Metterci la faccia, metterci l’identità:
il valore sociale dell’immagine facciale1
Cristina Voto
1. Le immagini facciali
Questo testo cerca di fare luce su un particolare tipo di immagine,
quella che definiamo come immagine facciale, un artefatto visivo
per l’incorporazione dei discorsi sull’identità. Sono immagini che
interpelliamo perché capaci di restituire uno sguardo sulla società,
il tessuto collettivo oggi più che mai condizionato dalla facilità che
riscontriamo nella produzione di immagini grazie a diversi strumenti quali algoritmi, smartphone, fotocamere e software. Secondo
questa prospettiva, le immagini incidono in una forma nuova e, fino
a pochi decenni fa, inaspettata sulla cultura visiva dal momento che:
“eventi visivi in cui il consumatore ricerca informazione, significato,
o piacere attraverso un’interfaccia di tecnologia visuale” (Mirzoeff
[1999] 2001 pp. 29-30) sono oggi parte della nostra quotidianità e
agiscono in svariati ambiti sociali. Quante forme dell’esperienza e
del sapere, del resto, trovano oggi nella traduzione per mezzo di
immagini non solo un meccanismo sussidiario alla propria diffusione e perdurabilità ma un vero e proprio strumento di creazione e
(r)innovazione? Ma, allora, se le immagini sono così pervasive del e
nel sociale, di cosa parliamo quando parliamo di immagini?
Se solo ci soffermiamo sulla semantica della lingua italiana, ovvero
sulla pluralità di significati cristallizzati nel vocabolo in analisi, questo ci appare come un termine-ombrello, un termine cioè capace di
racchiudere al suo interno referenti del mondo anche assai diversi tra
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loro come, ad esempio, un concetto, un quadro, un murale, un’illustrazione, ecc. Anche
in questo nostro intervento la pluralità di significati racchiusi nella parola immagine è
analizzata come un aspetto costituivo dei processi che con esse intratteniamo. Le immagini appartengono infatti a plurimi domini come quello grafico, verbale, ottico, mentale
e percettivo (Mitchell 1984) e su plurimi domini interagiscono.
Strumento per l’incorporazione di valori, passioni e ideologie, le immagini sono un
dispositivo capace di codificare, e quindi di tradurre percettivamente e cognitivamente,
i discorsi sociali. Nel caso dell’immagine facciale, poi, questi discorsi sono quelli legati
all’autodeterminazione come posizionamento “al di fuori di una cornice medico-giuridica e narrativa patologizzante” (De Leo 2021, n/p) riguardo la determinazione della
propria identità di genere.
Per la comprensione delle immagini facciali il punto di partenza sarà riconoscere nell’identità non una datità ma l’effetto di un’istanza processuale, un fenomeno stratificato
e che sorge sulla base delle iscrizioni polifoniche che caratterizzano il tessuto sociale.
Risultato delle negoziazioni biopolitiche che attraversano la nostra società; l’identità è,
per queste pagine, il campo di battaglia dove la dimensione situale e intersezionale che
definisce la soggettività prende forma sulla base delle diverse esperienze legate all’identità di genere, di classe, etnica o, ancora, quella relativa all’età (Crenshaw 1991). Tenendo
presente questa dimensione performativa, definiamo le immagini facciali quali visualizzazioni dell’identità risultato della volontà di rappresentazione di un volto2, un desiderio3 che attraversa la specie umana (Leone 2020) e che fa della presentificazione del volto
proprio o altrui un segno dell’identità.
2. La semiotica delle immagini facciali
Nel Trattato di semiotica generale Umberto Eco (1975, p. 17) scrive che:
la semiotica ha a che fare con qualsiasi cosa possa essere assunta come segno. È segno
ogni cosa che possa essere assunta come sostituto significante di qualcosa d’altro.
Questo qualcosa d’altro non deve necessariamente esistere, né deve sussistere di fatto
al momento in cui il segno sta in luogo di esso (separazione tra esistenza e senso). In
tal senso la semiotica, in principio, è la disciplina che studia tutto ciò che può essere
usato per mentire.
Parafrasando la proposta di Eco, proponiamo di pensare alle immagini facciali come
un sostituto dei discorsi sull’identità, un simulacro con cui rendere presenti i percorsi
aventi al centro la rappresentatività sociale dell’identità.
Osservare le immagini facciali attraverso la lente semiotica ci permette, perciò, di riconoscere non solo la dimensione narrativa e la rete di rimandi, di sguardi e di posizionamenti figurativi che compongono l’artefatto visivo. Al fare del proprio oggetto
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partire dall’invito ad uscire dall’invisibilità dell’armadio, figura quest’ultima
utilizzata per: “indicare la condizione
di chi non dichiara pubblicamente
il proprio orientamento sessuale o la
propria identità di genere” (De Leo
2021, n/p), che possiamo decodificare,
nel volto ritoccato della copertina n.
22, l’immagine di un’identità il cui
percorso di autodeterminazione viene
cancellato.
Osservare questa copertina ci
serve, allora, per mettere a fuoco la
domanda rivolta alle immagini come
strumenti di significazione sociale.
