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Iliade (Romagnoli)/Canto XXII

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Canto XXII

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Omero - Iliade (Antichità)
Traduzione dal greco di Ettore Romagnoli (1923)
Canto XXII
Canto XXI Canto XXIII
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     Come cerbiatti quelli, fuggiti cosí ne la rocca,
tergevano il sudore, beveano, spengeano la sete,
dietro le belle bertesche sdraiati; e giungevan gli Achivi
presso alle mura, poggiando gli scudi sovresse le spalle.
5Ettore solo fu dal fato di morte irretito,
sí che restasse ad Ilio dinanzi alle porte Sceèe.
     E Febo Apollo intanto diceva al divino Pelíde:
«Figlio di Pèleo, perché le piante veloci affatichi
ad inseguirmi, se tu mortale, ed io sono immortale?
10Sai che son Nume, eppure tu infuri e deliri a tal segno?
Non ti sta dunque a cuore lottar coi Troiani fuggiaschi,
che ne la rocca si sono serrati, e tu sei qui lontano?
Tanto non m’ucciderai, cader per tua mano non posso».
     E Achille pie’ veloce, con grande corruccio rispose:
15«Saettatore, scorno m’hai fatto, oh il piú tristo fra i Numi,
che da le mura qui m’hai tratto: se no molti ancora
prima di giungere ad Ilio mordevan la terra coi denti.
Cosí questa gran gloria m’hai tolto, ed agevole è stato

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mettere quelli al riparo. Temuta non hai la vendetta:
20pure mi vendicherò di te, se mi bastan le forze».
     Detto cosí, s’avviò, gran gesta volgendo nel cuore,
verso la rocca; e pareva corsiere che, dopo il trionfo,
agile, il cocchio traendo, s’allunga sul piano a la corsa.
Simile a questo, spingea le ginocchia e i pie’ rapidi Achille.
25Priamo primo lo scorse: gli caddero gli occhi su lui,
che, via lanciandosi al piano, lucea tutto, simile all’astro
che sorge quando il grano matura, e fulgenti i suoi raggi
scintillan piú di tutte le stelle nel buio notturno,
e cane d’Orïone gli posero nome i mortali:
30è fulgidissimo, certo; ma pure è segnacol di pene,
e insopportabile adduce calura a le misere genti.
Cosí luceva il bronzo sul seno ad Achille accorrente.
Levò gemiti il vecchio, al cielo le mani protese,
e si percosse la testa, gridando con alto lamento,
35preci levando pel figlio. Ma questi, dinanzi alle mura
stava piantato: furore l’ardea di affrontarsi ad Achille.
     Priamo tese le mani, levò questi miseri detti:
«Ettore, figlio mio caro, non stare ad attender quell’uomo,
solo, dagli altri lontano, che presto al destin non soccomba,
40sotto le mani d’Achille prostrato: ché troppo è gagliardo,
quello spietato. Oh, se i Numi bramassero quello ch’io bramo!
Cani sbranarlo, avvoltoi dovrebbero spento e insepolto!
E allor l’acerbo cruccio m’andrebbe lontano dal cuore:
ch’egli m’ha reso privo di tanti miei bravi figliuoli,
45questi uccidendoli, quelli vendendoli in terre lontane.
Ed anche ora, due figli non giungo a veder, Licaóne
e Polidoro, che dentro la rocca di Troia sian giunti,
che generava a me Laotòe, mia legittima sposa.

