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Costantinopoli non è Bologna La nascita del Digesto fra storiografia e storia DARIO MANTOVANI Università di Pavia 1. La genesi del Digesto di Giustiniano coinvolge due aspetti, tecnico l’uno, l’altro culturale. Il profilo tecnico, ossia il metodo seguito dai compilatori per spogliare la letteratura giuridica e ricomporla in un’antologia, è il più esplorato, da Bluhme che lo chiarì in modo già pressoché definitivo nel 1820 a Honoré che, di recente, ha rinnovato le sue ipotesi circa la divisione e il ritmo di lavoro dei commissari.1 Segnano il passo, invece, gli studi sulla genesi culturale, cioè sulle condizioni intellettuali che suggerirono e resero possibile un’operazione sofisticata quale fu compiuta, in breve tempo, dai commissari giustinianei.2 Se una situazione di stallo storiografico ha un vantaggio, è che consente di prendere le distanze dalle opinioni e di riesaminare più liberamente l’impostazione data ai problemi.3 Oltre alla dispersione delle fonti, su cui torneremo, a rendere impervia l’esplorazione delle premesse culturali dell’opera giustinianea è, infatti, lo stato della storiografia giuridica. Al tempo dell’interpolazionismo, il clima era per alcuni versi più favorevole (non sorprende che risalga a quella stagione il tentativo più ambizioso di spiegare la «genèse du Digeste»):4 era l’ipotesi stessa che stava alla base di quel metodo, ossia che T. HONORÉ, Justinian’s Digest. Character and Compilation, Oxford 2010; il volume raccoglie i risultati di alcuni studi preliminari, sui quali avevo avuto modo di esprimere alcune osservazioni, alle quali rimando: ‘Tanta legum compositio’: la compilazione del Digesto di Giustiniano in una conversazione tra Tony Honoré e Dario Mantovani, in Alberico Gentili: l’uso della forza nel diritto internazionale. Atti del convegno, undicesima Giornata gentiliana, San Ginesio, 17-18 settembre 2004, Milano 2006, 295 ss., 324 ss.; Aggiornamenti sull’Appendix e i tempi di compilazione del Digesto, in Fides Humanitas Ius. Studii in onore di Luigi Labruna V, Napoli 2007, 3181 ss. 2 Ovviamente, oltre ad appoggiarsi su basi culturali, l’impresa di codificazione era mossa da volontà politica e da impulsi socio-economici (a cominciare dal desiderio di prolixitatem litium amputare: Const. Haec pr.), Sono fattori di grande rilievo per una valutazione complessiva dell’azione di Giustiniano, che esula tuttavia dalla presente ricognizione: per una messa a punto di questi aspetti, vd. per tutti J. HALDON, Economy and Administration: How Did the Empire Work?, in M. MAAS (a c. di), The Cambridge Companion to the Age of Justinian, Cambridge et al. 2005, 28 ss. 3 Per un utile quadro bibliografico rinvio al recente volume di A.M. GIOMARO, Sulla presenza delle scuole di diritto e la formazione giuridica nel tardoantico, Soveria Mannelli 2011, spec. 13 ss. 4 P. COLLINET, Études historiques sur le droit de Justinien, I. Le caractère oriental de l’oeuvre législative de Justinien et les 1 106 Costantinopoli non è Bologna. La nascita del Digesto fra storiografia e storia le opere dei giuristi classici fossero giunte alterate ai commissari giustinianei, a presupporre la vitalità della cultura giuridica tardo-antica.5 Proprio mentre ci si proponeva di recuperare il diritto classico, si dava, infatti, corpo al suo antagonista postclassico, portatore di quei valori, metodi e persino linguaggi che avrebbero guidato la famosa ‘mano’ responsabile di tante alterazioni. Quest’implicazione era, in molti casi, solo involontaria; ciò non toglie che vi fosse il giusto sentore, in chi praticava il metodo critico, che il mondo del diritto non fosse bruscamente cessato dopo l’età severiana. Attenuatasi la convinzione che i testi classici siano stati massicciamente rielaborati, non s’è tuttavia del tutto dissipata l’impressione (quasi una vittoria postuma dell’interpolazionismo) che l’età compresa fra Diocleziano e Giustiniano abbia assistito al crollo della scienza dei giuristi, nei due sensi quantitativo e qualitativo: il diritto – si sostiene – prese la strada della legislazione imperiale, smarrendo al contempo la forma argomentativa di pensiero, che era stata l’emblema dei giuristi per almeno cinque secoli, dal tempo delle guerre puniche alla fine del III secolo d.C.6 Seguendo questa linea, è diventato ancora più ostico spiegare perché Giustiniano abbia avvertito l’esigenza di mettere ordine negli scritti di una letteratura che avrebbe invece dovuto considerare priva di vitalità e, soprattutto, comprendere di dove venissero ai commissari la confidenza con tale letteratura e l’abilità nel venire a capo del compito. Una contraddizione da cui non si è potuti uscire se non attribuendo a Giustiniano di avere dato vita, con il Digesto, a una ‘rinascita’, cioè di avere compiuto un’impresa che non corrispondeva (in tutto o in parte) al suo tempo, con il recupero di una letteratura ormai fuori corso. In effetti, l’interpretazione del Digesto (e delle Istituzioni) in termini di ‘rinascita’ è oggi la più diffusa, seppur con varie sfumature, che, dipendono anche dal confluire in essa di due vettori ideologici sostanzialmente distinti (ma non sempre considerati tali) ossia l’‘arcaismo’ e il ‘classicismo’, che conviene ora mettere a fuoco.7 destinées des institutions classiques en Occident, Paris 1912; II. Histoire de l’école de droit de Beyrouth, Paris 1925; ID., La genèse du Digeste, du Code et des Institutes de Justinien, Paris 1952. 5 Sull’emersione dell’indirizzo che attribuiva le interpolazioni non solo a Triboniano, ma all’età pregiustinianea, vd. la sintesi di F. WIEACKER, Römische Rechtsgeschichte I, München 1988, 46 ss. 6 Era, per portare un esempio autorevole, la posizione di S. RICCOBONO, Lineamenti della storia delle fonti e del diritto romano, Milano 1949, 174: dal IV secolo in poi «il disordine e l’ignoranza imperavano nel campo delle discipline giuridiche» (l’affermazione è tanto più significativa, in quanto lo studioso si trovava su questo punto d’accordo con il Pringsheim, dal quale lo divideva invece l’interpretazione dell’atteggiamento di Giustiniano: vd. infra); nello stesso senso, ancora recentemente, vd. ad es. L. DE BLOIS, Roman Jurists and the Crisis of the Third Century A.D. in the Roman Empire, in ID. (a c. di), Administration, Prosopography and Appointment Policies in the Roman Empire. Proceedings of the First Workshop of the International Network Impact of Empire (Leiden, June 28 - July 1, 2000), Amsterdam 2001, 132 ss. 7 Istruttiva sotto il profilo della storia della storiografia è la discussione concettuale sulla nozione di classicismo (sullo sfondo del volgarismo), ora che, stemperatasi la polemica, è divenuto più chiaro quanto vi fosse di dissenso solo appa- Dario Mantovani 107 All’origine di questa lettura sta l’«archaistische Tendenz Justinians» concepita nel 1930 da Fritz Pringsheim.8 L’insigne romanista riteneva che Giustiniano, nel corso stesso dei lavori, avesse deciso di ampliare il raggio della codificazione, dapprima limitato alle sole leges imperiali, estendendolo agli scritti dei giuristi, sotto una spinta che arrivava dalle scuole giuridiche d’Oriente, Berito in prima linea. Dunque, un’operazione «unpractical and in many ways obsolete».9 Torneremo più avanti sulla ricostruzione a tappe dell’«Enstehungszeit des Digestenplanes» che costituisce il presupposto di questa concezione, le cui basi testuali sono fragili. Per il momento, è sufficiente notare che la concezione di Pringsheim, fondata su un presunto dualismo fra teoria e prassi, sembra ricalcare quella lotta fra «das gelehrte römische Recht» e «die Rechtspraxis» con cui fin dai tempi di Savigny ci si è rappresentati la ‘rinascita’ bolognese del diritto romano e l’affermarsi del ius commune come diritto dell’impero: è questo modello di ‘Renaissance’ che, con il Pringsheim, viene riproiettato sull’età di Giustiniano.10 Lo rente fra le varie posizioni, e quanto invece di reale distanza. Vd. per tutti F. WIEACKER, Vulgarismus und Klassizismus im römischen Recht der ausgehenden Antike (1956), ora in ID., Ausgewählte Schriften I, hrsg. v. D. SIMON, Frankfurt am Main 1983, 205 ss.; M. KASER, s.v. Vulgarrecht, in RE IXA/2 (1967) 1283 ss.; M. TALAMANCA, L’esperienza giuridica romana nel Tardo-Antico fra volgarismo e classicismo, in Le trasformazioni della cultura nella Tarda Antichità. Atti del Convegno tenuto a Catania, Università degli Studi, 27 sett. 2 ott. 1982 I, Roma 1985, 27 ss. e, di recente, l’ottima storia degli studi tracciata da D. LIEBS, Roman Vulgar Law in Late Antiquity, in B. SIRKS (a c. di), Aspects of Law in Late Antiquity Dedicated to A.M. Honoré on the Occasion of the Sixtieth Year of His Teaching in Oxford, Oxford 2008, 35 ss. 8 Vd. F. PRINGSHEIM, Die archaistische Tendenz Justinians, ora in ID., Gesammelte Abhandlungen II, Heidelberg 1961, 10 ss. (che avviò la nota discussione con Riccobono, il quale concepiva l’evoluzione del diritto romano, anche in epoca tardo-antica e poi giustinianea, come graduale e continua, dunque rivolta tendenzialmente alla modernizzazione, e non al recupero del passato). Vd. la nitida discussione dell’allievo del Pringsheim, K.-H. SCHINDLER, Justinians Haltung zur Klassik. Versuch einer Darstellung an Hand seiner Kontroversen entscheidenden Konstitutionen, Köln-Graz 1966, 5 ss., anche se non condivisibile nella conclusione (la scuola di Berito non riuscì a contenere le tendenze ‘volgari’ emerse anche in Oriente dopo Costantino, e fu solo Giustiniano a invertire la rotta). Sulla personalità del Pringsheim, vd. il magnifico ritratto tracciato da T. HONORÉ, Fritz Pringsheim (1882-1967), in J. BEATSON - R. ZIMMERMANN (a c. di), Jurists Uprooted: German-Speaking Emigré Lawyers in Twentieth Century Britain, Oxford 2004, 205 ss. 9 Vd. il saggio conclusivo F. PRINGSHEIM, The Character of Justinian’s Legislation, ora in ID., Gesammelte Abhandlungen cit. (nt. 8) II, 76. Le contraddizioni in cui si dibatte quest’interpretazione costringono l’A. a mantenersi sul filo dell’ossimoro, là dove, dopo avere dichiarato che l’opera è impregnata di arcaismo e obsoleta, deve ammettere «the mainfold character of Justinian’s work»; infatti esso «was intended not only to sum up the past and to provide something for the future, but also to meet the needs of the present». Su un piano più strettamente analitico, la maggiore contraddizione sta nel fatto che Pringsheim parte dal presupposto che da Diocleziano in avanti la letteratura giurisprudenziale «was gradually moved to the background» (art. cit., 73); poi afferma che gli scritti di giuristi «having slowly acquired the force of law, they had to be adjusted in the course of time to the law then prevailing». Quest’ultima affermazione implica, se presa alla lettera, che Giustiniano non fece nessuna operazione arcaistica, bensì continuò sulla strada intrapresa fin dal IV secolo di usare e adattare al proprio tempo la letteratura giurisprudenziale classica. 10 Non a caso, il PRINGSHEIM aveva in precedenza sviluppato il tema Beryt und Bologna, in ID., Gesammelte Abhandlungen I, Heidelberg 1961, 395 ss. 108 Costantinopoli non è Bologna. La nascita del Digesto fra storiografia e storia schema continua ad aleggiare, come vedremo, su molte delle letture del tardo antico giuridico.11 L’abbandono (o meglio il superamento) dell’interpretazione in termini di arcaismo si deve a un allievo del Pringsheim, Franz Wieacker, che nel secondo dopoguerra ha introdotto la nozione di classicismo giustinianeo (ossia di conservazione, più che di recupero retrospettivo), collegando l’operato di Giustiniano a una rinascita più generale della cultura orientale nella seconda metà del V secolo, che per il diritto culmina nella scuola di Beirut.12 La modifica non è secondaria, bensì un vero e proprio cambio di paradigma, perché (almeno in teoria) conferisce maggiore peso alla cultura giuridica del V secolo e, al tempo stesso, attenua la sensazione che il Digesto fosse fuori sintonia rispetto alla propria epoca. Il Wieacker ha osservato che solo la svalutazione dell’operato dei compilatori ha impedito, a lungo, di comprendere «welche Beherrschung der klassischen Feinstrukturen und welche Urteilsfähigkeit die Auswahl, Verknüpfung und gegenseitige Abstimmung der Exzerpte der Kompilatoren ermöglichte».13 La padronanza delle strutture concettuali che attraversavano i testi classici e la capacità di selezionare e riorganizzarne gli estratti furono appunto, secondo lo studioso, il portato della 11 Naturalmente, questo modello trova – anche inconsapevolmente – un sostegno nell’ideologia di restitutio o renovatio che viene attribuita all’azione politico-militare di Giustiniano. A parte il fatto che si tratta di fenomeni che si muovono su piani distinti, occorre tenere conto del cambio di prospettiva compiuto al riguardo dalla storiografia più recente: M. MEIER, Das andere Zeitalter Justinians. Kontingenzerfahrung und Kontingenzbewältigung im 6. Jahrhundert n. Chr., Göttingen 2003, 101 ss., spec. 165-180, ha precisato che negli anni della codificazione (527-533) non vi sono tracce di un’ideologia legata alla restauratio, che compaiono solo a partire dal trionfo sui Vandali del 534; ancor più radicalmente, P. KREUTZ, Romidee und Recht in der Spätantike. Untersuchungen zur Ideen- und Mentalitätsgeschichte, diss. Berlin 2008, spec. 253 ss., ha mostrato che l’idea di ripiegamento verso l’antico è estranea alla codificazione; nello stesso senso, M. SHANE BJORNLIE, Politics and Tradition between Rome, Ravenna and Constantinople. A Study of Cassiodorus and the Variae, 527-554, Cambridge 2013, spec. 67 ss., considera la codificazione «a massive overhaul of the Roman legal tradition never before attempted on this scale» con l’intento di ridurre la discrezionalità di giudici e burocrazia. 