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SALVATORE FRANCESCO LATTARULO Un caso di rilettura originale della Resistenza: «La strada più lunga» di Nelo Risi In I cantieri dell’italianistica. Ricerca, didattica e organizzazione agli inizi del XXI secolo. Atti del XVIII congresso dell’ADI – Associazione degli Italianisti (Padova, 10-13 settembre 2014), a cura di Guido Baldassarri, Valeria Di Iasio, Giovanni Ferroni, Ester Pietrobon, Roma, Adi editore, 2016 Isbn: 9788846746504 Come citare: Url = http://www.italianisti.it/Atti-diCongresso?pg=cms&ext=p&cms_codsec=14&cms_codcms=776 [data consultazione: gg/mm/aaaa] I cantieri dell’Italianistica © Adi editore 2016 SALVATORE FRANCESCO LATTARULO Un caso di rilettura originale della Resistenza: «La strada più lunga» di Nelo Risi1 Cercano il voltagabbana per fucilarlo. Con alla tempia la pistola sono sereno come se il terremoto m’avesse squassato la coscienza. (da Davide Lajolo, Il «voltagabbana») Quello di Nelo Risi è un esempio interessante di poeta-cineasta che ha praticato i più diversi generi dell’arte in pellicola. Il filo rosso che lega questo ventaglio di lavori è il racconto poetico per immagini. «La strada più lunga» (1965) costituisce forse una delle opere meno note di questo filone. Si tratta di una riduzione girata in bianco e nero per il piccolo schermo del romanzo «Il voltagabbana» di Davide Lajolo. È la storia di Michele, un fascista della prima ora che, all’indomani dell’armistizio dell’8 settembre, registra dentro di sé la crisi di quei valori in cui aveva fin lì creduto. Decide così di non aderire alla Repubblica di Salò e di passare dalla parte della lotta partigiana. È un caso di lettura artistica della vicenda resistenziale in controtendenza rispetto alla mitografia celebrativa egemone in molta parte del cinema e della letteratura di guerra. Nel mio intervento mi propongo di istituire un confronto tra la versione filmica e il pattern narrativo di Lajolo. A fronte della sua minore fortuna critica rispetto a opere come Diario di una schizofrenica (1968), Idillio (1978) o La colonna infame (1988), la pellicola La strada più lunga (1965) è uno snodo chiave nella storia del rapporto tra Nelo Risi e la settima arte. Mette subito conto notare che questo lavoro costituisce di fatto il primo film dell’artista milanese2. La sua filmografia contiene fino a questo punto solo documentari. Tale genere, si badi bene, funge da palestra cruciale se non essenziale ― pare fin troppo ovvio notarlo ― per la formazione del Risi regista. Ma non si tratta solo di una fase di apprendistato e rodaggio in vista dei successivi sviluppi del suo impegno creativo con il mezzo della cinepresa. Nel filone documentaristico Risi continuerà a cimentarsi anche dopo essere approdato alla forma più matura del racconto per immagini in movimento3. Questa fedeltà nel tempo si spiega, in fondo, con la sua stessa idea di cinema, inteso come lavoro su un ‘documento’, di carattere storico, scientifico o letterario4. Oltretutto la presa diretta sulla 1 Il mio più sentito ringraziamento va all’Istituto per la Storia della Resistenza e della Società contemporanea di Asti, per avermi fornito la riproduzione in dvd della pellicola di Risi, e all’Associazione culturale «Davide Lajolo» del comune di Vinchio, per il ricco materiale bibliografico che mi ha trasmesso intorno alla figura dello scrittore e giornalista piemontese. Presso la sede del Centro studi è stata allestita una mostra permanente (Davide Lajolo. Vinchio è il mio nido, con il relativo catalogo stampato dalle Impressioni Grafiche di Aqui T.), curata dalla figlia Laurana, che illustra la vita e l’attività di Lajolo, da un romanzo del quale, Il «voltagabbana», Risi ha tratto la sua pellicola. 2 A rigore Risi debutta nel cinema firmando la regia di uno degli episodi («Le ragazze madri») del film collettivo, nato da un’idea di Cesare Zavattini, Le italiane e l’amore (1961), interamente recitato da attori non professionisti. 3 Si vedano Giuseppe Pinelli (1970), Una diga sul mare (1973), Venezia tra Oriente e Occidente (1974). 