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Se degli Achei nel campo son vivi tuttora, il riscatto
50noi pagheremo d’oro, di bronzo, che molto ne abbiamo:
Alte, l’illustre vecchio, gran dote alla figlia sua diede;
ma, se già spenti sono, se son nella casa d’Averno,
grande è l’ambascia mia, della madre: ché son nostro sangue.
Pur, meno acerba sarà la doglia, pel popolo tutto,
55se dalle mani d’Achille prostrato, anche tu non soccombi.
Entra, su via, fra le mura, figliuolo diletto, e fa salvi
uomini e donne d’Ilio: non dare al figliuol di Pelèo
questa gran gloria; e via non gittare la cara tua vita.
E inoltre, abbi pietà di me sventurato, che ancora
60non ho perduto il senno! Ahimè!, che mi vuol su la soglia
della vecchiezza, il Croníde distrutto con duro destino,
vuol tanti mali ch’io vegga, trafitti i miei figli, le figlie
tratte lontano, schiave, i talami al suolo abbattuti,
nella feroce mischia sbattuti i pargoli a terra,
65le nuore trascinate per man dagli Achivi funesti.
Me su la via, finalmente, da la porta i cani voraci
trascineran, poi che l’alma cacciata m’avrà dalle membra,
o saettando, o colpendomi alcuno col bronzo affilato:
qui li allevavo: alla mensa nutriti, custodi alle porte:
70ora, bevuto il mio sangue, crucciati ed irosi, staranno
stesi dinanzi al vestibolo. A un giovane tutto dà grazia,
anche giacere sul campo trafitto dal bronzo affilato:
anche se morto, e qual sia lo strazio, pur, vedilo, è bello.
Ma quando il capo è bianco, ma quando è canuta la barba,
75e le vergogne i cani deturpan d’un vecchio trafitto,
niuna piú triste cosa si dà per gli afflitti mortali».
     Disse il vegliardo; e di bianchi capelli ebbe piene le mani,
che si strappò dal capo. Né d’Ettore il cuore convinse.

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A Priamo presso, pianto versando, la madre gemeva,
80e, sollevando il peplo sul seno, mostrava la mamma,
e tra le lagrime queste veloci parole diceva:
     «Ettore, figlio mio, questo seno rispetta, e ti muovi
a compassione di me, se mai la mammella io ti porsi,
quando piangevi! Figlio, ricòrdati, e schiva quell’uomo!
85Vieni alle mura dentro, non stare ad attenderlo solo!
Misero figlio! Se mai t’uccidesse, non già sul tuo letto
te piangeremmo, né io, né la florida sposa, figliuolo
delle mie viscere, caro! Ma lungi, ben lungi da noi,
te presso i legni achei sbranerebbero i cani veloci».
     90Questo dicevano al figlio diletto, con molte preghiere,
con molto pianto; né pure convinsero d’Ettore il cuore:
esso attendeva l’orribile Achille, che già gli era sopra.
Come sui monti un drago pasciuto di succhi maligni
ch’entro gli spirano atroce furore, in attesa dell’uomo,
95stretto sul covo a spira, dardeggia terribili sguardi:
Ettore cosí, pieno d’inestinguibile furia,
saldo restava, poggiato lo scudo alla torre sporgente,
e nel gran cruccio cosí parlava al magnanimo cuore:
«Misero me, se attraverso la porta, se vo tra le mura,
100Polidamante per primo vorrebbe coprirmi d’obbrobrio,
egli che m’esortava guidar nella rocca i Troiani,
quella funesta notte che Achille piombò nella mischia.
Io non gli diedi ascolto; e sí, meglio stato sarebbe.
Ora che tanta gente vedo io per mia colpa caduta,
105io dei Troiani e delle Troiane pavento, che alcuno
malignamente, non debba cosí di me dire: — Seguendo
Ettore la sua furia, segnò la rovina di tutti. —
Cosí diranno. E allora per me molto meglio sarebbe

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ch’io, fronte a fronte lottando, o Achille uccidessi, e tornassi,
110o glorïosa morte da lui, per la patria, m’avessi.
E se, deposto giú lo scudo di guerra, deposto
giú da la fronte l’elmo, al muro poggiata la lancia,
solo, senz’arme, ad Achille fortissimo incontro movessi,
e promettessi ch’Elena e insieme con lei le ricchezze
115tutte, quante Alessandro sovresse le navi ricurve
portò da Sparta a Troia, dond’ebbe principio la guerra,
tutto ridato agli Atrídi sarà: ch’altri beni agli Achivi
distribuiti saranno, di quelli che Troia rinchiude?
Ed ai signori di Troia prestare farò giuramento
120che, senza nulla celare, dividano tutto in due parti.
Ma via, che cosa in seno mi va favellando il mio cuore?
Se me gli faccio contro, ben temo che, senza riguardo,
senza nessuna pietà, mi debba ammazzar cosí nudo,
come s’uccide una donna, quand’io sia spogliato dell’armi.
125Non è momento questo che intrecci colloqui con lui,
come fanciulla e garzone favellan da rupe o da quercia,
come fanciulla e garzone che intreccian colloqui d’amore.
Meglio è che quanto si può piú presto, si venga a la lotta.
Vediamo a chi di noi l’Olimpio concede la gloria».
     130Questi pensieri, attendendo, volgeva: e vicino gli giunse
Achille, pari a Marte guerriero che crolli il cimiero.
E con il braccio destro proteso, vibrava l’orrendo
frassino pelio; e tutto cingendolo, il bronzo fulgeva
simile al raggio del fuoco che arde, del sole che spunta.
135Ettore, come lo vide, tremore lo colse: né resse
quivi aspettarlo: lasciò la porta, fuggí sbigottito.
E gli fu sopra il Pelíde securo dai piedi veloci.
Come sparviero sui monti, spiccando agilissimo il volo,

