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Un lifestyle da esportazione L’ITALIA AL LAVORO Collezioni Luoghi Attori Collezioni Luoghi Attori Diretta da/Directed by Sandra Costa Dominique Poulot Comitato scientifico/Scientific committee Sandra Costa, Alma Mater Studiorum – Università di Bologna Marzia Faietti, Presidente Comité International d’Histoire de l’Art Michael Jakob, Haute école du paysage, d’ingénierie et d’architecture de Genève-Lullier e École polytechnique fédérale de Lausanne (EPFL) Pietro C. Marani, Politecnico di Milano Angelo Mazza, Collezioni d’Arte e di Storia della Fondazione Cassa di Risparmio in Bologna Marco Pizzo, Museo Centrale del Risorgimento di Roma, Complesso monumentale del Vittoriano Dominique Poulot, Université Paris 1 Panthéon-Sorbonne Il titolo della collana sottolinea l’intenzione di considerare l’Arte come un sistema dinamico caratterizzato storicamente dalla molteplicità dei suoi attori. Se la creazione costituisce il cuore dell’arte, fulcro e motore del processo di produzione e di fruizione delle opere sono spesso figure che assumono e svolgono altre funzioni. Dai committenti ai collezionisti, dai conservatori dei musei ai destinatari di una più generica ma sempre più vasta educazione all’arte: lo sviluppo attuale della disciplina impedisce ormai di valutare semplicemente come secondario e accidentale il loro ruolo. Secondo questo approccio l’opera d’arte è “opera aperta”: l’attenzione ad aspetti largamente interdisciplinari e alla sociologia dei fenomeni artistici intende infatti collegare il collezionismo e le sue pratiche, anche museologiche, a contesti e congiunture, a circuiti polivalenti e multiformi di cultura e di mercato. L’interesse, anche metodologico, è rivolto a tutte le possibili forme di diffusione e mediazione; la volontà è quella di considerare l’ampliamento di orizzonti che caratterizza oggi il dibattito sull’Arte e anche di perseguire l’idea che i documenti d’archivio o gli allestimenti museali possano proporre una Storia non meno significativa di quella degli oggetti evidenziando preferenze culturali ed estetiche. The title of the series draws attention to its intent to regard Art as a dynamic system, characterized throughout history by a multiplicity of actors. While the heart of art may be creation, the linchpin and driving force to the production and consumption of works of art often rests with figures who take on and carry out other functions. Those who commission works of art and those who collect them, museum conservators and the recipients of a general but increasingly broad art education – the current development of the discipline makes it impossible to consider the roles played by such people as simply secondary or accidental. According to this approach, the work of art is an “open work”: indeed, the attention to largely interdisciplinary aspects and to the sociology of artistic phenomena aims to link collecting and its practices, including its museological practices, with contexts and circumstances, with the multipurpose and multiform circuits of culture and market. The series’ interest, including its methodological interest, is toward all possible forms of art diffusion and mediation; the purpose is to consider the broadening of horizons that currently characterizes the debate on Art and also to pursue the idea that archive documents and the way exhibitions are mounted in museums can convey a History as meaningful as the one set forth by artifacts, highlighting cultural and aesthetic preferences. Tutti i contributi pubblicati nella collana sono sottoposti a double-blind peer review. All contributions published in the series are subject to double-blind peer review. L’ITALIA AL LAVORO Un lifestyle da esportazione a cura di Paola Cordera e Chiara Faggella Il volume è stato realizzato nell’ambito del progetto di ricerca FARB 2021 VO Project La voce degli oggetti. Il Design italiano dal museo alla casa. Con il sostegno di Fondazione Bologna University Press via Saragozza 10 – 40123 Bologna tel. (+39) 051 232 882 fax (+39) 051 221 019 www.buponline.com info@buponline.com ISSN 2465-0811 ISBN 979-12-5477-294-2 ISBN online 979-12-5477-295-9 DOI 10.30682/9791254772942 Quest’opera è pubblicata sotto licenza CC-BY-NC 4.0 Gli autori si dichiarano disponibili a regolare eventuali spettanze per l’utilizzo delle immagini contenute nel volume nei confronti degli aventi diritto. Segreteria redazionale: Emma Puliti Progetto grafico e impaginazione: DoppioClickArt, San Lazzaro di Savena (Bo) Copertina: Una sala dell’esposizione Italy at Work al Detroit Institute of Arts. Per gentile concessione del Detroit Institute of Arts Research Library & Archives. DIA Negative #9340. Prima edizione: luglio 2023 SOMMARIO Presentazione Luca Arnaboldi Preface Elizabeth St. George Abbreviazioni Introduzione Italy at Work, un laboratorio per la modernità Paola Cordera, Chiara Faggella IX XIII XV XVII L’Italia in mostra. Nuovi prodotti per una clientela internazionale Dall’italianità al Made in Italy: aspetti di transizione nel primo dopoguerra Sandra Costa Alle radici del Made in Italy. La stampa patinata USA “crea” l’Italian Design Renaissance del dopoguerra Giampiero Bosoni 3 11 Italia e Stati Uniti, 1948-1954: un percorso di opportunità Maria Cristina Tonelli 21 Olivettiani a Brooklyn Caterina Cristina Fiorentino 29 Nuove narrazioni per la promozione della produzione italiana From the House of Italian Handicrafts to the Exhibition Italy at Work. Continuities and Discontinuities Among HDI, CADMA and CNA (1945-1953) Emanuela Ferretti, Lorenzo Mingardi, Davide Turrini 39 Molto più di una mostra d’arte Paola Cordera 49 Made in Italy and Made for America: Craft in Italy at Work Catharine Rossi 59 Just What Is It That Makes Italian Ceramics So Appealing? Lisa Hockemeyer 67 Una “sala da pranzo che è più da guardare che da usare” Elena Dellapiana 77 Prima della couture: la promozione della moda italiana in Italy at Work Chiara Faggella 85 Artisti, produttori e designer Artists at Work: la messa in scena dell’arte italiana in America, 1947-1950 Stefano Setti 97 Ceramiche per ricostruire l’Italia: Lucio Fontana nelle mostre americane del dopoguerra Raffaele Bedarida 107 A New Italian Renaissance? Il contributo di Corrado Cagli ad una nuova retorica Fabio Marino 117 Tra arte e industria. Il percorso di Giorgio Cipriani Stella Cattaneo 125 Paolo De Poli e l’America: 1947-1967. Gli smalti verso il “nuovo mondo” Ali Filippini 133 Le sedie Campanino di Chiavari. Un prodotto artigianale tra ribalta internazionale e tradizione Rita Capurro 141 Women at Work Antonia Campi a Italy at Work Anty Pansera 151 Arte, design e industria: Fede Cheti e il riconoscimento internazionale dei Tessuti d’Arte nel dopoguerra Chiara Lecce 157 Il ruolo femminile del tessile italiano nella mostra Italy at Work. Gegia Bronzini nel contesto italiano e internazionale Michela Bassanelli 167 “Almost impossible to reproduce”: alla scoperta di Luciana Aloisi De Reutern, designer di bijoux Silvia Vacirca 175 Oltre Italy at Work Fashion in the Art Museum: A Case Study of Salvatore Ferragamo Shoes Marcella Martin 185 Il dialogo Roma-Stati Uniti per la promozione dell’artigianato artistico italiano. Da Italy at Work ai circuiti delle gallerie private (1949-1961) Manuel Barrese 193 Poveri radicali: istanze comportamentali ed esperienze intermediali nel New Domestic Landscape italiano Francesco Spampinato 203 Abstracts 211 Bibliografia 221 Indice dei nomi 239 Crediti fotografici 245 Presentazione Luca Arnaboldi American Chamber of Commerce in Italy, Chairman Q uesto libro esplora il vibrante panorama economico italiano, focalizzandosi sull’eccellenza del Made in Italy e sottolineando l’importante alleanza con gli Stati Uniti nella creazione della solida filiera economica. Attraverso una narrazione storica dettagliata e un’analisi approfondita delle caratteristiche distintive del Made in Italy, vi condurremo in un viaggio attraverso la storia di come l’alleanza tra Italia e Stati Uniti abbia influenzato lo sviluppo dell’industria italiana. In particolar modo dopo la devastazione della Seconda guerra mondiale, l’alleanza tra Italia e Stati Uniti ha svolto un ruolo di fondamentale importanza nello sviluppo e nel successo dell’industria italiana all’interno del contesto del Made in Italy. Questa partnership ha avuto un impatto significativo su diverse sfere, in particolare quelle appartenenti al settore della filiera tessile e della moda italiana, contribuendo così a una propria modernizzazione, all’accesso ai mercati internazionali e alla promozione del marchio Made in Italy a livello globale. In primo luogo, l’alleanza con gli Stati Uniti ha favorito lo scambio di conoscenze e tecnologie tra le due nazioni. Gli Stati Uniti hanno apportato importanti contributi nel campo dell’innovazione tecnologica, introducendo nuovi processi produttivi, macchinari all’avanguardia e nuove metodologie. Queste innovazioni hanno consentito all’industria tessile italiana di migliorare l’efficienza produttiva, aumentare la qualità dei prodotti e rimanere competitiva sul mercato globale. L’accesso alle tecnologie statunitensi ha rappresentato una grande opportunità per le imprese tessili italiane di abbracciare l’automazione, migliorare la precisione e ottimizzare i processi, consentendo loro di essere all’avanguardia nel settore. Inoltre, tale sinergia con gli alleati ha agevolato l’accesso dei prodotti tessili italiani ai mercati internazionali. Grazie a questa partnership, le imprese tessili italiane hanno avuto l’opportunità di accedere ai canali di distribuzione statunitensi, ampliando la loro presenza e raggiungendo un pubblico più ampio. L’im- X Luca Arnaboldi portante ruolo degli Stati Uniti come mercato di riferimento ha consentito alle aziende italiane di esportare i loro prodotti tessili di alta qualità e di promuovere il marchio Made in Italy a livello globale. Questo ha contribuito a consolidare la reputazione dell’Italia come leader nel settore tessile, suscitando interesse e fiducia nei consumatori di tutto il mondo verso i prodotti italiani. Un aspetto poi centrale del successo del Made in Italy nella filiera tessile è il connubio tra tradizione artigianale e design innovativo. L’Italia ha una lunga tradizione di maestri artigiani che tramandano il proprio savoir-faire di generazione in generazione. Questa competenza artigianale, combinata con una fervente creatività e una visione estetica unica, ha contribuito a rendere i prodotti tessili italiani veri capolavori di stile e qualità. Il design italiano ha sempre posto una grande enfasi sulla ricerca dell’equilibrio tra funzionalità, estetica e comfort, creando così prodotti unici nel loro genere. Inoltre, l’arte ha giocato un ruolo cruciale nell’ispirare e arricchire l’industria tessile italiana. La bellezza delle opere d’arte italiane, sia classiche che contemporanee, ha permeato il mondo della moda e del tessile, influenzando le scelte cromatiche, i motivi e le forme dei prodotti. L’interazione tra arte e tessile ha generato un connubio straordinario, in cui l’estetica e l’espressione artistica si fondono con l’artigianato e la produzione industriale. È impossibile parlare della filiera tessile italiana senza menzionare l’importante ruolo svolto dalle donne. Nel corso dei decenni, le donne italiane hanno contribuito in modo significativo all’industria tessile, ricoprendo ruoli chiave come designer, stiliste, artigiane e imprenditrici. Grazie alla loro creatività, sensibilità estetica e determinazione, hanno contribuito all’innovazione, alla diversificazione dei prodotti e alla promozione del Made in Italy nel mondo. Le donne italiane hanno dimostrato una straordinaria abilità nell’interpretare le tendenze di moda, creando collezioni che uniscono eleganza, comfort e qualità artigianale. L’alleanza con gli Stati Uniti ha rappresentato così un fattore chiave nel posizionamento dei prodotti italiani sui mercati internazionali. Grazie a questa partnership, le imprese italiane hanno potuto approfittare di nuove opportunità di accesso a mercati esteri, ottenere finanziamenti e beneficiare di programmi di scambio tecnologico. L’interazione con gli Stati Uniti ha permesso all’industria italiana di confrontarsi con nuove sfide, stimolando l’innovazione e il progresso continuo. Anche da un punto di vista artistico, negli anni del dopoguerra, l’arte italiana era in fase di rinascita dopo il periodo di turbolenza e distruzione. Gli Stati Uniti, con la loro posizione di potenza mondiale nel campo culturale, hanno contribuito in modo significativo alla rinascita artistica italiana. L’arrivo di opere d’arte americane, le esposizioni di artisti americani in Italia e le influenze artistiche provenienti dagli Stati Uniti hanno portato nuovi stimoli e prospettive all’arte italiana. L’influenza degli artisti americani si è manifestata in diversi ambiti artistici. Ad esempio, nell’ambito della pittura, l’espressionismo astratto e la pop art Presentazione XI americani hanno avuto un impatto notevole sulla scena artistica italiana. Artisti come Jackson Pollock, Mark Rothko, Andy Warhol e Roy Lichtenstein hanno ispirato e influenzato molti artisti italiani, che hanno incorporato elementi di questi movimenti nelle loro opere. L’uso audace del colore, la gestualità pittorica e il riferimento alla cultura di massa americana sono diventati elementi distintivi di molte opere d’arte italiane dell’epoca. Inoltre, l’arrivo di artisti americani in Italia ha favorito uno scambio di idee e di pratiche artistiche. Molti artisti italiani hanno avuto l’opportunità di lavorare e studiare negli Stati Uniti, imparando nuove tecniche e approcci artistici. Questo scambio ha arricchito la scena artistica italiana, aprendo nuove prospettive e favorendo l’evoluzione delle pratiche artistiche nel paese. Non solo gli artisti, ma anche le istituzioni culturali americane hanno svolto un ruolo significativo nell’arte italiana. Gli scambi tra musei, gallerie e istituzioni culturali italiani e americani hanno promosso la diffusione dell’arte italiana negli Stati Uniti e viceversa. Esposizioni, mostre e collaborazioni tra artisti e istituzioni italiane e americane hanno contribuito a creare un dialogo tra le due culture e a far emergere nuove prospettive artistiche. In sintesi, l’influenza degli Stati Uniti sull’arte italiana è stata un fattore chiave nella rinascita e nello sviluppo dell’arte italiana nel periodo successivo alla Seconda guerra mondiale. L’alleanza tra Italia e Stati Uniti ha favorito lo scambio di idee, tendenze e pratiche artistiche, aprendo nuove prospettive per gli artisti italiani e contribuendo a definire l’arte italiana del periodo. Questa influenza reciproca ha arricchito la scena artistica italiana, contribuendo alla sua crescita e alla sua affermazione a livello internazionale. Attraverso storie di successo, testimonianze coinvolgenti e approfondimenti dettagliati, L’Italia al lavoro esplora l’importanza dell’alleanza con gli Stati Uniti nella creazione della filiera economica italiana. Ogni pagina vi immergerà in un mondo di passione, creatività e determinazione, mentre scoprirete come l’alleanza con gli Stati Uniti abbia contribuito al successo del Made in Italy. Preface Elizabeth St. George Brooklyn Museum, Assistant Curator, Decorative Arts F rom ancient times until today, it is without question that Italian cultural heritage is rich with extraordinary innovation and artistic creative production that not only speaks to the hopes and aspirations of the collective body but also individual skill and passion. The text L’Italia al lavoro seeks to explore that breadth through a collection of essays by writers from numerous disciplines and perspectives that aim to illuminate the multifaceted character of Italian artistic work. While offering an insightful contemporary lens, L’Italia al lavoro is not the first project to do so however. In 1950, in the wake of World War II (1939-1945), the Italian government, in conjunction with the American institution the Brooklyn Museum in Brooklyn, New York, organized a landmark exhibition on mid-century Italian design and decorative arts: Italy at Work: Her Renaissance in Design Today. The installation explored tensions and parallels between two categories of useful objects, the handmade and the industrially produced, and was accompanied by an illustrated catalog. Italy at Work illustrated 2,500 examples of ceramics, glass, furniture, and metalwork, showcasing the ingenuity and skill of Italian designers and makers in the postwar period. As Italy’s economy and consumer goods sector had suffered greatly during the war, Italy at Work sought to promote the recovery and revival of traditional craft and celebrate new materials and technologies in industrial design. While this exhibition had apparent intellectual and economic value within an Italian context, why would an American institution be so keen to co-sponsor, and later tour, this exhibition? The American industrial designer Walter Dorwin Teague is very clear in his Forward to the Italy at Work catalog, holding Italy, as a result of its deep reputation, a hub for global cultural tradition and inspiration, noting “if this exhibit sends any appreciable number of Americans to seek out the craftsmen of Italy in their home places, it will have justified itself […] a steadily XIV Elizabeth St. George ripening mastery, a variety of production which may please more than the selections we have made […]”. Italy at Work at the Brooklyn Museum was intended to be a source of art and design education for the general visiting public and makers alike. While not everyone could travel to Italy to visit craftsmen in their regions, those objects could be brought to New York for a riveting and instructive experience. Indeed, the Brooklyn Museum had long been thinking about design education for the masses with the establishment of its Design Lab in 1946. Comparable institutions in New York like the Museum of Modern Art were also influencing public taste through yearly design expositions like their Good Design (1950-1954) program. As a result of Italy at Work, the international reputation for the elegance of Italian design and decorative arts grew exponentially. After opening at the Brooklyn Museum, the exhibition traveled to eleven other leading U.S. museums between 1951 and 1953, instructing the nation’s public on a new standard for design. After the end of the tour, in 1954, the Italian government donated around 290 pieces of ceramics, furniture, glass, and metalwork to the Museum, including examples by famed designers such as Fulvio Bianconi, Guido Gambone, Carlo Mollino, and Gio Ponti, among others. The legacy of the exhibition Italy at Work is still felt within museums and design practices through the numerous people that come visit collections today. While traveling installations are now rarer, the stamp “Made in Italy” bears its strong reputation for glamor and extraordinary design in an international context through bold marketing in both old and new media, combatting the intense pressures for globalization and non-local manufacturing. To echo the sentiments of Walter Dorwin Teague, I hope L’Italia al lavoro inspires ongoing conversations about the dynamic and exciting history of Italian design and stimulates professionals and novices alike to go visit its epicenters today. Abbreviazioni Enti e istituti APEM: Artigianato Produzione Esportazione Milano CNA: Compagnia Nazionale Artigiana ECA: Economic Cooperation Administration ENAPI: Ente Nazionale Artigianato e Piccole Industrie ERP: European Recovery Program HDI: Handicraft Development Inc. HIH: House of Italian Handicrafts ICE: Istituto Nazionale per il Commercio Estero IVL: Istituto Veneto per il lavoro di Venezia MITA: Manifattura Italiana Tappeti Artistici RIMA: Riunione Italiana Mostre per l’Arredamento USIS: United States Information Service Riferimenti archivistici AAC: Archivio privato Antonia Campi AASO: Associazione Archivio Storico Olivetti, Ivrea ACCM: Archivio Camera di Commercio, Milano ACS: Archivio di Stato di Roma AGB: Archivio privato Gegia Bronzini AIC: Art Institute of Chicago APC: Archivio Papi Cipriani, Siena ASD: Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, Archivio Storico Diplomatico, Roma ASFi, Giorgini: Archivio di Stato, Archivio della Moda Italiana di Giovanni Battista Giorgini, Firenze BMA: The Brooklyn Museum Libraries and Archives, New York FCM: Fondo Carlo Mollino, Archivi Biblioteca “Roberto Gabetti”, Politecnico di Torino FR, ACLR: Fondazione Ragghianti, Archivio Licia e Carlo Ludovico Ragghianti, Lucca GPA: Gio Ponti Archives, Milano IAFi: Archivio dell’Istituto d’Arte, Firenze IuavAP: Archivio Paolo De Poli, Archivio Progetti-Università Iuav, Venezia MET Archives: The Metropolitan Museum of Art Archives, New York MIC: Museo Internazionale delle Ceramiche, Faenza MITr: Fondazione La Triennale di Milano MoMA ALRC: The Museum of Modern Art Archives, Library, and Research Collections, New York PGCVe: Palazzo Venier dei Leoni, Peggy Guggenheim Collection, Venezia PUL: Princeton University Library, Richard Pleasant Papers, Manuscripts Division, Department of Special Collections RBLA: Ryerson and Burnham Libraries and Archives RISD: Rhode Island School of Design Archives, Providence Foto Porta, Alcuni dei protagonisti di Italy at Work di fronte alla “stanza” progettata da Gio Ponti. Da destra, in alto: Gio Ponti, Andrea Parini, Piero Fornasetti e Ramy Alexander. Da destra, in basso: Marcello Fantoni, Edina Altara e all’estrema sinistra Pietro Melandri, [1950] Introduzione Italy at Work, un laboratorio per la modernità Paola Cordera, Chiara Faggella Q uesto volume prende l’avvio dalle ricerche condotte all’interno del progetto FARB 2021 VO Project – La voce degli oggetti. Il Design italiano dal museo alla casa, finanziato dal Dipartimento del Design del Politecnico di Milano e dedicato all’esposizione itinerante Italy at Work: Her Renaissance in Design Today (1950-1953). Riflettere su questa iniziativa a settant’anni dal suo epilogo, ha offerto l’occasione per riconsiderare in una prospettiva storica l’evento espositivo, insieme all’importanza degli investimenti pubblici del dopoguerra nel settore manifatturiero, valutare il ruolo dei sodalizi politici, economici e professionali alla base del processo di ricostruzione del Paese ed, infine, esaminare gli importanti riflessi che le iniziative culturali e commerciali ebbero nella promozione dell’immagine dell’Italia all’estero allora come oggi. L’obiettivo principale che ci si è posti è quello di ripercorrere alcune delle vicende connesse con la manifestazione, secondo prospettive multidisciplinari che attengono agli ambiti della storia dell’arte e dell’architettura, delle arti decorative e del design, dell’industria, della moda e della museologia. I contribuiti qui raccolti sono di studiosi che per formazione, registro stilistico e cultura afferiscono a settori disciplinari diversi e che proprio per questo hanno potuto arricchire la trama di una polifonia in cui le diverse voci si rincorrono sul filo di un racconto che speriamo avvincente e in cui il lettore è accompagnato attraverso scenari inediti in cui peraltro si intravedono nuove prospettive di studio. Vale la pena almeno di fare cenno al contesto in cui l’esposizione Italy at Work si svolse. Le vicende che ne accompagnarono l’organizzazione superarono di gran lunga i confini nazionali e si sovrapposero cronologicamente e programmaticamente al periodo in cui si gettavano le basi per la creazione della futura Comunità Economica Europea, per il principio, espresso dal politico francese Robert Schuman, secondo cui “il contributo che un’Europa organizzata e vitale può apportare alla civiltà è indispensabile per il mantenimento di relazioni pacifiche”. Era questa XVIII Paola Cordera, Chiara Faggella una convinzione che sposava appieno gli ideali espressi nel 1947 dal celebre discorso alla Harvard University del Segretario di Stato degli Stati Uniti George C. Marshall, secondo cui la stabilità politica – e quindi la pace – non poteva essere disgiunta dal benessere economico. Come noto, la ricostituzione del tessuto economico europeo uscito a brandelli dal conflitto – ovvero il ripristino di un sistema economico a compendio di una compagine politica – sarebbe divenuta l’obiettivo principale del European Recovery Program (ovvero, il celebrato Piano Marshall). Il sostegno statunitense, tradottosi nell’elargizione di credito, capitali, beni, merci e know-how, intendeva mettere i partner europei nelle condizioni di riavviare la macchina produttiva, stimolare la ripresa del mercato interno e risollevare le condizioni economiche e sociali (oltre che morali) della propria comunità, al fine di convergere verso il benessere collettivo. L’ostentazione programmatica di obblighi morali mal celava le ragioni di una politica economica che mirava a sostenere il mercato europeo per renderlo in grado da un lato di assorbire la sovrapproduzione americana e dall’altro di marcare un chiaro confine economico con i Paesi del blocco orientale. Un simile processo si compieva in direzione opposta: i paesi del “vecchio mondo” ambivano a loro volta a piazzare i propri prodotti Oltreoceano, in un contesto geografico in cui il tessuto economico non era stato compromesso dagli eventi bellici. Le mostre-mercato e le fiere commerciali organizzate negli Stati Uniti nel dopoguerra rispondevano perciò a una duplice necessità: all’urgenza del governo statunitense di mostrare il ruolo egemone assunto a livello internazionale, dando conto in patria dei progressi economici conseguiti grazie all’importante sforzo economico, corrispondeva l’esigenza degli interlocutori europei di costituire sodalizi economici, commerciali e network tra acquirenti, imprese e amministrazioni. Quindi, questa Nuova Italia che si presentava sulla ribalta internazionale insieme alla sua produzione – l’ammodernamento di industria e agricoltura erano stati al centro dello sforzo economico postbellico – ebbe quasi una vetrina ideale proprio nell’esposizione Italy at Work. Questa mostra deve perciò essere considerata un’importante tessera in quell’articolato mosaico geo-politico che si andò a ricomporre nel quadro delle alleanze internazionali dei primi anni della guerra fredda. Le questioni di politica internazionale e cooperazione economica costituirono lo sfondo su cui si dipanò il racconto di un evento espositivo che ha assunto i caratteri di vero e proprio mito fondatore del Made in Italy e della sua promozione. Si trattava in buona sostanza di un’ambiziosa iniziativa che divenne espressione concreta di una nazione e della sua classe dirigente e imprenditoriale che aspirava a proporre all’estero la modernità di un paese in ripresa, ma che si trovava quasi naturalmente a dover assecondare una visione transatlantica che guardava romanticamente al “fare a regola d’arte” tradizionale e che tendeva a dare maggior visibilità alle espressioni più tradizionali (e rassicuranti) della cultura italiana. Con questo scopo, secondo l’intento degli organizzatori, la selezione degli oggetti da esporre in mostra era stata guidata dalla necessità di incontrare il Italy at Work, un laboratorio per la modernità XIX gusto e il senso civico dei consumatori americani che venivano così resi partecipi della rinascita di una industriosità italiana che non entrava in competizione con il mercato statunitense e non poteva contendere il primato dell’industria della produzione in serie (Amerian 2015). A questo contesto ha per prima guardato Penny Sparke (1998) in un pionieristico studio che ha trovato validi epigoni negli scritti di Maristella Casciato (2006) Rosalind Pepall (2006), Catharine Rossi (2015) ed Elena Dellapiana (2018). L’accresciuto interesse per l’argomento e l’ampliamento di orizzonte hanno orientato diversi studi universitari magistrali (Carpenter 2006, Coppedé 2008-2009, Addesso 2019-2020) e dottorali (Gamble 2015, Faggella 2019, Pellegris 2019-2020), dimostrando non solo il potenziale multidisciplinare della ricerca, ma anche come metodologie, impianti teorici, e contesti accademici diversi possano fornire spunti di ricerca complementari. Si dà inoltre debita nota che nel momento in cui questo volume era in corso di stampa sono stati pubblicati l’articolo di K. Devine su “The Journal of Modern Craft” (vol. 15, n. 3, 2022) e il libro di A. Gamble, Cold War American Exhibitions of Italian Art and Design (Oxon & New York 2023). Se a lungo l’attenzione si è concentrata sulle fonti archivistiche e a stampa americane, il presente volume mette a sistema per la prima volta fonti americane e fonti italiane – spesso inedite – per sottolineare ancora una volta come gli scambi culturali e commerciali tra Italia e Stati Uniti nel dopoguerra non fossero semplicemente derubricabili a una mera americanizzazione del “modo italiano”, ma piuttosto il risultato di una convergenza di intenti e obiettivi volti al rilancio di una nazione, l’Italia, bisognosa di una nuova reputazione con positive connotazioni culturali e commerciali. Ciò che oggi emerge dagli archivi dispersi tra i due continenti – che ben riflette la pluralità di interlocutori coinvolti nell’iniziativa – ci parla non solo dell’esposizione in quanto evento, ma anche dei suoi protagonisti, di personalità politiche, rappresentanti della società civile, artisti e artigiani – oggi spesso dimenticati – esperti mediatori commerciali ovvero di coloro che concorsero, a vario titolo e in diversa misura, alla promozione del Made in Italy. Questo spirito di collaborazione risulta perfettamente sintetizzato dall’immagine a pagina XVI in cui sono immortalati, in un clima permeato da un giocoso affiatamento, alcuni di coloro che contribuirono alla realizzazione della “stanza” progettata da Gio Ponti (che si intravede sullo sfondo) – Edina Altara e Marcello Fantoni, Pietro Melandri e Andrea Parini – idearono la decorazione degli arredi (Piero Fornasetti) o erano coinvolti nell’organizzazione della mostra (Ramy Alexander, vicepresidente della Compagnia Nazionale Artigiana). Alle loro storie, si raccordano quelle dei curatori e delle curatrici dei musei ospitanti, responsabili dell’ideazione di un percorso espositivo che nelle dodici sedi museali non fu mai uguale a sé stesso, e che quindi ci raccontano di scelte e priorità che andavano di volta in volta rinegoziate e “customizzate”, a seconda dello spazio a disposizione, XX Paola Cordera, Chiara Faggella oltre che dei pubblici diversi a cui si rivolgevano in un territorio tanto esteso e culturalmente diversificato. L’epilogo della mostra ha costituito un nuovo inizio: oltre a ispirare tanto negli Stati Uniti quanto in Europa iniziative analoghe, la dispersione degli oggetti esposti – solo in parte accolti dai musei che li avevano temporaneamente ospitati – ha contribuito alla diffusione – e alla promozione – dell’Italian lifestyle (anche grazie al sostegno di quella comunità italoamericana che si era in parte fatta carico delle spese connesse con l’esposizione). La frammentazione del palinsesto originario – la cui natura, secondo Meyric R. Rogers, vera e propria anima dell’impresa, rendeva la compilazione di un catalogo esaustivo “undesirable as well as impractical” – rende oggi aleatorio ogni giudizio complessivo sull’evento espositivo e sulle circostanze che lo determinarono, aprendo, al contrario, interrogativi che solo ulteriori scavi archivistici potranno forse chiarire, vagliando i documenti raccolti in archivi istituzionali, archivi museali, archivi professionali e archivi d’impresa. Proprio per questo, la presente pubblicazione non ha l’ambizione di costituire un punto di arrivo, ma piuttosto un punto di partenza per lo sviluppo di ulteriori ricerche e nuove riflessioni. L’obiettivo principale di questo lavoro è stato quello di restituire un quadro complessivo di attori, interessi, stili e riferimenti culturali per dare conto della produzione italiana del dopoguerra e per mostrare come molti di essi contribuiscano alla sua fortuna (ciclica) anche nell’attualità. Per fare questo, il volume è stato articolato in cinque sezioni. La prima, intitolata L’Italia in mostra. Nuovi prodotti per una clientela internazionale, raccoglie una serie di saggi che introducono eventi, circostanze e figure utili alla comprensione di temi e problemi che troveranno un loro ulteriore sviluppo all’interno della mostra Italy at Work. Le attività promozionali del Made in Italy nel primo dopoguerra – delineate da Sandra Costa nel saggio dedicato alla Crociera Italiana nell’America Latina del 1924 – ebbero il duplice scopo di attirare l’attenzione sia degli italiani espatriati sia degli interessati visitatori, trovando poi una forte continuità nelle politiche di promozione delle arti applicate nel dopoguerra, quando interessi italiani e statunitensi cercarono il coinvolgimento delle comunità italoamericane nel supportare il nuovo “saper fare all’italiana” ormai degno di riconoscimento sui periodici dedicati all’arredamento e alla moda. Alcune di queste riviste sono prese in esame da Giampiero Bosoni in un contributo incentrato sulla figura di Irving Penn, sui suoi esordi professionali e sul suo viaggio alla “scoperta” dell’Italia. L’epilogo del saggio ben chiarisce il contesto in cui si muoveva quello che sarebbe diventato uno dei maestri della fotografia del XX secolo: il numero di “Vogue” del 1949 su cui vennero pubblicate le sue immagini avrebbe costituito un formidabile strumento per la promozione del nascente design del mobile in Italia, insieme a “Interiors” (1948) e a “Vogue” (1954). Le relazioni tra gli Stati Uniti e l’Italia tra il 1948 e il 1954 vengono prese in esame da Maria Cristina Tonelli che analizza le modalità con cui le produzioni artigianali italiane si andavano accreditando sul Italy at Work, un laboratorio per la modernità XXI mercato americano e come questo processo fosse registrato in Italia. In questo contesto, la studiosa mette in evidenza il determinante ruolo svolto da agenti di commercio o dai rapporti personali di esponenti aziendali che spesso sfuggono alla registrazione della Storia. L’ultimo saggio della sezione è incentrato sul case study Olivetti. La partecipazione dell’azienda eporediese alla mostra Italy at Work costituisce lo spunto per il saggio di Caterina Cristina Fiorentino che mette in evidenza le strategie messe in campo per promuovere, diffondere e consolidare la presenza della società sul mercato italiano, e poi su quello statunitense. I contributi raccolti nella sezione successiva – Nuove narrazioni per la promozione della produzione italiana – affrontano l’esposizione Italy at Work, l’organizzazione dell’evento e il suo impatto economico-culturale secondo prospettive diverse. Si situano qui le vicende che, dietro le quinte, sono oggi studiate per disvelare dinamiche di interazione poco (o del tutto) conosciute tra organizzatori, curatori, artigiani e artisti, ma anche per raccontare come alcuni eventi collegati e, talvolta, contemporanei ad Italy at Work fossero intesi a rafforzare, non senza contraddizioni, una strategia promozionale condivisa: la mostra all’estero del prodotto italiano. A partire dagli eventi che che precedettero la costituzione della Compagnia Nazionale Artigiana (CNA), Emanuela Ferretti, Lorenzo Mingardi e Davide Turrini evidenziano gli elementi di continuità con le esperienze volte a promuovere l’artigianato italiano negli Stati Uniti nel dopoguerra. I tentativi di creare un’immagine coordinata della migliore creatività italiana dell’epoca rivelavano la necessità di unificare, seppur dal punto di vista della narrazione e delle scelte espositive, lo “stile italiano” in modo da renderlo riconoscibile ed appetibile per il pubblico borghese americano. Paola Cordera entra nel merito dell’organizzazione e dell’allestimento della mostra, documentando l’impegno del governo italiano nella lunga gestazione dell’iniziativa museale, nel coordinamento di eventi culturali e commerciali e nell’allocazione degli oggetti esposti in mostra alla fine dell’iniziativa. L’aspetto commerciale e promozionale dell’esposizione americana è approfondito dal saggio di Catharine Rossi, incentrato sul modo con cui l’artigianato italiano è stato considerato all’interno dell’esposizione e nella campagna di vendita al dettaglio – Italy-in-Macy’s (1951) – orchestrata per attrarre i consumatori nordamericani, considerati vitali per la crescita economica dell’Italia. Alcuni di questi aspetti sono approfonditi da Lisa Hockemeyer in relazione alla produzione ceramica, alla presenza delle relative manifatture all’interno della mostra e nel contesto più ampio degli sforzi per rilanciare l’artigianato italiano nel secondo dopoguerra. Elena Dellapiana bene evidenzia come i pezzi esposti da Gio Ponti nella sua “sala da pranzo che è più da guardare che da usare” costituissero anche il pretesto per divulgare e promuovere le opere di artisti ceramisti, per dare risalto alle scuole regionali, e proporsi al pubblico internazionale come “Uomo universale”. Il saggio di Chiara Faggella con cui si chiude la sezione dimostra come il racconto della moda italiana d’esportazione si stesse scrivendo già negli anni in cui si preparava l’allestimento di Italy at Work e come il suo riconoscimento si XXII Paola Cordera, Chiara Faggella cristallizzò effettivamente tra i macro-obiettivi degli organizzatori. Sebbene l’alta moda non fosse stata inclusa nella mostra, venne riconosciuta la rilevanza che i compratori americani attribuivano ad accessori di moda italiani, nonostante fossero spesso acquistati per poi essere ri-etichettati nel paese di destinazione. Artisti, produttori e designer è la sezione che entra nel vivo di alcune vicende riguardanti gli artefici, gli artigiani e gli oggetti che parteciparono all’esposizione. Al quadro generale delineato da Stefano Setti, incentrato sul rapporto tra arti “maggiori” e “sorelle minori”, seguono alcuni approfondimenti dedicati ad artisti già noti in Italia e al loro sforzo per affermarsi sul mercato statunitense, come Lucio Fontana (a cui è dedicato lo scritto di Raffaele Bedarida) e a figure già conosciute presso il pubblico americano, come Corrado Cagli (esaminato da Fabio Marino). Entrambi gli artisti, come spiegato nel volume, avevano una relazione controversa con l’immagine della creatività italiana del dopoguerra che permeava gli Stati Uniti. Ed infatti la sezione mette in evidenza come la promozione del nuovo Rinascimento italiano non fosse sempre condivisa dai partecipanti alla mostra con lo stesso spirito di adattamento. Esemplificative delle tante produzioni che nella seconda metà del XX secolo hanno dato forma al cosiddetto Made in Italy, le manifatture artistiche sono l’oggetto dei saggi successivi in cui vengono approfondite le figure dell’artista-decoratore Giorgio Cipriani – sulla cui poliedrica attività si sofferma Stella Cattaneo – e di Paolo De Poli a cui è dedicato il contributo di Ali Filippini che mette a fuoco la personalità dell’artista-smaltatore, anche in relazione alla sua collaborazione con APEM (Artigianato Produzione Esportazione Milano). Il saggio di Rita Capurro mostra infine, come il successo di pubblico generato dalla mostra non fosse bastato a tutelare alcune lavorazioni artigianali artistiche, come quella delle sedie Campanino. Con la sezione Women at Work si è voluto dare conto e mettere in evidenza la diffusa presenza di numerose artiste, artigiane e imprenditrici che parteciparono a Italy at Work con produzioni che traducevano il gusto moderno negli oggetti di uso comune e legati alla sfera domestica più prettamente femminile. Il caso di Antonia Campi e la sua partecipazione a Italy at Work è inscritta da Anty Pansera nel contesto della produzione successiva per la Società Ceramica Italiana e alla luce del vivace contesto milanese della metà del Novecento. Nelle vaste possibilità di allestimento della mostra riguardo all’offerta dal settore tessile italiano si collocano anche le produzioni della milanese Fede Cheti – a cui è dedicato il saggio di Chiara Lecce – la cui partecipazione è inquadrata dai numerosi punti di contatto che aveva stabilito con gli Stati Uniti già prima della partecipazione ad Italy at Work, e di Gegia e Marisa Bronzini – oggetto dello studio di Michela Bassanelli – il cui utilizzo di canapa, lana, e seta nei tessili unì materie prime inusuali all’esclusività delle piccole produzioni artigianali, molto ricercate negli Stati Uniti. La sezione si conclude con un affondo biografico in cui Silvia Vacirca ripercorre la modernità di Luciana Aloisi De Reutern, una nobildonna romana dedita a molteplici attività professionali legate alla moda, narrando come questa Italy at Work, un laboratorio per la modernità XXIII figura poco conosciuta rappresentasse la continuità tra il Fascismo e la Repubblica nella promozione dell’oggetto d’arte di lusso. Il libro si chiude offrendo qualche riflessione in merito all’eredità lasciata da Italy at Work attraverso i contributi della sezione Oltre Italy at Work. L’approfondimento di Marcella Martin dedicato ad alcune delle scarpe Ferragamo in mostra e la loro attuale collocazione al Metropolitan Museum of Art di New York consente di discutere l’ingresso dell’alta moda nelle collezioni permanenti dei grandi musei internazionali. Manuel Barrese riflette sull’impatto delle suggestioni “primitiviste” ravvisate dai critici statunitensi, in contrapposizione alla logica della produzione di massa, nella produzione degli artisti di stanza a Roma che esposero sia in Italy at Work sia in gallerie d’arte. I valori associati con il lifestyle italiano del dopoguerra e la rappresentazione del Made in Italy attraverso l’artigianato messi in scena in Italy at Work si ribaltano completamente invece nella visione proposta da Emilio Ambasz con Italy: The New Domestic Landscape, oggetto del saggio di Francesco Spampinato. In questo modo, viene volutamente gettato lo sguardo verso vent’anni più tardi. È singolare che proprio con questa stessa “fortunata mostra del design italiano” tenutasi al Museum of Modern Art di New York nel 1972 si concludesse anche il celebre volume di Ferdinando Bologna che in quello stesso anno prendeva in esame il complesso nodo di questioni sviluppate intorno alle arti “minori”. In fondo, anche con questo libro dedicato a Italy a Work si è cercato di cogliere l’occasione per affrontare l’(irrisolta) questione del rapporto tra arte e design che ci porta all’attualità. Al fine di evitare ripetizioni dovute alla ricorrenza di nomi di associazioni, consorzi e istituzioni, gli acronimi sono stati sciolti nell’elenco a pagina XV. Con analogo intento, è stata privilegiata la dicitura Italy at Work, in luogo del titolo completo della mostra Italy at Work: Her Renaissance in Design Today. Le tappe dell’esposizione sono state sintetizzate nella tavola ideata da Giuseppe Addesso a pagina XXV a cui si rimanda anche per la scansione cronologica di cui si parla nei diversi saggi. XXIV Paola Cordera, Chiara Faggella Ringraziamenti Le curatrici del volume desiderano ringraziare tutti coloro che hanno contribuito, a vario titolo e in momenti diversi, offrendo consigli e utili spunti, alle loro ricerche e al buon esito di questa pubblicazione. Un ringraziamento particolare va a Sandra Costa e a Dominique Poulot che, cogliendo la vocazione transdisciplinare di questo volume, lo hanno accolto nella collana ARTE. La nostra gratitudine va estesa a Luca Arnaboldi e Marzia Francisci (American Chamber of Commerce in Italy), Paolo Bolpagni, Francesca Pozzi e Sara Meoni (Fondazione Ragghianti di Lucca), Gianfranco Di Natale e Cristina Fava (Sistema Moda Italia), Andrea Cancellato, Alessandra Fontaneto e Stefania di Maria (ADI Design Museum), Gaetano Di Tondo ed Enrico Bandiera (Associazione Archivio Storico Olivetti di Ivrea), Charles Doran e AnnaLee Pauls (Princeton University Library Special Collections), Giovanni Battista Fadigati (Este Ceramiche e Porcellane), Barnaba Fornasetti, Chiara Zanesi e Andrea Delle Case (Archivio Fornasetti), James E. Hanks (Detroit Institute of Arts Research Library & Archives), Chiara Marzi (Archivio Storico e di Deposito Giunta Regione Toscana), Stefania Ricci, Ludovica Barabino ed Eleonora Geppi (Fondazione Ferragamo), Liz Saint George (Brooklyn Museum, New York) e Claudia Urbanelli (Liceo artistico statale di Porta Romana di Firenze). Questo volume non si sarebbe concretizzato senza il generoso impegno di Bologna University Press, a cui va uno speciale ringraziamento. Italy at Work, un laboratorio per la modernità XXV L’ITALIA IN MOSTRA. NUOVI PRODOTTI PER UNA CLIENTELA INTERNAZIONALE Dall’italianità al Made in Italy: aspetti di transizione nel primo dopoguerra Sandra Costa Alma Mater Studiorum - Università degli Studi di Bologna S pesso considerata come un primo esempio di diffusione internazionale del Made in Italy1 la crociera della Regia Nave Italia in America Latina del 1924 si inserisce in una ben più lunga storia di tentativi che, dagli anni 1880 in poi, avevano cercato di utilizzare navi mercantili per la creazione di mostre itineranti di prodotti per promuovere l’import/export europeo con paesi emergenti. Ciò che però contraddistingue questa crociera, e che la rende interessante anche dal punto di vista museologico e dell’analisi dei pubblici di riferimento finora indagati solo in modo frammentario,2 è la dimensione culturale e ideologica oltre che commerciale che le venne attribuita.3 L’iniziativa era nata con il sostegno di Gabriele D’Annunzio e di Benito Mussolini e diversi apporti scientifici4 hanno già progressivamente evidenziato la complessità degli obiettivi economici e politici da raggiungere: illustrare le possibilità dell’industria italiana, individuare nuovi mercati, facilitare i commerci con l’America latina, creare degli istituti finanziari riorganizzando le vie di commercio, rinsaldare i legami tra gli emigrati e la Nazione. Insomma, aprire nuovi mercati particolarmente favorevoli all’Italia e alternativi a quelli di una Europa che era stata impoverita dalla guerra, ma anche affermare – fino alle rive occidentali dell’Atlantico – i caratteri di una “latinità” che si voleva fosse assunta con orgoglio: “[…] solcherà il mare, carica di documenti umani e, più ancora di affetti e di memorie, una nave che l’Italia manda ai suoi figli transoceanici”.5 Moure Cecchini 2016. A questo proposito cfr. dell’autore, Una sintesi del dibattito espositivo del primo Novecento in una mostra itinerante degli anni ’20, di prossima pubblicazione. 3 Il governo italiano sostenne l’iniziativa con un contributo finanziario e mettendo a disposizione sia l’imbarcazione che un equipaggio della Marina Militare. Per una introduzione bibliografica e archivistica agli studi sulla crociera vedi Rautemberg 2020-2021, p. 216, n. 733. 4 Per una bibliografia aggiornata rispetto le questioni della diplomazia culturale vedi Fotia 2017. 5 Cit. in Tassini 2014. 1 2 4 Sandra Costa In questa affermazione programmatica di Giovanni Giurati, nominato per l’occasione ambasciatore straordinario presso le repubbliche latino-americane, c’è già la sintesi di quello che diventerà il registro comunicativo di tutta l’iniziativa: la dimensione emotiva dell’affetto e della memoria per rinsaldare tramite gli oggetti – e le narrazioni che li accompagnavano secondo un vero e proprio modello archetipo di storytelling – i legami identitari con la Patria per gli italiani e l’interesse economico, ma anche la curiosità per il Paese per gli investitori stranieri. La Nave Italia era salpata da La Spezia nell’inverno del 1924 per una traversata dell’Atlantico che l’avrebbe condotta ai porti dell’America latina e, nel giro di otto mesi di navigazione, a effettuare trentuno scali in dodici diverse nazioni (fig. 1).6 L’idea di base era quella che l’oceano “non divide ma unisce”, e anche nel catalogo ufficiale si legge: La nostra crociera, così come è stata ideata ed organizzata, non ha scopi puramente reclamistici e nemmeno intende di essere una semplice fiera campionaria. Essa mira certamente alla conclusione di affari per gli espositori, ma tende altresì ad un fine che di tale conclusione di affari deve essere la conseguenza logica e necessaria, anche se non immediata: lo stabilimento e il consolidamento di rapporti più intimi fra l’Italia e i popoli dell’America latina […]. È un lembo d’Italia che portiamo a toccare i lontani porti della latinità.7 Così è già chiaramente esplicitato il fine ultimo dell’iniziativa che oltrepassava le speranze di profitto commerciale delle singole imprese per assumere una dimensione collettiva e quasi “corale” di comunicazione. 1. Regia Nave Italia, Piano di circolazione della nave in Crociera italiana dell’America Latina. Anno 1924, F. de Rio, Milano, 1924 6 7 Cfr. Belli 1924. R. Nave Italia… 1924, p. XVIII. Dall’italianità al Made in Italy: aspetti di transizione nel primo dopoguerra 5 Tra Nazione e territori Dal punto di vista dell’arte, delle arti applicate e del design questa iniziativa può anche essere considerata come uno dei primi tentativi per dar vita ad un moderno sistema integrato per le arti attraverso l’uso di esposizioni itineranti, anticipando anche quella che sarebbe diventata la missione degli Istituti Italiani di Cultura e degli Istituti per il Commercio Estero nati solo due anni dopo, nel 1926. La nave fu in gran parte allestita come una variante mobile e in miniatura di quelle esposizioni che già l’Ottocento aveva reso famose nelle diverse capitali europee per valorizzare l’identità nazionale e i prodotti dell’artigianato e di una nascente industria. In continuità con questo approccio “nazionalista” la comunicazione ufficiale diffusa per l’occasione sulle produzioni italiane si voleva accompagnata da una selezione di oggetti di qualità, capaci di unire originalità di concezione, alto valore tecnico e suggestioni adatte per una promozione anche turistica del Paese.8 Proprio come nei padiglioni nazionali delle esposizioni internazionali le vendite, che ovviamente si auspicavano numerose, avrebbero dovuto innescare tramite la diffusione stessa dei manufatti un interesse per le “cose d’Italia”. Il catalogo ufficiale elenca tra gli espositori alcune delle industrie più rappresentative della storia italiana: Ansaldo, Beretta, FIAT, Campari, Perugina, Ramazzotti, Olivetti… Ma sono presenti anche molte ditte direttamente collegate alla dimensione creativa e alla lunga storia dell’artigianato italiano come la società Richard Ginori e Pozzi per le ceramiche, Giuseppe Cantagalli con le sue maioliche artistiche che – come ben rappresenta la pagina pubblicitaria del catalogo ufficiale – era specializzato in riproduzioni dai Della Robbia, i vetri artistici di Venini e della Cristalleria Murano. Tra arte e fashion erano esposti i sontuosi tessuti di Mariano Fortuny che aveva tappezzato con i suoi velluti anche le sale da pranzo della nave.9 L’elenco dei prodotti, come aveva sottolineato Piero Belli, capo ufficio stampa durante la crociera, andava “dal profumo al cannone”.10 Ma si evidenziava già una attenzione particolare a quelle produzioni e a quei mestieri dell’arte che, solo qualche decennio dopo con l’affermazione del Made in Italy, sarebbero entrati a far parte delle eccellenze italiane riconosciute nel mondo come gli alimentari, l’arredamento e il design, la moda. Su questa programmatica eterogeneità di proposte e contiguità di spazi tra arte e industria si possono ricordare alcune riflessioni di Ugo Ojetti che sembravano anticipare aspetti di una strategia culturale-commerciale del primo periodo del fascismo: Sbordone, Turrini 2020; cfr. anche Miserocchi 1925, pp. 229-230. Tassini 2014. 10 Belli 1925, p. 28; vedi anche Incisa di Camerana 1999, p. 1 e Aiello 1999. 8 9 6 Sandra Costa Ancora oggi non riusciamo a persuaderci che alla penetrazione commerciale giova soprattutto la penetrazione dell’arte, della cultura, magari della moda; che cioè a vendere all’estero macchine agricole o tessuti di cotone o automobili giovano proprio le così dette frivolezze dei concerti di musica, degli spettacoli teatrali delle mostre d’arte pura ed arte decorativa […].11 L’occasione di queste considerazioni era stata la mancata partecipazione dell’Italia all’esposizione di arte decorativa moderna organizzata dalla Federation of Art degli Stati Uniti nel 1920.12 Una adesione fallita che suggerisce di prendere in considerazione anche questi “angoli morti” per una storia più completa dell’affermazione del Made in Italy grazie alle esposizioni all’estero. Il display degli spazi della nave fu spesso il risultato di un compromesso tra le esigenze commerciali delle diverse imprese e una volontà di storytelling dell’Italia – del suo popolo e delle sue produzioni – affidata alla selezione degli espositori prima e all’insieme del percorso espositivo poi.13 Caratterizzate da una evidente integrazione tra esigenze simboliche e commerciali e con una forte interconnessione tra arte e industria, le mostre erano in grado di interessare un pubblico eterogeneo per ceto, censo e cultura.14 La qualità e la peculiarità delle manifatture artistiche italiane vengono messe in evidenza attraverso l’arte e l’artigianato, ma anche grazie all’editoria, alla cartografia, alla fotografia: tutti elementi che verranno ripresi anche negli anni ’50 rispondendo ad analoghe necessità di rilancio economico e dell’immagine dell’Italia.15 Cultura progettuale, vendita, uso emblematico delle opere e del termine “Italia” vengono riuniti costituendo un momento di transizione dall’idea di italianità verso la definizione di quella concezione del Made in Italy che diventerà tipica nel secondo dopoguerra. Un altro aspetto di continuità degno di rilievo è l’importante nesso che viene rivendicato tra territorio e prodotto. Quest’ultimo viene evidenziato nella dimensione “regionale” offerta all’allestimento e dalla presenza di artigiani e di imprese – anche piccole e medie – ma esemplari nel loro insieme delle specificità produttive e perfino paesaggistiche regionali. Anche questa intenzione di valorizzare manifatture locali “proiettandole” verso l’estero può essere considerata come un vero elemento archetipo del Made in Italy promosso attraverso le mostre itineranti nel secondo dopoguerra. La vasta presenza di una specifica “cultura materiale regionale” sulla Regia Nave Italia avrebbe dovuto facilitare anche l’identificazione di molti emigrati – proprio dal 1924 meno prosaicamente definiti “Italiani all’estero” – con una madrepatria riconosciuta e ricordata anche grazie alla peculiarità delle sue manifatture locali: 11 12 13 14 15 Ojetti 1920. Sul rapporto tra arte e propaganda vedi Fabi 2020. Nezzo 2016, p. 115. Cfr. Condizioni generali per la partecipazione in Sartorio 1924… 1999, p. II. Belli 1925, pp. 29-30. Cfr. Sbordone, Turrini 2020. Dall’italianità al Made in Italy: aspetti di transizione nel primo dopoguerra 7 Le varie regioni partecipavano presentando vari prodotti: la Puglia allestiva le ceramiche di Grottaglie, la Basilicata alcune sculture di legno create da pastori, la Lombardia una produzione di arte moderna applicata, l’Umbria alcune ceramiche di Deruta e Gubbio, la Toscana vari prodotti di artigianato artistico, la Campania damaschi, tartaruga intarsiata e semplice, coralli e cammei, il Lazio alcune produzioni di rame, l’Abruzzo ceramiche, tappeti di Pescocostanzo e pizzi, l’Emilia mobili e lavori in legno, le Marche delle ceramiche e dei mobili, il Piemonte alcuni velluti ornati, la Calabria ceramiche e stoffe colorate, la Romagna stoffe stampate in ruggine e le ceramiche di Faenza, il Veneto giocattoli di legno, vetri lavorati, mosaici, stoffe, perle e scialli.16 Questo elenco, proposto da Claudio Tassini, sollecita alcune riflessioni non solo perché suggerisce una sorta di “cartografia” degli oggetti, ma anche per le caratteristiche specifiche che possono essere attribuite alla loro selezione: quasi anticipando futuri destini la Lombardia si segnala per le sue creazioni di arte moderna applicata. Erano stati “messi in scena” saloni in stile fiorentino17 e veneziano18 non solo per sottolineare l’italianità della nave, ma probabilmente anche per offrire una sorta di “esperienza immersiva” ben identificabile regionalmente dal pubblico. Inoltre, la collocazione regionale, a cui facevano un riferimento costante la comunicazione e l’allestimento delle sale tematiche, continuava ad essere un valore riconosciuto dagli emigrati.19 L’esposizione delle manifatture acquista talvolta un carattere sociale secondo una indicazione che verrà anch’essa ripresa nel secondo dopoguerra, per esempio negli spazi dedicati alla mostra delle industrie artistiche femminili e popolari.20 La dimensione del genere cominciava, infatti, ad essere particolarmente sentita perché alla fine della guerra e con il ritorno degli uomini al lavoro molte donne – ma anche dei veterani invalidi – si erano dovuti impegnare in “manifatture casalinghe” ed era utile alla Nazione valorizzare tanto dal punto di vista economico quanto sociale gli esiti di lavorazioni artigianali non collegate ad attività di atelier prestigiosi o riconosciuti: “Il modesto artigiano che lavora nella sua casa, la contadina che, finiti i suoi lavori casalinghi, esercita le esperte mani sui telai e sui tomboli o intreccia vimini e paglia sono la manifestazione più palese del senso innato di gusto ed arte del popolo italiano”.21 Tassini 2014. L’allestimento del salone fu curato da Ezio Giovanozzi e dalle ditte De Matteis e Barsi; cfr. Sacchi Lodispoto 1999, p. 17. 18 Il salone veneziano era stato ideato da Francesco Gusso e dalle ditte Cappellin, Venini, Pasqualini e Vienna e dalle società Fortuny e Jesurum di Venezia; in Sacchi Lodispoto 1999, p. 17, nota 57 è indicata la collocazione delle fonti conservate all’Archivio Centrale dello Stato. 19 Carrara 1925, p. 32. 20 Cfr. Tassini 2014. 21 R. Nave Italia… 1924, p. 35. 16 17 8 Sandra Costa Al di là della retorica, è interessante notare come questo fenomeno – che pure era e sarebbe lungamente rimasto “al confine fra beneficenza e sfruttamento” 22 – fosse riuscito a trovare un primo spazio istituzionale di espressione. Il ruolo della tradizione Finora tralasciato dagli studi è un altro elemento collegato al rapporto tra la valorizzazione dell’italianità e le iniziative artistico/culturali promosse durante la navigazione: nella sala dei Marmi (VI) era stata allestita una mostra di grande formato per illustrare e sostenere la creazione di un “Tempio e Pinacoteca agli artefici della vittoria” da erigersi a Roma. Il progetto era stato approvato da Mussolini, in quanto Presidente del Consiglio dei ministri, il primo ottobre del 1923 e un apposito Comitato aveva organizzato la raccolta dei contributi. Nel 1924 la Camera di Commercio Italiana di Buenos Aires, in occasione dell’arrivo in porto della nave, pubblicò una precisa descrizione del progetto architettonico, del display di allestimento e del programma iconografico in cui: “un gruppo simboleggiante l’elevazione dell’anima nazionale s’innalzerà dal centro verso la sommità della cupola” (fig. 2).23 La Pinacoteca, poi, avrebbe dovuto raccogliere 50-60 ritratti, realizzati in modo uniforme per stile e dimensioni, delle maggiori “personalità patriottiche”. Questa mostra, accompagnata dalla relativa raccolta fondi, inserisce le esposizioni della Regia Nave Italia in una dimensione in cui l’italianità si proponeva con un modello di lettura all’interno del quale la creazione artistica manteneva un alto valore simbolico e identitario, ma anche di connessione tra Grande e Piccola Patria. È inutile sottolineare, però, come l’evidente riferimento a Bramante e al Tempietto di San Pietro in Montorio inserisca anche questo progetto architettonico e museografico in un contesto – sicuro, ma un po’ trito – di rilettura del passato. Il catalogo ufficiale, d’altra parte, aveva dichiarato una sorta di endiadi tra l’Italia e la sua grande tradizione artistica: “[…] noi siamo discendenti tutti dai maestri che ci spianarono la via, da quei grandi che illustravano la storia facendo delle parole Arte e Italia sinonimi inseparabili”.24 Sia per gli imprenditori sudamericani che per gli italiani emigrati l’argomento, ben rodato, del genio italico e della grandezza di un patrimonio storico-artistico ovunque riconosciuto si confermò una strategia comunicativa prioritaria.25 Maino 1999, p. 64. Comitato italiano 1924, p. 21. Il fascicolo, edito a cura del Comitato italiano costituitosi in Buenos Aires per accogliere la crociera, è un’ottima testimonianza della relazione possibile tra arte e mercato (cfr. pp. 14-16). Sulla presenza italiana nella cultura del Brasile cfr. Costa, De Boni 1991. 24 R. Nave Italia… 1924, p. 112. 25 Cfr. Gentile 1996, p. 208. 22 23 Dall’italianità al Made in Italy: aspetti di transizione nel primo dopoguerra 9 2. Per la Crociera italiana in America latina, Buenos Aires, s.e., 1924, pp. 20-21 Anche per la Mostra d’arte italiana del Novecento il criterio della selezione, esplicitato nel regolamento, era che le opere dovevano essere “degne di rappresentare all’estero l’arte italiana”.26 Una riflessione sulle scelte formali proposte sulla nave è già stata avanzata da diversi autori, concordi nell’idea che l’operazione critica messa in atto fosse complessivamente conservatrice e avesse optato per scelte di “facile fruizione” escludendo le avanguardie – pure in quegli anni vivacissime – ma non facilmente integrabili nel recupero di una tradizione nazionale.27 Meno noto, ma di un certo rilievo, il fatto che i contenuti artistici di italianità proposti nella nave fossero coerenti con quelli presentati nel Museo de Arte italiano di Lima che era stato inaugurato solo un anno prima, nel 1923, e sembrava proprio caratterizzato dalla stessa nostalgia per l’800 e da una simile predilezione per ritratti e paesaggi rurali.28 Cfr. Tassini 2014. Sulle aspettative legate alla diffusione dell’arte italiana all’estero vedi Sartorio 1924a e Sartorio 1924b. 27 L’analisi critica della dimensione artistica è già largamente compiuta, sulla progettazione della mostra d’arte italiana proposta da Leonardo Bistolfi e Giulio Aristide Sartorio vedi Sacchi Lodispoto 1999, p. 15 e più generalmente Cimonetti 2018. 28 Si può segnalare che alcuni pittori le cui opere erano state esposte sulla nave erano anche presenti al Museo di Lima: non solo Aristide Sartorio e Leonardo Bistolfi ma anche Mario de Maria, Beppe Ciardi, Antonio Mancini ed Ettore Tito. Cfr. Moure Cecchini 2016, p. 461 e Rautemberg 2020-2021, p. 50. 26 10 Sandra Costa Il pubblico di riferimento. Quale ricezione dell’iniziativa? La nave ospitava passeggeri che erano considerati tra gli attori culturali del momento,29 ed anche responsabili di case editrici di rilievo come Hoepli, Laterza, Mondadori, Zanichelli. È tuttavia opportuno tentare anche un’analisi del pubblico cui si rivolgeva l’iniziativa: occasionale e per lo più anonimo è stato finora studiato soprattutto in riferimento alle esigenze di propaganda del regime. Le esposizioni furono coronate da un certo successo e i visitatori furono circa 2 milioni: sappiamo che la nave divenne una vera e propria attrazione come a Montevideo dove fu visitata da ben 17.000 persone in quattro giorni. I diversi manufatti esposti avrebbero dovuto favorire una rinnovata adesione alla identità patria attraverso il riconoscimento delle origini di ciascuno nella “voce degli oggetti”; tuttavia, il pubblico italiano degli emigrati non era generalmente in grado di acquistare i prodotti proposti poiché non sufficientemente abbiente e forse anche perché privo della cultura necessaria per un loro reale apprezzamento. La dimensione ibrida tra finalità commerciali e illustrazione di una specifica cultura nazionale aveva reso l’iniziativa un primo esempio di quella che sarebbe diventata l’azione del nuovo governo fascista rispetto alla promozione di una idea di “latinità” dall’epicentro romano capace, tuttavia, di adattare il suo mito al contesto americano di una “vicinanza latina”. Per esempio, secondo quel binomio di natura e cultura che stava diventando tipico del Made in Italy, il catalogo ufficiale conteneva una sezione riccamente illustrata dedicata a una sorta di viaggio virtuale in Italia, con la descrizione – e la promozione – di città e regioni,30 ma anche capace di sottolineare il profondo legame tra gli oggetti e il contesto naturale e culturale che li aveva prodotti. Da un punto di vista economico, però, l’italianità corrispondeva già alla ben più pragmatica ricerca da parte di artigiani e produttori di un nuovo segmento di mercato attento sia all’uso di tecniche tradizionali e di sigle stilistiche storiche che alle moderne industrie creative.31 Si è affermato che la capacità di “trasformare il consumo in immaginario”32 sia oggi una delle caratteristiche essenziali del Made in Italy: tra i propositi di questo Grand Tour del 1924 si evidenzia già il tentativo di costruire un prototipo – culturale ed economico – funzionale all’esportazione non solo di singoli oggetti, ma piuttosto di un modello di ars vivendi collegato ad un magistero del fare italiano internazionalmente riconosciuto. Sulle vicende di questo museo è forse utile ricordare che dopo un iniziale successo esso rimase in una condizione di oblio quasi totale fino al 1972 quando venne inserito nell’Instituto Nacional de cultura del Perù, vedi Ojetti 1922, Quesada 1994, Rautemberg 2020-2021, p. 71; cfr. anche Leonardini 2006. 29 Tassini 2014. Sull’importanza dei giornalisti e soprattutto sul diverso pubblico di riferimento a cui si interessavano cfr. Moure Cecchini 2016, p. 453. 30 R. Nave Italia… 1924, p. XXVII. 31 Su questi aspetti vedi Moure Cecchini 2016. 32 Benini 2019, pp. 161-162; Sbordone, Turrini 2020. Alle radici del Made in Italy. La stampa patinata USA “crea” l’Italian Design Renaissance del dopoguerra Giampiero Bosoni Politecnico di Milano A ppena dopo la Seconda guerra mondiale, tra il 1947 e il 1949, alcuni famosi magazines della high society americana quali “Vogue”, “Harper’s Bazaar”, “House & Garden” e “Interiors” dedicano alcuni importanti servizi a quello che viene spesso definito in quel contesto il “Rinascimento italiano” del dopoguerra. Particolarmente significativo è il contributo di un giovanissimo fotografo destinato a diventare un maestro della fotografia del ’900: Irving Penn, che nel 1948 compie per “Vogue” America un viaggio in Italia, perlustrativo e di approfondimento (insieme alla celebre caporedattrice di “Vogue” a Parigi Edmonde Charles-Roux), seguendo un itinerario che inizia a Milano e ha come altre tappe significative Roma e Napoli. In questo saggio si intende approfondire e allargare lo sguardo rispetto a una specifica ricerca che abbiamo già dedicato al servizio giornalistico Milan, Design Renaissance uscito su “Vogue” nel settembre 1949,1 con le magnifiche fotografie di Irving Penn che ritrae mirabilmente alcuni significativi interni architettonici insieme ai loro autori: giovani architetti milanesi destinati ad entrare nella cerchia dei protagonisti più illustri della storia dell’architettura moderna italiana. Il tutto accompagnato da un insolito, ma anche illuminante testo, rimasto per molto tempo dimenticato e pressoché inedito, firmato Ernesto Nathan Rogers. Riprendiamo quindi questa lettura, che, con un ulteriore sguardo allargato, ci consegna un’altra interessante visione dell’Italia artistica e progettuale degli anni della ricostruzione appena dopo la seconda guerra mondiale, con i suoi stereotipi e le sue contraddizioni: questa volta aggiungiamo allo sguardo fotografico del grande fotografo americano anche la penna giornalistica di alcune reporter sul campo che si fanno portavoce e interpreti, con alcune suggestive descrizioni, di un modo italiano di sopravvivere, ma soprattutto di rigenerarsi, cercando di 1 Bosoni 2023. 12 Giampiero Bosoni leggere in nuce i segni di un embrionale manifestarsi del “fare all’italiana”, del nascente Made in Italy, come nuovo punto d’attenzione e di curiosità per una certa élite del grande mercato americano. Per apprezzare maggiormente il valore e l’interesse di quell’intreccio di servizi giornalistici sopra citato, è interessante conoscere alcune premesse che vedono coinvolte anche altre interessanti personalità nei preparativi del viaggio che portò Irving Penn ed Edmonde Charles-Roux in Italia nella primavera del 1948. La storia e gli intrecci Iniziamo con Edmonde Charles-Roux, all’epoca giovane redattrice francese di “Vogue”. Edmonde era cresciuta “sul grembo del Papa” nella Roma di Mussolini. Suo padre, un illustre diplomatico di un’antica famiglia di armatori nel Mediterraneo, ultimo presidente della Compagnia del Canale di Suez, era stato ambasciatore francese presso la Santa Sede fino all’invasione nazista della Francia. Demoralizzato, Charles-Roux portò la sua famiglia nel sud della Francia nei pressi di Marsiglia, a Montredon, in una zona ancora in parte “libera”, per quanto controllata dal governo collaborazionista di Vichy. Qui Edmonde conobbe un mondo nuovo di artisti, intellettuali, commedianti, musicisti e filosofi scappati da Parigi e dal resto dell’Europa interessati a imbarcarsi al più presto sulle navi verso l’America. Con l’arrivo dei tedeschi nel Sud della Francia, Edmonde decise di abbracciare la causa della Resistenza: come infermiera volontaria riuscì a compiere diverse azioni di sostegno e proprio in questi frangenti, mentre le forze francesi e alleate avanzavano congiuntamente, incrociò per caso a Colmar la fotografa di guerra Lee Miller, inviata dalla rivista “Vogue” America su preciso incarico del suo celebre art director Alex Liberman, che incontreremo più avanti come uno degli attori nell’avvio della carriera di Irving Penn. Nel 1945 Edmonde, a soli 25 anni, da signorina perbene si era trasformata in un’esperta legionaria, due volte ferita e due volte insignita di medaglie per i rischi che aveva ripetutamente corso in lotta contro il terrore tedesco. Il coraggio e l’autonomia che aveva mobilitato durante la guerra la portarono ad accettare il consiglio dell’amico Christian Bérard2 di trasferirsi a Parigi, dove, armata delle sue credenziali di guerra e del prestigio della famiglia, Charles-Roux approdò inizialmente a “Elle”, una nuova rivista rivolta alla donna moderna. Dotata di un’energia formidabile e di un coraggio fuori misura, Edmonde Charles-Roux 2 Nel periodo marsigliese dei primi anni di guerra Edmonde Charles-Roux collaborò alla preparazione di uno spettacolo come assistente di Christian Bérard, detto “Bébé”, grande scenografo costumista, che la prese sotto la sua ala protettiva. Alle radici del Made in Italy 13 non perse tempo a fare una buona impressione.3 Per questo appena saputo che Michel de Brunhoff, l’editor di “Vogue” in Francia, aveva bisogno di aiuto, i suoi amici Bérard e il poeta Paul Eluard convinsero Edmonde che una posizione editoriale a “Vogue”, allora una rivista di enorme prestigio culturale e riverbero sociale, non era un’offerta da rifiutare. Così, nel 1947 divenne assistente di Brunhoff, dimostrando negli anni seguenti una forza di carattere e un’autorità innata che le valsero il soprannome di “La Générale”.4 Arrivata a “Vogue” da circa un anno, Charles-Roux fu un giorno interrotta da Madame Eyrard, gestore degli studi fotografici che le disse: “Ehi, è appena entrato uno yankee, diavolo di bravo ragazzo vai a salutare Edmonde... lui è appena arrivato e non sa dove andrà a dormire!”.5 Così fece la sua apparizione Irving Penn a “Vogue” Paris, inviato da “Vogue” America. Vediamo ora il percorso che portò Irving Penn alla sede di “Vogue” a Parigi e quali interessanti personaggi lo consigliarono per questo viaggio. Penn si formò alla Pennsylvania Museum School of Industrial Art dal 1934 al 1938, rinomata accademia d’arte realista (George Bellows e William Sloan) e già attenta alle prime ricerche della fotografia d’arte (Thomas Eakins), ma per il giovane Penn quegli anni furono segnati soprattutto dalla scoperta dell’arte surrealista, che influenzerà molto il suo percorso professionale.6 Negli ultimi due anni di scuola Irving Penn eccelse partecipando allo studio di fotografia e pubblicità in una sezione speciale, la classe sviluppata da Alexey Brodovitch, pioniere russo del graphic design moderno, e non solo, il quale, come tanti artisti europei negli anni ’30, aveva trovato rifugio a Parigi prima di trasferirsi negli Stati Uniti. Il giovane Irving si distinse sotto la guida di Brodovitch e venne premiato per l’eccezionale lavoro nel laboratorio di design al suo terzo anno.7 Un’occasione importante, come ricordò in seguito Penn, non solo per il fatto che tale “semplice riconoscimento voluto da Brodovitch gli conferiva di per sé un’intensità di significato e un’importanza particolari”,8 ma anche perché alla La sua dedizione, insieme alla sua intelligenza e alle sue buone connessioni familiari, le consentirono di preparare per la rivista una ottima copertura giornalistica del ritorno trionfale di Arturo Toscanini in una Scala restaurata e scintillante nel 1946, un servizio che impressionò Bérard, che era spesso presente negli uffici della rivista, e altrettanto l’amico Christian Dior, buon amico di Brunhoff, che lo stava aiutando a far emergere il suo New Look. 4 Titolo che la accompagnò da quando divenne caporedattore succedendo a Brunhoff nel 1954. 5 Heckert, Lacoste 2009. 