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Berlinguer e la politica internazionale

in “Critica Marxista”, n.s., 2014, n. 3-4, maggio-agosto

laboratorio culturale BERLINGUER E LA POLITICA INTERNAZIONALE* Alexander Höbel Praga, punto di svolta nei rapporti tra Pci e Pcus. La distensione internazionale e il superamento dei blocchi. Eurocomunismo, terza via, terza fase. Il dialogo con la sinistra socialdemocratica e col Terzo mondo. L’obiettivo del socialismo nella democrazia. Enrico Berlinguer viene eletto segretario generale del Pci nel marzo 1972, al termine del XIII Congresso. Per tre anni ha svolto la funzione di vice-segretario accanto a un leader storico come Luigi Longo, che nell’autunno del 1968 era stato colpito da un ictus. Poco prima, dinanzi all’intervento del Patto di Varsavia nella Cecoslovacchia del Nuovo corso di Dubček, condannato con nettezza dal Pci, Berlinguer era stato tra i più critici, e nel dibattito interno aveva posto il problema di una possibile rottura col Partito comunista sovietico e della necessità di preparare il Partito a tale eventualità. Longo aveva espresso una posizione altrettanto severa sull’intervento militare, ma aveva esortato a «stare attenti a non lasciarci spingere fuori dal campo dove vogliamo restare», il campo legato ai paesi socialisti e più in generale al fronte antimperialista mondiale; e la maggioranza della Direzione aveva concordato col segretario. Aprendo una riunione di segretari regionali e federali Berlinguer aveva ribadito: le posizioni del Pci contestate dai sovietici «sono per noi qualcosa di irrinunciabile [...] parte es- senziale del nostro patrimonio politico». Bisognava «approfondire le nostre posizioni e al tempo stesso evitare le rotture», il che poi costituiva «una messa alla prova» della togliattiana unità nella diversità. Il punto era dunque quello di rivendicare ancora di più che in passato «un sistema [...] di rapporti democratici tra tutti i partiti comunisti», come effetto ed esigenza dello sviluppo del movimento comunista che implicava una articolazione di posizioni e anche di opzioni strategiche su cui non si poteva mettere alcun «tappo». L’internazionalismo implicava la diversità delle posizioni e il policentrismo auspicato da Togliatti diventava una necessità ineludibile [Höbel 2010a, pp. 538-541]. Non a caso, dunque, nonostante la diversità di accenti che pure vi era stata, Longo scelse Berlinguer come capo-delegazione dell’incontro coi sovietici che si tenne a Mosca nel novembre 1968, nel quale i comunisti italiani respinsero l’idea della “sovranità limitata”; e non a caso sarà ancora Berlinguer a intervenire per il Pci alla Conferenza mondiale dei partiti comunisti, che si terrà nella capitale sovietica nel giu- * Il presente testo costituisce una versione rivista della relazione alla conferenza “Enrico Berlinguer. Oltre la crisi del- la politica e dell’economia” (Università di Cagliari, 30 maggio 2013). Alexander Höbel 46 gno 1969, nella quale la delegazione italiana firmerà solo una parte del documento conclusivo. Le vicende di quel biennio avevano dunque segnato un punto di svolta nel rapporto con l’Unione Sovietica, e un punto di non ritorno nelle posizioni dei comunisti italiani sul tema della transizione al socialismo e sulla gestione dei problemi che emergono nel corso di tale processo. Il problema ormai non era tanto quello di differenziarsi dal modello sovietico, quanto quello di riprendere il percorso avviato nel 1944 e rilanciato nel 1956, di rinnovare il discorso – gramsciano e togliattiano – sul socialismo in Occidente ponendolo ancora più nettamente su basi diverse (e potenzialmente più avanzate) rispetto al “socialismo reale”, mirando a un nuovo modello di democrazia socialista, a un’economia mista di transizione, a una diversa collocazione dell’Italia e dell’Europa nel quadro internazionale in vista del superamento dei blocchi: una concezione dunque fortemente critica rispetto alle regole del mondo bipolare, che implicava un superamento – o almeno un’attenuazione – di quegli equilibri ferrei. Ed è questa una delle sfide principali con cui si misurerà Berlinguer da segretario del Pci, facendo i conti con tutto il peso di quei condizionamenti. Nesso nazionale-internazionale e distensione Il nesso nazionale-internazionale è dunque un elemento centrale della Segreteria di Berlinguer, che giunge al vertice del Partito avendo alle sue spalle una solida esperienza internazionale. E la sua riflessione e proposta politica avranno sempre questa ampiezza di prospettiva. L’elaborazione di Berlinguer, peraltro, si colloca all’interno di un quadro mondiale che la rende del tutto plausibile. I primi anni Settanta sono infatti caratterizzati dal complicato procedere della distensione, di cui emergono due concezioni opposte: l’una che mira a stabilizzare la divisione del mondo in blocchi, e rimanda a un bipolarismo competitivo e non ideologico; l’altra che invece tende ad attenuare