Giorgio Colli Empedocle
Giorgio Colli Empedocle
Giorgio Colli Empedocle
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anche parziale, non autorizzata
ISBN 978-88-459-8210-1
EMPEDOCLE
appare quale programma per una vita votata alla conoscenza. Nel piano più
b
1
compreso nella terza delle quattro parti che costituiscono il progetto,
significativamente dopo le sezioni intitolate Filologia non più morta e Ricerca
di un sistema-Tentativi sistematici e prima di quella dal titolo Ricercando altre
anime. Si tratta di un percorso in cui la possibilità teoretica è legata al nome di
Nietzsche, ritenuto il filosofo che ha cercato di vivere e di giudicare il proprio
tempo – la modernità – come un greco, e che proprio per questo ha rinnovato la
domanda filosofica, consentendo di tornare a guardare agli antichi Greci con
occhi liberi da vincoli nei confronti della tradizione e dei tecnicismi. Un ritorno
che per Colli ha significato trovare interlocutori decisivi con cui confrontarsi a
partire da un sentire comune, quello che lo ha guidato a ricercare nella storia
del pensiero ‘altre anime’ affini nelle quali risuonasse una medesima vissutezza.
Esempio concreto di questo ritorno agli antichi Greci, soprattutto
dell’approccio impiegato da Colli, è il secondo studio pubblicato nel presente
volume, costituito dalle dispense delle lezioni tenute nell’anno accademico
1948-49 all’Università di Pisa. Esse rinviano in particolare a Phýsis krýptesthai
phileî-La natura ama nascondersi, lo scritto, esito di uno studio decennale, in
cui viene ribaltata la prospettiva storiografica usuale, secondo la quale i Greci
più antichi non sarebbero altro che pre-socratici, vale a dire precursori della
vera filosofia destinata a realizzarsi con Platone e Aristotele. Il volume,
dedicato in modo significativo alla memoria di Friedrich Nietzsche, fu
pubblicato proprio nel 1948 e valse a Colli la libera docenza nell’ateneo pisano,
dove fino alla morte improvvisa tenne le sue lezioni di Storia della filosofia
antica: nell’insieme dei temi affrontati sembra specchiarsi quel percorso di
c
riflessione e di studio che trova compimento negli scritti e nelle traduzioni cui
Colli lavorò nell’arco della sua vita. In particolare le lezioni su Empedocle, che
dovevano essere completate da un corso successivo mai tenuto, permettono,
insieme allo scritto del 1939, di definire più precisamente l’interpretazione che
Colli propone di Empedocle, al quale egli si riferisce fin dalla tesi di laurea e d
poi spesso nei suoi scritti successivi, omaggiandolo persino, sulla scia di
Hölderlin, con una tragedia in tre atti rimasta incompiuta, tuttora inedita.
La lettura colliana di Empedocle è inquadrata all’interno di una cornice
teorica costituita dal complesso rapporto fra sostanza e divenire, tra unità e
molteplicità. Nell’affrontare questo nodo metafisico, centrale per comprendere
la grecità e il pensiero stesso, Colli muove nelle lezioni, così come in Phýsis
krýptesthai phileî, dalla critica rivolta a quelle letture sclerotizzate che, a partire
da Zeller, pongono l’eredità teofrastea in continuità con quella aristotelica.
Teofrasto, invece, sarebbe stato il primo a considerare la storia della filosofia
un oggetto di studio scientifico, tanto da risultare una fonte più attendibile di
Aristotele che, pur avendo a disposizione le stesse informazioni del suo
discepolo, parlò dei filosofi più antichi mosso dai problemi della sua propria
filosofia, indifferente all’esattezza storica. Attraverso Teofrasto, in particolare
attraverso i frammenti del primo libro delle Opinioni dei fisici, sarebbe dunque
possibile riscattare il pensiero di Empedocle, e di tutti i filosofi cosiddetti
presocratici, dalla categoria del monismo ilozoistico con la quale Aristotele
avrebbe ridotto in termini razionali e unitari «quelle che erano originariamente
2
affermazioni mistiche», che vedevano nella phýsis l’eco di una dimensione
e
4
l’anima. Lo stesso autore inoltre, richiamandosi ad alcuni passi di Pindaro,
ricorda come in Agrigento fosse vivo il culto degli eroi, e ad esso vuole
riaccostare le dottrine esposte nei Katharmoí: anche la trasmigrazione delle
anime non sarebbe stata accolta da Empedocle nel suo significato proprio, ma
gli sarebbe servita soltanto a spiegare il cammino del daímon(δαίμων)
attraverso il mondo, sino al suo giungere nel regno degli eroi alle isole dei beati,
o per dirla con Empedocle, sino alla sua divinizzazione.
L’autorità dello scrittore richiede che questa tesi venga oppugnata a fondo.
Altrimenti la coerenza spirituale di Empedocle, e la sua stessa personalità
filosofica verrebbero ad essere seriamente scosse.
Già il Rohde aveva fatto osservare come non vi sia un contrasto insanabile
tra i due poemi, e come rispetto al problema dell’anima non sia vero che uno
non ne ammetta l’esistenza mentre l’altro la proclama immortale. Egli sostiene
invece che Empedocle ha una duplice concezione dell’anima: da un lato essa
j
Nessun uomo sapiente queste cose nel cuore avrebbe potuto divinare:
fintantoché vivono quella che appunto chiamano vita,
fino ad allora sono, e presso di loro stanno miserie e beni,
prima invece di comporsi come mortali e <dopo > essere stati disfatti, allora
non sono alcunché. 1
all’ultima fase della speculazione empedoclea. Ad ogni modo, sia pure soltanto
3
per quel che riguarda la concezione dell’anima, cercherò di far vedere come il
pensiero fondamentale di Empedocle sia unitario: anzi, per far sì che meglio sia
controbattuta la tesi del Wilamowitz, dal poema Perì phýseos stesso, ch’egli
dice «pienamente materialistico», trarrò la prova che Empedocle crede
4
6
Empedocle non usa, è vero, la parola anima (ψυχή), se non una volta
neiKatharmoí, e in un contesto non importante. Ciò non conduce però a
n
Nutrito (il cuore) nei flutti del sangue che si scaglia incontro,
là dove è per lo più ciò che è chiamato dagli uomini principio di conoscenza:
infatti il sangue che sta attorno al cuore è negli uomini principio di
conoscenza. 9
... la parola che viene dalla divinità ascoltando. Da questi passi risulterebbe
q
una duplice concezione dell’anima, ciò che è chiaro anche dal frammento 2 già
citato:
subito nascevano quelle cose mortali che prima avevano imparato di essere
immortali. 14
Ciò che «ha imparato» ad essere immortale non potrà mai più dimenticarsene,
per la necessità della sua stessa natura. L’improprietà stessa dell’espressione
«ciò che era immortale divenne mortale» dimostra che Empedocle parla qui
convenzionalmente: la parola stessa le cose mortali(θνητά) è da lui usata come
termine tradizionale e non nel suo senso proprio, perché le cose thnetá non sono
che particolari atteggiamenti degli elementi immortali, che fra breve vedremo
avere una loro realtà ed eternità. Ad ogni modo diversa dev’essere l’eternità di
quegli individui, che egli tradizionalmente dice «mortali», da quella degli dèi-
elementi o di Empedocle come dio: del resto poco sopra abbiamo a questo
proposito parlato di una duplice concezione dell’anima. Un chiarimento su
questo punto ci dà il verso 35 del frammento 17:
diventano ora queste ora quelle cose e continuativamente sempre uguali. 15
«uguali». Non si è finora notato come in questo verso sia già contenuta
pienamente la dottrina cosmica dell’«eterno ritorno» di Nietzsche. Ogni cosa
17
10
ormeggiandosi nei perfetti porti di Cipride. 22
elementi, e dal contesto del frammento risulta che il soggetto essi tutti del v.
x 28
Notevoli sono poi i verbi usati nei primi versi: epopteýseis è un termine
mistico che significa contemplare nell’estasi sino a coincidere con l’oggetto
contemplato, e parésontai ha il senso di essere presente, di appartenere. Il
conoscitore nel contemplare le verità, cioè gli elementi, se ne impadronisce, li
fa propri, li fa entrare in sé, li compone in modo perfetto. La sua anima
raggiungerà così, per mezzo della conoscenza, una stabilità perfetta nella sua
composizione, e questo «per tutto il tempo (δι᾽ αἰῶνoς), come giustamente
traduce Bignone, ossia per l’eternità. Non solo, e qui sta il particolarmente
interessante del frammento, ma altre verità, altre quantità di elementi dovrà
acquistarsi con i propri sforzi: «e molta altra ricchezza conoscitiva, da questi,
acquisterai». Egli riunirà in armonia e composizione perfetta gli elementi,
29
12
riferisce agli elementi e particolarmente al loro stato di isolamento di cui parla
il verso precedente. Per questo Empedocle dice che essi hanno soltanto una
parte di pensiero: infatti «tutto» il pensiero appartiene unicamente
all’individualità conoscitiva. Questo ultimo verso non si giustificherebbe
all’infuori della mia interpretazione: non si capirebbe per esempio perché si
debba parlare di interiorità senziente (ϕρóνησις) a proposito degli elementi.
Da questo frammento risulta che la conoscenza non è qualcosa che si acquista
d’un tratto, ma un lungo cammino, la forma suprema di vita, che si protrae oltre
i limiti dell’esistenza terrena: «rimanendo uguali infatti essi si potenziano in
ogni individualità, secondo l’intima natura di ciascuno». L’espressione
32
I daímones che divengono dèi sono molti: così come lo è Empedocle lo può
diventare anche Pausania, se segue i suoi insegnamenti. Ma la verità è una sola,
come una sola è l’individualità suprema, lo Sphaîros. Quindi vi è ancora
qualcosa di instabile nei daímones-dèi, ed anche essi debbono perire per dar
luogo all’unico dio veramente reale.
Si comprende ora appieno il significato della metempsicosi in Empedocle. La
metempsicosi è il cammino completo del daímon sino alla sua divinizzazione,
attraverso tutte le individualità complesse che si formano e si sciolgono attorno
a lui. Dice il frammento 117:
Perché già una volta io sono stato fanciullo e fanciulla
e arbusto e uccello e muto pesce che guizza dal mare. 35
inesprimibili, è stato uccello perché l’eroismo l’ha fatto volare verso l’etere. Il
cammino invece del daímon nel frammento 146:
Tra gli animali selvaggi leoni che hanno il loro riparo sui monti e dormono
in terra
diventano, e allori tra gli alberi dalla bella chioma.38
EMPEDOCLE
I
FONTI INDIRETTE
a. Aristotele
15
caso che tale giudizio debba essere negativo, sgombra la strada ad una diversa
comprensione dei Presocratici, nel nostro caso di Empedocle.
Le testimonianze di Aristotele su Empedocle sono numerose: sceglieremo le
più importanti, e in genere quelle riferentesi ai princìpi filosofici basilari. Non
si potrà sviscerare il problema, dato che tali testimonianze si connettono
all’interpretazione generale di Aristotele sui presocratici. Anche quest’ultima
dovrà essere affrontata, ma necessariamente non indagata compiutamente. Il
materiale a disposizione di Aristotele era vasto, a quanto si può arguire
dall’ampiezza delle sue notizie e dalle sue citazioni numerose. Nonostante ciò
la sua infedeltà come storico è già stata frequentemente rilevata dalla critica
moderna. Per ricordare solo qualche esempio, basta pensare allaCostituzione
degli Ateniesi (Ἀθηναίων πoλιτεία) le cui fonti di scarso valore e partigiane
hanno un valore storico assai limitato, o parecchi suoi giudizi sulla filosofia
platonico. z
3) Phys., 187 a 20-23: «gli altri invece dicono che fuori dall’uno
44
16
importante per la ricostruzione storica della filosofia presocratica. Forse
perché qui si sente storico fedele, Aristotele evita di stabilire nuovamente
un parallelo con la propria dottrina. Ritroviamo, come nel passo
precedente, il riassestamento monistico tra Anassimandro, Empedocle ed
Anassagora. Lo Zeller ha voluto vedere in anche costoro (καὶ oὗτoι)
un’opposizione ad Anassimandro, al quale non sarebbe quindi
applicabile l’uno e i molti (ἓν καὶ πoλλά). Ciò non è per altro possibile:
evidente è la stretta connessione dianche costoro con dalla
mescolanza (ἐκ τoῦ μίγματoς); l’ultima frase sarebbe perfettamente
oziosa se non significasse un’estensione del mîgma ad Empedocle ed
Anassagora. Del mîgma a dire il vero non si era parlato a proposito di
Anassimandro, ma l’espressione «fuori dall’uno vengono separate le
contrarietà in esso presenti» gli equivale senza dubbio nelle intenzioni
46
di Aristotele. Pensare che l’esistenza dei contrari in seno all’unità sia qui
considerata potenziale significa far dire troppo ad Aristotele: il «vengono
separate le contrarietà in esso presenti» dice chiaramente l’opposto.
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non lascia adito ad alcun dubbio: la «certa natura» è differente dai «cosiddetti
elementi». Ritornando ora al passo aristotelico, osserviamo come il diversa, di
cui per l’appunto si è voluto cercare un riferimento più o meno forzato, vada
congiunto nel modo più immediato e naturale al genitivo dai cosiddetti
elementi.
Aristotele avrebbe cioè considerato principio (ἀρχή) di questi primi fisici, cui
attribuisce l’infinità, una certa natura diversa dai quattro elementi, natura
chiamata secondo i filosofi aria, acqua o qualcosa di mezzo. Ciò a prima vista
è difficile da comprendere, sorgendo spontanea la domanda perché mai
debbano rientrare in questo caso tra gli elementi l’acqua o l’aria. Si consideri
per altro che ad Aristotele i classici quattro elementi, condizionantisi l’un l’altro
come opposti, limitati e finiti, dovevano apparire ben diversi da un unico
sostrato corporeo dichiarato infinito, gli toccasse pure il nome di acqua o di aria.
Egli distingue due forme di materialità, una immediata, pura apparenza, oggetto
della nostra sensibilità, l’altra per contro, come l’aria di Anassimene, in qualche
modo diversa da quella comunemente da noi percepita. Aristotele non parla
infatti se non a mo’ di spiegazione dell’acqua e dell’aria: il termine introdotto
in posizione preminente è il generico phýsis. Ci troviamo di fronte alla
distinzione, altrove non sempre mantenuta, trastoicheîon e arché, in cui solo
quest’ultima è principio materiale non immediato ed efficiente ad un tempo.
Tutta la costruzione non è poi tanto arbitraria quanto a prima vista si direbbe;
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Aristotele doveva ridurre in termini razionali quelle che erano originariamente
affermazioni mistiche. Avvicinandosi a questi Presocratici egli era anzitutto
colpito da due elementi: da un lato li vedeva trattare i loro princìpi non
altrimenti se non materialisticamente, dall’altro canto invece constatava che
essi avevano sostenuto l’esistenza dell’infinito. Tale contraddizione, che
avrebbe senza dubbio attratto un temperamento mistico, dava per contro del filo
da torcere a un logico. Aristotele risolse la questione dando all’ápeiron il valore
di attributo. Senonché il corpo infinito che risultava allora essere
lo stoicheîon non era già più ai suoi occhi materialità immediata; la costruzione
dei sistemi ionici si completa così per lui in una forma particolare di
trascendenza primitiva. A ciò era anche aiutato dalle parole stesse di quei
filosofi, secondo cui la realtà dell’arché è separata e diversa dall’apparenza
fenomenica.
esiste come predicato» (204 a 29). Orbene, non era stato per l’appuntocome
60
quei filosofi siano giunti ad una simile conclusione, insostenibile invece per lui.
Qualcosa sta in contrasto a questa concessione, cioè il suo modo di vedere,
quale ha esposto prima e ritornerà fra poco. Non si può interpretare
diversamente Aristotele, a meno di supporre che qui vi sia la sua trasformazione
e prima per contro la testimonianza fedele sui fisici, dal momento che
l’opposizione fra i due passi è irriducibile. Questa seconda ipotesi non regge
però non appena si consideri che l’impostazione in 203 a 16-18 era basata
sul come predicato, il che non ci trasporta di certo in mezzo all’ambiente e al
modo di ragionare presocratico. E si legga invece avanti nell’altro passo. La
dimostrazione che l’ápeiron sia l’arché, se non proprio nelle parole, nello
spirito è profondamente presocratica (quasi quasi vedremmo in essa le tracce di
un primitivo ragionamento di Anassimandro, che si mostrerebbe così il vero
maestro di Parmenide). Poi Aristotele ricorda che questo infinito è ingenerato
e incorruttibile (ἀγένητoν καὶ ἄϕθαρτoν), e la cosa non ha per lui che scarso
interesse speculativo, contrariamente alla normalità delle sue testimonianze.
Questa fedeltà si accentua ancora in ciò che segue, dove si citano le parole stesse
di Anassimandro, «abbracciare ... governare» (accettate come tali dallo Zeller,
64
non invece dal Diels); e poi ancora, con espresso riferimento, «senza morte... e
senza distruzione». In conclusione, per quanto le nostre ricerche siano rivolte
65
in queste pagine a scoprire piuttosto il vero punto di vista di Aristotele, non sarà
certo inutile, anzi più prossimo al nostro scopo finale, l’aver determinato come
lo Stagirita ritenesse in estrema analisi di dover attribuire congiuntamente a
Talete, Anassimandro, Anassimene, Empedocle e Anassagora, prima ancora di
qualsiasi principio materiale, l’ápeiron quale essenza primordiale, nel caso ci si
volesse avvicinare il più possibile alle dichiarazioni ingenue di quei filosofi.
Riassumiamo adesso i nostri primi risultati. Attraverso l’analisi precedente si
scopre la ragione delle discordanze e delle varietà delle testimonianze.
21
Aristotele non si propone che raramente il compito di storico: in questo caso
identifica l’arché di tutti i fisici con l’ápeiron. Si è visto perché tale
dichiarazione (Phys., 204 b) debba essere considerata una testimonianza fedele.
La cosa non è stata vista, e getta una nuova luce sull’interpretazione
complessiva dei Presocratici. Certo, per quanto storica, questa testimonianza è
semplificativa. Aristotele tende a schematizzare e a ridurre a un principio
unitario le filosofie presocratiche che, per quanto ci risulta dai frammenti, non
avevano questa tendenza. Il fatto stesso di ridurre all’ápeiron tutti i sistemi
presocratici ci fa pensare che anche quando è storico Aristotele tende ad
unificare le diversità delle prospettive individuali. Quado vuol dare a questa
testimonianza storica una formulazione teoretica, Aristotele identifica
il mîgmacon il dynámei ón (Metaph., 1069), limitando la concezione ad
Anassimandro, Empedocle, Anassagora. L’ammettere questo non è gradito ad
Aristotele. Ancora più storico egli è in Phys., 187 a, dove si parla di uno e molti,
stadio dotato già implicitamente di una particolare trascendenza, di cui il
divenire, che si presenta come separazione dei contrari, significa quasi
l’esplicazione e lo sviluppo nel tempo. Queste testimonianze storiche sono però
in netta minoranza: il più delle volte Aristotele imposta secondo la sua struttura
teoretica le dichiarazioni divergenti dei Presocratici e giunge alle particolari
costruzioni interpretative del come predicato. Dato che i Presocratici tutti
parlano di ápeiron e che tutti d’altra parte si riferiscono a qualche principio
corporeo, non rimane che considerare il loro ápeiron come predicato, poiché
per Aristotele ogni corpo è limitato ed esso non può quindi avere un’infinità
sostanziale. Egli sceglie quindi in ogni Filosofo il principio materiale che ha un
maggior rilievo nei frammenti o nelle opere, gli attribuisce come predicato
l’ápeiron, gli mantiene quella particolare trascendenza materiale che vi ha
riscontrato come uno (ἕν) contrapposto al mondo deicosiddetti elementi,
dimenticando che si trattava di uno e molti, e viene così a costruire la tesi
del monismo ilozoistico, che è rimasta poi per sempre infissa negli storici della
filosofia posteriori come interpretazione fedele, mentre si trattava di una sua
costruzione. Per giungere a questa egli distingue due forme di materialità, l’una
il complesso fenomenico dei cosiddetti elementi, l’altra un solo elemento
corporeo, che per la sua infinità ha perduto l’immediatezza sensibile, ed è
chiamato phýsis, dotato di una trascendenza e costituente lo stadio al di là degli
elementi. In questo modo si è stabilito che nelle testimonianze sui Presocratici
la visuale storica è la trascendenza, l’infinità del principio, la coesistenza di
unità e molteplicità dell’arché, il divenire come riflesso di questa coesistenza
(tutte queste cose saranno però da dimostrare direttamente), e la costruzione
aristotelica è il monismo ilozoistico, l’infinito come attributo.
Confermiamo ora tale interpretazione con i passi principali che rimangono.
Lo stesso libro della Fisica dice poco oltre: «ma in verità neppure è possibile
che il corpo infinito sia uno solo e semplice, né in quanto il corpo infinito, come
dicono alcuni, sia ciò che è al di là degli elementi – ciò da cui costoro fanno
generare gli elementi – né in quanto esso sia semplicemente tale. Vi sono infatti
alcuni che così intendono l’infinito, e non già come aria oppure acqua, affinché
22
dal loro infinito non venga distrutto il resto; in questo senso difatti i corpi infiniti
hanno tra loro rapporti di contrarietà; per esempio l’aria è fredda, l’acqua poi è
umida, il fuoco invece è caldo: se uno di essi fosse infinito, il resto già
risulterebbe distrutto. Ma in tal caso dicono che il corpo infinito è qualcosa di
diverso, da cui deriva questo mondo. Ma è impossibile che esso sia così
costituito, non già per il fatto di essere infinito (su questo punto invero bisogna
dire qualcosa di comune, che valga ugualmente per tutti i casi, e per l’aria e per
l’acqua e per checchessia), ma per il fatto che al di là dei cosiddetti elementi
non esiste un corpo sensibile così costituito: in ciò da cui derivano, difatti, tutte
le cose anche si dissolvono, cosicché esso sarebbe allora al di là dell’aria e del
fuoco e della terra e dell’acqua. Ma non risulta che vi sia nulla. E non è davvero
possibile che il fuoco sia infinito, né che lo sia nessun altro degli elementi.
Infatti generalmente – e prescindendo dal fatto che uno degli elementi sia
infinito – è impossibile che il tutto, anche se fosse limitato, sia o diventi uno
solo degli elementi, come appunto afferma Eraclito, quando dice che in un certo
tempo tutte le cose diventano fuoco (e lo stesso discorso vale anche per l’uno,
quale i fisici stabiliscono al di là degli elementi): tutte le cose difatti mutano da
contrario a contrario, per esempio dal caldo al freddo». 66ae
nei due casi volto a rilevare una trascendenza; il «ciò che è al di là degli
elementi» è più sintetico ma viene rafforzato dal successivo «ciò da cui gli
elementi». Qualcosa da cui si dice derivino gli elementi non è evidentemente
69
posto sul loro medesimo piano. Aristotele vuol parlare anche qui
congiuntamente dei sistemi ionici, identificando l’elemento trascendente
nell’acqua, l’aria o il metaxý infiniti. L’indagine seguente cercherà appunto di
dimostrare che non si può intendere altrimenti il passo; da ciò risulterà tra l’altro
una nuova conferma alla nostra interpretazione di una natura diversa.Subito
dopo nel testo incontriamo «né in quanto semplicemente talpe», a torto 70
è convinto anch’esso soggiaccia? Senonché dal seguito del nostro testo, «Ma in
tal caso ... mondo», parrebbe sorgere una difficoltà. Che l’espressione «diverso
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... da cui deriva questo mondo» sia perfettamente equiparabile al «ciò che è al
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di là degli elementi da cui gli elementi» non ci sarebbe neppur bisogno di dire:
77
della filosofia aristotelica (il «ma non risulta che vi sia niente» è spiegato in
«non è possibile che sia infinito nessun altro»). Poi si accenna ad Eraclito, che
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Aristotele dà qui un nome ai sostenitori del «corpo infinito in quanto ciò che è
al di là degli elementi»: i fisici (oἱ ϕυσικoί). Comunque debba intendersi tale
termine di «fisici», siano da comprendersi o no in questa designazione anche
gli ultimi Presocratici, rimane in ogni caso fuori dubbio che esso indica tutti
87
da quanto era stato detto al principio del passo. Tale supposizione troverebbe
un appoggio nel successivo «prescindendo dal fatto che uno degli elementi sia
infinito», che è anche possibile interpretare come un ripudio senza discussione
89
Ricordiamo ancora alcuni passi che potrebbero far nascere dei dubbi contro
la nostra interprefazione. In un’altra critica dei monisti Aristotele dice: «...
