Liminalità e diversità in John Fante
(Ivan Pozzoni)
La tematica della diversità, nella forma dell’emarginazione dello straniero / estraneo, è centrale nella
narrazione dell’autore americano John Fante. Costui connota la nozione di «diversità» sociale in due modi,
come diversità d’origini e come diversità di contesto esistenziale, ad entrambe connettendo sensazioni,
nell’emarginato, di umiliazione, e nell’emarginante, di diffidenza. La diversità d’origine, a detta di Fante,
causa condizioni esistenziali di liminalità («[…] le sue radici erano sospese in una terra straniera […]»),
come nella descrizione, nel testo Un anno terribile, della figura di nonna Bettina:
Conoscevo bene il peso che aveva sull’anima, e mi faceva pena. Era sola, le sue radici erano sospese in una
terra straniera. Non avrebbe voluto venire in America, ma mio nonno non le aveva dato possibilità di scelta.
C’era miseria anche in Abruzzo, ma era più dolce, condivisa da tutti come pane che si passa di mano in mano.
Anche alla morte partecipavano tutti, e così al dolore, e alla prosperità, il villaggio di Torricella Peligna era come
un solo essere umano. Mia nonna era come un dito strappato dal corpo, e non c’era niente nella nuova esistenza
che avrebbe potuto mitigare la sua desolazione. Era come tutti gli altri che erano venuti da quella parte d’Italia 1;
la medesima «sensazione di diversità», conosciuta da Arturo Bandini in Aspetta Primavera Bandini, è
diversità d’origini:
Non aveva mai voluto andare a scuola dalle suore. L’unica cosa che la rendeva tollerabile era il baseball. Quando
suor Celia gli diceva che sua madre aveva un’anima bella, lui capiva cosa intendeva: sua madre aveva grande
coraggio e spirito di sacrificio, come dimostravano quelle buste. Per lui, il coraggio non c’entrava. Era orribile,
odioso, rendeva lui e i suoi fratelli diversi dagli altri. La ragione non la conosceva, ma c’era, era la sensazione
della loro diversità. Oltre a ciò nel quadro s’inserivano anche le sue lentiggini, la necessità di un taglio di
capelli, la toppa sui pantaloni e le origini italiane2.
La diversità d’origini di Arturo Bandini e nonna Bettina caratterizza i due soggetti letterari come «stranieri».
Differente è la diversità di Svevo Bandini davanti alla vedova Hildegarde, essendo diversità di contesto
esistenziale:
Chissà se Maria sarebbe stata in grado di capire l’ondata d’umiliazione che si impossessò di lui mentre
attraversava quel bel salone, l’imbarazzo che provava mentre inciampava perché le sue scarpe sfondate, zuppe di
neve, non riuscivano a far presa sullo splendente pavimento giallo? Avrebbe mai potuto dire a Maria che quella
donna attraente provò un’improvvisa pietà per lui? Era vero: pur voltandole le spalle, sentì ugualmente
l’imbarazzo della vedova per lui, per la sua goffa estraneità a quell’ambiente3;
essa è, infatti, intesa come «estraneità all’ambiente». I tratti dello straniero / estraneo, con una trovata di
magistrale intuitività, sono attribuiti, entrambi, alla figura del cane Stupido di A Ovest di Roma:
Era senz’altro uno straniero, con i problemi di adattamento di ogni straniero in un quartiere altolocato, guardato
dall’alto in basso da tutti i cani anglosassoni e odiato dalle razze germaniche […]4,
e, entrambi, sono riconosciuti dall’autore esser vittima di discriminazione o emarginazione:
Balliamo, Jean, andiamo a ritmo, e tu non lo sai, bellezza vestita di azzurro, che stai ballando con uno sbandato,
un emarginato dal consesso umano, né carne né pesce né niente. Bevemmo e ballammo e tornammo a bere 5.