le rigidità dei due “campi”, con l’obiettivo di un loro graduale superamento, in un quadro di interdipendenza e cooperazione internazionale. Se la prima concezione è quella di Kissinger e Nixon (e, in parte, di Brežnev), sulla seconda si ritrovano, sia pure con differenze non piccole, forze diverse della politica europea, dalla socialdemocrazia tedesca ai socialisti francesi, dal Pci a settori significativi del mondo cattolico e della stessa Dc [Höbel 2010b]. Non a caso, al XIII Congresso Berlinguer afferma: «È oggi possibile, forse per la prima volta da un quarto di secolo [...] una politica estera italiana che non sia più fattore di divisione [...] ma sia invece fattore di unità, ed in cui si possono riconoscere [...] le grandi correnti ideali del nostro paese» [Pci 1972, p. 27]. Egli è consapevole del fatto che la proposta politica per l’Italia avanzata dal Pci – la linea dell’alternativa democratica e poi del compromesso storico – può avanzare solo a patto che sul piano mondiale prevalga la concezione più avanzata della distensione. I problemi che vede aprirsi davanti all’umanità sono quelli che saranno definiti i problemi globali. «Dalla logica [...] del capitalismo e dell’imperialismo – osserva nella relazione – escono tendenze sempre più catastrofiche. [...] Basti pensare alla minaccia atomica, al problema della fame e del sottosviluppo, all’inquinamento [...] ai processi di imbarbarimento della cultura». Ma proprio la dimensione delle sfide apre per lui «la possibilità di raccogliere intorno a grandi obiettivi umani e civili tutte le forze di progresso». In questo quadro, quello che Berlinguer affida al movimento operaio europeo è un ruolo strategico. «La nostra convinzione – afferma – è che le forze di sinistra e le organizzazioni dei lavoratori sono in ritardo rispetto ai processi di integrazione internazionale di cui sono protagonisti i grandi gruppi economici e le forze politiche che ne difendono gli interessi». Occorre dunque «che i partiti comunisti e le organizzazioni dei lavoratori operino perché si realizzi [...] una collaborazione non episodica tra le forze della classe operaia europea» e «si avvii la ricerca sistematica di un rapporto nuovo con tutte le forze di sinistra» [Pci 1972, pp. 25-28]. Lo stesso rapporto critico con l’esperienza sovietica e coi paesi del blocco socialista è messo in relazio- 47 ne a questa problematica. «Se il socialismo – dice ancora Berlinguer – ha conosciuto, nella sua opera di costruzione concreta, problemi così grandi, ciò è anche perché è venuto a mancare l’apporto di una rivoluzione socialista nei paesi di capitalismo più sviluppato. Di qui la responsabilità storica del movimento operaio europeo» e «l’importanza del fatto che nella parte più avanzata dell’Occidente capitalistico si delinea la tendenza a una visione comune» del «rapporto tra democrazia e socialismo». «Nel momento in cui queste idee assumessero un rilievo internazionale, esse darebbero a grandi masse [...] l’immagine di ciò che il socialismo può essere in questa zona del mondo» [Pci 1972, p. 61]. Le premesse dell’eurocomunismo e dell’elaborazione di Berlinguer sulla “terza fase” sono dunque già nella relazione che tenne al congresso che lo portò alla guida del maggiore partito comunista dell’Occidente. E Berlinguer parve deciso fin dall’inizio a far valere questa forza e il ruolo che il Pci andava acquistando sulla scena internazionale. «Il socialismo è una realtà mondiale – ribadisce nelle conclusioni –, una realtà in sviluppo», e in questo sviluppo c’è un «capitolo che è chiamato ad aprire il movimento operaio nell’Europa e [...] in tutti i paesi a capitalismo avanzato». È per certi versi una ripresa non solo delle sollecitazioni dell’ultimo Togliatti, ma anche dell’ispirazione di Marx, secondo cui proprio laddove si manifesta il massimo sviluppo delle forze produttive la trasformazione socialista ha le basi più adeguate per essere tentata. Né questo comporta una chiusura di tipo eurocentrico o nazionale. «La classe operaia può divenire forza egemone in ogni singolo paese e nell’insieme dell’Europa – conclude il neo-segretario – se la sua azione acquista un respiro europeo e mondiale, e se si collega con i movimenti dei popoli oppressi» [Pci 1972, pp. 477-478]. Modello di sviluppo e crisi della democrazia Quello che Berlinguer sviluppa fin dagli inizi della sua Segreteria è per molti aspetti un “pensiero globa- laboratorio culturale le”, e in questo c’è un tratto indubbio della sua attualità. Anche in questo senso, il suo è un pensiero rivolto al futuro, è davvero il pensiero di un «rivoluzionario» [Liguori 2014]. Nel 1972, peraltro, il processo di distensione giunge a primi risultati importanti: l’accordo Salt 1 tra Usa e Urss sui missili balistici, l’inizio della Conferenza di Helsinki per la sicurezza e la cooperazione in Europa. Gli Stati Uniti sono sempre più in difficoltà in Vietnam, e all’inizio del 1973 interrompono i bombardamenti. In Europa