97 aj
non esiste tra gli elementi, uno solo da cui derivano tutte le cose. E certo
neppure esiste qualcos’altro al di là degli elementi, per esempio qualcosa di
mezzo». Sembra qui che l’«al di là degli elementi» vada applicato soltanto
98 99
al metaxý. Questo è vero come pure è vero quindi che la trattazione del metaxý è
separata da quella dell’acqua e dell’aria. Questa separazione non implica però
alcuna antitesi, è dovuta soltanto allo svolgimento dettagliato della
dimostrazione; la critica è in ogni caso la stessa, basata sulla teoria dei contrari.
Così non vi è nessuna necessità di credere che ἄλλo introduca una posizione di
trascendenza: esso significa semplicemente «qualcos’altro» (non deve
ingannare l’uso dell’espressione in quest’ultimo senso da parte di
Teofrasto, Dox., 476, 13, se si pensa alla sua diversa visuale interpretativa).
Anche l’«al di là degli elementi», per quanto sia detto solo del metaxý, non è
affatto rilevato come sua caratteristica particolare: appena un momento prima
Aristotele, concludendo l’esame degli altri monisti, aveva dichiarato del loro
principio «che non esiste tra gli elementi uno solo da cui derivano tutte le cose»,
e già abbiamo osservato la complementarietà di questa espressione con l’«al di
là degli elementi» a significare il concetto di trascendenza. È d’altra parte
giustificato che talvolta Aristotele applichi particolarmente l’«al di là degli
elementi» al metaxý e preferisca denominare il principio degli altri fisici uno
solo da cui (ἓν τoύτων). Va così perduta l’accentuazione immediata della
trascendenza di quest’ultimo, ma ne acquista in compenso la coerenza della
28
terminologia: dal momento che Aristotele chiama la realtà materiale
senz’altro gli elementi, era un po’ arrischiato, e qui infatti egli stesso se ne
accorge, parlare di un elemento al di là dei quattroelementi, tra cui anch’esso è
naturalmente compreso. L’infinità ne trasforma, è vero, la natura (per quanto
secondo lui ciò in realtà non avvenga ed anche l’«al di là degli elementi»
soggiaccia ai contrari), ma una tale espressione è pur sempre ambigua.
Comunque sia, la nostra interpretazione non è affatto scossa. Leggendo avanti
si vede il metaxý trattato alla stessa stregua degli altri princìpi. La sua critica è
per l’appunto basata su quella degli elementi isolati («quel qualcosa difatti
risulterà aria e fuoco...»). Aristotele conclude poi «cosicché non è possibile
100
che quel qualcosa risulti mai isolato, come invece affermano alcuni che lo siano
l’infinito e l’avvolgente. Qualsivoglia di quei princìpi è soggetto alla medesima
critica».
101
29
l’espressione successiva «l’aria infatti...»). Vi è solo una difficoltà: il metaxý è
106
sussiste più nella Metafisica.L’oὔθ᾽ ἁπλῶς è caduto, e con esso quanto seguiva
immediatamente, il che dimostra la connessione da noi stabilita allora. Per
contro il secondo termine della negazione diventa adesso «né in quanto
fuoco...», dal che riceverebbe valore la tesi da noi combattuta. Tutto ciò perde
110
però importanza non appena ci si ricordi che l’ultima parte del libro K
della Metafisica è con ogni probabilità apocrifa (cfr. però in contrario
Jaeger Ar., 225); il suo autore fraintese per primo il difficile passo, pur andando
con noi d’accordo in un punto.
b. Teofrasto
era stata additata da Aristotele, che egli segue infatti con reverenza su molti
punti. Il maestro per altro non si era curato dell’aspetto propriamente storico
della cosa, cioè della connessione viva tra le diverse personalità e della
successione cronologica in cui si presenta lo sviluppo reale dei problemi, ed
aveva raggruppato secondo le posizioni dottrinali uomini lontani nel tempo.
Teofrasto per contro si allontana dalle impostazioni del maestro solo per fedeltà
alla sua visuale storica, riparando poi l’indisciplina con l’accentuare ancor più
del maestro la coartazione delle dottrine antiche, ricondotte a schemi della
filosofia aristotelica. Un analogo della distinzione tra atto e potenza, in forma
beninteso primitiva, viene ritrovato in tutti i Presocratici. La dossografia
posteriore accetta le impostazioni interpretative peripatetiche e trascura i
30
rapporti dottrinali o di discepolato stabiliti da Teofrasto, preferendo in proposito
riferirsi ai vari compendi biografici che cominciano a circolare nell’età
alessandrina. Lo scopo principale dell’indagine seguente sarà di dimostrare
come in tal modo sia stata falsata radicalmente la reale prospettiva storica,
disperdendo per di più l’unico elemento degno di nota, cioè la sistemazione
cronologica di Teofrasto. Dalla stessa ricerca seguirà indirettamente la necessità
di fondarsi, nello studio della filosofia presocratica, soltanto sull’esegesi dei
frammenti originali conservatici.
Lo scritto di Teofrasto che interessa il nostro problema è il primo libro
(archaί) delle Opinioni dei fisici (Φυσικῶν Δóξαι). I pochi frammenti che ne
rimangono sono raccolti nei Doxographi Graeci del Diels. La nostra indagine
112
inoltre risultare in modo inevitabile che i filosofi intesi fossero gli Ionici.
Attraverso Platone la posizione di Senofane come capostipite non si può
comunque dire affermata. Teofrasto per contro fa una netta dichiarazione per
31
tramite di Diogene Laerzio: «e di Senofane fu discepolo Parmenide figlio di
Pyres, da Elea: di costui Teofrasto dice, nell’Epitome, che fosse stato discepolo
di Anassimandro. Per altro è certo che, dopo di avere ascoltato anche Senofane,
non fu suo seguace». 116ak
Senofane. La critica del testo non appoggia però tale ipotesi. A parte la
al
molteplicità, ma che il filosofo di cui si era parlato non avesse saputo trarne le
conseguenze dovute. La cosa si chiarifica maggiormente poco dopo: «non
opinando allo stesso modo su entrambe le questioni», frase inopportuna se non
122
32
l’altro, poiché ci presenta il filosofo come nativo di Mileto e allievo di Talete,
così si esprime: (prima parte del fr. 2 in Dox., 476, 6-15) «Dice che il suo
principio non è né l’acqua né alcuno dei cosiddetti elementi, ma una certa altra
natura indeterminata, da cui sorgono tutti i cieli e i mondi che sono in questi...
È chiaro che costui, scorgendo la trasformazione reciproca dei quattro elementi
non ritenne di porre uno di questi come sostrato, ma qualcos’altro al di là di
questi. Egli non spiega il divenire con la variazione di un elemento materiale,
ma con la separazione dei contrari per un movimento perenne». 123
Anzitutto il quegli (ἐκεῖνoς) nella prima parte della citazione si riferisce assai
più naturalmente ad Anassimandro che non ad Anassagora, come vogliono
alcuni. A confermare ciò sta la frase successiva «del movimento ... Anassagora
poi pose la mente», in cui l’esplicita dichiarazione del soggetto non sarebbe
128
necessaria se con quegli si volesse già intendere Anassagora. Oltre a ciò si può
dire che il plurale pensando (λαμβανóντων) dopo alcune righe non si giustifica
con il semplice e ormai lontano richiamo «similmente ad Anassimandro», se 129
aveva distinto i due problemi, ma il suo occhio si era rivolto alla sostanza,
Anassagora per contro era stato maggiormente attratto dal principio del
divenire; è logico che ora Teofrasto passi a Parmenide, il quale andò su
«entrambe le vie». Ugualmente a suo posto è la frase «non opinando allo stesso
modo su entrambe le questioni». Secondo Teofrasto, Anassimandro aveva
considerato i due problemi ancora da un unico punto di vista sensibile, la
razionalità non interveniva per lui a risolvere uno dei due; non così Parmenide
che guarda la sostanza secondo verità (κατ᾽ ἀλήθειαν) e il divenire secondo
l’opinione dei molti (κατὰ δóξαν τῶν πoλλῶν). Quest’ultimo dà una soluzione
ai due problemi inversa a quella anassagorea, idealizzando la sostanza e
materializzando il divenire. O meglio ancora, forse nell’intenzione di Teofrasto,
Parmenide rappresenta una maggiore idealizzazione al confronto degli altri due
filosofi, il che spiegherebbe come in questo contesto egli venga posposto ad 137
Anassagora. Teofrasto infatti gli attribuisce qui tre archaí, e il termine ha per
lui significato di separazione, per quanto in un primo stadio non assoluta, dalla
materia immediata: nella frase «stabilisce che i princìpi siano due, fuoco e terra,
la seconda intesa come materia, il primo per contro come causa e
agente», a fuoco e a terratocca un valore simbolico (come del resto aiutano a
138
Talete sono ricordati «anche» da Teofrasto, ciò significa che il resto del passo
non era ricavato da quest’ultimo, e tutt’al più si potrà estendere la citazione
teofrastea al periodo in cui è inserito il richiamo. Tale estensione è
stilisticamente consigliabile. Inoltre archaí è per Teofrasto un termine ben
preciso, usato nel senso che gli risulta dalla sua indagine storica. Come
tale archaí ha il valore di principio che comunque trascende l’immediatezza
fenomenica, cosa riscontrata pienamente per la prima volta proprio a proposito
di Anassimandro (si noti inoltre il rilievo dato alla frase «e fu il primo a
introdurre questo nome di archaí», 476, 5-6); la prova si è che la parola è
145
primo scienziato e il primo fisico, e segnò la via alla visione filosofica del
mondo, ma lo scopritore vero di questa visione è per lui Anassimandro. Costui
non ha solo una personalità, ma altresì delle dottrine definite. Facciamo dunque
seguire al breve sguardo su Talete la prima parte del fr. 2 (476, 1-15). La
successione, immediata o meno, è provata dal rapporto personale tra
Anassimandro e Talete, rilevato all’inizio del frammento. Tali rapporti
personali, cui Teofrasto ricorre di regola nell’introdurre le sue testimonianze, ci
daranno anche in seguito un criterio per quanto è possibile sicuro a stabilire lo
svolgersi della sua trattazione: ogni nuovo filosofo è da lui posto come oggetto
di un paragrafo staccato, e quei riferimenti iniziali assicurano la continuità della
cronologia e del pensiero interpretativo. Il testo di Teofrasto non continua poi
con la trattazione di Anassimene, come sta in Simplicio, ma si riattacca
immediatamente al parallelo tra Anassimandro e Anassagora nel fr. 4 (479, 2-
16).
Segue la testimonianza su Parmenide, fr. 6, anch’essa allacciata a ciò che
precede senza soluzione di continuità (482, 7-13). Al fr. 6 seguiva con ogni
probabilità il fr. 7, ma è andata perduta la connessione fra i due. Potrebbe a tutta
prima recar stupore il fatto che Teofrasto parli qui dell’essere e del non essere
parmenideo, mentre prima aveva accennato soltanto all’uno. Se si guarda però
bene al sillogismo, appare chiaro come i due termini vengano introdotti
unicamente per dimostrare l’unità. In questo accentrare l’interesse di Parmenide
intorno all’unità, Teofrasto non è un buono storico, e vedremo in seguito il
perché. È vero ch’egli non dice l’uno (τò ἕν), come Platone e Aristotele, e
grammaticalmente tratta l’unità in quanto attributo di ciò che è(ὄν), ma
nonostante questa maggiore fedeltà non mostra di aver compreso Parmenide, a
giudicare dalla presentazione naturalistica del filosofo nel frammento
precedente («che il tutto dura sempre»), che risponde al suo schema
147
del pensiero teofrasteo. Dopo essere ritornato sulla prima via e di avere insistito
sul concetto dell’unità, Teofrasto trova naturale accennare a Senofane, che di
questa via è un tipico e unilaterale rappresentante. La successione dal fr. 5 al fr.
7 era probabilmente immediata. Ad eliminare la discontinuità esistente in seno
al fr. 5, stabilendo un nesso con le parole «un’altra ... dell’indagine», viene in
aiuto un passo di Aristotele, riguardante genericamente i filosofi «della scuola
di Melisso e di Parmenide», la cui costruzione ricorda talmente da vicino
149
39
quella teofrastea da far pensare le sia servita da modello: «che, se anche dicono
bene riguardo alle altre cose, bisogna tuttavia ritenere non parlino da un punto
di vista fisico. Giacché, che alcune delle cose che sono siano non generate e
assolutamente immobili, è piuttosto di un’indagine diversa precedente a quella
fisica». È proprio l’accogliere un principio astratto che preclude la via alla
150an
testimonianza sugli Atomisti sarebbe allora più a posto se fatta seguire al fr. 6;
con ciò si dimenticherebbe però quanto è risultato prima, la stretta dipendenza
cioè del quinto frammento dal sesto, di cui forma come un’appendice, tanto da
far credere costituissero un unico paragrafo, dedicato appunto a Parmenide. Si
osserva poi quel che segue: «non batté la stessa strada di Parmenide e di
Senofane» (notevole l’ordine di citazione). Non sarebbe appropriato parlare
152
che era partita da Talete, Teofrasto si dovrebbe trovare al termine della sua
scorsa sui Presocratici. Ma su altre probabilità notevoli, e che non si potrebbero
davvero far seguire, con un vincolo cronologico o di discepolato, né a
Democrito né a Metrodoro, troviamo attraverso le testimonianze di Simplicio
dei frammenti teofrastei; si pone quindi anche per quelli il problema di
determinare la posizione in seno al libro delle archaí. Teofrasto poteva parlare
alla rinfusa dei filosofi che ancora gli rimanevano, oppure ricominciare da capo
40
una seconda più breve serie di pensatori, parallela alla prima e tale da poterne
colmare le lacune. Abbiamo buone ragioni per credere che egli si sia attenuto a
quest’ultimo metodo che rispondeva al suo istinto sistematico. Si veda infatti il
fr. 3 su Empedocle, uno dei filosofi tralasciati; l’usuale riferimento introduttivo
a chi precedeva è duplice: «... vissuto non molto dopo Anassagora, fu per altro
acceso ammiratore di Parmenide...». Si ha cioè un rapporto temporale con
154
notevoli che non sono stati compresi nella prima catena. Anassimene, per
contro, si riallaccia saldamente, come discepolo, ad Anassimandro, il
personaggio centrale della prima serie di filosofi.
In questa nuova successione Teofrasto fa entrare, a parte Archelao, che
chiude per così dire la trattazione di Anassagora, anche Diogene di Apollonia,
dedicandogli un paragrafo particolare, per quanto breve, ora che il nesso della
catena è diventato per forza di cose molto rigido. Vediamo ora la successione
precisa dei frammenti. Il passaggio da Democrito ad Anassimene ci è
sconosciuto; comunque Teofrasto riprende daccapo, da Anassimandro. Il
frammento su Anassimene (seconda parte del fr. 2, 476, 16-477, 5) non presenta
nulla di notevole quanto al contenuto. Ad esso teneva dietro il passo su
Anassagora e Archelao (fr. 4, cui bisogna sottrarre la parte centrale,
appartenente come si è visto alla trattazione di Anassimandro). Il contenuto è
invece qui interessante: «per primo egli permutò le opinioni sulle archaí,
introducendo la causa che mancava e facendo infiniti i princìpi materiali». Le156
espressioni «per primo egli permutò» e «la causa che mancava» lasciano
157 158
capire che di numerosi altri filosofi doveva essersi parlato prima, il che va in
perfetto accordo con la nostra ricostruzione. Questa infatti lascia seguire ad
41
Anassagora il solo Empedocle (trascuriamo Diogene d’Apollonia, che non
interessa Teofrasto per la sua mancanza di originalità), il quale per giunta è
l’unico Presocratico cui non si addirebbe la permutazione anassagorea, non
potendo sotto nessun punto di vista ridursi all’unità i suoi punti sostanziali.
Anassagora è contrapposto da Teofrasto a tutti gli altri filosofi come lo
scopritore della nuova scienza della natura: questa considerazione aiuta a
spiegare il perché egli venga trattato separatamente da quelli. La speculazione
presocratica, secondo la visuale interpretativa di Teofrasto, aveva scoperto
l’unità come principio sostanziale, più o meno connesso con la materialità;
Anassagora non appartiene più a tale ambiente storico, poiché la sua unità
acquista una dignità prima di lui sconosciuta, ed è trasformata in aitía,
«permutata» cioè a risolvere la sfera del divenire. Prima, parlando di
Anassimandro, Teofrasto aveva tentato di inserire Anassagora nella grandiosa
problematica degli antichi fisici e a quello scopo aveva costretto le sue
omeomerie ad una phýsis dell’ápeiron (ἀπείρου ϕύσις). Ora, per contro, che
egli si accosta direttamente alla personalità del Clazomenio deve seguire la via
opposta, ossia insistere proprio sulla infinità dei suoi princìpi materiali, in nome
della «permutazione» attribuitagli. Così soltanto quest’ultima acquista un
valore completo, dal momento che negli altri Presocratici il principio
sostanziale è sempre unitario, fatta eccezione per gli Atomisti, i quali pur senza
giungere a tale «permutazione» si sono già avviati, secondo quanto ci è risultato
in una nota precedente [cfr. nota 148], verso una tale direzione. Di qui ancora
una volta risulta chiaramente come la testimonianza di Simplicio che forma
l’attuale fr. 4 dielsiano non possa in verun modo riprodurre l’originale testo
teofrasteo, dopo che abbiamo in essa individuato due passi appartenenti a
trattazioni profondamente diverse per spirito e scopo.
Segue, come si è già detto, il fr. 3 su Empedocle. In esso si stabilisce un
rapporto personale importantissimo per noi: «Empedocle ... fu per altro acceso
ammiratore di Parmenide e a lui strettamente unito, e ancora di più dei
Pitagorici...» (Dox., 477, 17 sgg.). Nello stesso senso testimonia Diogene:
159
«Teofrasto poi dice che fu acceso ammiratore di Parmenide e suo imitatore nella
poesia, giacché anche questo aveva scritto in esametri la sua operaSulla
natura». Quanto all’acceso ammiratore (ζηλωτής) si può essere sicuri che
160ao
Ciò non è decisivo perché il contatto con Teofrasto è assai più diretto in
Simplicio che non in Diogene. Vi è però ancora una considerazione di indole
generale che ci sembra troncare ogni dubbio: sarebbe molto strano che qui
Teofrasto accennasse ai Pitagorici come ai maestri di Empedocle senza dirci
che cosa in sostanza gli avrebbero insegnato. Eppure non soltanto in questo
primo libro, ma ovunque nelle Opinioni dei fisici Teofrasto mostra di ignorare
42
in modo quasi assoluto i Pitagorici. Rimane l’e strettamente unito(καὶ
aq
Appendice 164
44
successioni, soprattutto alla seconda. Simplicio determina l’ordine della sua
trattazione secondo lo schema puramente sistematico dato da Aristotele alla
filosofia presocratica in Phys., 184 b 15. Che un tale ordine abbia potuto essere
seguito anche da Teofrasto, come pare voglia il Diels (Prol., 105), è del tutto
impossibile, già per il solo fatto che sarebbe allora oziosa e fuori posto
l’abbondanza di particolari biografici da lui usata. Si potrebbe poi obiettare al
Diels che, ad essere coerenti, non si dovrebbe togliere allora Senofane da
capolista e trasportarlo al centro della trattazione teofrastea, e sarebbe tutt’al
più giustificato farlo precedere dal solo Parmenide (citazione da Alessandro),
cui tocca il primo posto nello schema aristotelico. Non solo, ma il fr. 9 Diels su
Platone è citato da Simplicio dopo il passo su Empedocle e prima di quello su
Anassagora, il che prova come il commentatore aristotelico non si peritasse
affatto di spezzare a suo piacimento l’originale testo di Teofrasto e riportarlo
quindi frammentariamente. Per noi la costruzione di Simplicio si spiega
diversamente, ricordando che secondo ogni evidenza egli non possedeva il
passo teofrasteo su Parmenide. (La cosa è chiara dal fatto che appena enunciato
il suo schema, Simplicio nomina, come rappresentante del secondo caso
teorico, Parmenide, senza per altro diffondersi su di lui citando Teofrasto, a
quanto vi sarebbe da attendersi. A ciò si aggiunge il passo 38, 19 sgg. di questo
suo stesso commento, in cui egli tratta sì diffusamente di Parmenide, e la
testimonianza ha un’indubbia tinta teofrastea, ma riportando da Alessandro e
senza neppure nominare Teofrasto. Da questo passo il Diels [Prol., 113] crede
di aver tratta la prova essenziale in favore della sua tesi sulla dipendenza di
Simplicio da Alessandro quanto alle citazioni teofrastee. A noi per contro esso
sembra dimostrare proprio il contrario, che cioè il nostro commentatore attinge
direttamente da Teofrasto. In questo caso particolare su Parmenide infatti
perché mai Simplicio si sarebbe accontentato di citare Alessandro e non avrebbe
usufruito il frammento teofrasteo riportato da quest’ultimo [fr. 6 Diels],
secondo la sua pretesa abitudine? Ora, il fatto che neppure voglia citare il passo
di Teofrasto ricordando di averlo ricavato da Alessandro, e si limiti a
parafrasarlo, prova ancor più la sua scrupolosità; egli cita sì in altro luogo
Teofrasto richiamandosi ad Alessandro [fr. 7 Diels], dove il frammento è
brevissimo e incidentale e la cosa non è per lui impegnativa, ma quando il
contesto è rilevante preferisce vedere l’autore con i propri occhi. È quindi logico
attendersi da lui una conoscenza diretta di Teofrasto, nel caso che si decida a
citarlo. Parrebbe però strano, dopo quanto si è detto, che pur possedendo il testo
teofrasteo egli non avesse letto la parte su Parmenide. Anche questo comunque
è spiegabile se si tengono presenti due passi dello stesso Simplicio [Phys., 133,
21 e 168, 2], in cui egli dichiara di non aver potuto rintracciare nelle opere da
lui possedute di Anassagora e di Eudemo delle dottrine che avrebbero dovuto
esservi contenute. Non è affatto fuori del caso che lo stesso gli sia accaduto per
Teofrasto: potremmo al riguardo supporre che gli scritti di quei filosofi non
siano giunti a lui nella loro veste originale, bensì raccolti in antologie. In queste
ultime non esisteva evidentemente il paragrafo teofrasteo su Parmenide, come
dimostra altresì il fr. 7, riguardante del pari Parmenide, che Simplicio si vede
45
costretto a trarre da Alessandro. Quest’ultimo è nominato da Simplicio come
garante di citazioni teofrastee solo a proposito di Parmenide. Quanto abbiamo
detto ci permette inoltre di spiegare il contrasto fra il fr. 5, in cui Simplicio
dichiara Senofane maestro di Parmenide, e la frase di Alessandro nel fr. 6, «ma
intende anche Senofane», salvando la buona fede di Simplicio. Costui infatti
165
si è detto (cfr. il suo commento in Phys., 149, 32 dove, dopo di aver ricordato
che Teofrasto concedeva la rarefazione [μάνωσις] e
la condensazione[πύκνωσις] al solo Anassimene, esprime la propria opinione
in contrario).