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incalza a facil caccia colomba che trepida tutta:
140essa gli sfugge di sotto, ma l’altro la preme da presso,
levando acute grida, bramoso di farla sua preda:
cosí, diritto Achille volava furente. E tremore
Ettore invase, sottesse le mura; e si diede alla fuga.
Verso la rupe ed il fico selvaggio, trastullo dei venti,
145i due sottesso il muro correvano, lungo la strada;
e le sorgenti belle toccarono, dove due polle
sgorgan dal suolo, cui nutre coi vortici suoi lo Scamandro.
Tepida linfa l’una travolge, ed un fumo da lei
levasi tutto d’attorno, sí come di fuoco che arde;
150e l’altra scorre, pure l’està, come grandine fredda,
come gelida neve, come acqua che in ghiaccio si stringe.
Qui, su le due sorgenti, vedevi una fila di vasche
tutte di pietra, belle, grandi, ove le fulgide vesti
lavare dei Troiani solevan le spose e le figlie,
155quando era pace, innanzi che quivi giungesser gli Achivi.
Quivi passarono in corsa, fuggendo uno, l’altro inseguendo.
Un valoroso fuggiva, tenevagli dietro un piú forte,
con ogni loro possa: ché non una pelle di bove,
non un capo di gregge, che premio esser sogliono al corso;
160ma d’Ettore gagliardo la vita, era posta del giuoco.
Come i corsieri dal solido zoccolo, ratti a gran furia
girano via, nell’esequie d’un prode, d’intorno alla mèta,
ed un gran premio ivi sta, d’un tripode, o vuoi d’una donna:
cosí tre volte, ratti, di Priamo d’attorno alla rocca,
165mossero i piedi in giro. Guardavano tutti i Celesti:
e favellò cosí degli uomini il padre e dei Numi:
«Ahimè!, ché un uom diletto, cacciato d’intorno alle mura
veggon le mie pupille! Mi piange per Ettore il cuore,

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che tanti lombi a me di bovi solea su le vette
170piene d’anfratti de l’Ida, bruciare, sovresse le mura
della città. Ma ora, di Priamo dinanzi alle mura
con i veloci passi lo incalza terribile Achille.
Su via, pensate, o Numi, volgete, a decider, la mente,
se dalla morte dobbiamo salvarlo, o se già, benché prode,
175cadrà prostrato sotto le mani d’Achille Pelíde».
     E gli rispose Atèna, la Diva che glauche ha le ciglia:
«Padre, che il folgore lanci, che addensi le nuvole negre,
che dici! Un uomo, dunque, da tanto promesso al Destino,
anche una volta pretendi strappare alla doglia di morte?
180Fa’! Ma non tutti i Celesti vorranno largirtene lode».
     E a lei rispose Giove, che i nembi raduna, le disse:
«Sta di buon animo, figlia mia cara. Non parlo con cuore
tanto sicuro: e voglio mostrarmi arrendevole teco.
Non trattenerti, fa’ tu tutto ciò che il tuo cuore ti detta».
     185Spinse cosí la Diva, che già nell’attesa fremeva;
e con un lancio, dai gioghi d’Olimpo calò su la terra.
     Achille senza tregua frattanto incalzava il nemico.
Come sui monti un cane, levato dal covo un cerbiatto,
velocemente l’insegue per gole e burroni; e se pure
190sotto un cespuglio quello si rannicchia, e resta celato,
ne segue senza posa, finché pur lo trovi, le tracce:
cosí non poteva Ettore al fiero Pelíde sfuggire:
ché quante volte cercava vicino alle mura dardanie
sotto le solide torri lanciarsi al riparo, se mai
195dargli soccorso potesser dall’alto, lanciando zagaglie:
tante lo preveniva, dinanzi correndogli, o al piano
lo respingeva; e sempre dal lato ei correa delle mura.
Come nel sogno, quand’uno non vale a raggiungere l’altro:

