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Fruttuoso è lo studio della storia

2024, Nautilus

“Lo storico deve liberamente lavorare alla frontiera, sul confine, un piede di qua, uno di là. Lavorare utilmente”. Una nuova storia non si afferma, rispetto alla storia tradizionale, senza una “battaglia” intellettuale e culturale. E poi c’è il conforto del riscontro sociale. Prendiamo il caso di un paese e di un territorio delle grandiose aree interne italiane, quelle che sono state ignorate nell’ultimo secolo. Da Capizzi, paese interno della Sicilia più interna, al confine delle provincie di Catania, Enna, Messina e Palermo, al confine più lontano delle città, sale una domanda sociale: come facciamo a rafforzare la nostra identità di Capitini? Sottotitolo della domanda: per evitare di essere spazzati via dalla globalizzazione, dall’attuale fase del capitalismo italiano e internazionale.

NAUTILUS NavigAzioni tra Locale e Globale Studiare oggi Maggio 2024 - n. 35 DIRETTORE RESPONSABILE Monica Pierulivo REDAZIONE Marco Bracci Benedetta Celati Marco Giovagnoli Patrizia Lessi Francesca Passeri Rossano Pazzagli HANNO COLLABORATO A QUESTO NUMERO Antonella Balante Fabio Canessa Adolfo Carrari Diana Ciliberti Silvia Duranti Elena Falaschi Sara Franceschelli Marco Giovagnoli Patrizia Lessi Stefano Lucarelli Manuela Militi Giuseppe Restifo Fabrizio Ricciardelli ILLUSTRAZIONE DI COPERTINA E LOGO Massimo Panicucci GESTIONE CONTENUTI SITO INTERNET Sofia Guarnaccia Info: redazione@nautilusrivista.it SOMMARIO EDITORIALE 4 La curiosità libera il gatto, non lo uccide 6 Teste ben fatte Ripensare l'educazione per abitare la complessità Intervista a Elena Falaschi A cura di Monica Pierulivo 13 Il valore formativo dello Study Abroad di Fabrizio Ricciardelli 27 Studiare in “cucina” Il racconto dello chef Sergio Maria Teutonico di Manuela Militi 29 Fruttuoso è lo studio della storia di Giuseppe Restifo 31 (Ri)studiare la montagna di Diana Ciliberti 15 Studium di Fabio Canessa 33 Lavori in corso di Stefano Lucarelli 16 Obiettivo Zero NEET di Silvia Duranti 36 18 Amaro è salutare Studiare le piante per capire il territorio di Sara Franceschelli Un’esperienza educativa di ieri con contenuti attuali di Adolfo Carrari 39 L’esperienza della Scuola parentale di Ancona Intervista a cura di Marco Giovagnoli 41 NELLA STIVA Altre letture 20 Il diritto allo studio e il sistema carcerario di Antonella Balante 24 Il terzo tempo dell’apprendimento di Patrizia Lessi EDITORIALE La curiosità libera il gatto, non lo uccide Edgar Morin sul finire del XX secolo invitava insegnanti e studenti a riflettere sull'attuale stato dei saperi e sulle sfide che caratterizzano la nostra epoca, sui nuovi problemi posti alla convivenza umana da una interdipendenza planetaria fra le economie, le politiche, le religioni, le conoscenze, le malattie di tutte le società. Per rendere queste sfide affrontabili auspicava una riforma dell'insegnamento fondata sul pensiero complesso. Ma di fronte alle attuali sfide della complessità e alle fitte interconnessioni esistenti, oggi assistiamo a una proliferazione di metodi per semplificare. «Il bisogno di semplificare riguarda tutte le attività e investe tutti gli ambiti della vita sociale e politica, della medicina, della scienza, della tecnologia, della vita quotidiana» - afferma Elena Falaschi nell’intervista di apertura di questo numero. «…. Il significato dello studio in epoca contemporanea non può che essere quello che sostiene la formazione di “teste ben fatte” e non “ben piene”, menti aperte e critiche». Da qui partiamo per un viaggio sul valore dello studio oggi, affrontando necessariamente solo alcune delle tematiche che riguardano questo grande argomento, ma con l’obiettivo di provare a comporre un quadro che dia un’idea delle sue diverse sfaccettature: dall’importanza delle esperienze di studio all’estero, al fenomeno dei NEET (Not in Education, Employment or Training), cioè dei ragazzi che restano esclusi dai contesti educativi, formativi e lavorativi, per passare al diritto allo studio nel sistema carcerario, fino all’apprendimento che dura tutta la vita e che restituisce dignità e importanza a una parte di società, quella della Terza età, sempre più numerosa e attiva. Lo studio infatti è anche libertà. Non può essere libero un uomo che ripete a pappagallo un’intera enciclopedia di stereotipi sugli zingari, perché l’ignoranza è una padrona che si nutre delle frustrazioni dei suoi schiavi, come racconta Ascanio Celestini nel suo spettacolo “Storie di persone”. Una di queste storie ci parla della curiosità, con una maestra che fa aprire gli occhi al protagonista: «Il detto che la curiosità uccide il gatto è falso – dice Celestini - e anzi potremmo dire che la curiosità libera il gatto e aiuta i bambini a esercitare quel senso critico che in futuro li aiuterà a capire cosa è importante per loro e cosa no». E qui veniamo al tema dell’educazione. La nostra scuola che sarebbe deputata all’educazione dei nostri figli istruisce, quando ci riesce, ma non educa, come afferma il filosofo Umberto Galimberti. L’educazione non è solo un passaggio d’informazione, è soprattutto cura profonda degli aspetti emotivi e sentimentali. La mente non si apre se prima non si è aperto il cuore (Platone). Per accendere passioni e curiosità c’è quindi bisogno di questo e l’empatia deve far parte necessariamente del bagaglio di un insegnante. Oggi viviamo nell’epoca della digital transformation, un nuovo paradigma che determina cambiamenti radicali all’interno delle dinamiche della società e nel modo in cui le persone collaborano, si relazionano e si esprimono. La situazione che stiamo vivendo aumenta la presenza della tecnologia, dell’uso sempre più presente di dispositivi e di schermi nelle nostre vite. Al centro di questo paradigma, tuttavia, il fattore più importante resta comunque quello umano. Se l’uomo resta il fulcro di questa prospettiva, la tecnologia non è il fine, ma il mezzo. Fondamentale in tutto questo continuare a relazionarsi incontrandosi. A CURA DI MONICA PIERULIVO Teste ben fatte Ripensare l'educazione per abitare la complessità Intervista a Elena Falaschi 1. Cosa significa studiare oggi, in un’epoca di grandi complessità ma anche di grandi semplificazioni? Analizzando innanzitutto il concetto di “studio” e le sue radici etimologiche, sappiamo che deriva dal latino studium, studere: aspirare a qualcosa, applicarsi attivamente con desiderio, amore e passione, focalizzando l’azione non tanto sulla fatica dell’apprendimento quanto su una disposizione d’animo favorevole nei confronti di qualcosa o di qualcuno. Dai latini a ChatGPT la complessità e la semplificazione hanno rappresentato una “antinomia pedagogica” che, insieme a molte altre, ha attraversato il mondo dell’educazione e della formazione. Nella storia del pensiero pedagogico, le antinomie – già presenti nello strumentalismo deweyano di Democrazia e educazione1 – si sono spesso presentate come problemi le cui risoluzioni non sempre hanno significato la reciproca esclusione dei due concetti. Nella pedagogia si rilevano così antinomie formali (come scienza-filosofia, teoria-prassi, ecc.), pratico-teoriche (ad esempio autorità-libertà, cultura-professione, ecc.), pratico-educative (individualizzazione-socializzazione, rapporto maestro-scolaro, ecc.)2. Con lo stesso approccio, abbiamo bisogno oggi di analizzare la complessità e la semplificazione anche relativamente alle potenzialità formative dello studio, per riconoscere le rispettive specificità ma al tempo stesso tutte le loro reciproche connessioni. Di fronte alle attuali sfide della complessità e alle fitte interconnessioni sistemiche che spesso rendono difficile distinguere le singole parti dal tutto, assistiamo oggi ad una proliferazione di metodi per semplificare. Il bisogno di semplificare riguarda tutte le attività e investe tutti gli ambiti della vita sociale e politica, della medicina, della scienza, della tecnologia, della vita quotidiana. Tuttavia, paradossalmente, il risultato della ricerca frenetica della semplificazione non è altro che quello di produrre un aumento della 2 1 J. Dewey, Democrazia ed educazione, La Nuova Italia, Firenze, 1994. F. Cambi, Manuale di filosofia dell’educazione, Laterza, Bari, 2000. complessità: ad esempio, quanto più l’utilizzo dei computer è semplice, tanto più i software saranno “pesanti”. Quindi, semplificare ha un prezzo. Sulla base di queste premesse, il significato dello studio in epoca contemporanea non può che essere quello che sostiene la formazione di “teste ben fatte”3 e non “ben piene”, menti aperte e critiche, il cui pensiero cum plexus (intrecciato) possa nutrirsi delle infinite interconnessioni derivanti da una molteplicità di saperi, di contesti, di esperienze, secondo il principio interpretativo della “semplessità”. La semplessità non è semplificare, ridurre, eliminare variabili e costruire un modello lineare ma richiede di selezionare, collegare e immaginare. In questo senso, la semplessità può essere espressa come l’eleganza delle soluzioni semplici che permettono di arrivare ad azioni più rapide, più efficaci seppur mantenendo il senso e accettando alcune necessarie deviazioni. In generale, assumere la semplessità come principio regolativo dello studio significa riuscire ad interpretare la relazione tra il particolare e l’universale, qualunque siano i metodi di studio, gli strumenti, i tempi, i risultati. Volendo invece “semplificare”, possiamo interrogare ChatGPT per fornire la risposta alla presente domanda. Questo ciò che ci rimanda: DA CHATGPT: “Studiare oggi significa affrontare una realtà caratterizzata da una quantità enorme di informazioni facilmente accessibili, grazie alla digitalizzazione e al web. Questa abbondanza di dati offre opportunità uniche per ampliare le conoscenze, ma impone anche la necessità di sviluppare capacità critiche per discernere tra 3 E. Morin, La testa ben fatta. Riforma dell’insegnamento e riforma del pensiero, Cortina, Milano 2000. informazioni valide e non. La complessità del mondo contemporaneo richiede agli studenti di adattarsi rapidamente ai cambiamenti e di comprendere fenomeni globali interconnessi. Al contempo, le tecnologie hanno semplificato molte operazioni, permettendo un accesso più immediato alle risorse di studio e la possibilità di apprendere attraverso modalità diverse, come video, podcast, e-learning, ecc.”. 