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ELENA TAVANI STORYTELLING: HANNAH ARENDT E IL RACCONTO DI STORIA Hannah Arendt and Storytelling Abstract: The essay examines H. Arendt’s views on history and storytelling in terms of both a support to her theory of ‘factual context’ and a means to challenge teleology in historical determinism and philosophies of history. In what respect does Arendt believe that storytelling as a non-partisan ‘shaping’ of factual material can support the right of human beings to have access to factual truth? And how does storytelling contribute to illuminate what we my term Arendt’s non-organic idea of history, an idea capable of highlighting the elementary structure of individual events understood as ‘crystallized’ historical entities? These questions are addressed by analyzing several of Arendt’s essays, including Truth and Politics, The Concept of History, and Lying in Politics, as well as passages from Arendt’s Notebook, and by finally comparing her views with Walter Benjamin’s on storytelling and constellations, and Derrida’s on the role of the witness to attest factual truth in a factual context. Keywords: Hannah Arendt – Historical storytelling – Jacques Derrida – factual truth – political lie. 1. La funzione strategica del racconto in ambito storico Nella sua ultima intervista, concessa a Roger Errera, Arendt osserva, a proposito dell’evento storico e della possibilità di raccontarlo: Contingency is indeed one of the biggest factors in all history. Nobody knows what is going to happen simply because so much depends on an enormous amount of variables; or, in other words, on hasard. On the other hand, if you look back on history, then retrospectively – even though all this was contingent – you can tell a story that makes sense. Studi Filosofici XLIV - 2021 Bibliopolis - ISSN 1124-1047 148 ELENA TAVANI How is that possible? That is the problem for every philosophy of history. How is it possible that in retrospect things always look as though they could not have happened otherwise? The variables have disappeared; reality has such an overwhelming impact on us that we ignore what is actually an infinite variety of possibilities1. Nel corso dell’intervista vengono affrontate molte questioni relative alla storia e alla politica del Novecento che Arendt in parte ha avuto modo di esperire in prima persona, come testimone diretta dei fatti o come storica e pubblicista politica2. Un retroterra che continua a far sentire il suo peso anche quando si occuperà quasi esclusivamente di teoria politica. Il valore peculiare del passo citato sta nel porre l’accento sull’aspetto della ‘casualità’ che caratterizza la contingenza di un qualunque accadimento di cui facciamo esperienza. Si tratta di un aspetto, sottolinea a più riprese Arendt, che le scienze storiche e le filosofie della storia hanno tentato di ricondurre all’interno di qualche ‘direzione oggettiva’ della storia. E l’apparenza di necessità che assume un certo processo casuale una volta giunto al suo termine – e che come esseri umani o come storici di professione possiamo guardare retrospettivamente –, contribuisce a far dimenticare che l’accaduto non è accaduto necessariamente ma avrebbe potuto essere qualcosa di diverso. La lezione di Aristotele, secondo cui la politica è la sfera del contingente, e cioè di cose che avrebbero potuto essere altrimenti, viene estesa da Arendt alla dimensione del dato di fatto storico, una combinazione casuale e non causale di fattori. Il suo contenuto, e cioè quello che emergerà come il ‘valore di novità’ degli eventi non deve secondo Arendt cedere il passo alla ‘funzione’, come avviene 1 Cfr. H. ARENDT, «Interview with Roger Errera», in EAD., Thinking without a Banister. Essays in Understanding (1953-1975), edition and introduction by J. KOHN, New York, Shocken Books (VitalBook file), 2018, p. 495: «La contingenza è uno dei fattori principali in storia. Nessuno sa cosa accadrà per il semplice fatto che ciò dipende in larga misura da una quantità enorme di variabili, o, in altre parole, dal caso. D’altro canto, se si guarda indietro nella storia, quindi retrospettivamente – sebbene ogni cosa accaduta sia stata contingente – si può raccontare una storia che abbia un senso. Come è possibile? Questo è il problema di tutte le filosofie della storia. Come è possibile che retrospettivamente sembri sempre che le cose non sarebbero potute accadere altrimenti? Le varianti sono scomparse; la realtà ha un impatto così sovrastante su di noi che non sappiamo cosa sia in effetti una infinita varietà di possibilità» [trad. mia]. 2 Cfr. S. WEIGEL, «Hannah Arendts Denktagebuch (1950-1973): Vom persönlichen Tagebuch zum Arbeitsjournal», in Zeitschrift fürGermanistik, Neue Folge, XXVI, 2 (2016), 283-292. STORYTELLING: HANNAH ARENDT E IL RACCONTO DI STORIA 149 quando prevale «l’esigenza scientifica» del principio di causalità, dato che evidenziare i nessi causali tra eventi neutralizza ogni fattore di casualità, essenziale nella definizione del piano della loro contingenza. Su questa base il problema principale di una teoria della storia appare duplice. Ribadire che il regime a cui risponde il fatto accaduto è quello della possibilità (realizzata) e non quello della necessità. Individuare un metodo con il quale la scienza storica possa confrontarsi con le ‘verità di fatto’ in forma il meno possibile arbitraria. Una volta messo a fuoco il problema, emerge con una certa chiarezza anche il compito che si trova davanti l’analista storico/a: fronteggiare il determinismo storico, il pensiero della necessità della storia e la legge del progresso che in epoca moderna ne definisce l’aspetto normativo3. Ciò che si verifica con i tentativi moderni di «determinare qualche direzione oggettiva della storia» è che i fatti acquistano il loro significato dentro un processo universale, oppure grazie all’applicazione di «modelli strutturali» come formule in grado di dischiudere i segreti della storia4. La personale posizione di Hannah Arendt è che viceversa sarebbe utile guardare al modello della storia e delle cronache degli antichi, che certo indulgevano a un racconto spesso finalizzato al ricordo celebrativo ma che mettevano in primo piano la contingenza del fatto storico, sia che si trattasse di res gestae che di eventi veri e propri, come la fondazione di Roma. Gli antichi, in altre parole, non tendevano a «disintegrare», in forza di vari storicismi o filosofie della storia, «il contesto evenemenziale», che era invece preservato, anche se non sempre presentato in tutte le sue componenti5. Contro il determinismo Arendt invoca, quindi, un principio di ‘casualità’ che messo al centro dell’interrogazione sulla storia e sul metodo storico, dovrebbe poter creare, mettendo fuori gioco ogni schema di prevedi3 Su questo tema, cfr. almeno P. FLORES D’ARCAIS, Hannah Arendt, Roma, Fazi, 2006, in part. 81, 155-156, il quale tuttavia vede un indirizzo esistenzialista del pensiero di Arendt che non mi pare condivisibile. 