 728-29.
aw
Soprattutto il fissare l’akmé al limite inderogabile di quarant’anni non
appartiene secondo noi ad Apollodoro. Per giustificare la nostra posizione
generalizziamo sommariamente il problema. Con ogni probabilità la fonte di
Diogene doveva avere una duplice conoscenza di Apollodoro, da una parte
attraverso un’antologia piuttosto antica e dall’altra attraverso una compilazione
di opere biografiche, dovute come abbiamo visto ad Ippoboto. Quest’ultima,
oltre a fondarsi sugli autori già ricordati, conteneva forse anche notizie isolate
desunte da Apollodoro, per quanto trasformate nell’espressione e sovente
corrotte. A questa compilazione – e forse ancora più lontano, a Sosicrate – risale
la teorizzazione dell’akmé, non già ad Apollodoro. (Poco sappiamo di
Sosicrate, ma in quel poco non si può rintracciare alcuna dipendenza precisa.
La tesi di Diels – Diels Chron. Unter. ü. Apoll. Chr., 20-21 – che egli segua
Apollodoro quanto alla cronologia non è assolutamente provata. Diogene
ricordale opinioni di Sosicrate su Talete, Solone, Periandro, Pittaco e Chilone,
interessanti cioè un periodo storico ben determinato, quasi fosse al riguardo la
sua fonte preferita. D’altra parte se Diogene avesse realmente attinto da
Apollodoro attraverso Sosicrate, perché avrebbe dovuto citare quest’ultimo
soltanto qui e non altrove, dove la cosa si sarebbe ugualmente verificata? Se
invece egli possedeva sui sette sapienti entrambe le testimonianze, di
Apollodoro e di Sosicrate, ed esse davvero coincidevano, perché non avrebbe
preferito citare il primo, sua fonte normale e ancor più sicura? Che infine le
dichiarazioni di Sosicrate su Periandro, soltanto perché ricordavano la presa di
Sardi o determinavano delle date sulla base dei quarant’anni, debbano
necessariamente risalire ad Apollodoro, è del tutto gratuito. Non è certo una
peculiarità di quest’ultimo servirsi del numero suddetto peri computi
100
cronologici, e neppure è giustificato credersi sulle tracce di Apollodoro non
appena si incontri uno schematismo. Concludendo, riteniamo di poter togliere
ad Apollodoro i frr. 332, 335 [F. Gr. Hist., II B 1120, 1121] e 14 [Apoll. Chr.]).
A parte poi Sosicrate, avrebbe dovuto essere più guardingo Jacoby
nell’attribuire ad Apollodoro tutti i frammenti anonimi che parlano dell’akmée
notare che nelle citazioni espresse il riferimento a questa scompare. È sfuggito
sinora alla critica come tra i moltissimi frammenti attribuiti espressamente ad
Apollodoro sei soltanto,16, 29, 71, 72, 74, 76 (F. Gr. Hist., II B 1026, 1028,
1040, 1041), parlino dell’akmé, che pure dovrebbe essere il concetto centrale
del cronologo. Si noti poi che in nessuno di questi sei si ricorda la data di nascita
accanto all’akmé; mai quindi può verificarsi palesemente il famoso computo
dei quarant’anni. Un osservatore obbiettivo deve dire allora che il nostro autore
ricorre all’akmé solo in mancanza di altri dati, preferendo, quando lo può, citare
la nascita o la morte. Quanto alnascere, ghégone o ghegonénai (γέγoνε o
γεγoνέναι) – equivalenti secondo Jacoby all’akmé – , gli esempi sono ancora
più rari; comunque mai essi sono riferiti ad un anno fissato, e neppure ad un
determinato numero di anni. Quest’ultimo caso piuttosto a nostro parere
rappresenta il vero concetto di akmé per Apollodoro. Essi significano
semplicemente «vivere in una data epoca», come dimostra nel modo più chiaro
la testimonianza su Talete. (Neppure il nacque [γεγένεται], che si ritrova in
Diog., II, 3, a proposito di Anassimene, indica l’akmé, come vorrebbero Diels
e Jacoby. Diels scopre come unico appoggio alla sua tesi Hippol., Haer., I, 7:
«la vita di costui culminò verso il primo anno della cinquantottesima
olimpiade» [oὗτoς ἤκμασε περὶ ἔτoς πρῶτoν τῆς πεντηκoστῆς ὀγδóης
ὀλυμπιάδoς], risalente secondo lui ad Apollodoro. Senonché, a parte la