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l’uno non vale a raggiungere, l’altro non vale a fuggire:
200cosí né quei poteva ghermirlo, né questo evitarlo.
Ora, come Ettore avrebbe schivata la sorte ferale,
se presso a lui venuto per l’ultima, l’ultima volta
Febo non fosse, che forza gl’infuse e vigore ai ginocchi?
Alle sue genti cenno faceva col capo il Pelíde,
205né permettea che sovra Ettore i dardi lanciassero amari,
ch’altri colpendolo avesse la gloria, ed ei fosse il secondo.
Quando la quarta volta però furon presso alle fonti,
ecco, librando il padre dei Superi l’aurea bilancia,
sopra vi pose due fati di morte e di gemiti: uno
210d’Ettore prode a domare corsieri, ed un altro d’Achille:
l’alzò presala a mezzo: giú d’Ettore il giorno fatale
traboccò, verso l’Ade piombò: né piú Febo lo resse.
E Atèna, occhi azzurrina, già corsa vicino al Pelíde,
standogli presso, queste parole veloci gli disse:
215«Fulgido Achille, adesso, diletto dei Superi, spero
che presso ai legni Achivi gran gloria otterremo noi due,
Ettore sterminando, per quanto gagliardo alla zuffa!
Ora non potrà piú salvarlo la fuga, per quanto
Febo, che lungi avventa gli strali, s’adopri a salvarlo,
220supplice prosternandosi innanzi a l’Egíoco Giove.
Ma su, férmati, e fiato ripiglia: frattanto io lo accosto,
e lo convinco che voglia pugnare con te a fronte a fronte».
     Disse la Dea cosí, l’ubbidí, lieto in cuore, il Pelíde,
e si fermò, su l’asta dal cuspide bronzeo poggiato.
225La Diva lo lasciò, di Dëífobo assunse l’aspetto
e la gagliarda voce, per volgersi ad Ettore prode;
e presso stando a lui, gli volse veloci parole:
«Achille, o caro, troppo travaglio ti dà; ché t’incalza

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con i veloci passi, di Priamo d’intorno alle mura.
230Ora, su via, stiamo qui, rintuzziam di pie’ fermo l’assalto».
     Ettore grande, dall’elmo corrusco, cosí le rispose:
«Già per l’innanzi, m’eri, Dëífobo, caro fra tutti
i miei fratelli, figli di Priamo e d’Ècuba. Adesso
tanto di piú mi penso ch’io debba onorarti ed amarti,
235che t’è bastato il cuore, vedendomi, uscire al soccorso
fuor delle mura; e gli altri rimangono dentro la rocca».
     E gli rispose Atèna, la Diva ch’à glauche le ciglia:
«Ettore caro, assai nostro padre e la madre diletta
me scongiuravan con fervide preci, e con essi gli amici,
240che rimanessi lí, tanto era il tremore di tutti;
ma luttuoso cordoglio nel seno crucciava il mio cuore.
Ora moviamogli contro diritti, non diamo riposo
ai giavellotti, nessuno: si vegga alla prova, se Achille
noi debba uccidere, e intrise di sangue recare le spoglie
245sui cavi legni, o dalla tua lancia restare trafitto».
     Disse; e, per trarlo in inganno, dinanzi gli mosse a guidarlo.
E quando, un contro l’altro movendo, già eran vicini,
Ettore, il forte dall’elmo corrusco, per primo gli disse:
«Non fuggirò piú, come dinanzi fuggivo, o Pelíde,
250che per tre volte girai di Priamo d’intorno alla rocca,
né d’aspettare l’assalto sostenni. Il mio cuore or mi sprona
a starti a faccia a faccia: ché io cada morto, o t’uccida.
Ma qui su via, gli Dei, s’invochino: ed essi saranno
mallevadori fedeli per noi, testi vigili ai fatti.
255Io sconciamente non vo’ deturparti, se Giove concede
ch’io la vittoria consegua, che possa levarti la vita;
ma poi che t’abbia, Achille, spogliato de l’armi tue belle,
agli Achei renderò la tua salma: lo stesso a te chiedo».

