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Roberto Formisano (1981), ha conseguito il titolo di Dottore di ricerca in Filosofia presso l’Alma Mater Studiorum Università di Bologna e, in co-tutela, presso l’Università “Sophia Antipolis” di Nizza (Francia). Attualmente collabora con la cattedra di Filosofia teoretica dell’Università di Bologna. I suoi interessi di ricerca si concentrano sui temi fondamentali dell’ontologia fenomenologica, con particolare attenzione ai recenti sviluppi della fenomenologia francese. membro fondatore della Société Internationale Michel Henry (simh), ha partecipato a diversi convegni internazionali e ha pubblicato articoli dedicati alla “fenomenologia della vita”. ISBN 978-88-95451-56-5 € 23,00 9 788895 451565 Alma mater studiorum – Università di Bologna Formisano DALLA “CRITICA DELLA TRASCENDENZA” ALLA “FENOMENOLOGIA DELLA VITA” Nella grandiosa elaborazione di L’essence de la manifestation, Michel Henry ha di fatto definitivamente posto in evidenza i principî fondamentali della “phénoménologie de la vie”. In ragione della sua radicale “critica della tra­ scendenza” – non senza un decisivo contrasto con le analisi heideggeriane di sein und Zeit – Henry ha da sempre rivendicato e difeso l’irriducibile etero­ geneità della “verità originaria” rispetto all’ek­staticità del mondo. Lo stu­ dio di Roberto Formisano offre una ricostruzione, per così dire, “dall’inter­ no” del percorso teoretico compiuto da Michel Henry: criticamente segue lo sviluppo argomentativo di L’essence de la manifestation per mezzo del quale sono determinati i caratteri fenomenologici costitutivi dell’“apparire origi­ nario” (immanenza, invisibilità, affettività). In forza di un serrato confronto con le fonti teoretiche (tra cui Husserl, Heidegger, Fichte, Meister Eckhart) che variamente hanno ispirato il filosofo francese, Formisano giunge a dar conto della specificità della fenomenologia henryana. Ma dove Henry si tie­ ne strettamente, irrinunciabilmente legato ai temi puramente fenomenologici, Formisano conduce ancor oltre la sua interrogazione e pone la più ampia questione della “fondazione (non ontica) del pensiero filosofico”. La lettura del testo henryen apre allora alla possibilità di un rinnovato confronto con i temi propri della prima philosophia. II PUBBLICAZIONI DEL DIPArtImENtO DI FILOsOFIA roberto Formisano DALLA “CRITICA DELLA TRASCENDENZA” ALLA “FENOMENOLOGIA DELLA VITA” Alle radici del percorso teoretico di Michel Henry Filosofia Filosofia / II Roberto Formisano DALLA “CRITICA DELLA TRASCENDENZA” ALLA “FENOMENOLOGIA DELLA VITA” Alle radici del percorso teoretico di Michel Henry Prefazione di Maurizio Malaguti Roberto Formisano Dalla “critica della trascendenza” alla “fenomenologia della vita”. Alle radici del percorso teoretico di Michel Henry © 2012 D.U.PRESS, Bologna In copertina: Antonio Izzo, Muro giallo con punto nero (1997) Collezione privata, 140 x 100 cm, tecnica mista su tavola. In quarta di copertina: Antonio Izzo, Gambero disteso mentre mangia il giallo (s.d.) Collezione privata, 80 x 120 cm, tecnica mista su tavola. Le immagini sono pubblicate su gentile concessione dell’Autore. È vietata la loro riproduzione o duplicazione con qualsiasi mezzo. Prima edizione: aprile 2012 Versione riveduta e modificata: luglio 2013 ISBN 978-88-95451-56-5 Distribuzione: D.U.PRESS via Jacopo Barozzi, 6 40126 – Bologna tel./fax: 051.4075980 info@dupress.it http://www.dupress.it/ PREFAZIONE FENOMENICITÀ ORIGINARIA E PRIMA PHILOSOPHIA Roberto Formisano svolge in quest’opera una analisi acuta e penetrante dei percorsi fenomenologici di Michel Henry, un autore che, pur teso verso l’originario, ha voluto evitare sempre, con manifesta determinazione, di inoltrarsi sulle vie della ontologia quasi temendo giudizi inevitabilmente non adeguati. Con rigore, con una finezza ad un tempo paziente ed audace, Henry ha sempre mostrato il suo intendimento di rimanere strettamente legato ai temi della “fenomenicità originaria”. L’ontologia fenomenologica di Heidegger è ben presente ed ampiamente discussa nel suo percorso teoretico; ma è qui manifesto il ritorno alla ispirazione dello Husserl rispetto al quale, se possibile, la ricerca diviene ancor più radicale, in quanto volta non più al logos che il phainesthai annuncia, ma al phainesthai stesso, assunto quale motivo centrale della domanda filosofica. Formisano si accosta con prudente attenzione alla questione delicatissima della tensione tra fenomenologia e ontologia e, validissimo studioso quale egli si mostra, non forza mai la mano al suo autore: si arresta, con il dovuto rispetto “storico”, ad una lettura intelligente e circostanziata dei testi pur non nascondendo il suo intento di giungere a “pensare l’origine”. È noto che Heidegger parla in più luoghi di “essenza dell’essere” ed è ragionevole intendere che l’essenza dell’essere si risolve nella stessa aletheia. Henry converge su temi heideggeriani, ma non se ne lascia catturare: ponendo la questione della “essenza della verità” in quanto tale, egli viene a confrontarsi con le ragioni di fondo dell’Idealismo tedesco – con Fichte in modo particolare – per volgersi poi alla caratteristica “originaria” dell’atto di coscienza. Ma dove in Fichte sembra prevalere una determinazione di tipo metafisico (l’Assoluto come atto d’identità costituentesi nel necessario rapporto con l’alterità), la lettura 8 fenomenologica henryenne suggerisce di pensare, in via preliminare, la radice della dialettica “conoscente vs. conosciuto”, i.e. l’ipseità quale originaria auto-affezione [auto-affection]. Proprio in questa radice di “immanenza” Henry riconosce la sorgente della proiezione del mondo, e quindi la possibilità stessa – la possibilità ultima – della trascendenza. Se l’atto di coscienza è unità di conoscente e conosciuto, si deve portare attenzione all’“unità” originaria in cui e da cui sorge e si determina, nella sua possibilità, l’inscindibile reciprocità tra conoscente e conosciuto. Henry vuole pensare l’immanenza come sorgente di quella “ek-staticità” che, alla sua volta, si articola al proprio interno nella relazione ontica “conoscente/conosciuto”. In forza della sua decisione di tenersi rigorosamente alla “fenomenicità”, egli fa emergere con evidenza la sua distanza dalle ontologie del passato. I suoi estesi riferimenti a Meister Eckhart mostrano come il tema della ipseità possa essere rapportato a quel fundus animæ in cui si radica l’evento, il mirum dell’“apparire” come tale. Henry non si inoltra sui temi teologici e mistici che caratterizzano la pagina eckhartiana, ma evoca l’esperienza prossima più di tutte le altre – e tuttavia non mai adeguatamente pensata – della vita. La “vie” viene in primo piano ed è intesa come l’“originario” nell’ordine del “mostrarsi” in quanto tale. La “vie” è originaria auto-affection che non è lecito derivare da altro, come pur diffusamente si propone nell’ambito dello scientismo naturalistico. Formisano svolge il suo percorso con rigore storico ineccepibile; tuttavia, egli è anche ben consapevole che non si può studiare un’opera filosofica senza assumere la responsabilità della interpretazione e senza riferimento alle legittime esigenze ideali dell’interprete. È difficile distinguere senza separare; ed è raro offrire interpretazioni misurate e documentate senza mai sovrapporre il proprio dire e il proprio sentire a quello dell’autore studiato: Formisano ha raggiunto il difficile traguardo dell’equilibrio tra la rigorosa fedeltà documentaria e la sua esigenza di spingere la sua interrogazione, con e attraverso Henry, ancor oltre verso i temi essenziali della prima philosophia. Maurizio Malaguti DALLA “CRITICA DELLA TRASCENDENZA” ALLA “FENOMENOLOGIA DELLA VITA” Alle radici del percorso teoretico di Michel Henry Ai miei genitori TAVOLA DELLE ABBREVIAZIONI Anweisung ....... J.G. FICHTE, Anweisung zum seligen Leben oder auch die Religionslehre, in Fichtes Werke, vol. V: Zum Religionsphilosophie, a cura di I.H. Fichte, Berlin, De Gruyter, 1971, pp. 397-580. Brief ................ M. HEIDEGGER, Brief über den “Humanismus”, ora in Heideggers Gesamtausgabe, vol. IX: Wegmarken, a cura di F.-W. von Herrmann, Frankfurt a.M., Klostermann, 1976, pp. 313-364. CM .................. E. HUSSERL, Cartesianische Meditationen und Pariser Vorträge, ora in Husserliana, vol. I, a cura di S. Strasser, Den Haag, Nijhoff, 19912. DW .................. MEISTER ECKHART, Die deutschen Werke, a cura di J. Quint, 4 voll., in Die deutschen und lateinischen Werke, Stuttgart, Kohlhammer, 1936 ss. EM .................. M. HENRY, L’essence de la manifestation, vol. I, Paris, PUF, 1963. EM, II .............. M. HENRY, L’essence de la manifestation, vol. II, Paris, PUF, 1963. HBE ................ M. HEIDEGGER, Hegels Begriff der Erfahrung, ora in Heideggers Gesamtausgabe, vol. V: Holzwege, a cura di F.-W. von Herrmann, Frankfurt a.M., Klostermann, 1977, pp. 115-208. Ideen I ............. E. HUSSERL, Ideen zu einer reinen Phänomenologie und eine phänomenologische Philosophie. Erstes Buch: Allgemeine Einführung in die reine Phänomenologie, ora in Husserliana, vol. III1-2, a cura di K. Schuhmann, Den Haag, Nijhoff, 1977. K...................... M. HEIDEGGER, Kant und das Problem der Metaphysik, ora in Heideggers Gesamtausgabe, vol. III, a cura di F.-W. von Herrmann, Frankfurt a.M., Klostermann, 1991. SZ .................... M. HEIDEGGER, Sein und Zeit, ora in Heideggers Gesamtausgabe, vol. II, a cura di F.-W. von Herrmann, Frankfurt a.M., Klostermann, 1977. WG .................. M. HEIDEGGER, Vom Wesen des Grundes, ora in Heideggers Gesamtausgabe, vol. IX: Wegmarken, a cura di F.-W. von Herrmann, Frankfurt a.M., Klostermann, 1976, pp. 123-175. «L’interpretazione dev’essere mossa e guidata dalla forza di un’idea illuminante e anticipatrice. Soltanto in virtù di tale idea, un’interpretazione può osare l’impresa, ognora temeraria, di affidarsi al segreto impulso che agisce nell’intimo di un’opera, per essere aiutata a penetrare il non detto […]. È questa una via, per la quale la stessa idea direttrice giunge a rivelarsi pienamente, manifestando il proprio potere di chiarificazione». M. HEIDEGGER, Kant und das Problem der Metaphysik, trad. it., p. 173. «La riduzione [fenomenologica] non è soltanto un passo metodico preparatorio che poi, una volta compiuto, ci si possa lasciare dietro le spalle, […] essa piuttosto costituisce il terreno su cui soltanto è ancora possibile la metafisica dopo il fallimento dei suoi tentativi fino ad oggi: una metafisica che non vuole essere “nuova”, che non significhi l’aggiunta di un nuovo “sistema” al numero dei sistemi apparsi nella storia della filosofia, ma significhi ripresa del problema che ne costituisce l’essenza in generale dall’inizio della metafisica occidentale in poi». L. LANDGREBE, Der Weg der Phänomenologie, trad. it., pp. 105-106. INTRODUZIONE 1. Questioni preliminari. Definizione dell’orizzonte teoretico-problematico di fondo a) La questione della “fondazione filosofica” e l’“idea” della filosofia prima L’ambito di interesse generale entro cui il presente studio si colloca concerne la questione teoretico-metodologica relativa alla fondazione della filosofia prima. Considerato sotto il profilo meramente formale, a tale ambito appartengono interrogativi del tipo: “A partire da quali presupposti e sotto quali condizioni di senso la posizione della domanda filosofica intorno al fondamento (e all’‘essere’ come fondamento) può ritenersi legittima, cioè posta in maniera valida?”. In altri termini: “Sotto quali condizioni, al pensiero filosofico che pone la domanda ontologica fondamentale, diviene possibile fornire le motivazioni teoretiche e le assicurazioni necessarie per esibire la legittimità del proprio domandare e delle pretese ad esso connesse?” – L’intento non è in nessun caso quello di voler fondare o proporre la fondazione di una “nuova metafisica”. Prendendo spunto da alcuni recenti sviluppi della fenomenologia contemporanea, lo scopo è piuttosto quello di riflettere sul senso della fondazione e sulla problematicità intrinseca a questo atto costitutivo di ogni filosofia trascendentale. L’atto del fondare è qui inteso nel senso di quel percorso di analisi critica per mezzo del quale la filosofia, una volta “progettata” e “costruita” per sé la prospettiva di senso alla luce della quale si muove, procede alla (reiterata) verifica ed al “collaudo”dei pre- 16 Roberto Formisano supposti e dei principî alla luce dei quali essa di fatto opera, definendo per sé il proprio campo d’esperienza (l’orizzonte di senso all’interno del quale il sapere filosofico può, in linea di principio, rivendicare la propria legittimità). La “fondazione”, dunque, non è certo qui intesa nel senso ordinario del termine, come se si trattasse di un’operazione compiuta ad hoc, per “tenere in piedi” e dotare della necessaria “base” il complesso e sistematico edificio d’una qualche preconcetta “metafisica”. Né l’orientamento della ricerca vuol esser quello proprio dell’onto-teo-logia e della moderna metafisica, dove la fondazione è unilateralmente ri(con)dotta alla posizione di un fundamentum inconcussum – un subjectum, a partire dal quale pretendere di dedurre la giustificazione della totalità dell’ente considerato nel suo essere. Alludendo esplicitamente alla sua intrinseca problematicità, la “fondazione” è qui richiamata alla luce di quella decisiva esperienza del pensiero filosofico contemporaneo, per lo più nota come “tramonto della metafisica”: l’esplicita presa di coscienza circa l’impossibilità costitutiva della filosofia di potersi “edificare” alla maniera di un sistema architettonicamente conchiuso in se stesso e, soprattutto, definitivamente compiuto. Pensata infatti nel suo significato più radicale, la “fine della metafisica” non significa affatto – né necessariamente si traduce sic et simpliciter in – un abbandono di ogni pretesa filosofica di fondazione. Giacché, anche dopo la “morte di Dio” – ed anzi soprattutto dopo la decisiva acquisizione del pensiero contemporaneo di non poter più cedere all’illusione dell’incontrovertibile “certezza” delle verità della metafisica – non per questo la filosofia può permettersi di rinunciare alla necessità di costruire sempre nuove prospettive di senso e, interrogandosi sulla sua storia, riflettere circa la validità ed il senso del suo stesso domandare. Messa tra parentesi la pretesa di poter fondare la filosofia facendola poggiare su di una qualche “oggettività” in sé sussistente, l’unica via che resta da seguire per oltrepassare l’impasse di uno scetticismo radicale, altrimenti inevitabile, è quella “rivoluzionaria” esemplarmente indicata da Kant e, in anni più recenti, ripresa dalla fenomenologia di Husserl e da Heidegger. Il methodos, la “via”, allora, è sottoporre ad un rigoroso vaglio critico la domanda stessa sul fondamento, attraverso l’analisi dei suoi presupposti e delle possibilità intrinseche in ordine alle sue pretese euristiche e conoscitive. Nell’orizzonte problematico aperto dalla fine dell’illusione metafisica della “verità”, quel che alla filosofia resta, per la progettazione di un Introduzione 17 possibile “nuovo cominciamento”, è innanzitutto la questione del metodo. Sì che, sollecitati da quest’orientamento del pensiero contemporaneo, si vuole pertanto accogliere la “necessità” di ripensare criticamente il problema della “fondazione filosofica”. Tale “necessità” non è affatto intesa nel senso di un atto conclusivo che, muovendo da premesse date e mai sottoposte ad esame, conduce alla giustificazione posticcia di una precostituita interpretazione dell’essere. “Fondante”, semmai, è quell’operazione critica che accompagna e motiva nel suo stesso “farsi” l’esperienza del sapere filosofico, nella misura in cui, a fronte di ogni risultato (parziale) ottenuto, la filosofia critica procede esattamente nel senso di una costante revisione e sistematica messa a punto dei principî teoretici e metodologici che l’hanno guidata. Una riflessione sempre pronta a modificare in fieri il proprio percorso e aperta a ripensare in ogni momento del suo sviluppo l’intera sua impostazione di fondo, in funzione di quegli orizzonti d’esperienza che proprio quest’ultima le consente via via d’aprire per sé. Questa nozione “problematica” della fondazione non ha altro di mira se non quest’atteggiamento, questa prassi del pensiero critico che “s-fonda” sistematicamente la pretesa oggettività del fondamento metafisico ed il cui elemento determinante risiede tutto ed esclusivamente nel modo in cui esso si progetta ovvero, appunto, nel metodo che ne regola l’operatività. Concepita in questa chiave metodologica, la “fondazione” svela così il suo più proficuo potenziale anti-dogmatico, per mezzo del quale diviene peraltro possibile il “riscatto” della nozione stessa di “filosofia prima” di contro a ciò che – secondo la linea interpretativa novecentesca aperta dai “maestri del sospetto” e sviluppata, tra gli altri, da Heidegger – avrebbe costituito lo “scadimento ideologico” caratteristico del pensiero metafisico e onto-teologico. La nozione di “filosofia prima” assume piuttosto i caratteri di una “idea”, nel senso teleologico (kantiano e husserliano) di un “ideale regolativo” il cui unico fondamento altro non è se non il suo modus operandi, la capacità della filosofia di assicurarsi da sé la validità dei procedimenti euristici che essa pone in atto, insieme con le tesi a cui questi inesorabilmente conducono. Entro questa prospettiva, l’“idea” della filosofia prima altro non vuol essere che la “traduzione” e la “sistemazione” in termini metodologici e regolativi di quella prassi del pensiero critico che è la filosofia considerata nel suo “stato nascente”. 18 Roberto Formisano Lungi dall’esser identificata con qualche dottrina particolare, ma considerata essenzialmente nel suo intrinseco carattere ideal-teleologico e regolativo, la filosofia prima è qui intesa nel senso di quel domandare critico che, pur rinunciando metodicamente alla pretesa di verità caratteristica del pensiero metafisico, non rinuncia tuttavia all’esigenza fondamentale di render conto della legittimità, dei limiti e delle possibilità inerenti al suo stesso domandare. Conformemente a siffatta esigenza, l’“idea” della filosofia prima è pertanto riferita a quella costante, sistematica e incessante prassi di ri-pensamento e auto-chiarificazione dei presupposti ultimi. Nominando il “fondamento” – ma in realtà volgendosi all’analisi dei suoi stessi principî e delle tesi di fondo che ne orientano l’esperienza e guidano lo sviluppo – la domanda filosofica “prima” svela così la sua essenza, in quanto riflessione critica circa le condizioni ultime di possibilità del pensiero considerato in quanto tale. Poiché orientata, come methodos, ad interrogarsi circa l’origine del sapere, la questione teoretico-metodologica della fondazione filosofica si trova così (ri)condotta ad affrontare l’annosa questione onto-fenomenologica relativa all’einai (l’essere, inteso come origine, radice, physis) considerata alla luce del suo costitutivo rapporto con il noein, ovvero il problema della co-appartenenza di essere e pensiero in seno al phainesthai originario. Chiaramente, il passaggio che dall’analisi trascendentale delle condizioni di possibilità della domanda filosofica conduce all’interrogazione della coappartenenza originaria di essere (einai), pensiero (noein) e apparire (phainesthai) non potrà non essere esso stesso privo di presupposizioni. Nello specifico, tale passaggio rinvia ad una ben determinata interpretazione e “riappropriazione critica” del gesto inaugurale che il pensiero fenomenologico compie nei confronti della comprensione naturale dell’essere. Dal momento che però proprio tale questione costituirà la più ampia e generale cornice teoretico-problematica di fondo per le analisi che seguiranno, al fine di chiarirne ulteriormente gli aspetti più significativi e decisivi, diventa allora quantomeno opportuno ripercorrere un breve excursus sulle differenze che emergono tra l’“approccio naturale” e l’“approccio filosofico” circa la questione dell’essere. 19 Introduzione b) Della coappartenenza strutturale di essere e pensiero Nel pensiero naturale, l’essere non rappresenta affatto il titolo d’un problema. Esso, anzi, è quanto di più “ovvio” tale pensiero possa intendere. L’essere definisce la caratteristica di tutto ciò che è presente al pensiero; ma più specificamente, all’interno di questa prospettiva, l’essere di tutto ciò “che è in quanto presente innanzi agli occhi del pensiero” è implicitamente colto come ciò che sussiste nonostante il pensiero medesimo, vale a dire ciò che sussiste e potrebbe tranquillamente sussistere anche indipendentemente dal fatto che esso sia esperito o pensato in qualche modo. L’essere (la “sostanza”) è in questo senso inteso come l’Insichständiges, il “sussistente in sé”. Il pensiero naturale si rapporta all’essere preintendendolo tuttavia come una realtà assolutamente conchiusa in se stessa e indipendente da qualsiasi cosa d’altro per quel che concerne la sua sussistenza. Concepito nel senso della mera sostanza, l’essere è naturalmente inteso come ciò la cui sussistenza è indipendente rispetto a qualsiasi forma di relazione o rapporto in generale. La sussistenza “in sé” definisce propriamente il carattere di “autonomia” che il pensiero naturale riconosce all’essere-sostanza, nel senso di una totale assenza di relazione in quanto, per sussistere come tale, l’essere non necessita d’esser posto in rapporto ad alcunché. In altri termini, ciò che, dietro l’apparente “non problematicità” dell’essere, è “ovviamente” sottinteso dal pensiero naturale è la tesi l’inessenzialità del rapporto concepito come tale. Orbene, è in riferimento a questa tesi che il sapere fenomenologico marca la propria distanza nei confronti del pensiero naturale. Se, infatti, l’“ovvietà” entro cui il pensiero naturale si muove impedisce a quest’ultimo di prender seriamente ed in maniera sistematica in considerazione i propri presupposti, ciò che caratterizza il pensiero fenomenologico è il rivolgimento che esso pone in atto nei confronti di questi ultimi, facendo di questi esplicitamente l’oggetto della propria indagine critica. Che cosa significa infatti la tesi dell’“inessenzialità del rapporto”? Quali sono le sue implicazioni in riferimento alla considerazione dell’essere “in quanto tale”? Nella prospettiva del pensiero naturale l’essere è compreso come l’in-sé-sussistente non soltanto per il fatto che esso, per costituirsi come tale, non necessita d’esser posto in rapporto ad altro (cioè ad un altro 20 Roberto Formisano in-sé-stante, totalmente chiuso in se stesso), ma soprattutto per il fatto che non necessita neppure d’esser posto in rapporto a se medesimo. La “assenza di rapporto”, infatti, non definisce soltanto l’inessenzialità del rapporto inteso come relazione esterna fra sostanze, ma primariamente l’inessenzialità del rapporto per quel che concerne la struttura interna della costituzione d’essere della sostanza in quanto tale. Nell’orizzonte del pensiero naturale accade