2. Oggi si studia di più o di meno rispetto al passato? Per valutare se oggi si studia di più o di meno rispetto al passato è necessario considerare due aspetti. Innanzitutto, la natura multiprospettica dello studio, prendendone in considerazione le modalità e gli strumenti: lettura silenziosa e ad alta voce (libri cartacei o e-book); ascolto di un adulto o di un compagno oppure di audiolibri; scambi e confronti in luoghi fisici o virtuali (chat, forum, motori di ricerca, siti dedicati, ecc.) con accesso attraverso dispositivi digitali di varia natura. L’altro aspetto da prendere in considerazione è l’età: alla scuola primaria, nella relazione insegnamento/apprendimento, i bambini sperimentano e approcciano i saperi nel rispetto della loro natura interdisciplinare utilizzando, differenti modalità e canali comunicativi. Alla scuola secondaria di primo grado la rielaborazione dei diversi contenuti disciplinari è più definita, le modalità di studio sono più specifiche e cominciano a differenziarsi in relazione alla singola disciplina (la natura discorsiva dell’italiano; l’esercizio matematico; la sperimentazione scientifica; la ricostruzione temporale della storia; l’osservazione mirata e intenzionale delle opere artistiche; ecc.). Proprio in questa fascia di età molta attenzione viene fornita alla costruzione di un proprio e personale metodo di studio, improntato all’apprendimento strategico. Alla scuola secondaria di secondo grado la specializzazione delle materie è ancora più netta e l’importanza della scelta dell’Istituto, e dell’indirizzo al suo interno, è determinante per il successo scolastico perché succede – ancora troppo spesso, purtroppo – che lo studente si renda conto dopo uno o due anni di frequenza che la scelta effettuata non era quella che effettivamente corrispondeva ai propri interessi e alle proprie aspirazioni. Fenomeno questo estremamente complesso e rischioso (e sul quale viene posta molta attenzione in termini di potenziamento dell’orientamento formativo) poiché si traduce in alte percentuali di “dispersione scolastica”. Infine, all’Università. Anche in questo caso l’impegno e il tempo dedicato allo studio sono direttamente correlati alla corretta scelta della Facoltà rispetto alle proprie passioni anziché all’iscrizione ad un Corso di Laurea potenzialmente più legato alle future aperture nel mondo del lavoro. Quindi, rispetto al passato, non si studia né di più né di meno ma si studia secondo una molteplicità di metodi e di strumenti e all’interno di tempi diffusi, non rigorosamente definiti all’interno della giornata. È innegabile infatti che, oggi, le caratteristiche costitutive dei ragazzi sono quelle di poter gestire contemporaneamente un libro di testo, la televisione accesa, la musica nelle cuffie, l’email aperta su pc, Facebook e WhatsApp sullo smartphone, recuperando quell’immagine che ci fornisce Michele Serra in un suo delizioso 4 M. Serra, Gli sdraiati, Feltrinelli, Milano, 2013, p. 50. racconto: “Eri sdraiato sul divano […]. Sopra la pancia tenevi appoggiato il computer acceso. Con la mano destra digitavi qualcosa sullo smartphone. La sinistra, semi-inerte, reggeva con due dita, per un lembo, un lacero testo di chimica […]. La televisione era accesa, a volume altissimo […]. Alle orecchie tenevi le cuffiette, collegate all’IPod occultato in qualche anfratto: è possibile, dunque, che tu stessi anche ascoltando musica4”. Anche in questo caso, possiamo provare a interrogare CHATGPT: “Determinare se si studi di più o di meno rispetto al passato dipende da vari fattori, inclusi il contesto geografico, il livello di istruzione e le metodologie di studio. Globalmente, l'accesso all'istruzione è aumentato grazie a politiche educative più inclusive e all'uso delle tecnologie. Tuttavia, la qualità e la profondità dello studio possono variare. Gli studenti di oggi potrebbero dedicare più tempo a forme diverse di apprendimento, sfruttando la tecnologia, ma ciò non sempre si traduce in un apprendimento più approfondito o critico. Il rischio di una superficialità nell'acquisizione delle conoscenze è presente, a causa della rapidità con cui le informazioni sono consumate e dimenticate”. 3. La rivoluzione tecnologica ci ha portato dentro un nuovo ecosistema e il web ha prodotto enormi cambiamenti nella società. Per capire tutto questo è importante essere in grado di decodificare, acquisire capacità critiche. Qual è l'importanza dello studio umanistico in tutto questo? Vista la domanda specifica sulla rivoluzione tecnologica, in questo caso presento direttamente ciò che l’Intelligenza Artificiale ci propone. Questo breve esempio operazionale di decostruzione del significato di “Intelligenza Artificiale” è l’impegno attuale e urgente che qualunque sistema formativo deve assumersi. DA CHATGPT: Ci vengono in aiuto le riflessioni di alcuni grandi teorici che si sono occupati di “equilibri ecosistemici”, anche in relazione all’avvento prepotente e repentino delle nuove tecnologie, così necessarie e indispensabili. Gregory Bateson coglie il rischio per gli esseri umani di affidarsi totalmente alle tecnologie per realizzare i propri fini, individuando in questo una “patologia tradizionale in cui siamo imprigionati”5 capace di mettere in crisi gli equilibri ecosistemici. Edgar Morin, mettendo in guardia l’umanità, indica che quest’ultima ha una sola strada per salvarsi dal “baratro”, vale a dire rendere “ecocompatibile” anche la propria tecnologia6. “Lo studio umanistico gioca un ruolo cruciale nell'era digitale poiché fornisce gli strumenti per comprendere e interpretare il contesto socio-culturale in cui viviamo. Le discipline umanistiche, come la filosofia, la storia, la letteratura e le scienze sociali, insegnano a sviluppare pensiero critico, analizzare testi, comprendere i processi storici e culturali e riflettere sulle questioni etiche. Queste competenze sono fondamentali per navigare nel complesso panorama informativo odierno, aiutando a distinguere tra informazioni affidabili e manipolate, e a comprendere le implicazioni etiche e sociali delle tecnologie emergenti. Inoltre, la prospettiva umanistica favorisce l'empatia e la comprensione interculturale, essenziali in un mondo globalizzato”. Come le risposte alle prime due domande, anche questa mette in evidenza uno degli aspetti che appartengono specificamente e unicamente all’essere umano, vale a dire l’imprescindibile necessità di sviluppare il pensiero critico. Sappiamo che il funzionamento dell’IA si avvale di una incomparabile rapidità di esecuzione nell’incrociare dati che gli esseri umani hanno depositato nel web. Evidentemente, in quanto depositari delle nostre conoscenze e delle nostre intelligenze, siamo tutti concordi nell’evidenziare l’attuale limite dell’IA nel riportare argomentazioni che abbiano a fondamento il pensiero critico (ma potremmo aggiungere anche il pensiero creativo, intuitivo, inferenziale, ecc.). 5 Bateson G., Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano, 1993, p. 466. Dunque, è necessario sviluppare l’attitudine naturale a situare tutte le informazioni in un contesto e in un insieme affinché lo studio diventi consapevolezza circa le opportunità e i rischi di alcuni strumenti, quali ad esempio l’IA: la gestione di una (quasi) infinita mole di dati e delle loro interconnessioni risponde al principio di quantità che non deve condurre al riduzionismo interpretativo degli stessi ma rispettare congiuntamente il principio di qualità, sempre all’interno di quella logica antinomica che, pedagogicamente parlando, deve coesistere e dialogare. Occorre insegnare metodi che permettano di cogliere le mutue relazioni e le influenze reciproche tra le parti entro un mondo complesso, occorre educare ad un sapere pertinente in cui ciascuno riconosca l’unità e la complessità dell’essere umano, “da qui la necessità di integrare in queste conoscenze 6 Morin E., Sette lezioni sul pensiero globale, Raffaello Cortina, Milano, 2016. l’apporto inestimabile degli studi umanistici, non soltanto quello della filosofia e della storia ma anche quello della letteratura, della poesia, dell’arte” in modo da avere consapevolezza della propria identità complessa e dell’identità che accomuna tutti gli esseri umani7. 4. Nel suo libro "Talento e resilienza" ci parla del rapporto tra questi due concetti facendone emergere l'interdipendenza. Ci può spiegare il significato del talento, anche nel rispetto delle differenze, e del valore formativo della resilienza? In generale, per fornire informazioni, definizioni, spiegazioni tecniche l’IA è sufficiente poiché raccoglie ciò che autorevoli studiosi, grazie alle loro ricerche, hanno scritto e pubblicato. Pertanto, per delineare i due concetti di talento e di resilienza, pur non apprezzando il tecnicismo formale, confermo nella sostanza quanto sintetizzato da ChatGPT. DA CHATGPT: “Il talento può essere definito come una combinazione di capacità innate e competenze sviluppate attraverso l'allenamento e l'esperienza. Riconoscere il talento implica anche riconoscere le differenze individuali, valorizzando le peculiarità e le abilità uniche di ciascuno. La resilienza, d'altra parte, è la capacità di affrontare le avversità, di adattarsi ai cambiamenti e di recuperare dalle difficoltà. Nel contesto formativo, la resilienza è essenziale perché permette agli individui di perseverare nonostante le sfide e i fallimenti, che sono inevitabili nel percorso di sviluppo del talento. L'interdipendenza tra talento e resilienza risiede nel fatto che il talento da solo non è sufficiente senza la capacità di superare gli ostacoli, e la resilienza 7 Morin E., I sette saperi necessari all’educazione del futuro, Raffaello Cortina, Milano, 2001, p. 48. diventa un elemento chiave per coltivare e far emergere il talento in modo sostenibile e duraturo”. Probabilmente, paradossalmente (e lo vorrei tanto credere), l’evoluzione e la raffinatezza di IA potrebbero rappresentare un invito, un incentivo che spinge verso una maggiore attrazione nei confronti dei libri cartacei che vengono così a rappresentare un valore aggiunto rispetto a ciò che non è reperibile in rete. Nel mio libro, ad esempio, pur presentando argomentazioni specifiche relativamente al talento, alla resilienza e alle loro interconnessioni, riporto analisi di caso, prospettive interculturali, metodologie educative (ad esempio attraverso l’utilizzo dell’umorismo nei processi di apprendimento), riferimenti a vari e diversificati contesti (esempi provenienti dallo sport, dal cinema, dalla letteratura per l’infanzia…). Inoltre, da un punto di vista formale, il libro (come tutti i libri) si differenzia da una fonte mediatica per una lunghezza e una struttura delle frasi meno telegrafica e frammentata, contiene subordinate ed espressioni che aprono alla riflessione e che attivano il pensiero critico, per andare oltre la semplice descrizione dei fenomeni e cercare invece di viverli e farli vivere dal loro interno, per coinvolgere il lettore con tutto il corpo, attraverso una sensorialità che non è soltanto cognitiva ma anche emotiva, secondo gli studi sull’embodiment cognition e sulla hot cognition (integrazione forte e calda tra emozione e cognizione durante i processi di immedesimazione). Su questo ChatGPT è ancora molto molto carente e, auspicabilmente, sarà un aspetto che non potrà mai del tutto essere equiparabile. Dunque, la volontà di credere che i libri possano rivendicare oggi una nuova identità all’interno di una nuova convivenza con i media contemporanei. 5. La passione e la motivazione per lo studio sono ancora importanti per gli studenti di oggi? La passione e la motivazione, in qualunque campo della propria vita, rappresentano la cosiddetta “esperienza ottimale”. Questa viene unanimemente descritta come uno stato ordinato, caratterizzato da concentrazione, coinvolgimento, controllo della situazione, chiarezza di obiettivi, stato affettivo positivo e motivazione intrinseca ed è la risultante di un complesso equilibrio tra le componenti cognitive, emotive e motivazionali del sistema psichico. L’esperienza ottimale è caratterizzata dalla percezione di livelli di sfide, opportunità e abilità bilanciati tra loro ma al tempo stesso elevati, comportamenti che richiedono impegno e sforzo ma con la consapevolezza di possedere le capacità necessarie per raggiungere lo scopo. In virtù della positività e della gratificazione che ne conseguono, gli individui tendono a replicare e a coltivare selettivamente le attività associate. Si tratta dunque di un’esperienza estremamente gratificante che si inserisce all’interno del cosiddetto “flusso di coscienza” (flow)8, uno stato che presuppone passione e creatività, il pieno coinvolgimento delle migliori abilità della persona, la sua attenzione totale, la chiarezza della meta da raggiungere, un ottimale senso di controllo, il corpo e la mente impegnati al limite, in un coinvolgimento totale al punto che nient’altro importa in quel momento. È molto importante studiare più a fondo la natura e le caratteristiche del “piacere” per 8 M. Csikszentmihalyi, Flow: The Psychology of Optimal Experience, Harper Perennial, New York, 1990. ricondurlo legittimamente all’interno dei contesti di apprendimento. Nello specifico, il piacere provato durante lo studio alimenta la motivazione e questa a sua volta ha ricadute positive sull’acquisizione, la memorizzazione, la rielaborazione degli apprendimenti secondo un circolo virtuoso dinamico che tende ad autoalimentarsi. La motivazione trova infatti la sua radice nel motus, nel movimento, nella spinta ad agire, questo comporta uno stato di tensione, di energia e anche di disagio, riferito ad un conflitto da risolvere. Per gli studenti di oggi, più che mai, la passione e la motivazione sono importanti affinché quel movimento, quella tensione, quella spinta ad agire non siano assorbiti totalmente dalle nuove tecnologie che allenano al dinamismo rapido e all’abbattimento dei riferimenti spaziali e temporali ma che impongono congiuntamente una sorta di staticità fisica-corporea estrema. Secondo un’immagine che ci rimanda Alessandro Baricco, i ragazzi oggi “sono velocissimi nel movimento intellettuale e sono di rado capaci di comprendere cose che sono ferme: non le vedono”9. Mantenere viva la passione per l’apprendimento è l’impegno congiunto che devono portare avanti le famiglie, gli educatori, gli insegnanti, le istituzioni in generale, per creare ambienti stimolanti, relazioni positive, condizioni di benessere sistemico che incoraggino la curiosità e lo stupore, a tutte le età. I ragazzi di oggi continuano ad avere bisogno di genitori, di familiari, di educatori, di maestri, di mentori, di amici, che si configurino come “tutori di resilienza” – a tutela della loro crescita e della libera espressione dei loro talenti – così come lo è stato e lo sarà per ogni generazione. 