Location via proxy:   [ UP ]  
[Report a bug]   [Manage cookies]                
Il volto latente A cura di Massimo Leone Indice Semiotica della latenza........................................................5 Massimo Leone Il curioso caso del Benjamin Button digitale.......................20 Daria Arkhipova 潜在AI, volto-percezione e magma latente.......................42 Silvia Barbotto Il volto latente della città....................................................62 Federico Bellentani La maschera come interstizio tra manifesto e latente.........86 Baal Delupi Il volto quantificabile. Dalla percezione fisiognomica alla somiglianza algoritmica........................103 Remo Gramigna Oracol·AI·rità del volto......................................................136 Gabriele Marino La latenza del perturbante................................................164 Giovanni Pennisi Ritratti latenti...................................................................187 Francesco Piluso Il volto latente tra ludico e politico...................................200 Gianmarco Thierry Giuliana Verso una semiotica della spazialità latente.....................223 Cristina Voto Verso una semiotica della spazialità latente, o di come le IA modellano e simulano il volto artificiale Verso una semiotica della spazialità latente o di come le IA modellano e simulano il volto artificiale Cristina Voto Cristina Voto Come spiegare cosa sia lo spazio latente attraverso una prospettiva umanistica… Se c’è un’ambizione che attraversa questo testo è quella di poter restituire a chi legge – una persona che magari, e come me, non si è formata nell’universo delle STEM (l’acronimo che sta per science, technology, engineering, and mathematics) – un’idea accessibile di che cosa sia, e soprattutto, di come funzioni lo spazio latente all’interno di un modello computazionale ad apprendimento automatico. Una prima definizione possibile è quella che lo descrive come la mappa ideale, matematica e a n-dimensioni, che gli algoritmi posseggono intrinsecamente per l’analisi e la messa in relazione delle informazioni archiviate nei dati. Ma la mappa, si sa, non è il territorio e, in questo senso, nemmeno questa spazialità è davvero praticabile: lo spazio latente raccoglie in sé tutte le caratteristiche che i dati hanno ma in potenza. Per questo si parla di latenza dal momento che questo spazio risulta accessibile solo gli algoritmi e non agli utenti, a meno che non vi siano delle esplicite operazioni di visualizzazione, pratiche che spesso avvengono in ambito artistico1. E, in questo senso, di pratiche artistiche e della loro capacità di riflettere sul mondo ci occuperemo in chiusura. Per raggiungere il mio obiettivo decido di ricorrere, seppur in forma semplificata, a dei concetti semiotici: quello di enunciazione e quello di 1 Di seguito un breve elenco di artistз e collettivi artistici che stanno lavorando, attraverso le loro opere, a forme di visualizzazione ed esibizione dello spazio latente: Sofia Crespo con la sua serie Neural Zoo (2019 – in progress), Jake Elwes con opere come Latent Space (2017; 2021) o Zizi – Queering the Dataset (2019), Mario Klingemann di cui ricordiamo l’installazione Memories of Passerby (2019), LOREM con la sua recente performance per il festival “Ars Electronica” Within Latent Space (2022) e Obvious con il celebre ritratto Edmond de Belamy (2018). 222 Il volto latente spazialità o, per essere più corrette, a quello di enunciazione spaziale. Quello che mi interessa, infatti, è usare questa nozione parte dell’armamentario disciplinare – la famosa “cassetta degli attrezzi” che ci offre la semiotica – come attrezzo per disporre tagli e incisioni efficaci alla vivisezione anatomica del fenomeno ‘spazio latente’. In aggiunta se c’è un artefatto semiotico che più di tutti, e da sempre, ha occupato un posto privilegiato nelle applicazioni e negli studi sulle intelligenze artificiali questo è il volto. Con una precisazione: parlare di ‘artefatto semiotico’ significa riconoscere che non esistono volti neutri (e tutte noi ricercatrici e ricercatori del gruppo FACETS ci siamo dedicate a mostrarlo in ogni singola pubblicazione risultato del progetto di ricerca2) dal momento i nostri volti sono sempre soggetti alla significazione perché sono sempre progetti comunicativi dell’identità anche quando la negano attraverso, per esempio, la ricerca dell’anonimato. Il volto, poi, nella forma riproducibile dell’immagine facciale, è sempre stato al