dunque che all’essere “in quanto tale” è implicitamente conferito il significato di “ciò che sussiste in quanto assolutamente irrelato”. Non avvedendosi di questo significato, il pensiero naturale non s’avvede neppure della contraddizione di cui, suo malgrado, esso si fa inconsapevole portatore. Viceversa, nella misura in cui il pensiero fenomenologico mostra il senso delle assunzioni implicite che naturalmente regolano il rapporto con l’essere in generale e con il mondo, contemporaneamente svela la contraddizione che si cela sotto il profilo sia gnoseologico sia ontologico. Per quel che riguarda l’aspetto gnoseologico, le ragioni dell’insostenibilità della concezione naturale dell’essere sono evidenti: posta infatti la tesi dell’inessenzialità del rapporto in quanto tale e dell’autonomia dell’essere-sostanza nel senso dell’assoluta irrelatezza, accade che qualunque forma di esperienza inerente alla sostanza si trova ad esser di fatto invalidata e il suo sapere declassato a mera opinio, alla stregua d’una teoria incapace di motivare le proprie tesi e, a questo titolo, come una “pseudo-conoscenza” o piuttosto come un’interpretazione arbitraria della realtà. Ed è chiaro che, entro questa prospettiva, anche l’“idea” stessa d’una qualunque filosofia diventerebbe, a maggior rangione, del tutto ingiustificata. In effetti, considerata nel suo risvolto gnoseologico, l’interpretazione naturale dell’autonomia dell’essere come sostanza reca in sé i presupposti per uno scetticismo radicale. Anche se, ad esser precisi, l’esito scettico sarebbe inevitabile solo nella misura in cui il pensiero naturale decidesse di esplicitare i propri presupposti (cioè il preintendimento che di fatto guida l’interpretazione dell’essere di cui esso è portatore) senza per questo rinunciare a continuare ad assumerli. L’esito scettico, in altri termini, è inevitabile solo fintantoché il pensiero colloca se stesso all’interno dell’orizzonte ermeneutico proprio dell’interpretazione naturale dell’essere. A motivare, infatti, tale esito è il contenuto stesso della tesi naturale, per la quale la sussistenza-in-sé dell’essere (vale a dire la Introduzione 21 sua assoluta irrelatezza) altro non significa che la totale separazione dell’essere rispetto al sapere 1. Questa “separazione” dell’essere e del sapere è decisamente ricca di conseguenze. Essa non soltanto sostiene la tesi dell’infondatezza del sapere (nelle sue possibili varianti per cui: è impossibile un sapere intorno all’essere; è impossibile che il sapere consti di un fondamento ontologico, ecc.) ma afferma soprattutto la tesi dell’inessenzialità del sapere in riferimento alla struttura interna dell’essere. Esplicitata nel suo significato ontologico ultimo, la tesi naturale dell’“assenza di relazione”, cioè della “separazione” fra essere e sapere, conduce in breve all’affermazione secondo cui: poiché, nella sua costitutiva autonomia, l’essere è in grado di sussistere interamente in sé, ossia indipendentemente da qualsivoglia forma di rapporto, l’essere – in quanto tale – non necessita d’esser saputo (ovvero, al limite, che non necessita esso stesso di sapersi in quanto tale). Ciò che in definitiva si afferma è che, nella sua essenza, in quanto in-sé-sussistente, l’essere non necessita di alcun rapporto in generale e, dunque, nello specifico, di alcun rapporto con il pensiero. Chiarita nel suo duplice risvolto, insieme gnoseologico e ontologico, nonché radicalizzata nel suo esito scettico, la tesi della separazione dell’essere e del sapere si rivela però essere essenzialmente contraddittoria con se stessa. Si è detto infatti che lo scettico assume esplicitamente la tesi dell’inessenzialità del rapporto, adducendo proprio questa a sostegno dell’impossibilità di un discorso conoscitivo legittimo circa l’essere. Ma inclusa nella tesi generale della separazione dell’essere e del sapere vi è anche la tesi dell’impossibilità per il pensante (finito) di potersi rapportare all’essere. Ciò però significa che, nel momento in cui lo 1 L’emancipazione del pensiero filosofico rispetto al pensiero naturale (ed allo scetticismo in esso presente in nuce) si ha attraverso la messa in chiaro del carattere intrinsecamente contraddittorio della tesi naturale. Tale contraddittorietà pertiene al fatto che, se il contenuto della tesi consiste nell’affermazione dell’inessenzialità del rapporto concepito come tale e dunque nell’affermazione della separazione fra essere e pensiero, nel sostenere la veridicità della propria tesi lo scettico presuppone di fatto la possibilità di poterlo pensare, vale a dire di potersi rapportare ad esso nel modo del pensiero. Sì che la tesi dell’inessenzialità del rapporto altro non si rivela se non un modo di pensare l’“autonomia” dell’essere alla luce di una possibilità di rapportarsi all’essere, tuttavia soltanto presupposta e non tematizzata. Paradossalmente, proprio il rapporto si scopre così essere – sebbene lo scettico non arrivi ad avvedersi di ciò – la condizione della pensabilità della tesi naturale stessa. 22 Roberto Formisano scettico sostiene la veridicità della propria tesi, egli di fatto presuppone la possibilità di poter pensare l’essere, vale a dire la possibilità per sé di rapportarsi ad esso nel modo del pensiero. Esplicitandola nel suo contenuto e così assumendola, l’atteggiamento scettico svela in tal modo quella contraddittorietà che, intrinseca alla tesi della separazione dell’essere e del sapere, è tuttavia vissuta in maniera non problematica dal pensiero naturale semplicemente perché sostanzialmente ignorata. La messa in chiaro dell’insostenibilità della tesi naturale fornisce dunque la prima indicazione generale al pensiero filosofico, secondo cui la condizione di senso per la posizione della domanda filosofica fondamentale rinvia preliminarmente alla determinazione del rapporto come elemento essenziale in seno alla struttura interna dell’essere considerato “in universale”. L’essere deve potersi costituire in quanto rapporto. E tuttavia, appunto in quanto “indicazione preliminare”, il mero riconoscimento del carattere essenziale del rapporto non costituisce di per sé la soluzione al problema della “filosofia prima”. La sua esplicitazione definisce più semplicemente soltanto un “inizio”; un inizio che non può essere peraltro dogmaticamente assunto sulla base del mero “rovesciamento” della tesi naturale, ma che deve poter esso stesso divenire oggetto d’indagine. L’esplicitazione di che cosa la tesi secondo cui “l’essere deve potersi costituire in quanto rapporto” significhi e che cosa esso implichi definisce dunque in questo senso il problema centrale per il pensiero filosofico esplicitamente orientato verso un’analisi critica della fondazione di una possibile filosofia prima. Problema che, a sua volta, è in realtà duplice in quanto, a questa supposta e “ideale” filosofia prima, non basterebbe affatto la mera esplicitazione del solo “contenuto” di quest’indicazione. Il rischio, infatti, è che, sebbene chiarificata nel contenuto, questa tesi possa essere assunta e fungere da presupposto acritico per la riflessione filosofica, e ciò in aperta contraddizione con il concetto metodologico di una “filosofia prima”. Perché si dia “filosofia prima”, coerentemente con il concetto di questa, è necessario che la chiarificazione del “contenuto” sia sviluppata in maniera tale per cui la posizione della tesi circa il carattere essenziale del rapporto in seno alla struttura interna dell’essere non sia riducibile semplicemente e soltanto ad una mera “esigenza” del pensiero, ma corrisponda direttamente ad un carattere effettivo della struttura dell’essere stesso. Ciò che, insomma, la chiarificazione deve poter mostrare è che