4 Cfr. H. ARENDT, «Il concetto di storia: nell’antichità e oggi», in EAD., Tra passato e futuro, a cura e con introduzione di A. DAL LAGO, trad. it. di T. GARGIULO, Milano, Garzanti, 1991, 127, 118. 5 Per tutte le citazioni qui presentate, cfr. H. ARENDT, Denktagebuch, hrsg. von U. LUDZ – I. NORDMANN, München, Piper Verlag, 2002, 2 Bde.; EAD., Quaderni e diari (1950-1973), trad. it. di C. MARAZIA, Vicenza, Neri Pozza, 2007, XVII [11], 346. Arendt porta l’esempio della storiografia di Tucidide, che poteva definirsi di carattere ‘oggettivo’ anche se trascurava molti fatti. 150 ELENA TAVANI bilità del corso degli eventi, una sorta di barriera logica contro i tentativi di disinnescare l’intrattabilità del ‘dato di fatto’ e renderlo processabile. La ‘casualità’ viene dunque introdotta da Arendt come un fattore di disinnesco del principio di causalità. Quest’ultimo viene considerato, del resto, quasi unicamente come ‘principio di determinazione’ del reale e non ad esempio come uno schema interpretativo dal valore probabilistico. La casualità dovrebbe in buona sostanza fungere da contro-principio eliminando dall’orizzonte dell’indagine storica l’idea, e dunque anche il criterio, di un concatenamento necessario di fatti. In questo senso la funzione della casualità sarebbe quella di imporre in certo modo allo storico la presenza (fantasmatica) di «un’enorme quantità di variabili» da tenere in considerazione sul piano non solo teorico, ma di metodo storico. Non si tratterebbe allora solo di evitare una lettura dei fatti storici semplificata e in fin dei conti artificiosa come quella di tipo causale, ma di suggerire, operativamente, linee molteplici di indagine, dunque una scelta plurima e non univoca di fattori da prendere in esame che possa il più possibile limitare passi falsi, semplificazioni riduttive o forzature ed errori di valutazione. Questa assunzione preliminare porta Arendt a considerare impropri – o accettabili solo come ipotesi di lavoro e non schemi vincolanti – tutti quei tentativi di analizzare la realtà storica proiettando su di essa leggi univoche (come il principio di causalità), o anche ideologie o ipotesi costruite a tavolino, che in vario modo allontanano il racconto della storia dalla ‘verità dei fatti’. Di qui, la scelta di fare dello storyelling il metodo dell’indagine e un punto ineludibile di ogni discussione relativa alla dimensione dell’accaduto, nella misura in cui si interroga sul valore di verità e sul peso politico di eventi che deve essere possibile enucleare dal ‘corso’ della storia. Storytelling, cioè storia raccontata, cronaca dei fatti, resoconto, descrizione dell’accaduto, e in questo senso storiografia (Geschichtsschreibung). Più avanti faremo cenno a qualche difficoltà che la scelta arendtiana di puntare in via esclusiva alla ‘casualità’ come al principio-guida del metodo di indagine dello storico, non sembra riesca ad eludere del tutto. Per il momento limitiamoci a osservare come la centratura sullo storyelling, da intendersi specificamente come resoconto e descrizione dei fatti, assuma un ruolo assolutamente strategico in vista del posizionamento teorico di Arendt sull’argomento del ‘metodo’ delle scienze storiche. Tale centratura le permette infatti di opporsi in modo esplicito sia alle filosofie della storia e agli storicismi moderni che alle scienze storiche concepite, soprattutto in ambiente anglosassone, secondo gli schemi nomologici e deduttivi del neopositivismo. E le consente anche di contrastare, ma in modo implicito, al- STORYTELLING: HANNAH ARENDT E IL RACCONTO DI STORIA 151 cuni orientamenti della storiografia novecentesca, come la storiografia francese de Les Annales, attenta più alla cultura materiale di una civiltà che non alla politica e incline a leggere il tempo storico sulla base del criterio della ‘lunga durata’ in contrapposizione a una storia degli avvenimenti6. Guardando più da vicino le implicazioni di questa impostazione del problema della narrazione storica, possiamo osservare che si aprono almeno quattro livelli di considerazione. Il primo livello è senza dubbio quello per cui il focus posto sullo storytelling intende ancorare la storiografia alla verità dei fatti, che resta l’obiettivo prioritario, nonostante la difficoltà di mettere in luce il fatto in modo veridico. Contrariamente all’uso comune, che associa lo storytelling all’arbitrio narrativo, all’interpretazione soggettiva e all’opinione, Arendt cerca di associarlo a un ‘truth-telling’, sebbene non esiti a precisare che i fatti, in quanto semplici accadimenti, «non sono la storia». Un secondo livello è quello che riguarda il piano di filosofia della storia, la tendenza a giudicare i fatti storici alla luce di qualche idea che orienta il giudizio in merito al loro significato; sarebbe insomma arbitrario chiamare ‘storia’ una «donazione di senso», un significato attribuito ai fatti sulla base di qualche principio o presupposizione finalistica che gli accadimenti devono poter avvalorare o meno. Il terzo livello è invece quello delle ‘scienze storiche’ che tendono a mettere in subordine lo storytelling, per privilegiare assunti epistemologici e criteri come quello del principio di causalità, in grado di fissare in forma lineare e razionale la relazione tra i fatti. Infine, lo storytelling viene chiamato, in un’epoca di defattualizzazione dei fatti, a tenere testa alla tendenza degli analisti politici di presentare una certa storia o certe circostanze sulla base di ‘immagini’ e pseudo-notizie costruite ad hoc, con il preciso intento di manipolare i fatti e cancellare la distinzione tra dato di fatto e opinione7. Ricordiamo che Arendt descrive lo ‘storyteller’ come ‘truthteller’ in particolare nel saggio Verità e politica e in alcuni quaderni preparatori di pochi anni prima8. La descrizione del/la truthteller e delle forme che può 6 Come noto gli storici fondatori delle Annales nel 1929 (Marc Bloch e Lucien Febvre) sostenevano lo studio di civiltà e cambiamenti a lungo termine. Fernand Braudel fu il teorizzatore del concetto di ‘lunga durata’. 