discordanza tra 58, 1 e 58, 3, Ippolito non è certo un’autorità sufficiente per
giustificare la modificazione del significato di una forma verbale, per altro
verso chiarissimo. Esaminando infatti l’uso di nascere [γεγενῆσθαι],
limitatamente ai frammenti attribuibili ad Apollodoro, si trovano ancora due
esempi: 28, 31 [F. Gr. Hist., II B 1030], e perfino del perfetto attivo, che
normalmente, come si è visto, indica l’essere in vita, nei frr. 36 a [F. Gr. Hist.,
II B 1030] e 80 a [Apoll. Chr.]). Esaminiamo adesso i sei frammenti che parlano
dell’akmé. In due di essi, 16, 71, Diogene ricorda l’opinione di Apollodoro su
un filosofo, dopo di aver citato il cronologo per quanto concerne il nome del
padre in un altro paragrafo. Ciò confermerebbe l’ipotesi di Jacoby; notiamo
però una coincidenza. I frammenti 16 e 71, con quelli loro precedenti,
costituiscono gli unici esempi da noi posseduti di una tale doppia citazione, e
contemporaneamente due fra i sei casi in cui Apollodoro parla di akmé. Tutto
ciò è spiegabile secondo il nostro modo di vedere. I due frammenti in questione
sarebbero cioè stati trovati da Diogene nella sua compilazione biografica, in cui
nel caso specifico stava una citazione espressa di Apollodoro. Costui
originariamente aveva parlato di nascita o di morte, ed il compilatore, o meglio
l’autore da lui usufruito, pur citandolo in modo espresso, traduce quei dati
secondo la sua abitudine in termini di akmé.Dopo di ciò si potrebbe essere
indotti a sospettare anche le citazioni esplicite. Quanto agli altri frammenti si
101
noti che il 74, dedotto da Diodoro, per indicare il fiorire usa il verbo ἠνθηκέναι
non già akmé o ἀκμάζειν. Probabilmente era questo il termine originale di
Apollodoro. Osserviamo ancora che nei frr. 29 e 74 l’akmé è riferita non ad un
anno determinato, ma ad un certo periodo, sia pur limitato, di tempo. Il fr. 72
invece, su Melisso, parla di una determinata olimpiade, ma la cosa si spiega,
non avendo probabilmente Apollodoro posseduto altra notizia precisa se non
quella del suo navarcato. Lo stesso si può dire anche per il fr. 76, oppure
supporlo derivato dal compilatore. Quanto abbiamo detto ha naturalmente il
valore di una congettura; è certo possibile ad esempio che Diogene abbia attinto
talvolta attraverso le sue fonti ad Apollodoro, senza per altro citarlo
espressamente. Quanto dice Jacoby (Apoll. Chr., 41-51) a sostegno della sua
tesi sul valore dell’akmé in Apollodoro non è conclusivo. Non è vero che
quest’ultimo, anche senza ricordare espressamente l’akmé, si basi
sull’avvenimento a sua disposizione per un computo meccanico. Gli esempi
forniti da Jacoby o sono stati facilmente criticabili o si spiegano considerando
che in molti casi è logico che la vita di un uomo presenti un avvenimento
notevole verso i quarant’anni.
ax
Cfr. Bignone Empedocle, 48. Tra coloro che si sono occupati della questione
l’unica voce contrastante è lo Stein, Empedoclis Agrigentini fragmenta, Bonnae
1852, pp. 4-5, che ringiovanisce assai Empedocle.
ay
Le due notizie di Aristotele (Metaph., 984 a 11): «Anassagora di Clazomene,
che per età gli è anteriore ma posteriore per attività» (Ἀναξαγóρας ὁ
κλαζoμένιoς τῇ μὲν ἡλικίᾳ πρóτερoς ὢν τoύτoυ [Empedocle]), e Teofrasto
(Dox., 477): «Empedocle d’Agrigento vissuto non molto dopo Anassagora»
(Ἐμπεδoκλῆς ὁ Ἀκραγαντῖνoς oὑ πoλὺ κατóπιν τoῦ Ἀναξαγóρoυ γεγoνώς),
sono in accordo con i suddetti risultati, se sono valide le conclusioni
comunemente accettate sulla cronologia di Anassagora. Questo problema
andrebbe ulteriormente approfondito, ma non è questa la sede. Ricordiamo
soltanto l’assurda traduzione del próteros (πρóτερoς) di Aristotele con «più
giovane» da parte di Bignone (Empedocle, 312), mentre il significato è
l’opposto (Bidez, Jacoby).
