NAUTILUS
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Studiare oggi
Maggio 2024 - n. 35
DIRETTORE RESPONSABILE
Monica Pierulivo
REDAZIONE
Marco Bracci
Benedetta Celati
Marco Giovagnoli
Patrizia Lessi
Francesca Passeri
Rossano Pazzagli
HANNO COLLABORATO A QUESTO NUMERO
Antonella Balante
Fabio Canessa
Adolfo Carrari
Diana Ciliberti
Silvia Duranti
Elena Falaschi
Sara Franceschelli
Marco Giovagnoli
Patrizia Lessi
Stefano Lucarelli
Manuela Militi
Giuseppe Restifo
Fabrizio Ricciardelli
ILLUSTRAZIONE DI COPERTINA E LOGO Massimo Panicucci
GESTIONE CONTENUTI SITO INTERNET Sofia Guarnaccia
Info: redazione@nautilusrivista.it
SOMMARIO
EDITORIALE
4
La curiosità libera il gatto, non lo uccide
6
Teste ben fatte
Ripensare l'educazione per abitare la
complessità
Intervista a Elena Falaschi
A cura di Monica Pierulivo
13
Il valore formativo dello Study
Abroad
di Fabrizio Ricciardelli
27
Studiare in “cucina”
Il racconto dello chef Sergio Maria
Teutonico
di Manuela Militi
29
Fruttuoso è lo studio della storia
di Giuseppe Restifo
31
(Ri)studiare la montagna
di Diana Ciliberti
15
Studium
di Fabio Canessa
33
Lavori in corso
di Stefano Lucarelli
16
Obiettivo Zero NEET
di Silvia Duranti
36
18
Amaro è salutare
Studiare le piante per capire il
territorio
di Sara Franceschelli
Un’esperienza educativa di ieri con
contenuti attuali
di Adolfo Carrari
39
L’esperienza della Scuola parentale di
Ancona
Intervista a cura di Marco Giovagnoli
41
NELLA STIVA
Altre letture
20
Il diritto allo studio e il sistema
carcerario
di Antonella Balante
24
Il terzo tempo dell’apprendimento
di Patrizia Lessi
EDITORIALE
La curiosità libera il gatto,
non lo uccide
Edgar Morin sul finire del XX secolo invitava
insegnanti e studenti a riflettere sull'attuale
stato dei saperi e sulle sfide che caratterizzano
la nostra epoca, sui nuovi problemi posti alla
convivenza umana da una interdipendenza planetaria fra le economie, le politiche, le religioni, le conoscenze, le malattie di tutte le società. Per rendere queste sfide affrontabili auspicava una riforma dell'insegnamento fondata
sul pensiero complesso.
Ma di fronte alle attuali sfide della complessità
e alle fitte interconnessioni esistenti, oggi assistiamo a una proliferazione di metodi per semplificare. «Il bisogno di semplificare riguarda
tutte le attività e investe tutti gli ambiti della
vita sociale e politica, della medicina, della
scienza, della tecnologia, della vita quotidiana» - afferma Elena Falaschi nell’intervista di apertura di questo numero. «…. Il significato dello studio in epoca contemporanea non
può che essere quello che sostiene la formazione di “teste ben fatte” e non “ben piene”,
menti aperte e critiche».
Da qui partiamo per un viaggio sul valore dello
studio oggi, affrontando necessariamente solo
alcune delle tematiche che riguardano questo
grande argomento, ma con l’obiettivo di provare a comporre un quadro che dia un’idea
delle sue diverse sfaccettature: dall’importanza
delle esperienze di studio all’estero, al fenomeno dei NEET (Not in Education, Employment or Training), cioè dei ragazzi che restano esclusi dai contesti educativi, formativi e
lavorativi, per passare al diritto allo studio nel
sistema carcerario, fino all’apprendimento che
dura tutta la vita e che restituisce dignità e importanza a una parte di società, quella della
Terza età, sempre più numerosa e attiva.
Lo studio infatti è anche libertà. Non può essere libero un uomo che ripete a pappagallo
un’intera enciclopedia di stereotipi sugli zingari, perché l’ignoranza è una padrona che si
nutre delle frustrazioni dei suoi schiavi, come
racconta Ascanio Celestini nel suo spettacolo
“Storie di persone”.
Una di queste storie ci parla della curiosità, con
una maestra che fa aprire gli occhi al protagonista: «Il detto che la curiosità uccide il gatto è
falso – dice Celestini - e anzi potremmo dire
che la curiosità libera il gatto e aiuta i bambini
a esercitare quel senso critico che in futuro li
aiuterà a capire cosa è importante per loro e
cosa no».
E qui veniamo al tema dell’educazione. La nostra scuola che sarebbe deputata all’educazione dei nostri figli istruisce, quando ci riesce,
ma non educa, come afferma il filosofo Umberto Galimberti. L’educazione non è solo un
passaggio d’informazione, è soprattutto cura
profonda degli aspetti emotivi e sentimentali.
La mente non si apre se prima non si è aperto
il cuore (Platone). Per accendere passioni e curiosità c’è quindi bisogno di questo e l’empatia
deve far parte necessariamente del bagaglio di
un insegnante.
Oggi viviamo nell’epoca della digital transformation, un nuovo paradigma che determina
cambiamenti radicali all’interno delle dinamiche della società e nel modo in cui le persone
collaborano, si relazionano e si esprimono. La
situazione che stiamo vivendo aumenta la presenza della tecnologia, dell’uso sempre più
presente di dispositivi e di schermi nelle nostre
vite. Al centro di questo paradigma, tuttavia, il
fattore più importante resta comunque quello
umano. Se l’uomo resta il fulcro di questa prospettiva, la tecnologia non è il fine, ma il
mezzo. Fondamentale in tutto questo continuare a relazionarsi incontrandosi.
A CURA DI MONICA PIERULIVO
Teste ben fatte
Ripensare l'educazione per abitare
la complessità
Intervista a Elena Falaschi
1.
Cosa significa studiare oggi, in
un’epoca di grandi complessità ma
anche di grandi semplificazioni?
Analizzando innanzitutto il concetto di “studio” e le sue radici etimologiche, sappiamo che
deriva dal latino studium, studere: aspirare a
qualcosa, applicarsi attivamente con desiderio,
amore e passione, focalizzando l’azione non
tanto sulla fatica dell’apprendimento quanto su
una disposizione d’animo favorevole nei confronti di qualcosa o di qualcuno.
Dai latini a ChatGPT la complessità e la semplificazione hanno rappresentato una “antinomia pedagogica” che, insieme a molte altre, ha
attraversato il mondo dell’educazione e della
formazione.
Nella storia del pensiero pedagogico, le antinomie – già presenti nello strumentalismo
deweyano di Democrazia e educazione1 – si
sono spesso presentate come problemi le cui risoluzioni non sempre hanno significato la reciproca esclusione dei due concetti. Nella
pedagogia si rilevano così antinomie formali
(come scienza-filosofia, teoria-prassi, ecc.),
pratico-teoriche (ad esempio autorità-libertà,
cultura-professione, ecc.), pratico-educative
(individualizzazione-socializzazione, rapporto
maestro-scolaro, ecc.)2.
Con lo stesso approccio, abbiamo bisogno oggi
di analizzare la complessità e la semplificazione anche relativamente alle potenzialità formative dello studio, per riconoscere le rispettive specificità ma al tempo stesso tutte le loro
reciproche connessioni. Di fronte alle attuali
sfide della complessità e alle fitte interconnessioni sistemiche che spesso rendono difficile
distinguere le singole parti dal tutto, assistiamo
oggi ad una proliferazione di metodi per semplificare. Il bisogno di semplificare riguarda
tutte le attività e investe tutti gli ambiti della
vita sociale e politica, della medicina, della
scienza, della tecnologia, della vita quotidiana.
Tuttavia, paradossalmente, il risultato della ricerca frenetica della semplificazione non è altro che quello di produrre un aumento della
2
1
J. Dewey, Democrazia ed educazione, La Nuova
Italia, Firenze, 1994.
F. Cambi, Manuale di filosofia dell’educazione,
Laterza, Bari, 2000.
complessità: ad esempio, quanto più l’utilizzo
dei computer è semplice, tanto più i software
saranno “pesanti”. Quindi, semplificare ha un
prezzo.
Sulla base di queste premesse, il significato
dello studio in epoca contemporanea non può
che essere quello che sostiene la formazione di
“teste ben fatte”3 e non “ben piene”, menti
aperte e critiche, il cui pensiero cum plexus (intrecciato) possa nutrirsi delle infinite interconnessioni derivanti da una molteplicità di saperi,
di contesti, di esperienze, secondo il principio
interpretativo della “semplessità”. La semplessità non è semplificare, ridurre, eliminare variabili e costruire un modello lineare ma richiede di selezionare, collegare e immaginare.
In questo senso, la semplessità può essere
espressa come l’eleganza delle soluzioni semplici che permettono di arrivare ad azioni più
rapide, più efficaci seppur mantenendo il senso
e accettando alcune necessarie deviazioni. In
generale, assumere la semplessità come principio regolativo dello studio significa riuscire ad
interpretare la relazione tra il particolare e
l’universale, qualunque siano i metodi di studio, gli strumenti, i tempi, i risultati.
Volendo invece “semplificare”, possiamo interrogare ChatGPT per fornire la risposta alla
presente domanda. Questo ciò che ci rimanda:
DA CHATGPT:
“Studiare oggi significa affrontare una realtà
caratterizzata da una quantità enorme di informazioni facilmente accessibili, grazie alla digitalizzazione e al web. Questa abbondanza di
dati offre opportunità uniche per ampliare le
conoscenze, ma impone anche la necessità di
sviluppare capacità critiche per discernere tra
3
E. Morin, La testa ben fatta. Riforma
dell’insegnamento e riforma del pensiero, Cortina,
Milano 2000.
informazioni valide e non. La complessità del
mondo contemporaneo richiede agli studenti di
adattarsi rapidamente ai cambiamenti e di
comprendere fenomeni globali interconnessi.
Al contempo, le tecnologie hanno semplificato
molte operazioni, permettendo un accesso più
immediato alle risorse di studio e la possibilità
di apprendere attraverso modalità diverse,
come video, podcast, e-learning, ecc.”.
2. Oggi si studia di più o di meno rispetto al passato?
Per valutare se oggi si studia di più o di meno
rispetto al passato è necessario considerare due
aspetti. Innanzitutto, la natura multiprospettica
dello studio, prendendone in considerazione le
modalità e gli strumenti: lettura silenziosa e ad
alta voce (libri cartacei o e-book); ascolto di un
adulto o di un compagno oppure di audiolibri;
scambi e confronti in luoghi fisici o virtuali
(chat, forum, motori di ricerca, siti dedicati,
ecc.) con accesso attraverso dispositivi digitali
di varia natura.
L’altro aspetto da prendere in considerazione è
l’età: alla scuola primaria, nella relazione insegnamento/apprendimento, i bambini sperimentano e approcciano i saperi nel rispetto
della loro natura interdisciplinare utilizzando,
differenti modalità e canali comunicativi.
Alla scuola secondaria di primo grado la rielaborazione dei diversi contenuti disciplinari è
più definita, le modalità di studio sono più specifiche e cominciano a differenziarsi in relazione alla singola disciplina (la natura discorsiva dell’italiano; l’esercizio matematico; la
sperimentazione scientifica; la ricostruzione
temporale della storia; l’osservazione mirata e
intenzionale delle opere artistiche; ecc.).
Proprio in questa fascia di età molta attenzione
viene fornita alla costruzione di un proprio e
personale metodo di studio, improntato all’apprendimento strategico.
Alla scuola secondaria di secondo grado la
specializzazione delle materie è ancora più
netta e l’importanza della scelta dell’Istituto, e
dell’indirizzo al suo interno, è determinante
per il successo scolastico perché succede – ancora troppo spesso, purtroppo – che lo studente
si renda conto dopo uno o due anni di frequenza che la scelta effettuata non era quella
che effettivamente corrispondeva ai propri interessi e alle proprie aspirazioni. Fenomeno
questo estremamente complesso e rischioso (e
sul quale viene posta molta attenzione in termini di potenziamento dell’orientamento formativo) poiché si traduce in alte percentuali di
“dispersione scolastica”.