Passiamo ora brevemente ai Philosophumena, dove però i risultati non
potranno essere altrettanto sicuri. L’esauriente indagine dielsiana (Prol., 144-
56), dopo di aver rilevato una duplice fonte dello scritto di Ippolito, un’opera
biografica di compilazione e un estratto teofrasteo, dimostra tra l’altro come i
primi capitoli di Ippolito, sino ad Anassimandro, siano dedotti per intero dal
46
compendio biografico. E infatti le tendenze pitagoriche, o quanto meno il
materiale biografico pitagorico in possesso dei suoi autori, Sozione, Eraclide
Lembo, ecc., si rivelano nell’introduzione di Pitagora, certamente assente
nell’opera di Teofrasto, e soprattutto nel fargli seguire come discepoli
Empedocle ed Eraclito. A parte questi primi capitoli, ritroviamo nel seguito di
Ippolito le due serie teofrastee, però in ordine inverso. La cosa è tuttavia
spiegabile. Il libro di Sozione, fonte lontana del compendio biografico, trattava,
secondo quanto ha concluso la critica, anzitutto di Talete e degli altri Ionici, e
in seguito, dopo di aver parlato di Socrate, Platone, Aristotele e di altri ancora,
riprendeva i Presocratici con Pitagora, gli Eleati e Democrito. Senonché
Ippolito conosceva Sozione attraverso la posteriore rielaborazione di Eraclide
Lembo, fonte essenziale del compendio biografico, in cui la successione dei
filosofi pare fosse la seguente: fisici, sette saggi, Socrate e scuole socratiche,
Pitagora, Empedocle, Eraclito, Eleati, Atomisti (cfr. Diels,Prol., 152). A
Ippolito che aveva sott’occhio il compendio suddetto e l’estratto teofrasteo,
sembrò quindi naturale dal confronto di stralciare dall’inizio della sua
trattazione la parte riguardante Socrate e i Socratici. Fece poi violenza
all’estratto teofrasteo dove la cosa gli sembrava più logica, includendo nei primi
capitoli (ricavati come si è detto per intero dal compendio biografico)
Empedocle, che veniva così a perdere il suo posto nella seconda serie teofrastea,
dato che a proposito di questo filosofo particolarmente abbondanti erano le
notizie provanti una sua dipendenza dai Pitagorici (cfr. Diog., VIII, 54-56), e
inoltre Talete isolato, che da quanto è risultato dalle nostre precedenti indagini
era stato appena sfiorato da Teofrasto, e poteva quindi essere scambiato di posto
senza danno. Si potrebbe dire allora, dato che evidentemente nel compendio
biografico a Talete tenevano dietro Anassimandro e Anassimene, che sarebbe
stato logico per Ippolito mantenere questa successione all’inizio della sua
opera. In tal modo per altro la seconda serie teofrastea, che egli si accorgeva
valer assai di più come contenuto, e cui già doveva sottrarre Empedocle,
cedendo all’ordine di quello stesso compendio, sarebbe andata del tutto in
fumo. Comunque, anche non potendo accettare completamente la successione
del compendio, l’averla ritrovata gli fece risolvere un dubbio. Questo gli
proveniva dalla lettura di Teofrasto, dove Anassimandro era collegato prima a
Parmenide e poi ad Anassimene. Ippolito non era abituato a simili biforcazioni,
che non aveva conosciuto nelle Successioni (Διαδoχαί) da lui possedute e
167
II
VITA E OPERE
a. Fonti biografiche
testo di Diogene, limitandoci a ricordare qualche tratto saliente della vita e della
personalità empedoclea ed a discutere brevemente alcune questioni interessanti
e non ancora del tutto chiarite.
Empedocle appartiene a nobile e potente famiglia agrigentina; il padre
Metone ebbe senza dubbio una parte nella vita pubblica della città, in quel
tempo una delle più interessanti e popolose della Grecità. Durante la prima
gioventù del filosofo aveva dominato in Agrigento il saggio tiranno Terone: alla
morte di questi (472) succede il violento figlio Trasideo, la cui tirannia è
brevissima. In Agrigento si afferma la tendenza democratica, che abbiamo ogni
ragione di credere fosse guidata appunto da Empedocle. Il periodo di attività
politica del filosofo va perciò situato nel decennio 470-460. E anche credibile
che in questi anni Empedocle abbia rifiutato la monarchia offertagli dagli
Agrigentini. Assieme al suo potere politico è probabile sia fiorita la sua
at170
probabile comunque che egli sia ritornato in patria negli ultimi anni di vita.
Una questione su cui è opportuno insistere sta nella determinazione degli
estremi cronologici della vita di Empedocle. Il risultato sarà da porre a
av
anno che può servirci da terminus post quem rispetto alla data di nascita del
filosofo. La vittoria in tale anno ad Olimpia del nonno di Empedocle è
tramandata da ottime fonti, Eratostene ed Aristotele, quindi credibile. Il vigore
fisico indispensabile per un olimpionico rende quasi impossibile il supporre che
nel 496 il nonno di Empedocle avesse un’età tale da permettergli di essere già
nonno. Segue nel testo di Diogene la citazione testuale di Apollodoro, come è
noto la fonte essenziale per la ricostruzione della cronologia presocratica. Le
citazioni testuali di Aristotele sono assai rare, ed una di queste per l’appunto, e
delle più estese, abbiamo la fortuna di possedere a proposito di Empedocle. Il
dato più importante contenuto in questi versi di Apollodoro è senza dubbio la
notizia di Glauco di Reggio, che segnala la presenza di Empedocle a Turii, poco
dopo la fondazione di questa città, fondazione che noi sappiamo con certezza
essere avvenuta nel 444-443. La testimonianza è della massima attendibilità,
dato che Glauco di Reggio fu contemporaneo di Empedocle; si tratta addirittura
della più antica notizia indiretta sul filosofo. Da questo dato Diels e Jacoby
hanno dedotto che il 444-443 fu scelto da Apollodoro come akmé(ἀκμή) di 173
abbia compiuto la sua opera con una serietà ben maggiore di quella attribuitagli
dai critici moderni, e questo stesso passo di Diogene, a prescindere da altre
considerazioni, sta a provarlo. Se veramente, come vuole Jacoby, Apollodoro
avesse posto la data di nascita nel 484-483, non avrebbe poi potuto avanzare
l’ipotesi che all’epoca della guerra fra Atene e Siracusa egli sarebbe stato
50
ὐπεργεγηρακώς, cioè «vecchissimo». Dato che la spedizione ateniese contro
Siracusa cade nel 415, Empedocle dovrebbe raggiungere in tale anno, secondo
la presunta cronologia di Apollodoro, i 68-69 anni, il che non corrisponde
affatto al concetto di vecchissimo. Si aggiunga che l’espressione «da poco ...
fondata» non costringe a pensare la visita di Empedocle a Turii nello stesso
175
b. Opere
Gli scritti di Empedocle di cui ci siano rimasti frammenti sono due: Perì
phýseos e Katharmoí. Quanto alla prima opera, non si sa se il titolo sia
originale; la cosa è però possibile, dato che possediamo testimonianze assai
antiche di tale designazione (cfr. Platone, Phaed., 96 a: «il sapere, che appunto
chiamano indagine sulla natura»). Da discutersi è anche il significato
177
presocratico del vocabolo phýsis: a nostro avviso, esso non indica «origine»,
«nascita», «natura creatrix», «realtà fisica», ma piuttosto, almeno nei filosofi
sino ad Empedocle e nel senso più profondo che si ritroverebbe nel titolo delle
loro opere, «realtà assoluta, essenziale», in ogni caso non sensibile.
bd
nella citazione del fr. 134: «Empedocle nel terzo libro dellaFisica». Il Diels
180
pensa che l’editio princeps di Suida sia corretta secondo questo passo di Tzetze,
a suo avviso privo di valore, e attribuisce quindi il frammento ai Katharmoí; i
libri sarebbero quindi due. A questa si oppone il Bignone (Empedocle, 311 e
App. V), sostenendo che l’attribuzione del fr. 134 ai Katharmoí è basata sulla
preconcetta interpretazione atea e materialistica del Perì phýseos, e contestando
l’errore di Tzetze; i suoi argomenti ci sembrano buoni e la sua opinione fondata.
Per l’ampiezza dei due poemi i dati ci vengono forniti da Suida (s.v.:
«Empedocle»), che attribuisce al Perì phýseos duemila versi, e da Diogene
(VIII, 77), che fa constare le due opere di cinquemila versi complessivamente.
Quest’ultima cifra è sembrata eccessiva al Diels, che ha voluto emendare il testo
di Diogene, mutando cinquemila (πεντακισχίλια) in in tutto tremila (πάντα
τρισχίλια). Anche a noi cinquemila versi sembrano troppi, ma preferiamo
lasciare intatto il testo di Diogene, attribuendo alle sue fonti un’imprecisione
nel riferire.
52
Altro problema è il rapporto cronologico tra le due opere. A nostro parere
i Katharmoí sono stati composti anteriormente al Perì phýseos. Agli argomenti
addotti dal Bidez, di per sé decisivi, possiamo aggiungere da un lato che
be
l’akmé del successo politico di Empedocle, con ogni probabilità situata intorno
il 460, non può essere cronologicamente lontana dal momento di popolarità
presupposto nei Katharmoí, e d’altro canto che il Perì phýseosmostra
un’evoluzione, una maturità ed un’indipendenza filosofica che non
appartengono ai Katharmoí, mentre questi ultimi rivelano una freschezza ed
un’immediatezza artistica propria della gioventù. Proponiamo delle date di
composizione alquanto anteriori a quelle del Bidez, il 455 per i Katharmoí e il
445 per il Perì phýseos (scritto intorno al 450 secondo Wilamowitz, in
«Berliner Sitzungsberichte», 1929, 653). Per quanto riguarda la successione dei
frammenti di Empedocle, pensiamo non sia possibile raggiungere alcun
risultato definitivo. I nessi di forma e di contenuto che si possono stabilire sono
troppo tenui e contraddittori. In tale situazione è opportuno accettare, senza
attribuirvi eccessiva importanza, la successione stabilita dal Diels con qualche
giustificata modifica, suggerita dal Bignone, quale l’attribuzione alPerì
phýseos dei cosiddetti frammenti sulle divinità (130-34) o la posposizione dei
frammenti 8-15. bf
c. Influsso di Empedocle
53
di mantenere uno stile poetico in prosa. Noi approviamo in pieno tutta quanta
l’analisi del Diels.
Più interessante ancora è rilevare l’influsso di Empedocle su Platone.
L’argomento è già stato toccato da diversi studiosi, ma in modo alquanto
superficiale. In questa sede ci limitiamo a ricordare alcune osservazioni nostre,
riguardanti non tanto un contatto dottrinale tra i due filosofi – per cui sarebbe
necessario affrontare l’interpretazione di Platone – quanto un parallelo stilistico
tra di loro. Tra i riferimenti dottrinali citiamo soltanto – non come prove di un
influsso, ma come semplici testimonianze – il già ricordato passo
del Menone (76 c), ed inoltre Phaed., 96 a-b (dove si accenna al sangue come
organo del pensiero), Leg., 889, e Soph., 242 c (testimonianze generiche sulla
dottrina empedoclea). Come fonte indiretta per la ricostruzione della filosofia
di Empedocle, Platone non ha per noi alcun valore; anche infatti se le sue
testimonianze fossero più numerose, non potremmo mai determinarne
l’attendibilità. Basti pensare in proposito al problema insoluto, in buona parte
per colpa di Platone, delle fonti socratiche.
Restando dunque all’influsso stilistico, i nostri studi sulla cronologia dei
dialoghi platonici (i cui risultati non possono evidentemente trovare qui
un’illustrazione) ci hanno suggerito come periodo dell’attività letteraria di
Platone che risente più da vicino di Empedocle, nella forma e nello spirito, gli
anni intercorrenti tra il 392 ed il 384. La prima opera di questo periodo,
181
secondo noi consistente nella seconda redazione del Fedone (69 e-114 c, ecc.),
rivela infatti numerosi contatti stilistici con Empedocle (cfr. il
vocabolofusione [κρᾶσις], 86 b, 86 d, 111 b, che si ritrova in Empedocle fr. 22,
4;perforare [τιτράω], 111 e, che si ritrova in Empedocle fr. 84, 9 e fr. 100,
3;incanalato [ὀχετóς], 112 c, che si ritrova in Empedocle fr. 3, 2, nel verbo
corrispondente; si veda l’espressione «che escono fuori dal mare», che ricorda
182
Empedocle fr. 117, 2: «che salta fuori dal mare»). Ancora più accentuato il
183
confronti infatti il vocabolo derivo (ἐπoχετεύω), 251 e, che richiama Emped. fr.
35, 2; effluvio (ἀπoρρoή), 251 b, che si ritrova in Emped. fr.
89; pongo (ἐρείδω), 254 e, che si ritrova in Emped. fr. 12, 3 e fr. 110,
1; medito (ἐπoπτεύω), 250 c, che si ritrova in Emped. fr. 110, 2. Altri influssi
stilistici tra Phaedr., 249 c: «solo sia alato il pensiero del filosofo ... la divinità
è divina ... diviene egli solo perfetto», ed Emped. fr. 112, 4: «io per voi dio
185
immortale» e fr. 113; tra Phaedr., 247 a: «l’invidia non sta nel Coro
186
passo in 191 a: «allora, una volta divisa in due la natura primitiva, ciascuna
metà bramando la metà perduta che era la sua, la raggiungeva», con due 194
III
TEORIA DELLA CONOSCENZA
Frammento 2:
Ristretti poteri conoscitivi si sono diffusi attraverso le membra,
molte miserie li incalzano, opprimendone la conoscenza.
Avendo raccolto nella loro vita una piccola parte di vita,
individui dal breve destino, subito alzatisi come fumo, dileguano,
credendo soltanto in ciò in cui ciascuno s’imbatte,
sospinti in ogni direzione, si vantano poi di scoprire il tutto.
Così queste cose non sono né visibili agli uomini, né udibili,
né comprensibili con la mente; tu per altro, poiché ti sei staccato qui presso
di me,
saprai, non più comunque di quello cui può giungere la mente mortale. 197
all’ultima parola del verso invece non seguiamo alcuno dei critici precedenti. I
mss. di Sesto danno in maggioranza osservata (ἀθρήσαντες); due di
essi raccolta (ἀθροίσαντες) (codd. Ciz. e Regim., secondo Mullach Fr. Ph. Gr.,
I 25) o, secondo la lettura accettata dal Diels, raccolti (ἀθροίσαντος). Di qui i
critici, a parte Kersten, che ha emendato in tollerata (ἀθλήσαντες), hanno
accolto universalmente la variante athrésantes. Senonché, a prescindere dalla
lettura controversa dei due codici di Sesto, a nostro avviso è senz’altro
consigliabile la forma athroísantes, sia essa variante o lettura diretta. Dal punto
di vista formale infatti si tratta di una lectio difficilior, e per il contenuto una
giustificazione e una conferma di tale lettura risulterà dall’esame del fr.110.
Quest’ultimo, come si vedrà, è dominato dal pensiero che la conoscenza tende
ad un accrescimento quantitativo, ogni centro di attività conoscitiva assume
dalla realtà circostante gli elementi affini che la potenziano:athroísantes indica
appunto nel fr. 2 tale accrescimento quantitativo. Segue il v. 4 di provenienza
stilistica omerica, ed irrilevante come contenuto, a parte l’accenno pessimistico.
Più interessanti i vv. 5-6, che ricordano Eraclito (cfr. ad es. frr. 1 e 17). Come
nella filosofia di quest’ultimo, viene cioè presentata l’antitesi tra la visione
dell’uomo comune, spezzata e discontinua, limitata al mondo ristretto
dell’individuo volgare, e la visione filosofica della totalità, fatta intravedere
negativamente nel v. 6, introducendo il passaggio ai versi successivi.
Il s’imbatte (προσέκυρσεν) del v. 5 ricorda l’incalzano(ἔμπαια) già visto – e
conferma in parte tale lettura – rappresentando ancora ciò che dall’esterno
s’impone al soggetto. Si può rammentare come parallelo la prima forma di
conoscenza spinoziana, l’imaginatio, in cui del pari il soggetto è essenzialmente
passivo – passivo –ma in cui anche, come nella gnoseologia empedoclea, il
fulcro della conoscenza sta in un primordiale, intimo ed irrazionale impulso del
soggetto (parallelo tra palámai e conatus). Il secondo emistichio del v. 6, così
com’è tramandato dai mss.: «si vanta di avere trovato l’intero», non può essere
199
accettato per ragioni metriche, ed inoltre perché si vanta (εὔχεται) non si adatta
a sospinti (ἐλαυνóμενοι). Lo Stein ha corretto sospinto (ἐλαυνóμενος) ed
aggiunto empiamente (μάψ) dopo intero (ὅλον); Bergk, Mullach, Diels
lasciano sospinti ed inserisconotutto (πᾶς). Osserviamo per altro che tali
57
costruzioni non si ritrovano né in Empedocle né in genere nei Presocratici, e
che inoltre esigono una trasformazione troppo sensibile del testo tramandato.
Proponiamo quindi la lettura: «sospinti in ogni direzione, si vantano poi di
scoprire il tutto», che è più semplice. L’inserzione del te (τε) per ragioni
200
«sospinti ... si vanta». Nei vv. 7-8 viene introdotta come contrapposto una
203
nuova conoscenza, la cui designazione è per ora soltanto negativa. Pare così
trattarsi di una conoscenza mistica, divina, che Empedocle evidentemente
riserva a se stesso, se si pone mente ai passi dei Katharmoí in cui egli si dice
dio e fornito di sapienza divina. Il passaggio tra i versi precedenti e questi è un
po’ duro. Notevole è l’introduzione nel v. 8 del vocabolo nóos (νóος): in questo
contesto non è però possibile stabilirne il preciso significato; questo sarà
determinato dall’esame del fr. 3. I vv. 8-9 sono rivolti evidentemente a
Pausania, cui è dedicato il Perì phýseos (cfr. fr. 1) . Il dé (δέ) del v. 8 è
integrazione del Bergk, accolta da tutti (meno Sturz); staccare (λιάζομαι) è
verbo omerico, inteso dallo Sturz come indicante il vagabondare di Pausania
prima di diventare discepolo di Empedocle, dal Diels come accennante al
distacco di Pausania dagli uomini. A nostro avviso, tale verbo significa più che
il distacco fisico dagli uomini un distacco dalle apparenze e dal mondo dei
sensi; implicitamente ciò è confermato da quanto precede nel testo del
frammento. Nel v. 9 i codd. hanno pieno comunque (πλεῖóν γε); accettiamo
l’emendazione di Karsten, seguita da parecchi, in più comunque (πλέον ἠέ):
difficilmente non pieno comunque (οὐ πλεῖóν γε) può equivalere a quanto
comunque (ὄσον γε), come vogliono quanti si mantengono fedeli alla
tradizione. In questo finale del frammento viene presentato un terzo genere di
conoscenza, quello cui può giungere Pausania, se trarrà profitto dagli
insegnamenti del maestro. Si ha qui una nuova conferma dell’influsso di
Parmenide sul nostro filosofo (per quanto ciò non possa essere qui giustificato,
non essendo questa la sede per un’interpretazione dell’Eleata): tra 204
58
al punto che tu li raccolga dagli uomini, cosicché tu parli più di quanto sia
lecito
e ti assida allora con alterigia sulle vette della saggezza.
Suvvia, considera con ogni tua intima forza vitale ciascuna realtà nella sua
essenziale chiarezza, né presta fede più alla vista che all’udito,
o al rombante udito più che alle chiare sensazioni della lingua,
e neppure rifiuta di credere ad alcuna delle altre facoltà e rappresentazioni,
ovunque vi sia una strada che porti alla conoscenza, ma conosci ciascuna
realtà nella sua essenziale chiarezza.205
Il fr. 2 ci ha mostrato la distinzione tra palámai e guîa: questi ultimi sono gli
organi sensoriali e le loro rappresentazioni (cioè il mondo nel suo apparire
immediato, nella sua illusorietà sensibile), le prime il fondamento interiore ed
indeterminato di tali rappresentazioni. Questo è lo stadio del fenomeno,
dell’apparenza, in cui l’oggetto s’impone dall’esterno, costituendo mondi
limitati. Qui il soggetto conoscente, frazionato in meschini impulsi conoscitivi,
pure essendo alla base di questa oggettivazione e costituendone per così dire
l’in sé, in conclusione si perde come interiorità e la subisce. La verità assoluta
è soltanto fatta balenare alla fine del frammento come staccata non soltanto dai
sensi ma anche dal nóos, la nuova facoltà conoscitiva, introdotta senza
chiarimento: «né comprensibili con la mente». Dal contesto del v. 9 abbiamo
206
ogni ragione di identificare il nóos con la mêtis (μῆτις), che del pari non giunge
alla verità assoluta, pur rappresentando un distacco dalla conoscenza volgare.
Si tratta quindi di comprendere più da vicino la natura di questo nóos, ed il fr.
3 per l’appunto indica la via che partendo dalla conoscenza comune si solleva
verso la sfera superiore. Il fr. 2, abbandonando l’iniziale impostazione
gnoseologica, aveva distinto piuttosto genericamente tre generi di conoscenza,
ponendo mente più che altro ai diversi individui che ne sono in possesso. Il fr.
3 ritorna, approfondendola, all’analisi gnoseologica delle facoltà, che ci
interessa più da vicino. L’inizio del fr. 3 contiene un’invocazione alla Musa ed
è filosoficamente irrilevante. Cominciamo la nostra indagine dal v. 6. Anche
qui il contenuto non è di grande importanza: a noi i vv. 6-8, che esortano
Pausania a trascurare la gloria mondana, in altre parole la vita politica,
interessano soltanto come prova della fase di solitudine che caratterizza il Perì
phýseos, e ancor più come contrasto esteriore all’intimo processo conoscitivo
descritto nei versi seguenti. Il significato dei vv. 6-8 è però assai discusso.
Anzitutto si presenta il problema del passaggio dal v. 5, rivolto alla Musa, al v.
6, che sembra continuare nello stesso riferimento. Ed infatti parecchi critici
considerano come rivolti alla Musa anche i vv. 6-8. Pur mancando nel testo un
serio appoggio per contestare tale riferimento, noi seguiamo l’opinione del
Karsten, di H. Gomperz e di Wilamowitz, che suppongono una lacuna prima
del v. 6 ed intendono i versi seguenti come rivolti a Pausania. A ciò ci induce
essenzialmente il contenuto dei vv. 6-8, che non può ricevere a nostro avviso
alcun significato soddisfacente se si accetta il riferimento alla Musa.