az
In questo punto del testo di Diogene lo Sturz ha voluto scorgere una corruzione
ed ha letto Eraclide (Ἡρακλείδης) anziché Eraclito(Ἡράκλειτoς), seguito più
tardi dal Diels. Secondo l’opinione dello Sturz le corruzioni di questo tipo sono
frequenti, e nel caso presente la cosa è tanto più verosimile per le numerose
notizie su Empedocle fornite per l’appunto da Eraclide. A nostro avviso al
contrario non è necessario introdurre questa variante, mancando un appoggio
serio. Del nostro parere sembra anche essere Kranz. Si veda inoltre un altro
passo di Diogene (IX, 3, a proposito di Eraclito): «morì a 60 anni» (ἐτελεύτα
βίoυς ἔτη ἐξήκoντα). Jacoby è incerto di fronte allo Sturz (Apoll. Chr., 273-

102
74; F. Gr. Hist., II 728), e presenta la possibilità che si debba leggere ἔτι δ᾽ e
che ci si trovi di fronte ad un inciso di Diogene, che l’avrebbe dedotto da IX, 3.
Anche noi non siamo sicuri nell’attribuire ad Aristotele tale riferimento ed
ammettiamo quest’ultima ipotesi di Jacoby come possibile. Se avesse ragione
lo Sturz – nota infine Jacoby – l’errore, come dimostra Diog., IX, 3, sarebbe
molto antico, il che a nostro avviso lo rende ancora più problematico.
ba
Cfr. Bidez Biogr. d’Emp., 50-53. Noi lo riteniamo anzi anteriore a Timeo; si
veda infatti Diog., VIII, 71: «a tutti questi si oppose» (τoύτoις δ᾽ ἐναντιoῦται...).
L’aver trattato in particolare Anassimandro, filosofo poco noto, conferma
inoltre l’antichità e l’attendibilità di Diodoro.
bb
Essendo Pantea agrigentina (Diog., VIII, 69) è logico pensare che Empedocle
vivesse ad Agrigento nel tempo che precedette il suicidio e che negli ultimi anni
di vita fosse ritornato in patria. Essendo per altro la sua posizione politica
delicata, era certo più consigliabile celebrare il sacrificio, che lo esaltava, in
territorio siracusano. Tutto ciò naturalmente, inutile aggiungere, è soltanto
congetturale.
bc
Ciò è provato dal Bidez Biogr. d’Emp., 15-40, come pure il fatto che entrambe
le parti del racconto, sacrificio e morte d’Empedocle nell’Etna, risalgono ad
Eraclide. Non siamo però d’accordo con questo critico nel ritenere che le due
parti riflettano due fasi successive nella formazione della leggenda; a nostro
avviso si tratta di un racconto coerente ed unitario sin dapprincipio, in cui la
miracolosa sparizione era spiegata, probabilmente da Pausania, con il desiderio
di una morte solitaria. Era difficile che si formasse dopo il 430 la leggenda di
un’apoteosi.
bd
Cfr. i luoghi citati nell’indice dei Vorsokratiker di Kranz. I casi in cui il
vocabolo phýsis compare in Empedocle, quando il contesto è rilevante,
confermano il significato da noi dato. Tale è il caso del fr. 110, v. 5, che sarà
discusso da noi più tardi e del fr. 63, che si vedrà tra poco. Quest’ultimo anzi è
strettamente legato al fr. 16, v. 3 di Parmenide che conferma ancora il
significato. Gli unici casi in cui Empedocle usa phýsis nel senso di «nascita»,
«origine» stanno nel fr. 8, vv. 1 e 4; qui per altro l’uso della parola è
convenzionale, come avverte espressamente Empedocle: «è chiamata dagli
uomini» (ἐπὶ τoῖς ὀνoμάζεται ἀνθρώπoισιν). Ancora più chiaro è il significato
della parola in Eraclito; si vedano i frammenti 112, e soprattutto 123, dove non
si può in alcun modo intendere secondo un senso temporale o comunque
sensibile. Anche nel fr. 1 il nostro significato è l’unico accettabile;
insoddisfacenti a nostro avviso sono le altre traduzioni del Diels, in Herakl., 3:
«interpretando ognuno secondo la sua natura» (ein jegliches nach seiner Natur
auslegend, meglio in DK: nach seiner Natur ein jegliches zerlegend, cioè
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«suddividendo ognuno secondo la sua natura»), del GigonUnters., 10,
con origine (Herkunft), o dello Heidel (On Certain Fragments of the
Presocratics, 695-96): «distinguendo ognuno secondo la sua specie»
(distinguishing them each after its own kind).