7 H. ARENDT, La menzogna in politica. Riflessioni sui ‘Pentagon Papers’, a cura e con intr. di O. GUARALDO, trad. it. di V. SANTINI, Milano, Marietti, 2006, in particolare: 15-19. 8 Cfr. U. LUDZ, «On the Truth-and-Politics Section in the Denktagebuch», in R. BERKOWITZ – I. STOREY (eds), Artifacts of Thinking: Reading Hannah Arendt’s Denktagebuch, Fordham, Fordham UP, 2017, 37-50: 42. Ursula Ludz invita a leggere in partico- 152 ELENA TAVANI presentare, di storico/a, reporter, testimone, pone questioni che in tutta evidenza riguardarono Arendt in prima persona: dal momento in cui accettò l’incarico di raccontare il processo Eichmann come inviata della testata americana. Provare a raccontare la verità «sul piano dei fatti» (on a factual level) significò, in quella circostanza, evidenziare il dato, su cui Arendt insistette particolarmente, del carattere ‘ordinario’ dell’imputato: questo rientrava precisamente nel tentativo di mettere a fuoco un dato di fatto, fornire «una descrizione precisa di un fenomeno» così come si manifestava: (a faithful description of a phenomenon). Naturalmente, Arendt ammise che da questo piano descrittivo era poi possibile trarre anche delle conclusioni, cosa che fece parlando della «banalità del male» e dichiarando che la ‘lezione’ che aveva imparato nel contesto del processo era «la verità fattuale» della ordinarietà del criminale9. 2. Lo storytelling come costruzione In Vita activa Arendt colloca la narrazione storica all’interno dell’attività di costruzione e fabbricazione di ‘opere’. L’attività dell’operare (das Herstellen) va a costituire, insieme al lavoro (die Arbeit) e all’agire (das Handeln) la terna delle attività fondamentali della condizione umana. Per essere più precisi, la storiografia compare, insieme alla poesia, all’arte, alla scrittura, tra le «attività superiori» dell’homo faber, quindi presenta uno statuto speciale all’interno del «mondo artificiale», dato che non solo non rientra nelle attività volte al soddisfacimento delle impellenti necessità della vita (come il lavoro), ma nemmeno può essere commisurato allo strumentalismo utilitaristico della fabbricazione10. lare i paragrafi 10 e 21 del XXIV libro dei Quaderni e diari, non solo come quaderni preparatori al saggio poi pubblicato nel 1967, Verità e politica (prima ed. it. a cura di V. SORRENTINO, Torino, Bollati Boringhieri, 2004), ma come un serbatoio di indizi che ci aiutano a comprendere il punto di vista di Arendt rispetto al report/racconto del processo Eichmann a Gerusalemme da lei scritto per The New Yorker e alle sue riflessioni in seguito alla controversia sorta dopo la sua pubblicazione nel 1962. 9 Cfr. ibidem. Vedi anche H. ARENDT – M. MC CARTHY, Tra amiche. La corrispondenza tra Hannah Arendt e Mary Mc Carthy (1949-1975), a cura di C. BRIGHTMAN, trad. it. A. PAKRAVAN PAPI, Palermo, Sellerio, 1999; lettera di Arendt a Mc Carthy del 3 ottobre 1963. 10 H. ARENDT, Vita activa. La condizione umana, a cura e con intr. di A. DAL LAGO, trad. it. di S. FINZI, Milano, Bompiani, 1989, 125-126. STORYTELLING: HANNAH ARENDT E IL RACCONTO DI STORIA 153 Hans Jonas, nel breve ma incisivo ritratto filosofico che fa di Hannah Arendt all’indomani della sua scomparsa, non manca di mettere in rilievo, a proposito della terza delle attività della «vita attiva», come il produrre (Herstellen) venga significativamente tenuto lontano dal semplice ambito della utilizzabilità e indirizzato piuttosto a una funzione di stabilizzazione del mondo come sede dell’abitare umano11. Il che evidentemente vale in misura maggiore per quella fabbricazione sui generis che è la scrittura di storia. In particolare, occorre notare che il criterio della durata e della permanenza, applicata in generale alla «sfera dell’artificio» umano, tende ad assumere, se riferita al confezionamento di racconti di storia, non solo la precisa funzione di «conservare ciò che deve la sua esistenza agli uomini», come già era chiaro ad Erodoto12, ma quella di offrire a base per un attivo ripercorrimento e ripresa delle storie in successive e mutate circostanze da parte di un pubblico sempre diverso di lettori o ascoltatori. In altre parole, in quel tipo particolare di costruzione che è il racconto di storia la ‘permanenza’ deve costituire un supporto per attività che riguardano la sfera pubblica dunque il mondo delle relazioni e dello scambio di opinioni, anche in materia di ricordo e di eventi o azioni del passato. Nel caso della storiografia, sono però la verità storica e la verità politica che interagiscono, secondo Arendt, anche in senso agonale, una volta che il significato storico-politico di determinati eventi sia stato in grado di emergere con sufficiente ‘obiettività’ dal racconto di storia. Il piano dell’artificio, come dimostra in primo luogo lo storytelling storiografico, è in grado di presentare, rendere visibili e relativamente stabili significati e contenuti di portata politica. 3. Una storia ‘eventuale’ contro le filosofie della storia Gran parte degli sforzi di Arendt sono dunque diretti al tentativo di affrontare il problema della storiografia come una problematica che non può evitare di confrontarsi con la concezione moderna della storia come processo. Ma Arendt punta anche a contrapporre a questo tipo di 11 Cfr. H. JONAS, «Handeln, Erkennen, Denken. Zu Hannah Arendts philosophischem Werk», in A. REIF (Hg.), Hannah Arendt. Materialen zu ihrem Werk, Wien-München-Zürich, Europaverlag, 1979, 928. 12 H. ARENDT, «Il concetto di storia: nell’antichità e oggi» cit., 70. 