Ricordiamo alcune traduzioni di coloro che non accettano la lacuna. Sturz fa
59
dipendereraccogliere (ἀνελέσθαι), nel senso di suscipere, aggredi, da ti
forzino(βιήσεται) e vi congiunge parlare (εἰπεῖν), seguito dalla costruzione
«più di quanto sia lecito dire su ciò» (su-ἐπί col dativo nel senso di praeter).
207
terza edizione, suona: «almeno tu non farti allettare da quella corona di gloria
offerta dall’onorificenza umana, a raccoglierla dal suolo per dire con insolenza
più di quanto non sia consentito». Meglio nella quinta edizione: «tu non sarai
209
traduzione di ἐϕ’ ᾧ θ᾽ (cosicché) con ut, come già era stato proposto prima del
Diels, e va bene in genere tutta quanta la prima parte della traduzione, con la
doppia dipendenza di dagli uomini (πρὸς θνητῶν) dagloria (τιμή) e
da raccogliere (ἀνελέσθαι), purché contrariamente al Diels il contesto vada
inteso come rivolto a Pausania; non siamo invece d’accordo con la traduzione
del verso 8, dove presta fede (θάρσει), pur essendo tradotto come vuole Diels,
va riferito alle parole seguenti (cfr. BignoneEmpedocle, 143-44, 393). Il
contenuto del v. 8 è negativo (come voleva la terza ed. del Diels) ed è coordinato
al verso precedente: si tratta di una falsa sapienza, la cui illusione è suscitata
dalla potenza politica, e da cui Empedocle vuol tenere lontano il suo discepolo.
I versi seguenti ritornano all’impostazione gnoseologica. Nel fr. 2
lepalámai erano state determinate soltanto nella loro ristrettezza e limitazione;
qui per contro, al v. 9, esse ritornano con un valore positivo. Ciò conferma la
nostra precedente interpretazione, in quanto questa positività non può essere
spiegata altrimenti che con l’altra determinazione prima dedotta, cioè la loro
natura interiore e primordiale.
La qualità delle palámai è positiva; la loro debolezza nella costituzione degli
organi umani consiste unicamente, sembra suggerire il fr. 3, in un fattore
quantitativo. Quando infatti le palámai si presentano riunite in un complesso
unitario, dice il v. 9, la conoscenza può diventare attiva e fornirci l’oggetto nella
sua essenzialità. Mentre l’oggetto nel fr. 2 si presentava come soverchiante la
meschinità della conoscenza – fondata sullo stesso elemento, le palámai –si
spiegava con la passività del soggetto, qui la situazione è rovesciata ed è il
soggetto che penetra nell’oggetto e lo domina, nient’altro che per
un’accresciuta potenza quantitativa. Lo stesso doppio rapporto si può constatare
rispet to all’antitesi tra interno e esterno, che caratterizza il fulcro dell’attività
conoscitiva ed il mondo degli oggetti e delle rappresentazioni. Nel fr. 2
l’oggetto prevale ed il mondo risultante è quello dell’apparenza immediata; nel
fr. 3 ci si distacca dall’apparenza, il soggetto prevale ed il mondo è spezzato
nell’astratto ciascuna realtà (ἕκαστον). Notevole è quest’ultimo termine, che
60
designa qui l’oggetto. Esso accenna ad un pluralismo, non però determinato,
secondo il modo solito di interpretare Empedocle, ma indeterminato. La
conoscenza di cui qui si tratta è evidentemente positiva e il suo risultato,
l’hékaston, non può quindi essere illusorio; il principio di individuazione è così
essenziale, e la nostra conoscenza superiore non ci porta verso l’universale e
l’astratto, ma verso l’individuale ed il concreto. Quindi il
termine chiaro (δῆλον), che è il criterio della verità, non significa perspicuità e
chiarezza razionali, ma evidenza immediata ed intuitiva. I vv. 10-12 tentano poi
di chiarire questo processo conoscitivo; Empedocle deve però servirsi per le
necessità dell’espressione di termini sensibili, poiché la natura interiore ed
indeterminata delle palámai gli impedisce di parlarne in modo chiaro, e ricorre
così ai guîa, manifestazione diretta di quelle. Sorge in tal modo una certa
ambiguità nei suoi versi, in quanto il fr. 2 condannava la conoscenza sensoriale,
mentre il fr. 3 sembra esaltarla. Il contrasto non sussiste invece secondo la
nostra interpretazione: i vv. 10-12 del fr. 3 non esaltano la conoscenza
sensoriale, ma l’unificazione dei guîa, che non ha e non può avere alcuna
espressione sensoriale adeguata, non potendosi intendere se non come attività
conoscitiva interiore. D’altra parte il riferimento concreto ai sensi e alla
positività delle loro funzioni chiarisce il vero modo di intendere di Empedocle,
che non dava come si è detto a questa conoscenza superiore un valore astratto
mediato, ma intuitivo e concreto. Importante conferma alla nostra
interpretazione sta nell’emistichio «ovunque vi sia una strada che porti alla
conoscenza», dove è implicitamente ribadita la natura interiore della
211
conoscenza in questione. I guîa sono soltanto una «via», un mezzo per giungere
a tale conoscenza, che sta quindi su di un piano diverso, non riducibile ad una
singola rappresentazione sensibile o ad una somma meccanica di
rappresentazioni. La fusione delle palámai può esprimersi sensibilmente con la
totale collaborazione dei guîa, ma questi ultimi rimangono sempre
una via (πóρoς), poiché tale genere di conoscenza non si esaurisce nell’attività
dei vari organi sensoriali. Il citato emistichio del v. 12 è poi importante perché
dà infine un nome a questa nuova conoscenza: noêsai.Evidentemente con tale
termine non si può intendere altro se non la designazione della conoscenza
prospettata al v. 9; a parte il contesto chiaro del frammento, un’ulteriore
conferma è contenuta nel secondo emistichio del v. 13: «conosci ciascuna realtà
nella sua essenziale chiarezza», la cui equivalenza al «considera... ciascuna
212
chiarimento che si attendeva del termine nóos, comparso nel fr. 2. Con esso si
designa la facoltà conoscitiva sopra descritta; noêsai non potrà mai tradursi con
pensare, ma piuttosto con intuire interiormente o qualcosa del genere. A nostro
avviso, in tutta questa concezione del nóos, Empedocle ha subito potentemente
l’influsso di Parmenide. I guîa –termine introdot to in questo frammento per
bh
l’appunto nel significato sopra chiarito – non dovranno isolarsi, sfibrando con
un’esclusiva impressione passiva l’intero organismo, ma collaborare,
divenendo le vie attraverso cui si esplichi l’espansione dall’intimo. L’unione
delle palámai è quindi il nóos, ed il cogliere l’hékaston nella sua vitalità si
61
chiama noêsai. Tutto ciò può dirsi la conoscenza artistica della realtà, in cui
ogni individuazione è ritenuta essenziale e scoperta come tale. Dalla stessa
concessione pluralistica parte anche Eraclito: Empedocle per altro imposta più
chiaramente la questione. Tuttavia la conoscenza suprema, trapelata nel finale
del fr. 2, non è quella del nóos: l’unione dei guîa spetta anzi, in gradazioni
diverse di potenza, a tutti gli uomini. Abbiamo in tal modo concluso l’esame
214
del fr. 3, che nella sua seconda parte non presenta nulla di notevole per quanto
riguarda la critica del testo: seguiamo ora la gnoseologia empedoclea in altri
frammenti.
Frammento 105:
Nutrito (il cuore) nei flutti del sangue che gli si scaglia incontro,
là dov’è per lo più ciò che è chiamato dagli uomini principio di conoscenza:
infatti il sangue che sta attorno al cuore è negli uomini il principio della
conoscenza. 215
Frammento 98:
La terra si incontrò in rapporto quasi uguale con questi,
cioè con Efesto, la pioggia e l’etere sfavillante, ormeggiandosi nei perfetti
porti di Cipride,
se di poco prevalse. Sia poi maggiore o minore il rapporto,
da questi elementi si formarono il sangue e le forme degli altri tessuti
(unificanti) e carnosi.
217
62
Il quasi (μάλιστα) del v. 1 contiene la possibilità di varie strutture; ciò è già
218
πλεóνεσσιν ἐλάσσων. Diels traduce così: «o un poco più forte, o più debole
rispetto alla maggioranza»; Kranz infine si mostra perplesso di fronte
223
significare nella traduzione, vuole estendere ad altri tessuti del corpo umano la
funzione individuante e unificante propria del sangue – in una forma attenuata
naturalmente, dato che il frammento 105 limita al sangue tale caratteristica – ed
ancora più, pensiamo, vuole attribuire l’unificazione conoscitiva anche agli
animali, i quali dovranno avere una facoltà, inferiore a quella umana, ma
corrispondente al nóema, che si differenzia dalla pura sensazione. È questo un
esempio del principio di continuità della natura, che si può osservare assai di
frequente in Empedocle.
Con ciò la trattazione della seconda facoltà conoscitiva si può dire conclusa.
Riepiloghiamo: il nóema è comune a tutti gli uomini e si differenzia
dall’aristocratica conoscenza suprema; visibilmente il nóema è sangue, in cui la
sua natura inferiore si esprime; la sua determinazione ulteriore èperikárdion, la
fusione delle palámai si attua attorno al cuore e da questo particolare sangue è
colta la conoscenza dell’hékaston; tale localizzazione accenna chiaramente alla
caratteristica del sentimento artistico, momento culminante di vita dell’uomo
comune; l’equazione nóema-haîma è il principio d’individuazione dell’uomo e
costituisce le singolarità dei soggetti secondo il rapporto quantitativo degli
elementi componenti.
Chiarita così l’impostazione gnoseologica empedoclea, analizziamo ora più
diffusamente gli elementi primi della conoscenza, ridiscendendo dal nóema ai
presupposti strutturali del fenomeno conoscitivo. Lo spunto ci è offerto
dall’ultimo verso del fr. 98 accennante come si è detto ad una conoscenza
unificata che si estende al mondo animale in genere; ad uno stadio conoscitivo
inferiore, spettante a tutti gli organismi, ed in particolare quindi al mondo
vegetale, cioè agli esseri dotati di guîa, in quanto questi esprimono
dellepalámai, si riferisce il frammento 102: 225
Qui il soggetto non è più ambiguo: pánta sono gli elementi, come risulta dalla
prima lettura del frammento 110 e come sarà confermato dalla successiva
analisi dello stesso. Si ha cioè la dichiarazione esplicita di un’estensione
universale, al mondo organico ed a quello inorganico, della conoscenza,
espressa qui non in una determinazione connessa ad un organo sensoriale
(paláme) o ad un’individualità animale (nóema o l’unificazione conoscitiva cui
accenna il fr. 98, v. 5), ma lasciata nella sua astrattezza elementare. Si ha così
una nuova importante distinzione terminologica e di contenuto, tra ϕρóνησις
(principio conoscitivo universale) e nóema (principio conoscitivo umano).
Notevole l’espressione parte di conoscenza (νώματος αἶσαν), dove è chiaro il
valore di phrónesis quale componente elementare del nóema (nómatos è
contrazione di noématos, νoήματoς). I poteri conoscitivi si dispongono così
scalarmente in phrónesis-paláme-nóema cui corrispondono le gradazioni della
realtà inorganica, organica (vegetale-animale: respiro-carne, πνoιή-σάρξ),
umana. Questo concetto di phrónesistrova una conferma ed una determinazione
del suo contenuto nel frammento 103:
Non pensiamo, come Diels ed altri, che Caso (Τύχη) sia personificato come
una divinità, e crediamo che il significato di «caso» possa essere accettato in
Empedocle, per quanto la cosa non sia del tutto sicura. La conoscenza
primordiale sarebbe quindi senza intenzionalità, casuale, in quanto precedente
ogni organismo ed ogni finalismo. Mentre il cosmo empedocleo si ispira ad una
concezione ora teologica, ora meccanicista, qui si presenta il caso, nella
considerazione interiore e possiamo dire noumenica. Si offre spontaneo il
parallelo con Democrito e con il fr. 52 di Eraclito.
In ogni caso poi è fuori dubbio che hápanta (ἅπαντα) indichi la realtà in tutte
le sue determinazioni. Un passo ulteriore nelle nostre esegesi ci fa compiere il
frammento 107:
Qui è fuori discussione che con «in virtù di questi... di questi» vengono
230
indicati gli elementi. Il v. 2 afferma così che il potere conoscitivo è insito agli
elementi, cioè ai costituenti ultimi ed essenziali della realtà, forma anzi la loro
determinazione comune, la loro più nascosta natura. Di conseguenza la fonte ed
il principio gnoseologici sono la fonte ed il principio metafisici.
La natura della phrónesis, in quanto costituisce la qualità universale del reale,
comune a tutti gli esseri e a tutte le cose perché propria delle parti elementari
della loro struttura, è confermata nella sua interiore irrazionalità. La stessa cosa
65
del resto risulta già dalla lettura del v. 2; l’enumerazione dellaphrónesis accanto
alla gioia ed al dolore, in un accostamento che non è di contrapposizione, ma di
affinità, fa anzi pensare ancora una volta a Spinoza. Sembra che il «e godono e
soffrono» empedocleo rampolli, determinandolo, dal sentono (ϕρoνέoυσι),
231
Il verso riceve la sua piena luce da quanto è stato detto sopra: la qualità
conoscitiva è ciò che caratterizza la natura e l’attività di un elemento. Nello
stesso spirito e nello stesso uso di sentire (ϕρoνεῖν) va inteso il frammento 108:
66
La natura interiore e conoscente degli elementi, vista prima, pone la necessità
di considerarli in una doppia luce, da un lato plasticamente ed espressivamente
come elementi fisici, dall’altro per l’appunto in questa loro natura radicale.
Come già è stato suggerito dall’analisi del fr. 108, questa doppia considerazione
non significa una doppia loro realtà su piani differenti, ma semplicemente due
aspetti, due prospettive di un’unica fondamentale realtà. La prima
considerazione è quella comunemente conosciuta, la seconda si rivela
tipicamente, oltre al frammento già citato, nel frammento 6, v. 1:
in cui notevole è l’interiore radici (ῥιζώματα). Ancor più notevole per altro è
il seguito del frammento, dove vengono enumerati gli annunziati elementi. Tale
enumerazione avviene non nella comune rappresentazione sensibile dei quattro
elementi, aria, acqua, fuoco, terra, cioè nella forma inanimata, oggettiva,
immediatamente visiva, ma come una serie di individualità essenziali divine.
La doppia considerazione è confermata ulteriormente nel frammento 38:
Assai discusso per il testo è il primo verso, in cui l’impossibile sole (ἥλιoν)
dei manoscritti rende necessaria un’emendazione. A noi sembra soddisfacente
quella del Diels in ugualmente (ἥλικα), ma la questione non può dirsi
definitivamente risolta. In ogni caso, e comunque dovesse suonare l’originario
v. 1, a noi basta l’inizio del v. 2: «che si espressero (da cui si
manifestarono)» per accertare in modo decisivo la precedente interpretazione.
237
Da esso risulta infatti che gli elementi nel loro aspetto oggettivo e corporeo non
sono altro che la manifestazione di un’anteriore realtà radicale. La realtà
espressiva degli elementi è quindi metafisicamente subordinata alla loro realtà
conoscente; di conseguenza non si tratta propriamente neppure, come si è detto
prima, di un doppio aspetto di un’unica realtà, ma con maggior precisione di un
aspetto noumenico e di uno fenomenico, per quanto ciò non significhi un
rapporto di trascendenza e debba dirsi piuttosto che i due aspetti sono
strettamente avvinti, l’uno costituendo l’interno, la radice, e l’altro l’esterno, la
manifestazione di una stessa fondamentale realtà. Si potrebbe dire che il resto
del fr. 38 suggerisce più che altro l’immagine di una successione temporale;
contro di ciò richiamiamo anzitutto i passi precedenti che attribuiscono
il phroneîn alla realtà attuale ed in secondo luogo ricordiamo che la forma
temporale è un mezzo mitico di esposizione in Empedocle, che maschera un
contenuto metafisico, come sarà dimostrato in seguito.
67
Vediamo ora l’esplicazione di questo potere conoscitivo degli elementi,
consideriamolo cioè rispetto al suo oggetto. In proposito ci informa il
frammento 109:
È questa la ben nota teoria della conoscenza del simile. Da notarsi è che
ilvediamo (ὀπώπαμεν) non si riferisce soltanto alla sensazione visiva, ma alla
conoscenza dell’elementare in genere (cfr. fr. 17, v. 21). Questa conoscenza
239
del simile è al tempo stesso una tendenza verso il simile, per la già osservata
equivalenza in Empedocle tra la considerazione gnoseologica e quella fisica. Il
raggiungimento conoscitivo di un oggetto, che è la stessa cosa del soggetto, si
esprime sensibilmente come un accrescimento quantitativo, un potenziamento
corporeo degli elementi. A documentare che questa seconda considerazione fu
chiaramente presente ad Empedocle, ecco infatti il frammento 37:
Se tu però desidererai altre cose, quelle infinite e misere che stanno fra gli
uomini,
68
ed offuscano le forze vitali, tosto nel ciclo del tempo i princìpi ti
abbandoneranno,
bramando di giungere alla loro propria stirpe; sappi infatti che tutti hanno
un’interiorità ed una parte di conoscenza. 245
69
frammento 110 è il frammento 12: È impossibile che (l’essere) nasca dal non
essere
e che l’essere perisca: interminabile ed eterno esso sarà sempre là, ogni volta
che uno arresti il suo slancio.249
conoscitivo della realtà interiore che cade sotto il suo dominio. Qui sta il vertice
della gnoseologia empedoclea: l’individualità divina nella sua suprema forma
di conoscenza soggiogherà, facendola entrare in sé ed annullandola quindi
come oggetto, l’universale realtà. Questo è uno stadio superiore di distacco, in
cui non esistono più né forme sensibili, né corporeità, né rappresentazioni, in
quanto non sussiste più l’oggetto e tutto si è trasformato in una
somma phrónesis trascendente. Questo è lo stadio conoscitivo più alto, che
Empedocle riserva per sé, come accenna il fr. 2 ed il passo più significativo che
vi si riferisce è dato dal frammento 134:
Qui lo stadio cui sopra abbiamo accennato non è ancora del tutto raggiunto,
come dimostra il tutto il mondo (κóσμον ἅπαντα), che sussiste ancora al di
fuori. Il raggiungimento pieno si avrà nello Sphaîros, che dovremo esaminare
in seguito. A dimostrare per altro che si è qui sullo stesso piano
dello Sphaîros basta ricordare il perfetto parallelo tra i vv. 1-3 di questo
frammento e i vv. 1-2 del fr. 29, trattante appunto dello Sphaîros (cfr. anche fr.
70
27, vv. 1-2). Il passaggio dalla concezione elementare e generale diphrónesis a
questa phrónesis suprema e trascendente è segnato anche terminologicamente
dall’introduzione del nuovo vocabolo essenza (ϕρήν). bm
NOTE
71
1
Οὐκ ἃν ἀνὴρ τoιαῦτα σoϕὸς ϕρεσὶ μαντεύσαιτo, / ὡς ὄϕρα μέν τε βιῶσι, τὸ δὴ
βίοτον καλέoυσι, / τóϕρα μὲν oὖν εἰσίν καί σϕιν πάρα δεινὰ καὶ ἐσθλά, / πρὶν
δὲ πάγεν τε βρoτoὶ καì <ἐπεὶ> λύθεν, oὐδὲν ἄρ᾽ εἰσί.
2
Beide stammen aus demselben Drang nach dem Ewigen, das dort objektiv in
den Elementen, hier subjektiv in Seele und Gottheit gefunden wird. K.
Joël,Geschichte der antiken Philosophie, Tübingen, 1921, p. 543.
3
Cfr. PHK 219.
4
Durchaus materialistisch.
5
Cfr. qui, p. 162, dove il verbo viene tradotto con «intuire interiormente».
6
Per la traduzione di éthos cfr. PHK 225. Sono tre i termini fondamentali per
comprendere come Colli intende Empedocle: il pensiero che è principio
conoscitivo umano, il sentire rinvia al principio conoscitivo universale e il terzo
sarebbe l’unità interiore in grado di individuare ogni realtà.
7
Τῇδε μὲν oὖν ἰóτητι Τύχης πεϕρóνηκεν ἅπαντα, la traduzione è qui a p. 171,
mentre in PHK 223 è: «là, per volontà del caso, tutte le cose sentono con
immediatezza».
8
Έκ τoύτων <γὰρ> πάντα πεπήγασιν ἁρμoσθέντα / καὶ τoύτoις ϕρoνέoυσι καì
ἥδoντ’ ἠδ’ ἀνıῶνταı, la traduzione è qui, p. 172, il secondo verso tradotto anche
in PHK 223 nello stesso modo.
9
Αἵματoς ἐν πελάγεσσι τεθραμμένη ἀντιθoρóντoς, / τῇ τε νóημα μάλιστα
κικλήσκεται ἀνθρώπoισν· / αἷμα γὰρ ἀνθρώπoις περικάρδιóν έστι νóημα, la
traduzione è qui, p. 164, del terzo verso ci sono altre tre diverse traduzioni: la
prima nelle righe che seguono («il pensiero è per gli uomini il sangue che sta
intorno al cuore»), in FS 77 («il sangue che sta attorno al cuore è il pensiero
degli uomini») e in PHK 222 («infatti il sangue, attorno al cuore, è negli uomini
pensiero»).
10
Παῦρoν δ᾽ ἐν ζωῇσι βίoυ μέρoς ἀθρήσαντες / ὠκύμoρoι καπνoῖo δίκην
ἀρθέντες ἀπέπταν, la traduzione è qui, p. 150, e diversa in PHK 220 («raccolta
– nel loro vivere – una piccola parte di “vita”, / uomini destinati a morte veloce,
come fumo innalzandosi, dileguano»).
11
Ἐγὼ δ᾽ ὑμῖν θεὸς ἄμβρoτoς, oὐκέτι θνητóς, la traduzione è in FS 72.
12
72
Fr. 2, vv. 8-9 ... σὺ δ᾽ oὖν, ἐπεὶ ὦδ᾽ ἐλιάσθης, / πεύσεαι oὐ πλέoν ἠὲ βρoτείη
μῆτις ὄρωρεν, la traduzione è qui, p. 150, il verso 8 è tradotto diversamente in
PHK 220 («tu invece conoscerai, poiché così completamente ti sei distaccato»).
13
Βρoτείη μῆτις.
14
αἶψα δὲ θνήτ᾽ ἐϕύoντo τὰ πρὶν μάθoν ἀθάνατ᾽ εἶναι.
15
γίγνεται ἄλλoτε ἄλλα καὶ ἠνεκὲς αἰὲν ὁμoῖα.
16
Ähnliches.
17
Ewige Wiederkunft.
18
ἠνεκὲς αἰέν.
19
I riferimenti corretti sono: v. 12 del fr. 21 e v. 8 del fr. 23.
20
ἡ δὲ χθὼν τoύτoισν ἴση συνέκυρσε μάλιστα, / Ἡϕαίστῳ τ᾽ ὄμβρῳ τε καὶ αἰθέρι
παμϕανóωντι, / Κύπριδoς ὁρμισθεῖσα τελείoις ἐν λιμένεσσιν, / εἴτ᾽ ὀλίγoν
μείζων εἴτε πλεóν ἐστὶν ἐλάσσων· / ἐκ τῶν αἷμά τε γέντo καὶ ἄλλης εἴδεα
σαρκóς. La traduzione è qui, p. 166, e in parte diversa in PHK 222 («terra si
incontrò in rapporto quasi uguale con questi, / Efesto, pioggia e etere sfavillante,
/ ormeggiandosi nei perfetti porti di Cipride, / se di poco prevalse. Sia poi
maggiore o minore il rapporto: / da questi elementi si generarono il sangue e le
forme degli altri tessuti carnosi»).