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     Ma lo guardò feroce, cosí gli rispose il Pelíde:
260«Ettore, dimenticare non so: non parlarmi di patti:
fra uomini e leoni non son giuramenti fedeli,
né lupi e agnelli i cuori potrebbero avere concordi,
ma senza tregua mai, l’un d’essi odia l’altro; e del pari
non si vedrà che tu ed io ci amiamo, e che patti giurati
265possano stringerci, prima che l’uno dei due morto cada,
e del suo sangue sazi l’invitta ferocia di Marte.
La tua prodezza tutta, sí chiama a raccolta: ché adesso
saldo a scagliar la zagaglia devi essere, e saldo alla pugna:
scampo per te piú non v’è: ché subito Pallade Atèna
270e la mia lancia t’avranno prostrato; e dovrai dei compagni
miei, che il tuo ferro trafisse, scontare le vite ad un colpo».
     Sí detto, alta librò, scagliò la lunghissima lancia.
Ettore la schivò, ché tenea fitti innanzi gli sguardi,
e si chinò, quando giunger la vide; e la lancia di bronzo
275gli volò sopra, e nel suolo s’infisse; ma Pallade Atèna
su la raccolse, e di nuovo la diede ad Achille. Né vide
Ettore; e queste parole rivolse all’invitto Pelíde:
«Hai pur fallito il colpo, divino Pelíde; né Giove
t’ha conceduto ancora veder la mia morte, per quanto
280n’eri sicuro; ma tu ciance accozzi, e t’industri a parole,
ch’io sbigottisca, e meno mi vengano e forza e coraggio.
Ma la tua lancia nel dorso tu no, non potrai conficcarmi:
piantala a me nel petto, ché incontro diritto io ti vengo,
se lo concede un Nume. Ma or la mia lancia di bronzo
285scansa a tua volta: potessi cosí tutta accoglierla in petto:
ché pei Troiani allora sarebbe piú spiccia la guerra,
quando tu fossi spento: ché il massimo cruccio tu sei».
     Sí detto, alta vibrò, scagliò la lunghissima lancia.

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Né sbagliò il colpo, e percosse nel mezzo lo scudo al Pelíde.
290Ma rimbalzò dallo scudo lontana la lancia; e gran cruccio
Ettore colse; ché invano scagliata ebbe l’asta veloce.
Stette confuso, ché piú non aveva altra lancia; e levando
un alto grido, allora, Deífobo, candido scudo,
chiamò, chiese una lancia; ma quello non gli era vicino.
295Ettore, tutto allora comprese, e fra sé cosí disse:
«Misero me, gli Dei m’han proprio chiamato alla morte!
Ben io credea che a me vicino Dëífobo fosse;
ma quegli è fra le mura, ma Palla m’ha tratto in inganno.
Ora la triste morte non è piú lontana, è qui presso,
300scampo non v’è. Fu tempo che a Giove ed al figlio di Giove
che le saette scaglia lontano, io fui caro: eran pronti
essi, a proteggermi, un tempo: adesso m’ha còlto la Parca.
Ma non senza contrasto ma non senza gloria morremo,
ma qualche grande gesta compiendo, che ai posteri giunga».
     305E questo in cuor volgendo, sguainò l’aguzza sua spada,
che gli pendeva al fianco, che era massiccia e pesante,
e s’avventò, stretto in guardia, come aquila a sommo dei nembi,
che giú scoscende al piano, traverso le nuvole fosche,
a far preda d’un tenero agnello o d’un cuccio di lepre.
310Ettore s’avventò, pari a quella, stringendo la spada.
Ma gli fu sopra Achille, che ardeva di furia selvaggia
dentro nel cuore. Il petto dinanzi copria con lo scudo
tutto corrusco bello: di sopra ondeggiavano all’elmo
quattro cimieri; e belle scotevansi in giro le chiome
315fitte, che aveva Efesto piantate al bocciuolo dintorno.
Come di mezzo a le stelle nel cuor de la notte scintilla
d’Èsperò l’astro, il piú bello fra tutte le stelle del cielo:
tale un fulgore sprizzava dal cuspide aguzzo, che Achille