6 Nel 1936-1937 lui e i suoi compagni di classe visitarono la grande mostra Surrealism, Art of the Marvelous (1937) al Philadelphia Museum of Art e una mostra personale delle tele surrealiste di Salvador Dali alla Julien Levy Gallery di New York, come pure la mostra Fantastic Art, Dada, Surrealism (1936-1937) al MoMA di New York, e anche, importante per quello che sarà il suo futuro lavoro nelle riviste, l’annuale mostra “Art Director’s Club Show” a New York. 7 Prizes and Awards 1937, p. 6. 8 Penn 1972, pp. 10-11. 3 14 Giampiero Bosoni fine dell’anno scolastico il suo insegnante lo portò a New York come assistente personale ad “Harper’s Bazaar”, dove Brodovitch era direttore artistico.9 Seguì un periodo di lavoro in proprio durante il quale il giovane Irving Penn prima disegnò, impaginò e occasionalmente fotografò per la rivista “Junior League”, e poi progettò pubblicità e display per il negozio di scarpe I. Miller e per Saks Fifth Avenue. Nel 1942 Penn ventitreenne, stanco di ricevere ordini dalle signore dell’alta società e dai compratori nei negozi, decise “una volta per tutte” di dedicarsi alla pittura, e per questo partì con la sua compagna per un iniziatico tour del Messico dove utilizzò fra l’altro la fotografia per immortalare soggetti di cultura popolare che interpretò con una forte vena surrealista. Di ritorno dal Messico, Penn, alla ricerca di un lavoro, contattò Alex Liberman, un altro direttore artistico rifugiato dalla Russia via Parigi ed arrivato a New York nel 1941.10 Dal 1943, Penn divenne il suo assistente personale. E proprio a questo periodo risale la sua prima esperienza in Italia, quando nell’agosto del 1944 egli partì come volontario sulle ambulanze e come fotografo documentatore al servizio dell’American Field Service (1944-1945), che lo avrebbe portato insieme alle truppe alleate a Roma nel 1944. In questa circostanza incontrò casualmente Giorgio de Chirico,11 che frequentò per alcuni giorni e su iniziativa dello stesso de Chirico nacque un particolare ritratto fotografico con un’improvvisata corona d’alloro. Al ritorno dalla guerra il rapporto con “Vogue” divenne continuativo, anche in virtù di uno stretto rapporto con Liberman:12 Penn aveva dimostrato di essere un viaggiatore esperto, aveva perfezionato la tecnica negli studi di “Vogue”, dove aveva fotografato più di trecento celebrità americane ed europee, predisposto diverse campagne di moda e accessori e aveva più volte dimostrato il suo valore con immagini belle senza essere “graziose”, eleganti senza essere “stilose”, un modo di fare fotografia essenziale nella forma e sfacciatamente moderno, senza com- Nel frequentare la rivista “Harper’s Bazaar”, Penn si trovò coinvolto in un mondo che non avrebbe mai potuto incontrare a scuola: semplicemente aprire la posta, uno dei suoi lavori, mentre disegni e fotografie uscivano dalle buste era un’educazione all’arte moderna. Tra gli artisti le cui opere erano state prese in considerazione per i numeri successivi della rivista c’erano Cassandre, Salvador Dalì, Isamu Noguchi, Jean Lurçat, Horst P. Horst e Rufino Tamayo. Penn ebbe anche modo di incontrare artisti, come Tamayo e Noguchi, che venivano in ufficio. 10 Liberman, su suggerimento di Brodovitch aveva assunto il ruolo di Penn da Saks, ma dimostratosi fin troppo qualificato per quell’incarico, presto iniziò a lavorare per “Vogue”, prima come ideatore delle copertine e dalla fine del 1942 come direttore artistico. 11 Lo riconobbe per caso tra le bancarelle di un mercato a Roma, ricordandosi dei famosi suoi autoritratti che aveva visto in mostra a New York o su dei libri della biblioteca di Brodovitch. 12 Alex Liberman aveva amato la fotografia fin dall’infanzia ed era stato un appassionato fotografo amatoriale fin dal liceo, e Penn aveva la sensazione di essere stato preparato per essere “il fotografo che [Alex] voleva diventare. Ha proiettato su di me quella che sarebbe stata la sua vita da sogno, mi ha dato quello che avrebbe voluto avere”. 9 Alle radici del Made in Italy 15 promessi.13 Così, nel 1948 Liberman lo ritenne il più adatto a un nuovo incarico in Europa. Lo scopo del servizio era quello di riportare i ritratti degli artisti, soprattutto parigini, che erano famosi prima della guerra ed erano ancora attivi, così come le fotografie per uno o due servizi sulle nuove avanguardie europee del dopoguerra e in tal senso anche i nuovi indirizzi dell’arte italiana, dopo il ventennio fascista: un territorio ancora abbastanza sconosciuto, tutto da scoprire. Come ricordò Edmonde Charles-Roux: Non ho mai capito come avessero avuto questa idea [a “Vogue” America N.d.A.]: a prima vista non particolarmente convincente per una rivista di moda come “Vogue”; andare in Italia, partendo dal nord e finendo con il sud, a trovare gli artisti che si erano dimostrati più promettenti prima dello scoppio della guerra. In altre parole, dovevamo cercare Giacomo Manzù, Marino Marini, Arturo Martini, Roberto Rossellini, Vittorio De Sica e altri, ma dove erano? Tutto quanto in Italia si era fermato e il Duce era stato appeso a testa in giù. L’ultima cosa a cui qualcuno stava pensando in quel periodo era scattare delle foto. D’altra parte, va detto che anch’io mi sentivo particolarmente coinvolta, perché ero cresciuta ed ero andata a scuola in Italia a Roma ed ero tornata in Francia solo a causa della guerra. Così, per me, questa è stata una riscoperta dell’Italia, a cominciare da Milano, che era davvero la città più organizzata e meglio predisposta per questo tipo di visita, e poi gradualmente mentre viaggiavamo verso sud, siamo arrivati a vedere da vicino l’incredibile barbarie del regno di Napoli.14 E lo stesso Penn ricordando quel viaggio scrisse: Liberman voleva una storia sulla giovane avanguardia artistica in Italia. Margaret Case, una storica redattrice della rivista che era un’istituzione in Condé Nast, ha iniziato a cercare un gruppo di giovani architetti e designer, ma non si era dimostrata adatta per quel lavoro, e quindi con la mia formazione, interessato all’architettura, mi sono dato da fare e li ho trovati… fu un’esperienza fuori dal tempo: ero in paradiso. La disponibilità che ho trovato è stata così aperta e molto diversa dell’accoglienza in Francia, dove dovevi dimostrare chi eri e quanto valevi ogni volta.15 Che Penn fosse “in paradiso” è evidente dalla varietà e invenzione dei ritratti che fece in Italia, a cominciare da quelli a Milano. Architetti e designer occuparono gran parte del tempo di Penn nel capoluogo lombardo e formarono un corpo di In questo periodo Liberman promuoveva le foto di Penn e si dedicava al suo ideale posizionamento, pubblicizzando il suo stile essenziale e disadorno come se si fosse “guadagnato un copyright”, e facendo sapere ai lettori che Edward Steichen, direttore del dipartimento di fotografia del Museum of Modern Art aveva scelto una mezza dozzina di “immagini intensamente percettive” di Penn per esporle al Museo. 14 Heckert 2009. Questa citazione, e quelle che seguono, sono state tradotte dal testo originale in lingua inglese. 15 Penn 1972. 13 16 Giampiero Bosoni lavoro speciale, che è diverso da qualsiasi altro nella sua opera, per la sua concentrazione sul campo specifico della fotografia d’interni architettonici. Sia Charles-Roux che Penn ricordarono di aver ricevuto molto aiuto da Gio Ponti, con la sua profonda conoscenza dell’artigianato e generosamente interessato a promuovere il talento dei colleghi più giovani. Però in quel periodo Ponti non dirigeva “Domus” a causa di un litigio con l’editore e dal 1946 al 1947 era Ernesto Nathan Rogers a capo della rivista. Sicuramente anche lui diede molti utili consigli a Penn, e, soprattutto, scrisse l’articolo, Milan, Design Renaissance, che accompagnava il servizio su “Vogue”. Penn aveva raccolto informazioni sugli architetti italiani e designer prima di lasciare New York. Conosceva certamente la HIH sulla East 49th Street, una vetrina per le arti decorative e il nuovo Italian Design,16 organizzata da Max Ascoli, un antifascista in esilio. Probabilmente degli indirizzi arrivavano anche direttamente a “Vogue” attraverso alcuni rappresentanti di industrie italiane già famose in America come ad esempio la Borsalino, il cui erede proprietario, Teresio Usuelli, era cognato dell’architetto Ignazio Gardella. Altra importante fonte per Penn fu il suo ex insegnante e mentore, Brodovitch, profondo conoscitore dell’arte contemporanea europea, entrato a contatto con alcuni autori italiani grazie all’International Competition for Low-Cost Furniture Design indetto dal Museum of Modern Art (MoMA).17 1947, Marya Mannes in Italia per “House & Garden” Tuttavia, molto probabilmente la prima fonte interessante, ricca di spunti, da cui attinse Irving Penn fu il lungo servizio intitolato Italy looks ahead, pubblicato nel giugno del 1947, dalla rivista “House & Garden”, anch’essa di proprietà di Condé Nast, che fra l’altro portava in copertina il sottotitolo Italian Renaissance. L’autrice del servizio era la giovane giornalista Marya Mannes18, inviata in Italia dalla rivista americana a seguire i progressi del Bel Paese, in particolare nel campo del design, e per cui realizzò un servizio di ben dieci pagine sull’argomento dove si presentavano per la prima volta in America gli interni e gli oggetti progettati da Franco Albini, Ignazio Gardella, Gianluigi Banfi, i BBPR, Maurizio Tempestini, Vito e Gustavo Latis, Luciano Canella, e si raccontava del ruolo demiurgico di Gio Ponti a Milano ed Enrico Galassi a Roma, il quale coinvolse, fra gli altri, artisti come Mirko Basaldella e Leoncillo. Scrisse Marya Mannes nell’articolo: Tre esposizioni di prodotti organizzate dalla HIH (Casa dell’artigianato italiano) nel 1947 ricevettero buone recensioni sul “New York Times”, e sicuramente Penn ebbe modo di conoscere lì le ultime opere di alcuni autori che contattò per il suo viaggio in Italia. 17 Kaufmann 1950. Il bando del concorso venne anche pubblicato nell’aprile 1948 su “Domus” n. 226, e vi parteciparono anche Franco Albini, Marco Zanuso e Ivo Pannaggi. 18 Marya Mannes (1904-1990) è stata una scrittrice e critica americana del XX secolo; redattrice di “Vogue” scrisse in modo prolifico per le riviste “The Reporter” e “The New Yorker”; ha pubblicato una serie di libri e di saggi, aspramente e argutamente critici nei confronti della società americana. 16 Alle radici del Made in Italy 17 Quello che vedete qui e nelle prossime nove pagine – è la testimonianza di un grande vitalità. L’Italia ha vissuto una dura e aspra guerra, della quale è stata per sua scelta la causa, che ha devastato gran parte del paese e inevitabilmente buona parte della sua preziosa eredità d’arte […] Nonostante questo, l’Italia è all’opera. La sua gente non sta solo ricostruendo città e ponti; […] Essi stanno facendo cose nuove con nuove idee. In ogni campo del “fare”, stanno ponendo i capisaldi di una Italia nuova e migliore. Le prove di ciò si possono valutare in due fasi: le cose che sono già state fatte e le cose che si stanno facendo ora. Gli interni e gli esterni che vedete in questo portfolio appartengono alla prima parte; sono l’ultima fioritura dell’architettura e del disegno del mobile italiani, realizzazioni anche degli anni in cui la guerra era ancora in corso, opera di architetti che in alcuni casi sono state anche vittime della persecuzione politica. Ovviamente non c’è stato né il tempo, né il denaro, né il materiale, nel breve intervallo dalla fine della guerra, per costruire nuove case, o per sbizzarrirsi negli esperimenti di architettura di massa. C’è stato il tempo, tuttavia, per il grande esercito anonimo degli artigiani italiani per produrre oggetti di fattura rara e di decorosa utilità. In questa epoca [in cui è prorompente da noi in America] di auto-pubblicità [l’autorialità esibita N.d.A.] voglio sottolineare qui la parola “anonimo”, perché in essa sta la forza dell’arte italiana. Non è un caso che in passato questo paese abbia prodotto un Giotto, un Leonardo, un Michelangelo, un Donatello; questi giganti sono cresciuti da una tradizione di artigianato in cui gli apprendisti di bottega, sin da bambini imparano presto a impastare la pittura, a preparare l’argilla, a scalpellare la pietra e intagliare il legno. La mano italiana è una mano feconda, e molta della saggezza e tranquillità dell’italiano contadino e operaio deriva dalla profonda soddisfazione di produrre con queste mani un oggetto compiuto, sia esso una scarpa o una sedia.19 A questo punto Mannes metteva in evidenza, forse definendolo per la prima volta, quel carattere destinato a diventare il motivo ricorrente di questa rinascita: Made in Italy. Scrisse Mannes: Nella frase “L’ho fatto io”, l’accento è su “fatto”. Quindi, anche se potrebbe non esserci ancora un Leonardo in Italia, tra le macerie dei suoi borghi e vicino alle sponde martoriate e senza ponti dell’Arno siedono artigiani che lavorano il legno, la rafia, il cuoio, il metallo, il vetro, per realizzare oggetti destinati a rallegrare un mondo post-bellico che ne ha molto bisogno.20 Più avanti la giornalista americana forniva ai lettori, e fra questi il nostro giovane Irving Penn, degli indirizzi utili per orientarsi alla scoperta di questo nuovo mondo della ricostruzione in Italia: Gran parte del merito di far rivivere questa tradizione va a due persone in particolare, gli architetti Galassi a Roma e Ponti a Milano. A cui si aggiunge una donna di origine inglese, Vera Lombardi, responsabile di un nuovo stimolo dell’artigianato. 19 20 Mannes 1947b. Ibidem. 18 Giampiero Bosoni Galassi ha uno stabilimento nel Villa Giulia (alla periferia di Roma), dove alcuni dei migliori artigiani e artisti in Italia sono impegnati nella produzione di mosaici, ceramica, lavorazione del metallo e del legno per scopi decorativi e architettonici […].21 Curiosamente appare più ridimensionata la figura di Gio Ponti, tant’è che leggiamo nel testo scritto da Mannes, che fece un resoconto del suo passaggio a Milano, probabilmente ancora nel 1946: L’architetto Gio Ponti a Milano dirige lo stesso tipo di produzione su scala ridotta e con talenti meno noti. Perlustra il paese ogni anno per trovare i migliori artigiani e procede a incanalare i loro particolari talenti in nuove forme. Nello show-room di APEM (Artigianato Produzione Esportazione Milano) a Milano sono raccolti i risultati dei suoi sforzi, alcuni dei quali si possono vedere in queste pagine […].22 Seguivano gli indirizzi degli studi degli architetti e delle aziende coinvolte in questo servizio. Con queste tracce Irving Penn si preparava a contattare e poi a incontrare gli architetti, gli artisti e gli intellettuali che verrà a fotografare in Italia. Rimanendo alla particolare occasione della prima tappa, in una Milano dalle gravi condizioni economiche, sappiamo da Edmonde Charles-Roux che Penn dedicò molto tempo per raccogliere gli architetti in improvvisate, ma molto curate, sedute di posa per i ritratti e ancora di più per fotografare i loro interni. Penn fotografò in questi originali e innovativi interni italiani i primissimi esempi di quello che sarebbe diventato il design del mobile italiano. La produzione di questi nuovi pezzi dipendeva dagli artigiani altamente qualificati che applicavano la loro esperienza ai nuovi metodi industriali che stavano imparando dall’America interpolandoli creativamente nel contesto dei laboratori, delle officine e delle fabbriche di Milano e della Brianza. La combinazione di tradizionale artigianato e produzione in serie contraddistinse il design innovativo dei moderni mobili italiani; inoltre, proprio dalla giustapposizione dell’antico di qualità e una nuova visione contemporanea si definì un tipico modo italiano di arredare la casa che nacque in questo momento. La calibrazione di Penn nella disposizione di ogni dettaglio nelle sue fotografie di interni e la sua attenta disposizione dei soggetti ritratti, funzionava in maniera molto simile a quella di creare una natura morta. Il desiderio coerente di Penn era quello di comporre solo ciò che è convincente e necessario all’interno della cornice, per illuminare la leggibilità e la dignità della scena e del soggetto, e di escludere tutto il resto nell’interesse della chiarezza espressiva e della risoluzione formale. Considerate la qualità e l’eleganza di questo lavoro ci si stupisce che 21 22 Ibidem. Ibidem. Alle radici del Made in Italy 19 Penn non abbia più continuato in questo senso in altre occasioni. Qualunque sia stata la causa, sta di fatto che Penn smise di fotografare interni quando lasciò Milano per Roma. Prologo Mentre Penn nella primavera del 1948 stava fotografando gli interni milanesi, a New York si stava preparando l’uscita di un numero monografico della rivista “Interiors” (luglio 1948) curato da George Nelson, dedicato interamente ai nuovi interni e al nascente design del mobile in Italia. Nello stesso periodo iniziarono ad arrivare in tutta Europa i primi aiuti portati dal cosiddetto Piano Marshall, che seguì al discorso fatto il 5 giugno 1947 dal generale Marshall all’università di Harvard, dove annunciò per la prima volta l’ERP. L’anno successivo quando uscì il numero di “Vogue” con il servizio fotografico di Penn e il testo di Rogers, da poco era arrivata in Italia la delegazione americana che stava preparando la mostra Italy at Work, inaugurata il 29 novembre 1950 al Brooklyn Museum di New York, con l’esposizione di 2500 nuovi prodotti Made in Italy e proseguita in altre 11 sedi museali in giro per gli Stati Uniti fino al novembre 1953. Nel 1951 venne varata la nave da crociera Andrea Doria, che venne da subito considerata una sorta di ambasciata viaggiante del Made in Italy, e che fece la sua prima apparizione trionfale a New York il 23 gennaio 1953. Nel settembre 1954 la rivista “Vogue” dedicò un servizio di quattro pagine a Gio Ponti intitolato Gio Ponti, Universal Man, che apriva con un ritratto fattogli da Irving Penn nella primavera del 1948. Italia e Stati Uniti, 1948-1954: un percorso di opportunità Maria Cristina Tonelli Politecnico di Milano R icostruire un quadro del successo dell’oggetto d’arredo italiano negli Stati Uniti negli anni successivi al conflitto mondiale, a fronte di quanto di questo veniva registrato in Italia, potrebbe essere utile per capire l’atteggiamento che condizionerà il percorso italiano a paese industrializzato. La documentazione utilizza lo spoglio di alcune riviste di entrambi i paesi. Benché lo spazio concesso a questa pubblicazione non le possa restituire se non in grande sintesi, le fonti americane risultano illuminanti per restituire quelle transazioni private – riconducibili all’attività di agenti di commercio o a rapporti personali di esponenti aziendali –, che usualmente mancano all’appello della registrazione storica, seppur determinanti per avvalorare l’accredito delle nostre produzioni. La fine del conflitto vede gli USA come grande potenza economica, dal forte aggiornamento tecnologico, portatrice di novità industriali e di ideali democratici, e un’Italia distrutta e arretrata. L’attenzione americana per l’Italia sarà guidata da interesse politico per la sua posizione strategica e dal progetto implicito nel Piano Marshall di aggiornare i paesi europei per indirizzarne uno sviluppo industriale, garante di un miglioramento delle condizioni di vita e della diffusione di principi democratici. In questo senso, in attesa di quella trasformazione produttiva patrocinata, gli USA ne sostengono la ripresa economica puntando su quello che essa può offrire: le sue produzioni artigiane, assenti da conflitto con la realtà produttiva locale, la vitalità progettuale dei suoi architetti, poco convenzionale, non soggetta a linee comuni, spia di una mentalità non sottomessa. Il mondo intellettuale e imprenditoriale italiano riceve, quasi dovute, le opportunità materiali offerte ma risponde alle implicite sollecitazioni sottolineando la propria autonomia. Mentre i progettisti più giovani, meno implicati nelle politiche del Regime, saranno disponibili all’incontro, quelli più avanti negli anni manterranno la diffidenza espressa verso la cultura americana negli anni precedenti il conflitto, 22 Maria Cristina Tonelli alimentandola e spingendo la piccola impresa a misconoscere l’importanza dei suggerimenti americani sul suo progetto di crescita. Fino a metà del 1947 le riviste americane di interni sembrano ignorare l’esistenza di un qualche segnale di ripresa produttiva nel mondo italiano, benché l’iniziativa promossa nel 1945 da Max Ascoli sotto l’egida dell’HDI stia cominciando a dare i suoi frutti con le prime due mostre organizzate a New York nella sede della HIH.1 La “Domus” di Ernesto Rogers (1946-1947) la ignora, benché registri senza preclusioni, grazie alle riviste che cominciano a circolare, quanto di nuovo proponga il mondo americano. L’incerta situazione politica del nostro paese frena, con qualche eccezione,2 la curiosità americana fino all’aprile 1948 quando l’esito delle elezioni ne consente l’adesione al sistema democratico occidentale e l’accesso al programma ERP. Da allora “Interiors”, una brillante rivista dedita all’interior ed industrial design, allineata, come richiesto dal governo, alla promozione presso il pubblico americano degli esiti del Piano Marshall, annovererà anche l’Italia nel documentare quanto avviene in Europa in campo progettuale e produttivo, patrocinare i prodotti europei presenti sul mercato degli USA, favorirne il loro acquisto per alleviare il dollar gap e sostenere la ripresa degli scambi. Il suo spoglio dà anche testimonianza dei tour che importatori, buyer e proprietari d’aziende e di show room fanno in Europa, toccando l’Italia, e di quanto essi riportino come oggetti da presentare o progetti da produrre (fig. 1).3 È un’informazione capillare che fornisce indicazioni su dove si possano reperire, 1. Guglielmo Pecorini, Tavolo in legno con piano triangolare e sedie, esposto nel 1949 alla Italian Artisans Exposition allestita nella Gallery 17 del Watson & Boaler Store di Chicago, scelto dal direttore Albert C. Hagmayer in un suo viaggio in Italia. Il prezzo del tavolo era di 125 dollari e ogni sedia costava 48 dollari Per Ascoli, Carpenter 2006; Taiuti 2007. Crystal from Europe and crystal from home 1946; Mannes 1947b; New Arts and Crafts from Italy 1947; Their fine Italian hands. Encouraging work in a ruined country 1947; Newsreel. Italy’s giftwares 1947; Italy shows her mettle 1948. 3 A titolo d’esempio: Fifty pages of postwar furniture and interiors in Italy… 1948; Newsreel. French Provincial from Italy 1948; The roving editor. Lamps in a Milan shop 1948; Newsreel. Furniture from Italy 1949; Newsreel. Italian lamps in New York 1949; Retail story. Italian modern in Chicago 1949; Merchandise cues. Meet at Bibi’s 1949; Merchandise cues. Fortuny of Venice 1950; Merchandise cues. Marble in layers like plywood 1950; Cause for applause… 1950; Information from manufactures. People. Lightolier 1951. 1 2 Italia e Stati Uniti, 1948-1954: un percorso di opportunità 23 2. Pagina pubblicitaria della John B. Salterini Co. di New York, con prodotti progettati da Tommi Parzinger e Maurizio Tempestini, 1950 sul loro prezzo e, per quanto riguarda le proposte italiane, sulla difficoltà di rimpiazzare i pezzi venduti o realizzare i modelli scelti, date le loro forme complesse per le metodiche di produzione americana, connesse all’abilità di un lavoro artigiano, che imponevano di realizzarne parte in Italia aumentandone i costi, già alti.4 Sono appunti che consigliavano un cambiamento di indirizzo ideativo, quello già compreso da alcuni progettisti e premiato da alcune aziende: Franco Albini da Knoll, Paolo Chessa da J.G. Company, Maurizio Tempestini da Salterini e da Lightolier (fig. 2).5 In altre parole, la rivista registra un mercato vivace e recettivo 4 G.O. 1950a; Italy shows her mettle 1948 dove si annota il prezzo di alcuni oggetti presenti alla terza mostra dell’HDI, quella del gennaio 1948: 280 dollari per un carrello da tè di Rogers e Gardella, 85 per una sedia di Mollino, oltre 1.000 per un tavolo in marmo e ottone. Consistenti anche per il mercato americano, e soprattutto nel paragone con i prezzi di vendita, dell’anno precedente, dei mobili di Alvar Aalto: 8 dollari e 50 centesimi per lo sgabello di Viipuri, 28 per una sedia con braccioli impilabile (Newsreel. New Aalto dealers 1947). 5 G.O. 1950a; G.O. 1950b; Merchandise cues. The forceful look 1949; G.O. 1950c; Merchandise cues. Neva-rust Tempestini 1950; B.D. 1950; Merchandising cues. Tempestini, new role 1951; Market report on new furniture 1953; Merchandise cues. Assorted approaches 1954. La scelta, da parte di John Salterini, di Tempestini, progettista fiorentino quasi ignoto negli USA, pubblicato solo da Marya Mannes (Mannes 1947b), e poco presente anche sulle riviste italiane, testimonia la sua attenzione per la sua terra d’origine. Tempestini, a giudizio di Salterini, è progettista capace di tradurre “into tangible form” le sue idee. Questo tratto spiega anche la collaborazione con la Lightolier, una grande azienda dedicata all’illuminazione, fondata a New York nel 1904 dall’immigrato austriaco Bernhard Blitzer, tanto votata all’innovazione dei sistemi illuminotecnici – si pensi al suo pacemaker o al track lighting system – quanto alla proposta di apparecchi sia in stile che di gusto più moderno, per ambienti residenziali e commerciali. Abituata alla collaborazione con i designer, aveva provato a 24 Maria Cristina Tonelli per il pezzo unico o in edizione limitata, l’intraprendenza degli scout americani grazie alla conoscenza del loro mercato di riferimento, da cui si evince che la HIH o le iniziative di promozione della ECA non siano gli unici canali d’accesso del prodotto italiano negli USA. Sorprende, quindi, che la “Domus” di Gio Ponti ignori tutto questo, benché sia dichiarato che la redazione usi come fonte privilegiata di documentazione proprio “Interiors”. Ponti non registra il movimento di esportazioni italiane delle piccole imprese di arti decorative; non evidenzia i programmi ERP; non accompagna i progetti culturali dell’USIS;6 ignora le collaborazioni dei progettisti italiani con le aziende americane; non fa tesoro dei suggerimenti più volte offerti pur lamentandosi che le sedie italiane non abbiano ancora trovato “un innamorato importatore”:7 forse per le sue antiche preclusioni culturali verso gli USA; forse perché gli è negato un coinvolgimento diretto, per la sua perdita del controllo negli ultimi anni di guerra sulla situazione progettuale, che aveva spinto gli attori culturali americani verso altri architetti, a dimenticarlo come intellettuale, mentore, artefice. Le spie di questo si avvertono nelle recensioni alle due mostre del prodotto italiano negli USA – quella del gennaio 1948 dell’HDI e Italy at Work del 19508 – volutamente sperse fra altri contenuti, confusamente impaginate. La prima è parte di un lungo contributo che, introdotto dalla scelta di Picasso di sperimentare la ceramica, parla degli artisti italiani che si misurano da tempo con le arti decorative; nella seconda non si cita mai la vera titolazione della mostra definendola, quasi a sminuirla, “M.U.S.A.”, con un acronimo forse allusivo ai musei americani coinvolti. Amareggiato, perché non coinvolto nella loro organizzazione, Ponti rende manifesti tutti i suoi dubbi, quasi le due occasioni non fossero eccezioni utili alla nostra ripresa economica: per la prima il rischio di una “americanizzazione” dei prodotti per le pressioni dei “competenti del grande mercato americano”; per la seconda la capacità di selezione della commissione, la cui comprensione della “produzione artistica” italiana giudica “tutta ‘attuale’”, fatto che gli impone di illustrarla minutamente, presentando, in un affastellio poco chiaro, accanto agli oggetti presenti in mostra i tanti dimenticati. I preconcetti verso il mondo americano sfumano quando dal 1951 Ponti recupera una sua importanza con la collaborazione alla nuova linea di arredi moderni della Singer, “Modern by Singer”. Non è un rapporto esclusivo quello che si instaura fra Ponti e l’azienda americana, anche se duraturo, e presenterà complicanze produttive per il carattere di “work of art” dei pezzi, ma permette all’architetto importare nel 1949 le lampade di Gino Sarfatti e di Giuseppe Ostuni. Il loro prezzo e le loro linee, non così insolite rispetto a quelle americane, avevano portato alla scelta di Tempestini, capace di progettare soluzioni, in edizione limitata e seriali, attente alla versatilità illuminotecnica. 6 Raffaele 1960; Tobia 2007, 2009. 7 P.L. 1950. 8 Picasso convertirà alla ceramica… 1948; Ponti 1950b. Su queste mostre, si vedano i contributi di Ferretti, Mingardi e Turrini, Cordera e Rossi in questo volume. Italia e Stati Uniti, 1948-1954: un percorso di opportunità 25 di guadagnarsi una considerazione negli USA per il suo multiforme attivismo da “Leonardo-come-lately”, per la sua freschezza progettuale, pur penalizzata da un’incapacità a capire la produzione di serie.9 Così l’ostracismo verso l’America di “Domus” si attenua, al punto da non segnalare quella Italian fair organizzata da Macy’s nel settembre 1951, che avrebbe potuto generare critiche per le sue cadute folcloriche o per l’attività di americanizzazione dei prodotti condotta dai buyer dello store nei lunghi di mesi di preparazione. “Domus” tace questi successi di mercato, quindi, mentre altre mostre dedicate all’artigianato italiano continueranno, in linea con i progetti dell’ECA di sostegno alle produzioni europee, ad alimentare un mercato per l’esportazione italiana, che, mescolando con disinvoltura cibi e accessori di moda, vetri e attrazioni turistiche, saranno responsabili con il successo economico della popolarità degli stereotipi più banali.10 Un mercato che, da questa data, sarà ulteriormente implementato sia da colti importatori americani, come Irving Richards della Raymor, sia da intraprendenti italiani, come Giovanni Battista Giorgini per lanciare le imprese di moda.11 Altro tratto distante dal pensare di Ponti sono gli aspetti di tecnicismo, di serializzazione, di industrializzazione, di osservanza del mercato del mondo americano. Non comprende lo sforzo del Piano Marshall di indicare ai paesi europei una ripresa produttiva basata su processi produttivi industrializzati utili al superamento delle diseguaglianze sociali e al cambiamento dei costumi sociali, a standard condivisi e a una valorizzazione dell’industrial design, come strumento di miglioramento della qualità della vita e di democratizzazione della società. Ma a questo Ponti – il Ponti, direttore di “Domus” – è costretto a piegarsi, benché il suo cuore di progettista batta per l’artigianato e per la piccola impresa, capace di interpretare e realizzare un progetto senza ricevere specifiche direttive tecniche. Va considerato, a sua parziale giustificazione, che Ponti è persona di un’altra generazione. Quasi sessantenne, ha difficoltà a intravedere un futuro di industrializzazione per il paese e a adattarsi a logiche che impongono al progettista di considerare l’importanza sovrana del mercato e del vincolo tecnico. Accetta quindi, nel 1949, di inaugurare una rubrica ad esso dedicata, Disegno per l’industria, senza mancare di segnalare di esservi stato forzato. Per continuare la sua battaglia per l’artigianato di qualità, l’affida ad Alberto Rosselli, che la imposta con crescente determinazione. Il divario intellettuale che si instaura è palese. Lo segnala il resoconto della IX Triennale, dove solo Rosselli tratta i prodotti industriali esposti nel padiglione degli USA e nella mostra Forma dell’utile, testimoni di un modello di sviluppo inserito in un progetto comunicativo dell’ECA, gestito da Edgard Kaufmann jr., direttore del dipartimento di industrial design del MoMA. Forte dell’organizzazione con il Merchandise Mart di Chicago di annuali selezioni di F.J. 1952. Si veda, ad esempio, l’esposizione Italy Today al Grand Central Palace di New York del 1952. Amerian 2015. 11 Su Giorgini, si veda il contributo di Faggella in questo volume. 9 10 26 Maria Cristina Tonelli prodotti di Good Design sulla base del “eye appeal, function, construction and price”, egli aveva selezionato per l’ECA cinquecento pezzi che, sotto l’egida del museo e la denominazione “Design for Use”, sarebbero approdati a Stoccarda, Berlino, Monaco, Parigi, Londra, Amsterdam, Milano e Trieste.12 Rosselli, da solo, si sforza di illustrarne la civiltà, la “coerenza di linguaggio”, “la perfezione tecnica ed il valore estetico d’eccezione”.13 La conflittualità latente sembra attenuarsi nell’aprile del 1952 quando “Domus” segnala industria e artigianato come realtà parallele, entrambe fattori di consumo e di presenza nella casa stessa. La simpatia elettiva di Ponti verso le produzioni artigiane, con la consueta parzialità verso quelle che lui predilige, però non si modifica. La scelta che organizza quell’anno per la piccola mostra Saggio della qualità italiana, voluta da La Rinascente per un convegno internazionale sulla grande distribuzione, presenta sullo stesso piano oggetti fatti a mano e oggetti fatti a macchina, equiparati per il loro livello di gusto: un punto di vista, tutto centrato sul lato ideativo dell’oggetto e disinteressato ai suoi aspetti produttivi, che avrà il suo peso per rassicurare la piccola impresa italiana sulle sue possibilità di successo internazionale, per giustificarne la pigrizia nel riconfigurare la sua struttura. Olga Gueft, editor di “Interiors”, registra come stravagante questa presa di posizione di Ponti, bilanciandola con quei prodotti seriali che cominciano ad apparire e la proficua collaborazione di diversi progettisti italiani con le industrie americane del mondo dei trasporti.14 È difficile per il mondo americano giustificare sullo stesso piano questa presenza di voci fra loro dissimili, di posizioni industriali d’eccezione come l’Olivetti e di realtà di piccolissima serie, altrettanto d’eccezione, di standard alti legati alla meccanizzazione come di espressioni creative su misura.15 Ada Louise Huxtable, nel curare nel 1953 la mostra itinerante dedicata al movimento moderno italiano dal MoMA, spiegherà l’eterogeneità dei materiali, raccolti durante il suo soggiorno in Italia come borsista Fulbright, con una lettura del nostro design d’arredo come espressione d’arte contemporanea, profilando quella lettura, che poi farà scuola, del progetto italiano come atto dai contenuti qualitativamente artistici, disgiunto da un suo rapporto con 12 The Museum of Modern Art, Museum’s “Design for Use, U.S.A.”, Exhibition sailed for Europe, January 5, [1951]. MoMA, ALRC. https://www.moma.org/momaorg/shared/pdfs/docs/ press_archives/1483/releases/MOMA_1951_0001_1951-01-04_510104-1.pdf (last access: June 2023). Pulos 1988; McDonald 2004, 2008; Castillo 2005. Da “Domus” (Stati Uniti, 1951) si evince che quanto esposto nel padiglione americano è sicuramente riferibile a questa selezione dal fatto che la mostra di oggetti sarebbe poi stata sostituita, nel periodo di apertura della Triennale, da un’esposizione fotografica sull’architettura americana. L’origine e l’autore della scelta degli oggetti della mostra Forma dell’utile sono meno chiari. Probabilmente una parte potrebbe far capo a “Design for Use”, integrata da prodotti italiani ed europei. 13 La rubrica Disegno per l’industria, in “Domus” giugno 1951, 259 e novembre-dicembre 1951, 264-265; Rosselli 1951; e per contro P.G. 1951. 14 Munari e la “qualità italiana” 1952. 15 A Portfolio from Italy collected by Roberto Mango 1952. Italia e Stati Uniti, 1948-1954: un percorso di opportunità 27 l’industria. Utile escamotage, concentrandosi soprattutto sull’arredo, per proporre una linea italiana comprensiva di voci e ricerche diverse, aspettare che la piccola falegnameria familiare riesca a evolversi in impresa, che il progettista si trasformi in designer, mentre l’invenzione formale e la “fantasia creatrice” risolvono i limiti della situazione. Nei piani dell’USIS, l’accezione di industrial design che andava promosso era ben diversa. L’USIS si affanna a introdurla con l’intermediazione di tecnici e dei principali industrial designer americani coinvolti nel programma, che portano la loro esperienza ad aziende, operatori e riviste. In Italia uno dei referenti è Rosselli che cerca di arginare quella mistificazione fra arte decorativa e industriale perpetrata da Ponti. Il 1954 sarà un anno cruciale: dalla costola di Disegno per l’industria nasce, nel giugno, una rivista totalmente dedicata alla materia, “Stile Industria”, affidata a Rosselli;16 nasce il Compasso d’Oro, come premio a quegli industriali che nel loro prodotto esprimano valori, tecnici ed estetici, di cultura industriale; la X Triennale sarà incardinata sulla presentazione dei traguardi, nazionali e internazionali, della disciplina e ospiterà nell’ottobre un Congresso internazionale che tratterà con respiro i suoi temi, grazie alla testimonianza di diversi designer americani.17 Ovvio che dietro questa serrata levata di scudi ci sia la volontà americana che sceglie elettivamente Milano, in quanto capitale economica del paese, come interlocutrice dello sforzo di portare l’Italia entro una vera cultura industriale. Comincia ora l’avventura dell’industrial design italiano, sostenuta non senza difficoltà da Rosselli. Gli italiani, “creative, ebullient and effervescent by nature”,18 sapranno però calarsi con difficoltà nelle precise maglie del canone americano. Le piegano alla propria misura. Se sul fronte del progetto le produzioni presentate alla Triennale muovono commenti positivi su un futuro di industrializzazione,19 la realtà produttiva nel 1954 non è cambiata. “Fortune” radiografa, a fronte di due poli industriali, la concomitanza di aziende artigiane con tanti addetti e di piccole imprese meccanizzate, capaci di esportazione e di qualità di manufatti che si qualificano con uno “stamp of excellence”, che altri si spiegano con “the hand of the craftsman” che fornisce “that little extra twist that changes a mechanical device from an impersonal machine to a possession of original charm”.20 Gli osservatori americani sembrano quindi arrendersi a questa specificità di quantità contenute, di risultati attraenti. Le imprese italiane, accolte tutte le opportunità fornite dal mondo americano, proseguono individualmente per la loro strada. Fanno loro quel concetto di Ponti che in una produzione conti solo il livello di gusto, indipendentemente da processi di produzione e numeri di mercato. 16 17 18 19 20 Tonelli, Rosselli 2022. Gli interventi del Congresso sono quasi ignorati dalla stampa del tempo: Tonelli 2020. Mannes 1950. Interiors’ Report on the Tenth Triennale of Milan 1954. The Energies of Italy 1954; Ruark 1953. 28 Maria Cristina Tonelli Vi resteranno comodamente ancorate, presentandosi con amabilità ora come impresa di piccola scala capace di eccellenza, ora come industria artefice di pezzi esclusivi.21 Questa traccia sarà poi usata per narrare la storia del design italiano come storia di una creatività, che non necessariamente intercetta il termine industrial, interprete del lifestyle della nazione, quella che la mostra Italian Re Evolution stigmatizza agli ancora disorientati americani. Curata nel 1982 da Piero Sartogo per il La Jolla Museum of Contemporary Art, con un catalogo arricchito da molteplici contributi interdisciplinari, presenta il modello di vita italiano nel rapporto oggetto-utente, giustificando la “diversificazione” dei prodotti come elusione programmatica all’uniformità della standardizzazione, e la non specializzazione come specialità.22 21 22 Rossi 2015. Sartogo 1982. Olivettiani a Brooklyn Caterina Cristina Fiorentino Università degli Studi della Campania “Luigi Vanvitelli” L a presenza di alcune macchine per scrivere e da calcolo olivettiane, tra quanto esposto alla mostra itinerante Italy at Work, costituisce una di quelle rare occasioni in cui la Olivetti non ha avuto regia, né controllo sull’esposizione dei suoi prodotti, né, tantomeno, uno spazio dedicato per mettere in scena le componenti che, nel tempo, hanno caratterizzato e definito, prima l’Idioma e, poi, lo Stile Olivetti. Guardando le immagini fotografiche che documentano la mostra, oppure leggendo i testi del catalogo è immediato riconoscere una vistosa differenza tra le intenzioni curatoriali di Italy at Work e le occasioni in cui, invece, la Olivetti ha raccontato la sua storia in prima persona, oppure ha collaborato, con la presenza di progettisti e consulenti interni all’impresa, alla messa in scena dei suoi prodotti. In questa mostra, le macchine Olivetti sono parte di un allestimento che cambia, assecondando le esigenze proprie di una mostra itinerante, e le pone in dialogo con altri oggetti di diversa natura e differenti tra loro, all’interno di una esposizione che dichiara la loro italianità e affida alla comprensione dell’utenza l’apprezzamento delle soluzioni formali dei designer che le hanno progettate. Difatti, all’interno di un contesto corale così strutturato, la provenienza diventa l’elemento più evidente; perché armonico con le intenzioni della mostra, mentre le connessioni che la Olivetti era abituata a raccontare e a ribadire, mediante la sua autonarrazione, rimangono del tutto ignorate e, dunque, oscure. Anche nella esposizione commerciale Italy-in-Macy’s le macchine olivettiane devono parlare da sole, senza uno spazio di vendita progettato secondo i canoni dell’impresa e senza le abituali strutture comunicative e rappresentative che usualmente le accompagnavano, unendo le caratteristiche dei prodotti con un vasto apparato di supporto composto da architetture d’insediamento, di fabbriche, uffici, luoghi d’esposizione; e poi […] tasti e tastiere, segnali, colori, materiali, alfabeti, soluzioni ergonomiche, posti di lavoro, studi di componibilità; e poi ancora, grafica e comunicazione, uso di 30 Caterina Cristina Fiorentino marchi, manuali d’impiego, oggetti di cancelleria e carta da lettere, advertising, pubblicazioni, posters; e infine […], oggetti d’arte […], film d’arte, documentari scientifici, stampe d’arte e libri, regali, giochi.1 La presenza all’interno di una “adunata” di prodotti italiani è, dunque, una condizione fortemente inusuale per le macchine Olivetti e le rende compartecipi a un dialogo transatlantico che, all’interno delle attività degli attuatori del Piano Marshall, aveva ovvi obiettivi economici insieme allo scopo, palesemente dichiarato, di rendere gli Americani attivi nel ruolo di consumer diplomats, ovvero nel ruolo diplomatico di esercitare le loro scelte di acquirenti di beni di consumo, nella prospettiva che fare turismo in Europa, oppure “buying European at their local department stores […] would not only help to promote European economic recovery, but would also realize the value of the Marshall Plan’s liberal internationalism in the postwar world”.2 Accanto a ciò, Stephanie Amerian ha sottolineato il ruolo che le reti commerciali americane e i grandi magazzini hanno avuto nello stabilire un legame economico e culturale tra America ed Europa, quale premessa per affrontare la guerra fredda e per rendere la rotta transatlantica una via dalla percorrenza a due sensi di marcia, in cui i due paesi fossero, allo stesso tempo, importatori ed esportatori di beni di consumo. In merito a questa definizione della rotta transatlantica e volendo concentrare l’attenzione sugli aspetti relativi al design di comunicazione della Olivetti, diventa utile interpretare alcuni avvenimenti della storia olivettiana d’Oltreoceano, mettendo in evidenza due modi di guardare con cui l’impresa ha rivolto il suo sguardo al “nuovo mondo” e un cambio di prospettiva che ha avuto luogo, nel secondo dopoguerra: nel quadro degli accadimenti che caratterizzano e descrivono le relazioni tra l’impresa Olivetti e l’America, infatti, è possibile individuare almeno due fasi e un incipit, nel periodo che va dalla fondazione agli anni ’50. All’incipit appartengono le esplorazioni industriali, ovvero i viaggi in America di Camillo Olivetti (1893 e 1894) e quello successivo di Adriano (1925-1926), da cui sono derivati i progetti dei primi prodotti e le considerazioni che hanno portato alla organizzazione iniziale dei processi e delle strutture produttive dell’impresa. Ai viaggi, fa seguito una prima fase, la cui conclusione si può datare al 1939, durante la quale agisce un tipo di sguardo verso il “nuovo mondo”, che è, per lo più, di critica opposizione. Dall’analisi delle comunicazioni pubblicitarie di questa fase – che coincide con l’avvio e la stabilizzazione del processo di internazionalizzazione dell’impresa in Europa e in Sud America – emergono, in sintesi, la dichiarazione del primato italiano nella produzione delle macchine per scrivere, in netto contrasto con le importazioni dei prodotti americani, insieme alla ricerca di una autonomia espressiva che darà vita alle invarianti del codice 1 Zorzi R., Olivetti: a design story, two critical moments. AASO, Archivio Personalità Olivetti, Zorzi Renzo, Relazioni 1-8. 2 Amerian 2015, p. 47. Olivettiani a Brooklyn 31 visivo olivettiano, articolate, di volta in volta, secondo la poetica di diversi autori, nell’Idioma Olivetti. Il processo di internazionalizzazione dell’impresa inizia negli anni ’20. Quando – dopo che, nel 1913, un investimento per l’aumento della produzione comportò anche l’apertura di filiali a Milano, Genova, Roma e Napoli – la presentazione alla Fiera Internazionale di Bruxelles (1920) della Olivetti M20, progettata da Camillo Olivetti e Domenico Burzio, coincise con l’apertura di una filiale autonoma in Belgio e con l’espansione del network di vendita in Argentina, Uruguay e Paraguay, cosa che rafforza anche la presenza, nel 1924, dei prodotti Olivetti sulla Regia Nave Italia, in viaggio per otto mesi sulle coste dei paesi latino-americani.3 Nelle comunicazioni pubblicitarie di questo periodo, l’italianità delle macchine Olivetti era un argomento centrale, espresso in varie forme; attraverso il rapporto con la scrittura, le evocazioni di figure storiche, il disegno e la citazione dei concetti futuristi di velocità e movimento, la presenza di orizzonti verso ovest e di navi straniere che percorrevano l’oceano, senza trovare facile approdo nei porti italiani. Rispetto all’uso ripetuto di tali immagini e argomenti risulta palese che, sin dagli esordi, la comunicazione olivettiana è stata partecipe della costruzione dell’eloquio italiano. Ovvero, le comunicazioni olivettiane – soprattutto nell’ambito della affermazione e della stabilizzazione dell’impresa, prima nei confronti della concorrenza americana in Europa e, poi, nel secondo dopoguerra, sul mercato d’Oltreoceano – hanno contribuito alla costruzione di quel linguaggio composto, nel tempo, da differenti idiomi, in cui l’uso di temi, immagini e testi, adatti a narrare la cultura delle imprese, ha, contemporaneamente, influito sulla costruzione e sulla percezione dell’immagine del Bel Paese e di alcune caratteristiche della italianità, raffigurate anche in forma di stereotipi. Italianità che, nelle comunicazioni riferite alle prime macchine, come le Olivetti M20 e M40, era espressa e ribadita mediante la presenza dei protagonisti della letteratura italiana – come già fatto da Teodoro Wolf Ferrari, nel 1912, per la Olivetti M1 – oppure, dichiarata nei testi come soluzione che rendeva gli italiani indipendenti rispetto all’importazione di macchine straniere. In queste comunicazioni, dunque, l’Oltreoceano era un luogo rispetto al quale andavano affermate e consolidate superiorità e, a volte, indifferenza nei confronti della concorrenza, insieme al recupero del valore della storia e della tradizione; mentre la nuova storia, quella successiva alla Grande Guerra, andava scritta con una macchina Olivetti. La M40 è stata una macchina particolarmente robusta, destinata al lavoro d’ufficio, realizzata su progetto di Camillo Olivetti e Gino Levi Martinoli e prodotta, nelle prime due edizioni, dal 1930 al 1946; invece, per la terza edizione, in commercio dal 1946 al 1948, il progetto della carrozzeria fu affidato a Luigi Figini e Gino Pollini. In una pubblicità destinata al mercato americano, l’immagine disegnata della mappa degli Stati Uniti ha un ruolo predominante nella composizione della pagina e il 3 Su questo tema, si veda il saggio di Costa in questo volume. 32 Caterina Cristina Fiorentino testo pone l’attenzione sulla produzione in serie, in opposizione alle realizzazioni artigianali e, dunque, sulla definizione del processo produttivo quale soluzione qualitativa per dichiarare una efficienza industriale, tutta italiana, insieme a un design innovativo. Una modalità narrativa, per sottolineare le caratteristiche necessarie per l’affermazione sul mercato americano, che assicura un prodotto adatto al rendimento e all’efficienza del personale, all’interno degli uffici a cui la macchina era destinata; conseguenza di questo modo di dichiarare l’italianità olivettiana, comunicata come un atout sul mercato nazionale e internazionale, è stata la risposta, quasi paradossale, della coeva pubblicità della Underwood, in cui si sottolineava l’italianità delle filiali di vendita, quale indice di efficienza sul territorio. Accanto a ciò, vale citare il documento programmatico di Renato Zveteremich – responsabile dell’Ufficio Tecnico di Pubblicità Olivetti dal 1931 al 1938 – in cui, oltre a dare indicazioni sulle competenze necessarie per l’organizzazione dell’ufficio che dirigeva, ha scritto: Desideriamo infine ribadire la convinzione che già sta diffondendosi della scarsa utilità didattica, per noi della pubblicità americana. Gli americani l’hanno spinta ad un tecnicismo raffinato e smaliziato, l’hanno piegata a scopi disordinatamente e convulsivamente immanenti e contingenti, se ne sono serviti come di un enorme, rutilante e prestigioso strumento di seduzione. Riconosciamo la maestria tecnica, riconosciamo la potenza dei mezzi come ammiriamo il tecnicismo della cinematografia di Hollywood. Respingiamo il suo spirito. Essa specula sull’ingenuità del pubblico là dove una tradizione antica ha sviluppato negli italiani uno spiccato buon senso, un’acuta disposizione alla critica, un fondamentale scetticismo, una più vigile sensibilità. A noi pare che l’infatuazione ed il feticismo del nuovo, di cui è piena la pubblicità americana, poco o nulla possano insegnarci perché si presentano con aspetto di deformazione e di degenerazione, che, naturalmente, gli americani non avvertono.4 Al testo programmatico di Zveteremich fa da contrappunto quanto scritto da Elio Vittorini sulla necessità di eludere la questione quantitativa, in favore di quella qualitativa e di confrontarsi con il dibattito sull’umanesimo pubblicitario, discusso in America, perché “nessuno, naturalmente, dice che la pubblicità non debba essere affermazione. Il problema è che sia affermazione essendo un’altra cosa, essendo una cosa qualitativa, qualificandosi. Deve insomma avere un’altra ragione di esistere, che la faccia esistere di per sé stessa innanzi all’uomo. E questa ragione non può essere che la ragione per cui esistono le opere d’arte”.5 Con questo testo Vittorini introduce la pubblicazione Una Campagna Pubblicitaria. Avanguardia nella tecnica, che si apre con una immagine della Olivetti Studio 4 Zveteremich R., Organizzazione Ufficio pubblicità Olivetti, 1931. AASO, Fondo Arte, opere d’arte e documenti 3-56. 5 Vittorini 1939. AASO, Eidoteca. Olivettiani a Brooklyn 33 42 e una scatola da imballaggio, dunque, pronta all’esportazione. Nelle sedici tavole della pubblicazione, dedicate alla Olivetti Studio 42, vengono alla luce, riunite per la prima volta, le invarianti del codice visivo olivettiano, ovvero: mani, alfabeti, parti meccaniche, ambientazioni delle macchine con le architetture e con i fiori e la rappresentazione della figura femminile, elemento centrale della comunicazione olivettiana che rende l’utenza protagonista delle sue pubblicità, sin dagli esordi, ovvero dalle prime comunicazioni che compaiono su “L’Illustrazione Italiana” e che sono decisamente in linea con le dattilografe, protagoniste delle pubblicità della Underwood, degli stessi anni. Alla nascita delle invarianti del codice visivo, si aggiunge una pubblicità del 1939, in cui la Olivetti Studio 42 (fig. 1) è l’immagine con cui la Olivetti si presenta al mondo intero e, riassume il suo processo trentennale di internazionalizzazione sui mercati, raccontando la consistenza delle “società alleate” – Olivetti Argentina, Hispano Olivetti, Olivetti do Brasil, Olivetti Belge, Sampo Paris – come “organismi tecnico commerciali attrezzatissimi che diffondono il prodotto nella loro zona con azione sistematica e progressiva” e che hanno, dunque, condotto la Olivetti a produrre “oltre 45.000 1. Pagina pubblicitaria La Olivetti nel Mondo, 1939 34 Caterina Cristina Fiorentino macchine l’anno”.6 In questa pubblicità, la fotografia colorata della macchina è accostata a un disegno schematico delle rotaie di un treno e, ancora, compare una nave che, però, stavolta è segno di espansione dell’impresa e di diffusione del prodotto italiano sui mercati internazionali. Nel secondo dopoguerra, invece, scompaiono le comunicazioni pubblicitarie che, mentre affermano la potenza di esportazione, si oppongono all’importazione del prodotto di origine americana; lo sguardo verso l’ovest cambia e prelude a un ribaltamento della prospettiva in cui la Olivetti è un modello al quale le industrie americane sono invitate a guardare, come è esplicito nel catalogo della mostra Olivetti: Design in Industry, del 1952; in cui la narrazione dell’impresa inizia con quello che, nei fatti, è stato un progetto mancato, ovvero la realizzazione di un murales di Picasso, per uno showroom Olivetti e prosegue con un paragone, che strappa un sorriso, con il logotipo Coca Cola, per chiarire la presenza olivettiana sul mercato mondiale. L’apertura del mercato in terra americana vede protagonista – prima della Olivetti Lettera 22 – la Olivetti Divisumma 14, macchina da calcolo in produzione dal 1948 al 1958; il suo ruolo di pioniere è ben descritto in una pubblicità in cui il testo recita: “Questo prodotto di alta precisione dell’industria meccanica italiana ha aperto negli Stati Uniti d’America un nuovo mercato che è conferma di qualità” (fig. 2).7 La fotografia della macchina è accompagnata dalla mappa degli Stati Uniti su cui campeggia una freccia da est a ovest e, ancora una volta, da una nave; soggetto ricorrente delle comunicazioni di prodotto riferite all’espansione del mercato che, in nome della continuità dei segni del codice visivo olivettiano, verrà utilizzata anche da Jean Michel Folon, nel 1969; ovvero in un momento in cui l’azienda aveva intrapreso una nuovo processo, in occasione della ricerca e dello sviluppo dei prodotti elettronici che coincise con l’esportazione del Programma 101 negli Stati Uniti. Il grande successo di mercato della Divisumma – progettata da Marcello Nizzoli e Natale Capellaro – ha agevolato l’istituzione, nel 1950, della Olivetti Corporation of America, con sede a New York, come la costituzione, nel 1952, del Laboratorio di Ricerche Elettroniche a New Canaan, nel Connecticut: le traiettorie transatlantiche, ormai, avevano una percorrenza a due sensi di marcia e gli esuli forzati dalle leggi razziali, che erano negli Stati Uniti sin dagli anni ’30, oltre a collaborare tra loro per l’impegno nell’attività didattica, oppure nella riformulazione della cultura di avanguardia di matrice europea, come nella sperimentazione e nella ricerca artistica, potevano, anche, partecipare agli episodi della storia olivettiana in terra americana, articolati in progetti di architettura, di spazi di vendita, di allestimenti, come in curatele di esposizioni e in attività editoriali. Da queste collaborazioni, ad esempio, nascono sia gli showroom di San Francisco, Chicago e New York, sia la mostra al MoMA del 1952, in cui la Olivetti – ora6 7 La Olivetti nel Mondo. AASO, Fondo Raccolta pubblicità su riviste storiche, fasc. 35. Divisumma. AASO, Fondo Raccolta pubblicità su riviste storiche, fasc. 191. Olivettiani a Brooklyn 35 2. Pagina pubblicitaria Olivetti Divisumma, la macchina da calcolo in produzione dal 1948 al 1958 mai completamente emancipata dalla necessità di contrastare la produzione americana – mostra sé stessa come presenza eloquente e autorevole sul mercato d’Oltreoceano, esprimendosi con un idioma tanto consolidato quanto all’avanguardia che, anche grazie alle attività e ai progetti su suolo americano, sarà, poi, consacrato come Stile Olivetti; una modalità da imitare, come è ribadito dal discorso che Thomas J. Watson ha fatto quando, nel 1965, gli fu conferito il premio Kaufmann: Vorrei che mi si facesse credito delle cose che avete visto come se fossero mie… in effetti esse provengono da una società chiamata Olivetti, da un uomo chiamato Adriano Olivetti, un italiano che molti anni fa decise che fosse un tema della massima eccellenza di stabilire la sua Società come un vasto simbolo mondiale, attraverso il colore, gli interni, il design, il prodotto, gli edifici. E lo fece. Qualcuno di noi all’IBM pensò che si potesse farlo anche noi, e per questa ragione, io mi inchino rispettoso alla sua leadership.8 8 Zorzi 1981, p. 364. 36 Caterina Cristina Fiorentino Accanto a ciò la narrazione delle relazioni fra la Olivetti e l’America potrebbe continuare con le interpretazioni letterarie che seguono la linea del grande thriller, chiamando in campo la presenza dei servizi segreti americani e della concorrenza d’Oltreoceano, nella costruzione di un destino nefasto per la progettazione e la produzione dell’elettronica italiana; oppure con il ruolo del calcolatore Olivetti P101 nell’allunaggio e, ancora, con la lunga e controversa questione della acquisizione della Underwood, in merito alla quale, in conclusione, vale citarne l’azzardo con le parole che Adriano Olivetti riferì, nel 1959, a Renzo Zorzi: Se l’abbiamo comprata è un puro caso. Il nostro gruppo, arrivato a New York tutto unito, dopo le prime riunioni con la controparte si è diviso in due. Alcuni di noi, diciamo gli avvocati, ed io con loro, siamo rimasti in città per trattare gli aspetti legali dell’affare, gli ingegneri, i tecnici li abbiamo mandati a Hartford a visitare la fabbrica, con l’intesa che ci avrebbero telefonato il loro parere, permettendoci, se positivo di firmare il contratto in giornata. E questo parere favorevole è venuto nel tardo pomeriggio. Sì, l’affare si poteva fare. È stato venerdì e firmammo. La mattina dopo, sabato, ho lasciato gli altri e me ne sono andato solo in stazione a prendere il treno per Hartford. E così l’ho vista. Una fabbrica di mattoni, vecchissima, non me la ricordavo più così, cinque piani tutti a scale, affastellati uno sull’altro. Che impressione terribile. Avevamo comprato quella fabbrica. Se invece di starmene con gli avvocati, fossi andato con gli ingegneri, mai e poi mai avrei dato il mio consenso.9 9 Ivi, p. 356. NUOVE NARRAZIONI PER LA PROMOZIONE DELLA PRODUZIONE ITALIANA From the House of Italian Handicrafts to the Exhibition Italy at Work. Continuities and Discontinuities Among HDI, CADMA and CNA (1945-1953) Emanuela Ferretti*, Lorenzo Mingardi*, Davide Turrini** Università degli Studi di Firenze* Università degli Studi di Ferrara** I n the context of the most recent studies on Italian political, cultural and economic exchanges in the 20th century, relations with the United States emerge as an exemplary case to be examined to gain new insight into the origins and developments of globalisation.1 In particular, in the period immediately following the Second World War, in conjunction with the Marshall Plan and the start of the Cold War, the United States had considerable and manifold interests in Italy. To support the quick recovery of national craft production and facilitate its exportation to foreign markets, between 1944 and 1945 a small group of wealthy Americans of Italian origin founded HDI in New York.2 The organisation was headed by Max Ascoli, former professor of Philosophy of Law at the University of Rome in the ’20s who was forced to expatriate to the United States for his anti-fascist views. The HDI had a Board of Directors and an Advisory Committee; members of the former included, among others, Paolino Gerli – an importer of Italian textiles into America – the economist Bruno Foà, René d’Harnoncourt, future director of The Museum of Modern Art (MoMA), and Anna Rosenberg. The Advisory Committee was made up of the businessman Nelson A. Rockefeller, the actress and intellectual Ruth Draper, and American diplomats from prestigious families with close political connections to the Roosevelt administration.3 Supporting the distinct characteristics of Italian handicraft production, such as the originality of the models, a strong link with the applied arts tradition, and high-quality execution by encouraging its gradual penetration into the American market meant, at this particular historical moment, renewing the 1 2 3 Sbordone, Turrini 2020, pp. 7-10. Dellapiana 2022, pp. 105-108. FR, ACLR, Cadma, b. 1, f. 1. 40 Emanuela Ferretti, Lorenzo Mingardi, Davide Turrini economic and social value of a sector that had always been at the top of national production. Ascoli immediately wanted to conduct a market survey, namely preliminary investigations on the absorption capacity of Italian craft products in the US market. For the program to be successful, however, the support of art historians, economic experts and technicians operating in Italy was essential. The ideal hypothesis was a figure who had these skills, along with considerable political clout. Carlo Ludovico Ragghianti, whom Ascoli met in Rome in October 1945,4 was an excellent role model in this regard; he was in fact an art historian and critic who had special ties with the government: at that time he was undersecretary with responsibility for Fine Arts and Performing Arts.5 The two laid the foundations for the establishment of a committee to assist with the distribution of artisan materials, CADMA, the HDI’s corresponding body and trustee in Italy. My Dear Carlo – Ascoli wrote to Ragghianti – this is just a first line to open our transatlantic correspondence. Coming to Italy after so many years, I knew I would find old friends and that I would make new ones. I hold you at the top of the category of new friends so dear that I am tempted to backdate the friendship. I am very grateful to you for all the time and care you devote to our handicrafts.6 In November 1945, the agreement between the two organisations was signed.7 Although CADMA enjoyed economic aid from HDI, it was not a mere subsidiary body of the latter. It represented a fundamental and active instrument for the accomplishment of American projects. In fact, information provided by CADMA – through the artistic and technical support of people living in Italy who were familiar with its political, economic and social equilibriums – enabled managers at HDI to understand the real needs of Italian artisans and how best to direct their economic aid. Within the framework of the United States’ control over Italy, HDI and CADMA wanted to quickly address the economic crisis that the war had brought on the Italian craft sector. The most suitable criteria and principles for its relaunch and subsequent stable future were identified as resuming exports as soon as possible. In addition to the economic aspect, the political one should not be forgotten: in a broad sense, reactivation of the market and trade 4 FR, ACLR, Cadma, b. 1, f. 2. Following that visit, CADMA was established in Florence and governed by principles and purposes similar to those of the HDI. It was based in Florence, at the Istituto d’Arte in Porta Romana. CADMA Presidential Committee 1945-1948. 5 Pellegrini 2018, pp. 53-56. 6 FR, ACLR, Carteggio generale, Ascoli Max. Letter dated 14 November 1945. The letter is written in Italian. 7 FR, ACLR, Cadma, b. 1, f. 2. From the House of Italian Handicrafts to the Exhibition Italy at Work 41 1. Notes by Carlo Ludovico Ragghianti regarding a meeting with Max Ascoli, Ramy Alexander and Riccardo Bauer with a list of CADMA’s activities, 23 June 1947 relations between the two nations meant freeing Italy from the shadows of its recent past. It is therefore worth emphasising how the initiatives promoted by Ascoli and Ragghianti arose from the desire to participate once again, after the Resistance, in a tangible way in the redefinition of the country’s destiny (fig. 1). 42 Emanuela Ferretti, Lorenzo Mingardi, Davide Turrini From CADMA to CNA After brief but intense activities, HDI and CADMA disbanded between 1947 and 1948.8 They were temporary assistance organisations whose sole aim was to provide an initial contribution to resolving the stalemate in the Italian craft sector caused by the global conflict. Later, in the wake of the initiatives already undertaken, their baton had to be picked up by more continuous and structured solutions. In April 1948, in order to obtain an important loan granted by the Export-Import Bank of Washington – a credit institute that had already undertaken financing transactions for other Italian productive sectors – a National Artisan Association called CNA, was set up. The organisation was backed by a government guarantee and was therefore able to absorb the huge sum allocated of more than four million dollars.9 In legal terms, the CADMA disappeared, but the HDI was still active for some time, so much so that it participated, with private capital, in the establishment of the new organisation. The President of the CNA was Ivan Matteo Lombardo (a socialist and at that time Minister of Industry and Trade). He was also chosen for his special relations with foreign officials and apparatuses: he later became Minister of Foreign Trade from January 1950 to April 1951. There were considerable elements of continuity between the bodies managed by Ascoli and Ragghianti and the CNA. First of all, old CADMA collaborators such as Ramy Alexander (who would become vice-president of the CNA) and Riccardo Bauer (President of the Società Umanitaria in Milan and one of the founders, together with Ragghianti, of the Partito d’Azione) were on the Board of Directors of the new organisation. Another similarity that linked CADMA and CNA was the organisational structure of the headquarters. CADMA had its head office in Florence, the headquarters of many of Ragghianti’s other cultural and political initiatives.10 The Roman branch however, headed by the writer Alberto Carocci, had already been organised by early 1946. Subsequently, several regional committees were set up (Campania, Lombardy, Veneto, Emilia Romagna and others) in order to profitably control local artisan production. The Lombardy committee was chaired by Riccardo Bauer and several architects and designers from the Milanese scene were also involved, starting with its deus ex machina, Ernesto Nathan Rogers, at the time director of the magazine “Domus”. Ragghianti also involved several designers in the various regional branches of CADMA: in addition to Rogers, Franco Albini, Mario Asnago and Ignazio Gardella for Milan; Mario Labò for Genoa; Carlo Scarpa for Venice; Giovanni Michelucci for Florence; Carlo Mollino for Turin.11 These were people FR, ACLR, Carteggio generale, Sforza Carlo, Firenze, 12 December 1947. Pietrangeli 2022, p. 10. 10 Mingardi 2020, pp. 109-110. 11 FR, ACLR, Cadma, b. 1, f. 3. Loose sheet with handwritten notes by Ragghianti. 8 9 From the House of Italian Handicrafts to the Exhibition Italy at Work 43 with whom Ragghianti had already had the opportunity to collaborate on several occasions.12 The territorial organisation of the CNA followed the example of CADMA. It had a head office in Rome and other sites, with some CADMA offices converted into CNA offices, such as the Istituto Veneto per il Lavoro in Venice and the Società Umanitaria in Milan. New offices were also opened in Naples, Messina and Florence.13 It was in Florence, and more precisely at the Uffizi Gallery, in August 1950, that all the objects chosen were collected and photographed and then sent to New York for the first stage of the Italy at Work exhibition, which opened on 29 November of that year.14 Alongside signs of continuity, some differences between CADMA and CNA also emerged. In particular, the two organisations were set up with different bylaws and therefore did not have the same purposes. In order to have good quality materials available to introduce into the US market, CADMA was financed exclusively through donations and could not engage in for-profit activities or competition with commerce and industry. So it was not a commercial entity: its function was solely to assist and facilitate the production and, thereafter, the introduction of Italian handicraft products into the United States.15 In this sense, the case of Faenza is emblematic as it was one of the Italian cities most affected by war destruction and one of the world’s leading centres of excellence in the field of ceramic production and processing.16 As of September 1946, CADMA and HDI undertook to provide economic aid to the teaching facilities of the International Museum of Ceramics and local ceramic production through the ad hoc construction of nine electric kilns which were essential for the activities of the Ceramics Cooperative.17 The CNA instead managed a loan of around two million dollars to be repaid with interest between 1950 and 1951. It did not therefore make generous free donations to artisan companies or individual artisans, rather it was a matter of economic supplies on credit.18 The organisation therefore had decidedly more commercial characteristics and expertise than CADMA-HDI. Other substantial differences concerned the supply of raw materials that were lacking or absent in Italy following the Second World War, as well as relations with the design culture which had to certify the artisans’ work. CADMA and HDI were able to buy cheaply in the United States items that were unobtainable or too expensive in Italy.19 With the resources and materials provided by the two organisations, high quality sample objects were created to be presented to Mingardi 2019, pp. 41-50; Caccia Gherardini 2018, pp. 91-100. Mingardi, Turrini 2021, p. 100. 14 Ibidem. 15 FR, ACLR, Cadma, b. 1, f. 4, HDI-CADMA Brochure. Per gli artigiani esportatori, p. 10. 16 Ballardini 1945, pp. 43-50. 17 FR, ACLR, Carteggio generale. Ballardini Gaetano. Letter from Ballardini to Ragghianti, 13 September 1946; FR, ACLR, Cadma, b. 1, f. 2. CADMA activities 1946-1947. 18 FR, ACLR, Cadma, b. 1, f. 4, HDI-CADMA Brochure. Per gli artigiani esportatori, p. 10. 19 Mingardi, Turrini 2021, pp. 87-88. 12 13 44 Emanuela Ferretti, Lorenzo Mingardi, Davide Turrini American business circles as the best examples of Italian craftsmanship. For this purpose, multi-faceted strategies were designed, such as effective workshop collaboration between artisans and artists in order to offer more original production content. Documents relating to the first meetings of the Presidential Committee of CADMA include a list of the painters and sculptors to be involved in the production of cartoons and drawings which would subsequently serve as a model for the object created by the individual artisans or by the manufacturers concerned: among others, Giorgio Morandi, Carlo Carrà, Lucio Fontana, Renato Guttuso, Luigi Spazzapan and Filippo de Pisis are mentioned.20 Both the purchase of raw materials and collaboration between artists, designers and artisans continued even while the CNA was active. However, unlike HDI and CADMA, the CNA only supplied material from Italy or from other countries with the exception of the USA for which it was not possible to take advantage of the direct concessions of the Export-Import Bank. Furthemore, it promoted Italian craftsmanship also in Latin America, Europe (Germany, Sweden and France) and North Africa.21 To speed up the successful achievement of the purposes of their bylaws, from the end of 1946 CADMA and HDI sent a series of information bulletins to artisans on American market trends and the names of possible buyers. Distribution of the publications allowed the two organizations to provide the further technical and material assistance necessary to develop new export sources, especially among small and medium-sized producers. Besides others, CADMA also awarded scholarships to allow both new graduates from art institutes and self-employed artisans to perfect their skills by attending specialized workshops without the need for immediate earnings. In addition, HDI and CADMA set up competitions on product design topics. The Faenza example is paradigmatic in this case too. In fact, in April 1947 the 6th National Ceramics Competition was announced, open to ceramic producers, owners and managers of factories and artisan workshops, and artists.22 Given the different nature of the funds it drew on, CNA did not promote any of these initiatives where there was such a direct relationship between the funding body and companies.23 From the House of Italian Handicrafts to the Italy at Work exhibition From the early stages of the establishment of HDI and CADMA, the board of directors had a common desire to organize a permanent exhibition of Italian artisan samples in New York to give US buyers greater purchasing opportunities. 