4 «Ancor oggi mi riconoscerei nel documentarismo, senza bisogno di pensare alla finzione, e se ho un rimpianto è che la televisione è diventata più giornalistica che documentaristica» (L. DE GIUSTI, Di tante cose. Conversazione con Nelo Risi, in Id. [a cura di], Nelo Risi: il cinema, la poesia, Conegliano, Antennacinema, 1 I cantieri dell’Italianistica © Adi editore 2016 realtà così com’è, nella sua nuda oggettività, riflette a pieno lo sforzo di aderire alla verità del mondo, la volontà di stare ‘dentro la sostanza’ delle cose appannaggio della produzione in versi di Risi5. E tuttavia, proprio al poeta, che nel frattempo si è andato manifestando con una serie di raccolte che lo segnalano di diritto come una delle voci più tese e potenti degli inizi del nostro secondo Novecento, il docu-movie pare rivelarsi non del tutto adeguato alla sua istanza di canto. Voglio dire che, nonostante nella versificazione risiana scorra come in sovrimpressione il côté del documentarista6, il genere nel quale egli addestra sin dagli esordi la passione per l’obiettivo è, per convenzione e statuto, privo, o quanto meno avaro, di quella potenzialità di travestimento lirico dell’esistenza che invece il film consente di dispiegare ad ampio raggio. Ciò non significa che il tratto maturo, o per meglio dire più compiuto, del percorso risiano di attraversamento del linguaggio del filmico si possa rubricare sotto la fortunata formula di «cinema di poesia» con cui Pier Paolo Pasolini in una conferenza di Pesaro del 19657, guarda caso nel medesimo anno in cui vede la luce La strada più lunga, etichetta la propria esperienza registica. Ma costituisce parimenti un dato incontestabile che Risi abbia fatto anche cinema sulla poesia. Basterà rinviare al già citato Idillio, ispirato all’Infinito leopardiano, a Una stagione all’inferno (1971), con cui il maestro milanese porta sul grande schermo la vita e l’opera di Rimbaud, o all’esperimento televisivo (1980) su I fiumi di Ungaretti8. Sono esempi che testimoniano di per sé della sua intima convinzione che il cinema non possa fare a meno di abbeverarsi, se non altro nella scelta dei copioni, alla fonte della più ‘nobile’ delle forme di scrittura. A guardar bene, il primo film di Risi si colloca ancora, almeno sul piano delle scelte tecniche, sotto l’ombrello dell’originaria impronta documentarista. «Insieme a Il taglio del bosco di Cottafavi9» esso «costituisce il primo esempio di cinema televisivo girato a sedici mm, in bianco e nero, fuori dagli studi»10. Si noti che questa «pellicola a formato ridotto, nata originariamente per uso amatoriale», è «ora utilizzata ampiamente per scopi professionali, in particolar modo nel campo specializzato: ricerca scientifica ed industriale, documentari educativi, televisione»11. La strada più lunga è un film a soggetto nato appunto per la tv12. Il lungometraggio in due tempi, trasmesso in prima serata sul secondo canale della Rai il 24 novembre del 1965, fa parte di una serie televisiva ideata da Raffaele La Capria per commemorare il ventesimo anniversario della guerra di liberazione dal nazifascismo dal titolo «Racconti italiani della Resistenza». L’opera rientrerebbe pertanto nell’ambito del romanzo sceneggiato, un format in voga sulle nostre fre1988, 26). 5 Egli «ha prodotto un cinema che anche nelle opere maggiormente narrative appare lontano dalla finzione e incentrato su episodi di vita vissuta, secondo una ‘poetica dell’usuale’ (la definizione è dello stesso R.) che appare adattarsi particolarmente bene al teleschermo» (F. BOLZONI, Risi, Nelo, in Enciclopedia del cinema, IV, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2004, 656). 6 È lo stesso autore a mettere l’accento su questo aspetto a proposito della raccolta centrale della sua prima stagione poetica, Polso teso (Milano, Mondadori, 1956 e 19732): «“Polso teso”, che è nato a Parigi, è un libro sereno, sia per un’ironia che mi ha sempre accompagnato, sia per una felicità di vita che corrisponde al mio primo matrimonio e al fatto che lavoravo con soddisfazione nel documentarismo e che viaggiavo. Viaggiando avevo fatto tesoro di certe impressioni che sono in “Polso teso”: ecco dove il documentarismo si riallaccia, per la tematica, a certe poesie» (DE GIUSTI, Di tante cose…, 27). 7 Sul punto cfr. A. FERRERO, Il cinema di Pier Paolo Pasolini, Milano, Mondadori, 1978 (già Venezia, Marsilio, 1977), 81-107. 8 Modelli di lettura dell’io lirico ungarettiano: «I fiumi», esercizio filmico di N. RISI per la «Ricerca e Sperimentazione Programmi» della Rai. 9 Il film, tratto dall’omonimo romanzo di Carlo Cassola, è stato diretto da Vittorio Cottafavi nel 1963 per la tv e prodotto dalla Rai. 10 L. DE GIUSTI, La luce, il ritmo, in S. Venturini (a cura di), Nelo Risi. Scritture in movimento, Gorizia, Centro Studi Amidei, 2005, 9. E cfr. ID., Di tante cose…, 28. 11 Cfr. R. TRITAPEPE, Le parole del cinema, Roma, Gremesse, 1991, 210 (s. v. Sedici millimetri, film). 