21
ὅσoις μὲν oὖν ἴσα καὶ παραπλήσια μέμεικται καὶ μὴ διὰ πoλλoῦ μήδ᾽ αὖ μικρὰ
μήδ᾽ ὑπερβάλλoντα τῷ μεγέθει, τoύτoυς ϕρoνιμωτάτoυς εἶναι καὶ κατὰ τὰς
αἰσθήσεις ἐκριβεστάτoυς, κατὰ λóγoν δὲ καὶ τoὺς ἐγγυτάτω τoύτων, ὅσoις δ᾽
ἐναντίως, ἀϕρoνεστάoυς.
22
Κύπριδoς ὁρμισθεῖσα τελείoις ἐν λιμένεσσιν.
23
τελείoις ἐν λιμένεσσιν.
24
La traduzione è in PHK 204: «all’anima tocca un lógos che accresce se stesso».
25
εἰ γὰρ κέν σϕ᾽ ἀδινῇσιν ὑπὸ πραπίδεσσιν ἐρείσας / εὑμενέως καθαρῇσιν
ἐπoπτεύσεις μελέτῃσιν, / ταῦτά τέ σoι μάλα πάντα δι᾽ αἰῶνoς παρέσoνται, /
ἄλλα τε πóλλ᾽ ἀπὸ τῶνδ᾽ ἐκτήσεαι· αὐτὰ γὰρ αὔξει / ταῦτ᾽ εἰς ἦθoς ἕκαστoν,
ὅπη ϕύσις ἐστὶν ἑκάστῳ, la traduzione è qui, p. 178 e uguale PHK 224-25. I
primi due versi sono tradotti da Colli diversamente in FS 78 («Se infatti
piomberai sulla verità con il tuo cuore incrollabile, / e pieno di bontà la
contemplerai con una pura ansia»).
73
26
ἦ σ᾽ ἄϕαρ ἐκλείψoυσι περιπλoένoιo χρóνoιo / σϕῶν αὐτῶν πoθέoντα ϕίλην ἐπὶ
γένναν ἱκέσθαι· / πάντα γὰρ ἴσθι ϕρóνησιν ἔχειν καὶ νώματoς αἶσαν, la
traduzione è qui, p. 179 e in parte diversa in PHK 226i vv. 8-9 e in PHK 224 il
v. 10 («tosto nel ciclo del tempo i princìpi ti abbandoneranno / bramando di
tornare alla loro propria stirpe amata / sappi infatti che tutti i princìpi hanno
sensazione e una parte di pensiero»).
27
Gomperz Griechische Denker, 197 e 445.
28
ταῦτα πάντα.
29
ἄλλα τε πóλλ᾽ ἀπὸ τῶνδ᾽ ἐκτήσεαι.
30
Cfr. FS 23-35 e 71-89.
31
πάντα γὰρ ἴσθι ϕρóνησιν ἔχειν καὶ νώματoς αἶσαν.
32
αὐτά γὰρ αὔξει ταῦτ᾽ εἰς ἦθoς ἕκαστoν, ὅπη ϕύσις ἐστὶν ἑκάστῳ.
33
Fr. 19: ἦθoς ἀνθρώπῳ δαίμων, la traduzione è in FS 42.
34
Fr. 146, v. 3: ἔνθεν ἀναβλαστoῦσι θεoὶ τιμῇσι φέριστoι.
35
ἤδη γὰρ πoτ᾽ ἐγὼ γενóμην κoῦρoς τε κóρη τε / θάμνoς τ᾽ oἰωνóς τε καὶ ἔξαλoς
ἔλλoπoς ἰχθύς, di Colli è la traduzione delle ultime tre parole in PHK 216.
36
ἔξαλoς ἔλλoπoς ἰχθύς.
37
εἰς δὲ τέλoς μάντεις τε καὶ ὑμνoπóλoι καὶ ἰητρoί / καὶ πρóμoι ἀνθρώπoισιν
ἐπιχθoνίoισι πέλoνται / ἔνθεν ἀναβλαστoῦσι θεoὶ τιμῇσι ϕέριστoι.
38
ἐν θέρεσσι λέoντες ὀρειλεχές χαμαιεῦναι / γίγνoνται, δάϕναι δ᾽ ἐνὶ δένδρεσιν
ἠυκóμoισιν.
39
I due paragrafi del primo capitolo delle lezioni, dedicate rispettivamente ad
Aristotele e Teofrasto, sono da porre in relazione dapprima con i capitoli II e
III di PHK con i quali esse sono spesso coincidenti, come si segnalerà in nota,
anche se in PHK la trattazione di Teofrasto, intitolata Storicismo peripatetico,
precede quella di Aristotele che ha per titolo Aristotele e le origini della
filosofia. Poi questi paragrafi rinviano al secondo volume di SG.
40
Ἐμπεδoκλῆς δὲ τὰ τέτταρα πρὸς τoῖς εἰρημένoις γῆν πρoστιθεὶς τέταρτoν·
ταῦτα γὰρ ἀεὶ διαμένειν καὶ oὐ γίγνεσθαι.
41
74
Cfr. PHK 134.
42
Cfr. PHK 105, SGII 157 (dove la traduzione è diversa) e 302.
43
καὶ τoῦτ᾽ ἔστι τὸ Ἀναξαγóρoυ ἕν (βέλτιoν γὰρ ἢ ὁμoῦ πάντα) καὶ
Ἐμπεδoκλέoυς τὸ μῖγμα καὶ Ἀναξιμάνδρoυ. La traduzione è diversa in
PHK 105 («e tale è l’uno di Anassagora – difatti è meglio designarlo come
“l’uno” che come “tutte le cose assieme” – e la mescolanza di Empedocle e di
Anassimandro»).
44
Cfr. PHK 106.
45
oἱ δ᾽ ἐκ τoῦ ἑνὸς ἐνoύσας ἐναντιóτητας ἐκκρίνεσθαι, ὥσπερ ᾽Aναξίμανδρóς
ϕησι καὶ ὅσoι δ᾽ ἓν καὶ πoλλά ϕασιν εἶναι, ὥσπερ Ἐμπεδoκλῆς καὶ
Ἀναξαγóρας· ἐκ τoῦ μίγματoς γὰρ καὶ oὗτoι ἐκκρίνoυσι τἆλλα. La traduzione
è quella di PHK 106 perché questa presente nelle lezioni è incompleta: «altri
affermano che dall’uno si separano le contrarietà contenutevi, come
Anassimandro e quanti dicono ritrovarsi assieme unità e molteplicità; anche
questi infatti fanno separare le altre cose dalla mescolanza primordiale».
46
ἐκ τoῦ ἑνὸς ἐνoύσας ἐναντιóτητας.
47
ἐνoύσας ἐναντιóτητας ἐκκρίνεσθαι.
48
ἐκ τoῦ ... ἐναντιóτητας.
49
Cfr. PHK 108.
50
ἐκείνων γὰρ ὁ μέν τις ϕιλίαν εἶναί ϕησι τὸ ἕν ὁ δ᾽ ἀέρα ὁ δὲ τὸ ἄπειρoν. La
traduzione è diversa in PHK 108 («tra costoro infatti c’è chi dice che l’uno è
amore, un altro afferma che è aria, e un altro ancora che è l’infinito»). Senza
poter entrare qui nel merito del dibattito sull’infinito nel mondo greco antico è
tuttavia da notare che indeterminato e infinito sono usati da Colli come
equivalenti.
51
συγκρινóμενα καὶ διακρινóμενα εἰς ἕν τε καὶ ἐξ ἑνóς.
52
ἐκ τoῦ ἑνὸς ἐνoύσας ἐναντιóητας ἐκκρίνεσθαι.
53
Cfr. PHK 95 sgg.
54
Cioè come corpi elementari isomeri, cfr. qui e PHK 100.
55
λέγει δὲ αὐτὴν μήτε ὕδωρ μήτε ἄλλo τι τῶν καλoυμένων <νυνί> στoιχείων,
ἀλλ᾽ ἑτέραν τινὰ ϕύσιν ἄπειρoν.
75
56
εὐλóγως δὲ καὶ ἀρχὴν αὐτó (cioè l’ἄπειρoν) τιθέασι πάντες, la traduzione è in
PHK 97 e in SGII 157.
57
(τὸ ἄπειρoν) ... ἀθάνατoν γὰρ καὶ ἀνώλεθρoν, ὥς ϕησιν ὁ Ἀναξίμανδρoς καὶ oἱ
πλεῖστoι τῶν ϕυσιoλóγων, la traduzione è in PHK 97 e in SGII 157.
58
oἱ πλεῖστoι τῶν ϕυσιoλóγων.
59
εἰ δὲ κατὰ συμβεβηκóς ἐστι τὸ ἄπειρoν oὐκ ἂν εἴη στoιχεῖoν τῶν ὄντων, la
traduzione è in PHK 97.
60
κατὰ συμβεβηκὸς ἄρα ὑπάρχει τὸ ἔπειρoν, la traduzione è in PHK 97.
61
εὐλóγως δὲ καὶ ἀρχήν αὐτὸ τιθέασι πάντες· oὔτε γὰρ μάτην αὐτὸ oἶóν τε εἶναι...,
la traduzione nel testo delle lezioni è qualche riga sotto la citazione greca.
62
oὔτε ἄλλην ὑπάρχειν αὐτῷ δύναμιν πλὴν ὡς ἀρχήν, la traduzione è in PHK 98.
63
εὐλóγως δὲ καί.
64
Περιέχειν ... κυβερνᾶν (sott. tutte le cose).
65
ἀθάνατoν ... καὶ ἀνώλεθρν.
66
ἀλλὰ μὴν oὐδὲ ἒν καὶ ἁπλoῦν εἶναι ἐνδέχεται τὸ ἄπειρoν σῶμα, oὔτε ὡς λέγoυσί
τινες τὸ παρὰ τὰ στoιχεῖα, ἐξ oὗ ταῦτα γεννῶσιν, oὔθ᾽ ἁπλῶς. Eἰσὶ γάρ τινες oἳ
τoῦτo πoιoῦσι τὸ ἄπειρoν, ἀλλ᾽ oὐκ ἀέρα ἢ ὕδωρ, ὡς μὴ τἆλλα ϕθείρηται ὑπὸ
τoῦ ἀπείρoυ αὐτῶν· ἔχoυσι γὰρ πρὸς ἄλληλα ἐναντίωσιν, oἷoν ὁ μὲν ἀὴρ
ψυχρóς, τὸ δ’ ὕδωρ ὑγρóν, τὸ δὲ πῦρ θερμóν· ὧν εἰ ἦν ἓν ἄπειρoν, ἔϕθαρτo ἂν
ἤδη τἆλλα· νῦν δ’ ἕτερoν εἶναί ϕασιν ἐξ oὗ) ταῦτα. Άδύνατoν δ’ εἶναι τoιoῦτoν,
οὐχ ὅτι ἄπειρον (περὶ τoύτoυ μὲν γὰρ κοινóν τι λεκτέον ἐπὶ παντὸς ὁμoίως, καì
ἀέρoς καὶ ὕδατoς καì ὁτoυoῦν), ἀλλ’ ὅτι oὐκ ἔστιν τoιoῦτoν σῶμα αἰσθητὸν
παρὰ πὰ καλoύμενα στoιχεῖα· ἅπαντα γὰρ ἐξ oὗ ἐστί, καì διαλύεται εἰς τoῦτo,
ὥστε ἦν ἂν ἐνταῦθα παρὰ ἀέρα καì πῦρ καì γῆν καì ὕδωρ· ϕαίνεται δ’ oὐδέν.
Oὐδὲ δὴ πῦρ oὐδ’ ἅλλo τι τῶν στoιχείων oὐδὲν ἄπειρον ἐνδέχεται εἶναι. Ὅλως
γὰρ καì χωρὶς τoῦ ἄπειρoν εἶναί τι αὐτῶν, ἀδύνατoν τὸ πᾶν, κἂν ᾖ
πεπερασμένoν, ἢ εἶναι ἢ γίγνεσθαι ἕν τι αὐτῶν, ὥσπερ ’Hράκλειτóς ϕησιν
ἅπαντα γίγνεσθαί πoτε πῦρ. Ό δ’ αὐτὸς λόγoς καì ἐπὶ τoῦ ἑνóς, oἷoν πoιoῦσι
παρὰ τὰ στoιχεῖα oἱ ϕυσικoί. Πάντα γὰρ μεταβάλλει ἐξ ὲναντíoυ εἰς ἐναντίoν,
oἷoν ἐκ θερμoῦ εἰς ψυχρóν, la traduzione è in PHK 110-11.
67
τὸ παρὰ τὰ στoιχεῖα.
68
ἑτέρα τις ϕύσις ... τῶν λεγoμένων στoιχείων.
76
69
ἐξ oὗ) ταῦτα (sott. fanno generare).
70
oὔθ’ ἁπλῶς.
71
ἄπειρον σῶμα.
72
τὸ παρὰ τὰ στoιχεῖα oὔθ’ ἁπλῶς.
73
Cfr. PHK 114.
74
ἔσται γὰρ ἀὴρ καì πῦρ ἐκεῖνo μετ’ ἐναντιóτητoς· ἀλλὰ στέρησις τὸ ἕτερoν τῶν
ἐναντίων (la traduzione è in PHK 114).
75
νῦν ...ταῦτα.
76
ἕτερoν ... ἐξ oὗ ταῦτα.
77
τὸ παρὰ τὰ στoιχεῖα ἐξ oὗ ταῦτα.
78
εἰσὶ γάρ τινες ... ἂν ἤδη τἆλλα.
79
Ό δ’ αὐτὸς λóγoς καί.
80
παρὰ ἀέρα καì πῦρ καì γῆν καì ὕδωρ.
81
ϕαίνεται δ’ oὐδέν.
82
oὐδὲ δὴ πῦρ.
83
Oὐδὲ δὴ ... εἶναι.
84
oὐδὲ δὴ ... στoιχείων.
85
oὐδὲν ἄπειρoν ἐνδέχεται εἶναι.
86
Πάντα γάρ ... εἰς ψυχρóν.
87
In PHK 119, nel testo invece uomini.
88
oὐδὲ δὴ πῦρ ... εἶναι.
89
καì χωρὶς τoῦ ἄπειρον εἶναι.
90
ὅλως γάρ.
77
91
τὴν ὑπoκειμένην ὕλην oἱ μέν ϕασιν εἶναί μίαν, oἷoν ἀέρα τιθέντες ἢ πῦρ ἢ τι
μεταξὺ τoύτων, σῶμά τε ὂν καì χωριστóν..., la traduzione è in PHK 120 e in
SGII 165.
92
σῶμά τε ὂν καì χωριστóν.
93
ἀλλ’ oἱ μὲν πoιoῦντες μίαν ὕλην παρὰ τὰ εἰρημένα, ταύτην δὲ σωματικὴν καì
χωριστήν, ἁμαρτάνoυσιν, la traduzione è in PHK 121.
94
παρὰ τὰ εἰρημένα.
95
ὕλη χωριστή.
96
τὸ ἄπειρον τoῦτo.
97
Queste ultime pagine dedicate ad Aristotele corrispondono con la nota 12 di
PHK 121 sgg.
98
oὐκ ἔστιν ἓν τoύτων ἐξ oὗ τὰ πάντα. Oὐ μὴν oὐδ’ ἄλλo τí γε παρὰ ταῦτα, oἷoν
μέσoν τι..., la traduzione è in PHK 122.
99
παρὰ ταῦτα.
100
ἔσται γὰρ ἀὴρ καì πῦρ ἐκεῖνo μετ’ ἐναντιóτητoς.
101
ὥστ’ oὐκ ἐνδέχεται μoνoῦσθαι ἐκεῖνo oὐδέπoτε, ὥσπερ ϕασί τινες τὸ ἄπειρον
καì τὸ περιέχoν. Όμoίως ἄρα ὁτιoῦν τoύτων ἢ oὐδέν, la traduzione è in
PHK 122-23.
102
Eἰ oὖν μηδὲν αἰσθητóν γε πρóτερoν τoύτων, la traduzione è in PHK 123.
103
ὥσπερ ϕασὶν oἱ μίαν τινὰ ϕύσιν εἶναί λέγoντες τὸ πᾶν, oἷoν ὕδωρ ἢ πῦρ ἢ τὸ
μεταξὺ τoύτων. δoκεῖ δὲ τὸ μεταξὺ μᾶλλoν· πῦρ γὰρ ἤδη καì γῆ καì ἀὴρ καì
ὕδωρ μετ’ ἐναντιoτήτων συμπεπλεγμένα ἐστíν. διὸ καì oὐκ ἀλóγως πoιoῦσιν oἱ
τὸ ὑπoκείμενoν ἕτερoν τoύτων πoιoῦντες, τῶν δ’ ἄλλων oἱ ἀέρα· καì γὰρ ὁ ἀὴρ
ἥκιστα ἔχει τῶν ἄλλων διαϕoρὰς αἰσθητάς· ἐχóμενoν δὲ τὸ ὕδωρ, la traduzione
in PHK 123 è diversa.
104
τινὰ ϕύσιν è tradotta qui «una certa materialità», mentre «una natura unica» in
PHK 123.
105
διò καì oὐκ ἀλóγως,la traduzione è in PHK 124.
106
καì γὰρ ὁ ἀήρ.
78
107
ἕτερoν τoύτων.
108
τῶν ἄλλων.
109
oὔτε ... τὸ παρὰ τὰ στoιχεῖα, ἐξ oὗ ταῦτα γεννῶσιν, oὔθ’ ἁπλῶς, la traduzione è
in PHK 124.
110
oὐδὲ πῦρ.
111
Cfr. PHK 38 sgg.
112
Cfr. SGII 245-59 e le note relative.
113
Tò δὲ παρ’ ἡμῶν Έλεατικὸν ἔθνoς, ἀπὸ Ξενοϕάνους καì ἔτι πρόσθεν
ἀρξάμενoν, la traduzione è in PHK 39.
114
ὁ γὰρ Παρμενίδης τoύτoυ λέγεται γενέσθαι μαθητής, la traduzione è in PHK
39.
115
καì ἔτι πρόσθεν ἀρξάμενoν.
116
Ξενoϕάνoυς δὲ διήκoυσε Παρμενίδης Πύρητoς Έλεάτης· τoῦτoν Θεóϕραστoς
ἐν τῇ Έπιτoμῇ Άναξıμάνδρoυ ϕησὶν ἀκoῦσαι· ὅμως δ’ oὖν ἀκoύσας καì
Ξενoϕάνoυς oὐκ ἠκoλoύθησεν αὐτῷ, la traduzione è in PHK 40, cfr. anche SGII
309.
117
τoῦτoν ... ἀκoῦσαι.
118
περὶ Παρμενίδoυ καὶ τῆς δóξης αὐτoῦ καὶ Θεόϕραστoς ἐν τῷ πρώτῳ Περὶ τῶν
ϕυσικῶν oὕτως λέγει· Τoύτῳ δ’ ἐπιγενόμενoς Παρμενίδης Πύρητoς ὁ Έλεάτης
(λέγει δὲ καὶ Ξενoϕάνην) ἐπ’ ἀμϕoτέρας ἦλθε τὰς ὁδoύς. καὶ γὰρ ὡς ἀίδιóν ἐστι
τὸ πᾶν ἀπoϕαίνεται καὶ γένεσιν ἀπoδιδóναι πειρᾶται τῶν ὄντων oὐχ ὁμoίως
περὶ ἀμϕoτέρων δoξάζων, ἀλλὰ κατ’ ἀλήθειαν μὲν ... κατὰ δóξαν δέ... Cfr. SGII
177 e PHK 41 sgg.
119
λέγει δὲ καὶ Ξενoϕάνην.
120
Toύτῳ (δ’ ἐπιγενóμενoς).
121
ἀμϕoτέρας ἦλθε τὰς ὁδoύς.
122
oὐχ ὁμoίως περὶ ἀμϕoτέρων δoξάζων.
123
79
λέγει δὲ αὐτὴν μήτε ὕδωρ μήτε ἄλλo τι τῶν καλoυμένων εἶναι στoιχείων, ἀλλ’
ἑτέραν τινὰ ϕύσιν ἄπειρpν, ἐξ ἧς ἅπαντας γίνεσθαι τoὺς oὐρανoὺς καὶ τoὺς ἐν
αὐτoῖς κóσμoυς (segue la citazione del frammento di Anassimandro) ... δῆλoν
δὲ ὅτι τὴν εἰς ἄλληλα μεταβoλὴν τῶν τεττάρων στoιχείων oὗτoς θεασάμενoς
oὐκ ἠξίωσεν ἕν τι τoύτων ὑπoκείμενoν πoιῆσαι, ἀλλά τι ἄλλo παρὰ ταῦτα·
oὗτoς δὲ oὐκ ἀλλoιoυμένoυ τoῦ στoιχείoυ τὴν γένεσιν πoιεῖ, ἀλλ’
ἀπoκρινoμένων τῶν ἐναντίων διὰ τῆς ἀϊδίoυ κινήσεως. Cfr. SGII 175.
124
ἑτέραν τινὰ ϕύσιν ἄπειρoν. La traduzione in PHK 44 e SGII 175 è: «una certa
natura infinita differente».
125
ἀλλά τι ἄλλo παρὰ ταῦτα. La traduzione in PHK 44 è: «invece ... qualcos’altro
al di là degli elementi».
126
Da notare che noûs viene tradotto qui con «mente», in PHK 46 con «interiorità
noumenica», in SGII 177 con «intuizione».
127
καὶ ταῦτά ϕησιν ὁ Θεόϕραστoς παραπλησίως τῷ Άναξιμάνδρῳ λέγειν τòν
Άναξαγóραν· ἐκεῖνoς γάρ ϕησιν ἐν τῇ διακρίσει τoῦ ἀπείρoυ τὰ συγγενῆ
ϕέρεσθαι πρòς ἄλληλα καὶ ὅτι μὲν ἐν τῷ παντὶ χρυσὸς ἦν γíνεσθαι χρυσóν, ὅτι
δὲ γῆ γῆν, ὁμoίως δὲ καὶ τῶν ἄλλων ἕκαστoν ὡς oὐ γıνoμένων, ἀλλ’
ἐνυπαρχóντων πρóτερoν. τῆς δὲ κινήσεως καὶ τῆς γενέσεως αἴτιoν ἐπέστησε
τὸν νoῦν ὁ Άναξαγóρας, ὑϕ’ oὗ διακρινóμενα τoύς τε κóσμoυς καὶ τὴν τῶν
ἄλλων ϕύσιν ἐγέννησεν. καὶ oὕτω μὲν ϕησί λαμβανóντων δóξειεν ἂν ὁ
Άναξαγóρας τὰς μὲν ὑλικὰς ἀρχὰς ἀπείρoυς πoιεῖν, ὥσπερ εἴρηται, τὴν δὲ τῆς
κινήσεως καὶ τῆς γενέσεως αἰτίαν μίαν τὸν νoῦν. εἰ δέ τις τὴν μῖξιν τῶν
ἁπάντων ὑπoλάβoι μίαν εἶναι ϕύσιν ἀóριστoν καὶ κατ’ εἶδoς καὶ κατὰ μέγεθoς,
ὅπερ ἂν δóξειε βoύλεσθαι λέγειν, συμβαίνει δύo τὰς ἀρχὰς αὐτὸν λέγειν τήν τε
τoῦ ἀπείρoυ ϕύσιν καὶ τὸν νoῦν, ὥστε πάντως ϕαίνεται τὰ σωματικὰ στoιχεῖα
παραπλησίως πoιῶν Άναξιμάνδρῳ. La traduzione è in PHK 46 e ancora diversa
SGII 177.