20 21 22 23 FR, ACLR, Cadma, b. 1, f. 1. Activities 1945-1948. Alhaique 1950, p. 28. FR, ACLR, Cadma, b. 1, f. 1. Activities 1945-1948; Ballardini 1947, p. 98. Alhaique 1950, pp. 10-11. From the House of Italian Handicrafts to the Exhibition Italy at Work 45 In November 1946, HDI bought a small three-storey building on 49th Street, the interior of which was refitted by Gustavo Pulitzer Finali – a prominent architect already involved in naval outfitting and interior design for tourist and commercial facilities – with decorations by Costantino Nivola dedicated to crafts.24 The HIH was born, home to the HDI’s permanent sample exhibition and a “disinterested mediator” between Italian manufacturers and the American market.25 Our function must be to prepare a Noah’s Ark - wrote Ascoli to Ragghianti in December 1946 - Noah’s Ark is the House of Italian Handicrafts [...] The House of Italian Handicrafts should become operational in around one month. Then the serious music will begin. Each sample that arrives will be the subject of correspondence and an exchange of ideas between the House and you. From the House you will continuously receive suggestions, criticisms, requests for information [...] without establishing aesthetic standards [...]. There will be a margin of things that are liked there but not here, or that are liked here but are detested there, but there will also be an increasing number of articles that are agreed upon, and the collaboration can thus become more refined.26 On 10 April 1947, HIH opened with a miscellaneous exhibition of objects selected by the CADMA Technical Committee and, between 1947 and 1948, six temporary exhibitions were organized presenting a remarkable range of themes, creators and productions.27 Italy at Work, on the other hand, opened, as mentioned, in November 1950 in New York,28 but it was conceived the previous year by the CNA when the latter came into contact with the Art Institute of Chicago (which had collaborated with the HIH for some time), which accepted the proposal and commissioned Meyric Rogers to curate it (together with Ramy Alexander, Walter Teague and Charles Nagel jr.). There are many continuities with previous experiences at the House in terms of both the organizers (two names above all: Alexander was among the curators, Ascoli was on the exhibition’s hon- Sede dell’Handicraft a New York 1948, p. 33; Dellapiana 2022, p. 109. FR, ACLR, Cadma, b. 1, f. 3. Foà’s letter to Ragghianti and other collaborators of CADMA, 17 April 1947. 26 FR, ACLR, Carteggio generale, Ascoli Max. Letter dated 18 December 1946. After the closure of CADMA and shortly after of HDI, from 1949 management of the HIH passed to the CNA. Exhibitions were no longer set up at the headquarters, but rather the shop “The Piazza” was opened and aimed directly at private buyers. 27 Mingardi, Turrini 2021, pp. 92-95. 28 The Italy at Work Honorary Committee consisted of US politicians and diplomats. In addition to Ascoli and De Gasperi, Carlo Sforza (minister of Foreign Affair), Ivan Matteo Lombardo (president of the CNA and foreign trade minister), Giuseppe Togni (minister of industry and trade), James Clement Dunn (American ambassador to Italy), Herbert Gaston (administrator of the Export-Import Bank), David Freudenthal (president of the HIH in New York) belonged to it. Rogers 1950b, p. 6. 24 25 46 Emanuela Ferretti, Lorenzo Mingardi, Davide Turrini orary committee), and the objects on display, the key players of the design culture presented, and the manufacturers involved. Although the aims of the exhibition promoted by the CNA were the same as those organized by CADMA-HDI, i.e., the promotion of high-quality products capable of reinterpreting traditional forms and materials from a modern perspective and of penetrating the American market, Italy at Work was an exhibition on a much larger scale, travelling to twelve cities in the United States and it had far greater impact.29 The greater economic resources developed by the CNA, the numerous and diversified production contexts involved, and much broader and more intense advertising hype made Italy at Work an exhibition event with a sounding board that was utterly incomparable to initiatives organised in the past.30 Among the exhibitions organized by CADMA, two are particularly relevant because they involve numerous protagonists of Italian design and architecture that we will find in Italy at Work. Handicraft as a fine art in Italy, curated by Ragghianti, opened at the HIH in December 1947, with a catalog designed by Bruno Munari. The exhibition focused on the relationship between art and craftsmanship, and for which an articulate design and production workshop was activated, only in part later landing in the exhibition. The following works, among others, were selected or specially commissioned for the event: fireplace frames made of decorated convex or flat tiles by Cascella; an additional fireplace by Leoncillo; chairs by Michelucci; screens by Fornasetti; lacquered coffee tables by de Pisis; mosaics by Campigli; ceramic plates by Morandi; a fruit serving set in ceramics by Sassu; numerous additional ceramic works by Fontana,31 Manzù, and Marini; silver and bronze crucifixes by Afro and Mirko Basaldella; jewelry and silver boxes by Guerrini.32 In February 1948, the exhibition Life in the Open Air curated by the Lombard Committee of CADMA – particularly by Rogers, Gardella, and Fabrizio Clerici – was mounted, featuring architecture and a successful synthesis of the dialogue between arts and crafts with pieces by Luigi Broggini, Enrico Galassi, Bruno Munari, and Ettore Sottsass jr., among others.33 This exhibition had a particular Ponti 1950b, p. 25. AIC, RBLA, Department of decorative arts, Italy at Work, Correspondence and list of works. 31 On Fontana ceramic within the American context, see Bedarida in this volume. 32 Handicraft as a Fine Art in Italy 1947, pp. 8-9; FR, ACLR, Cadma, b. 1, f, 1. Ducci 2018, pp. 58-60. A number of documents related to possible artists to be exhibited at the exhibition are kept at the FC, ACLR: Afro, Mirko Basaldella, Enrico Boldoni, Luigi Broggini, Massimo Campigli, Pietro Cascella, Felice Casorati, Sandro Cherchi, Fabrizio Clerici, Pietro Consagra, Filippo De Pisis, Agenore Fabbri, Lucio Fontana, Piero Fornasetti, Renato Gregorini, Lorenzo Guerrini, Renato Guttuso, Leoncillo Leonardi, Carlo Levi, Paola Levi Montalcini, Marino Marini, Fausto Melotti, Giovanni Michelucci, Giorgio Morandi, Adriana Pincherle, Anita Pittoni, Armando Pizzinato, Emanuele Rambaldi, Giuseppe Santomaso, Aligi Sassu, Carlo Sbisà, Maria Signorelli, Ettore Sottsass jr., Enrico Steiner, Nino Ernesto Strada, Giulio Turcato, Gianni Vagnetti. 33 FR, ACLR, Cadma, b. 1, f. 1, Promemoria degli architetti Clerici, Gardella e Rogers relativo all’organizzazione della Mostra del gennaio 1948 a New York, 17 luglio 1947. On the display of the 29 30 From the House of Italian Handicrafts to the Exhibition Italy at Work 47 reverberation in Italy at Work, especially in the “five special interiors” set up by as many Italian architects (Clerici, Roberto Menghi, Gio Ponti, Luigi Cosenza, and Carlo Mollino), which, as in the CADMA-HDI exhibition, are important spaces within the exhibition itinerary.34 In fact, these interiors aimed to constitute a sort of synoptic element of the whole, taking up its main themes to further lead the visitor into the spirit and sense of Italian production, thanks to “ready for use” environments in which all the best regional productions converge, under the direction of an organic project.35 Unlike the exhibitions organized by CADMA, Italy at Work features a coordinated image, based on a traditional Italian identity and repeated constantly, or with minimal variations, for the 12 displays in as many museum venues (fig. 2). Italy at Work is in fact a project particularly devoted to communication and publicity, with widespread press coverage and a considerable enrichment of themed collateral events, where Italianness is the subject of reconstructions of situations, clothes and traditions that are transformed into successful social occasions.36 A distinctive feature of the exhibitions organized at HIH that we find on a larger scale in Italy at Work is the simultaneous presence of different types of creative approaches. In each section, in fact, there coexist both pieces designed by well-known artists, designers and architects for important manufacturer-publishers, and elements conceived and made by individual 2. Official information leaflets of the staging of the Italy at Work exhibition in Chicago (on the left) and San Francisco (on the right), 1951 Life in the Open Air exhibition, see also Cordera 2022. 34 Ponti 1950b, p. 25. For Ponti’s room, see Dellapiana essay in this book. 35 Clerici 1950, p. 31. 36 See evidence in the form of pamphlets and journals held at the AIC, RBLA, Department of decorative arts, Italy at Work 1951, Box 3, Flyers, magazine, pamphlets. On this topic, see also essays by Cordera and Rossi in this volume. 48 Emanuela Ferretti, Lorenzo Mingardi, Davide Turrini anonymous makers or by widespread production collectives (as in the case of the weavers’ manufactory in Capri).37 In the first Brooklyn and Chicago exhibitions we find unique pieces of applied art alongside objects of use with a successful popular taste. In the latter case, even the toys that CADMA had proposed in the 1947 Christmas Gift Exhibition return in Italy at Work, as happens with the famous doll Cristina designed by Countess Mariuccia De Lord Rinaldi.38 Among the ceramics we may list works by artists such as Lucio Fontana and Fausto Melotti, both of whom had already been featured in CADMA exhibitions, Antonia Campi39 and Leoncillo alongside tableware from the manufactures of Albisola, Faenza, Nove and Vietri. The furniture section includes furnishings designed by Albini, Gardella, Mollino, and Caccia Dominioni; a mosaic by Nivola; and upholstery fabrics made to designs by Pulitzer and his wife. Thus, one registers, in most cases, still recurrences with respect to CADMA’s scope. Likewise, it is necessary to note some discontinuities between the two contexts we are comparatively analyzing: for example, Sottsass jr., who was active for CADMA with furniture and textile designs, as well as present in the first exhibitions of the House of Italian Handicrafts, was not involved in the traveling exhibition.40 From the events examined between CADMA and CNA, the distinctiveness of an operation in support of Italian design and manufacturing culture conducted by men who certainly combined cultural militancy with political commitment emerges clearly. They were not content with an ephemeral commercial effect but helped refound the statutes of winning creative and executive quality for many decades to follow. The idea of staging an exhibition as wide-ranging and articulate as Italy at Work was already in nuce within the HIH program, and CNA was picking up CADMA’s baton with the task of managing the large sums of money that the US government allocated to do so. Woven into this context are different but equally strategic types of parallel presences for cultural and economic exchanges between Italy and the United States since 1945: promoter-mediators, designers, and manufacturers. Some of them are still active today: Salvatore Ferragamo41 and Richard Ginori, the Linificio & Canapificio Nazionale, the Bertozzi textile printing factory, Raffaello Bettini’s Florentine hat factory, and the Cooperativa degli Artieri dell’Alabastro of Volterra.42 AIC, RBLA, Department of decorative arts, Italy at Work 1951, Box 3. Exhibition records. FR, ACLR, Cadma, b. 1, f. 1. Circolare informativa sull’attività della CADMA, Firenze 31 ottobre 1947; AIC, RBLA, Department of decorative arts, Italy at Work 1951, Box 3. Exhibition records. 39 On Antonia Campi, see Pansera in this same volume. 40 Zanella 2017, pp. 157, 165-166. 41 On Ferragamo’s production within the postwar context, see Martin in this book. 42 Turrini 2018, pp. 85-96. 37 38 Molto più di una mostra d’arte Paola Cordera* Politecnico di Milano I l successo della mostra itinerante Italy at Work, insieme a tutta l’aneddotica che ha generato e all’approccio retorico che l’ha accompagnata, è stato consegnato alle cronache: a partire dal celebre servizio di Marya Mannes su “House & Garden” a cui gli organizzatori avevano assicurato la “première” dell’esposizione, la stampa americana fu unanime nel promuovere l’iniziativa concordando che il valore della manifestazione andasse ben al di là della “semplice” mostra d’arte.1 Come noto, l’interesse per la cultura, l’arte, l’artigianato e il design italiani del dopoguerra presentati nei musei trovò anche un considerevole riflesso nei concomitanti eventi promozionali organizzati da diverse catene commerciali su tutto il territorio statunitense.2 L’evento espositivo si voleva imporre come nuovo, non solo per il soggetto affrontato – la Nuova Italia e la sua “resurrezione” politica, economica e produttiva3 – ma anche per le modalità organizzativo-gestionali in cui l’evento culturale era associato a dirette iniziative commerciali. Era questa una pratica inedita per il Bel Paese ma che proprio nel 1950 – anno dell’inaugurazione della mostra italiana al Brooklyn Museum – era assunta all’interno * La mia gratitudine va a tutti coloro che, a diverso titolo, negli anni hanno sostenuto e incoraggiato le mie ricerche. In particolare, desidero qui ringraziare Enrica Bodrato (Fondo Carlo Mollino, Archivi Biblioteca “Roberto Gabetti”, Politecnico di Torino), Paola Busonero e i suoi collaboratori (Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, Archivio Storico Diplomatico, Roma) e Barnaba Fornasetti, Chiara Zanesi e Andrea Delle Case (Archivio privato Fornasetti), per aver favorito la consultazione del materiale documentario conservato presso i loro archivi. 1 Mannes 1950. Su Marya Mannes e i rapporti con i corrispondenti italiani si veda il saggio di Bosoni in questo volume. Per un primo spoglio della bibliografia complessiva su Italy at Work con riferimento alla stampa periodica coeva, cfr. Addesso 2019-2020. 2 Su questo tema, si veda Rossi in questo volume e Cordera 2023. Per un quadro generale sull’“invenzione del Made in Italy” e per la bibliografia di riferimento, cfr. Dellapiana 2022. 3 Per una disamina della questione, specie in relazione alla ceramica, si vedano in questo volume i saggi di Bedarida e di Hockemeyer. 50 Paola Cordera dell’esposizione Good Design, organizzata da The Merchandise Mart di Chicago e dal Museum of Modern Art (MoMA) di New York. Di ben altra portata furono le vicende che riguardavano Italy at Work. Le carte d’archivio hanno messo in evidenza come quelli che oggi derubricheremmo a “eventi collaterali” fossero l’esito di una precisa strategia generale concordata dalla CNA con gli enti della pubblica amministrazione coinvolti nell’iniziativa, oltre che con i referenti americani.4 A pochi mesi dall’inaugurazione dell’esposizione, il ministro per l’Industria e il Commercio Ivan Matteo Lombardo – anche presidente della Triennale di Milano e tra i principali sostenitori dell’iniziativa – in una nota diplomatica, chiariva il senso dell’operazione: Mentre la Mostra viaggerà di città in città, sarà condotta un’intensa campagna di vendita dall’organismo americano sussidiario della CNA, la House of Italian Handicrafts Inc.-217 East 49th Street, New York, City, e sarà offerta al pubblico la possibilità di comprare oggetti simili o addirittura identici a quelli esposti nella Mostra.5 Identico il tono degli interlocutori statunitensi nell’esprimere l’auspicio che alla finalità culturale e educativa dell’evento museale conseguisse un ritorno economico a beneficio della ripresa italiana.6 Proprio per dare forma concreta al progetto e raccordare le diverse fasi di un programma tanto articolato, i delegati della CNA si erano recati negli Stati Uniti “onde sfruttare nel miglior modo la intensa propaganda per i prodotti artigiani che deriverà dalle mostre e sviluppare i contatti con i grandi magazzini, i grossisti e gli importatori americani”.7 Una valutazione puntuale della mostra Italy at Work non può perciò prescindere dai propositi economico-commerciali ad essa sottesi e dalle iniziative svoltesi al di fuori del circuito espositivo ufficiale. Tale nesso è pure visivamente manifestato dal fatto che molti degli oggetti esposti nelle sale dei musei potevano essere facilmente rivisti (e acquistati) anche sulle scansie dei grandi magazzini. 4 Sul rapporto tra eventi culturali e commerciali connessi con Italy at Work, con particolare riferimento alle logiche espositive, cfr. Cordera 2023. 5 Mostre della produzione artigiana italiana nelle principali città degli Stati Uniti. Ivan Matteo Lombardo, Il Ministero del commercio con l’estero all’Ambasciata d’Italia a Washington, 21 settembre 1950. ASD, Consolato d’Italia New Orleans 1879-1961, cart. 44. Sui benefici economici dell’iniziativa, cfr. anche Alhaique 1950, pp. 30-32. 6 “Although the primary interest of the Sponsoring Museums is educational, to give Americans their first comprehensive view of a new cultural renaissance burgeoning in an old civilization, they also hope that these items will arouse a consumer demand for similar objects that will permanently benefit the Italian workman – and serve to cement our diplomatic and economic relations with Italy”. Da Isadora Bennett e Richard Pleasant al Brooklyn Museum, 29 novembre 1950. PUL, Box 1, Folder 17. 7 Ibidem. Molto più di una mostra d’arte 51 Dall’Italian Show a Italy at Work Le vicende che concorsero alla organizzazione dell’esposizione sono note e sono perlopiù associate all’attività della HIH e agli antefatti connessi con le mostre CADMA del 1947 e del 1948.8 Meno noto il fatto che tra gli interlocutori di Meyric R. Rogers – curatore del Dipartimento di Arti decorative e industriali dell’Art Institute di Chicago e vera anima dell’iniziativa – vi erano stati anche i referenti del Metropolitan Museum of Art9 e del MoMA.10 Quasi naturalmente, si era pensato che il coinvolgimento dei principali musei newyorkesi potesse assicurare ampia eco all’iniziativa. Inconciliabilità di tipo logistico oltre che finanziario avrebbero impedito tuttavia di andare oltre la generica fase interlocutoria. Accantonata l’idea di poter inaugurare la mostra a Manhattan, si concordò infine sul fatto che il Brooklyn Museum costituisse una valida alternativa, in virtù della reputazione nel settore delle “arti industriali” e non secondariamente, per il sostegno (anche economico) che l’istituzione avrebbe potuto ottenere presso la comunità italoamericana locale.11 Entrambi gli aspetti ben si associavano a un evento inteso a promuovere il nuovo artigianato e il design italiani. Per questo si era pure ritenuto che il “working title” – ovvero il titolo provvisorio – The Italian Show sarebbe stato fuorviante per il grande pubblico americano, che avrebbe quasi istintivamente potuto collegare la mostra ai più “tradizionali” Old Masters.12 L’idea de “L’Italia al lavoro” – insieme alla retorica della pratica manuale e dei Per gli antefatti dell’esposizione e la bibliografia di riferimento cfr. il saggio di Ferretti, Mingardi e Turrini in questo volume e Cordera 2022. 9 “[Francis H. Taylor, direttore del Metropolitan Museum of Art] and I have already had discussions with Mr. Rich and Dr. Rogers of the Chicago Art Institute in connection with the proposed exhibition of contemporary Italian industrial arts. Although we are very interested in the idea of holding this exhibition it is impossible as yet to reach a decision in the matter […]”. Lettera di Preston Remington (vicedirettore del Metropolitan Museum of Art) a Paul Hyde Bonner (ECA), 28 ottobre 1949. MET Archives, Francis Henry Taylor Records, Box 04, Folder 13. In questo contesto, è significativo notare il fatto che nel medesimo archivio sia conservata anche una copia del Plan for the Rehabilitation of Italian Arts and Crafts dell’HDI dell’agosto 1945 (Box 05, Folder 09). 10 M.R. Rogers, Italian Contemporary Industrial Arts. Report giugno 1949. BMA, Records of the Office of the Director (Charles Nagel, 1946-55). Exhibition: Italy at Work (1) (1949-02/1951). Cit. Faggella 2019, p. 167. 11 “Because of its leadership in the field of Industrial Art, and its location in the New York metropolitan area, the Brooklyn Museum has been chosen to undertake the initial showing and official opening […] To put on effectively the official opening of an exhibition of this scope and importance will, frankly, require the contribution of funds […] To do the kind of a job the occasion deserves, the Museum will require generous participation by sponsors and by citizens particularly interested in helping Italian-American relations […]”. Italian Contemporary Industrial Arts Exhibition at the Brooklyn Museum, s.d. [ma 1950]. PUL, Box 1, Folder 17. 12 Le considerazioni di Charles Nagel jr., direttore del Brooklyn Museum, indirizzate a Isadora Bennett e Richard Pleasant sono riprese in “Italy at Work. Her Renaissance in Design Today”. Largest Museum Show Ever Brought to this Country to Tour United States 3 years opens at Brooklyn Museum November 29th, s.d. [ma 1950]. Ibidem. 8 52 Paola Cordera valori morali ad essa sottesi – venne considerata non solo più adatta ma anche di più pronta comprensione degli intenti dell’iniziativa. Da subito si era pensato di superare le complessità connaturate con un’esposizione itinerante, che per natura era inevitabilmente problematica, con l’individuazione di una sorta di centro di coordinamento: l’Art Institute di Chicago avrebbe quindi svolto la funzione di raccordo tra i diversi musei, offrendo supporto logistico, insieme a materiale didattico e promozionale da customizzare a seconda delle necessità. Caratterizzata da un lettering ricorrente disegnato dall’architetto e designer Walter Dorwin Teague – anch’egli parte della commissione selezionatrice – e da una filosofia espositiva condivisa, la peculiarità di Italy at Work risiedeva in una certa flessibilità d’uso. A questo fine le fotografie dell’allestimento di Chicago, il più ampio, venivano opportunamente recapitate in anticipo quale possibile abaco di riferimento. Ognuno dei musei partners aveva facoltà di adattare il format – ovvero l’allestimento e, di conseguenza, la narrazione – alle specificità locali. Il confronto della prima sala della mostra nelle diverse sedi veniva ad essere la rappresentazione plastica di questa duttilità in quanto evidenziava le varie impostazioni e, insieme ai tagli prospettici delle riprese fotografiche, rivelava il diverso approccio comunicativo nei confronti del pubblico. Una certa austerità pragmatica a vocazione industriale sembrava essere il tratto dominante delle soluzioni quasi “fieristiche” a Detroit (Michigan) (in copertina) e a Minneapolis (Minnesota) dove la mostra si annunciava ai suoi ospiti con una sala in cui erano presentati i calcolatori e le macchine da scrivere della Olivetti.13 Era invece un’atmosfera soavemente lirica e forse un po’ nostalgica a dominare l’accesso al Brooklyn Museum. Le piazze assolate di una ideale Rinascenza pierfrancescana venivano evocate nel fondale della scenografia, su cui facevano bella mostra di sé, in una sorta di dialogo neanche sottile, il carretto siciliano e la Lambretta Innocenti. Ovvero, un po’ forzatamente, il Passato e il Presente del trasporto su due ruote. Così la sinfonia di blu, giallo e arancio delle pareti era stata individuata da Teague – ideatore dell’allestimento insieme all’architetto e designer Victor Proetz e a Michelle Murphy, consulente dell’Industrial Division del museo14 – come la più consona a rafforzare l’immagine romantica del Bel Paese,15 forse anche per compiacere la folta comunità italiana che proprio negli anni ’50 lasciava la madrepatria per stabilirsi a New York.16 13 Sulle strategie promozionali dell’Olivetti e l’esposizione del MoMA del 1952, cfr. Carter 2018. Sulla Olivetti, si veda anche il saggio di Fiorentino in questo volume. 14 Da Isadora Bennett e Richard Pleasant al Brooklyn Museum, Italy at Work: her Renaissance in Design Today, 29 novembre 1950. PUL, Box 1, Folder 17. 15 BMA, Records of the Department of Public Information. Press releases, 1947-1952. 1012/1950, 100-6. 16 “In planning a setting for the Italy at Work exhibition, I selected a color scheme which I think will have a nostalgic interest for all those who know and live Italy. The dominant notes are cerulean blue of the Italian sky and a clear orange which appears so often in architecture and Molto più di una mostra d’arte 53 Gli evidenti benefici derivanti dall’iniziativa in termini di ritorno d’immagine e di incremento della platea di possibili estimatori del Made in Italy – nel 1951, la CNA constatava con orgoglio “come buona parte delle [aziende] abbiano visto negli ultimi mesi notevolmente incrementata la richiesta dei loro prodotti da parte di clienti americani i quali facevano riferimento ai prodotti esposti nella Mostra”17 – non potevano però dissimulare le apprensioni connesse con il carattere itinerante della manifestazione e i possibili danni a cui gli oggetti potevano andare incontro durante gli spostamenti.18 Già nelle fasi di organizzazione dell’evento, proprio su questi aspetti si erano focalizzate le raccomandazioni che la CNA – e segnatamente l’ufficio M.U.S.A. il cui riferimento ricorre nei disegni di progetto, oltre che sui periodici (così su “Domus”) – aveva instancabilmente rivolto ad artisti, architetti e designer. In particolare, ai progettisti Fabrizio Clerici, Luigi Cosenza,19 Roberto Menghi, Carlo Mollino e Gio Ponti20 a cui era stata commissionata la realizzazione di five full-scale interiors (fig. 1) – a complemento dell’ordinamento tassonomico, prevalente, in cui 1. Una delle sale del M.H. de Young Memorial Museum a San Francisco, 1951: a destra, l’interior di Gio Ponti; a sinistra, quello di Carlo Mollino e a seguire il Teatrino di Fabrizio Clerici especially in the sails of the boats on the Bay of Venice”. Da Isadora Bennett e Richard Pleasant al Brooklyn Museum, Italy at Work: her Renaissance in Design Today, 29 novembre 1950. PUL, Box 1, Folder 17. 17 La CNA all’architetto Carlo Mollino, Roma 22 giugno 1951. FCM, C 3.2. 18 Tra gli altri, i musei di Minneapolis e Houston rimarcarono i guasti, e le conseguenti, necessarie riparazioni cui dovettero essere sottoposti alcuni dei pezzi prima di essere esposti. Sull’attività di “restauratore” di Victor Covey del Baltimore Museum, Wharton 1953. 19 Sulla stanza di Cosenza, cfr. Viola 2019. 20 Sulla stanza di Ponti, si veda il saggio di Dellapiana in questo volume. 54 Paola Cordera 2. Carlo Mollino, Mostra Musei U.S.A. pranzo-soggiorno di una casa modesta, china su carta da lucido, 1950 gli oggetti erano raggruppati per classi tipologiche e gruppi merceologici omogenei – era stata sollecitata la massima semplicità di installazione, proprio per facilitare i ripetuti montaggi e il trasporto. Da questa precisa esigenza discendevano perciò molti dei disegni “parlanti”, (fig. 2) in cui le parti scritte integravano soluzioni grafiche e i dettagli costruttivi – che potevano essere relativi alla pavimentazione, al rivestimento parietale, o alle modalità con cui fissare alcuni elementi – erano redatti tenendo in considerazione le diverse fasi di assemblaggio e il trasferimento “dall’Italia all’America e poi da una città all’altra degli Stati Uniti”.21 Ai designer di tali “ambienti arredati” era stata lasciata la massima libertà rispetto alla scelta dello stile da adottare tanto per l’ambiente, quanto nella selezione gli oggetti da collocare. L’unico aspetto sui cui si era insistito era che “non [erano] desiderati oggetti antichi e copie fedeli di tali”.22 Si voleva insomma guardare al nuovo. Ognuna delle boîtes à exposer – vere e proprie vetrine alla scala architettonica – era aperta su un lato in modo da permetterne l’apprezzamento da parte del pubblico a cui, molto comprensibilmente, sarebbe stato precluso l’accesso. Più circostanziate, ma improntate a una certa flessibilità, le indicazioni relative alle dimensioni: 21 Precisazioni e dettagli allegati alla corrispondenza di Ramy Alexander (per conto della CNA), all’architetto Carlo Mollino, 31 dicembre 1949. FCM, cart. 2.6. 22 Ibidem. Molto più di una mostra d’arte 55 Lo spazio disponibile sarà di c.ca m2: 13,5, vale a dire, p. es. 4,5X3 oppure di proporzioni diverse, sempre però nei limiti della superficie indicata e tenendo conto che la lunghezza massima non può superare m. 5,40 (la larghezza o piuttosto la profondità massima sarebbe in questo caso di m. 2,50) e la profondità non può superare m. 4 (corrispondente alla lunghezza di c.ca m. 3,37.23 La piena fiducia nella riuscita dell’impresa era tale che già nel report stilato a seguito di una prima ricognizione effettuata in Italia al fine di selezionare i pezzi da esporre negli Stati Uniti (1949), Rogers aveva espresso l’auspicio di poter esporre i five interiors alla Triennale di Milano nel maggio del 1950.24 La “scandalosa” posticipazione dell’“unica manifestazione internazionale del genere riconosciuta periodica ufficiale europea (cioè mondiale)” – era questa l’opinione di Gio Ponti25 – avrebbe vanificato l’esito di questa iniziativa. Non vi è dubbio che gli “ambienti arredati” costituissero la parte più originale dell’esposizione, in termini di concezione ma anche di display: a loro era stata infatti affidata la funzione di rappresentare il nuovo modo italiano di concepire l’architettura d’interni. A tal fine, erano stati predisposti secondo un’impostazione che si richiamava a un modello espositivo d’ambientazione, il cui prototipo può essere ricondotto ancora una volta al Musée de Cluny e agli allestimenti museali epigoni imperniati sulle period rooms.26 Secondo analoghi principi e per offrire una vera esperienza immersiva, nelle sale espositive era stato limitato l’uso di elementi che potessero richiamare il contesto musealizzato, interferendo con l’aura dello spazio. Con questa logica si ritiene debbano essere valutate le numerose attività organizzate dai vari istituti per rapportarsi a diversi tipi di pubblico e completare l’esperienza museale. Nei giorni dell’esposizione, ad esempio, il Museum of Fine Arts di Houston predispose non solo conferenze ma anche laboratori didattici, accompagnati da dimostrazioni pratiche riguardanti specifiche lavorazioni artistiche. Sulla scorta delle riflessioni elaborate da John Dewey negli anni ’3027 e analogamente a quanto sperimentato al Walker Art Center di Minneapolis (Minnesota) nel decennio successivo,28 si tentava in questo modo di rafforzare la valenza educativa della visita museale attraverso una modalità di apprendimento, 23 Ibidem. M.R. Rogers, Italian Contemporary Industrial Arts. 1949. BMA, Records of the Office of the Director (Charles Nagel, 1946-55). Exhibition: Italy at Work (1) (1949-02/1951). 25 Ponti 1950c. 26 Su questo tema e per il quadro complessivo di riferimento: Costa, Poulot, Volait 2016. Sul contesto contemporaneo: Sparke, Martin, Keeble 2006. 27 Per le prime riflessioni in merito a una esperienza didattica in cui dovevano convergere teoria e pratica, cfr. Dewey 1934. Si noti pure che tale volume venne pubblicato in Italia solo nel 1951. 28 Su questa prima esperienza espositiva di un interno domestico contemporaneo sistemato dagli architetti Malcolm e Miriam Ledi all’interno di un museo come Idea House nel 1941, cfr. Winton 2004. 24 56 Paola Cordera diremmo di learning by doing rivolta a un pubblico di non addetti ai lavori che attraverso la pratica poteva apprendere quanto nella teoria faceva difetto. Un epilogo (non proprio) inaspettato Se il racconto di un’impresa come Italy at Work ha assunto tanto nei documenti d’archivio quanto nella stampa periodica, i tratti del racconto epico – quasi a restituire le difficoltà affrontate e il compiacimento per il loro superamento – di non secondario impatto furono pure le vicende legate all’epilogo della manifestazione su cui finora non si è riflettuto se non in termini generici, probabilmente perché questi fatti, di scarso interesse generale, sono stati consegnati quasi esclusivamente alle carte della diplomazia. Se ne dà conto qui per la prima volta al fine di offrire nuovi spunti di riflessione e aprire nuove traiettorie di ricerca anche in relazione al mercato dell’arte (e al favore con cui i prodotti Made in Italy degli anni ’50 sono ancora oggi accolti alle vendite all’asta). Smantellato l’allestimento espositivo dopo l’ultima tappa di Providence (RI), il governo italiano dovette affrontare le (inevitabili) questioni relative alla liquidazione della mostra. Infatti, solo gli oggetti venduti durante la kermesse avrebbero potuto essere consegnati ai rispettivi proprietari immediatamente dopo il disbrigo delle pratiche doganali. Ragioni di opportunità economica suggerirono di evitare le spese connesse, invero di fatto non recuperabili, con la spedizione di ritorno dei manufatti in Italia. Anche i più indulgenti osservatori dovettero arrendersi di fronte al fatto che “dopo un giro di tre anni durante i quali erano stati imballati e disimballati per ben 12 volte e dopo aver percorso un giro complessivo di circa 20 mila chilometri”, 29 la maggior parte degli oggetti non potesse essere messa all’incanto (anche per via degli ulteriori oneri richiesti). A sostegno di questa posizione, non si mancava di mettere in evidenza “la lista degli oggetti rotti o irreparabili, per cui gran parte degli oggetti rimanenti – specie nel campo del mobilio, dei cuoi, dei tessili – non poteva considerarsi nuova agli effetti di una vendita all’asta”.30 Al fine quindi di evitare e ridurre al massimo ulteriori costi, si stabilì di “rimpatriare” gli oggetti che erano stati inviati in conto deposito comprendenti circa 200 pezzi ed in particolare i tessuti della casa MITA; oggetti di ferro ed ottone della CASA E GIARDINO; oggetti di raso, cuoio, ecc. della ditta FRATTEGIANI; borsette e scarpe della ditta VALENTINO; vasi stattette [sic] della ARTE ARTIGIANATO OROBICO; gran parte delle ceramiche FANL’Ambasciatore Tarchiani dell’Ambasciata d’Italia a Washington al Ministero del Commercio Estero, telespresso n.AC/916 con oggetto la liquidazione della mostra Italy at Work, 3 maggio 1954. ASD, Consolato d’Italia New Orleans 1879-1961, cart. 34. 30 Ibidem. 29 Molto più di una mostra d’arte 57 TONI (statue, statuette, soprammobili, ecc.); la ‘Lambretta’ della INNOCENTI; i lavori in pietra dura della MONTICI; le macchine da scrivere e calcolatrici della OLIVETTI, le ceramiche RICHARD GINORI, ecc.31 Circa duecento pezzi importati negli Stati Uniti in franchigia doganale in base alla clausola della “International Courtesy”32 e giudicati “di particolare valore artistico” furono infine destinati ai musei di Brooklyn, Chicago, Detroit, Toledo, Buffalo, Portland, St. Louis, Baltimora e Santa Fé. Il Foyer di Clerici venne assegnato a Detroit33 e la Sala da pranzo di Ponti al Brooklyn Museum. La cappella privata di Menghi sarebbe stata acquistata da un comitato cattolico di Baltimora per “essere offerta in dono all’Arcivescovo” della città.34 Questa operazione che potremmo definire di “diplomazia culturale,” intendeva risarcire, almeno simbolicamente, i musei per le spese sostenute per l’evento espositivo, e insieme, offrire alla produzione italiana una visibilità “continuativa” all’interno di un’adeguata sede museale che ne avrebbe così sancito il valore artistico intrinseco (oltre a quello venale). A margine della discussione circa la sorte delle opere esposte in mostra venne inoltre stabilito che alcuni oggetti entrassero nella disponibilità della Smithsonian Institution di Washington, in vista dell’organizzazione di un nuovo Italian Arts and Crafts Show. Era questa un’ulteriore occasione espositiva che, sostenuta dalla CNA, avrebbe raggiunto tra il 1955 e il 1957 alcune delle città statunitensi che per varie ragioni erano state escluse dalla manifestazione precedente e di cui idealmente prendevano il testimone.35 Per l’occasione, la selezione dei pezzi donati dal governo italiano era utilmente integrata da una cinquantina di nuovi oggetti selezionati per arricchire la collezione e soprattutto per aggiornarne il contenuto con le ultime creazioni del nostro artigianato: in complesso circa 200 pezzi – comprendenti nuovi disegni di ceramiche, lavori in vetro, tessili, lavori in metallo, cuoio, mosaici, pietra dura, lavori di intarsio, nonché alcuni pezzi caratteristici di mobilio.36 Appunto informativo sulla liquidazione della mostra Italy at Work, 30 gennaio 1954. Ibidem. I pezzi erano entrati negli Stati Uniti per conto del Brooklyn Institute of Arts and Science tra il 27 settembre 1950 e il 6 dicembre 1950. Enclosure 82958, 14 dicembre 1953, allegato d. Ibidem. 33 Detroit Institute of Arts, inv. 54.210. 34 Appunto informativo sulla liquidazione della mostra Italy at Work, 30 gennaio 1954. ASD, Consolato d’Italia New Orleans 1879-1961, cart. 34. 35 L’itinerario includeva le seguenti città: Chattanooga (Tennessee), Coral Gables (Florida), Abilene (Texas), Louisville (Kentucky), Columbus (Georgia), Duluth (Minnesota), Cincinnati (Ohio), Memphis (Tennessee), Utica (New York), Exeter (New Hampshire), Lubbock (TX), El Paso (TX), Wichita Falls (TX), Roswell (NM), Santa Fe (NM), Forth Worth (TX), Norman (OK). 36 Alfredo Trinchieri (Console Generale), “Italian Arts and Crafts” – Mostra viaggiante dell’artigianato italiano, 9 maggio 1955. ASD, Consolato d’Italia New Orleans 1879-1961, cart. 34. 31 32 58 Paola Cordera Si trattava in buona sostanza di un vero e proprio spin-off nato sulla scorta del consenso che aveva accompagnato Italy at Work. Come tale, ne aveva ereditato logiche comunicative e promozionali, oltre alla vocazione commerciale.37 Il fatto che spesso tali eventi fossero accompagnati dalla proiezione di film di promozione turistica fa pure presagire l’inevitabile impatto che l’iniziativa avrebbe potuto avere sul comparto turistico.38 Al di là dell’immagine vincente e in un certo senso omologante promossa attraverso la stampa, il resoconto più efficace dell’iniziativa ci viene tuttavia consegnato dalle vive parole dell’artista Renato Mazza di Midland (Texas). Nella corrispondenza con il Console Generale di New Orleans Alfredo Trinchieri, egli non mancò infatti di notare che in questo tipo di iniziative fosse determinante il contributo economico dei privati, come aveva potuto riscontrare in prima persona, commisurando il “successo elegante di pubblico e autorità” di Lubbock con il “disordine della sala della Mostra”, accompagnato dal disinteresse della comunità di Wichita Falls.39 In conclusione, è bene rimarcare come la storia fin qui narrata (e solo in parte ricostruita) non sia solo la storia di un successo culturale e commerciale (e dei modelli espositivi e logistici adottati), ma abbia probabilmente rappresentato uno snodo cruciale nella narrazione della promozione del Made in Italy negli Stati Uniti (e non solo). Italy at Work costituisce uno straordinario racconto corale attraverso cui è possibile rileggere gli esiti delle politiche concertate dagli organi centrali dello stato e in cui annoverare molte delle voci di coloro che – protagonisti e comparse – hanno contribuito all’iniziativa. Accanto ai nomi più noti, solo ora alcune di queste voci iniziano a farsi (ri)sentire. Rimettere in connessione i loro racconti consente di precisare e arricchire il quadro d’insieme, evidenziando, per usare le parole di Walter Benjamin, “quel gruppo definito di fili che rappresenta la trama di un passato nell’ordito del presente”.40 37 Ettore Scampicchio (Italian Trade Commissioner) ad Alfredo Trinchieri (Console Generale d’Italia), New Orleans, 19 giugno 1956. Ibidem. 38 Su queste tematiche in connessione con Italy at Work e Italy-in-Macy’s si veda Rossi in questo volume. 39 Renato Mazza ad Alfredo Trinchieri, 27 febbraio 1957. ASD, Consolato d’Italia New Orleans 1879-1961, cart. 34. 40 Benjamin 1937, p. 93 (ed. Torino 2000). Made in Italy and Made for America: Craft in Italy at Work Catharine Rossi University for the Creative Arts, Canterbury T his essay will explore how North America’s economic and socio-political dominance in the late 1940s and early 1950s, including its mobilisation of Italy as a key import market, impacted the promotion of craft both in Italy at Work and the exhibition’s accompanying retail campaigns. This builds on the author’s previous research into the significant role craft played in the development of design in Italy in the post-World War Two era,1 including in the ricostruzione of the late 1940s and early 1950s; a period in which Italy’s government, industry and design and architecture professions sought to build an industrial future for a nation still steeped in artisanal traditions and techniques. The focus on retail campaigns allies with Italy at Work’s aim to assist in regenerating the post-war Italian economy. The campaigns included Italy-in-Macy’s, held at the New York retail giant and associated department stores across the US in September 1951. Co-sponsored by the Italian Government and Macy’s and supported by the ECA, the body which managed Marshall Aid funding, Italy-in-Macy’s promised what the “New York Times” called the “largest selection of consumer products from Italy… in a single merchandising effort in this country”.2 It built on earlier initiatives such as the New York based HDI (est. 1945) and its retail outlet the HIH (est. 1947), both organisations set up by émigré Max Ascoli to rehabilitate Italy’s crafts through American consumption.3 Using archival material from Brooklyn Museum, Italy at Work’s first venue, contemporary newspaper articles and literature from craft, design and fashion studies, this essay will explore the construction and mediation of craft in three ways: first, Italy at Work’s craft focus in general; second, its idealisation of a par- 1 2 3 Rossi 2015. Italian Fair here Opened by Mayor… 1951, p. 50. U.S. Group to Aid Italian Handicraft… 1945, p. 17. 60 Catharine Rossi ticular concept of craft; and third, the design of craft objects in both Italy at Work and Italy-in-Macy’s. Italy at Work: A Renaissance in Design or Craft? Compare the exhibition’s title with its contents and the close and complex relationship between design and craft in Italy becomes clear: and rather than Italy at Work: Her Renaissance in Design Today, the exhibition should have been called Her Renaissance in Craft Today. Despite the word “design” in the title, craft materials, techniques, and traditions, including ceramics, glassware and straw work, dominated the over two and a half thousand objects on show. As this section will explore, it was not insignificant that these objects were selected by a largely American committee. This emphasis on the handmade was also evident in the catalogue, a microcosm of the larger exhibition endeavour. The catalogue contained thirty ceramic works, twenty-six pieces of furniture and a plethora of other craft products, including alabaster, jewellery, marquetry and enamelling. This is a striking contrast with the inclusion of just four industrial design objects in the catalogue: an Olivetti typewriter and electronic calculator, a Robbiati espresso machine and a Lambretta scooter. These four innovations spoke of Italy’s ambitions in industrial design, but one that was largely overlooked in the exhibition. To an extent, this craft focus made economic sense: Italy’s craft industries employed 1.5 million workers in 1949, a twelfth of its active workforce, and its limited domestic market necessitated foreign consumers.4 Italy’s government also deliberately pursued economic growth based on foreign rather than domestic consumption in this period.5 However, this focus on the handmade also denied an Italian aim for post-war growth through developing its industrial design sector, as seen in the industrial emphasis of the 1951 and 1954 Triennale di Milano,6 in favour of America’s own industrial growth. The American economy needed markets and trading partners in the immediate post-war period in order to avoid the economic downturn of its European contemporaries. However, as Italo American economist Valentina Sgro describes, it “continued to oscillate between protectionism and free trade”.7 This prevarication included concern that the ECA’s support for foreign industries created competition for American manufacturers.8 4 5 6 7 8 The Italian Handicraft Industry 1949, p. 1. Zamagni 1993, p. 327. Bassi, Riccini 2004. Sgro 2020, pp. 76-77. Amerian 2015, p. 55. Made in Italy and Made for America: Craft in Italy at Work 61 Individual and Sincere Craftsmanship Italy at Work curator Meyric Rogers abated this concern by focusing on the crafted nature of Italy’s output, in comparison to America’s industrial focus. Promoting the exhibition in “Interior Design & Decoration” magazine in 1950, he denied “possible detriment to the American craftsman and producer” as our “own craft production is insufficient to meet existing demand and the Italian production available would hardly glut our ever-widening market for handmade and individualized articles”.9 Writing in the catalogue, Rogers attributes America’s growing demand for the handmade to the second reason for the exhibition’s craft focus explored here: craft’s perceived spiritual value: In this age of industrialization it is becoming increasingly clear that the health of our civilisation depends upon a just balance between mechanized and individual creation. An economy that permits a full development of this last cannot therefore be considered backward. On the contrary, it provides an element essential to our social well being and individual sanity.10 To oppose mechanized with individual production, or rather, craft, perpetuated a moral opposition between the machine and handmade rife in industrialised economies such as the USA and UK in the late 19th and 20th centuries.11 This division was not however present in Italy, whose staggered industrialisation process facilitated the co-existence of multiple production scales.12 The exhibition’s craft focus can therefore be seen to have constructed Italy as America’s non-industrialised “other”, exposing a quasi-colonial relationship. Writing in the 1980s, the anthropologist Johannes Fabian argued that there is “no knowledge of the Other which is not […] temporal, historical, […] political”.13 Despite his defence against Italy’s “backward” reputation, Rogers’ idealistic setting up of Italy as a pre-industrial nation in contrast to his North American, industrial present constructed a conflated temporal, manufacturing, and geographical difference based on what Fabian describes as “the posited authenticity of the past […] [which] serves to denounce an inauthentic present”.14 Rogers didn’t himself use the word “authenticity” in his writings; a problematic term now if not then with its associations of primitivism and colonialist relations.15 He did however use the allied phrase of “sincerity of craftsmanship” in the exhibition selection committee’s criteria. These criteria also included “not Rogers 1950a, p. 110. Rogers 1950b, p. 14. 11 Adamson 2013. 12 Cento Bull 1993, p. 14. 13 Fabian 1983, pp. 1, 32. 14 Ivi, pp. 1, 11, 32. 15 Shiner 1994, p. 226. 9 10 62 Catharine Rossi [being] purely traditional in design”, meeting “a high standard of quality in form and color”, and not being art, a disciplinary boundary based on materials used.16 Alongside Rogers, the selection activity included the American industrial designer Walter Dorwin Teague, Brooklyn Museum director Charles Nagel Jr., and Ramy Alexander, the Vice-president of CNA, assisted by Richard Miller and Alberto Antico, associates of CNA,17 the Italian-based enterprise whose activities included promoting sales of Italian crafts in the US,18 an intermediary role I will return to in the next section. The committee used these criteria as they travelled through Italy in June 1950, meeting artists, architects and crafts practitioners and visiting showrooms and salesrooms to identify work to include in the exhibition. The catalogue features several photographs of the practitioners they encountered, and they serve as a useful medium for discerning the construction of craft in Italy at Work. It included headshots of the five architects who designed the exhibition’s room sets, including Gio Ponti19 and Fabrizio Clerici, and eight photographs of crafts practitioners. Towards the front was the cabinetmaker Enrico Bernardi, pictured with the selection committee in the courtyard of his Bolognese workshop, and the ceramicist Guido Gambone. Bernardi and Gambone both featured heavily in the exhibition’s publicity; Teague described Bernardi as “one of the greatest Italian craftsmen of today”20 while Rogers praised Gambone for “representing extremes of individual accomplishment or experimentation”.21 Notably, while different in material and mode of expression, Gambone and Bernardi shared a focus on solo produced, self-initiated and one-off object production; the individualism that Rogers championed. At the back was a double page spread of six crafts practitioners: the furniture maker Guglielmo Pecorini, ceramicist Victor Cerrato, metalworker Alessandro Staccione, enamellist Paolo De Poli,22 an unnamed worker in the Venini factory, and textile designer Irene Kowaliska. Notably, there are no photographs of the workers behind any of the industrial designs in the exhibition in the catalogue; this clearly did not fit into the exhibition’s concept of craft, however much these firms’ production depended on skilled craftsmanship. There is also a clear difference in the representation of architects and crafts practitioners; the former are all disembodied headshots, asserting a cerebral and hands-off idea of architecture. The latter all depict embodied makers at work, typifying a view of craft as a physical, rather than intellectual, activity deeply 16 17 18 19 20 21 22 Rogers 1950b, p. 17. Teague 1950c, p. 145. The Italian Handicraft Industry 1949, p. 1. On Ponti, see Dellapiana in this same volume. Teague 1951a, pp. 9, 11. Rogers 1950b, p. 31. On De Poli, see Filippini’s essay in this book. Made in Italy and Made for America: Craft in Italy at Work 63 connected to its place of making. While their media, tools and settings are all different, the photographs communicate a shared vision of the Italian crafts practitioner: mostly male, solitary, head bowed in concentration, manipulating materials either directly with their hands or with simple tools. In the catalogue Dorwin Teague described the disconnect of these makers’ humble settings and the quality of work produced. He writes of the “whitewashed pair of dungeons where Victor Cerrato had found cheap quarters to exercise his extraordinary gifts”23 and the “dingy rear courtyard” with its “bomb-blasted walls” where Bernardi was making “tiny compositions that de Chirico […] can scarcely surpass”. Teague noted that there was no demand for Bernardi’s intarsia cabinets – mending chairs was his main activity – but he made them nonetheless, due to “an inner urge that wouldn’t be satisfied elsewhere”.24 These depictions typify what craft historian Glenn Adamson25 identified as romanticized and selective representations of the lone craftsperson, a construction evident in the contrast between the photographs in the catalogue and broader set depicting Italy’s makers in Brooklyn Museum’s archive that did not make it into the catalogue. Including glassblowers, furniture makers, plaster and tortoiseshell workers, these depictions undo the myth of the solitary maker and instead show crafts practitioners working collaboratively, engaging with machinery and working on the production of multiple objects. The absence of these craft representations in the catalogue point to a desire to communicate Rogers’ idea of sincere craftsmanship as founded on a largely low tech, single authored endeavour. Ironically, in the bid to promote a sincere craftsmanship the exhibition presented a partial, and slightly disingenuous, vision of Italian craft. Designing Craft for Display and Consumption This idea of single authorship leads to the third way craft was manipulated in Italy at Work and Italy-in-Macy’s. The craft presented was not necessarily designed by the maker, but by an external figure. This was true in post-war Italy more generally, where artists and architects such as Ponti sought to bring modern design to Italy’s craft traditions.26 This differed however to the exhibition’s explicitly export market focus that sought to Italy’s craft production for the American consumer. This was driven by what Regina Lee Blaszczyk and Véronique Pouillard,27 writing about fashion history, call intermediaries; buyers, merchandise managers, trendsetters and other behind-the-scenes figures who made choices about materials, 23 24 25 26 27 Teague 1950b, pp. 9-10. Ibidem. Adamson 2007. Rossi 2015. Blaszczyk, Pouillard 2018a, p. 5. 64 Catharine Rossi design, and price points, influencing the everyday making and economic fortunes of Italy’s craft practitioners. This filtering and shaping of craft were also present in Italy at Work: perhaps the exhibition’s subtitle should have been Her Renaissance through Craft Today, given the emphasis on transforming the design process and quality of Italy’s crafts. The straw work section included a tablecloth, sets of table mats, and a glass pitcher and glasses all selected from CNA’s Florence showroom, and a CNA representative travelled with the exhibition to inform the American public how to purchase such goods. Other products were selected from the showroom of APEM, an acronym for Artigianato Produzione Esportazione Milano. Finally, some of the artisans in the exhibition were represented by the entrepreneur Giovanni Battista Giorgini, better known for promoting post-war Italian fashion, who had been working with American department stores to export Italian crafts since the interwar period.28 Italy’s post-war export craft had also already been shaped by the activities of HDI. In 1948 the HDI had surveyed American retail outlets to find out American consumers’ preferences in Italian crafts, and so determine the distribution of raw materials. It identified ceramics as the most popular medium, and a preference for bright colours, original and unusual appearances, and “traditional design”,29 the last quality the opposite to Italy at Work’s preference for being not purely traditional. This fed into the objects made to be sold in the Piazza, the store set up by the HIH a year later, which included painted ceramic jam jars and salt and pepper shakers in the shape of “miniature Chianti wine bottles”.30 This construction of craft commodities for American tastes was most evident in Italy-in-Macy’s, held over a 15-day period September 1951. It contained over 1,000 articles made by over 400 Italian artisans valuing over a million dollars.31 Taking eighteen months to prepare, Italy-in-Macy’s copywriters, another of the intermediary characters Blaszczyk and Pouillard identify, billed it as a celebration of Italy’s “Second Renaissance” that the “unique Italian arts and skills are creating in that historically lovely, fertile and ingenious land”.32 But it wasn’t just uniquely Italian arts and skills involved. Macy’s advertising promoted the fact that the goods were the result of over thirty buyers and stylists “working on-the-spot, hand-in-hand with the best of Italy’s father-to-son craftsmen”.33 This involved “a refinement, or ‘toning down’ of the ornateness and florid finishings popular Stanfill 2018. Pottery Put First in Italian Lines… 1949, p. 36. 30 Display Ad 90 1950, p. 36. 31 Italian Fair here Opened by Mayor… 1951, p. 26. 32 Macy’s and the Italian Government, as co-sponsors, invite you to ITALY-IN-MACY’S, U.S.A, Brooklyn Museum Archives, Records of the Office of the Director (Charles Nagel, 1946 - 55), Exhibitions: Italy at Work, 1951-1952. 33 Ibidem. 28 29 Made in Italy and Made for America: Craft in Italy at Work 65 with many Italian artisans” which was accomplished “through tactful and patient coaching of Italian artisans and workers”.34 The results of this “toning down” included a calfskin handstitched handbag, a Lenci doll, earthenware boots for use as an umbrella stand or vase, a leather poodle collar and leash, lengths of patterned cotton fabric, a Luciana painted plate; silk umbrellas and ties, a Venetian glass nativity scene, a Venini harlequin vase, leather and cotton backless slippers, and a ceramic knight. With their emphasis on miniatures, novelties, traditional styles, quality materials and craftsmanship, the merchandise conforms to what craft writer Gloria Hickey identifies as a key way craft exists in a consumer society – as a gift.35 More specifically, aimed at a foreign market, they exemplify what Hickey calls “souvenir” or “tourist” craft, a simple, accessible,36 often clichéd material culture that can create what the critic Susan Stewart identifies as a “market of goods distinct from authentic traditional crafts”, one “often characterized by new techniques of mass production”.37 The goods’ souvenir status is affirmed by Italy-in-Macy’s scenography. Designed by graphic designer Erberto Carboni, Italy-in-Macy’s occupied the store’s entire fifth floor. It included models of Christopher Columbus’ ship and St Peter’s Cathedral, a full-sized Venetian gondola, a Sicilian donkey cart with paintings of Harry Truman and Marshall, sections with themes such as the Renaissance and “contemporary simplicity”38 and food stalls serving Italian delicacies (fig. 1), as well as craft demonstrations. Craft demonstrations are another way 1. Customers in Italyin-Macy’s gathering around the food stand in the retail campaign held at Macy’s in New York in 1951. The design of the stall drew on Italian tropes and decorations 34 35 36 37 38 Ibidem. Hickey 1997, p. 85. Ivi, p. 93. Stewart 1993, p. 148. Amerian 2015, p. 64. 66 Catharine Rossi craft is constructed for tourist markets; but just like the photographs in Italy at Work these only ever offer partial and idealised visions of the messy, collaborative reality of craft production.39 Also present was a booth of the Italian State Tourist Bureau, where individuals could ask about holidays in Italy.40 Given the prohibitive cost of international tourism in the early 1950s, and the display’s focus on lower cost goods than Italy’s craft at the time was known for, Italy-in-Macy’s provided an affordable opportunity for vicarious travel through the goods on display, albeit to a partial, imagined and stereotyped view of the country. A cliché it may have been, but Italy-in-Macy’s was hugely successful. It reported over 750,000 people attended, and that most of the stock sold out in the first two days, so they had to send over replacements from Italy.41 This detail is intriguing: the author-led, one off and small-scale scales of craft production presented by Italy at Work doesn’t square with the ability to produce on mass, at speed, and on demand the amount of craft products needed to stock and restock Macy’s and the initiative’s twenty participating department stores.42 One detail that does help explain comes from the artisans brought over to give craft demonstrations, including the ceramicist Fosco Martini and Alpine woodcarver Giovanni DeMetz. According to the “New York Times” Martini operated “somewhere between one-of-a-kind art objects and mass-produced items” 43 and DeMetz had a “speed and precision” that was the “nearest thing to a non-mechanized production line”. Arguably Italy-in-Macy’s was only possible due to this semi-mechanized form of craft; a legitimate mode of craft production, but one that showed up the difference between the idealisation of one-off makers in the exhibition setting of Italy at Work and the economic reality of Italy-in-Macy’s commercial space. This short essay has sought to show how Italy at Work and associated ventures presented highly constructed and selective images of Italy’s craft culture, ones driven by America’s post-war ideological and institutional aims. Such acts were done to ensure that Italy’s crafts practitioners had a viable economic future, yet they raise questions about the agency, autonomy, sincerity and authenticity of what was displayed. A next step would be to explore this economic reality in greater depth, and the business models and multiple intermediaries who brought Italy’s goods to the international stage. Already this short study reveals how the international presence of Italy’s post-war creativity in people’s homes was closer to the souvenirs of Italy-in-Macy’s than the modern design on display at the Triennale in Milan. 39 40 41 42 43 MacCannell 1999, pp. 6, 37. Amerian 2015, p. 64. Ibidem. Ibidem. Italian Fair here Opened by Mayor… 1951, p. 26. Just What Is It That Makes Italian Ceramics So Appealing? Lisa Hockemeyer Kingston University, London and Politecnico di Milano T wo years after the much-anticipated opening of the Italy at Work exhibition hosted first by the Brooklyn Museum of Fine Arts in New York in November 1950, Italy’s ceramic export to America reached an all-time height.1 Exports of decorative and ornamental ceramics to the United States had increased steadily between 1949 and 1952 and accounted for 18 percent of the total national production of the so-called piccole industrie between 1949 and 1958. Just then, at the highpoint of commercial triumph the first critical voices were being heard amongst Italian critics remarking on the fine balancing act Italy’s small and medium scale ceramic industry had to maneuver to maintain the aesthetic characteristics that made Italian ceramics appeal to the American market.2 In October 1952, the critic Luigi Gozzini assesses the compulsory aesthetic features required for Italian ceramics to uphold the profitable contemporary export. His article Espressioni artistiche in funzione dello sviluppo delle esportazioni (The Function of artistic expressions in the development of exports) states that besides a certain degree of functionality, the ceramic product needs to display “character, definite individuality and obvious italianità”.3 Italianità, he holds the key to commercial success for the foreigner seeks to acquire “the sign of tradition, the colour of earth” and he cites a journalist who observed that: “in Italy ceramics are like her wine, her therapeutic baths, her poetry and popular songs, all those numerous peculiar regional signs 1 For all following statements and economic data regarding Italy’s ceramic exports see Hockemeyer 2008, pp. 292-355 and Hockemeyer 2014a, pp. 127-128. 2 Gozzini 1952, pp. 54-56. 3 Ivi, p. 56. In aesthetics, the concept of italianità can be described as a distinctive Italianate aesthetic that, seeking to convey the idea of a total culture which, embodying the vision and ethos of the Italian people as a whole, succeeds at visually expressing the links between culture and society in its material production. Hockemeyer 2008, p. 395. 68 Lisa Hockemeyer for which the ‘Bel Paese’ is truly a kaleidoscope of stylistic difference, of ways to feel, of unrivalled richness in artistic ideas […]”.4 Whilst Gozzini claims Italian ceramics’ association with art to be the strongest marketing tool on the foreign market he also advises Italian ceramicists and artists to self-consciously immerse themselves in their own traditions and to visually express the links between Italian culture and society.5 The aesthetic characteristics Gozzini regards vital for the successful export of Italian ceramics’, including character, individualism, italianità, signs of tradition, diversity and richness of artistic ideas recall the array of stylistically differing ceramic objects on display at Italy at Work. According to Walter Dorwin Teague, one of the four members of the selection committee, the exhibited ceramics were admired for their individuality, their stylistic diversity and their celebrated “unrivalled richness in artistic ideas”.6 These qualities, he held, accounted for part of the image package that made Italian ceramic wares so appealing to the American market.7 This contribution claims, that the selection process applied to the ceramic items chosen for the Italy at Work exhibition has played a considerably part in shaping the American consumer’s taste for decorative Italian ceramic wares and in promoting and commercialising Italy’s extensive and stylistically heterogenous manufacture at home best. It helped create a new export market and contributed to the economic growth of the entire Italian ceramic manufacturing sector following the event.8 This paper reflects first on the reasons that account for the vast inclusion of Italian ceramic manufacture at the Italy at Work exhibition in relation to the scopes and aims of the initiative and in the wider context of efforts to revive Italy’s handicraft industries. It will review the criteria and selection process applied to this sector as well as the qualities single ceramic objects were chosen for. This will unravel the characteristics of Italian ceramic manufacture that were believed to account for its popularity in America. Finally, it will consider their role played in the promotion and commercialisation of the same and in the generation of an image package that united Italy’s tradition of art and culture with a new, freer, and less hierarchical approach towards style and lifestyle and which often transcended and brought together different product categories. 4 5 6 7 8 Gozzini 1952, p. 56. Ibidem. Teague 1950b, pp. 145-149. Ibidem. For further information see: Hockemeyer 2014a, p. 132. Just What Is It That Makes Italian Ceramics So Appealing? 69 The Run-Up to Italy at Work : Thinking Pragmatic – Envisioning Ceramics According to contemporary newspaper accounts, the Italy at Work exhibition was eagerly awaited by New Yorkers and had taken the city by storm by the time it opened. At its closure in Brooklyn, it was reported that the exhibition was a success. It was well attended and led to a growing interest in Italian craftsmanship and goods among American buyers.9 It was fortunate for the consumers at the time that, contrary to initial reports claiming the show had primarily educational and cultural intentions, design critic and journalist Betty Pepis leaked just before the opening that “many objects will soon be on view, [and] available in New York in the Piazza of the House of Italian Handicrafts (HIH) and [department stores] Abraham & Strauss and Lord and Taylor”.10 In fact events leading up to the exhibition suggest that it was clear from the start that the scope of this itinerary show, which would travel to further eleven other locations in the United States, was commercial in nature and a follow up of earlier attempts to kickstart the Italian economy post World War II (fig. 1).11 1. Meyric R. Rogers with visitors at the Italy at Work exhibition in Chicago, 1951. Installation view of Italy at Work: Her Renaissance in Design Today, The Art Institute of Chicago La Mostra dell’Artigianato Italiano a Brooklyn 1951, p. 15. Pepis 1950a, p. 25. 11 See Hockemeyer 2014a. 9 10 70 Lisa Hockemeyer Economic expectations account for one of the main reasons why the selection committee strongly favoured ceramic works for display at the Italy at Work exhibition. The Italy at Work board’s choices reflect earlier visions of influential Italo-American political theorist Max Ascoli, since 1943 visionary and key figure in Italy’s post-war reconstruction, as well as the opinion held by the Italian Institute for Foreign Trade already in 1945 which declared Italy’s handicraft industry to be its “greatest asset in providing the means to revitalize the Italian economy as economic normalcy gradually returns to the world”.12 Ascoli and the Italian Institute for Foreign Trade joint efforts with, and in some instance also inspired or founded other private and institutional bodies on both sides of the Atlantic, including APEM, ENAPI in Italy, and HDI, founded in 1945, as well as its promotional and commercial exhibition space HIH, opened in New York in 1947. All these focused on pragmatic rather than idealistic solutions and trusted that the craft manufactories promised the faster results needed to boost the Italian economy after World War II than investing in the rehabilitation of large-scale industries.13 Besides economic advantages, it was believed that the Italian handicraft industries not only represented “marked possibilities of expansion with maximum advantage to individual workers in Italy and ‘minimum dangers to the American economy but that reviving the handicraft industries, also ‘offered a strong bulwark against communism’”.14 Ground-based research undertaken for exploring and selecting the approximate 2,500 artifacts of the finest of Italian decorative and industrial arts destined for display at the Italy at Work exhibition and their introduction to the American consumer market confirmed previous expectations that aid programs to Italy’s craft communities would be of significant socio-economic and demographic impact.15 The task of sourcing and selecting the objects was left to industrial designer Walter D. Teague, Meyric R. Rogers of the Art Institute of Chicago, Charles Nagel jr., Director of the Brooklyn Art Museum and Ramy Alexander, Vice-president of the CNA in Rome. Touring the peninsula including Sardinia and Sicily they experienced Italy’s production reality first-hand.16 They encountered a vast ceramic production infrastructure of artisanal small-and medium scale ceramic workshops and manufactories making it Italy’s geographically most widespread sector in the immediate post-war years as well as stylistically its most diverse and heterogenous area of manufacturing, as local workshops betrayed century-old local traditions.17 Numbered in the hundreds and scattered over all regions, this 12 Max Ascoli citing the Italian Institute for Foreign Trade in 1945. See Hockemeyer 2014a, p. 132. 13 For discussions of the significance of the handicrafts industries to Italian proto-design see also: Sparke 1998; Carpenter 2006; Hockemeyer 2008; 2014a; 2014b. 14 See Handicraft Lines Recover in Italy… 1948, p. 37. 15 Sparke 1998; Carpenter 2006; Hockemeyer 2008; 2014a. 16 Teague 1950b; Rogers 1950b, pp. 28-32; Pepis 1950a, p. 25 and Pepis 1950c, p. 16; Hockemeyer 2008, p. 315. 17 Hockemeyer 2008, pp. 125-211. Just What Is It That Makes Italian Ceramics So Appealing? 71 sector demonstrated enormous potential to restart production and to regenerate local communities following the hardships of World War II. Operating woodfired kilns and accustomed to make-shift methods, small scale workshops and manufactories proved far more versatile, responsive, and adaptive to resume some kind of activity than larger enterprises and were among the first to take up production after the war.18 Previous research undertaken by the above bodies for planning and carrying out distinctive aid programs to help Italy’s small and medium scale craft sectors revealed that ceramic manufacture was considered one of the most suited production sectors to achieve economic results and social and political stability fast. This was reflected in promotional publications, such as the English language catalogues Handicrafts of Italy and Italian Ceramics, published by the Italian Institute for Foreign Trade and ENAPI at the suggestion of CNA in the late 1940s and in 1954 respectively.19 While Handicrafts of Italy paid significantly more attention to ceramics than to the other thirteen product categories it discussed, reconfirming their pre-eminence among Italy’s craft sectors, Italian Ceramics introduced over 360 artisans, artists, ceramicists and small and medium scale manufacturers, including their addresses to facilitate access and direct communication.20 Publications like these have contributed towards disseminating information and creating contacts between Italian manufacturers and American wholesalers and shops. Assessments undertaken such as the large-scale Survey Conducted for Italian Goods carried out by the HIH and based on 4,000 questionnaires sent out to retailers throughout the United States in Spring 1948, on the other hand aimed at perfecting trade relationships.21 Mrs Gertrude A. Dinsmore, director of trade relations for HIH held that “only by receiving factual answers from the stores can this questionnaire provide the information needed by the Italian corporation for its work”.22 Scopes were twofold: whilst the questionnaire aimed at understanding which Italian artisanal merchandise had the widest American appeal and greatest potential for export to enable the Italian handicraft industries to successfully repay the Export-Import Bank, it also impacted on the amount of help and raw materials allocated to the singular craft industries.23 Much help was indeed allocated to the Italian ceramic manufactories. Shortly before, in November 1947, the article Heirs of Cellini: The traditional Italian handicrafts are reviving, thanks to American aid reported about a tailormade aid program aimed at “restoring the workshops in Faenza, cradle of the ceramic art”.24 It reports that 18 19 20 21 22 23 24 See Hockemeyer 2008, p. 132. Handicrafts of Italy 1948; Italian Ceramics 1954. Ibidem. Survey Conducted for Italian Goods 1948, p. 31. Ibidem. Ibidem. Ellis 1947. 