9 A. Baricco, The game, Einaudi, Torino, 2018, p. 219. DI FABRIZIO RICCIARDELLI (DIRETTORE KENT STATE UNIVERSITY FLORENCE – PRESIDENTE AACUPI) Il valore formativo dello Study Abroad Il rapporto Open Doors 2021/2022 rivela che l’Italia è la prima destinazione nel mondo scelta dagli studenti nordamericani per quello che viene chiamato Study Abroad, cioè un periodo di studio all’estero, con corsi ed esami poi accreditati e riconosciuti dalla loro Università, e lo è da sempre. Fin dal 1978, anno di fondazione di AACUPI (Association of American College and University Programs in Italy), oltre 150 istituzioni statunitensi, canadesi e australiane hanno istituito una stabile presenza accademica in Italia. Il numero di questi studenti è oggi stimato nell’ordine delle 30.610 unità (quelli che frequentano corsi presso le istituzioni AACUPI di cui sopra); che diventano circa 40.000 se si tiene conto degli studenti che frequentano corsi di vario genere presso scuole ed istituti italiani, come nel caso delle scuole di lingua. Circa una sessantina delle istituzioni AACUPI si concentrano nella città di Roma e dintorni (Bracciano, Marino, Ariccia); oltre una cinquantina a Firenze e in più in generale in Toscana (Arezzo, Certaldo, Cortona, Prato, Sansepolcro, Siena, Montepulciano). Il resto in tante altre città italiane (Ascoli Piceno, Bologna, Genova, Milano, Napoli, Orvieto, Paderno del Grappa, Padova, Parma, Perugia, Sorrento, Torino, Venezia,). L’esperienza culturale, sociale e personale è per gli studenti unica e irripetibile, “life changing” come dicono loro stessi una volta tornati in patria, perché cambia davvero la loro vita; qui studiano la lingua, la cultura, la letteratura, l’arte e l’architettura italiane, così come la storia e la civiltà romana ed il Rinascimento, ma anche materie più “moderne” come la moda e l’economia, l’industria del turismo e dell’alimentazione e via dicendo. Letteralmente si innamorano dell’Italia e poi vi tornano sempre, da semplici turisti con la famiglia a veri e propri investitori e mecenati. L’importanza economica per il Paese è sorprendente: secondo i risultati dello studio effettuato da Irpet nel 2024 sul valore dei programmi universitari nordamericani in Italia si evince che per l’anno 2024 l’impatto economico in Italia delle filiazioni AACUPI sarà di oltre 700 milioni di euro e che le posizioni professionali supereranno le 11.000 “unità lavoro” (posti e contratti di lavoro, di vario tipo, a livelli retributivi comparativamente assai elevati e professionalmente qualificati). Il dato di fatto è che le Università americane portano ricchezza e investimenti in Italia, si pensi anche solo al recupero di importanti immobili altrimenti destinati alla rovina, e che sono tornati a vita nuova diventando sede delle attività accademiche italiane e centri di alta cultura e ricerca. La maggior parte degli studenti iscritti nei programmi AACUPI si trova tra Roma e Firenze, concentrati solitamente nei semestri che noi chiamiamo Fall (da fine agosto a dicembre) e Spring (da gennaio a maggio), ma tanti arrivano nel periodo estivo, e alcuni ancora rimangono per l’intero anno accademico. Vivono in appartamenti ma anche presso locali famiglie e questo contribuisce non poco alla loro integrazione con il tessuto cittadino e la comunità cittadina. Molti si impegnano in prima persona in attività sociali e di volontariato (Community Service, lo chiamano, assolutamente normale negli USA), molti altri affiancano gli insegnanti delle scuole italiane, primarie e secondarie che siano, per “parlare in inglese” agli alunni italiani. Quello che muove gli studenti americani a studiare in Italia è l’unicità delle sue città, città che concentrano il valore della cultura universale. Questo rende il nostro Paese il luogo ideale per l’insegnamento di quei principi che trasformano un giovane in un ‘cittadino universale’ secondo i principi in cui credeva Socrate e che, ancora oggi, sono alla base della missione educativa della nostra Università. Educare i giovani all’etica della ‘cittadinanza globale’ significa metterli in condizione di avere una visione multiculturale che li renderà competitivi e capaci di capire la complessità del mondo che sta cambiando. Il fatto poi che il numero degli studenti Americani in Italia sia aumentato è dovuto a molti motivi, non ultimo il fatto che la cultura e le nuove professionalità del Terzo Millennio richiedono capacità di dialogo globale. Bisogna quindi formare i nostri giovani a diventare ‘cittadini del mondo’, e studiare all’estero in città come Roma e Firenze, come in molte altre ancora, offre questa possibilità. Studiare in un paese straniero è una sfida che insegna a conoscere se stessi mentre si impara a dialogare con gli altri in un contesto culturale diverso dal proprio. Questa sfida insegna ad essere flessibili, creativi, avventurosi e disponibili. Come scrive Edgar Morin dobbiamo riscoprire e valorizzare quello che ha sempre fatto dell’Italia, e soprattutto dell’Italia dell’Umanesimo e del Rinascimento, un microcosmo esemplare dell’Europa: la sua diversità interna e la sua apertura alle culture altre; la capacità di operare insieme come centro di innovazione e come luogo di confine e di integrazione fra le culture d’Europa e fra l’Europa e il mondo; la sua ricchezza di saperi che sono stati e sono a un tempo teorici e pratici, concreti e visionari, artistici e artigianali. A mio avviso l’auspicio rimane uno soltanto, ossia che il nostro Paese rimanga sempre all’altezza della sua storia. DI FABIO CANESSA Studium Studium in latino significa passione, desiderio. In un mondo nel quale la scuola dell’obbligo era di là da venire, lo studio non era un’applicazione, un impegno a cui devi sottostare per trovare lavoro o non finire all’ultimo posto di una società dove tutti vogliono superarti. Era invece una implicazione, una spinta innata verso un’inclinazione, qualcosa a cui vorresti dedicare l’intera giornata per soddisfare la tua curiosità sconfinata. Gli adulti vorrebbero farti badare le pecore o arare i campi o zappare l’orto, e invece tu, attratto fino all’ossessione da un interesse profondo per l’arte, la musica, la scienza, la filosofia o per qualsiasi ghiribizzo con cui ti sentissi in sintonia, trascurando il dovere, non riesci a trattenerti dal seguire il piacere di quella che si chiama una vocazione. Lo studium inizia dunque come trasgressione, spinta impaziente e trascinante ad andare dove ti porta il cuore. O il cervello. O come volete chiamare quella predisposizione che dà l’imprinting alla vita e che molti, poveracci, non ascoltano. Alcuni sottovalutano i segnali di richiamo che arrivano loro ben chiari fin dall’infanzia, altri si fanno intortare dal conformismo familiare di chi, per stare tranquillo, vuole collocarli in una zona confortevole di grigiore impiegatizio. Non aspirare a fare il musicista, il regista, l’attore, la ballerina, ti dicono, non venire fuori con i lumini da notte: iscriviti a legge, ingegneria, medicina, a qualche facoltà solida che faccia stare tranquilli genitori e parenti. Se proprio sei così sfessato da lanciarti in un tale salto nel vuoto da aspirare a ciò che ti piacerebbe davvero, preparati almeno un piano B. Così, noi grassi e pigri borghesi da quadro di Grosz e da film di Tim Burton, saremo sicuri che il piano B cancellerà subito il piano A, la cui possibilità di realizzarsi risiede solamente nella totale assenza del piano B. Lo studio, da affermazione ribelle della propria vocazione, è tristemente diventato il contrario: la penosa sottomissione a un percorso noioso imposto dagli adulti ai figli, tra raccomandazioni, minacce e ricatti emotivi. “Devi studiare” è quasi un ossimoro, come “devi desiderare”. Se avessero applicato al sesso l’ottusa ostinazione che è stata adoperata per lo status sociale, addomesticando lo studium fino a imbrigliarlo nello studio, la razza umana sarebbe estinta da secoli. DI SILVIA DURANTI Obiettivo Zero NEET Nonostante i giovani rappresentino una risorsa relativamente scarsa nel nostro Paese, ancora oggi molti di loro restano esclusi dai circuiti scolastici, formativi e lavorativi. Si chiamano NEET, acronimo dall’inglese Not in Education, Employment or Training, e secondo gli ultimi dati Istat in Toscana sono circa 55mila, ovvero l’11% dei giovani tra 15 e 29 anni, percentuale che sale al 16% per l’Italia. Nel dibattito pubblico i NEET vengono spesso dipinti come giovani “sdraiati”, demotivati e disinteressati, ma il fenomeno è molto più ampio e variegato: si va dal neolaureato o neodiplomato che sta attivamente cercando un lavoro in linea con le proprie aspettative, fino al giovane uscito precocemente dagli studi, che non dispone delle competenze necessarie per entrare nel mercato del lavoro ed è a rischio marginalità. Ma tra i NEET troviamo anche le persone che non lavorano per scelta, ad esempio per dedicarsi alla famiglia, o coloro che vivono di lavoretti saltuari, collocandosi nell’area grigia tra precarietà e disoccupazione. L’eterogeneità del fenomeno dei NEET chiama in causa una serie altrettanto varia di possibili politiche volte ad affrontarlo e a contenerlo, secondo una logica integrata che parte dal sistema scolastico, sotto forma di misure preventive, per arrivare fino agli interventi rivolti ai disoccupati di lungo periodo e a quelli dedicati ai giovani di più difficile intercettazione. Per ridurre il rischio che i giovani vadano a popolare la platea di NEET è innanzitutto necessario rafforzare la qualità del capitale umano in uscita dal sistema di istruzione. Quest’ultimo deve infatti fornire una formazione che, insieme a obiettivi più generali di conoscenza, consenta di dotarsi di competenze coerenti con le opportunità del mercato del lavoro attuali e prospettiche. Per migliorare la transizione dalla scuola al lavoro è perciò necessario sia potenziare l’offerta formativa rispetto a profili e qualifiche richieste, sia migliorare l’aderenza delle competenze tecnico-professionali a quelle utili al sistema produttivo, attraverso un dialogo continuo tra istituzioni formative e imprese, funzionale alla co-progettazione dei curricula, alle docenze da parte di rappresentanti del mondo produttivo, alla predisposizione di occasioni potenziate di apprendimento on-thejob, come l’apprendistato scolastico. Un secondo gruppo di politiche si colloca al di fuori del sistema scolastico ma interviene comunque nella delicata fase di transizione dalla scuola al lavoro, fornendo ai datori di lavoro strumenti, come l’apprendistato professionalizzante e tirocinio extracurriculare, che attraverso