centro degli interessi di chi progettava quella che oggi chiamiamo intelligenza artificiale quasi a diventarne l’unità minima e discreta che sottostà allo svulippo di quei linguaggi che oggi definiamo come visione artificiale. Prendiamo un caso su tutti: l’opera di Woodrow W. Bledsoe, matematico e informatico statunitense, che con i suoi studi ha dato avvio alla visione artificiale allenando il suo computer a riconoscere schemi comuni, ovvero pattern, presenti in una serie di immagini facciali attraverso la divisione del volto in caratteristiche minime e discrete per permetterne poi il confronto e, da lì, la creazione di un modello simulativo delle relative distanze (figura 1). 2 Rimando alla pagina web del progetto dove sono pubblicati tutti i risultati della ricerca: http://www.facets-erc.eu/publications/ 223 Cristina Voto Figura 1: Gli studi di W. Bledsoe pubblicati nel suo report del 1963 “Proposal for a Study to Determine the Feasibility of a Simplified Facial Recognition Machine” …e sperare di non soccombere nell’intento Partiamo, allora, dalla semiotica: anche parlare di enunciazione significa, in qualche modo, fare riferimento allo spazio, ma una spazialità di frontiera, un limite e punto di contatto tra ciò che soggetto, intersoggettività e discorso possono comunicare. L’enunciazione è, infatti, la messa in relazione tra l’astrazione della langue, il linguaggio come fenomeno sociale – o come enciclopedia per citare Umberto Eco –, e la parole, la dimensione viva, esperita e singolare del linguaggio, ovvero la messa in pratica della langue. Riferirsi all’enunciazione spaziale, perciò, significa rendere conto di come la spazialità può dare un valore e un significato nuovo e diverso a oggetti, immagini, testi e informazioni. È quello che succede, per esempio nei musei, grazie alle pratiche di curatela: gli oggetti possono acquisire un nuovo valore e dar vita a una nuova significazione quando situati in una 224 Il volto latente relazione differente, dal punto di vista spaziale, con altri oggetti e con altri testi. Questa enunciazione spaziale, questa nuova frontiera che si costruisce tra l’oggetto e la singolarità della situazione spaziale può assegnare un nuovo valore, un nuovo significato. Mi chiedo allora: succede la stessa cosa quando accediamo, per esempio attraverso le pratiche artistiche, alla visualizzazione dello spazio latente? Quando visualizziamo la mappa di dati che il modello computazionale ha disposto, assistiamo a un’enunciazione spaziale e quindi a una ri-significazione? Dicevamo: parlare di spazio latente significa parlare di quello spazio matematico e a n-dimensioni dove è mappato ciò che una rete neurale artificiale, ovvero un modello computazionale, ha appreso in fase di allenamento, in quella fase cioè dove impara a sviluppare algoritmi efficaci allo svolgimento di determinati compiti. E’ lo spazio di possibilità della creazione dove le coordinate di tutti i possibili output sono definite. Tuttavia si tratta di uno spazio puro e privo di vincoli e di significato: è una possibilità illimitata ma, quando un modello computazionale viene addestrato, ecco che si restringe lo spazio delle possibilità. In questo senso lo spazio latente prende forma durante la compressione dei dati di input, quelli cioè di allenamento, e in quel passaggio che precede l’output, un passaggio che di solito rimane invisibile all’occhio umano. Quante volte interagendo con un’intelligenza artificiale abbiamo avuto la sensazione che come per magia – una magia evanescente, leggera e immateriale – queste tecnologie svolgessero i loro compiti? Ovviamente non c’è trucco né incantesimo e men che meno c’è immaterialità: solo si tratta di una retorica smontabile se si prende in considerazione lo sfruttamento3 di risorse, energetiche e minerarie, che comporta la progettazione e il mantenimento di queste tecnologie. 3 Uno sfruttamento, inoltre, che vede il rinnovarsi di violente logiche coloniali in chiave estrattiva nel Sud Globale. 