12 Questa la scheda completa del film: SOGGETTO: da Il «voltagabbana» di Davide Lajolo (Il Saggiatore); SCENEGGIATURA: Fabio Carpi e Nelo Risi; CAST: Gianmaria Volonté, Graziella Galvani, Augusto Mastrantoni, Giampiero Albertini, Ernesto Colli, Carlo Enrici, Evar Maran, Teresa Ricci; COLLABORAZIONE alla REALIZZAZIONE: A.N.P.I di Cuneo e di Borgo San Dalmazzo; PARTECIPAZIONE: Lallo Berardengo, Alberto Cipellini, Umberto Boella, Angela Pepino, Giuseppe Arnaud, Marilena Viale; DIRETTORE della FOTOGRAFIA: Mario Bernardo; AMBIENTAZIONE e COSTUMI: Elio Costanzi; MUSICA: Daniele Paris; OPERATORE di MACCHINA: Gaetano Valle; MONTAGGIO: Marcella Jacobacci; SEGRETARIA di EDIZIONE: Luciana Mascolo; AIUTO REGISTA: Odoardo Fiory; ORGANIZZATORI: Luigi Alessandrini, Claudio Agostinelli; REGIA: Nelo Risi. 2 I cantieri dell’Italianistica © Adi editore 2016 quenze nazionali tra gli anni Cinquanta e Ottanta, poi evoluto in regime di «neotelevisione», per usare una formula di Umberto Eco, nella fiction televisiva. Lo sceneggiato, a differenza dell’originale televisivo, che nasce da un soggetto d’invenzione13, mette in immagini un’opera letteraria, in genere nota o popolare. Risi sceglie per questa circostanza di procedere alla riduzione in video di un romanzo non proprio di repertorio o di chiara fama come Il «voltagabbana» di Davide Lajolo, pubblicato tre anni prima a Milano da Il Saggiatore14. Le ragioni che spingono il regista ad affrontare questo particolare testo, che credo vadano ben al di là dell’opera di occasione o su commissione, saranno discusse tra poco. Intanto si dirà che Risi attingerà al serbatoio della letteratura anche nei film successivi destinati al grande schermo. È il caso di Andremo in città (1966), debitore all’omonimo racconto di sua moglie Edith Bruck, del sopra citato Diario di una schizofrenica, ispirato al Journal d’une schizophrène della psicanalista svizzera Marguerite Andrée Séchéhaye, di Ondata di calore (1970), tratto dall’omonimo romanzo di Dana Moseley, e ― ne si è fatta menzione poc’anzi ― de La colonna infame, trasposizione fedele del saggio storico manzoniano sul seicentesco processo agli untori, che di tante riletture contemporanee ha goduto, a cominciare da quella di Leonardo Sciascia. Nel rapporto fecondo tra cinema e letteratura va poi inserito Le città del mondo, altro e isolato campione, insieme a Il «voltagabbana», di opera a soggetto prodotta dalla Rai per la tv. La genesi complessa di questo lavoro merita un momento di attenzione in seno al contesto che mi sono dato. Nelle intenzioni di Risi il lungometraggio avrebbe dovuto marcare «il suo passaggio dal documentario al film di fiction»15. Se non che, prima le disparità di vedute emerse in fase di lavorazione tra il regista e l’autore del romanzo, Elio Vittorini, in merito alla sceneggiatura ― stesa a quattro mani con Fabio Carpi, lo stesso che co-firmerà quella de La strada più lunga16 ― e in seguito gli ostacoli editoriali incontrati da un ricercato prodotto artistico di limitata appetibilità per il mercato cinematografico costrinsero Risi ad accantonare il progetto da lui accarezzato sul finire degli anni Cinquanta, a seguito della lettura entusiasta di alcuni capitoli del libro apparsi alla spicciolata in rivista. Sarà poi la Rai a finanziare l’opera e a mandarla in onda nel 1975, a poco più di un lustro di distanza dalla pubblicazione postuma del romanzo da Einaudi a cura di Vito Camerano, e ben un decennio dopo l’uscita de La strada più lunga. La sofferta gestazione del lungometraggio ritardò pertanto di qualche anno il debutto di Risi come film-maker17. E certo una singolare affinità di destini lega le due Città del mondo, quella su carta e quella su pellicola, sorte nello scenario della cultura italiana della seconda metà del secolo: il romanzo interrotto da una parte, la sceneggiatura interrotta dall’altra. Né deve essere passato sotto silenzio, mi pare, che il fascino esercitato dall’ultima fatica narrativa rimasta incompiuta dello scrittore siracusano sull’estro creativo dell’intellettuale milanese sia non tanto o non solo la sua tecnica costruttiva, «che è insieme cinematografica o da feuilleton, fatta di stacchi continui e di riprese, di sospensioni e di digressioni»18 quanto anche o soprattutto il motivo assorbente del viaggio alla scoperta di sé, reiterato nei gesti dei vari protagonisti de Le città del mondo, che funge da solida architrave diegetica anche ne Il «voltagabbana». Un tema che il Risi uomo e artista, fortemente segnato in gioventù dal confinamento sul fronte russo e dall’esilio svizzero, non può non avvertire nelle sue corde più recondite. Del resto, il titolo per cui egli opta per la