12 Per una prima compiuta formulazione, F. WIEACKER, Vulgarismus und Klassizismus im Recht der Spätantike, Heidelberg 1955 (testo di una relazione tenuta nel 1953); vd. poi ID., Vulgarismus und Klassizismus im römischen Recht der ausgehenden Antike (1956), ora in ID., Ausgewählte Schriften I, hrsg. v. D. SIMON, Frankfurt am Main 1983, 205 ss.; ID., Römische Rechtsgeschichte II, München 2006, 263 ss.: per ‘classicismo’ viene inteso l’atteggiamento di chi assume una tradizione passata come norma di condotta per il presente. In realtà, nell’elaborare la sua interpretazione ‘classicista’, Wieacker (vd. ad es. Vulgarismus und Klassizismus im römischen Recht der ausgehenden Antike cit., 220), ha accolto i risultati di Pringsheim, sia quanto alla connessione fra codificazione e «Restaurationsprogramm» di Giustiniano, sia specificamente quanto alla correzione del piano della compilazione sotto la pressione delle scuole. La compresenza di questi elementi crea, a mio avviso, la tensione e ambiguità di fondo fra l’interpretazione che pone il Digesto in linea con lo stato culturale del secolo precedente e quella che ne fa un anacronismo mosso da un intento arcaistico di restaurazione. 13 WIEACKER, Römische Rechtsgeschichte cit. (nt. 12) II, 279. Dario Mantovani 109 crescente cultura scolastica sviluppatasi nel corso del V secolo a Berito e negli altri centri di formazione. Di qui la conclusione, espressa dal Wieacker con la consueta icasticità, che il Digesto sia stato «die Frucht der älteren Rechtschule».14 Quest’impostazione gode oggi d’una fortuna pressoché unanime (si può dire che manca una spiegazione alternativa), anche se si oscilla fra attribuire la ‘rinascita’ al V secolo o solo all’età giustinianea: un’oscillazione sintomatica, causata, a mio avviso, proprio dal nesso irrisolto fra la teoria del classicismo e la sua origine, la tendenza arcaistica di Giustiniano, con le differenze che esse in realtà implicano.15 2. L’opinione secondo cui «la compilazione degli iura è l’opera della corrente culta presente tra i collaboratori di Giustiniano»16 sembra ispirata – come s’è detto – alla distinzione fra «Rechtstheorie» e «Rechtspraxis», che è servita a spiegare la rinascita bolognese del diritto romano. La riproposizione di uno schema elaborato per un’altra epoca e contesto dovrebbe di per se stessa indurre a prudenza, tanto più se le differenze strutturali fra i fenomeni che vengono comparati sono macroscopiche (basti pensare al ruolo totalmente diverso avuto dal potere politico nei due momenti: decisivo per la codificazione di Giustiniano, al traino delle scuole nella rinascita comunale del diritto romano).17 È il modo stesso in cui Pringsheim ha formulato l’ipotesi che nel progetto di Giustiniano vi sia stata una svolta – segnata da una sopravvenuta più marcata influ- WIEACKER, Römische Rechtsgeschichte cit. (nt. 12) II, 263-286. Consonante M. KASER, Das römische Privatrecht II, München 19752, 33: «Die Gesetzgebung Justinians, die das Werk dieser Schulen krönt, bedeutet mit dem Höhepunkt dieser Entwicklung zugleich ihren Abschluß». I due insigni studiosi coincidono nell’attribuire una tendenza classicistica (cioè di conservazione) alle scuole orientali, ma divergono circa il classicismo di Giustiniano, che secondo Kaser fu solo una delle componenti, in un atteggiamento che invece mirava a un adattamento del diritto alle condizioni attuali, molto più marcato di quello scolastico (vd. op. cit., 34 s.). 15 H. HAUSMANINGER (- W. SELB), Römisches Privatrecht, Wien-Köln-Weimar 20019, 52: «Die oströmische Rechtswissenschaft des 5. Jh. schafft damit die stofflichen und geistigen Voraussetzungen der großangelegten Kompilationen Justinians»; R. BONINI, in M. TALAMANCA (a c. di), Lineamenti di storia del diritto romano, Milano 1989 2, 652: Giustiniano fu «più l’erede che l’ideatore» della visione tardo-antica che considerava non eliminabili le opere giurisprudenziali dall’ordinamento; secondo P. GARBARINO, in A. SCHIAVONE (a c. di), Storia del diritto romano e linee di diritto privato, Torino 2005, 240: «nel sesto secolo si ebbe una fioritura della cultura giuridica, come mostra la stessa riuscita del progetto compilatorio di Giustiniano»; op. cit., 244: il Digesto è il risultato «di una felice combinazione tra un rinnovato interesse per la cultura giuridica antica (il cd. classicismo di Giustiniano) e la ricerca di maggiore efficienza dell’ordinamento giuridico»; secondo A. PETRUCCI, Corso di diritto pubblico romano, Torino 2012, 258: la possibilità di realizzare il disegno di Giustiniano «è certamente dovuta al rifiorire della cultura giuridica nelle Scuole di Costantinopoli e Berito agli inizi del VI secolo». 16 Così, con la consueta eleganza, G.G. ARCHI, Studi sulle fonti del diritto nel Tardo Impero Romano. Teodosio II e Giustiniano, Cagliari 1987, 157. 17 Vd. le opportune riserve in WIEACKER, Römische Rechtsgeschichte cit. (nt. 12) II, 264. 14 110 Costantinopoli non è Bologna. La nascita del Digesto fra storiografia e storia enza delle scuole – a denunciare la dipendenza da schemi anacronistici: «vor diesem Wendepunkte stand man im Banne praktischer Tendenzen, nachher in dem der Rechtsschulentheorie; vorher war maßgebend die Übung der Notare und Gerichte von Byzanz, nacher die Überzeugung der Professoren; vorher war man viel moderner als nachher; vorher wollte man geltendes Recht für seine eigene Zeit schaffen, nacher das, was groß am römischen Rechte ware, allen Zeiten überliefern»; il lettore odierno avverte di essere di fronte a uno schema condizionante, che difficilmente sarebbe disposto a sottoscrivere. Ma anche quando si scenda a un tentativo di verifica nelle fonti, si vede presto che non regge la maggior parte degli indizi addotti – a partire dal Pringsheim – per dare corpo a questa svolta.18 In particolare, nessuna delle affermazioni che si leggono nelle costituzioni introduttive dei tria volumina può essere piegata fino a dimostrare che il piano di raccogliere le opere della giurisprudenza sia stato concepito solo dopo che si era messo mano alle leges (un décalage temporale che, a sua volta, sarebbe indicativo dell’influenza crescente dei professori).19 Tantomeno vale come argomento la presenza della legge delle citazioni nel primo Codex (attestata con buona probabilità da P. Oxy. 1814): anche se il Digesto fu progettato fin dal principio (che è l’ipotesi più verosimile ed è conforme alle affermazioni giustinianee), fino al suo compimento era indispensabile mantenere in vigore il sistema della recitatio delle opere classiche regolato dalla costituzione di Valentiniano III.20 18 F. PRINGSHEIM, Die Entstehungszeit des Digestenplanes und die Rechtsschulen, in ID., Gesammelte Abhandlungen cit. (nt. 8) II, 41 ss. (ivi, 52 s. il brano citato). Tralascio la parte dimostrativa basata su pretese interpolazioni e modifiche di significato rinvenibili prima e dopo il 530. La scansione proposta da Pringsheim – senza tuttavia entrare nel merito della dimostrazione – è accettata ad es. da G.G. ARCHI, Giustiniano legislatore, Bologna 1970, spec. 181 ss.; M.G. BIANCHINI, Osservazioni minime sulle costituzioni introduttive alla compilazione giustinianea, in Studi in memoria di Guido Donatuti I, Milano 1973, 121 ss.; C. HUMFRESS, Law and Legal Practice in the Age of Justinian, in M. MAAS (a c. di), The Cambridge Companion to the Age of Justinian, Cambridge et al. 2005, 165; più cauta M. CAMPOLUNGHI, Potere imperiale e giurisprudenza in Pomponio e in Giustiniano II/1, Perugia 2001, spec. 9 s., 30 s., spec. 98 ss., 129 ss. 19 PRINGSHEIM, Die Entstehungszeit cit. (nt. 18), 43 ss. Per un’esegesi analitica rinvio a CAMPOLUNGHI, Potere imperiale e giurisprudenza in Pomponio e in Giustiniano cit. (nt. 18) II/1, spec. 5 ss., la quale conclude che l’esame delle costituzioni introduttive fa emergere «la volontà giustinianea di rappresentare l’iter compilatorio come lo svolgimento, l’attuazione per momenti, di un progetto unitario» (op. cit., 123 nt. 16): questa conclusione è tanto più significativa in quanto l’Autrice, nel lasciare aperta la possibilità che Giustiniano abbia modificato il progetto in corso d’opera, non si sente di escludere che si tratti di una falsa rappresentazione, con ciò confermando che i testi non offrono conferme in questo senso. 20 PRINGSHEIM, Die Entstehungszeit cit. (nt. 18), 43; in senso critico, vd. CAMPOLUNGHI, Potere imperiale e giurisprudenza in Pomponio e in Giustiniano cit. (nt. 18) II/1, 101 ss. (ove bibl.); il punto non è esplicitamente toccato nell’approfondita analisi di S. CORCORAN, Justinian and His Two Codes. Revisiting P.Oxy. 1814, in JJP 38 (2008) 73 ss., spec. 95 ss., il quale ricorda opportunamente la presenza nel titolo della prima edizione (C. 1.15.2) di una seconda costituzione, diret- Dario Mantovani 111 S’aggiunga che – nonostante i lodevoli tentativi di chiarire il ruolo delle singole personalità all’interno della commissione – nulla si può dire di certo sui compiti effettivamente svolti dai due professori di Costantinopoli, Teofilo e Cratino, e dai due di Berito, Doroteo e Anatolio. La commissione – non appaia superfluo ricordarlo – comprendeva altri tredici membri, due funzionari e undici patroni causarum della corte del prefetto del pretorio d’Oriente 21 e non v’è modo di determinare quale sia stato il contributo di tutti e di ciascuno.22 Già la prevalenza numerica dei patroni causarum suggerisce cautela nel privilegiare il ruolo dei professori nella commissione, proprio per non restare vittime dello schema che contrappone artificiosamente scuola e prassi. La contrapposizione è tanto più inadeguata per l’epoca di Giustiniano, in quanto i funzionari e gli avvocati erano comunque usciti dalle scuole giuridiche di Costantinopoli e di Beirut, e dunque ne condividevano metodi e conoscenze.23 Per usare l’espressione di una nota costituzione di Leone, chi avesse voluto praticare come avvocato presso la prefettura del pretorio avrebbe dovuto dimostrare di essere peritia iuris instructum, esibendo fede giurata di doctores (C. 2.7.11, a. 460).24 Mettere in risalto la mancanza di riscontri all’ipotesi di un’elaborazione a tappe del progetto giustinianeo; ricordare la presenza – almeno numericamente prevalente – dei membri non accademici fra i compilatori del Digesto, scelti da Triboniano tam ex facundissimis antecessoribus quam ex viris disertissimis togatis fori amplissimae sedis ad sociandum laborem (Const. Deo auctore 3); ricordare che nulla si conosce per certo del ruolo ta da Giustiniano al prefetto del pretorio Mena, di contenuto ignoto, che rende ulteriormente ipotetico trarre conclusioni circa la presenza della legge delle Citazioni (art. cit., riflessioni sul cambio di personale fra le due commissioni). 21 Qui il tema della tecnica di compilazione si collega a quello della genesi culturale. Sull’attribuzione del ruolo essenziale ai professori, vd. per tutti HONORÉ, Justinian’s Digest cit. (nt. 1), 18 s. 22 Sarebbe ovviamente un difetto di prospettiva valutare l’apporto dei professori considerando ex post i commenti scolastici dedicati all’opera giustinianea (come se dimostrassero che la compilazione aveva trovato accoglienza nello stesso ambiente che l’aveva prodotta). Difatti, non altrove se non nelle scuole – dove erano oggetto di studio – potevano sorgere opere di (più o meno articolato) commento della nuova codificazione, senza che ciò dimostri alcunché sulle forze culturali o pratiche che avevano dato l’impulso alla codificazione (non molto diversamente da quel che accade oggi dopo che un parlamento abbia emanato un nuovo Codice, che diventa oggetto di commento soprattutto in ambiente accademico). 23 È interessante notare che l’ipotesi di Pringsheim è fatta propria da T. HONORÉ, Tribonian, London 1978, 48 s., con la variante che il cambio di rotta viene attribuito al ruolo più importante assunto dal nuovo quaestor Triboniano, che era «a scholar»: la posizione è significativa della unitarietà dell’ambiente, che non può essere artificiosamente contrapposto in correnti. 24 Su questa misura, e sull’avvocatura presso la prefettura del pretorio, vd. ora l’analisi accurata di G. SIEBIGS, Kaiser Leo I. Das oströmische Reich in den ersten drei Jahren seiner Regierung (457-460 n. Chr.) I, Berlin 2010, 566 ss., che intende che gli attestati fossero rilasciati dopo quattro anni di studi giuridici a Costantinopoli o a Berito. 