Infine, all’Università. Anche in questo caso
l’impegno e il tempo dedicato allo studio sono
direttamente correlati alla corretta scelta della
Facoltà rispetto alle proprie passioni anziché
all’iscrizione ad un Corso di Laurea potenzialmente più legato alle future aperture nel
mondo del lavoro.
Quindi, rispetto al passato, non si studia né di
più né di meno ma si studia secondo una molteplicità di metodi e di strumenti e all’interno
di tempi diffusi, non rigorosamente definiti
all’interno della giornata.
È innegabile infatti che, oggi, le caratteristiche
costitutive dei ragazzi sono quelle di poter gestire contemporaneamente un libro di testo, la
televisione accesa, la musica nelle cuffie, l’email aperta su pc, Facebook e WhatsApp sullo
smartphone, recuperando quell’immagine che
ci fornisce Michele Serra in un suo delizioso
4
M. Serra, Gli sdraiati, Feltrinelli, Milano, 2013, p.
50.
racconto: “Eri sdraiato sul divano […]. Sopra
la pancia tenevi appoggiato il computer acceso. Con la mano destra digitavi qualcosa
sullo smartphone. La sinistra, semi-inerte, reggeva con due dita, per un lembo, un lacero testo di chimica […]. La televisione era accesa,
a volume altissimo […]. Alle orecchie tenevi
le cuffiette, collegate all’IPod occultato in
qualche anfratto: è possibile, dunque, che tu
stessi anche ascoltando musica4”.
Anche in questo caso, possiamo provare a interrogare CHATGPT:
“Determinare se si studi di più o di meno rispetto al passato dipende da vari fattori, inclusi
il contesto geografico, il livello di istruzione e
le metodologie di studio. Globalmente, l'accesso all'istruzione è aumentato grazie a politiche educative più inclusive e all'uso delle tecnologie. Tuttavia, la qualità e la profondità
dello studio possono variare. Gli studenti di
oggi potrebbero dedicare più tempo a forme diverse di apprendimento, sfruttando la tecnologia, ma ciò non sempre si traduce in un apprendimento più approfondito o critico. Il rischio
di una superficialità nell'acquisizione delle conoscenze è presente, a causa della rapidità con
cui le informazioni sono consumate e dimenticate”.
3. La rivoluzione tecnologica ci ha portato dentro un nuovo ecosistema e il
web ha prodotto enormi cambiamenti nella società. Per capire tutto
questo è importante essere in grado
di decodificare, acquisire capacità
critiche. Qual è l'importanza dello
studio umanistico in tutto questo?
Vista la domanda specifica sulla rivoluzione
tecnologica, in questo caso presento direttamente ciò che l’Intelligenza Artificiale ci propone.
Questo breve esempio operazionale di decostruzione del significato di “Intelligenza Artificiale” è l’impegno attuale e urgente che qualunque sistema formativo deve assumersi.
DA CHATGPT:
Ci vengono in aiuto le riflessioni di alcuni
grandi teorici che si sono occupati di “equilibri
ecosistemici”, anche in relazione all’avvento
prepotente e repentino delle nuove tecnologie,
così necessarie e indispensabili. Gregory
Bateson coglie il rischio per gli esseri umani di
affidarsi totalmente alle tecnologie per
realizzare i propri fini, individuando in questo
una “patologia tradizionale in cui siamo
imprigionati”5 capace di mettere in crisi gli
equilibri ecosistemici. Edgar Morin, mettendo
in guardia l’umanità, indica che quest’ultima
ha una sola strada per salvarsi dal “baratro”,
vale a dire rendere “ecocompatibile” anche la
propria tecnologia6.
“Lo studio umanistico gioca un ruolo cruciale
nell'era digitale poiché fornisce gli strumenti
per comprendere e interpretare il contesto socio-culturale in cui viviamo. Le discipline
umanistiche, come la filosofia, la storia, la letteratura e le scienze sociali, insegnano a sviluppare pensiero critico, analizzare testi, comprendere i processi storici e culturali e riflettere
sulle questioni etiche. Queste competenze sono
fondamentali per navigare nel complesso panorama informativo odierno, aiutando a distinguere tra informazioni affidabili e manipolate,
e a comprendere le implicazioni etiche e sociali delle tecnologie emergenti. Inoltre, la prospettiva umanistica favorisce l'empatia e la
comprensione interculturale, essenziali in un
mondo globalizzato”.
Come le risposte alle prime due domande, anche questa mette in evidenza uno degli aspetti
che appartengono specificamente e unicamente all’essere umano, vale a dire l’imprescindibile necessità di sviluppare il pensiero
critico. Sappiamo che il funzionamento
dell’IA si avvale di una incomparabile rapidità
di esecuzione nell’incrociare dati che gli esseri
umani hanno depositato nel web. Evidentemente, in quanto depositari delle nostre conoscenze e delle nostre intelligenze, siamo tutti
concordi nell’evidenziare l’attuale limite
dell’IA nel riportare argomentazioni che abbiano a fondamento il pensiero critico (ma potremmo aggiungere anche il pensiero creativo,
intuitivo, inferenziale, ecc.).
5
Bateson G., Verso un’ecologia della mente,
Adelphi, Milano, 1993, p. 466.
Dunque, è necessario sviluppare l’attitudine
naturale a situare tutte le informazioni in un
contesto e in un insieme affinché lo studio
diventi consapevolezza circa le opportunità e i
rischi di alcuni strumenti, quali ad esempio
l’IA: la gestione di una (quasi) infinita mole di
dati e delle loro interconnessioni risponde al
principio di quantità che non deve condurre al
riduzionismo interpretativo degli stessi ma
rispettare congiuntamente il principio di
qualità, sempre all’interno di quella logica
antinomica che, pedagogicamente parlando,
deve coesistere e dialogare.
Occorre insegnare metodi che permettano di
cogliere le mutue relazioni e le influenze
reciproche tra le parti entro un mondo
complesso, occorre educare ad un sapere
pertinente in cui ciascuno riconosca l’unità e la
complessità dell’essere umano, “da qui la
necessità di integrare in queste conoscenze
6
Morin E., Sette lezioni sul pensiero globale,
Raffaello Cortina, Milano, 2016.
l’apporto inestimabile degli studi umanistici,
non soltanto quello della filosofia e della storia
ma anche quello della letteratura, della poesia,
dell’arte” in modo da avere consapevolezza
della propria identità complessa e dell’identità
che accomuna tutti gli esseri umani7.
4. Nel suo libro "Talento e resilienza"
ci parla del rapporto tra questi due
concetti facendone emergere l'interdipendenza. Ci può spiegare il significato del talento, anche nel rispetto
delle differenze, e del valore formativo della resilienza?
In generale, per fornire informazioni, definizioni, spiegazioni tecniche l’IA è sufficiente
poiché raccoglie ciò che autorevoli studiosi,
grazie alle loro ricerche, hanno scritto e pubblicato. Pertanto, per delineare i due concetti di
talento e di resilienza, pur non apprezzando il
tecnicismo formale, confermo nella sostanza
quanto sintetizzato da ChatGPT.
DA CHATGPT:
“Il talento può essere definito come una combinazione di capacità innate e competenze sviluppate attraverso l'allenamento e l'esperienza.
Riconoscere il talento implica anche riconoscere le differenze individuali, valorizzando le
peculiarità e le abilità uniche di ciascuno. La
resilienza, d'altra parte, è la capacità di affrontare le avversità, di adattarsi ai cambiamenti e
di recuperare dalle difficoltà. Nel contesto formativo, la resilienza è essenziale perché permette agli individui di perseverare nonostante
le sfide e i fallimenti, che sono inevitabili nel
percorso di sviluppo del talento. L'interdipendenza tra talento e resilienza risiede nel fatto
che il talento da solo non è sufficiente senza la
capacità di superare gli ostacoli, e la resilienza
7
Morin E., I sette saperi necessari all’educazione del
futuro, Raffaello Cortina, Milano, 2001, p. 48.
diventa un elemento chiave per coltivare e far
emergere il talento in modo sostenibile e duraturo”.
Probabilmente, paradossalmente (e lo vorrei
tanto credere), l’evoluzione e la raffinatezza di
IA potrebbero rappresentare un invito, un incentivo che spinge verso una maggiore attrazione nei confronti dei libri cartacei che vengono così a rappresentare un valore aggiunto
rispetto a ciò che non è reperibile in rete. Nel
mio libro, ad esempio, pur presentando argomentazioni specifiche relativamente al talento,
alla resilienza e alle loro interconnessioni, riporto analisi di caso, prospettive interculturali,
metodologie educative (ad esempio attraverso
l’utilizzo dell’umorismo nei processi di apprendimento), riferimenti a vari e diversificati
contesti (esempi provenienti dallo sport, dal cinema, dalla letteratura per l’infanzia…). Inoltre, da un punto di vista formale, il libro (come
tutti i libri) si differenzia da una fonte mediatica per una lunghezza e una struttura delle
frasi meno telegrafica e frammentata, contiene
subordinate ed espressioni che aprono alla riflessione e che attivano il pensiero critico, per
andare oltre la semplice descrizione dei fenomeni e cercare invece di viverli e farli vivere
dal loro interno, per coinvolgere il lettore con
tutto il corpo, attraverso una sensorialità che
non è soltanto cognitiva ma anche emotiva, secondo gli studi sull’embodiment cognition e
sulla hot cognition (integrazione forte e calda
tra emozione e cognizione durante i processi di
immedesimazione). Su questo ChatGPT è ancora molto molto carente e, auspicabilmente,
sarà un aspetto che non potrà mai del tutto essere equiparabile.
Dunque, la volontà di credere che i libri possano rivendicare oggi una nuova identità
all’interno di una nuova convivenza con i media contemporanei.
5. La passione e la motivazione per lo
studio sono ancora importanti per gli
studenti di oggi?
La passione e la motivazione, in qualunque
campo della propria vita, rappresentano la cosiddetta “esperienza ottimale”. Questa viene
unanimemente descritta come uno stato ordinato, caratterizzato da concentrazione, coinvolgimento, controllo della situazione, chiarezza di obiettivi, stato affettivo positivo e motivazione intrinseca ed è la risultante di un
complesso equilibrio tra le componenti cognitive, emotive e motivazionali del sistema psichico. L’esperienza ottimale è caratterizzata
dalla percezione di livelli di sfide, opportunità
e abilità bilanciati tra loro ma al tempo stesso
elevati, comportamenti che richiedono impegno e sforzo ma con la consapevolezza di possedere le capacità necessarie per raggiungere
lo scopo. In virtù della positività e della gratificazione che ne conseguono, gli individui tendono a replicare e a coltivare selettivamente le
attività associate. Si tratta dunque di un’esperienza estremamente gratificante che si inserisce all’interno del cosiddetto “flusso di coscienza” (flow)8, uno stato che presuppone passione e creatività, il pieno coinvolgimento
delle migliori abilità della persona, la sua attenzione totale, la chiarezza della meta da raggiungere, un ottimale senso di controllo, il
corpo e la mente impegnati al limite, in un
coinvolgimento totale al punto che nient’altro
importa in quel momento.
È molto importante studiare più a fondo la natura e le caratteristiche del “piacere” per
8
M. Csikszentmihalyi, Flow: The Psychology of
Optimal Experience, Harper Perennial, New York,
1990.
ricondurlo legittimamente all’interno dei contesti di apprendimento. Nello specifico, il piacere provato durante lo studio alimenta la motivazione e questa a sua volta ha ricadute positive sull’acquisizione, la memorizzazione, la
rielaborazione degli apprendimenti secondo un
circolo virtuoso dinamico che tende ad autoalimentarsi. La motivazione trova infatti la sua
radice nel motus, nel movimento, nella spinta
ad agire, questo comporta uno stato di tensione, di energia e anche di disagio, riferito ad
un conflitto da risolvere.
Per gli studenti di oggi, più che mai, la passione e la motivazione sono importanti affinché quel movimento, quella tensione, quella
spinta ad agire non siano assorbiti totalmente
dalle nuove tecnologie che allenano al dinamismo rapido e all’abbattimento dei riferimenti
spaziali e temporali ma che impongono congiuntamente una sorta di staticità fisica-corporea estrema. Secondo un’immagine che ci rimanda Alessandro Baricco, i ragazzi oggi
“sono velocissimi nel movimento intellettuale
e sono di rado capaci di comprendere cose che
sono ferme: non le vedono”9.