una riduzione del costo del lavoro rappresentano un incentivo a preferire forza lavoro giovanile, assumendosi l’onere della formazione on-the-job per colmare la mancanza di competenze specifiche non sviluppate in aula. Tali strumenti, oltre ad andare incontro alle esigenze dei datori di lavoro, offrono ai giovani un vantaggio di medio periodo rispetto all’inserimento occupazionale con contratti a tempo determinato o somministrato che nel breve periodo possono apparire preferibili dal punto di vista retributivo. Guardando oltre la transizione-scuola lavoro, è importante non dimenticare i giovani disoccupati, che dopo una o più esperienze lavorative si trovano a dover cercare nuovamente lavoro, spesso finendo nell’area della disoccupazione di lungo periodo. Laddove il problema è la mancanza di competenze adeguate per il reinserimento occupazionale, è importante che a questi giovani sia offerta la possibilità di rimettersi in gioco e di investire in corsi di formazione medio-lunghi, che offrano reali opportunità occupazionali. Poi ci sono i giovani fuori dai radar, quelli che le politiche fanno fatica a raggiungere, spesso con una dotazione di capitale umano insufficiente e un background familiare difficile. Per questi è importante puntare su politiche di intercettazione, che però risultano, perlomeno nel nostro Paese, le più difficili da realizzare con efficacia. Anche il programma Garanzia Giovani, che aveva come obbiettivo proprio l’intercettazione precoce dei giovani per un pronto reinserimento nei circuiti formativi o lavorativi, ha riscontrato delle difficoltà a coinvolgere i soggetti maggiormente vulnerabili, come gli stranieri e gli inattivi. Per questi giovani, il Servizio Civile potrebbe rappresentare una valida opportunità per migliorare le proprie capacità di relazionarsi con gli altri, potenziando l’autostima e, in generale, la coscienza dei propri limiti e punti di forza, come primo step per una attivazione nel mercato del lavoro. Molti passi avanti sono stati fatti nell’ambito delle politiche giovanili da quando il termine NEET è stato coniato, ormai 15 anni fa. Oggi più che mai occorre proseguire su questa strada, perché nell’attuale contesto demografico la valorizzazione dei giovani in termini di competenze e conoscenze e la loro inclusione nel mercato del lavoro appare essenziale per consentire al nostro Paese di fronteggiare le sfide poste dalla transizione ecologica e digitale, di attivare processi di innovazione nella Pubblica Amministrazione e nelle piccole e medie imprese e, più in generale, di mantenere gli attuali livelli di benessere. DI SARA FRANCESCHELLI Amaro è salutare Studiare le piante per capire il territorio Anche una pianta, un fiore o una radice possono essere simbolo dell’identità di un territorio. Ecco perché lo studio delle piante, del loro uso e delle loro proprietà va ben oltre l’aspetto botanico o scientifico per assumere un valore più ampio di conoscenza territoriale e ambientale. Prendiamo ad esempio le caratteristiche e i benefici della Genziana. La Gentiana lutea L. (Genziana maggiore, Gensara, Genziana gialla, Ensiana, Erva biunnina, Giansana, Argiansana) è una pianta di montagna, diffusa in tutta Italia, fortemente radicata nella storia e nella tradizione dell’entroterra Abruzzese. Fusti eretti e fiori gialli caratterizzano le specie di genziana; tuttavia, la droga ufficiale è costituita da rizomi e radici essiccati. L’appellativo specifico deriva dal latino “luteus-a-um”, giallo, riferendosi al colore dei fiori. Le radici vengono raccolte in autunno e l’essiccazione subito dopo la raccolta è essenziale per evitare processi di fermentazione responsabili della riduzione del contenuto di estratto. Il materiale appena raccolto si presenta all’interno bianco-giallastro ma, durante l’essiccazione, diventa più scuro e sviluppa il suo caratteristico odore. La storia racconta che il nome “genziana” deriverebbe dal nome dell’ultimo re illirico, Gentius, che per primo scoprì le proprietà medicinali di questo rizoma e che lo usò per curare la peste nel 167 a.C. La genziana è, dunque, un’erba con radici profonde, non solo nel terreno ma anche nella storia e nella cultura di molte civiltà. Se confrontiamo i testi di medicina tradizionale con i recenti studi scientifici, notiamo come entrambi menzionano gli usi benefici della genziana, in particolare le sue proprietà antiossidanti, antinfiammatorie, antimicrobiche, antidepressive, antipertensive, diuretiche e protettive, lenitive del fegato, dell’apparato digerente e urinario. Tali effetti pleiotropici sono legati all’elevata concentrazione, nelle radici di genziana, di molecole amare come l’amarogentina e il gentiopicroside, note fin dall’antichità per le loro proprietà medicinali. Nella medicina popolare abruzzese, le foglie della Genziana maggiore venivano applicate dai montanari su ferite e parti infiammate per ridurre i gonfiori, ma anche per pediluvi fortificanti, mentre le radici macerate nell’alcool venivano impiegate per curare le pelli grasse. Inoltre, le radici della genziana lutea macerate nell’alcool venivano utilizzate sulla pelle per la cura dei reumatismi e delle nevralgie. Studi moderni sui costituenti fitochimici della pianta hanno confermato molti di questi usi tradizionali. Tuttavia, è importante non confondere la Genziana con piante tossiche come il Veratrum album, che crescono negli stessi ambienti. Nell’ entroterra Abruzzese, la Genziana lutea non è solo una pianta conosciuta per le sue proprietà medicinali, ma rappresenta anche un elemento importante della tradizione culinaria locale. Nella gastronomia abruzzese, le radici della Genziana vengono utilizzate per preparare liquori amari e digestivi. Anche la Gentianella, una specie simile ma più piccola, con i suoi fiori di un blu intenso, rappresenta un elemento caratteristico dei paesaggi abruzzesi. È anch’essa apprezzata per le sue proprietà medicinali. La raccolta delle radici di Gentiana Lutea per scopi commerciali è regolamentata e soggetta a restrizioni per preservare la biodiversità e garantire la sostenibilità delle popolazioni di piante. Non può essere raccolta liberamente (a meno che non si voglia commettere un reato!) ma è possibile acquistare la radice essiccata direttamente in erboristeria o in farmacia. La presenza della Genziana nei paesaggi naturali circostanti contribuisce alla ricchezza della flora locale e alla biodiversità dell’area, sottolineando l’importanza di proteggere e preservare questo ambiente unico. Un piccolo esempio di come lo studio di una pianta può alimentare il senso di appartenenza e la coscienza di luogo. DI ANTONELLA BALANTE Il diritto allo studio e il sistema carcerario Nell'immaginario comune il carcere è inteso quale luogo di espiazione della “giusta pena” comminata al soggetto socialmente pericoloso; fa eco a questa cognizione atecnica il riferimento alla sanzione penale come una “giusta retribuzione”, preordinata alla compressione di ogni diritto soggettivo della persona che varca la soglia dell'istituto penitenziario. I confini che delimitano nei vari campi scientifici i concetti generali ed astratti di “giusta pena”, di “giusta retribuzione” e di “giusta compressione di ogni diritto” sono fluidi ed oltremodo vari; nella cultura giuridica nazionale ed internazionale è stata introdotta una dimensione evolutiva e dinamica della pena e del trattamento sanzionatorio della persona. Infatti, la Costituzione abbandona l'idea del trattamento sanzionatorio inteso come corrispettivo da comminare in risposta ad un comportamento socialmente dannoso posto in essere dal reo: in tal modo la Carta si distacca dalla mera funzione preventiva, che la pena deve assurgere, e definisce la pena nella sua dimensione polifunzionale prioritariamente volta al “recupero sociale” della persona. Nel solco tracciato dalla Costituzione l'idea del carcere come luogo di mero contenimento lascia il passo alla più ampia definizione di “sistema carcerario”, dove al soggetto ristretto vengono attenuate le facoltà riconosciute per l'esercizio dei diritti fondamentali, compatibilmente con le esigenze di sicurezza sociale, ma, al fine di perseguire l'effettivo recupero sociale della persona, vengono predisposti dei programmi rieducativi che concorrono alla riformazione e risocializzazione dell'individuo. Il diritto allo studio diviene così uno degli “elementi” fondamentali del trattamento rieducativo del condannato e dell'internato (art. 15 ord. Pen.), tanto è che al fine di rimuovere gli ostacoli che impediscono la formazione dell'individuo, negli istituti penitenziari vengono organizzati i corsi della scuola dell'obbligo ed i corsi di addestramento professionale, secondo gli orientamenti vigenti e con l'ausilio di metodi adeguati alla condizione dei soggetti. Per quanto attiene alla formazione superiore il legislatore ha previsto che l'istituto penitenziario può agevolare la frequenza e il compimento degli studi universitari e tecnici superiori, anche attraverso convenzioni e protocolli d'intesa con istituzioni universitarie e con istituti di formazione tecnica superiore, nonché l'ammissione di detenuti e internati ai tirocini di cui alla legge 28 giugno 2012, n. 92 (art. 19 ord. Pen.). Il fine rieducativo declinato dalla Costituzione viene attuato sicuramente dall'Amministrazione penitenziaria, ma anche da tutti quegli organi che a vario titolo entrano a far parte della vita del detenuto nel momento in cui lo stesso viene preso in carico dallo Stato per l'esecuzione di una misura privativa della libertà, ci si riferisce alla magistratura di sorveglianza, al corpo di polizia penitenziaria, alle istituzioni scolastiche di vario ordine e grado ed ai volontari ammessi all'organizzazione di corsi. Nella pratica l'azione sinergica di tutte le istituzioni statali e di tutte le organizzazioni non governative che concorrono alla rieducazione del ristretto trova un ulteriore elemento oggettivo da considerare, ovvero quello del circuito penitenziario al quale viene associata la persona e dal quale si desumono ulteriori autorizzate e legittime compressioni dell'esercizio del diritto allo studio. La condizione detentiva non esclude a priori il diritto allo studio ma è evidente che le modalità di esercizio del diritto soggettivo devono essere bilanciate con le misure ed i provvedimenti volti a disciplinare la vita degli istituti, a garantire l'ordine e la sicurezza interna e l'irrinunciabile principio del trattamento rieducativo. La dimensione carceraria è organizzata secondo un insieme di spazi separati, strutturati in modo da tener conto delle necessità di custodia e del grado di pericolosità del soggetto ristretto; quindi, è evidente che dalla condizione detentiva possano derivare delle limitazioni, anche significative, alla ordinaria sfera dei diritti soggettivi della persona, tra i quali si annovera il diritto allo studio. In ogni caso è altrettanto evidente che l'adozione di misure e di provvedimenti organizzativi dell'Amministrazione penitenziaria, volti a disciplinare la vita degli istituti, comunque non possono essere discrezionali ed assolutamente arbitrari. Pertanto ogni atto provvedimentale deve essere adottato nel rispetto dei fondamentali canoni di ragionevolezza e proporzionalità; di fatto detti provvedimenti possono incidere legittimamente sulla posizione soggettiva del ristretto, andando ad integrarne l'ambito di autorizzata e lecita compressione, ma la giurisprudenza della Corte di Cassazione, da tempo, “ammonisce a non confondere il diritto soggettivo del detenuto, nel suo nucleo intangibile, cui è garantita protezione, con le mere modalità di esercizio di esso, inevitabilmente assoggettate a regolamentazione.” Ecco che per una persona ristretta in un circuito di alta sicurezza la Corte ha reputato legittimo limitare al detenuto la facoltà di mantenere nella propria cella un numero illimitato di testi e pubblicazioni adottate per l'esercizio del diritto allo