112 Costantinopoli non è Bologna. La nascita del Digesto fra storiografia e storia svolto da ciascuno nello spogliare le masse e comporre i titoli; sottolineare infine che funzionari e patroni causarum erano formati da quegli stessi professori cui li si vorrebbe contrapporre, non significa affatto negare – naturalmente – il ruolo che le scuole giuridiche hanno avuto nella cultura tardoantica e nella stessa compilazione del Digesto. Significa invece invitare a una valutazione più equilibrata delle varie componenti. Funzionari, avvocati e professori erano portatori di conoscenze ed esperienze comuni, operavano all’interno di uno stesso orizzonte teorico e applicativo: fu Giustiniano a dare l’impulso e il sostegno politico necessari perché si potesse realizzare la nuova sintesi. Proprio perché l’operazione fu compiuta sotto il segno del potere imperiale (che trasformava la natura stessa dei brani prescelti, come con lucidità teorizzava lo stesso imperatore: quasi et eorum studia ex principalibus constitutionibus profecta et a nostro divino fuerint ore profusa. Omnia enim merito nostra facimus, quia ex nobis omnis eis impertietur auctoritas: Const. Deo auctore 6) essa si svolse con piglio e con mezzi nuovi. Ciò che era precluso ai professori, di intervenire sui testi classici, era ora addirittura imposto; la varietà delle opinioni, che per i patroni causarum era ghiotto anche se indigesto alimento di liti, doveva essere ora ridotta a unità. Tutto questo è il proprium della codificazione in quanto atto normativo: ma è la cultura giuridica e (la precisazione è indispensabile) l’assetto delle fonti del diritto fino ad allora vigenti che ne costituiscono i presupposti necessari. Paragonare Costantinopoli a Bologna rischia di confondere i due aspetti. 3. Oltre a fondarsi su una discutibile contrapposizione fra teoria e prassi, l’attuale concezione che considera il Digesto frutto della rinascita delle scuole giuridiche avvenuta nel V secolo, sotto il segno del classicismo (cioè del mantenimento del diritto dei giuristi come modello di riferimento da applicare per quanto possibile al presente), rivela, se considerata con l’opportuna prudenza storiografica, un’ulteriore debolezza. Questa concezione – proprio perché è nata retrospettivamente, cercando a ritroso nel tempo le condizioni che giustificano l’operato di Giustiniano – non si fonda su una ricostruzione completa della scienza giuridica tardoantica, che finora manca. Non stupisce perciò che – condizionata dall’idea della ‘rinascita’ che ne costituisce l’esito – essa tenda a rappresentarsi la giurisprudenza tardoantica come divisa in almeno due fasi, una di decadenza, fino all’età teodosiana, e una di rifioritura (esclusivamente orientale) culminata nel Digesto (con le incertezze cronologiche già viste circa il punto in cui collocare questa rifioritura). Anche in questo caso, occorre interrogarsi se la rappresentazione corrisponda alla realtà storica oppure se sia condizionata dalla sua genesi storiografica. Le testimonianze relative alla scuola di Berito,25 com’è noto, rimontano 25 Si sono moltiplicati gli studi su Berito nell’ultimo decennio: i più specifici sono ora L. JONES HALL, Roman Berytus. Dario Mantovani 113 già al III secolo, quando ne parla autobiograficamente l’autore dell’In Origenem (1.7)26 per un’epoca intorno al 230 e se ne interessa poi la tetrarchia, concedendo l’esenzione dai munera personalia agli studenti fino ai venticinque anni (C. 10.50.1: Diocletianus et Maximinus AA. Severino et ceteris scholasticis arabiis).27 Si tratta di testimonianze esterne, è vero, che ancora poco dicono sull’irraggiamento e i metodi della scuola; ma a chiarire senza equivoci che già nel IV secolo essa era assurta a centro d’eccellenza è la ripetuta testimonianza di Libanio.28 L’eloquenza del retore è tale che sono sufficienti poche citazioni per chiarire la rilevanza che egli riconosceva alla scuola giuridica fenicia. Nel 364, quando al suo mentore Giuliano succedono Valentiniano e Valente, Libanio scrive a Megezio: «tutti, giovani e adulti e vecchi vanno a Berito, per mare, per terra e per aria», perché «secondo un’opinione diffusa, chi non ha bevuto a quella fonte, sarà un avvocato impotente».29 Vent’anni dopo, nella sua autobiografia, dirà: «le nostre lettere greche, invece, sono inferiori alle altre, peggio che in passato, così che io temo la loro scomparsa totale per effetto del diritto» (novmou tou'ton poiou'nto").30 Beirut in Late Antiquity, Abington 2004, 196 ss.; e soprattutto M. SCHUOL, Die Rechtsschule in Berytus: römische Jurisprudenz im Vorderen Orient, in R. ROLLINGER - B. GUFLER - M. LANG - I. MADREITER (a c. di), Interkulturalität in der Alten Welt. Vorderasien, Hellas, Ägypten und die vielfältigen Ebenen des Kontakts, Wiesbaden 2010, 161 ss.; più in generale sull’insegnamento nella Tarda Antichità, vd. A.J.B. SIRKS, Instruction in Late Antiquity, the Law and Theology, in Atti dell’Accademia Romanistica Costantiniana. XV Convegno internazionale in onore di Carlo Castello, Napoli 2005, 493 ss.; G. DAREGGI, Sulle sedi delle scuole di diritto nella ‘pars Orientis’ nella Tarda Antichità, in Atti dell’Accademia Romanistica Costantiniana. XVI Convegno Internazionale in onore di Manuel J. García Garrido, Napoli 2007, 103 ss.; GIOMARO, Sulla presenza delle scuole di diritto cit. (nt. 3), 13 ss. 26 Cfr. in Orig. 5.56-72 (l’orazione è attribuita a Gregorio il Taumaturgo); sugli studi giuridici di Gregorio il Taumaturgo, cfr. Hier. vir. ill. 65; Socr. h.e. 4.27; Cassiod. hist. 8.8; vd. JONES HALL, Roman Berytus cit. (nt. 25), 203 s. 27 JONES HALL, Roman Berytus cit. (nt. 25), 205 s., dove sono citate anche altre possibili testimonianze di III secolo; di IV secolo sembrerebbe l’epitaffio pubblicato da J.F. GILLIAM, A Student at Berytus in an Inscription from Pamphylia, in ZPE 13 (1974) 147 ss. 28 Oltre agli studi citati in nt. 25, vd. L. DE SALVO, Formazione giuridica e attività codificatoria nel quadro della cultura tardoantica. Libanio, la retorica, il diritto, in Atti dell’Accademia Romanistica Costantiniana. XVI Convegno Internazionale cit. (nt. 25), 53 ss. e il sempre utile P. WOLF, Vom Schulwesen der Spätantike. Libanius-Interpretationen, diss. Basel 1951. 29 Ep. 1203.1 a Meghetius. In Or. 62.21, Libanio parla di studenti figli di commercianti che frequentano la scuola di diritto. «In precedenza, si vedevano figli di artigiani, che dovevano preoccuparsi per il loro sostentamento, che viaggiavano in Fenicia per studiare il diritto; i giovani di famiglie benestanti, di origine elevata, con un patrimonio decurionale, rimanevano nelle scuole di retorica. E quelli che studiavano diritto, sembravano meno fortunati degli altri, che non ne avevano bisogno. Ora invece è iniziata una corsa generale verso questo obiettivo: giovani che sanno parlare e ottenere l’approvazione dell’uditorio, corrono a Berito, nella convinzione di dovere ancora imparare qualcosa. Non si rendono conto che, invece di guadagnare, fanno uno scambio. Infatti la retorica non la mantengono, mentre rimane solo la giurisprudenza. […]. Avrebbero fatto meglio a studiare tutto il tempo solo giurisprudenza. Se poi la conoscenza del diritto sia più redditizia, non è il caso di discuterne qui». Sugli effettivi vantaggi che l’educazione giuridica offriva nelle carriere pubbliche e forensi, vd. JONES HALL, Roman Berytus cit. (nt. 25), 197 s. 30 Or. (Bios) 1.234 (a. 385): «E senz’altro questo non è l’effetto d’una legge o di un decreto, ma questo viene dal fatto 114 Costantinopoli non è Bologna. La nascita del Digesto fra storiografia e storia È lo stesso momento, la metà del IV secolo, in cui l’Expositio totius mundi, sotto il regno di Costanzo, descrive Berito come civitas valde deliciosa et auditoria legum habens per quam omnia iudicia Romanorum stare videntur. Inde enim viri in omnem orbem terrarum adsident iudicibus et scientes leges custodiunt provincias, quibus mittuntur legum ordinationes (§ 25). Una descrizione tanto più incisiva, in quanto presenta la scuola come centro propulsore della prassi nell’intera ecumene, attraverso la diffusione di esperti che fungono da assessori nelle province, sia nell’attività giudiziaria sia in quella di governo. Non è facile, a fronte a queste testimonianze, difendere l’opinione che solo il V secolo abbia conosciuto una fioritura della scuola di Berito, la cui parabola ascendente sarebbe infine culminata nel Digesto. L’impressione è piuttosto quella di una continuità nel corso del IV e del V secolo d.C. La più recente storiografia, del resto, ha iniziato ad avvertire le angustie in cui si dibatte l’opinione che considerava l’epoca postclassica sinonimo di smarrimento della cultura del diritto.31 Che dopo l’età severiana si sia rapidamente esaurita la letteratura giuridica articolata nei tradizionali generi è fuori di dubbio, tanto quanto è assodato il più largo spazio che le costituzioni imperiali vennero assumendo nella produzione di nuovo diritto. La questione è se il mutare delle forme esteriori equivalga a una modifica sostanziale della forma di pensiero o, ancora più radicalmente, al venire meno tout court di una cultura giuridica.32 Una risposta esauriente richiederebbe la disamina di almeno due formanti giuridici (quindi due classi di testi), la legislazione imperiale e la letteratura giurisprudenziale:33 che la considerazione e il potere vengono a quelli che conoscono la lingua dell’Italia» (cfr. Or. 43.4-5; 2.44). Sul livello della conoscenza del latino nelle scuole di diritto, reputato piuttosto basso, anche perché l’insegnamento era tenuto verosimilmente in greco, vd. R. CRIBIORE, The School of Libanius in Late Antique Antioch, Princeton, N.J. - Oxford 2007, 210 («it is possible, of course, that Latin was the language of instruction for law, but, if so, no evidence exists»). 31 Vd. per tutti B.H. STOLTE, A Crisis of Jurisprudence? The End of Legal Writing in the Classical Tradition, in O. HEKSTER - G. DE KLEIJN - D. SLOOTJES (a c. di), Crises and Roman Empire. Proceedings of the Seventh Workshop of the International Network Impact of Empire (Nijmegen, June 20-24, 2006), Leiden 2007, 355 ss.; in senso analogo, D. MANTOVANI, in E. GABBA et al., Introduzione alla storia di Roma, Milano 2000, 505 ss.; ID., Diritto e storia tardoantica. Tavola rotonda, in U. CRISCUOLO - L. DE GIOVANNI (a c. di), Trent’anni di studi sulla Tarda Antichità: bilanci e prospettive. Atti del convegno internazionale Napoli, 21-23 novembre 2007, Napoli 2009, 396 ss. Vd. anche C. ANDO, Law, Language and Empire in the Roman Tradition, Philadelphia 2011, spec. 19 ss., «Justinianic law emerges as surprisingly classical» (p. 36). 32 Così opportunamente STOLTE, A Crisis of Jurisprudence? cit. (nt. 31), 355 ss. 33 La prassi giudiziale e negoziale (quando sia per avventura documentata fuori dei testi giurisprudenziali e legislativi) rappresenta un livello troppo disomogeneo per potere essere realisticamente integrato in un quadro volto a individuare la sopravvivenza della cultura di tipo giurisprudenziale. Per l’effettivo impatto della codificazione giustinianea nella prassi (verificata per ragioni documentarie in Egitto) vd. J. BEAUCAMP, Byzantine Egypt and Imperial Law, in R.S. BAGNALL (a c. di), Egypt in the Byzantine World, 300-700, Cambridge 2007, 271 ss. Dario Mantovani 115 non per ricercarvi la continuità oppure la modifica dei contenuti normativi rispetto ai secoli precedenti, bensì per accertare in che modo pensassero i giuristi burocrati autori delle leges, i giudici che li impiegavano, gli scrittori di opere e commenti. Il compito attende ancora in larga parte d’essere svolto.34 Mi limito qui a un breve saggio. Rispetto alle due classi di testi sopra richiamate – la legislazione e la giurisprudenza – il tentativo si concentra sull’ambito giurisprudenziale, e geograficamente sull’Oriente ellenofono. Pur limitato, si tratta, ovviamente, di un terreno particolarmente propizio per esaminare la genesi del Digesto. 4. Il primo punto da chiarire, quando si parli di giurisprudenza fra il IV e il VI secolo d.C., è che le sue tracce non si trovano soltanto nelle rare opere che ci siano giunte più o meno integre da questo periodo, che pure mostrano un elevato livello di conoscenza del diritto classico,35 come i Fragmenta Vaticana – raccolta di V secolo, organizzata per materie, di lectiones tratte da opere giurisprudenziali e da leges 36 – oppure come la Consultatio (probabilmente della seconda metà dello stesso V secolo), opera di taglio più didattico che avvia allo stesso metodo delle lectiones.37 Tantomeno conviene valutare il livello raggiunto da teoria e prassi giuridica utilizzando come parametro un’opera come la Collatio (scritta verosimilmente poco dopo il 390), il cui scopo era apologetico, dunque indirizzato altrove rispetto al campo giuridico.38 Si vedano in questo stesso volume i saggi di S. Puliatti e F. Bono. Vd. D. LIEBS, Rechtskunde im römischen Kaiserreich. Rom und die Provinzen, in Iurisprudentia universalis. Festschrift für Theo Mayer-Maly, Köln 2002, 383 ss. 36 Su cui vd. l’esatta valutazione di KREUTZ, Romidee und Recht in der Spätantike cit. (nt. 11), 212 ss., secondo il quale «bei der Kompilation der Fragmenta ein sublimes Maß an gelehrter Rechtskunde und Material- und Stoffbeherrschung am Werke war». Il ms. reca anche sporadici scolii marginali e interlineari, in latino, tendenzialmente consistenti in brevi e precise summae della disposizione cui accedono, e trascritti dall’archetipo (cfr. sch. ad Fragm. Vat. 315, che non ripete la lezione errata nel testo portionem): vd. TH. MOMMSEN, in Collectio librorum iuris anteiustiniani in usum scholarum III, Berolini 1890, 16 s. Di analogo tenore sono i summaria al Codex Theodosianus conservati dal ms. Vat. Reg. lat. 886, ma di maggiore envergure, sia per lo stile, sia per l’attenzione a mostrare similitudini e antinomie fra le leges, come richiedeva la natura del Theodosianus. Quanto alla provenienza dello scoliaste, benché l’origine orientale non possa essere del tutto esclusa (vd. gli argomenti di A.J.B. SIRKS, The ‘Summaria Antiqua Codicis Theodosiani’ in the ms. Vat. Reg. lat. 886, en ZSS (RA) 113 [1996] 257 ss.), la formulazione in latino (oltre alla localizzazione del ms.) fanno propendere per l’Occidente: D. LIEBS, Roman Law, in The Cambridge Ancient History XIV, Cambridge 2000, 256. 