la posizione della tesi costituisca non semplicemente un atto arbitrario del pensiero, ma, al Introduzione 23 contrario, qualcosa la cui motivazione ultima derivi “dalla cosa stessa”, cioè dalla struttura stessa dell’essere “in quanto tale”. La legittimazione della tesi dovrà essere sviluppata in maniera tale che sia la chiarificazione della struttura interna dell’essere a fornire, rendendole esibibili, le motivazioni teoretiche della sua posizione, a titolo di condizione di senso per l’indagine circa il “fondamento”. Sì che solo nella misura in cui la filosofia sarà in grado di mostrare che ciò che sul piano della riflessione definisce la condizione di senso per la posizione della domanda ontologica fondamentale corrisponde in realtà ad una necessità eidetica direttamente legata alla struttura interna dell’essere la sua legittimazione ultima potrà dirsi compiuta, in quanto desunta unicamente “dalla cosa stessa”. Ma che cosa significa allora la tesi secondo cui il rapporto deve poter costituire l’elemento essenziale dell’essere, ovvero che l’essere “deve potersi costituire in quanto rapporto”? Nel contesto delle presenti analisi – al fine di restringere ulteriormente e precisare il campo d’interesse – sarà privilegiata soprattutto l’analisi di quell’orientamento di pensiero per il quale il recupero sul piano ontologico della nozione di “rapporto” conduce alla tesi secondo la quale, nella misura in cui l’essere deve potersi rapportare a sé, esso deve poter altresì sapere se stesso in quanto tale. Entro tale prospettiva, di contro alla concezione naturale dell’essere, è appunto la cooriginarietà di essere e sapere (sul fondo del loro rapporto) a definire la struttura interna del primo. La cooriginarietà dell’essere e del sapere è ciò che fa dell’essere essenzialmente un fenomeno. Il sapersi definisce infatti il modo in cui l’essere si dà, costituice se stesso come fenomeno ed appare in quanto tale. Più precisamente, esso definisce il modo in cui l’essere realizza, ovvero porta a compimento, il proprio apparire, la propria manifestatività. Ora, all’interno di questa prospettiva, la questione della fondazione si traduce nel problema relativo alla determinazione dell’articolazione interna al nesso fenomenologico essenziale fra essere, apparire e sapere; il problema diviene, cioè, capire se e in che modo si dia la possibilità di “accedere” alla comprensione di siffatta articolazione. La questione dell’“accesso” [methodos] nomina, trasponendolo sul piano metodologico, il problema relativo alla struttura interna del “rapporto di fondazione” che l’essere istituisce con il pensiero (finito). Dalla critica alla concezione naturale dell’essere è possibile ricavare ancora indicazioni utili a tal riguardo. Giacché non l’essere, ma neppure il pen- 24 Roberto Formisano siero (finito) si dà come mera sostanza. Come Heidegger ha ben chiarito in merito, “pensiero” si dà innanzitutto in quanto esistenza: come rapporto a sé, apertura coinvolta nell’orizzonte d’essere che essa dischiude e, nel coinvolgimento, comprensione della sua propria costituzione d’essere. Passivamente costituito in siffatto rapporto (in quanto non già principio del suo stesso esserci), alla luce della tesi della cooriginarietà dell’essere, del sapere e dell’apparire, il pensante (finito) si comprende come appartenente a questa struttura originaria, partecipe del suo phainesthai e, in questo senso, come “fondato” in essa. La scoperta del “rapporto di fondazione” così inteso consente di precisare ulteriormente e meglio i contorni del concetto di “essere in quanto tale”, in virtù della differenziazione a cui tale scoperta introduce fra l’essere inteso come “oggetto”, vale a dire ciò che è dato al pensiero in quanto contenuto di un atto conoscitivo determinato, e l’essere inteso come “pura manifestatività, inoggettuale e inoggettivabile” a cui il pensante essenzialmente appartiene. Come ha giustamente sottolineato a tal riguardo Maurizio Malaguti: «L’“è” si semantizza in duplice modo: da una parte il pensante si volge ai cogitata che sono il contenuto del suo conoscere; dall’altra si apre l’“è” in quo sumus cogitantes, l’essere a cui apparteniamo in quanto pensanti» 2. Entro questa prospettiva, l’essere “in quanto tale” è ricondotto su questo secondo versante, vale a dire il versante dell’esse in quo sumus cogitantes essenzialmente irriducibile alla dimensione del puro cogitatum. La messa in chiaro della distinzione essenziale fra l’esse in quo sumus cogitantes e l’esse quod est cogitatum consente di portare in primo piano un elemento decisivo relativo al sapersi costitutivo dell’essere e del pensare (finito); esso cioè consente di portare allo scoperto il significato essenziale alla luce del quale la nozione di sapere/sapersi sarà impiegata nel presente studio. In quanto irriducibile ad un atto conoscitivo condotto da un “soggetto”, il sapere/sapersi inteso in senso ontologico non può esser confuso né con “un certo tipo” di conoscenza, né con il conoscere stesso inteso come “sapere objettivo”, giacché, assunto come principio del pensare, l’esse in quo sumus cogitantes sfugge ad ogni pretesa di ri(con)duzione 2 M. MALAGUTI, In humanitatem spiritus, Bologna, Inchiostri Associati Editore, 2005, p. 38. Introduzione 25 alla struttura del rapporto conoscitivo del soggetto e dell’oggetto, e ciò non soltanto in riferimento al rapporto fra pensiero (finito) ed essere ma anche e soprattutto in rapporto alla struttura interna dell’essere medesimo (cioè al nesso fenomenologico essenziale fra essere, apparire e sapere). Per sgomberare il campo da possibili fraintendimenti, sarà opportuno chiarire sin da subito che la nozione ontologica di “sapere” è qui assunta in opposizione ad ogni forma di gnoseologismo. Cadendo in equivoco, sarebbe infatti possibile pensare il sapersi assoluto dell’essere (cioè il sapersi che, a differenza del pensiero finito, sa se stesso e si costituisce in quanto principio del proprio darsi) come la pura coincidenza, ovvero l’“identità”, del “sé saputo” (cioè il “sé” come “oggetto” del sapere) e l’atto del sapere stesso. Per “gnoseologista” 3 è qui intesa quella prospettiva teoretica secondo la quale, per poter sapersi in quanto tale, l’essere deve potersi fare “oggetto” del sapere; sì che solo facendosi oggetto esso può infine giungere a sapersi come assolutamente identico a sé. In tal modo, però, la ri(con)duzione del sapersi alla struttura del pensiero rappresentativo, cioè al rapporto soggetto-oggetto, non sarebbe affatto superata ma solo aggirata o, se si vuole, approfondita. Questa, invero, è stata la soluzione prospettata dall’Idealismo tedesco, dal quale il “sé saputo” è stato appunto rigorosamente concepito come og-getto, ob-jectum, Gegen-stand, vale a dire come ciò il cui senso d’essere risiede nello star-di-contro [Gegen-stehen] nei confronti dell’atto del sapere. Così, di conseguenza, solo ponendo se stesso di contro a sé, alla maniera d’una ob-jettivazione, l’essere sarebbe potuto giungere alla realizzazione del proprio apparire in quanto “assoluto”. Entro questa prospettiva, infatti, il sapere è sempre ed essenzialmente inteso come sapere-riferito-ad-un-oggetto, in maniera tale per cui la possibilità stessa per l’essere di sapere se stesso, e cioè di fondarsi in quanto fenomeno, è giocoforza riconosciuta in quel percorso conoscitivo che, muovendo dall’analisi dell’oggetto e risalendo alle condizioni d’essere di quest’ultimo, aspira alla pretesa “riunificazione”, nella forma del concetto, di ciò che la primigenia ob-jettivazione avrebbe posto. 