154 ELENA TAVANI processo il processo innescato da un evento, che lo storytelling deve potere intercettare e dispiegare nella sua ‘struttura elementare’ di novità. All’interno delle disamine che dedica al tema del processo storico Arendt ricorda che il concetto va riferito a uno dei due tradizionali significati di physis, la vita come scorrimento, di contro alla physis-natura come insorgenza, ‘evento’ dell’apparire. Ma qui ci interessa notare come Arendt non consideri solo un tipo di processo, ma due. Il processo che è concatenamento inesauribile di causa ed effetto e il processo che è passaggio, all’interno di un tempo lineare, tra passato, presente e futuro, e che per la storia è propriamente il tempo del racconto. Sotto questo profilo il processo non va all’infinito, e definisce piuttosto lo sviluppo specifico di un fatto o di un’azione nel suo carattere ‘iniziale’, come capacità di mettere in moto altri eventi, di «liberare processi»13. Questo però è reso possibile proprio dallo storytelling come riedizione della cronaca o storia evenemenziale. Se invece adottiamo la processualità della storiografia in senso moderno, il racconto di storia deve affrontare il paradosso di essere a rigore, inenarrabile, dato che «tutti i fini specifici si risolvono in effetti che a loro volta provocano nuovamente qualcosa»14: il compimento non si compie, l’evento non può essere individuato e analizzato nella sua struttura evenemenziale15. Come abbiamo visto, Arendt collega la questione della processualità della storia direttamente alla questione della scelta del «metodo delle scienze storiche». Nonostante l’atteggiamento polemico nei confronti di ogni tipizzazione e nel caso specifico dell’analisi ideal-tipica di Weber (ad esempio, proprio della sua considerazione dello spirito del capitalismo come scaturito dall’etica calvinista), nella versione arendtiana tale questione sembra mantenere alcuni parametri forniti dall’impostazione data da Weber al problema del metodo delle scienze storico-sociali. Arendt, come abbiamo visto, rifiuta in maniera piuttosto categorica, senza mediazioni, di applicare alla ricerca storica il criterio cardine della causalità, centrale invece in Weber, il quale comunque distingue la causalità applicabile alla storia da un genere di causalità funzionale alle scienze della natura. Non sembra invece indifferente all’indirizzo dato da Weber all'indagine storica, sempre attenta a unaanalisi della struttura logica del suo oggetto oltre che dell’argomentazione storica e delle scienze sociali16. 13 Cfr. H. ARENDT, Vita activa cit., 228. H. ARENDT, Quaderni e diari cit., V [22], 111. 15 Ivi, XV [11], 303. 16 Cfr. M. WEBER, «Roscher e Knies e i problemi logici dell’economia nazionale 14 STORYTELLING: HANNAH ARENDT E IL RACCONTO DI STORIA 155 La scelta di metodo è in ogni caso sempre una scelta di merito, come si evince in modo paradigmatico dalle obiezioni che Arendt muove nei confronti di alcuni moderni orizzonti di filosofia della storia, in particolare quelli di stampo hegelo-marxiano17. L’indicazione di metodo suggerita da Hannah Arendt diventa «l’analisi degli elementi dell’evento [Ereignis]», pensato come polo «nel quale si sono cristallizzati improvvisamente gli elementi» stessi18. Può essere utile a questo proposito un rapido cenno al fatto che Arendt trovasse disponibile già in Benjamin quella nozione di cristallizzazione che si incarica di definire la struttura della tecnologia dello storytelling di storia. Si tratta in tutta evidenza di un modello che presenta forti somiglianze, anche terminologiche, con l’idea di ‘costellazione’ di Walter Benjamin, come aggregazione non gerarchica e non intenzionale tra elementi e, almeno in parte, con l’idea di indagine ‘micrologica’, che punta a far scaturire da un unico punto una molteplicità di aspetti. Nel saggio Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nikolaj Leskov (1936), Benjamin registra un tramonto dell’arte del narrare che va parallelo al tramonto della possibilità di scambiarsi esperienze e di dare forma organica alle conoscenze: il romanzo e poi l’informazione, di pari passo con le «nuove forze produttive storiche» e con i loro saperi frammentari, prendono il posto della narrazione, ancora legata alla sfera dell’attività artigianale19. La difficoltà del compito dello storico emerge invece con chiarezza dalla IX delle tesi benjaminiane Sul concetto di storia (1940). Lo sguardo retrospettivo dell’Angelo vede solo frammenti che vorrebbe ricollegare: ma deve prima pensare a resistere alla spinta del progresso che lo spinge, di spalle, verso un futuro sottratto alla visione. Benjamin, prima di Arendt, non manca di attaccare, e questo già nel saggio Edward Fuchs, il collezionista e lo storico (1937) i due miti o dogmi più resistenti della modernità, il mito del progresso e il mito della scientificità storica20. Costruire una «costellazione carica di tensioni» (tesi XVII) diventa allora per storica», in ID., Saggi sul metodo delle scienze storico-sociali, a cura di P. ROSSI, Torino, Einaudi, 2001. 17 Riguardo a Hegel, cfr. H. ARENDT, Sulla rivoluzione (1965), a cura e con intr. di R. ZORZI, trad. it. di M. MAGRINI, Milano, Edizioni di Comunità, 1996, 55-56. Riguardo a Marx, cfr. H. ARENDT, Quaderni e diari cit., XX [2], 406 e XX [6], 408. 18 Ivi, IV, 23, 92 [ted. 96-7]. 19 W. BENJAMIN, Costellazioni. Le parole di Walter Benjamin, a cura di A. PINOTTI, Torino, Einaudi, 2018, 123-126: 124. 20 Cfr. ivi, 151-154. 156 ELENA TAVANI lo storico l’unica opportunità di sottrarre la memoria e la trasmissione del passato al «conformismo imperante» (tesi VI). Arendt assimila, oltre all’idea di costellazione come metodo per lo storytelling, anche gran parte delle indicazioni presenti nelle Tesi di Benjamin, sebbene elabori un’idea più analitica del compito dello storico, che diventa «quello di analizzare e descrivere la nuova struttura che emerge dopo che l’evento ha avuto luogo, così come i suoi elementi e le sue origini, e lo fa con l’aiuto della luce che l’evento stesso proietta»21. Si tratta per Arendt di pensare questa ‘nuova struttura’ come suggerita dal principio di casualità e cioè dall’idea-guida di una molteplicità di varianti (possibili) da prendere in esame come una sorta di contesto evenemenziale potenziale. La casualità di un evento connesso ad altri consiste evidentemente nella presenza di più relazioni e possibilità alternative, per cui non è possibile, a monte, prevedere quale si verificherà. A valle, una volta che un evento si è verificato, la casualità si muta da struttura logica a struttura ontologica, suggerendo una sorta di spontaneità intrinseca al reale. Colpisce la decisione di Arendt di escludere senza mezzi termini ogni lettura causale degli avvenimenti e cioè di stabilire una contrapposizione netta di casualità e causalità. Nella scelta di non prendere affatto in considerazione nemmeno quei tentativi che hanno cercato di ottemperare all’esigenza di far entrare in gioco il caso come evento inatteso perché imprevedibile senza per questo disfarsi del tutto del principio di causalità come strumento di orientamento comunque funzionale alla spiegazione storica. In particolare, mi pare utile un rapido rimando ai temi della “possibilità oggettiva” e della “causazione adeguata” che Weber utilizza (riprendendoli da J. Von Kries) per interrogarsi nel merito di possibilità alternative agli