37 Convincente la caratterizzazione didattica che ne propone G. ZANON, Indicazioni di metodo giuridico della Consultatio veteris cuiusdam iurisconsulti, Napoli 2009, spec. 76 ss. 38 R.M. FRAKES, Compiling the Collatio Legum Mosaicarum et Romanarum in Late Antiquity, Oxford 2011, 140 ss., sostiene persuasivamente che il Collator sia un cristiano che opera all’interno della tradizione dell’importanza dei dieci Comandamenti e tende a dimostrare nell’intera sua opera che le norme romane hanno precedenti ebraici e ha come 34 35 116 Costantinopoli non è Bologna. La nascita del Digesto fra storiografia e storia Al di là delle loro caratteristiche, ciò che rende questi testi poco indicativi delle condizioni culturali in cui maturò il Digesto è ovviamente che sono tutti di verosimile origine occidentale (così come le varie rielaborazioni delle Institutiones di Gaio).39 Se ci volgiamo all’Oriente, bisogna evitare di farsi sviare dall’apparente mancanza di opere originali; innanzitutto perché, come vedremo, opere nuove in realtà non mancarono; poi, perché la traccia più vistosa della sopravvivenza del sapere giuridico sta nella trascrizione e circolazione manoscritta delle opere stesse della giurisprudenza classica, segnale inequivocabile dell’esistenza di un pubblico interessato e in grado di fruirne. Un recente censimento, svolto da Serena Ammirati, ha portato all’eclatante risultato che «tra i testimoni di contenuto letterario di provenienza archeologica databili tra il I sec. a.C. e il VI-VII sec. d.C., numericamente scarsi se paragonati ai corrispondenti reperti greci, quasi la metà sono di contenuto giuridico».40 Se si considera che la maggior parte di questi frammenti è stata copiata dopo il III secolo ed è di origine orientale, questo significa che nell’Oriente tardo-antico i frammenti di opere giuridiche erano diffusi quasi quanto i testi della letteratura artistica latina. La centralità della letteratura giurisprudenziale è stata poi confermata da rilievi di carattere paleografico e bibliologico: proprio i testi giuridici furono infatti i propulsori di una innovazione che portò a una sorta di standardizzazione, che si svolse fra IV e V secolo in modo continuo.41 Se, in un primo tempo, i libri dei giuristi presentavano una notevole varietà di grafie (seppur con prevalenza di una «scrittura latina più o meno inclinata a destra e dal tracciato piuttosto squadrato»)42 si adottò in seguito l’onciale, che andò progressivamente verso la tipizzazione BR. Sul piano librario, fu ancora l’editoria giuridica a dare impulso alla pratica di allestire codici di grande formato, che permettevano l’inserimento di apparati di glosse: una pratica che dal settore giuridico si trasmise ad altri, come quello dei commenti religiosi o letterari. Questa tenscopo «to show pagan jurists that his religion thus has intrinisc worth in that such laws anticipated similar legislation of the Romans» (p. 143). L’autore della Collatio potè peraltro fare ricorso a buon materiale giuridico (sempre secondo il sistema delle lectiones); soprattutto, la scelta che egli fece del tema mostra l’importanza che il diritto aveva assunto come fenomeno culturale, rispetto al quale ci si poneva degli interrogativi che, secondo i nostri schemi, potremmo definire di filosofia del diritto e che, sotto questo profilo, non sfigurano rispetto ai pochi precedenti classici, da Cicerone al dialogo fra Favorino e Africano. 39 Sulla letteratura destinata all’insegnamento, vd. per tutti D. LIEBS, Esoterische römische Rechtsliteratur vor Justinian, in Akten des 36. Deutschen Rechtshistorikertages (Halle an der Saale, 10. - 14. September 2006), Baden-Baden 2008, 40 ss. 40 S. AMMIRATI, Per una storia del libro latino antico. Osservazioni paleografiche, bibliologiche e codicologiche sui manoscritti latini di argomento legale dalle origini alla tarda antichità, in JJP 40 (2010) 55. Parlando di «testimoni di contenuto letterario» l’A. esclude ovviamente dal computo i documenti della prassi giudiziale e negoziale. 41 AMMIRATI, Per una storia del libro latino antico cit. (nt. 40), 55 ss. 42 AMMIRATI, Per una storia del libro latino antico cit. (nt. 40), 72. Dario Mantovani 117 denza all’uniformità nell’allestimento grafico e librario è stata posta in connessione da Ammirati con la codificazione (in particolare, con quella teodosiana): l’impressione si può forse precisare ascrivendo questa tendenza all’insieme del campo giuridico, nel senso che la progressiva canonizzazione anche delle opere dei giuristi classici (prima ancora della raccolta di leges) ha agito come impulso a tipizzarne anche i manoscritti. In altri termini, le raccolte di leges sono da considerare più come una della manifestazioni di questa canonizzazione, piuttosto che come il movente. Proprio la vivacità dell’editoria giuridica fra Costantino e Giustiniano ha portato a una conclusione importante: «bisogna riconsiderare l’idea di un decadere delle scuole di diritto e dell’interesse per la lingua latina a esso connessa, a partire dal IV secolo: le testimonianze […] evidenziano un processo evolutivo visibile e costante nel continuum temporale tra IV e VI secolo, costituendo una prova più che sufficiente per dimostrare che tale decadimento di interessi non vi fu affatto».43 I risultati scaturiti dagli studi paleografici e bibliologici devono ora essere integrati da riflessioni sul contenuto, perlomeno a livello di una scansione tipologica.44 Sotto questo profilo, le testimonianze giurisprudenziali su papiro e pergamena di provenienza orientale mi pare possano essere suddivise in due grandi tipologie: a) le copie di opere classiche (talune delle quali recanti segni di lettura interlineari o marginali) e b) i testi greci di argomento giurisprudenziale. Questi ultimi sono, in taluni casi, sicuramente commenti lemmatici a scritti di giuristi classici (sullo stile degli Scholia Sinaitica); altre volte, per lo stato frammentario in cui si presentano, la loro natura è incerta, potendosi trattare di commenti lemmatici oppure di trattati che pur basandosi su opere di giuristi classici (di cui talora citano brani), rielaborano più liberamente la materia (come è sicuramente il caso per la raccolta di regulae iuris e significationes verborum di PSI 1348 o per il cd. dialogus Anatoli di P. Berol. inv. 11866). In taluni casi, i testi greci si presentano a loro volta provvisti di glosse marginali greche, il che può essere segno della loro autonomia.45 AMMIRATI, Per una storia del libro latino antico cit. (nt. 40), 100. La tipologia che qui propongo adotta criteri diversi rispetto alla raccolta del collega J.M. COMA FORT, La jurisprudencia de la Antigüedad Tardía. Las bases culturales y textuales del Digesto, in questo volume, supra, 31 ss. 45 Poiché trattiamo di testi giurisprudenziali, sono esclusi dall’elenco i papiri che riproducono leges e codici di leges, come il rescritto di ignota provenienza tradito da P. Amh. 2.27 (R. SEIDER, Paläographie der lateinischen Papyri, II. Literarische Papyri, 2. Juristische und christliche Texte, Stuttgart 1981, 2, n. 15; ovviamente non si può escludere che fosse contenuto in un’opera giurisprudenziale, ma è improbabile, tanto più che mi pare si tratti di un rescritto attribuibile a Diocleziano, come suggerisce l’espressione aditus rector provinciae e il riferimento a extraordinaria iudicia; per il nome del destinatario, cfr. Fragm. Vat. 281). Viene escluso per la stessa ragione il testimone del Codex Gregorianus recentemente reso noto da S. CORCORAN - B. SALWAY, Fragmenta Londinensia Anteiustiniana: Preliminary Observations, in Roman Legal Tradition 8 (2012) 63 ss. Sul genere di P. Gen. inv. lat. 6 (MP 3 2963.01), che non è un’interpretatio, rinvio al mio commento, di prossima pubblicazione. Non sono inclusi nella lista anche alcuni testi la cui condizione 43 44 118 Costantinopoli non è Bologna. La nascita del Digesto fra storiografia e storia Secondo queste linee, propongo una del tutto provvisoria panoramica, divisa per generi letterari, dei testi giurisprudenziali di diritto romano su papiro e pergamena, in latino e/o greco, di provenienza orientale (fra parentesi il numero di riferimento Mertens-Pack3):46 a1) OPERE DI GIURISTI CLASSICI 47 P. Mich. 7.456 (inv. 5604br) + P. Yale inv. 1158r (MP 3 2987): I-II sec. d.C.; autore ignoto; pertinente al processo formulare; P. Aberd. 130 inv. 2 c (MP 3 2983): I-II sec.; contenuto dubbio; P. Monac. inv. L 2r (MP 3 2993.6): II sec.?; contenuto dubbio; P. Fay. 10 (Bodl. Libr. inv. Lat.cl.g.5 [P]) + P. Berol. inv. 11533 (MP 3 2961): II-III sec.?; P. Fay. contiene il caput mandatorum traianeo relativo al testamentum militis; P. Berol. tratta della bonorum possessio ex testamento militis; si può dubitare se si tratti di un estratto da Ulp. 45 ad ed. D. 29.1.1 pr. (e del seguito del commento ulpianeo) oppure di un diverso testimone della stessa normativa; P. Heid. Lat. 3, olim 1000 (MP 3 2972): II-III sec.; autore ignoto; pertinente alla quarta Falcidia; P. Oxy. 17.2103 (MP 3 2954): II-III; Gaius, Institutiones; Leiden, BPL 2589 (MP 3 2956): III-IV sec.; Paulus, Sententiae; P. Vindob. inv. L 59 A+B e 92 (MP 3 2993.2): IV sec.; autore ignoto; cita una costituzione di Severo e Antonino e contiene una rubrica de tutore honorario; P. Arangio-Ruiz s.n. + P. Haun. 3.45 (inv. L 1 + G 169 c-e + 172 b-c) (MP 3 2991): IV-V sec.; autore incerto, probabilmente di III secolo; sui legati e fedecommessi; P. Oxy. 17.2089 (MP 3 2975): IV-V sec.; autore ignoto; in tema di usufrutto in relazione alla lex Iulia et Papia; inedita o frammentaria preclude al momento ipotesi sul contenuto, come P. Berol. inv. 6758 = CLA VIII, 1034 (MP 3 2992); P. Berol. inv. 6759 + P. Berol. inv. 6761 = CLA VIII, 1035 (MP 3 2992), sui quali vd. AMMIRATI, Per una storia del libro latino antico cit. (nt. 40), 94; CLA Add. 1857 (P. Louvre inv. E 10295, partim) (MP 3 2973.1); P. Ant. 3.155 (MP 3 2979.3); P. Bloomington s.n. (MP 3 2982.1), definito commento greco-latino sul diritto romano di IV sec. da LOWE, CLA XI, 1648; P. Mich. 7.431 (MP 3 2986: già considerato giuridico, ma esercizio di scrittura: vd. P. FIORETTI, Ordine del testo, ordine dei testi, Strategie distintive nell’Occidente latino tra scrittura e lettura, in Scrivere e leggere nell’Alto Medioevo, Spoleto 2012, 527 nt. 36, con bibl.); P. Berol. inv. 11323 (MP 3 2989, inedito di IV/V sec.); CLA X, 1524 (P. Vindob. inv. L 26; MP 3 2993.1); CLA X, 1535 (P. Vindob. inv. L 95; MP 3 2993.4, VI sec.). Nonostante L.E. SIERL, Supplementum, in O. LENEL, Palingenesia Iuris civilis II, Graz 1960, 5 n. I, è dubbio che sia riferibile a Gaio P. Ness. II 11 (anche a causa della sua datazione probabile al tardo VI sec.): vd. AMMIRATI, art. cit., 95 nt. 128. 46 L’edizione critica di tutti questi testi (e di altri eventuali inediti) è oggetto del progetto di ricerca europeo da me diretto «Redhis» (ERC advanced grant - SHS 6). Nell’elenco non sono inclusi testi di provenienza occidentale come i già menzionati Fragmenta Vaticana, Consultatio, Collatio, il Gaio di Autun, i Tituli ex Corpore Ulpiani nonché il Codice di Gaio, Verona, Bibl. Cap. XV (13), se di origine occidentale; ignota è anche l’origine dei cd. Fragmenta de iure fisci (Verona, Bibl. Capitolare, I Append. Fragm. IV). È considerato di provenienza occidentale P. Vindob. inv. L 1b (MP 3 2960; V sec.; Ulpianus, Institutiones). 47 Com’è chiaro dalla breve descrizione, l’attribuzione del testo a opere di giuristi classici è in alcuni casi sicura, in altri una semplice possibilità. Dario Mantovani 119 P. Grenf. 