Il pollo ruspante alla prova
della disseminazione
Avanzamento della ricerca e prime
evidenze storiografiche
Federico Vitella
Il pollo ruspante – vedi – è un pollo libero, che vive in campagna, un po’ disordinatamente,
senza criterio: mangia quando può, dorme quando ne ha voglia. Ne son rimasti pochi eh!
Il pollo di allevamento no, invece. È un pollo che sta lì, nel suo allevamento: mangia a
ore fisse, cresce un tanto al giorno…
(U. Gregoretti, Il pollo ruspante, 1963)
Il numero speciale della rivista L’avventura che tenete tra le mani ha carattere
monografico per contenuti non meno che per premesse epistemologiche. È difatti
interamente dedicato ai lavori delle unità di ricerca dell’Università di Messina
(capofila), dell’Università di Bari «Aldo Moro», dell’Università di Cagliari e
dell’Università «Gabriele D’Annunzio» di Chieti-Pescara, relativi al Progetto
di Rilevante Interesse Nazionale (PRIN) Il pollo ruspante. Il cinema e la nuova
cultura dei consumi in Italia (1950-1973).
Giunti nel febbraio 2022 al termine della scadenza formale del secondo dei
tre anni complessivi di attività (2020-2023), abbiamo pensato che la pubblicazione di un corpus strutturato di saggi, su un periodico centrale nella letteratura
accademica di settore, potesse essere il modo migliore non solo per dar conto
dello stato di avanzamento della ricerca, ma anche per consegnare una compiuta
forma argomentativa alle evidenze riscontrate nelle quattro sedi, e già parzialmente
discusse in occasioni convegnistiche, seminariali, laboratoriali, ora organizzate
in seno al PRIN, ora sollecitate da agenzie esterne (Consulta Universitaria del
Cinema, American Association for Italian Studies, Associazione Italiana per le
Ricerche di Storia del Cinema). Senza alcuna pretesa di esaurire le domande
storiografiche a monte della progettazione, né tantomeno i gesti interpretativi a
valle dello studio di documenti, film e bibliografia, si intende dunque proporre
qui al lettore una decina di affondi pilota, su temi di pertinenza giudicati particoL’avventura numero speciale /2022
International Journal of Italian Film and Media Landscapes
ISSN 2421-6496
© Società editrice il Mulino
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Federico Vitella
larmente sensibili, a fronte di una selezione di casi diversamente rappresentativi
di questioni storiografiche, metodologiche, archivistiche.
Questa serie di riflessioni-sentinella è maturata nel quadro del popolamento
collegiale di una banca-dati di fonti digitalizzate, appositamente sviluppata in
accordo ai più avanzati standard dell’informatica umanistica, e già accessibile via
internet, previo accreditamento, attraverso il sito ufficiale del PRIN https://ilpolloruspante.unime.it (cui rimandiamo anche per tutte le informazioni aggiornate
relative alla composizione delle unità, ai lavori in corso, alla disseminazione). Del
PRIN, la banca-dati è al contempo il primo e più importante prodotto «della»
ricerca (in quanto risultato, a tutti gli effetti, di un articolato processo interpretativo), e il primo e più importante strumento «per» la ricerca (in quanto deposito
di documenti organizzati operativamente per lo studio).
Ogni sede ha preso in esame un carico di materiali paragonabile per estensione e tasso di problematicità, in linea con le rispettive agende e attitudini, a
partire dall’esplorazione di un ampio ventaglio di periodici italiani pubblicati nel
periodo in oggetto, tra riviste cinematografiche (come Cinema Nuovo), riviste
radiotelevisive (come Radiocorriere TV), riviste generaliste (come Oggi), riviste di
politica e cultura (come L’Espresso), riviste destinate a una readership femminile
(come Annabella), giovanile (come Big) o infantile (come Il Corriere dei Piccoli).
I discorsi che declinano i rapporti tra cinema e consumi, nella loro differente
tipologia editoriale, dal commento al fototesto, dalla lettera alla pubblicità, dalla
cronaca alla recensione, sono stati selezionati, fotografati e metadatati in modo
da aggregare tanto gli indispensabili riferimenti bibliografici (metadatazione di
tracciamento) quanto le informazioni funzionali all’interrogazione della risorsa
e alla sua messa in rapporto con le altre (metadatazione di relazione).