eventi storici che si sono poi realizzati. Uno strumento che Weber utilizza per focalizzare l’importanza causale di una certa azione o decisione all’interno di un insieme vasto di elementi che vengono a trovarsi in una determinata disposizione per far scaturire un certo risultato22. In una lettera del 1953 Jaspers non si mostra convinto della impostazione viceversa molto drastica di Arendt nell'escludere ogni causalità e le chiede senza giri di parole se forse l’idea della novità in storia «che Lei scorge e costruisce in forma bril21 H. ARENDT, «Comprensione e politica (Le difficoltà del comprendere)», in S. FORTI (a cura di), Archivio Arendt 2 (1950-1954), trad. it. di P. COSTA, Milano, Feltrinelli, 2003, 95 nota. 22 Cfr. E. MASSIMILLA, «Il caso e la possibilità. Max Weber tra von Kries e Rickert», in Rivista di Storia della filosofia, III (2009), 491-504. STORYTELLING: HANNAH ARENDT E IL RACCONTO DI STORIA 157 lante» non sia una «esagerazione» che la porta a pronunciarsi contro ogni continuità e contro ogni fattore costante nella storia23. 4. L’evento da narrare e la sua novità Ma con che genere di concetto abbiamo propriamente a che fare quando qui si parla di evento? In un appunto che porta il titolo «eventoaccadimento-dato di fatto» leggiamo: nessuna narrazione senza eventi24. In quanto diventano dati di fatto (perché passati), gli eventi possono essere narrati e inseriti nel «contesto dell’accadimento» che è compito dello storico allestire. L’inserimento dell’evento nella terna, tra l’accadimento (Geschehen) e la materia fattuale o ‘dato di fatto’ resta enigmatico e tendenzialmente non spiegato. Sebbene infatti, come è già emerso, l’evento è inteso da Arendt come il punto di rottura della continuità che si registra in ambito storico laddove quella stessa cesura si registra, in ambito politico, nel fenomeno dell’azione libera25, la sua consistenza tende ad evaporare se non riportata al binomio evento/azione. Detto altrimenti sembra che l’evento tragga la sua consistenza teorica unicamente all’interno di quel binomio, e che pertanto non possa darsi qualcosa di storico che non sia anche politico. Una ulteriore domanda, che qui possiamo solo accennare ma ci sembra di non potere del tutto eludere, riguarda la vicinanza o meno di questa idea di evento con l’Ereignis di Heidegger. Quest’ultimo pensava in senso autenticamente esistenziale l’essere umano come ‘evento’ dell’essere, il che comportava che ‘nell’evento’ l’uomo sarebbe condotto a ciò che gli è ‘più proprio’26. In una nota dei Quaderni e diari Arendt ipotizza 23 Cfr. H. ARENDT – K. JASPERS, Briefwechsel (1926-1969), hrsg. von L. KÖLER – H. SANER, München, Piper Verlag, 2001, 244; si tratta della lettera di Jaspers del 3 aprile 1953. Nella risposta (lettera del 13 maggio 1953) Arendt parla lungamente di altro, evitando di entrare nell’argomento e di rispondere. 24 H. ARENDT, Quaderni e diari cit., XIV, [8], 281; nell’originale tedesco: «EreignisGeschehen-Tatsache». Sul tema dell’Ereignis in Heidegger, cfr. ivi, III [21]; XXVI [27]. 25 Arendt definisce l’Ereignis come sorgente della libertà, cfr. ivi, IV [18], 90. 26 Essere e tempo si danno per Heidegger nel far avvenire (im Ereignen) e l’uomo che percepisce l’essere stando dentro al tempo autentico è ricondotto a ciò che gli è proprio (sein Eigenen); cfr. M. HEIDEGGER, Tempo ed essere, Milano, Longanesi, 2007, 29, citato in H. ARENDT, Quaderni e diari cit., XXVI [27], 595. 158 ELENA TAVANI che l’idea secondo cui una ‘apertura’ nell’ente avvenga in termini di irruzione da parte dell’essere umano nella storia dell’essere «potrebbe chiarire» il carattere di evento della vita umana e della storia umana27. In una nota però tiene invece a precisare come il pensiero heideggeriano, nella sua ricerca dell’autenticità dell’Ereignis si ponga in «lotta contro la dimensione pubblica» e dunque cada nell’errore di ritenere il pensiero una dimensione autosufficiente28. In sintesi: sì all’evento come apertura, no all’evento come apertura autentica all’interno di una analitica esistenziale, quella appunto proposta dallo Heidegger di Essere e tempo. Qui torna utile la terna da cui siamo partiti, che suggerisce in modo, credo, molto chiaro che se per un verso l’evento è indispensabile a uno storytelling evenemenziale, all’evento è indispensabile la rete degli accadimenti che variamente gli si associano e la loro traduzione, tramite documenti e testimonianze, in ‘dati di fatto’. Occorre però anche tenere conto di un presupposto che viene esplicitato solo con brevi cenni. Andrà ammessa cioè secondo Arendt prima di tutto la realtà dell’evento, intesa soprattutto come contingenza (e non necessità) di un avvenimento registrato e registrabile come ‘dato’ storico e la possibilità di entrare in un racconto di storia come una sorta di punto o spazio che registra il concorso significativo di molti ‘dati di fatto’ (una sorta di concorso di cause – chissà se Arendt ci consentirebbe l’espressione). A questo proposito credo sia utile rimandare anche ad alcune indicazioni presenti in Alfred N. Whitehead, un autore per il quale Arendt ha mostrato uno spiccato interesse, e che cita nel suo Notebook, che riguardano il concetto di evento. Whitehead parla in particolare di un rapporto di «prensione» che l’evento genera come ente attivo e che resta in ombra rispetto alla ‘corrente focale’ in cui è situato29. Sebbene Arendt non faccia esplicito riferimento a questo passaggio, mi pare che possa fornire qualche indizio dell’impostazione che Arendt dà all’operazione di individuazione dell’evento. In altre parole, l’idea di prensione usata da Whitehead risulta altamente compatibile con il concetto di cristallizzazione più volte usato da Arendt per descrivere il fenomeno dell’attrazione che l’evento esercita su una serie di fattori ed elementi che 27 Cfr. ivi, IV [20], 90. Cfr. ivi, XXVI [27], 597. 29 Cfr. E. TAVANI, Hannah Arendt e lo spettacolo del mondo. Estetica e politica, Roma, Manifestolibri, 2010, 58. 