3 Il termine è liberamente tratto dalla filosofia di Pantaleo Carabellese. A tal riguardo, in riferimento al problema del rapporto fra l’essere ed il sapere rappresentativo (conoscenza) e sulla questione dell’oggetto, si rinvia in particolare a P. CARABELLESE, Il problema teologico come filosofia, Roma, Tipografia del Senato, 1931. 26 Roberto Formisano Non è possibile, certo, ignorare il fatto che lo gnoseologismo tipico dell’Idealismo tedesco sia ben lontano da quell’ingenua concezione ontologica per la quale l’essenza dell’oggetto (vale a dire ciò in grazia di cui esso è costituito a titolo di contro-stante [Gegenstand]) è fatta risiedere nel mero “soggetto”. Ma se è vero che l’oggetto, appunto in quanto contro-stante, è costitutivamente impossibilitato a sussistere in sé, a sua volta anche il soggetto conoscente “necessita” dell’oggetto, nella misura in cui, almeno, per poter pensare se stesso non può prescindere dal momento objettivo della sua auto-posizione-innanzi [Sich-vor-stellung]. La “oggettività” del Gegen-stand e la “soggettività” del soggetto coincidono. Soggetto e oggetto condividono una medesima e unica essenza, che nella prospettiva dell’Idealismo moderno è quello della relazione rappresentativa. Per l’Idealismo, “prima” (in un senso non meramente cronologico, ma trascendentale) dell’oggetto e del soggetto, “è” – ovvero “si dà” – il loro rapporto. E il rapporto non pone “prima” il soggetto e “poi” l’oggetto, ma entrambi contestualmente in maniera tale che, nell’esperienza di questa relazione e per mezzo di essa, facendosi oggetto, l’atto del pensare giunge alla certezza di sé, cioè alla certezza della sua stessa esperienza in cui è l’esperienza stessa dell’essere e del suo farsi fenomeno – l’esperienza originaria dell’essere che, coinvolto nella dialettica del pensiero rappresentativo, giunge infine alla conoscenza di sé in quanto tale, cioè in quanto “soggettività assoluta”. Entro questa maniera idealistica di concepire il rapporto fra essere, apparire e sapere, ogni oggetto conosciuto non è che un “momento”, un’oggettivazione interna all’attività originaria del sapersi costitutivo dell’assoluto. Ed in quest’articolazione interna e infinita, che esprime il senso stesso dell’assoluto, il pensiero (finito) non configura esso stesso che soltanto un “momento” di questa oggettivazione. Sì che il rapporto di fondazione viene dunque ad assumere il seguente significato: il pensiero (finito) sa se stesso perché costituito in seno al sapersi dell’assoluto, in quanto momento essenziale interno allo strutturarsi di quest’ultimo. Quale sia tuttavia il prezzo che il pensiero (finito) paga per una simile fondazione appare evidente: per potersi pensare, conformemente al modo del darsi dell’essere, come fondato nella manifestatività di quest’ultimo, il pensante è costretto a sacrificare tutto se stesso, vale a dire la sua stessa realtà ontologica, a favore unicamente del sapersi dell’assoluto e del suo “concetto” universale. 27 Introduzione c) Essere e affettività. La prospettiva fenomenologica di Michel Henry Ben al di là dell’Idealismo, nel complesso e variegato panorama della filosofia fenomenologica contemporanea, non sono di certo mancate prospettive di senso che, sensibili alla questione del sapersi costitutivo del fenomeno dell’essere, siano state in grado di indicare “vie” alternative a quelle appartenenti all’orizzonte di pensiero dello gnoseologismo. Tra queste, un esempio di spicco è di certo la filosofia di Heidegger, grazie alla quale il dibattito onto-fenomenologico relativo al rapporto tra l’essere, il pensare ed l’apparire ha assunto successivamente la forma d’una riflessione circa l’essenza del fenomeno. Al centro di questa prospettiva, l’accento è caduto sul modo di donazione dell’essere, ovvero sul modo del suo costituirsi in quanto fenomeno, concepito alla luce del riferimento essenziale alla differenza ontologica, come da Heidegger appunto invocato. Sullo sfondo di questa problematica, in anni relativamente recenti, particolare interesse ha tuttavia suscitato la proposta filosofica di Michel Henry, filosofo francese cresciuto nella koiné fenomenologica della Francia degli Quaranta e Cinquanta, “padre” di ciò che egli avrebbe poi battezzato con il nome di phénoménologie de la vie, “fenomenologia della vita”, ovvero phénoménologie matérielle, “fenomenologia materiale”. Per Henry, infatti, la fenomenicità originaria, distinta da ogni altra mera condizione di possibilità per l’apparire dei fenomeni in generale, rinvia ad una modalità peculiare di sapersi dell’essere: una modalità di donazione in sé priva di ogni riferimento ek-statico, e tuttavia riconosciuta come condizione di possibilità ultima per ogni forma (sia ontica sia, soprattutto, ontologica) di trascendenza 4. Tale sapersi inobjettivo ed immediato configura appunto ciò che, con rigore, Henry caratterizza con il nome di “vita”: un “sapere” privo di ogni connotazione teoreticistica o gnoseologistica, irriducibile alla struttura del pensiero rappresentativo e indipendente rispetto a qualunque forma di comprensione, sia esistenziale che esistentiva 5, in quanto altresì irriducibile alla struttura 4 Il termine “trascendenza” è qui inteso nel senso paradigmatico, rigorosamente elaborato da Martin Heidegger. Cfr. SZ, § 63. 5 Cfr. EM, p. 185 (trad. it. M. HENRY, L’essenza della manifestazione, vol. I, a cura di F.C. Papparo, Napoli, Filema, 2009, p. 186). 28 Roberto Formisano fenomenologica della temporalità estatica 6. “Al di qua” di ogni intellettualismo o mero teoreticismo, il sapersi della vita è piuttosto inteso come un “sentirsi”, un sapersi puramente affettivo, cioè come un’auto-affezione immediata e immanente, un puro sentimento di sé irriducibile all’«affezione che si compie nel senso interno […] per mezzo dell’orizzonte temporale tridimensionale che [la temporalità] progetta estaticamente»7. Quale significato la questione della fondazione della filosofia prima possa ricevere alla luce dei principî fondamentali della “fenomenologia della vita” è quanto il presente studio si propone di ricavare. Per quanto, infatti, Henry non abbia mai esplicitamente affrontato la questione del sapere e della coappartenenza di essere e pensiero nei termini specifici di una “fondazione filosofica”, è tuttavia ragionevole ritenere che, sebbene con linguaggio diverso, è con questo medesimo ordine di problemi che la sua filosofia sia di fatto venuta a confrontarsi. Questo d’altronde è uno dei motivi per cui, al fine di mostrare il senso di quest’inaudita convergenza, si è scelto d’individuare quale “filo conduttore” delle analisi che seguono il percorso teoretico-argomentativo effettivamente seguito da Michel Henry per giungere alla determinazione ed alla formulazione dei concetti fondamentali della propria “idea” della fenomenologia. Un altro non trascurabile motivo di questa scelta pertiene poi al fatto che, per quanto sino ad oggi sia stato già detto e scritto 6 Il riferimento implicito è alla concezione heideggeriana dell’essere ed alla sua interpretazione della tesi della strutturale coappartenenza di essere e comprensione d’essere in seno alla manifestatività originaria, rispetto alla quale Henry esplicitamente si distacca. Per Henry, infatti, come si avrà modo di mostrare, la questione relativa alla struttura fenomenologica dell’essere deve poter essere inquadrata e sviluppata indipendentemente dalle dinamiche esistentive a cui lo strutturarsi della comprensione d’essere in quanto esistenza (cioè il suo temporizzarsi in quanto Inder-Welt-sein) costitutivamente rinvia. «Le presenti ricerche – scrive Henry, in L’essence de la manifestation – si occupano unicamente di questo elemento ontologico puro [considerato] nella sua realtà originaria anteriore a qualsivoglia atto di comprensione diretto su di esso» (Ibid.). Sul tema della distinzione fra “comprensione ontologica” e “comprensione esistenziale” in Henry, cfr. infra, Sez. II, Cap. II, § 20. 