Mantenere viva la passione per l’apprendimento è l’impegno congiunto che devono portare avanti le famiglie, gli educatori, gli insegnanti, le istituzioni in generale, per creare ambienti stimolanti, relazioni positive, condizioni
di benessere sistemico che incoraggino la curiosità e lo stupore, a tutte le età. I ragazzi di
oggi continuano ad avere bisogno di genitori,
di familiari, di educatori, di maestri, di mentori, di amici, che si configurino come “tutori
di resilienza” – a tutela della loro crescita e
della libera espressione dei loro talenti – così
come lo è stato e lo sarà per ogni generazione.
9
A. Baricco, The game, Einaudi, Torino, 2018, p.
219.
DI FABRIZIO RICCIARDELLI (DIRETTORE KENT STATE UNIVERSITY
FLORENCE – PRESIDENTE AACUPI)
Il valore formativo
dello Study Abroad
Il rapporto Open Doors 2021/2022 rivela che
l’Italia è la prima destinazione nel mondo
scelta dagli studenti nordamericani per quello
che viene chiamato Study Abroad, cioè un periodo di studio all’estero, con corsi ed esami
poi accreditati e riconosciuti dalla loro Università, e lo è da sempre. Fin dal 1978, anno di
fondazione di AACUPI (Association of American College and University Programs in
Italy), oltre 150 istituzioni statunitensi, canadesi e australiane hanno istituito una stabile
presenza accademica in Italia. Il numero di
questi studenti è oggi stimato nell’ordine delle
30.610 unità (quelli che frequentano corsi
presso le istituzioni AACUPI di cui sopra); che
diventano circa 40.000 se si tiene conto degli
studenti che frequentano corsi di vario genere
presso scuole ed istituti italiani, come nel caso
delle scuole di lingua.
Circa una sessantina delle istituzioni AACUPI
si concentrano nella città di Roma e dintorni
(Bracciano, Marino, Ariccia); oltre una cinquantina a Firenze e in più in generale in Toscana (Arezzo, Certaldo, Cortona, Prato, Sansepolcro, Siena, Montepulciano). Il resto in
tante altre città italiane (Ascoli Piceno, Bologna, Genova, Milano, Napoli, Orvieto, Paderno del Grappa, Padova, Parma, Perugia,
Sorrento, Torino, Venezia,). L’esperienza culturale, sociale e personale è per gli studenti
unica e irripetibile, “life changing” come
dicono loro stessi una volta tornati in patria,
perché cambia davvero la loro vita; qui studiano la lingua, la cultura, la letteratura, l’arte
e l’architettura italiane, così come la storia e la
civiltà romana ed il Rinascimento, ma anche
materie più “moderne” come la moda e l’economia, l’industria del turismo e dell’alimentazione e via dicendo. Letteralmente si innamorano dell’Italia e poi vi tornano sempre, da
semplici turisti con la famiglia a veri e propri
investitori e mecenati.
L’importanza economica per il Paese è sorprendente: secondo i risultati dello studio effettuato da Irpet nel 2024 sul valore dei programmi universitari nordamericani in Italia si
evince che per l’anno 2024 l’impatto economico in Italia delle filiazioni AACUPI sarà di
oltre 700 milioni di euro e che le posizioni
professionali supereranno le 11.000 “unità lavoro” (posti e contratti di lavoro, di vario tipo,
a livelli retributivi comparativamente assai elevati e professionalmente qualificati). Il dato di
fatto è che le Università americane portano ricchezza e investimenti in Italia, si pensi anche
solo al recupero di importanti immobili altrimenti destinati alla rovina, e che sono tornati a
vita nuova diventando sede delle attività accademiche italiane e centri di alta cultura e ricerca. La maggior parte degli studenti iscritti
nei programmi AACUPI si trova tra Roma e
Firenze, concentrati solitamente nei semestri
che noi chiamiamo Fall (da fine agosto a dicembre) e Spring (da gennaio a maggio), ma
tanti arrivano nel periodo estivo, e alcuni ancora rimangono per l’intero anno accademico.
Vivono in appartamenti ma anche presso locali
famiglie e questo contribuisce non poco alla
loro integrazione con il tessuto cittadino e la
comunità cittadina. Molti si impegnano in
prima persona in attività sociali e di volontariato (Community Service, lo chiamano, assolutamente normale negli USA), molti altri affiancano gli insegnanti delle scuole italiane,
primarie e secondarie che siano, per “parlare in
inglese” agli alunni italiani.
Quello che muove gli studenti americani a studiare in Italia è l’unicità delle sue città, città
che concentrano il valore della cultura universale. Questo rende il nostro Paese il luogo
ideale per l’insegnamento di quei principi che
trasformano un giovane in un ‘cittadino universale’ secondo i principi in cui credeva Socrate e che, ancora oggi, sono alla base della
missione educativa della nostra Università.
Educare i giovani all’etica della ‘cittadinanza
globale’ significa metterli in condizione di
avere una visione multiculturale che li renderà competitivi e capaci di capire la complessità del mondo che sta cambiando.
Il fatto poi che il numero degli studenti Americani in Italia sia aumentato è dovuto a molti
motivi, non ultimo il fatto che la cultura e le
nuove professionalità del Terzo Millennio richiedono capacità di dialogo globale. Bisogna
quindi formare i nostri giovani a diventare ‘cittadini del mondo’, e studiare all’estero in città
come Roma e Firenze, come in molte altre ancora, offre questa possibilità.
Studiare in un paese straniero è una sfida che
insegna a conoscere se stessi mentre si impara
a dialogare con gli altri in un contesto culturale
diverso dal proprio. Questa sfida insegna ad essere flessibili, creativi, avventurosi e disponibili. Come scrive Edgar Morin dobbiamo riscoprire e valorizzare quello che ha sempre
fatto dell’Italia, e soprattutto dell’Italia
dell’Umanesimo e del Rinascimento, un microcosmo esemplare dell’Europa: la sua diversità interna e la sua apertura alle culture
altre; la capacità di operare insieme come centro di innovazione e come luogo di confine e di
integrazione fra le culture d’Europa e fra l’Europa e il mondo; la sua ricchezza di saperi che
sono stati e sono a un tempo teorici e pratici,
concreti e visionari, artistici e artigianali. A
mio avviso l’auspicio rimane uno soltanto, ossia che il nostro Paese rimanga sempre all’altezza della sua storia.
DI FABIO CANESSA
Studium
Studium in latino significa passione, desiderio.
In un mondo nel quale la scuola dell’obbligo
era di là da venire, lo studio non era un’applicazione, un impegno a cui devi sottostare per
trovare lavoro o non finire all’ultimo posto di
una società dove tutti vogliono superarti. Era
invece una implicazione, una spinta innata
verso un’inclinazione, qualcosa a cui vorresti
dedicare l’intera giornata per soddisfare la tua
curiosità sconfinata.
Gli adulti vorrebbero farti badare le pecore o
arare i campi o zappare l’orto, e invece tu, attratto fino all’ossessione da un interesse profondo per l’arte, la musica, la scienza, la filosofia o per qualsiasi ghiribizzo con cui ti sentissi in sintonia, trascurando il dovere, non riesci a trattenerti dal seguire il piacere di quella
che si chiama una vocazione.
Lo studium inizia dunque come trasgressione,
spinta impaziente e trascinante ad andare dove
ti porta il cuore. O il cervello. O come volete
chiamare quella predisposizione che dà l’imprinting alla vita e che molti, poveracci, non
ascoltano. Alcuni sottovalutano i segnali di richiamo che arrivano loro ben chiari fin dall’infanzia, altri si fanno intortare dal conformismo
familiare di chi, per stare tranquillo, vuole collocarli in una zona confortevole di grigiore impiegatizio. Non aspirare a fare il musicista, il
regista, l’attore, la ballerina, ti dicono, non venire fuori con i lumini da notte: iscriviti a
legge, ingegneria, medicina, a qualche facoltà
solida che faccia stare tranquilli genitori e parenti. Se proprio sei così sfessato da lanciarti in
un tale salto nel vuoto da aspirare a ciò che ti
piacerebbe davvero, preparati almeno un piano
B. Così, noi grassi e pigri borghesi da quadro
di Grosz e da film di Tim Burton, saremo sicuri
che il piano B cancellerà subito il piano A, la
cui possibilità di realizzarsi risiede solamente
nella totale assenza del piano B.
Lo studio, da affermazione ribelle della propria
vocazione, è tristemente diventato il contrario:
la penosa sottomissione a un percorso noioso
imposto dagli adulti ai figli, tra raccomandazioni, minacce e ricatti emotivi. “Devi studiare” è quasi un ossimoro, come “devi desiderare”. Se avessero applicato al sesso l’ottusa
ostinazione che è stata adoperata per lo status
sociale, addomesticando lo studium fino a imbrigliarlo nello studio, la razza umana sarebbe
estinta da secoli.
DI SILVIA DURANTI
Obiettivo Zero NEET
Nonostante i giovani rappresentino una risorsa
relativamente scarsa nel nostro Paese, ancora
oggi molti di loro restano esclusi dai circuiti
scolastici, formativi e lavorativi. Si chiamano
NEET, acronimo dall’inglese Not in Education, Employment or Training, e secondo gli
ultimi dati Istat in Toscana sono circa 55mila,
ovvero l’11% dei giovani tra 15 e 29 anni, percentuale che sale al 16% per l’Italia.
Nel dibattito pubblico i NEET vengono spesso
dipinti come giovani “sdraiati”, demotivati e
disinteressati, ma il fenomeno è molto più ampio e variegato: si va dal neolaureato o neodiplomato che sta attivamente cercando un lavoro in linea con le proprie aspettative, fino al
giovane uscito precocemente dagli studi, che
non dispone delle competenze necessarie per
entrare nel mercato del lavoro ed è a rischio
marginalità. Ma tra i NEET troviamo anche le
persone che non lavorano per scelta, ad esempio per dedicarsi alla famiglia, o coloro che vivono di lavoretti saltuari, collocandosi
nell’area grigia tra precarietà e disoccupazione.
L’eterogeneità del fenomeno dei NEET
chiama in causa una serie altrettanto varia di
possibili politiche volte ad affrontarlo e a contenerlo, secondo una logica integrata che parte
dal sistema scolastico, sotto forma di misure
preventive, per arrivare fino agli interventi rivolti ai disoccupati di lungo periodo e a quelli
dedicati ai giovani di più difficile intercettazione.
Per ridurre il rischio che i giovani vadano a popolare la platea di NEET è innanzitutto necessario rafforzare la qualità del capitale umano
in uscita dal sistema di istruzione. Quest’ultimo deve infatti fornire una formazione che,
insieme a obiettivi più generali di conoscenza,
consenta di dotarsi di competenze coerenti con
le opportunità del mercato del lavoro attuali e
prospettiche. Per migliorare la transizione
dalla scuola al lavoro è perciò necessario sia
potenziare l’offerta formativa rispetto a profili
e qualifiche richieste, sia migliorare l’aderenza
delle competenze tecnico-professionali a
quelle utili al sistema produttivo, attraverso un
dialogo continuo tra istituzioni formative e imprese, funzionale alla co-progettazione dei curricula, alle docenze da parte di rappresentanti
del mondo produttivo, alla predisposizione di
occasioni potenziate di apprendimento on-thejob, come l’apprendistato scolastico.
Un secondo gruppo di politiche si colloca al di
fuori del sistema scolastico ma interviene comunque nella delicata fase di transizione
dalla scuola al lavoro, fornendo ai datori di
lavoro strumenti, come l’apprendistato professionalizzante e tirocinio extracurriculare, che
attraverso una riduzione del costo del lavoro
rappresentano un incentivo a preferire forza lavoro giovanile, assumendosi l’onere della formazione on-the-job per colmare la mancanza
di competenze specifiche non sviluppate in
aula. Tali strumenti, oltre ad andare incontro
alle esigenze dei datori di lavoro, offrono ai
giovani un vantaggio di medio periodo rispetto
all’inserimento occupazionale con contratti a
tempo determinato o somministrato che nel
breve periodo possono apparire preferibili dal
punto di vista retributivo.