2.107 (Bodl. Libr. inv. Lat.cl.g.1[P]) (MP 3 2972): IV/V sec.; Paul. 32 ad ed.; P. Berol. inv. 6757 (MP 3 2985): IV sec.; autore ignoto, forse Ulpianus, ad edictum; de iudiciis liber II; BKT 9.200 (P. Berol. inv. 21294) + P. Berol. inv. 11753 + P. Vindob. inv. L 90 (MP 3 2957): IV sec.; autore ignoto; sulla formula Fabiana, i sui heredes, la b.p. dei liberi capite deminuti; P. Amh. 2.28 (Pierpont Morgan, inv. Pap. G 28) (MP 3 2978): IV sec.; autore ignoto; sulle libertates; BKT 10.30 (P. Berol. inv. 11324 + 21295 [BKT 9.201]) (MP 3 2990): IV-V; sul diritto criminale: corruzione giudiziaria; iudicia publica nelle province, come lo skopelismos; citazioni di opinioni di Nerazio, forse Aristone e Giuliano; P. Stras. L 3 + 6B (MP 3 2962): V/VI sec.; Ulpianus, Disputationes II-III; P. Ryl. 3.480 (MP 3 2980): V/VI sec.; autore ignoto e contenuto incerto; come per il seguente, l’identificazione con una copia di opera di giurista classico è basata sulla grafia e sulla presenza di lessico compatibile; P. Ryl. 3.481 (MP 3 2980): V/VI sec.; autore ignoto e contenuto incerto; P. Vindob. inv. L 94 (MP 3 2993.3): V sec.; «frammento di diritto pregiustinianeo» (AMMIRATI, Per una storia del libro latino antico cit. [nt. 40], 77); P. Stras. L 9 (MP 3 2983.01): V/VI sec.; sulla lex Papia; propone prudentemente l’attribuzione a Gaio l’editore J. Gascou, in E. LÉVY, La codification des lois dans l’antiquité, Paris 2000, 285 ss.; P. Berol. inv. 16987: V sec.; in materia di testamenti e fedecommessi (inedito, cfr. AMMIRATI, Per una storia del libro latino antico cit. [nt. 40], 73 s.); P. Heid. Lat. 2, olim 317 (MP 3 2976): V/VI?; incerto se opera giuridica; sulla successione ereditaria; P. Vindob. inv. L 95 (MP 3 2993.4): VI sec.; ritenuto di argomento giuridico per la presenza di notae iuris. a2 ) OPERE DI GIURISTI CLASSICI CON GLOSSE INTERLINEARI O MARGINALI48 P. Ant. 1.22 (MP 3 2979): IV sec.; sul processo intentato contro un pupillo falso tutore auctore; a margine segno horaios; PSI 1449 (MP 3 2960): IV-V secolo; il recto corrisponde in parte a Ulp. 32 ad ed. D. 19.2.13.4, il verso a Ulp. 32 ad ed. D. 19.2.15.1-2, situati nella pars de rebus creditis; con due glosse marginali greche al recto, che rinviano al titolo sulla lex Aquilia nella pars de iudiciis della stessa opera; P. Berol. inv. 6762 + 6763 + P. Louvre inv. E 7153 (MP 3 2955): IV-V sec.?; Papinianus, Responsa, con note di Paolo e Ulpiano; scoli marginali greci, che sembrano avere natura di sommari; è possibile, ma non sicura, la citazione di passi paralleli;49 Vd. K. MCNAMEE, Annotations in Greek and Latin Texts from Egypt, Chippenam 2007, 493 ss. Riconosce nelle abbreviazioni riferimenti a citazioni di Paolo, MCNAMEE, Annotations in Greek and Latin Texts cit. (nt. 48), 500 ss. Qualche riserva su questa lettura nasce dal fatto che di solito i titoli delle opere citate sono in latino (qui sarebbero abbreviate con lettere greche): inoltre già il testo latino di Papiniano reca le note apposte da Paolo, 48 49 120 Costantinopoli non è Bologna. La nascita del Digesto fra storiografia e storia P. Vindob. inv. L 110 (MP3 2984): ca. 400; incerto se si tratti di un’opera giurisprudenziale o, come suggerirei, di un liber mandatorum per un governatore, articolato in k(apita); con due glosse latine di sommario, sulla custodia in catene e non in carcere, e sul dovere del praeses di rimandare l’esecuzione della sentenza di chi presenta appello; P. Ryl. 3.474 (MP 3 2974): V sec.; brano di Ulp. 26 ad ed., cfr. D. 12.1.1; con glossa marginale greca, con traduzione di una parola del testo; summa marginale latina; PSI 11.1182 (MP3 2953): ca. 500; Gaius, Institutiones, con annotazioni greche interlineari, con traduzione di singole parole, e glosse greche marginali, contenenti sommari oppure citazioni di passi paralleli: Paulus, Ad edictum; Sententiae; De iure singulari. b1) GLOSSA GRECA MARGINALE A TESTO GIURIDICO NON IDENTIFICATO P. Berol. inv. 6758 = LOWE, CLA VIII, 1034 (MP3 2992): nota marginale hor(aios) e glossa marginale in greco contenente il lemma latino pagano.50 b2) TESTI GRECI (O GRECOLATINI) EDITI AUTONOMAMENTE, A COMMENTO DI TESTI LATINI P. Vindob. inv. L 164 (ed. Mitthof, 2006, LDAB 111306): V sec.; summa del codice teodosiano in greco; in latino i titoli e la sigla R(ubrica);51 Scholia Sinaitica (MP3 2958): 438-529; commento lemmatico a vari titoli di Ulpianus, Ad Sabinum 35-38, con citazioni del Codex Gregorianus; Hermogenianus; Theodosianus; Paulus, Ad Sabinum, Responsa; Ulpianus, Ad edictum; Marcianus, Ad formulam hypothecariam; Modestinus, Regulae, Differentiae. b3) TESTI GRECI (O GRECOLATINI) DI CUI È INCERTO SE SIANO COMMENTI A TESTI LATINI O TRATTATI AUTONOMI PSI inv. CNR 132 = IPV 3239 (MP 3 2277.1): IV-VI; inedito (ed. in corso a cura di L. Migliardi Zingale); «commento greco ad un testo giuridico latino non ancora più precisamente identificato»: Papiri dell’Istituto Papirologico G. Vitelli (Quaderni dell’Accademia delle Arti del Disegno I), Firenze 1988, 16; PL II/38 (MP 3 2955.1): V sec.; digrafico, con citazioni da Papiniano e Paolo (cfr. A.M. BARTOLETTI COLOMBO, Prime notizie su un nuovo frammento giuridico, in Istituto Papirologico ‘G. Vitelli’. Comunicazioni 1 [1971] 7 ss.); P. Vindob. inv. G 29291 = MPER III, 38 = A. CHRISTOPHILOPULOS, in ZSS 63 (1943) 414 s. (MP 3 2286): V sec.; sull’arricchimento ingiustificato;52 P. Vindob. inv. L 101 + 102 + 107 (MP 3 2993.5): V-VI sec.; inedito, accostato da LOWE, CLA X, 1536 agli Scholia Sinaitica; PSI 1349 (MP 3 2278) = VI sec.?; testo greco, con citazione di Paulus, Ad edictum. dunque il glossatore greco aggiungerebbe argomenti tratti dal corpus delle opere paoline, che Paolo stesso non aveva ritenuto opportuno inserire. 50 Cfr. MCNAMEE, Annotations cit. (nt. 48), 512; AMMIRATI, Per una storia del libro latino antico cit. (nt. 40), 93. 51 Per i summaria traditi da Vat. Reg. lat. 886, d’origine più probabilmente occidentale, vd. supra, nt. 36. 52 Sembra essere considerata una glossa a un testo perduto da MCNAMEE, Annotations cit. (nt. 48), 506. Dario Mantovani 121 b4 ) TESTI GRECI (O GRECOLATINI) CON GLOSSE GRECHE P. Ryl. 3.476 (MP 3 2282): IV-V sec.; bilingue; riferimenti frequenti a costituzioni imperiali, con citazione di lemmi latini e annotazioni in greco; P. Berol. inv. 16976 + 16977 (MP 3 2281): IV/V sec.; sulla longi temporis praescriptio e l’exceptio non numeratae pecuniae, con citazione di Modestino; al verso lungo scolio con citazione di Paulus, Regulae; al recto tracce di scolio;53 P. Ryl. 3.475 (MP 3 2280): V sec.; bilingue; libertates fideicommissariae; dote; glossa in greco marginale, a commento di alcune parole latine; si menziona un «Sab[…» (l. 16, forse uno scoliaste) e «Vivianus» (ll. 11-12); P. Ant. 3.152 (MP 3 2979.1): VI sec., forse post-giustinianeo; trattato sulla restituzione della dote, con due glosse grecolatine apparentemente numerate e introdotte dalla abbreviazione R(esponsum) (?); P. Ant. 3.153 (MP 3 2979.2): V-VI secolo, grecolatino, sul diritto delle persone e delle successioni, con testo greco e margine con richiami in greco e latino. b5 ) TESTI GRECI (O GRECOLATINI) LETTERARIAMENTE AUTONOMI (ANCHE SE BASATI SU OPERE DI GIURISTI CLASSICI) PSI 13.1348 (MP 3 2982): V-VI sec.; breve raccolta in greco di regulae iuris o significationes di verba giuridici latini, numerate, ciascuna tratta da un passo di un giurista classico: nei frammenti superstiti sono utilizzati Iavolenus, Papinianus, Responsa (?), Paulus, Quaestiones, Brevia, Ad municipalem (?), Ulpianus, Ad Sabinum, De appellationibus, Modestinus;54 P. Berol. inv. 11866 (MP 3 2277) = E. SCHÖNBAUER, in ZSS 53 (1933) 451 ss.: VI sec.; dialogo fra Anatolio e un allievo; legati; accessione; citazioni di Paolo; reca note marginali in greco che segnalano punti di interesse o l’inizio della domanda del tiro.55 5. La scansione per generi della letteratura giurisprudenziale su papiro e pergamena di origine orientale, per quanto provvisoria e approssimativa, suggerisce alcune riflessioni. 53 Forse un commento al Codice Gregoriano? E. SCHÖNBAUER, Ein wichtiger Beispiel der nachklassischen Rechtsliteratur, in Studi in onore di Vincenzo Arangio Ruiz nel XLV anno del suo insegnamento III, Napoli 1953, 501 ss. 54 L’ipotesi di V. ARANGIO-RUIZ, Frammenti di giurisprudenza Bizantina (PSI. 1348-1350 ), in ID., Studi epigrafici e papirologici, a c. di L. BOVE, Napoli 1974, 392, che si tratti dell’allegato a una elaborata memoria defensionale, nel quale si riportavano «le opportune citazioni di testi classici» non pare possa essere seguita. La recitatio in giudizio richiedeva che i testi fossero allegati nel loro tenore originale in latino (o in greco se si trattava di costituzioni imperiali greche): l’ovvio principio è spiegato da Mod. 1 excus. D. 27.1.1.1 e testimoniato in concreto dalla Consultatio. 55 A proposito del Libro siro-romano di diritto, che presenta in mss. a partire dal sec. VIII versioni in lingua siriaca, araba e aramaica di un trattato risalente al tardo V o al VI sec., composto di 130 brani di giurisprudenza e leges del IV e V secolo fino al 472; delle Sententiae Syriacae, di autore ignoto, che sopravvivono in traduzione siriaca, da un originale greco (102 proposizioni tratte per lo più da costituzioni di Diocleziano e dalle Pauli Sententiae e da leggi di Costantino, ma anche di Leone) e del trattato greco De actionibus (ed. F. SITZIA, De actionibus, edizione e commento, Milano 1973, spec. 75 ss.), rinvio a LIEBS, Roman Law cit. (nt. 36), 255 s. 122 Costantinopoli non è Bologna. La nascita del Digesto fra storiografia e storia Le opere dei giuristi classici erano copiate fin dal III secolo, ma con maggiore frequenza nel corso del IV e del V secolo.56 Il fatto che pochi dei frammenti papiracei o pergamenacei coincidano con passi del Digesto (o con passi di giuristi contenuti in altre raccolte tardo-antiche) da una parte rende spesso impossibile determinare l’autore e il titolo dell’opera (e talora rende dubbia la stesse attribuzione alla letteratura giurisprudenziale); d’altra parte conferma che quel che rimane nel Digesto (e nella tradizione indiretta) è una porzione minima della massa circolante (il che era del resto affermazione dello stesso Giustiniano: Const. Tanta 1). Erano gli stessi contemporanei a dare atto dell’abbondanza dei libri dell’antica giurisprudenza, per la quale avevano coniato una definizione, antiquae sapientiae librorum copia. Compare (copia immensa librorum) per la prima volta nella lex con cui Teodosio II rilancia, nel 438, il progetto di Codice:57 è l’abbondanza contraddittoria di opere degli antichi giuristi che l’imperatore identifica come principale causa di tanta incertezza del diritto, perché la farraginosità dava il destro ai giureconsulti del suo tempo per dare maggiore peso al proprio monopolio professionale (severitate mentita, dissimulata scientia).58 Sono i metodi dei giureconsulti notoriamente biasimati da Ammiano Marcellino (con lo sguardo probabilmente all’Occidente), che promettono di far conseguire l’assoluzione al (presunto) matricida invocando multas […] lectiones reconditas (30.4.12). Possono sembrare dichiarazioni ad effetto. Ma che corrispondano alla realtà del V secolo e che una controversia potesse arenarsi nelle secche di una troppo abbondante citazione di pareri diversi trova ripetuti riscontri nelle costituzioni imperiali che adottano come fulcro della motivazione un’opinione giurisprudenziale. Secondo WIEACKER, Textstufen Klassischer Juristen, rist. Göttingen 1975, 144 vi fu nella prima età postclassica la «scomparsa sorprendentemente rapida» della letteratura giurisprudenziale, che fu definitiva in Occidente e fu rimediata solo dalla «risurrezione della scienza giuridica» in Oriente. Nel contesto, critica l’idea che la letteratura in possesso dei compilatori del Digesto fosse stata sempre disponibile nei tre secoli precedenti. 57 L’espressione di Teodosio (Nov. Theod. 1.1: copia immensa librorum) nel contesto si riferisce precisamente alla letteratura necessaria ai giuristi che volessero dotarsi di una completa iuris civilis scientia. L’espressione è invece ritenuta un topos non realistico da WIEACKER, Textstufen cit. (nt. 56), 162 lett. a. 58 Vd. A. LOVATO, Teodosio II e i prudentes, in Studi per Giovanni Nicosia I, Milano 2007, 531 ss.: «l’amministrazione della giustizia era stata ostacolata dal cumulo delle fonti di cognizione sovrappostesi nei secoli» (p. 539). Si può fare risalire quasi a un secolo prima questa esigenza, come appare dal noto passo de reb. bell. 21: De legum vel iuris confusione purganda. [1] Divina providentia, sacratissime imperator, domi forisque rei publicae praesidiis comparatis, restat unum de tua serenitate remedium ad civilium curarum medicinam, ut confusas legum contrariasque sententias, improbitatis reiecto litigio, iudicio augustae dignationis illumines. [2] Quid enim sic ab honestate consistit alienum quam ibidem studia exerceri certandi ubi, iustitia profitente, discernuntur merita singulorum? Vd. da ultimo le equilibrate considerazioni di P. BIANCHI, Confusio e obscuritas iuris: testimonianze dell’esperienza giuridica tardoantica, in Annaeus 2 (2005) 17 ss. 56 Dario Mantovani 123 Fra i molti esempi, una fondamentale testimonianza si trova, a mio avviso, in una costituzione di Leone, del 473 (C. 6.61.5 pr.),59 che rende merito al magister militum Dalmatiae, in un caso di ius controversum, per avere ritenuto preferibile consultare l’imperatore: Magnitudo tua diversis legibus ex utraque parte prolatis nostram credidit consulendam esse clementiam.60 Il caso che aveva spinto il magister militum Nepote a proporre la sua consultatio ante sententiam era una donazione nuziale e un’istituzione di erede, disposte dal fidanzato (sponsus) nei confronti della sponsa (tam sponsaliciam donationem quam hereditatem, quam […] sponsus suam sponsam lucrari voluit). La questione è se al caso si applichi o meno la costituzione di Valentiniano III (CTh. 8.19.1 = C. 6.61.1) secondo cui quidquid maritus vel uxor in potestate constituti invicem sibi reliquerint, non patri adquiri, sed ad eorum ius pertinere; più precisamente, tutto quello che al coniuge in potestà provenisse dall’altro coniuge rimaneva in sua titolarità, mentre il padre acquistava solo l’usufrutto.61 Il dubbio se la costituzione di Valentiniano si applichi anche alle attribuzioni patrimoniali fra fidanzati (quando non siano seguite le nozze) nasceva dal fatto che – come si vede dal brano sopra riportato – la lex non faceva menzione degli sponsi, bensì parlava di maritus e di uxor. Che si applicasse anche ad essi, è C. 6.61.5 pr.: Non sine ratione de negotio, quod inter matrem familias, cuius vestra suggestio meminit, et germanum eius vertitur, magnitudo tua diversis legibus ex utraque parte prolatis nostram credidit consulendam esse clementiam, cum mulier diversis iuris lectionibus idem intellegi maritum et sponsum niteretur probare, germanus mariti nomen illi soli, qui nuptias contraxerit, recitatione constitutionis divorum retro principum Theodosii et Valentiniani, qua cavetur, quidquid maritus vel uxor in potestate constituti invicem sibi reliquerint, non patri adquiri, sed ad eorum ius pertinere, impon<i opponeret> [Krüger, ad h.l.]