7 M. HENRY, Phénoménologie de la vie, t. I, Paris, PUF, 2003, p. 49. Ancora una volta, il riferimento implicito nella contrapposizione fra sentimento e temporalità è rivolto all’interpretazione del concetto di “auto-affezione” svolta da Heidegger nella sua interpretazione della filosofia trascendentale kantiana in K (trad. it. M. HEIDEGGER, Kant e il problema della metafisica, a cura di V. Verra, Roma/Bari, Laterza, 20065). In merito a questo confronto, cfr. infra, Sez. II, Cap. III, § 21-23. 29 Introduzione tanto sulla filosofia di Michel Henry, in realtà ben pochi sono stati i contributi esplicitamente dedicati alla lettura ed al commento della sua opera capitale, L’essence de la manifestation, pubblicata per la prima volta in due volumi nel 1963, da Michel Henry medesimo riconosciuta come il testo fondatore della sua “fenomenologia della vita”. Anche in risposta a queste esigenze, dunque, ma soprattutto in ragione dell’originalità del modo in cui Henry è pervenuto alla elaborazione ed alla motivazione teoretica della sua concezione della fenomenologia, le analisi che compongono il presente studio si concentrano ad esaminare, in particolar modo, l’insieme delle argomentazioni teoreticocritiche che compongono la voluminosa opera capitale del 1963 che, sostanzialmente immutate nel tempo, hanno costituito le premesse teoriche per i successivi ampliamenti e sviluppi del pensiero henryen. Attraverso un ripercorrimento condotto “dall’interno” delle argomentazioni critiche per mezzo delle quali Henry è giunto alla “fondazione” della propria concezione della fenomenologia, l’obiettivo primario vuole esser pertanto quello di portare in primo piano i principali rilievi alla luce dei quali saggiare – delimitandola – l’orientazione “protologica” della “fenomenologia della vita”. Un secondo obiettivo è mostrare in che modo l’enucleazione henryenne del concetto fenomenologico di “vita” costituisca di fatto una possibile interpretazione in chiave nongnoseologistica né onto-teo-logica del nesso fenomenologico fondamentale dell’essere, dell’apparire e del sapere. L’intento, in ogni caso, non sarà mai quello di sovrapporre alla prospettiva dell’autore una predeterminata impostazione filosofica. La chiave ermeneutica qui perseguita consiste esattamente nell’opposto, vale a dire nel ripensamento attraverso la filosofia di Henry e conformemente al modo della sua elaborazione critica della questione della fondazione della “filosofia prima”. 2. Presentazione del filo conduttore e degli obiettivi della ricerca a) “Fenomenologia” e “vita” in Michel Henry Nato ad Haiphong (Vietnam) nel 1922 da genitori francesi, Michel Henry studiò filosofia a Parigi, dapprima sotto la direzione di Jean Grenier e Maurice de Gandillac, e successivamente con Jean Hyppolite e Jean Wahl. Tra la sua prima formazione, cartesiana e kantiana, e la se- 30 Roberto Formisano conda, di marca più spiccatamente fenomenologica, vi fu l’esperienza della guerra e della Resisenza al Nazismo. Alla base della “svolta” che portò Michel Henry ad avvicinarsi alla fenomenologia agì soprattutto la lettura di Maine de Biran e il successivo confronto con Heidegger, del quale, finita la guerra, ebbe modo di seguire alcuni dei famosi seminari che in quegli anni il filosofo di Meßkirch tenne durante il suo ritiro nella Foresta Nera 8. Quando tuttavia, nel 1963, inserendosi nel vivo dibattito aperto dalla critica di Heidegger a Descartes e alla storia della metafisica, Michel Henry pubblicò L’essence de la manifestation apparve chiara, sin da subito, l’originalità del pensiero che in essa veniva annunciato. E ciò, non solo per la radicalità delle tesi in essa sostenute, ma anche e soprattutto per il modo – altrettanto radicale e inedito – in cui tali tesi venivano articolate e difese. Scritta a partire dal 1946, L’essence de la manifestation nacque come thèse d’État per l’ottenimento della libera docenza universitaria 9. La struttura definitiva dell’opera fu sollecitata dalla stesura di un altro lavoro, anch’esso presentato e discusso in occasione della medesima soutenance, come “tesi secondaria”. Dedicato alla filosofia di Maine de Biran, questo testo reca il titolo di Philosophie et phenomenologie du corps 10. Come Henry ricorda nell’Avvertenza che accompagna la seconda edizione di quest’opera, il testo, benché sia stato pubblicato solo nel 1965, fu in realtà pressoché terminato già tra il 1948 ed il 1949. In effetti, si può dire che fu proprio Maine de Biran ad offrire al giovane fi8 Per ulteriori informazioni biografiche, cfr. Indications biographiques. Entretien avec Roland Vaschalde, in Michel Henry. L’épreuve de la vie, a cura di A. David e J. Greisch, Paris, Cerf, 2001, pp. 489-499; Vivre avec Michel Henry, in Auto-donation. Entretiens et conférences, Paris, Beauchesne, 2004, pp. 237-267; Michel Henry (1922-2002): entretien en manière de biographie, in Dossier Michel Henry, a cura di J. Leclercq e J.-M. Brohm, Lausanne, L’Âge d’Homme, 2009, pp. 7-50. Al lettore italiano si segnala inoltre l’indicazione bio-bibliografica in appendice al valido contributo di G. SANSONETTI, Michel Henry. Fenomenologia, Vita, Cristianesimo, Brescia, Morcelliana, 2006, pp. 309-312. 9 Svolta sotto la direzione di Jean Hyppolite, la thèse fu discussa alla Sorbonne di Parigi il 14 marzo 1964 dinnanzi ad una commissione di grande profilo scientifico composta da alcuni fra i più importanti esponenti della filosofia francese del tempo ossia, oltre che dallo stesso Hyppolite, da Jean Wahl, Paul Ricœur, Ferdinand Alquié e Henri Gouhier. Cfr. gli «Annales de l’Université de Paris», XXXV (1965), p. 81. 10 M. HENRY, Philosophie et phénoménologie du corps. Essai sur l’ontologie biranienne, Paris, PUF, 1965. Introduzione 31 losofo francese, l’intuizione decisiva che diventerà poi il perno fondamentale del suo pensiero, vale a dire l’idea di una nuova tematizzazione dell’apparire considerato in e per se stesso 11, a partire da una globale riconsiderazione della “questione della soggettività”. Se, tuttavia, lo studio di Maine de Biran servì ad Henry a fornire l’“impulso iniziale” 12 per la maturazione di una propria filosofia, fu attraverso l’approfondimento occasionato da L’essence de la manifestation che l’“intuizione fondamentale” del suo pensiero, vale a dire «l’interpretazione dell’essenza del fondamento come rivelazione originaria immanente»13 – fulcro dell’intera sua produzione filosofica successiva – trovò quella elaborazione sistematica che la sua “idea” della fenomenologia richiedeva. Fu insomma con L’essence de la manifestation che, confrontandosi con autori come Husserl, Heidegger, Fichte, Eckhart (solo per citarne alcuni), Henry strutturò l’insieme di quegli argomenti per mezzo dei quali, sviluppando la propria critica ai “presupposti ontologici” del pensiero occidentale, egli pervenne alla definizione dei concetti fondamentali della sua filosofia, quali sono appunto i concetti di immanenza, invisibilità, affettività. In L’essence de la manifestation l’elaborazione dei concetti fondamentali della filosofia di Michel Henry è sviluppata in strettissimo contatto con la problematizzazione di ciò che, nel fondo della loro “tensione ideale”, tiene unite insieme filosofia prima e fenomenologia. Tale fondo – tutt’altro che ignoto a quella che Henry chiama la “fenomenologia storica” 14 di Husserl e Heidegger – individua in maniera peculiare uno degli elementi essenziali dell’elaborazione henryenne dell’“idea” 11 Cfr. M. HENRY, Philosophie et phénoménologie du corps, cit., p. V. Cfr. ibid., ma anche la «Prefazione all’edizione italiana» di Généalogie de la psychanalyse, in ID., Genealogia della psicoanalisi, trad. it. a cura di V. Zini, Firenze, Ponte alle Grazie, 1990, pp. 10-11, e infine ID., Entretiens, Paris, Sulliver, 2007, pp. 14-18. 