28 STORYTELLING: HANNAH ARENDT E IL RACCONTO DI STORIA 159 vanno poi, grazie allo storytelling e alle sue analisi, a formare la struttura dell’evento stesso. Resta però un dubbio sulle modalità dell’individuazione: come riconoscere qualcosa che possa essere indicato come un evento? Evidentemente se il lavoro storiografico non può rinunciare all’individuazione dell’evento, deve anche provvedere a indicare cosa porta a specificare un evento storico come quell’evento e non altro. Individuare un evento significa coglierne la novità storica, dice Arendt. Qui risiede in realtà il punto decisivo, e cioè l'indicazione, che è solo la particolare novità storico-politica-sociale che si produce nel cuore di un certo complesso di occorrenze storiche (è il piano del Geschehen) a fare sì che si possa parlare di ‘evento’ in senso proprio. Ma leggiamo un passaggio da Comprensione e politica: La storia [history] ha inizio ogni qual volta si verifichi un evento grande abbastanza da illuminare il proprio passato. Solo allora il dedalo caotico degli avvenimenti passati emerge come una storia [story] che può essere raccontata, perché ha un inizio e una fine30. Il passo citato è solo in apparenza lineare. La definizione di storia, affidata a due termini, ‘history’ e ‘story’, presuppone l’individuazione di un evento che può essere illuminato nel suo significato grazie a uno sguardo retrospettivo (dunque un inizio che cerca a ritroso le circostanze concomitanti che lo hanno generato). Su questa base si inserisce poi lo schema di inizio-fine che si ha motivo di richiedere ad ogni tipo di narrazione, compresa quella del racconto di storia. In controluce o meglio fuori campo avvertiamo la presenza della figura dello/a story-teller di storia, rispetto a cui, e in particolare alle pratiche e alle tecniche previste nell’esercizio del lavoro di narrazione occorrerà fare alcune precisazioni. Lo storytelling è, potremmo dire, la tecnologia di questa operazione che mira al rilevamento ma anche alla stabilizzazione della novità di eventi storici, attraverso e oltre la loro ‘documentalità’. Ma con quali mezzi? Evidentemente il particolare indirizzo ‘retrospettivo’ dello sguardo dello storico31 non ci parla ancora della tecnologia che qui è in gioco, ovvero quella dell’individuare, raccogliere, fissare, mettere in rilievo e pre30 31 H. ARENDT, «Comprensione e politica» cit., 92-93. Cfr. H. ARENDT, Vita activa cit., 172. 160 ELENA TAVANI sentare le ‘novità’ di una certa epoca. Questo obiettivo sembra invece raggiungibile con altri mezzi: l’orientamento dello sguardo in direzione della novità e l’idea della costruzione di uno spazio della storia come cristallizzazione, di uno storytelling come struttura e composizione non sistematica, non organica e che stanno agli antipodi da un racconto di storia inteso come semplice capacità ricostruttiva e descrittiva di vicende trascorse e ormai lontane nel tempo. Per questa ragione lo storico o la storica deve dotarsi di diverse abilità e non solo applicare uno sguardo retrospettivo. Che anzi potrebbe addirittura distoglierlo/a – come sguardo scientificamente addestrato «a comprendere un evento come la fine e il culmine di tutto ciò che è accaduto in precedenza» – dal suo compito principale, quello «di scovare in ogni determinata epoca questo nuovo inatteso con tutte le sue implicazioni e di portare alla luce tutta la forza del suo significato»32. Potrebbe, in altre parole, fargli o farle dimenticare che il suo «ambito di competenza» è la novità dell’evento33. Con l’idea di ‘novità’ dell’evento come suo requisito necessario Arendt mette in campo innanzitutto una sorta di principio regolativo che, associato all’unicità dell’evento storico, esclude che esso possa essere inserito in una catena di avvenimenti secondo una logica assunta in via preliminare rispetto alla sua individuazione, come avviene quando una qualche teleologia informa una ‘scienza storica’ oppure una filosofia della storia. Il saggio che Arendt scrive in risposta a una recensione molto critica di Eric Voegelin a Le origini del totalitarismo risulta particolarmente istruttivo sia riguardo al problema del metodo della costruzione del racconto di storia, sia alle rispettive posizioni circa la ‘natura umana’. Ci limiteremo ad accennare al primo aspetto. Innanzitutto, contrariamente a quanto suggerisce Voegelin, l’analisi storica non deve applicare, secondo Arendt, il principio di ‘gradualità’ rispetto al manifestarsi di un evento storico (l’essenza del totalitarismo «dal mio punto di vista non esiste prima di venire alla luce»)34. Inoltre la ‘mancanza di unità’ che viene rimproverata al libro, risponde in realtà, ribatte Arendt, a un intento preciso, quello «di individuare gli elementi costitutivi del totalitarismo e di ana32 H. ARENDT, «Comprensione e politica» cit., 93-94. Ivi, 92. 34 Cfr. H. ARENDT, «Una replica a Eric Voegelin», in S. FORTI (a cura di), Archivio Arendt 2 cit., 173-180: 177. Ricordiamo che Voegelin sostiene una forma di provvidenzialismo storico. 33 STORYTELLING: HANNAH ARENDT E IL RACCONTO DI STORIA 161 lizzarli in una prospettiva storica, facendoli risalire a ritroso nella storia per quanto ritenevo opportuno e necessario. In altri termini, non ho scritto una storia del totalitarismo, ma un’analisi in una prospettiva storica»35. Il libro «propone un’indagine storica degli elementi che si sono cristallizzati nel totalitarismo», una ricapitolazione storica «seguita da un’analisi della struttura elementare dei movimenti e del dominio totalitario stesso»36. Ciò che va escluso è che possa risultare dirimente una intenzionalità dello storico volta a proiettare sugli avvenimenti un ‘tipo di novità’ presupposta ad essi. La novità dell’evento diventa un criterio utile secondo Arendt solo se messa in parallelo con la facoltà di dare inizio e di innovare sul piano della prassi umana, l’agire di pertinenza del politico. Il suggerimento è molto preciso: dobbiamo cercare una stessa matrice sia per la verità politica che per la verità storica e questa risiede nei fatti e negli eventi: ciò che non possiamo cambiare, a meno di mentire e di allontanarci dalla realtà37. La causalità o strutturale imprevedibilità dell’evento storico viene ora chiamata a sostenere la novità politica, riferita a un «agire» che funziona come matrice di storie, dal momento che ciò a cui dà inizio è un processo e una serie di avvenimenti. Rispetto al testimone o allo spettatore che giudica un evento in una condizione di attualità, lo storico giudica, potremmo dire, in una condizione di posterità e deve esercitare, oltre che uno sguardo retrospettivo, non tanto una prospettiva ampia – come lo spettatore-giudice – ma uno sguardo ‘perspicuo’ su fatti e circostanze del passato, così da individuare un punto focale dentro un molteplice cristallizzato. 5. L’imparzialità e la storia ‘inorganica’ Torniamo ora a esaminare il metodo o la tecnologia relativa alla produzione di racconti storici proposti da Hannah Arendt. Innanzitutto ogni accorgimento, capacità o ‘volontà di verità’38 soggettivi devono 35 Ivi, 174. Ivi, 175. 