riduzione televisiva del novel di Lajolo, La strada più lunga ― derogando oltretutto al prevalente costume di dare all’opera di regia lo stesso nome del suo antecedente letterario ― stringe con tutta evidenza l’obiettivo sul topos dell’esistenza come faticosa e continua viandanza. E non appartiene in fondo, verrebbe da dire, alla natura stessa del cinema interpretare la vita come moto continuo e necessario? Non a caso, la prima scena del film ― successiva al breve prologo documentario affidato a filmati di archivio19 che danno conto in pillole dei fatti del 25 luglio20 e dell’8 settembre ― è costituita dal tragitto Risi sperimenta questa tipologia ne L’oro del camino (1983). Il lungometraggio, girato per la tv su soggetto di Giancarlo Bertelli e sceneggiatura di Gigi Botta, è una favola cruda intorno al sogno del riscatto economico e sociale che seduce la mente di un gruppo di umili spazzacamini. 14 Il romanzo è stato poi pubblicato dieci anni dopo da Mondadori. A questa edizione (Milano 1973) si farà riferimento per le citazioni contenute nel presente saggio. 15 L. DE GIUSTI, La luce, il ritmo in S. Venturi (a cura di), Nelo Risi. Scritture in movimento…, 13 (= ID., La luce, il ritmo, in Id. [a cura di], Nelo Risi. Il cinema, la poesia…, 12). 16 Carpi è stato anche co-sceneggiatore di Diario di una schizofrenica e Idillio. 17 Cfr. L. DE GIUSTI, La luce, il ritmo in S. Venturi (a cura di), Nelo Risi. Scritture in movimento…, 13 (= ID., La luce, il ritmo, in Id. [a cura di], Nelo Risi. Il cinema, la poesia…, 14). 18 E. ESPOSITO, Introduzione a E. Vittorini, Le città del mondo, Milano, Mondadori, 1991, 7. 19 Si tratta di una risorsa visiva impiegata in altri casi da Risi. Si veda per esempio l’inizio de Il delitto Matteotti (1965), dove scorrono immagini di repertorio che documentano atti di violenza dello squadrismo fascista. 13 3 I cantieri dell’Italianistica © Adi editore 2016 in camion del personaggio principale ― cui Risi dà il nome non di Davide, come nel romanzo, ma di Michele (Beraudo), interpretato da uno dei suoi attori preferiti, Gianmaria Volonté21 ― il quale, barba lunga e occhi pieni di sonno, confessa all’autista di stare tornando finalmente a casa dopo aver combattuto dal lontano ’34 come ufficiale in Etiopia, Spagna, Francia, Albania e Grecia. «Le manca solo la Russia», replica secco e sornione il suo interlocutore. In questa battuta non si può non cogliere un’eco velata del periodo trascorso in armi sul Don da Risi22, che dà filo alla tessitura della sezione iniziale, La tenda, di quella che è di fatto la raccolta d’esordio del poeta, L’esperienza23. È l’indizio che la parabola del reduce messa a dimora ne Il «voltagabbana» sta quanto mai a cuore al regista. Tanto più che L’esperienza è un diario in versi di matrice autobiografica ― né più né meno come il libro di Lajolo ― che fa riemergere alla memoria dell’io lirico il suo ritorno sul familiare suolo lombardo dopo la parentesi russa e svizzera24. Il momento del rientro in patria è vissuto tanto dal poeta quanto dal romanziere in termini di spaesamento dell’individuo che, in preda a un angoscioso senso di smarrimento della propria identità, si autoritrae quasi straniero fra le mura amiche, forestiero a se stesso e al suo destino. È il trauma della guerra vissuta nella propria carne che aliena le coscienze dei singoli, le rivolta da cima a fondo. Michele avverte in cuor suo che il ricongiungimento coi luoghi cari non è la tappa conclusiva delle sue traversie di combattente. Nonostante lo squillante annuncio via radio dell’armistizio, che fa da prima nota storica allo spartito visivo di Risi, «la guerra non è finita», sentenzia il protagonista all’indirizzo del camionista, mentre questi lo lascia in mezzo a una campagna che lo accoglie non con i colori caldi della primavera ma con le tonalità gelide dell’inverno. Proprio nella sua terra natale lo aspetta un’altra guerra più cruenta e amara della prima. Lo sparo del cacciatore che gli passa accanto mentre taglia per i boschi è il presagio che quelle stesse alberature diventeranno di lì a poco teatro di aspri e sanguinosi scontri. È il paesaggio delle colline e delle valli piemontesi che, sincero e spettrale insieme, si distende sotto i suoi passi. Mi pare allora che questo quadro di avvio contenga più che un cenno d’intesa all’opera che corrisponde al primo approccio di Risi con la macchina da presa. Mi riferisco a Ritorno nella valle (Au dessus de la vallée), un documentario di un quarto d’ora del 1949, prodotto in Francia da John Ferno, che mette in scena il nóstos a guerra