Ma, dichiarati forse un po’ velocemente i nostri intenti, procediamo ora con
(relativa) calma. E concediamoci di spendere più distesamente qualche parola
propedeutica alla lettura dei singoli articoli, nell’ordine, (i) circa gli assunti di base
del progetto, (ii) circa gli obiettivi e le strategie della ricerca, (iii) circa l’offerta
saggistica del monografico.
Il progetto
Il PRIN che alimenta la presente pubblicazione si (ci) interroga sul ruolo giocato
dal cinema nella penetrazione della nuova cultura dei consumi in Italia, negli anni
di intenso sviluppo economico compresi tra il 1950 e il 1973, tra il completamento della ricostruzione postbellica e la crisi energetica internazionale innescata
dal brusco aumento del prezzo del greggio e dei suoi derivati (Battilani e Fauri
2014, 61-125). Si tratta di una pista, questa, del rapporto tra cinema e consumi
extracinematografici, raramente battuta dalla comunità scientifica, per l’indubbia
difficoltà di individuare risorse, metodologie e strumenti adatti all’esplorazione
di medio periodo di un tema transdisciplinare dal così ampio respiro.
Il pollo ruspante alla prova della disseminazione
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Sulla scorta degli indirizzi storiografici della New Cinema History (Biltereyst,
Maltby e Meers 2011), con «cinema» intendiamo infatti l’istituzione nel suo insieme, quale apparato industriale di produzione, distribuzione ed esibizione del
film, radicato in un determinato contesto e animato da molteplici attori sociali.
Mentre sulla scorta della più avanzata letteratura di storia sociale (Capuzzo
2006) e culturale (Scarpellini 2008), con «cultura dei consumi» ci si riferisce al
bagaglio esperienziale maturato da individui e famiglie a partire dall’esposizione
quotidiana ai caratteristici prodotti materiali delle società occidentali di secondo
’900. Diciamolo: nonostante le pionieristiche intuizioni di Francesco Alberoni
(1963) sulla portata modellizzante del divismo, e a dispetto dei promettenti carotaggi di Stephen Gundle (2017 e 2020) sull’evoluzione del marketing del film in
senso hollywoodiano, una vera e propria ricerca collettiva articolata (per temi),
plurale (per indirizzi) e sistematica (per indagine) sul cinema della/nella società
dei consumi non è ancora stata intrapresa.
Eppure, come ben spiega Peppino Ortoleva (2009, 50-51), mezzi di comunicazione di massa ed economia di mercato sono stati inestricabilmente connessi nella
società occidentale del secolo passato: nel ’900, nel «secolo dei media» appunto,
la dipendenza dell’economia di mercato dalla disponibilità e dalla circolazione
continua di informazioni ha favorito lo sviluppo di media performanti non meno
di quanto lo sviluppo di media performanti non abbia promosso l’affermazione
dell’economia di mercato. In Italia, più specificatamente, come asserisce Francesca
Anania (2013), è poi proprio nei decenni ’50 e ’60 che l’industria culturale ha
fatto insieme da testimone e da traino alla penetrazione dell’«irresistibile» modello
capitalistico statunitense (De Grazia 2006) e al suo progressivo adattamento a
principi, assetti e tradizioni specificatamente nazionali (Scarpellini 2001).
Non solo. Se altrove l’«età d’oro del capitalismo» di cui parla Eric Hobsbawm
(1995) coincide con il periodo di massima affermazione della televisione, il sistema
dei media italiano appare allo sguardo retrospettivo differentemente (s)bilanciato:
infatti, il combinato disposto tra sostegno pubblico ai produttori (Nicoli 2017,
137-157) e contenimento politico del broadcasting (Guazzaloca 2011) ha permesso
proprio al cinema di mantenere una sfera di influenza importante negli anni del
(primo) miracolo economico, non solo in quanto veicolo diretto di contenuti
(storie, rappresentazioni, visibile), ma, complice l’amplificazione della stampa
popolare (De Berti 2000), anche come interprete della dinamica sociale e culturale
(Manzoli 2012, 24-25). Quando i consumi degli italiani andavano cambiando
gradualmente struttura ed entità (per effetto della massiccia importazione di
merci, del sensibile incremento dei redditi, del rapido aumento della popolazione
giovanile), la sala cinematografica, straordinariamente e capillarmente diffusa sul
territorio, a dispetto del costante aumento del prezzo del biglietto, muoveva un
pubblico, su scala continentale, letteralmente abnorme (Corsi 2001, 103-129).