Guardando oltre la transizione-scuola lavoro, è
importante non dimenticare i giovani disoccupati, che dopo una o più esperienze lavorative
si trovano a dover cercare nuovamente lavoro,
spesso finendo nell’area della disoccupazione
di lungo periodo. Laddove il problema è la
mancanza di competenze adeguate per il reinserimento occupazionale, è importante che a
questi giovani sia offerta la possibilità di rimettersi in gioco e di investire in corsi di formazione medio-lunghi, che offrano reali opportunità occupazionali.
Poi ci sono i giovani fuori dai radar, quelli
che le politiche fanno fatica a raggiungere,
spesso con una dotazione di capitale umano insufficiente e un background familiare difficile.
Per questi è importante puntare su politiche di
intercettazione, che però risultano, perlomeno
nel nostro Paese, le più difficili da realizzare
con efficacia. Anche il programma Garanzia
Giovani, che aveva come obbiettivo proprio
l’intercettazione precoce dei giovani per un
pronto reinserimento nei circuiti formativi o lavorativi, ha riscontrato delle difficoltà a coinvolgere i soggetti maggiormente vulnerabili,
come gli stranieri e gli inattivi. Per questi giovani, il Servizio Civile potrebbe rappresentare
una valida opportunità per migliorare le proprie capacità di relazionarsi con gli altri, potenziando l’autostima e, in generale, la coscienza
dei propri limiti e punti di forza, come primo
step per una attivazione nel mercato del lavoro.
Molti passi avanti sono stati fatti nell’ambito
delle politiche giovanili da quando il termine
NEET è stato coniato, ormai 15 anni fa. Oggi
più che mai occorre proseguire su questa
strada, perché nell’attuale contesto demografico la valorizzazione dei giovani in termini di
competenze e conoscenze e la loro inclusione
nel mercato del lavoro appare essenziale per
consentire al nostro Paese di fronteggiare le
sfide poste dalla transizione ecologica e digitale, di attivare processi di innovazione nella
Pubblica Amministrazione e nelle piccole e
medie imprese e, più in generale, di mantenere
gli attuali livelli di benessere.
DI SARA FRANCESCHELLI
Amaro è salutare
Studiare le piante per capire il territorio
Anche una pianta, un fiore o una radice possono essere simbolo dell’identità di un territorio. Ecco perché lo studio delle piante, del
loro uso e delle loro proprietà va ben oltre
l’aspetto botanico o scientifico per assumere
un valore più ampio di conoscenza territoriale
e ambientale.
Prendiamo ad esempio le caratteristiche e i benefici della Genziana.
La Gentiana lutea L. (Genziana maggiore,
Gensara, Genziana gialla, Ensiana, Erva
biunnina, Giansana, Argiansana) è una pianta
di montagna, diffusa in tutta Italia, fortemente
radicata nella storia e nella tradizione dell’entroterra Abruzzese. Fusti eretti e fiori gialli caratterizzano le specie di genziana; tuttavia, la
droga ufficiale è costituita da rizomi e radici
essiccati. L’appellativo specifico deriva dal latino “luteus-a-um”, giallo, riferendosi al colore
dei fiori. Le radici vengono raccolte in autunno
e l’essiccazione subito dopo la raccolta è essenziale per evitare processi di fermentazione
responsabili della riduzione del contenuto di
estratto. Il materiale appena raccolto si presenta all’interno bianco-giallastro ma, durante
l’essiccazione, diventa più scuro e sviluppa il
suo caratteristico odore.
La storia racconta che il nome “genziana” deriverebbe dal nome dell’ultimo re illirico, Gentius, che per primo scoprì le proprietà medicinali di questo rizoma e che lo usò per curare la
peste nel 167 a.C.
La genziana è, dunque, un’erba con radici profonde, non solo nel terreno ma anche nella storia e nella cultura di molte civiltà.
Se confrontiamo i testi di medicina tradizionale con i recenti studi scientifici, notiamo
come entrambi menzionano gli usi benefici
della genziana, in particolare le sue proprietà
antiossidanti, antinfiammatorie, antimicrobiche, antidepressive, antipertensive, diuretiche
e protettive, lenitive del fegato, dell’apparato
digerente e urinario. Tali effetti pleiotropici
sono legati all’elevata concentrazione, nelle radici di genziana, di molecole amare come
l’amarogentina e il gentiopicroside, note fin
dall’antichità per le loro proprietà medicinali.
Nella medicina popolare abruzzese, le foglie
della Genziana maggiore venivano applicate
dai montanari su ferite e parti infiammate per
ridurre i gonfiori, ma anche per pediluvi fortificanti, mentre le radici macerate nell’alcool
venivano impiegate per curare le pelli grasse.
Inoltre, le radici della genziana lutea macerate
nell’alcool venivano utilizzate sulla pelle per la
cura dei reumatismi e delle nevralgie. Studi
moderni sui costituenti fitochimici della
pianta hanno confermato molti di questi usi
tradizionali.
Tuttavia, è importante non confondere la Genziana con piante tossiche come il Veratrum album, che crescono negli stessi ambienti.
Nell’ entroterra Abruzzese, la Genziana lutea
non è solo una pianta conosciuta per le sue
proprietà medicinali, ma rappresenta anche
un elemento importante della tradizione
culinaria locale. Nella gastronomia abruzzese,
le radici della Genziana vengono utilizzate per
preparare liquori amari e digestivi. Anche la
Gentianella, una specie simile ma più piccola,
con i suoi fiori di un blu intenso, rappresenta
un elemento caratteristico dei paesaggi abruzzesi. È anch’essa apprezzata per le sue proprietà medicinali.
La raccolta delle radici di Gentiana Lutea per
scopi commerciali è regolamentata e soggetta
a restrizioni per preservare la biodiversità e garantire la sostenibilità delle popolazioni di
piante. Non può essere raccolta liberamente (a
meno che non si voglia commettere un reato!)
ma è possibile acquistare la radice essiccata direttamente in erboristeria o in farmacia.
La presenza della Genziana nei paesaggi naturali circostanti contribuisce alla ricchezza della
flora locale e alla biodiversità dell’area, sottolineando l’importanza di proteggere e preservare questo ambiente unico. Un piccolo esempio di come lo studio di una pianta può alimentare il senso di appartenenza e la coscienza di
luogo.
DI ANTONELLA BALANTE
Il diritto allo studio e il sistema
carcerario
Nell'immaginario comune il carcere è inteso
quale luogo di espiazione della “giusta pena”
comminata al soggetto socialmente pericoloso;
fa eco a questa cognizione atecnica il riferimento alla sanzione penale come una “giusta
retribuzione”, preordinata alla compressione di
ogni diritto soggettivo della persona che varca
la soglia dell'istituto penitenziario.
I confini che delimitano nei vari campi scientifici i concetti generali ed astratti di “giusta
pena”, di “giusta retribuzione” e di “giusta
compressione di ogni diritto” sono fluidi ed oltremodo vari; nella cultura giuridica nazionale
ed internazionale è stata introdotta una dimensione evolutiva e dinamica della pena e del
trattamento sanzionatorio della persona. Infatti, la Costituzione abbandona l'idea del trattamento sanzionatorio inteso come corrispettivo da comminare in risposta ad un comportamento socialmente dannoso posto in essere dal
reo: in tal modo la Carta si distacca dalla mera
funzione preventiva, che la pena deve assurgere, e definisce la pena nella sua dimensione
polifunzionale prioritariamente volta al “recupero sociale” della persona.
Nel solco tracciato dalla Costituzione l'idea del
carcere come luogo di mero contenimento lascia il passo alla più ampia definizione di “sistema carcerario”, dove al soggetto ristretto
vengono attenuate le facoltà riconosciute per
l'esercizio dei diritti fondamentali, compatibilmente con le esigenze di sicurezza sociale, ma,
al fine di perseguire l'effettivo recupero sociale
della persona, vengono predisposti dei programmi rieducativi che concorrono alla riformazione e risocializzazione dell'individuo.
Il diritto allo studio diviene così uno degli “elementi” fondamentali del trattamento rieducativo del condannato e dell'internato (art. 15
ord. Pen.), tanto è che al fine di rimuovere gli
ostacoli che impediscono la formazione
dell'individuo, negli istituti penitenziari vengono organizzati i corsi della scuola dell'obbligo ed i corsi di addestramento professionale,
secondo gli orientamenti vigenti e con l'ausilio
di metodi adeguati alla condizione dei soggetti.
Per quanto attiene alla formazione superiore il
legislatore ha previsto che l'istituto penitenziario può agevolare la frequenza e il compimento
degli studi universitari e tecnici superiori, anche attraverso convenzioni e protocolli d'intesa
con istituzioni universitarie e con istituti di formazione tecnica superiore, nonché l'ammissione di detenuti e internati ai tirocini di cui
alla legge 28 giugno 2012, n. 92 (art. 19 ord.
Pen.).
Il fine rieducativo declinato dalla Costituzione
viene attuato sicuramente dall'Amministrazione penitenziaria, ma anche da tutti quegli
organi che a vario titolo entrano a far parte
della vita del detenuto nel momento in cui lo
stesso viene preso in carico dallo Stato per l'esecuzione di una misura privativa della libertà,
ci si riferisce alla magistratura di sorveglianza,
al corpo di polizia penitenziaria, alle istituzioni
scolastiche di vario ordine e grado ed ai volontari ammessi all'organizzazione di corsi.
Nella pratica l'azione sinergica di tutte le istituzioni statali e di tutte le organizzazioni non
governative che concorrono alla rieducazione
del ristretto trova un ulteriore elemento oggettivo da considerare, ovvero quello del circuito
penitenziario al quale viene associata la persona e dal quale si desumono ulteriori autorizzate e legittime compressioni dell'esercizio del
diritto allo studio.
La condizione detentiva non esclude a priori il
diritto allo studio ma è evidente che le modalità
di esercizio del diritto soggettivo devono essere bilanciate con le misure ed i provvedimenti volti a disciplinare la vita degli istituti, a
garantire l'ordine e la sicurezza interna e l'irrinunciabile principio del trattamento rieducativo.
La dimensione carceraria è organizzata secondo un insieme di spazi separati, strutturati
in modo da tener conto delle necessità di custodia e del grado di pericolosità del soggetto
ristretto; quindi, è evidente che dalla condizione detentiva possano derivare delle limitazioni, anche significative, alla ordinaria sfera
dei diritti soggettivi della persona, tra i quali si
annovera il diritto allo studio. In ogni caso è
altrettanto evidente che l'adozione di misure e
di provvedimenti organizzativi dell'Amministrazione penitenziaria, volti a disciplinare la
vita degli istituti, comunque non possono essere discrezionali ed assolutamente arbitrari.
Pertanto ogni atto provvedimentale deve essere adottato nel rispetto dei fondamentali canoni di ragionevolezza e proporzionalità; di
fatto detti provvedimenti possono incidere legittimamente sulla posizione soggettiva del ristretto, andando ad integrarne l'ambito di autorizzata e lecita compressione, ma la giurisprudenza della Corte di Cassazione, da tempo,
“ammonisce a non confondere il diritto soggettivo del detenuto, nel suo nucleo intangibile,
cui è garantita protezione, con le mere modalità di esercizio di esso, inevitabilmente assoggettate a regolamentazione.” Ecco che per una
persona ristretta in un circuito di alta sicurezza
la Corte ha reputato legittimo limitare al detenuto la facoltà di mantenere nella propria cella
un numero illimitato di testi e pubblicazioni
adottate per l'esercizio del diritto allo studio.
Il provvedimento trova la sua ragion d'essere
proprio nel corretto bilanciamento tra il diritto
dei detenuti alla formazione culturale ed all'esercizio del diritto allo studio e le esigenze investigative e di prevenzione dei reati, ovvero
di ordine e sicurezza dell'istituto penitenziario.
Ed ancora, sempre dall'analisi di leading cases
giurisprudenziali, al detenuto non è impedito
l'accesso alle sue letture preferite ed al loro
contenuto, ma gli è imposto di servirsi dell'istituto penitenziario per l'acquisto di questo materiale didattico e formativo, tutto ciò nell'ottica di evitare che, secondo quanto è emerso
dall'esperienza, il libro o la rivista si trasformi
in un veicolo di comunicazioni occulte con l'esterno, di problematica rilevazione da parte del
personale addetto al controllo.