finita di alcune famiglie nel loro paesino di montagna sfigurato dalle bombe. Una testimonianza sulla furia distruttiva del fuoco bellico ma anche sulla speranza di rinascita dalle rovine e di ripacificazione degli animi. La pellicola è ambientata in Grecia, tra quelle stesse aspre gole che vedono impegnato in prima linea Davide-Michele durante una delle tante disavventure militari rievocate dal protagonista nel suo lungo reportage di guerra. «Conobbi le montagne greche, il fango simile alla pece, la precisione del tiro dei mortai nemici», ricorda l’io narrante de Il «voltagabbana»25. C’è poi il particolare analogo del camion, che in Ritorno nella valle entra in campo da subito per restituire la gente sfollata all’abbraccio delle loro case abbandonate, a fare da sottile anello di congiunzione tra le due pellicole. La casa che attende Michele al suo arrivo tra i posti dove ha trascorso l’età dell’innocenza è viceversa rimasta piena del tepore umano della sua famiglia. E ai suoi affetti viscerali, alla giovane moglie Carla e alla figlioletta di tre anni Marilena26, che va il suo primo pensiero quando gli si para davanti agli occhi il 20 Con la notizia della caduta del fascismo si apre il primo romanzo di Lajolo, pubblicato con lo pseudonimo di Ulisse, Classe 1912 (Asti, Arethusa, 1945). Il libro sarà poi ristampato trent’anni dopo con il nome anagrafico e con il titolo A conquistare la rossa primavera (Milano, Rizzoli, 1975), introdotto da una nota di Giorgio Amendola. Non è da escludere che l’incipit del film di Risi sia debitore all’attacco ex abrupto di questo romanzo («25 luglio ― Tutto crolla? Il mondo gira o gira solo la mia testa? A mezzanotte al telefono, una voce morta di paura e piena d’affanno mi comunica che Mussolini ha dato le dimissioni», p. 9 della 2a ediz.), laddove Il «voltagabbana», come si vedrà più avanti, prende il la dai primi anni di vita del protagonista. 21 Egli è anche nel cast del su elencato film-inchiesta sulla morte dell’anarchico Pinelli. 22 In una scena successiva del film Michele legge alla moglie davanti al camino una disperata lettera dell’amico Mantovani morto in Russia. Sullo schermo sfilano le fotografie delle truppe italiane che affondano la marcia nell’immenso deserto di neve. 23 N. RISI, L’esperienza, Milano, Edizioni della Meridiana, 1948. «Non si può stabilire un confine netto ― osserva A. G. MANCINO ― tra la sua attività poetica e quella cinematografica, sempre di matrice letteraria» (Risi, Nelo, in G. P. Brunetta [a cura di], Dizionario dei registi del cinema mondiale, III, Torino, Einaudi, 2006, 186). 24 Come spiega l’autore nella nota finale le poesie incluse nel libro «comprendono tre stagioni: la russa, la svizzera, l’italiana, e furono composte tra il 1943 e il 1947» (N. RISI, L’esperienza…, 65). 25 D. LAJOLO, Il «voltagabbana», Milano, Mondadori, 1973 (già Milano, Il Saggiatore, 1963), 181. 26 Nel romanzo si chiamano rispettivamente Rosetta e Laurana. 4 I cantieri dell’Italianistica © Adi editore 2016 presepe di abituri appollaiato sul cocuzzolo di un poggio. La macchina da presa zooma per qualche istante sul piccolo borgo contadino come a restituire in cartolina la descrizione che apre il libro di Lajolo: Il mio paese sta tutto raggruppato sulla più alta collina del basso Monferrato. Un centinaio di case e non più, che stanno in piedi perché da secoli si appoggiano una all’altra, costruite quando ancora i mattoni non erano cotti nelle fornaci, con tacconi di cemento sui tratti di mura rosse e nere corrosi dal tempo27. Il paese di cui si dice nel romanzo è Vinchio d’Asti, dove l’autore è nato nel 1912 e dove è sepolto da trent’anni28. È un paese «di fango», come egli più di una volta lo definisce nel corso del libro e la cui memoria affiora svariate volte lungo l’arco di tutta la sua produzione letteraria, in particolare in I mé. Racconto senza fine tra Langhe e Monferrato, che tanto piacque a Mario Soldati29, esempio della più alta narrativa ‘strapaesana’, da La luna e i falò di Cesare Pavese a La Malora di Beppe Fenoglio, scrittori dei quali egli fu amico fraterno, estimatore sincero e studioso appassionato. Risi opta invece per il toponimo Roccasparvera, un comune montano del Cuneese, abbarbicato sul fianco di una rupe all’imbocco della valle della Stura. Il film è stato girato in prevalenza proprio da queste parti30. Il «voltagabbana» prende tuttavia le mosse dall’infanzia del personaggio principale seguendone via via le fasi che lo portano prima ad aderire al fascismo e a partecipare alle campagne militari del Duce, quindi alla crisi