37 Cfr. H. ARENDT, Quaderni e diari cit., XXVI [7], 584. 38 Cfr. ivi, XXIV, [21], 528. 36 162 ELENA TAVANI fronteggiare inevitabilmente l’impatto con quel materiale primario che sono i fatti, le circostanze e i vari dati forniti da fonti e testimonianze che in varia misura rivendicano una loro oggettività sfuggente e non processabile. La categoria che Arendt fa intervenire a questo punto, per non rischiare che la strumentazione soggettiva si infranga di fronte alla durezza del dato o che, in alternativa, si sovrapponga al dato eludendolo o manipolandolo, è, come abbiamo in parte visto, l’idea che tutti i materiali storici, che lo storiografo assembla come dati oggettivi e potenziali ‘verità di fatto’, «si cristallizzano» intorno all’evento storico, ne delineano gli elementi, le precondizioni (cioè ‘il passato’) e la portata (il peso delle conseguenze in vista delle azioni e discorsi storicamente successivi all’evento)39. L’evento inteso in questi termini sta per la rilevanza, la visibilità della novità con cui un fatto riesce a imporsi all’attenzione. Analizzare e descrivere il nuovo evento come una nuova struttura e infrastruttura del potere (basti pensare al Totalitarismo): questo il compito dello storico, mentre dovrà essere secondo Arendt la scienza della politica a indagare sulla ‘natura’ del fenomeno, e cioè valutare in che termini e in che misura si intreccia con la questione della libertà politica e dello spazio del politico40. Se allora, per Hannah Arendt, il metodo storico deve restare un metodo di analisi fattuale e un esercizio ‘tecnico’ e non empatico, di imparzialità e oggettività, ciò significa, in negativo, che deve evitare il ‘difetto professionale’ dello storico e sottrarsi al paradosso di una storia ‘inenarrabile’41, ma significa anche, in positivo, che la presentazione e descrizione in forma di costellazione della rete di relazioni tra elementi convergenti e come ‘cristallizzati’ attorno a un evento non solo non esclude, ma prevede il compito di gettare sul tavolo tutte le carte disponibili in modo tale che lo storytelling renda praticabile la formulazione di un giudizio. Se leggiamo il saggio Verità e politica (1967), scritto a ridosso e sull’onda delle polemiche suscitate dal suo reportage del processo Eichmann a Gerusalemme nel 1961, come una sorta di ‘manifesto dello storytelling’ ricaviamo sul fronte delle indicazioni relative al racconto storico qualche elemento utile per uscire dalla impasse che mi sembra venga suscitata 39 H. ARENDT, «Comprensione e politica» cit., 92 nota. Cfr. ibidem. 41 H. ARENDT, Quaderni e diari cit., XV [11], 303. 40 STORYTELLING: HANNAH ARENDT E IL RACCONTO DI STORIA 163 dall’argomentazione di Arendt nella sua battaglia contro ogni informazione storica che punti a una de-fattualizzazione dei fatti e contro ogni tentativo di «scoprire leggi con cui spiegare e predire fatti politici e storici»42. L’argomentazione utilizzata per spiegare il nesso di libertà/menzogna resta infatti come sospesa, presentando, da un lato, la liceità della menzogna come «forma di azione» e dunque espressione di libertà e, dall’altro lato, una denuncia della fabbricazione della verità che porta a sopravvalutare questa libertà e giustificare «la negazione menzognera o la distorsione dei fatti»43. Se ne deve forse dedurre che per non diventare negazionisti basti moderarsi nell’invenzione di una versione dei fatti, per non arrivare a disfarsi dei dati di fatto come se fossero zavorra ingombrante e restare dentro il recinto delle opinioni di parte, dettate da interessi specifici? Riconosco che questa è una semplificazione. Indotta però dalla stessa Arendt, con ogni probabilità per via di una polarizzazione degli atteggiamenti – imparzialità e parzialità, distacco e persuasione, resoconto dei fatti e distorsione dei fatti – che in prima istanza vanno a caratterizzare le figure dello storico e del politico, alle quali però si affianca, lungo l’intera argomentazione, un persistente richiamo alla materia fattuale, alla contingenza e alla sua ‘verità’ non emendabile. A un lettore attento di Arendt come Derrida, che ha tratto varia ispirazione da Verità e politica per scrivere, di rimando, alcune note introduttive a una sua ‘storia della menzogna’, è sfuggito il ruolo centrale dello storytelling come costruzione volta a trattenere la novità fattuale della storia e gli è sembrato che la filosofa mostrasse in quello scritto un «impavido ottimismo» nel ritenere che proprio la verità dei fatti sia destinata a sopravvivere e non solo una possibile veridicità nel merito di quei fatti44, come pensa viceversa Derrida. Questi, infatti, prende il tema della ‘veridicità’ e lo sostituisce al tema della ‘verità di fatto’ di cui parla Arendt e lo fa proprio distorcendo un suo spunto di fondamentale importanza e cioè l’affermazione per cui «il contrassegno della verità di fatto è che il suo contrario non è né l’errore, né l’illusione, né l’opinione – che non si riflettono sulla sincerità personale – ma la falsità deliberata, o menzogna»45. Derri42 H. ARENDT, La menzogna in politica cit., 21. H. ARENDT, Verità e politica cit., 60-61. 44 J. DERRIDA, «Storia della menzogna: prolegomena» (1997), in S. FORTI (a cura di), La filosofia di fronte all’estremo. Totalitarismo e riflessione filosofica, Torino, Einaudi, 2004, 189-232: 230-231. 45 H. ARENDT, Verità e politica cit., 59. 43 164 ELENA TAVANI da, con il supporto di un testo kantiano non citato da Arendt46 interpreta: «il contrario della menzogna non è affatto la verità o la realtà, bensì la veracità o la veridicità, il dire-vero, il voler-dire-il-vero, Wahrhaftigkeit»47. L’obiettivo di Derrida è quello di ricondurre la contrapposizione all’interno dell’ambito del dire e della ‘dimensione performativa’ di questo direveridico o dire-mendace. Derrida è d’accordo con Arendt nel sottolineare la storicità della menzogna e lo stretto legame che intrattiene con la lettura politica della verità storica, che applica di volta in volta valori eterogenei (di possibilità, opportunità, necessità ecc). E la segue anche per un breve tratto nella pratica dello storytelling, la forma narrativa simile a quella «adottata dagli storici classici o dai cronisti», per raccontare l’episodio di Chirac che all’indomani della sua elezione a presidente ammette pubblicamente le colpe dello Stato francese durante l’occupazione tedesca in merito alla deportazione degli ebrei48. Ma ritiene anche che il