225 Cristina Voto Ma torniamo al concetto di spazio latente, un concetto fondamentale, per esempio, per la comprensione di tutte quelle intelligenze artificiali generative che, oggi più che mai al centro della nostra attenzione – come le TTI (text-to-image, per esempio Midjourney o Stable Diffusion) o le GPT (Generative pre-trained transformers, per esempio CHAT GPT) – funzionano grazie all’impiego di modelli computazionali allenati ad imparare le somiglianze strutturali che possono esistere tra dati. È grazie alla mappatura di queste somiglianze che lo spazio latente prende forma e proprio questa spazialità è l’aspetto chiave per la comprensione del cosiddetto apprendimento profondo, il deep-learning, che permette alle intelligenze artificiali di simulare capacità umane e rendere possibile il riconoscimento di quegli schemi con cui tradurre immagini, testi, suoni e altri dati in accurate simulazioni. Chiunque abbia usato CHAT-GPT o Stable Diffusion sa bene cosa intendo quando scrivo ‘accurate simulazioni’, risulta infatti spesso sorprendente l’incontro-scambio con queste intelligenze artificiali ed è proprio nello spazio latente dove trova albergo la potenza generativa attraverso cui queste intelligenze artificiali rendono possibile la continua creazione, o forse sarebbe il caso di dire la continua simulazione, di senso. Allenare un modello computazionale a imparare le somiglianze significa, infatti, insegnargli a classificare, quantitativamente4, i dati imparando le caratteristiche. Ma questo apprendimento richiede un passaggio fondamentale, una semplificazione degli stessi dati affinché sia possibile trovare degli schemi, dei pattern. Man mano che la rete neurale apprende impara le caratteristiche dei dati e mappa, simulando, gli schemi appresi attraverso il riconoscimento di caratteristiche similari. Ma di che 4 Le caratteristiche mappabili dal modello possono essere pensate come i qualisegni della tradizione peirceana ovvero astrazioni, concetti o forse meglio ancora come sinsegno dato che le caratteristiche mappate nello spazio latente dagli algoritmi di uno modello computazionale hanno una peculiarità: sono quantificabili. 226 Il volto latente tipo di similitudine stiamo parlando? Una similitudine che potremmo pensare in termini topologici e quantitativi piuttosto che iconici e qualitativi, per questo credo che piuttosto che un’enunciazione spaziale ci troviamo di fronte a una sua simulazione. Il modo in cui i modelli mappano lo spazio latente è cercando di organizzare tutto ciò che imparano in una configurazione il più probabile ed efficiente possibile in modo tale che, quando in seguito interrogati, possano riprodurla con il minor sforzo possibile. E la disposizione più efficiente per ritrovare qualcosa – anche nella vita quotidiana – è quella di mettere insieme i dati che condividono caratteristiche simili. Ciò consente ai modelli di costruire spazi in cui relazioni e somiglianze possano essere create su diversi livelli e, in un modello ben allenato, possono consentire l’esplorazione di percorsi che vanno al di là delle tassonomie convenzionali. Prendiamo tre diversi dati, tre immagini: due che raffigurano il volto di un soggetto classificato dal modello come femminile e una che rappresenta un soggetto classificato come maschile. I soggetti femminili sono classificati sulla base di caratteristiche quantificabili e distinguibili rispetto ai soggetti maschili, i parametri utilizzati in questi casi hanno spesso a che vedere con la dimensione della mascella, con l’ampiezza della fronte, la distanza tra gli occhi, lo spessore delle labbra, etc. Queste caratteristiche sono apprese dalla rete e riducono la dimensionalità delle informazioni comprese nei dati in modo tale da rimuovere le informazioni estranee e da mantenere solo caratteristiche più importanti, più significative, nella discriminazione di ciascuna immagine. Ecco che allora le due immagini dei soggetti classificati come femminili si troverano più vicine nello spazio latente, perché la dimensionalità dei loro dati sarà ridotta secondo schemi simili. Questa riduzione è il motore di ogni apprendimento profondo e la vicinanza che si troveranno a condividere i dati è la dimensione in cui si legano le manifestazioni superficiali 227 Cristina Voto dei dati, la loro visualizzazione, con quello che è presente in profondità, l’infrastruttura e, eventualmente, i bias del modello5. Ecco perché è possibile affermare che lo spazio latente ci restituisce una simulazione, strutturata, delle informazioni presenti nei dati attraverso una mappa quantitativa. Con una precisazione: parlare di simulazione significa riconoscere la dimensione ibrida di questa enunciazione che, per dirla alla Latour (2005), sorge a partire da una concatenazione di attori eterogenei attraverso una serie di deleghe impersonali senza che vi sia un enunciatore vero e proprio. Quella che definiamo come la simulazione di un’enunciazione spaziale, allora, è la concatenazione dalle possibili