. Quamvis ergo significatione nominis maritus vel uxor post coeptum matrimonium intellegatur, ex quo videlicet inducta est dubietas, attamen, quia consequens est ambiguas atque legum diversis interpretationibus titubantes causas benigne atque naturalis iuris moderamine temperare, non piget nos in praesenti quoque negotio, de quo sublimitas tua suggessit, aequitati convenientem Iuliani tantae existimationis viri atque disertissimi iuris periti opinionem sequi. Qui cum de dotali praedio tractatu proposito idem ius tam de uxore quam de sponsa observare arbitratus sit, licet lex Iulia de uxore tantum loquatur: qua ratione tam sponsaliciam donationem quam hereditatem, quam memoratus sponsus suam sponsam lucrari voluit, non adquiri patri, sed ad eam pervenire benignum esse perspeximus. Sulla attribuzione della costituzione al solo Leone (essendo allora già morto Antemio) e sulla provenienza dalla cancelleria orientale, nonché su Nepos, all’epoca molto legato all’imperatore, vd. accuratamente A.S. SCARCELLA, La legislazione di Leone I, Milano 1997, 28 nt. 58. 60 Il testo non rientra cronologicamente nella rassegna di V. MAROTTA, La recitatio degli scritti giurisprudenziali tra III e IV secolo d. C., in Philia. Scritti per Gennaro Franciosi III, Napoli 2007, 1643 ss. 61 Vd. KASER, Das Römisches Privatrecht cit. (nt. 14) II, 193 ss., 216 ss.; P. VOCI, Il diritto ereditario romano nell’età del tardo impero, II. Le costituzioni del V secolo, in ID., Studi di diritto romano II, Padova 1985, 220-222; La ‘patria potestas’ da Costantino a Giustiniano, in op. cit., 509-520. Il regime dei bona materna fu introdotto da Costantino (CTh. 8.18.1 = C. 6.60.1 del 315?) ed esteso ai bona materni generis da CTh. 8.18.6 Grat. Valent. Theod. (379). L’estensione del regime dei bona materna ai bona ex matrimonio è dovuta appunto alla costituzione di Valentiniano III e Teodosio II del 426 (CTh. 8.19.1); una messa a punto della disciplina in C. 6.61.2 di Teodosio, che distingue l’ususfructus del padre dal dominium del figlio; garantisce al padre 1/3 come praemium emancipationis; il regime non si applica a beni che provenivano dal padre (es. la dos profecticia, sciolto il matrimonio, torna pienamente al padre e non è acquistata alla figlia). 59 124 Costantinopoli non è Bologna. La nascita del Digesto fra storiografia e storia quanto sosteneva la donna coinvolta nel caso, i cui avvocati esibirono in giudizio diverse iuris lectiones per dimostrare che lo sponsus era da equiparare al marito. Si opponeva il fratello (il quale, si può facilmente supporre, mirava a fare rientrare gli acquisti della sorella nel patrimonio paterno, di cui sarebbe stato coerede), evidentemente facendo leva su un’interpretazione letterale dei verba della costituzione di Valentiniano III.62 L’imperatore Leone, investito della questione dalla relatio del magister militum, dopo avere riconosciuto che si trattava di un caso dubbio, si esprime a favore dell’equiparazione, dapprima invocando vaghi criteri di giustizia (titubantes causas benigne atque naturalis iuris moderamine temperare), quindi rifacendosi a una decisione del giurista Giuliano, che colma d’ogni elogio (tantae existimationis viri atque disertissimi iuris periti).63 Benché non sia detto esplicitamente, è più che probabile che il passo di Giuliano fosse uno di quelli compresi fra le iuris lectiones prodotte in giudizio dall’avvocato della donna.64 Oltre a testimoniare la perdurante rilevanza posseduta nella prassi dalle opere dei giuristi classici, la costituzione di Leone fa trasparire una padronanza profonda delle rationes iuris. Il parere di Giuliano è infatti il fulcro di una complessa operazione d’interpretazione analogica, dato che il giurista classico s’era occupato del diverso caso del divieto posto dalla lex Iulia di alienare il fondo dotale. Nonostante la lex Iulia parlasse di uxor il giurista aveva proposto di estendere il divieto anche a tutela della sponsa.65 Dunque, non solo Leone appoggia la sua decisione all’auctoritas di un giurista, ma opera una analogia: il trattamento della sponsa viene equiparato a quello dell’uxor prendendo spunto da un caso diverso; l’interpretazione della lex publica serve come modello per l’interpretazione di una lex imperiale. Un’ulteriore considerazione per caratterizzare la cultura tardoantica: il passo di Giuliano invocato dalla donna e fatto proprio dall’imperatore non è stato conservato nel Digesto, dove invece si legge un passo di analogo contenuto di Gaio (D. 23.5.4). È significativo che l’imperatore (o la parte), potendo scegliere, abbia preferito a Gaio Giuliano, che non era uno dei cinque della Legge delle citazioni:66 nel menzionarlo, Si può immaginare che la controversia sia sorta al momento della morte del comune padre, in sede di successione ereditaria. 63 Si esprime con efficacia contro i dubbi di interpolazione avanzati a proposito di questa menzione di Giuliano SCARCELLA, La legislazione di Leone I cit. (nt. 59), 146 nt. 213. 64 Si veda, similmente, il responso di Papiniano quod precibus insertum est menzionato da Gordiano (C. 6.37.12, a. 240) e da Diocl. et Maximian. C. 5.71.14, a. 293: utere viri prudentissimi Papiniani responso ceterorumque, quorum precibus fecisti mentionem, sententiis […]. 65 Cfr. Gai. D. 23.5.4; R. ASTOLFI, Il fidanzamento nel diritto romano, Padova 1989, 98. 66 CTh. 1.4.3. Com’è noto, i pareri di Giuliano venivano recuperati in seconda battuta (come quelli degli altri giuristi menzionati dai cinque eletti). 62 Dario Mantovani 125 l’imperatore lo gratifica anzi del più alto encomio, segno ulteriore della persistente consapevolezza dei meriti relativi dei giuristi. Insomma, questa costituzione ci riporta uno spaccato del funzionamento della giustizia tardo antica, da cui trapela un pieno dominio della letteratura classica, delle sue forme argomentative e persino della sua storia interna. Possiamo riprendere l’espressione di Diocleziano, secondo cui le opinioni messe per iscritto dai giuristi valgono ad perennem scientiae memoriam.67 Vi è dunque una precisa corrispondenza fra la circolazione della letteratura giurisprudenziale che abbiamo visto attestata dai manoscritti recensiti poco sopra, e il quadro che emerge da questa controversia. Sessant’anni dopo, la Const. Tanta, § 17, descrive l’amministrazione della giustizia come ancora governata dalla recitatio dei testi giurisprudenziali:68 una recitatio, tuttavia, che faticava a far capo all’insieme delle opere della giurisprudenza (una multitudo antiqua, nella quale multae leges fuerant positae) e per la inopia librorum s’accontentava di risolvere le liti ex paucis. Il quadro sembra meno roseo, ma il punto essenziale è che gli scritti dei giuristi continuano ad essere al centro del meccanismo, e che l’inopia librorum, quos comparare eis impossibile erat riguarda i pratici (qui lites agebant). Accanto a questi continuavano a operare eruditissimi homines, cioè il livello di conoscenza era ancora perfettamente mantenuto. Quello che occorreva fare era appunto sfruttare questo livello di conoscenza per raccogliere in un compendio più maneggevole la antiqua prudentia.69 6. La panoramica sui frammenti giurisprudenziali circolanti fra III e VI secolo fa emergere un secondo dato rilevante, ossia la presenza, accanto agli scritti dei giuristi romani, di una letteratura greca, che possiamo chiamare approssimativamente di commento, anche se appare probabilmente più differenziata per stile e funzione di quanto l’attuale nostra conoscenza permetta di accertare. Non si tratta qui di riprendere la questione della diffusione del latino o del greco nelle scuole di diritto d’Oriente nel IV e V secolo: questi testi sono per così dire l’accompagnamento intellettuale dei testi classici, il sedimento di spiegazioni e lezioni, che Diocl. et Maxim. C. 9.41.11, a. 290. E ovviamente imperiali (Const. Tanta 14: constitutionum recitatione). 69 Le dichiarazioni di Giustiniano si possono anzi meglio comprendere paragonandole a quelle espresse nel 527 da Prisciano, che lamenta anch’egli la decadenza degli studi propter inopiam scriptorum (gramm. 1.2, GL II.1.13-2.1 K.). Sulle analogie fra i programmi di Prisciano (che costituisce «sul piano della sistematizzazione della tradizione linguistica» il pendant della codificazione giuridica) e di Giustiniano, vd. M. DE NONNO, Ars Prisciani Caesariensis. Problemi di tipologia e di composizione, in M. BARATIN - B. COLOMBAT - L. HOLTZ (éd.), Priscien. Transmission et refondation de la grammaire. De l’antiquité aux modernes. État des recherches à la suite du colloque international de Lyon, ENS Lettres et Sciences Humaines, 10-14 octobre 2006, Turnhout 2009, 250 ss., spec. 260-268. 67 68 126 Costantinopoli non è Bologna. La nascita del Digesto fra storiografia e storia provano il costante contatto con i giuristi antichi, i cui nomi (e la cui terminologia) affiorano continuamente dai commenti greci.70 È in questa confidenza con i testi giurisprudenziali che, da una parte, si fonda la preparazione degli avvocati che producono le loro lectiones (come nella causa portata all’attenzione di Leone di cui si è appena detto) e, d’altra parte, si radica la genesi del Digesto. Nel nostro censimento tipologico, sotto la lettera b), di questi ‘commenti’ greci ne sono annoverati ben quindici, per lo più di V secolo, ma con qualche propaggine anteriore e posteriore; sarebbe facile, e forse anche giustificato, attribuirli ai didavskaloi di Berito, ma il giudizio deve ovviamente restare sospeso.71 Per osservarne più da vicino il tipo di rapporto intrattenuto con la letteratura giurisprudenziale classica possiamo rivolgerci al commento forse più interessante, quello contenuto negli Scholia Sinaitica.72 Com’è noto, il testo (digrafico) – noto solo tramite l’apografo che ne trasse Gregorios Bernardakis – si riferisce, commentandoli, a passi dei libri 36-38 di Ulpianus, ad Sabinum, in materia di dote (ll. 36 in.) e di tutela (ll. 36 f. - 38). La corrispondenza con quanto ci è pervenuto del commento ad Sabinum di Ulpiano tramite il Digesto si può riscontrare testualmente a partire da sch. Sin. 6.12 (che corrisponde a Ulp. 36 ad Sab. D. 24.3.12, fr. 2803 Lenel). È comunemente ammesso che gli Scholia precedenti (1-5.11), benché manchino riscontri diretti a passi ulpianei conservati nel Digesto, possano riferirsi a materie che erano contenute nel libro 35° ulpianeo, anch’esso in materia di dote,73 la cui trattazione iniziava al l. 31°. Proprio al libro 31° (titolo I) fa del resto riferimento retrospettivo lo scoliaste stesso (sch. Sin. 10.26), rinviando il lettore a quanto aveva osservato in tal luogo (per noi perduto) a proposito della dos adventicia. Il commento sinaitico ai libri ad Sabinum doveva iniziare perciò almeno al libro 31° di Ulpiano.74 V’è però Per una serie di manoscritti che testimoniano «un interesse da parte della scuola e delle élites dei Romani d’Oriente, ossia di Greci o di orientali ellenizzati, per il latino come lingua del diritto e della burocrazia civile e militare», vd. P. RADICIOTTI, Romania e Germania a confronto: un codice di Leidrat e le origini medievali della minuscola carolina, in Scripta. An International Journal of Codicology and Palaeography 1 (2008) 138. 71 Impeccabile la discussione in proposito di COLLINET, Histoire de l’école de droit de Beyrouth cit. (nt. 4), 279 ss., che ritiene probabile l’ascrizione a Berito, ma indimostrabile. 