Nello specifico si tratta di riconoscere nelle immagini un’agency, una
capacità d’azione e perciò di intervento sul modo (Leone 2014), un’intenzionalità capace di intervenire sui
discorsi della società.
d’indagine tutto ciò che può essere usato per mentire, la semiotica ci può aiutare a denaturalizzare quei fenomeni percettivo-cognitivi che pur risultandoci così immediati, come
ad esempio il riconoscimento delle linee e delle forme che compongono un’immagine, non
possono che tener conto della carica culturale presente in ogni esperienza visiva (Eco 1997).
Un ambito di forte interesse per la disciplina, del resto, è sempre stata la domanda
rivolta verso la possibilità di una teorizzazione del linguaggio visivo (Greimas 1984,
Fontanille 1989, Marin 1989, Schapiro 2000). Il dibattito inizia a prendere piede negli
anni sessanta quando Émile Benveniste, nell’articolo Semiologia della lingua del 1969,
riconosce l’esistenza di un sistema di dipendenze tra linguaggio e immagini, e più in
generale tra tutti i sistemi semiotici, dal momento che le immagini, secondo il linguista,
non sarebbero dotate di un metalinguaggio proprio. In questa stessa direzione anche
Roland Barthes nei suoi testi sulla moda (1967) e sulla fotografia (1980) riconosce nel
verbale il sistema traduttivo di tutti gli altri linguaggi.
Da allora la discussione sulla possibilità di individuare nelle unità minime del linguaggio visivo dei segni disgiunti e combinabili così come avviene nel linguaggio verbale ha acceso il dibattito semiotico. In questa stessa direzione, continuare a riflettere
sull’esistenza di una dimensione a priori del linguaggio visivo, ovvero sulla presenza
di un ordine delle immagini la cui metalinguistica sarebbe organizzata secondo unità
componibili, ci permette di pensare alle immagini come alla messa in atto di un’enunciazione visiva, il risultato cioè di una mediazione tra la grammatica che regolano il
linguaggio visivo e le concrete visualizzazioni. Vediamone un esempio.
3. Le immagini facciali del sociale
4. La società delle immagini facciali
Nell’anno 1979 esce il ventiduesimo numero della rivista “FUORI!”, omonima testata
del Fronte Universale Omosessuale Rivoluzionario Italiano, la prima associazione gay
su scala nazionale4. Al centro della copertina troviamo l’immagine frontale di due persone, in un’inquadratura a mezzo busto, che si staglia compatta su un fondo bianco e
indefinito. Questo ritratto in bianco e nero ci sorprende per una particolarità: i soggetti rappresentati sono privati dell’elemento identificativo per eccellenza, la faccia. In
quell’immagine che sembrerebbe alludere alla messa in scena di un’identità, i pattern
figurativi5 che fanno di ogni volto una superficie per l’identificazione sono manomessi
fino alla cancellatura. I tratti che plasmano la mereologia privilegiata per il riconoscimento dell’identità sono ritoccati e fanno della parte anteriore della testa un’unica
superficie di colore scuro. Spostando il nostro sguardo verso la parte superiore della
pagina, poi, ci rendiamo conto che la coppia di figure senza faccia è sovrastata da una
scritta che si rivolge direttamente a chi osserva: “Milioni di italiani senza un volto. Sei
anche tu uno di quelli?” (fig. 1).
L’acronimo dell’associazione, così come l’imperativo che caratterizza il titolo della pubblicazione, reca iscritto l’appello al coming out from the closet come strategia politico-sociale. È a
Esiste un topos ricorrente sia del tessuto relazionale che organizza la nostra esperienza
quotidiana sia degli enunciati discorsivi che analizzano il sociale: quello per cui la nostra
sarebbe una società delle immagini. Già negli anni ottanta del secolo scorso lo storico
dell’arte Ernst Gombrich (1985) trovava in questa definizione una lettura denotativa
capace di rendere conto di una delle caratteristiche fondamentali della società occidentale: l’attenzione per il visivo e la pervasività dei suoi artefatti. Oggi, quasi quarant’anni
dopo, sebbene un’etichetta di questo tipo possa risultare quasi ridondante, ne riconosciamo ancora un’efficacia.
Pensare nei termini di una società delle immagini vuol dire metterci a confronto con una
serie di problematiche legate ai modi di vedere socialmente diffusi, alle prassi socio-culturali attraverso cui le immagini diventano intellegibili, alle tecnologie necessarie per la
realizzazione dell’esperienza di fruizione e alla loro capacità di diventare uno strumento
di progettazione epistemica e pragmatica.
Pensiamo al ritratto pubblicato sulla copertina della rivista. I ritratti hanno sempre
assolto differenti funzioni sociali nel corso della storia, dalla merce di scambio al bene
ereditato, dall’oggetto di affermazione sociale al cimelio. In questo senso già a partire
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dal Rinascimento i ritratti si diffusero rapidamente in tutte quelle situazioni giudico-amministrative dove, dinnanzi all’assenza della persona raffigurata, il volto riprodotto attraverso il ritratto acquisiva un valore capace di garantire l’esercizio di determinati diritti (Belting 2013). Soprattutto nella ritrattistica fiamminga assistiamo al passaggio dalla raffigurazione di un’esistenza personale a una esistenza cosale per mezzo della
codificazione di un oggetto portatile, un’immagine che conferiva alla persona rappresentata una presenza e un potere simbolico.