Per il nostro autore all’emarginazione s’accompagnano due sentimenti difficili da contrastare:
nell’emarginato, umiliazione, e nell’emarginante, diffidenza; Fante, in La strada per Los Angeles, riassume
1
Cfr. J. FANTE, Un anno terribile, Roma, Fazi, 2001, 28.
Cfr. J. FANTE, Aspetta Primavera, Bandini, Milano, Marcos y Marcos, 1995, 41.
3
Cfr. ivi, cit., 126.
4
Cfr. J. FANTE, A ovest di Roma, Torino, Einaudi, 2008, 57.
5
Cfr. J. FANTE, Chiedi alla polvere, Milano, Marcos y Marcos, 2004, 104.
2
con esperienza la concausalità tra diffidenza e umiliazione nella concretizzazione di meccanismi di
emarginazione, in un brano scritto magistralmente:
Lo sapevo bene, perché una cosa simile aveva offeso anche me. Alle medie i ragazzi erano soliti offendermi
apostrofandomi “guappo” o “terrone”. Cosa che sempre mi offendeva. Mi dava un senso di frustrazione. Mi
faceva sentire così penoso, così insignificante. E dunque sapevo che avrebbe offeso anche il filippino […]
Immediatamente la sua espressione cambiò. Se lo aspettava, qualunque cosa fosse. “Dammi una sigaretta” dissi.
“Negro” […] Ci fu un cambiamento istantaneo, uno spostamento di sensazioni, lo scarto dall’offesa alla difesa. Il
sorriso gli s’indurì sul volto, un volto divenuto gelido […] Anche a me aveva fatto lo stesso effetto […] “Non sei
proprio un negro” dissi. “Sei un dannato filippino, che è peggio” […] E risi. Mi piegai in due, emettendo un
gridolino. Lo indicavo col dito e strillavo, fino a che non fui più in grado di fingere che quella mia risata fosse
spontanea. La faccia gli si era irrigidita come ghiaccio per via della rabbia o dell’umiliazione, sulla bocca gli si
poteva leggere un senso di impotenza, era una bocca paralizzata dall’ira, incerta, dolorante […] 6.
L’umiliazione dell’emarginato è raccontata («[…] sa bene cosa significa sentirsi umiliati […]») da Arturo
Bandini in Chiedi alla polvere, nei suoi surreali dialoghi mentali con Camilla:
Questa ragazza mi tratterà bene, non come quelle della mia infanzia, quelle della mia adolescenza o quelle che
ho conosciuto all’università. Loro mi spaventavano, mi guardavano con diffidenza, mi rifiutavano; ma la mia
principessa no, lei sì che mi capirà, perché sa bene cosa significa sentirsi umiliati 7,
e
Mi hanno umiliato al punto di farmi diventare diverso e mi hanno spinto ad accostarmi ai libri, a rinchiudermi in
me stesso, a scapparmene dal Colorado. E sai, Camilla, quando vedo le loro facce, riprovo a volte lo stesso
dolore, la stessa umiliazione di allora e sono felice che siano qui, a morire sotto il sole, sradicati, ingannati dalla
loro durezza; sono le stesse facce, le stesse bocche tirate di allora, che concludono le loro vuote esistenze sotto il
sole rovente8.