Prima di trovare pienamente sbocco, dalla seconda metà degli anni ’70, nei
palinsesti di radio e televisioni commerciali (Dondi 2022), emittenza berlusconiana
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in testa (Barra e Scaglioni 2013), un immaginario materialistico vario e imponente
si è dispiegato trasversalmente, in misura proporzionale agli investimenti degli
inserzionisti, su carta stampata, radio e televisione di Stato, manifesti e affissi urbani, non meno che nelle oltre diecimila sale cinematografiche del Paese. Siamo
però convinti che la partecipazione del cinema (largamente inteso) alla diffusione
dei principali beni di consumo del tempo vada ben oltre il mandato diretto e inequivocabile della pubblicità cinematografica tradizionale, proiettata notoriamente
con efficacia tutta da dimostrare negli interstizi della programmazione ordinaria.
Siamo convinti che vada ben oltre la riserva indiana della diapositiva commerciale
e del cortometraggio industriale, su cui peraltro si sono più volte esercitati gli
studiosi, anche di recente, e con strumenti aggiornati (Pierotti e Pitassio 2020).
Da un lato, in ragione del rilievo che lo stesso film di finzione ha concesso
alla rappresentazione delle merci, pensiamo allo schermo cinematografico alla
stregua di una grande vetrina da esposizione. Perché sono state anzitutto le storie
di ambiente moderno a registrare in maniera sistematica il cambiamento in atto,
raccontando ad abundantiam quegli stessi prodotti che si stavano diffondendo
nella vita degli italiani. Tanto più che nell’assenza di una specifica regolamentazione giuridica, di fronte all’evidenza delle marche in gran parte della filmografia del
secondo dopoguerra, non si può neppure escludere che sulla spinta di fortunati
product placement hollywoodiani come quello della Vespa in Vacanze romane
(Roman Holiday, W. Wyler, 1953) anche le case di produzione italiane abbiano
precocemente attuato forme di pubblicità indiretta.
Dall’altro lato, in ragione della parallela, generale, crescente notiziabilità di
attori e attrici nazionali agli occhi della stampa illustrata, pensiamo al cinema
come a una specie di (meta) testimonial pubblicitario. Lo statuto divistico diffuso
del parco attoriale nazionale ha dato massima visibilità a vita privata e consumi
vistosi (e spesso ostentati) di uno strato socialmente elitario del Paese, significativamente influente sul piano simbolico quanto potenzialmente modellizzante per
fan e gente comune. E il «capitale di celebrità» (Driessens 2013a) degli attori più
noti è stato presto intercettato dalle agenzie deputate alla promozione dei nuovi
beni, al fine di trasferire strategicamente su questi (beni) le qualità riconosciute
di quelli (attori), secondo un tasso di credibilità proporzionale alla coerenza tra
uno specifico profilo divistico e il mondo della marca in oggetto.
La ricerca
La domanda storiografica circa il ruolo assunto dal cinema nella penetrazione
nel Paese della moderna cultura materiale ha orientato la ricerca lungo tre assi
principali, a partire dallo studio del posizionamento del medium nella più eterogenea produzione discorsiva tematizzante il mutamento dei consumi. Alle voci
già indagate di intellettuali, politici ed economisti che si sono interrogati puntualmente ed esplicitamente, ancorché spesso con toni da apocalisse, sull’esplosione
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dell’economia di mercato di matrice statunitense (per le quali rimandiamo a
Cavazza 2013), stiamo aggiungendo il contributo implicito, e di registro basso,
ma estensivo, offerto nel suo insieme dalla stampa periodica ad ampia diffusione,
con qualche eccezione (come Cassamagnaghi 2007), nonostante auspici lontani
(come Pizzetti 1982), ancora largamente sottostimato dagli studi culturologici.