studio. Il provvedimento trova la sua ragion d'essere proprio nel corretto bilanciamento tra il diritto dei detenuti alla formazione culturale ed all'esercizio del diritto allo studio e le esigenze investigative e di prevenzione dei reati, ovvero di ordine e sicurezza dell'istituto penitenziario. Ed ancora, sempre dall'analisi di leading cases giurisprudenziali, al detenuto non è impedito l'accesso alle sue letture preferite ed al loro contenuto, ma gli è imposto di servirsi dell'istituto penitenziario per l'acquisto di questo materiale didattico e formativo, tutto ciò nell'ottica di evitare che, secondo quanto è emerso dall'esperienza, il libro o la rivista si trasformi in un veicolo di comunicazioni occulte con l'esterno, di problematica rilevazione da parte del personale addetto al controllo. È chiaro che il corretto bilanciamento delle contrapposte esigenze, quelle cautelari e di sicurezza sociale da un lato, e quelle di accrescimento culturale dall'altro, non può tradursi nella creazione di “barriere di fatto” che penalizzano il detenuto. Ecco che i soggetti che concorrono al fine rieducativo della pena sono chiamati ad applicare le norme con scienza e con coscienza tanto da superare vincoli burocratici che inficiano di fatto l'equo bilanciamento delle esigenze contrapposte. A parti inverse si osserva che in questa ottica il detenuto che accede al programma di formazione culturale non può essere inteso come un soggetto passivo, che assorbe acriticamente le misure di risocializzazione e di accrescimento culturale. Nella pratica il fine rieducativo viene perseguito solo se si realizza una relazione reciproca virtuosa tra i soggetti che propongono programmi di risocializzazione e la persona ristretta che è ammessa a fruire di questi programmi. Infatti in un contesto così particolare, quale è quello dei circuiti penitenziari, è necessario riflettere anche sul diritto allo studio come diritto sociale della persona che concorre alla sua formazione ed alla sua dignità. Esso è un diritto/dovere che, se esercitato con consapevolezza, consente lo sviluppo equilibrato della personalità attraverso un percorso di conoscenza e di affrancamento dai trascorsi retaggi sociali palesemente devianti, quindi terminata l'esperienza carceraria solo un consapevole accesso alla formazione culturale conseguita durante la permanenza nell'istituto può garantire l’inclusione sociale e la compartecipazione dell'ex detenuto al suo benessere ed a quello dell'intera collettività. Di fatto l'esercizio del diritto soggettivo allo studio in carcere impone un rapporto reciproco e complesso in quanto se da un lato il potere pubblico deve garantire ed agevolare il soddisfacimento del diritto attraverso la prestazione di un servizio pubblico a carattere sociale, dall'altro la persona ristretta è tenuta a fruire dei servizi offerti con autoresponsabilità, cogliendo l'opportunità di riscatto che l'istruzione può offrire ed allontanandosi da dinamiche socialmente devianti. In sostanza la scelta di un percorso di istruzione superiore deve essere agevolata dall'area trattamentale degli istituti penitenziari solo al termine di un percorso di rivalutazione critica del comportamento deviante della persona ristretta e non può essere funzionale solo a collocare un individuo passivamente in aree esterne alla stanza. Nei piccoli sistemi carcerari è possibile adottare delle buone prassi che realizzino e rendano effettivo il fine rieducativo della pena per il tramite del diritto allo studio, i numeri limitati a volte sono un pregio e non un difetto! Grazie ad una convenzione stipulata tra un Ateneo del centro Sud ed una Casa circondariale dello stesso territorio è stato garantito l’accesso al diritto allo studio ed all'alta formazione professionale alla popolazione detenuta. L'Università, nel rispetto della propria autonomia istituzionale e delle funzioni esercitate dalla Casa Circondariale, partner nel progetto di alta formazione, ha proposto l'erogazione dei medesimi corsi sia agli studenti in sede, sia alle persone ristrette nell'istituto penitenziario. I risultati di questo progetto sono stati sorprendenti in quanto i detenuti iscritti ai corsi di studio universitari hanno mostrato un effettivo interesse alla proposta formativa raggiungendo degli standard elevati agli esami di profitto. Gli stessi provenivano da lunghi periodi di detenzione e grazie all'esperienza universitaria ed al tirocinio curriculare è stato possibile mitigare gli effetti deleteri del lungo periodo di isolamento. Inoltre, gli studenti ammessi a frequentare i corsi universitari erano stati condannati per reati associativi gravi; tuttavia, nonostante l'ambiente di provenienza e la tipologia di reati commessi in precedenza, per quegli studenti che hanno terminato il percorso detentivo non sono stati registrati dei comportamenti recidivi e penalmente sanzionabili.In sintesi, il diritto allo studio può essere esercitato anche in ambienti oltremodo complessi quali quello detentivo, tuttavia nonostante le necessarie misure contenitive, comunque, esso rappresenta un elemento imprescindibile per la crescita culturale e la risocializzazione di persone socialmente fragili. DI PATRIZIA LESSI Il terzo tempo dell’apprendimento Quanto sono ancora radicati gli stereotipi sulla terza età nell’immaginario comune? Che sia la signora ad inforcare gli occhiali per fare un cruciverba, o il nonno amorevole che legge fiabe ai nipoti, l’anziano è spesso mostrato nell’atto di mantenere la salute fisica e mentale attraverso continue azioni di conservazione dello status quo: la memoria, le competenze, quanto appreso nell’arco di una vita che non va disperso. Raramente una persona anziana, ad eccezione di una eccellenza in campo intellettuale o scientifico, è descritta in termini di apprendimento attivo, di capacità che con la pratica dello studio possono avere esiti altamente produttivi per la società contemporanea. Fra gli studi più interessanti sul tema vale la pena citare la Stereotype Embodiment Theory della psicologa statunitense Becca Levy che all’interno dell’Universtà di Yale conduce da anni una importante ricerca sul rapporto fra stereotipi, salute e apprendimento nella terza età i cui esiti sono stati recentemente pubblicati in Breaking the Age Code.10 Nel testo Levy mostra le due facce della medaglia riguardo l’insieme di credenze radicate socialmente sulle persone anziane intese come gruppo omogeneo e generalizzato. Se da una parte la vecchiaia rimanda ad un’idea di maturità e saggezza alla quale attingere, dall’altra è ampiamente diffusa l’immagine dell’anziano portatore di idee obsolete, appartenenti a un mondo che non ha più a che vedere con quello attuale, concentrato a mantenere in forma le capacità fisiche e mentali con piccoli esercizi quotidiani e attività di ritrovo e svago fra simili, in una collocazione a parte rispetto a quella della fetta produttiva della società. Questo tipo di stereotipo è tanto più forte quanto più antica è l’associazione della vecchiaia all’impedimento e alla malattia, basti pensare al detto di Terenzio Senectus ipsa est morbus, la vecchiaia è di per sé una malattia.11 Nella modernità sarebbe stata la rivoluzione industriale a traghettare lo stereotipo negativo fino ai giorni nostri: con la fine del lavoro si interromperebbe il ruolo sociale esercitato con la professione. Frequente è il modo di dire “È un ingegnere, È un insegnante, È un fornaio...” che si trasforma in “Era un ingegnere, un insegnante, un fornaio...” non appena la persona va in pensione, anche se le competenze sono esattamente le stesse. Cominciamo a interiorizzare questa idea della vecchiaia fin da piccoli familiarizzando con 10 B. Levy, Breaking the Age Code: How Your Beliefs About Ageing Determine How Long and Well You Live, Vermilion, 2022 11 Publio Terenzio Afro, Phormio, 160 a.C l’idea che memoria e capacità cognitive hanno una scadenza e che invecchiare significhi rassegnarsi a passare i propri giorni combattendo fragilità e malattie, senza più avere modo di dare alcun contributo alla società attiva. Gli atteggiamenti verso la vecchiaia e l’invecchiamento sono stati monitorati anche all’interno del lavoro svolto dalle Università della terza età presenti a partire dagli anni ’70 in Europa, Stati Uniti e Australia.13 Si innesca così un pericoloso circolo vizioso per cui la visione della terza età inculcata fin dall’infanzia diventa una condanna all’autosvalutazione nella stessa persona quando diventa anziana. Realtà di questo tipo sono sempre più diffuse anche in Italia, ma faticano a liberarsi dall’opinione comune che le vede spesso come sedi di attività ricreative rivolte agli anziani vittime dello stereotipo esaminato all’inizio. Queste istituzioni nascono infatti non solo per promuovere un invecchiamento sano, svagare anziani soli e aiutare quelli con una sintomatologia di ansia e depressione. I risultati di questo processo vanno dalla semplice idea di non essere più in grado di imparare cose nuove allo sviluppo di un atteggiamento mentale meno interessato al mondo. Molti anziani pur in buone condizioni fisiche ed intellettive finiscono per realizzare lo stereotipo interiorizzato della vecchiaia che nulla ha a che vedere con la realtà e che può tradursi in disturbi dei sistemi metabolico, neurologico e cardiocircolatorio. A conforto di queste conclusioni Levy mostra il risultato di indagini fatte su campioni di anziani che, dopo la pensione, continuano non solo a coltivare interessi inerenti la loro professione o le passioni di una vita, ma accettano la sfida di cimentarsi nell’apprendimento di discipline del tutto inedite sia teoriche che pratiche. Rispetto ai campioni di persone che rinunciano progressivamente ad una vita attiva, integrata nei meccanismi che animano la società globale, i primi hanno evidenziato un rimarchevole incremento in termini di soddisfazione della qualità della vita e percezione di sé come naturalmente inseriti nella società produttiva.12 12 Older People’s Quality of Life Questionnaire (OPQOL_brief), Life Satisfaction Index for the Third Age – Short Form (LSITA-SF), Geriatric Depression Scale (GDS-15), Geriatric Anxiety Scale Inventory (GAI), Attitudes to Aging Questionnaire (AAQ), scala del senso di coerenza (SOC-13), scala Fin dalla fondazione a Tolosa nel 1973 della prima Università della Terza Età ad opera di Pierre Vellas l’intento si è rivelato essere molto più ambizioso: “Contribuire ad accrescere il livello di salute fisica, mentale, sociale e la qualità della vita delle persone anziane; trattamento fisico, attivazione e stimolo cerebrale, apertura sulla società attuale, sviluppo delle relazioni sociali, conoscenza delle proprie radici, creatività, servizi resi al prossimo. Realizzare un programma di educazione permanente per le persone anziane in stretta relazione con gli altri gruppi di età: musica, arte, folklore, poesia, teatro, e conferenze-dibatti. Realizzare programmi di ricerca gerontologica. Realizzare programmi di formazione in gerontologia, con programmi d'informazione della di autostima di Rosenberg (RSES) e supporto sociale. In B. Levy, Breaking the Age Code. 13 University of the Third Age (U3A) https://www.u3a.org.uk/ comunità. Si tratta di favorire la presa di coscienza di ciascuno nella nostra società.”14 A questi valori aderiscono anche le realtà italiane facenti parte dell’AIUTA15 come l’Unitre16 che conta fra le sue sedi anche quella di Piombino17 presente dal 1986 sul territorio locale ed altre di recente fondazione quale l’Unilibera a Venturina18 che sposano entrambe due aspetti fondamentali dei valori stilati da Pierre Vellas: il dialogo costante fra soggetti di tutte 14 https://www.worldu3a.org/worldpapers/vellasit.htm in https://www.worldu3a.org/index.htm 15 AIUTA, Associazione Internazionale delle Università della Terza Età 16 UNITRE Associazione Nazionale delle Università della Terza Età - Università delle Tre Età A.P.S, https://www.unitre.net/ le età perché tutti parte integrante e attiva della società e il rispetto dei criteri di apprendimento permanente previsti dal Consiglio d’Europa19 e ratificati in Italia dalla Legge 92 del 2012.20 Un’idea di apprendimento che dura per la vita e che restituisce peso, dignità e importanza ad una porzione di società sempre più numerosa e tutt’altro che prossima a tirare i remi in barca mentre gli altri affrontano le sfide della contemporaneità. 