È chiaro che il corretto bilanciamento delle
contrapposte esigenze, quelle cautelari e di sicurezza sociale da un lato, e quelle di accrescimento culturale dall'altro, non può tradursi
nella creazione di “barriere di fatto” che penalizzano il detenuto. Ecco che i soggetti che
concorrono al fine rieducativo della pena sono
chiamati ad applicare le norme con scienza e
con coscienza tanto da superare vincoli burocratici che inficiano di fatto l'equo bilanciamento delle esigenze contrapposte.
A parti inverse si osserva che in questa ottica il
detenuto che accede al programma di formazione culturale non può essere inteso come un
soggetto passivo, che assorbe acriticamente le
misure di risocializzazione e di accrescimento
culturale.
Nella pratica il fine rieducativo viene perseguito solo se si realizza una relazione reciproca
virtuosa tra i soggetti che propongono programmi di risocializzazione e la persona ristretta che è ammessa a fruire di questi programmi.
Infatti in un contesto così particolare, quale è
quello dei circuiti penitenziari, è necessario riflettere anche sul diritto allo studio come diritto sociale della persona che concorre alla sua
formazione ed alla sua dignità.
Esso è un diritto/dovere che, se esercitato con
consapevolezza, consente lo sviluppo equilibrato della personalità attraverso un percorso
di conoscenza e di affrancamento dai trascorsi
retaggi sociali palesemente devianti, quindi
terminata l'esperienza carceraria solo un consapevole accesso alla formazione culturale
conseguita durante la permanenza nell'istituto
può garantire l’inclusione sociale e la compartecipazione dell'ex detenuto al suo benessere
ed a quello dell'intera collettività.
Di fatto l'esercizio del diritto soggettivo allo
studio in carcere impone un rapporto reciproco e complesso in quanto se da un lato il
potere pubblico deve garantire ed agevolare il
soddisfacimento del diritto attraverso la prestazione di un servizio pubblico a carattere sociale, dall'altro la persona ristretta è tenuta a
fruire dei servizi offerti con autoresponsabilità,
cogliendo l'opportunità di riscatto che l'istruzione può offrire ed allontanandosi da dinamiche socialmente devianti. In sostanza la scelta
di un percorso di istruzione superiore deve essere agevolata dall'area trattamentale degli istituti penitenziari solo al termine di un percorso
di rivalutazione critica del comportamento deviante della persona ristretta e non può essere
funzionale solo a collocare un individuo passivamente in aree esterne alla stanza.
Nei piccoli sistemi carcerari è possibile adottare delle buone prassi che realizzino e rendano
effettivo il fine rieducativo della pena per il tramite del diritto allo studio, i numeri limitati a
volte sono un pregio e non un difetto!
Grazie ad una convenzione stipulata tra un
Ateneo del centro Sud ed una Casa circondariale dello stesso territorio è stato garantito
l’accesso al diritto allo studio ed all'alta formazione professionale alla popolazione detenuta.
L'Università, nel rispetto della propria autonomia istituzionale e delle funzioni esercitate
dalla Casa Circondariale, partner nel progetto
di alta formazione, ha proposto l'erogazione
dei medesimi corsi sia agli studenti in sede, sia
alle persone ristrette nell'istituto penitenziario.
I risultati di questo progetto sono stati sorprendenti in quanto i detenuti iscritti ai corsi di studio universitari hanno mostrato un effettivo interesse alla proposta formativa raggiungendo
degli standard elevati agli esami di profitto. Gli
stessi provenivano da lunghi periodi di detenzione e grazie all'esperienza universitaria ed al
tirocinio curriculare è stato possibile mitigare
gli effetti deleteri del lungo periodo di isolamento. Inoltre, gli studenti ammessi a frequentare i corsi universitari erano stati condannati
per reati associativi gravi; tuttavia, nonostante
l'ambiente di provenienza e la tipologia di reati
commessi in precedenza, per quegli studenti
che hanno terminato il percorso detentivo non
sono stati registrati dei comportamenti recidivi
e penalmente sanzionabili.In sintesi, il diritto
allo studio può essere esercitato anche in ambienti oltremodo complessi quali quello detentivo, tuttavia nonostante le necessarie misure
contenitive, comunque, esso rappresenta un
elemento imprescindibile per la crescita culturale e la risocializzazione di persone socialmente fragili.
DI PATRIZIA LESSI
Il terzo tempo
dell’apprendimento
Quanto sono ancora radicati gli stereotipi sulla
terza età nell’immaginario comune?
Che sia la signora ad inforcare gli occhiali per
fare un cruciverba, o il nonno amorevole che
legge fiabe ai nipoti, l’anziano è spesso mostrato nell’atto di mantenere la salute fisica e
mentale attraverso continue azioni di conservazione dello status quo: la memoria, le competenze, quanto appreso nell’arco di una vita
che non va disperso. Raramente una persona
anziana, ad eccezione di una eccellenza in
campo intellettuale o scientifico, è descritta in
termini di apprendimento attivo, di capacità
che con la pratica dello studio possono avere
esiti altamente produttivi per la società contemporanea.
Fra gli studi più interessanti sul tema vale la
pena citare la Stereotype Embodiment Theory
della psicologa statunitense Becca Levy che
all’interno dell’Universtà di Yale conduce da
anni una importante ricerca sul rapporto fra
stereotipi, salute e apprendimento nella terza
età i cui esiti sono stati recentemente pubblicati
in Breaking the Age Code.10 Nel testo Levy
mostra le due facce della medaglia riguardo
l’insieme di credenze radicate socialmente
sulle persone anziane intese come gruppo
omogeneo e generalizzato. Se da una parte la
vecchiaia rimanda ad un’idea di maturità e
saggezza alla quale attingere, dall’altra è ampiamente diffusa l’immagine dell’anziano portatore di idee obsolete, appartenenti a un
mondo che non ha più a che vedere con quello
attuale, concentrato a mantenere in forma le
capacità fisiche e mentali con piccoli esercizi
quotidiani e attività di ritrovo e svago fra simili, in una collocazione a parte rispetto a
quella della fetta produttiva della società.
Questo tipo di stereotipo è tanto più forte
quanto più antica è l’associazione della vecchiaia all’impedimento e alla malattia, basti
pensare al detto di Terenzio Senectus ipsa est
morbus, la vecchiaia è di per sé una malattia.11
Nella modernità sarebbe stata la rivoluzione
industriale a traghettare lo stereotipo negativo
fino ai giorni nostri: con la fine del lavoro si
interromperebbe il ruolo sociale esercitato con
la professione. Frequente è il modo di dire “È
un ingegnere, È un insegnante, È un fornaio...”
che si trasforma in “Era un ingegnere, un insegnante, un fornaio...” non appena la persona va
in pensione, anche se le competenze sono esattamente le stesse.
Cominciamo a interiorizzare questa idea della
vecchiaia fin da piccoli familiarizzando con
10
B. Levy, Breaking the Age Code: How Your
Beliefs About Ageing Determine How Long and
Well You Live, Vermilion, 2022
11
Publio Terenzio Afro, Phormio, 160 a.C
l’idea che memoria e capacità cognitive hanno
una scadenza e che invecchiare significhi rassegnarsi a passare i propri giorni combattendo
fragilità e malattie, senza più avere modo di
dare alcun contributo alla società attiva.
Gli atteggiamenti verso la vecchiaia e l’invecchiamento sono stati monitorati anche all’interno del lavoro svolto dalle Università della
terza età presenti a partire dagli anni ’70 in
Europa, Stati Uniti e Australia.13
Si innesca così un pericoloso circolo vizioso
per cui la visione della terza età inculcata fin
dall’infanzia diventa una condanna all’autosvalutazione nella stessa persona quando diventa anziana.
Realtà di questo tipo sono sempre più diffuse
anche in Italia, ma faticano a liberarsi dall’opinione comune che le vede spesso come sedi di
attività ricreative rivolte agli anziani vittime
dello stereotipo esaminato all’inizio. Queste
istituzioni nascono infatti non solo per promuovere un invecchiamento sano, svagare anziani soli e aiutare quelli con una sintomatologia di ansia e depressione.
I risultati di questo processo vanno dalla semplice idea di non essere più in grado di imparare cose nuove allo sviluppo di un atteggiamento mentale meno interessato al mondo.
Molti anziani pur in buone condizioni fisiche
ed intellettive finiscono per realizzare lo stereotipo interiorizzato della vecchiaia che nulla
ha a che vedere con la realtà e che può tradursi
in disturbi dei sistemi metabolico, neurologico
e cardiocircolatorio.
A conforto di queste conclusioni Levy mostra
il risultato di indagini fatte su campioni di anziani che, dopo la pensione, continuano non
solo a coltivare interessi inerenti la loro professione o le passioni di una vita, ma accettano la
sfida di cimentarsi nell’apprendimento di discipline del tutto inedite sia teoriche che pratiche. Rispetto ai campioni di persone che rinunciano progressivamente ad una vita attiva, integrata nei meccanismi che animano la società
globale, i primi hanno evidenziato un rimarchevole incremento in termini di soddisfazione
della qualità della vita e percezione di sé come
naturalmente inseriti nella società produttiva.12
12
Older People’s Quality of Life Questionnaire
(OPQOL_brief), Life Satisfaction Index for the
Third Age – Short Form (LSITA-SF), Geriatric
Depression Scale (GDS-15), Geriatric Anxiety Scale
Inventory (GAI), Attitudes to Aging Questionnaire
(AAQ), scala del senso di coerenza (SOC-13), scala
Fin dalla fondazione a Tolosa nel 1973 della
prima Università della Terza Età ad opera di
Pierre Vellas l’intento si è rivelato essere
molto più ambizioso: “Contribuire ad accrescere il livello di salute fisica, mentale, sociale
e la qualità della vita delle persone anziane;
trattamento fisico, attivazione e stimolo cerebrale, apertura sulla società attuale, sviluppo
delle relazioni sociali, conoscenza delle proprie radici, creatività, servizi resi al prossimo.
Realizzare un programma di educazione permanente per le persone anziane in stretta relazione con gli altri gruppi di età: musica, arte,
folklore, poesia, teatro, e conferenze-dibatti.
Realizzare programmi di ricerca gerontologica.
Realizzare programmi di formazione in gerontologia, con programmi d'informazione della
di autostima di Rosenberg (RSES) e supporto
sociale. In B. Levy, Breaking the Age Code.
13
University of the Third
Age (U3A) https://www.u3a.org.uk/
comunità. Si tratta di favorire la presa di coscienza di ciascuno nella nostra società.”14
A questi valori aderiscono anche le realtà italiane facenti parte dell’AIUTA15 come l’Unitre16 che conta fra le sue sedi anche quella di
Piombino17 presente dal 1986 sul territorio locale ed altre di recente fondazione quale l’Unilibera a Venturina18 che sposano entrambe due
aspetti fondamentali dei valori stilati da Pierre
Vellas: il dialogo costante fra soggetti di tutte
14
https://www.worldu3a.org/worldpapers/vellasit.htm in https://www.worldu3a.org/index.htm
15
AIUTA, Associazione Internazionale delle
Università della Terza Età
16
UNITRE Associazione Nazionale delle Università
della Terza Età - Università delle Tre Età A.P.S,
https://www.unitre.net/
le età perché tutti parte integrante e attiva della
società e il rispetto dei criteri di apprendimento
permanente previsti dal Consiglio d’Europa19
e ratificati in Italia dalla Legge 92 del 2012.20
Un’idea di apprendimento che dura per la vita
e che restituisce peso, dignità e importanza ad
una porzione di società sempre più numerosa e
tutt’altro che prossima a tirare i remi in barca
mentre gli altri affrontano le sfide della contemporaneità.