72 Lisa Hockemeyer “seven large electric kilns had been donated to each of the five surviving craftsmen, including Pietro Melandri and to two of the town’s bombed out artisans, in addition to two large electric kilns for the cooperative”. Further, “a substantial sum of money was contributed to initiate a fund for the redevelopment of the art of ceramics in Faenza [and] a contribution was made to re-equip the art school”.25 A year after the first evaluation a follow-up survey completed by HIH ascertained that, of all Italian merchandise, “pottery ranked first in importance of Italian handicraft merchandise carried by American stores”.26 It confirmed that of all Italian produce ceramics had the greatest appeal to the American buyer and therefore the greatest chance for increased imports. The survey concluded that decorative ceramic wares were sold by 62 per cent of American department stores and 70,5 percent of the gift shops.27 In view of the “attractive merchandise which he and Mrs. Brewster saw in Italy”, the then senator, and Republican of Maine showed much confidence and suggested that, to solve the dollar exchange problem, one simply needed “to let 1,000,000 American women loose to buy [Italian merchandise]”.28 His opinion not only highlights the presumed role of the American woman as homemaker but calls for an analysis of the kind of goods that were believed to suit the American female but also male tastes, quite likely influencing the selection of objects chosen and displayed at the Italy at Work exhibition. A Somewhat Ambiguous Selection Process Considering the high hopes of expected sale results that anticipated the Italy at Work exhibition, it does not surprise that the selection committee strongly favoured ceramic artifacts for display. The list of seventy-one ceramic designers and makers, as they were called in the accompanying publication, even if they were sculptors or painters, outnumbered those representing all other manufacturing areas and was followed only by the textile and embroidery sector, which was represented by forty-two contributors.29 The protagonists, it was pointed out in the official exhibition catalogue, “often also execute the object, while the producer can be considered the owner of the kiln”.30 Their individual one-off pieces were shown alongside the production of small and medium-sized manufactories such as Zaccagnini in Florence and C.A.C.F. in Faenza and two larger factories, the Società Ceramica Italiana 25 26 27 28 29 30 Ibidem. Pottery Put First in Italian Lines 1949, p. 36. Ibidem. Ibidem. Ivi, pp. 65-66. Rogers 1950b, p. 63. Just What Is It That Makes Italian Ceramics So Appealing? 73 Laveno and Richard Ginori from Doccia, Florence.31 The variety of ceramic items selected by the exhibition committee was so great that, apart from originality of design, quality of execution and craftsmanship, no discernible selection criteria was evident (fig. 2). The visitor would come across all different types of colourful objects including tableware, vases, mirror frames, figurines, decorative plates, wall panels, fireplaces and even sculptures of various themes and decorated in every possible style and phantasy imaginable. Of all the categories of objects presented at this major collective exhibition, the spectrum of pottery manufacture chosen by the selection committee resulted the most heterogeneous category of goods on display. It reflects Italy’s vast production infrastructure and its stylistically diverse and heterogenous nature but also the ambiguous directions that governed the selection process stating that “Any object could be chosen regardless of use or material provided it was not purely traditional in design and satisfied a high standard of colour in relation to its material and purpose”.32 This direction supported Italy’s small and medium scale ceramic workshops and artists’ strongest, yet most difficult to commercialise characteristics: individuality, versatility, and diversity. 2. Exhibition display of ceramic items shown at the Italy at Work exhibition, Chicago, 1951. Italy at Work: Her Renaissance in Design Today, The Art Institute of Chicago 31 32 Ivi, pp. 63-64. Ivi, p. 17. 74 Lisa Hockemeyer Furthermore, to accommodate artistic ceramics, the selection committee also deliberately blurred the boundaries between figurative or functional objects. While fine art was excluded from the scope of the exhibition, the board selected a substantial number of artistic ceramics on the justification that “it was sometimes difficult to tell that a specific piece of pottery, for example, was not art; if, on the other hand, it was made of ceramic and not bronze or marble, we considered it admissible”.33 Sculptural works by artists like Lucio Fontana, Agenore Fabbri, Leonardo Leoncillo or Fausto Melotti were exhibited alongside objects of daily use by the same authors and next to others, including artefacts such as jugs and planters by Guido Gambone or Andrea Cascella which, although considered objects of common use, had no practical use, sacrificing function for expressive values of form, colour and content. Dissimilar in aesthetics and made by sculptors, painters, ceramists, designers or decorators, the ceramic exhibits displayed sophisticated artistic, aesthetic and artisanal values, sometimes of whimsical nature, but thoroughly modern and Italianate in form or subject matter. Next to liturgical items, objects took inspiration from vernacular, folkloristic and popular Italian ceramics and culture, reinterpreting archaism or primitivism or were based on contemporary artistic research in figurative and non-figurative abstraction.34 “Heirs of Cellini” to Bring Art, Colour, and Lifestyle into the American Home The Italy at Work selection committee’s ambiguity about functional objects and sculptural ceramic art reflected and accommodated contemporary discourses on American taste for ceramic merchandise. Italian ceramics embodied heritage, fine art, colour, and a sense of lifestyle. In 1948, art historian and then curator of applied arts at the M.H. de Young Memorial Museum in San Francisco Elisabeth Moses referred to the English critic Herbert Read’s definition of pottery as art,35 claiming that American society, used to the aesthetics of mass-manufactured, streamlined products is more likely to consider objects as works of art than European society.36 In her article Appreciation of ceramics in the United States, she held that pottery appealed to the contemporary American’s concept of beauty and art as “the aesthetic values comprehend material, technique, form and decoration, the very factors that make a work of art”.37 She further held that the American consumers’ sense for economic pragmatism to combine art with useful purpose added to the appeal of pottery objects. Teague 1950b, p. 145. The many different artistic languages that emerge in Italy during the early post-World War II years have been analysed in Hockemeyer 2008, pp. 125-211 and in Hockemeyer 2009. 35 Read 1931. 36 Herbert Read cited in Moses 1948, p. 55. 37 Ibidem. 33 34 Just What Is It That Makes Italian Ceramics So Appealing? 75 Referring to statistics which “prove [that] painting and sculpture are not yet an organic part of the American economy” she argued that the potter’s “products are integrated in everyday life; they are useful articles. The average price makes widely possible the modest luxury of owning a handmade pitcher and sugar bowl, a flower vase, or a cooky-jar, in brief: an individual piece”.38 Her appreciation of the individually crafted ceramic object echoed the title of the Handicraft as a Fine Art in Italy exhibition organised by HDI in 1948 preceding the Italy at Work show by two years.39 It is only speculative to suggest that in the face of America’s want for her very own tradition of modern art and its scholarship which started only in the early 1940s, the lack of a widespread practice of collecting modern painting and sculpture made the American more likely to imbue ceramic objects with fine art connotations than the European. On a more mundane level, Moses held that it was the “‘colorful glaze’ decoration of modern pottery that accounts for its appeal and popularity in America as it ideally suits the contemporary modern American interior where the quality and hue of every color spot has gained new importance, and people have become increasingly color-conscious”.40 The American’s appreciation of colour was a recurring theme and Italian articles reported on “the stream of sympathy and interest shown by the American public for our ceramics which are admired for their beauty in colour, their originality and their elegance in design”.41 This formed part of a larger image package that transcended several Italian consumer commodity sectors, particularly Venetian glassware and fashion. Like easy-to-wear informal, colourful and bold-printed Italian fashion was held to project young, light-hearted, and bohemian ideals mixed with a nostalgic idea of a warm, romantic and sun kissed country and her people, so Moses considered pottery the most desirable interior object of her time and ideally suited to the American outdoor and leisure lifestyle.42 References to fine art, colour, and artisanal traditions but also to italianità seemed to perfectly accommodate the American consumer’s search for a freer and less hierarchical approach towards style and lifestyle and account for the continuous appeal of Italian ceramics long after their celebratory presentation at the Italy at Work exhibitions.43 Ivi, p. 57. Handicraft as a Fine Art in Italy 1947. 40 Ivi, p. 55. 41 Cited in Rapporto sulle esportazioni 1954, p. 58. 42 For further information on the perceptions of Italian fashion in the USA post-war and its repercussions on the Italian fashion system see White 2000. 43 Rapporto sulle esportazioni 1954, pp. 57-58. 38 39 76 Lisa Hockemeyer Conclusion To the organisers Italian ceramics held a special position superbly meeting the selection criteria and objectives of the exhibition Italy at Work. The selection committee’s ambiguous guidelines accommodated a vast spectrum of pottery manufacture which hugely diverse in aesthetic and purpose resembled and represented Italy’s ceramic production at home and helped to create a homogenous market for heterogenous ceramic merchandise in the short term, generating immediate economic and social relief to many regions in Italy. The intentional blurring of the traditional boundaries between figurative art or functional objects played an important role in the success of the exhibition and contributed considerably to the growth of the image that would represent the ideals linked to the Made in Italy brand. Finally, the perceptible synthesis of avant-garde ideals, craft traditions and popular culture that accounted for Italian ceramics’ popularity in the early post-war years seemed difficult to handle by many Italian ceramists and craftsmen later.44 By the end of the 1950s Italian ceramic wares took on clearly differentiated roles of art, craft, design, and kitsch. 44 Gozzini 1952, pp. 54-56. Una “sala da pranzo che è più da guardare che da usare” Elena Dellapiana Politecnico di Torino Caro Alexander, dall’America mi giunge da parte di una Ditta una richiesta per un mobile che essi hanno visto sul volume “Arredamento” edito di Hoepli, molti anni sono. Il mobile stesso è di 15 anni sono. Questo le dà la misura di come poco conoscono le nostre cose, di come si servono ancora di vecchie edizioni, di come sarebbe stato utile il numero di Domus che ci proponevamo di fare. Si rimetta in moto o veda di venirne a capo. Ne scrivo a Sgroia. È un interesse anche per la Compagnia.1 C osì scrive Ponti a Ramy Alexander nel 1948. Il tono confidenziale, e una certa assertività – tipica del Nostro a dire il vero –, suggeriscono una continuità di rapporti tra l’architetto milanese e il vicepresidente della CNA, a cui appartiene anche Sgroia, altro corrispondente abituale di Ponti. Senza voler attribuire troppo valore a questo breve cenno, è difficile non intravedere un’idea, se non un’azione, prodromica a quanto avverrà neppure due anni dopo, tra aprile e giugno, quando Alexander, insieme a Walter Teague, Meyric Rogers e Charles Nagel jr., percorrerà in lungo e in largo la penisola alla ricerca dei pezzi da esporre in Italy at Work.2 L’interesse di Ponti per l’evento nordamericano è comunque ampio. Ancora a Lombardo si rivolge nel luglio del 1950 tornando sull’uso di “Domus” come possibile cassa di risonanza presso il pubblico italiano per la mostra ancora da aprire e come strumento di accompagnamento dell’itinerario che i prodotti italiani si accingono a compiere nelle sue diverse tappe. In questo modo, dice Ponti a Lombardo, l’azione di divulgazione “che non ha secondi fini”,3 darà Lettera di Ponti a Ramy Alexander del 24 settembre 1948; GPA, Corrispondenza. Ringrazio Paolo Rosselli per l’accoglienza e la disponibilità. 2 Teague 1950c. 3 Lettera di Ponti a Ivan Matteo Lombardo nella sua veste di Presidente della CNA del 22 luglio 1950, GPA, Corrispondenza. 1 78 Elena Dellapiana lustro alla mostra stessa, all’istituzione che la promuove e alla rivista “che da più anni e con maggior passione e validità rappresenta e lancia queste produzioni italiane”. Two birds with a stone, dunque, e Ponti, informato che gli americani stanno fotografando tutti gli oggetti raccolti a Firenze per essere spediti a New York, chiede di riceverne i cliché per stamparli in un numero (o un numero doppio) interamente dedicato da utilizzare come catalogo, con testo e didascalie in inglese. Come sappiamo il tentativo – articolato con precisione millimetrica – non va a buon fine, il catalogo viene gestito dal versante americano, per quanto stampato sotto l’egida dell’Istituto per il Commercio Estero, e Ponti farà il “suo” numero di “Domus” con un ampio servizio nel dicembre del 1950, a mostra avviata e in fase di chiusura della prima tappa al museo di Brooklyn. E qualche strascico deve aver lasciato se Ponti, ancora a Lombardo, manifesta scontento riguardo al catalogo tanto da riceverne una costernata risposta: “Lei ha perfettamente ragione e mi duole di non essermi accorto io per primo, quando è uscito il catalogo stampato dall’ICE, che il volume era più un enigma che una guida”.4 Il riferimento è alla carenza, secondo Ponti, di informazioni relative ai produttori e alle maestranze impiegate per la produzione dei saggi esposti, cosa che deve essere apparsa così grave da spingere il Ministro a promettere le dovute correzioni in un’eventuale ristampa o, almeno, di inserire un foglio volante “una specie di chiave delle illustrazioni” nell’edizione del catalogo già in circolazione. Ponti insiste suggerendo che “l’ICE e l’ENAPI mettano nome e città”. Questo breve scambio, ricucito con la Stanza-saggio di Ponti nella mostra itinerante e il numero di “Domus” – finalmente – dedicato nel dicembre del 1950,5 permette di leggere il complesso disegno del maestro per “innamorare gli americani delle cose italiane”. La sua Dining Room (fig. 1) è intesa fin dal suo concepimento come “exhibition piece to demonstrate with every item various possibilities of Italian imagination and artistic production in the numerous fields”.6 Combinazione tra immaginazione e produzione (la parola design non appare mai nella descrizione di Ponti), ma anche tra usi e aspetti. La trasformabilità in primis: un concetto che la fa da padrone, molto americano e preponderante anche nell’allestimento a firma di Carlo Mollino, la Living-Dining Room.7 L’ambiente che rimanda ai condomini in montagna del collega torinese, è in quello di Ponti compiutamente urbano e altoborghese. Mobili-parete, come li definisce, che forniscono uno sfondo candido decorato ai pezzi in ceramica artistica e ai vetri e che, una volta aperti, disvelano la loro funzione (credenza-libro chiudibile, mobile camino, bar girevole) e mutano Lettera di Ivan Matteo Lombardo (in qualità di Ministro) a Ponti, 7 marzo 1951, GPA, Corrispondenza. 5 Ponti 1950b. 6 Rogers 1950b, pp. 60-61. 7 Ivi, pp. 58-60. 4 Una “sala da pranzo che è più da guardare che da usare” 79 1. Gio Ponti, First view, Mostra M.U.S.A., 1950 lo spazio della piccola camera. Trasformazioni chiaramente percepibili grazie a un sistema di movimentazione elettrica che accentua ulteriormente l’effetto tableauvivant (o presepe meccanico?) in continuità con i ricorrenti contrasti, quasi cortocircuiti, che punteggiano la mostra, a partire dalla giustapposizione dello scooter Lambretta con il carretto siciliano che accoglie i visitatori nella prima sala. La quota decorativa, di cui si dirà, è puntualmente controbilanciata poi dall’obbedienza alle prescrizioni imposte dalla CNA (circa 13,5 mq, con lunghezza massima di 5,40 m e profondità massima 4 m)8 da una parte, e da soluzioni che guardano agli aspetti della logistica e del trasporto e, contestualmente, ai modi del consumo nordamericani.9 Nei disegni di progetto, quasi degli storyboard, si legge: “It is therefore made of separate and divisible elements, which can, if necessary, be sold or ordered (and packaged) as single pieces”.10 Così il pavimento si compone di cinque sezioni e un tappeto; il buffet corrisponde a una porzione di parete pieghevole (wall-unit); la parete di fondo è a sua volta divisa in tre pannelli (il bar, la porta e un pannello più piccolo); il camino è un elemento a sé stante; il soffitto in sei sezioni eventualmente disponibili con decori in stucco; infine i diversi pezzi d’arredo e decorativi (sedie, tavolo, lampade, stoviglie, ceramiche). Il grado di dettaglio nella descrizione inserita nella tavola di progetto, autori, produttori, materiali, consuona con una delle accelerazioni impresse al prodotto italiano fin dal periodo anteguerra, di cui Ponti è forse il più schietto esponente. Vedi il saggio di Cordera in questo volume. Su questi temi, si veda il bel libro di De Grazia 2005. 10 Gio Ponti, First view, 1950, GPA, 319DIS!P. 8 9 80 Elena Dellapiana Dalla Mostra della produzione in serie a cura di Giuseppe Pagano alla Triennale del 194011 fino a quella del mobile singolo curata da Albini, Berlanda, Fratino e Freyrie nel 1954 (a Italy at Work appena conclusa),12 la compagine dei progettisti, e delle organizzazioni di cui sono anima e motore, cerca di armonizzare una produzione prevalentemente artigianale o semi-meccanizzata, con le tendenze internazionali, tedesche e nordamericane. Ponti nella sua stanza e in tutti gli interventi a latere continua a strizzare l’occhio agli indirizzi “industrial” accentuando anzi alcuni dei temi cari ai businessmen americani: la logistica, il packaging, i canali di vendita. Vale forse la pena di ricordare che il 1951 è l’anno di avvio delle IDCA (International Design Conferences Aspen) volute e finanziate dal patron della Container Corporation, Victor Paepcke, il più importante magnate della cartotecnica e assiduo promotore del dialogo tra progettisti, imprese, associazioni dei consumatori per il raggiungimento del comune fine – mercantile – di prodotti di buona qualità e a buon mercato che assicurino i profitti agli investitori, il lavoro a designer, grafici, pubblicitari, art director e una chiara riconoscibilità all’industria nordamericana.13 Tuttavia, l’obbiettivo di Ponti appare più raffinato e ambizioso: le categorie nordamericane (il wall-unit, in primis) sono piegate e adattate all’approccio artistico e artigianale della lunga onda del prodotto italiano alla vigilia della consacrazione del Made in Italy. La parete che contiene il camino è un tipico mobile italiano realizzato in radica ferrarese, ed è qualcosa di piuttosto nuovo negli USA, con pannelli dipinti di Fornasetti, contiene una collezione di oggetti esito dell’artigianato italiano. Il mio obbiettivo è creare una atmosfera significativa, che possa di per sé suscitare interesse ed essere allo stesso tempo composta da elementi singoli, ognuno di essi di particolare interesse per la sua concezione, materiali e lavorazione.14 I contributi figurativi – esito della combinazione sapiente degli elementi sopraelencati – sono ovviamente il plus italiano: il “famosissimo” procedimento di Fornasetti che riveste quasi tutte le superfici, la porta dipinta di Altara, le candide ceramiche su disegno di Ponti (ma modellate dalle addette in Richard Ginori, tutte elencate) e le “ceramiche Fantastiche” di Parini e Melotti. Una costellazione leggibile ma composta di individualità progettuali e produttive, dunque. Così forse si spiega l’irritazione di Ponti nei confronti degli estensori del catalogo. Nelle tavole, e nello spazio dedicato su “Domus”, l’elenco è lungo e dettagliato: oltre alla rosa inclusa nel catalogo che fa riferimento a Piero Fornasetti, Edina Altara e Fausto Melotti tra gli autori e a Venini, Richard Ginori, MITA e Giordano Chiesa tra i produttori, a corredo dei disegni compaiono 11 12 13 14 Bassi 2014. Bassi, Riccini 2004, pp. 105-112. Dellapiana, Rispoli 2021. Così recita il testo di accompagnamento alla tavola di progetto. Una “sala da pranzo che è più da guardare che da usare” 81 infatti anche gli smalti di Paolo De Poli, le ceramiche di Parini, Zortea, Melandri, Gambone, Bellini, Fantoni, i produttori Seguso, Laveno, Barettoni; tra i materiali e le lavorazioni i velluti di Zoagli, lo stucco romano, la radica ferrarese, l’ottone, il marmo, la seta, il legno laccato, il vetro retrodipinto e argentato. Si tratta di alcuni tra gli autori e produttori i cui workshop erano stati visitati dalla delegazione americana a caccia dei prodotti da esporre nella mostra itinerante – Gambone, Fontana, De Poli e altri15 – che nella stanza vengono valorizzati in quanto ambientati, veri e propri attori della creazione di atmosfere. La loro produzione viene presa in esame e ulteriormente amplificata nella disamina di Italy at Work ospitata nelle pagine di parte italiana, come si è detto, e nel gruppo si riconoscono i sodali storici di Ponti, che li promuove nelle mostre APEM, nei circuiti de La Rinascente e in ogni altra possibile occasione.16 Che i rapporti tra Italia e USA dopo la guerra siano soprattutto una faccenda economica emerge già dall’abbondanza di carte relative a bilanci, finanziamenti, flessioni delle vendite che accompagnano le vicende della HIH.17 Parallelamente ai commenti ospitati dalle pubblicazioni specializzate – per la verità non molto abbondanti e, soprattutto Oltreoceano, concentrate su un’immagine complessiva al limite del naïf18 – si possono ritrovare operazioni di vera e propria promozione attraverso accordi con buyers e responsabili delle diverse organizzazioni dedicate al commercio, persino ipotesi di coinvolgere il laboratorio delle sorelle Fontana in un concorso legato al lancio del film Prince of Foxes (1949, diretto da Harry King) che narra le drammatiche vicende ambientate alla corte dei Borgia, interpretate da Tyron Power e Orson Welles e girate in Italia.19 Azioni che, nonostante la HIH venga messa in liquidazione nel 1954, sembrano aver successo, in continuità con le iniziative anche precedenti il conflitto, in una evidente, ma non scontata continuità tra le due fasi della storia italiana. Ne è un esempio l’applique in metallo smaltato su disegno di Ponti e realizzato da De Poli, prevista nella tavola di progetto e poi assente nella realizzazione, che si riconosce in rassegne d’anteguerra (la Triennale del 1940)20 e in disegni che intercorrono tra i due nei primissimi anni dopo la guerra e in corrispondenza delle iniziative APEM.21 Gli effetti non si fanno attendere: come De Poli “sfonda” in America, lo stesso capita per Fornasetti che dal 1951 fa frequenti allusioni, con Ponti, a interesse e ordini ricevuti, persino inaspettati se “dapprima ho pensato ad un trucco […]. 15 16 17 18 19 Teague 1950c. Vedi il contributo di Filippini in questo stesso volume. Si rintracciano negli archivi della CNA. Dellapiana 2022, pp. 103-118; Pietrangeli 2022, pp. 24-27; Mingardi, Turrini 2021. Pietrangeli 2022, p. 26, lettera di Gertrude Dinsmore a Ramy Alexander del 28 settembre 1949. 20 21 S.A. 1940. IuavAP. Su De Poli, si veda Filippini nel presente volume. 82 Elena Dellapiana Mi sono informato bene in America ed ora ho la certezza che la cosa è invece molto seria e trovo assai bella, specialmente di questi tempi in cui le cose dell’arte sono così lasciate da parte, che si aiutino gli artisti senza tener conto delle frontiere, in quanto essi non a un paese appartengono ma all’Umanità intera”;22 e comunque operativi: “puoi incaricare al Cassina di farmi recapitare tutti i mobili di campione ricoperti in viola e che non sono stati accettati? Mi sarebbero molto utili per mostrarli a dei clienti che attendo dall’America”.23 Stesso destino per Edina Altara, alla quale Ponti scrive nell’ottobre del 1950 che avrebbe ricevuto ben 25.000 lire per un cristallo dipinto richiesto dalla ditta Singer & Sons e prodotto da Giordano Chiesa raccomandandosi preoccupato: “da parte mia solo la pregherei di non martirizzare Chiesa come Lei martirizza me e il mio studio, e non so il perché”.24 Analogo discorso vale per Melandri anche se, “con rincrescimento degli ordinatori della mostra americana le sue opere non vi figurano”.25 La sua produzione è documentata in “Domus” con le immagini di alcune delle realizzazioni che il maestro faentino spedisce in forma di disegno a Ponti nel 1950, per le ipotesi di invio nelle mostre-mercato in Svezia e perché lo aiuti a collocarli presso il suo circuito di clienti. Il successo delle cose italiane, nonostante l’indipendenza della mostra americana, è ben avviato. Ancora Ponti scrive a Teague per l’invio di un numero di “Interiors” del 1951, dedicato alla Triennale, dove Ponti è consigliere di amministrazione, un po’ defilato, e presenta il prototipo per una stanza da letto decorata da Fornasetti26 ma dove vede “con tanto piacere mie cose pubblicate”27 (che Teague, illustra come “birichine”).28 D’altra parte, la ricerca di conformità, anche terminologica, tra le spiegazioni di Ponti e i criteri di scelta enunciati da Teague, illumina gli intenti del maestro milanese: il suo “Italian imagination and artistic production” riecheggia “The Italians have had their full quota of sensitive and imaginative artists”29 dell’americano. Ma Ponti compie un passo avanti rispetto all’immagine al limite del folklore introiettata anche da Teague e dalla stampa americana. Nei primi anni ’50, grazie a una serie di accordi e sicuramente alla rete che Italy at Work permette di intessere, nei cataloghi di Altamira, Singer & Sons e nei department stores, entrano molti pezzi italiani appositamente progettati – modificati – per il mercato americano. Lettera di Fornasetti a Ponti, 18 giugno 1951, GPA, Corrispondenza. Ivi, 12 marzo 1951. 24 Lettera di Ponti a Edina Altara, 5 ottobre 1950, GPA, Corrispondenza; sui rapporti tra Ponti e l’azienda americana, Casali 2020. 25 Ponti 1950b, p. 40. 26 GPA, SL152OGG1. 27 Teague 1951b; lettera di Ponti a Teague del 19 novembre 1951, GPA, Corrispondenza. 28 Teague 1951b, p. 93; Altea 2023. 29 Teague 1950c, p. 198. 22 23 Una “sala da pranzo che è più da guardare che da usare” 83 In un catalogo della prima metà della decade il “primo interno disegnato negli Stati Uniti da Gio Ponti per Altamira” (fig. 2) include la finestra attrezzata, un camino a scomparsa (surprise), il tavolino con il telaio rivestito in rame smaltato in diverse varianti progettato con De Poli, mobili cruscotto, l’armchair disegnata per Singer & Sons,30 in sintesi la rilettura semplificata, anche per la produzione, dei concetti presentati a Italy at Work che erano “più da guardare che da usare”. Impensabili fuori dalle metropoli americane le grandi superfici vetrate a tutt’altezza su cui montare la finestra arredata, adattati alla pratica della lavorazione del compensato i wall-unit, resi elementari i mobili trasformabili, ancora abitati, però, da ceramiche e vetri italiani. Come ceramica, vetro, smalti, tarsie, mosaici, sono il “tocco” artistico e immaginativo che caratterizzano le altre produzioni incluse nel catalogo: Bega porta in dote basi di tavoli in ceramica di Melandri e intarsi di Zuffi, Zoncada esibisce piani smaltati, fino alla chiusura customizzabile dei paraventi pieghevoli “disponibili con riproduzioni (su uno o entrambi i lati) da antiche incisioni o quadri o da tele originali di pittori italiani moderni”. Se da una parte si può leggere dunque una continuità, accolta favorevolmente dal pubblico e dai critici americani, tra l’esaltazione della bottega artigianale e della formula Renaissance e craftmanship avviata prima della guerra e le vicende, 2. First Interior Architecture in the United States designed by Gio Ponti for Altamira. New York, catalogo Altamira, [1953] 30 L’inventario della produzione di mobili di Ponti è in Falconi 2010. 84 Elena Dellapiana anche commerciali, che la seguono, dall’altra si può assegnare a Ponti la più robusta azione, e la più efficace, per avviare il culto della personalità dei progettistidesigner, dei marchi, degli oggetti che ancora in Italy at Work vengono presentati come un insieme compatto, al limite dell’anonimo, quasi scaturito dal clima e dalle condizioni del Bel Paese, come, tra i molti, aveva osservato F.L. Wright: “[In Italia] Edifici, quadri e sculture sembrano nati, come fiori sul margine della strada, per cantarsi alla vita”.31 Le troops guidate da Ponti a partire da questa prima mostra americana andranno a polarizzare l’immagine spontanea, fresca e cordiale delle cose italiane intorno a un fulcro nuovo e altrettanto invincibile: il progetto. 31 Kidder Smith 1955, p. 15; si tratta di un appunto di Wright riferito al viaggio in Italia del 1909 riportato in Gutheim 1941. Prima della couture: la promozione della moda italiana in Italy at Work Chiara Faggella Lund University L a mostra itinerante Italy at Work rappresentò un evento significativo nella transizione culturale e commerciale che la moda italiana visse nell’immediato dopoguerra. In questo periodo l’esportazione di artigianato artistico per abbigliamento e accessori venne affiancato gradualmente dallo sviluppo sistematico di un’industria di alta moda sartoriale di lusso, appositamente destinata a clienti internazionali. È infatti a partire dalla fine degli anni ’40 che l’alta moda italiana comincia a farsi conoscere dai compratori statunitensi, interessati ad acquisirne i diritti di riproduzione per la propria industria di ready-to-wear e per i più eleganti couture departments integrati nei grandi magazzini di lusso delle maggiori città.1 Durante questo processo, che ebbe il suo culmine con il riconoscimento istituzionalizzato e continuo delle sfilate organizzate a partire dal 1951 da Giovanni Battista Giorgini a Firenze, l’alta moda italiana riuscì a guadagnare lo status di couture perché venne notata nel mercato internazionale da compratori americani, che ne legittimarono l’originalità (nella maggior parte dei casi) e dettero inizio all’esportazione di modelli italiani negli Stati Uniti. Questo contributo discute il ruolo della mostra Italy at Work nella transizione che portò la moda italiana a competere nel settore merceologico della couture, o alta moda sartoriale di ispirazione originale, grazie anche alla cassa di risonanza che la mostra rappresentò per le industrie creative italiane del tempo. Visioni di stile italiano nel dopoguerra Anche se la produzione di abbigliamento Made in Italy non rientrava nelle categorie di prodotti identificate dagli organizzatori di Italy at Work, la promozione della 1 Palmer 2001, pp. 61-62. 86 Chiara Faggella moda italiana venne comunque inserita nella mostra grazie ai tessili e agli accessori. Da un lato, infatti, la confezione in serie in Italia era molto arretrata dal punto di vista tecnico e non rappresentava alcun interesse per il mercato statunitense, che godeva di un’industria estremamente avanzata e di una distribuzione capillare su tutto il suo territorio.2 Dall’altro, invece, la creatività nel campo dell’alta sartoria era prerogativa culturale e commerciale della Francia, che a Parigi concentrava il monopolio internazionale delle creazioni di haute couture e della loro commercializzazione e riproduzione. Alla fine degli anni ’40 la maggior parte dei capi di alta moda realizzati in Italia derivavano dalle creazioni vendute nei salon di haute couture parigini, una prassi comune nella società occidentale del tempo che continuò ad essere in uso fino agli anni ’80. Le sartorie italiane che provavano ad affrancarsi da questo paradigma produttivo creando capi d’abbigliamento originali erano in proporzione ancora poche e non avevano ancora ricevuto un riconoscimento di originalità dai buyers internazionali.3 Nonostante ciò, le esportazioni nel campo della moda italiana verso gli Stati Uniti esistevano ed erano costituite soprattutto da tessili per l’abbigliamento, sia provenienti da impianti industriali sia da laboratori artigianali; da accessori in pelle come guanti, borse, e calzature; e dalla cosiddetta “moda boutique”, ovvero da piccole collezioni di produzione artigianale che proponevano abbigliamento per il tempo libero, per lo sport, e capi di maglieria.4 Di conseguenza, anche gli oggetti di moda scelti dal comitato di selezione di Italy at Work si orientarono su queste tipologie di oggetti, ricalcando le tendenze che, a partire dal 1944, erano state evidenziate in maniera ricorrente dal quotidiano “Women’s Wear Daily” in quanto interessanti per il mercato americano. Anche nelle riviste di moda e alta società quali “Vogue” e “Harper’s Bazaar” aumentarono i report giornalistici che celebravano la fresca e inaspettata creatività italiana nella moda, l’eleganza innata delle sue donne, e la semplicità di capi pratici ma realizzati in stoffe d’impatto, come raccontò Marya Mannes per le pubblicazioni Condé Nast tra il 1946 ed il 1947.5 A partire dal 1946, inoltre, l’azione promozionale mirata di HDI e della HIH a New York portò ad un aumento di riferimenti a marchi di moda italiani nelle pubblicazioni statunitensi, grazie ad una capillare azione di inserzioni anche a pagamento coordinate da un ufficio stampa preposto. Il linguaggio usato per definire la linea delle calzature, la qualità e la consistenza delle stoffe, la praticità al tempo stesso elegante della maglieria, e la vivacità degli stampati rimandava sempre al nuovo Rinascimento della creatività italiana, in una retorica che, anche nella moda, affermava la capacità di rendersi economicamente indipendenti dagli Alleati nella configurazione politica del dopoguerra. Dal punto di vista estetico, anche il catalogo della mostra confermava l’emergere di uno stile collettivo italiano nella moda di cui già si parlava nelle ri2 3 4 5 Paris 2006, pp. 46-62. Faggella 2019, pp. 212-221. Morini 2015, p. 151. Si veda soprattutto Mannes 1947a. Prima della couture: la promozione della moda italiana in Italy at Work 87 viste e nei quotidiani specializzati statunitensi. La moda in Italy at Work era un campione della praticità e della creatività innovative italiane, rappresentata da un’ampia selezione di accessori, soprattutto bigiotteria e pelletteria, insieme a diversi esempi di stoffe per abbigliamento, ma pochissimi capi pronti, di cui uno solo incluso nella sezione fotografica del catalogo. Quest’ultima, infatti, non offre una rappresentazione puntuale di tutti gli oggetti di moda: le poche fotografie mostrano quattro parure di bigiotteria, create rispettivamente da Luciana Aloisi, Emma Ivancich, Carlo Barbasetti di Prun, ed Eva Carocci; stoffe in seta di Myricae; ed un unico capo finito, una gonna dipinta a mano da Irene Kowaliska, realizzata in cotone nero e stampata a mano in verde e oro. In realtà furono esposti altri capi di abbigliamento confezionati, come una gonna dipinta a mano dall’artista fiorentina Dianora Marandino e un capospalla blu e rosso con frangia bianca in lana e fibre sintetiche firmato Tessitrice dell’Isola, entrambi realizzati con tessili della manifattura Bevilacqua di Venezia.6 Un ulteriore modello sempre a firma Tessitrice dell’Isola, composto da un’ampia stola tessuta a mano e decorata da una banda in lamé a riprendere le frange dello stesso materiale (fig. 1) fu fotografato e incluso nei materiali a stampa per l’inaugurazione della mostra al Brooklyn Museum. Infatti, due fotografie finora inedite e conservate nel press pack dell’addetto alle relazioni stampa del Brooklyn Museum, Richard Pleasant, mostrano due varianti nello styling del capo, a sottolineare l’ingegnosità e le versatilità di questa creazione, inusuale rispetto all’offerta standardizzata del mercato locale statunitense, e al tempo stesso pratica per chi la indossava. Se in una foto la modella (con molta probabilità Iolanda de Sandre, assistente all’organizzazione di Italy at Work a Firenze per conto della CNA e futura moglie di Ramy Alexander) è vista di spalle a mostrare l’ampiezza della stola e la decorazione che la attraversa, nella seconda foto la posa è di tre quarti e la stola è indossata con una maggiore aderenza al proprio corpo tanto da sembrare un abito intero. La stampa sembrava interessata a questi capi di abbigliamento inusuali, tanto che il “New York Times” elogiava uno speciale abito trasformabile e “non finito” esposto in mostra che rispondeva perfettamente alle definizioni di una nuova moda italiana ingegnosa e pratica. L’abito era costituito da un’ampia porzione di seta tessuta a mano e decorata da frange in lamé, sulla sommità della quale l’acquirente avrebbe dovuto tagliare un’apertura per il collo, cucire i fianchi sotto alle aperture per le maniche, e possibilmente completarlo con una cintura: si trattava, secondo la cronista, di “uno degli oggetti più interessanti nella sezione moda”.7 L’eleganza funzionale di questa creazione riprendeva la narrazione diffusa del giornalismo statunitense circa la nuova scena creativa italiana del dopoguerra, che interessava l’ambito della moda sia dal punto di vista del disegno sia 6 Entrambi i capi sono conservati al Costume Institute presso il Metropolitan Museum of Art di New York. 7 Pepis 1950b, p. 52. 88 Chiara Faggella 1. Stola in lana tessuta a mano con frange metalliche e decorata da una banda dello stesso filato in lamé. Capo realizzato dalla manifattura Tessitrice dell’Isola, diretta dalla nobildonna Maria Chiara Gallotti ad Anacapri. Le foto, scattate a Firenze, sono tratte dal press pack del Brooklyn Museum per la mostra Italy at Work da quello dei materiali. Vennero infatti esposte calzature realizzate dalle ditte fiorentine Salvatore Ferragamo ed Edoardo Frattegiani, una compresenza che non sarebbe mai potuta avvenire in Italia, in quanto i due marchi avevano una relazione animosa punteggiata da accuse di plagio e cause legali.8 Nonostante questo, entrambi proponevano innovazioni rispetto alle forme ed ai materiali utilizzati per le calzature, specialmente la rafia, la paglia, ed il nylon (nel caso del modello “Invisibile” di Ferragamo). Anche la Gucci partecipò, ma con una selezione di ombrelli da passeggio in stoffa e paglia, e non con calzature o valigeria in pelle. Una fotografia inedita dell’allestimento della mostra al M.H. de Young Memorial Museum di San Francisco mostra un gruppo di accessori di ispirazione mediterranea contenuti in una struttura esagonale (fig. 2), dove gli ombrelli Gucci accompagnano borse e cappelli in paglia, firmati Emilio Paoli, e sei paia di calzature Ferragamo in rafia, paglia, e merletto di Tavarnelle. Tra queste calzature si notano modelli ulteriori rispetto a quelli conservati al Metropolitan Museum di New York. Grazie all’utilizzo di materiali inusuali o considerati esotici dalla consumatrice media americana, come le fibre di canapa, la paglia, il nylon, le conchiglie, la madreperla, il curatore Meyric R. Rogers motivava la scelta di privilegiare praticità e innovazione rispetto ai motivi stereotipati di produzioni dal sapore 8 Dahlén 2019, pp. 201-207. Su Ferragamo, si veda il saggio di Martin in questo volume. Prima della couture: la promozione della moda italiana in Italy at Work 89 2. L’allestimento degli accessori di moda in paglia e rafia nella tappa di Italy at Work al M.H. de Young Memorial Museum, San Francisco prettamente folkloristico. Di quest’ultimo costituiva un caso specifico la lavorazione tradizionale fiorentina del cuoio, ormai uno “stereotipo volgarizzato dal suo successo di articolo commerciale” a causa delle richieste incessanti dei compratori stranieri, che spingevano su questo tipo di prodotto così inutilmente decorato.9 Riferendosi invece ad una coerenza stilistica opposta a questo 9 Rogers 1950b, p. 43. 90 Chiara Faggella tipo di produzioni, assimilabili a souvenir, Rogers ed il resto del comitato di selezione avevano cercato di comporre un quadro, seppur eterogeneo, in cui i consumatori americani riconoscessero una certa italianità nell’artigianato della moda. Le vicende che lo portarono ad approvare preventivamente anche la progettazione di una sfilata di alta moda italiana al Brooklyn Museum dimostrano la convinzione di Rogers che i tempi fossero maturi per riconoscere la validità e la creatività di tutto il comparto della moda italiana da esportazione. Italian couture al Brooklyn Museum: una sfilata mancata Nell’estate del 1950, dopo aver completato la selezione degli oggetti da esporre in mostra, Rogers e sua moglie Helen incontrarono Giovanni Battista Giorgini, titolare di un buying office a Firenze e specializzato nel commercio di antiquariato e artigianato italiani negli Stati Uniti. Attento conoscitore del mercato statunitense, ex collaboratore dell’ENAPI, e commissionario per il grande magazzino newyorkese B. Altman, Giorgini suggerì a Rogers l’idea di presentare le migliori sartorie italiane originali al pubblico di Italy at Work a New York, in una cornice ideale in cui design industriale e artigianato avrebbero introdotto la nascente creatività della moda italiana, settore emergente del Made in Italy, ad un pubblico di conoscitori interessati.10 La sfilata, secondo Giorgini, avrebbe unito abiti antichi e moderni in un’integrazione perfetta tra il celebre passato del costume italiano ed il nuovo stile emergente, semplice ma creativo e d’effetto. In un una visione che combinava epoche differenti per sottolineare il passato glorioso dell’Italia e della sua capacità di influenzare le mode internazionali, Giorgini proponeva di accompagnare i capi delle moderne sartorie ad autentici costumi d’epoca risalenti al quattordicesimo, al quindicesimo, e al sedicesimo secolo, insieme a due uniformi da servitore risalenti al diciassettesimo secolo.11 Rogers e Nagel risposero con entusiasmo alla dettagliatissima proposta di Giorgini e convennero che la sfilata si sarebbe dovuta tenere proprio al Brooklyn Museum per evidenziarne la diretta connessione con Italy at Work.12 Allo stesso tempo, però, i due si preoccuparono di comunicare a Giorgini la pressante necessità di trovare uno sponsor economicamente disponibile a finanziare l’evento, idealmente un grande magazzino di lusso nell’area newyorkese. I costi di allestimento e preparazione per il Brooklyn Museum si stavano infatti rivelando piuttosto ingenti, e si ritenne necessario di dover richiedere con- Corrispondenza tra Meyric R. Rogers e Giovanni Battista Giorgini, 24 agosto 1950; tra Giovanni Battista Giorgini e Meyric R. Rogers, 29 agosto 1950. ASFi, Giorgini, Album 2. 11 Corrispondenza tra Giovanni Battista Giorgini e Meyric R. Rogers, 15 settembre 1950. Ibidem. 12 Corrispondenza tra Charles Nagel to Giovanni Battista Giorgini, 25 settembre 1950. Ibidem. 10 Prima della couture: la promozione della moda italiana in Italy at Work 91 tributi aggiuntivi sotto forma di sponsorizzazioni.13 Il quotidiano “Women’s Wear Daily” stimava che le spese sostenute per preparare la mostra ammontassero a circa trecentosettantamila dollari, a sottolineare un’operazione che, nonostante fosse considerata di successo già a pochi giorni dalla sua apertura, si era rivelata decisamente dispendiosa.14 Un comitato apposito creato per l’inaugurazione stava cercando di raccogliere fondi per la mostra, di modo da rendere l’accesso gratuito a quanti più visitatori possibile.15 Non era sicuramente possibile recuperare un supporto economico per un evento accessorio così costoso e non previsto nella pianificazione originale, perlopiù riguardante la promozione di un settore merceologico ancora emergente agli occhi dei compratori americani. Oltre a sobbarcarsi costi non sostenibili dagli organizzatori, l’appoggio di un grande magazzino avrebbe facilitato anche la logistica della sfilata, specialmente per quanto riguardava le difficoltà relative al trasporto e alla permanenza dei capi e degli accessori di moda negli Stati Uniti. La natura specifica del suo lavoro di intermediazione motivò infatti Giorgini a richiedere a Rogers informazioni relative a dazi e termini di importazione all’inizio della loro interazione, chiedendo se avesse contemplato l’entrata delle merci negli Stati Uniti in franchigia doganale (free of duty) o in ammissione temporanea (temporary importation).16 La proposta fatta a Giorgini fu quella di sondare il terreno con grandi magazzini di sua conoscenza, in ognuna delle dodici città in cui la mostra avrebbe transitato. Gli sponsor avrebbero poi dovuto contattare direttamente Nagel e Rogers per discutere dell’organizzazione. Sicuro di una collaborazione che li legava ormai da qualche anno, Giorgini propose di coinvolgere il department store B. Altman di Fifth Avenue per sponsorizzare la prima sfilata, da tenersi al Brooklyn Museum nel gennaio del 1951. Nell’ottobre del 1950, meno di due mesi prima dell’inaugurazione della mostra, Giorgini scrisse a Nagel per comunicare che aveva inoltrato la proposta di sponsorizzazione della sfilata al vicepresidente di B. Altman, James A. Keillor, e che una selezione di importanti sartorie italiane avevano risposto entusiasticamente alla possibilità di sfilare al Brooklyn Museum.17 La sfilata sarebbe stata strutturata sul modello delle presentazioni stagionali che si tenevano nei grandi magazzini americani, presentando più marchi insieme raggruppati a seconda delle diverse categorie di capo: capispalla, abiti da giorno, abbigliamento BMA, Records of the Department of Public Information. Press Releases, 1947-1952. 0709/1950, 121. 14 Teague 1950a, p. 41. 15 Brochure relativa alla raccolta fondi per l’esposizione di Italy at Work al Brooklyn Museum, senza data ma riferibile al 1950. PUL, box 1, folder 6. 16 Corrispondenza tra Giovanni Battista Giorgini e Meyric R. Rogers, 29 agosto 1950. ASFi, Giorgini, Album 2. 17 Corrispondenza tra Giovanni Battista Giorgini e Charles Nagel, 5 ottobre 1950. Ibidem. 13 92 Chiara Faggella sportivo e per il tempo libero e abiti da sera, il tutto completato da una ricca selezione di accessori quali cappelli e acconciature, guanti e calzature. Unendo l‘alta sartoria con gli accessori e l’abbigliamento per lo sport ed il tempo libero, Giorgini inseriva nella proposta di sfilata gli oggetti di moda Made in Italy meglio conosciuti e più apprezzati dai buyers statunitensi, i quali negli ultimi sei anni avevano visto aumentare sensibilmente le proposte di qualità da parte delle manifatture italiane, degnamente rappresentate dalla selezione presentata in Italy at Work. La risposta di B. Altman, nonostante ciò, fu negativa. Stimando una spesa complessiva che si aggirava tra i venticinque ed i trentacinquemila dollari, Keillor non poteva giustificare un costo di gran lunga superiore a qualsiasi altro evento che il grande magazzino era in grado di intraprendere in quel momento. Oltretutto, non avendo la possibilità di inviare in avanscoperta la merchandising manager del settore ready-to-wear Violet Meison, il negozio non poteva assumersi la responsabilità di sponsorizzare una sfilata di modelli di alta moda che avrebbero potuto rivelarsi non adatti per il mercato statunitense o, peggio ancora, delle pure e semplici copie di modelli parigini.18 Nonostante la riconfigurazione del mercato internazionale della moda nel dopoguerra stesse per porre fine al monopolio della couture francese, al momento in cui avvennero le contrattazioni tra Giorgini, Rogers, il Brooklyn Museum e B. Altman Parigi era ancora l’unica autorità nel campo dell’ideazione di capi di alta moda.19 L’industria americana del prêt-à-porter e le imprese europee dedite alla copia dell’alta moda non potevano permettersi di diffondere stili e design che non corrispondessero alle tendenze approvate nelle maisons de haute couture parigine. La risposta di B. Altman alla proposta di Giorgini rifletteva esattamente questa situazione del mercato: sebbene il negozio fosse molto interessato all’idea di un mercato della couture italiana, sarebbe stato controproducente sponsorizzare una sfilata senza che i suoi buyers avessero avuto modo di controllare l’offerta in anticipo. Da parte del Brooklyn Museum ci fu una dimostrazione di solidarietà verso Giorgini, e Charles Nagel espresse il suo rammarico per il fatto che la sfilata non potesse aver luogo, nonostante la curatrice Michelle Murphy avesse discusso a lungo della situazione con Keillor, vicepresidente di B. Altman.20 Giorgini decise comunque di portare avanti il progetto di una sfilata di moda originale italiana, accollandosene costi e rischi ma abbattendo totalmente le spese di dogana e di esportazione con la decisione di organizzarla a Firenze. Catalizzando e condensando tendenze ed esperienze già proposte da altri, ma Corrispondenza tra James A. Keillor e Giovanni Battista Giorgini, 11 ottobre 1950. Ibidem. Pouillard 2021, p. 142. 20 Corrispondenza tra Charles Nagel e Giovanni Battista Giorgini, 20 ottobre 1950. ASFi, Giorgini, Album 2. Lucia Savi è giunta alla stessa conclusione esaminando i documenti conservati dal Brooklyn Museum relativamente alla vicenda: si veda in proposito Savi 2023, pp. 42-45. 18 19 Prima della couture: la promozione della moda italiana in Italy at Work 93 identificando il tempismo più adatto, il successo dell’iniziativa di Giorgini dette inizio alle sfilate collettive che divennero poi gli appuntamenti di Pitti e della Sala Bianca.21 Conclusioni Con Italy at Work si materializzò un momento estremamente proficuo per il lancio della moda Made in Italy sul mercato americano. Il riconoscimento della Italian couture negli Stati Uniti fece sì che le produzioni sartoriali delle case di moda italiane cominciarono ad essere acquistate da negozi specializzati, riprodotte nella grande industria della confezione straniera, e pubblicizzate da giornalisti e trendsetter per la loro creatività e progettazione originale. Le case di moda italiane diventarono quindi assimilabili alle case di haute couture parigine, come ad esempio le emergenti Christian Dior e Balmain o le più affermate Lelong e Balenciaga, in quanto ne condividevano lo scopo creativo di produrre disegni originali per abiti e accessori, la distribuzione commerciale, con destinazione principale i mercati esteri e l’organizzazione del lavoro, strutturato secondo una gerarchia al capo della quale stava una creatrice o un creatore.22 Questa transizione fu resa possibile dalla popolarità di cui negli Stati Uniti godette la mostra Italy at Work, la cui copertura da parte della stampa locale fu molto positiva e contribuì ad includere anche l’industria della moda all’interno di quell’“imponente impeto creativo vissuto dall’Italia dopo anni di repressione”.23 La spinta data personalmente da Meyric Rogers a questo settore si dimostrava sia privatamente nella corrispondenza scambiata con Giorgini, sia nei discorsi e nelle apparizioni pubbliche. In occasione dell’inaugurazione di Italy at Work all’Art Institute di Chicago, Rogers scelse di indossare una elegante giacca bianca, in anticipo sulla moda estiva poiché realizzata interamente in paglia e con indosso la quale viene fotografato per il “Chicago Daily Tribune”.24 Trattandosi di un capo d’abbigliamento così particolare possiamo presumere che fosse arrivato a Rogers attraverso Giorgini, il quale ne indossò una simile egli stesso pochi mesi dopo, durante le celebrazioni della seconda edizione dell’Italian High Fashion Show a Firenze nel luglio 1951.25 E se durante il soggiorno in Italia Helen Rogers si disse completamente disinteressata rispetto all’acquisto di abbigliamento per sé, fu Rogers ad apprezzare la moda maschile italiana, lodandone la qualità dei tessuti, lo stile, ed i prezzi abbordabili, in una Stanfill 2018, pp. 148-169. Palmer 2001, p. 3. Per un approfondimento sull’atelier di alta moda italiano nella storia si veda anche Giordani Aragno 1985. 23 Lynch 1951, p. S_A3. 24 Ibidem. 25 Braggiotti Etting 1951, p. 137. 21 22 94 Chiara Faggella combinazione irresistibile che lo portò ad ordinare ben quattro completi fatti su misura. In un parallelo ideale con la nascente affermazione dell’alta moda sartoriale italiana, Rogers rispondeva, a chi gli chiedesse come fossero fatti questi nuovi abiti Made in Italy, che per saperlo avrebbero dovuto semplicemente tenerlo d’occhio: “you’ll have to watch me”.26 26 Cass 1950, p. E6. ARTISTI, PRODUTTORI E DESIGNER Artists at Work: la messa in scena dell’arte italiana in America, 1947-1950 Stefano Setti* Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano L a rassegna americana itinerante Italy at Work, tra le varie opere espone manufatti di artisti italiani, tra cui Consagra, Fontana, Melotti, Leoncillo e Fabbri, presentati al pari di meno noti decoratori-artigiani ma accomunati dall’impiego di specifici materiali. Questa scelta riflette sia il tema della mostra, incentrato su risvolti produttivi, sia, più in generale, la visione americana, tesa a enfatizzare una retorica che vede la cultura artistica italiana degli anni ’50 (tout court) ancorata alle sue tradizioni modeste. Malgrado il frenetico, vago e passatista utilizzo dei termini “Renaissance” (associato alla tradizione e al continuo rimando tra passato e presente) e “Unity of the Arts” (con accento su precisi modelli di collaborazione tesi a nobilitare l’artigianato e la commistione tra “fine” e “applied arts”), la volontà di presentare in maniera ambigua l’operato di artisti e artigiani è efficace a esaltare la nascente egemonia artistica americana. Come evidenziato nel catalogo, e come retaggio di alcune equivoche letture scaturite da precedenti mostre newyorkesi tenutesi tra il 1947 e il 1949 (Handicraft as a Fine Art in Italy, Life in the Open Air e Twentieth-Century Italian Art), il panorama artistico italiano negli USA è inteso, ed “esposto”, in maniera meno radicale rispetto a quello che effettivamente era: gli artisti italiani soffrono di presentazioni talvolta fuorvianti, accentuate da specifiche “messe in scena”. Attraverso una lettura allargata, con questo testo intendo valutare la presenza e il ruolo di pittori e scultori italiani all’interno di alcune specifiche rassegne espositive dedicate alle arti applicate. Il fine è quello di comprendere le metodologie critiche adottate per inquadrare il loro operato sul solco di un * Questa ricerca prende le mosse da un mio precedente studio: Setti 2023, pp. 276-297. Ringrazio la professoressa Gabriella Di Milia, Archivio Pietro Consagra, Milano; il personale della Fondazione Centro Studi sull’Arte Licia e Carlo Ludovico Ragghianti, Lucca; il personale della Fondazione Lucio Fontana, Milano; la professoressa Claudia Urbanelli, Firenze. 98 Stefano Setti sottile crinale che separa arte e artigianato entro un ben preciso sistema di promozione e appropriazione. The Brooklyn Della Robbia Al terzo piano del Brooklyn Museum, istituzione che nel 1950 ospita la prima tappa della mostra Italy at Work, è oggi esposta una ceramica smaltata rinascimentale di Giovanni Della Robbia con soggetto la Resurrezione di Cristo. Il bassorilievo, proveniente dalle collezioni del museo, è certamente emblematico della “moderna” arte italiana, ma anche di un problema che dal Rinascimento prosegue fino al 1950, e oltre. Infatti, a partire dal XV secolo, l’impiego della terracotta è strettamente connesso a contingenze commerciali: una produzione elevata, garantita da questo medium, assicurava un’ampia diffusione sul territorio funzionale a trasmettere determinati messaggi.1 A tale fenomeno sottostava un principio di quantità piuttosto che di qualità. Oggi riconosciamo e superiamo questo fatto: in merito a numerose opere decontestualizzate, la distanza storica, non solo nell’approccio americano, ha permesso un display “estraneo” alle prerogative originarie di questi manufatti, enfatizzando una contemplazione di carattere squisitamente artistico. La presenza all’interno della mostra Italy at Work di alcuni artisti italiani, già noti e riconosciuti come tali in patria, consente di compiere alcune riflessioni circa la commistione tra cultura alta e cultura bassa, lingua e dialetto. È corretto leggere queste operazioni in termini conflittuali o è più consono intravedere il dialogo che le due culture instaurano, come conquista della contemporaneità, senza chiedersi se le opere in questione (anche per la loro natura) vogliano essere oggetti, sculture o altro e poi, dove sta il confine? Certo è che, a giudicare dall’allestimento della mostra Italy at Work, o meglio, da alcune singolari messe in scena di carattere quasi etnografico, sembra vincere la volontà di allineare tramite una ben calcolata regìa le varie proposte a prescindere dai diversi ruoli. La fucina degli artisti, “tipo giardino dei Medici” Sono numerosi i contributi storico-critici che, negli ultimi anni, hanno ben delineato il carattere delle rassegne di arte e cultura italiana allestite in America nell’immediato secondo dopoguerra.2 Il retroterra per Italy at Work è sicuramente fornito da tre precedenti mostre tenutesi a New York: Handicraft as a Fine Art in Italy e Life in the open Air, ospitate tra 1947 e 1948 presso la Casa dell’artigianaGentilini 2009. Casciato 2006; Mingardi, Turrini 2021, pp. 85-95; Ferretti, Mingardi, Turrini 2021, pp. 96105; Bedarida 2022, in particolare le pp. 83-163; Dellapiana 2022, pp. 103-153. 1 2 Artists at Work: la messa in scena dell’arte italiana in America, 1947-1950 99 to italiano,3 oltre alla più nota Twentieth-Century Italian Art allestita al MoMA nel 1949. La Casa dell’artigianato italiano (HIH), nata con lo scopo di facilitare gli scambi commerciali tra America e Italia, è promossa dalla HDI fondata da Max Ascoli a New York tra il 1944 e il 1945 e dalla CADMA fondata nel 1945 a Firenze e presieduta da Carlo Ludovico Ragghianti. A partire dalla sua fondazione e fino al 1948 la Casa dell’artigianato propone sei esposizioni, comprese quelle sopra menzionate, attentamente seguite da Ragghianti che si preoccupa anche di una loro corretta divulgazione in patria. Nel 1947 l’architetto Ernesto Nathan Rogers, direttore di “Domus”, confessa a Ragghianti di voler dedicare un numero intero della rivista all’artigianato quasi a mettere in discussione la sua più ortodossa condotta circa le presentazioni delle arti (pittura, scultura e architettura).4 Ma il testimone di questa delicata operazione sarà da lì a poco preso dall’istrionico Gio Ponti: il più grande promotore delle arti italiane nel secondo dopoguerra. Anche grazie al rinnovato clima politico di stampo centrista che dall’aprile 1948 conquista la nazione, Ponti rimpiazza il più engagé Rogers e torna a dirigere “Domus”. Il primo numero della nuova direzione, aprile 1948, presenta un importante affondo sul ruolo dell’artigianato, della ceramica e dell’“arte popolare”. Questo approfondimento, forse impostato da Rogers, è ora portato avanti da Ponti che scrive un lungo articolo, inframezzato da immagini di opere d’arte applicata, in parte destinate alla mostra Handicraft as a Fine Art in Italy e allestimenti della successiva mostra Life in the Open Air.5 Stoffe di Guttuso e Bordoni, ceramiche di Leoncillo, Melotti, Fontana, Consagra e ancora opere di Marini, Manzù, de Pisis, Mirko, Fabbri e altri accompagnano il testo che chiarifica il concetto di arte popolare ed elogia la ceramica per la sua capacità di conferire alla “‘scultura’ la magia di una quarta dimensione”.6 Forse dopo aver letto i primi e dirompenti manifesti dello spazialismo di Fontana, che in merito alla ceramica “sta facendo nuovi studi che ci riserveranno delle nuove sorprese”, continua Ponti, è paradigmatico il fatto che il termine scultura sia posto tra virgolette. Accezione che sembra voler sottolineare l’autonomia e la distanza di questa arte rispetto al più completo medium della ceramica: vincente sintesi tra forma, volume e colore, nonché naturale raccordo tra plastica e pittura. Il tentativo di Ponti è quello di invertire le più canoniche gerarchie in favore della ceramica italiana comunemente ritenuta “minore”. L’intento dell’operazione espositiva, già deducibile dal significativo titolo Artigianato come arte, era quello di dimostrare la riuscita collaborazione tra artisti e artigiani all’interno di un paese liberato da una dittatura ma ancora distrutto e in fase di rinascita grazie agli aiuti americani. Una più precisa testimonianza riguardo al retroterra di questa iniziativa e, più in 3 4 5 6 Su queste mostre, si veda il contributo di Ferretti, Mingardi e Turrini nel presente volume. Setti 2020, pp. 96-113. Ponti 1948, pp. 24-38. Ivi, p. 24. 100 Stefano Setti generale, al “laboratorio” romano del dopoguerra è fornita dallo scultore Pietro Consagra nella sua autobiografia artistica: Dopo i soldati sarebbero arrivati i turisti americani, la gente colta e con tanti dollari e [sic] avrebbe comprato opere d’arte italiane come il prodotto più genuino da portarsi in USA. Bisognava attrezzare una grande fucina tipo giardino dei Medici e chiamare i migliori artisti italiani per fargli realizzare delle opere d’arte applicata. Dai crocifissi di Manzù ai piatti di Gentilini e altri, dalle balaustre in ceramica di Leoncillo alle scatole in argento di Mirko. Io partecipai facendo bicchieri e piastrelle per piccoli pavimenti, per tavolinetti da tè e intanto imparai il mestiere della ceramica con tecnici che ci aiutavano. Modellai anche un balcone in ceramica dipinta. Una specie di fregio rustico con galline, armi medievali e oggetti da rigattiere. […] Il destinatario era così vago che pensavo solo a divertirmi. Era una follia perché mai nessuno ci guadagnò qualche lira e invece di ricevere dollari l’impresario dopo qualche anno dovette chiudere. Chissà tutte quelle opere dove sono andate a finire.7 Forse anche in seguito ai ritardi accumulati nelle realizzazioni, o al malcontento espresso da Ragghianti circa il mediocre risultato della mostra,8 il catalogo, graficamente ideato da Munari, non presenta questi manufatti ma opere d’arte “pura” verosimilmente non esposte a New York. Sono pubblicati dipinti e sculture di Afro, Mirko, Campigli, Cascella, Casorati, de Pisis, Fontana, Guttuso, Leoncillo, Marini, Sottsass jr. e altri. Nonostante gli intenti, questa scelta sottolinea e ribadisce il ruolo indipendente delle cosiddette arti maggiori rispetto all’artigianato, nonché un necessario ausilio artistico. Nel catalogo, Consagra è infatti rappresentato da una sua scultura in gesso del 1947: una delle ultime figure umane che l’artista realizza con caratteri organico-surrealisti, prima della sua netta virata all’astrazione. In ogni caso, la riprova dell’operosità delle fucine italiane è dimostrata dalle immagini pubblicate su “Domus” nel 1948 che confermano le parole di Consagra di cui viene pubblicato il “ricchissimo e coloratissimo” balcone in ceramica in cerca della sua “corretta architettura”, come sottolinea Ponti (fig. 1).9 La carenza di immagini e di precisa documentazione riguardo alle opere esposte alla mostra Handicraft as a Fine Art in Italy rende tuttavia difficoltose ulteriori attribuzioni.10 Consagra 1980 [2017], pp. 43-44. Lettera di Ragghianti a Max Ascoli, Firenze 20 settembre 1947. FR, ACLR, Cadma. 9 Ponti 1948, p. 31. 10 Per gli autori degli “Oggetti in preparazione o già eseguiti il 1° agosto 1947 per la mostra di ottobre” si rimanda alla nota 32 del saggio di Ferretti, Mingardi e Turrini nel presente volume. Appurato il fatto che il catalogo pubblica opere non esposte, risulta difficoltoso individuare corrispondenze tra l’elenco e le poche immagini della mostra. Anche le immagini pubblicate da Ponti (Ponti 1948) sono difficili da ricondurre con certezza alle opere effettivamente presentate. L’elenco sopra citato riporta otto opere di Lucio Fontana (tra cui un Crocifisso, una Medusa, una Leda, un San Giorgio e altro), mentre Ponti pubblica solo una piccola Battaglia. Ugualmente Consagra compare negli elenchi come realizzatore di diverse basi scolpite per una lampada, mentre Ponti pubblica solo il balcone in ceramica. L’Istituto d’Arte di Firenze conserva un faldone fotografico che 7 8 Artists at Work: la messa in scena dell’arte italiana in America, 1947-1950 101 1. Pagine dedicate a Pietro Consagra nel catalogo della mostra Handicraft as a Fine Art in Italy, 1947 (in alto) e in “Domus”, 1948, n. 226 Tra il 1946 e il 1947 la scrittrice americana Marya Mannes in ben due articoli pubblicati su “Vogue” e “House & Garden” sottolinea il legame tra la “rinascita” italiana e la lunga, feconda e “anonima” tradizione artigianale: quella stessa che, a detta sua, lega Giotto, Leonardo e Michelangelo agli autori contemporanei.11 Il merito di aver colto questa continuità, sempre secondo Mannes, spetta a Gio documenta i diversi manufatti che non sempre coincidono con le descrizioni degli elenchi. Questi materiali meriterebbero uno studio più approfondito attraverso precisi incroci e riscontri. 11 Mannes 1946, pp. 196-203; Mannes 1947b, pp. 92-101. Su questo tema, si veda anche il saggio di Bosoni in questo volume. 102 Stefano Setti Ponti e all’artista-architetto ravennate Enrico Galassi: l’impresario menzionato da Consagra. Nel suo studio romano di Villa Giulia, il mecenate Galassi, con sguardo rivolto agli USA e con uno spirito da bottega rinascimentale che non aveva niente da invidiare a quella cinquecentesca dei Della Robbia, promuove, produce e commercia opere di Carrà, de Chirico, ma anche dei giovani di via Margutta tra cui Mirko, Leoncillo, Capogrossi e Consagra: “Ciò che stimola Galassi è suscitare e realizzare, con la collaborazione di artigiani e artisti, quei poderosi pezzi unici all’italiana – siano mosaici, o grandi intarsi, o spettacolosi stucchi ecc. – degni di quelli di cui una volta erano mecenati i prìncipi o i papi”.12 Tramite allestimenti neutrali e per certi versi opposti ai precedenti casi, anche la seguente esposizione Twentieth-Century Italian Art, organizzata al MoMA nel 1949, prosegue una linea di condotta indirizzata a esporre soluzioni più confacenti a dimostrare un panorama artistico contemporaneo meno radicale rispetto a quello che effettivamente era. Attraverso una prospettiva storica, qui unicamente basata su pittura e scultura, il traguardo della nuova arte italiana è in larga misura rappresentato dall’eterogeneo, e formalmente meno destabilizzante, movimento postcubista del “Fronte nuovo per le arti” capitanato da Guttuso. Nella stessa misura la sezione “scultura recente” propone opere figurative di Manzù, Martini, Marini e Fontana del quale sono esposti lavori in ceramica (una “maschera” e un “Crocifisso”) in forma ambigua: il medium è infatti inteso come materiale della tradizione e non dell’innovazione.13 What is it? La successiva mostra Italy at Work, itinerante per ben tre anni (1950-1953) all’interno di istituzioni museali americane è nuovamente dedicata al prodotto, all’artigianato e all’arte applicata: metafore della ripresa e della liberazione italiana, ora presentati entro un più rassicurante contesto domestico. Tra gli oltre 2000 oggetti esposti compaiono opere di quegli stessi artisti (all’incirca) che avevano preso parte due anni prima alla mostra Handicraft as a Fine Art. Non si conoscono tutte le opere ma ancora una volta “Domus” di Ponti illustra un buon panorama dell’iniziativa: “[…] un contributo pratico e concreto, come amano vedere gli americani, all’adempimento degli intenti del Piano Marshall. […] Fare innamorare gli americani delle cose italiane”.14 L’elenco dei partecipanti in catalogo specifica per ogni presenza, tramite le iniziali (D) e (P), la qualifica: Designer, Producer o entrambi. Non vi sono altre varianti. Eccezion fatta per l’italoamericano Costantino Nivola, che espone nella sezione dedicata alla pietra dura e al mosaico, il S.A. 1950, p. 42. Su Galassi: Cassani 2020; Dellapiana 2022, pp. 112-113. Sul contesto romano cfr. De Guttry, Maino 1994a. 13 Gamble 2020, pp. 215-229; Bedarida 2022, pp. 83-123. 14 Ponti 1950b, p. 25. 12 Artists at Work: la messa in scena dell’arte italiana in America, 1947-1950 103 settore che vede la più alta presenza di pittori e scultori è quello della ceramica: tra gli altri si segnalano Afro, Antonia Campi, i fratelli Cascella, Consagra, Fabbri, Fancello, Fontana, Leoncillo, Melotti, Sassu e Gio Ponti. Quest’ultimo progetta una sala da pranzo da contemplare a mo’ di quadro, allestita entro una sorta di nicchia.15 Nella prima tappa del Brooklyn Museum è collocato in questa stanza il gruppo scultoreo di Melotti dell’Annunciazione tra le stoviglie in porcellana e le più note Mani modellate sugli stampi industriali per guanti in gomma, rigorosamente Ginori. Un insieme onirico lontano dalla ricerca funzionale dell’“abitare all’italiana” degli anni ’50. Nella successiva tappa dell’Art Institut di Chicago del 1951, su un supporto gradonato e tra soprammobili in porcellana, è invece esposta la Dattilografa di Leoncillo: un’opera che per soggetto (neorealista) e modellazione, stride con la quotidianità spensierata proposta dalla mostra (fig. 2). Consagra è rappresentato da piatti nuovamente realizzati dallo studio Galassi16 e anche a Lucio Fontana, che in catalogo è erroneamente indicato come “Fontana di Albisola”, la città della ceramica, tocca la stessa sorte. In questi anni, e ancora per almeno un decennio, gli americani sono poco interessati alle sue recenti opere “spaziali”, mentre vasi e piatti decorati riflettono perfettamente il clima ricercato.17 Ciononostante permane una certa difficoltà di lettura dell’artista, forse da imputare alla resa dei manufatti presentati più inclini a calcare le potenzia- 2. Tavole relative alle opere di Leoncillo, Cascella e Anna Maria Cesarini Cascella nel catalogo della mostra Italy at Work, 1950 15 16 17 Sul contributo di Ponti alla mostra, si veda il saggio di Dellapiana nel presente volume. Pubblicati da Ponti 1950b, p. 65. Sul ruolo di Fontana si veda il saggio di Bedarida nel presente volume. 104 Stefano Setti lità materiche del medium piuttosto che il soggetto raffigurato. In seguito alla chiusura della mostra mentre la maggior parte dei lavori viene ridistribuita tra le diverse istituzioni, nessun museo esprime interesse per acquisire le opere di Fontana come riportato nella documentazione d’archivio resa nota da Catharine Rossi.18 Nell’Italia del secondo dopoguerra Consagra, Fontana, Leoncillo e Melotti (protagonisti delle Biennali e delle Triennali) in maniera diversa ragionano sulla possibilità di rottura di un concetto tradizionale di scultura che qui non è considerato. Per di più la varietà della mostra non aiutava i cronisti. Come si è visto le sculture erano poste tra suppellettili, oggetti di uso quotidiano, mobilistatua, mosaici, pietre dure, lampade e piatti, tanto che innanzi alla Dattilografa di Leoncillo una testata scherzosamente titolava: “What is it?”.19 Certo è che queste esposizioni rappresentano le prime occasioni per gli artisti italiani di presentare e vendere le loro opere in USA: ragione per cui si sfrutta abilmente la circostanza. Il catalogo di Italy at Work riconosce l’importanza della precedente, seppur diversa, Twentieth-Century Italian Art. Così come era successo al Museum of Modern Art (MoMA), al fine di presentare determinati manufatti di carattere figurativo, con predilezione per soggetti religiosi, i testi parlano di misticismo degli italiani. Anche quella che poteva apparire come l’opera più politicizzata della mostra, il bassorilievo raffigurante la Morte del partigiano di Agenore Fabbri, è presentata accanto a un tabernacolo con candele e presepe: sul contenuto vince un’iconografia effettivamente molto vicina a quella della Deposizione di Cristo dalla croce. Questa “contaminazione” è una delle caratteristiche del nuovo spirito italiano come sottolinea alla stampa Charles Nagel jr., direttore del Brooklyn Museum, poco prima dell’inaugurazione: “Anyone who knows Italy, if only through an Italian film, knows that Italians are quick to laughter, quick to tears”.20 Il portato delle scelte del MoMA, che avevano bypassato le ricerche astratte più considerate dai circuiti delle gallerie private, ben si misurano in questa successiva rassegna. Il curatore Meyric R. Rogers ribadisce come, nel complesso, la pura astrazione ha poco appeal sul temperamento artistico italiano.21 L’astrattismo è questione intellettuale e, fin dalle origini della rivoluzione contemporanea, prosegue Rogers, l’arte italiana si discosta rispetto al cosiddetto intellettualismo che aveva caratterizzato le conquiste francesi, cubismo in primis.22 Al fine di esaltare la narrazione legata alla manualità (rispetto alla modernità e all’industrializzazione) era più utile enfatizzare il lavoro, come ribadito nel titolo della mostra e nell’im18 Rossi 2015, pp. 17-18 e nn. 40-41. Tutto il capitolo ripercorre le vicende della mostra attraverso una lente funzionale a comprendere i retroscena politici anche in rapporto alla parallela IX Triennale di Milano del 1951. 19 Democrat and Chronicle 1950, p. 17. 20 Italy at Work. Exhibit to Tour Museums Here 1950, p. 655. 