di coscienza e all’abiura del passato, infine a entrare nella lotta partigiana. È l’auto-identikit di un «voltagabbana», secondo la definizione che Lajolo s’intesta tra virgolette obbedendo al gusto di una provocazione intellettuale, come egli stesso spiega nell’avvertenza: Il titolo del libro Il «voltagabbana» si riporta alla facile accusa di troppi che non sanno, o vogliono ignorare gli sviluppi della vita e della storia, rifugiandosi in una dogmatica e falsa coerenza a idee e costumi che hanno portato tutti sull’orlo della rovina. Ma poi l’autoironia è ancora il contegno più decente, quando si ha in uggia il patetico. È chiaro che dirigersi verso il meglio, capire i propri errori, non vuol dire voltare gabbana31. Il termine è desunto dall’humus contadina, dove la ‘gabbana’ o ‘gabbano’ è il camice adoperato nel lavoro dei campi. Dunque è un omaggio a quella civiltà rurale di cui Lajolo è figlio. Con grande efficacia comunicativa, il regista, mentre scorrono i titoli di testa, inquadra un anonimo soldato che cede la sua divisa di ordinanza a un contadino alla guida di un calesse in cambio di una giacca da civile. In quel gesto muto ma eloquente, che sta a indicare una mutazione non solo di casacca ma di pelle, si condensa il momento più drammatico di un’assurda vicenda privata e collettiva che il cinema di Risi ha la forza di denunciare in pochi centimetri di pellicola. Con la stessa fulminea intensità di un colpo secco di fucile. Il regista taglia allora una buona prima metà del romanzo diluendola in rapidi flashback che danno conto dei trascorsi fascisti di Michele ― che nel libro appesantiscono e rallentano il ritmo della narrazione ― attraverso documenti visivi di repertorio. Gli preme mettere da subito sotto la lente dell’obiettivo la mina del travaglio interiore che scoppia nella testa di Michele non appena si siede a tavola con i suoi nel riparo sicuro eppure fragile del focolare domestico. Dal soggetto originale il regista estrae come cuore per il suo canovaccio il dissidio di un’anima una volta restituita all’apparente normalità del quotidiano. La strada più LAJOLO, Il «voltagabbana»…, p. 11. Sulla figura di Lajolo (Vinchio 1912 - Milano 1984), scrittore e giornalista, si veda diffusamente M. ALBELTARO, La parentesi antifascista. Giornali e giornalisti a Torino (1945-1948), prefazione di A. Agosti, Torino, Edizioni SEB 27, 2011. 29 D. LAJOLO, I mé. Racconto senza fine tra Langhe e Monferrato, con una lettera di M. Soldati, Firenze, Vallecchi, 1977. Mi piace citare l’attacco dell’opera: «Non so se accade a tutti ma io sono un uccello che ha la fortuna di ritrovare sempre un nido sulle alte piante dei boschi che circondano da tutto un lato il mio paese» (p. 3). 30 È curioso che Rocca, che è l’appellativo usato abitualmente dalla gente del posto, è anche il nome di battaglia di uno dei partigiani che Lajolo incontra lungo la sua strada. Costui, un operaio di sanguigna fede comunista che disprezza i fascisti, guida un’eroica offensiva, descritta nelle ultime pagine del romanzo, contro l’avanzata dei tedeschi per tenere Santo Stefano Belbo. Non escludo che la decisione di Risi di ambientare il film a ‘Rocca’ sia in qualche modo debitrice al soprannome di questo personaggio. 31 LAJOLO, Il «voltagabbana»..., 9. «Il titolo del libro ― commenta G. Bocca nell’introduzione all’edizione Rizzoli del romanzo (Milano 1981, 5) ― è ironico e anche un po’ guascone; non penitente e reo confesso come potrebbe immaginare chi non ha vissuto quegli anni e i loro grandi mutamenti». 27 28 5 I cantieri dell’Italianistica © Adi editore 2016 lunga è allora il rimontaggio, la reinterpretazione dell’autoanalisi di una scissione, di una dissociazione di un io postumo di se stesso, che incuba nel ritrovato nido familiare. Ecco perché la rentrée del protagonista non poteva non essere per Risi lo starter dell’azione, il primo giro di manovella, a voler stare al lessico della tecnica cinematografica d’antan. Michele è davvero come l’Ulisse ― archetipo per eccellenza di ogni viaggiatore ― che egli ha scelto come nome di battaglia dopo l’ingresso in banda. E la sua Carla, che è rimasta in attesa di lui per lunghi anni godendo delle gioie del matrimonio solo per pochi mesi, è una dolcissima Penelope in salsa langarola cui presta il volto e la voce una convincente Gabriella Galvani. Le toccherà però patire di nuovo l’assenza del suo uomo, che sarà ingoiato dal folto della macchia. Eppure Michele prova a reinserirsi nel suo habitat larico, a tornare alla vita di sempre, alle cose lasciate, alle letture dismesse. Ma