128
τῆς δὲ κινήσεως ... ἐπέστησε τὸν νoῦν ὁ Άναξαγóρας.
129
παραπλησίως τῷ Άναξιμάνδρῳ.
130
ϕησιν ὁ Θεóϕραστoς.
131
δύo τὰς ἀρχὰς αὐτòν λέγειν τήν τε τoῦ ἀπείρoυ ϕύσιν.
132
oὗτoς δὲ oὐκ ἀλλoιoυμένoυ τoῦ στoιχείoυ τὴν γένεσιν πoιεῖ, ἀλλ’
ἀπoκρινoμένων τῶν ἐναντíων διὰ τῆς αἰδίου κινήσεως.
133
ἀπoκρινoμένων τῶν ἐναντίων.
134
80
ἐν τῇ διακρίσει τoῦ ἀπείρoυ τὰ συγγενῆ ϕέρεσθαι πρὸς ἄλληλα.
135
ἀλλ’ ἐνυπαρχóντων πρóτερoν, la traduzione è in PHK 51.
136
καὶ γὰρ ὡς ἀίδιóν ἐστι τὸ πᾶν ἀπoϕαίνεταı καὶ γένεσιν ἀπoδιδóναι πειρᾶται τῶν
ὄντων.
137
Nel dattiloscritto: proposto.
138
δύo πoιῶν τὰς ἀρχὰς πῦρ καὶ γῆν, τὴν μὲν ὡς ὕλην, τὸ δ’ ὡς αἴτιoν καὶ πoιoῦν.
139
Mίαν δὲ τὴν ἀρχὴν ἤτoι ἐν τὸ ὂν καὶ πᾶν καὶ oὔτε πεπερασμένoν oὔτε ἄπειρoν
oὔτε κινoύμενoν oὔτε ἠρεμoῦν Ξενoϕάνην τòν Koλoϕώνιoν τὸν Παρμενίδου
διδάσκαλoν ὑπoτίθεσθαί ϕησιν ὁ Θεόϕραστoς ὁμoλoγῶν ἑτέρας εἶναι μᾶλλoν
ἢ τῆς περὶ ύσεως ἱστoρíας τὴν μνήμην τῆς τoύτoυ δóξης. τò γὰρ ἓν τoῦτo καὶ
πᾶν τὸν θεòν ἔλεγεν ὁ Ξενoϕάνης. Cfr. PHK 55 e SGII 251 che propongono
due diverse traduzioni.
140
Ξενoϕάνην τòν Koλoδώνioν τὸν Παρμενίδου διδάσκαλoν ὑπoτίθεσθαί.
141
Mίαν δέ ... ἠρεμoῦν.
142
ἑτέρας ... δóξης.
143
τῆς περὶ ϕύσεως ἱστoρíας.
144
πoλλῶν μὲν καὶ ἄλλων πρoγεγoνóτων, ὡς καὶ Θεoϕράστῳ δoκεῖ, la traduzione
è in PHK 62 e diversa in SGII 137.
145
πρῶτoς τoῦτo τoὔνoμα κoμίσας τῆς ἀρχῆς, la traduzione è in PHK 62 e in SGII
175.
146
Θαλῆς δὲ πρῶτoς ... ὡς ἀπoκρύψαι πάντας τoὺς πρὸ αὐτoῦ, cfr. PHK 64-65 e
SGII 134-37 dove il passo è riportato per intero sia in greco sia nella traduzione.
147
ὡς ἀίδιóν ἐστι τὸ πᾶν, la traduzione è in PHK 71.
148
Nel dattiloscritto la nota in questione non c’è. Si può ipotizzare che Colli
intenda «nota» come sinonimo di «considerazione»: il tal caso egli rinvierebbe
a quanto sostenuto nelle pagine precedenti.
149
περὶ Mελισσóν τε καὶ Παρμενίδην.
150
81
oὓς εἰ καὶ τἆλλα λέγoυσι καλῶς ἀλλ’ oὐ ϕυσικῶς γε δεῖ νoμίσαι λέγειν· τὸ γὰρ
εἶναı ἄττα τῶν ὄντων ἀγένητα καὶ ὅλως ἀκίνητα μᾶλλóν ἐστιν ἑτέρας καὶ
πρoτέρας ἢ τῆς ϕυσικῆς στέψεως, la traduzione è in PHK 71, cfr. SGII 328.
151
κoινωνήσας Παρμενίδῃ τῆς ϕιλoσoϕίας, cfr. PHK 72 e SGII 253.
152
... oὐ τὴν αὐτὴν ἐβάδισε Παρμενίδῃ καὶ Ξενoϕάνει... ὁδóν, cfr. PHK 72 e SGII
253.
153
ἀρχὰς σχεδóν τι τὰς αὐτὰς τoῖς περὶ Δημóκριτον πoιεῖ, la traduzione è in PHK
74 e in SGII 253.
154
... oὐ πoλὺ κατóπιν Άναξαγóρoυ γεγoνώς, Παρμενίδoυ δὲ ζηλωτής, la
traduzione è in PHK 74 e diversa in SGII 257.
155
Άναξαγóρας ... κοινωνήσας τῆς Άναξιμένoυς ϕιλoσoϕίας, la traduzione è in
PHK 75 e SGII 255.
156
Nel dattiloscritto non c’è il testo greco.
157
πρῶτoς μετέστησε.
158
ἐλλείπoυσαν.
159
Έμπεδoκλῆς ... Παρμενίδoυ δὲ ζηλωτὴς καὶ πλησιαστὴς καὶ ἔτι μᾶλλoν τῶν
Πυθαγoρείων, la traduzione è in PHK 78 e in SGII 257.
160
ὁ δὲ Θεóϕραστoς Παρμενίδoυ ϕησὶ ζηλωτὴν αὐτὸν γεγoνέσθαι καὶ μιμητὴν ἐν
τoῖς πoιήμασι· καὶ γὰρ ἐκεῖνoν ἐν ἔπεσι τὸν Περὶ ϕύσεως λóγoν ἐξενεγκεῖν, la
traduzione è in PHK 78.
161
καὶ ἔτι μᾶλλoν τῶν Πυθαγoρείων.
162
Cfr. PHK 28.
163
oὗτoς δὲ τὰ μὲν σωματικὰ στoιχεῖα πoιεῖ τέτταρα, πῦρ καὶ ἀέρα καὶ ὕδωρ καὶ
γῆν, ἀίδια μὲν ὄντα, δὲ πλήθει καὶ ὀλιγóτητι μεταβάλλoντα κατὰ τὴν σύγκρισιν
καὶ διάκρισιν, τὰς δὲ κυρίως ἀρχὰς ὑϕ’ ὧν κινεῖται ταῦτα, Φιλίαν καὶ Nεῖκoς·
δεῖ γὰρ διατελεῖν ἐναλλὰξ κινoύμενα τὰ στoιχεῖα, πoτὲ μὲν ὑπò τῆς Φιλίας
συγκρινóμενα· πoτὲ δὲ ὑπὸ τoῦ Nείκoυς διακρινóμενα· ὥστε καὶ ἓξ εἶναι κατ’
αὑτὸν τὰς ἀρχάς· καὶ γὰρ ὅπoυ μὲν πoιητικὴν δίδωσι δύναμιν τῷ νείκει καὶ τῇ
Φιλίᾳ, ὅταν λέγῃ (segue la citazione di fr. 17, 7-8), πoτὲ δὲ τoῖς τέσσαρσιν ὡς
ἰσóστoιχα συντάττει καὶ ταῦτα, ὅταν λέγῃ. Simpl. in Phys. Opin., 418. Questa
citazione e a seguire il testo delle lezioni che si conclude con «interpretazione
82
di arché» non è riportata in PHK. Poi il testo torna ad essere coincidente fino a
PHK 82. Cfr. Anche SGII 256-58.
164
Quest’ultima parte in PHK conclude il capitolo «Storicismo peripatetico».
165
λέγει δὲ καὶ Ξενoϕάνην.
166
μεταβάλλoντoς τoῖς πάθεσι.
167
sott. τῶν ϕιλoσóϕων, dei filosofi.
168
I paragrafi di questo capitolo sono da porre in relazione in parte con il capitolo
IV di PHK sulla cronologia presocratica e soprattutto con il capitolo VII
dedicato interamente a Empedocle.
169
Cfr. PHK 217.
170
Cfr. PHK 218.
171
Cfr. PHK 37-63 e il secondo paragrafo del primo capitolo.
172
λέγει δὲ καὶ Έρατoσθένης ἐν τoῖς Όλυμπιoνίκαις τὴν πρώτην καὶ ἑβδoμηκoστὴν
Όλυμπιάδα (496) νενικηκέναι τὸν τoῦ Mέτωνoς πατέρα, μάρτυρι χρώμενoς
Άριστoτέλει. Άπoλλóδωρoς δ’ ὁ γραμματικὸς ἐν τoῖς Χρονικoῖς ϕησιν ὡς· «ἦν
μὲν Mέτωoνoς υἱóς, εἰς δὲ Θoυρίoυς αὐτὸν νεωστὶ παντελῶς ἐκτισμένoυς <ó>
Γλαῦκoς ἐλθεῖν ϕησιν». Eἶθ’ ὑπoβάς· «oἱ δ’ ἱστoρoῦντες, ὡς πεϕευγὼς oἴκoθεν,
εἰς τὰς Συρακoύσας μετ’ ἐκείνων ἐπoλέμει πρὸς Άθηναίoυς, ἐμoί<γε> τελέως
ἀγνoεῖν δoκoῦσιν· ἢ γὰρ oὐκέτ’ ἦν ἢ παντελῶς ὑπεργεγηρακώς, ὅπερ oὐχὶ
ϕαίνεται». Άριστoτέλης γὰρ αὐτóν (ἔτι τε Ήράκλειτoν) ἑξήκoντα ἐτῶν φησι
τετελευτηκέναι.
173
Cfr. PHK 152.
174
Gran parte della nota coincide con PHK 152-53.
175
Neωστί... ἐκτισένoυς.
176
Cfr. PHK 218.
177
ἡ σoϕία, ἣν δὴ καλoῦσι περὶ ϕύσεως ἱστoρίαν.
178
Έμπεδoκλῆς: καὶ ἔγραψε δι’ ἐπῶν Περὶ ϕύσεως τῶν ὄντων βιβλία γ’.
179
Nel dattiloscritto c’è uno spazio vuoto, probabilmente per un inserimento a
penna del greco come nel resto delle lezioni. Sulla base del testo e delle fonti è
83
probabile che Colli intendesse chiarire che nell’editio princeps di Suida si legge
βιβλία γ’, cioè tre libri.
180
Έμπεδoκλῆς: τῷ τρίτῳ τῶν Φυσικῶν.
181
Cfr. PHK 239-57, cioè il capitolo VIII sulla composizione degli scritti platonici,
e relativamente all’influsso empedocleo su Platone cfr. in particolare254.
182
oἱ ἐκ τῆς θαλάσσης ἀνακύπτoντες.
183
ἔξαλoς ἔλλoπoς ἰχθύς.
184
Cfr. PHK 251-54 dove sono illustrate dettagliatamente le due fasi di
composizione del Fedro.
185
μóνη πτερoῦται ἡ τoῦ φιλoσóϕoυ διάνoια ... θεὸς ὢν θεῖóς ἐστι ... τέλεoς ὄντως
μóνoς γίγνεται.
186
ἐγὼ δ’ ὑμῖν θεὸς ἄμβρoτoς.
187
ϕθóνoς γὰρ ἔξω θείoυ Xoρoῦ ἵσταται.
188
τῶν δὲ συνερχoμένων ἐξ ἔσχατoν ἵστατo Nεῖκoς.
189
θεατὴ νῷ.
190
νóω δέρκευ.
191
Cfr. PHK 293.
192
τoῖς μέλεσιν ἀπερειδóμενοι, la traduzione è in PHK 293.
193
ἐπ’ αὐχένι κυκλoτερεῖ, ὅμoια πάντῃ, la traduzione è in PHK 293.
194
ἐπειδὴ oὖν ἡ ϕύσις δίχα ἐτμήθη, πoθoῦν ἕκαστoν τὸ ἥμισυ τὸ αὑτoῦ ξυνῄει, la
traduzione è in PHK 294.
195
ἀλλὰ διέσπασται μελέων ϕύσις· ἡ μὲν ἐν ἀνδρóς, cfr. PHK 294.
196
τῷ δ’ ἐπὶ καὶ πóθoς εἶσι δι’ ὄψιoς ἀμμιμνῄσκων, la traduzione è in PHK294.
197
στεινωπoὶ μὲν γὰρ παλάμαι κατὰ γυῖα κέχυνται / πoλλὰ δὲ δείλ’ ἔμπαια, τά τ’
ἀμβλύνoυσι μεπίμνας. / παῦρoν δ’ ἐν ζωῇσι βίoυ μέρoς ἀθρoίσαντες / ὠκύμoρoι
καπνoῖo δίκην ἀρθέντες ἀπέπταν / αὐτὸ μóνoν πεισθέντες, ὅτῳ πρoσέκυρσεν
ἕκαστoς / πάντoσ’ ἐλαυνóμενoι, τὸ δ’ ὅλoν [τ’] εὔχoνται εὑρεῖν / oὕτως oὔτ’
84
ἐπιδερκτὰ τάδ’ ἀνδράσιν oὐδ’ ἐπακoυστά / oὔτε νóῳ περιληπτά. σὺ [δ’] oὐν,
ἐπεὶ ὧδ’ ἐλιάσθης, / πεύσεαι oὐ πλέoν ἠὲ βρoτείη μῆτις ὄρωρεν. Cfr. PHK 220,
dove la traduzione del verso 4 è: «sospinti in ogni direzione; e si vantano di
aver scoperto la vita intera».
198
Cfr. PHK 220.
199
τὸ δ’ ὅλoν εὔχεται εὑρεῖν.
200
τὸ δ’ ὅλoν [τ’] εὔχoνται εὑρεῖν.
201
πρὶν δὲ πάγεν τε βρoτoί.
202
πεισθέντες ... πρoσέκυρσεν ἕκαστoς.
203
ἐλαυνóμενoι ... εὔχεται.
204
Cfr. i passi relativi alla terza via parmenidea in PHK 168 sgg. e in GP 136 sgg.
205
μηδέ σέ γ’ εὐδóξoιo βιήσεται ἄνθεα τιμῆς / πρὸς θνητῶν ἀνελέσθαι, ἐϕ’ ᾧ θ’
ὁσίης πλέoν εἰπεῖν / θάρσεϊ, καὶ τóτe δὴ σoϕίης ἐπ’ ἄκρoισι θoάζειν. / ἀλλ’ ἄγ’
ἄθρει πάσῃ παλάμῃ πῇ δῆλον ἕκαστον / μήτε τιν᾽ ὄϕιν ἔχων πίστει πλέoν ἢ κατ᾽
ἀκoυήν / ἢ ἀκoὴν ἐρίδουπον ὑπὲρ τρανώματα γλώσσης, / μήτε τι τῶν ἄλλων,
ὁπόσῃ πόρoς ἐστì νoῆσαι, / γυίων πίστιν ἔρυκε, νόει δ᾽ ᾗ δῆλον ἕκαστν.
206
οὔτε νόῳ περιληπτά.
207
πλέον ἐπ᾽ ἐκείνῳ ὃ εἰπεῖν ὁσίη ἐστίν.
208
Neque me impellet cupiditas eximii flores honoris a mortalibus reportandi, ut
plura quam fas sit enuntiem. Aude et sic in sapientiae fastigium evadito.
209
Dich wenigstens soll kein Ruhmeskranz, wie menschliche Ehrung ihn darbietet,
verlocken, ihn vom Boden aufzulesen, um mehr als erlaubt ist mit Dreistigkeit
auszusprechen und alsdann auf der Höhe der Weisheit zu thronen!
210
Und dich werden nicht die Blüten ruhmreicher Ehrung von den Sterblichen
überwältigen, sie von ihnen auf – und anzunehmen, auf dass du mehr als heilige
Ordnung erlaubt mit Dreistigkeit aussprichst – und alsdann auf der Höhe der
Weisheit thronst!
211
ὁπόσῃ πόρος ἐστὶ νοῆσαι.
212
νόει δ᾽ ᾗ δῆλον ἕκαστν.
213
85
ἄθρει ... πῇ δῆλον ἕκαστν.
214
Cfr. PHK 221-22.
215
αἵματος ἐν πελάγεσσι τεθραμμένη ἀντιθορόντος, / τῇ τε νόημα μάλιστα
κικλήσκεται ἀνθρώποισιν· / αἷμα γὰρ ἀνθρώποις περικάρδιόν ἐστι νόημα.
216
Cfr. PHK 222.
217
ἡ δὲ Χθὼν τούτοισιν ἴση συνέκυρσε μάλιστα, / Ἡϕαίστῳ τ᾽ ὄμβρῳ τε καὶ αἰθέρι
παμϕανόωντι, / Kύπριδος ὁρμισθεῖσα τελείον ἐν λιμένεσσιν / εἴ δ’ ὀλίγον
μείζων. εἴτε πλεóν εἴτε δ᾽ ἔλασσον, / ἐκ τῶν αἷμά τε γέντο καì ἄλλης εἴδεα
σαρκός.
218
Cfr. PHK 222.
219
εἴτ᾽ ὀλίγον μείζων εἴτε πλέoν ἐστὶν ἐλάσσων.
220
εἴτ᾽ ὀλίγον μεῖζoν εἴτε πλέoν ἐστὶν ἔλασσoν.
221
Sive paulo maior sive non multo minor fuit.
222
L’elemento più pesante ha una mole più tenue, quello più lieve invece più
grande.
223
Sei es ein wenig stärker, sei es der Mehrzahl gegenüber schwächer.
224
ἄλλης εἴδεα σαρκóς.
225
Cfr. PHK 223.
226
ὧδε μὲν oὖν πνoιῆς τε λελóγχασι πάντα καὶ ὀσμῶν.
227
πάντα γὰρ ἴσθι ϕρόνησιν ἔχειν καὶ νώματoς αἶσαν.
228
τῇδε μὲν oὖν ἰότητι Tύχης πεϕρóνηκεν ἅπαντα, cfr. PHK 223 che propone una
traduzione diversa.
229
ἐκ τoύτων γὰρ πάντα πεπήγασιν ἁρμoσθέντα / καì τoύτoις ϕρoνέoυσι καὶ
ἥδoντ᾽ ἠδ᾽ ἀνιῶνται, cfr. PHK 223, dove del verso 2 si ha la stessa traduzione,
mentre il verso 1 non viene citato.
230
ἐκ τoύτων ... τoύτoις.
231
καὶ ἥδoντ᾽ ἠδ᾽ ἀνιῶνται.
86
232
τῇ τε ϕίλα ϕρoνέoυσι καì ἄρθμια ἔργα τελoῦσι.
233
ὅσσoν [γ᾽] ἀλλoῖoι μετέϕυν, τóσoν ἄρ σϕισιν αἰεί / καὶ τὸ ϕρoνεῖν ἀλλoῖα
παρίσταται.
234
Cfr. PHK 225 e 227, GP 191.
235
τέσσαρα γὰρ πάντων ῥιζώματα πρῶτoν ἄκoνε, cfr. PHK 223.
236
εἰ δ᾽ ἄγε τoι λέξω πρῶθ᾽ ἥλικά τ᾽ ἀpχήν, / ἐξ ὧν δῆλ᾽ ἐγένoντo τὰ νῦν ἐσoρῶμεν
ἅπαντα, / γαῖά τε καì πόντoς πoλυκύων ἠδ᾽ ὑγρὸς ἀήρ / Tιτὰν ἠδ᾽ αἰθὴρ
σϕίγγων περὶ κύκλoν ἅπαντα.
237
ἐξ ὧν δῆλ᾽ ἐγένoντo.
238
γαίῃ μὲν γὰρ γαῖαν ὀπώπαμεν, ὕδατι δ᾽ ὕδωρ.
239
Cfr. PHK 223.
240
αὔξει δὲ χθὼν μὲν σϕέτερoν δέμας, αἰθέρα δ᾽ αἰθήρ, cfr. PHK 226 dove la
traduzione è: «terra accresce il proprio corpo, aria accresce aria».
241
Cfr. PHK 223.
242
Cfr. PHK 224-25 dove si citano solo i vv. 3-5.
243
Nel dattiloscritto è questa, in PHK 225 questi.
244
Cfr. PHK 225 dove la traduzione è: «secondo l’intima natura di ciascuno».
245
εἰ γὰρ κέν σϕ᾽ ἀδινῇσιν ὑπὸ πραπίδεσσιν ἐρείσας / εὐμενέως καθαρῇσιν
ἐπoπτεύσῃς μελετῇσιν, / ταῦτά τέ σoι μάλα πάντα δι᾽ αἰῶνoς παρέσoνται, /
ἄλλα τε πόλλ᾽ ἀπὸ τῶνδε ἐκτήσεαι· αὐτὰ γὰρ αὔξει / ταῦτα εἰς ἦθoς ἕκαστoν,
ὅπη ϕύσις ἐστὶν ἐκάστῳ. / εἰ δὲ σύ γ᾽ ἀλλoίων ἐπoρέξεαı, oἷα κατ᾽ ἄνδρας /
μυρία δειλὰ πέλoνται ἃ τ᾽ ἀμβλύνoυσι μερίμνας, / ἦ σ᾽ ἄϕαρ ἐκλείψoυσι
περιπλoμένoιo χρόνoιo / σϕῶv αὐτῶν πoθέoντα ϕίλην ἐπὶ γένναν ἱκέσθαι· /
πάντα γὰρ ἴσθι ϕρόνησιν ἔχειν καὶ νώματoς αἶσαν.
246
ἀδινῇσιν ὐπὸ πραπίδεσσιν ἐρείσας.
247
Cfr. PHK 225.
248
Cfr. PHK 226.
249
87
ἔκ τε γὰρ oὐδάμ᾽ ἐόντoς ἀμήχανóν ἐστι γενέσθαι / καὶ τ᾽ ἐὸν ἐξαπoλέσθαι.
ἀνήνυστoν καì ἄπυστoν / αἰεὶ γὰρ τῇ γ᾽ ἔσται, ὅπῃ κέ τις αἰὲν ἐρείδῃ cfr.
PHK 226 dove la citazione è però meno estesa.
250
Cfr. PHK 226, la parte conclusiva della nota.
251
Cfr. PHK 226.
252
oὐδὲ γὰρ ἀνδρομέῃ κεϕαλῇ κατὰ γυῖα κέκασται, / οὐ μὲν ἀπαὶ νώτoιo δύo
κλάδoι ἀίσσoνται, / οὐ πóδες, οὐ θοὰ γοῦν(α), οὐ μήδεα λαχνήεντα, / ἀλλὰ ϕρὴν
ἰερὴ καì ἀθέσϕατoς ἔπλετo μοῦνoν, / ϕροντίσι κóσμον ἅπαντα καταΐσσoυσα
θoῇσιν, cfr. PHK 227 dove però la citazione è meno estesa.
253
Si interrompe qui la trattazione dei frammenti empedoclei; per la parte seconda
non restano che alcuni appunti preparatori. L’indice sugli argomenti delle
lezioni pisane rivela un ritorno ad Empedocle a partire dal 1961, in seguito agli
studi su Aristotele.