72 Adotto l’edizione di P. KRÜGER, in P. KRUEGER - TH. MOMMSEN - G. STUDEMUND (edd.), Collectio librorum Iuris Anteiustiniani in usum scholarum III, Berolini 1890; cfr. E.O. WINSTEDT, Notes from Sinaitic papyri, in CPh. 2 (1907) 201 ss. Altra bibl. in L. WENGER, Die Quellen des römischen Rechts, Wien 1953, 550 nt. 208 (edizioni) e 209 (interpretazioni); adde P.E. PIELER, Byzantinische Rechtsliteratur, in H. HUNGER (a c. di), Die hochsprachliche profane Literatur der Byzantiner II, München 1978, 341-380; N. VAN DER WAL, Die Schreibweise der dem lateinischen entlehnten Fachworte in der frübyzantinischen Juristensprache, in Scriptorium 37 (1983) spec. 29-38. 73 In effetti, sch. Sin. 12.34 rinvia il lettore alla esposizione già compiuta a proposito dei titoli II e III del libro 35. 74 Che si estendesse almeno fino al libro 38 è confermato da sch. Sin. 17.45. 70 Dario Mantovani 127 di più: il commentatore che pone i suoi interventi sotto la sigla «Sab.» afferma (sch. Sin. 13.35) di avere trattato l’aumento e la diminuzione della dote in costanza di matrimonio già nella XXXII paragraphé del titolo de in integrum restitutione dei prota di Ulpiano (che corrispondono ai libri 11-12 ad edictum di tale giurista). A conti fatti, gli Scholia Sinaitica sono il residuo di un’opera di commento che di per se stessa abbracciava sicuramente una porzione più ampia di quella che ora possiamo constatare dei libri ad Sabinum; inoltre quest’opera non era un prodotto isolato, ma proveniva (almeno in parte) da un autore («Sab.») che aveva steso un commento sistematico anche (almeno) ai prota di Ulpiano ad edictum. L’impressione è dunque che appartenga a un genere letterario ben sviluppato e di carattere pianificato. Gli Scholia Sinaitica, come si sa, non contengono la trascrizione integrale del testo di Ulpiano ad Sabinum che vanno annotando; in questo senso, sono un commento separato, non una glossa marginale. Tuttavia, il commentatore riprende di volta in volta (anche se non del tutto sistematicamente) una o più parole del testo del giurista severiano, cui poi appone le proprie annotazioni: talvolta in forma di sintesi del contenuto del passo di Ulpiano (index), altre volte diffondendosi in una più ampia spiegazione (paragraphé ), provvista anche di richiami ad altri passi giurisprudenziali (e costituzioni). Proprio il fatto che questi ultimi siano citati con riferimenti precisi al libro di provenienza e spesso alle sue ulteriori partizioni interne,75 mentre i riferimenti ai passi di Ulpiano avvengono citando semplicemente il nome dell’autore, è la più chiara conferma che il testo ulpianeo aveva uno status diverso, costituiva l’oggetto diretto del commento lemmatico. Naturalmente, come subito notò lo Zachariae,76 quest’autonomia del commento, che non incorpora se non brevi lemmi del testo ulpianeo, presuppone che i manoscritti dei libri ad Sabinum di Ulpiano che si trovavano in circolazione fossero composti secondo le regole della sticometria, così da corrispondere non solo pagina per pagina, 75 Restituisco in latino secondo la versione di Krüger: sch. Sin. 2.4: Paulus libro XV responsorum (il testo è poi corrotto, si legge de stipulation[e]); sch. Sin. 4.6: compare responso poi un nome indecifrabile; ancora un libro V tou' diplou' aujtou' ro tivtlw/ de sponsalibus; sch. Sin. 5.11: Marcianus in hypothecaria (il testo è mutilo e non contiene altri riferimenti interni); sch. Sin. 6.11: Modestinus libro II differentiarum titulo VI (= D. 42.1.20); sch. Sin. 8.18: Paulus libro VII ad Sabinum titulo XXXV; sch. Sin. 11.31: Paulus libro VIII responsorum duobus ante finem foliis […] tituli de liberis adgnoscendis (forse da identificare con D. 23.3.72.1: così K.E. ZACHARIAE VON LINGENTHAL, Papyrusblätter vom Sinai-Kloster mit Bruchstücken griechisch-römischer Jurisprudenz, in Monatsberichte der Königlich Preussischen Akademie der Wissenschaften zu Berlin.1881, Berlin 1882, 625); sch. Sin. 12.34: Paulus libro VII ad Sabinum titulo XXXIII; sch. Sin. 13.35: Ulpianus, ad edictum (prota), titulus de in integrum restitutionum; ivi: Florentinus libro III institutionum circa finem libri quinque foliis a fine: ivi: Modestinus libro I regularum ante XVII regulam a fine libri in regula quae incipit ‘Dotis etc.’ ; ivi: Paulus libro V ad Sabinum; sch. Sin. 14.36: forse è citata un’opera giurisprudenziale diversa da Ulpiano che ripete a due fogli di distanza una costituzione dei divi fratres; sch. Sin. 16.42: libro I de tutelis (è caduto il nome dell’autore). 76 ZACHARIAE VON LINGENTHAL, Papyrusblätter vom Sinai-Kloster cit. (nt. 75), 623. 128 Costantinopoli non è Bologna. La nascita del Digesto fra storiografia e storia bensì riga per riga; se questo era il caso, le annotazioni potevano essere lette come accompagnamento di una qualsiasi copia di quest’opera. La complessità del commento, e il suo interesse per gli spiragli che apre sulla cultura pregiustinianea, è incrementata dalla citazione di costituzioni tratte dai tre codici, il Gregoriano (sch. Sin. 1.2: Greg. 5.17; sch. Sin. 5.9: Greg. 5, titulo paenultimo, c. 3; sch. Sin. 5.10: Greg. 11.11.12),77 l’Ermogeniano (sch. Sin. 3.5: Herm. tit. 69 c. 120; tit. 41 c. 14) e il Teodosiano (sch. Sin. 1.1 e 2: CTh. 3.15.15; sch. Sin. 19.52: CTh. libro incerto, c. 126).78 Di per sé, la citazione dei tre codici, proibita da Giustiniano, fissa la datazione in un anno compreso fra il 438 e il 529. Sull’uso che il commentatore compie delle costituzioni imperiali desidereremmo che il testo fosse più prodigo di informazioni. In un punto (sch. Sin. 19.52) lo scoliaste «Sab.» invita il lettore a leggere la costituzione 126 di un libro e titolo per noi non identificabile del Teodosiano, donde trarre notizie circa la competenza dei vicari dei praesides, che avrebbero completato quel che si leggeva appunto in Ulpiano sulla competenza dell’agens vices magistratuum in tema di nomina del tutore. Abbiamo qui un’operazione di integrazione informativa, non strettamente necessaria all’esegesi, che dimostra tuttavia la complementarietà che lo scoliaste avverte fra il testo ulpianeo e il Codice delle costituzioni. Più sofisticata è la citazione delle costituzioni in sch. Sin. 1.2-3. Dobbiamo muovere – salvo smentita – dalla ipotesi che anche qui come ovunque nel resto degli Scholia l’oggetto diretto del commento fosse un passo di Ulpiano ad Sabinum, che non siamo in grado né di ritrovare nel Digesto né di ricostruire. Forse è una sintesi di quel che si leggeva nel testo ulpianeo la proposizione ajkivndunon ei\nai th;n paravbas[in] th/' mnhsth/' kai; tw/' mnhsth'ri (sch. Sin. 1.2) ossia periculosam violationem non esse sponso vel sponsae. A questo punto, dopo una sigla Pts non decifrabile, viene introdotta, con valore di critica alla proposizione appena citata, una costituzione del Codice Teodosiano (3.15.15) che – così ne rende il contenuto lo scoliaste – kratuvne[i] ta;~ peri; sustavsew" tw'n gavmwn poenas kai; mevcri tou' diplou' ossia confirmat poenas de nuptiis contrahendis et quidem usque ad duplum. Sembrerebbe dunque che lo scoliaste leggesse nel testo ulpianeo la regola classica della libertà matrimoniale, che consiste nel considerare illecita la sponsio con cui si promette una somma di denaro in caso di rottura del fidanzamento (e la sponsio di contrarre matrimonio) e si curasse perciò di avvertire che una novella legislativa aveva mutato la disciplina.79 Qui anche un riferimento, lacunoso, a una costituzione posteriore al Codice Gregoriano. Per la lacunosità del testo, non è attribuibile con sicurezza a uno dei tre codici la citazione delle costituzioni VI e VII de dote in sch. Sin. 5.8. 79 Vd. infra, nt. 81, circa il rapporto fra stipulatio poenae e negozio arrale. 77 78 Dario Mantovani 129 A questo punto l’intreccio interpretativo si fa più complesso, perché prende la parola uno scoliaste che si sigla «Sab.», e osserva che la costituzione del Teodosiano sopra richiamata si applica in realtà solo alla fidanzata che rifiuta le nozze, poiché solo di lei parla; per quanto riguarda il fidanzato, si applica invece un’altra costituzione, Greg. 5.17, che – sempre secondo «Sab.» – pare confermare la regola classica, secondo cui il fidanzato non è tenuto alla pena promessa (ejperwthqevnta provstimon) nel caso sia di impedimento al matrimonio. Il contesto, nell’insieme, solleva alcuni problemi che non occorre qui affrontare, in particolare circa l’identificazione della costituzione del Teodosiano citata dagli Scholia Sinaitica (3.15.15): essa infatti non compare nell’attuale titolo 3.15 (rectius 3.5) del Codice Teodosiano.80 Lo stesso vale per il problema sostanziale, che resta dubbio: ci si potrebbe, infatti, chiedere se la fattispecie presa in considerazione dai commentatori sia un negozio arrale, mentre il testo classico parrebbe fare riferimento alla (illecita) stipulatio poenae.81 Quel che è per noi significativo è che in sch. Sin. 1.2-3 trapelano due caratteristiche del lavoro interpretativo dei commentatori greci. In realtà, gli Scholia Sinaitica indicano, per il titolo, il numero 15 (leæ) che corrisponde a un titolo de fideiussoribus dotium che contiene una sola costituzione; viene perciò generalmente inteso come riferentesi al titolo 5, de sponsalibus et ante nubtias donationibus. Il titolo CTh. 3.5 contiene tuttavia solo 13 costituzioni, e nessuna del contenuto evocato dagli Scholia Sinaitica. TH. MOMMSEN, nell’ed. del Codex Theodosianus (rist. Dublin-Zürich 1971) I, 139, accetta come fededegna la citazione degli Scholia Sinaitica, con la ulteriore correzione di considerare la costituzione la 14 a (e non la 15a) di CTh. 3.5; quanto al contenuto, Mommsen attribuisce a tale lex (considerata posteriore al 428, data di CTh. 3.5.13) l’aver ridotto al doppio la pena che incombeva su quello dei fidanzati che avesse ricevuto le arre e non avesse acconsentito alle nozze (in precedenza stabilita al quadruplo secondo CTh. 3.5.1 e CTh. 3.6.1 del 380). Diversamente, per tutti, R. ASTOLFI, Il fidanzamento nel diritto romano, Padova 1989, 155 ss., identifica in una costituzione di Leone I del 472 (C. 5.1.5) la norma secondo la quale, in caso di recesso non giustificato, la donna sui iuris di 25 anni (o con venia aetatis) che abbia concluso fidanzamento arrale risponde nel doppio delle arre (e nella stessa misura risponde per la fidanzata alieni iuris colui che l’abbia in potestà o la madre che abbia concluso il negozio arrale). Se si accoglie questa identificazione, la composizione degli Scholia Sinaitica dovrebbe datarsi, in tutto o in parte, posteriormente al 472, ma bisognerebbe anche ammettere che lo scoliaste, invece di citare la costituzione di Leone, abbia inserito mevcri tou' diplou' attribuendolo alla costituzione del Teodosiano. 81 La storiografia presuppone che gli Scholia Sinaitica, menzionando la costituzione del Teodosiano, si riferisca alle arrae (e ad esse si riferiscono CTh. 3.5.11; 3.6.1 e C. 5.1.5, che vengono solitamente introdotte nella discussione): in questo senso induce la misura del duplum che lo scoliaste attribuisce alla costituzione stessa: kratuvne[i] ta"; peri; sustavsew" tw'n gavmwn poenas kai; mevcri tou' diplou'. Il testo ulpianeo (e dunque il commento che ne scaturisce) potrebbe tuttavia riferirsi alla stipulatio poenae. La stipulatio poenae era infatti considerata ancora esplicitamente illecita da Leone, nella stessa costituzione che sancisce invece il doppio per la restituzione delle arre da parte di chi ricusa le nozze (C. 5.1.5: extra definitionem autem huius legis si cautio poenam stipulationis continens fuerit interposita, ex utraque parte nullas vires habebit, cum in contrahendis nuptiis libera potestas esse debet, vd. per lo stesso principio già Diocl. et Maxim. C. 5.4.14). Che la stipulatio poenae fosse presente allo scoliaste è del resto provato da sch. Sin. 2.4, che la considera invalida in quanto contra bonos mores, in un brano che ricalca esplicitamente Paul. 15 resp. D. 45.1.134 pr. 80 130 Costantinopoli non è Bologna. La nascita del Digesto fra storiografia e storia Dapprima il testo del giurista classico (se muoviamo appunto dall’ipotesi verosimile che l’incipit dello scolio contenga una sintesi del brano di Ulpiano) viene commentato alla luce di una costituzione che introduce una nuova disciplina (rendendo apparentemente valida fino al doppio la poena /arra per la conclusione del matrimonio). Dunque, lo scoliaste propone un aggiornamento, che avviene peraltro non già attraverso una negazione del contrasto o un intervento sul testo classico, ma attraverso la citazione della novella legislativa. Il secondo fenomeno di un certo interesse è che si vedono qui all’opera due commentatori: se il primo aveva opposto alla disciplina classica la costituzione del Teodosiano, il secondo compie una distinzione, facendo notare che la costituzione si applica solo alla fidanzata; se il fidanzato è di sesso maschile, vale ancora quel che si legge nel Codice Gregoriano, ossia che non è obbligato.82 Questo secondo commentatore si contrassegna con una sigla «Sab.», che compare ancora in vari punti degli Scholia.83 È dunque probabile l’ipotesi, avanzata in modo particolarmente acuto dal Riccobono, che fossero all’opera almeno due autori.84 Potremmo aggiungere che questa modalità ricorda, seppure alla lontana, le notae che i giuristi classici apponevano alle opere di loro predecessori; sotto un altro profilo, abbiamo a che fare con una ‘catena’, di quelle che diventeranno tipiche nei commentari filologici e biblici. Si tratta di una modalità che implica la tendenza al consolidamento attorno al testo di un patrimonio interpretativo, segno anch’esso di una cultura non effimera. La seconda mano, quella siglata «Sab.» sembra prediligere le citazioni di altri giuristi, quasi a provvedere il lettore di una serie di rimandi che gli permettessero di ampliare la sua preparazione; mentre la prima voce è più legata all’illustrazione del rhetón ulpianeo. Difficile è dire quale sia il criterio di selezione con il quale i commentatori procedono, soffermandosi su alcuni testi, e invitando invece a omettere la lettura di interi capi82 Come ulteriore segno distintivo, si noti, con S. RICCOBONO, Gli Scolii Sinaitici, in BIDR 9 (1896) 225 ss., che il primo annotatore per indicare la pena convenzionale usa il termine latino poena, «Sab.» usa il greco provstimo". 