la Ostpolitik di Willy Brandt approda a un primo trattato fra le due Germanie. È un insieme di eventi che dà forza alla prospettiva di un allentamento dei blocchi. Nel Comitato centrale del febbraio 1973, Berlinguer parte dalla vittoria del Vietnam, leggendola come «vittoria del diritto di ogni popolo» a decidere del proprio destino «al di fuori di aggressioni e ingerenze straniere». Come aveva già detto Togliatti, l’imperialismo «conserva la sua [...] natura aggressiva», ma nel mondo vi sono «forze tali, che possono contenere, limitare e alla fine rovesciare le [...] tendenze catastrofiche insite nella logica del capitalismo», «la tendenza a condannare immense masse umane alla degradazione, al sottosviluppo, alla fame», ma anche «a sconvolgere [...] gli equilibri naturali». La coesistenza pacifica è sempre più «una necessità oggettiva», a seguito dei mutati rapporti di forza mondiali, ma anche della gravità di problemi e della loro «interdipendenza». In questo quadro, poiché il «superamento dei blocchi» non si realizzerà «da un momento all’altro», Berlinguer avanza l’idea di un’Europa occidentale «né antisovietica né antiamericana», che assuma un ruolo nuovo e autonomo, e contribuisca a una politica di disarmo e cooperazione, nella prospettiva del «superamento dei blocchi» [Berlinguer 1975b, pp. 528-567]. Per lui, cioè, la distensione – effetto di rapporti di forza mondiali cambiati – può a sua volta produrre un’ulteriore evoluzione; e in questo quadro si colloca anche la proposta del compromesso storico. Parte della storiografia ha giudicato questa impostazione velleitaria e poco realistica. In effetti c’è nella sua analisi una sopravvalutazione dei margini aperti dalla distensione e del ruolo del Pci. Tuttavia la tendenza di quegli anni rendeva la sua proposta quanto meno possibile. Alexander Höbel 48 Accanto al procedere della distensione, la fase è segnata anche dalla crisi economica internazionale e dalla crisi energetica. Berlinguer ne ricava un discorso sul modello di sviluppo di grande interesse. La «spinta crescente» dei paesi produttori «a mutare [...] le ragioni di scambio con i paesi sviluppati» – afferma – è un fatto positivo; d’altra parte, c’è un «tentativo dei gruppi imperialistici più potenti» di usare la crisi per consolidare il loro dominio. I «vecchi equilibri», comunque, sono sconvolti, e l’Europa occidentale è «un punto focale». Essa deve puntare su coesistenza pacifica e cooperazione economica, avviando «nuovi rapporti» coi paesi socialisti e col Terzo mondo, superando l’approccio «neocolonialista» e la «subordinazione economica» agli Stati Uniti; e tutto ciò potrà accadere solo con un mutamento dei rapporti di forza al suo interno. Quella che ormai è venuta meno, infatti, è «la premessa» del modello di sviluppo attuale, ossia i «bassi prezzi delle materie prime, a danno dei paesi più arretrati», e dunque «la possibilità di dilatare indefinitamente» i consumi individuali. È in questo quadro che Berlinguer individua, anche per l’Italia, la necessità di introdurre, «nella sua struttura economica e sociale [...] alcuni “elementi” [...] di socialismo» [Berlinguer 1975b, pp. 659-674]. Berlinguer sviluppa questa riflessione a distanza di un anno, nel rapporto al Comitato centrale del dicembre 1974 in preparazione del XIV Congresso. Il testo sarà pubblicato col titolo La proposta comunista dalla casa editrice Einaudi e diffuso in migliaia di copie, a conferma del ruolo del Pci nell’Italia di quegli anni, del carisma di Berlinguer e dell’attenzione con cui era seguita a livello di massa la sua elaborazione. Qui egli torna sul ruolo del «movimento operaio e democratico dell’Europa occidentale» e sul «problema del socialismo in Occidente». Nei paesi capitalistici, osserva, è in atto «una crisi profonda e di tipo nuovo», riconducibile a diversi fattori: «il mutamento dei rapporti di forza tra paesi imperialisti e paesi socialisti [...] il peso crescente nell’arena mondiale dei popoli e degli Stati prima soggetti al dominio coloniale; e l’esplodere delle contraddizioni intrinseche ai meccanismi economici e sociali che hanno caratterizzato lo sviluppo postbellico». La svalutazione del dollaro e la fine del sistema dei cambi fissi varato a Bretton Woods sono stati i segnali iniziali di questa crisi, che «ripropone la prospettiva e la necessità storica del socialismo» e intanto «rende urgente una programmazione democratica dell’economia nei singoli paesi [...] e una cooperazione internazionale, lungo una linea che [...] già esce fuori dalla logica del capitalismo» [Berlinguer 1975a, pp. 5, 8]. Quello che Berlinguer prefigura non è però un quadro idilliaco. «Non ci si può illudere di costruire un assetto mondiale pacifico, giusto e duraturo – afferma il segretario del Pci – senza una lotta contro l’imperialismo», la cui logica «tende a spingere le cose a sbocchi catastrofici». Al centro tornano quindi «le questioni del futuro dell’umanità», già affrontate a suo