21 Rogers 1950b, p. 23. 22 Ibidem. Artists at Work: la messa in scena dell’arte italiana in America, 1947-1950 105 magine di apertura del catalogo raffigurante l’artista Guido Gambone al tornio. Il lavoro manuale, l’irriproducibilità, l’anonimato e l’individualismo (quale risultato di una pesante oppressione), a differenza delle più cerebrali e calcolate idee di serialità e progetto (che rimandavano a pericolosi collettivi) o di estetica astratta, rappresentavano una sorta di azzeramento intellettuale e una parificazione dei ruoli, utile a descrivere un paese tutto sommato mansueto e accondiscendente con i nuovi alleati. Per i promotori della mostra l’Italia della “ricostruzione” è un paese del fare e non del pensare. Il discorso intellettuale non sembra aver niente a che fare con la cultura artistica italiana. L’aspetto operativo, innanzi agli americani diventa addirittura metafora della nuova democrazia come ribadisce il direttore del Brooklyn Museum nel comunicato stampa: In this exhibition the American can see what his help (plus the Italians’ good use of that help) has achieved. If the visitor to our museums can look a little further behind the glass and stone we are showing, he will possibly also see the busy workmen who made the objects and understand how this very activity America has fostered has been a strong instrument in teaching men who had lived a short lifetime under totalitarianism the desirability of Democracy, American style. This (which is, in effect, the Marshall Plan) has been a prime factor in stopping Communism in Italy in its tracks.23 Ancora Max Ascoli, presidente dell’HDI, prima dell’inaugurazione scrive che saranno esposte opere fatte da semplici artigiani, poveri e non sofisticati, ma ossessionati dal senso della bellezza.24 In generale i commenti a questa manifestazione comprendono un tripudio di termini quali: libertà, creatività, genialità, fantasia, sensualità, vitalità, varietà, sole e sempre tanta bellezza. L’Italia ha un insito senso del bello che tuttavia sfugge se non inteso in termini retorici e politici. È altrettanto vero che, in buona parte dei casi, la versatilità degli artisti italiani consentiva queste letture soprattutto a fronte delle più ferree categorizzazioni (pittura o scultura) imposte dalla critica americana. Come anticipato, queste manovre sono infatti efficaci ad accentuare l’egemonia artistica del nascente espressionismo astratto sullo sfondo delle teorizzazioni moderniste e delle operazioni culturali del Piano Marshall. Per il cosiddetto modernismo gli anni 1950-51, in America ed Europa, sono nodali. L’arte autentica, preferibilmente astratta, è autonoma e deve coltivare la specificità della sua natura: l’arte non è qualcos’altro ma è arte. Gli scultori devono essere scultori e i pittori devono essere pittori. L’arte è qualcosa di più specifico rispetto alla bellezza: è un’esperienza autonoma che prescinde dal soggetto e dal processo realizzativo. Le operazioni incontrate hanno sicura23 Enormous Exhibition Showing Italy’s Renaissance in Industrial and Decorative Arts Opens at Brooklyn Museum November 29th-Tours U.S. Coast-to-Coast for Three Years, 29 November 1950. BMA. Records of the Department of Public Information. Press releases, 1947-1952. 10-12/1950, 1006. 24 Ibidem. 106 Stefano Setti mente influito su un certo ritardo e su una certa difficoltà che la critica americana ha riservato agli artisti d’avanguardia del Bel Paese. Tuttavia, parallelamente alla realizzazione di ceramiche e suppellettili, i protagonisti italiani prenderanno posizione: segni, gesti, buchi, squarci, monocromi, esplosioni plastiche e catrami da lì a poco rappresenteranno un riconoscimento e allo stesso tempo una distruzione di quel dominio culturale esercitato proprio dal Piano Marshall.25 25 Mansoor 2016. Ceramiche per ricostruire l’Italia: Lucio Fontana nelle mostre americane del dopoguerra Raffaele Bedarida The Cooper Union for the Advancement of Science and Art, New York P rima di considerare l’utilizzo della ceramica di Fontana nelle mostre del dopoguerra, è bene tenere presente la fortuna della ceramica rispetto al resto del suo lavoro. Se oggi le sue ceramiche riscuotono interesse e sono oggetto di un catalogo ragionato dedicato (2022),1 ricaviamo una prospettiva storica dal fatto che questo catalogo sia uscito quasi quaranta anni dopo il catalogo delle pitture e sculture (1986) e dieci anni dopo quello delle opere su carta (2013).2 Si tratta di una gerarchia di retaggio modernista che va oltre la ricezione di Fontana, e che è stata oggetto di critica a più riprese.3 Fontana ha lavorato ininterrottamente nella produzione ceramica dagli anni ’20 in poi, facendone un uso vario, sperimentando tecniche ed effetti in parallelo alla ricerca con altri mezzi. Ma, dalla fine degli anni ’80 (dunque venti anni dopo la morte dell’artista), la ceramica ha avuto un peso cruciale nella rivalutazione di Fontana da parte della storiografia statunitense, in chiave post-strutturalista.4 Se fino a quel momento la sua ricezione negli Stati Uniti era stata in gran parte negativa, alla fine del Novecento le sculture in ceramica venivano lette da autori come Yve-Alain Bois e poi Anthony White come un aspetto fondamentale dell’interesse dell’artista per il kitsch e il “base materialism”:5 ovvero un’estetica dal basso che metteva in crisi il formalismo modernista e le sue gerarchie, creando 1 Barbero 2022; mostra Lucio Fontana: Sculpture, a cura di Barbero, Hauser & Wirth, New York (2022-2023); la Peggy Guggenheim Collection di Venezia ha in preparazione una mostra di ceramiche di Fontana a cura di S. Hecker prevista per il 2025. 2 Crispolti 1986; Barbero 2013. 3 Sorkin 2016. 4 Anche in Italia c’è stata un’ondata di interesse per la ceramica di Fontana dagli anni ’90, ma negli USA quella è stata per Fontana la via di accesso al canone dell’arte da cui era escluso. 5 Bois 1989; Bois, Krauss 1999; White 2014; Art Since 1900 2004. Il lavoro di Mansoor che, seppur emerso dalla scuola di Krauss, si concentra sull’astrazione in chiave marxista, dà alla ceramica un ruolo secondario. Mansoor 2016. 108 Raffaele Bedarida un cortocircuito tra la proiezione utopica e l’astrazione da una parte, e il regresso ad una condizione pre-linguistica, il cattivo gusto piccolo-borghese e il senso escrementizio della materia. Se questa lettura è stata criticata, come l’applicazione arbitraria di parametri avulsi dalla specificità del dibattito italiano, risulta utile a posteriori per rivalutare la strategia espositiva di Fontana negli Stati Uniti nel dopoguerra.6 Nell’Italia della ricostruzione, la ceramica acquisiva un valore simbolico, rappresentando una dimensione di iniziativa individuale e di lavoro manuale che corrispondevano alla retorica del momento: individualismo e lavoro erano termini chiave nel linguaggio che accompagnava e sosteneva gli aiuti del Piano Marshall come strumento di costruzione di una nuova società che si lasciava alle spalle il passato fascista, e allo stesso tempo non si lasciava tentare dalla cosiddetta “minaccia comunista”. Il piccolo artigianato radicato nel territorio veniva contrapposto al monumentalismo fascista (si tratta di semplificazioni retoriche); allo stesso tempo veniva distinto dal collettivismo operaio e del movimento contadino per la riforma agraria. Così, una serie di francobolli del 1950, intitolata Italia al lavoro appena in anticipo su Italy at Work, mostrava lavoratori nell’atto di compiere gesti legati alle tradizioni regionali: la Toscana era rappresentata da un ceramista al tornio che rifiniva un vaso, mentre Palazzo Vecchio sullo sfondo sottolineava la continuità di una pratica antica, e nobilitava il gesto umile dell’artigiano.7 Il museo della Ceramica di Faenza, intanto, diventava un simbolo nazionale: danneggiato dai bombardamenti alleati del 1944 veniva ricostruito nel dopoguerra grazie ad aiuti economici internazionali.8 La fragilità della ceramica richiamava l’iconografia onnipresente delle macerie: un immaginario, diffuso dai mass media e dal cinema, che presentava gli italiani all’indomani del fascismo come coloro che avevano subito le conseguenze della guerra, e creava un senso di potenziale assoluto dato dalla tabula rasa.9 Con Italy at Work culminava l’utilizzo retorico della ceramica come materiale per eccellenza della ricostruzione. La copertina del catalogo di Corrado Cagli – qui pubblicato a pagina 119 – rappresenta un artista al tornio come illustrazione della rinascita creativa dell’Italia annunciata nel titolo. Raffigurato come una silhouette che ricorda il Modulor di Le Corbusier, è affiancato da un albero pieno di vita ma più basso di lui, quasi a indicare un nuovo umanesimo, la cui vitalità è garantita dal gesto creativo, di cui il piccolo oggetto sul tornio è umile testimonianza. L’albero e il tricolore citavano la copertina del Museum of Modern Art (MoMA) del 1949, con una variante:10 la ricostruzione guardava al futuro, ma 6 Nicoletti 2023. Voci: Ceramica (Barbero); Critica, Stati Uniti (Bedarida); Kitsch (Viva); October (McManus). Per una distinzione tra Bois e White, Galimberti 2016. 7 Vedi Orsini 1981, pp. 142-150. 8 Bojani 1997. 9 Bedarida 2020. 10 Vedi Marino in questo volume; Bedarida 2018. Ceramiche per ricostruire l’Italia: Lucio Fontana nelle mostre americane del dopoguerra 109 era radicata nella tradizione italiana al di là del ventennio (la nozione crociana del fascismo come parentesi), mettendo al centro il gesto modesto dell’individuo. Nella prefazione del catalogo, accanto alle fotografie del ceramista Gambone al tornio, il curatore Walter D. Teague parlava delle opere selezionate per la mostra come dei “primi prodotti di una completamente nuova, immensamente vigorosa aratura del profondo suolo culturale in cui le arti italiane sono radicate”.11 Il fatto che la ceramica fosse fatta con la terra aggiungeva un ulteriore livello di significato: come per l’abbinamento albero-ceramista, la ceramica evocava una rinascita umile dal suolo, tra spinta vitale della natura e cura dell’uomo. Fontana conosceva bene questa retorica. Rientrato a Milano nel 1947 dopo aver trascorso la guerra in Argentina trovava il proprio studio distrutto e vi si faceva fotografare in una serie di scatti subito pubblicati e diventati famosi. Il messaggio non troppo implicito era che le sue opere rimaste nello studio, soprattutto le ceramiche degli anni ’30, erano ormai tutt’uno con le macerie. Intanto produceva opere come l’Uomo atomico (1947) in cui mostrava un corpo fragile e ferito ma anche il potenziale di rinascita neo-futurista sotto forma di cyborg post-atomico. Anche la Ceramica spaziale (1949), che nell’analisi formalista di Bois è l’esempio della tensione tra astrazione modernista (cubo) e materialismo di base (escremento), si collocava in modo altrettanto strategico nell’intersezione tra immaginario delle macerie (passato sepolto) e del suolo fertile (concime). Al vitalismo creativo e all’etica del lavoro, Fontana abbinava una fiducia futurista nella trasformazione tecnologica (Crispolti raccontava di come Fontana giocasse a fare l’uomo di passione latino e il pragmatico lavoratore lombardo). Nel Manifiesto Blanco del 1946, così come nei successivi manifesti dello spazialismo, Fontana proponeva una nuova arte dell’era atomica e delle esplorazioni spaziali fatta di “sostanze luminose”.12 Considerando queste premesse, risulta anomala la serie di scelte espositive per le mostre americane del dopoguerra. In Italia, Fontana accompagnava la produzione e l’attività espositiva in ceramica ad opere in cui sperimentava con nuovi materiali. L’alternanza era quasi sistematica: dopo l’ambiente con la luce di Wood al Naviglio (1949), teneva una personale di ceramiche alla Galleria Il Milione (1950);13 partecipava alla Triennale del 1951 con due grandi neon, ma anche con una forte presenza di ceramiche.14 Perché, invece, quando esponeva negli Stati Uniti non solo si limitava alla ceramica, ma utilizzava solo forme tradizionali come il crocifisso, il vaso e il piatto decorato? E stiamo parlando di mostre al MoMA, al Brooklyn Museum, all’Art Institute di Chicago, quindi di opportunità importanti in quelle che erano riconosciute anche in Italia tra le più 11 12 13 14 Teague 1950b, p. 9. Traduzione dell’Autore. Sanna 2015. Lucio Fontana, Naviglio, Milano, 1949; Lucio Fontana, Il Milione, Milano, 1950. Nona Triennale di Milano 1951, pp. 55, 147-148, 173. 110 Raffaele Bedarida influenti istituzioni di arte moderna. Posti, inoltre, dove ci si aspetterebbe un’autorappresentazione di modernità. Da una parte c’era un comprensibile senso di distanza, un minore investimento per una scena artistica che Fontana conosceva meno, e un minore controllo sull’allestimento delle opere (l’unico viaggio di Fontana negli USA sarà nel 1961). Ma c’era anche un discorso più sottile di strategia identitaria, in dialogo con lo sforzo di proiezione nazionale di cui le mostre americane di quegli anni erano laboratorio e messa in atto.15 Quando Fontana installava i neon alla Triennale del 1951, si trattava dello stesso luogo dove nel 1936 aveva allestito la Sala della Vittoria dedicata alla conquista dell’Etiopia e la proclamazione dell’Impero. La scultura di Fontana poggiava su una citazione di Mussolini a caratteri cubitali: “Il popolo italiano ha creato col suo sangue l’impero”. Anche le sue ceramiche dovevano echeggiare i proclami dell’anteguerra. Nel 1939 il futurista Tullio d’Albisola descriveva la sua attività nei forni di Albisola come una lotta virile col fuoco di uno “statuario squadrista”.16 Il revival della ceramica alla fine degli anni ’30 era approvato dal regime in quanto pratica antica, legata al suolo italico, oltre ad essere materiale autarchico per eccellenza.17 L’ultima opera pubblica di Fontana prima di partire per l’Argentina era la decorazione per il soffitto del Sacrario dei Martiri Fascisti di Milano, inaugurato dallo stesso Mussolini: realizzato provvisoriamente in stucco, avrebbe dovuto poi essere reso in ceramica.18 Il fatto che, tornato in Italia, Fontana tornasse ad Albisola a fare ceramica con Tullio e in Triennale creava una continuità rassicurante e inquietante al tempo stesso. Nella Milano della ricostruzione le ceramiche di Fontana e le sue sperimentazioni con nuovi materiali luminosi erano complementari e funzionavano come la foto sulle macerie dello studio: permettevano al pubblico di osservare il passato fascista come sepolto, ma anche di guardarlo attraverso uno schermo protettivo o una luce accecante. Di contro, se i calcinacci promettevano rinascita dalla presenza tattile della materia, le forme luminose alludevano ad un futuro tecnologico senza peso. Invece negli USA Fontana non aveva un passato su cui operare: non solo perché si rivolgeva ad un pubblico che non aveva le stesse necessità di ricordare e di dimenticare che c’erano in Italia, ma anche perché, più banalmente, quel pubblico non conosceva il suo lavoro di prima della guerra. Avrebbe dovuto esporre le sue ceramiche nel 1938 presso la Comet Gallery di New York. Ma la mostra non si svolse perché la galleria fu chiusa dal regime.19 Dunque, nel dopoguerra vi Tedeschi 2017; Bedarida 2022. D’Albisola 1939. 17 Bedarida 2004 (poi ripreso nel 2008 con il titolo ‘Bourgeois? Never!’ Fontana Contended in the Late 1930s, in occasione dell’esposizione Willem de Kooning, Lucio Fontana, Eva Hesse, presso l’Andrea Rosen Gallery di New York); Bochicchio, Crispolti, Valenti 2018. 18 Braun 2019. 19 Cortesini 2018; sulla mancata mostra di Fontana, Bedarida 2018. 15 16 Ceramiche per ricostruire l’Italia: Lucio Fontana nelle mostre americane del dopoguerra 111 compariva per la prima volta e montava a pieno titolo sul carro della New Italian Renaissance. La prima occasione era stata Handicraft as a Fine Art in Italy, una mostra organizzata da Ragghianti alla HIH di New York nel 1947.20 La mostra, che ha segnato il tono dell’esportazione dell’arte italiana nell’America del dopoguerra, promuoveva l’idea che l’artigianato italiano avesse la dignità di fine art e che le arti maggiori in Italia fossero, a loro volta, caratterizzate da qualità manuale e umiltà artigiana. Si sottolineava la combinazione di creatività individuale, dedizione al lavoro e sapere manuale, come retaggio nazionale.21 Il messaggio implicito era che ogni italiano fosse depositario, per nascita, del genio di Michelangelo e Leonardo, e che, date le condizioni basilari di libertà creativa e sostentamento, potesse manifestarlo anche con mezzi minimi.22 La presenza abbondante di sculture in ceramica e in gesso bene rappresentava il concetto di eccellenza manuale con mezzi poveri e di fervido incontro tra arte e artigianato, creando un precedente importante per Italy at Work.23 Fontana non vi esponeva opere in ceramica, ma una scultura in gesso patinato, Achille (David), che era in linea, per materiale e per estetica, con l’ideologia della mostra. Nel 1949, alla mostra Twentieth-Century Italian Art del MoMA, che si concentrava su pittura e scultura, Fontana non esponeva le sue sculture “spaziali” o le recenti superfici bucate; non proponeva ambienti luminosi come avrebbe fatto, di lì a poco, alla Galleria del Naviglio.24 Invece esponeva piccole ceramiche colorate dai temi popolari tradizionali, come il crocifisso e l’Arlecchino.25 Era una scelta anomala visto che già nella primavera dello stesso anno, mentre fervevano i preparativi per la mostra, Fontana confidava ad un amico: “Io continuo a lavorare nella mia ceramica, però i miei ideali sono sempre nel mondo ‘Spaziale’, movimento che sta interessando, se ne parla molto in Italia e aspetto una buona occasione per organizzare in grande una manifestazione”.26 Sulle pagine di “Domus” Ponti si era raccomandato con artisti e collezionisti di dare ai curatori Barr e Soby il meglio che avevano perché la posta in gioco per l’arte italiana era molto alta, e aveva ricordato che sebbene il MoMA avesse molti dei principali capolavori dell’arte moderna europea, la collezione italiana era limitata e andava espansa.27 Ma Fontana inviava per Twentieth-Century Italian Art oggetti che non si presentavano come capolavori. La loro anomalia si manifestava anche a livello curatoriale: mentre i cavalieri di Marini e le sculture astratte di Si veda Ferretti, Mingardi e Turrini in questo volume. Bedarida 2022, pp. 92-123. 22 Handicraft as a Fine Art in Italy 1947. 23 Esponevano ceramiche: Cherchi, Leoncillo, Melotti, Sassu, Strada. Per i gessi: Mirko, Broggini, Fontana (il catalogo indicava erroneamente bronzo), Melotti. 24 Seppure la scelta fu il risultato di fattori concomitanti, tra cui la preferenza di Barr e Soby, e il tempismo della loro visita, non sono documentate obiezioni di Fontana. Bignami, Colombo 2020. 25 Hecker 2012. 26 Lettera di Fontana a Pablo Edelstein 5/6/1949, cit. in Campiglio 1999, p. 110. 27 Ponti 1949, frontespizio. 20 21 112 Raffaele Bedarida Viani venivano esposti su grandi piedistalli, contro pareti monocrome, le ceramiche di Fontana, a metà strada tra scultura e soprammobile, tra oggetto devozionale e decorazione architettonica, finivano in uno spazio di servizio in un angolo (vicino a una grata dell’aria condizionata), con il crocifisso posto goffamente su una strana mensola triangolare. L’enfasi di Fontana sulla dimensione artigianale della ceramica non va letta come provocazione ad uso esclusivo del pubblico americano. Faceva parte di un modo operativo portato avanti dall’artista almeno dagli anni ’30. Tanto che, già prima della guerra, sentiva il bisogno di complicare, seppur contraddittoriamente, l’immagine semplicistica di ceramista-artigiano che si stava consolidando: “Sono uno scultore, non sono un ceramista. Non ho mai girato al tornio un piatto né dipinto un vaso. […] Aborro i mistici della tecnica”.28 Anche nel dopoguerra continuava il suo interesse per l’aspetto artigianale (e tecnico) della ceramica, nonostante nell’immagine pubblica prevalesse il Fontana avanguardista e autore di manifesti. Nella corrispondenza privata, Fontana scriveva dei propri sforzi per ottenere effetti luminosi e colori cangianti giocando con le temperature e con i fumi nei vari forni di Albisola. E proprio nei giorni della mostra al MoMA, nella stessa lettera in cui dichiarava la sua dedizione allo spazialismo, scriveva a Edelstein, che produceva ceramica in Argentina, anche della sua ammirazione per le tecniche sofisticate praticate dagli artigiani in varie parti d’Italia: “i riflessati di Gubbio sono quelli con segreti primitivi degli artigiani di lì. Io desidererei andare in quel luogo per apprendere le tecniche”.29 Ma se in Italia Fontana si assicurava sempre di controbilanciare con dichiarazioni, gesti e opere da avanguardista, negli Stati Uniti optava per un’immagine più semplicemente artigiana: quella che in Italia sembrava riservare al pubblico borghese, giustificandola in privato con la necessità di vendere (“Produzione privata, soliti piatti con contorni di guerrieri, e Cristi!”).30 Ma allora perché nei più importanti musei statunitensi Fontana mandava solo Cristi e piatti con guerrieri? In parte Fontana condivideva un pregiudizio diffuso in Italia che vedeva negli USA un potenziale mercato senza gli strumenti culturali necessari a comprendere l’arte, ma la sua strategia rivela qualcosa di più profondo. Se in Italia (ma anche in Francia), da sempre, Fontana aveva flirtato con l’identità nazionale, nel contesto americano il suo diventava un vero e proprio gioco con i cliché dell’italianità che si stavano creando proprio rispetto all’interlocutore USA.31 Non a caso, Teague apriva il suo articolo sulla rivista “Interiors” con la fotografia di un Fontana abbronzato in vestiti casual (non certo il Fontana in doppio petto che compariva nelle pubblicazioni sullo spazialismo), ritratto nella manifattura Mazzotti ad Fontana 1939. Vedi: Campiglio 1994; Crispolti 2006; Bedarida 2007; Bochicchio 2018, pp. 26-61. 29 Lettera di Fontana a Pablo Edelstein 6/5/1949, cit. 30 Lettera di Fontana a Mario Bardini 27/8/1956, cit. Bochicchio 2018, p. 43. 31 Dellapiana 2022. Utilizzo il termine performativo nel senso identitario inteso da Butler. 28 Ceramiche per ricostruire l’Italia: Lucio Fontana nelle mostre americane del dopoguerra 113 1. Lucio Fontana ad Albisola Marina. Teague W.D., Italian Shopping Trip: Twelve American Museums Send Out a Battery of Buyers, in “Interiors”, November 1950, vol. 110, n. 4, p. 144 Albisola tra le sue ceramiche (fig. 1). Oltre a collocare lo scatto “on the Italian Riviera”, Teague sottolineava come le sofisticate ceramiche di Fontana avessero la stessa ruvidezza dei muri non intonacati di quell’ambiente rustico.32 L’articolo dava un resoconto del viaggio di Teague con il comitato che selezionava le opere per Italy at Work, motivandone le scelte: progetti innovativi ma anche legati alla tradizione, libertà creativa e ingegnosità, pezzi unici (o comunque non prodotti di massa) realizzati con manualità esperta e dedizione artigiana, e un’onnipresente bellezza che sembrava venire emanata naturalmente tanto dai corpi e dalle mani degli italiani quanto dagli ambienti.33 Altro tema che ricorreva era la sensualità di retaggio cattolico: un barocco confinante con il cattivo gusto, ma paternalisticamente definito “sophisticated” per legittimare il desiderio del pubblico americano il cui gusto, invece, si presumeva sobrio e moderno. Fontana ceramista nel contesto mediterraneo di Albisola, tra vasi e crocifissi, offriva allo shopping trip dei suoi visitatori l’esotismo mediterraneo che cercavano. L’allestimento della mostra ne dava conferma. I suoi vasi venivano esposti tra tendaggi e tessuti (fig. 2) in una sala con una mappa del Mediterraneo, come do32 33 Teague 1950c. Ibidem; Dellapiana 2022, pp. 127-128. 114 Raffaele Bedarida 2. Sala allestita con i vasi di Lucio Fontana, Italy at Work: Her Renaissance in Design Today, The Art Institute of Chicago cumentato in altre immagini dell’allestimento: se da una parte dovevano evocare l’arcaico mediterraneo, ravvivato dalla tradizione modernista italiana (da Campigli a Ponti), allo stesso tempo si confondevano con gli arredi da terrazza o da bordo piscina (presentati in mostra da Luigi Cosenza) e l’idea, sempre più in voga in America, del sensuale dolce far niente.34 Il suo crocifisso, Transfiguration, non più decontestualizzato nel white cube modernista come al MoMA, ora veniva osservato con sguardo antropologico: riprodotto in catalogo insieme al Presepe di Fancello, negli allestimenti compariva tra paramenti da chiesa, abiti liturgici e vere e proprie ricostruzioni di ambienti per la preghiera, diventando potenzialmente un oggetto d’uso religioso. Insomma, Fontana entrava attivamente nello sforzo proiettivo verso gli USA come laboratorio di costruzione identitaria nazionale; allo stesso tempo giocava, non senza ironia, con gli stereotipi dell’Italia che gli americani cercavano e che prontamente venivano loro forniti: dal souvenir archeologico alla maiolica locale, dal folklore all’aristocratico-nostalgico. La continuità con la retorica dell’anteguerra era sotto gli occhi di tutti, seppur rimossa: un’Italia moderna ma legata a tradizioni regionali antiche; produzione artigiana o piccolo-industriale a gestione familiare; sensualità mediterranea approvata dalla 34 Vedi Viola 2019. Ceramiche per ricostruire l’Italia: Lucio Fontana nelle mostre americane del dopoguerra 115 tradizione contro-riformista.35 Se l’atteggiamento di Fontana poteva sembrare pragmatismo commerciale, come quando parlava di vendere piatti ai borghesi, in realtà la legittimazione e la cassa di risonanza proveniente dagli Stati Uniti aveva un potere galvanizzante che andava oltre: nell’immagine riflessa dall’America la rinascita creativa degli italiani dopo la caduta di Mussolini si amplificava e diventava moderna proprio in virtù dello sguardo degli americani, che per gli italiani era moderno per definizione. Il suo approccio, però, risultò più utile a gettare le basi per il successo Oltreoceano del design italiano (non suo) che non a far apprezzare il suo lavoro o a farlo entrare nel canone dell’arte negli Stati Uniti, come invece accadeva ad altri artisti italiani. Artisti come Afro, Marini, o Burri avrebbero continuato nel corso degli anni ’50 ad essere promossi in relazione o come contrappunto alla costruzione della moda e del design Made in Italy negli Stati Uniti, ma sempre mantenendo la propria autonomia di fine artists, così affermandosi tra gli artisti più in voga di quel decennio e poi sparire nei ’60.36 Fontana invece varcava il confine, sacro negli USA del dopoguerra, tra arte e artigianato, e piantava il seme di quello che sarebbe emerso come un kitsch consapevole: non tanto come critica del modernismo, quanto come riflessione ironica, se non addirittura cinica, sulla trasformazione della narrazione nazionale: dal tono eroico del ventennio al marketing del prodotto tipico. Un’Italia in vendita al nuovo potere dominante. 35 36 Sparke 1998; Dellapiana 2022. Bedarida 2022. A New Italian Renaissance? Il contributo di Corrado Cagli ad una nuova retorica Fabio Marino Politecnico di Milano L a mostra itinerante Italy at Work, inaugurata nel 1950 al Brooklyn Museum, rientra nel novero dei più significativi progetti di promozione delle arti italiane organizzati negli Stati Uniti all’indomani della Seconda guerra mondiale. È senz’altro possibile rileggere un’iniziativa del genere non come fatto episodico e isolato, bensì come tassello del proteiforme processo di ricomposizione delle alleanze politiche internazionali, ripreso in maniera consistente al termine del conflitto e attuatosi anche grazie ad alcune significative esposizioni.1 Sulla medesima scia si possono menzionare altre manifestazioni affini, come la mostra Handicraft as a Fine Art in Italy allestita nel 1947 presso la HIH,2 o la più nota retrospettiva Twentieth-Century Italian Art allestita al Museum of Modern Art (MoMA) nel 1949.3 Questo avvicendamento serrato testimonia chiaramente il rinnovato interesse destato dalle produzioni artistiche italiane e palesa, ad una lettura più approfondita, la palpitante urgenza di ristabilire delle relazioni di varia natura, già esistenti, consolidatesi negli anni tra le due guerre. Un fenomeno complesso da affrontare non soltanto dal punto di vista della trasmissione di spe- Gio Ponti diede immediatamente molto spazio alla mostra su “Domus” con un lungo articolo riccamente illustrato, accompagnato da un suo testo introduttivo in cui si condensano acute riflessioni a sostegno delle iniziative espositive dedicate all’artigianato italiano. Nel 1950 Ponti riconobbe l’importanza del supporto economico garantito dagli Stati Uniti, definiti “reggitori del mondo” e custodi delle identità storiche, responsabili di “tutti i valori del mondo e della storia, che gli vengono confidati e affidati affinché siano salvi e restino incorrotti”; cfr. Ponti 1950b, p. 25. 2 Gli ambienti della mostra vengono presentati sulle pagine di “Domus”, cfr. Sede dell’Handicraft a New York 1948. Contrariamente al titolo della mostra, il progetto editoriale del catalogo si concretizza in un piccolo libro che non include l’attività artigiana, configurandosi come rassegna di una selezione di artisti italiani contemporanei. Su questo tema, si veda il saggio di Ferretti, Mingardi, Turrini nel presente volume. 3 Cfr. Soby, Barr 1949. Oltre al catalogo, per un sintetico contributo vedi anche il saggio di Davide Colombo pubblicato nel catalogo della mostra New York New York. Arte Italiana. La riscoperta dell’America, curato da Francesco Tedeschi, nel 2017; cfr. Colombo 2017, pp. 102-109. 1 118 Fabio Marino cifici contenuti, ma soffermandosi anche in particolare sulla ricezione degli stessi da parte del pubblico americano. In tal senso è spesso determinante e influente la mediazione culturale esercitata da artisti e intellettuali italiani già radicati nel contesto nordamericano. Emblematica appare quindi la figura di Corrado Cagli (1910-1976). Il celebre pittore marchigiano protagonista della Scuola Romana si rifugia negli Stati Uniti all’indomani dell’emanazione delle leggi raziali nel 1938, restandovi fino alla fine degli anni ’40.4 Si ritrova dunque ad operare nell’arco di un decennio particolarmente complesso, alle prese con una realtà politica ed economica mutevole, e in un momento in cui ondivaghe e incostanti sono soprattutto le relazioni diplomatiche fra le due nazioni. Durante la sua permanenza non si dedica unicamente a costruire e ricercare un consenso per il proprio lavoro, ma al contrario si distingue per una operosa attività di promotore culturale dell’arte italiana contemporanea, proponendosi come interlocutore fra le istituzioni americane e le controparti italiane. Nell’impossibilità di evidenziare una evoluzione lineare in queste interazioni torna utile mettere in evidenza le altalenanti oscillazioni di questo rapporto, seguendo i percorsi di quei personaggi capaci di comprendere l’evoluzione delle retoriche sottese alle azioni di promozione culturale. Proprio Cagli, nel secondo dopoguerra, individua e intercetta precocemente il rinascente fenomeno di interesse reciproco tra l’Italia e gli Stati Uniti, sostanziatosi nella costruzione del mito della New Italian Renaissance. Un fenomeno che prima di investire il nascente comparto dell’industrial design metteva ancor prima solide radici nel mercato dell’arte. Cagli a suo modo si confronta, in loco, con questo assunto esplicitando, tuttavia, le proprie perplessità rispetto a certe contraddizioni ideologiche. Se da un punto di vista pragmatico un certo cinismo accomuna produttori e artisti nel cavalcare la fortunata formula commerciale del “Nuovo Rinascimento”, su un piano teorico sembra opportuno rilevare quanto artisti come Cagli si pongano deliberatamente contro facili idee di rinascita culturale che segnino una rottura con il passato recente, sostenendo al contrario la necessità di confrontarsi rilevandone le linee di continuità solo apparentemente interrotte dalla guerra. Cagli disegna la copertina del catalogo della mostra Italy at Work (fig. 1). Una partecipazione indiretta all’iniziativa che appare quantomeno curiosa, se si considera che sia stata realizzata al principio degli anni ’50, quando il pittore era ormai rientrato stabilmente in Italia al termine del lungo soggiorno americano. Tra l’altro, nello stesso frangente, altri artisti attivi a New York, tra cui vale la pena citare Leo Lionni e l’italiano George Giusti, si stavano contemporaneamente affermando e imponendo nel campo della grafica, firmando le copertine delle maggiori Per informazioni biografiche su Corrado Cagli si rimanda agli apparati bio-bibliografici del catalogo della mostra curata da Fabio Benzi e allestita ad Ancona nel 2006, in occasione del trentennale della morte dell’artista. La biografia proposta è stata elaborata a partire da precedenti lavori, tra cui quelli fondamentali, e ivi citati, di Enrico Crispolti; cfr. Benzi 2006, pp. 429-469. 4 A New Italian Renaissance? Il contributo di Corrado Cagli ad una nuova retorica 119 1. Corrado Cagli, Copertina del catalogo della mostra Italy at Work: Her Renaissance in Design Today, 1950 riviste statunitensi.5 Proprio Giusti, milanese d’origine ed emigrato negli Stati Uniti nel 1939, illustra la copertina del catalogo della mostra Twentieth-Century Italian Art allestita al MoMA, dando all’arte italiana le sembianze di un arbusto da cui gemmano foglie tricolori. Seppur anche Cagli nella sua copertina ricorra ad una palette colori nazionalistica, gli elementi figurativi adoperati nella composizione non comunicano in maniera immediata l’idea di Renaissance enunciata nel sottotitolo. Si tratta di una raffigurazione enigmatica in cui un artigiano privo di connotazioni umane, alle prese con un’imprecisata lavorazione, campeggia su uno sfondo verde, contrapposto ad un’immagine arborea su campitura rossa.6 Non ci sono pervenute informazioni precise riguardo alla definizione di questo progetto, né sono chiare le circostanze per cui Cagli abbia ottenuto l’incarico. Si può ipotizzare un coinvolgimento di Max Ascoli, direttore della HIH ed estimatore del lavoro di Cagli, come risulta dall’acquisto di alcuni disegni presentati alla 5 Sulla storia degli artisti e dei designer italiani attivi negli Stati Uniti che si distinsero nel campo della grafica nel secolo scorso si veda il catalogo della mostra Italian Types. Graphic Designers from Italy in America, allestita all’Istituto Italiano di Cultura di New York nel 2019, cfr. Belen, D’Onofrio, Gazzotti 2019. 6 Il tratto di Cagli è chiaramente riconoscibile nella deformazione delle fattezze umane, in particolare i crani, che caratterizza gli olii su carta realizzati negli anni ’30. Mentre gli alberi sono ripresi dall’olio su carta Bosco nel Lemery del 1950. 120 Fabio Marino personale inaugurata nel marzo del 1947 alla Knoedler Gallery.7 Questo lavoro può assumere però un valore altamente simbolico se opportunamente messo in relazione con l’intero percorso americano dell’artista, sancendo la fine di una stagione che lo aveva visto molto attivo nell’affermare l’autonomia dell’arte italiana rispetto a coeve esperienze europee, prendendo le distanze da facili e semplicistiche retoriche da propinare agli americani con una consapevolezza variabile a seconda del preciso momento storico. Le origini di questa azione culturale vanno rintracciate nel primo soggiorno americano di Cagli, quando giunse a New York nel 1937 al seguito della contessa Anna Laetitia Pecci Blunt, mecenate e collezionista meglio nota come Mimì,8 per sovrintendere insieme al compagno e poeta Libero De Libero all’apertura della succursale newyorkese della Galleria della Cometa,9 inaugurata alla fine di dicembre del 1937 con la mostra An anthology of contemporary Italian painting.10 L’esperimento della Cometa Gallery si conclude poco dopo, a metà del 1938, patendo l’inasprirsi della campagna denigratoria antisemita, all’indomani della promulgazione delle leggi raziali, che interessava gli artisti di punta della galleria, tra cui lo stesso Cagli. Dopo questa esperienza, la sua attività di promotore corale dell’arte contemporanea italiana si interrompe momentaneamente, per riprendere qualche anno dopo in un contesto politico completamente mutato e sovvertito. Dopo un fulmineo rientro, Cagli abbandona l’Italia stabilendosi inizialmente per un breve periodo a Parigi, per poi ritornare nuovamente negli Stati Uniti, raggiungendo prima la sorella a Baltimora, e proseguire poi nell’estate del 1940 per Los Angeles. Il periodo dell’esilio, brillantemente e meticolosamente rico- 7 All’archivio Cagli non risultano purtroppo documenti in merito alla realizzazione della copertina del catalogo, né tantomeno corrispondenza con i curatori della mostra. Tra le ricevute relative alle opere vendute negli Stati Uniti ne sono conservate alcune intestate a Max Ascoli, presidente della HDI, la fondazione americana sorta con lo scopo di assistete la ripresa dell’artigianato in Italia, promuovendo scambi commerciali e una serie di esposizioni divulgative. Con una serie di attività di promozione organizzate presso la HIH, e in particolare la mostra Handicraft as a Fine Art in Italy, Max Ascoli è stato senz’altro anticipatore di quanto verrà poi presentato nella mostra Italy at Work. Con le sue considerazioni in merito al valore dell’artigianalità italiana è lecito pensare che possa essere stato un personaggio con cui confrontarsi. Un’ipotesi questa da considerare alla luce di documentati rapporti tra Ascoli e Meyric R. Rogers, uno tra i principali artefici e curatori di Italy at Work. Per approfondire la questione e la figura di Max Ascoli si veda Pellegris 2019-2020. 8 Va ricordato che la contessa Anna Laetitia Pecci acquisisce la cittadinanza americana in seguito al matrimonio nel 1919 con il banchiere e collezionista newyorkese Cecil Blunt. 9 La galleria romana si era affermata come il cenacolo delle arti figurative moderne, con l’ambizione mecenatesca di Mimì Blunt di dar vita ad una galleria che riuscisse a selezionare artisti italiani che potessero competere con il mercato internazionale, al di fuori delle Biennali e delle logiche sindacali. 10 Per approfondimenti sulle vicende della Cometa Gallery si vedano gli studi di Sergio Cortesini, tra cui il recente e sintetico contributo, con un’attenzione particolare sul ruolo di Corrado Cagli, pubblicato nel catalogo della cit. in nota 3, pp. 50-57. A New Italian Renaissance? Il contributo di Corrado Cagli ad una nuova retorica 121 struito da Raffaele Bedarida,11 non segna una battuta d’arresto del suo percorso creativo. Al contrario si registra un febbrile lavorio regolarmente esposto in giro per musei e gallerie americane. Agli inizi degli anni ’40, arruolatosi nell’esercito del paese ospitante, l’artista-soldato lavora ad opere parietali, cimentandosi con una scala ridotta rispetto a quella deliberatamente monumentale delle opere giovanili della V Triennale di Milano. Ne sono un esempio la serie di pannelli dipinta per il campo militare di San Luis Obispo, riallestita nel 1942 al M.H. de Young Memorial Museum di San Francisco. Per l’occasione Robert Neuhaus, ex direttore del Dipartimento di Educazione del museo californiano, scrive un testo di presentazione sull’opera di Cagli,12 ravvedendo non un legame con le coeve esperienze del muralismo messicano, ma il retaggio europeo e italiano, menzionando dunque la pittura murale romana e rinascimentale, in riferimento alla sua misurata armonia con l’architettura. Seppur far riferimento al Rinascimento permetta di riagganciarsi idealmente a un periodo della storia dell’arte italiana dal prestigio incomparabile, si corre il rischio di rievocare alcune delle retoriche care alla propaganda del regime fascista. Cagli è consapevole che sia prudente tenere le distanze dal linguaggio e dalle chiavi interpretative già adottate in passato, che erano state alla base di progetti allestitivi come quello dei capolavori italiani esposti alla Golden Gate International Exposition del 1939,13 schivando ogni rimando retorico suscettibile di errati paragoni tra la tradizione rinascimentale e la pittura murale fascista. Al termine della guerra, rientrato dal fronte europeo, si stabilisce a New York, mostrando subito interesse nel riprendere l’attività di mediatore e animatore culturale, meditando su nuovi progetti di promozione della Scuola Italiana in America. Dopo l’esito positivo e la buona ricezione della mostra personale inaugurata alla Hugo Gallery di New York, C. Cagli, from Cherbourg to Leipzig, documents and memories, in cui si esponevano disegni realizzati dal vero sul fronte di guerra europeo, scrive all’amico gallerista Pier Maria Bardi per esporre i suoi intenti organizzativi per una mostra da allestire presso la stessa galleria. La lettera, pubblicata da Bedarida, è illuminante per capire il sorprendente e schietto atteggiamento fattivo e propositivo che anima l’artista. Elenca infatti tutte le istituzioni sulle quali può esercitare personalmente la propria influenza.14 Cagli fa capire di essere a conoSul periodo dell’esilio di Cagli (1938-1947) si veda il brillante lavoro di Raffaele Bedarida, da cui sono tratte le informazioni biografiche e i riferimenti alle esposizioni relative al periodo americano citate nel testo; cfr. Bedarida 2018. 12 Bedarida 2018, pp. 123-126. 13 Sulle vicende dei rocamboleschi trasbordi di capolavori italiani ai fini della propaganda di regime cfr. Carletti, Giometti 2016. Inoltre, per approfondire il rapporto tra arti e propaganda negli anni del regime fascista cfr. Cortesini 2012 e Cortesini 2018. 14 “Per essere esatti io posso influire sulle seguenti istituzioni: Museum of Modern Art, New York, Whitney Museum, New York, The Legion of Honor Museum of San Francisco, The De Young Museum of San Francisco, the Civic Center Museum of San Francisco, The Museum of Santa Barbara of California, The Hartford Atheneum in Connecticut, The Fogg Museum, Cambridge. 11 122 Fabio Marino scenza del ben più grande progetto di mostra sull’arte italiana Twentieth-Century Italian Art che si sarebbe tenuto al MoMA nel 1949, al quale intende collaborare. La mostra era stata ideata ben prima, in tutt’altro scenario politico e con altri interlocutori.15 La guerra aveva però interrotto il progetto, ripreso poi in tempi di pace per iniziativa dell’ambasciata americana a Roma e dei curatori del MoMA, Alfred H. Barr jr. e James T. Soby, con i quali Cagli era entrato in contatto. Il nuovo contesto politico e ideologico aveva ribaltato la chiave interpretativa della mostra, ora intesa a dimostrare la rinascita dell’Italia dopo la caduta del regime dittatoriale di Mussolini. Seppur esposto in mostra,16 il tentativo da parte di Cagli di essere coinvolto nell’organizzazione in realtà non darà i frutti sperati, in quanto entrambi i curatori americani sono cauti nel coinvolgere soggetti esterni, e in particolare nell’accettare ingerenze italiane che possano intaccare la loro autonomia. Agli albori della guerra fredda sta crescendo negli Stati Uniti un’attenzione tutta nuova a ciò che avviene in Italia. Presto si diffonde l’idea di una New Italian Renaissance, di una rinascita artistica e industriale di una nazione che riemerge dalle macerie della guerra, e conseguentemente nell’immediato dopoguerra, variegate iniziative americane, sia individuali che istituzionali, promuovono la rinnovata immagine di un’Italia industriosa e creativa. Ma consapevole della complessità e delle contraddizioni che si annidano in tale tipo di assunti ideologici, che rischiano di essere talvolta ambigui rispetto alle inevitabili linee di continuità nella vita artistica e culturale italiana tra prima e dopo la guerra, Cagli si mostra contrario a semplificazioni e falsificazioni strumentali. Nell’autunno del 1947 scrive per “Harper’s Bazaar” un articolo pungente,17 pubblicato nel marzo 1948, in cui entra nel vivo della questione, analizzando l’interesse mediatico sempre più intenso negli Stati Uniti, per il fenomeno della New Italian Renaissance. In occasione del fugace congedo da soldato nel 1945 ha obiettivamente rilevato in Italia uno straordinario fermento artistico, ma non ascrivibile a una complessiva ottimistica idea di rinascita, che gli appare una valutazione pomposa e irreale.18 Ritiene che sia un equivoco, favorito dalla mancanza di una struttura museale e di una critica affidabile,19 in assenza della quale un qualsiasi americano Come vedi non ho rapporti né con le istituzioni di Chicago, né con quelle di Los Angeles, e con Pittsburg sono in cattivi termini”, cfr. Bedarida 2018, pp. 201-203. 15 Già nel 1939, una delegazione del governo italiano, in cui figurano anche Giulio Carlo Argan e Cesare Brandi, aveva concepito una grande mostra che promuovesse l’arte contemporanea italiana per esibire all’estero gli effetti benefici del fascismo nel sostegno della cultura e nella modernizzazione del paese; cfr. Bedarida 2012, p. 152. 16 Alla mostra Twentieth-Century Italian Art allestita al MoMA sono esposti due oli su tela entrambi del 1947: Le spie del palo e Teatro tragico. 17 Cagli 1948, pp. 233-237. 18 “I have heard a good deal of talk about an ‘Italian Renaissance’. Obviously, there is no ‘Italian Renaissance’ whatsoever. Even the idea of a renaissance in the Italy of 1945 to 1947 seems pompous and unreal”. Ibidem. 19 “I am sure that the reason Italian painting is in a state of deep confusion is because there is no discrimination on the basis of quality alone. I am also sure that nothing is more rare in Italy today A New Italian Renaissance? Il contributo di Corrado Cagli ad una nuova retorica 123 che si interessi della scena artistica italiana finisce per consegnarsi a soggetti dalle improvvisate professionalità che Cagli ribattezza ironicamente gli sciuscià dell’arte.20 Alla fine, in balia di costoro, non potrà che farsi un’idea falsata e imprecisa dell’effettivo fermento artistico, slegata dalla realtà. Cagli elenca gli artisti e le gallerie che secondo il suo giudizio rappresentano i veri fautori dell’arte italiana contemporanea, non credendo possibile una rinascita scaturita dal nulla, e riferendosi al fare pittura ricorre alla metafora della lenta crescita di un albero, non immediatamente visibile a chi la osserva.21 Nel secondo dopoguerra il riferimento al Rinascimento, nelle più svariate declinazioni, viene adoperato con una maggiore disinvoltura.22 Non sappiamo con certezza, per esempio, se Ernesto Nathan Rogers, sia l’autore del titolo dell’articolo Milan Design Renaissance apparso su “Vogue” nel 1949,23 che postulava la persistenza di una tradizione rinascimentale, intesa come approccio umanistico al progetto, evidenziabile in una selezionata schiera di architetti e artisti attivi a Milano. Anche Corrado Cagli agli occhi di certa critica d’arte americana risponderebbe all’immagine dell’artista italiano intento a ritrovare un’unità del sapere percepita come persa nell’era contemporanea. Erede del Rinascimento, poiché tanto il suo approccio al mondo quanto alla sua arte ricercano ideali di unità, e non di specializzazione. La rassegna stampa della mostra personale dei disegni di Cagli allestita nel marzo del 1947 alla Knoedler Gallery consegna il profilo di un artista riconosciuto dal sistema dell’arte americano, il quale è riuscito in poco tempo ad ottenere un discreto successo di gradimento nel paese straniero. Ancora meritevole quindi di una presenza, seppur marginale, ad una mostra “americana” come Italy at Work? Non è così inverosimile che Cagli, nonostante il rientro in Italia, continui a vantare una certa fama nel mercato dell’arte nordamericano, ispirando ancora l’immagine di un possibile interlocutore, o facilitatore di relazioni commerciali. Si vedrà però che l’interlocutore prediletto dai produttori americani sarà un altro “artista”: Gio Ponti.24 Se si rileggono alcune pagine di “Stile” sull’industria ceramica, si nota come già nel 1942 i termini del discorso than a critic capable of being at once competent, honest and authoritative. If there is an exception to this rule, I apologize”, ibidem. 20 Il riferimento è ai lustrascarpe, shoe shine, del film di Vittorio De Sica del 1946. 21 “Painting takes a long time to develop, and to follow the growth of a true painter is like following the growth of a tree. Even if your eyes cannot register such a slow process, you don’t come to the conclusion that the tree has stopped growing. Painting itself is a slow-growing tree”, Cagli 1948, pp. 233-237. 22 In tal senso è emblematica la recensione pubblicata su “Art News” della mostra personale dei disegni di Cagli, allestita nel marzo del 1947 alla Knoedler Gallery, dove la critica d’arte newyorkese Aline Berstein Loucheim, redattrice-capo della rivista, sottolinea il retaggio italiano di Cagli con una rinnovata disinvoltura lontana dalle modalità morigerate tipiche degli anni di guerra; alcuni stralci sono riportati in Bedarida 2018, pp. 255-257. 23 Rogers 1949, pp. 152-157. Su questo tema si veda il contributo di Bosoni in questo stesso volume. 24 Sul contributo di Ponti all’esposizione si veda il saggio di Dellapiana nel presente volume. 124 Fabio Marino siano altri. Ponti parla di Industria e Arte, in termini generali o applicati a specifici settori produttivi. Rinascimento e artigianato sono due termini che non supereranno la moda effimera di una peculiare e irripetibile stagione, che ad ogni modo consacrerà il mito della nascita del Made in Italy. Tra arte e industria. Il percorso di Giorgio Cipriani Stella Cattaneo Università di Genova O ltre duecento sono i nomi che compaiono nell’appendice del catalogo della rassegna espositiva itinerante Italy at Work.1 Divisi in dodici macro-sezioni, corrispondenti in massima parte alle tecniche e ai materiali, artisti, artigiani, botteghe e aziende si trovano parificati, con un’unica specifica che individua ed in parte differenzia i designer dai produttori. Scorrendo questo lungo elenco si incontrano i nomi più noti accanto ad altri meno familiari. Rivolgendo l’attenzione alla sezione dedicata alle ceramiche, in particolare, si individuano facilmente i nomi che hanno fatto la storia della scultura in ceramica del secondo dopoguerra (si pensi a Lucio Fontana o Leoncillo Leonardi), manifatture che non hanno bisogno di presentazione (come la Manifattura Giuseppe Mazzotti di Albissola Marina) e ancora illustri aziende quali la Richard Ginori.2 Di fianco a questo, però, compaiono anche personalità meno note o in alcuni casi del tutto sconosciute oggi: tra queste quella di Giorgio Cipriani (1921-1994), segnalato come designer di Firenze e probabilmente esemplificativo delle tante figure attive nella seconda metà del XX secolo anche al servizio di aziende che hanno dato forma al cosiddetto Made in Italy e delle quali non è rimasta traccia così netta. L’approfondimento che segue intende confrontarsi dunque con la sua produzione, indagando il suo percorso artistico, il rapporto con le aziende e mettendo in luce le circostanze che hanno portato alla sua riscoperta, proprio a partire dal medium ceramico, con cui viene rappresentato a Italy at Work. Si tenterà dunque di fornire una prima cronologia di questo aspetto della sua produzione, unitamente a una panoramica più ampia sugli altri campi di intervento in cui l’artista di origini Rogers 1950b. Su questi temi si veda il contributo di Hockemeyer (per il quadro complessivo) e di Bedarida (per Fontana) in questo volume. 1 2 126 Stella Cattaneo veneziane e fiorentino d’adozione ha potuto sperimentare in massima parte tra la seconda metà degli anni ’40 e gli anni ’80 tra Venezia, Firenze e Milano. Una riscoperta che passa per la ceramica La presenza di Cipriani a Italy at Work è di per sé una novità rispetto a quanto è noto sull’attività dell’artista. È bene forse ricordare allora che l’attenzione e l’avvio di uno studio specifico su di lui risale a tempi molto recenti e passa proprio attraverso le mostre e la ceramica.3 L’ultimo appuntamento espositivo che ha visto protagonista la produzione di piatti di Cipriani risale infatti al 2018. In quell’anno i musei della Baia della Ceramica di Savona invitavano i propri visitatori a prendere parte ad un progetto espositivo partecipato: Storie in Ceramica. La mostra, organizzata nell’ambito del progetto Museo Senior, al Museo della Ceramica di Savona, al Museo Arturo Martini di Vado Ligure, al MuDA – Museo Diffuso Albisola di Albissola Marina – e al Museo Civico Manlio Trucco di Albisola Superiore, aveva lo scopo di raccontare le ceramiche, non necessariamente d’autore, secondo il punto di vista dei proprietari.4 In quella occasione, nella sede savonese del progetto, Dominique Papi Cipriani inoltrava la sua testimonianza relativa al lavoro del padre artista che aveva esposto ceramiche alla IX Triennale di Milano.5 In quel momento, la mostra savonese, che aveva ricevuto dai privati opere di Piero Fornasetti, di Dante Bighi, oggetti legati alla scrittrice e giornalista Milena Milani o all’artista fluxus Ben Patterson, proponeva come testimonianza di Cipriani alcune fotografie storiche dell’archivio della Triennale, in sostituzione delle opere ceramiche di cui non sono noti ad oggi esempi in collezioni private. Questo è stato il punto di avvio per ricerche del tutto inedite che hanno potuto contare sulle carte dell’archivio dell’artista, conservato a Taverne d’Arbia, in provincia di Siena. Qui la famiglia Papi Cipriani ha radunato tutto il materiale a lui appartenente e, negli anni, ha proceduto a conservarlo e riordinarlo. Benché non sia presente un’inventariazione completa, la divisione effettuata dagli eredi è funzionale a delineare il percorso di una personalità prolifica e versatile che, pur avendo associato il suo nome a realtà di assoluto rilievo (si pensi ai teatri La Scala, Cattaneo 2022, pp. 63-76. Museo Senior è un progetto di Amici di Casa Jorn APS e BAM! Strategie Culturali, vincitore del bando OPEN 2016 della Fondazione Compagnia di San Paolo. Orientato all’ampliamento dei pubblici over 60 dei musei legati alla ceramica in provincia di Savona, Museo Senior ha visto una fase iniziale tra il 2017 e il 2019 e prosegue tuttora in un’ottica di co-progettazione tra addetti ai lavori e pubblici. Per ulteriori approfondimenti e per visionare la virtual gallery della mostra Storie in Ceramica è possibile visitare il sito dedicato: www.museosenior.it (ultimo accesso: giugno 2023). 5 Papi Cipriani, http://www.museosenior.it/storie/mio-padre-giorgio-cipriani/ (ultimo accesso: giugno 2023). 3 4 Tra arte e industria. Il percorso di Giorgio Cipriani 127 La Fenice, San Carlo o ad aziende quali Fede Cheti o Pernigotti) non ha lasciato traccia di sé.6 Considerando che la ceramica è il materiale con cui Cipriani è presente a Italy at Work, può essere interessante iniziare a fornire alcuni elementi utili a maggiori e ulteriori approfondimenti che potranno essere fatti sulla partecipazione dell’artista alla mostra americana e anche sul suo rapporto con questo mezzo. Dal catalogo dell’esposizione itinerante e da alcune foto degli allestimenti si apprende che Cipriani espone un servizio di piatti in maiolica policroma. Sulle tavole illustrate del catalogo sono disposti tre piatti con diversi soggetti (un cavaliere, un soldato e un fantasioso volatile), mentre dagli allestimenti dell’Art Institute di Chicago, segnalati con le foto numero 54, 55, 56 si notano sei piatti e un vaso con decorazione affine.7 Questi stessi motivi sono presenti con identica cronologia di Italy at Work anche alla IX Triennale di Milano del 1951, nella mostra della CNA che riuniva anche Felice Casorati, Giuseppe Capogrossi e Piero Bottoni. Le foto dell’allestimento milanese, scattate da Foto Astro, mostrano in questo caso quasi trenta piatti con le raffigurazioni già viste alla mostra americana a cui si aggiunge una serie con soggetti architettonici.8 L’unica fonte su cui poter far affidamento per far luce sui tempi e sui modi della produzione ceramica di Cipriani è il documento dattiloscritto che traccia la lista dei lavori eseguiti e dei lavori eseguibili.9 Facendo riferimento a questo scritto, è possibile datare l’esordio in ceramica di Cipriani al 1945.10 I ricordi di famiglia, le fotografie e gli album che l’artista compilava, sembrano indicare che gli anni di più intensa produzione in ceramica siano situati tra la fine degli anni ’40 e l’inizio degli anni ’50, secondo una cronologia che accompagna quella di Italy at Work. All’interno del catalogo della mostra, infatti, si avverte il lettore che gli oggetti esposti sono stati realizzati “with a few exceptions”11 non prima del 1945. Andando più a fondo sul documento dei lavori svolti, una sorta di curriculum, si delinea, in relazione alla ceramica, quanto segue: 1945 Lavori in paralumi, pittura su vetro, ceramica per varie ditte di Venezia […] 1946 Ceramiche per la Ditta Miniati eseguite personalmente […] 1947-48 Disegni utilizzati dalla Compagnia Nazionale Artigiana e prodotti in ceramica dalla Ditta Zaccagnini e in oggetti laccati da Lumini di Firenze […] 1950-51 Contratto Su Fede Cheti, si veda il contributo di Chiara Lecce nel presente volume. La fotografia, insieme ad altre, è ora disponibile nel catalogo on-line dell’AIC. 8 Foto Astro, IX Triennale - Mostra del CNA - Piatti in ceramica del pittore Cipriani. MITr, TRN_IX_17_1044-TRN_IX_17_1046. 9 Giorgio Cipriani, Lavori eseguibili – Lavori eseguiti, Archivio Papi Cipriani. Si tratta di tre fogli, di dimensione A4, numerati. La datazione è verosimilmente desumibile dalla lista dei lavori eseguiti che inizia nel 1939 e termina nel 1954. Non coincidendo tale data con la fine dell’attività di Cipriani, è ragionevole pensare che le pagine siano state scritte attorno al 1954. 10 Ibidem. 11 Rogers 1950b, p. 18. 6 7 128 Stella Cattaneo con la Compagnia Naz.le Artigiana per decorazioni e disegni per oggetti vari e su materiali diversi. Realizzazione con forno proprio di gioielli in ceramica e pezzi unici in scultura decorativa.12 La precisione di questo documento, sfortunatamente, non trova corrispondenza con altre carte d’archivio: non sono documentate opere veneziane né contatti con le Ceramiche Miniati.13 È il catalogo di Italy at Work a venire invece in soccorso rispetto alle serie di piatti della mostra americana e milanese, realizzati come indicato nella didascalia delle opere in collaborazione con le Ceramiche Zaccagnini. Anche se le sole testimonianze fotografiche non agevolano l’esame, sembra legittimo pensare che Cipriani fosse in grado di modellare l’argilla dando vita, ad esempio, a spille e gioielli o sculture ma che, in alcuni casi, come nella relazione con Zaccagnini, sia stato un fornitore di disegni e decorazioni che la manifattura fiorentina si limitava a riprodurre sui servizi di piatti. Si chiarisce qui anche il ruolo della CNA, di cui l’archivio conserva scarsa documentazione:14 è l’ente a commissionare in una certa misura i disegni che venivano poi impressi sulle ceramiche. Proseguendo su questa linea del tempo in relazione alla maiolica, è noto che tra il 1950 e il 1951 l’artista acquista una casa a Lucca, nella frazione di San Macario in Piano, insieme alla compagna Anna Maria Papi (1928-2012), giornalista, scrittrice e produttrice cinematografica. Gli album dell’artista mostrano nel suo studio di Lucca un forno che gli permette di produrre in proprio: è chiaro dunque che, in questa fase, Cipriani investe molto, invogliato probabilmente dalla committenza, su questo materiale, creando gioielli, piccoli elementi decorativi e ancora piatti che seguono la doppia linea della figurazione e dell’astrattismo e che realizza almeno fino al 1952 (fig. 1).15 Questo stesso indirizzo di ricerca, nei due poli che dominano la ricerca visiva del secondo dopoguerra, si riscontra pure negli altri mezzi artistici impiegati da Cipriani. Difatti, la ceramica, nota unicamente attraverso le occasioni espositive di cui si è detto e a cui è bene aggiungere la II Exposição de arte decorativa italiana di San Paolo (Brasile), è solo una parentesi della prolifica attività dell’artista fiorentino. Giorgio Cipriani, Lavori eseguibili – Lavori eseguiti, APC. Poche altre carte dell’archivio si riferiscono alla ceramica. In una di queste, Cipriani annota “Nominativi delle ditte per ordini commissionati su merci pronte per la spedizione. Gruppo ceramiche” e di seguito segnala l’indirizzo di Richard Ginori e di Porcellane d’arte per le quali realizza oggetti vari, riportando accanto il prezzo di vendita. 14 L’Archivio Papi Cipriani conserva unicamente due lettere su carta intestata della Compagnia Nazionale Artigiana. La prima, datata 8 giugno 1951, è firmata da Ermenegildo Lapini e sollecita Cipriani all’invio di alcuni pannelli di vetro decorato a Maurizio Tempestini e alla Ditta Lightolier. La seconda del 17 ottobre 1951 richiede all’artista di mettersi nuovamente in contatto con Tempestini. 15 L’ultima traccia della produzione ceramica di Cipriani si trova, ad oggi, nella lettera di Pier Giovanni Zancopé del 30 agosto 1952. Nella missiva, Zancopé allude alla consegna di pannelli in ceramica e di piani per tavoli in vetro da esportare in Brasile. L’album, riprodotto in figg. 1-2, sembra suggerire che ancora nel 1954 Cipriani producesse piatti. 12 13 Tra arte e industria. Il percorso di Giorgio Cipriani 129 1. Giorgio Cipriani, Ceramiche tratte dall’Album vecchio, anni Cinquanta Gli altri campi d’applicazione di Cipriani L’attività di Cipriani può dirsi avviata quando, di rientro dal servizio militare, partecipa alle prime mostre collettive come pittore, essendosi formato da autodidatta nelle biblioteche e nei musei fiorentini e grazie alle suggestioni che gli provenivano dalla famiglia.16 Muovendosi tra reminiscenze surrealiste e post-cubiste, Cipriani sul finire degli anni ’40 espone in diverse sedi in Italia e all’estero all’interno di mostre collettive e personali. Si segnala la sua presenza tra il 1944 e il 1949 a Venezia (Galleria Barozzi), Milano (Galleria La Spiga), Firenze (Galleria Il Fiore), Londra (Gimpel Fils, Trafford Gallery, 20 Brook Street Gallery) e a San Paolo (Galeria Leonardo Da Vinci). Nonostante gli esordi in pittura vengano accolti complessivamente in modo positivo dalla critica,17 è chiaro che già agli inizi degli anni ’50, l’esperienza pittorica “pura” viene a rivestire un ruolo secondario, a favore di un percorso autonomo di progettazione per l’industria o per 16 Cipriani trova una naturale propensione all’arte già in famiglia. La madre, Angela Ravagnan, allieva di Vittorio Zecchin (1878-1947), crea dipinti su carta di riso, anch’essi conservati nell’archivio senese, e si applica al campo della tessitura, realizzando tappeti ed arazzi, e a quello della gioielleria. Non frequenta accademie ma si forma attraverso i volumi d’arte della Biblioteca Nazionale Centrale e tramite l’esecuzione di copie di opere antiche. Ancora diciottenne, inizia a collaborare con botteghe quali Alinari, Brogi e Pineider, a Firenze, per la realizzazione di stampe, cartoline e incisioni. 17 Branzi 1944, s.p. Il critico Silvio Branzi, visitando una delle sue prime mostre, promuove l’operato di Cipriani sulle pagine della Gazzetta di Venezia: “È un pittore giovanissimo, ventitreenne o ventiquattrenne appena. […] Comunque, la pittura del Cipriani ha già un carattere e, ciò che più importa, essa non è bloccata in una formula, ma contiene a nostro giudizio sincere possibilità di sviluppo”. 130 Stella Cattaneo clienti molto selezionati. Si apre una stagione ricca di contatti per Cipriani che spazia dall’illustrazione alla grafica fino alle scenografie teatrali; dalla realizzazione di complementi d’arredo e interventi decorativi per interni alla progettazione di tessuti per l’abbigliamento e la casa; e ancora nella fotografia e nella realizzazione di cortometraggi. Questa pluralità di linguaggi permette di evidenziare come la figura di Cipriani evolva nel corso di un decennio da quella di pittore a quella di un designer decoratore autonomo, pronto a proporre soluzioni innovative per i propri clienti, tanto in Italia quanto all’estero. Tra le diverse esperienze presenti nel suo curriculum, sembra importante segnalare i lavori per gli interni delle navi a vapore della Flotta Lauro (1951), documentati nelle brochure della Roma e della Sidney che mostrano gli ambienti e il corredo di opere d’arte presenti a bordo, o ancora il massiccio intervento pittorico voluto da Simone di San Clemente per la Villa Il Palagio di Figline Valdarno (1955). In entrambe le occasioni Cipriani è chiamato a un tipo di pittura figurativa vicina al trompe-l’œil e al vedutismo, che trova ampio riscontro anche negli album e nei disegni conservati presso il suo archivio. E negli stessi anni, benché sia complesso ad oggi ricostruire questo tipo di impegno dell’artista, la pittura sembra diventare preziosa ancella di prestigiosi complementi d’arredo (tavolini, paraventi, pannelli) di cui Cipriani tiene in alcuni casi traccia all’interno dei suoi album. Da qui, è possibile stabilire anche alcune affinità con il lavoro di altri artisti attivi negli stessi anni: un esempio è costituito da Piero Fornasetti (1913-1988) che, ai massimi livelli, esprime un atteggiamento curioso, a partire da immagini ripetute ma sempre nuove, tratte da personalissimi vocabolari di immagini di reimpiego.18 Di questa attività, resta a testimonianza almeno la corrispondenza con il già citato Pier Giovanni Zancopé ma anche con Gallenga o con la CNA.19 Nonostante il materiale dell’archivio senese non sia stato ancora esplorato nella sua interezza, la presenza di importanti nuclei legati alla corrispondenza e ai contratti sembrano fornire il quadro di un artista incessantemente al lavoro. Eppure, la grande avventura di Cipriani, di cui ancora non si è fatta menzione, è quella nel mondo dei tessuti d’alta moda, per la casa e per l’abbigliamento. Dal 1950 fino almeno al 1963 i contatti di Cipriani in questo ambito sono molteplici: Italia, Gran Bretagna e Germania costituiscono i principali bacini di utenza. Congiuntamente con i contratti, le richieste di campionari, i disegni e le stesse tabelle con i prezzari favoriscono la ricostruzione dei network stabiliti da Cipriani: Manifattura Jsa, Frette & C., Lea & Son Furnishing Fabrics, Bigelow-Sanford Carpet Company New York, Maison Zimmer & Rodhe sono tra i suoi clienti, così come Fede Cheti, con la quale l’artista stabilisce il rapporto più duraturo, tra gli anni 18 19 Cfr. Mauries 2004; Fornasetti 2010. Lettera della CNA a Giorgio Cipriani, 8 giugno 1951, APC. Tra arte e industria. Il percorso di Giorgio Cipriani 131 ’50 e la fine degli anni ’80.20 Ancora altre aziende compaiono nel curriculum stilato da Anna Maria Papi per tenere traccia dell’operato di Cipriani: ad esempio, le ditte inglesi Kahn Textiles Ltd, Morton Sundour Fabrics Ltd e Bernat Klein o la veneziana Fortuny, di cui al momento non sembra esserci riscontro nelle carte d’archivio. Per le stoffe di queste aziende Cipriani disegna decorazioni astratte di carattere concretista, che mostrano come l’interesse dell’artista per le ricerche in atto sia vivo, e di tipo figurativo. Farfalle, alberi, fiori, pesci, anatre, cavalieri, velieri, castelli sono alcuni dei soggetti in repertorio visibili nei campionari conservati presso l’archivio senese. Ma ancora più vasto è l’insieme dei soggetti che può essere rintracciato anche a partire dai quaderni con i prezzi: solo per fare qualche esempio sul registro tenuto dall’artista si apprende che nel 1959 propone alla Bellotti, azienda di Como, disegni ispirati al Rinascimento con fregi colorati e poi motivi giapponesi con figure e grotesques; nel 1958 annota per Fiorio figurine cinesi, scimmie in gabbia; nel 1956 prepara per Sanderson Fabrics foreste, giungle e scene di caccia. La passione per i tessuti e l’esperienza maturata, in dialogo con le molte ditte, porta Cipriani a prendere le fila di Gotha s.r.l., realtà imprenditoriale fondata a Milano nel 1962 e che lo vede da principio direttore artistico per il concepimento di sciarpe e foulard e poi anche amministratore unico. Malgrado la breve durata dell’avventura della Gotha – non oltre i tre anni – Cipriani riesce ad ampliare ulteriormente la lista dei suoi clienti: grandi magazzini come la catena americana Gimbel Brothers o la londinese Harrods si rivolgono a lui per modelli esclusivi, così come farà, almeno in un caso, anche Ferragamo. Conclusioni La pubblicazione di questo volume ha offerto l’occasione per aggiungere un ulteriore tassello alla conoscenza di una figura a lungo dimenticata ma che, a pieno titolo, contribuisce alla lettura del panorama sociale, economico e culturale dell’Italia del secondo dopoguerra. Se questo intervento di carattere generale ha voluto affondare sulla produzione ceramica di Cipriani con cui l’artista è presente alla mostra americana, mettendo in evidenza quanto vasta e poliedrica sia stata poi la sua ricerca in altri campi, molte restano le vie inesplorate. La sua partecipazione a Italy at Work racconta infatti di relazioni e incontri che al momento non sono del tutto documentati e fornisce nuovi appigli e nuove prospettive di indagine: i contatti con la CNA, le relazioni con le manifatture ceramiche e con figure di intermediari come il re20 Campionari dei tessuti realizzati con disegni di Cipriani sono conservati nel suo archivio. Salvo alcuni casi, ad oggi, non è possibile comprendere quali modelli fossero stati realizzati per una o per l’altra azienda. 132 Stella Cattaneo sponsabile di import-export con il Brasile Zancopé restano temi da approfondire, anche nel desiderio di proseguire a ricostruire le microstorie condensate nell’ambizioso progetto di Italy at Work. Paolo De Poli e l’America: 1947-1967. Gli smalti verso il “nuovo mondo” Ali Filippini Politecnico di Torino “Q uesta è la breve storia della mia ‘industria’ e sarò ben felice se dopo la guerra potrò portarla ad una importanza maggiore e favorire così l’espansione dei prodotti italiani”.1 Con queste parole l’artista e artigiano Paolo De Poli2 si congeda in una lettera del 1943 all’IVL dopo aver risposto alla richiesta di informazioni per una guida-regesto dell’artigianato da pubblicarsi nell’immediato dopoguerra. Sono passati dieci anni dal suo primo oggetto in smalto – una prima decade prettamente artistica tra pittura e sbalzo su metallo – e il suo lavoro è noto all’IVL come all’ENAPI. Quest’ultima si può considerare una emanazione dell’istituto veneziano e oltre a promuovere delle mostre in Italia e all’estero organizza a Firenze la Mostra dell’Artigianato3 dove De Poli espone regolarmente a partire dal 1946. Nello stesso anno stabilisce contatti con l’HDI attraverso la mediazione della CADMA come testimonia una fattura di vendita per l’esportazione negli Stati Uniti di una quarantina di oggetti di piccole dimensioni come scatole, portasiPaolo De Poli, cit. in Filippini 2016, p. 30. Paolo De Poli (1905-1996) è stato un artista e artigiano dello smalto su vetro. Nel 1934 presenta alla XIX Biennale i primi lavori realizzati a smalto nel padiglione Venezia. L’anno successivo viene invitato all’Esposizione Universale di Bruxelles dove vince la medaglia d’argento. Dal 1936 partecipa alle mostre della Triennale di Milano, per dodici edizioni, così come alle più importanti esposizioni del design italiano degli anni ’40 e ’50, come Lo stile nell’arredamento moderno e Il mobile singolo alla Galleria Fede Cheti di Milano, Colori e forme nella casa d’oggi a Villa Olmo a Como. Altrettanto note le collaborazioni con gli artisti Bruno Saetti, Gino Severini, Roberto Aloi, Marcello Mascherini. Il suo archivio si trova all’Archivio Progetti dell’Università Iuav di Venezia. Per un approfondimento: Bassi, Maffioletti 2017. 3 Dopo le due anteprime, nel 1923 e 1926, come Fiera nazionale dell’artigianato, la manifestazione si tiene a partire dal 1931 (nel 1952 entra a far parte dell’Union des foires internationales). Le prime partecipazioni di De Poli risalgono alle edizioni del 1936 e 1937. 1 2 134 Ali Filippini garette, piattini, ciotole. Il tutto prima di aderire alla CNA4 – nata come società per azioni su iniziativa di rappresentanti, tra gli altri, dell’ENAPI e dell’Ente autonomo mostra mercato dell’artigianato di Firenze5 – nel settembre del 1950 contestualmente alla partecipazione a Italy at Work. Gli articoli della bottega d’arte di De Poli sono quindi commercializzati in America prima della mostra ma è altrettanto rilevante ricordare come De Poli prenda parte dal 1946 all’APEM fondata nel 1944 da La Rinascente per favorire gli artigiani nella promozione all’estero con obiettivi, quindi, non dissimili da quelli delle associazioni sopracitate. Consulente artistico è Ponti, con cui negli anni ’40 De Poli realizza alcuni arredi come i tavolini esposti nella mostra americana, mentre il presidente è Attilio Scaglia, dell’omonimo negozio milanese, che la rappresenta anche al Convegno delle arti decorative e industriali moderne del 1947 alla VIII Triennale dove APEM espone nella mostra Oggetti per la casa. Non sono noti i rapporti con la CADMA per quanto questa avesse una sede anche a Milano, presso la Società Umanitaria, e la stessa APEM avesse un laboratorio in Firenze dove nell’aprile 1943 La Rinascente aveva trasferito una parte dei suoi laboratori industriali.6 Ma certa è la presenza dell’APEM nelle mostre che si tengono a New York dal giugno 1947 promosse dalla HDI alla HIH, che nel biennio 1947-1948 organizza ciclicamente esposizioni con prodotti inviati dall’Italia e selezionati a monte dalla CADMA.7 La prima, in coincidenza con l’inaugurazione della sede, si tiene nel mese di aprile con circa mille prodotti acquistati in Italia dalla HDI che includono probabilmente anche quelli dell’APEM,8 maggiormente al centro della seconda mostra, in giugno,9 che anticipa la più nota per la storiografia Handicraft as a Fine Art in Italy inaugurata nel mese di dicembre. Vi è quindi una triangolazione, in larga parte ancora da indagare, negli anni immediatamente precedenti l’organizzazione di Italy at Work, tra le organizzazioni dedite a promuovere l’esportazione in Europa e non, come ENAPI, APEM e l’ICE,10 e le italoamericane HDI e CNA. Non a caso l’invito ad accogliere la de4 La consociata dell’HDI che incorpora la CADMA dal 1949. Su questo tema si veda anche il saggio di Ferretti, Mingardi e Turrini nel presente volume. 