relazioni delle posizioni dei dati che saranno riconosciute come simili dal modello. Quest’ultima affermazione sembra recuperare una definizione di spazialità che è stata al centro del dibattito sorto intorno alla cultura visiva e materiale e alle pratiche artistiche e progettuali durante il secolo scorso: “lo spazio è la relazione di posizioni tra i corpi” scriveva Lázló Moholy-Nagy nel suo celeberrimo The New Vision. Quando pensiamo allo spazio latente, non ci troviamo, forse, dinanzi a uno spazio dove ad essere mappata è la simulazione delle relazioni che occupano le posizioni dei dati? E allora mi chiedo: è avvenuto un passaggio, nella nostra maniera di concepire la spazialità, dai corpi alle informazioni? Per poter rispondere a quest’ultima domanda propongo di ritornare sul testo di Moholy-Nagy. 5 Ringrazio Lia Morra, professoressa del Politecnico di Torino, per avermi fatto notare e comprendere come sia fuorviante pensare che, in senso assoluto, un modello generativo possa incorporare dei bias legati al modo in cui i dati sono classificati. In questo senso è possibile affermare che un modello text-to-image può incorporare, con maggiore facilità, i bias dovuti alla dimensione semantica del linguaggio, ma una rete neurale generativa avversaria, una GAN, per esempio, non risente di questo problema. Ovviamente possono esistere problemi di altra natura, i quali possono sorgere in relazione ai dati su cui sono allenati i modelli qualora alcune sottopopolazioni fossero, ad esempio, sotto- o mal- rappresentate. 228 Il volto latente Dai corpi alle informazioni: verso una spazialità relazionale e simulata Poco meno di centoanni fa, nel 1928, Lázló Moholy-Nagy – pittore e fotografo ungherese, successivamente naturalizzato statunitense, e tra i massimi esponenti della Bauhaus – pubblica la prima edizione del suo libro The New Vision. Il libro prende forma dalle ceneri che il primo conflitto meccanizzato su scala mondiale6 aveva disseminato nel dibattito culturale dell’epoca. The New Vision si interroga, infatti, sulle possibili modalità di riappropriazione dei mezzi di produzione delle immagini da parte di chi fa arte. I primi decenni del secolo scorso, del resto, furono un periodo di forte e accelerata sperimentazione del visivo: fotografia, cinema e design grafico iniziarono a smontarsi e rimontarsi a vicenda in combinazioni ibride attraverso composizioni che cercavano nella meccanizzazione della riproducibilità un nuovo fare, anche in senso politico, dell’arte. Tre sono gli aspetti centrali su cui si sofferma la penna di Moholy-Nagy in The New Vision: materia, volume e spazio; tre dimensioni progettuali per agire una nuova visione sul mondo. In un momento storico in cui l’obiettivo della fotocamera diventava un agente capace non solo di inquadrare il reale ma anche di (ri)produrlo, la nuova visione è auspicata attraverso strategie e gesti di combinazione artistica dove il fare macchinico si intreccia indissolubilmente con il fare umano. Ma Moholy-Nagy non è il solo a interrogarsi sulla relazione tra agire umano e agire della macchina. In quegli stessi anni artiste come Aenne Biermann (figura 2) e Hannah Höch (figura 3) iniziano a (ri)assemblare il loro presente attraverso gesti di scomposizione e ricompo6 Moholy-Nagy si arruola a vent’anni tra le fila dell’esercito austro ungarico e de lì, durante tre anni, mantiene viva l’inquietudine verso la pratica artistica come esercizio di documentazione e sperimentazione del presente realizzando schizzi, a pastello e a acquerelli, negli intervalli di tempo tra un combattimento e l’altro e scrivendo numerosi testi per documentare le sue esperienze dal fronte. 229 Cristina Voto sizione delle immagini diffuse nei mezzi di comunicazione in forma di fotomontaggi stratificati, dove la realtà diventa materia, volume e spazio attraverso la combinazione di diversi sapere progettuali e artistici. Fig.2: Aenne Biermann, Porträt mit Boulevard de la Grande Armée, 1931 Fig. 3: Hannah Höch, Das schöne Mädchen, 1920 Il terzo capitolo di The New Vision, dicevamo, è interamente dedicato allo spazio. Leggiamo le prime righe: Ogni periodo culturale ha la propria concezione dello spazio, ma ci vuole tempo affinché le persone ne siano consapevoli. Questo è il caso della nostra stessa concezione spaziale. Anche nel definirla, prevale una considerevole esitazione. Questa incertezza è evidente nelle parole che usiamo, e le parole aumentano la confusione. Ciò che sappiamo dello “spazio” in generale è di scarso aiuto nel permetterci di comprenderlo come 230 Il volto latente un’entità effettiva7 [non è, forse, quello che sta succedendo anche oggi con lo spazio latente? n. d. a.]