In questo senso, sulla scorta delle pionieristiche consegne di lettura di Nello
Ajello (1976), stiamo pensando al comparto dei cosiddetti «rotocalchi» come allo
snodo culturale in cui gli stereotipi, i valori condivisi, le rappresentazioni sociali,
lo sfondo simbolico della vita quotidiana sono stati di volta in volta confermati,
confutati o negoziati a fronte del radicamento della società dei consumi.
Oggetto di analisi sono tanto gli spazi specificamente deputati al fenomeno
cinematografico, rubriche di recensioni in testa, quanto gli spazi generalisti più
preziosi, riconducibili ora all’attualità, ora alla politica, ora ai saperi conclamati,
che quando assumevano il cinema come oggetto di discussione di fatto lo spostavano verso la parte centrale dell’arena culturale. È forse da qui che stanno
arrivando i risultati di maggiore interesse. D’altra parte, specifica attenzione è stata
dedicata pure alla ridondante cronaca spicciola (cronaca mondana, cronaca rosa,
cronaca dello spettacolo, ecc.) e al suo vistoso apparato iconografico: punto di
forza di questo tipo di stampa a seguito dell’«industrializzazione» della fotografia
neorealista (Russo 2011, 3-94). In linea con il magistero fondativo di Richard Dyer
(2003), ma facendo tesoro pure dell’approccio costitutivamente plurale dei Celebrity Studies, assumiamo il cosiddetto «gossip» generalista come potente mezzo
di «celebrificazione» (Driessens 2013b) dell’attore cinematografico, in quanto
principale veicolo di disseminazione di «discorsi divistici» (De Cordova 1991)
della pubblicistica italiana del tempo, riviste specializzate comprese.
Il secondo asse della ricerca lavora sul posizionamento del cinema nelle campagne promozionali dei nuovi beni di consumo; lavora sulla sua «marketizzazione»
(per dirla con Dagnino 2020). Perché negli anni ’50 e ’60, nonostante forse una
certa sottovalutazione da parte degli specialisti (riscontrabile, per esempio, in Bini,
Fasce e Gaudenzi 2016), è stato ancora il grande schermo a fungere da principale
riserva di storie, situazioni, stili di vita, personaggi e personale ad uso della comunicazione pubblicitaria, fosse per veicolare informazioni, attirare l’attenzione,
spiegare, coinvolgere o stimolare reazioni. A questo riguardo, stiamo anzitutto
mappando la colonizzazione dello spazio pubblicitario extracinematografico
(editoriale e radiotelevisivo) da parte della cultura cinematografica, antropologicamente intesa con Elena Mosconi (2006) quale complesso delle manifestazioni di
vita materiale, sociale e spirituale. Ma vogliamo anche comprendere le funzioni cui
questo fascio di saperi ha assolto nell’economia discorsiva di specifiche campagne,
individuare le associazioni ricorrenti con certi prodotti di consumo, stimare il
tasso di coerenza tra il mondo di un dato prodotto reclamizzato e il fenomeno
cinematografico convocato allo scopo. Della comunicazione pubblicitaria che cita
il cinema e i suoi esponenti non misuriamo l’eventuale efficacia, né tantomeno
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il supposto valore estetico, quanto la capacità di creare, rafforzare e ridefinire
specifici serbatoi di immaginario (Codeluppi 2002).
Il terzo asse della ricerca, in dialogo con alcune recenti sistemazioni di
ambito storico (come quella di Bertolotti 2021), ragiona sul posizionamento
del cinema nella comunicazione di prodotti e marche. Abbiamo qui introdotto
una strumentazione socio-semiotica per esplorare quella parte del «visibile»
(cinematografico) deputata espressamente ai beni e alle pratiche di consumo.
Tra quanto è apparso presentabile sugli schermi in una certa epoca, tra quanto i
produttori di immagini hanno cercato di cogliere e gli spettatori accettato senza
stupore, abbiamo individuato una sottospecie di rappresentazioni dalla natura
costituzionalmente commerciale. Sulla scorta dell’insegnamento sempreverde
di Pierre Sorlin (1979, 68), stiamo cioè formalizzando distinzioni nel visibile per
meglio registrarne l’allargamento nella direzione della nuova cultura materiale,
nella convinzione che le fluttuazioni dell’iconosfera rispondano sempre ai «bisogni» e ai «desideri» più stringenti di una società. Ci interessa in questo senso
indagare modalità e fini con cui le merci sono state collocate all’interno dello
spazio narrativo del film, così da valutare finanche quando la produzione di senso del caso potesse rispondere a motivazioni strumentali (product placement) e
quando invece avesse più semplicemente (si fa per dire) mandato di caratterizzare
personaggi, ambienti e situazioni.