17 UNITRE Piombino (LI) FB UNITRE PIOMBINO 18 UNILIBERA Val di Cornia -FB Università Libera della Val di Cornia 19 Council Recommendation on Key Competences for Lifelong Learning, education.ec.europa.eu 20 Legge 92 del 28.06.2012, articolo 4, comma 51 DI MANUELA MILITI Studiare in “cucina” Il racconto dello chef Sergio Maria Teutonico Al giorno d’oggi l’appellativo di “chef” non si nega a nessuno. Quanti, almeno una volta, si sono fregiati di questo titolo per aver preparato un piatto particolare o, più semplicemente, una pietanza ben riuscita. In televisione i programmi che hanno il cibo come tema abbondano, si va dallo chef stellato al cuoco improvvisato, attraversando cucine professionali fino a giungere in quelle domestiche. I social non sono da meno: dagli antipasti ai dolci è un continuo esibire pietanze di ogni genere e di ogni luogo, spesso, troppo spesso, opera di dilettanti che si credono padroni dell’arte culinaria. Cucinare, o come diceva mia nonna “far da mangiare” è un’attività che rientra nella quotidianità di molti, indiscutibilmente si acquisiscono delle competenze con la pratica ed è forse questa quotidianità che spinge alcuni a credere di essere dei cuochi provetti. Ma in quanti sanno o si sono mai chiesti quanto bisogna studiare per diventare un vero esperto dell’arte culinaria? Per rispondere a questa domanda un’interessante chiacchierata con lo chef Sergio Maria Teutonico è servita a comprendere quanto e quale sia lo studio che è indispensabile per questo mestiere e il suo percorso professionale ne illustra bene l’importanza. Innanzitutto, ha esordito spiegando la differenza tra “il far da mangiare” e “il saper cucinare”. Il primo è proprio dei principianti, il secondo, invece, è il lavoro dei professionisti, lavoro in cui hanno grande rilevanza tanto lo studio teorico, quanto quello pratico. È nell’istituto tecnico alberghiero, come quello frequentato da Sergio Maria a Milano, che si apprendono i primi rudimenti di questi studi. Tra le materie teoriche determinati per lo svolgimento della futura professione, oltre alle più specifiche scienza degli alimenti e nutrizionistica, ci sono matematica, fisica e chimica. Altrettanto fondamentali sono i laboratori tecnici, dove viene insegnato come utilizzare in maniera corretta tanto i cibi quanto gli utensili propri dell’arte culinaria. Dopo aver conseguito il diploma lo chef Teutonico è entrato a far parte di un circuito professionale che gli ha consentito di diventare capo partita. A questo punto le strade percorribili erano due, o continuare a studiare per una crescita professionale, o limitarsi a rimanere un mero esecutore. Naturalmente la scelta è stata quella di proseguire negli studi. Fino ad una ventina di anni fa, non erano ancora stati istituiti dei corsi di laurea in scienze enogastronomiche che oggi, data la loro crescita e diffusione, mostrano quanta rilevanza abbia studiare l’arte culinaria, intesa nel senso più ampio del termine, per cui per arricchire il proprio bagaglio di sapere si doveva procedere, da una parte, con un apprendimento da autodidatta e, dall’altra frequentando dei corsi di specializzazione. Questo ha permesso a Sergio Maria di diventare un esperto di olio, formaggi, miele e cioccolato, per gli alimenti, e vino e grappe, per le bevande, spiegando che la maggior conoscenza di un prodotto ne consente un uso migliore. Ma lo studio necessario in cucina non si ferma qui. Il sapere accumulato, parole dello chef, è alla base di nuove ricette che pure sono il frutto della creatività, meno legata in senso stretto allo studio. Ma, alla fase creativa segue un processo di codificazione o, meglio, di normalizzazione della ricetta, al fine di renderla replicabile per mezzo del linguaggio culinario. La “cucina” nel tempo ha, dunque, sviluppato un proprio linguaggio, sia della parola, che del gesto e solo quanti hanno studiato lo conoscono, lo comprendono e hanno la capacità di utilizzarlo. È emblematico un episodio accaduto allo chef in Giappone nella città di Hachinohe: per un evento si dovevano replicare alcune sue ricette. Come executive chef doveva impartire disposizioni allo chef che, a sua volta, le avrebbe trasmesse alla brigata. L’interprete mostrava difficoltà nel tradurre dall’inglese al giapponese le indicazioni di Sergio Maria, ma appena ha utilizzato un termine francese per una preparazione, il suo alter ego giapponese ne ha immediatamente compreso l’esecuzione. Ogni chef deve avere nel proprio bagaglio professionale la conoscenza del francese, lingua classica dell’arte culinaria, ma non può mancare neanche nella padronanza di almeno un’altra lingua straniera, ha dichiarato Sergio Maria, perché le esperienze all’estero sono fondamentali in questo mestiere. Conoscere la propria cucina è importante, ma lo è altrettanto conoscere quella degli altri. Il sapere accumulato in anni di studio e di esperienze formative porta a creare una propria scuola di pensiero culinario che lo chef Teutonico ha scelto di trasmettere fondandone una dall’emblematico nome di “La palestra del cibo”, perché, come ha dichiarato, sta ad indicare il costante allenamento allo studio che richiede l’arte culinaria. «Cercare di trovare o ideare attraverso la propria esperienza e le proprie competenze …» è una delle definizioni che si leggono sul dizionario Devoto-Oli alla voce «studiare». In queste parole si ritrova perfettamente la professione di Sergio Maria Teutonico: lo Chef. Sergio Maria Teutonico nato a Milano nel 1971, da oltre 30 anni lavora nel mondo della “cucina”. Executive Chef, Sommelier professionista, Consulente Gastronomico, Scrittore, Docente di tecnica alberghiera ed enogastronomia, ha fondato nel 2012 una scuola di cucina: La Palestra del Cibo. DI GIUSEPPE RESTIFO Fruttuoso è lo studio della storia “Comprendere non ha nulla di passivo”, diceva Marc Bloch: chi studia la storia opera scelte e distinzioni, ovvero analizza la realtà che si propone di indagare. Così si affronta l’indispensabile e fruttuosa ginnastica dello studio del passato, poiché esso soltanto ci permette di misurare fino in fondo gli esiti contemporanei delle vicende che ci hanno preceduto. “Lo storico deve liberamente lavorare alla frontiera, sul confine, un piede di qua, uno di là. Lavorare utilmente”. Egli appare per certi versi allora come un “lavoratore socialmente utile”, in quanto si potrebbe definire, con Lucien Febvre, la funzione sociale della storia come l’organizzazione del passato in funzione del presente. Infatti è impossibile comprendere il tempo in cui viviamo senza conoscere quanto l’ha preceduto; nessun dubbio sussiste sul fatto che il presente sia inintelligibile senza un certo studio del passato. Per ogni problema storico affrontato occorre una molteplicità di fonti, di documenti e tecniche: questo è stato compreso bene; di fronte alla ricchezza dei contenuti, si può essere disposti a cooperare, a lavorare ora da soli e ora in équipe, espressione dei nuovi tempi. Nuovi tempi richiedono nuovi approcci storici e buone domande possono aprire nuovi campi di ricerca. L’evoluzione della storiografia deriva in larga misura da un processo intrinseco a tutte le discipline umanistiche e ampiamente visibile in molti settori della cultura. Le premesse fondamentali stanno nella storia stessa della storiografia, che permette di “sentire” e di “toccare” la realtà storica. I lavori storici recano implicita la convinzione che il passato possa essere descritto attraverso il racconto storico, e che il metodo più adatto consista nel realizzare una descrizione dettagliata delle azioni, delle idee e dei sentimenti degli uomini. Una nuova storia non si afferma, rispetto alla storia tradizionale, senza una “battaglia” intellettuale e culturale. Nel caso dei più giovani storici, autori di tanti saggi, colpisce un approccio che si può definire “spontaneo”: per la gran parte di loro si tratta della prima pratica storiografica, ma subito emerge come essi considerino i loro risultati come un prodotto della “sudata” conoscenza del passato, restando fedeli al realismo e alla verità. Alla verità, che per gli storici non è soltanto una categoria logica o sociale, bensì anche una categoria morale, come presupposto della loro onestà. Se il progresso economico, più in generale la modernizzazione e l’avanzamento civile, come sostiene Joel Mokyr, dipendono dall’innovazione nella conoscenza, all’interno di una società che dovrebbe essere creativa, capace di condividere e rendere accessibile la conoscenza e di applicarla alla soluzione dei suoi problemi, qui ed ora siamo messi male, ma non senza speranze. Lo studio dà un’altra possibilità alla ricerca storica, una possibilità riguardante, piuttosto che lo stato attuale, l'avvenire. E poi c’è il conforto del riscontro sociale. Prendiamo il caso di un paese e di un territorio delle grandiose aree interne italiane, quelle che sono state ignorate nell’ultimo secolo. Da Capizzi, paese interno della Sicilia più interna, al confine delle provincie di Catania, Enna, Messina e Palermo, al confine più lontano delle città, sale una domanda sociale: come facciamo a rafforzare la nostra identità di Capitini? Sottotitolo della domanda: per evitare di essere spazzati via dalla globalizzazione, dall’attuale fase del capitalismo italiano e internazionale. Mettersi a studiare la storia è la principale risposta; e poi produrre studi storici su quell’insediamento, peraltro plurisecolare; infine disseminare i risultati della ricerca. All’uscita del volume “Capizzi fra Tre e Seicento” una parte della comunità capitina fu presa da grande curiosità: voleva sapere cosa mai uno storico “esterno” avesse da dire sul suo paese. In concomitanza con i festeggiamenti di San Giacomo, protettore di Capizzi, venne organizzata la presentazione del volume all’interno del suo Santuario, “location” piuttosto singolare ma ricca di significato. L’autore porta 50 copie e dice alla confraternita incaricata della loro distribuzione che il libro non è in vendita: deve essere data una copia solo a chi lascia un’offerta per San Giacomo. La diffidenza verso una cronologia così “lontana” viene assolutamente superata: la colletta per la festa del Protettore è un successo. “Da questo libro ho imparato tante cose che da capitino non sapevo”: questo il commento, fra i tanti, di Antonello Bonanno Conti, rinomato scultore nativo di Capizzi. Il libro circola pure nei bar Bocchio e Spagna del paese, luoghi della socialità una volta, tanto tempo fa, riservati agli uomini, ma ora frequentati pure da donne e ragazze. La disseminazione sta funzionando, con la speranza che la consapevolezza della propria storia porti all’accettazione della sfida del “contemporaneo” mettendo da parte la rassegnazione alla “ineluttabile” marginalizzazione. Il recupero dell’identità locale, messa a confronto con il “globale”, passa pure attraverso la valorizzazione dello studio e della ricerca storica. DI DIANA CILIBERTI (Ri)studiare la montagna Tutti noi concordiamo sul fatto che ogni montagna ha la sua vetta. Ma quali sono i criteri fisici, statistici ed antropologici necessari a definire una “montagna”? e cosa si intende, nello specifico, quando si parla di alte e di medie montagne? In un famoso contributo di Price (2013) si leggono alcuni aneddoti interessanti sulla montagna, di questi i più emblematici raccontano che negli anni ‘30, tra i membri di vari club alpini statunitensi divenne di moda scalare la vetta più alta di ciascuno dei quarantotto stati continentali. Il più alto di tutti era il