5 Pietrangeli 2022, p. 11. 6 Direttore del laboratorio di Firenze è Emilio Casale che con un mandato speciale nel giugno 1946 è incaricato di firmare con il timbro APEM Laboratorio di Firenze. ACCM, Fascicolo Apem 1944-1970. 7 Pietrangeli 2022, p. 11. 8 In una lettera di De Poli a Ponti datata 14 marzo 1947, questi afferma di aver piacere di vedere “salpare gli smalti per il nuovo mondo”. IuavAP, De Poli 1. Atti/Corrispondenza Ponti. 9 In un articolo in “Craft Horizons” dell’agosto 1947 si vedono due oggetti APEM su disegno di Ponti realizzati da De Poli. Hockemeyer 2014a, p. 133; Dellapiana 2022, p. 109. 10 All’ICE, fondato nel 1945 come erede dell’INE (Istituto Nazionale per le Esportazioni), era affidato l’incarico ministeriale di sviluppo degli scambi commerciali, con particolare riguardo all’esportazione dei prodotti italiani: a tal fine esso svolgeva attività di segnalazione, raccolta di richieste, organizzazione di mostre ed eventi, pubblicazione di bollettini informativi e monografie, tra cui la rivista trimestrale “Italy Presents”. Paolo De Poli e l’America: 1947-1967. Gli smalti verso il “nuovo mondo” 135 legazione per la mostra arriva a De Poli dalla direzione dell’IVL11 che il 20 aprile 1950 comunica che, in una data da fissare tra il 2 e il 6 maggio, sarà presente il direttore Giuseppe Dell’Oro, insieme a Walter Dorwin Teague, Charles Nagel jr. e Meyric Rogers, e al vicepresidente della CNA Ramy Alexander (fig. 1). La lista con gli oggetti selezionati dalla commissione comprende settantacinque articoli: la maggior parte è rappresentata da piccoli oggetti come campanelli da tavolo, bomboniere, piattini, vassoi, vasi, coppe, vasetti, bottigliette per profumo, portacenere, portacipria, vaschette, tagliacarte, scatole di varie dimensioni. Quindi oggetti per la scrivania, di decorazione della tavola, per l’uso personale ma anche una coppia di maniglie. A questi si aggiungono pezzi più decorativi, quasi delle sculture, come i soprammobili a forma di gallo e di piccione che compaiono insieme in una foto del catalogo. Fanno eccezione gli arredi come i due tavolini, su disegno di Ponti, dalla struttura in legno e decorati a smalto12 – uno dei quali, il cosiddetto tavolino da coc- 1. Foto ricordo autografata da Meyric Rogers a De Poli con la visita della commissione a Padova, 1950 L’ENAPI svolgeva anche un ruolo di assistenza tecnico-produttiva, attraverso una relazione con gli istituti del lavoro, assorbiti nel 1940 dall’ente, a eccezione di quello di Venezia. 12 Ora nella collezione rispettivamente del Brooklyn Museum (Nastri) e del Detroit Institute of Art (Smalti azzurri) entrambi come “Gift of the Italian Government”. Nella collezione del Brooklyn Museum anche un portasigarette datato 1949 già nei cataloghi della bottega padovana negli anni ’30. 11 136 Ali Filippini ktail, è aggiunto all’ordine in un secondo incontro a Firenze il 12 maggio – un crocifisso e la decorazione per un caminetto (replica di quella eseguita per casa Arslan di Padova e andata distrutta). Tutti gli oggetti sono identificabili e riconducibili ai cataloghi della bottega grazie al codice riportato nella fattura di spedizione; alcuni, come le sculture a forma di animale, risalgono ai primi anni ’40 mentre le scatole, i portacipria e i tagliacarte sono già presenti nei cataloghi dagli anni ’30. Le foto dell’allestimento di Chicago mostrano il caminetto e una selezione di una trentina di oggetti decorativi, comprese le sculture, collocati in una grande teca. Ad ordinazione fatta, giunge la richiesta da parte del Brooklyn Museum di un centinaio di bomboniere ovali con le iniziali del museo per il merchandising della mostra (“durante la mostra verranno venduti questi oggetti”).13 La richiesta, inoltrata da Alexander per conto del direttore Nagel è interessante perché viene chiesto espressamente a De Poli di marchiare gli oggetti con la dicitura Made in Italy. Scrive De Poli alla CNA il 26 giugno 1950: “Apprendo che tutti gli oggetti devono aver stampato il marchio ‘Made in Italy’. Questo comporta necessariamente un intralcio notevole perché dovrò rimettere in forno tutti gli oggetti”.14 Il fatto, retrospettivamente, può suggerire che a quest’obbligo imposto dalle leggi doganali americane si possa fare risalire l’affermazione del celebre marchio d’identificazione del prodotto italiano sui mercati esteri.15 All’evasione dell’ordine, in data 24 agosto, De Poli scrive alla CNA per sollecitare un contratto in essere per la rappresentanza in America dei suoi smalti (“sto definendo un rapporto di rappresentanza con l’ufficio sviluppo della CNA stessa”) formalizzato da una lettera successiva del 15 settembre in cui affida a questa, per sei mesi,16 le vendite negli USA. In realtà dalla corrispondenza successiva tra De Poli e l’Ufficio sviluppo, anche a seguito della mostra, traspaiono le iniziali difficoltà di penetrazione nel mercato americano. L’imprenditore veneto deve rassicurare sulla propria capacità produttiva (che, in considerazione della velocità di cottura degli smalti, era dell’ordine di un centinaio di oggetti a settimana), mentre l’ente americano lo informa della presenza di aziende concorrenti le quali, pur con prodotti di qualità inferiore, risultano più competitive grazie al minor costo della materia prima. Nonostante le iniziali perplessità, De Poli riconosce il ruolo avuto dalla CNA e della mostra Italy at Work nella diffusione dei suoi prodotti negli USA come dimostra due anni dopo l’evento la risposta ad una confidenziale richiesta di informazioni dell’architetto de La Rinascente Carlo Pagani sulla CNA: “[…] Devo al CNA l’inizio dell’esportazione dei mie smalti verso gli USA […] le vendite da me effettuate sono ammontate a cifre assai vistose, almeno per il mio piccolo giro di affari”.17 13 14 15 16 17 Lettera del 1 giugno 1950. IuavAP, De Poli 1. Atti/Mostre. Lettera del 26 giugno 1950. IuavAP. De Poli 1. Atti/Mostre. Scodeller 2017, pp. 335-336. In una lettera successiva il termine è prorogato di altri due mesi. Lettera del 25 marzo 1952. IuavAP, De Poli 1 Atti/Corr. Personale e professionale. Paolo De Poli e l’America: 1947-1967. Gli smalti verso il “nuovo mondo” 137 Intorno Italy at Work: De Poli negli USA Nel contesto delle azioni legate allo sviluppo del Piano Marshall in Italia De Poli può contare anche in diversi agenti di commercio, presenti soprattutto a Firenze dove si tiene la Mostra dell’Artigianato e si eseguono la maggior parte degli ordini. I contatti provengono da CNA e ICE e tra questi ci sono Mario Ricci, agente del grande magazzino Marshall Field di Chicago, e la società Gimbel Brothers (di Firenze e Milano) rappresentante dei grandi magazzini Neiman Marcus di Dallas18 e Saks di New York. Per questo department store De Poli deve usare, secondo precise istruzioni, il marchio “Made in Italy for Saks Fifth Avenue”.19 Tuttavia, queste prime esperienze lo convincono che il canale distributivo privilegiato per i suoi prodotti sono i giftshops sofisticati (compresi quelli dei musei), i negozi di oggettistica preziosa, gli specialties stores, mentre rimane cauto proprio nei confronti dei department stores e delle possibilità promozionali delle grandi manifestazioni fieristiche. 2. Paolo De Poli nel catalogo di Italy at Work Nella mostra dedicata ai prodotti italiani del 1960 De Poli manda, tra le altre cose, la scultura il Grande Gallo, eseguita con Marcello Mascherini nel 1957 ed esposta alla Triennale, che prima di ritornare in Italia verrà esposta anche nella galleria Bonniers e Altamira entrambe a New York. 19 Filippini 2018, pp. 48-49. 18 138 Ali Filippini De Poli usava come referenza per i clienti americani la pubblicazione Handicrafts of Italy, curata dall’ICE,20 dove erano riprodotti a colori e in bianco e nero alcuni oggetti; quest’ultima, come testimonia una lettera alla società Levi di Firenze del 1952,21 veniva accompagnata sia dal catalogo di Italy at Work (fig. 2) sia dal listino-catalogo della ditta con i prezzi riportati in dollari. Nella stessa lettera, a testimonianza del fatto che l’artista artigiano veneto era consapevole di produrre oggetti singoli non ripetibili si legge: “richiamiamo la vostra attenzione sul fatto che i nostri oggetti non sono prodotto in serie industriale, perché la nostra attività è rivolta alla creazione ed esecuzione di opere che presentino un carattere artistico pregevole”.22 Successivamente alla partecipazione a Italy at Work, nel 1952 De Poli grazie alla mediazione di Van Day Truex, responsabile dello Special design department dell’azienda americana di serrature e maniglie Yale & Towne, partecipa ad una mostra collettiva di maniglie nella sede di New York. L’occasione favorisce la fornitura di maniglie decorative destinate al catalogo della The Towne hardware division23 e nel 1956 la sua partecipazione alla mostra New Forms in Door Ornamentation, alla Wildenstein Gallery, con Paolo Venini, Philip C. Johnson, Ibram Lassaw, Fernand Léger, Mirko (Basaldella). Il nome di De Poli circola dunque nell’ambito dell’interior e decoration design e la sua presenza in questo settore è rinforzata dalla collaborazione al progetto pontiano della ditta Altamira. “Ti farò lavorare per Altamira” scrive in una lettera disegnata l’architetto milanese nell’agosto del 1953 e difatti non tardano le indicazioni per dei tavoli da rifinire a smalto,24 ai quali si aggiungono decorazioni su disegno di Pietro Zuffi per un mobile da toeletta di Ico Parisi. Così De Poli, grazie nuovamente alla mediazione di Ponti, riesce in quegli anni a introdurre ulteriormente i suoi oggetti in smalto nel mercato americano.25 In seguito a questi eventi è presente in un’altra mostra itinerante negli Stati Uniti, tra il 1955 e il 1957, promossa direttamente dal governo italiano attraverso la CNA e veicolata dallo Smithsonian Institution di Washington. L’esposizione dal titolo Italian Arts & Crafts: A Loan Exhibition of Handicrafts and Design, è Pubblicata da Arti Grafiche Amilcare Pizzi S.p.A. nei tardi anni ’40 (non ci sono date, ma riferibile al 1948). Hockemeyer 2014a, p. 135. 21 Lettere del 5 gennaio e del 10 ottobre 1952. IuavAP, De Poli 1 Atti/Corr. Personale e professionale. 22 Ibidem. 23 IuavAP, De Poli 1 Atti/Corr. Personale e professionale. 24 Sarà Melchiorre Bega, con il quale De Poli aveva già collaborato, con la sua azienda di mobili a produrre i pezzi in Italia. Mobili italiani per l’America 1954, p. 69; Tradizione di divertimento 1954, p. 47. 25 Per esempio, nel 1955 attraverso un ordine di trenta articoli per Altamira come testimonia una corrispondenza del 5 aprile tra De Poli e Ponti. Tra i clienti De Poli annovera anche Joseph Singer della Singer & Sons che in una lettera del 1955 si rivolge all’artista chiedendo informazioni relative ai costi di alcuni oggetti visti in “Domus”. Nel 1956 De Poli riceve anche una commissione per dei posaceneri destinati al nuovo showroom Knoll di Milano. 20 Paolo De Poli e l’America: 1947-1967. Gli smalti verso il “nuovo mondo” 139 composta da un centinaio di oggetti raccolti a Roma, Firenze e Venezia (selezionati dalla Biennale) suddivisi in vetro, ceramica, stoffe stampate a mano, piccoli pezzi di arredamento, pellami, mosaico, paglia.26 Omaggio a Manhattan A corollario della sua relazione con il mercato americano un’importante occasione per ampliare la propria conoscenza del contesto e del mercato viene offerta a De Poli dal viaggio a New York, organizzato nel 1959 dal Collegio lombardo degli architetti, ancora una volta capitanato da Ponti, che offre uno spaccato del fascino e dell’influenza che New York e l’America esercitavano sulla cultura progettuale italiana in quegli anni. E a New York De Poli ritorna di nuovo nel giugno del 1964, in occasione del Congresso mondiale organizzato alla Columbia University, durante il quale verrà fondato il World Craft Council,27 dove con la sua relazione sostiene la necessità di una evoluzione dell’artigianato sul piano organizzativo, proponendo un rinnovato legame con la tradizione italiana: “Si dovranno creare gruppi di artigiani, dove uno sarà il coordinatore, gli altri saranno collaboratori, ma questo non è stato sempre anche in passato? Nel nostro Rinascimento non vi erano botteghe di artisti, ove i collaboratori erano numerosi?”.28 Propone con lungimiranza anche di considerare le competenze dell’artigiano nel contesto della grande industria, poiché “sono artigiani anche coloro che creano il prototipo di un’automobile, o di un aereo, battendo lamiere e saldandole l’un l’altra, fino a quando la linea esatta non sarà raggiunta”.29 E a conclusione della missione americana, nello stesso anno, in una relazione tenuta alla Triennale30 De Poli considerava di buon auspicio che il primo Congresso mondiale degli artigiani si fosse tenuto a New York, “ove lo spirito industriale impera e dove l’industria ha raggiunto livelli a noi sconosciuti”.31 L’Italia, ancora lontana da questo modello, avrebbe dovuto approfittarne per tutelare il settore del lavoro artigiano, che rappresentava “l’importanza dello spirito e della sensibilità umana che avrà sempre il sopravvento sulla meccanica”.32 26 Dellapiana 2022, p. 245. Sulle dirette connessioni di questa mostra con Italy at Work si veda il saggio di Cordera in questo volume. 27 L’iniziativa è guidata da Aileen Osborn Vanderbilt Webb, presidentessa dell’American Craftsmen Company, l’associazione educativa nata nel 1943 a sostegno dell’artigianato americano: i delegati italiani, oltre a De Poli per gli smalti, sono lo scultore Antonio (Toni) Benetton per il ferro, Nino Carus e Federico Feltrini per la ceramica. 28 Scodeller 2017, p. 339. 29 Ibidem. 30 De Poli è membro del consiglio di amministrazione dal 1960 al 1983 dove sostiene la causa dell’arte applicata e dell’artigianato. 31 Scodeller 2017, p. 344. 32 Ibidem. 140 Ali Filippini Coronano la relazione tra De Poli e l’America le mostre del 1966 The Expression of Gio Ponti e soprattutto la mostra personale Enamels by Paolo De Poli. Omaggio a Manhattan, al Museum of Contemporary Crafts di New York del 1967, in occasione della celebrazione del decennale della fondazione del museo. Il titolo di quest’ultima riprende una composizione di nove vasi in smalto su rame dall’accentuato verticalismo:33 un tributo del maestro padovano allo skyline di New York. 33 All’attuale Arts and Design Museum, De Poli espone già nel 1961 nella mostra Artist Craftsmen of Western Europe insieme a Seguso, Salviati, Venini, Vianello, mantenendo proficui rapporti con il suo direttore Paul J. Smith. Le sedie Campanino di Chiavari. Un prodotto artigianale tra ribalta internazionale e tradizione Rita Capurro Università degli Studi di Milano-Bicocca L’ eccellenza dell’artigianato nell’area del Tigullio ligure si inserisce in un sistema della promozione dell’economia locale che ha radici documentate dalla fine del XVIII secolo, con la fondazione della Società Economica di Chiavari che nacque nel 1791, ispirata e in relazione con la Società Patria di Genova istituita nel 1786. Quest’ultima fu la prima in Europa, nel 1789, a realizzare un’esposizione di manifatture locali, Chiavari la seguì nel 1793 mentre a Parigi la prima esposizione avvenne nel 1798.1 La Società Economica è stata attiva negli anni a promuovere iniziative per migliorare tutte le attività produttive, dall’agricoltura all’industria, incaricando anche esperti per trovare soluzioni utili a contenere i prezzi delle materie prime e delle lavorazioni. Per l’artigianato, la Società si è impegnata anche nella sua promozione nel mercato italiano ed estero. Infatti, tessuti, lavorazioni macramè, prodotti in ardesia e arredi in legno sono stati presentati nelle vetrine di prestigiose esposizioni internazionali, già dalla Great Exhibition londinese del 1851, per proseguire con l’Esposizione di Parigi del 1867 e Chicago 1892 solo per citare gli esempi più notevoli.2 Inoltre la Società ha istituito diversi percorsi di formazione e, in particolare, la scuola di Architettura e Ornato, inaugurata nel 1820, prevalentemente a sostegno dell’alta specializzazione per l’artigianato del mobile.3 Questi pochi elementi contribuiscono a delineare i contorni del peculiare contesto della produzione artigianale tigullina, caratterizzata da aziende perlopiù piccolissime, individuali o familiari, tuttavia sostenute da un interesse di comunità. Per quanto concerne in particolare l’artigianato del legno, si rileva una tradizione antica nella storia di Chiavari che è relativa a tutti i livelli di specia- 1 2 3 Labò 1958, p. 43. Grasso 2008, p. 26. Lattarulo 2005, p. 22; Ragazzi, Corallo 1982, p. 65. 142 Rita Capurro lizzazione: dalla falegnameria all’ebanisteria.4 I legni provenienti dall’immediato entroterra hanno consentito infatti un facile approvvigionamento per l’edilizia, l’arredamento, le forniture marittime e il riscaldamento. Tra le diverse produzioni artigianali in legno spicca la sedia leggera di Chiavari detta chiavarina, Campanino o campanina dal soprannome del suo inventore, Giuseppe Gaetano Descalzi il Campanino (1767-1855). La tradizione vuole che questi progettasse la chiavarina tra 1806 e 1807, stimolato dal marchese Stefano Rivarola appena rientrato da un viaggio a Parigi.5 Già dagli esordi, la sedia ha le caratteristiche di leggerezza, essenzialità, robustezza che la rendono subito un prodotto di successo. Il legno utilizzato per la sua realizzazione è prevalentemente di ciliegio selvatico, di limone, di frassino, di acero, essenze di provenienza delle zone limitrofe di Chiavari. La seduta originaria era in trafilato di corteccia di salice, poi sostituito da trafilato in canna d’India intrecciato a mano. Tutti gli elementi sono esclusivamente assemblati attraverso incastri e colle. La sedia si adatta a ogni contesto: quella per arredi raffinati può avere torniture decorative nelle gambe anteriori (le posteriori sono a sciabola), nello schienale e negli inserti traversi. Per quanto concerne la finitura, può essere mordenzata, dorata o verniciata. Nelle versioni più povere, come, ad esempio, per le sedie destinate alle chiese, la seduta non ha la complessa lavorazione del salice intrecciato ma è realizzata in foglie di canna arrotolate. La versatilità del progetto è notevole. Tutto risiede in alcuni accorgimenti tecnici che consentono, nel momento dell’assemblamento delle parti, una perfetta compensazione di forze tali da determinare la massima resistenza in una struttura leggerissima.6 Tale elemento caratteristico è stato negli anni ragione di successo ma anche di problematicità, come quando è stata introdotta sul mercato la sedia Thonet, che aveva il vantaggio di potere essere smontata e assemblata dopo il trasporto e si prestava pertanto a una maggiore diffusione e a una produzione efficientemente meccanizzata. Per ovviare ai problemi di concorrenza sulla sedia chiavarina, la Società Economica di Chiavari ha incentivato anche i viaggi di alcuni artigiani in Austria e Ungheria nel 1876 per aggiornarsi sulle nuove tecniche;7 questi tentativi non hanno tuttavia determinato radicali cambiamenti. La questione era chiara: il progetto aveva la sua essenza nel processo di produzione. Si poteva imitare il prodotto ma il risultato lo avrebbe snaturato. Per i maestri seggiolai chiavaresi la fedeltà alla tradizione non poteva essere messa in discussione. La Campanino ha avuto quindi in oltre due secoli di vita fortune altalenanti, tuttavia con impatto sull’economia locale non dirompente. Infatti, le attività dei seggiolai chiavaresi si contraddistinguono come aziende di tipo familiare, con un numero ridotto di dipendenti, su un’economia locale sviluppata in diversi settori. 4 5 6 7 Zetti Ugolotti 1982. Casoni, Casoni 2011, p. 29; Giuliani 1960, p. 83. González-Palacios 1996, pp. 334-337. Casoni, Casoni 2011, p. 55; Giuliani 1960, pp. 86-87. Le sedie Campanino di Chiavari 143 In un momento di grande successo della produzione della chiavarina, nel 1878, le statistiche pubblicate sul “Bollettino del Comizio Agrario del Circondario di Chiavari” (che include non solo la città di Chiavari ma anche i paesi circonvicini), rilevano complessivamente un numero di circa mille addetti nell’artigianato della seggiola, quando gli addetti del settore tessile erano 35.760.8 Negli anni ’30 del Novecento, i bollettini dedicati alla mostra del Tigullio (prima definita Esposizione Circondariale Chiavari e, dal 1938, Esposizione Biennale Chiavari) evidenziano un malcelato malcontento delle autorità che vorrebbero imporre agli artigiani del Tigullio un’adesione a stilemi moderni, a sostituire una produzione definita passatista. Oltre al prodotto, si critica anche l’incapacità imprenditoriale degli artigiani chiavaresi che sembrano disinteressati a espandere i loro affari. La ripetizione delle esortazioni non pare abbia sortito gli effetti sperati (ricorre nelle edizioni 1935, 1936 e1938) e anzi, maggiormente viene sollecitato un rinnovamento della produzione, più gli artigiani del mobile si distaccano dalla manifestazione: nel 1938 nel bollettino si denuncia l’assenza alla manifestazione dei più insigni artigiani del legno della zona; l’anno successivo non si fa neanche menzione della produzione dei mobili. Gli artigiani del mobile chiavaresi perseguono le loro strade, incuranti anche delle sollecitazioni che passano attraverso l’ENAPI.9 Dopo la Seconda guerra mondiale diverse iniziative concorrono a un rilancio della sedia Campanino, a partire dalla mostra del Tigullio del 1947, gestita da un Ente autonomo del Tigullio con la collaborazione della Società Economica.10 Non mancano le vetrine internazionali anche Oltreoceano: nel giugno del 1947, sedie della produzione della ditta Sanguineti, disegnate da Emanuele Rambaldi, sono esposte alla mostra Handicraft as a Fine Art in Italy, presso la HIH,11 dopo essersi aggiudicate un premio CADMA alla Triennale dello stesso anno.12 Nel 1949 alcune sedie di Chiavari appaiono su “Vogue” in un articolo di Rogers dedicato al design milanese, insieme ad arredi di Albini, Zanuso, Romano.13 Nel 1949 a Chiavari si contano sei seggiolai con trentacinque operai ed è in questo contesto che alcuni oggetti sono selezionati per la mostra dell’eccellenza della produzione artistica e artigianale negli Stati Uniti Italy at Work, prevista per l’anno successivo. Gli artigiani chiavaresi che contribuiscono con loro manufatti alla mostra sono, per il mobilio: Guido Chiappe, Enrico Del Monte, Giambattista Sanguineti (indicato nel catalogo come Sanguinetti);14 Emanuele Rambaldi è coinvolto per il settore ricami e tessuti. Casoni, Casoni 2011, p. 45. Paladini 2018. 10 Grasso 2008, p. 48. 11 Dellapiana 2022, p. 112. 12 Rossi 2015, pp. 56-61. 13 Rogers 1949, pp. 152-157. 14 Rogers 1950b, p. 63. 8 9 144 Rita Capurro Le botteghe di Chiappe, Del Monte e Sanguineti erano nate per la produzione di arredi diversi ma andarono poi a specializzarsi nella realizzazione delle chiavarine. Per l’occasione espositiva americana non sappiamo esattamente quali sono stati i modelli esposti poiché sul fronte della promozione della mostra statunitense, le sedie di Chiavari non sono tra gli oggetti di arredamento maggiormente citati; nel catalogo della mostra, sono appena menzionate nella parte del saggio introduttivo dedicato all’arredamento,15 e non appaiono in alcuna illustrazione di corredo. Da alcuni scatti delle sale nelle diverse tappe possiamo evincere la presenza di sedie propriamente tradizionali chiavarine insieme a modelli più moderni, tutti caratterizzati da artigianalità, leggerezza, seduta in fibre vegetali intrecciate. Rispetto a questo ultimo elemento, si rileva che, tra i prodotti artigianali italiani presenti alla mostra, è marcata la presenza di manufatti realizzati con intrecci di differenti materiali che vanno dalla paglia alla rafia e che appaiono come significativi dell’artigianato italiano. Tra gli oggetti in paglia vi sono le produzioni fiorentine, delle ditte Emilio Paoli e Salvatore Ferragamo, e di Signa, di Raffaello Bettini, che spaziano da borse e cappelli a oggetti decorativi in forma di animali;16 vi sono poi i cestini della ditta napoletana Angelina Migliaccio; nell’arredo e, in particolare, nelle sedie, spiccano le realizzazioni del fiorentino Guglielmo Pecorini che propone sedute di materiali diversi, tra i quali la rafia intrecciata. Di questi prodotti viene enfatizzata specialmente l’artigianalità creativa italiana17 in grado di trasformare con grazia anche un materiale povero quale la paglia o il filamento vegetale. Per quanto riguarda nello specifico le sedie, si evidenzia che quelle caratterizzate da una forma semplice e seduta in fibra vegetale intrecciata, le ladder-back chair, avevano negli Stati Uniti una tradizione ininterrotta dai tempi coloniali ed erano promosse sulle pagine delle riviste – ad esempio, “House & Garden” – sottolineando i caratteri di essenzialità e robustezza e l’economicità. Le sedie italiane che negli anni ’50 si diffondono nel mercato americano sono presentate principalmente come artigianali, eleganti e adatte a diversi contesti di arredo, anche nelle forme più semplificate che ricalcano le ladder-back chair. Per una sedia in vendita alla HIH e identificabile con la produzione chiavarese è sufficiente denominarla come “Handmade Italian chair”18 per segnalare l’aspetto della qualità; mentre per un’altra sedia, di simile semplice fattura, il valore artigianale è posto in continuità con il gusto classico: “The perfect chair. It comes from Italy and you can use it in any kind of decoration because of its classic simplicity”.19 Modelli Ivi, p. 27. Sparke 1998. 17 Mannes 1950, p. 126. Sul ruolo di questi materiali nella moda si veda il saggio di Faggella in questo volume. 18 Open Letter to Santa Claus 1951, p. 193. 19 Shopping Around 1951, p. 49. 15 16 Le sedie Campanino di Chiavari 145 analoghi (CH 1007 e CM 1013) sono anche presentati nel catalogo dell’industria del mobile newyorkese Altamira20 del 1953 (fig. 1) tra le sedie presentate come le “famous” di Chiavari. La sedia chiavarina non risulta invece un oggetto specificamente promosso nelle sue forme più tradizionali. 1. Sedie di Chiavari, catalogo Altamira, 1953 20 Dellapiana 2022, p. 141. 146 Rita Capurro Spostando la prospettiva dal mercato statunitense alla produzione tigullina, si impongono alcune considerazioni utili a delineare se, in qualche modo, l’evento specifico della mostra Italy at Work, insieme alle altre azioni tese al rilancio della produzione italiana, abbia determinato sostanziali cambiamenti nella produzione artigianale della sedia. Primo dato certo è che la domanda di prodotto da Stati Uniti e Canada ha negli anni ’50 un notevole incremento, determinando ancora negli anni ’60 una quota di mercato non indifferente.21 Difficile è stabilire quanto la richiesta sia focalizzata esclusivamente sul prodotto sedia o su altri arredi artigianali perché, a fronte dei dati generali sull’esportazione di mobili d’artigianato, non è facile reperire informazioni più dettagliate dagli archivi dei produttori, dal momento che tutte le aziende attive in quegli anni oggi non esistono più.22 Secondo elemento rilevante riguarda la mancata eco della mostra americana a livello locale; in particolare, sul lato chiavarese, sembra che l’evento sia passato completamente inosservato come testimonia il fatto che la stampa locale non ne dà alcun risalto. Non c’è menzione di Italy at Work neanche nei numeri del bollettino “Liguria. Rassegna mensile dell’attività ligure”, antenna di rilevanza regionale, molto attenta alla promozione delle produzioni liguri. Terzo elemento riguarda la ricaduta diretta dell’evento espositivo sulla fortuna delle aziende che vi hanno partecipato. La loro storia tra anni ’50 e ’60 ci riporta a esperienze di successo, talvolta coronate da prestigiosi riconoscimenti e tuttavia difficilmente riconducibili con certezza alla notevole vetrina americana. Certo è che le tre ditte, strettamente a gestione familiare hanno finito per chiudere nel momento in cui l’attività non è stata continuata dai discendenti. In generale, questi decenni hanno visto il fiorire di un numero considerevole di attività artigianali dedite alla realizzazione di sedie chiavarine, arrivando, negli anni ’60 a quindici ditte artigiane che, complessivamente, impiegavano centoventi operai.23 Anche sotto il profilo della visibilità, le sedie di Chiavari, in diversi modelli, sono valorizzate in contesti prestigiosi come nella mostra curata da Licia Collobi Ragghianti e allestita da Ignazio Gardella La sedia italiana nei secoli alla IX Triennale del 1951.24 Tra le ditte di eccellenza che emergono anche in contesti di prestigio internazionale, spicca la Sanguineti di Gio Batta e del figlio Colombo, che oltre alla presenza a Italy at Work, annovera in quegli anni la partecipazione a esposizioni in molti paesi come Svizzera, Norvegia e Regno Unito. Il fiorente mercato estero la porta ad avere rappresentanti a Buenos Aires e Stoccolma. Attiva fino agli anni ’70 del XX secolo, si caratterizza per una certa tendenza innovativa sul prodotto, 21 22 23 24 Giuliani 1960, pp. 88-89. Ragazzi, Corallo 1982, p. 165. Rossi 2015, pp. 56-61. Dellapiana 2022, p. 118. Le sedie Campanino di Chiavari 147 con il coinvolgimento di alcuni artisti locali come il già menzionato Emanuele Rambaldi. Nel 1956 il modello Tigullina della ditta Sanguineti Colombo merita menzione speciale al Premio del Compasso d’Oro e nel 1958 è assicurata l’esclusiva produzione da brevetto (brevetto industriale n. 71057, 1959). Edizioni limitate del prodotto sono in collezioni prestigiose come quella dei reali inglesi.25 Qualche anno prima, nel 1954, le ditte Canciano, Chiappe e Sanguineti avevano presentato i loro elementi di arredo alla XVIII mostra mercato di Firenze rientrando nel circuito di promozione prettamente artigianale, costante riferimento per i seggiolai chiavaresi. Nell’edizione successiva, XIX del 1955, la ditta Sanguineti ottiene la medaglia d’oro. Anche la ditta Chiappe negli anni ’50 e ’60 vive una stagione d’oro con un numero di dipendenti che arrivava quasi a settanta unità. In quegli stessi anni Guido Chiappe è anche insignito del titolo di Cavaliere del Lavoro dal Presidente Gronchi. Stimolo importante per l’apprezzamento del prodotto tigullino è stato certamente l’interesse del design che ha portato all’esito più noto della realizzazione nel 1951-1952 della Leggera e nel 1957 della Superleggera di Gio Ponti, commercializzate da Cassina. Negli Stati Uniti le sedie di Gio Ponti hanno immediata fortuna. Sebbene maggiormente adattabili alle esigenze di un mercato assai dinamico e veloce rispetto a quelle chiavarine, anch’esse fronteggiarono la difficoltà di mantenere il passo con una richiesta molto incalzante.26 Tornando all’ambito tigullino, l’effetto dell’apprezzamento della Superleggera influenza gli artigiani chiavaresi verso la ricerca di innovazione, tanto che nel 1959 si contano circa trecento varianti di sedie Campanino.27 Un caso interessante di azienda artigiana della sedia chiavarina è la ditta SAC, Sedie Artistiche Chiavaresi, fondata negli anni ’60 da quattro artigiani specializzati, già dipendenti della ditta Chiappe. L’azienda ha proseguito le attività fino ai primi anni Duemila e si tratta di un caso longevo di azienda con diversi soci. La SAC, insieme ad alcune altre ditte artigiane della chiavarina, ha tentato anche la costituzione di un consorzio per la tutela e la promozione condivisa della sedia chiavarina, progetto fallito per la difficoltà di mettere a sistema imprese abituate a lavorare senza vincoli di corporazione. Per un’analisi più precisa della fortuna della sedia chiavarina negli anni ’50 e ’60, è tuttavia necessario valutare alcuni parametri di contesto demografici che hanno contribuito a determinare specifiche ricadute sulla produzione in termini quantitativi ma anche qualitativi. Dal punto di vista demografico, gli anni del dopoguerra vedono una stabilizzazione dell’emigrazione e un aumento progres25 26 27 The Royal Collection Trust, RCIN 20168. Dellapiana 2018, p. 39; Casali 2020 pp. 363-364. Grasso 2008, p. 48. 148 Rita Capurro sivo dell’immigrazione, in particolare dalle regioni meridionali. Tra 1961 e 1971 si registra anche un forte incremento demografico per aumento di natalità.28 Da ciò deriva che un aumento di aziende dedite alle produzioni artigianali di mobili e sedie non incide maggiormente sull’impatto economico dell’attività sul territorio. Tra 1951 e 1961 si sviluppa una vera e propria industria dell’arredamento e del legno che, tuttavia, riguarda marginalmente la produzione delle chiavarine, interessando invece la produzione del mobile “in stile”. Già nel 1971 tutte queste attività hanno ridotto considerevolmente il numero degli addetti attestandosi a produzione prettamente di carattere artigianale29 e arrivando già allo scadere degli anni ’80 a scomparire del tutto. Per quanto riguarda nello specifico le ditte che producono sedie chiavarine, alla fine degli anni ’70 la domanda permane ma il numero delle aziende e dei dipendenti diminuisce, arrivando a sette ditte con circa cinquanta dipendenti complessivi, e la qualità della produzione decade sensibilmente: si cominciano a utilizzare anche materiali provenienti da altre aree, come il giunco indonesiano e, addirittura, parti delle sedie vengono commissionate a impianti industriali extra regionali.30 La notevole domanda e la mancanza di una protezione del prodotto portano anche alla realizzazione di prodotti di scarsa qualità, realizzati in parti varie del mondo. Solo in anni recenti la Regione Liguria si è attivata per promuovere e tutelare le lavorazioni artigianali artistiche, tradizionali, tipiche, di qualità istituendo l’attribuzione di un marchio d’origine denominato Artigiani in Liguria (L.R. 3 del 2 gennaio 2003) che certifica la garanzia della tutela dei prodotti, con caratteristiche disciplinate e verificate. La sedia chiavarina è uno tra quelli certificati e le uniche due aziende attive nella sua produzione, le ditte Levaggi e Podestà, hanno il riconoscimento. 28 29 30 ISTAT 1951, 1961, 1971; Ragazzi, Corallo 1982, pp. 151-153. Ragazzi, Corallo 1982, p. 157. Ivi, p. 166. WOMEN AT WORK Antonia Campi a Italy at Work Anty Pansera DcomeDesign e MIDeC, Museo Internazionale del design ceramico di Laveno L a partecipazione di Antonia Campi (1921-2019) a Italy at Work precede, per certi versi, la sua affermazione – e i suoi successi – alla Società Ceramica Italiana (SCI) di Laveno, dove era “approdata” nel 1948, inizialmente assunta come operaia addetta alla decorazione. Art director, allora, Guido Andloviz – che aveva traghettato felicemente la SCI, nel decennio ’20 da un’opaca produzione a successi inanellati già dalla presenza monzese nel 1925, alla II Biennale di Monza –, che ne riconobbe subito il valore e le potenzialità: ben presto la inserirà nel “reparto artistico” dell’azienda (dove Campi resterà, come art director anche nei diversi cambi di proprietà, fino al 1978, data del suo pensionamento) e già nel 1948 le affida la realizzazione dei pannelli ceramici per la colonia dell’azienda a Marina di Pietrasanta, ma soprattutto la lascia libera di progettare nuove forme. Poco noto come, nel 1947, alla VIII Triennale di Milano, la Campi abbia vinto, a pari merito con Ettore Sottsass jr. e Lyda Levi, il concorso per disegni per tappeti organizzato dalla MITA di Genova Nervi, che troviamo presente anche a Italy at Work.1 Ma, dall’esterno, è Gio Ponti che subito la nota e la segnala, recensendola su “Domus” nel marzo 1950 e pubblicando suoi oggetti scrive come questi pezzi di Antonia Campi, ideati per Laveno, testimoniano di un’intelligente traduzione dell’astrattismo nella ceramica d’uso: non più, come già si è fatto, stampando nel centro dei rotondi piattini o sulle simmetriche convessità dei vasi, qui e là, dei motivi presi di peso, tanto per fare dei pezzi “moderni”. Qui disegno e forma nascono dal medesimo gusto di un asimmetrico gioco di “negativi”, e il pezzo di ceramica ne acquista una valida armonica unità.2 1 2 Rogers 1950b, p. 118. Ponti 1950a, p. 28. 152 Anty Pansera Ma chi era costei? Valtellinese (nasce a Sondrio nel 1921), in lei uno spirito libero e originale che ha sempre amato rompere le regole e schemi, seguendo con passione il proprio istinto artistico: e siamo in anni dove le scelte, personali e professionali, per una donna non sono semplici da perseguire. Antonia (Neto per gli amici), ha sempre rivendicato l’essere stata una semplice e aspra ragazza valtellinese. Una di montagna. Una schiva. Una che ha sempre amato la solitudine, una taciturna, una che parla poco a bassa voce. Ma libera come l’aria! Nelle interviste, spesso ricordava: “Mi diverte molto l’ironia, è una completezza di pensiero! Credo nella bellezza. È la prima cosa che sento quando guardo qualsiasi cosa. Ho sempre fatto tutto con passione… Ai giovani dico: passione, fate emergere ciò che di importante è dentro di voi e lasciate tutto il resto… Così saremo in grado di costruire un mondo migliore!”. Eccola allora a Milano, a diplomarsi in scultura nel 1947 all’Accademia di Belle Arti di Brera con quel maestro Francesco Messina che si era dovuto piegare ad accettare nel suo corso delle studentesse data la carenza di studenti maschi, richiamati alle armi. Un docente complesso, tanto che renderà i primi tempi accademici della Campi non facili anche se Antonia sarà per lui, nel 1938, modella per la testa della sua celebre Minerva Armata che a tutt’oggi svetta nell’omonima piazza di Pavia: la dea guerriera, premonitrice quasi dell’atteggiamento determinato e volitivo che contraddistinguerà sempre l’operare della designer. E in poco meno di un decennio Antonia disegna alcune centinaia di oggetti: articoli fantasia, serie limitate, pezzi unici… in terraglia forte e lavori in porcellana. Grande il suo amore per le terre (porcellana, ceramica, terraglia e tutte le varianti sul tema), con le quali Campi “gioca” con acuta ironia: con difficoltà e con sofferenza – ha sempre ricordato – si è gradualmente impadronita di tutti i loro segreti, affinando la sua competenza negli aspetti tecnici e nell’uso degli smalti, comunque sempre attenta anche alle esigenze della produzione. Le forme che propone sono morbide, “bucate”, a rimandare spesso al mondo animale, le colorazioni brillanti e vivaci, diversificate all’esterno e all’interno, o con abbinamenti stranianti in quegli anni, le superfici caratterizzate da tagli arditi (fig. 1). E come non ricordare l’incredibile servizio Gallina, che farà scrivere ancora a Ponti come Campi avesse “trasportato in un ‘servizio’ le espressioni formali che le sono care e consuete, e che sono completamente astratte da ogni funzionalità, destinazione ed economia produttiva”,3 e ben predicendo come questo servizio apparterrà non alla storia del costume, ma alla storia del gusto e si avvicinerà nelle “vetrine” di casa a tanti predecessori, servizi da vedere e non toccare. È un servizio “in marcia”, uccelliforme: l’astrattismo (o concretismo formale) sbocca spesso (o prende le mosse) in forme naturalistiche, animaliformi. I suoi presupposti sono più vicini alla natura che alla geometria, alla analisi psichica che a quella geometrica.4 3 4 Ponti 1951b, p. 35. Ibidem. Antonia Campi a Italy at Work 153 1. Antonia Campi, Vaso da giardino C230, 1953 c., terraglia forte decorata a smalti (h. 57 cm, l. 54 cm), Produzione SCI Lavenia, Stabilimento Lago Ma l’attenzione per Campi, da parte di Ramy Alexander, vicepresidente della CNA, buon conoscitore della realtà dell’artigianato italiano, nasce probabilmente a Faenza: dal settembre 1946 viene stretta la collaborazione della CADMA e dell’HDI di New York, fondazione americana sorta con lo scopo di assistere la ripresa dell’artigianato in Italia durante il periodo dell’emergenza prodotto dalla guerra e le successive problematiche e difficoltà, con il Museo Internazionale delle Ceramiche di Faenza (MIC) che porterà all’elargizione di ventun borse di studio sia a studenti che ad artigiani, a sostegno alla produzione della ceramica locale. Il faentino Angelo Biancini, che aveva collaborato tra le due guerre con la SCI, e che tornava spesso a Laveno, aveva incoraggiato la giovane artista a inviare un’opera per la mostra permanente in via di allestimento al MIC della città manfreda, fondato e diretto da Gaetano Ballardini, che stava rinascendo dopo le dispersioni e i bombardamenti. E proprio Ballardini – siamo nel 1948 –, scriverà una lettera di proprio pugno ad Antonia: Mia gentile Signorina, l’eccellente Biancini, nel tornar costà, mi reca una buona nuova: che Ella avrebbe intenzione di esporre Suoi lavori nelle nostre nuove mostre permanenti. Vi sono e vi saranno rappresentati i migliori Artisti della ceramica di ogni Paese e le più note manifatture, da Sèvres a Copenaghen, da Gustavsberg a Cincinnati, dalla California […] alla Bulgaria: anche Picasso. Sono lieto di questa Sua decisione e La ringrazio caramente, in attesa di Sue gradite nuove. Il suo dev.mo Gaetano Ballardini.5 Antonia Campi risponde inviando alcuni pezzi – scelti su consiglio di Biancini – per il museo dove arrivano nel luglio del 1949, e in questo stesso anno, decide di partecipare all’VIII Concorso Nazionale della Ceramica di Faenza: il tema è 5 Lettera di Gaetano Ballardini ad Antonia Campi, 14 settembre 1948. AAC. 154 Anty Pansera Trofeo per un centro tavola. Arriva seconda (il primo premio non fu assegnato e il pezzo rimarrà di proprietà della città di Faenza, depositata presso il MIC). L’opera premiata è una Fruttiera in terraglia forte, un materiale noto per la sua durezza che provoca distorsioni: il pezzo risulta così deformato in una innaturalità che contrasta con il soggetto – la natura morta –, rappresentato. E se è noto che questa tematica fa certo parte di una tradizione ceramica (e non solo) secolare, è stata affrontata anche dai protagonisti della “nuova ceramica”, che hanno rinnovato la concezione e la percezione di questo materiale: e pensiamo al Fontana della fine degli anni ’30 – le sue modellazioni compositive di banane, fichi e pere in maiolica policroma –; un altro esempio, meno noto, è di un artista come Luigi Broggini, che riprende il tema con una Fruttiera baroccheggiante e due amorini che sarà esposta, insieme alla Fruttiera di Antonia Campi, nella mostra americana.6 Nel catalogo di Italy at Work troviamo un unico pezzo di Campi, l’immagine di quella Fruttiera vincitrice a Faenza e oggi al MIC: nell’elenco dei designer e dei produttori l’artista è indicata sia come progettista che, come realizzatrice (DP) e il suo nome è affiancato dal nome della cittadina, Varese, dove allora risiedeva.7 Inoltre, Campi – così come molti altri progettisti di cui numerosi sono i lavori pubblicati –, non è citata in alcun scritto del catalogo né si parla di Laveno – solo en passant8 – e/o di SCI, contrariamente a Richard Ginori. Ma come ricordava proprio Campi, il pezzo esposto in mostra ne fu probabilmente una seconda, modificata versione – donata poi dalla stessa al Museo di Laveno –, realizzata quasi in parallelo,9 non solo perché “mi piaceva il tema e le modalità realizzative” – puntualizzava Neto nei nostri incontri –, ma proprio perché la CNA – che aveva pubblicato il catalogo –, già nel febbraio 1950 e citando corrispondenze precedenti, chiedeva informazioni e costi proprio relativi alla “riproduzione” del “centro” – una sovrascrittura a penna alla parola “fruttiera” battuta a macchina, come il resto del testo – premiato a Faenza per esporlo nei “più importanti musei degli Stati Uniti”. Interessante la risposta della Campi, che non solo accenna al prezzo (25-30 mila lire: tra i 500 e i 600 euro odierni) ma ipotizza anche altri pezzi da esporre: “due vasi alti 50/60 cm e un gallo alto circa 30 cm. Ho inoltre in lavorazione un paio di sculture quasi a tutto tondo, tra i 40 e i 50 cm, da applicarsi a parete, che credo possano riuscire cose molto nuove e molto decorative. Anche una scultura da giardino o da parco alta 2 metri, che per ora è in gesso”.10 La lettera, in più bozze nell’Archivio Campi, indirizzata al signor Ramy Alexander, CNA, via San Basilio 41, Roma, e con più correzioni, è datata 7 febbraio Rogers 1950b, p. 86. Ivi, p. 63, 95. 8 Ivi, p. 29. 9 Pansera 2008, p. 32. 10 Bozza di lettera di Antonia Campi a Ramy Alexander, 7 febbraio 1950. AAC. 6 7 Antonia Campi a Italy at Work 155 1950. E a chiudere, Campi scrive ancora: “di tutto le manderò quanto prima possibile le fotografie per ricambiare del suo costante interessamento al mio lavoro”.11 Dunque, questa uscita Oltreoceano di Antonia, oltre che dal catalogo, è testimoniata proprio dalla corrispondenza di Campi dove propone anche suoi lavori recenti, da affiancare alla Fruttiera selezionata. Ma non riceverà mai risposta: non presente né nel suo Archivio, né nei suoi ricordi… Certo è che Walter Dorwin Teague quando scrive che tutti i pezzi devono essere intesi come primi prodotti di un’agitazione del tutto fresca, immensamente vigorosa del profondo suolo culturale in cui sono radicate le arti italiane […]. Sono la fioritura vigorosa di un inizio di primavera, un’impennata della vitalità italiana che sembra essersi accumulata durante il lungo e grigio intermezzo fascista, in attesa di nuovo questo giorno di sole12 non poteva trovar miglior risposta che nella Fruttiera della Campi. Questa presenza Oltreoceano – che non era rimasta più di tanto nei ricordi di Neto –, precede di poco la realizzazione per la IX Triennale di Milano – inaugurata il 12 maggio 1951 –, dello splendido Landscape, il fregio ceramico che viene posto in cima allo Scalone d’Onore al di sotto del ricciolo luminoso di Lucio Fontana (fig. 2). Una “stravolta elaborazione di forme naturali [che fa sì che] il visitatore si trov[asse] di fronte a una rivoluzione nelle arti applicate”, come ho già avuto modo di scrivere.13 Una presenza in Triennale sollecitata da Ponti ed incoraggiata da Andloviz. 2. IX Triennale di Milano, 1951. Lo Scalone d’Onore di L. Baldessarri e M. Grisotti con Landscape, pannello in terraglia forte di Antonia Campi, per la Società Ceramica Italiana di Laveno 11 12 13 Ibidem. Teague 1950b. Pansera 2008, p. 37. 156 Anty Pansera Campi e Fontana: Antonia lo aveva conosciuto a Milano, in Accademia, dove, poco dopo il suo ritorno dall’Argentina, Fontana passava tra gli studenti per andare a trovare Messina… E la nostra poi ha collaborato (ufficialmente, anche se in realtà ne è autrice ma era dipendente SCI e non poteva firmare!) con Antonia Tomasini, sua compagna a Brera, nella realizzazione (1950-1951) di una scultura subacquea per una piscina disegnata per il petroliere monzese Tagliabue da Giulio Minoletti, “tutta motivata di curve”,14 dove getta l’acqua un delfino lungo ben tre metri e mezzo di Lucio Fontana, realizzato in ceramica rossa smaltata di Albisola. E alla scultura astratta di Campi, rivestita in ceramica dai diversi colori, vengono dedicati la copertina di “Domus” (ottobre 1951) e un articolo di Ponti: le immagini illustrano la scultura posta sul fondo della piscina, “concepita per giochi subacquei”.15 Di fatto, in oltre sessant’anni di attività, Antonia – sempre Neto per gli amici –, insignita nel 2011 del prestigioso premio Compasso d’Oro, ha innovato con spirito e originalità il mondo della ceramica e ha rivoluzionato l’ambiente bagno: nel 1957 aveva preferito trasferirsi in un altro settore dell’azienda, quello dei sanitari. Forme nuove, attente all’ergonomia, e inserimento del colore. Il bagno non avrebbe più dovuto essere un luogo da tenere nascosto, quasi sconveniente, ma un ambiente fresco, luminoso, da mostrare e da ammirare. Una scelta progettuale che ha precorso i tempi. 14 15 Pansera 2006a, p. 24. Ponti 1951c. Arte, design e industria: Fede Cheti e il riconoscimento internazionale dei Tessuti d’Arte nel dopoguerra Chiara Lecce Politecnico di Milano F ederica Cheti, detta Fede, è nata nel 1905 a Savona, nipote di Giuseppe Sansevero, fondatore di una prestigiosa ditta di stoffe fondata nel 1880. Dopo aver studiato per un breve periodo in Francia, rimasta orfana di padre, nel 1928 si è trasferita a Milano insieme alla madre. Con un primo e rudimentale telaio, proprio in questa città ha iniziato a realizzare in proprio i primi tappeti e a disegnare alcune stoffe per arredamento su ordine di una ristretta cerchia di amici dell’alta borghesia meneghina.1 I primi contatti di Cheti con alcune rilevanti figure dell’arte, dell’architettura e dell’alto artigianato della Milano dei primi anni ’30 si sono verificati in occasione delle Triennali. Queste esposizioni hanno costituito occasioni fondamentali per lo sviluppo e la riconoscibilità del marchio a livello nazionale e internazionale. Anche per questo la partecipazione a questi eventi è continuata lungo un arco temporale di quasi trent’anni, fino al 1957, ultimo anno in cui vi ha preso parte.2 Risale molto probabilmente alla IV Triennale delle Arti Decorative e Industriali Moderne di Monza del 1930, l’incontro con Gio Ponti, che fu immediatamente colpito dal lavoro di Cheti, intuendone fin da subito le potenzialità. Da questo incontro ha avuto inizio una longeva collaborazione professionale e soprattutto un’amicizia lunga una intera vita.3 Nel 1936, nasceva ufficialmente la ditta Fede Cheti, iscritta alla Camera di Commercio di Milano come Scuola di tappeti e di tessitura, anche se il pro- Folco 1997; Lecce 2013. Alfonsi 1975, pp. 41-43; Antonelli 1988; Folco 1997; Pansera 2002; Costamagna 20092010; Lecce 2013. 3 Lecce 2013. Una ulteriore prova del lungo sodalizio umano e professionale intercorso tra Gio Ponti e Fede Cheti, sono le numerosissime lettere conservate nell’archivio dell’epistolario di Ponti che coprono un arco temporale lungo quasi quarant’anni, dal 1940 al 1976. 1 2 158 Chiara Lecce getto di creare una scuola che conservasse la tradizione dello spolinato a mano non andò mai in porto. La sede della ditta e l’abitazione di Cheti sono rimaste da allora in via Manzoni 23.4 Nello stesso anno, Cheti è impegnata nella fornitura delle stoffe per la Mostra dell’Abitazione della VI Triennale di Milano.5 Un’esperienza che sanciva lo stretto rapporto con gli architetti milanesi e più ampiamente il legame con i temi del progetto degli interni della Scuola Milanese da lì a venire. 1946-1949: la “rinascita” Subito dopo la fine della seconda guerra mondiale, la ripresa economica fu segnata dall’avvento della produzione industriale. In Italia, il boom economico assunse una connotazione peculiare, grazie a industriali illuminati e artisti e architetti capaci di una creatività poliedrica che gettarono le basi di quello che sarà il “buon design” degli oggetti degli anni ’50 e ’60 in Italia. Anche il disegno dei tessuti si inseriva in una rivoluzionaria visione, quella del “design colto, assunto come sistema ripetibile, direttamente trasferito, per stampaggio, su centinaia di metri di tessuto, con cui rivestire divani e poltrone […]. Tale linguaggio è prelevato dalla pittura senza ulteriori modifiche e accomodamenti – salvo l’altezza della cimosa – secondo un criterio di assoluto e quasi radicale realismo”.6 Nel 1947, in occasione della VIII Triennale della Ricostruzione, il nome di Fede Cheti viene segnalato in relazione alla fornitura di tessuti per arredo destinati a diversi ambienti espositivi dedicati, com’è noto, al progetto del quartiere sperimentale del QT8 di Milano. Il suo nome compare al primo posto nell’elenco del comitato ordinatore del Convegno delle Arti Decorative e Industriali Moderne in cui erano discusse “le funzioni, i limiti e i rapporti fra artigianato e industria nel campo delle arti applicate, con particolare riguardo ai problemi sociale, economico, artistico e delle scuole”.7 Lo scopo di questo convegno era quello di definire le funzioni dell’industria nel campo delle arti decorative e individuare delle direttive valide tanto per il mercato nazionale quanto per quello internazionale, oltre a redigere un nuovo statuto per le future esposizioni triennali di arti decorative e industriali. Contestualmente, due concorsi dal titolo “Concorso disegni per tessuti d’arredamento Fede Cheti” (n. 1 e n. 2) furono indetti da Fede Cheti congiuntamente alla Triennale stessa. Il tema era 4 L’esposizione venne curata da Franco Albini, Ignazio Gardella, Renato Camus, Paolo Clausetti, Giuseppe Mazzoleni, Giulio Minoletti, Gabriele Mucchi, Giancarlo Palanti e Giovanni Romano. Cfr. Antonelli 1988. 5 Guida della Sesta Triennale 1936, pp. 26-28. 6 Branzi 1987, p. 7. 7 T8, Ottava Triennale di Milano 1947, p. 61. Arte, design e industria: Fede Cheti e il riconoscimento internazionale 159 lo studio di disegni per tessuti di spolinato a mano per arredamento, ripresi da antichi motivi italiani.8 Le mostre Fede Cheti e il legame con le pubblicazioni d’Oltreoceano In questi anni il legame tra Fede Cheti e i principali esponenti dell’architettura e del design milanese si andava consolidando e una prova di questo sodalizio sono state le mostre promosse insieme a “Domus” e a Gio Ponti.9 La prima, nel 1948, era dedicata a Lo stile nell’arredamento moderno.10 In questo modo Enrico Freyrie commentava su “Domus” l’evento: Questa mostra è stata ideata da Fede Cheti – impetuosa creatrice di tessuti di arredamento che tutti conoscono – come una prova di qualità: sotto un certo punto di vista di considerazione internazionale e nei riguardi di una esportazione (cioè di una diffusione e di un potenziamento del lavoro italiano) essa era dunque necessaria.11 Le riflessioni ironiche e al tempo stesso acute di Freyrie si riferiscono al crescente interesse per la produzione italiana, sviluppatosi nel periodo postbellico negli Stati Uniti. Non casualmente, una proposta di Ponti includeva due mobili disegnati per l’APEM esplicitamente dedicati alla esportazione: un tavolo con trompe-l’oeil di Edina Altara e un mobile bar-cavalletto con un dipinto ad olio dello stesso architetto.12 Nell’aprile del 1948, nello stesso mese in cui compariva su “Domus” l’articolo dedicato alla mostra di Fede Cheti, la rivista newyorkese “Interiors” pubblicava un articolo di quaranta pagine, intitolato Blessed are the poor e dedicato agli sviluppi dell’Italia postbellica nel campo del design degli interni e degli elementi d’arredo, illustrati attraverso i progetti di quaranta architetti. L’introduzione dell’articolo dell’industrial designer e architetto George Nelson esaltava le qualità dei progettisti italiani che, nonostante la povertà di mezzi, erano riusciti a tradurre il progetto in un esempio virtuoso e bilanciato tra funzione e memoria storica.13 La giuria era composta da: Piero Bottoni, Ernesto N. Rogers, Fede Cheti, Aligi Sassu ed Enrico Bordoni. Cfr. Lecce 2013. 9 Gio Ponti aveva lasciato la direzione di “Domus” nel gennaio del 1941 per riprenderla nel gennaio 1948. Tra il 1946 e il 1948 “Domus” era stata diretta da Ernesto Nathan Rogers, passato poi a dirigere la rivista “Casabella” nel 1953. 10 Tra i progettisti invitati, la mostra annoverava i nomi di Franco Albini, Fabrizio Clerici, Gio Ponti, insieme a Carlo Mollino, Ettore Sottsass jr., Pietro Chiesa, Carlo Enrico Rava, Guglielmo Ulrich, Ico e Luisa Parisi, Giulio Minoletti. Cfr. Ulrich 1948. 11 Freyrie 1948. 12 Dedicato agli americani 1948. 13 Nelson 1948. 8 160 Chiara Lecce Le immagini dell’articolo di “Interiors” corrispondevano a quelle di molti interni realizzati a cavallo della guerra e a buona parte dei progetti presentati alle mostre della RIMA tra il 1946 e il 1947. Vi erano pubblicati anche alcuni progetti provenienti dalla mostra di Fede Cheti Lo stile nell’arredamento moderno (1948), come le organiche sedute di Mollino in legno e metallo con schienale elastico e regolabile. Altri arredi pubblicati nell’articolo sarebbero invece stati presentati (con alcune modifiche) l’anno successivo alla mostra del Mobile singolo (1949). Tra di essi: una poltroncina in tubolare metallico e cuscini imbottiti in gommapiuma di Marco Zanuso e la poltroncina in compensato curvato realizzata da Vittoriano Viganò.14 Questi collegamenti non erano casuali, ma ben architettati da Gio Ponti che rimaneva uno dei punti di riferimento per la promozione del design e delle arti applicate all’estero, soprattutto negli Stati Uniti. Dopo gli anni di “allontanamento” durante la guerra, con la ripresa direzione di “Domus” nel 1948 e il ritorno alla Triennale nel 1951, egli aveva infatti riconquistato quel ruolo di regista e promotore che aveva in parte esercitato nel periodo prebellico.15 Un ulteriore punto di contatto tra Fede Cheti, gli architetti milanesi e gli Stati Uniti si realizzò tra il 1948 e il 1949 quando “Vogue” America commissionò a Irving Penn un servizio fotografico in cui compaiono gli interni delle case dei principali architetti milanesi.16 Tra gli scatti di Penn che non vennero poi pubblicati,17 si trovano un ritratto di Gio Ponti e un bellissimo e serioso ritratto di madame Fede Cheti, a riprova della sua prominente presenza all’interno di quell’ambiente progettuale. Italy at Work: Her Renaissance in Design Today Uno dei primi luoghi in cui il mondo delle arti, arti decorative e del design italiani entrò in diretto contatto con il pubblico americano fu all’interno della HIH, sede di un’organizzazione italoamericana no-profit, con sede in un edificio al 217 East 49th Street di New York.18 L’edificio era gestito dall’HDI che aveva lo scopo di aiutare gli artigiani italiani, supportando sia la produzione che la commercializzazione dei loro prodotti. Il collegamento con l’Italia era avvenuto tramite la CADMA, guidata dallo storico e critico dell’arte Carlo Ludovico Ragghianti, che La mostra ha visto la partecipazione dei giovani Ignazio Gardella, Carlo De Carli, Marco Zanuso, Vittoriano Viganò, Roberto Menghi e Gino Sarfatti con la produzione Arteluce. Il mobile singolo 1949, pp. 16-26. 15 Bosoni, Lecce 2017; Dellapiana 2018. 16 Bosoni, Lecce 2017. Sulla figura di Penn, si veda anche il saggio di Bosoni in questo volume. 17 Rogers 1949. 18 Their fine Italian hands. Encouraging work in a ruined country 1947, pp. 80-83. Su questo tema si veda il saggio di Ferretti, Mingardi e Turrini nel presente volume. 14 Arte, design e industria: Fede Cheti e il riconoscimento internazionale 161 nel 1947 si era fatto promotore della mostra Handicraft as a Fine Art in Italy.19 In occasione di una mostra, l’anno successivo furono esposti alcuni ambienti e i relativi oggetti e arredi progettati da Fabrizio Clerici, Ernesto N. Rogers e Ignazio Gardella.20 Erano anni intensi durante i quali prendeva forma una delle più importanti opportunità di penetrazione del design italiano nel mercato americano: la mostra Italy at Work, promossa da Meyric R. Rogers, curatore della sezione di Arti decorative e industriali dell’Art Institute di Chicago, in collaborazione con la CNA. L’esposizione inaugurò il 29 novembre 1950 nel Brooklyn Museum di New York. Concepita come una mostra itinerante, tra il 1950 e il 1953, viaggiò attraverso gli Stati Uniti toccando dodici musei di undici stati americani.21 Uno dei punti di riferimento – sebbene non centrale – per questa iniziativa era stato Gio Ponti22 che alla fine del 1950, nel periodo in cui si inaugurava la mostra, sulle pagine di “Domus” sottolineava come il successo della mostra fosse dovuto all’intento dei curatori di non forzare la produzione italiana al gusto americano, bensì di far innamorare gli americani delle cose italiane. Nell’articolo su “Domus”, accanto agli oggetti presentati alla mostra americana sono affiancati alcuni artefatti selezionati dallo stesso Ponti. Tra di essi appaiono alcuni arredi prodotti per le mostre di Fede Cheti.23 Con questo gesto, l’architetto voleva criticamente dimostrare di conoscere bene, se non meglio, molti dei progettisti e degli oggetti effettivamente esposti Oltreoceano.24 I tessuti in mostra a Italy at Work Come sottolineava Rogers sulle pagine del catalogo della mostra, con quarantuno espositori la sezione dei tessuti costituiva, insieme a quella della ceramica, la selezione più ampia dell’esposizione e una delle più difficili da sintetizzare. Nel ricordare la tradizione secolare che aveva caratterizzato questa produzione – vengono citate le sete di Lucca, i panni di lana, le sete, i velluti e i broccati di Firenze, Venezia e Genova – il curatore americano rimaneva sorpreso dalla persistenza di un volume ancora molto grande di laboratori indipendenti in tutti i campi afferenti al tessile e solo in parte rappresentati in mostra. Inoltre, veniva osservato come, diversamente dalle tendenze moderniste che avevano portato il comparto tessile americano verso astrazioni lineari, gli artigiani Handicraft as a Fine Art in Italy 1947. Italy shows her mettle 1948. 21 Per le diverse tappe dell’esposizione si veda la tavola a p. XXV. 22 Dellapiana, 2018. Sulla stanza di Ponti, si veda inoltre il saggio della medesima autrice nel presente volume. 23 Ponti 1950b. 24 Il passaggio è stato sottolineato anche da Dellapiana nel suo testo nel presente volume. 19 20 162 Chiara Lecce italiani preferivano le forme naturali, affidandosi soprattutto al colore. Le geometrie semplici erano più evidenti nella produzione realizzata con telai a mano, mentre una maggiore libertà accompagnava il processo di stampa. In questo quadro, Rogers lodava la qualità delle stoffe stampate e distribuite da Myricae di Roma, che promuoveva il lavoro di molti dei migliori disegnatori di tessuti dell’epoca. I prodotti di questa ditta si distinguevano non solo per l’inventiva dei modelli, ma anche per “la novità, l’audacia e il ricco equilibrio tonale degli schemi di colore”.25 Ciò valeva anche per la gamma più ristretta di sete, linee e cotoni decorati con il procedimento serigrafico dalla MITA di Nervi.26 Accanto a questi nomi, veniva sottolineata l’affermazione internazionale delle sete e dei cotoni delle linee disegnate da Fede Cheti di Milano, “notevoli per la loro audacia individuale e il loro senso dello stile”.27 Per l’abile adattamento di motivi vittoriani sui paraventi stampati, era pure ricordato il milanese Piero Fornasetti, anch’egli, come Cheti, molto vicino a Gio Ponti.28 I Tessuti d’Arte italiani e la loro consacrazione alle Triennali degli anni ’50 All’interesse del mercato americano nel dopoguerra, corrispose un periodo di splendore per la produzione tessile italiana e in particolare quella lombarda e per i tessuti operati e stampati. Le tecniche di stampaggio su grande scala aprivano le porte a un mercato molto più ampio (quello internazionale): l’accresciuta domanda incentivava non solo l’aumento qualitativo della produzione, ma anche la varietà di motivi decorativi. Di conseguenza, nei primi anni ’50, si è potuta consolidare una virtuosa e proficua collaborazione tra il mondo produttivo e quello artistico. La decorazione dei tessuti ha attinto a piene mani dalla pittura e dall’architettura contemporanee: dalla prima ha tratto nuovi spunti di forma e di colore, mentre dalla seconda proveniva il ritmo che accompagnava l’andamento del disegno.29 Era questa la nascita dei Tessuti d’Arte, settore che ha goduto di grande fortuna anche grazie all’opera di promozione e di rinnovamento portato avanti dalla Triennale e specialmente da Gio Ponti e dai suoi collaboratori. La ditta Fede Cheti è stata tra le prime a imporsi con una produzione originale in tale direzione (fig. 1).30 In essa, si rifletteva il tentativo di impostare il problema di una “decorazione italiana”. Ciò era reso possibile dal fatto che i disegni per tessuti erano commissionati direttamente agli artisti. Questi ultimi venivano 25 26 27 28 29 30 Rogers 1950b, p. 44. Si vedano ad esempio i saggi di Barisone e Fochessati in Made in Italy 2018. Rogers 1950b. Ivi, p. 44. Ugolotti 1956. Pansera 1990. Arte, design e industria: Fede Cheti e il riconoscimento internazionale 163 1. Affiche pubblicitaria Fede Cheti, in cui sono presentati alcuni dei temi più rappresentativi della produzione e un ritratto della stessa Cheti, 1955 c. in questo modo posti di fronte a problemi di varia natura, quali la dimensione, la riproduzione, l’effetto d’insieme e la lavorazione di diversi materiali. Questi esperimenti andavano strutturandosi attraverso concorsi annuali che venivano indetti da enti quali la Triennale di Milano e il Centro Internazionale delle Arti e del Costume di Palazzo Grassi. Tra gli artisti coinvolti figuravano Renato Birolli, Roberto Crippa, Gianni Dova, Lucio Fontana, Bruno Munari, Enrico Prampolini, Manlio Rho, Adriano Spilimbergo, Giuseppe Capogrossi, Bice Lazzari ed Ettore Sottsass jr. Vicini alle correnti d’avanguardia della pittura “non figurativa”, molte delle loro creazioni nel campo del tessile presentavano decorazioni astratte caratterizzate da un forte “sentimento spaziale”.31 31 Ugolotti 1956. 164 Chiara Lecce Le Triennali dell’“unità delle arti” e la presenza di Fede Cheti Per quasi tutti gli anni ’50, tra le principali aspirazioni di Ponti vi fu la collaborazione tra designer, artisti e produttori (artigiani o industriali) all’interno di varie iniziative. Proprio il rapporto tra il mondo dell’arte e quello della produzione industriale per una “unità delle arti” venne posto al centro della IX Triennale del 1951. Nell’ambito di questa manifestazione, infatti, una selezione di Tessuti d’Arte venne presentata per la prima volta accanto ai nuovi prodotti dell’industrial design italiani. Tra le ditte espositrici molte erano già presenti ad Italy at Work. Insieme ai nomi di professionisti emergenti figuravano quelli del Linificio Nazionale, della MITA di Mario Alberto Ponis di Genova Nervi, di Gegia Bronzini, Bice Lazzari e Irene Kowaliska. Accanto ad essi, aveva trovato spazio anche la manifattura Jsa di Luigi Grampa di Busto Arsizio che era stata capace di coinvolgere importanti artisti, quali Lucio Fontana, Gianni Dova, Bruno Munari, Enrico Prampolini.32 In maniera analoga aveva operato Fede Cheti, anch’essa presente in mostra a Milano.33 La società aveva infatti precocemente adottato un sistema che si sarebbe rivelato strategico: i disegni per tessuti venivano commissionati o acquistati con la clausola che la firma dell’autore non sarebbe comparsa nella produzione e che la ditta sarebbe diventata la proprietaria del motivo (con diritto di modifiche in fase di stampa). Per queste ragioni, sui tessuti era impresso esclusivamente il marchio Fede Cheti.34 Nonostante la difficoltà di associare un motivo al suo ideatore, sono note le collaborazioni della ditta con i maggiori artisti italiani e internazionali dell’epoca, quali Giorgio de Chirico, Fausto Melotti, Massimo Campigli, Renato Guttuso, Filippo de Pisis, Raoul Dufy, Raymond Peynet e Mario Sironi.35 Queste collaborazioni contribuirono a dar vita a diverse sperimentazioni, considerate per l’epoca eccellenti punti di arrivo nella tecnica di stampa su tessuto. Tra i temi ricorrenti dei tessuti sono grandi mazzi floreali, motivi figurativi ispirati al post-impressionismo e alle stampe orientali, fino all’astrattismo dell’arte contemporanea, applicati con motivi continui o piazzati a grande rapporto, spesso definiti come una “pittura su stoffa”36 per la ricchezza delle sfumature e la fluida continuità tra i “rapporti”. Le grandi stoffe stampate di Fede Cheti hanno così contribuito a segnare un cambiamento del gusto in un momento in cui, anche in Italia, si sviluppava una forte tendenza alla decorazione degli interni. La fortuna di questo tipo di produzione è attestata anche dal fatto che ben due mostre personali sono state dedicate a Cheti in occasione delle Triennali del 1954 e del 1957. Nona Triennale di Milano 1951. Frattaroli 1991, p. 52. 34 La sola eccezione a questo sistema fu quella di René Gruau che fu l’unico a chiedere l’uso esclusivo della firma. Per un approfondimento su questi temi, cfr. Lecce 2013. 35 Magnesi 1987; Frattaroli 1991; Lecce 2013. 36 La presenza di Fede Cheti alla X Triennale 1954, p. 3. 32 33 Arte, design e industria: Fede Cheti e il riconoscimento internazionale 165 1950-1975: Riconoscimenti e panorama internazionale Le capacità artistiche e imprenditoriali portarono rapidamente la ditta alla notorietà all’estero. Le relazioni internazionali che Cheti aveva tessuto – ben oltre le precoci esposizioni di Parigi (1937), New York (1938) e Berlino (1939)37 – erano testimoni della sua capacità di muoversi in un contesto cosmopolita professionale e mondano di altissimo livello, come ben dimostra lo scatto in cui è immortalata accanto a Peggy Guggenheim all’inaugurazione della personale di Buffie Johnson alla Galleria del Cavallino di Venezia (1948).38 La sua reputazione a livello internazionale è consacrata dalla rivista “Interiors” che in occasione della mostra The Decorative Arts Today (1949) al Newark Museum, celebra Cheti, insieme a Gegia Bronzini, alle finlandesi Dora Jung e Laila Karttunen e alle tessitrici americane Anni Albers, Anne e Grete Franke, Gilbert Blackman Rose, Marianne Strengell e Edna Vogel.39 L’anno successivo anche la Biennale di Venezia avrebbe premiato i suoi tessuti artistici con la medaglia d’oro nel settore arti decorative. A metà degli anni ’50 i punti vendita Fede Cheti erano ormai diffusi nelle maggiori città italiane e all’estero, in particolare a Zurigo e a New York dove i suoi tessuti erano presenti nel negozio Waldron Associates (dal 1948). Nel 1956, il negozio Falba Fabrics (515 Madison Avenue) le dedicò anche una mostra personale.40 Nel settembre 1961 un corner Fede Cheti venne aperto all’interno dello showroom di Denning & Fourcade di New York e in seguito le furono affidati gli arredamenti delle residenze di alcune importanti personalità americane (incluse diverse abitazioni nella zona di Central Park), oltre a quella del cosiddetto “appartamento dei papiri” nella torre del Waldorf Astoria, che “Harper’s Bazaar” definì “in assoluto un capolavoro”.41 Nel 1966, ancora nel cuore di Manhattan, all’interno del negozio J.H. Thorpe & Co. Inc. (tra i più prestigiosi nel settore degli interni all’epoca), Fede Cheti ha ottenuto un ulteriore importante riconoscimento: le è stata infatti dedicata una intera mostra personale nel salone d’onore.42 Ancora in ambito anglosassone, nel febbraio 1960 è stata l’unica donna e l’unica italiana ad essere inclusa all’interno della grande mostra allestita in occasione del centenario dei grandi magazzini Sanderson di Londra, la più importante casa inglese per tessuti d’arredamento. Accanto ai principali produttori e artisti legati Antonelli 1988. PGCVe. 39 Exhibitions 1949. Su Gegia Bronzini si veda il contributo di Bassanelli in questo stesso volume. 40 Lecce 2013. 41 Antonelli 1988; Lecce 2013. 42 Alfonsi 1975. 37 38 166 Chiara Lecce al mondo dei tessuti, le stoffe di Cheti erano collocate accanto a quelle disegnate da Frank Lloyd Wright: Nel campo puramente artistico, come nel campo dell’arte applicata, la conquista di una fama internazionale rappresenta veramente la meta più alta e non sono molti a raggiungerla: pochi gli uomini e pochissime le donne. Fra queste, Fede Cheti ha ormai da gran tempo raggiunto il traguardo, ma fondamentalmente inquieta e vibrante, ella mostra di non contentarsi di ciò che ha già dato e continua a studiare, a realizzare, a proporre sempre qualche cosa di nuovo in uno sforzo creativo che non conosce soste.43 Il tributo in patria è stato successivo. Nel 1965, insieme a Lucio Fontana, le è stata conferita la medaglia d’oro del “Premio Città Milano”, come miglior artefice italiana distintasi nel campo delle arti decorative.44 Infine, nel 1970, è stata la prima donna in Italia a essere eletta Socia d’Onore della UISTA (Unione Italiana Stampa Tessile e Abbigliamento).45 Gli anni ’70 hanno continuato a vederla protagonista, in un contesto però fortemente mutato dalla crescente concorrenza nel settore tessile. Provata dalla malattia, Fede Cheti maturò la decisione di ritirarsi nella natia Liguria, dove morì il 18 novembre 1979. La “personale” di Fede Cheti a Londra 1960. Lucio Fontana e Fede Cheti 1965. Su Fontana si veda il contributo di Bedarida in questo volume. 45 Folco 1997. 