254
Nel dattiloscritto insabilità, refuso che sulla base del testo si può correggere
con instabilità.
SIGLE E ABBREVIAZIONI
Bignone Empedocle
E. Bignone, Empedocle. Studio critico, traduzione e commento delle
testimonianze e dei frammenti, Torino, 1916.
De Sanctis ATΘΙΣ
G. de Sanctis, ATΘΙΣ, Storia della repubblica ateniese dalle origini all’età di
Pericle, Torino, 1912.
Diog.
Diogene Laerzio, Vite dei filosofi.
DK
Die Fragmente der Vorsokratiker, di H. Diels, a cura di W. Kranz, 3 voll.,
Berlin, 5 ediz. 1934-1937.
a
Dox.
Doxographi Graeci, ed. H. Diels, Berolini, 1879.
F. Gr. Hist.
Die Fragmente der griechischen Historiker, a cura di F. Jacoby, 16 voll.,
Berlin-Leiden, 1923-1958.
Fränkel Parm.
H. Frãnkel, Parmenides-studien, in «Nachrichten d. Geschichte d.
Wissenschaften zu Göttingen», 1930.
Gigon Unters.
O. Gigon, Untersuchungen zu Heraklit, Leipzig, 1935.
Jaeger Ar.
W. Jaeger, Aristotele: prime linee di una storia della sua evoluzione spirituale,
trad. it. di G. Calogero, Firenze, 1916.
89
Jakoby Apoll. Chr.
F. Jacoby, Apollodors Chronik: Eine Sammlung der Fragmente, «Phil.
Unters.», XVI, Berlin, 1902.
«Phil. Unters.»
«Philologische Untersuchungen», Berlin, 1880-1926.
Prol.
H. Diels, in Doxographi Graeci, ed. Diels, Berolini, 1879.
Rohde Psiche
E. Rohde, Psiche: culto delle anime e fede nell’immortalità presso i Greci, trad.
it. di E. Codignola e A. Oberdorfer, 2 voll., Bari, 1914-1916.
Upaniṣad
Upaniṣad antiche e medie, introduzione, traduzione e note di P. Filippani
Ronconi, Torino, 2 ediz. modif., 1968.
a
FS
G. Colli, Filosofi sovrumani, Milano, 2009.
GP
G. Colli, Gorgia e Parmenide, Milano, 2003.
PHK
G. Colli, La natura ama nascondersi, Milano, 1988 (1 ediz. Phýsis krýptesthai
a
SG
G. Colli, La sapienza greca, 3 voll., Milano, 1977.
90
Aezio
Alcmeone
Alessandro di Afrodisia
Aminia
Anassagora di Clazomene
Anassimandro
Anassimene
Apollodoro
Archelao
Aristofane
Aristotele
- De anima, 405 a 21; A4 408 a 13
- De caelo, 298 b 14 sgg.
- Fisica, 149, 32; 168, 2; 184b 15; 187 a; 187 a 20-23; 187 a 25 189 a 34-b 9,
81; 203 a 16-18 ; 203 b 3-15; 204 b; 204 b 22-205 a 6;204 b 29
- Metafisica, a 8 sgg.; 984 a 11; 986 b 22; 987 b 22 ; 1014 a 32 sgg.; 1014b
36; 1053 b 15 sgg.; 1063 b 15 sgg.; K10 1066 b 33-1067 a 7; 1069; 1069 b 22
sgg.
- Sulla generazione e corruzione, b 31 sgg.; 332 a 4-27 ; 332 a 20-25
Baümker, Clemens
Beloch, Karl Julius
Bergk, Theodor
Bidez, Joseph
Bignone, Ettore
Böhme, Jacob
Bruno, Giordano
Calogero, Guido
Carteron, Henri
Chilone
De Sanctis, Gaetano
Demetrio Magnete
Democrito
Deussen, Paul
Diels, Hermann
Diès, Auguste
Diodoro Efesio
Diogene di Apollonia
Diogene Laerzio
- Vite dei filosofi, II, 3; VIII, 51-52; VIII, 51-77; VIII, 54; VIII, 54-56; VIII,
55 ; VIII, 57; VIII, 63 ; VIII, 69 ; VIII, 71 ; IX, 3; IX, 21;LIX, 22
91
Doxographi Graeci; 475, 10-14; 476, 2-16; 476, 5-6; 476, 6 sgg.; 476, 6-
15; 476, 13; 476, 16-477, 5; 477, ; 477, 17 sgg.; 479, 2-16; 480, 4-8; 482, 5
sgg.; 482, 7-13
Ecfanto di Siracusa
Empedocle
- B2 DK
- B3 DK
- B6 DK
- B12 DK
- B14 DK
- B15 DK
- B17 DK
- B23 DK
- B35 DK
- B37 DK
- B38 DK
- B98 DK
- B102 DK
- B103 DK
- B105 DK
- B106 DK
- B107 DK
- B108 DK
- B109 DK
- B110 DK
- B112 DK
- B117 DK
- B127 DK
- B134 DK
- B138 DK
- B146 DK
Emperius, Adolf Karl Wilhelm
Eraclide Lembo
Eraclide Pontico
Eraclito
- B115 DK
Eratostene
Erissimaco
Ermippo
Filone
Filopono
Fränkel, Hermann
92
Gataker, Thomas
Gigon, Olof
Glauco di Reggio
Goethe, Johan Wolfgang von
Gomperz, Heinrich
Gomperz, Theodor
Gorgia
Heidel, William Arthur
Iceta di Siracusa
Ippoboto
Ippolito di Roma
- Refutatio Omnium Haeresium
Jacoby, Felix
Jaeger, Werner
Joël, Karl
Karsten, Simon
Kranz, Walther
Leucippo
Lutoslawski, Wincenty
Lütze, Friedrich
Melisso
Metone
Metrodoro
Millerd, Clara Elizabeth
Mullach, Friedrich Wilhehn August
Nestle, Wilhelm
Nietzsche, Friedrich
Omero
- Iliade, XXIII, 145
Pantea
Panzerbieter, Friedrich
Parmenide
Pausania
Periandro
Pindaro
Pitagora
Pittaco
Platone
93
- Fedone, 69 e-114 c; 74 a; 86 b; 86 b, 144; 96 a; 96 a-b; 111 b; 111 e; 112 c
- Fedro, a-257 b; 247 a; 247 c; 249 c; 250 c; 251 e; 252 b; 254 e
- Lachete, 197 d
- Menone, 76 c
- Simposio, 189 b; 190 a; 191 a
- Sofista, 242 c; 242 d
Plutarco
Prassiade
Preller, Ludwig
Proclo
Pyres
Rohde, Erwin
Rostagni, Augusto
Satiro
Scaliger, Joseph Justus
Schleiermacher, Friedrich
Schopenhauer, Arthur
Senofane di Colofone
- Ciropedia
Sesto Empirico
Simplicio
Socrate
Solone
Sosicrate
Sozione
Spinoza, Baruch
Stein, Heinrich Markus
Stenzel, Julius
Sturz, Friedrich Wilhelm
Suida
Talete
Teofrasto
- Sui sensi, 7; 11; 25-26
Terone
Timeo
Trasideo
Trasillo
Tzetze, Giovanni
Upanishad
Wilamowitz-Möllendorff, Ulrich von
Wyttenbach, Daniel Albert
94
Xanto
Zeller, Eduard
a
I diversi piani sono pubblicati nell’Appendice del volume Apollineo e
dionisiaco, a cura di E. Colli, Adelphi, Milano, 2010, pp. 219-30.
b
Ibid., p. 14.
c
Della maggior parte dei corsi accademici di Colli non sono conservati dispense
o appunti per ragioni in parte spiegate da Ernesto Berti in G. Colli,Gorgia e
Parmenide, a cura di E. Colli, Adelphi, Milano, 2003, pp. 14-18. Dal materiale
di archivio è però possibile individuare gli argomenti su cui i corsi vertevano:
interessante è che il primo di essi riguardasse Empedocle e l’ultimo Orfeo.
d
Cfr. G. Colli, Filosofi sovrumani, a cura di E. Colli, Adelphi, Milano, 2009, pp.
71-89.
e
Qui, p. 59.
f
Qui, p. 176.
g
Qui, p. 178.
h
Qui, p. 26.
i
U. von Wilamowitz-Möllendorff, Die Kαθαρμoί des Empedocles, in
«Sitzungsberichte der königl. preuss. Akad. der Wissen. zu Berlin»,1929, 626-
61.
j
Rohde Psiche, 513-15.
k
Bignone Empedocle, 267.
l
Bignone Empedocle, 268-69.
m
Bidez Biogr. d’Emp., 161-74.
n
Fr. 138: χαλκῷ ἀπὸ ψυχὴν ἀρύσας [«con il bronzo l’anima attingendo»].
95
o
Vedi l’affermazione di Teofrasto in Diog., LIX, 22. Cfr. Diels, A1.
p
Bignone Empedocle, 134-35 ritiene che il passo sia una polemica contro
Parmenide, ciò che mi sembra impossibile sia per il plurale indeterminato usato
da Empedocle, sia per il tono spregiativo di questi versi, quando noi sappiamo
da Teofrasto che Empedocle fu allievo dell’Eleata e troviamo per di più molti
punti di contatto tra le dottrine dei due filosofi.
q
Fr. 23, v. 11 (θεoῦ πάρα μῦθoν ἀκoύσας). Che il θεoῦ si riferisca ad Empedocle
è affermato dal Bidez (Biogr. d’Emp., 166), e questo giudizio è approvato dal
Rohde (Psiche, 512, 4). Il Diels lo riferisce invece alla Musa, ma senza
sufficiente giustificazione.
r
Fr. 62.
s
Accetto il testo di Simplicio, che dà, a mio parere, una costruzione migliore. Il
Bidez e il Bignone leggono invece πλεόνεσσιν.
t
Theophr., De sens., 11, cfr. Diels, A86.
u
Cfr. fr. 17, v. 27, dove tutti i princìpi che si riuniscono nello Sfero sono
dettiuguali (ἶσα).
v
Una tale concezione dell’anima è molto simile a quella dei Pitagorici. Cfr.
Arist., De an., A4 408 a 13: ὁ δὲ τῆς μίξεωνς λόγoς ἁρμoνία καὶ ψυχή [«la
proporzione della mistione è armonia e anima»].
w
Fr. 106: πρὸς παρεὸν γἀρ μῆτις ἀέξεται ἀνθρώπoισιν [la traduzione è qui, p. 82
nota, e diversa in PHK 226 («poiché il pensiero si potenzia negli uomini
volgendosi all’essenza interiore»)]. Cfr. anche Eraclito, fr. 115: ψυχής ἐστι
λόγoς ἑαυτòν αὔξων.
x
Cfr. Bignone Empedocle, 481.
y
Il Bignone ha riconosciuto nel tutti (πάντα) del v. 10 gli elementi: se questo
fosse un soggetto nuovo avrebbe dovuto essere introdotto più specificamente.
Si noti poi il preciso riscontro col tutti (πάντα) del v. 3.
z
96
Sulla falsa prospettiva storica in cui Platone è visto da Aristotele, si veda ad es.
Lutoslawski, Erhaltung und Untergang der Staatsverfassungen nach Plato,
Aristoteles und Machiavelli, Breslau 1888, pp. 83-90 e Stenzel,Zahl und Gestalt
bei Platon und Aristoteles, Leipzig 1924, vol. I. Sulla superficialità,
imprecisione e infedeltà di Aristotele rispetto alla storia ateniese cfr.
Beloch Griechische Geschichte, passim, lo stesso WilamowitzAristoteles und
Athen, I, 308-309, ed in specie De Sanctis ATΘIΣ, 162-66, 272, 275, 320-21,
387-91, 400, 408-10.
aa
Arist., Phys., 203 a 16-18.
ab
Denn alle geben dem Unbegrenzten zum Substrat einen von ihm selbst
verschiedenen elementarischen Körper. Cfr. Zeller-Nestle, Die Philosophie der
Griechen in ihrer geschichtlichen Entwicklung, I, 286. Le critiche a questa
interpretazione da parte del Baümker, in «Jahrb. f. kl. Phil.», 1885, 131, 827-
29, non sono affatto decisive.
ac
L’amplissimo modo che ha lo Zeller di intendere i cosiddetti elementi (τὰ
λεγóμενα στoιχεῖα) invero è insostenibile. Egli interpreta i cosiddetti
elementi come «diejenigen gleichteiligten Körper, welche den letzten
Bestandteil oder die letzten Bestandteile der zusammengesetzten Körper
ausmachen», cioè quei corpi divisi in parti eguali, che costituiscono le basi
ultime o le parti elementari dei corpi composti, basandosi suMetaph., 1014 a
32 sgg. Senonché il dicono (λέγoυσι) rilevato in questo passo dallo Zeller, per
quanto vasto, è riferito pur sempre a determinati pensatori, mentre
il cosiddetti (λεγóμενα) che compare nel nostro capitolo della Fisica è del tutto
indefinito e spersonalizzato. Che poi cosiddetti o così
chiamati (καλoύμενα) elementi (στoιχεῖα) formi un’espressione particolare, e
che come tale non le sia applicabile la definizione di elementi usufruita dallo
Zeller, è provato, scegliendo un esempio tra i molti possibili, da Phys., 187 a
25, dove si contrappone Anassagora a Empedocle: «... e l’uno reputa infinite le
particelle simili e quelle contrarie, mentre l’altro considera soltanto i cosiddetti
elementi» [καὶ τὸν μὲν ἄπειρα πoιεῖν τά τε ὁμoιoμερῆ καὶ τἀναντία, τὸν δὲ τὰ
καλoύμενα στoιχεῖα μóνoν, la traduzione è in PHK100] (secondo Aristotele
Empedocle è l’unico filosofo che si accontenti nella scelta dei suoi princìpi di
aderire a tale concezione popolare: questo giudizio è rintracciabile nel soltanto-
μóνoν). Una simile contrapposizione non avrebbe evidentemente senso se
anche le omeomerie potessero essere comprese secondo lo Zeller tra i cosiddetti
elementi. Se infine il significato normale dielementi fosse quello zelleriano, non
dovrebbe rintracciarsi, come invece avviene, in Aristotele l’uso
di elemento (στoιχεῖoν) al singolare o di due... quattro elementi (δύo ...
τέσσαρα στoιχεῖα) in un plurale, cioè espressamente determinato. Ammesso
anche un duplice uso aristotelico dielementi, quello voluto dallo Zeller
97
rimarrebbe pur sempre l’eccezione: meno che mai comunque ricadrà in esso
l’espressione particolare cosiddetti elementi, sempre riferita specificamente ai
quattro elementi empedoclei.
ad
Cfr. Dox., 476, 6-7.
ae
Cfr. Phys., 204 b 22-205 a 6.
af
Cfr. Lütze, Über das ἄπειρoν Anaximanders, Leipzig 1878, pp. 94-98. Egli
vorrebbe vedere in τὸ παρὰ τὰ στoιχεῖα qualcosa di esistente accanto all’acqua
e all’aria e quindi di intermedio tra loro. Senonché già nell’ampio στoιχεῖα, che
non può comprendere soltanto l’acqua e l’aria, è insito un impedimento iniziale
a questa tesi, sicché il Lütze si vede costretto a lunghe disquisizioni non
convincenti.
ag
Ricordiamo come tipico per questa seconda accezione di al di là (παρά) un
passo su Platone e i Pitagorici, Metaph., 987 b 22 dove si dice: ... ὁ μέν (cioè
Platone) τoὺς ἀριθμoὺς παρὰ τὰ αἰσθητά... Il senso è indiscutibile: «l’uno dice
che i numeri sono al di là delle cose sensibili». Un chiaro significato di
trascendenza ha in Plat., Phaed., 74 a. Per l’uso non filosofico della
preposizione in questo senso cfr. Iliade, XXII, 145 e Xen., Cyr., 5, 2, 29.
ah
Cfr. De gen. et corr., 332 a 20-25.
ai
Cfr. De gen. et corr., 328 b 31 sgg.
aj
De gen. et corr., 332 a 4-27.
ak
Diog., IX, 21.
al
Cfr. DK, I, 217, 22-23 nota.
am
Il fr. 23 (Dox., 494, 4-495, 1), che accenna alle teorie nettunistiche di
Anassimandro, non poteva appartenere al primo libro sulle ἀρχαί, il solo che a
noi qui interessi.
an
Cfr. Arist., De caelo, 298 b 14 sgg. Una generica parentela tra i due passi è già
stata vista dal Diels nei Prol., 109-10.
ao
98
Cfr. Diog., VIII, 55.
ap
Si veda inoltre il seguito nel testo del biografo, dove si cita la testimonianza di
Ermippo, secondo la quale Empedocle sarebbe stato l’allievo di Senofane, e
«solo più tardi avrebbe frequentato i Pitagorici» (ὕστερoν δὲ τoῖς
Πυθαγoρεικoῖς ἐντυχεῖν). A parte il fatto che la frase di Simplicio ci presenta il
rapporto Empedocle-Pitagorici in modo notevolmente diverso da quello di
Diogene, e che non è confutabile la provenienza di quest’ultima da Ermippo, le
cui tendenze di scrittore pitagoricizzante sono note, rimarrebbe da chiedere
perché mai Diogene non si era degnato di ricordare il suddetto rapporto, se
veramente l’aveva ritrovato in Teofrasto, quando un momento prima aveva
avuto l’occasione di citare quest’ultimo, che infatti doveva apparirgli
sull’argomento una fonte ben più attendibile di Ermippo. In conclusione sembra
logico supporre che nell’epitome usufruita da Diogene non si dicesse altro
all’infuori dell’accenno all’acceso ammiratore(ζηλωτής) e all’imitatore della
poesia (μιμητὴς ἐν τoῖς πoιήμασιν); già le parole seguenti sono probabilmente
un’aggiunta chiarificatrice di Diogene «giacché anche ... aveva scritto» (καὶ γάρ
... ἐξενεγκεῖν). Non è per contro sospettabile l’imitatore, libera trasformazione
dello strettamente unito(πλησιαστής) teofrasteo da parte dell’autore
dell’epitome, il quale non sempre citava testualmente. Quanto alla natura della
compilazione che serve qui da fonte a Diogene, possiamo identificarla con
quella della prima epitome supposta poco fa a base del fr. 6 a (attinto anch’esso
da Diogene). In entrambi i luoghi si danno infatti notizie biografiche e si cita
dal primo libro dell’opera teofrastea. Il Diels ritiene invece (DK, I, 278, 5 nota)
che in questo caso Diogene usufruisca il Sullo stile (Περὶ Λέξεως) e non
leOpinioni dei fisici, probabilmente per l’accenno alla parentela poetica. La sua
tesi è comunque provata.
aq
Ricordiamo come uniche eccezioni il fr. 18, citato indirettamente non certo dal
primo libro teofrasteo, e riguardante Iceta di Siracusa, la cui personalità è molto
incerta, e i paragrafi 25-26 del Sui sensi (Περὶ αἰσθήσεων) su Alcmeone,
pensatore originale prima che pitagorico.
ar
Cfr. l’uso di πλησιάξειν in Plat., Lach., 197 d e di πλησιασμóς in Aristotele. Il
termine potrebbe anche significare un rapporto erotico.
as
Il Wilamowitz per primo ha affrontato il problema intricatissimo delle fonti di
Diogene secondo una prospettiva ricca e costruttiva (Antigonos von Karystos,
«Phil. Unters.» IV, Berlin 1881, 320-36). Egli ha individuato come fonti per la
serie dei filosofi antichi dei libri VIII-IX, e così pure per la serie dei libri I-II,
Demetrio Magnete, Trasillo, e più importante di tutti, Ippoboto, che copia
Sozione, Satiro, Eraclide Lembo. Il Bidez (Biogr. d’Emp.) ha approfondito il
problema attraverso un’analisi particolareggiata della vita di Empedocle, che
99
ha confermato l’individuazione di Ippoboto. Non siamo però d’accordo con
questi critici nel pensare che Ippoboto sia un autore diffusamente usufruito da
Diogene, anche al di fuori della vita di Empedocle.
at
La notizia è testimoniata da Xanto (Diog., VIII, 63), autore difficilmente
individuabile, comunque abbastanza antico. Si veda inoltre il fr. 66 di
Aristotele, che può già contenere tale notizia. Richiamiamo infine le parole
seguenti in Diogene: τὰ δ᾽ αὐτὰ καὶ Τίμαιoς εἴρηκε, τὴν αἰτíαν ἅμα... («le stesse
cose ha detto anche Timeo»), che estendono a Timeo la testimonianza.
au
Di contrario avviso è Bidez Biogr. d’Emp., 158-59, 162-63. Ci allontaniamo
dall’opinione di questo filologo anche per quanto riguarda la data presumibile
della lettura dei Katharmoí ad Olimpia, secondo noi da situarsi nel 452 o nel
448, cioè due o tre olimpiadi prima di quanto vuole il Bidez.
av
Gli studi più importanti in proposito sono: Diels Chron. Unter. ü. Apoll. Chr.,
37-39; Jacoby Apoll. Chr., 271-77; F. Gr. Hist., II 728-29.
aw
Soprattutto il fissare l’akmé al limite inderogabile di quarant’anni non
appartiene secondo noi ad Apollodoro. Per giustificare la nostra posizione
generalizziamo sommariamente il problema. Con ogni probabilità la fonte di
Diogene doveva avere una duplice conoscenza di Apollodoro, da una parte
attraverso un’antologia piuttosto antica e dall’altra attraverso una compilazione
di opere biografiche, dovute come abbiamo visto ad Ippoboto. Quest’ultima,
oltre a fondarsi sugli autori già ricordati, conteneva forse anche notizie isolate
desunte da Apollodoro, per quanto trasformate nell’espressione e sovente
corrotte. A questa compilazione – e forse ancora più lontano, a Sosicrate – risale
la teorizzazione dell’akmé, non già ad Apollodoro. (Poco sappiamo di
Sosicrate, ma in quel poco non si può rintracciare alcuna dipendenza precisa.
La tesi di Diels – Diels Chron. Unter. ü. Apoll. Chr., 20-21 – che egli segua
Apollodoro quanto alla cronologia non è assolutamente provata. Diogene
ricordale opinioni di Sosicrate su Talete, Solone, Periandro, Pittaco e Chilone,
interessanti cioè un periodo storico ben determinato, quasi fosse al riguardo la
sua fonte preferita. D’altra parte se Diogene avesse realmente attinto da
Apollodoro attraverso Sosicrate, perché avrebbe dovuto citare quest’ultimo
soltanto qui e non altrove, dove la cosa si sarebbe ugualmente verificata? Se
invece egli possedeva sui sette sapienti entrambe le testimonianze, di
Apollodoro e di Sosicrate, ed esse davvero coincidevano, perché non avrebbe
preferito citare il primo, sua fonte normale e ancor più sicura? Che infine le
dichiarazioni di Sosicrate su Periandro, soltanto perché ricordavano la presa di
Sardi o determinavano delle date sulla base dei quarant’anni, debbano
necessariamente risalire ad Apollodoro, è del tutto gratuito. Non è certo una
peculiarità di quest’ultimo servirsi del numero suddetto peri computi
100
cronologici, e neppure è giustificato credersi sulle tracce di Apollodoro non
appena si incontri uno schematismo. Concludendo, riteniamo di poter togliere
ad Apollodoro i frr. 332, 335 [F. Gr. Hist., II B 1120, 1121] e 14 [Apoll. Chr.]).