Monte Whitney, in California (4.418 metri s.l.m.); il più basso, Iron Mountain in Polk Country, Florida (100 metri s.l.m.). Certamente, nessuno avrebbe dubitato che Whitney fosse davvero una montagna, al contrario di Iron Mountain, la cui definizione di “montagna” – così come si evince dalle diverse descrizioni promozionali – apparirebbe forse ai nostri occhi come un’esagerazione. All’estremo opposto, c’è la storia di uno scalatore britannico che durante una scalata sull’Himalaya chiese al suo sherpa i nomi di alcune vette circostanti (3.500 metri s.l.m., l’altitudine media), la guida alzò le spalle dicendo che si trattava solo di colline senza nome. È allora possibile che la differenza tra i due estremi sia solo una questione di prospettive? Le vette minori si perdono nella maestosità dell’Himalaya, mentre anche un piccolo promontorio in pianura può essere percepito come una “montagna” per la popolazione locale. Roderick Peattie, nel suo classico Mountain Geography (1936), suggerisce diversi criteri per definire le montagne, queste dovrebbero essere imponenti al punto da entrare nell’immaginario della popolazione locale e avere una propria individualità. Poiché, secondo lo studioso, indipendentemente dall’altimetria, l’avere un’individualità distinta e un ruolo simbolico, porterebbe una vetta ad essere classificata come “montagna” e ne verrebbe riconosciuta la sua personalità da chi queste montagne le abita. Dalla dimensione orografica a quella percepita, alla definizione rigorosa di “montagna” si affianca una connotazione più inclusiva che incorpora non solo elementi fisici, ma anche antropici e antropologici. Oggi, come nel passato, le montagne rappresentano una risorsa insostituibile, tanto che più della metà della popolazione mondiale dipende da esse per il cibo, l’acqua, l’energia idroelettrica, il legname o le risorse minerarie. Le montagne sono ambienti elaborati, caratterizzati da una topografia complessa, da zone ecologiche multiple e da una diversità biologica e antropologica intrinseca. Ed è per tutte queste ragioni che è sicuramente giunto il momento di assumere una nuova prospettiva allo studio della montagna, la quale comprenda diversi punti di vista paradigmatici da parte di geografi, antropologi, storici e non solo, che possano intrecciarsi e dialogare costantemente. Uno studio interdisciplinare certamente necessario soprattutto quando si parla di “montagne di mezzo” (Varotto, 2020) o “intermedie”, ovvero di quelle montagne che presentano caratteri culturali e sociali tali da renderle estremamente poliedriche. Storicamente queste montagne hanno svolto un ruolo importante in termini di presenza umana – negli insediamenti e nelle forme di organizzazione sociale – e di cerniera tra i diversi piani altitudinali del rilievo, sviluppando reti e interazioni molto intense. In effetti, per comprendere appieno queste montagne è necessario un cambiamento di prospettiva che tenga conto dei soggetti, degli immaginari, di stili di vita, attività produttive, difficoltà e ambizioni; una dimensione che studia la montagna come spazio vitale, denso di relazioni, di nuove centralità e di vecchie periferie. Ed è certo che quando si studiano tali aspetti, nessuna montagna dovrebbe essere lasciata inosservata: né quelle maestose, né quelle marginali, né gli altopiani o le colline e le pianure, né Iron Mountain o il Monte Everest, né il Monte Bianco o il Monte Muto. _____________________________________ Riferimenti bibliografici Price M.F., Byers A., Friend D., Kohlert T., Price L., (2013) Mountain Geography. Physical and human dimensions. University of California Press, Berkeley. Peattie R. (1936) Mountain Geography. A Critique and Field Study, Harvard University Press, Cambridge. Varotto M. (2020), Montagne di mezzo. Una nuova geografia. Einaudi, Torino. DI STEFANO LUCARELLI Lavori in corso Introduzione Lavori in corso Negli ultimi tempi ho iniziato sempre più ad apprezzare nelle persone che incontro il desiderio di non accontentarsi, di non fermarsi nell’identità di parole e gesti determinati da un lessico regionale e familiare o di appartenenza. Con loro riesco a scorgere la porta aperta alla curiosità, all’indagine, alla ricerca di una visione che sappia metterle in condizione di riempire e nutrire la propria anima. I binari della ferrovia mi aspettano nella luce intimidita della mattina. Ascoltarle è un piacere, sentirgli porre domande, avvertire la loro attenzione e concentrarne il vocabolario del cuore è ancora meglio. Queste persone sanno regalare respiro e aria, tanta aria, intorno e dentro a chi le frequenta, o meglio: le abita. La loro grazia e il loro garbo tessono una trama allargata della vicenda umana che rallegra lo spirito e che, una volta trovate, lasciano ad ogni saluto il desiderio di incontrarle ancora. In questi tempi di acciaio e fuoco, di certezze assolutiste e di confini sempre più segnati a filo spinato, rimpiango di non avere queste persone a gestire le cose del mondo. Ma la grazia, si dice, è un segno del cielo, o perlomeno questo credono in molti, e invece vive e si muove intorno, cercando disperatamente di farsi riconoscere. Dentro, i solchi sui visi tradiscono la fatica. Si va tutti insieme, e sempre insieme, si scende al capolinea. La banchina ci raccoglie a grappoli, comunitari, neo comunitari e no, e tutti dentro la minuta scala metropolitana, a due a due per fare prima, e perché di più non si passa. Si aspetta il proprio turno con la cicca in bocca, pazienti e con lo sguardo basso, tanto ci tocca, è sicuro, nessuno ci spingerà, e quando arriva il mio, scendo giù, un passo dopo l’altro verso il tornello che è solo il primo della giornata. Gli altri sono fatti di stipendio-sussidio, di precariato, di quarte settimane da incubo, dai miei figli e a quello che a loro lascerò, di brevi domeniche e d’interminabili lunedì, di silenzi fragorosi e di parole strappate. A sera mi coccolo nel grande lettone, dove si appoggiano, sgambettando sotto le coperte, anche i miei figli e con loro Elisa, mia moglie. Dentro quel naviglio in tempesta che è diventato quel materasso, ormai, sospinto dal vento in burrasca dei pugni e dei calci fra noi maschi, lei continua a leggere, anzi: a studiare, come dice spesso. Le piacciono le parole che trova sui libri, le piace riprodurle tra le sue, le piace provare gerghi nuovi, diversi, alcuni difficili tra i nostri amici di borgata, stagionati da tempo, dentro il suono metabolizzato del loro dialetto nativo. Adora anche quello, e come me, ne fa un uso gonfiato a pieno petto, però, in certi momenti lo vedo, mi accorgo che la sua testa corre come un flipper alla ricerca del motivo musicale che una nuova parola gli dona sentendosela risuonare in bocca. Quando rientro dall’aver trasferito a peso entrambi i due pargoli nella loro stanza stamberga colma di pedalini odorosi, mutande ingiallite e magliette sportive fin sopra l’armadio per il saluto della buona notte, lei è ancora lì. Mi fa ascoltare qualcosa e poi, commuovendosi un po’, ripete a mente quelle poche righe, le ripete sussurrandole dentro il mio orecchio, sospirando alla fine dentro un bacio umido e caldo. - - Avresti dovuto studiare. A quei tempi non era facile, lo sai: in casa eravamo troppi e i soldi pochi. E ora? Ci sto provando ma faccio da me, non ho tempo per lezioni, tasse e frequentazioni. Puoi seguire dei corsi on-line… Mi abbracci invece di dire scemenze? Ci manca solo l’on-line, adesso. Per favore. Eppure, durante il percorso in treno ne vedo tanti di compagni di viaggio e di lavoro col badge che invece che riassorbire il sonno lasciato sul cuscino, vanno in cerca di pagine da consegnare alla propria anima più stanca che distratta. Anch’io nel mio piccolo, dentro lo zainetto, oltre alla sporta e alla frutta, conservo un librino comprato al supermercato a metà del prezzo, di quelli facili da maneggiare, da girare e rivoltare se dovessi tenerlo in una sola mano. Non siamo diversi, eppure, lei riesce a fissare tutto, gli viene più facile ora che s’impegna, mentre io, da parte mia, perdo i pezzi dovunque, torno a ritroso per cercare le tracce, ma faccio acqua da tutte le parti. Lei no: lei riesce a trattenere tutto. Anche nell’amore. Nei pomeriggi domenicali quando i ragazzi sono fuori col pulmino che li porta e riporta dalla partita, riusciamo a scambiarci qualche parola in più sul tavolino odoroso di caffè caldo. In quel momento preciso so che succederà, che parteciperò di un momento incantevole, quello dove il suo sguardo pattinerà come sul ghiaccio tra le scie delle cose che ha capito e che vorrà condividermi. In quel momento preciso comincerò a bere dalla sua bocca, m’intenerirò dietro le sue simmetrie geometriche e le sue equazioni filosofali. Nell’incessante desiderio di trasformare quell’anima posta dentro il petto in uno scrigno protetto, pronto a immolarsi per il mondo intero, e in questo progetto c’è tutta la felicità della fatica verso il suo laborioso studio. È meraviglioso starle accanto e respirarne anche solo l’aria. A scuola mi dicevano che conoscere le cose serviva a capire meglio le cose stesse, a non farsi trovare impreparati, a non improvvisare continuamente. Quando esce per andare incontro ai ragazzi, mentre tagliuzzo le cipolle e inizio a preparare la cena, mi fermo, e affacciato alla finestra, cerco di guardarla. Le rubo un dettagliato sulla sua figura. È bella, e si porta sulle spalle la bellezza delle sue emozioni. Un impasto trasparente. E a quel punto, torno dentro, e sulla spianatoia spacco tre uova sulla montagnola di farina per fare il mio d’impasto, quello che darà sapore alla Domenica sul tavolo. DI ADOLFO CARRARI Un’esperienza educativa di ieri con contenuti attuali a Patrizia Rossi e a Claudio Gentili Nell’ambito di un percorso di riflessione sulla figura di Don Milani, il 12 e il 14 aprile 2024 si è svolto a Piombino un seminario di studi dal titolo La scuola dell’andare verso. Il presente articolo, concepito nell’ambito di questo seminario, riguarda un’esperienza degli anni Settanta, quella del Centro Proletario di Cultura a Piombino (CPdC). Un’esperienza che ho ricostruito non soltanto sulla base della mia memoria e dei ricordi, ma soprattutto sulla base dei documenti fortunatamente conservati e di un periodico pubblicato dal Centro stesso in quegli anni. Nell’ottobre del 1971 nel quartiere Salivoli aprì un doposcuola gestito da un gruppo di studenti universitari e da alcuni operai di formazione post-sessantottina, che avevano i propri riferimenti nelle esperienze della scuola di Barbiana di Don Milani e della comunità di Don Mazzi nel quartiere dell'Isolotto di Firenze. Il locale era quello della ex Coop. "La Proletaria”, di fronte alla spiaggia di Salivoli, ed era frequentato da 20 ragazzi delle scuole secondarie di primo grado. Al tempo il quartiere era formato da un misto di villaggi: Lombriconi, via Salivoli, Diaccioni e intorno la campagna con vigne di ottimo bianco. Politiche abitative Piombino in quel periodo aveva inaugurato azioni innovative nel campo delle politiche abitative. Gli stabilimenti industriali godevano di buona salute e riuscivano a garantire l’occupazione di migliaia di lavoratori prevalentemente operai. Per offrire loro condizioni di vita migliori in ambienti salubri, le amministrazioni di allora scelsero questo quartire sul mare, lontano dai fumi dei tradizionali quartieri industriali del Cotone e Poggetto, per offrire migliori condizioni abitative e un ambiente salubre e non inquinato ai lavoratori della grande fabbrica. Il Quartiere: rischi di ghettizzazione Si parlava di villaggi "modello" ma il centro città era piuttosto lontano e i ragazzi, allora numerosi, erano distanti dai cinema, dalla biblioteca, dai centri di aggregazione. La vita delle famiglie era scandita dai turni lavorativi, dal poco tempo per dedicarsi ai figli. Il doposcuola quindi era utilissimo alle famiglie, sostituiva le ripetizioni private che molte famiglie non potevano permettersi. Le