43 44 Il ruolo femminile del tessile italiano nella mostra Italy at Work. Gegia Bronzini nel contesto italiano e internazionale Michela Bassanelli Politecnico di Milano G egia Bronzini, insieme alle figlie Marisa e Michela, rappresenta una figura fondamentale all’interno del panorama imprenditoriale e artigiano del tessile femminile operante tra gli anni ’30 e gli anni ’70 del XX secolo, che ha contributo alla sperimentazione tra le arti e che rispecchia una cultura del saper fare, di grande manualità, sapienza e passione. La ricerca prova a ricostruire le principali vicende che hanno portato i tessuti Bronzini ad un avere un ruolo di spicco nell’affermazione del design italiano fino alla sua diffusione in ambito internazionale e, in particolare, in America. Le fonti riguardano materiali frammentari: esiste un solo volume che raccoglie la storia del marchio e dell’impresa, esito della mostra Omaggio a Gegia e Marisa Bronzini,1 un altro numero corposo di fonti riguarda le pubblicazioni su riviste, in particolare “Domus”2 e cataloghi di mostre collettive.3 L’archivio raccoglie materiali di varia natura (pubblicazioni su periodici, quotidiani, cataloghi collettivi e monografici, carteggi, e documenti di partecipazioni a mostre). Da una ricerca approfondita sono emerse alcune lacune in particolare riguardanti i rapporti con l’estero e gli scambi con gli Stati Uniti che sono stati oggetto di interrogazione diretta.4 1 La mostra si tenne presso la Galleria del Design, Cantù, 26 ottobre 2003-26 gennaio 2004, a cura di Roberto Rizzi. Catalogo della mostra: Rizzi 2003. 2 Cfr. Rosselli 1936; Stoffe italiane 1950, p. 72; Arredamenti per gli alloggi tipo alla Triennale 1954, p. 43; Ponti 1955, p. 55; Rassegna Domus 1955a, pp. 24-25; Rassegna Domus 1955b, pp. 42-43; Una esposizione italiana in Australia 1955, p. 50; Un nuovo negozio di arredamento a Vicenza 1957, s.p. 3 L’archivio dei documenti Bronzini si trova presso l’azienda Tessile Officina a Bregnano, Como. 4 Sono state contattate le seguenti istituzioni: The Newark Museum of Art di Newark (NJ); The Brooklyn Museum Libraries and Archives di Brooklyn, New York; The Rhode Island School of Design Archives di Providence; The Art Institute of Chicago Archives. 168 Michela Bassanelli Gegia Bronzini (1894-1976) di origine milanese si sposta in Veneto agli inizi degli anni ’30 per seguire il marito agronomo. Da subito è affiancata dalle due figlie, Michela e Marisa: quest’ultima dopo la scomparsa della madre porterà avanti l’attività a Carimate fino al 2007. L’arte della tessitura viene appresa in forma autonoma osservando il lavoro di alcune contadine locali: “Così proprio dalla stessa contadina imparai il mestiere della tessitrice. Ma non mi limitai a quello: cominciai a creare accostando i colori dai tessuti pesanti per tappezzeria a questi leggerissimi per tendaggi”.5 La passione si tramuta dapprima nella volontà d’insegnamento per promuovere e sostenere il lavoro femminile per poi trasformarsi in vera e propria attività imprenditoriale. Nascono i primi laboratori a Morocco di Mestre (1932-1938) poi Carpenedo (1938-1939) e infine a Cantù (1946). Antiqua Ars Nova è il primo negozio che viene aperto in Piazza San Marco a Venezia nel 1937 e che riporta la dicitura “massaie rurali-Venezia” per indicare il supporto e il contesto di tale attività sviluppata all’interno di “una delle strutture che il regime fascista aveva creato come strumento di controllo sociale, attiva nell’assistenzialismo alla donna attraverso l’istruzione professionale e la successiva occupazione”.6 Le ricerche iniziali sui tessuti sono legate a materiali naturali e al luogo: si prediligono prodotti autarchici come la ginestra, la canapa, l’ortica e cartocci di granoturco. Dai primi tessuti dove si ritrova un richiamo alla figurazione del mondo naturale, la scomposizione delle forme consente di arrivare all’astrazione geometrica in linea con la produzione delle ricerche condotte nel laboratorio tessile del Bauhaus che all’inizio degli anni ’30 era diretto da Anni Albers. I tessuti sono prodotti utilizzando il telaio a mano a due licci con il quale si realizza la tela ovvero la struttura primaria, decorata attraverso la tecnica dello spolinato primitivo. Un ruolo significativo spetta alle figlie che rapidamente apprendono quest’arte e la coltivano in modo personale: Marisa Bronzini non solo porterà avanti l’attività della madre ma affermerà la sua figura in campo artistico con la realizzazione di opere tessili, mentre Michela si impegnerà nel campo dell’abbigliamento a partire da alcune scelte che seguono dapprima “una reinterpretazione dei costumi tradizionali” per avvicinarsi a una linea dove questi elementi si accostano a temi astratti. Il contesto italiano Lo spostamento del laboratorio da Carpenedo a Cantù e infine a Carimate e l’apertura dei negozi a Milano nella Galleria del Toro (1939) e Cortina (1950 circa) segnano un momento significativo nell’attività perché consentono il con5 6 Porta Musa 1964, p. 59. Rizzi 2003, p. 16. Il ruolo femminile del tessile italiano nella mostra Italy at Work 169 solidamento di alcune collaborazioni con architetti e designer operanti nel campo del mobile e degli interni. Sono del 1939 le prime corrispondenze con Gio Ponti che decide di pubblicare alcuni tessuti esposti in mostra come nel caso della IX Mostra-Mercato Nazionale dell’artigianato di Firenze o nelle rubriche che “Domus” dedica alla ricerca e innovazione di questo materiale. Nella lettera di risposta Gegia Bronzini definisce l’attività come “industria artigiana […] che si riferisce particolarmente all’abbigliamento femminile e all’addobbo della casa”,7 sottolineando segnali positivi e difficoltà e invitando Gio Ponti a una visita presso il loro laboratorio. Visita che come si evince da un successivo carteggio del 31 dicembre del 1976 non è mai avvenuta: “Chissà forse un giorno verrò a farle visita”.8 I rapporti tra i due sono evidenti e ben espressi dallo spazio riservato sulle pagine della rivista “Domus” che comprendono servizi dove il tessuto fa da complemento come nel caso di tavole addobbate o viene promosso attraverso pubblicità. La rivista raccoglie un aggiornamento costante dei tessili nuovi con una rubrica dedicata. Quando Ponti nel 1941 diviene direttore della rivista “Stile”, riserva un intero numero alle stoffe, con un approfondimento sul loro utilizzo nell’arredamento d’interni e sulle nuove fibre autarchiche. L’articolo introduttivo intitolato Perché questa pagina sulle stoffe? stila un elenco di dodici punti in cui Ponti spiega le motivazioni che lo hanno spinto ad approfondire questo tema, partendo dalla voglia di comfort fino alla necessità di promuovere i nuovi grandi protagonisti dell’arredamento, il raion, il fiocco e la canapa, fibre che erano anche utilizzate nella moda: “perché le case le vogliamo oggi luminose ed abitate da liete fantasie, e le stoffe, le fresche stoffe, di queste fibre italiane sono l’espressione più viva e gaia. Perché il gusto d’oggi estende il felice impiego delle stoffe oltre che nelle pareti, nei tendaggi, nei sedili e schienali, anche nel rivestire mobili”.9 Ponti sottolinea inoltre la volontà di liberare la casa da colori scuri per portare luminosità, colore e freschezza. Il tessuto rientra a pieno titolo all’interno dei materiali che partecipano alla progettazione dello spazio interno tanto quanto marmi, maioliche, linoleum. La mostra Stoffe allestita da Lina Bo Bardi alla Triennale di Milano nel 1946 inaugura un altro rapporto che accompagnerà Gegia Bronzini negli anni successivi, ovvero quello con Fede Cheti, nota per i tappeti e la realizzazione di tessuti stampati con grandi motivi floreali:10 “una parete di questo allestimento è dedicata a Fede Cheti che espone stoffe per mobili e per tendaggi in cotone in velluto 7 Carteggio con Gio Ponti, 24 giugno 1939, 30 giugno 1939, 7 luglio 1939, codice DOC01, AGB. Lettera in risposta a un biglietto di auguri del 31 dicembre del 1976, codice DOC01, AGB. Ponti 1941, p. 1. 10 Fede Cheti conoscerà una diffusione maggiore della sua attività sia in ambito nazionale sia internazionale grazie alla partecipazione di numerosi architetti e designer chiamati a progettare i disegni delle sue stoffe. Si veda a tal proposito Lecce 2013, pp. 40-58, oltre al saggio della medesima autrice nel presente volume. 8 9 170 Michela Bassanelli in canape in rafia […]. Un’altra parete è costituita da stoffe di Gegia Bronzini, che con mezzi assai semplici ottiene tuttavia stoffe di bell’effetto”.11 Nella sezione “Tessuti” della IX Triennale di Milano (1951), allestita dall’architetto Mario Tedeschi, sono esposte alcune stoffe Bronzini dove emerge il carattere astratto dei decori dei tessuti, attraverso l’utilizzo di forme geometriche semplici. Degno di nota è il progetto allestitivo che espone le stoffe facendole calare dal soffitto, coinvolgendo il visitatore in un percorso visivo e tattile. Nel 1952 partecipa alla mostra Saggio della qualità italiana curata da Bruno Munari insieme a Gio Ponti – che seleziona personalmente gli oggetti – nella cornice di un convegno internazionale organizzato da La Rinascente con l’obiettivo di mostrare la qualità e il valore del lavoro italiano a ospiti stranieri: Fino ad ora molti produttori innamorati si contano fra i tessili (e qui a rappresentare l’Italia c’erano da Lisio a Fede Cheti, da Ferrari alla Bronzini, a Ravasi, ed altri appassionati) mentre altre grandi industrie presenti sono ancora tutte da convertire perché solo una parte della loro produzione è moderna, e con scarsa convinzione loro.12 Gli espositori corrispondono per la maggior parte a quelli della mostra Italy at Work e lo stesso Ponti si esprime con fermezza di fronte al tema dell’esportazione di qualità: “Ora il lavoro italiano è di moda all’estero, specie in America: ma a vedere certa robaccia che pure lo rappresenta purtroppo c’è da chiedersi: durerà questo amore degli altri per le cose italiane, o crollerà d’un colpo, per disgusto generale?”.13 Sono anni di particolare successo e premi per Bronzini: nel 1954 riceve il Diploma d’onore alla X Triennale di Milano (1954) con il tessuto denominato Triennale e nel 1956 riceve il diploma/segnalazione Compasso d’Oro per l’estetica del prodotto con il pannello in seta Le fiamme, che sarà esposto nella mostra allestita al Circolo della Stampa Palazzo Serbelloni (fig. 1). Gegia Bronzini collabora anche alla realizzazione di alcuni complementi per la mostra Colori e forme nella casa d’oggi (Como, 1957), in particolare progetta una coperta per la camera da letto dello studio GPA Monti e i tessili della Stanza dei bambini di Alberio, Cappelletti, Longhi, Parisi, Radice, Rho, Somaini (fig. 2). I tessuti seguono sempre i motivi originari dal punto di vista artistico: geometrie astratte ottenute con campiture di colore e decori inseriti tramite utilizzando spole di diversi colori. Nascono collaborazioni con numerosi architetti che Bronzini affianca nel progetto d’interni per la definizione dei tessuti come Carlo Lucci, Ico e Luisa Parisi e Osvaldo Borsani. Con quest’ultimo progetterà il rivestimento del divano P70 (1954, Produzione Tecno), un tessuto a righe diagonali di diversi colori in seta, 11 12 13 Al Palazzo dell’Arte. Stoffe 1946, pp. 14-15. Ponti 1952, p. 45. Ivi, p. 46. Il ruolo femminile del tessile italiano nella mostra Italy at Work 171 1. Mostra allestita al Circolo della Stampa a Palazzo Serbelloni, Milano (1956). In questa occasione venne esposto il pannello in seta Le fiamme di Gegia Bronzini viscosa e cotone, realizzato con la tecnica dello spolinato primitivo. Per la Saporiti Italia studia diversi tessuti in esclusiva, fra cui Sapo 82, caratterizzato da un disegno rigato dove un nastrino multicolore si alterna a parti in ciniglia e parti in cotone. Tra le commissioni più originali spicca la richiesta da parte della carroz- 2. Tessili Gegia Bronzini realizzati per l’allestimento della camera da letto di Alberio, Cappelletti, Longhi, Parisi, Radice, Rho e Somaini, nella mostra Colori e forme nella casa d’oggi, Como (1957) 172 Michela Bassanelli zeria Zagato per il rivestimento dei sedili e dei tappetini per le automobili Flavia Sport, Flaminia e Osca.14 Il contesto internazionale Se a livello nazionale l’affermazione dei tessuti Bronzini appare indiscussa e facilmente riconoscibile, non è lo stesso per la sfera internazionale, la cui diffusione maggiore riguarda gli Stati Uniti. L’archivio presenta lacune nei documenti e nei carteggi che non hanno consentito una completa ed esatta ricostruzione. La mostra Italy at Work ha rappresentato un punto di partenza nella ricerca dei rapporti di Bronzini con l’estero, tutt’ora in corso di definizione. Grazie alla individuazione della mostra Decorative Arts Today presso il Newark Museum (4 novembre 1948-3 gennaio1949, New Jersey),15 segnalata sulla rivista “Interiors” nel gennaio del 1949 è stato possibile rintracciare la presenza di Gegia Bronzini e di Fede Cheti in esposizioni americane ancor prima della mostra Italy at Work. Dalla documentazione archivistica, si apprende dell’acquisizione di un “copriletto in seta grezza tessuta a mano” caratterizzato da quadrati in vari colori del valore di 100 dollari da parte di Waldron Associates,16 una galleria-negozio di New York, che fornisce al museo anche tre metri di tessuto per imbottito in canapa bianca di Fede Cheti del valore di 7,5 dollari al metro. La mostra aveva l’obiettivo di presentare i nuovi prodotti nei campi del tessuto, della ceramica, del vetro, del legno e del metallo, esponendo oggetti provenienti da tutto il mondo. Nell’ambito tessile, l’Italia è rappresentata solo da Gegia Bronzini e Fede Cheti. Questa mostra conferma la presenza dei tessuti Bronzini in America già prima del 1950, anno in cui viene inaugurata la mostra Italy at Work al Brooklyn Museum di New York, per poi viaggiare in altre undici istituzioni nei tre anni successivi, cercando di promuovere il carattere della produzione italiana legata al saper fare e a quel magico rapporto che lega architetti e maestranze in cui gli oggetti non sono altro che l’esito di questa unione. Tra le sezioni,17 uno spazio rilevante è dedicato al tessile che, insieme alla ceramica e al vetro, rappresenta uno dei territori emblematici di quella “sintesi delle arti” tanto auspicata in quegli anni e che trova la sua piena espressione nella IX Triennale di Milano (1951): “With the exception of ceramics, this is the largest section in the exhibition and also one of the most Per un approfondimento sulle collaborazioni si veda Rizzi 2003. L’archivio del museo conserva foto della mostra, comunicati stampa, oltre ad articoli di quotidiani. 16 Waldron Associates (218 East 57th Street New York 22), galleria/negozio che rappresentava i seguenti designer in mostra: Bronzini, Cheti, Dornbush, Egan, Gould, Versen, von Nessen. 17 Tra le aziende-figure rappresentate: Arte Artigianato Tessile (Roma), Antonia Battini (Roma), Emilia Bellini (Firenze), Gegia Bronzini (Venezia), Fede Cheti (Milano), Quirica Dettori (Sardegna), Irene Kowaliska (Positano), Linificio & Canapificio Nazionale (Milano) e MITA (Genova). 14 15 Il ruolo femminile del tessile italiano nella mostra Italy at Work 173 difficult to summarize”.18 Di Gegia Bronzini si ha conoscenza della partecipazione grazie al catalogo della mostra che la include tra gli espositori, sebbene con un errore nel nome e grazie al numero 252 della rivista “Domus” dedicato alla presentazione dell’iniziativa e delle opere esposte con alcuni ampliamenti: “Con questa estensione crediamo di recare un contributo suppletivo d’informazione, alla generosa iniziativa dei Musei americani […]”.19 Tra i tessuti: spolinato di lana canapa e seta; canapa grezza verde; rigato in canapa e seta; scozzese in canapa a colori con righe in seta, tutti filati e tessuti a mano. Come si evince dalle stesse parole di Gio Ponti tutti i pezzi sono stati acquisiti prima della mostra stessa, ma purtroppo l’archivio Bronzini non detiene copia di questa vendita.20 Nell’elenco dei tessuti esposti all’Art Institute di Chicago (1951)21 sono indicate due stole in seta blu tessute a righe orizzontali di vari colori. Notizie della diffusione dei tessuti Bronzini sono confermate dalla pubblicazione su alcune riviste e periodici: il 28 ottobre 1962 il “Los Angeles Times” dedica il numero agli “Italian Designs” concentrandosi su legno, vetro e tessuto.22 A Bronzini vengono dedicate due pagine con grandi immagini che evidenziano le caratteristiche dei suoi lavori come scelta dei materiali e tecniche di tessitura. L’anno seguente la rivista “Interior International Textiles” edita ad Amsterdam dedica anch’essa un numero alle riflessioni sul design italiano dove Bronzini compare accanto ad altre realtà come la Jsa, Rubelli, Isola e Myricae. Dai materiali presenti nell’archivio privato Bronzini è rinvenuto un biglietto da visita che testimonia la vendita dei tessuti Bronzini presso Handwoven Studio (New York) di Barbara Anne Grib, non più attivo. Per quanto concerne la progettazione di elementi tessili si ha testimonianza solo del lavoro eseguito all’interno del ristorante Sette del Museum of Modern Art (1993) dello studio Cicognani Kalla23 che ha previsto una divisione permeabile in tessuto attraverso tende in rame e cotone24: “una lunga tenda in tessuto di rame a sviluppo curvilineo, illuminata zenitalmente con sorprendente effetto luministico, separa la parte dedicata ai tavoli da pranzo”.25 La breve analisi mostra il ruolo di spicco che Gegia Bronzini ha avuto all’interno del contesto culturale novecentista del progetto, dove accanto ai grandi nomi dell’architettura hanno gravitato tutta una serie di artigiani e artisti che Rogers 1950b. Ponti 1950b, p. 25. 20 La ricerca attualmente sta proseguendo attraverso l’interlocuzione con alcuni musei che hanno ospitato la mostra. 21 L’elenco consultato è conservato in RISD. 22 Home. Italian Designs 1962, p. 16. 23 Cicognani Kalla Architect 6 East 46th Street, 6th Floor New York, NY 10017. 24 Una permanente di cucina italiana 1993, p. 5. Riferimento a tendone metallico per il MoMA di New York (accluso nella cartella-biglietto di congratulazioni di R. Rodriquez). 25 Rizzi 2003, p. 46. 18 19 174 Michela Bassanelli hanno consentito quella “sintesi delle arti” espressa da Gillo Dorfles sulle pagine di “Domus” e perseguita dai principali esponenti: La sintesi, in altre parole deve effettuarsi attraverso una reciproca osmosi delle tre arti; attraverso un’identità di gusto e di stile; (e s’intende anche attraverso la immissione di quadri e di statue negli ambienti moderni) ma non è detto che ognuna delle tre arti visuali debba rinunciare alla sua gelosa individualità per compiacere l’architettura. Sarà l’architettura, semmai, che potrà “plastificarsi” e colorarsi; ma ciò non significherà assistere ad una ‘sintesi’ tra le arti, ma solo ad un rivivere di valori squisitamente architettonici che erano stati parzialmente e temporaneamente messi in disparte.26 Non è un caso che figure come quelle di Gegia Bronzini e della figlia Marisa si siano affermate in lavori che dall’ambito domestico e dalla quotidianità traggono le loro fondamenta: “Certo, è comunque da sottolineare come la ceramica rappresenti, dopo il tessile, il settore delle arti applicate più praticato dalle donne. Il perché è semplice da spiegare: sono i materiali con i quali sono realizzati i più consueti prodotti dell’universo domestico, oltre alla relativa facilità di dedicarvisi in modo autonomo”.27 Dall’ambito più intimo e privato della casa hanno saputo aprirsi verso diversi contesti sia nazionali sia internazionali, creando un’attività, intrecciando molteplici relazioni e affermando uno stile riconoscibile e moderno. 26 27 Dorfles 1957, p. 33. Pansera 2006b, p. 95. “Almost impossible to reproduce”: alla scoperta di Luciana Aloisi De Reutern, designer di bijoux Silvia Vacirca Sapienza Università di Roma N ella prefazione del catalogo della mostra Italy at Work che aveva portato una selezione di prodotti dell’artigianato e del design italiani in America dopo la Seconda guerra mondiale, il noto designer industriale e membro della giuria Walter Dorwin Teague scriveva che l’epoca di Mussolini era stata per l’Italia il punto più basso di secoli di splendore artistico.1 Gli oggetti esposti, proseguiva Teague, dovevano essere interpretati come primizie del suolo culturale profondo e vigoroso in cui le arti italiane erano radicate, dopo il lungo e grigio interregno fascista. Nel contesto della politica dell’immediato dopoguerra, la prefazione e l’allestimento della mostra andavano a decontestualizzare i manufatti italiani, attraverso un processo di deterritorializzazione e ri-territorializzazione, affinché una nuova percezione di essi – puramente estetica – potesse sbocciare nel cuore del pubblico: Here you see those works in dignified detachment, and because of their quality it is easy to think of them as the fruits of a mature and well established movement. But they are not that: they are the vigorous flowering of an early spring, an upsurge of the Italian vitality that seems to have stored itself up during the long, grey Fascist interim, waiting for this day of sun again.2 Nel tempo ciclico del mito, il fascismo diventava il lungo inverno spazzato via dal soffio della primavera della rinascita del popolo italiano.3 Paradossalmente, questa concezione che collegava la rinascita italiana del dopoguerra al tempo della primavera e, in particolare, al Rinascimento –, per cui l’espressione “the Teague 1950b, p. 11. Ibidem. 3 Su questi temi, in relazione alla copertina del catalogo della mostra, si veda il saggio di Marino in questo volume. 1 2 176 Silvia Vacirca Renaissance effect” fu coniata4 – avrebbe determinato, tra le altre cose, l’oblio dell’opera dell’artista disegnatrice di gioielli fantasia Luciana Aloisi De Reutern, ospite illustre della mostra, impedendo di cogliere il contesto culturale in cui le sue creazioni avevano visto la luce e, cosa più importante, la loro peculiarità.5 Teague introduceva la baronessa De Reutern all’interno del suo atelier romano in questo modo: “And the tiny, six-foot-square shop in Rome where our committee had to enter in relays – it wouldn’t hold us all at once – to see the fanciful costume jewelry that Luciana made of wire and cork and shells and what not”.6 Nulla era dato sapere della biografia personale e, a causa del tono della prefazione, non era possibile intuirne la posizione sociale. Nella sezione del catalogo dedicata alla bigiotteria e agli accessori,7 veniva completato il profilo della designer quale professionista in possesso di una innata comprensione dei valori del colore e della texture. Questo talento “naturale” non avrebbe avuto tanto a che fare con la formazione e la coltivazione del gusto quanto, secondo uno stereotipo diffuso d’italianità, con un apprezzamento istintivo e sensuale di questi fattori. L’auspicio è che questo breve viaggio alla riscoperta dell’artista Luciana Aloisi De Reutern possa servire a gettare un po’ di luce sul suo lavoro e stimolarne lo studio, per restituirne la figura alla storia e in particolare alla storia della moda di Roma nel dopoguerra.8 Una storia che, come ha sottolineato la storica Eugenia Paulicelli, ha svolto un ruolo fondamentale nel ridisegnare l’identità di una città anche grazie alla collaborazione degli atelier, del cinema e della fotografia.9 Gli esordi e gli anni della guerra: “Importanza dei particolari” Nata a Roma nel 1906, Luciana Aloisi iniziò la propria attività quale designer di bijoux disegnando monili per il mondo aristocratico che aveva avuto occasione di frequentare anche grazie alle relazioni dello zio Pompeo Aloisi (1875-1949).10 Dopo aver studiato a Londra e poi arte a Firenze, sposò il barone russo Max De Reutern, direttore di Coco Chanel e Jeanne Paquin. Proprio negli atelier di Parigi il barone avrebbe conosciuto la futura moglie. Dal 1927 la coppia visse tra Parigi e Roma.11 Belfanti 2015, p. 53. Gentile 2008. 6 Teague 1950b, p. 11. 7 Rogers 1950b, pp. 41-42. 8 Gentile 2007. 9 Tale collaborazione è, ad esempio, visibile tanto nella produzione hollywoodiana popolare del peplum quanto negli scatti del fotografo di moda Pasquale De Antonis. Su questi temi, si veda Paulicelli 2010. 10 Ambasciatore in Romania, Giappone e Turchia dal 1932 al 1936, Aloisi fu anche capo di gabinetto al Ministero degli Esteri e rappresentante dell’Italia alle Nazioni Unite, nonché proprietario della cosiddetta Villa Rossa in viale Aldovrandi, affittata alla delegazione sovietica. 11 Il recapito di Roma era via Savoia 21. Cfr. Obolensky 2015. 4 5 “Almost impossible to reproduce”: alla scoperta di Luciana Aloisi De Reutern 177 Negli anni tra le due guerre Luciana Aloisi De Reutern fece parte del jet set internazionale che animò l’Europa. Non di rado in yacht con Coco Chanel, visse la vita elegante della mannequin de ville.12 Allo scoppio del conflitto, divenne corrispondente da Roma per la rivista dell’Ente nazionale della moda “Bellezza. Mensile dell’alta moda e della vita italiana”. Nella corrispondenza con Gio Ponti, il suo nome figura – insieme a quello dell’illustratore Federico Pallavicini – nel comitato di direzione del periodico con una retribuzione di 1.000 lire al mese.13 Il suo impegno nella redazione della rivista si tradusse in diverse attività che la videro impegnata come corrispondente, disegnatrice e artista attivamente dedita alla pittura. La creazione di gioielli fantasia rimase tuttavia la sua cifra caratteristica tanto negli anni della guerra quanto nel periodo successivo. A ispirarla erano i quadri antichi, le architetture e la natura ma soprattutto i motivi etruschi che, secondo l’artista, avevano la caratteristica di essere allegri: “L’arte più ottimista che conosco. E pensare che tutto viene dalle tombe”.14 A essi, affiancava la tradizione artistica romana di cui amava sottolineare la continuità con il presente: “Quando vivi a Roma, ti abitui a essere parte dei secoli. Qui i secoli sono letteralmente uno sopra l’altro, come scopre chiunque scavi un pozzo”.15 La moda italiana di guerra, secondo le direttive dell’Ente nazionale della moda, doveva essere improntata a un gusto semplice e severo che trovava espressione nei cosiddetti “particolari della moda” – e cioè gli accessori e i bijoux – che si facevano carico dell’espressione individuale e del cambiamento, altrimenti impossibile in tempo di guerra. L’opera di alta oreficeria non era considerata un bene volto all’ostentazione e al lusso, bensì un’arte con una sua gloriosa tradizione e la cui eccellenza era considerata un elemento di prestigio artistico della nazione, utile nella competizione con Parigi, capitale della moda. Le ristrettezze imposte dal conflitto fecero sì che a ogni gioiello che non fosse in metallo prezioso fosse dedicata particolare attenzione. Così si spiegano le lodi indirizzate ai bracciali incisi dallo scultore Mirko Basaldella e ai gioielli in rame e pietre dure colorate realizzati dalla principessa Marozia Borromeo. Ancora dalle pagine di “Bellezza” la giornalista Vera Lodomez sottolineava “l’importanza dei particolari”: Quei mille nonnulla necessari quando si voglia un’eleganza veramente compiuta e indispensabili in un periodo in cui le linee degli abiti femminili devono comporsi secondo uno stile fatto di semplicità ed equilibrio. Non è detto che la fantasia e il capriccio non debbano aver parte in una moda severa, ma devono essere dosati con la massima attenzione, come pennellate vivaci su fondo neutro che in virtù di essi acquisterà carattere.16 12 13 14 15 16 Moro 1995, p. 220. GPA, cit. Vacirca 2023, p. 181. Rome Designer Brings Jewelry to Shops Here 1963, p. 37. Ibidem. Rossi Lodomez 1942, p. 52. 178 Silvia Vacirca La difficoltà di approvvigionamento di materie prime e la limitazione – o la scomparsa – di alcuni materiali rendevano arduo anche il lavoro di creazione dei modellisti di “particolari”. La loro abilità permetteva tuttavia di superare ogni difficoltà pratica, pervenendo a risultati sorprendenti. Alcuni di questi aspetti erano elogiati su “Bellezza” nel 1942: le collezioni di accessori di Luciana erano descritte come ricche di piccole trovate di stile prettamente italiano, “lontane da ogni sdolcinatezza decadente, piene di sapore, nette e robuste come ogni cosa che esce da un cervello sano e da un gusto semplice.” In una didascalia, alcuni gioielli erano descritti in questo modo: “Collane pesanti d’oro, vezzi di turchesi, spille e fermagli vistosi un po’ barbarici, per gli abiti accollati e semplici”. Proprio sulle ristrettezze in cui era nata la moda italiana si soffermava nel dopoguerra la giornalista Irene Brin, che sottolineava contestualmente il ruolo svolto dalle donne per “trarre fuori dalle rovine d’Italia l’eleganza italiana”. Luciana era annoverata in questo nobile consesso in cui figuravano “donna Aurora dei principi Giovannelli e donna Stefanella [Barberini] dei principi Colonna di Sciarra; donna Simonetta Colonna dei duchi di Cesarò; donna Giovanna dei principi Caracciolo-Ginetti; la contessa Dessalles”.17 In questo modo, Brin ne descriveva il processo creativo: Per realizzarle Luciana studia enormi volumi di arte antica, per cavarne una sola buccola. Chi avrebbe ravvivato i tailleur tratti dalle giubbe del marito se non si fosse potuto appuntare sui rever un sole d’oro? Il mondo era grigio, il coprifuoco cominciava alle cinque, però dal lobo sinistro pendeva una lacrima verde, dal destro una lacrima rossa. I nostri cappotti sapevano, tutti, di falso latte, di falsa lana, di falsa sicurezza, ma la borchia che li chiudeva intorno al colletto (non di pelliccia, nessuno disponeva di pelliccia) era almeno lustra ed allegra.18 Secondo la giornalista, le invenzioni di Luciana dovevano il loro carattere più originale proprio al contesto problematico in cui erano state realizzate. Ella non mancava poi di sottolineare le specifiche difficoltà degli oggetti costruiti su misura dalle mani dell’artigiano, supponendo che se un ladro si fosse impadronito della serie Puntali di Luciana non avrebbe potuto rivenderla perché nessuno avrebbe saputo infilare al polso e al collo tali “labirinti di catenelle”. Considerava, infine, che la donna distratta che avesse voluto acquistare la serie delle Foglie ci si sarebbe sentita smarrita. E difatti il meccanismo delle chiusure, perfino la disposizione dei grovigli, presentavano “la riservatezza, la lieve difficoltà particolare degli oggetti costruiti su misura, dalle mani stesse dell’artigiano, estrema raffinatezza di un’epoca dominata dalla macchina e dalla costruzione in serie”.19 17 18 19 Brin 1945, p. 8. Ibidem. Ivi, p. 7. “Almost impossible to reproduce”: alla scoperta di Luciana Aloisi De Reutern 179 Il dopoguerra: nascita del marchio “Luciana” e la partecipazione a Italy at Work Il dopoguerra segnò la vera svolta nella produzione di Luciana. Analogamente ad altre donne dell’aristocrazia e dell’alta borghesia impegnate nell’attività imprenditoriale, poté contare sulla disponibilità di un elevato numero di lavoratori a basso costo.20 Il 10 marzo del 1945 venne depositato il marchio d’impresa “Luciana” (N. 68090) per “gioielleria, oreficeria, lavori ornamentali in metallo e altri materiali, perle e pietre preziose, naturali e artificiali, profumeria, cosmetici, dentifrici, saponi, pettini ed altri articoli da toeletta”.21 L’attività venne stabilita a Roma in Via Frattina e poi in Via della Vite 93. Da subito l’atelier si impose quale luogo di riferimento per il jet set mondano che apprezzava lo stile elegante della designer, caratterizzato da una originalità estranea alle tendenze internazionali. In quello stesso anno, qualche mese più tardi, i gioielli fantasia di Luciana sarebbero stati esposti, insieme a duecento disegni di Giorgio de Chirico, alla galleria Margherita di Roma diretta da Irene Brin e Gaspero del Corso.22 Come ha sottolineato la storica del gioiello Deanna Farneti, gli anni del dopoguerra furono davvero significativi per l’attività di Luciana.23 Ella fu infatti in grado di vendere “i suoi gioielli ai couturier parigini Dior e Cardin, così come ai migliori grandi magazzini: Harrods a Londra; Bergdorf Goodman e Bonwit Teller a New York”.24 Nel 1951 le sue opere dallo stile “senza tempo” accompagnarono gli abiti di Simonetta Visconti alle sfilate di Firenze.25 Il suo stile peculiare – “nessun altro lo faceva” – venne soprannominato “fiorentino” proprio perché mostrato per la prima volta nel contesto dell’alta moda a Firenze. “Ogni pezzo doveva essere striato o satiné a mano”.26 I suoi gioielli, dorati in oro 18 carati, pur essendo leggerissimi davano un’impressione di pesantezza: poiché le tecniche impiegate non erano quelle solitamente usate nel metallo, ella aveva dovuto istruire personalmente la maggior parte dei suoi artigiani, operazione che si era rivelata particolarmente complessa, vista la penuria di personale qualificato. 20 Ancora nel dopoguerra, la produzione a domicilio era un’attività molto diffusa nel settore della moda: “Donne coraggiose di ogni classe sopravvivono realizzando e vendendo abiti per bambini o oggetti per la casa. I lavori impiegatizi sono aperti a poche donne”. No Frontier News Service 1946, p. 4. Su questi stessi aspetti si sarebbe soffermato Rogers nel catalogo della mostra Italy at Work. 21 ACS, MR06314, 68090. 22 Pontiggia 2021, p. 361. 23 “L’insolito genio di Luciana […] ha portato alla sua fama ancora maggiore negli anni successivi [alla guerra]”. Farneti Cera 1997, p. 198. 24 Moro 1995, p. 221. 25 Per un approfondimento sulla connessione tra Italy at Work e le sfilate fiorentine organizzate dal 1951 da Giovanni Battista Giorgini si veda il saggio di Faggella nel presente volume. 26 Moro 1995, p. 221. 180 Silvia Vacirca La partecipazione alla mostra Italy at Work deve essere interpretata quale conferma della notorietà e del riconoscimento internazionale raggiunti da Luciana. Nel catalogo dell’esposizione, Meyric R. Rogers ne sottolineava l’originalità, avvisando il lettore che, nonostante le apparenze, i bijoux di filo, sughero, conchiglie di Luciana non erano l’esito di un movimento radicato nella cultura italiana. Egli risolveva la questione complessa e spinosa della continuità con il regime fascista e il passato più recente della guerra civile, appellandosi alle qualità innate del genio italiano, sensuale e pittorico.27 A suo avviso, il successo dei bijoux di Luciana doveva essere infatti collegato a una comprensione istintiva del colore e della texture, parte dell’“eredità naturale” del popolo italiano. Tale inclinazione poteva essere ravvisata tanto nei gioielli quanto nei tessuti esposti in mostra. Tra le eccellenze in quest’ultimo settore venivano citate le produzioni tessili di Myricae a Roma – che si distinguevano per la novità, l’audacia e il ricco equilibrio tonale delle loro combinazioni di colori – e di Maria Chiara Gallotti a Capri, in cui la sensibilità italiana per il colore e la tessitura raggiungeva il massimo livello.28 Tuttavia, le qualità messe in evidenza – la sensualità, il senso per il colore e la tessitura – appartenevano alla nebulosa semantica del femminile e del costume presuntamente “primitivo” dell’Oriente. Non è perciò un caso che tra i gioielli di Luciana esibiti a Italy at Work vi fosse una parure di metallo e pasta vitrea denominata “Indiana” e che essa venisse indossata dalla sua creatrice nel ritratto fotografico pubblicato nel catalogo della mostra. La posa riecheggiava quella di una misteriosa dama orientale. Il nome scelto, “Indiana”, dal punto di vista della cultura italiana poteva essere associato a nuovi e diversi significati29 che rimandavano al recente passato coloniale, alle spedizioni in Tibet di Giuseppe Tucci e alle mire di Mussolini sull’India.30 Rogers considerava Luciana leader nel suo campo ed evidenziava come in lei la facoltà “nativa” fosse affinata da un estro e un senso dello stile del tutto straordinari, che le permettevano di pervenire a una produzione artistica del tutto particolare, ottenuta anche grazie ai materiali impiegati, quali pietre in pasta di ogni tipo e colore, plastica, madreperla, corallo, conchiglie, persino legno, sughero e spago.31 La sensibilità estetica era una caratteristica oramai assodata della sua produzione, che già risaltava in un apologo da lei stessa scritto negli anni della guerra: Titti si fermava davanti all’armadio aperto, era un momento di esitazione riservato alla fantasia: abito a giacca marrone con cappello giallo e camicetta gialla o abito a giacca grigio con camicetta e borsa rossa? O la scelta sarebbe caduta sul mantello 27 28 29 30 31 Rogers 1950b, p. 15. Ivi, pp. 44-45. Griner 2017, p. 9. Garzilli 2014. Rogers 1950b, pp. 41-42. “Almost impossible to reproduce”: alla scoperta di Luciana Aloisi De Reutern 181 azzurro e su quel cappello piccolissimo a fiori e fiocchi di colori acidi che piaceva tanto all’amico pittore? Titti aveva l’arte di trasformare ogni volta un abito con i diversi accessori. Scegliamo un abito chiaro in una giornata di sole perché possiate attribuirci le foglie verdi che spuntano sugli alberi e il riflesso della luce sulle fontane delle piazze. Ma voi uomini di tutta quest’arte non vi accorgete.32 Tale tratto distintivo sarebbe rimasto nella produzione successiva. Ancora negli anni ’60 i bijoux di Luciana erano improntati a una nozione di stile – timeless si direbbe oggi –, piuttosto che di moda, secondo cui “un buon gioiello deve abbellire la donna e i suoi abiti. E può trasformare un abito vecchio di tre anni e tirar fuori la personalità di chi lo indossa”.33 La sensibilità per il tempo stratificato di Roma si ritrovava, ad esempio, nel design di una collana – ora in collezione privata e recentemente esposta al Triennale Design Café di Milano (Fashion Jewellery Made in Italy, 2014) –, composta da scaglie sovrapposte come le tegole di terracotta sui tetti mediterranei, ricavate da una lamina di metallo tagliata e piegata a mano, ricoperta di pelle di pitone, con incavi su cui sono incollate pietre di vetro “aurora boreale”. Ogni pezzo era rifinito a mano, con le diverse sezioni curvate in una unità dolcemente flessibile. La peculiarità della produzione di Luciana era tale che nel 1963 il “New York Times” – nel primo articolo a lei dedicato – descriveva questa designer come una donna carismatica con un grande senso dello stile personale, che disegnava i suoi vestiti e detestava i fronzoli, i fiori, i fiocchi e le piegoline, in chiara polemica con lo stile di Parigi.34 Conclusione Secondo le gerarchie tradizionali nel campo della haute couture, gli accessori sono marginali nel forgiare la definizione dominante di moda – che s’incarna nelle mutevoli silhouette dell’abito, in particolare quello di haute couture – e in questo senso l’esperienza creativa di Luciana mostrava una qualche affinità con il modernismo di Coco Chanel. Secondo il semiologo Roland Barthes, la stessa cosa che nega la moda, e cioè la durata, veniva trasformata da Chanel in una qualità preziosa, in un lusso: “C’è una ‘bellezza’ eterna della donna la cui immagine unica ci sarebbe trasmessa dalla storia dell’arte […] La stessa cosa che nega la moda, la durata, viene trasformata da Chanel in qualità preziosa”.35 Analogamente, il gusto sofisticato di Luciana aveva dato origine a gioielli dall’aspetto originale, lussuoso e moderno; una modernità informata sia dal processo tecnico che dalla conoscenza del materiale, sotto la sorveglianza di un gusto raffinatissimo. 32 33 34 35 Reutern 1941, p. 27. Rome Designer Brings Jewelry to Shops Here 1963, p. 37. Ibidem. Barthes 2006, p. 85. 182 Silvia Vacirca Non si può non sottolineare come la modernità della produzione di Luciana, percepita come tale nel catalogo di Italy at Work, si nutrisse di un rifiuto sostanziale della modernità contemporanea, industriale e consumistica. Gli apprezzamenti e le lodi per la peculiarità delle creazioni risultavano per certi aspetti paradossali. Proprio le caratteristiche dei gioielli fantasia – apertamente in contrasto con l’estetica della macchina, della produzione seriale di massa e del “capriccioso” lusso parigino – insieme alla difficoltà di riproduzione e all’ispirazione ai valori artistici dell’immaginazione, della bellezza classica e dell’armonia, resero infatti riconoscibile la proposta di Luciana sul mercato internazionale. I suoi bijoux erano apprezzati perché conferivano distinzione agli acquirenti, consentendo loro di marcare uno snobistico distacco dal presente del “boom economico” indulgendo, al tempo stesso in un prodotto sofisticato, facilmente trasportabile, che aveva fatto virtù dei limiti materiali dell’epoca in cui era stato ideato. OLTRE ITALY AT WORK Fashion in the Art Museum: A Case Study of Salvatore Ferragamo Shoes Marcella Martin New York University W hen Italy at Work was exhibited in the early 1950s, among the hundreds of objects that traveled around the United States were a sampling of Salvatore Ferragamo shoes. The brand, already more than twenty years old, had a unique relationship with the United States. Salvatore Ferragamo immigrated to the USA in 1914 and after a number of years working with the movie studios in California he established the Hollywood Boot Shop. For four years he was the “shoemaker to the stars” and the preferred retailer of the era’s top actresses including Gloria Swanson and Greta Garbo. In 1927, however, Ferragamo decided to return to Italy, relocating his business to Florence where the quality craftsmanship he needed to expand his brand was readily available. The company continued to supply retailers in the USA throughout the 1930s while building its profile within Italy. In 1940 exports were halted as a result of the impending war. For ten years Ferragamo shoes were not available in the USA, which “Vogue” noted in a 1950 article saying: “Now in America again: Italian shoes handmade by Ferragamo”.1 Despite this hiatus the business grew steadily enough that in 1951 Ferragamo hired a US-based agent to handle the American market and in the same year, Ferragamo shoes became a noteworthy addition to Italy at Work. The example of Ferragamo shoes in Italy at Work sheds light on the twin experience of Italian handicraft and design in the postwar period, on the one hand commercially successful and on the other, a testament to an expanding landscape of art objects in the museum. By presenting a wide variety of objects, Italy at Work and its HIH precursors, like Handicraft as a Fine Art in Italy, argued for the dissolution of hierarchies in the arts and recognized the value inherent in glasswork, ceramics, leatherwork, and other artists’ crafts. Meyric R. Rogers, 1 Fashion: Italian Shoes 1950, p. 145. 186 Marcella Martin curator of the Art Institute of Chicago and among the organizers of Italy at Work, wrote in 1955 that the division of visual arts into minor, major, or fine arts was an inversion of humanistic principles that was seemingly coming to an end.2 He credited Italy at Work for the interest it brought to new Italian artworks and design and to the museum as “a forum where the public can come into contact with as complete a cross-section of the visual arts as possible”.3 The growing number of costume and textile departments in American museums in the late 1940s was a boon to this expansion of the visual arts in the museum. Already in 1949, an article in “Vogue” entitled Fashion…an Art in the Museums made clear that “Museums all over the country have tied fashion importantly to their programs” and highlighted five museums with departments dedicated to historic costume and textiles.4 Among the museums featured in the article were two New York institutions: the Brooklyn Museum, where Italy at Work was first exhibited, and the Metropolitan Museum of Art. Through a case study of nine pairs of Ferragamo shoes, this paper attempts to illustrate the second life of Italy at Work objects in the museum, and more specifically in historic costume collections within the rarefied space of the art museum. These nine particular objects were identified by their provenance and exhibition history. Although all nine pairs started their life in the Brooklyn Museum Department of Costume and Textiles, in 2009 this collection was transferred to The Costume Institute at the Metropolitan Museum of Art. The transfer led to a years-long assessment project that compared objects in the Brooklyn Museum Costume Collection to those already in The Costume Institute with the goal of retaining only the best examples. In other words, from a collection of about 25,000 objects the assessment team was tasked with finding the “special 4000,” which would then be accessioned by the Metropolitan Museum of Art.5 Objects were judged on the basis of their condition, provenance, and most importantly their significance, both as an example of the designer’s work and of the height of design at the time of their creation. All of the Ferragamo shoes associated with Italy at Work, and some that may have been, were chosen to remain in The Costume Institute. This total comprises five pairs of Ferragamo shoes whose exhibition history includes Italy at Work, one pair of platform evening sandals that were photographed in the exhibition but whose record does not list Italy at Work in the exhibition history, and three others with notable provenance. These remaining three are noteworthy because like the platform evening sandals, they are all described as a: “Gift of Brooklyn Museum Fair, 1956”, while those shoes Rogers 1955, p. 8. Ibidem. 4 People and Ideas: Fashion...an Art in the Museums 1949, p. 211. 5 Phone conversation with Jan Reeder, Consulting Curator, Brooklyn Museum Collection at The Metropolitan Museum of Art. 2 3 Fashion in the Art Museum: A Case Study of Salvatore Ferragamo Shoes 187 that were included in Italy at Work list in their provenance: “Gift of the Italian Government, 1954”. The Brooklyn Museum Department of Costume and Textiles, or the Design Laboratory as it was known in the 1950s, and The Costume Institute at the Metropolitan Museum of Art were among the first such departments dedicated to fashion in established art museums. As early as 1915, the Metropolitan Museum of Art in New York had given space to the presentation of “fashion through the ages” for the benefit of contemporary designers.6 That same year Mrs. Irene Lewisohn founded the Neighborhood Playhouse theater company, also in New York, and realized that costume designers could benefit from the study of historic fashion as well.7 She began amassing a collection of historic and contemporary items through her travels and this material became the foundation of the Museum of Costume Art in 1937. Lewisohn oversaw the collection until her death in 1944 and shortly after in 1946 the collection was transferred to the Metropolitan Museum of Art, where it was renamed The Costume Institute. For more than ten years The Costume Institute operated as an independent entity within the museum, mostly supported by financial donations from the fashion industry, and it was not until 1959 that it officially became a curatorial department. The founding of the Department of Costume and Textiles at the Brooklyn Museum followed a similar trajectory. In 1915, curator of Ethnology Stewart Culin traveled to Asia where he collected garments and textiles that would become the foundation of the collection. Over the next twenty years the collection benefitted from the interest of industry partners. Though the museum had long entertained the idea of establishing a center exclusively dedicated to industrial research, it was not until 1939 that the Governing Committee officially established an Industrial Division to expand the use of their costume and textile collections. The early 1940s saw the first exhibitions dedicated to fashion at the museum, of which “Vogue” wrote in an article entitled Unorthodox Brooklyn Museum: “The public loves shows on clothes”.8 Within a few years the success of the Industrial Division led to the founding of the Edward C. Blum Design Laboratory. In 1951, curator Michelle Murphy received the prestigious Neiman Marcus Award for distinguished service to the field of fashion.9 Under Murphy’s visionary direction, the Design Lab collected not only historic costume but contemporary fashion and haute couture as well, from ballgowns by Charles James to, eventually, shoes by Salvatore Ferragamo. Throughout this period, the Design Lab maintained its reputation as one of the most comprehensive costume collections in the USA. Despite the success of the Department of Costume and Textiles, however, the Brooklyn Museum suffered from being chronically underfunded. 6 7 8 9 Art: The Museum Holds a “Promenade des Toilettes” 1915, p. 80. Fashion: The Costume Institute of the Metropolitan Museum… 1947, p. 211. People and Ideas: Unorthodox Brooklyn Museum 1941, p. 49. Lawrence 2006, p. 11. 188 Marcella Martin Among the various measures taken to support the museum was the planning of a fundraising event called the Brooklyn Museum Fair and an accompanying auction. This event was held annually beginning in 1953 to help defray the costs of the museum’s operating expenses and to support educational programs. It is unclear if the auction portion of the event had always included artworks from the museum’s holdings but by 1956 newspaper articles seem to confirm that this was now the case.10 Since it is well-known that the Brooklyn Museum tried to unload some of the more than two-hundred Italy at Work objects in the years following the exhibition, if indeed the museum was auctioning items from its collections during the Brooklyn Museum Fair, it is likely that some of this material was auctioned as well. This would explain how four of the nine pairs of Ferragamo shoes came to have the provenance “Gift of Brooklyn Museum Fair, 1956”. Since the shoes are from the same time period as the Italy at Work examples and bear similar markings on their soles, it is possible that these objects were also originally part of the exhibition and were later included in the fair as a fundraising effort. If so, they may have been purchased by the Community Committee that organized the annual fair and donated back to the museum’s collection. This process may explain why the platform Maharani evening sandals that are visible in the Italy at Work installation photos are recorded as a “Gift of Brooklyn Museum Fair, 1956” and not as a “Gift of the Italian Government, 1954” like the other Italy at Work objects.11 First created for the Maharani of Cooch Behar, British India in the mid-1930s, the Maharani shoe was a recognizable Ferragamo design by the early 1950s. They featured a scrolling, rhinestone encrusted platform sole and criss-cross leather uppers in red and gold (fig. 1) or black and silver colorways. The Maharani was first produced for consumers in the late 1930s. They were included in a “Vogue” editorial from September 1, 1939 under a section titled Foreign Extravaganza, which featured the Maharani and two other examples of “Ferragamo shoes with Oriental tendencies”.12 This particular model 10 Two articles in the “Daily News” newspaper described the Brooklyn Museum Fair of 1956: Auction Items Up at Museum 1956, p. K3: “An exhibition of items to be auctioned off at the fourth annual Brooklyn Museum Fair are being displayed this week at the Museum, Eastern Parkway and Washington Ave. They include paintings by Winslow Homer and John Singer Sargent. The fair proper will be held on Tuesday and Wednesday, March 20 and 21 from 10 AM to 10 PM. Advance bids on items for the auction are being accepted at the museum. Proceeds will go to the support of museum’s educational program. It is sponsored by the Community Committee for the Museum, headed by Mrs. Clarence G. Bachrach.”; and Museum to Hold Fair 1956, p. 8B: “No telling what exciting item you can pick up at the Brooklyn Museum Fair next Tuesday and Wednesday from 10 AM to 10 PM. Maybe this French clock the youngsters from PS 139, Frances Gantman, Lance Michaels and Bruce Itel (l. to r.), are studying. To introduce the fair, the museum will hold an auction sale of paintings, sculpture and other art Monday night. Works of artists such as Winslow Homer and John Singer Sargent will be offered. Business forms will contribute displays. Admission to auction will be $5 to be credited on first purchase. Many items are on sale now”. 11 S. Ferragamo, Evening sandals, 1938. MET, Acc. N. 2009.300.1505a, b. 12 Fashion: Hoop-Skirts… 1939, p. 56. Fashion in the Art Museum: A Case Study of Salvatore Ferragamo Shoes 189 1. Jewel-encrusted platform shoe, created for the Maharani of Cooch Behar, British India in the mid-1930s was described as “a platform shoe in Persian colours”. The Maharani was reimagined many times over the years, with examples showing variations in color, in the construction of the uppers, and even an attempt at simplifying the metalwork ornamentation. A variation in the Fondazione Ferragamo, for example, shows a painted version of the scrolling metalwork design that characterizes the Maharani shoe (fig. 2). A possible explanation for this simplification of the design may have been the desire to produce a scalable version that would have allowed for a wider distribution. Although the metal wrapped version was available for purchase at Saks Fifth Avenue, with a price tag of one hundred dollars it was exorbitantly expensive for the time.13 Another version, also in the collection at the Metropolitan Museum, was available for sale at Saks Fifth Avenue presumably for much less. This evening sandal featured a silk satin upper and a beaded wedge heel in the same pattern as the Maharani’s distinctive metalwork. Interestingly, however, the scale of the beadwork is more like the painted version in the Fondazione Ferragamo, further supporting the possibility that the hand-painting was done to serve as an example or guide in the manufacturing process. In the Maharani object files the Fondazione Ferragamo keeps a record of the many variations that resulted from these 13 Reeder 2015, p. 238. 190 Marcella Martin 2. Hand-painted version of the Maharani platform shoe iconic shoes, including one similar to the Saks Fifth Avenue example, with black silk velvet uppers and a beaded wedge heel. This history, coupled with the Italy at Work installation photos, seems to indicate that the Maharani evening sandal was in fact part of the exhibition and that its provenance was later updated after the Brooklyn Museum Fair auction. Three other pairs of shoes dated 1947-1950 that are also recorded as a “Gift of Brooklyn Museum Fair, 1956” seem to share this unusual provenance history. The group includes a unique nude version of Ferragamo’s famous “invisible shoe”, which was made with monofilament nylon thread uppers.14 In 1947, just a few years before it was awarded to the Brooklyn Museum’s Design Lab, Salvatore’s “invisible shoe” had also won the Neiman Marcus Fashion Award. That version of the shoe featured a leather strap at the front of the ankle and nylon thread uppers that criss-crossed the top of the foot, meeting at a small leather strip in the center. The Brooklyn Museum example, however, is tied with two leather straps at the top of the foot. The remainder of the uppers are still fashioned from nylon thread but the ties give this version of the “invisible shoe” a more casual look and feel. The sole of the shoe shows it was called Liuto and features markings that were also found on the Maharani evening sandal, including case numbers that 14 S. Ferragamo, Liuto, 1947-50. MET, Acc. N. 2009.300.1244a, b. Fashion in the Art Museum: A Case Study of Salvatore Ferragamo Shoes 191 may indicate installation locations.15 This case number (sometimes written 5F, 6F, or SF followed by 639) was also found on a pair of brown booties that were exhibited in Italy at Work and evidence of similar labels that had been ripped off was found on five other shoes, accounting for all but one in the total group of nine. The Liuto invisible shoe sole is also marked “camp 16” indicating that it may have been a campione, or sample, of a possible “invisible shoe” variation. This would exclude the possibility of the shoe having been donated by a member of the public for auction at the Brooklyn Museum Fair (since a sample would not have been available for sale), and supports my thesis that this shoe entered the museum’s collection via the Italy at Work exhibition only to later be auctioned and rebought for the benefit of the Design Lab. There are many other similarities across this group that deserve more attention than this brief intervention can allow. Further study might reveal, however, whether the case number did in fact refer to a display case, or if this was an early cataloging system. Other numbers on the shoes’ soles seem to indicate previous accession numbers, original sizing information, and some still bear the name of the shoe given by Ferragamo. A straw example that was exhibited in Italy at Work called Mercury16 was from a Ferragamo diffusion line called “Pompeian, Made in Florence” and unlike the leather examples in the group, which were specifically stamped “handmade in Italy”, this shoe and the other straw shoe called Valle17 were marked simply “made in Italy”. Ferragamo was also known for patenting his designs, continuing to do so under the American system for years after the business moved to Florence, and the soles of the Maharani and the Ninfea booty both bear reference to this process.18 The Maharani is stamped “patent applied for”, while the Ninfea reads in all capitals “brevettato”.19 This variation may be evidence of the differences allowed under each application system. For example, a novel design like the Maharani’s was more commonly patented under the American system, while the costly process of patenting a design under the Italian system led to a preference for developments in manufacturing and engineering. Additional research in the records of the Brooklyn Museum, may someday further explain the significance of these unique markings. As “Vogue” wrote in 1949: “The great museums now are casting a new eye on fashion for they know that time transforms current clothes into future valu- 15 Although the Metropolitan Museum of Art’s webpage reads “Luito” in the title and description, the shoe was inscribed with the name “Liuto”. This is reflected under “Signatures, Inscriptions, and Markings” where it reads: “Inscribed: Liuto”. 16 S. Ferragamo, Mercury, 1947-50. MET, Acc. N. 2009.300.4761a, b. 17 S. Ferragamo, Valle, 1947-50. MET, Acc. N. 2009.300.3512a, b. 18 Belfanti, Merlo 2015, p. 116. 19 S. Ferragamo, Ninfea, 1938-39. MET, Acc. N. 2009.300.1489a, b. 192 Marcella Martin able documents”.20 Whether they all began as Italy at Work objects or not, the many lives of these Ferragamo shoes – from exhibition to auction to the Metropolitan Museum of Art – tell the story of this particular moment in the history of American costume collections, just as contemporary design and haute couture were becoming the driving force behind accessions. They encapsulate the transition from industry-facing research centers to curatorial departments that were increasingly valued for their contribution to the educational goals of the art museum. This recognition reflected broader changes within the art world, which in the 1950s sought to embrace a wider cross-section of the visual arts. Interestingly, this group of Ferragamo shoes also seems to have captured an early example of consumer-based objects made specifically for museum display. From the research thus far, there is no evidence of Ferragamo shoes used for exhibition that were not later returned to the company. For example, in the exhibition Europe Unite! Ferragamo shoes were among a small sampling of objects that were included in the Italian pavilion.21 An image of the pavilion is in the object files of the Maharani shoe in the Fondazione Ferragamo, which may suggest the shoes were only temporarily loaned or privately owned. With the Italy at Work exhibition, however, the USA bond system limited the length of time foreign products could remain untaxed in the USA so they were imported under the international courtesy clause. During two-plus years of travels to American art museums, these shoes became inextricably tied to the image of Italy and possibly among the very first examples of Made in Italy fashion to become part of an American art museum. Once they were settled into the Brooklyn Museum Costume Collection, the group documented the moment at which these Ferragamo shoes ceased to be commercial products and remaining forever more unworn, became testaments to the height of footwear design in the 1940s and 1950s. 20 21 People and Ideas: Fashion...an Art in the Museums 1949, p. 211. Installation photo, Maharani object files, Fondazione Ferragamo, Florence. Il dialogo Roma-Stati Uniti per la promozione dell’artigianato artistico italiano. Da Italy at Work ai circuiti delle gallerie private (1949-1961) Manuel Barrese Sapienza Università di Roma P er tutti gli anni ’50 Roma, anche nel ruolo di capitale e di centro della burocrazia, ha funzionato da vero e proprio avamposto degli Stati Uniti sul suolo italiano. Nel quadro delle molteplici relazioni politicodiplomatiche, commerciali e culturali intercorse con gli USA nel Secondo dopoguerra,1 lo scenario dell’Urbe venne infatti vivificato dagli stimoli, sia di natura intellettuale sia economica, sopraggiunti con la stipulazione del Piano Marshall (1948). L’osmosi con la realtà del Nuovo Continente ebbe profonde ripercussioni su ogni settore creativo della Capitale, dall’ambito delle arti visive alla moda,2 dall’editoria al cinema (si pensi al fenomeno della “Hollywood sul Tevere”). Benché priva di una tradizione artigianale ben specifica, Roma ha poi giocato un ruolo di primo piano per il lancio e l’affermazione del Made in Italy. Proprio nella Capitale – tra le altre cose sede dell’ENAPI – il crescente entusiasmo americano per la creatività del Bel Paese poté strutturarsi e confluire all’interno di un più ampio “sistema” in sintonia con gli orientamenti di politica estera messi in campo dagli USA – e di riflesso dai suoi organi di rappresentanza ufficiali a Roma (Ambasciata, American Academy) – nelle delicate contingenze della guerra fredda impegnati a tenere i mercati e le coscienze degli europei lontano dall’orbita sovietica.3 Non è un caso quindi che, nell’aprile 1950, il comitato promotore della mostra itinerante Italy at Work iniziò dalla Città Eterna il suo viaggio alla ricerca di oggetti da esporre al di là dell’Atlantico.4 Sullo scorcio degli anni ’40, inoltre, si andò a costituire un ramificato network di gallerie private – spesso gestite in prima persona da cittadini statunitensi – che promossero i prodotti italiani tramite 1 2 3 4 Duggan, Wagstaff 1995. Celant 1993; Benson Miller 2018. Stonor Saunders 2004. Italian design to travel country 1950, p. 157. 194 Manuel Barrese mostre allestite nei propri spazi romani – esemplare il caso della Galleria 88 in via Margutta – e in succursali USA fondate ad hoc (la Galleria Sagittarius presente sia nei pressi di via Veneto sia a New York). Seppur discontinue e sprovviste di un adeguato apparato economico-produttivo capace di sorreggerle, le arti applicate sviluppatesi a Roma dopo la caduta del fascismo non solo rivelano una originalità che in sede storico-critica ancora oggi attende di essere marcata5 ma appaiono irrorate da caratteristiche stilistiche che, nel tempo, vennero favorevolmente recepite da una selezionata clientela statunitense. La natura contraddittoria dei manufatti romani – concepiti nella prospettiva di sintesi delle arti6 comune nei cantieri del Ventennio, sconnessi dalle logiche di standardizzazione industriale in auge nel nord Italia e, contemporaneamente, uniformati sia su stilemi mediterraneo-primitivistici, sia su persistenti toni classico-barocchi – andò infatti a soddisfare le aspettative estetiche riposte Oltreoceano in un particolare settore del Made in Italy. “Due sono le strade […] sulla quale l’arte resiste – scrisse nel 1956 il critico Emilio Villa cogliendo le proficue ambivalenze delle ricerche sull’oggetto fiorite in aerea romana – l’una verso la sintesi delle arti […] e l’altra che riconduce l’arte alle sue condizioni primigenie, che si definiscono popolari o artigianali”.7 Come si evince dalla mappa pubblicata in chiusura del catalogo Italy at Work, a Roma – e più in generale nella parte centrale del Paese – non venne individuata né una vocazione industriale né venne rilevata la presenza di significativi distretti artigianali. La limitata partecipazione a Italy at Work di personaggi attivi sulla scena romana risulta quindi eloquente perché se da una parte segnala le emergenze di un artigianato autoctono, dall’altra evidenzia la ricettività degli americani verso alcuni orientamenti del gusto rinvenibili nell’Urbe. Walter Dorwin Teague – architetto membro della delegazione di Italy at Work – dalle pagine di “Interiors” mise bene in luce le aspettative, le visioni stereotipate e, in certi casi, le chiusure preventive riversate sull’artigianato italiano da un osservatorio straniero tutt’altro che neutro. Proprio a Roma, avendo sotto gli occhi le ceramiche di Fabio Rieti – artista versatile vicino a Corrado Cagli e con alle spalle un soggiorno in America – affermò con latente campanilismo la superiorità del design statunitense; in ogni modo, però, rimase affascinato dalla perizia tecnica con cui erano soliti operare gli artigiani italiani i quali, a ben vedere, pensavano i propri manufatti – anche quelli destinati a un uso giornaliero – come pezzi unici.8 Attraversando l’Italia da nord a sud, la compagine americana inevitabilmente si andò a scontrare con gruppi di artigiani filocomunisti che, com’è logico 5 6 7 8 Per una visione d’insieme, cfr. De Guttry, Maino 1994b; Fonti 2002. Riccio 2002; Barrese 2017. Villa 1956. Teague 1950c, p. 196. Su Cagli, si veda il saggio di Marino nel presente volume. Il dialogo Roma-Stati Uniti per la promozione dell’artigianato artistico italiano 195 aspettarsi, vennero biasimati da Teague.9 Durante le visite negli ateliers emerse spesso la contrapposizione antinomica tra manufatto utilitaristico e oggetto esteticamente autosufficiente sprovvisto di una funzione pratica. Paradigmatico fu l’incontro con le ceramiche del gruppo attivo in una officina di pertinenza di una cooperativa comunista situata nella cosiddetta Valle dell’Inferno, cioè nella periferia romana attorno alla via Aurelia.10 Nella suggestiva cornice di un luogo poco distante dall’abitato ma già rurale e selvaggio, il comitato di Italy at Work ebbe modo di ammirare le opere dei fratelli Andrea e Pietro Cascella, di Fabio Rieti e della poliedrica Anna Maria Cesarini Sforza, specialista anche di lavorazioni in mosaico.11 I prodotti usciti dalle fornaci di Valle dell’Inferno esercitarono subito notevole presa sugli americani. Si trattava nello specifico di vasi, piatti, mattonelle, sculture d’ispirazione vagamente surrealista – Teague parlò di “abstract form in ceramics […], odd jugs and inexplicable garden ornaments”12 – che, distanziandosi dal manierismo funzionalista tipico del design targato USA, sintetizzavano quel gusto mediterraneo e arcaicizzante destinato a diventare espressione di una certa tendenza dell’artigianato della Capitale. Paradossalmente, ciò che determinò l’apprezzamento al di là dell’Atlantico dei lavori del gruppo fu da una parte l’esibita presa di distanza dalle norme – sia tecnico-esecutive sia linguistiche – alla base della civiltà capitalista, dall’altra il conseguente ripiego su un immaginario fitto di rimandi a universi preclassici e di allusioni autres. Le affinità tra un artigianato sincronizzato sui formalismi “primitivisti” e le ricerche plastiche ascrivibili all’Informale erano state del resto messe in luce da critici – come Enrico Crispolti – immersi nel vivo dell’avanguardia romana degli anni ’50.13 L’identità proteiforme dei manufatti romani, prossimi alla sfera del “pezzo unico” e intrisi di una espressività “barbarica”, fu ben spiegata su “Domus”: “L’ispirazione, per segreto ricorso, è romano-barbara, bizantina o del basso Impero. […] Con questi gioielli Roma prepara le incoronazioni, preziose e cupe […] per le straniere che arrivano alla Città Eterna?”.14 Su una linea simile Irene Kowaliska Wegner – artista d’origine polacca, legata a manifatture ceramiche di Vietri e Positano ma affermatasi nella Roma del dopoguerra come creatrice di stoffe – a una giornalista americana descrisse i suoi tessuti – già esposti a Italy at Work – come “a mixture of primitive, byzantine and modern”.15 È interessante riflettere sui canali che indirizzarono la commissione di Italy at Work verso l’enclave gravitante attorno ai fratelli Cascella. Nel dicembre 1949 era Ivi, p. 199. Parrella 1958. 11 De Guttry, Maino 1994b, pp. 165-166. 12 Teague 1950c, p. 195. 13 Crispolti 1958. 14 Artisti e gioiellieri 1948. 15 Wohl 1957a. 9 10 196 Manuel Barrese stata organizzata presso la Galleria L’Obelisco16 – allora uno dei centri espositivi più in vista, e mondani, della Capitale – la mostra Ceramiche della Valle dell’Inferno17 che, come dichiarato dal poeta Libero De Libero nel testo in catalogo, registrava una rinnovata alleanza tra artisti e artigiani e faceva il punto sull’attualità degli stilemi totemici e primordiali.18 L’Obelisco, grazie all’intelligente gestione di Irene Brin e Gaspero del Corso, non solo contribuì a diffondere nel Nuovo Continente il mito della New Italian Renaissance ma seppe attirare – in veste di collezionisti e di frequentatori più o meno abituali – personaggi dell’aristocrazia internazionale, rappresentanti della diplomazia americana e, non in ultimo, esponenti di spicco del mondo della moda e dell’editoria USA (nel 1960 ospitò una mostra di dipinti di Fleur Cowles, responsabile della lussuosa rivista “Flair”). Irene Brin dal 1952 era corrispondente da Roma di “Harper’s Bazaar” e, forte della sua rete di relazioni, favorì la vocazione atlantista della galleria19 sia attraverso mostre allestite Oltreoceano, sia tramite il dialogo con l’indipendente ma comunque parallela Obelisk Gallery di Washington, fondata nel 1952.20 Le strategie commerciali dell’Obelisco influirono sulle successive scelte degli organizzatori di Italy at Work i quali ebbero modo di interfacciarsi con la galleria dei coniugi del Corso. Un documento conservato presso l’Archivio Ragghianti – nello specifico una lettera inviata da Gaspero del Corso21 – attesta che L’Obelisco già nel 1948 era frequentata da Ramy Alexander, vicepresidente della CNA e instancabile sostenitore del design italiano negli Stati Uniti. Bisogna rammentare inoltre che la stessa galleria non solo accolse in veste di espositori celebri architetti – nel dicembre 1949 Gio Ponti si propose come pittore suscitando una certa diffidenza nella critica22 – ma si occupò anche di arti applicate e oggetti di lusso: sempre nel 1949 venne inaugurata una mostra di gioielli realizzati dall’orafo Mario Masenza su disegni di Afro, Guttuso, Leoncillo, Mirko, Savinio; nel 1951 Capogrossi espose dei bozzetti per pavimenti in maiolica; nel 1955 la triade raccolta sotto la sigla “3 P” – Giorgio Perfetti, Arnaldo e Gio Pomodoro – presentò gioielli e manufatti di lusso; nel 1957 fu poi la volta delle ceramiche del siciliano, ma di stanza a Roma, Salvatore Meli già rivelatosi negli Stati Uniti.23 Tulino 2020. Brin 1949, p. 41. 18 Ceramiche di Valle dell’Inferno 1949. 19 Schiaffini 2018. 20 Ivi, p. 134. 21 Lettera di Gaspero del Corso a Carlo Ludovico Ragghianti, 12 gennaio 1948. FR, ACLR, Carteggio generale. 22 “Quadretti capaci di figurare con successo soltanto nel boudoir di una Manon Lescaut a buon mercato, […] non stupisce che Gio Ponti riceva il plauso degli intellettuali da salotto che, ieri come oggi, brigano per ottenere lavoro dallo Stato”. Cfr. Fornari 1949, p. 3. 23 Nel 1954 espose a Los Angeles (Heilborn Studios) e a San Francisco (Gumps); nel 1955 a New York (Bonniers). 16 17 Il dialogo Roma-Stati Uniti per la promozione dell’artigianato artistico italiano 197 Grandi apprezzamenti – e dunque selezionati per Italy at Work – ottennero i lavori realizzati dal ravennate, ma naturalizzato romano, Enrico Galassi.24 Fino ai primi anni ’50 egli fu a capo di un laboratorio specializzato nell’esecuzione di mosaici e complementi plastici ideati da noti pittori e scultori. Celebri, ad esempio, erano i pannelli musivi che riproducevano dipinti di de Chirico, Carrà e Prampolini. Gli ingenti costi di produzione, tuttavia, portarono Galassi a chiudere il suo frequentato stabilimento di Valle Giulia a cui tra l’altro afferivano i Cascella. Il fallimento dello Studio Galassi mette bene in luce le contraddizioni che negli anni della ricostruzione postbellica agitavano il mondo artigianale romano, da una parte capace di pervenire a vette di eccellenza ma, allo stesso tempo, impossibilitato a mantenere i risultati raggiunti perché privo tanto di un mercato interno quanto di un proporzionato sostegno finanziario. Accanto al recupero di miti arcaici e temi folklorici a Roma non decadde mai il trasporto verso una decorazione opulenta, pervasa da un’idea di classicità eccedente e piranesiana. La vocazione romana all’effimero e allo scenografico – così palese in cantieri come il Cinema Metropolitan, inaugurato nel 1948 in un tripudio di stucchi di Francesco Barbieri e mosaici di Massimo Campigli25 – riecheggia nell’intervento ambientale progettato per Italy at Work dal milanese, ma radicatosi nell’Urbe, Fabrizio Clerici. In questo speciale allestimento – un ridotto di teatro per rappresentazioni di marionette – il pittore ma architetto di formazione creò uno spazio immerso in una dimensione onirica affine a quella dei suoi dipinti. Svincolato da preoccupazioni realistiche e da richiami di verosimiglianza, Clerici diede vita a una Wunderkammer baroccheggiante popolata da figure della commedia dell’arte. L’artificio e la finzione ludica erano nelle corde dell’artista il quale aveva già fatto delle incisive incursioni nel mondo della scenografia teatrale. La rarefazione culturalistica di alcuni riferimenti – ad esempio gli inserti figurativi monocromi delle pareti realizzati su disegni di Fabius Gugel, giovane protégée di Clerici – si rivelavano poi affini alla tendenza “neoromantica” avvalorata dall’Obelisco, galleria di riferimento dei due artisti.26 Non è poi possibile capire il foyer per marionette di Italy at Work – entrato a far parte delle collezioni dell’Art Institute di Detroit – senza contestualizzarlo in quella cultura progettuale pleonasticamente classicista mai venuta meno a Roma, specie in relazione alle velleità di un ceto nobiliare e alto-borghese. L’espediente del pulcinella-telamone di Clerici trova significative assonanze con le cariatidi di Assia Busiri Vici – habitué della Galleria L’Obelisco – poste all’interno dell’Open Gate Club, esclusivo ritrovo mondano della “Dolce Vita” progettato dall’architetto Andrea Busiri Vici tra il 1949 e il 1950.27 24 Mannes 1947b, pp. 92-93; Teague 1950c, pp. 196-197; De Guttry, Maino 1994b, pp. 147- 155. 