tempo da Togliatti, e solo «un’ampia cooperazione internazionale» potrà consentire di affrontare «problemi vitali e immani come quelli della fame [...] della difesa e della trasformazione dell’ambiente naturale; della lotta contro l’inquinamento», delle risorse energetiche e così via [Berlinguer 1975a, pp. 15-16, 20-21]. D’altra parte, prosegue Berlinguer «il moto di emancipazione [...] dei popoli già oppressi e sfruttati [...] agisce non solo in senso oggettivo, intaccando la stessa base materiale» delle “aristocrazie operaie” occidentali, ma incide «anche sugli orientamenti politici e ideali di grandi masse, mettendo in crisi le illusioni neocapitalistiche e ponendo a nudo il carattere precario e avvilente dell’attuale assetto sociale». Questi fenomeni, assieme alle lotte degli anni passati, hanno prodotto «una crisi» della «egemonia socialdemocratica fra importanti strati delle masse lavoratrici» e uno spostamento a sinistra delle stesse socialdemocrazie, oltre a «un ampliamento dell’influenza comunista nell’Occidente» e delle idee marxiste «fra le nuove generazioni». Per la prima volta dopo decenni, «è dunque possibile proporsi di sanare progressivamente le fratture verificatesi nel movimento operaio dell’Occidente» e costruire un’egemonia del movimento dei lavoratori nel proporre risposte adeguate all’ampiezza dei problemi [Berlinguer 1975a, pp. 26-7, 30]. È in questo quadro che matura la nuova posizione del Pci sulla questione dei blocchi. Il loro supe- 49 ramento – osserva il Segretario del Pci – «può essere raggiunto solo se va avanti il processo di distensione»; è dunque un obiettivo più che un presupposto, e porlo «come un prius [...] potrebbe complicare [...] il movimento complessivo verso la distensione». «Esiste un equilibrio strategico-militare [...] di cui si deve tener conto», per cui «non è realistico pensare a eventuali uscite unilaterali di singoli paesi», la cui azione invece può attenuare le rigidità dei blocchi e favorirne il superamento [Berlinguer 1975a, pp. 58-60]. Berlinguer peraltro è convinto del «fallimento storico dei gruppi dirigenti capitalistici», e dell’attualità di una prospettiva socialista [Pons 2006, p. 46]. Al XIV Congresso, oltre al compromesso storico, avanza «l’obiettivo di un sistema mondiale di cooperazione», che possa «superare progressivamente la logica dell’imperialismo e del capitalismo» e magari rendere possibile «un “governo mondiale”». In questo quadro, l’Europa «ha bisogno più che mai di affermare la sua iniziativa», sapendo che «nessun [...] rinnovamento è possibile in Occidente se non contiene in sé la soluzione dei problemi del Terzo e Quarto mondo» [Pci 1975, pp. 24, 32-33, 43]. Come ha sottolineato Raffaele D’Agata, la proposta di un «governo mondiale», per allora quasi “visionaria”, rispondeva alla consapevolezza di Berlinguer «delle dimensioni della crisi». Egli inoltre «si accorgeva [...] dell’esaurimento del processo di espansione della democrazia, che la rivoluzione antifascista aveva avviato a livello mondiale» [D’Agata 2006, pp. 106-107, 110]. E in effetti proprio in quegli stessi mesi la neonata Commissione Trilaterale, voluta da David Rockefeller e guidata da Zbigniew Brzezinski, elaborava il suo documento fondativo sulla «crisi della democrazia», che i teorici neo-conservatori attribuivano all’«eccesso di partecipazione» e dunque di domanda sociale che a loro dire avrebbe “sovraccaricato” lo Stato: crescita della partecipazione democratica e costruzione del Welfare erano andate di pari passo. Era dunque arrivato il momento di colpire entrambe. Berlinguer percepisce in tempo reale questi sviluppi, e giustamente D’Agata rileva «una continuità tra la sua idea di governo mondiale e il suo specifico modo di interpretare la tradizione comunista [...] in laboratorio culturale relazione al contributo che essa aveva dato alla maturazione di un’idea universale di democrazia», e soprattutto al suo affermarsi nell’esperienza storica del nostro paese [D’Agata 2006, p. 108]. In questo senso, il contributo italiano sulla “via democratica al socialismo” trovava nuovi e più vasti campi di applicazione. La stagione dell’eurocomunismo È in questo quadro che matura la linea dell’eurocomunismo. Preparata dal comizio di Berlinguer e Marchais a Bologna, nel maggio 1973, e poi dalla Conferenza di Bruxelles dei partiti comunisti europei dell’anno successivo, la proposta andò delineandosi nel 1975, a seguito della vittoria elettorale delle sinistre unite in Francia, del grande successo del Pci alle elezioni amministrative, e della morte del dittatore spagnolo Francisco Franco. Ma già prima di quest’ultimo evento, una manifestazione a Livorno con Berlinguer e il leader comunista spagnolo Santiago Carrillo “diede il la” al movimento. Nel suo discorso, il segretario del Pci torna con forza sulla crisi nella quale si attarda l’Europa capitalistica: Entro gli schemi e le forme in cui le società capitalistiche si sono organizzate e