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alto librava, cercando d’infliggere ad Ettore morte,
320tutto il suo valido corpo cercando, ove ignudo paresse.
E tutte eran le membra difese dall’armi di bronzo
belle, che a Pàtroclo aveva predate quel dí che lo uccise:
sol dove le clavicole scindon dagli omeri il collo,
adito pronto alla fuga dell’alma pareva la gola.
325Qui, mentre egli irrompeva, piantò la sua lancia il Pelíde,
e fuor fuori passò pel morbido collo la punta;
né la trachea gli recise il frassino grave di bronzo:
sí ch’egli ancor potesse rivolger parole al nemico.
E piombò giú nella polvere; e Achille, esaltandosi, disse:
330«Ettore, dunque credevi d’uccidere Pàtroclo, e salvo
tu rimaner, né pensiero ti desti di me ch’ero lungi.
Stolto! Ché a farne vendetta sovresse le concave navi
io rimanevo in disparte, campione di te ben piú saldo,
che t’ho fiaccato i ginocchi. Gli uccelli ed i cani or faranno
335turpe strazio di te: degne esequie egli avrà dagli Achivi».
     Ettore, già d’ogni forza stremato, cosí gli rispose:
«Pei tuoi ginocchi, per l’anima tua, per i tuoi genitori,
non tollerar che i cani mi sbranino presso alle navi
dei figli d’Argo: accetta la copia del bronzo e dell’oro
340ed i presenti che il padre ti porga e la nobile madre;
ed il mio corpo alla casa ritorna, ove al fuoco i Troiani
e dei Troiani le spose daranno le spente mie membra».
     Ma bieco lo guardò, cosí gli rispose il Pelíde:
«Non m’implorare pei miei ginocchi, pei miei genitori.
345Cosí potessi il cruccio sfogare e la furia, sbranando
e divorando, a farne vendetta, le crude tue carni,
come non c’è nessuno che possa dai cani salvare
il corpo tuo, neppure se dieci, se venti riscatti

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dinanzi qui venissero a pormi, con altre promesse.
350Neppur se a peso d’oro volesse pagarmi il tuo corpo,
Príamo, neppure allora potrebbe deporti sul letto,
potrebbe lagrimarti la madre che t’ha partorito;
cani ed uccelli, a brani dovranno cibar le tue membra».
     Ettore prode, a morire già presso, cosí gli rispose:
355«Ben ti conosco, e già solo guardandoti, intendo che mai
ti piegherei: ché un cuore di ferro nel seno tu chiudi.
Bada però, che su te la mia morte il furore dei Numi
non susciti, quel giorno che Paride e Apòlline Febo
te prostreranno, per quanto gagliardo, alle porte Sceèe».
     360Cosí diceva; e un velo su lui l’ultima ora diffuse;
e dalle membra lo spirto volò verso l’Ade, gemendo
la sorte sua, la forza perduta, ed il fiore degli anni.
E sovra lui già spento, cosí favellava il Pelíde:
«Muori! E la Parca mia me colga, quel giorno che Giove
365e gl’Immortali tutti vorranno segnar la mia fine».
     L’asta divelse, detto cosí, dall’esanime corpo,
e, postala in disparte, dagli omeri l’armi cruente
fuori gli trasse. E attorno correvano tutti gli Achivi,
che, stupefatti, l’alta statura miravan, la possa
370d’Ettore: né s’accostò veruno che non lo ferisse:
e l’uno all’altro, gli occhi su lui rivolgendo, diceva:
«Ah sí, davvero adesso piú morbido molto a toccarlo,
Ettore pare, che quando col fuoco bruciava le navi!».
     Cosí dicea ciascuno giungendo, e vibrava il suo colpo.
375Ma poi che l’ebbe Achille veloce spogliato dell’armi,
fermo agli Achivi in mezzo, parlò queste alate parole:
«Datemi ascolto, amici, degli Achivi duci e sovrani.
Poi che concessero i Numi che spento giacesse quell’uomo