Seguendo questa prospettiva, possiamo pensare ai ritratti quali immagini facciali operative, per recuperare un’espressione cara al videoartista Harun Farocki, perché oltre a
rappresentare referenti del mondo, identificano e fanno da supporto ai discorsi sull’identità. Con il termine supporto ci riferiamo alla dimensione materiale che rende possibile
la visualizzazione di un’immagine come, ad esempio la parete su cui è dipinto un affresco
in una chiesa, la tela di un quadro o, nel caso della fotografia analogica, la pellicola fotosensibile e la carta su cui viene stampata. Il supporto: “è ciò che incorpora la forma, non
è qualcosa che si disfa e si distacca per farla emergere, bensì qualcosa che la sostiene nel
suo atto di formazione” (Dondero 2020, p. 200). A scanso di equivoci, è necessario ricordare che anche di fronte alla smaterializzazione del digitale ci troviamo dinnanzi a degli
atti di formazione, come nel caso dei file che codificano l’immagine secondo determinate
estensioni quali i .jpg, i .tiff, o i .png. I modi in cui un’immagine può essere visualizzata
dipendono dalla natura materiale dei supporti in ragione dei gesti di iscrizione che danno
forma, e sostanza, alla dimensione enunciata di ogni immagine.
Enunciazioni del visivo, le immagini facciali, danno forma a quella che Thomas Macho
ha definito la società facciale (1996), quale tessuto connettivo che ha fatto dell’immagine
del volto un tipo nuovo di faccialità. Secondo il filosofo, l’attuale convergenza mediatica interverrebbe direttamente nella dimensione corporea del volto disincarnando le
abitudini percettive ed eliminando le fisionomie locali. Del resto, il processo di democratizzazione a cui è stato sottoposto il volto, dal XIX secolo in avanti, grazie alla diffusione delle tecnologie mediatiche, come la macchina fotografica, ha reso il volto progressivamente sempre più dominante e incorporeo (Sekula 1986, Lee-Morrison 2019).
Un percorso questo che conduce fino all’attuale diffusione di quelle che Kelly Gates
(2011) ha definito come identità disincarnate, identità le cui rappresentazioni visive
e testuali dell’esistenza circolano indipendentemente dai corpi fisici e che sono riconosciute, a loro volta, da altre identità disincarnate, come i sistemi di visualizzazione
computazionale.
Ed è, allora, difronte a questi orizzonti del visibile che appelliamo all’immagine facciale
come uno strumento attraverso cui poter rintracciare i percorsi del senso che danno
forma all’identità, un dispositivo utile per poter dare un volto ai percorsi di autodeterminazione che attraversano la nostra società.
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Questo progetto ha ricevuto finanziamenti dal
Consiglio europeo della ricerca (ERC) nell’ambito
del programma di ricerca e innovazione Horizon
2020 dell’Unione Europea, in virtù della convenzione di sovvenzione n. 819649 (FACETS).
In queste pagine, per finalità analitica, distinguiamo la faccia in quanto facies esterna e perciò
continuamente esposta all’esperienza percettiva;
il viso come vista e visione, ciò che si mostra alla
società e che trascende la rappresentazione; e il
volto come un palcoscenico del/per l’identità, una
maschera che abitiamo e che ci abita, una piattaforma di comunicazione sempre mediata.
Questo stesso desiderio è stato descritto già da
Plinio il Vecchio nel narrare le vicende del vasaio
Butades, che: “Di nient’altro servendosi che della
terra stessa […] inventò per primo a far ritratti in
argilla, per opera della figlia, la quale, presa d’amore per un giovane e dovendo questi partire,
alla luce d’una lucerna delineò a contorno l’ombra
della faccia di lui sulla parete e su queste linee il
Riferimenti bibliografici
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padre di lei, avendo impresso dell’argilla, fece un
modello che lasciò seccare insieme con altri oggetti di terracotta e poi cosse al forno” (Ferri 2000,
pp. 252-253).
Il “Fronte unitario omosessuale rivoluzionario
italiano […] accoglie le istanze del nuovo attivismo richiamando già nel nome l’imperativo del
coming out e dichiarando programmaticamente
la necessità di una integrazione della ‘rivoluzione sessuale’ con quella ‘politica’. Le prime energie
dell’organizzazione sono concentrate nella realizzazione dell’omonimo periodico, il ‘Fuori!’” (De
Leo, 2021, n/p)
Pensare agli elementi che organizzano lo schema
morfologico necessario al riconoscimento dei
volti significa prendere in considerazione anche
il fenomeno della pareidolia quell’illusione ottico-percettiva dell’ordine dell’apofenia che ci porta
a riconoscere degli elementi figurativi, come degli
occhi e una bocca, lì dove non ve ne sono, come ad
esempio nella facciata di un edificio.
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