mentre passeggia per le strade del paese ha la sensazione di essere braccato dalla sua stessa gente, che si ritrova tra i piedi uno dalla reputazione scomoda come la sua. Egli vive il tormento di chi crede di aver fallito non solo come soldato ma anche come marito e padre. Nel romanzo Lajolo esprime così questo stato d’animo: «Cominciarono per me, al paese, i giorni più lunghi della mia vita. Mi sentivo sperduto e vinto, rabbioso e inerme»32. Qui, in quel «i giorni più lunghi della mia vita», sembra annidarsi un suggerimento involontario al titolo del futuro film. Perciò, quando Michele vede la propria immagine riflessa nello specchio intuisce che non si può più «stare a guardare». È proprio la graduale metamorfosi del protagonista, la sua lenta macerazione, a polarizzare allora l’attenzione del regista33. Sicché ‘la strada’ che Michele deve percorrere è anche, in punta di metafora, il cammino del proprio io profondo attraverso le rotte devastate della storia. Il duro faccia a faccia con se stessi non ammette facili scorciatoie: sta qui l’ammonimento più autentico che Risi lancia oltre la parete dello schermo. Ma la chiave di lettura non è solo di natura, per così dire, esistenziale. C’è anche un risvolto ‘politico’. Il dibattito pubblico italiano non aveva ancora sviluppato gli anticorpi vent’anni dopo il Ventennio ― mi si passi il bisticcio di parole ―, né ad oggi appare ancora vaccinato del tutto, rispetto al virus della cronica contrapposizione ideologica tra fascismo e antifascismo che ha oltrepassato le difese della storia trasformandosi quasi in un’endemica patologia del nostro costume civile nazionale. Ne deriva che Risi si mostra vieppiù in questa circostanza intellettuale civile, anzi ‘civilissimo’, per dirla con il titolo di una sua plaquette. Nell’ambizione di asciugare il romanzo che si presenta qua e là disorganico e dispersivo per l’inserzione debordante di troppi materiali34, come per esempio le lettere dal fronte, Risi ― che in tal senso realizza una ben riuscita operazione di editing cinematografico ― elimina il doppio binario della narrazione. Il «voltagabbana» è in effetti un libro a due voci. In alcuni capitoli a prendere direttamente la parola è Davide Lajolo, in altri, contraddistinti in carattere corsivo (una soluzione tipografica che di per sé suscita a livello ottico un’impressione di frammentarietà), è Francesco Scotti, un comunista duro e puro di Castelpurlengo, conosciuto durante la guerra di Spagna del ’37. I due, che si sono combattuti su fronti opposti, ciascuno a suo modo, ciascuno sposando convintamente fedi politiche diverse, e pur tuttavia nel nome congiunto della libertà e del riscatto degli oppressi, si ritrovano insieme al termine del libro, stavolta dallo stesso lato della barricata. Le due biografie, che lungo tutto il romanzo procedono come due affluenti paralleli di un medesimo fiume, confluiscono così alla fine in unico corso d’acqua, che è poi l’alveo capiente di una grande storia comune. Scotti, pur dotato di un profilo autonomo, di una statura di personaggio, è un po’ l’alter ego di Lajolo, l’altra metà di lui rimasta sepolta sotto le macerie fumanti di un fanatismo patriottardo e populista ma che ora viene alla luce del sole per brandire di nuovo il moschetto a favore di quella che finalmente gli si manifesta come una causa giusta e irrinunciabile. La trovata di Risi sta nel trasfondere il ruolo di Scotti nel personaggio di zio Augusto. Tant’è che «Augusto» nel romanzo è il soprannome da combattente di Scotti. Quando il vecchio zio entra in scena, MiLAJOLO, Il «voltagabbana»…, 193. Risi fa venire subito al pettine il nodo scorsoio della «“scelta”, il passaggio da una situazione di attendismo e di “renitenza protetta” alla clandestinità e alla lotta armata» (M. RENOSIO, L’Ulisse della guerra partigiana, in I filari del mondo. Davide Lajolo: politica, giornalismo, letteratura, Atti del Convegno di Vinchio, 11 e 12 giugno 2005, a cura di L. Lajolo, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2005, 28), che invece nel romanzo appare più sfilacciato. 34 Osserva d’altra parte S. PAUTASSO a proposito del corpus romanzesco complessivo di Lajolo: «il testo diventa il campo del confronto dove autobiografia e memoria acquistano un carattere cha va oltre il dato letterario per entrare nella vita, naturalmente trascinandosi dietro tutti i pericoli connessi a un simile coinvolgimento, primo fra tutti il rischio che la mancanza di sedimentazione e di distacco finisca per alimentare pagine a volte troppo sanguigne ed eccedenti» (Davide Lajolo tra memorialistica e narrativa, in Davide Lajolo, Poesia e politica, Atti del Convegno di S. Stefano Belbo, 15 luglio 1989, a cura del Centro Studi «Davide Lajolo», Alessandria, Edizioni dell’Orso 1990, 8). 