. A sostegno della sua tesi, Moholy-Nagy passa, quindi, in esame le molteplici parole attraverso cui lo spazio è definito nella sua epoca. Eccole così come visualizzate nel libro: Fig. 4: I differenti tipi di spazio secondo László Moholy-Nagy (1947, p. 56) 7 Nell’originale: “Every cultural period has its own conception of space, but it takes time for people consciously to realize it. This is the case with our own spatial conception. Even in defining it, considerable hesitation prevails. This uncertainty is evident in the words we employ; and the words increase the confusion. What we know of “space” in general is of little help in assisting us to grasp it as an actual entity” (1947, p. 56). 231 Cristina Voto Dopo questa restituzione grafica della confusione semantica riguardo la spazialità all’inizio del ventesimo secolo, Moholy Nagy passa alle proprie definizioni: secondo la prima “lo spazio è una realtà”8 e da lì continua: “lo spazio è la relazione di posizione dei corpi. (...) Pertanto, la creazione spaziale è la creazione di relazioni di posizione dei corpi9.” Proviamo ad appropriarci di questa definizione e testare la sua efficacia in una spazialità dove la relazione tra umano e macchinico è totalmente ibridizzata. Possiamo affermare che lo spazio latente simuli una relazione di posizione delle informazioni? Credo che la risposta sia sì. Nello spazio latente le informazioni possono assumere forme diverse a seconda del modello e dei dati attraverso cui il modello è stato allenato: le strutture visive dei dati, quelle sonore, la dimensione semantica o, ancora, le configurazioni delle pose, quali caratteristiche dei dati, grazie alle informazioni in essi archiviati, sono lo spazio latente e la relazione spaziale che mappano, la vicinanza/distanza che occupano a seconda della somiglianza, è il risultato della simulazione delle distanze matematiche che esistono tra i dati nella latenza dello spazio matematico. Ogni immagine che l’intelligenza artificiale può generare occupa una posizione all’interno dello spazio latente e quando, come esseri umani, ne chiediamo una restituzione questa simula un’enunciazione spaziale. Un’immagine creata attraverso la visualizzazione dello spazio latente rende conto dell’estensione di tutte le informazioni presenti nell’immagine come se centinaia, migliaia di immagini, tutte insieme, potessero emergere dalla latenza. In questo senso usare le intelligenze artificiali per fare arte può venirci incontro per esporre interi spazi latenti e per rendere tangibile la prospettiva delle intelligenze artificiali sul mondo. 8 Nell’originale: “Space is a reality.” (1947, p. 57). 9 Nell’originale: “Space is the positional relation of bodies. (…) Therefore spatial creation is the creation of relationships of position of bodies.” (1947, p. 57). 232 Il volto latente E forse a partire da questo aspetto possiamo riflettere sullo spazio latente come una spazialità dove tutti i tipi di medium sono in una relazione posizionale e informativa tale per cui un’immagine può simulare una poesia, la poesia una canzone e la canzone simulare una nuova immagine. Il volto latente nella pratica artistica: modellare e simulare l’alterità Come anticipato, in chiusura a questo mio intervento, voglio soffermarmi su un’opera artistica, il video Zizi-Queering the Dataset (2019) di Jake Elwes parte della mostra Preternatural svoltasi presso l’Edinburgh Futures Institute nel 2019. Attraverso un effetto di continuità visiva, quello che normalmente viene definito come digital morphing, tramite una trasformazione graduale e senza soluzione di continuità di una serie di ritratti, durante il loop con cui si presenta il video assistiamo al modellarsi di una serie di volti latenti. In Zizi – Queering the Dataset, Elwes è partito da un set di dati contenente 70.000 ritratti fotografici di volti di persone classificate come binarie - il Flickr-Faces-HQ Dataset - e ha allenato una rete generativa avversaria, una GAN, a modellare e simulare nuovi volti artificiali attraverso un modello discriminativo contenente 1000 immagini facciali di persone drag e non-binarie. Le GAN sono modelli computazionali che funzionano secondo una precisa logica avversaria, per render conto del loro funzionamento vale la pena ricorrere alla presentazione che ne ha dato Ian