17
UNITRE Piombino (LI) FB UNITRE PIOMBINO
18
UNILIBERA Val di Cornia -FB Università Libera
della Val di Cornia
19
Council Recommendation on Key Competences
for Lifelong Learning, education.ec.europa.eu
20
Legge 92 del 28.06.2012, articolo 4, comma 51
DI MANUELA MILITI
Studiare in “cucina”
Il racconto dello chef Sergio Maria
Teutonico
Al giorno d’oggi l’appellativo di “chef” non si
nega a nessuno. Quanti, almeno una volta, si
sono fregiati di questo titolo per aver preparato
un piatto particolare o, più semplicemente, una
pietanza ben riuscita. In televisione i programmi che hanno il cibo come tema abbondano, si va dallo chef stellato al cuoco improvvisato, attraversando cucine professionali fino
a giungere in quelle domestiche. I social non
sono da meno: dagli antipasti ai dolci è un continuo esibire pietanze di ogni genere e di ogni
luogo, spesso, troppo spesso, opera di dilettanti
che si credono padroni dell’arte culinaria.
Cucinare, o come diceva mia nonna “far da
mangiare” è un’attività che rientra nella quotidianità di molti, indiscutibilmente si acquisiscono delle competenze con la pratica ed è
forse questa quotidianità che spinge alcuni a
credere di essere dei cuochi provetti.
Ma in quanti sanno o si sono mai chiesti quanto
bisogna studiare per diventare un vero esperto
dell’arte culinaria?
Per rispondere a questa domanda un’interessante chiacchierata con lo chef Sergio Maria
Teutonico è servita a comprendere quanto e
quale sia lo studio che è indispensabile per
questo mestiere e il suo percorso professionale
ne illustra bene l’importanza.
Innanzitutto, ha esordito spiegando la differenza tra “il far da mangiare” e “il saper cucinare”. Il primo è proprio dei principianti, il secondo, invece, è il lavoro dei professionisti,
lavoro in cui hanno grande rilevanza tanto lo
studio teorico, quanto quello pratico. È
nell’istituto tecnico alberghiero, come quello
frequentato da Sergio Maria a Milano, che si
apprendono i primi rudimenti di questi studi.
Tra le materie teoriche determinati per lo svolgimento della futura professione, oltre alle più
specifiche scienza degli alimenti e nutrizionistica, ci sono matematica, fisica e chimica. Altrettanto fondamentali sono i laboratori tecnici,
dove viene insegnato come utilizzare in maniera corretta tanto i cibi quanto gli utensili
propri dell’arte culinaria.
Dopo aver conseguito il diploma lo chef Teutonico è entrato a far parte di un circuito professionale che gli ha consentito di diventare
capo partita. A questo punto le strade
percorribili erano due, o continuare a studiare
per una crescita professionale, o limitarsi a rimanere un mero esecutore. Naturalmente la
scelta è stata quella di proseguire negli studi.
Fino ad una ventina di anni fa, non erano ancora stati istituiti dei corsi di laurea in scienze
enogastronomiche che oggi, data la loro crescita e diffusione, mostrano quanta rilevanza
abbia studiare l’arte culinaria, intesa nel senso
più ampio del termine, per cui per arricchire il
proprio bagaglio di sapere si doveva procedere, da una parte, con un apprendimento da
autodidatta e, dall’altra frequentando dei corsi
di specializzazione. Questo ha permesso a Sergio Maria di diventare un esperto di olio, formaggi, miele e cioccolato, per gli alimenti, e
vino e grappe, per le bevande, spiegando che
la maggior conoscenza di un prodotto ne consente un uso migliore. Ma lo studio necessario
in cucina non si ferma qui. Il sapere accumulato, parole dello chef, è alla base di nuove ricette che pure sono il frutto della creatività,
meno legata in senso stretto allo studio. Ma,
alla fase creativa segue un processo di codificazione o, meglio, di normalizzazione della ricetta, al fine di renderla replicabile per mezzo
del linguaggio culinario.
La “cucina” nel tempo ha, dunque, sviluppato
un proprio linguaggio, sia della parola, che del
gesto e solo quanti hanno studiato lo conoscono, lo comprendono e hanno la capacità di
utilizzarlo. È emblematico un episodio accaduto allo chef in Giappone nella città di
Hachinohe: per un evento si dovevano replicare alcune sue ricette. Come executive chef
doveva impartire disposizioni allo chef che, a
sua volta, le avrebbe trasmesse alla brigata.
L’interprete mostrava difficoltà nel tradurre
dall’inglese al giapponese le indicazioni di
Sergio Maria, ma appena ha utilizzato un termine francese per una preparazione, il suo alter
ego giapponese ne ha immediatamente compreso l’esecuzione. Ogni chef deve avere nel
proprio bagaglio professionale la conoscenza
del francese, lingua classica dell’arte culinaria,
ma non può mancare neanche nella padronanza
di almeno un’altra lingua straniera, ha dichiarato Sergio Maria, perché le esperienze
all’estero sono fondamentali in questo mestiere. Conoscere la propria cucina è importante, ma lo è altrettanto conoscere quella degli
altri.
Il sapere accumulato in anni di studio e di esperienze formative porta a creare una propria
scuola di pensiero culinario che lo chef Teutonico ha scelto di trasmettere fondandone una
dall’emblematico nome di “La palestra del
cibo”, perché, come ha dichiarato, sta ad indicare il costante allenamento allo studio che richiede l’arte culinaria.
«Cercare di trovare o ideare attraverso la propria esperienza e le proprie competenze …» è
una delle definizioni che si leggono sul dizionario Devoto-Oli alla voce «studiare». In queste parole si ritrova perfettamente la professione di Sergio Maria Teutonico: lo Chef.
Sergio Maria Teutonico nato a Milano nel 1971, da oltre 30 anni lavora nel mondo della “cucina”.
Executive Chef, Sommelier professionista, Consulente Gastronomico, Scrittore, Docente di tecnica
alberghiera ed enogastronomia, ha fondato nel 2012 una scuola di cucina: La Palestra del Cibo.
DI GIUSEPPE RESTIFO
Fruttuoso è lo studio della
storia
“Comprendere non ha nulla di passivo”, diceva
Marc Bloch: chi studia la storia opera scelte e
distinzioni, ovvero analizza la realtà che si
propone di indagare. Così si affronta l’indispensabile e fruttuosa ginnastica dello studio
del passato, poiché esso soltanto ci permette
di misurare fino in fondo gli esiti contemporanei delle vicende che ci hanno preceduto.
“Lo storico deve liberamente lavorare alla
frontiera, sul confine, un piede di qua, uno di
là. Lavorare utilmente”. Egli appare per certi
versi allora come un “lavoratore socialmente
utile”, in quanto si potrebbe definire, con Lucien Febvre, la funzione sociale della storia
come l’organizzazione del passato in funzione del presente. Infatti è impossibile comprendere il tempo in cui viviamo senza conoscere quanto l’ha preceduto; nessun dubbio
sussiste sul fatto che il presente sia inintelligibile senza un certo studio del passato.
Per ogni problema storico affrontato occorre
una molteplicità di fonti, di documenti e tecniche: questo è stato compreso bene; di fronte
alla ricchezza dei contenuti, si può essere disposti a cooperare, a lavorare ora da soli e ora
in équipe, espressione dei nuovi tempi. Nuovi
tempi richiedono nuovi approcci storici e
buone domande possono aprire nuovi campi di
ricerca.
L’evoluzione della storiografia deriva in larga
misura da un processo intrinseco a tutte le
discipline umanistiche e ampiamente visibile
in molti settori della cultura. Le premesse fondamentali stanno nella storia stessa della storiografia, che permette di “sentire” e di “toccare” la realtà storica. I lavori storici recano
implicita la convinzione che il passato possa
essere descritto attraverso il racconto storico, e
che il metodo più adatto consista nel realizzare
una descrizione dettagliata delle azioni, delle
idee e dei sentimenti degli uomini.
Una nuova storia non si afferma, rispetto alla
storia tradizionale, senza una “battaglia” intellettuale e culturale. Nel caso dei più giovani
storici, autori di tanti saggi, colpisce un approccio che si può definire “spontaneo”: per la
gran parte di loro si tratta della prima pratica
storiografica, ma subito emerge come essi considerino i loro risultati come un prodotto della
“sudata” conoscenza del passato, restando fedeli al realismo e alla verità. Alla verità, che
per gli storici non è soltanto una categoria logica o sociale, bensì anche una categoria morale, come presupposto della loro onestà.
Se il progresso economico, più in generale la
modernizzazione e l’avanzamento civile, come
sostiene Joel Mokyr, dipendono dall’innovazione nella conoscenza, all’interno di una società che dovrebbe essere creativa, capace di
condividere e rendere accessibile la conoscenza e di applicarla alla soluzione dei suoi
problemi, qui ed ora siamo messi male, ma non
senza speranze. Lo studio dà un’altra
possibilità alla ricerca storica, una possibilità
riguardante, piuttosto che lo stato attuale, l'avvenire.
E poi c’è il conforto del riscontro sociale.
Prendiamo il caso di un paese e di un territorio
delle grandiose aree interne italiane, quelle che
sono state ignorate nell’ultimo secolo. Da Capizzi, paese interno della Sicilia più interna, al
confine delle provincie di Catania, Enna, Messina e Palermo, al confine più lontano delle
città, sale una domanda sociale: come facciamo a rafforzare la nostra identità di Capitini? Sottotitolo della domanda: per evitare di
essere spazzati via dalla globalizzazione,
dall’attuale fase del capitalismo italiano e internazionale.
Mettersi a studiare la storia è la principale risposta; e poi produrre studi storici su quell’insediamento, peraltro plurisecolare; infine disseminare i risultati della ricerca.
All’uscita del volume “Capizzi fra Tre e Seicento” una parte della comunità capitina fu
presa da grande curiosità: voleva sapere cosa
mai uno storico “esterno” avesse da dire sul
suo paese. In concomitanza con i festeggiamenti di San Giacomo, protettore di Capizzi,
venne organizzata la presentazione del volume
all’interno del suo Santuario, “location” piuttosto singolare ma ricca di significato. L’autore porta 50 copie e dice alla confraternita incaricata della loro distribuzione che il libro non
è in vendita: deve essere data una copia solo a
chi lascia un’offerta per San Giacomo. La diffidenza verso una cronologia così “lontana”
viene assolutamente superata: la colletta per la
festa del Protettore è un successo.
“Da questo libro ho imparato tante cose che da
capitino non sapevo”: questo il commento, fra
i tanti, di Antonello Bonanno Conti, rinomato
scultore nativo di Capizzi.
Il libro circola pure nei bar Bocchio e Spagna
del paese, luoghi della socialità una volta, tanto
tempo fa, riservati agli uomini, ma ora frequentati pure da donne e ragazze. La disseminazione sta funzionando, con la speranza che
la consapevolezza della propria storia porti
all’accettazione della sfida del “contemporaneo” mettendo da parte la rassegnazione alla
“ineluttabile” marginalizzazione. Il recupero
dell’identità locale, messa a confronto con il
“globale”, passa pure attraverso la valorizzazione dello studio e della ricerca storica.
DI DIANA CILIBERTI
(Ri)studiare la montagna
Tutti noi concordiamo sul fatto che ogni montagna ha la sua vetta. Ma quali sono i criteri
fisici, statistici ed antropologici necessari a definire una “montagna”? e cosa si intende, nello
specifico, quando si parla di alte e di medie
montagne?
In un famoso contributo di Price (2013) si leggono alcuni aneddoti interessanti sulla montagna, di questi i più emblematici raccontano che
negli anni ‘30, tra i membri di vari club alpini
statunitensi divenne di moda scalare la vetta
più alta di ciascuno dei quarantotto stati continentali. Il più alto di tutti era il Monte Whitney,
in California (4.418 metri s.l.m.); il più basso,
Iron Mountain in Polk Country, Florida (100
metri s.l.m.). Certamente, nessuno avrebbe dubitato che Whitney fosse davvero una montagna, al contrario di Iron Mountain, la cui definizione di “montagna” – così come si evince
dalle diverse descrizioni promozionali – apparirebbe forse ai nostri occhi come un’esagerazione. All’estremo opposto, c’è la storia di uno
scalatore britannico che durante una scalata
sull’Himalaya chiese al suo sherpa i nomi di
alcune vette circostanti (3.500 metri s.l.m.,
l’altitudine media), la guida alzò le spalle dicendo che si trattava solo di colline senza
nome.
È allora possibile che la differenza tra i due
estremi sia solo una questione di prospettive?
Le vette minori si perdono nella maestosità
dell’Himalaya, mentre anche un piccolo promontorio in pianura può essere percepito come
una “montagna” per la popolazione locale.