La diffidenza dell’emarginante è narrata nella storia dell’immigrato Julio Sal («Non era mica un’esperienza
nuova. Nel tempo, Julio Sal aveva spaventato innumerevoli ragazze americane sui tram, sugli autobus e alla
cassa dei negozi. Le aveva viste in piedi accanto a sé e, tremanti, sui filobus di San Francisco; le aveva viste
rabbrividire e trasalire sulla corriera di San Jose. Le aveva terrorizzate a San Diego, e le aveva raggelate di
paura a Long Beach»9) e ribadita, in A Ovest di Roma, nella descrizione dell’arrivo di Stupido a Point Dume
(«Lo videro fra Jamie e me, che tenevamo entrambi il suo collare, avvertirono un odore di bestia proveniente
da luoghi lontani e impazzirono per la paura e per l’oltraggio della sua presenza; alcuni correvano dietro a
basse cancellate, altri si ritirarono nei garage e nelle verande dove si schiantavano la gola con ululati che
fecero correre alle finestre donne e bambini a domandarsi con ansia da dietro le tende che razza di mostro
stesse attraversando Point Dume»10). La diffidenza altrui diventa umiliazione; e, l’umiliazione, interiorizzata,
conduce sulla strada dell’emarginazione, fonte di nuova diffidenza. C’è un nesso causale feedback tra
umiliazione e diffidenza nella costruzione della categoria sociale della «diversità»: bersaglio di diffidenza e
motivo di auto-umiliazione, lo straniero / estraneo interiorizza, in stato di liminalità, la sua diversità,
mettendo in atto differenti reazioni di adattamento. Fante introduce due modalità di reazione dell’emarginato
all’etichettamento sociale: realizzazione di un’identità nella diversità (stranieri / estranei diretti) e rifugio nel
modello tradizionale (stranieri / estranei di seconda generazione). Come l’immigrato, lo straniero / estraneo
diretto reagisce all’emarginazione costruendo modelli identitari alternativi, in forma simile all’amicizia tra
Svevo Bandini e Rocco Saccone in Aspetta Primavera Bandini:
Quand’erano giovani, prima che Bandini si sposasse, erano andati a donne insieme, e ogni volta che Rocco si
presentava a casa loro, lui e Svevo avevano un modo tutto particolare di bere e di ridere insieme senza parole e
6
Cfr. J. FANTE, La strada per Los Angeles, Milano, Marcos y Marcos, 1996, 65/66.
Cfr. J. FANTE, Chiedi alla polvere, cit., 27.
8
Cfr. ivi, cit., 65.
9
Cfr. J. FANTE, La grande fame, Torino, Einaudi, 2007, 311.
10
Cfr. J. FANTE, A ovest di Roma, cit., 39.
7
di parlottare in dialetto per poi scoppiare a ridere sguaiatamente, un linguaggio violento di grugniti e di ricordi,
ricco di sottintesi […]11,
o alla connivenza assoluta con Fred Bestoli ne La grande fame:
“Fred Bestoli è mio amico da trentacinque anni” disse papà. “È nato a dieci miglia dal mio paese. È venuto in
America quando ci sono venuto pure io. Ha lavorato duro in questo paese. Ne ha tirate di carriole. E poi in
miniera, a scavare carbone. E a spalare fossi. Una fatica micidiale. E niente soldi. Ora un lavoro non ce l’ha. E
allora che fa? Vende un poco di whisky. Qualche bottiglia di vino. Fa male? Io dico di no. Ma la legge dice di sì.
E allora lo mandano carcerato, e tre, e quattro volte”12;
c’è un irresistibile abbraccio identitario di «consanguineità» tra emarginati:
Entro nell’edificio dell’amministrazione e faccio la fila con certi strani ragazzi, anche loro in attesa di iscriversi
per il trimestre autunnale. Tra loro c’è qualche ragazzo italiano. Sono lontano da casa, e gli italiani li fiuto. Ci
guardiamo, i nostri sguardi si incontrano in un amalgama irresistibile, una diffusa consanguineità; guardo da
un’altra parte13.
Lo straniero / estraneo di seconda generazione rifiuta energicamente tali modelli identitari alternativi («[…]
guardo da un’altra parte […]»), arrivando a demolire ogni sua radice:
Quest’uomo è mio padre? Ma va’, guardatelo! Sentitelo! Legge con un’inflessione italiana! Ha i baffi
all’italiana. Non me n’ero mai accorto prima d’ora, ma ha proprio l’aspetto di un perfetto wop. Il vestito gli sta
addosso alla meno peggio, tutto stazzonato. Perché diamine non se ne compra uno nuovo? E guardategli la
cravatta! Tutta storta! E le scarpe: avrebbero bisogno di una lucidata. E, perdio, date un’occhiata ai pantaloni!