be
Cfr. Biogr. d’Emp., 159-74. Misero è quanto dice in contrario Diels, Uber die
Gedichte des Empedokles, in «Sitzungsberichte der königl. preuss. Akad. der
Wissens. zu Berlin», 1898, 406-15. Diels sostiene ad esempio che l’inizio
dei Katharmoí sembra essere pronunciato da chi non è più nella città, mentre
basta leggere il fr. 112 per convincersi del contrario; oppure dice che la lettura
dei Katharmoí ad Olimpia presuppone che Empedocle fosse già conosciuto, il
che è evidente, ma non già per il Perì phýseos, quanto piuttosto per la sua
potenza politica; oppure ancora afferma che l’uso di Neîkos nel fr. 115
presuppone la sua conoscenza come termine tecnico, il che non è vero,
potendosi intendere il contesto anche altrimenti, o comunque essendo più logico
al contrario ritenere l’uso di Neîkos nel fr. 115 come un primo accenno di quello
che si svilupperà tecnicamente nel Perì phýseos.Facilmente confutabile allo
stesso modo sono quasi tutti gli altri argomenti del Diels.
bf
A proposito infine dello stile empedocleo, buone osservazioni si trovano in C.E.
Millerd, On the Interpretation of Empedocles, Chicago 1908, pp. 21-24.
bg
Tutto ciò naturalmente, si può dire se si accetta l’emendazione incalzano
(ἔμπαια) di Emperius (seguito da Diels, Bignone, Kranz, Karsten, Mullach). I
mss. di Sesto offrono ἔμπεα, quelli di Proclo (in Tim., II, 116) ἔπεα. Da
quest’ultima lettura Preller ha tratto l’emendazione ἔπεα τά τε, che
indubbiamente è la migliore dal punto di vista filologico, seguendo più da
vicino i mss. e non trovandosi dall’altro canto alcun esempio di ἔμπαιος, non
soltanto in Empedocle, ma in alcun presocratico. Neppure noi per altro ci
sentiamo di seguirla, perché renderebbe troppo duro il significato.
bh
Senza poter entrare nel vivo del problema, diamo soltanto alcuni accenni. Il
passo più interessante di Parmenide in proposito è fornito dai vv. 1-2 del fr. 16:
Ὼς γὰρ ἕκαστος ἔχει κρᾶσιν μελέων πολυπλάγκτων / ὣς νóoς ἀνθρώποιοι
παρίσταται, che traduciamo: «secondo la fusione tra di loro delle membra
disperse, posseduta da ciascuno, tale si presenta negli uomini l’interiorità».
Importante riguardo a questi versi è stata la critica del FränkelParm., 2, 169-74.
Nel primo verso accettiamo la lettura ciascuno(ἕκαστος) di questo filologo e la
sua interpretazione di μελέων come membra. Le soluzioni degli altri critici sono
meno soddisfacenti; tutti, poi, compreso il Fränkel, guidati da una falsa
interpretazione del passo di Teofrasto che cita il frammento, traducono κρᾶσις
μελέων «la mescolanza di ogni organo di senso» (o di ogni «membro»), volendo
ritrovare ad ogni costo in questo primo verso la prevalenza del caldo, che essi
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credono affermata da Teofrasto. La lettura ἑκάστοτε, ed il significato μελέων
sono già stati scelti dal Diels per salvare tale interpretazione; il Calogero anzi
(Studi sull’eleatismo, Roma 1932, pp. 45-48 nota) per ridarle quella consistenza
che le critiche del Fränkel hanno messo in forse, ha mutato fusione (κρᾶσιν) in
κρᾶσις, senza giustificazione. L’espressione κρᾶσις μελέων significa a nostro
avviso «la fusione delle membra (tra di loro)». Già Fränkel ha tradotto in modo
simile, «je nach der Mischung der μέλη» («secondo la fusione dei μέλη»), per
quanto la falsa interpretazione di Teofrasto lo induca in errore quando spiega la
traduzione: «d. i. je nach ihrem Gehalt an Licht» («cioè, secondo il loro grado
di luce»). Data l’impossibilità di intendere κρᾶσις μελέων nel senso del Diels,
si potrebbe anche tradurre μέλη con «elementi» (Rostagni). Questo sarebbe
l’unico modo di salvare l’interpretazione del Fränkel e degli altri, perché così
soltanto si potrebbe ritrovare nel frammento una krâsis di elementi fisici. Tale