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che piú male da solo che insiem tutti gli altri, faceva,
380tutti or d’intorno alle mura tentiamo la sorte dell’armi,
per indagar dei Troiani la mente, che pensino adesso:
o di migrare, lasciando la rocca, or che questi è caduto,
O se resistere ancora disegnan, sebbene sia spento.
Ma dietro quali idee si va disviando il mio cuore?
385Giace di Pàtroclo il corpo, né già seppellito, né pianto
presso le navi; né oblio sarà che giammai me ne colga,
sin ch’io tra i vivi resti, sinché mi sostengano i piedi.
Ché pur se nell’Averno oblio sopravvenga dei morti,
io memoria anche là serberò dell’amico diletto.
390Ora su via, figliuoli d’Acaia, cantando il peana,
presso alle concave navi torniamo, recando l’estinto.
Grande sarà la gloria: ché ad Ettore demmo la morte,
cui ne la rocca invocavano al pari d’un Nume i Troiani».
     Disse; e una sconcia offesa pensò contro il morto nemico:
395i tèndini forò, giú giú, dal mallèolo al calcagno,
dell’uno e l’altro piede, vi strinse guinzagli di cuoio,
e al carro poi l’avvinse, lasciando che il capo pendesse.
Poi sopra il carro salí, l’armi fulgide sopra vi pose,
vibrò la sferza; e pigri non furono al corso i cavalli.
400Un polverio si levava dal corpo via tratto, le chiome
belle pendeano sparse, il viso, che tanto fu vago,
tutto giacea nella polvere. Giove cosí concedeva
nella sua terra materna, di lui tanto strazio ai nemici.
     Tutto cosí si bruttava di polvere il capo; e la madre
405si lacerava le chiome, lontano gittava il suo velo
morbido, e un ululo fiero levava, mirando il suo figlio.
Miseramente anche il padre piangeva, le turbe d’attorno
per tutta la città gemevano, alzavano pianti:

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pareva, a udire tanti lamenti, che tutta l’alpestre
410Ilio, dai suoi fastigi crollasse, consunta dal fuoco.
E trattenevano a stento le turbe il vegliardo accorato,
che delirava, che uscire volea dalle porte Dardanie,
e rotolandosi giú nella polvere, tutti implorava,
chiamando ad uno ad uno per nome: «Non mi trattenete,
415sebben di me vi dolga, lasciatemi, amici, che solo,
esca da queste mura, che ai legni vada io degli Achivi,
a scongiurar quell’uomo feroce, nemico del bene,
se l’età mia, se questa vecchiaia lo induca a riguardo,
a pïetà: ché un padre vegliardo ha pur egli: Pelèo,
420che gli die’ vita e lo crebbe, perché della gente Troiana
ei divenisse il flagello: niuno ora soffrí tante pene
quante io ne soffro: tanti fiorenti figliuoli m’uccise!
Ma, sebben cruccio io n’abbia, non tanto di tutti io mi dolgo,
quanto d’un solo, e la pena mi trascinerà giú nell’Ade:
425d’Ettore! Almeno poteva morire fra queste mie mani,
ché ci saremmo allora saziati di lagrime e pianti,
la sventurata madre, che a luce lo diede, ed io stesso!».
     Questo diceva fra pianti: gemevano tutti i Troiani.
Ed Ecuba levò fra le donne il suo lungo lamento:
430«Figlio, misera me, dove andrò col mio fiero dolore,
ora che tu sei morto? Tu eri, di notte e di giorno,
l’orgoglio mio, per questa città: ché il sostegno di tutti,
uomini e donne, in Troia, tu eri, che al pari d’un Nume
te riguardavano, e in te possedevan rifugio sicuro,
435mentre eri vivo: adesso t’han colto la Parca e la Morte».
     Cosí dicea piangendo. Ma nulla sapeva la sposa
d’Ettore ancora: ché niuno venuto era a darle l’annunzio
ch’era lo sposo suo rimasto fuor delle mura.