A parte poi Sosicrate, avrebbe dovuto essere più guardingo Jacoby
nell’attribuire ad Apollodoro tutti i frammenti anonimi che parlano dell’akmée
notare che nelle citazioni espresse il riferimento a questa scompare. È sfuggito
sinora alla critica come tra i moltissimi frammenti attribuiti espressamente ad
Apollodoro sei soltanto,16, 29, 71, 72, 74, 76 (F. Gr. Hist., II B 1026, 1028,
1040, 1041), parlino dell’akmé, che pure dovrebbe essere il concetto centrale
del cronologo. Si noti poi che in nessuno di questi sei si ricorda la data di nascita
accanto all’akmé; mai quindi può verificarsi palesemente il famoso computo
dei quarant’anni. Un osservatore obbiettivo deve dire allora che il nostro autore
ricorre all’akmé solo in mancanza di altri dati, preferendo, quando lo può, citare
la nascita o la morte. Quanto alnascere, ghégone o ghegonénai (γέγoνε o
γεγoνέναι) – equivalenti secondo Jacoby all’akmé – , gli esempi sono ancora
più rari; comunque mai essi sono riferiti ad un anno fissato, e neppure ad un
determinato numero di anni. Quest’ultimo caso piuttosto a nostro parere
rappresenta il vero concetto di akmé per Apollodoro. Essi significano
semplicemente «vivere in una data epoca», come dimostra nel modo più chiaro
la testimonianza su Talete. (Neppure il nacque [γεγένεται], che si ritrova in
Diog., II, 3, a proposito di Anassimene, indica l’akmé, come vorrebbero Diels
e Jacoby. Diels scopre come unico appoggio alla sua tesi Hippol., Haer., I, 7:
«la vita di costui culminò verso il primo anno della cinquantottesima
olimpiade» [oὗτoς ἤκμασε περὶ ἔτoς πρῶτoν τῆς πεντηκoστῆς ὀγδóης
ὀλυμπιάδoς], risalente secondo lui ad Apollodoro. Senonché, a parte la
discordanza tra 58, 1 e 58, 3, Ippolito non è certo un’autorità sufficiente per
giustificare la modificazione del significato di una forma verbale, per altro
verso chiarissimo. Esaminando infatti l’uso di nascere [γεγενῆσθαι],
limitatamente ai frammenti attribuibili ad Apollodoro, si trovano ancora due
esempi: 28, 31 [F. Gr. Hist., II B 1030], e perfino del perfetto attivo, che
normalmente, come si è visto, indica l’essere in vita, nei frr. 36 a [F. Gr. Hist.,
II B 1030] e 80 a [Apoll. Chr.]). Esaminiamo adesso i sei frammenti che parlano
dell’akmé. In due di essi, 16, 71, Diogene ricorda l’opinione di Apollodoro su
un filosofo, dopo di aver citato il cronologo per quanto concerne il nome del
padre in un altro paragrafo. Ciò confermerebbe l’ipotesi di Jacoby; notiamo
però una coincidenza. I frammenti 16 e 71, con quelli loro precedenti,
costituiscono gli unici esempi da noi posseduti di una tale doppia citazione, e
contemporaneamente due fra i sei casi in cui Apollodoro parla di akmé. Tutto
ciò è spiegabile secondo il nostro modo di vedere. I due frammenti in questione
sarebbero cioè stati trovati da Diogene nella sua compilazione biografica, in cui
nel caso specifico stava una citazione espressa di Apollodoro. Costui
originariamente aveva parlato di nascita o di morte, ed il compilatore, o meglio
l’autore da lui usufruito, pur citandolo in modo espresso, traduce quei dati
secondo la sua abitudine in termini di akmé.Dopo di ciò si potrebbe essere
indotti a sospettare anche le citazioni esplicite. Quanto agli altri frammenti si
101
noti che il 74, dedotto da Diodoro, per indicare il fiorire usa il verbo ἠνθηκέναι
non già akmé o ἀκμάζειν. Probabilmente era questo il termine originale di
Apollodoro. Osserviamo ancora che nei frr. 29 e 74 l’akmé è riferita non ad un
anno determinato, ma ad un certo periodo, sia pur limitato, di tempo. Il fr. 72
invece, su Melisso, parla di una determinata olimpiade, ma la cosa si spiega,
non avendo probabilmente Apollodoro posseduto altra notizia precisa se non
quella del suo navarcato. Lo stesso si può dire anche per il fr. 76, oppure
supporlo derivato dal compilatore. Quanto abbiamo detto ha naturalmente il
valore di una congettura; è certo possibile ad esempio che Diogene abbia attinto
talvolta attraverso le sue fonti ad Apollodoro, senza per altro citarlo
espressamente. Quanto dice Jacoby (Apoll. Chr., 41-51) a sostegno della sua
tesi sul valore dell’akmé in Apollodoro non è conclusivo. Non è vero che
quest’ultimo, anche senza ricordare espressamente l’akmé, si basi
sull’avvenimento a sua disposizione per un computo meccanico. Gli esempi
forniti da Jacoby o sono stati facilmente criticabili o si spiegano considerando
che in molti casi è logico che la vita di un uomo presenti un avvenimento
notevole verso i quarant’anni.
ax
Cfr. Bignone Empedocle, 48. Tra coloro che si sono occupati della questione
l’unica voce contrastante è lo Stein, Empedoclis Agrigentini fragmenta, Bonnae
1852, pp. 4-5, che ringiovanisce assai Empedocle.
ay
Le due notizie di Aristotele (Metaph., 984 a 11): «Anassagora di Clazomene,
che per età gli è anteriore ma posteriore per attività» (Ἀναξαγóρας ὁ
κλαζoμένιoς τῇ μὲν ἡλικίᾳ πρóτερoς ὢν τoύτoυ [Empedocle]), e Teofrasto
(Dox., 477): «Empedocle d’Agrigento vissuto non molto dopo Anassagora»
(Ἐμπεδoκλῆς ὁ Ἀκραγαντῖνoς oὑ πoλὺ κατóπιν τoῦ Ἀναξαγóρoυ γεγoνώς),
sono in accordo con i suddetti risultati, se sono valide le conclusioni
comunemente accettate sulla cronologia di Anassagora. Questo problema
andrebbe ulteriormente approfondito, ma non è questa la sede. Ricordiamo
soltanto l’assurda traduzione del próteros (πρóτερoς) di Aristotele con «più
giovane» da parte di Bignone (Empedocle, 312), mentre il significato è
l’opposto (Bidez, Jacoby).
az
In questo punto del testo di Diogene lo Sturz ha voluto scorgere una corruzione
ed ha letto Eraclide (Ἡρακλείδης) anziché Eraclito(Ἡράκλειτoς), seguito più
tardi dal Diels. Secondo l’opinione dello Sturz le corruzioni di questo tipo sono
frequenti, e nel caso presente la cosa è tanto più verosimile per le numerose
notizie su Empedocle fornite per l’appunto da Eraclide. A nostro avviso al
contrario non è necessario introdurre questa variante, mancando un appoggio
serio. Del nostro parere sembra anche essere Kranz. Si veda inoltre un altro
passo di Diogene (IX, 3, a proposito di Eraclito): «morì a 60 anni» (ἐτελεύτα
βίoυς ἔτη ἐξήκoντα). Jacoby è incerto di fronte allo Sturz (Apoll. Chr., 273-
102
74; F. Gr. Hist., II 728), e presenta la possibilità che si debba leggere ἔτι δ᾽ e
che ci si trovi di fronte ad un inciso di Diogene, che l’avrebbe dedotto da IX, 3.
Anche noi non siamo sicuri nell’attribuire ad Aristotele tale riferimento ed
ammettiamo quest’ultima ipotesi di Jacoby come possibile. Se avesse ragione
lo Sturz – nota infine Jacoby – l’errore, come dimostra Diog., IX, 3, sarebbe
molto antico, il che a nostro avviso lo rende ancora più problematico.
ba
Cfr. Bidez Biogr. d’Emp., 50-53. Noi lo riteniamo anzi anteriore a Timeo; si
veda infatti Diog., VIII, 71: «a tutti questi si oppose» (τoύτoις δ᾽ ἐναντιoῦται...).
L’aver trattato in particolare Anassimandro, filosofo poco noto, conferma
inoltre l’antichità e l’attendibilità di Diodoro.
bb
Essendo Pantea agrigentina (Diog., VIII, 69) è logico pensare che Empedocle
vivesse ad Agrigento nel tempo che precedette il suicidio e che negli ultimi anni
di vita fosse ritornato in patria. Essendo per altro la sua posizione politica
delicata, era certo più consigliabile celebrare il sacrificio, che lo esaltava, in
territorio siracusano. Tutto ciò naturalmente, inutile aggiungere, è soltanto
congetturale.
bc
Ciò è provato dal Bidez Biogr. d’Emp., 15-40, come pure il fatto che entrambe
le parti del racconto, sacrificio e morte d’Empedocle nell’Etna, risalgono ad
Eraclide. Non siamo però d’accordo con questo critico nel ritenere che le due
parti riflettano due fasi successive nella formazione della leggenda; a nostro
avviso si tratta di un racconto coerente ed unitario sin dapprincipio, in cui la
miracolosa sparizione era spiegata, probabilmente da Pausania, con il desiderio
di una morte solitaria. Era difficile che si formasse dopo il 430 la leggenda di
un’apoteosi.
bd
Cfr. i luoghi citati nell’indice dei Vorsokratiker di Kranz. I casi in cui il
vocabolo phýsis compare in Empedocle, quando il contesto è rilevante,
confermano il significato da noi dato. Tale è il caso del fr. 110, v. 5, che sarà
discusso da noi più tardi e del fr. 63, che si vedrà tra poco. Quest’ultimo anzi è
strettamente legato al fr. 16, v. 3 di Parmenide che conferma ancora il
significato. Gli unici casi in cui Empedocle usa phýsis nel senso di «nascita»,
«origine» stanno nel fr. 8, vv. 1 e 4; qui per altro l’uso della parola è
convenzionale, come avverte espressamente Empedocle: «è chiamata dagli
uomini» (ἐπὶ τoῖς ὀνoμάζεται ἀνθρώπoισιν). Ancora più chiaro è il significato
della parola in Eraclito; si vedano i frammenti 112, e soprattutto 123, dove non
si può in alcun modo intendere secondo un senso temporale o comunque
sensibile. Anche nel fr. 1 il nostro significato è l’unico accettabile;
insoddisfacenti a nostro avviso sono le altre traduzioni del Diels, in Herakl., 3:
«interpretando ognuno secondo la sua natura» (ein jegliches nach seiner Natur
auslegend, meglio in DK: nach seiner Natur ein jegliches zerlegend, cioè
103
«suddividendo ognuno secondo la sua natura»), del GigonUnters., 10,
con origine (Herkunft), o dello Heidel (On Certain Fragments of the
Presocratics, 695-96): «distinguendo ognuno secondo la sua specie»
(distinguishing them each after its own kind).
be
Cfr. Biogr. d’Emp., 159-74. Misero è quanto dice in contrario Diels, Uber die
Gedichte des Empedokles, in «Sitzungsberichte der königl. preuss. Akad. der
Wissens. zu Berlin», 1898, 406-15. Diels sostiene ad esempio che l’inizio
dei Katharmoí sembra essere pronunciato da chi non è più nella città, mentre
basta leggere il fr. 112 per convincersi del contrario; oppure dice che la lettura
dei Katharmoí ad Olimpia presuppone che Empedocle fosse già conosciuto, il
che è evidente, ma non già per il Perì phýseos, quanto piuttosto per la sua
potenza politica; oppure ancora afferma che l’uso di Neîkos nel fr. 115
presuppone la sua conoscenza come termine tecnico, il che non è vero,
potendosi intendere il contesto anche altrimenti, o comunque essendo più logico
al contrario ritenere l’uso di Neîkos nel fr. 115 come un primo accenno di quello
che si svilupperà tecnicamente nel Perì phýseos.Facilmente confutabile allo
stesso modo sono quasi tutti gli altri argomenti del Diels.
bf
A proposito infine dello stile empedocleo, buone osservazioni si trovano in C.E.
Millerd, On the Interpretation of Empedocles, Chicago 1908, pp. 21-24.
bg
Tutto ciò naturalmente, si può dire se si accetta l’emendazione incalzano
(ἔμπαια) di Emperius (seguito da Diels, Bignone, Kranz, Karsten, Mullach). I
mss. di Sesto offrono ἔμπεα, quelli di Proclo (in Tim., II, 116) ἔπεα. Da
quest’ultima lettura Preller ha tratto l’emendazione ἔπεα τά τε, che
indubbiamente è la migliore dal punto di vista filologico, seguendo più da
vicino i mss. e non trovandosi dall’altro canto alcun esempio di ἔμπαιος, non
soltanto in Empedocle, ma in alcun presocratico. Neppure noi per altro ci
sentiamo di seguirla, perché renderebbe troppo duro il significato.
bh
Senza poter entrare nel vivo del problema, diamo soltanto alcuni accenni. Il
passo più interessante di Parmenide in proposito è fornito dai vv. 1-2 del fr. 16:
Ὼς γὰρ ἕκαστος ἔχει κρᾶσιν μελέων πολυπλάγκτων / ὣς νóoς ἀνθρώποιοι
παρίσταται, che traduciamo: «secondo la fusione tra di loro delle membra
disperse, posseduta da ciascuno, tale si presenta negli uomini l’interiorità».
Importante riguardo a questi versi è stata la critica del FränkelParm., 2, 169-74.
Nel primo verso accettiamo la lettura ciascuno(ἕκαστος) di questo filologo e la
sua interpretazione di μελέων come membra. Le soluzioni degli altri critici sono
meno soddisfacenti; tutti, poi, compreso il Fränkel, guidati da una falsa
interpretazione del passo di Teofrasto che cita il frammento, traducono κρᾶσις
μελέων «la mescolanza di ogni organo di senso» (o di ogni «membro»), volendo
ritrovare ad ogni costo in questo primo verso la prevalenza del caldo, che essi
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credono affermata da Teofrasto. La lettura ἑκάστοτε, ed il significato μελέων
sono già stati scelti dal Diels per salvare tale interpretazione; il Calogero anzi
(Studi sull’eleatismo, Roma 1932, pp. 45-48 nota) per ridarle quella consistenza
che le critiche del Fränkel hanno messo in forse, ha mutato fusione (κρᾶσιν) in
κρᾶσις, senza giustificazione. L’espressione κρᾶσις μελέων significa a nostro
avviso «la fusione delle membra (tra di loro)». Già Fränkel ha tradotto in modo
simile, «je nach der Mischung der μέλη» («secondo la fusione dei μέλη»), per
quanto la falsa interpretazione di Teofrasto lo induca in errore quando spiega la
traduzione: «d. i. je nach ihrem Gehalt an Licht» («cioè, secondo il loro grado
di luce»). Data l’impossibilità di intendere κρᾶσις μελέων nel senso del Diels,
si potrebbe anche tradurre μέλη con «elementi» (Rostagni). Questo sarebbe
l’unico modo di salvare l’interpretazione del Fränkel e degli altri, perché così
soltanto si potrebbe ritrovare nel frammento una krâsis di elementi fisici. Tale
traduzione è però insostenibile, se non per altro, a causa
dell’attributo disperse (πολυπλάγκτων) dato a μελέων, dal momento che πλάζω
ha in altri passi di Parmenide e di Empedocle, dove si sente chiaramente
l’ispirazione parmenidea, un significato spregiativo, riferito a ciò che è umano
e molteplice (cfr. Parm. fr. 6, v. 6; fr. 8, v. 28; Emp. fr. 20, v. 5, in cui si parla
anche di μέλη nel chiaro senso di «membra»; fr. 57, v. 2. Cfr. anche
Fränkel Parm., 172, nota 1). Concludendo πολυπλάγκτων sta in evidente
opposizione a κρᾶσιν; da un lato le membra che errano distanti, dall’altro
la krâsis che le unisce. Si noti che krâsis non va tradotto mescolanza, ma
fusione; il termine accentua l’elemento unificante rispetto al molteplice che
contiene (cfr. PHK 177). Nel fr. 4 di Parmenide (non possiamo qui affrontarne
l’analisi) (cfr. PHK 173-81; GP 186-201) il nóosfaceva diventare le cose
distanti del mondo sensibile vicine tra loro, congiunte; in questi due primi versi
del fr. 16 esso compare nell’identica funzione di produrre l’unione delle
membra distanti. Infatti la krâsis del v. 1 non è altro che il nóos come dice il v.
2. Si tratta quindi della stessa concezione da noi ritrovata in Empedocle, ed altri
passi ancora di Parmenide lo confermano.
bi
Cfr. DK, I, 302, 25 sgg. Tutto il passo teofrasteo è una chiarificazione, non
sappiamo più fino a qual punto fedele, di tale teoria empedoclea. Si veda in
particolare la frase: «Coloro in cui le parti degli elementi sono mescolate in
uguale rapporto ... sono i più acuti nelle sensazioni. Proporzionatamente,
seguono quelli che nel rapporto degli elementi sono loro prossimi... (ὅσοις μὲν
οὖν ἴσα ... μέμεικται ... Tούτους ϕρονιμωτάτους εἶναι καὶ κατὰ τὰς αἰσθήσεις
ἀκριβεστάτδυς, κατὰ λóγον δὲ καὶ τοὺς ἐγγυτάτω τούτων...) e poco oltre:
«Coloro che posseggono in una singola parte del corpo la mescolanza perfetta,
eccellono per questa struttura di un determinato organo» (οἷς δὲ καθ’ ἕν τι
μóριον ἡ μέση κρᾶσίς ἐστι, ταύτῃ σοϕοὺς ἑκάστους εἶναι). Il Bignone per altro
afferma poi a torto che nel sangue esiste ancheneîkos (cfr. Empedocle, 187, 2;
410 nota). Contro di ciò sta la lettura del fr. 98; il raffronto con il fr. 109 – che
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vedremo in seguito – non prova nulla, in quanto la conoscenza accennatavi è
di guîa, o di natura ancora più elementare, come si dirà, e non di haîma.
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Per l’intima penetrazione contenuta nell’ὑπó cfr. Brihadâranyaka Upanishad,
4, 4, 22 (Deussen): «Wahrlich, dieses große, ungeborne Selbst ist unter den
Lebensorganen jenes aus Erkenntnis bestehende. Hier, inwendig im Herzen ist
ein Raum, darin liegt er, der Herr des Weltalls ... er ist die Brücke, welche diese
Welten auseinanderhält, dass sie nicht verfließen» [«in verità questo grande,
increato ātman è fatto di coscienza nelle percezioni di sensi. Quell’etereo
spazio che è all’interno del cuore, è ivi che Egli dimora, Signore del tutto ...
Egli è la diga che spartisce i mondi, impedendo loro di confondersi», Upaniṣad,
143, in PHK 225].
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Ricordiamo in proposito il frammento 129, riferito da Timeo a Pitagora, da altri
a Parmenide (Diog., VIII, 54). Anche senza voler dare peso a quest’ultima
anonima affermazione, dato il nessun valore in questo campo di una
testimonianza del pitagorizzante Timeo, non si saprebbe a chi riferire il
frammento se non per l’appunto a Parmenide. Le dichiarazioni di Teofrasto, la
cui importanza è risultata dalle nostre indagini precedenti, di una stretta
dipendenza di Empedocle da Parmenide (dipendente e vicino, ἡλωτὴν καὶ
πλησιαστήν) sono pienamente confermate da un raffronto tra i frammenti dei
due filosofi. L’affinità è così appariscente da non meritare una documentazione
(infondato è quanto dice Bidez, in «Archiv f. Ges. d. Phil.», 9, 1897, 203-207).
Uno stretto contatto personale è alla base del fr. 129. Il contenuto di questo
frammento ricorda il fr. 110. L’espressione «grandissima ricchezza di
intendimento ottenne» (μήκιστoν πραπίδων ἐκτήσατo πλoῦτoν, fr. 129, v. 2)
sintetizza il risultato di fr. 110, 1-5, presentando un nóemapotenziato (cfr. fr.
132, v. 1 in cui viene inoltre determinata la qualità del conoscente con divino,
θείων), e l’altra «... con tutta la mente si protendeva» (πάσῃσιν ὀρέξαιτo
πραπίδεσσιν) riproduce l’interiore momento conoscitivo di fr. 110, 1-2. Il v. 5:
«facilmente vedeva ciascuno di tutte le individualità» (ῥεῖ ὅ γε τῶν ὄντων
πάντων λεύσσεσκεν ἕκαστoν) espone l’oggetto della conoscenza, che è
l’individualità essenziale, in questo caso però non soltanto una phrónesis ma
anche un nóema. Il v. 6, «anche in dieci e poi venti generazioni di uomini (καί
τε δέκ᾽ ἀνθρώπων καί τ᾽ εἴκoισιν αἰώνεσσιν) contribuisce a spiegare il
contenuto del molta altra (ἄλλα τε πóλλ᾽ di fr. 110, 4).
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È opportuno ricordare il fr. 4, v. 3: γνῶθι διατμηθέντoς ἐνὶ σπλάγχνoισι λóγoιo,
«conosci, essendo l’oggetto della conoscenza penetrato (diviso nel tuo cuore)».
Il Diels ha emendato penetrato (διατμηθέντoς) in passato
attraverso (διασσηθέντoς), senza giustificazione, traducendo: «nachdem ihre
Rede durch deines Inneren Sieb gedrungen ist» («dopo che il loro discorso ha
passato il setaccio della tua interiorità»). L’importante è ad ogni modo di vedere
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il verso non nel senso di un apprendimento astratto e meditato, ma come un
nuovo accenno al processo scritto nel fr. 110. La conoscenza si incorpora qui in
senso proprio nelle fibre più intime del discepolo. È una nuova prova della
doppia considerazione della realtà. Ciò che è più vero dev’essere più intimo,
deve entrare nel più profondo.
Ricordiamo ancora il fr. 106: πρὸς παρεὸν γὰρ μῆτις ἀέξεται ἀνθρώπoισιν,
«l’interiorità degli uomini si potenzia secondo la realtà contigua». Stretto è il
parallelo con fr. 110, 3-5. Il significato di contiguo (παρεóν) va ricavato (così il
già visto ti saranno avvinti, παρέσoνται di fr. 110, v. 3) dall’analisi di Parm. fr.
4, v. 1 [cfr. PHK 173-81; GP 186-201]. Non possiamo qui approfondire la
questione e ci limitiamo a rimandare a Calogero, Studi sull’eleatismo, cit., pp.
22-23 nota. Fondandoci su questo studio e sui nostri precedenti risultati, diamo
a παρεóν il significato di essenza interiore resa contigua dall’attrazione del
soggetto; interiorità (μῆτις) poi è del tutto equivalente a principio di
conoscenza (νóημα, cfr. fr. 2, vv. 8-9) [cfr. PHK226].
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Il fr. 134 appartiene al Perì phýseos, come ha dimostrato BignoneEmpedocle,
631-49. Il rapporto tra essenza sacra (ϕρὴν ἱερή) e Sphaîros(identificati da
Diès Le cycle mystique, 89-91) sarà chiarito in seguito. Non si può certo parlare
di una spiritualità della phrén, come fa W. Nestle, Der Dualismus des
Empedockles, in «Philologus»,1906, 65, 554-56 [cfr. PHK 227]. Per la
noumenicità di questo grado supremo del reale, si veda anche il frammento 133,
vv. 1-2, che ha evidentemente lo stesso oggetto.
Table of Contents
Frontespizio
Colophon
EMPEDOCLE
Nota della Curatrice
Anima e immortalità in Empedocle
Empedocle
I - Fonti indirette
II - Vita e opere
III - Teoria della conoscenza
Note
Sigle e abbreviazioni
Indice dei nomi e delle fonti
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