Roderick Peattie, nel suo classico Mountain
Geography (1936), suggerisce diversi criteri
per definire le montagne, queste dovrebbero
essere imponenti al punto da entrare nell’immaginario della popolazione locale e avere una
propria individualità. Poiché, secondo lo studioso, indipendentemente dall’altimetria,
l’avere un’individualità distinta e un ruolo simbolico, porterebbe una vetta ad essere classificata come “montagna” e ne verrebbe riconosciuta la sua personalità da chi queste montagne le abita.
Dalla dimensione orografica a quella percepita, alla definizione rigorosa di “montagna” si
affianca una connotazione più inclusiva che incorpora non solo elementi fisici, ma anche antropici e antropologici.
Oggi, come nel passato, le montagne rappresentano una risorsa insostituibile, tanto che più
della metà della popolazione mondiale dipende
da esse per il cibo, l’acqua, l’energia idroelettrica, il legname o le risorse minerarie. Le
montagne sono ambienti elaborati, caratterizzati da una topografia complessa, da zone ecologiche multiple e da una diversità biologica e
antropologica intrinseca. Ed è per tutte queste
ragioni che è sicuramente giunto il momento di
assumere una nuova prospettiva allo studio
della montagna, la quale comprenda diversi
punti di vista paradigmatici da parte di geografi, antropologi, storici e non solo, che possano intrecciarsi e dialogare costantemente.
Uno studio interdisciplinare certamente necessario soprattutto quando si parla di “montagne
di mezzo” (Varotto, 2020) o “intermedie”, ovvero di quelle montagne che presentano caratteri culturali e sociali tali da renderle estremamente poliedriche. Storicamente queste montagne hanno svolto un ruolo importante in termini di presenza umana – negli insediamenti e
nelle forme di organizzazione sociale – e di
cerniera tra i diversi piani altitudinali del rilievo, sviluppando reti e interazioni molto intense. In effetti, per comprendere appieno queste montagne è necessario un cambiamento di
prospettiva che tenga conto dei soggetti, degli
immaginari, di stili di vita, attività produttive,
difficoltà e ambizioni; una dimensione che studia la montagna come spazio vitale, denso di
relazioni, di nuove centralità e di vecchie periferie. Ed è certo che quando si studiano tali
aspetti, nessuna montagna dovrebbe essere lasciata inosservata: né quelle maestose, né
quelle marginali, né gli altopiani o le colline e
le pianure, né Iron Mountain o il Monte Everest, né il Monte Bianco o il Monte Muto.
_____________________________________
Riferimenti bibliografici
Price M.F., Byers A., Friend D., Kohlert T., Price L., (2013) Mountain Geography. Physical and
human dimensions. University of California Press, Berkeley.
Peattie R. (1936) Mountain Geography. A Critique and Field Study, Harvard University Press, Cambridge.
Varotto M. (2020), Montagne di mezzo. Una nuova geografia. Einaudi, Torino.
DI
STEFANO LUCARELLI
Lavori in corso
Introduzione
Lavori in corso
Negli ultimi tempi ho iniziato sempre più ad
apprezzare nelle persone che incontro il desiderio di non accontentarsi, di non fermarsi
nell’identità di parole e gesti determinati da un
lessico regionale e familiare o di appartenenza. Con loro riesco a scorgere la porta
aperta alla curiosità, all’indagine, alla ricerca
di una visione che sappia metterle in condizione di riempire e nutrire la propria anima.
I binari della ferrovia mi aspettano nella luce
intimidita della mattina.
Ascoltarle è un piacere, sentirgli porre domande, avvertire la loro attenzione e concentrarne il vocabolario del cuore è ancora meglio.
Queste persone sanno regalare respiro e aria,
tanta aria, intorno e dentro a chi le frequenta,
o meglio: le abita.
La loro grazia e il loro garbo tessono una
trama allargata della vicenda umana che rallegra lo spirito e che, una volta trovate, lasciano ad ogni saluto il desiderio di incontrarle ancora.
In questi tempi di acciaio e fuoco, di certezze
assolutiste e di confini sempre più segnati a
filo spinato, rimpiango di non avere queste
persone a gestire le cose del mondo.
Ma la grazia, si dice, è un segno del cielo, o
perlomeno questo credono in molti, e invece
vive e si muove intorno, cercando disperatamente di farsi riconoscere.
Dentro, i solchi sui visi tradiscono la fatica.
Si va tutti insieme, e sempre insieme, si scende
al capolinea.
La banchina ci raccoglie a grappoli,
comunitari, neo comunitari e no, e tutti dentro
la minuta scala metropolitana, a due a due per
fare prima, e perché di più non si passa.
Si aspetta il proprio turno con la cicca in bocca,
pazienti e con lo sguardo basso, tanto ci tocca,
è sicuro, nessuno ci spingerà, e quando arriva
il mio, scendo giù, un passo dopo l’altro verso
il tornello che è solo il primo della giornata. Gli
altri sono fatti di stipendio-sussidio, di precariato, di quarte settimane da incubo, dai miei
figli e a quello che a loro lascerò, di brevi domeniche e d’interminabili lunedì, di silenzi fragorosi e di parole strappate.
A sera mi coccolo nel grande lettone, dove si
appoggiano, sgambettando sotto le coperte, anche i miei figli e con loro Elisa, mia moglie.
Dentro quel naviglio in tempesta che è diventato quel materasso, ormai, sospinto dal vento
in burrasca dei pugni e dei calci fra noi maschi,
lei continua a leggere, anzi: a studiare, come
dice spesso.
Le piacciono le parole che trova sui libri, le
piace riprodurle tra le sue, le piace provare gerghi nuovi, diversi, alcuni difficili tra i nostri
amici di borgata, stagionati da tempo, dentro il
suono metabolizzato del loro dialetto nativo.
Adora anche quello, e come me, ne fa un uso
gonfiato a pieno petto, però, in certi momenti
lo vedo, mi accorgo che la sua testa corre come
un flipper alla ricerca del motivo musicale che
una nuova parola gli dona sentendosela risuonare in bocca.
Quando rientro dall’aver trasferito a peso entrambi i due pargoli nella loro stanza stamberga colma di pedalini odorosi, mutande ingiallite e magliette sportive fin sopra l’armadio
per il saluto della buona notte, lei è ancora lì.
Mi fa ascoltare qualcosa e poi, commuovendosi un po’, ripete a mente quelle poche righe,
le ripete sussurrandole dentro il mio orecchio,
sospirando alla fine dentro un bacio umido e
caldo.
-
-
Avresti dovuto studiare.
A quei tempi non era facile, lo sai: in
casa eravamo troppi e i soldi pochi.
E ora?
Ci sto provando ma faccio da me, non
ho tempo per lezioni, tasse e frequentazioni.
Puoi seguire dei corsi on-line…
Mi abbracci invece di dire scemenze?
Ci manca solo l’on-line, adesso. Per favore.
Eppure, durante il percorso in treno ne vedo
tanti di compagni di viaggio e di lavoro col
badge che invece che riassorbire il sonno lasciato sul cuscino, vanno in cerca di pagine da
consegnare alla propria anima più stanca che
distratta.
Anch’io nel mio piccolo, dentro lo zainetto, oltre alla sporta e alla frutta, conservo un librino
comprato al supermercato a metà del prezzo, di
quelli facili da maneggiare, da girare e rivoltare se dovessi tenerlo in una sola mano.
Non siamo diversi, eppure, lei riesce a fissare
tutto, gli viene più facile ora che s’impegna,
mentre io, da parte mia, perdo i pezzi dovunque, torno a ritroso per cercare le tracce, ma
faccio acqua da tutte le parti. Lei no: lei riesce
a trattenere tutto. Anche nell’amore.
Nei pomeriggi domenicali quando i ragazzi
sono fuori col pulmino che li porta e riporta
dalla partita, riusciamo a scambiarci qualche
parola in più sul tavolino odoroso di caffè
caldo. In quel momento preciso so che succederà, che parteciperò di un momento incantevole, quello dove il suo sguardo pattinerà come
sul ghiaccio tra le scie delle cose che ha capito
e che vorrà condividermi.
In quel momento preciso comincerò a bere
dalla sua bocca, m’intenerirò dietro le sue simmetrie geometriche e le sue equazioni filosofali.
Nell’incessante desiderio di trasformare
quell’anima posta dentro il petto in uno scrigno protetto, pronto a immolarsi per il mondo
intero, e in questo progetto c’è tutta la felicità
della fatica verso il suo laborioso studio.
È meraviglioso starle accanto e respirarne anche solo l’aria.
A scuola mi dicevano che conoscere le cose
serviva a capire meglio le cose stesse, a non
farsi trovare impreparati, a non improvvisare
continuamente.
Quando esce per andare incontro ai ragazzi,
mentre tagliuzzo le cipolle e inizio a preparare
la cena, mi fermo, e affacciato alla finestra,
cerco di guardarla.
Le rubo un dettagliato sulla sua figura.
È bella, e si porta sulle spalle la bellezza delle
sue emozioni.
Un impasto trasparente.
E a quel punto, torno dentro, e sulla spianatoia
spacco tre uova sulla montagnola di farina per
fare il mio d’impasto, quello che darà sapore
alla Domenica sul tavolo.
DI ADOLFO CARRARI
Un’esperienza educativa di ieri
con contenuti attuali
a Patrizia Rossi e a Claudio Gentili
Nell’ambito di un percorso di riflessione sulla
figura di Don Milani, il 12 e il 14 aprile 2024
si è svolto a Piombino un seminario di studi dal
titolo La scuola dell’andare verso.
Il presente articolo, concepito nell’ambito di
questo seminario, riguarda un’esperienza degli
anni Settanta, quella del Centro Proletario di
Cultura a Piombino (CPdC).
Un’esperienza che ho ricostruito non soltanto
sulla base della mia memoria e dei ricordi, ma
soprattutto sulla base dei documenti
fortunatamente conservati e di un periodico
pubblicato dal Centro stesso in quegli anni.
Nell’ottobre del 1971 nel quartiere Salivoli
aprì un doposcuola gestito da un gruppo di
studenti universitari e da alcuni operai di
formazione post-sessantottina, che avevano i
propri riferimenti nelle esperienze della scuola
di Barbiana di Don Milani e della comunità di
Don Mazzi nel quartiere dell'Isolotto di
Firenze.
Il locale era quello della ex Coop. "La
Proletaria”, di fronte alla spiaggia di Salivoli,
ed era frequentato da 20 ragazzi delle scuole
secondarie di primo grado.
Al tempo il quartiere era formato da un misto
di villaggi: Lombriconi, via Salivoli, Diaccioni
e intorno la campagna con vigne di ottimo
bianco.
Politiche abitative
Piombino in quel periodo aveva inaugurato
azioni innovative nel campo delle politiche
abitative. Gli stabilimenti industriali godevano
di buona salute e riuscivano a garantire
l’occupazione di migliaia di lavoratori
prevalentemente operai.
Per offrire loro condizioni di vita migliori in
ambienti salubri, le amministrazioni di allora
scelsero questo quartire sul mare, lontano dai
fumi dei tradizionali quartieri industriali del
Cotone e Poggetto, per offrire migliori
condizioni abitative e un ambiente salubre e
non inquinato ai lavoratori della grande
fabbrica.
Il Quartiere: rischi di ghettizzazione
Si parlava di villaggi "modello" ma il centro
città era piuttosto lontano e i ragazzi, allora
numerosi, erano distanti dai cinema, dalla
biblioteca, dai centri di aggregazione. La vita
delle famiglie era scandita dai turni lavorativi,
dal poco tempo per dedicarsi ai figli. Il
doposcuola quindi era utilissimo alle famiglie,
sostituiva le ripetizioni private che molte
famiglie non potevano permettersi.
Le attività del doposcuola
Il pomeriggio era così articolato:
1) Svolgimento die i compiti pomeridiani
2) Recupero delle lacune e dei ritardi in
alcune materie
Lo scopo degli organizzatori era anche quello
di promuovere partecipazione e iniziative di
approfondimento alla vita sociale e del
quartiere; si proponevano quindi discussioni
assembleari, si ascoltavano e si affrontavano
problemi, suscitati dai ragazzi stessi su tutte le
problematiche che riguardavano la loro vita in
ambiti sociali diversi.