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Ma ne le stanze interne sedeva al telaio, e tesseva
440duplice un manto di porpora, a fiori di varii colori;
ed alle ancelle di casa ricciute avea l’ordine dato
che sovra il fuoco ponessero un tripode grande, ché caldo
fosse per Ettore il bagno, quand’ei dalla zuffa tornasse.
Misera! E il cuor non le disse che molto lontano dal bagno
445spento per mano d’Achille l’avea l’occhicerula Atèna.
     Ecco, ed un pianto, un ululo udí che giungea dalla torre:
onde un tremore la colse, di mano le cadde la spola;
e cosí disse alle ancelle dai fulgidi riccioli: «Andiamo,
due mi seguan di voi: vediamo che cosa è seguíto.
450Della mia nobile suocera udita ho la voce. Nel petto
mi balza il cuore in gola, le ginocchia un gelo mi serra.
Qualche sciagura incombe sui figli di Priamo! Oh, lontana
questa novella sempre rimanga da me! Ma poi temo
d’Ettore mio, l’ardito, che solo, lontan dalla rocca,
455còlto non l’abbia Achille divino, ed al piano l’insegua,
e ponga fine al suo funesto valore, che il seno
sempre gli empiea: ché con gli altri restar non patía nelle schiere,
ma innanzi ognor correva, ché a niuno cedeva in ardire».
     Detto cosí, si lanciò dalla casa, col cuore in tumulto,
460simile a forsennata: seguíano i suoi passi le ancelle.
E come giunse alla torre, in mezzo alla gente affollata,
stette, e guardò dall’alto dei muri; e lo sposo conobbe,
cui trascinava Achille dinanzi alla rocca: i corsieri
lo trascinavano senza pietà verso i concavi legni.
465Su le pupille a lei si stese una nuvola negra,
ed all’indietro piombò, lo spirto esalando. Lontano
tutte dal capo suo balzaron le fulgide bende,
il dïadema, con l’alta sua mitra, e le tortili fasce,

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e il velo ch’ebbe in dono dall’aurea Cípride, il giorno
470che dalla casa d’Etíone, offrendo gran copia di doni,
Ettore, sposa l’ebbe, l’eroe dal corrusco cimiero.
D’Ettore le sorelle, vicine le furono tutte,
e le cognate a sorreggerla, ch’ella spirata sembrava.
Ma quando poi rinvenne, raccolse gli spiriti in seno,
475levò tra le Troiane, rompendo in querele, la voce:
«Ettore, misera me!, tu ed io con un solo destino
siamo venuti al mondo. Tu, dentro le mura di Troia,
dentro la casa di Priamo; ed io sotto il Placo selvoso,
nella tebana reggia d’Etíone, che me pargoletta
480crebbe a fatale destino! Cosí, deh, non fossi mai nata!
Giú nelle case d’Averno, nell’ime latèbre del suolo
ora tu scendi, e me qui lasci in esoso cordoglio,
vedova nella tua casa. Né ancora favella il bambino
che generammo, infelici, tu ed io: né piú dargli soccorso,
485Ettore, tu potrai, ché sei morto; né questi a te darne.
Ché pur s’egli potrà sfuggir degli Achivi alla guerra,
sempre nei giorni venturi l’aspettano affanni e cordogli.
Altri vorranno certo rapirgli i suoi campi: ché il giorno
ch’orfano un pargolo rende, privo anche d’amici lo rende.
490Gemere deve sempre, bagnare di pianto le gote.
Va, ché lo spinge il bisogno, da tutti gli amici del padre,
chiede un mantello a questo, a quello una tunica chiede.
E chi si muove a pietà, gli porge una piccola coppa,
che, se gli bagna le labbra, non giunge a bagnargli il palato.
495E un bimbo, forse lieto fra i beni, da mensa lo scaccia,
ed a colpirlo avventa le mani, e d’ingiurie lo copre:
— Vattene via, ché tuo padre non siede a banchetto fra noi! — .
E lagrimoso il bimbo ritorna alla vedova madre:

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Astïanatte, che prima sedea sui ginocchi del padre,
500solo midollo cibava, sol carne di pecore pingui.
Quando poi, giunto il sonno, cessava di pargoleggiare,
dormia nel suo lettuccio stringendolo al sen la nutrice,
entro le morbide coltri, di florida gioia il cuor pieno.
Ora l’aspettano mille cordogli, ché il padre ha perduto.
505Astïanatte! Ahi!, cosí ti chiamavano in Ilio: ché il padre
tuo proteggeva da solo le porte e l’eccelse muraglie.
Ora, lontan dai parenti, vicino alle navi ricurve,
di vermi un brulichio, poi che sazi saranno i mastini,
divorerà l’ignudo suo corpo. E qui son tante vesti
510morbide e grazïose, tessute da mani di donne.
Ora le brucerò tutte quante, sul fuoco rapace.
Ciò non ti gioverà, ché in esse non sei tu ravvolto,
ma tra le donne onore ne avrai, tra gli uomini d’Ilio».
     Cosí dicea piangendo: gemevano insiem l’altre donne.