32 33 6 I cantieri dell’Italianistica © Adi editore 2016 chele racconta di averlo visto solo qualche volta da bambino e che in quelle circostanze criticava Mussolini davanti a lui e a suo fratello Valdo. L’uomo è un antifascista della prima ora, aduso in tempi non sospetti a profetizzare in famiglia che il regime avrebbe spinto la nazione sul ciglio di un precipizio. Ma è soprattutto un operaio cresciuto a pane e marxismo, come Scotti, cultore del pensiero di Gramsci, Turati e Rosselli. Egli diventa strada facendo il catalizzatore del processo di ‘conversione’ di suo nipote. Oscurando la figura del coetaneo Scotti e demandando al dialogo intergenerazionale il compito di mutare il corso di una lunga stagione di lutti e miserie, Risi isola il personaggio di Michele ― azzerando il canone contrastivo, lo schema deuteragonistico o co-protagonistico del modello di carta ― per farne l’unico portavoce della crisi di un’epoca in cui molta gioventù di allora si riconobbe a un tratto disillusa, spenta, avvilita. Allo Scotti de Il «voltagabbana» ammicca un altro dettaglio registico. Michele, a vicenda ormai avanzata, viene sottoposto all’interrogatorio di un commissario politico, un comunista tutto d’un pezzo, incaricato di valutare la genuinità e la tenuta del ‘pentimento’ dell’ex camerata. Nel romanzo restano ignoti tanto il nome quanto la provenienza di questo ispettore di partito. Nel film, invece, si precisa che egli arriva da Torino. Questo dato topografico non è senza importanza ai fini del mio ragionamento. Da Torino arriva infatti Scotti, alias Augusto, con il compito di «ispezionare» la zona delle operazioni dell’Astigiano, secondo quanto il compagno di reparto Costa comunica a ‘Ulisse’ nel libro di Lajolo35. Ebbene, fondendo i due personaggi, cioè accorciando ancora una volta la prospettiva, Risi inserisce nella sceneggiatura la variante per cui è il funzionario partigiano con cui Michele sostiene il colloquio a giungere da Torino. In tal modo la figura dell’‘innominato’ Scotti assume nel film l’ufficio simbolico di una sorta di inconscio nume tutelare del protagonista, ‘reincarnandosi’ ora in un personaggio ora in un altro. Nelle sequenze finali Michele guida un plotone di partigiani che attraversa un viadotto di pietra. È forse sottesa a questa inquadratura una intenzionalità paradigmatica che dischiude la comprensione del messaggio autentico dell’opera. Il ponte è il contrassegno del ricongiungimento delle due sponde della nazione l’un contro l’altra armate. L’immagine sembra strizzare l’occhio al passo di Piero Calamadrei posto come esergo a Il «voltagabbana»: Un ponte è crollato, e tra i due tronconi delle pile rimaste in piedi, una trave lanciata attraverso, per permettere agli uomini che vanno al lavoro di ricominciare a passare. Cedo la parola al commento di Daniella Gagliani: L’immagine del ponte ― che ora è solo una trave, ma in grado tuttavia di congiungere un’umanità laboriosa ― è emblematica. Si tratta di un ponte gettato fra uomini di opposti schieramenti, come i fascisti e gli antifascisti, sorretti comunque da una comune umanità. Ma si tratta anche di un ponte fra le generazioni […]. Lo scopo è in ogni caso quello della comunicazione, perché nulla come un ponte mette in comunicazione36. Con la ripresa della colonna di partigiani che nel chiaro di un nuovo giorno avanza compatta tra la boscaglia Risi si congeda dagli spettatori. L’icastica iconologia del viaggio è allora con tutta evidenza la sigla poetica del film. E trova il suo appiglio espressivo anche nello stesso epilogo de Il «voltagabbana». Qui il protagonista si rappresenta in carcere, dove, neanche tre mesi dopo la Liberazione, sta scontando una sentenza di condanna emessa a suo carico da un tribunale militare angloamericano. Mentre dal chiuso della cella sente il sibilo dei treni che a distanza regolare partono dalla stazione di Porta Nuova, così riflette dentro di sé: Voltagabbana? Sorridevo. L’ultimo fischio dell’ultimo treno notturno mi invitava al viaggio. Un viaggio così convinto e allettante che la cella s’apriva oltre le pareti. S’apriva anche il cielo alla luce, la notte dileguava37. Cfr. LAJOLO, Il «voltagabbana»…, 245. D. GAGLIANI, La fascinazione del fascismo, in L. Lajolo (a cura di), I filari del mondo. Davide Lajolo: politica, giornalismo, letteratura…, 5. 37 LAJOLO, Il «voltagabbana»…, 296. 35 36 7