tema, introdotto da Arendt, dell’auto-inganno come rinforzo del mentire e alla sua forza persuasiva49 vada ripreso e approfondito come dimensione inconscia e sintomatica (‘spettrale’) e anche interna a una «performatività tecno-mediatica»50. Essendo poi difficile trovare la risposta ‘migliore’ a letture antagoniste della storia, la proposta di Derrida è quella di «ricominciare la discussione», richiamando prove e testimonianze e rianimando la disciplina della memoria e l’archivio. In breve, propone un cantiere testimoniale sempre aperto, dal quale possano scaturire dimostrazioni persuasive. Rispetto alla proposta di Arendt, per quanto non chiara in diversi punti e talvolta troppo polarizzata in contrapposizioni, di uno storytelling che si assuma quella responsabilità politica che non si può chiedere alla politica, Derrida mostra di voler rimettere al centro dell’analisi il soggetto, il testimone e la sua confessione che mette a nudo un fatto attraverso un racconto veridico, proponendo una esperienza del tempo e della storia che fa a meno dell’evento e diventa una esperienza sostanzialmente memoriale e testimoniale. 46 I. KANT, «Su un preteso diritto di mentire per amore degli uomini», in ID., Scritti di storia, politica e diritto, a cura di F. GONNELLI, Roma-Bari, Laterza, 1995, 210. Kant aveva parlato del dovere giuridico di fare dichiarazioni veridiche e non menzognere, da intendersi come un imperativo della ragione: chi rilascia dichiarazioni mendaci nuoce non solo a qualcun altro, ma a tutta l’umanità. 47 J. DERRIDA, «Storia della menzogna: prolegomena» cit., 201. 48 Ivi, 202-203. 49 H. ARENDT, Verità e politica cit., 65. 50 J. DERRIDA, «Storia della menzogna: prolegomena» cit., 216. STORYTELLING: HANNAH ARENDT E IL RACCONTO DI STORIA 165 Viceversa Arendt, per poter associare all’attività dello storytelling la ‘responsabilità politica’ dello storico, deve legare la sua stessa veridicità non alla sua propria voce o testimonianza, ma alla capacità di prendere atto dei fatti e riferirli come tali (accettandone la non emendabilità). Mentre per poter conseguire l’obiettivo della imparzialità, deve legare questa presa d’atto a una vigilanza non solo di tipo etico e professionale, ma di tipo politico nei confronti della ‘verità’ dei fatti, in quanto riguarda pur sempre una organizzazione degli affari umani e della vita degli esseri umani dal valore pratico e non solo teorico-memoriale. È interessante notare come tutto questo vada a depositarsi nella tecnologia dello storytelling. Esso si presenta come cronaca, resoconto, reportage non però, almeno in questo, neutrali, ma interessati a raccogliere e assemblare prove, testimonianze e tracce di fatti trascorsi che devono poter essere assunti come «dati brutalmente elementari», una materia fattuale da estrarre (come evento) da un caos di vari avvenimenti per disporla all’interno di una storia ma anche da accettare nella sua irriducibilità e resistenza agli assalti delle opinioni e delle interpretazioni51. Questo è il punto che segna la massima distanza delle posizioni di Arendt da quelle di Derrida. Se infatti, per un verso, la ‘verità di fatto’ ha natura politica, esiste cioè solo nella misura in cui se ne parla pubblicamente e si presta ad essere confusa, anche strumentalmente, con l’opinione, per altro verso, si oppone all’opinione per il modo con cui viene asserita la sua validità. Restando riferita ad un evento, la verità di fatto presenta cioè un fattore ‘coercitivo’ che si sottrae alla discussione o al consenso: è valida perché si basa su un dato reale e ogni discussione nel merito non può inficiare la sua validità52. Su questa base appare molto chiaro il motivo per cui sia l’imparzialità che l’auspicata attitudine veridica dello storico non possono essere affidate da Arendt prioritariamente alla dimensione soggettiva o testimoniale, come vorrebbe Derrida, perché c’è una realtà dei fatti che non è una interpretazione da riconoscere e accettare o da confutare o verbalizzare altrimenti. Tanto più significativa risulta allora la scelta di far risultare il racconto di storia da una strategia di organizzazione dei materiali in ‘costellazioni’, che trova la sua chiave di volta nell’aggregazione o cristallizzazione di elementi – tecnologia che mi è sembrato utile chiamare ‘inorganica’ perché 51 52 Cfr. H. ARENDT, Verità e politica cit., 44-45. Ivi, 46-48. 166 ELENA TAVANI non organizza il materiale, le fonti o i dati di cui dispone, secondo una funzionalità prestabilita né intende minimamente essere organica a una ideologia politica, a una filosofia della storia o a un metodo ‘scientifico’. L’obiettivo dell’imparzialità del narratore di storia, proprio perché diversa dalla imparzialità del giudice-spettatore politico (che interviene nella formazione di un’opinione come effetto di una mentalità ‘allargata’) tocca però anche un altro tema, che vorrei almeno accennare. Si tratta di quello che di recente è stato definito il problema dei ‘diritti aletici’, del diritto alla verità sotto il profilo etico e giuridico53. Anche in questo caso si sottolinea il carattere attivo nei confronti della verità dei fatti, nella misura in cui non deve essere precluso l’accesso a una informazione per quanto possibile completa e non edulcorata dei fatti. E questo soprattutto perché questo tipo di verità, in forma diversa e più urgente rispetto alla verità razionale, è un concetto dal valore pratico, che riguarda l’organizzazione della nostra vita e dal valore politico perché riguarda le decisioni che ne determinano di volta in volta l’assetto e le prospettive. Su queste basi l’efficacia del racconto storico si misurerà sulla sua capacità di produrre una ricostruzione veridica in quanto suffragata da verità di fatto e resa scientifica da una analisi di struttura, e in questo forse capace di tenere testa alle «riletture» successive della storia54. Sempre che la parzialità degli interessi e la verità-fai-da-te imperante nella nostra attualità scandita da una politica dell’opinione giocata in gran parte sulla rete non finisca per distorcere sistematicamente il diritto a una rilettura vero-fattuale della storia in un indiscriminato operare e dire-contro qualcuno o qualcosa che dia spazio, tra le altre cose, anche all’aspirazione estrema di ‘riscrivere la storia’ disperdendo ogni evidenza fattuale in un pulviscolo di verità idiosincratiche. 53 54 Cfr. F. D’AGOSTINI, «Diritti aletici», in Biblioteca della libertà, 218 (2017), 6-7. Cfr. H. ARENDT, Verità e politica cit., 45.