Benchè la maggioranza degli organizzatori
fosse politicizzata ed orientata, non c'era
indottrinamento, bensì ricerca di dati,
strumenti concreti per risolvere i problemi ed
affrontarli, con riferimento ai metodi appunto
di Don Milani.
Ogni 15 giorni si organizzavano assemblee con
i genitori, dove si analizzava l'andamento
scolastico dei figli, e si promuoveva la
partecipazione degli stessi alla vita della
scuola. Non eravamo i soli a farlo...
L'obiettivo: suscitare la partecipazione
qualificata
Insieme al doposcuola, si era da poco costituito
il Consiglio di quartiere e si spingeva affinchè
le famiglie potessero partecipare realmente
alla vita sociale e della scuola. Poi nel 1974
furono istituiti gli organi collegiali.
Il doposcuola chiudeva quell'anno, con
risultati scolastici positivi; i ragazzi furono
tutti promossi e si aprirono nuovi scenari. Il
coinvolgimento delle famiglie e il rapporto
umano che si era creato con molti di loro spinse
a progettare un luogo più ampio di
partecipazione e proposta sulle tematiche
cittadine e di quartiere; nacque così il Centro
Proletario di Cultura, nell'accezione più ampia
di strumento che si affiancasse ai luoghi del
lavoro, al sindacato, alla scuola, agli organi
collegiali, ai partiti, per preparare l’entrata nel
mondo del lavoro. L'obiettivo di prevenire la
dispersione scolastica, si univa a quello più
generale di prevenire l'emarginazione e la
ghettizzazione culturale.
Il Centro Proletario di Cultura
All'inizio del nuovo anno scolastico fu
necessario affittare un locale più ampio e più
centrale nel quartiere, con una grande insegna
che lo identificava.
Fu svolta un'indagine sui problemi principali
del quartiere: casa, scuola, sanità, trasporti. Si
costituì una biblioteca di quartiere con
l'apporto di tutti e a disposizione di tutti.
Il Centro iniziò a pubblicare un suo bollettino
d'informazione diffuso capillarmente casa per
casa dal titolo il "Quartiere operaio".
Quell’anno il doposcuola ebbe un boom
d'iscrizioni, un centinaio circa, con quaranta
presenze fisse. Fu un impegno che allargò
anche il gruppo dei docenti volontari e creò
non pochi problemi organizzativi.
Bilancio dell'attività del CPdC
Il bilancio dell’attività fu molto positivo. Oltre
all’elevato numero di iscritti, furono coinvolti
più di 20 "insegnanti” che si alternavano con
una frequenza di 5/6 al giorno.
Il doposcuola funzionava ogni mese dell'anno,
e ogni giorno del mese con questo orario: la
mattina ad eccezione del lunedì, dalle 9.00 alle
11.30, il pomeriggio, eccetto il sabato dalle
15.00 alle 17.30: La "quota d'iscrizione" era di
2000 lire e serviva per pagare l'affitto di 60.000
lire mensili e le altre spese di funzionamento
del Centro.
Si tenga presente che c'era un tesseramento del
Centro e periodicamente il bollettino
pubblicava il bilancio delle entrate e delle
uscite.
Le attività del Centro
Le attività si ampliarono nell'arco dei due anni
successivi, divenendo veri motori di iniziative
che si intrecciavano con altri eventi sul
territorio legati alle lotte sociali, alle grandi
battaglie civili per i diritti, tra le quali le sfide
referendarie sul divorzio e sull'aborto.
In questo contesto, il Centro svolgeva il
proprio ruolo culturale, promuovendo incontri
ed iniziative. Persone di grande spessore
incontrarono i ragazzi e le loro famiglie. Ne
cito due per tutti: il 15 aprile del '75 il senatore
e partigiano Enzo Enriques Agnoletti e
nell'ottobre del '76, una delle donne che hanno
contribuito a scrivere la Costituzione italiana,
Teresa Mattei, che in seguito, in altri suoi
interventi pubblici, avrebbe ricordato gli
organizzatori del Centro con l’appellativo "i
ragazzi di Salivoli”.
Un'esperienza ancora attuale
La missione e il messaggio del Centro
Proletario di Cultura credo che siano anocra
attuali, per certi aspetti.
Quando il CPdC terminò le proprie attività nel
'77, i ragazzi che vi avevano studiato e che vi
erano cresciuti, i genitori che lo avevano
frequentato, gli stessi giovani che lo avevano
promosso, parteciparono con convinzione alla
vita politica e sociale. Portando nelle diverse
sedi ciò che di buono il Centro era riuscito a
trasmettere loro. "La libertà, non è stare sopra
un albero, ma è partecipazione" cantava al
tempo Giorgio Gaber.
Negli anni seguenti in Val di Cornia e a
Piombino, con l'aiuto degli enti locali e
dell'ASL, con il distretto scolastico e con tutte
le scuole di ciascun ordine e grado, sono state
progettate attività (progetti integrati di area,
finanziati dalla Regione), e politiche educative
che hanno raggiunto buoni risultati nel
prevenire il disagio e la dispersione, fenomeni
che purtroppo non sono ancora debellati ma
che anzi ancora oggi rappresentano delle
grandi criticità.
Credo pertanto che il pensiero di Don Milani
possa essere ancora attuale, a favore di un
insegnamento improntato alla formazione di
cittadini consapevoli e dotati di un forte e reale
spirito critico.
INTERVISTA A CURA DI MARCO GIOVAGNOLI
L’esperienza della
Scuola parentale di Ancona
Che cos’è una scuola parentale?
Una scuola parentale è un nuovo modo di fare
scuola, dove i genitori si assumono la responsabilità dell’educazione (nel senso vero del termine), dei propri figli sia direttamente, che
coadiuvati da professionisti. La filosofia di
fondo di una scuola parentale è quella di non
delegare l’educazione dei propri figli ma di
prendersi la piena responsabilità del loro percorso di crescita sotto tutti i punti di vista. Non
vi sono, ad ora, delle figure culturali di riferimento, anche se stiamo approfondendo diverse
teorie e valutando quella più consona al nostro
gruppo. Tra le varie esperienze esiste una rete,
ci sono contatti, collaborazioni e gemellaggi
tra le varie scuole sia a livello locale che nazionale e tutto ciò è un arricchimento sia per i genitori, che per i ragazzi e gli educatori. Crediamo che il confronto e lo scambio continuo
con altre realtà produca tantissimi vantaggi.
L’esperienza della scuola parentale di Ancona
In questi anni abbiamo accolto più di 80 tra
bambini e ragazzi, tra materna, elementari,
medie e superiori. Per quanto riguarda questi
ultimi abbiamo preparato i ragazzi sia per il
liceo scientifico che per il liceo delle scienze
umane opzione economico sociale. L’anno
che verrà pensiamo di implementare i
laboratori sia mattutini che pomeridiani per
poter dare la possibilità ai bambini e ai ragazzi di sperimentare altre attività come l'informatica, l'elettronica, la fotografia, la pittura e la scultura, falegnameria, oltre che la
musica e teatro che ci ha accompagnato in
questi anni.
Quali sono le principali critiche al sistema di istruzione pubblico? E a
quello privato?
Per quanto riguarda il sistema pubblico,
quello che evidenziamo principalmente
è la focalizzazione sull'istruzione cioè
sul voler fornire un complesso di nozioni
relative alle diverse discipline mentre per
noi è importante l'educazione, cioè l'educere (il tirar fuori ciò che sta dentro). Già
solo questa diversa impostazione comporta una differenza abissale su come il
bambino/ragazzo apprende e studia. Per
noi è importante accompagnare il bambino/ragazzo nella crescita della propria
consapevolezza e motivazione all'apprendimento stimolando la curiosità e la
passione. Per quanto riguarda il sistema
privato, non si può generalizzare, sottolineiamo semplicemente che nel privato
non c'è il coinvolgimento genitoriale ed
è sempre un delegare ad altri l'educazione dei propri figli.
Criticità e futuro esperienza della scuola parentale
Il punto di forza della completa responsabilità dell’educazione dei propri figli è anche
una criticità in quanto occorre molta pazienza, impegno, dedizione e capacità di
accordarsi tra genitori, figli ed educatori. A
nostro parere l'esperienza delle scuole parentali sta crescendo e crediamo che continuerà a farlo e complessivamente è possibile affermare che l'esperienza, dal nostro
punto di osservazione, è molto positiva.
NELLA STIVA
Paola Mastracola, La passione ribelle, Laterza 2015
Chi
studia
è
sempre
un
ribelle.
Uno che si mette da un’altra parte rispetto al mondo
e, a suo modo, ne contrasta la corsa.
Chi studia si ferma e sta: così, si rende eversivo e
contrario.
Forse, dietro, c’è sempre una scontentezza: di sé, o
del mondo. Ma non è mai una fuga. È solo una ribellione silenziosa e, oggi più che mai, invisibile.
A tutti i ribelli invisibili è dedicato questo libro.
Oggi non si studia più. È da predestinati alla sconfitta. Lo studio evoca Leopardi che perde la giovinezza, si rovina la salute e rimane solo come un
cane. È Pinocchio che vende i libri per andare a vedere le marionette. È la scuola, l’adolescenza coi
brufoli, la fatica, la noia, il dovere. È un’ombra che
oscura il mondo, è una crepa sul muro: incrina e
abbuia la nostra gaudente e affollata voglia di vivere nel presente.
Lo studio è sparito dalle nostre vite. E con lui è sparito il piacere per le cose che
si fanno senza pensare a cosa servono.
La cosa più incredibile è che non importa a nessuno.
Christian Raimo, Scuola e Resistenza. L’attivismo pedagogico tra fascismo e democrazia, Altreconomia,
2024
Una storia dell’ideologia della scuola dopo il fascismo,
dalla resistenza alla pedagogia democratica. La scoperta
di un potenziale e inespresso attraverso alcuni esempi
all’avanguardia: il Centro educativo italo svizzero di
Rimini, Scuola Viva a Roma, Scuola-Città Pestalozzi a
Firenze, la nascita del movimento di cooperazione educativa e la Repubblica dei ragazzi di Civitavecchia. Un
libro
Vincenzo Schettini, Ci vuole un fisico bestiale. Vi racconto i fisici più pop della
storia, Mondadori Electa, 2023
Quante cose hanno in comune gli scienziati più geniali della
storia con il mondo presente? Moltissime. A partire dal fatto
che, in modi diversi, sono stati tutti dei veri e propri influencer: hanno condizionato il pensiero della loro epoca (come ci
insegna Leonardo Da Vinci), avevano follower (Stephen Hawking più di tutti) e hater (Marie Curie ve ne racconterebbe
delle belle). E poi anche i grandi del passato, come moderni
divulgatori, hanno sempre cercato di spiegare come e perché
la fisica è in tutte le cose semplici della vita. È proprio pensando a loro che, dopo “ La fisica che ci piace”, Vincenzo
Schettini, il prof più famoso del web, ha deciso di raccontare
la sua materia attraverso le storie di chi ha fondato la fisica
moderna. Un viaggio incredibile attraverso lo spazio e il
tempo con Leonardo da Vinci, Nikola Tesla, Isaac Newton, Marie Curie, Enrico
Fermi, scoprirete le leggi che regolano il cosmo con Albert Einstein e reciterete in The
Big Bang Theory al fianco di Stephen Hawking... Prefazione di Giorgio Parisi.
Edgar Morin, La Testa ben fatta. Riforma del'insegnamento e riforma
del pensiero, Raffaele Cortina editore, 1999
Morin invita insegnanti e studenti a riflettere sull'attuale stato dei saperi e
sulle sfide che caratterizzano la nostra epoca: la posta in gioco sono i nuovi
problemi posti alla convivenza umana da una interdipendenza planetaria
irreversibile fra le economie, le politiche, le religioni, le malattie di tutte le
società umane. Per rendere queste sfide affrontabili, una riforma dell'insegnamento è indispensabile. Ma per realizzarla è necessaria una riforma
dell'organizzazione dei saperi. E' in questa prospettiva che Morin pone alla
base della riforma della scuola che egli auspica quel tipo di pensiero la cui
elaborazione lo ha reso famoso in tutto il mondo: il pensiero complesso.
Pubblicato il 31 maggio 2024