83 In 5.9, ancora con una precisazione basata sul Codice Gregoriano; in 6.12, ove generalizza una proposizione del primo scoliaste richiamando a tale scopo un passo di Modestino, e la costituzione che vi è contenuta; poi in 9.22 e 10.25, 11.30; 15.40 dove propone brevi sommari del contenuto del capitolo; in 13.35 il sommario è completato da una serie di rinvii sia ad un suo altro commento, sia a varie letture che trattano dell’aumento e diminuzione della dote; in 16.44 invita a saltare 50 versi del testo commentato. 84 RICCOBONO, Gli Scolii Sinaitici cit. (nt. 82), 217 ss., con osservazioni fondamentali. Non entro nella più complessa distinzione – proposta dall’insigne autore – di quattro mani, di cui una post-giustinianea. L’idea che la sigla «Sab.» si riferisse invece a lemmi sabiniani dell’opera commentata era stata sostenuta in particolare da I. ALIBRANDI, Sopra alcuni frammenti greci di annotazioni fatte da un antico giureconsulto ai libri di Ulpiano ad Sabinum (1882), ora in ID., Opere giuridiche e storiche, Roma 1896, 449. Dario Mantovani 131 toli. Si ha tuttavia la sensazione che non si trattasse di omissioni del tutto grossolane, poiché, ad esempio, nell’invitare a tralasciare i capitoli XVII e XVIII del libro 36, lo scoliaste osserva che l’essenziale in proposito era stato già da lui spiegato commentando i titoli II e III del libro 35 (sch. Sin. 34). D’altra parte, non mancano riferimenti a istituzioni sicuramente obsolete, come la tutela cessicia (sch. Sin. 18.49-51) e la costante distinzione della disciplina fra tutor Atilianus e tutor ex lege Titia (18.48; 20.53-54). Se nell’insieme una impressione si ricava è che il commento rifletta un tentativo di comprendere il testo classico nella sua integralità, mettendolo in connessione con altri testi giurisprudenziali, e tentando qualche coordinamento con la legislazione imperiale. Vi è una tendenza a cercare regole generali, piuttosto che a sottolineare l’eventuale casistica o il ius controversum. Ne abbiamo alcuni notevoli esempi: il primo è in sch. Sin. 6.12, quando la (presunta) prima mano ripete da Ulpiano la regola secondo cui il marito risponde per la dote in id quod facere potest;85 interviene «Sab.» parafrasando fedelmente un passo delle Differentiae di Modestino che generalizza il beneficio non solo alla dote, ma a ogni contratto per cui il marito sia convenuto dalla moglie: il passo è accolto anche nel Digesto.86 Sempre «Sab.» propone una regola (un kanwvn), in materia di repudium (sch. Sin. 3.5). Un’attenzione particolare verso l’estrazione di un regola, anzi di un canone generale (kanovna genikovn, tiv ejsti necessaria dapan[hvma]ta) si ha infine nel contesto forse meglio conservato degli Scholia, dedicato alle spese compiute dal marito sulle res dotales. L’interpretazione degli intenti del commentatore è favorita (o almeno non troppo penalizzata) dal fatto che è qui possibile anche un confronto con il passo di Ulpiano commentato, che è conservato per larghi tratti in D. 25.1. È necessaria una premessa di ordine testuale: il frammento VIII (nella numerazione Krüger) prende contatto con il testo di Ulpiano relativo alle impensae in res dotales factae solo a livello delle parole nos generaliter, che, nel testo di Ulpiano, si trovano in un punto piuttosto avanzato della trattazione, nel fr. 3 D. 25.1. Il cospicuo tratto che precedeva ci è anch’esso noto, essendo conservato nel fr. 1 dello stesso titolo del Digesto; qui si trovava in particolare la distinzione Impensarum quaedam sunt necessariae, quaedam utiles, quaedam vero voluptariae. Necessariae hae dicuntur, quae habent in se necessitatem impendendi; ceterum si nulla fuit necessitas, alio iure habentur (D. 21.1.1 pr.-1). Il passo è conservato in Ulp. 36 ad Sab. D. 24.3.12: Maritum in id quod facere potest condemnari exploratum est: sed hoc heredi non esse praestandum. 86 Mod. 2 diff. D. 40.12.20: Non tantum dotis nomine maritus in quantum facere possit condemnatur, sed ex aliis quoque contractibus ab uxore iudicio conventus in quantum facere potest, condemnandus est ex divi Pii constitutione: quod et in persona mulieris aequa lance servari aequitatis suggerit ratio (l’ultima parte non è ripresa dallo scoliaste). 85 132 Costantinopoli non è Bologna. La nascita del Digesto fra storiografia e storia Fatta questa precisazione, non si può dire se il commento dello scoliaste iniziasse solo nel punto in cui comincia per noi ora (8.16), là dove enuncia il kanovna genikovn, o iniziasse in precedenza (in un foglio di papiro ora perduto) e si occupasse anche della prima parte del frammento ulpianeo (che può parere la soluzione più probabile).87 Sta di fatto che, per come lo si legge ora, il commento presenta appunto la definizione generale delle spese necessarie (kanovna genikovn, tiv ejsti necessaria dapan[hvma]ta) in questo modo: [N ]ecessaria ejstin dapanhvmata, w|n mh; ginomevnwn katedikavzeto oJ ajnh;r ejnagovmeno" th/' rei uxoriae; questa definizione in realtà non è ripresa da Ulpiano, ma è ricalcata dallo scoliaste con precisione su una definizione di Paolo, che doveva sembrargli efficace (36 ad ed. D. 25.1.4): Et in totum id videtur necessariis impensis contineri, quod si a marito omissum sit, iudex tanti eum damnabit, quanti mulieris interfuerit eas impensas fieri eqs. È a questo punto che il commentatore si volge (o torna a volgersi) al testo di Ulpiano che è l’oggetto del suo commento diretto e ne riprende il lemma Nos generaliter, cui appone questo commento: oJra'"/ , pw'" kai; Ulpianos kanon[ivzei] hJmi'n, o{sa dapanhvmata pepoivhken oJ ajnh;r[p]rovskaira tw'n karpw'n e{neken, tau'ta toi'[" ] [k]arpo[i'" ] compensateu etai, ouj mh;n poiei' th;n retention a. o{sa d[e;] dihnekh' h|/ kai; ejpi; [p]olu;[n crovnon] parevcei th;n creivan, oi|on mw'lo[" h]] ajrtokopei'on h] to; futeu'sai, tau'ta neces[sa]ria ejsti kai; meioi' th;n proi'ka. tou'tov fhsi kai; oJ Paulos biblivw/ zæ tw'n ad Sabinum aujtou' tivtlw/ leæ.88 Il commentatore, che come ricordiamo aveva già presentato una definizione di spese necessarie (tratta da Paolo, Ad edictum) sottolinea che anche Ulpiano ne offriva una (kai; Ulpianos kanon[ivzei] hJmi'n). Il testo greco, in realtà, compie una sintesi stringata, ma appropriata, non solo del brano ulpianeo che esordisce con Nos generaliter, ma anche del tratto che lo precede, che ha un andamento casistico (Ulp. 36 ad Sab. D. 25.1.1.3): Inter necessarias inpensas esse Labeo ait moles in mare vel flumen proiectas. sed et si pistrinum vel horreum necessario factum sit, in necessariis impensis habendum ait. proinde Fulcinius inquit, si aedificium ruens quod habere mulieri utile erat refecerit, aut si oliveta reiecta restauraverit, vel ex stipulatione damni infecti ne committatur praestiterit, (h.t. 3) vel si vites propagaverit vel arbores Qui si trovava la definizione ulpianea (D. 25.1.1.1): Necessariae hae dicuntur, quae habent in se necessitatem inpendendi: ceterum si nulla fuit necessitas, alio iure habentur, che potrebbe avere dato motivo al commentatore di accostarvi quella tratta da Paolo 88 Trad. Krüger: «Nos generaliter] vides, quomodo etiam Ulpianus regulam nobis ponit: quas impensas pro tempore fructuum causa vir fecit, eas cum fructibus compensat nec retentionem facit; quae vero perpetuae sunt et in longum tempus utilitatem praebent, velut moles vel pistrinum vel plantatio, eae necessariae sunt et dotem minuunt. Idem dicit etiam Paulus libro VII ad Sabinum titulo XXXV». 87 Dario Mantovani 133 curaverit vel seminaria pro utilitate agri fecerit, necessarias inpensas fecisse videbitur. Nos generaliter definiemus multum interesse, ad perpetuam utilitatem agri vel ad eam quae non ad praesentis temporis pertineat, an vero ad praesentis anni fructum: si in praesentis, cum fructibus hoc compensandum: si vero non fuit ad praesens tantum apta erogatio, necessariis inpensis computandum. Il commentatore greco si limita a pochi esempi fra quelli portati da Labeone, la diga, il mulino, e da Fulcinio, la piantagione. Rende poi merito ad Ulpiano di avere tentato di offrire una regola generale, che mette in relazione la necessità della spesa con la sua funzione destinata ad avere ricadute che vanno al di là della attuale produzione dei frutti (visto che le spese compiute per la produzione dei frutti si compensano con il guadagno così percepito).89 Quello che può ricavarsi, in sintesi, è che il commentatore (sicuramente quello che si presenta come «Sab.», ma forse anche la mano che pare distinta e più antica) mira a trarre per quanto possibile regole e definizioni dal materiale classico. Da questo punto di vista, il modo di lettura che emerge dagli Scholia Sinaitica appare senz’altro consono al progetto del Digesto; ciò che i commentatori potevano ambire a realizzare coordinando i testi e estrapolando regole, nel rispetto formale dei testi, diventa sotto l’egida imperiale un’operazione di riduzione anche meccanica della pluralità delle opinioni e delle contraddizioni. 7. Fra storiografia e storia, la genesi del Digesto sembra non avere ancora esaurito le possibili prospettive di ricerca. L’impostazione storiografica consolidata, che intende la raccolta dei testi giurisprudenziali come un’operazione (in tutto o in parte) fuori sintonia rispetto alle correnti pratiche del presente, e frutto quasi anacronistico di una spinta degli ambienti scolastici, non sembra rendere in pieno la complessità dei moventi e del quadro culturale. Forse è un’interpretazione che risente del modello offerto dalla rinascita bolognese del diritto romano, e dalla scissione che vi era sottesa fra prassi e scuola, quest’ultima artefice del rinnovato studio del Digesto nell’XI-XII secolo. Sul piano della storia, vi sono molti segnali che anche nei secoli anteriori a Giustiniano la letteratura giurisprudenziale avesse continuato a svolgere la sua capillare influenza. L’intensa circolazione delle opere dei giuristi classici, attestata da papiri e pergamene pregiustinianee, in formato addirittura standardizzato con criterio sticometrico; il ricorso sagace alla recitatio di brani giurisprudenziali in giudizio – promosso dalle Non occorre, ai nostri fini, riprendere qui la discussione circa la genuinità del testo ulpianeo. Ritenuta una aggiunta post-giustinianea da RICCOBONO, Gli scolii sinaitici cit. (nt. 82), 262 ss., è stata in seguito considerata un’alterazione introdotta nella copia di Ulpiano prima del momento che giungesse al commentatore greco degli Scholia oppure una interpolazione giustinianea ispirata da sch. Sin. 8.18: si vd. per tutti WIEACKER, Textstufen cit. (nt. 56), 313. 89 134 Costantinopoli non è Bologna. La nascita del Digesto fra storiografia e storia parti e accettato dalla cancelleria – anche per l’interpretazione delle costituzioni imperiali; la presenza di una letteratura di commento scritta in greco, ancora in gran parte inesplorata, da cui trapela l’effettiva lettura e comprensione dei testi classici; la tendenza che emerge dagli Scholia Sinaitica non solo a favorire il commento ampio (al limite, integrale) dei grandi trattati ulpianei, ma anche a sfruttare la conoscenza sistematica di un numero ampio di testi classici, e al tempo stesso ad estrarne per quanto possibile regole non contraddittorie; l’integrazione, compiuta sia in sede di giudizio sia di commento, fra testi giurisprudenziali e costituzioni imperiali: sono tutti fattori che preludono in modo armonico alla compilazione del Digesto, attenuando l’impressione che si sia trattato di un’operazione non corrispondente alle condizioni culturali del tempo. Lo stesso metodo di compilazione, basato secondo la dimostrazione di Bluhme su un effettivo spoglio delle opere, e sulla lettura parallela dei grandi commentari (che trova riscontri anche negli Scholia Sinaitica, dove il trattato di Paolo Ad Sabinum viene richiamato in parallelo a quello di Ulpiano)90 implica e dimostra il sicuro dominio sui testi acquisito da una lunga tradizione, che ora s’accingeva a trasformare il proprio oggetto sotto l’impulso del potere politico. 90 Sch. Sin. 8.18; 12.34; 13.35.