sviluppate – afferma – [...] non ci sono altre prospettive diverse da quelle del decadimento economico, del caos sociale, del disordine della vita civile, delle degradazione nella vita morale, dell’isterilimento nella vita culturale ed intellettuale, di attentati sempre più gravi alla democrazia, di ingovernabilità. Sono parole che si attagliano bene all’Italia e all’Europa dei nostri giorni. Il rischio denunciato da Berlinguer è insomma quello di «una “moderna barbarie”». «Ostinarsi nei vecchi schemi [...] su cui si sono rette finora le società capitalistiche europee – conclude –, significherebbe condannare l’Europa alla perdita definitiva di ogni sua funzione di progresso nel mondo» [Berlinguer-Carrillo 1975, pp. 41-42]. Si potrà dire che i toni del leader del Pci siano eccessivi, quasi “apocalittici”. Tuttavia Berlinguer percepisce in tempo reale, o addirittura in anticipo sui tempi, quello che si è poi palesato come un dato storico: il declino del ruolo dell’Europa e dell’Occidente Alexander Höbel 50 sul piano mondiale – declino che oggi, anche a fronte della crescita dei Brics, è abbastanza evidente – capendo e affermando che solo un mutamento di fondo avrebbe potuto scongiurare tale deriva e ridare all’Europa occidentale un ruolo rilevante. Ma naturalmente il discorso eurocomunista non si esaurisce qui. Il punto centrale è la rivendicazione di una via democratica al socialismo, intesa non più e non solo come “via nazionale”, ma come strada percorribile sul piano continentale. Berlinguer lo dice con chiarezza: Scegliendo la strada di uno sviluppo verso il socialismo che si realizzi nella democrazia e che garantisca ed estenda tutte le libertà [...] non facciamo alcuna rinuncia di principio al nostro carattere di partito rivoluzionario [...]. Al contrario noi scegliamo la sola strada che, in Occidente, può fare della classe operaia la forza dirigente, e cioè la forza chiamata a [...] sviluppare tutte le conquiste e tutti i valori positivi realizzati dalle forze che, in ogni epoca precedente, hanno avuto una funzione progressiva. [...] Spetta ai comunisti, alle forze operaie e popolari appropriarsi di queste conquiste, garantirle e portarle avanti [Berlinguer-Carrillo 1975, p. 45]. C’è in questa concezione di Berlinguer non solo Gramsci, con la sua idea di “rivoluzione in Occidente” necessariamente diversa dai percorsi delineatisi a Oriente, e con la sua teoria dell’egemonia – combinazione di forza e consenso, nel quale l’elemento consenso diventa decisivo; ma c’è anche Marx, e in particolare l’idea della classe operaia “erede della filosofia classica tedesca”, erede e continuatrice cioè di quanto di meglio la borghesia abbia realizzato nella sua storia, soggetto storico che eredita e sviluppa la democrazia rappresentativa, «le libertà di opinione, di espressione, di stampa e di associazione», innervandole di un contenuto concreto che le classi dominanti non riescono più a darle. È in questo quadro, dunque, che si colloca la proposta di Berlinguer per l’Italia, il tentativo di costruire «una nuova tappa della rivoluzione democratica e antifascista» iniziata con la Resistenza e la Costituzione, sulla base dell’unità delle forze popolari; e l’idea dell’«introduzione, attraverso i metodo della democrazia, di elementi di socialismo nella vita sociale e in quella statale, politica e [perfino nella vita] mo- rale» [Berlinguer-Carrillo 1975, p. 51]. Se pensiamo alla crisi complessiva che vivono le nostre società a capitalismo avanzato in questi anni, e all’insterilirsi della vita democratica e civile, non possiamo non cogliere l’attualità di questo messaggio. Le Dichiarazioni comuni siglate dal Pci coi partiti comunisti spagnolo e francese, la Conferenza di Berlino dei Pc europei e l’incontro di Madrid Berlinguer-Carrillo-Marchais (1977) sembrarono far avanzare un percorso comune, ma le differenze tra le forze protagoniste dell’intesa eurocomunista e la sua stessa indeterminatezza finirono con l’oscurare presto questa prospettiva. D’altra parte, come ha osservato ancora D’Agata, «l’insieme della proposta politica di Berlinguer interagiva in modo intenso [...] con l’insieme della culture politiche democratiche dell’Europa e dell’Occidente», compresi leader della sinistra socialdemocratica quali Palme e Brandt [D’Agata 2007, pp. 139, 144-45]. I rapporti internazionali di Berlinguer si sviluppano peraltro a tutto campo. Poco prima dell’iniziativa di Livorno, un incontro con Tito – emblema della “via jugoslava al socialismo”, ma anche tra i leader dei “non allineati” – segna «la nascita di un’autentica alleanza strategica» [Pons 2006, pp. 61-62], mentre il rapporto con movimenti di liberazione e paesi di recente indipendenza rimane molto solido. Nello stesso 1975 Berlinguer visita la Guinea di Touré, la Guinea Bissau di Amilcar Cabral e l’Algeria di Boumedienne [Riccardi 2006, p. 66], incontra i socialisti e i comunisti portoghesi, coi quali ultimi si sviluppa un confronto non