traduzione è però insostenibile, se non per altro, a causa
dell’attributo disperse (πολυπλάγκτων) dato a μελέων, dal momento che πλάζω
ha in altri passi di Parmenide e di Empedocle, dove si sente chiaramente
l’ispirazione parmenidea, un significato spregiativo, riferito a ciò che è umano
e molteplice (cfr. Parm. fr. 6, v. 6; fr. 8, v. 28; Emp. fr. 20, v. 5, in cui si parla
anche di μέλη nel chiaro senso di «membra»; fr. 57, v. 2. Cfr. anche
Fränkel Parm., 172, nota 1). Concludendo πολυπλάγκτων sta in evidente
opposizione a κρᾶσιν; da un lato le membra che errano distanti, dall’altro
la krâsis che le unisce. Si noti che krâsis non va tradotto mescolanza, ma
fusione; il termine accentua l’elemento unificante rispetto al molteplice che
contiene (cfr. PHK 177). Nel fr. 4 di Parmenide (non possiamo qui affrontarne
l’analisi) (cfr. PHK 173-81; GP 186-201) il nóosfaceva diventare le cose
distanti del mondo sensibile vicine tra loro, congiunte; in questi due primi versi
del fr. 16 esso compare nell’identica funzione di produrre l’unione delle
membra distanti. Infatti la krâsis del v. 1 non è altro che il nóos come dice il v.
2. Si tratta quindi della stessa concezione da noi ritrovata in Empedocle, ed altri
passi ancora di Parmenide lo confermano.
bi
Cfr. DK, I, 302, 25 sgg. Tutto il passo teofrasteo è una chiarificazione, non
sappiamo più fino a qual punto fedele, di tale teoria empedoclea. Si veda in
particolare la frase: «Coloro in cui le parti degli elementi sono mescolate in
uguale rapporto ... sono i più acuti nelle sensazioni. Proporzionatamente,
seguono quelli che nel rapporto degli elementi sono loro prossimi... (ὅσοις μὲν
οὖν ἴσα ... μέμεικται ... Tούτους ϕρονιμωτάτους εἶναι καὶ κατὰ τὰς αἰσθήσεις
ἀκριβεστάτδυς, κατὰ λóγον δὲ καὶ τοὺς ἐγγυτάτω τούτων...) e poco oltre:
«Coloro che posseggono in una singola parte del corpo la mescolanza perfetta,
eccellono per questa struttura di un determinato organo» (οἷς δὲ καθ’ ἕν τι
μóριον ἡ μέση κρᾶσίς ἐστι, ταύτῃ σοϕοὺς ἑκάστους εἶναι). Il Bignone per altro
afferma poi a torto che nel sangue esiste ancheneîkos (cfr. Empedocle, 187, 2;
410 nota). Contro di ciò sta la lettura del fr. 98; il raffronto con il fr. 109 – che

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vedremo in seguito – non prova nulla, in quanto la conoscenza accennatavi è
di guîa, o di natura ancora più elementare, come si dirà, e non di haîma.
bj
Per l’intima penetrazione contenuta nell’ὑπó cfr. Brihadâranyaka Upanishad,
4, 4, 22 (Deussen): «Wahrlich, dieses große, ungeborne Selbst ist unter den
Lebensorganen jenes aus Erkenntnis bestehende. Hier, inwendig im Herzen ist
ein Raum, darin liegt er, der Herr des Weltalls ... er ist die Brücke, welche diese
Welten auseinanderhält, dass sie nicht verfließen» [«in verità questo grande,
increato ātman è fatto di coscienza nelle percezioni di sensi. Quell’etereo
spazio che è all’interno del cuore, è ivi che Egli dimora, Signore del tutto ...
Egli è la diga che spartisce i mondi, impedendo loro di confondersi», Upaniṣad,
143, in PHK 225].
bk
Ricordiamo in proposito il frammento 129, riferito da Timeo a Pitagora, da altri
a Parmenide (Diog., VIII, 54). Anche senza voler dare peso a quest’ultima
anonima affermazione, dato il nessun valore in questo campo di una
testimonianza del pitagorizzante Timeo, non si saprebbe a chi riferire il
frammento se non per l’appunto a Parmenide. Le dichiarazioni di Teofrasto, la
cui importanza è risultata dalle nostre indagini precedenti, di una stretta
dipendenza di Empedocle da Parmenide (dipendente e vicino, ἡλωτὴν καὶ
πλησιαστήν) sono pienamente confermate da un raffronto tra i frammenti dei
due filosofi. L’affinità è così appariscente da non meritare una documentazione
(infondato è quanto dice Bidez, in «Archiv f. Ges. d. Phil.», 9, 1897, 203-207).