Per la loro natura riflessiva, indicazioni importanti stanno arrivando da quel
filone della commedia all’italiana (Comand 2011), esemplarmente approcciato
da Maggie Günsberg (2005, 60-96), che il miracolo economico lo ha proprio
raccontato. Perché pellicole come Il sorpasso (D. Risi, 1962), Il boom (V. De Sica,
1963), Il successo (M. Morassi, 1963), per non citare Il pollo ruspante già evocato
in esergo, che ha evidentemente ispirato il nostro PRIN fin dal titolo, mettono la
cultura materiale al centro della rappresentazione, problematizzandone l’impatto
sulla vita quotidiana. Nondimeno, abbiamo registrato interessanti riscontri pure
dall’esame di generi e filoni solo apparentemente meno centrali per i nostri fini,
come ad esempio il musicarello, per il rapporto tra culture giovanili e prodotti
identitari (pensiamo ai jeans), o il sexy-thriller, per il rapporto tra forme di mascolinità e nuovi beni di consumo (pensiamo ai superalcolici).
Il fascicolo
Gli assi principali della ricerca – dibattito pubblico sui consumi, campagne promozionali, visibile commerciale – si specchiano nell’articolazione tripartita del
fascicolo: i dieci contributi saggistici che diamo qui alle stampe sono scientemente
distribuiti nelle sezioni tematiche «discorsi», «pubblicità», «rappresentazioni».
La prima sezione («discorsi») rende conto dell’interrogazione della pubblicistica
a grande diffusione che ha differentemente declinato la cultura cinematografica
in rapporto al mondo dei consumi (in ordine a specifiche riviste, formati gior-
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nalistici, modi della comunicazione). La seconda («pubblicità»), dell’interrogazione di quelle campagne promozionali (a mezzo stampa, televisione, ma anche
cinema) che si sono strategicamente alimentate della cultura cinematografica. La
terza («rappresentazioni»), dell’interrogazione del visibile commerciale filtrato
o costruito dal film di finzione nazionale (in ordine a singoli autori, generi, produzioni). La suddivisione dell’impianto generale presuppone l’omogeneità di
ciascuna partizione, ma non esclude sovrapposizioni tra i contributi in termini
di metodologie, fonti o strumenti, in linea con la natura complessa dell’oggetto
di investigazione.
Nella sezione «discorsi» presentiamo gli articoli di Fabio Andreazza (responsabile scientifico dell’unità di Chieti-Pescara), Angela Bianca Saponari (unità di
Bari) ed Eleonora Sforzi (unità di Chieti-Pescara). Quello di Andreazza (Cinema,
consumi e senso della distinzione. A proposito di L’Espresso) studia il «settimanale
di politica, cultura ed economia» fondato da Scalfari e Benedetti nel 1955 come
campione della stampa illustrata a grande diffusione. Modi, formati e registri
della discorsivizzazione del cinema sono analizzati dall’autore nella loro specifica
capacità di tematizzare in maniera «mitizzante» prodotti e pratiche di consumo
elitarie. Quello di Saponari («Con il parco, la piscina e il cameriere negro». Lo stile
di vita delle star e i consumi di lusso come nuovo discrimine sociale) studia più
specificatamente una selezione di discorsi divistici pubblicati sulla stampa generalista popolare. La off-screen persona di attori e attrici del miracolo economico
viene interrogata dall’autrice in quanto veicolo privilegiato di disseminazione
(indiretta) di nuovi stili di vita opulenti. Quello di Sforzi (Oltre l’esperienza in
sala: il concorso per Gli Argonauti sponsorizzato dal Corriere dei Piccoli) studia
infine lo spazio deputato alla paratestualità cinematografica nel celebre settimanale a fumetti per bambini e ragazzi dell’editore Rizzoli. La messa a fuoco della
nuova formula del concorso a premi (legata nella fattispecie al lancio in Italia del
film di Don Chaffey) consente all’autrice di illuminare in maniera convincente le
moderne intersezioni tra dinamiche di consumo extracinematografico (turismo
di massa) e forme dell’esperienza spettatoriale.