privo di scambi polemici. Come ha scritto Silvio Pons, che pure ha un atteggiamento critico verso la politica di Berlinguer, egli fu «l’artefice di una politica estera del Pci», che rese il partito un soggetto della politica internazionale, assicurando «al comunismo italiano una risonanza nel mondo mai posseduta» prima [Pons 2007, p. 120]. La “terza fase” e il comunismo di Berlinguer Gli elementi di novità portati da Berlinguer nella posizione e nella collocazione internazionale del Pci non 51 sono pochi. La decisione di “congelare” la questione dell’uscita dell’Italia dalla Nato collocandola in un percorso più generale di superamento dei blocchi; la frase – a mio parere infelice – sul “sentirsi più sicuri” nel campo occidentale, sebbene – aggiungeva Berlinguer significativamente – pure qui «ci sono seri tentativi per limitare la nostra autonomia» e impedire il socialismo «anche nella libertà» [Berlinguer 2014, p. 147]; «l’ipotesi di un polo comunista occidentale»; la critica ad alcuni limiti di fondo della costruzione del socialismo nei paesi del blocco sovietico; l’affermazione della democrazia come «valore storicamente universale sul quale fondare un’originale società socialista» (frase pronunciata a Mosca nel 60° dell’Ottobre [Berlinguer 2014, p. 170]): tutto ciò costituisce un insieme di cambiamenti di non poco conto. Tuttavia Berlinguer non intende approdare sui lidi della socialdemocrazia. «L’autonomia di azione politica e di ricerca teorica [...] – dice nel 1976 – la fine di ogni partito-guida e di ogni Stato-guida, i rapporti costruttivi con i socialisti non significano né che noi vogliamo diventare socialdemocratici, né che cessiamo di essere internazionalisti». Le socialdemocrazie «non marciano verso il superamento del capitalismo», e questo invece rimane l’obiettivo del Pci [Tatò 1984, pp. 57, 68]. A ben pensarci, è proprio questo il “peccato capitale” che non gli veniva e non gli viene perdonato. Di fronte a un Pci che avanza nel Paese, ed è ormai vicino ad accedere al governo o quanto meno alla maggioranza, e soprattutto a costituire un polo di attrazione a livello internazionale, si scatena un attacco concentrico, politico e mediatico. Il Pci è accusato di essere ancora troppo legato all’Urss, all’esperienza del movimento comunista internazionale, al “leninismo”. Nell’estate del ’78 Berlinguer affronta la questione in un’intervista con Scalfari. Qui egli sottolinea la strumentalità degli attacchi e degli “esami” a cui il Pci viene sottoposto, ma non si sottrae al dibattito. Berlinguer rivendica come «del tutto vivente e valida» la lezione di Lenin. Nella nostra esperienza – afferma – [...] Lenin ha un suo posto, assai rilevante, ma tutt’altro che esclusivo laboratorio culturale e tutt’altro che dogmatico. Chi ci chiede di emettere condanne o di compiere abiure [...] chiede una cosa [...] impossibile e sciocca. [...] I passi avanti nell’adeguamento e aggiornamento della nostra linea [...] li abbiamo compiuti non rompendo con il nostro peculiare passato [...] non recidendo le nostre radici [...] bensì sviluppando il grande, irrinunciabile patrimonio teorico e ideale accumulato in centotrent’anni di lotte dei movimenti rivoluzionari nati col Manifesto del Partito comunista [Berlinguer 2014, pp. 176-178]. La sua impostazione rimane cioè saldamente storicistica. Il passato non può essere oggetto di sentenze e condanne di tipo moralistico, né tanto meno può essere cancellato e rimosso. Esso piuttosto va analizzato e compreso, ed è sulla base delle esperienze e delle elaborazioni passate, attraverso un loro superamento dialettico che evita di mandarle perdute per ricominciare ogni volta da zero, che una forza politica può effettivamente andare avanti. Anche per questo Berlinguer preferisce parlare di “terza fase” piuttosto che di “terza via”. Se infatti quest’ultima espressione – su cui all’epoca lavorava molto Ingrao – gli pareva delineare un modello, a metà strada tra comunismo di tipo sovietico e socialdemocrazie, il concetto di terza fase consentiva invece di esprimere al meglio il senso di un divenire storico, che trovava nella elaborazione del Pci uno dei suoi momenti di sviluppo. Berlinguer affronta il tema nella relazione al XV Congresso, nel marzo 1979: Noi non pretendiamo di indicare un altro modello, che svaluti tutti gli altri. Noi ci riferiamo, invece, allo sviluppo storico del socialismo. Abbiamo prima avuto l’esperienza della II Internazionale: la prima fase della lotta del movimento operaio per uscire dal capitalismo [...] la fase dei partiti socialisti e socialdemocratici [...] sorti alla fine dell’800 [...] [che] giunse a una drammatica crisi e finì col cedimento di fronte alla prima guerra mondiale [...]