attività del doposcuola Il pomeriggio era così articolato: 1) Svolgimento die i compiti pomeridiani 2) Recupero delle lacune e dei ritardi in alcune materie Lo scopo degli organizzatori era anche quello di promuovere partecipazione e iniziative di approfondimento alla vita sociale e del quartiere; si proponevano quindi discussioni assembleari, si ascoltavano e si affrontavano problemi, suscitati dai ragazzi stessi su tutte le problematiche che riguardavano la loro vita in ambiti sociali diversi. Benchè la maggioranza degli organizzatori fosse politicizzata ed orientata, non c'era indottrinamento, bensì ricerca di dati, strumenti concreti per risolvere i problemi ed affrontarli, con riferimento ai metodi appunto di Don Milani. Ogni 15 giorni si organizzavano assemblee con i genitori, dove si analizzava l'andamento scolastico dei figli, e si promuoveva la partecipazione degli stessi alla vita della scuola. Non eravamo i soli a farlo... L'obiettivo: suscitare la partecipazione qualificata Insieme al doposcuola, si era da poco costituito il Consiglio di quartiere e si spingeva affinchè le famiglie potessero partecipare realmente alla vita sociale e della scuola. Poi nel 1974 furono istituiti gli organi collegiali. Il doposcuola chiudeva quell'anno, con risultati scolastici positivi; i ragazzi furono tutti promossi e si aprirono nuovi scenari. Il coinvolgimento delle famiglie e il rapporto umano che si era creato con molti di loro spinse a progettare un luogo più ampio di partecipazione e proposta sulle tematiche cittadine e di quartiere; nacque così il Centro Proletario di Cultura, nell'accezione più ampia di strumento che si affiancasse ai luoghi del lavoro, al sindacato, alla scuola, agli organi collegiali, ai partiti, per preparare l’entrata nel mondo del lavoro. L'obiettivo di prevenire la dispersione scolastica, si univa a quello più generale di prevenire l'emarginazione e la ghettizzazione culturale. Il Centro Proletario di Cultura All'inizio del nuovo anno scolastico fu necessario affittare un locale più ampio e più centrale nel quartiere, con una grande insegna che lo identificava. Fu svolta un'indagine sui problemi principali del quartiere: casa, scuola, sanità, trasporti. Si costituì una biblioteca di quartiere con l'apporto di tutti e a disposizione di tutti. Il Centro iniziò a pubblicare un suo bollettino d'informazione diffuso capillarmente casa per casa dal titolo il "Quartiere operaio". Quell’anno il doposcuola ebbe un boom d'iscrizioni, un centinaio circa, con quaranta presenze fisse. Fu un impegno che allargò anche il gruppo dei docenti volontari e creò non pochi problemi organizzativi. Bilancio dell'attività del CPdC Il bilancio dell’attività fu molto positivo. Oltre all’elevato numero di iscritti, furono coinvolti più di 20 "insegnanti” che si alternavano con una frequenza di 5/6 al giorno. Il doposcuola funzionava ogni mese dell'anno, e ogni giorno del mese con questo orario: la mattina ad eccezione del lunedì, dalle 9.00 alle 11.30, il pomeriggio, eccetto il sabato dalle 15.00 alle 17.30: La "quota d'iscrizione" era di 2000 lire e serviva per pagare l'affitto di 60.000 lire mensili e le altre spese di funzionamento del Centro. Si tenga presente che c'era un tesseramento del Centro e periodicamente il bollettino pubblicava il bilancio delle entrate e delle uscite. Le attività del Centro Le attività si ampliarono nell'arco dei due anni successivi, divenendo veri motori di iniziative che si intrecciavano con altri eventi sul territorio legati alle lotte sociali, alle grandi battaglie civili per i diritti, tra le quali le sfide referendarie sul divorzio e sull'aborto. In questo contesto, il Centro svolgeva il proprio ruolo culturale, promuovendo incontri ed iniziative. Persone di grande spessore incontrarono i ragazzi e le loro famiglie. Ne cito due per tutti: il 15 aprile del '75 il senatore e partigiano Enzo Enriques Agnoletti e nell'ottobre del '76, una delle donne che hanno contribuito a scrivere la Costituzione italiana, Teresa Mattei, che in seguito, in altri suoi interventi pubblici, avrebbe ricordato gli organizzatori del Centro con l’appellativo "i ragazzi di Salivoli”. Un'esperienza ancora attuale La missione e il messaggio del Centro Proletario di Cultura credo che siano anocra attuali, per certi aspetti. Quando il CPdC terminò le proprie attività nel '77, i ragazzi che vi avevano studiato e che vi erano cresciuti, i genitori che lo avevano frequentato, gli stessi giovani che lo avevano promosso, parteciparono con convinzione alla vita politica e sociale. Portando nelle diverse sedi ciò che di buono il Centro era riuscito a trasmettere loro. "La libertà, non è stare sopra un albero, ma è partecipazione" cantava al tempo Giorgio Gaber. Negli anni seguenti in Val di Cornia e a Piombino, con l'aiuto degli enti locali e dell'ASL, con il distretto scolastico e con tutte le scuole di ciascun ordine e grado, sono state progettate attività (progetti integrati di area, finanziati dalla Regione), e politiche educative che hanno raggiunto buoni risultati nel prevenire il disagio e la dispersione, fenomeni che purtroppo non sono ancora debellati ma che anzi ancora oggi rappresentano delle grandi criticità. Credo pertanto che il pensiero di Don Milani possa essere ancora attuale, a favore di un insegnamento improntato alla formazione di cittadini consapevoli e dotati di un forte e reale spirito critico. INTERVISTA A CURA DI MARCO GIOVAGNOLI L’esperienza della Scuola parentale di Ancona Che cos’è una scuola parentale? Una scuola parentale è un nuovo modo di fare scuola, dove i genitori si assumono la responsabilità dell’educazione (nel senso vero del termine), dei propri figli sia direttamente, che coadiuvati da professionisti. La filosofia di fondo di una scuola parentale è quella di non delegare l’educazione dei propri figli ma di prendersi la piena responsabilità del loro percorso di crescita sotto tutti i punti di vista. Non vi sono, ad ora, delle figure culturali di riferimento, anche se stiamo approfondendo diverse teorie e valutando quella più consona al nostro gruppo. Tra le varie esperienze esiste una rete, ci sono contatti, collaborazioni e gemellaggi tra le varie scuole sia a livello locale che nazionale e tutto ciò è un arricchimento sia per i genitori, che per i ragazzi e gli educatori. Crediamo che il confronto e lo scambio continuo con altre realtà produca tantissimi vantaggi. L’esperienza della scuola parentale di Ancona In questi anni abbiamo accolto più di 80 tra bambini e ragazzi, tra materna, elementari, medie e superiori. Per quanto riguarda questi ultimi abbiamo preparato i ragazzi sia per il liceo scientifico che per il liceo delle scienze umane opzione economico sociale. L’anno che verrà pensiamo di implementare i laboratori sia mattutini che pomeridiani per poter dare la possibilità ai bambini e ai ragazzi di sperimentare altre attività come l'informatica, l'elettronica, la fotografia, la pittura e la scultura, falegnameria, oltre che la musica e teatro che ci ha accompagnato in questi anni. Quali sono le principali critiche al sistema di istruzione pubblico? E a quello privato? Per quanto riguarda il sistema pubblico, quello che evidenziamo principalmente è la focalizzazione sull'istruzione cioè sul voler fornire un complesso di nozioni relative alle diverse discipline mentre per noi è importante l'educazione, cioè l'educere (il tirar fuori ciò che sta dentro). Già solo questa diversa impostazione comporta una differenza abissale su come il bambino/ragazzo apprende e studia. Per noi è importante accompagnare il bambino/ragazzo nella crescita della propria consapevolezza e motivazione all'apprendimento stimolando la curiosità e la passione. Per quanto riguarda il sistema privato, non si può generalizzare, sottolineiamo semplicemente che nel privato non c'è il coinvolgimento genitoriale ed è sempre un delegare ad altri l'educazione dei propri figli. Criticità e futuro esperienza della scuola parentale Il punto di forza della completa responsabilità dell’educazione dei propri figli è anche una criticità in quanto occorre molta pazienza, impegno, dedizione e capacità di accordarsi tra genitori, figli ed educatori. A nostro parere l'esperienza delle scuole parentali sta crescendo e crediamo che continuerà a farlo e complessivamente è possibile affermare che l'esperienza, dal nostro punto di osservazione, è molto positiva. NELLA STIVA Paola Mastracola, La passione ribelle, Laterza 2015 Chi studia è sempre un ribelle. Uno che si mette da un’altra parte rispetto al mondo e, a suo modo, ne contrasta la corsa. Chi studia si ferma e sta: così, si rende eversivo e contrario. Forse, dietro, c’è sempre una scontentezza: di sé, o del mondo. Ma non è mai una fuga. È solo una ribellione silenziosa e, oggi più che mai, invisibile. A tutti i ribelli invisibili è dedicato questo libro. Oggi non si studia più. È da predestinati alla sconfitta. Lo studio evoca Leopardi che perde la giovinezza, si rovina la salute e rimane solo come un cane. È Pinocchio che vende i libri per andare a vedere le marionette. È la scuola, l’adolescenza coi brufoli, la fatica, la noia, il dovere. È un’ombra che oscura il mondo, è una crepa sul muro: incrina e abbuia la nostra gaudente e affollata voglia di vivere nel presente. Lo studio è sparito dalle nostre vite. E con lui è sparito il piacere per le cose che si fanno senza pensare a cosa servono. La cosa più incredibile è che non importa a nessuno. Christian Raimo, Scuola e Resistenza. L’attivismo pedagogico tra fascismo e democrazia, Altreconomia, 2024 Una storia dell’ideologia della scuola dopo il fascismo, dalla resistenza alla pedagogia democratica. La scoperta di un potenziale e inespresso attraverso alcuni esempi all’avanguardia: il Centro educativo italo svizzero di Rimini, Scuola Viva a Roma, Scuola-Città Pestalozzi a Firenze, la nascita del movimento di cooperazione educativa e la Repubblica dei ragazzi di Civitavecchia. Un libro Vincenzo Schettini, Ci vuole un fisico bestiale. Vi racconto i fisici più pop della storia, Mondadori Electa, 2023 Quante cose hanno in comune gli scienziati più geniali della storia con il mondo presente? Moltissime. A partire dal fatto che, in modi diversi, sono stati tutti dei veri e propri influencer: hanno condizionato il pensiero della loro epoca (come ci insegna Leonardo Da Vinci), avevano follower (Stephen Hawking più di tutti) e hater (Marie Curie ve ne racconterebbe delle belle). E poi anche i grandi del passato, come moderni divulgatori, hanno sempre cercato di spiegare come e perché la fisica è in tutte le cose semplici della vita. È proprio pensando a loro che, dopo “ La fisica che ci piace”, Vincenzo Schettini, il prof più famoso del web, ha deciso di raccontare la sua materia attraverso le storie di chi ha fondato la fisica moderna. Un viaggio incredibile attraverso lo spazio e il tempo con Leonardo da Vinci, Nikola Tesla, Isaac Newton, Marie Curie, Enrico Fermi, scoprirete le leggi che regolano il cosmo con Albert Einstein e reciterete in The Big Bang Theory al fianco di Stephen Hawking... Prefazione di Giorgio Parisi. Edgar Morin, La Testa ben fatta. Riforma del'insegnamento e riforma del pensiero, Raffaele Cortina editore, 1999 Morin invita insegnanti e studenti a riflettere sull'attuale stato dei saperi e sulle sfide che caratterizzano la nostra epoca: la posta in gioco sono i nuovi problemi posti alla convivenza umana da una interdipendenza planetaria irreversibile fra le economie, le politiche, le religioni, le malattie di tutte le società umane. Per rendere queste sfide affrontabili, una riforma dell'insegnamento è indispensabile. Ma per realizzarla è necessaria una riforma dell'organizzazione dei saperi. E' in questa prospettiva che Morin pone alla base della riforma della scuola che egli auspica quel tipo di pensiero la cui elaborazione lo ha reso famoso in tutto il mondo: il pensiero complesso. Pubblicato il 31 maggio 2024