Nella sezione «pubblicità» presentiamo gli articoli di Federico Zecca (responsabile scientifico dell’unità di Bari), Gabriele Landrini (unità di Bari) e
Federico Vitella (lo scrivente: responsabile scientifico dell’unità di Messina).
Quello di Zecca (Divismo, pubblicità e consumi nell’Italia del miracolo economico.
Riflessioni di metodo e spunti di analisi) studia il divismo in rapporto all’emersione della cultura pubblicitaria dell’Italia dei primi anni ’60. Attraverso il caso
specifico della campagna promozionale di alcuni icastici prodotti alimentari
(come la pasta), l’autore mostra efficacemente la capacità dell’immagine divistica
(star-text) di assorbire e funzionalizzare (in termini di genere) anche il mandato
pubblicitario più esplicito. Quello di Landrini (Quando gli attori si scoprirono
testimonial. Il divismo nei caroselli italiani) studia il contributo fornito dal cinema
nella gestazione del ruolo del testimonial pubblicitario televisivo. Il censimento
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di un campione estensivo di campagne promosse da Carosello nel medio periodo consente all’autore di tracciare una prima ampia mappatura di figure, merci
e registri comunicativi. Chi scrive (I persuasori poco occulti. Per un’archeologia
del product placement nel cinema italiano) studia infine la produttiva sinergia
stabilitasi all’ombra della politica tra cinema e industria nell’immediato secondo
dopoguerra. Incrociando analisi sociosemiotica del film e lavoro d’archivio (pubblico e d’impresa), ricostruisco per la prima volta i modi e i tempi di costituzione
dell’istituto del product placement nel cinema italiano.
Nella sezione «rappresentazioni» presentiamo gli articoli di Laura Busetta
(unità di Messina), Federico Pagello (unità di Chieti-Pescara), David Bruni
(responsabile scientifico dell’unità di Cagliari) e Mattia Cinquegrani (unità di
Cagliari). Quello di Busetta (Il giradischi, la pelliccia e l’automobile: il paesaggio
del consumo in Io la conoscevo bene) studia il ruolo delle «cose» nell’economia
narrativa dell’ultimo lungometraggio di Antonio Pietrangeli. Con una prospettiva
debitrice della semiotica e dell’antropologia degli oggetti, l’autrice mostra come
alcuni prodotti paradigmatici (giradischi, pelliccia, automobile) costruiscano
l’identità profonda della protagonista, adombrando altresì più generali conflitti
generazionali, di classe, di genere. Quello di Pagello (Tra giallo, nero e gelatine
colorate. Sui «gialli» di Mario Bava, Diabolik e l’immaginario della società dei
consumi) studia l’impatto dell’immaginario consumistico degli anni ’60 su alcuni
celebri gialli-thriller di Mario Bava. Sulla scorta di omologhe letture di area francese, l’autore avvicina visibile (lusso), temi (desiderio), forme (estetizzazione) e
narrazione (ipotassi) a elementi di contesto, come i linguaggi del design e della
moda, riconducendo l’aggiornamento del genere a logiche culturali profonde.
Quello di Bruni (Una vita difficile? La società dei consumi secondo Dino Risi)
studia il posto occupato dai temi del consumo nella poetica di Dino Risi. Attraverso l’analisi di alcuni film esemplarmente dislocati ad inizio, centro e fine
periodizzazione, l’autore monitora la percezione della trasformazione delle agende di consumo degli italiani rispetto alle articolazioni generazionali. Quello di
Cinquegrani (Bulli, provinciali e borgatari. Automobilismo, consumo e identità in
Il sorpasso, La visita e La notte brava) studia infine l’estensione dello spettro di
senso associato all’automobile come simbolo del miracolo economico. I tre casi
convocati allo scopo dall’autore marcano altrettanti modi della rappresentazione
del veicolo rispetto alla sua capacità di caratterizzare indirettamente stili di vita
e modelli identitari a cavallo degli anni ’60.
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