. La seconda fase si è aperta con la rivoluzione russa dell’ottobre [...] uno spartiacque nella storia contemporanea e nel cammino dell’umanità. Oggi – prosegue Berlinguer – «bisogna portare avanti il processo rivoluzionario mondiale, su vie nuove, che [...] facciano tesoro dell’esperienza delle due pre- Alexander Höbel 52 cedenti fasi e della riflessione critica su di esse». E in questo quadro è decisivo il compito del movimento operaio dell’Europa occidentale. Si tratta di colmare un divario storico e un ritardo che hanno pesato e pesano sul complessivo sviluppo del socialismo nel mondo [...] l’avanzata del socialismo nell’Europa occidentale costituirà un importante contributo al superamento della crisi della distensione, allo stabilimento di un organico rapporto di alleanza del movimento operaio con i popoli dei paesi sottosviluppati e con le masse emarginate, alla realizzazione del contenuto nuovo che deve avere la strategia della pace. Ciò arresterà il declino dell’Europa, restituendole una funzione di primo piano nel progresso della civiltà e nell’assicurare uno sviluppo nuovo del socialismo [Da Gramsci a Berlinguer, vol. V, pp. 18-19]. vero ritardo non era quello del Pci nel rompere con l’Unione sovietica, ma quello – rilevato da Berlinguer (e già, a suo tempo, da Togliatti) – del movimento operaio occidentale. In questo modo Berlinguer pone il problema del “che fare” qui ed ora, nell’Europa capitalistica, della quale non ha certo una visione irenica. Nella citata intervista con Scalfari, infatti, aveva detto: Sappiamo che il processo di integrazione europea viene condotto [...] prevalentemente da forze e da interessi [...] legati a strutture capitalistiche che noi vogliamo trasformare. [...] Ma noi riteniamo che comunque bisogna spingere verso l’Europa e la sua unità e che la sfida [...] vada accettata, portando la lotta di classe [...] a livello europeo e a coscienza europea. È in questo quadro concettuale, fortemente storicistico, che si colloca anche il giudizio che Berlinguer darà due anni dopo, all’indomani della proclamazione dello stato d’assedio in Polonia, sull’esaurimento della «spinta propulsiva». Anche qui vale la pena leggere la citazione per intero. Dice Berlinguer: Ancora una volta, quindi, Berlinguer poneva il problema di coordinare sforzi ed elaborare una strategia unitaria del movimento dei lavoratori, almeno su scala europea. E alla domanda provocatoria di Scalfari – «volete liquidare il capitalismo. E la democrazia?» – così rispondeva: Effettivamente la capacità di rinnovamento delle società, o almeno di alcune delle società, che si sono create nell’est europeo, è venuta esaurendosi. Parlo di una spinta propulsiva che si è manifestata per lunghi periodi, che ha la sua data di inizio nella Rivoluzione socialista d’ottobre, il più grande evento rivoluzionario della nostra epoca [...]. Oggi siamo giunti a un punto in cui quella fase si chiude, e per ottenere che anche il socialismo [...] realizzato nei paesi dell’est possa conoscere una nuova era di rinnovamento [...] sono necessarie due cose [...] che prosegua il processo della distensione [...] che avanzi un nuovo socialismo nell’ovest, nell’Europa occidentale [...] inscindibilmente legato e fondato sui valori [...] di libertà e democrazia [Berlinguer 2014, p. 272]. Proprio per salvare la democrazia [...] bisogna superare il capitalismo. [...] la crisi profondissima in cui versano tutte le società del capitalismo cosiddetto ‘maturo’, mostra a quali processi di dissoluzione anarchica e di disgregazione corporativa sia lì sottoposta la democrazia, a quali pericoli [...] sia esposta. Essere coerentemente anticapitalisti vuol dire anche essere coerentemente democratici [Berlinguer 2014, pp. 185-186]. Il punto di fondo, dunque, è che una fase sta esaurendosi, ma non per questo la storia è finita. «Si tratta di aprirne un’altra – conclude Berlinguer – e di aprirla, prima di tutto nell’occidente capitalistico» [Berlinguer 2014, p. 279]. Si tratta, insomma, di «inaugurare la terza fase della avanzata al socialismo» nel mondo [ivi, p. 207]. Come ha osservato Adriano Guerra, dunque, il Il dialogo con la sinistra socialdemocratica Sono temi, questi della crisi della democrazia rappresentativa, del prevalere dell’Europa dei capitali sull’Europa dei popoli, di cui oggi avvertiamo tutta l’attualità. L’azione politica di Berlinguer si colloca quindi «a cavallo tra due epoche», tra i “trent’anni gloriosi”, per dirla con Hobsbawm, del secondo dopoguerra e l’epoca di crisi iniziata proprio negli anni Settanta e nella quale, pur con tutte le differenze del caso, ancora ci troviamo [D’Agata 2007, p. 135]. Per 53 certi versi la sua iniziativa interviene in un momento in cui appare ancora possibile dare un diverso corso agli avvenimenti (non dimentichiamo che il 1975, con la fine della guerra del Vietnam, aveva segnato uno dei punti massimi di crisi dell’egemonia statunitense e occidentale nel mondo), e al tempo stesso all’inizio della fase in cui questo diventa sempre più difficile, a seguito dei mutamenti strutturali in atto, della controffensiva conservatrice e neoliberista guidata dalla Thatcher e da Reagan, dell’avvio della “seconda guerra fredda”. Sebbene