Uno stretto contatto personale è alla base del fr. 129. Il contenuto di questo
frammento ricorda il fr. 110. L’espressione «grandissima ricchezza di
intendimento ottenne» (μήκιστoν πραπίδων ἐκτήσατo πλoῦτoν, fr. 129, v. 2)
sintetizza il risultato di fr. 110, 1-5, presentando un nóemapotenziato (cfr. fr.
132, v. 1 in cui viene inoltre determinata la qualità del conoscente con divino,
θείων), e l’altra «... con tutta la mente si protendeva» (πάσῃσιν ὀρέξαιτo
πραπίδεσσιν) riproduce l’interiore momento conoscitivo di fr. 110, 1-2. Il v. 5:
«facilmente vedeva ciascuno di tutte le individualità» (ῥεῖ ὅ γε τῶν ὄντων
πάντων λεύσσεσκεν ἕκαστoν) espone l’oggetto della conoscenza, che è
l’individualità essenziale, in questo caso però non soltanto una phrónesis ma
anche un nóema. Il v. 6, «anche in dieci e poi venti generazioni di uomini (καί
τε δέκ᾽ ἀνθρώπων καί τ᾽ εἴκoισιν αἰώνεσσιν) contribuisce a spiegare il
contenuto del molta altra (ἄλλα τε πóλλ᾽ di fr. 110, 4).
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È opportuno ricordare il fr. 4, v. 3: γνῶθι διατμηθέντoς ἐνὶ σπλάγχνoισι λóγoιo,
«conosci, essendo l’oggetto della conoscenza penetrato (diviso nel tuo cuore)».
Il Diels ha emendato penetrato (διατμηθέντoς) in passato
attraverso (διασσηθέντoς), senza giustificazione, traducendo: «nachdem ihre
Rede durch deines Inneren Sieb gedrungen ist» («dopo che il loro discorso ha
passato il setaccio della tua interiorità»). L’importante è ad ogni modo di vedere

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il verso non nel senso di un apprendimento astratto e meditato, ma come un
nuovo accenno al processo scritto nel fr. 110. La conoscenza si incorpora qui in
senso proprio nelle fibre più intime del discepolo. È una nuova prova della
doppia considerazione della realtà. Ciò che è più vero dev’essere più intimo,
deve entrare nel più profondo.
Ricordiamo ancora il fr. 106: πρὸς παρεὸν γὰρ μῆτις ἀέξεται ἀνθρώπoισιν,
«l’interiorità degli uomini si potenzia secondo la realtà contigua». Stretto è il
parallelo con fr. 110, 3-5. Il significato di contiguo (παρεóν) va ricavato (così il
già visto ti saranno avvinti, παρέσoνται di fr. 110, v. 3) dall’analisi di Parm. fr.
4, v. 1 [cfr. PHK 173-81; GP 186-201]. Non possiamo qui approfondire la
questione e ci limitiamo a rimandare a Calogero, Studi sull’eleatismo, cit., pp.
22-23 nota. Fondandoci su questo studio e sui nostri precedenti risultati, diamo
a παρεóν il significato di essenza interiore resa contigua dall’attrazione del
soggetto; interiorità (μῆτις) poi è del tutto equivalente a principio di
conoscenza (νóημα, cfr. fr. 2, vv. 8-9) [cfr. PHK226].
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Il fr. 134 appartiene al Perì phýseos, come ha dimostrato BignoneEmpedocle,
631-49. Il rapporto tra essenza sacra (ϕρὴν ἱερή) e Sphaîros(identificati da
Diès Le cycle mystique, 89-91) sarà chiarito in seguito. Non si può certo parlare
di una spiritualità della phrén, come fa W. Nestle, Der Dualismus des
Empedockles, in «Philologus»,1906, 65, 554-56 [cfr. PHK 227]. Per la
noumenicità di questo grado supremo del reale, si veda anche il frammento 133,
vv. 1-2, che ha evidentemente lo stesso oggetto.

Table of Contents
Frontespizio
Colophon
EMPEDOCLE
Nota della Curatrice
Anima e immortalità in Empedocle
Empedocle
I - Fonti indirette
II - Vita e opere
III - Teoria della conoscenza
Note
Sigle e abbreviazioni
Indice dei nomi e delle fonti

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