25 26 27 Soltanto a Roma 1948. Nel 1953 Gugel espose all’Obelisco introdotto in catalogo da Clerici. Busiri Vici 1951. 198 Manuel Barrese Infine non deve sfuggire che a Italy at Work, in rappresentanza di un artigianato romano così proiettato sul piano dello spettacolo, vennero accolte anche le marionette di Maria Signorelli.28 Alla maschera intesa come feticcio e come problema estetico, nel 1957, venne poi dedicata una mostra29 presso la Galleria Sagittarius, centro che era stato inaugurato proprio da una personale di Clerici nell’ottobre 1955. Le gallerie Sagittarius, 88 e Appia Antica. Aperture al design e scambi con l’America Almeno all’inizio la Galleria Sagittarius30 venne concepita come una sorta di estensione dell’Obelisco. Entrambi gli spazi, infatti, si rivolgevano al medesimo ambiente cosmopolita, filoamericano e interconnesso con il mondo dell’alta moda. Tuttavia, rispetto all’eclettico indirizzo dell’Obelisco – caratterizzato ora da rivolgimenti classicisti, ora da audaci aperture avanguardiste – il Sagittarius si assestò su una visione dell’arte maggiormente tradizionalista ed elitaria. L’analisi preliminare dell’attività della galleria lascia emergere una programmazione rivolta al recupero di un Ottocento elegante e maudit – le retrospettive di ToulouseLautrec (1955) e di Giovanni Boldini, Antonio Mancini e Armando Spadini (1956) –, tesa al rilancio di personalità estetizzanti – Tamara de Lempicka (1957) – e, contemporaneamente, focalizzata sulle suppellettili di lusso. Ecco dunque spiegata l’enfasi rivolta alla mostra dei monili del duca Fulco di Verdura (1956),31 già disegnatore di gioielli per Chanel e Dalí. Sempre in vista dei privilegiati canali di vendita negli Stati Uniti si può collocare l’esposizione dei tessuti della Scuola di Tessitura di Rovezzano gestita dalla contessa Marinetta di Frassineto (1956).32 “Marinetta textiles – scrisse una popolare rivista americana – is already known throughout Europe and now in the United States. Leading Italian architects and interior decorators, Vietti, Stucchi, Berardi, Fabrizio Clerici, think first of Marinetta when they have a fabric problem”.33 Come è stato di recente sottolineato, nella fase precedente l’apertura del Sagittarius si affacciò l’ipotesi di un coinvolgimento di Irene Brin e Gaspero del Corso.34 I due, in via verosimile, ebbero voce in capitolo sulla definizione del palinsesto delle esposizioni e, come nel caso della mostra di dipinti e gioielli 28 29 30 31 32 33 34 Battistini 1949. Maschere di Sartori 1957. Brin 1955. Brin 1956. Berenice 1956. Brailsford Felder 1954, p. 57. Schiaffini 2018, pp. 134-135. Il dialogo Roma-Stati Uniti per la promozione dell’artigianato artistico italiano 199 dell’americana Alla Kent (aprile 1956),35 dirottarono alcuni artisti verso la nuova galleria che, ufficialmente, era sotto la responsabilità di un comitato direttivo composto dallo scultore Renato Signorini e dalla principessa Stefanella Barberini Colonna di Sciarra (1908-1999).36 Quest’ultima era stata titolare insieme a Lola Giovannelli di una casa di moda della Capitale e, tra le altre cose, si occupava della gestione del centro estetico a Roma di Elizabeth Arden, l’imprenditrice dei cosmetici a sua volta proprietaria a New York – fino al 1955 – della Hugo Gallery. Dalle ceneri dello spazio d’arte finanziato dall’industriale statunitense dovette originarsi la Galleria Sagittarius dislocandosi nella sede romana di via Lazio 22 – attiva fino al 1958 – e nella più longeva sede newyorkese.37 Inaugurata da una mostra di Antero Piletti e definita “a new gallery devoted to non abstract contemporary art”,38 la Sagittarius di New York era guidata da Natalie Beck e del conte Lanfranco Rasponi, pubblicista e membro del jet set internazionale. Le due gallerie si fiancheggiarono e contribuirono a far conoscere il meglio del Made in Italy. Tali piattaforme prepararono il successo del romano Andrea Spadini che con una efficace strategia pubblicitaria venne presentato negli Stati Uniti come “Lo Spada”. Con questo soprannome antichizzante, degno di un maestro del Rinascimento, nel 1956 espose alla Sagittarius Gallery delle ceramiche di soggetto mitologico che, per la sprezzatura compositiva e l’accattivante grazia neo-rococò, entusiasmarono il pubblico. “Lo Spada – registrò la critica – showed glazed porcelain river gods and other minor antique divinities, molded with virtuoso freedom”.39 Tramite l’intermediazione di Giovanni Battista Giorgini,40 pioniere dell’export in America, Spadini ottenne un contratto con Tiffany e nel 1960 espose presso lo showroom newyorkese della ditta una serie di centritavola rappresentanti dei giocosi animali antropomorfizzati che, con ogni probabilità, furono all’origine della commissione delle sculture animalier dell’orologio di Central Park a Manhattan (1963-1965). Lo stesso Renato Signorini – direttore della Galleria Sagittarius di Roma e scultore specializzato nella creazione di portagioie e piccoli busti-ritratto in metalli preziosi – trovò riscontri soprattutto presso facoltosi collezionisti anglo-americani che lo celebrarono come erede di Benvenuto Cellini. La fortunata personale tenuta nel giugno 1957 presso la sua galleria romana41 – già presentata alla O’Hana Gallery di Londra (1956) – approdò nella boutique di Tiffany a New 35 36 37 38 39 40 41 Wohl 1956. De Cousandier 1955. New York, 46 East, 57th Street; dal 1959 risulta ubicata al 777 di Madison Avenue. Reviews and Previews 1955. Reviews and Previews 1956. Mazzarella 1989, pp. 175-180. Mezio 1957; Tridenti 1957. 200 Manuel Barrese York42 e successivamente nella gioielleria Linz Brothers di Dallas. Oltre ad essere stato l’artefice del ritratto di Audrey Hepburn ai tempi della lavorazione a Cinecittà di Guerra e Pace (1956), dell’effige di Pio XII – posseduta dall’arcivescovo di Los Angeles James McIntyre – e della regina Elisabetta II – omaggio alla sovrana da parte di una corporazione canadese –, Signorini ritrasse anche l’ardente anticomunista Clare Boothe Luce, ambasciatrice degli Stati Uniti a Roma (1953-1956) e moglie del magnate della stampa Henry Luce (fig. 1). Grazie alle entrature presso il mondo diplomatico, nel 1957 fu poi scelto per eseguire una coppa in argento destinata ad essere donata dal governo italiano agli USA in segno di gratitudine per l’assistenza offerta ai naufraghi del transatlantico Andrea Doria. Nella stessa Roma cosmopolita degli anni ’50, molti cittadini statunitensi – allettati dalle possibilità di guadagno di un mercato dell’arte in piena espansione – fondarono centri espositivi votati alla sponsorizzazione della creatività italiana. Questi luoghi, divenuti in breve dei punti di riferimento per i numerosi collezionisti stranieri di passaggio nell’Urbe, attrassero artisti e artigiani romani desiderosi di entrare in relazione con una clientela estera spesso abbiente. Un esempio interessante, anche se ancora poco noto, è rappresentato dalla Galleria 88, così chiamata perché situata al civico 88 di via Margutta (fig. 2). 1. Renato Signorini, Clare Booth Luce, Ambasciatore degli Stati Uniti a Roma, 1955, busto in oro 42 De Jegnac 1958; Signorini’s Gold Statues… 1957; Reviews and Previews 1957. Il dialogo Roma-Stati Uniti per la promozione dell’artigianato artistico italiano 201 2. Galleria 88 in via Margutta, in “Capitolium”, marzo 1962, a. XXXVII, n. 3, p. 160 Fondata nel 1956 da Decio e Ida Cristiani, venne poco dopo rilevata dall’inglese Whigham Jan e Charles Bernard Moses; quest’ultimo, ebreo d’origine tedesca trasferitosi a Cincinnati (Ohio), ne divenne amministratore unico nel 196143 e la diresse affiancando mostre di pittori e scultori – spesso giovani americani – a mostre di arti applicate. Nell’ottobre 1961, ad esempio, venne inaugurata una esposizione di tappeti realizzati su cartoni di maestri quali Gio Ponti, Gino Severini, Giulio Turcato. L’iniziativa – promossa dal comitato italiano dell’Italian Handicraft International – nasceva su impulso di Gloria Finn – già esecutrice negli USA di “tappeti d’artista” – che, anche a scopo umanitario, avviò delle giovani originarie di Sermoneta al lavoro dell’uncinetto.44 Le fonti attestano che la Galleria 88 – sviluppata su tre livelli e frequentata da “parecchi collezionisti specie stranieri”45 – si faceva carico di tutta “una produzione propria di artigianato” fatto di “bottiglie trasformate in lumi da tavolo, portasigarette da tavolo in cuoio con sopra decorazioni originali fatte da ottimi pittori […], vetri di Empoli variamente dipinti ed altro”. “L’iniziativa – venne rimarcato – è riuscita nel suo campo perché ha aperto a molti giovani pittori romani la via dei mercati americani, che ben si sa sono i più ricchi”.46 Gli oggetti Guida Monaci 1961, colonna 2435. Tappeti artistici, pieghevole-invito alla mostra tenutasi presso la Galleria 88, Roma, ottobre 1961, con uno scritto di Gloria Finn. 45 Giani 1962, p. 160. 46 Caputo 1959. 43 44 202 Manuel Barrese creati per la galleria, inoltre, erano esportati e venduti negli Stati Uniti tramite i grandi magazzini di lusso Nieman Marcus.47 Una vivace “officina” per il rilancio dell’artigianato fu, infine, la galleria Appia Antica48 (1957-1961) che, come sottolineato dai resoconti d’epoca, era frequentata abitualmente da avventori americani (tra gli altri Peggy Guggenheim).49 La galleria – autogestita e nata su iniziativa di un gruppo di artisti (Enrico Cervelli), amatori d’arte (Liana Sisti) e critici (Emilio Villa) – era dotata anche di un forno per la cottura della ceramica gestito da Paolo Casagrande e dalla moglie Brunella Chillotti. Specializzato nella produzione di mattonelle con motivi sia mediterranei sia astratti, Casagrande non solo rifornì le ville di molti acquirenti americani negli anni ’50 venuti ad abitare nei pressi della via Appia Antica50 ma fu responsabile anche delle maioliche utilizzate nel kolossal hollywoodiano La maja desnuda (1958). 47 48 49 50 Wohl 1957b. Barrese 2021. Wohl 1958. Devo queste informazioni a Elisabetta Casagrande che ringrazio. Poveri radicali: istanze comportamentali ed esperienze intermediali nel New Domestic Landscape italiano Francesco Spampinato Alma Mater Studiorum - Università degli Studi di Bologna S e la mostra Italy at Work (1950-1953) incarna i valori del Made in Italy e del lifestyle italiano all’alba del boom economico, Italy: The New Domestic Landscape curata da Emilio Ambasz al Museum of Modern Art (MoMA) di New York nel 1972 – che similmente celebra ed esporta il design industriale italiano contemporaneo negli Stati Uniti – ne rappresenta la contropartita. Questo emerge chiaramente dai contributi di figure associate al movimento neoavanguardistico e interdisciplinare dell’Architettura Radicale, che trova in Italia un centro propulsore e che la mostra del MoMA consolida. In particolare, questo saggio si concentra sui progetti di Superstudio, Ugo La Pietra e Gruppo Strum, emblematici di alcuni dei caratteri fondamentali dell’Architettura Radicale quali la dimensione collettiva e la natura antiautoritaria, in linea con la controcultura che si diffonde dalla fine degli anni ’60, nonché il rapporto ambiguo, in bilico tra fascinazione e scetticismo, nei confronti di media e tecnologia. La dimensione controculturale e politica della mostra è apertamente dichiarata da Ambasz nel testo introduttivo del catalogo: “Torn by the dilemma of having been trained as creators of objects, and yet being incapable of controlling either the significance or the ultimate uses of these objects, they find themselves unable to reconcile the conflicts between their social concerns and their professional practices”.1 Ambasz evidenzia qui come gli architetti e i designer italiani che emergono durante gli anni ’60, in modo evidente i radicali, vengano meno al ruolo tradizionale di progettisti al servizio di una cultura consumistica alienante e illiberale in cui non si riconoscono più. La concezione di Made in Italy che emerge dalla mostra riflette, infatti, un contesto politico e sociale in preda ad agitazioni, in cui il benessere diffuso prodotto dal miracolo 1 Ambasz 1972, p. 19. 204 Francesco Spampinato economico italiano viene visto come mera strategia di distrazione dai reali problemi del paese ed è, pertanto, osteggiato fermamente. Nel catalogo, tra i vari saggi, è presente anche quello di Germano Celant in cui il curatore conia il termine “Architettura Radicale”, definendola “an architecture that has no intention of being subservient to the client or becoming his tool; it offers nothing but its ideological and behavioral attitudes”.2 Numerosi sono i punti in comune con il movimento dell’Arte Povera, anche questo frutto di un’attenta operazione curatoriale di Celant di qualche anno prima, a partire dall’allineamento con i valori dei movimenti extra-parlamentari di sinistra come Potere Operaio (1967-1973), che negli stessi anni inneggiava a una lotta di classe condotta da un operaio di massa in risposta alle oppressive logiche fordiste della fabbrica. Nell’ambito dell’Arte Povera si vedano, ad esempio, le installazioni polimateriche di Mario Merz caratterizzate da scritte al neon come Sitin (1968), in cui i messaggi della controcultura trovano trasposizione e una nuova impostazione teorica. Alle questioni politiche si affiancano quelle mediali e tecnologiche. A differenza degli artisti dell’Arte Povera, i radicali vedono i dispositivi e modelli della cultura cibernetica come strumenti di emancipazione dell’individuo. Non a caso, Ambasz raccoglie questi progetti in una sezione della mostra intitolata Counterdesign as Postulation, evidenziandone così anche la dimensione futuribile oltre che antagonista nei confronti del design tradizionale. Risulta evidente qui l’eco della deriva tecnologica della controcultura che si diffonde in California negli stessi anni, di cui è emblematica la pubblicazione periodica “Whole Earth Catalog” (1968-1972) edita da Stewart Brand, un monumentale elenco di “tools” che promettono una società più egalitaria, positiva e sostenibile. Come numerose proposte del WEC, i radicali italiani anticipano quello che oggi chiamiamo design speculativo, ovvero un tipo di design che mira a fare domande, a ragionare sui significati della progettualità stessa e a proporre approcci alternativi agli strumenti della information age. Nella mostra del MoMA il gruppo fiorentino Superstudio presenta un’installazione e un film. L’installazione, che ha lo stesso titolo della mostra, Italy: The New Domestic Landscape, consiste in un microambiente realizzato per l’occasione. Si tratta del modello miniaturizzato di un ambiente reticolare all’interno di un cubo di 180 cm, con tre pareti interne ricoperte da specchi polarizzati a creare un’illusione di infinito. Sulla base in laminato plastico è riprodotta una griglia, segno distintivo del gruppo, su cui sono disposti elementi astratti, sia industriali che naturali, che riproducono un ambiente minimale. Ne deriva un ecosistema artificiale in cui si muovono esseri umani-immagine ottenuti applicando fotografie ritagliate su supporti bidimensionali. Nel cubo sono presenti anche una serie di tubi di plastica che sembrano connettere diverse componenti di questo 2 Celant 1972, p. 382. Poveri radicali: istanze comportamentali ed esperienze intermediali 205 ambiente, oltre che attivare uno schermo posizionato al posto del soffitto/cielo che trasmette un film di tre minuti in cui lo stesso modello è visto da diverse angolature. Nel catalogo, Superstudio spiega l’installazione in questi termini: In this exhibition, we present an alternative model for life on earth. We can imagine a network of energy and information extending to every properly inhabitable area. Life without work and a new ‘potentialized’ humanity are made possible by such a network. (In the model, this network is represented by a Cartesian “squared” surface, which is of course to be understood not only in the physical sense, but as a visual-verbal metaphor for an ordered and rational distribution of resources).3 Comprendiamo quindi che si tratta di un modello abitativo futuribile in cui l’essere umano è potenziato e libero dal lavoro, ma inevitabilmente anche alienato e omologato. La griglia, infatti, che ai nostri occhi incarna e profetizza le promesse di iperconnessione che diventeranno accessibili con il World Wide Web nei primi anni ’90, è fondata su un’idea di serialità potenzialmente infinita dello stesso modello. L’atteggiamento ambiguo nei confronti di un futuro tecnocratico, dove l’utopia cede il passo alla distopia, emerge con chiarezza dal secondo contributo del gruppo in mostra, un film in 35 mm della durata di 10 minuti intitolato Supersurface: An Alternative Model for Life on the Earth (1972). Il film – diretto da Superstudio, prodotto da Marchi Produzioni Cinetelevisive (che produceva soprattutto spot pubblicitari) e sponsorizzato dall’Anic (ENI) – fu poi ribattezzato Life e inteso come il primo di una serie di film sugli “Atti fondamentali” dell’esistenza umana: Vita, Educazione, Cerimonia, Amore e Morte; solo Vita e Cerimonia (1973) furono, però, realizzati. Supersurface, il cui tema è la vita umana, si apre con un battito cardiaco, seguito da spiegazioni sulla fisiologia del corpo umano, su come elabora le informazioni e si relaziona all’ambiente circostante. Per i primi 7 minuti consiste in una sequenza di immagini fisse che includono fotomontaggi del gruppo, ritagli da pubblicazioni e opere di artisti sentiti come affini come Buckminster Fuller, USCO e Gruppo 9999. Il testo è letto da una voce fuori campo dal tono impostato, tipico del documentario televisivo, il che ne rende il contenuto più accessibile. Insieme alle immagini, in particolar modo i fotomontaggi – presentati altre volte dal gruppo indipendentemente dal film e diventati molto noti negli anni –, il rimando è all’idea di Monumento Continuo (1968-1972) sviluppata dal gruppo attraverso svariati progetti; “supersuperficie” sembra solo un altro modo per chiamarlo. Gli fa eco un’affermazione di Alessandro Mendini da un altro dei testi in catalogo: “Design is a conflict whereby certain groups enact the drama of an irresponsible formation of 3 Superstudio 1972, p. 242. 206 Francesco Spampinato the world’s surfaces”.4 Il testo discute di come il “nomadismo diventi la condizione permanente” della società e di come, per riunirsi e comunicare, le comunità umane non abbiano bisogno di strutture tridimensionali (cioè di spazi architettonici) ma di una “rete di energia e di informazioni”. L’obiettivo finale è “l’eliminazione della città” come spazio che incarna ed è regolato da strutture di potere. In linea con il collettivo psichedelico statunitense USCO – un’opera del quale compare nel film (una sagoma umana con una luce pulsante al centro) –, Superstudio offre una perfetta metafora visiva del concetto di “villaggio globale” di Marshall McLuhan, secondo cui la tecnologia riporterebbe la società a una condizione tribale. La cultura elettronica è evocata attraverso immagini di circuiti integrati e pulsanti, in netto contrasto con scene di tribalizzazione come nel fotomontaggio Supersurface (The Camp), che mostra una famiglia hippie, nuda e felice, su un’oasi naturale di pochi metri quadrati aperta sulla supersuperficie. Il film si conclude con una scena filmata di due minuti, una pseudo-pubblicità che mostra una coppia passeggiare in campagna. Lei ascolta il suono di una conchiglia, mentre lui legge, mangiano frutta, si guardano negli occhi, quando d’un tratto, attirati da un bagliore, scoprono tra l’erba una piastra a specchio punteggiata da pinnacoli, che consente loro di stabilire una connessione estatica con la natura circostante. Il tema della relazione con lo spazio circostante è presente anche nelle opere di Ugo La Pietra. Nel corso degli anni ’60 La Pietra passa dalle ricerche pittoriche a quelle plastiche, ovvero alla realizzazione di una serie di modelli “tissurali” tridimensionali, di natura astratta, in cui sperimenta con forme di disturbo di pattern/codici. Attorno al 1967 realizza i suoi primi dispositivi relazionali che prevedono l’attivazione da parte degli spettatori, come per esempio i Caschi Sonori (1968) presentati alla Triennale di Milano, un ambiente audiovisivo in cui è possibile indossare dei caschi trasparenti all’interno dei quali si ascoltano suoni preregistrati. L’idea di questi lavori è di mettere in luce la condizione isolazionista che incomincia a configurarsi durante la information age e che impareremo a conoscere bene nei decenni successivi e che si naturalizza nella recente fase pandemica. Al contempo, come per Superstudio, propone un uso della tecnologia come strumento per travalicare le porte della percezione, per emanciparsi dal lavoro, dall’autorità, dal controllo. Per Italy: The New Domestic Landascape, La Pietra sviluppa Casa Telematica – Cellula Abitativa (1972), un progetto che indaga l’uso della telematica e dell’informatica nello spazio abitativo (fig. 1). Consiste in un’installazione e una serie di fotomontaggi che illustrano l’utilizzo di dispositivi tecnologici futuribili quali il Ciceronelettronico (fig. 2) e il Videocomunicatore. Il primo è una versione avanzata di un telefono, che consente di accumulare informazioni sonore dello spazio urbano e trasmetterle nell’ambiente domestico. Il secondo, invece, è una 4 Mendini 1972, p. 370. Poveri radicali: istanze comportamentali ed esperienze intermediali 207 1. Ugo La Pietra, Casa Telematica – Cellula Abitativa, allestimento dell’ambiente al MoMA di New York, nella mostra Italy: The New Domestic Landscape, 1972 2. Ugo La Pietra, Ciceronelettronico, strumento di accumulo di informazioni sonore dell’ambiente urbano con scambio all’interno dello spazio privato, 1972 specie di video-telefono, anche questo mirato a sviluppare nuove connessioni tra spazio pubblico (attraverso una cabina telefonica implementata con telecamera) e privato. I fotomontaggi che illustrano queste invenzioni, profetiche allora e considerabili quasi obsolete in questi nostri anni ’20 del XXI secolo, combinano 208 Francesco Spampinato fotografie dell’ambiente urbano milanese, dove La Pietra vive e lavora, con elementi grafici che visualizzano connessioni remote, comunicazioni informatizzate. Sebbene non esplicitamente riferite a La Pietra, le riflessioni che lo storico dell’arte Filiberto Menna propone nel suo saggio in catalogo offrono una perfetta chiave interpretativa di questo lavoro: The new philosophy of design […] wants to offer a possibility of overcoming the ironclad conditioned reflex that has been established between the quantitative spread of production and the atomization of consumption. […] it seeks to achieve eminently active participation of every individual through the creation of spaces endowed with strong mental, psychological, and sensory appeal.5 Con la sua forma triangolare, l’installazione immersiva Casa Telematica – Cellula Abitativa che La Pietra presenta in mostra ricorda una tenda dei nativi americani, ma dalla struttura rigida, più simile alla capsula di un’astronave. Come nei lavori di Superstudio, le meraviglie tecnologiche di cui è equipaggiata prefigurano distopie di alienante retribalizzazione in cambio di sogni di iperconnessione. I progetti di Superstudio e La Pietra sono certamente animati da una forma di tecnofilia ma di tipo diverso rispetto a quella che segna la cultura cibernetica degli anni ’50 e ’60 di cui era stata incarnazione la Olivetti, azienda rappresentativa del miracolo economico italiano e giustamente celebrata in Italy at Work e molte altre mostre internazionali.6 Secondo lo spirito della controcultura, questi giovani non rifiutano la tecnologia ma rivendicano il diritto a farla propria per fini diversi rispetto alla mera produzione industriale e conseguente automazione della società. La Pietra, infatti, dichiara: The desire to use the information and communications media, while keeping them “under control” (that is, never submitting to their presence either as ‘objects’ or as ‘instruments’): destroying their design and postulating their development only with respect to their technical, mechanical, and electronic characteristics; using them in a way that will overcome the ‘barrier’ that they create between us and reality.7 Il terzo caso studio scelto per questa disamina è quello del Gruppo Strum, collettivo torinese attivo dal 1966 e “guidato” da Piero Derossi il cui nome sta per “architettura strumentale”, allusione provocatoria al desiderio di mettere in discussione l’idea stessa di progettualità e funzionalità dell’architettura. Alla tradizionale idea dell’architettura come strumento nelle mani di un sistema di potere, il gruppo sostituisce una concezione dell’architettura come strumento rivoluzionario, come dimostra l’epocale convegno Utopia e/o Rivoluzione da loro organiz5 6 7 Menna 1972, p. 412. Su questo tema si veda il saggio di Fiorentino nel presente volume. La Pietra 1972, p. 228. Poveri radicali: istanze comportamentali ed esperienze intermediali 209 zato nel 1969 presso la Facoltà di Architettura del Politecnico di Torino, a cui parteciparono, tra gli altri, Yona Friedman, Paolo Soleri, Paul Virilio e i francesi Utopie. Anche il loro Pratone prodotto da Gufram nel 1971, icona istantanea del design Made in Italy, incarna uno spirito critico. Si tratta di un prato in stile cartoon, proposto come divano per un lifestyle giocoso ma conscio dei danni ambientali causati dei materiali plastici, non a caso caratteristici del design anni ’60. Il successo del Pratone è talmente dirompente che la sua immagine è riprodotta sulla copertina del catalogo della mostra del MoMA. Per l’occasione, il Gruppo Strum opta, però, per un progetto ancor più inclassificabile e radicale: Fotoromanzo (1972). Si tratta di una pubblicazione che simula l’estetica della rivista, in tre numeri, in bicromia, concepiti come fotoromanzi, pubblicati in inglese e distribuiti durante la mostra, per poi essere ristampati in italiano come inserti della rivista “Casabella”. Si tratta di storie immaginarie costruite attorno a figure tanto centrali quanto stereotipate del dibattito politico e sociale di quegli anni in Italia come il capitalista, il lavoratore, lo studente, l’attivista e l’architetto. Il primo numero, The Struggle for Housing, bianco, affronta il tema delle case popolari. Il secondo, Utopia, verde, incarna il pensiero utopico del movimento radicale e richiama i temi del convegno del Politecnico del 1969. Il terzo, The Mediatory City, rosa, esplora la dimensione partecipativa di progetti urbani di attivisti e architetti (fig. 3). Sebbene siano numerati in ordine progressivo, i tre fascicoli sono stampati contemporaneamente e diffusi in modalità gratuita, posizionati su tre carrelli da 3. Gruppo Strum, Fotoromanzo, veduta d’insieme dei tre numeri della pubblicazione, The Struggle for Housing, Utopia, The Mediatory City, ristampati in lingua italiana come inserti della rivista “Casabella”, 1972 210 Francesco Spampinato magazzino. Nelle fotografie che documentano l’installazione si vedono alcuni visitatori sfogliare compiaciuti copie di Fotoromanzo, inevitabilmente attratti dal linguaggio a loro familiare di una forma di intrattenimento di massa come appunto il fotoromanzo. Significativa è anche la scelta della bicromia, soprattutto se pensiamo che il terzo numero avrebbe dovuto essere rosso, così che la serie fosse una riproduzione della bandiera italiana. Il fatto che The Mediatory City sia rosa non indebolisce, però, l’attitudine politica del gruppo e l’allineamento con i movimenti della sinistra extra-parlamentare di quegli anni, in particolare Potere Operaio, anche data la peculiare posizione geografica, la Torino sede di una delle principali aziende italiane, FIAT, simbolo della rinascita economica del dopoguerra diventata terreno di conflitti legati al mondo del lavoro. I protagonisti di The Mediatory City che compaiono nelle fotografie in bianco e nero sono cittadini comuni che, coadiuvati dagli architetti, raggiungono una forma di agency, ovvero la consapevolezza di essere potenziali agenti di cambiamento sociale. Nel testo in catalogo il Gruppo afferma infatti: If someone has doubts about how to decorate his house, or wants to know if design is art, or more exactly, if Italian design is good, he will certainly find an answer in the information that we shall give him, though the answer will be indirect and will deal with broader and more involved topics than normally expected.8 Suggeriscono quindi che architettura e design hanno il compito di riguardare problemi culturali e sociali più ampi che non favorire la vita atomizzata che la cultura consumistica persegue con forza. Nelle vignette del fotoromanzo, il colore rosa evidenzia, invece, elementi progettuali e urbanistici come porte, piattaforme e un cartello scritto a mano su cui si legge: “Centro sociale, ambulatorio, centro commercio. Tante promesse, pochi fatti”. Il design, ancor meglio delle arti visive e performative, è stato un sismografo formidabile per comprendere le trasformazioni non solo culturali ma anche sociali e politiche che hanno portato l’Italia a essere prima una delle più grandi potenze economiche mondiali e, in breve, un centro di contestazione politica e lotta di classe. Attraverso i progetti di Superstudio, La Pietra e Gruppo Strum per Italy: The New Domestic Landscape, nonché le riflessioni degli stessi progettisti e di teorici quali Celant, Mendini e Menna proposte nel catalogo che accompagna la mostra, emerge quanto il design radicale italiano di fine ’60 e primi ’70 abbia prodotto una forma di re-immaginazione del tessuto sociale proprio in virtù del ribaltamento delle tradizionali finalità del design. Nel mettere in crisi la natura strumentale dell’architettura e lo statuto della loro stessa professione, questi giovani visionari hanno, inoltre, prefigurato scenari futuri sia sul piano dell’immaginario tecnologico che nei termini dell’empowerment che sono stati in grado di generare. 8 Gruppo Strum 1972, p. 254. Abstracts Dall’italianità al Made in Italy: aspetti di transizione nel primo dopoguerra Sandra Costa (Alma Mater Studiorum - Università degli Studi di Bologna) This contribution aims to analyze some of the political, cultural, and display choices that led the initiative of the Regia Nave Italia’s cruise to Latin America in 1924 to take on a cultural and ideological as well as commercial dimension, according to the complexity of objectives in which Fascism’s wishful thinking for a new identity and propaganda were combined with the valorization of regional artistic manufactures. For many of its options, this early postwar attempt to give birth to a modern integrated system for promoting the “Italian creative industries” can be considered an archetypal model for developing post-WWII Made in Italy. *** Alle radici del Made in Italy. La stampa patinata USA “crea” l’ Italian Design Renaissance del dopoguerra Giampiero Bosoni (Politecnico di Milano) Soon after WWII, high society magazines such as “Vogue,” “Harper’s Bazaar,” “House of Garden,” and “Interior” dedicated important reports to what they called a postwar Italian Renaissance. Noteworthy was the contribution of Irving Penn, a very young photographer destined to become one of the greatest masters of 20th-century photography. With the famous “Vogue” editor-in-chief Edmonde Charles-Roux, he made an in-depth trip to Italy, traveling from Milan to Rome and Naples. Moving from former research devoted to the Milan report, this essay aims to provide an additional overview of the Italian art and design scene, its stereotypes and contradictions, and being introduced to an American elite as a potential unexplored object of interest. 212 Abstracts *** Italia e Stati Uniti, 1948-1954: un percorso di opportunità Maria Cristina Tonelli (Politecnico di Milano) This essay outlines the relationship between the United States and Italy between 1948 and 1954, a crucial period for our country’s economic recovery. It outlines the credit of our artisan productions on the American market, supported by companies, magazines, buyers, and department stores, according to the policies of the ERP program, as well as the operations aimed at sponsoring industrial development in Italy, the guarantor of well-being and democracy, and the principles of industrial design. At the same time, it examines how this process is recorded in Italy. The old foreclosures towards the American world of some Italian players condition the information and understanding of the American updating efforts. In supporting only the level of taste that Italian objects presented, regardless of their production processes as determinants, Gio Ponti creates coordinates that had an important impact on manufacturing production and subsequent historical-critical positions. *** Olivettiani a Brooklyn Caterina Cristina Fiorentino (Università degli Studi della Campania “Luigi Vanvitelli”) The participation of Olivetti at the Italy at Work exhibition is the premise for a very concise narrative – outlined through the analysis of some documents held at the Associazione Archivio Storico Olivetti – about the relationship between Olivetti and the United States of America, which highlights two different historical moments and, therefore, two divergent ways in which the Ivrea-based company looked to the new world to spread and consolidate the presence of its products and style, first in Italy, Europe and South America and, then, through the transatlantic route on the American market. *** From the House of Italian Handicrafts to the Exhibition Italy at Work. Continuities and Discontinuities Among HDI, CADMA and CNA (1945-1953) Emanuela Ferretti*, Lorenzo Mingardi*, Davide Turrini** (Università degli Studi di Firenze*; Università degli Studi di Ferrara**) Based on unpublished archival sources at the Fondazione Ragghianti in Lucca and at the Art Institute of Chicago, this essay addresses the peculiar weaving of Abstracts 213 connections and programmatic differences between the first post-WWII institutions aimed at promoting Italian design and production culture in the American scenario (HDI and CADMA) and Italy at Work. To enhance the Italian link between original creativity and executive quality, Max Ascoli and Carlo Ludovico Ragghianti were at the center of the initiatives of HDI and CADMA, which acted as much in support of producers as in promoting the commercial proposition. The paper identifies how the idea of staging an exhibition such as Italy at Work was already in nuce within the HIH program and how a new organization in continuity with CADMA – the CNA – was formed in 1948, with the task of managing the large sums of money that the US government allocated to facilitate and promote Italian handicraft production. *** Molto più di una mostra d’arte Paola Cordera (Politecnico di Milano) Based on unpublished archival sources, this essay focuses on the traveling exhibition Italy at Work, its organization, its display, and its contribution to promoting new Italian craftsmanship and design in postwar America. It considers the event within a broad-based agenda, showing how the exhibition’s early staging plans embraced cultural and economic issues. It unveils early agreements with Manhattan museums that were never fulfilled and how the twelve museums hosting the show shared layout and display strategies. Finally, it assesses the exhibition’s epilogue, highlighting the Italian government’s efforts to allocate the unsold articles and their afterlife in US museums and shows. *** Made in Italy and Made for America: Craft in Italy at Work Catharine Rossi (University for the Creative Arts, Canterbury) This paper is premised on the significant but overlooked role played by craft in post-WWII Italian design, including in the nation’s years of ricostruzione in the late 1940s and early 1950s. It focuses on how craft was mobilized in the display and retail of Italy’s craft industries in order to attract North American consumers, who were seen as vital to the nation’s economic growth, by looking both at Italy at Work and the accompanying 1951 retail campaign Italy-in-Macy’s. It identifies and explores this in three key ways: first, Italy at Work’s craft focus in general; second, the exhibition’s idealization of a particular concept of craft; and third, the design of craft objects for display and sale in Italy at Work and Italy-in-Macy’s. 214 Abstracts *** Just What Is It That Makes Italian Ceramics So Appealing? Lisa Hockemeyer (Kingston University, London and Politecnico di Milano) This essay reflects on the intentions that account for the vast inclusion of Italian ceramic manufacture in the Italy at Work exhibition in relation to the scopes and aims of this show and in the wider context of efforts to revive Italy’s handicraft industries post WWII. It reviews the criteria and selection process applied to this sector as well as the qualities the singular objects were chosen for and the ideals they disseminated about Italian manufacture in general. Finally, it will consider the role their display played towards the promotion and commercialization of the same in America as well as the generation of an image package that united Italy’s’ tradition of art and culture with a new, freer a less hierarchical approach towards life and lifestyle. *** Una “sala da pranzo che è più da guardare che da usare” Elena Dellapiana (Politecnico di Torino) The synthesis made in the Dining Room by Gio Ponti, presented in the various steps of the exhibition in a sort of life-size showcase, is an explicit attempt to show the “Italian imagination and artistic production in the numerous fields”. Wood, marble, glass, but above all ceramics in all its declinations and in a logic of surprising transformability – like Mollino’s essay next to it – allow Ponti to further amplify the mission of promoting creativity in Italy by accentuating the encounter between design, art, and craftsmanship as a magic formula for revitalization and international launching. The pieces on display in the exhibition are the pretext to disseminate and promote the works of ceramic artists, to emphasize regional schools, and self-present themselves to the international public as a “Universal man”. The success of the Italian product and Ponti, in particular, has since been linked to the magic words: Renaissance and craftsmanship. *** Prima della couture: la promozione della moda italiana in Italy at Work Chiara Faggella (Lund University) This essay intersects the historical events related to the first Italian fashion show organized by Giovanni Battista Giorgini in 1951 and the Italy at Work exhibi- Abstracts 215 tion. It first discusses the discourses circulating in the US press by the late 1940s describing the nascent Italian style. It then moves on to compare how those accounts reflected the promotion of the fashionable textiles and accessories included in Italy at Work. The final section outlines how an attempt to hold a Made in Italy high fashion show at the Brooklyn Museum to celebrate the first leg of Italy at Work contributed to the foundation of the Florentine fashion shows at Palazzo Pitti, thanks to a fortunate meeting between Meyric R. Rogers and Giovanni Battista Giorgini. *** Artists at Work: la messa in scena dell’arte italiana in America, 1947-1950 Stefano Setti (Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano) The traveling exhibition Italy at Work presented the works of Italian artists such as Consagra, Fontana, Melotti, Leoncillo, and Fabbri, together with lesser-known craftsmen, associated with the use of specific materials. This choice reflected the exhibition’s topic, which focused on productive aspects, and the American perspective, emphasizing the humble roots of the Italian artistic culture in the 1950s. Through a broad analysis, this essay evaluates the presence and the role of some Italian painters and sculptors in selected overseas exhibitions dedicated to the applied arts. The goal is to understand the critical methodologies adopted to frame their works on the edge of that fine line between arts and craftsmanship within a calculated promotion system. *** Ceramiche per ricostruire l’Italia: Lucio Fontana nelle mostre americane del dopoguerra Raffaele Bedarida (The Cooper Union for the Advancement of Science and Art, New York) Fontana, a poster child of Italy’s post-WWII rebirth, exhibited ceramics in the two main shows of contemporary Italian art and design in the US: Twentieth-Century Italian Art (1949) and Italy at Work (1950-1953). This study situates his choice within the Reconstruction rhetoric, which saw ceramics as the humble and dignified work of an ingenious Italy, and which found in the US a privileged interlocutor: as a legitimacy source and a potential market, but also as the dominant model of modernity against which Italians defined themselves. If the intent was to distance themselves from Fascist grandeur and reassure Americans that Italian craft would not compete with US industrial design, Fontana’s case reveals disturbing lines of continuity with that past and a polemical attitude towards the US. 216 Abstracts *** A New Italian Renaissance? Il contributo di Corrado Cagli ad una nuova retorica Fabio Marino (Politecnico di Milano) Italy at Work was an extraordinary occasion to promote Italian arts. Focusing on this topic also helps to broaden the gaze on cultural mediators’ role. The painter Corrado Cagli was a key figure who distinguished himself for his diligent activity of cultural promotion of the Italian arts during his American period (1938-1947). He identified and intercepted a resurgent phenomenon of mutual interest between Italy and the United States early. He also designed the exhibition cover catalog, which originated the myth of a New Italian Renaissance. Cagli explained his perplexities about this phenomenon affecting the art market and the nascent industrial design. *** Tra arte e industria. Il percorso di Giorgio Cipriani Stella Cattaneo (Università di Genova) Giorgio Cipriani (1921-1994) exhibits at Italy at Work with a selection of ceramic plates made at Ceramiche Zaccagnini in Florence. Cipriani is a forgotten figure who has only recently been rediscovered, gaining public attention thanks to exhibitions devoted to his work and ceramics. This contribution retraces his career through his records archived in Taverne d’Arbia (Siena). Whilst the particular focus is being given to his ceramic manufacture, this paper will also allow an insight into other application and production areas that recall his collaboration with major international companies. *** Paolo De Poli e l’America: 1947-1967. Gli smalti verso il “nuovo mondo” Ali Filippini (Politecnico di Torino) This paper investigates the participation in Italy at Work of copper enamel artist and craftsman Paolo De Poli. De Poli’s contacts with the United States began in 1946 when he joined CADMA and exported his objects for HDI to later join CNA. Also documented are his relations with APEM, a company set up to export handicraft products of the La Rinascente department store, and related to HDI’s activities. At Italy at Work, De Poli participated with about seventy pieces: the decoration for a fireplace, two small tables designed by Gio Ponti, and about a hundred small objects for museum merchandising. His notoriety in America would grow in the following years, and in 1964 he was invited to the first International Craftsmen’s Abstracts 217 Congress at the World Crafts Council in New York, where he would be celebrated in 1967 with a solo exhibition at the Museum of Contemporary Craft. *** Le sedie Campanino di Chiavari. Un prodotto artigianale tra ribalta internazionale e tradizione Rita Capurro (Università degli Studi di Milano-Bicocca) The excellence of wood craftsmanship in Chiavari (Genoa) is part of a local economic system documented since the end of the 18th century. Among the craftsmanship products, the chair known as the Chiavarina or Campanino stands out. It was created in 1807 and has had alternating fortunes. After World War II, the Chiavari chair gained notoriety by inspiring Gio Ponti’s Superleggera. Still, it also circulated as a handcrafted product on the American market, thanks to initiatives promoting Italian design and craftsmanship. This essay highlights persistent features in Chiavari’s chair production and its changes concerning the market, industrial production, and materials from the post-WWII period to the present. *** Antonia Campi a Italy at Work Anty Pansera (DcomeDesign and MIDeC, Museo Internazionale del design ceramico di Laveno) The participation of Antonia Campi in Italy at Work has been preceded by her success at SCI (Società Ceramica Italiana) in Laveno, where she started working in 1948 as a decorator. Recognizing her talent and capacities, art director Guido Andloviz soon involved Campi in the company’s “art department” she was heading as art director until 1978. In 1950, she was noticed by Gio Ponti, who reviewed her works in “Domus.” Campi’s contemporary correspondence with the CNA Vice-president Ramy Alexander attests to her involvement in the American exhibition and her efforts to present further works besides the selected piece. *** Arte, design e industria: Fede Cheti e il riconoscimento internazionale dei Tessuti d’Arte nel dopoguerra Chiara Lecce (Politecnico di Milano) The history of the textile and carpet company Fede Cheti, and its namesake founder, intersects some of the most significant passages in the Italian history of applied 218 Abstracts arts and design during the second half of the 20th century. Her close bond with Gio Ponti and a large group of intellectuals, entrepreneurs, and artists on the international scene led her to be part of the important exhibition Italy at Work, which represented a crucial moment of contact between the Italian and American markets after WWII. This essay aims to reconstruct the experience of Fede Cheti in the postwar years in connection to the exhibition, remarking on the international impact of the Italian textile industry, joining one of its peaks in its history. *** Il ruolo femminile del tessile italiano nella mostra Italy at Work. Gegia Bronzini nel contesto italiano e internazionale Michela Bassanelli (Politecnico di Milano) This essay traces the seminal events of Gegia Bronzini, one of Italy’s greatest textile art exponents of the 20th century. It aims to identify her participation in Italian exhibitions and collaborations, highlighting her relationships with eminent contemporaries such as Gio Ponti and Fede Cheti. Special attention will be paid to the exhibition Italy at Work as an early showcase of her production in an intercontinental context, subsequently influencing Gegia Bronzini’s entry into an international arena through magazines, further exhibitions, and interior projects. After her death in 1976, her daughter Marisa continued her activity until 2007, following Gegia’s original spirit and philosophy. *** “Almost impossible to reproduce”: alla scoperta di Luciana Aloisi De Reutern, designer di bijoux Silvia Vacirca (Sapienza Università di Roma) The discourse of Made in Italy has always been associated with fashion and design, less with the “bijoux”. According to traditional cultural hierarchies in the fashion field, accessories are peripheral, quite literally, and marginal in forging the dominant definition of fashion, which would be embodied in dress, especially French haute couture dress. This paper aims at challenging both the idea of fashion as focused on clothing and curator M.R. Rogers’ view, according to whom the ability of the Italian bijou designer “is at its base less a matter of cultivated taste than the result of a strong emotional response to an instinctive appreciation of the sensual appeal of these factors”. To challenge those views, this paper will use primary and secondary sources to draw the less-known personal life trajectory and artistic work of Luciana Aloisi De Reutern, a writer and bijou designer. Abstracts 219 *** Fashion in the Art Museum: A Case Study of Salvatore Ferragamo Shoes Marcella Martin (New York University) Through a case study of nine pairs of Salvatore Ferragamo shoes, this paper asserts that the exhibition Italy at Work successfully argued for the dissolution of hierarchies in the arts by promoting the artistic value and virtuosity of the craft, design, and fashion objects it put on display in art museums across the United States. As a consequence, this exhibition and others like it contributed both materially and theoretically to the development of historic costume collections within the rarefied space of the art museum. Through an analysis of museum archives, exhibition catalogs, and the fashion press, this paper argues that the example of Ferragamo shoes sheds light on the twin experience of Italian design in the postwar period, on the one hand commercially successful and on the other, a testament to an expanding landscape of art objects in the museum. *** Il dialogo Roma-Stati Uniti per la promozione dell’artigianato artistico italiano. Da Italy at Work ai circuiti delle gallerie private (1949-1961) Manuel Barrese (Sapienza Università di Roma) The essay focuses on the stylistic-productive characteristics of Roman craftsmanship in the 1950s. It outlines the network of galleries in Rome, which, from a pro-American political-diplomatic perspective, promoted Italian applied arts through exhibitions organized in their own premises or in US branches. These include the Galleria L’Obelisco, run by Irene Brin and Gaspero del Corso, the Galleria Sagittarius managed by Stefanella Barberini Colonna di Sciarra and the sculptor Renato Signorini, the Galleria 88, directed by Charles B. Moses and the Galleria Appia Antica. *** Poveri radicali: istanze comportamentali ed esperienze intermediali nel New Domestic Landscape italiano Francesco Spampinato (Alma Mater Studiorum - Università degli Studi di Bologna) The paper explores some behavioral instances and intermedia practices featured in the 1972 exhibition Italy: The New Domestic Landscape curated by Emilio Ambasz at MoMA in New York. Starting from Superstudio, Ugo La Pietra, and 220 Abstracts Gruppo Strum projects presented on that occasion, the paper highlights various key features of the new avant-garde and interdisciplinary movement known as Radical Architecture. It underlines the collective dimension and anti-authoritarian nature of such radical designers – in line with the Counterculture that spread since the late 1960s – as well as their ambiguous relationship, between fascination and skepticism, towards media and technology. This represents the counterpart of the economic boom, in line with a new, conceptual, and more political idea of Made in Italy that emerged at that time. Bibliografia A Portfolio from Italy collected by Roberto Mango 1952: A Portfolio from Italy collected by Roberto Mango, in “Interiors”, December 1952, vol. CXII, n. 5, pp. 74-101. Adamson 2007: Adamson G., Craft and the Romance of the Studio, in “American art”, 2007, vol. 21, n. 1, pp. 14-18. Adamson 2013: Adamson G., The Invention of Craft, London, Bloomsbury Visual Arts, 2013. Adamson, Cooke, Harrod 2008: Adamson G., Cooke E., Harrod T., Editorial Introduction, in “The Journal of Modern Craft”, 2008, n. 1, pp. 5-11. 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Catalogo ragionato dell’archivio 1922-1978 CSAC/Università di Parma, Cinisello Balsamo, Silvana Editoriale, 2017. 238 Bibliografia Zetti Ugolotti 1982: Zetti Ugolotti B., L’artigianato del golfo del Tigullio, in “Artigianato”, supplemento, 1982, n. 115. Zorzi 1981: Zorzi R., Istantanea di Adriano Olivetti, in “Belfagor”, 1981, vol. 36, n. 3, pp. 356-364. Indice dei nomi Aalto, Alvar 23n, 231 Abraham & Strauss (azienda) 69 Adamson, Glenn 61n, 63, 221 Alberio, Salvatore 170-171 Albers, Anni 165, 168 Albini, Franco 16, 23, 42, 48, 80, 143, 158n, 159n Alexander, Ramy XVI, XIX, 41-42, 45, 54n, 62, 70, 77, 81n, 87, 135, 136, 153-154, 196, 217 Alinari (azienda) 129n Aloi, Roberto 133n Aloisi De Reutern, Luciana VII, XXII, 87, 175182, 234 Aloisi, Pompeo 176 Altamira (azienda) 82, 83, 137n, 138, 145 Altara, Edina XVI, XIX, 80, 82, 159 Ambasz, Emilio XXIII, 203-204, 219, 221, 224, 228-230, 236 Amerian, Stephanie XIX, 25n, 30, 60n, 65n, 66n, 221 Andloviz, Guido 151, 155, 217 Ansaldo (azienda) 5 Antico, Alberto 62 Arden, Elizabeth 199 Argan, Giulio Carlo 122n Arte Artigianato Tessile (azienda) 172n Arteluce (azienda) 160n Ascoli, Max 16, 22, 39-42, 45, 59, 70, 99, 100n, 105, 119, 120n, 213, 226 Asnago, Mario 42 Astro (azienda) 127 B. Altman (azienda) 90-92 Bachrach, Clarence G. Mrs. (Grace Baer) 188n Baldessarri, Luciano 155 Balenciaga (azienda) 93 Ballardini, Gaetano 43n, 44n, 153, 222 Balmain (azienda) 93 Banfi, Gianluigi 16 Barbasetti di Prun, Carlo 87 Barberini Colonna di Sciarra, Stefanella (si veda Colonna di Sciarra (dei principi), Stefanella) 178, 199, 219 Barbieri, Francesco 197 Bardi, Pier Maria 121 Bardini, Mario 112 Barettoni 81 Barisone, Silvia 162n Barr jr., Alfred Hamilton 111, 117n, 122, 223 Barthes, Roland 181, 212 Basaldella, Afro 46, 100, 103, 115, 196 Basaldella, Mirko 16, 46, 99-100, 102, 111n, 138, 177, 196 Battini, Antonia 172n Bauer, Riccardo 41-42 BBPR (studio di architettura) 16 Beck, Natalie 199 Bedarida, Raffaele 121, 212, 223, 235 Bega, Melchiorre 83, 138n Belli, Piero 4n, 5, 6n, 222-223 Bellini, Emilia 81, 172n Bellotti (azienda) 131 Bellows, George 13 Benetton, Antonio (detto Toni) 139n Benjamin, Walter 58, 213 Bennett, Isadora 50n, 51n, 52n, 53n Benzi, Fabio 118n, 223 Bérard, Christian 12-13 Berardi, Pier Niccolò 198 Beretta (azienda) 5 Bergdorf Goodman (azienda) 179 Berlanda, Franco 80 Bernardi, Enrico 62-63, 236 Bernat Klein (azienda) 131 Berstein Loucheim, Aline 123n Bertozzi (azienda) 48 Bettini, Raffaello 48, 144 Bevilacqua (azienda) 87 Biancini, Angelo 153 Bianconi, Fulvio XIV Bigelow-Sanford Carpet Company New York (azienda) 130 Bighi, Dante 126 Birolli, Renato 163 240 Indice dei nomi Bistolfi, Leonardo 9n Blaszczyk, Regina Lee 63-64, 223, 235 Blum, Edward C. 187 Blunt, Cecil 120n Bo Bardi, Lina 169 Bois, Yve-Alain 107, 108n, 109, 223 Boldini, Giovanni 198 Boldoni, Enrico 46n Bonner, Paul Hyde 51n Bonwit Teller (azienda) 179 Boothe Luce, Clare 200 Bordoni, Enrico 99, 159n Borromeo, (principessa) Marozia 177 Borsalino (azienda) 16 Borsani, Osvaldo 170 Bottoni, Piero 127, 159n Bramante, Donato 8 Brand, Stewart 204 Brandi, Cesare 122n Branzi, Silvio 129n Brewster, Owen 72 Brin, Irene 178-179, 196, 198, 219, 223, 235 Brodovitch, Alexey 13-14, 16, 232 Broggini, Luigi 46, 111n, 154 Brogi (azienda) 129n Bronzini, Gegia VII, XV, XXII, 164-165, 167-174, 218, 233-234, 245 Bronzini, Marisa XXII, 167-168, 174, 233-234 Bronzini, Michela 167-168 Buckminster Fuller, Richard 205 Buonarroti, Michelangelo 17, 101, 111 Burri, Alberto 115 Burzio, Domenico 31 Busiri Vici, Andrea 197, 223 Busiri Vici, Assia 197 Butler, Judith 112n C.A.C.F. (azienda) 72 Caccia Dominioni, Luigi 48 Cagli, Corrado VI, XXII, 108, 117-123, 194, 216, 222-225 Campari (azienda) 5 Campi, Antonia VII, XV, XXII, 48, 103, 151-156, 217, 232 Campigli, Massimo 46, 100, 114, 164, 197 Camus, Renato 158 Canciano (azienda) 147 Canella, Luciano 16 Cantagalli, Giuseppe 5 Capellaro, Natale 34 Capogrossi, Giuseppe 102, 127, 163, 196 Cappelletti, Fulvio 170-171 Cappellin (azienda) 7n Caracciolo-Ginetti (dei principi), Giovanna 178 Carboni, Erberto 65 Cardin, Pierre 179 Carocci, Alberto 42 Carocci, Eva 87 Carrà, Carlo 44, 102, 197 Carus, Nino 139n Casa e Giardino (azienda) 56 Casagrande, Elisabetta 202 Casagrande, Paolo 202 Casale, Emilio 134n Cascella, Andrea 46, 74, 100, 103, 195, 197 Cascella, Pietro 46, 100, 103, 195, 197 Case, Margaret 15 Casorati, Felice 46n, 100, 127 Cassandre (Mouron, Adolphe Jean Marie) 14n Cassina (azienda) 82, 147 Celant, Germano 204, 210, 224 Cellini, Benvenuto 71, 74, 199, 226 Cerrato, Victor 62-63 Cervelli, Enrico 202 Cesarini Sforza, Anna Maria 103, 195 Chanel, Coco 176-177, 181, 198 Charles-Roux, Edmonde 11-13, 15-16, 18, 211, 228 Cherchi, Sandro 46n, 111n Chessa, Paolo 23, 218 Cheti, Federica (detta Fede) VII, XXII, 127, 130, 133n, 157-166, 169-170, 172, 217-218, 221, 225, 227, 229, 232 Chiappe, Guido 143-144, 147 Chiesa, Giordano 80, 82 Chiesa, Pietro 159n Chillotti, Brunella 202 Ciardi, Beppe 9n Cicognani Kalla (studio di architettura) 173 Cipriani, Giorgio VI, XV, XXII, 125-131, 216, 223-224, 245 Clausetti, Paolo 158n Clerici, Fabrizio 46-47, 53, 57, 62, 159n, 161, 197-198, 225, 232 Coca Cola (azienda) 34 Collobi Ragghianti, Licia 146 Colonna dei duchi di Cesarò, Simonetta (si veda Visconti, Simonetta) 178-179 Colonna di Sciarra (dei principi), Stefanella (si veda Barberini Colonna di Sciarra, Stefanella) 178, 199, 219 Columbus, Christopher 65 Condé Nast (azienda) 15-16, 86 Consagra, Pietro 46n, 97, 99-104, 215, 225 Container Corporation of America (azienda) 80 Cooperativa degli Artieri dell’Alabastro di Volterra (azienda) 48 Cosenza, Luigi 47, 53, 114, 237 Covey, Victor 53n Cowles, Fleur 196 Crippa, Roberto 163 Crispolti, Enrico 107n, 109, 110n, 112n, 118n, 195, 223, 225 Cristalleria Murano 5 Cristiani, Decio 200 Cristiani, Ida 200 Culin, Stewart 187 Indice dei nomi D’Annunzio, Gabriele 3 d’Harnoncourt, René 39 Da Vinci, Leonardo 17, 101, 111, 129 Dalì, Salvador 13n, 14n, 198 De Antonis, Pasquale 176n de Brunhoff, Michel 13 De Carli, Carlo 160n de Chirico, Giorgio 14, 63, 102, 164, 179, 197, 233 De Gasperi, Alcide 45n de Lempicka, Tamara 198 De Libero, Libero 120, 196 De Lord Rinaldi, Mariuccia 48 de Maria, Mario 9n de Pisis, Filippo 44, 46, 99-100, 164 De Poli, Paolo VI, XV, XXII, 62, 81, 83, 133-140, 212, 216, 222, 227, 235 De Reutern, Max 176 de Sandre Iolanda 87 De Sica, Vittorio 15, 123n del Corso, Gaspero 196, 219, 235 Del Monte, Enrico 143-144 Dell’Oro, Giuseppe 135 Della Robbia (bottega) 5, 98, 102, 227 Della Robbia, Giovanni 98 DeMetz, Giovanni 66 Denning & Fourcade (azienda) 165 Derossi, Piero 208 Descalzi, Giuseppe Gaetano (detto il Campanino) 142, 229 Dessalles Angelini-Rota, (contessa) Barbara 178 Dettori, Quirica 172n Dewey, John 55 di San Clemente, Simone 130 di Verdura, Fulco 198, 213 Dinsmore, Gertrude A. 71, 81n Dior, Christian 13n, 93, 179 Dova, Gianni 163-164 Draper, Ruth 39 Dufy, Raoul 164 Dunn, James Clement 45n Eakins, Thomas 13 Edelstein, Pablo 111n, 112 Elisabeth Arden 199 Eluard, Paul 13 Eyrard, Simone 13 Fabbri, Agenore 46n, 74, 97, 99, 103-104, 215 Fabian, Johannes 61, 216 Falba Fabrics (azienda) 165 Fancello, Salvatore 103, 114 Fantoni, Marcello XVI, XIX, 57, 81 Farneti, Deanna 179 Feltrini, Federico 139n Ferragamo, Salvatore VII, XXIII-XXIV, 48, 88, 131, 144, 185-192, 219, 222, 225 Ferrari (azienda) 170 FIAT (azienda) 6, 210 Figini, Luigi 31 241 Finn, Gloria 201 Fiorio (azienda) 131 Foà, Bruno 39, 45n Fochessati, Matteo 162 Folon, Jean Michel 34 Fontana, Lucio VI, 44, 46, 48, 74, 81, 97, 99-100, 102-104, 107-115, 125, 154-156, 163-164, 166, 212-215, 217-218, 220, 222-225, 227229, 231, 233-234, 237 Fontana, sorelle (azienda) 81 Fornasetti, Piero XVI, XIX, XXIV, 46, 49n, 80-82, 126, 130, 227, 230, 245 Fortuny, Mariano 5, 7n, 22n, 131, 230 Franke, Anne 165 Franke, Grete 165 Frassineto (contessa di), Maria Antonietta (detta Marinetta) 198 Fratino, Luigi 80 Frattegiani, Edoardo 56, 88 Frette & C. (azienda) 130 Freudenthal, David 45n Freyrie, Enrico 80, 159, 217 Friedman, Yona 209 Galassi, Enrico 16-18, 46, 102-103, 197, 224 Gallenga, Mario 130 Gallotti, Maria Chiara 88, 180 Gambone, Guido XIV, 62, 74, 81, 105, 109 Gantman, Frances 188n Garbo, Greta 185 Gardella, Ignazio 16, 23n, 42, 46, 48, 146, 158n, 160n, 161 Gaston, Herbert 45n Gentilini, Franco 100 Gerli, Paolino 39 Gilbert Blackman, Rose 165 Gimbel Brothers (azienda) 131, 137 Giorgini, Giovanni Battista XV, 25, 64, 85, 90-93, 179n, 199, 214-215, 226 Giovannelli (dei principi), Aurora 178 Giovannelli, Lola 199 Giurati, Giovanni 4 Giusti, George 118-119 Gotha s.r.l. (azienda) 131 Gozzini, Luigi 67-68, 76n, 228 Grampa, Luigi 164 Gregorini, Renato 46n Grib, Barbara Anne 173 Grisotti, Marcello 155 Gruau, René 164n Gruppo 9999 205 Gruppo Strum 202, 208-210, 220, 228 Gucci (azienda) 88 Gueft, Olga 26 Guerrini, Lorenzo 46 Gugel, Fabius 197 Guggenheim, Peggy XV, 107n, 165, 202 Gusso, Francesco 7n Guttuso, Renato 44, 46n, 99-100, 102, 164, 196 242 Indice dei nomi Hagmayer, Albert C. 22 Harrods (azienda) 131, 179 Hepburn, Audrey 200 Hickey, Gloria 65, 228 Hoepli (azienda) 10 Homer, Winslow 188n Horst, P. Horst (Paul Albert Bohrmann) 14n Huxtable, Ada Louise 26 Iesurum (azienda) 7n Innocenti 52, 57 Itel, Bruce 188n Ivancich, Emma 87 J.C. Company (azienda) 23 J.H. Thorpe & Co. Inc. (azienda) 165 James, Charles 187 Jan, Whigham 201 John B. Salterini Co. (azienda) 23 Johnson, Buffie 165 Johnson, Philip C. 138 Jsa (azienda) 130, 164, 173, 228 Jung, Dora 165 Kahn Textiles Ltd (azienda) 131 Karttunen, Laila 165 Kaufmann jr., Edgard 16n, 25, 229 Keillor, James A. 91-92 King, Harry 81 Knoll (azienda) 23, 138n, 228 Kowaliska Wegner, Irene 62, 87, 164, 172n, 195 La Pietra, Ugo 203, 206-208, 210, 219, 229 La Rinascente (azienda) 26, 81, 134, 136, 170, 216 Labò, Mario 42, 141, 229 Lapini, Ermenegildo 128n Lassaw, Ibram 138 Laterza (azienda) 9 Latis, Gustavo 16 Latis, Vito 16 Lazzari, Bice 163, 164 Le Corbusier (Charles-Édouard Jeanneret) 108 Lea & Son Furnishing Fabrics (azienda) 130 Ledi Malcom 55n Ledi Miriam 55n Léger, Fernand 138 Lelong 93 Leonardi, Leoncillo 16, 46, 48, 74, 97, 99-100, 102-104, 111n, 125, 196, 215 Levaggi (azienda) 148 Levi (azienda) 138 Levi, Carlo 46n Levi, Lyda 151 Levi Martinoli, Gino 31 Levi Montalcini, Paola 46n Lewisohn, Irene 187 Liberman, Alex 12, 14-15 Lichtenstein, Roy XI Lightolier (azienda) 22n, 23, 128n, 224, 229 Linificio & Canipificio Nazionale (azienda) 48, 172n Linz Brothers (azienda) 200 Lionni, Leo 118 Lisio (azienda) 170 Lodomez, Vera 177, 234 Lombardi, Vera 17 Lombardo, Ivan Matteo 42, 45n, 50, 77, 78 Longhi, Silvio 170-171 Lord and Taylor (azienda) 69 Lucci, Carlo 170 Luce, Henry Robinson 200 Lumini (azienda) 127 Lurçat, Jean 14n Macherini, Marcello 133n, 137n Macy’s (azienda) XXI, 25, 29, 58n, 59-60, 63-66, 213, 229-230 Maison Zimmer & Rodhe 130 Mancini, Antonio 9n, 198 Mannes, Marya 16-18, 22n, 23n, 49, 75, 86, 101, 144n, 197n, 230 Manzù, Giacomo 15, 46, 99-100, 102 Marandino, Dianora 87 Marchi Produzioni Cinetelevisive (azienda) 205 Marini, Marino 15, 46, 99-100, 102, 111, 115 Marshall Field (azienda) 137 Marshall McLuhan, Herbert 206 Marshall, George Catlett XVIII, 19, 65 Martini, Arturo 15, 102, 126 Martini, Fosco 66 Masenza, Mario 196 Mazza, Renato 58 Mazzoleni, Giuseppe 158n Mazzotti (azienda) 112, 125 McIntyre, James 200 Medici (famiglia) 98, 100 Melandri, Pietro XVI, XIX, 72, 81-83 Meli, Salvatore 196 Melotti, Fausto 46n, 48, 74, 80, 97, 99, 103-104, 111n, 164 Mendini, Alessandro 205, 206n, 210, 230 Menghi, Roberto 47, 53, 57, 160n Menna, Filiberto 208, 210, 230 Merz, Mario 204 Messina, Francesco 152, 156 Michaels, Lance 188n Michelucci, Giovanni 42, 46 Migliaccio, Angelina 144 Milani, Milena 126 Miller, Lee 12 Miller, Richard 62 Miniati, Arnaldo 127, 128 Minoletti, Giulio 156, 158n, 159n MITA (azienda) XV, 56, 80, 151, 162, 164, 172n, 230 Mollino, Carlo XIV, XV, 23n, 42, 47-49, 53-54, 78, 159n, 160, 214, 245 Mondadori (azienda) 9 Montici (azienda) 57 Morandi, Giorgio 44, 46 Morton Sundour Fabrics Ltd (azienda) 131 Indice dei nomi Moses, Charles Bernard 201, 219 Moses, Elisabeth 74-75, 231 Mucchi, Gabriele 158n Munari, Bruno 26, 46, 100, 163-164, 170, 231, 233 Murphy, Michelle 52, 92, 187 Mussolini, Benito 3, 8, 12, 110, 115, 122, 175, 180, 227-228 Myricae (azienda) 87, 162, 173, 180 Nagel jr., Charles 45, 51n, 55n, 62, 64n, 70, 77, 90-92, 104, 135-136 Neiman Marcus (azienda) 137, 187, 190 Nelson, George 19, 159, 227, 231 Neuhaus, Robert 121 Nivola, Costantino 45, 48, 102 Nizzoli, Marcello 34 Noguchi, Isamu 14n Ojetti, Ugo 5, 6n, 10n, 231-232 Olivetti (azienda) XV, XXI, XXIV, 5, 26, 29-36, 52, 57, 60, 208, 212, 224, 232, 235, 245 Olivetti, Adriano 30, 35-36, 238 Olivetti, Camillo 30-31 Osborn Webb Vanderbilt, Aileen 139n Ostuni, Giuseppe 24n Paepcke, Victor 80 Pagani, Carlo 136 Pagano, Giuseppe 80, 222 Palanti, Giancarlo 158n Pallavicini, Federico 177 Pannaggi, Ivo 16n Paoli, Emilio 88, 144 Papi, Anna Maria 128, 131 Papi Cipriani, Dominique 126 Paquin, Jeanne 176 Parini, Andrea XVI, XIX, 80-81 Parisi, Ico 138, 159n, 170-171 Parisi, Luisa 159n, 170 Parzinger, Tommi 23 Pasqualini e Vienna (azienda) 7n Patterson, Ben 126 Pecci Blunt, Anna Laetitia (detta Mimì) 120 Pecorini, Guglielmo 22, 62, 144 Penn, Irving XX, 11-19, 160, 211, 223, 228, 232 Pepall, Rosalind XIX, 232 Perfetti, Giorgio 196 Pernigotti (azienda) 127 Perugina (azienda) 6 Peynet, Raymond 164 Picasso, Pablo 24, 34, 153, 233 Piletti, Antero 199 Pincherle, Adriana 46n Pineider (azienda) 129n Pittoni, Anita 46n, 219 Pizzinato, Armando 46n Pleasant, Richard XV, 50n, 51n, 52n, 53n, 87 Podestà (azienda) 148 Pollini, Gino 31 Pollock, Jackson XI 243 Pomodoro, Arnaldo 196 Pomodoro, Gio 196 Ponis, Mario Alberto 164 Ponti, Gio XIV, XV, XVI, XIX, XXI, 16-19, 2427, 46n, 47, 53, 55, 57, 62-63, 77-84, 99-100, 102-103, 111, 117n, 123-124, 134-135, 138140, 147, 151-152, 155, 157, 159-162, 164, 167n, 169-170, 173, 177, 196, 201, 212, 214, 216-218, 224, 226-227, 233, 245 Porta (azienda) XVI Pouillard, Véronique 63-64, 92n, 223, 233, 235 Power, Tyron 81 Pozzi (azienda) 5 Prampolini, Enrico 163-164, 197 Proetz, Victor 52 Pulitzer Finali, Gustavo 45, 48 Radice, Mario 170-171 Ragghianti, Carlo Ludovico XV, 40-42, 43n, 4546, 97n, 99-100, 111, 146, 160, 196, 212213, 224, 226, 231-232 Ramazzotti (azienda) 6 Rambaldi, Emanuele 46n, 143, 147 Rasponi, conte Lanfranco 199 Rava, Carlo Enrico 159n Ravagnan, Angela 129n Ravasi, Guido 170 Raymor (azienda) 25 Read, Herbert 74, 224 Remington, Preston 51 Rho, Manlio 163, 170-171 Rich, Daniel Catton 51n Richard Ginori (azienda) 5, 48, 57, 73, 80, 103, 125, 128n, 154 Richards, Irving 25 Rieti, Fabio 194-195 Rivarola, marchese Stefano 142 Rizzi, Roberto 167n Robbiati (azienda) 60 Rockefeller, Nelson A. 39 Rodriquez, Rodrigo 173 Rogers, Ernesto Nathan 11, 16, 19, 22-23, 42, 45-46, 99, 123, 143, 159n, 160n, 161, 223, 234-235 Rogers, Helen 90, 93 Rogers, Meyric R. XX, 45, 51, 55, 61-63, 69-70, 72n, 77, 78n, 88, 89n, 90-94, 104, 120n, 125, 127n, 135, 151n, 154n, 161-162, 173n, 176n, 179n, 180, 185, 186n, 215, 218, 234-236 Romano, Giovanni 143, 158n Rosenberg, Anna 39 Rosselli, Alberto 25-26, 27n, 234, 236 Rossellini, Roberto 15 Rossi, Catharine 104 Rothko, Mark XI Rubelli (azienda) 173 SAC, Sedie Artistiche Chiavaresi (azienda) 147 Saetti, Bruno 133n Saks (azienda) 14, 137, 189-190 244 Indice dei nomi Salviati (azienda) 140n Sanderson Fabrics 131, 165 Sanguineti, Colombo 146-147 Sanguineti, Giambattista (o Gio Batta) 143, 146 Sansevero, Giuseppe 157 Santomaso, Giuseppe 46n Sarfatti, Gino 24n, 160n Sargent, John Singer 188n Sartogo, Piero 28, 224 Sartorio, Giulio Aristide 9n, 219, 230, 234-235 Sassu, Aligi 46, 103, 111n, 159n Savi, Lucia 92, 225 Savinio, Alberto 196 Sbisà, Carlo 46n Scaglia, Attilio 134 Scampicchio, Ettore 58n Scarpa, Carlo 42 Schuman, Robert XVII SCI, Società Ceramica Italiana (azienda) XXII, 72, 151, 153-156, 217 Seguso (azienda) 81, 140n Severini, Gino 133n, 201 Sforza, Carlo 45n Sgro, Valentina 60, 225 Signorelli, Maria 46n, 198, 212 Signorini, Renato 199-200, 219, 226, 235-236 Singer, Joseph 138n, 214 Singer & Sons (azienda) 24, 82-83, 138n Sironi, Mario 164 Sisti, Liana 202 Sloan, William 13 Smith, Paul J. 140n Soby, James Thrall 111, 117n, 122, 223, 235 Società Ceramica Italiana (azienda) XXII, 72, 151, 155, 217 Soleri, Paolo 209 Somaini, Francesco 170-171 Sottsass jr., Ettore 46, 48, 100, 151, 159, 163, 237 Spadini, Andrea 199, 230 Spadini, Armando 198 Spazzapan, Luigi 44 Spilimbergo, Adriano 163 Staccione, Alessandro 62 Steichen, Edward 15n Steiner, Enrico 46n Stewart, Susan 65 Strada, Nino Ernesto 46n, 111n Strengell, Marianne 165 Superstudio 203-206, 208, 210, 219, 236 Swanson, Gloria 185 Tagliabue, Ettore 156 Tamayo, Rufino 14n Tarchiani, Alberto 56n Taylor, Francis Henry 51n Teague, Walter Dorwin XIII, XIV, 45, 52, 62-63, 68, 70, 74n, 77, 81n, 82, 91n, 109, 112-113, 135, 155, 175-176, 194-195, 197n, 236 Tedeschi, Mario 170 Tempestini, Maurizio 16, 23, 24n, 50n, 128n, 228, 230-231 Tessile Officina (azienda) 167n Tessitrice dell’Isola (azienda) 87-88, 173 Tessitura di Rovezzano (azienda) 198 Thonet (azienda) 142 Tiffany (azienda) 199 Tito, Ettore 9 Togni, Giuseppe 45n Tomasini, Antonia 156 Toscanini, Arturo 13n Toulouse-Lautrec, Henri 198 Trinchieri, Alfredo 57n, 58 Trucco, Manlio 126 Truex, Van Day 138 Truman, Harry S. 65 Tucci, Giuseppe 180 Tullio d’Albisola (Mazzotti, Tullio) 110, 233 Turcato, Giulio 46n, 201 Ulrich, Guglielmo 159n, 237 Underwood (azienda) 33 USCO 205-206 Usuelli, Teresio 16 Vagnetti, Gianni 46n Valentino (azienda) 56 Venini (azienda) 5, 7n, 62, 65, 80, 140n Venini, Paolo 138 Vianello (azienda) 140n Viani, Lorenzo 112 Vietti, Luigi 198 Viganò, Vittoriano 160 Villa, Emilio 194, 202, 222, 237 Virilio, Paul 209 Visconti, Simonetta 178-179 Vittorini, Elio 32, 237 Vogel, Edna 165 Waldron Associates (azienda) 165, 172 Warhol, Andy XI Watson, Thomas J. 35 Watson & Boaler Store 22 Welles, Orson 81 White, Anthony 107 Wolf Ferrari, Teodoro 31 Wright, Frank Lloyd 84, 166 Yale & Towne (azienda) 138 Zaccagnini S.p.A. (azienda) 72, 127-128, 216 Zagato (azienda) 172 Zancopé, Pier Giovanni 128n, 130, 132 Zanichelli (azienda) 9 Zanuso, Marco 16, 143, 160 Zecchin, Vittorio 129n Zoncada, Nino 83 Zortea (azienda) 81 Zorzi, Renzo 30n, 35n, 36, 238 Zuffi, Pietro 83, 138 Zveteremich, Renato 32 Crediti fotografici Courtesy Archivio Fornasetti: p. XVI Courtesy Giuseppe Addesso: p. XXV Associazione Archivio Storico Olivetti, Ivrea. Fondo Raccolta pubblicità su riviste storiche: pp. 33 (fascicolo 35), 35 (fascicolo 191) Fondazione Ragghianti, Archivio Licia e Carlo Ludovico Ragghianti, Lucca: p. 41 Art Institute of Chicago, Ryerson and Burnham Libraries and Archives: p. 47 Archives of American Art, Smithsonian Institution. Ninfa Valvo papers regarding the M.H. de Young Memorial Museum, circa 1930 to 1973: pp. 53, 89 ©MiC – DRM Piemonte. Per gentile concessione dell’Agenzia del Demanio, Fondo Carlo Mollino conservato al Politecnico di Torino, Torino. Sezione Archivi Biblioteca “Roberto Gabetti”: p. 54 Paul A. Schack Collection, Courtesy of Special Collections and University Archives, Rutgers University Library, NJ: p. 65 The Art Institute of Chicago/Art Resource/Foto Scala Firenze: pp. 69, 73 Courtesy of Gio Ponti Archives, Milano: p. 79 Manuscripts Division, Department of Special Collections, Princeton University Library, NJ: p. 88 Archivio Domus – Editoriale Domus S.p.A., Milano: p. 101 The Art Institute of Chicago/Art Resource, NY: p. 114 Courtesy Archivio Papi Cipriani, Siena: p. 129 Università Iuav di Venezia – Archivio Progetti, Venezia: p. 135 Collezione privata, Chiavari (ricerca iconografica Atelier Emmanuel Costa restauro): p. 145 Archivio Antonia Campi: p. 153 Archivio privato Gegia Bronzini: p. 171 Courtesy Archivio ADI Design Museum, Milano: p. 171 Courtesy Museo Salvatore Ferragamo, Firenze: pp. 189-190 Courtesy Archivio Ugo La Pietra, Milano: p. 207 Finito di stampare nel mese di luglio 2023 per i tipi di Bologna University Press L’esposizione itinerante Italy at Work: Her Renaissance in Design Today (1950-1953) è al centro di un’indagine svolta nel quadro di quell’ampio orizzonte internazionale che ha contribuito, nel secondo dopoguerra, alla costruzione della retorica e alla fortuna del Made in Italy. Ventitré saggi di studiosi afferenti a sedici istituti e università italiane e straniere costruiscono la trama di un racconto polifonico e multidisciplinare, che vede coinvolti gli ambiti della storia dell’arte e dell’architettura, delle arti decorative e del design, dell’industria, della moda e della museologia. Attraverso la rilettura della bibliografia di riferimento, e sulla base di documentazione archivistica inedita, si è cercato di restituire la complessità dello scenario in cui si svolse la mostra, la sua organizzazione, gli attori, gli interessi economici e politici, gli stili e i riferimenti culturali che portarono al buon esito di un’iniziativa – e ai suoi esiti successivi – volta a presentare la ripresa dell’Italia sul palcoscenico del mondo. Lungi dal costituire un punto di arrivo, il volume si pone quale avvio per lo sviluppo di ulteriori ricerche e nuove riflessioni.