nella sua elaborazione non manchi una sopravvalutazione delle potenzialità del Pci nel favorire questa inversione di rotta, quella di Berlinguer non è una voce isolata nella sinistra europea, e in lui è sempre viva la consapevolezza che per tale obiettivo sia necessario costruire un fronte ampio sul piano internazionale. In un’intervista del 1980, lo ribadisce con forza: Noi comunisti italiani – osserva – non abbiamo mai concepito l’eurocomunismo come l’attribuzione di una funzione esclusiva ai partiti comunisti e abbiamo sempre invece sottolineato come la prospettiva [...] eurocomunista [...] implichi necessariamente la ricerca di una intesa e di un rapporto unitario con le altre componenti del movimento operaio dell’Europa occidentale [Tatò 1984, p. 174]. In questo quadro si colloca il riaprirsi del dialogo con la sinistra socialdemocratica, dopo una fase di relativa stasi. Nel 1979 la Commissione indipendente sui problemi dello sviluppo internazionale, diretta da Brandt, conclude i suoi lavori, pubblicando un rapporto che pone al centro della sua attenzione il problema degli squilibri globali, della cattiva distribuzione di cibo, energia e capitali sul piano mondiale, sottolineando al contrario l’idea dello sviluppo come interdipendenza e la necessità della cooperazione internazionale. Berlinguer si riallaccia a questa elaborazione, raccoglie questi spunti e pone l’obiettivo di una Carta della pace e dello sviluppo, che abbia al centro il tema di un nuovo rapporto tra Nord e Sud del mondo, dell’interdipendenza e della cooperazione tra i popoli, della equa distribuzione delle risorse: del cibo, dei capitali, delle risorse energetiche [Lussana 2007, pp. 149-152]. laboratorio culturale Nel 1981, un viaggio in America Latina rinsalda i suoi rapporti con la Cuba di Fidel Castro, il Nicaragua dei sandinisti e diverse altre forze e movimenti di liberazione. La sua attenzione al ruolo del Terzo mondo e dei paesi di nuova indipendenza o che stanno tentando loro percorsi di tipo socialista rimane molto viva. Nella concezione di Berlinguer, il problema non è solo di carattere redistributivo. Il punto è mettere in discussione la logica capitalistica, quella idea dell’“accumulazione per l’accumulazione” di cui – afferma – è «ormai evidente [l’]assurdità» [Berlinguer 2014, p. 234]. In questo egli rivendica ancora una volta la “diversità” comunista. Il fatto che le esperienze di tipo socialista fin qui realizzate [...] non costituiscono la soluzione storicamente adeguata e politicamente plausibile nell’occidente, cioè nei punti più alti del capitalismo [...] non significa che bisogna abbandonare l’obiettivo del socialismo [ivi, p. 220]. Quello che si contesta al Pci, prosegue Berlinguer, non è il legame con l’Urss, poiché il Pci, sebbene «figlio della rivoluzione russa [...] è un figlio ormai adulto e autonomo». In realtà, ciò che gli si rimprovera è il fatto che non ha rinunciato [...] a lottare per un mutamento radicale della società. Si vorrebbero partiti di sinistra che di fatto si accontentano di [...] introdurre qualche correzione marginale all’assetto sociale esistente [...]. La principale diversità del nostro partito [...] sta proprio in ciò: che noi comunisti non rinunciamo a lavorare [...] per una radicale trasformazione degli attuali rapporti tra le classi e tra gli uomini, nella direzione indicata da [...] Marx: non rinunciamo a costruire una «società di liberi e uguali», non rinunciamo a guidare la lotta degli uomini e delle donne per la «produzione delle condizioni della loro vita» per sottrarre all’anarchia cieca del mercato il destino di ciascuno e di tutti. D’altra parte, «la nostra principale “anomalia” rispetto a diversi altri partiti comunisti [...] è che noi siamo convinti che nel processo verso questa meta bisogna rimanere fedeli [...] al metodo della democrazia» [Berlinguer 2014, pp. 226-227]. Tentare di andare al socialismo nella democra- 54 Alexander Höbel zia, avevano notato al Dipartimento di Stato statunitense, era davvero la cosa più pericolosa per gli equilibri di Yalta [Barbagallo 2006, p. 258], e in particolare per le classi dirigenti capitalistiche, che intanto iniziavano a percepire la propria crisi. Il ruolo di Berlinguer sta in gran parte nell’aver contribuito a rendere questa prospettiva qualcosa di concreto, che ha allarmato i “poteri forti” italiani e internazionali al punto da indurli a un attacco concentrico che alla fine ha raggiunto il suo obiettivo. Ma proprio questa linea, oggi che in paesi così lontani e diversi (si pensi ad esempio al Venezuela) l’idea della via democratica al socialismo torna ad affacciarsi nella pratica di milioni di persone, dimostra la sua vitalità, la sua forza e capacità di attrazione anche di fronte al “mondo grande e terribile” dei nostri giorni. 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Il diabolico ritrovato di scienziati pazzi o un fenomeno fisico naturale, da sempre presente intorno a noi?