Goodfellow, l’ingegnere informatico che le ha progettate: Nel framework delle reti avversariali proposto, il modello generativo è messo di fronte a un avversario [il modello 233 Cristina Voto discriminativo] (…) Il modello generativo può essere paragonato a una squadra di falsari che cerca di produrre denaro falso e usarlo senza essere scoperti, mentre il modello discriminativo è paragonabile alla polizia che cerca di individuare il denaro falso. La competizione in questo gioco spinge entrambe le squadre a migliorare i loro metodi fino a rendere i falsi indistinguibili dagli articoli genuini. (2014, p. 1) Per continuare con la metafora gamificata dell’autore, potremmo dire che questo ri-allenamento avviene nel campo di gioco dello spazio latente, un campo che sorge dalla relazione delle posizioni occupate dai dati classificati dal modello generatore e dal modello discriminativo. La partita è resa accessibile attraverso le immagini in movimento del morphing risultato della visualizzazione delle somiglianze presenti nelle caratteristiche dei dati (figura 5). 234 Il volto latente Fig. 5: Zizi – Queering the Dataset 235 Cristina Voto Per una riflessione intorno alle questioni estetiche che possono emergere dall’analisi di quest’opera rimando, oltre alla pagina web dell’artista (www.jakeelwes.com) a una mia analisi (2021). In queste pagine, invece, mi preme ritornare sulle domande che attraversano questo testo per giungere a una conclusione. Attraverso la strategia di visualizzazione dell’enunciazione spaziale delle GAN, l’opera d’arte rende accessibile ai non addetti ai lavori la mappatura delle similitudini, delle relazioni di posizioni, archiviate nei dati dei volti utilizzati dal modello generatore e dal modello discriminativo. Il risultato ottenuto, questi nuovi volti artificiali, estraggono dalla latenza il problema della classificazione delle identità di genere negli artefatti computazionali e ci mettono a confronto con tutta quella faccialità che è esclusa dalla normatività binaria dei dati. Certo, come dicevamo, siamo di fronte a una simulazione, ma una simulazione capace di reificare e rendere materia, visibile ed esperibile, la trasparenza promessa dalle intelligenze artificiali. Non una rivoluzione, di questo siamo certe, ma almeno un passo in avanti verso la comprensione e la possibilità di generazione di un dibattito che, ci auguriamo, possa essere sempre più competente e distribuito. Per concludere Poter avvicinare l’universo delle intelligenze artificiali a chi non ha ricevuto un’educazione, formativa o professionale, al riguardo è, a mio avviso, la principale sfida cui ci mette a confronto l’interdisciplinarietà tra prospettive umanistiche e computazionali perché proprio dalla loro intersezione possono prendere forma strumenti utili e trasversali alla comprensione di queste tecnologie oggi più che mai pervasive. In queste pagine ho cercato di farlo usando la semiotica e la pratica artistica come strumenti di ricerca, come lenti attraverso cui fare fuoco su alcuni 236 Il volto latente aspetti che possono risultare sfuggenti ai non addetti ai lavori. Mi sono posta come obiettivo riscattare dall’evanescenza spesso percepita come immateriale una dimensione reificata e pragmatica, e perciò, comunicabile e condivisibile dei modelli computazionali che attraversano la nostra quotidianità. Qualora questo obiettivo non fosse stato raggiunto, resta almeno la curiosità verso una serie di operazioni artistiche che possano aiutarci in questa direzione. Il dibattito sulle intelligenze artificiali, del resto, non può che essere condotto a partire dalla dimensione collettiva e plurale dell’intelligenza umana. 237 Cristina Voto Bibliografia Bledsoe, W. W. (1963) Proposal for a Study to Determine the Feasibility of a Simplified Facial Recognition Machine. Palo Alto, CA: Panoramic Research, January 30, 1963. http://archive.org/details/firstfacialrecognitionresearch Goodfellow, I. J., Mirza, M., Xu, B., Ozair, S., Courville, A., & Bengio, Y. (2014) “Generative Adversarial Networks”, Advances in Neural Information Processing Systems, MIT, DOI: 10.1145/3422622. Latour, B. (2005) Reassembling the Social: An Introduction to Actor-Network-Theory, Oxford University, Oxford. Moholy-Nagy, L. (1928) The New Vision, Wittenborn Schulz Inc., New York, 1947. Voto, C. (2022) “From archive to dataset. Visualizing the latency of facial big data”, Punctum. International Journal of Semiotics, 8(1), 47–72, DOI: 10.18680/ hss.2022.0004. 238