Manco se li è abbottonati davanti. E… dannazione, dannazione, dannazione, si vedono quelle vecchie mutande
sporche che non si decide a buttar via. Dite un po’, signore: davvero siete mio padre? Proprio voi, certo: siete
così piccoletto – una mezza cartuccia- e poi, con quell’aria così d’altri tempi! Sembrate proprio uno di quegli
emigranti che vanno in giro con una coperta. No, non potete essere mio padre!14.
Orientato da una differente reazione dello straniero / estraneo diretto15, lo straniero / estraneo di seconda
generazione, à la Fante, segue il cammino del rifugio nel modello tradizionale, come emerge dal dialogo tra
Arturo e Camilla:
“Ti dai tanto da fare per sembrare americana e poi vai in giro così” le dissi. Andò allo specchio e si esaminò con
aria intenta. “Sono stanca” si giustificò. “Ho avuto molto da fare stasera”. “Colpa delle scarpe” le dissi. “Non
sono fatte per i tuoi piedi. E tutto quel trucco che ti metti in faccia… sembri la caricatura di un’americana. Hai
l’aria sciatta. Se fossi messicano ti riempirei di botte. Sei una vergogna per il tuo popolo”. “Chi ti credi di essere
per parlarmi così?” rispose, “Sono americana quanto te. Anzi, tu non lo sei affatto. Guarda il tuo colorito. È
scuro come quello degli italiani. E anche i tuoi occhi sono neri […] 16;
netta e irrevocabile è la decisione formulata in Un anno terribile:
Eravamo là, su quella strada morta nel bel mezzo della notte, sotto una nevicata così fitta che riuscivamo a
vederci a stento, e lui mi stava dicendo che io ero debole, mio padre, e mi depresse molto rendermi conto che mi
giudicava sulla base di se stesso. Era un grande muratore e un fallito; io ero un grande giocatore di baseball e
avrei fallito anch’io. Tale il padre, tale il figlio. Con questa differenza, però: lui veniva da Torricella Peligna, era
uno straniero, ma io no17,
11
Cfr. J. FANTE, Aspetta Primavera, Bandini, cit., 53.
Cfr. J. FANTE, La grande fame, cit., 18.
13
Cfr. J. FANTE, Dago Red, Torino, Einaudi, 2006, 180.
14
Cfr. ivi, cit., 179.
15
Cfr. J. FANTE, Aspetta Primavera, Bandini, cit., 189: «“Arturo!” gridò Bandini. “Contadini!” disse la vedova.
“Stranieri! Siete tutti uguali, voi e i vostri cani”. Svevo attraversò il prato, puntando dritto sulla vedova Hildegarde.
Aprì la bocca e incrociò le mani sul petto. “Signora Hildegarde” disse. “Quel ragazzo è mio figlio. Non le permetto di
parlargli con quel tono. È cittadino americano, non un forestiero”».
16
Cfr. J. FANTE, Chiedi alla polvere, cit., 164.
17
Cfr. J. FANTE, Un anno terribile, cit., 98.
12
che, tuttavia, nella narrazione di Fante, non conduce necessariamente a conclusioni ottimistiche:
Ho vomitato sui loro giornali, ho letto i loro libri, studiato le loro abitudini, mangiato il loro cibo, desiderato le
loro donne, ammirato la loro arte. Ma sono povero, il mio nome termina con una vocale dolce e loro odiano me,
mio padre e il padre di mio padre18.
Perdita delle radici italiane e rifugio nel modello americano non riescono a causare uno scacco netto alla
sensazione di liminalità dell’emarginato, come se la situazione di «diversità», anziché un’etichetta sociale,
fosse una condizione esistenziale universale; Fante ricorda ai suoi lettori l’irriducibile dimensione di
«diversità» ubicata in ogni essere umano, col suo carico di dolori, umiliazioni, frustrazione, diffidenza, e,
insieme, motore di identità alternative.
18
Cfr. J. FANTE, Chiedi alla polvere, cit., 66.