13 EM, p. 53 (trad. it. cit., p. 74). 14 Sebbene non presente nel testo di L’essence de la manifestation, l’espressione “phénoménologie historique” è di Michel Henry: cfr. ad es. M. HENRY, Phénoménologie matérielle, Paris, PUF, 1990 (trad. it. Fenomenologia materiale, a cura di P. D’Oriano, Milano, Guerini e Associati, 2001); ID., Fenomenologia della vita, in «Filosofia e teologia», II (1996), pp. 219-231; ID., Incarnation, Paris, Seuil, 2000 (trad. it. Incarnazione, a cura di G. Sansonetti, Torino, SEI, 2002). 12 32 Roberto Formisano della fenomenologia e del nodo teoretico in rapporto al quale si decide il senso e la possibilità di una scienza fondamentale 15. Se qualcosa come una “fenomenologia” deve poter essere pensata nel senso di una “scienza dell’apparire”, questa non può che esser formulata nei termini di una “fenomenologia della vita”. Questa, in estrema sintesi, la tesi posta e difesa da L’essence de la manifestation. Ma perché la fenomenologia, la “scienza dell’apparire”, nel momento in cui è orientata allo studio di quel fenomeno inteso come l’“apparire originario”, dovrebbe necessariamente esser pensata (ed autointerpretarsi) 16 come una riflessione circa la “vita”? Che cos’è, infatti, fenomenologicamente intesa, la vita? Non è forse, anzi, paradossale che l’oggetto di una “scienza rigorosa”, quale appunto la fenomenologia mira ad essere, sia indicato per mezzo di un concetto così vago, così sfumato nei suoi contorni e perciò anche così sfuggente? «Vivere – afferma Henry – significa essere. Ma l’essere […] deve esser compreso in maniera tale che esso significhi allo stesso modo la vita» 17 . Interpretandosi come “fenomenologia della vita”, la fenomenologia henryenne intende chiaramente porsi e muoversi sul medesimo piano dell’ontologia fenomenologica universale 18. Posto il suo oggetto (l’“essere” in quanto “vita”), il problema della fenomenologia (sempre secondo l’interpretazione henryenne) riguarda la determinazione della struttura fenomenologica della verità ontologica, intesa in un senso “primo” e “assoluto”. La domanda che dunque la fenomenologia della vita si pone può essere in prima istanza così formulata: che cos’è che rende l’essere suscettibile di mostrarsi in quanto tale, cioè di costituirsi essenzialmente in quanto “fenomeno”? 15 Espressione da intendersi unitariamente nella sua duplice valenza di “scienza in quanto sapere inerente alla costituzione d’essere del fondamento” e “scienza in quanto fondamento per l’intero sistema del sapere”. Sull’interpretazione della fenomenologia come “disciplina fondamentale del sapere”, cfr. M. HENRY, Phénoménologie matérielle, cit., pp. 6-7 (trad. it. cit., pp. 61-63). 16 Cfr. EM, p. 69 (trad. it. cit., p. 87). 17 M. HENRY, Phénoménologie de la vie, cit., p. 40. La citazione è tratta dal testo di una conferenza tenuta da Henry all’Université du Québec, Trois-Rivières, il primo novembre 1977, inizialmente pubblicato sulla rivista «Philosophiques», I (1978), pp. 133-150, in cui sono ripercorse e sinteticamente esposte le principali tesi sviluppate in L’essence de la manifestation. 18 Cfr. EM, pp. 3, 13, 25 (trad. it. cit., pp. 33, 41, 51). Introduzione 33 In Henry, il carattere “fondamentale” della riflessione fenomenologica è richiamato e rivendicato sin dalla definizione stessa che egli assume della nozione di “fenomenologia”; definizione che non s’accontenta della mera ritrascrizione della nozione in “scienza dei fenomeni”, ma che punta sull’elemento universale della ricerca. La fenomenologia è pertanto definita come “scienza dell’essenza dei fenomeni”. In riferimento alla generica nozione di “fenomeno”, Henry recupera infatti la distinzione già heideggeriana 19 fra l’apparire inteso nel senso della verità ontica (il “fenomeno” come possibile oggetto d’apprensione tematica) e l’apparire inteso nel senso della verità ontologica, come ciò sul fondo del cui darsi sono costituite le condizioni di possibilità per la manifestazione ontica. Egli, in breve, tiene ferma la distinzione tra il fenomeno objettivamente inteso come “ciò che appare” ed il fenomeno inteso nel senso dell’atto d’apparire, l’essenza «sul cui fondamento tutto ciò che ci è dato può, appunto, esistere per noi»20. Tale essenza è altresì indicata da Henry con il nome di “fenomenicità” 21 [phénoménalité]. La 19 Cfr. SZ, § 44, pp. 212-230 (trad. it. M. HEIDEGGER, Essere e tempo, a cura di P. Chiodi, rivista da F. Volpi, Milano, Longanesi, 20116, pp. 258-277; di ques’opera si confronti però anche la versione, più attenta ai risvolti fenomenologici del linguaggio heideggeriano, a cura di A. Marini, Milano, Mondadori, 2006, pp. 605-653). 20 EM, p. 64 (trad. it. cit., p. 83). 21 Per quanto nella letteratura fenomenologica italiana degli ultimi anni non siano mancati traduttori, interpreti e critici (anche numerosi) che hanno scelto di rendere il termine francese phénoménalité (già traduzione del tedesco Phänomenalität) con il neologismo “fenomenalità”, nel presente saggio si è deciso di aderire piuttosto alla proposta terminologica avanzata da Giuliano Sansonetti il quale, nelle sue traduzioni dei testi henryens, ha optato per il più tradizionale “fenomenicità”. Tale scelta non è priva di significato. Al di là della mera aderenza morfologica, infatti, il termine “fenomenalità” lascia aperto il campo alle ambiguità già insite nel concetto stesso di “fenomeno” che, nell’uso corrente della lingua italiana, è normalmente riferito non soltanto a “ciò che appare” o, in un senso filosofico più rigoroso, a “ciò che è passibile di conoscenza in quanto in qualche modo esperibile”, ma anche ad eventi o fatti “straordinari”, “fuori dal comune”. Diversamente, soprattutto in ragione del suo già consolidato uso in ambito critico, il termine “fenomenicità” appare decisamente meno ambiguo sotto questo profilo, suggerendo una maggiore e più immediata aderenza al significato rigoroso che la filosofia riconosce all’apparire considerato in quanto tale. La “fenomenicità” esprime, in questo senso, il carattere essenziale e costitutivo del “fenomeno” genericamente inteso come “ciò che, apparendo, acquista senso d’essere ed è così reso accessibile ad una qualche esperienza”. 34 Roberto Formisano fenomenicità definisce il Wie, il “come”, cioè il modo d’apparire di ciò che si mostra 22. b) Trascendenza e ricettività Entro la prospettiva henryenne, la questione ontologica fondamentale è essenzialmente intesa come domanda relativa alla fenomenicità dell’essere, al modo del suo darsi. Posta cioè la differenza fra l’essere e l’ente, l’interrogativo-guida è: in che modo l’essere è esso stesso suscettibile d’apparire? Come scrive Henry a tal proposito: Si eviterebbero molti equivoci, se ci si rammentasse che il tema dell’ontologia fenomenologica non è affatto costituito dal contenuto determinato e in qualche modo materiale di una manifestazione qualsiasi, ma si occupa al contrario del “come” di questa manifestazione e di ogni manifestazione possibile in generale. Ciò che, in un fenomeno, fa di quest’ultimo esattamente qualcosa suscettibile d’apparire, a prescindere dal suo contenuto determinato – questo è, con tutta evidenza, ciò di cui si tratta. Ora, la condizione di possibilità di ogni manifestazione in generale non può diventare un “fenomeno”, se per esso si intende il contenuto particolare di una manifestazione particolare. Cosa può allora significare il progetto di una ontologia fenomenologica? Che cosa s’intende quando si dice che l’essere deve poter “diventare un fenomeno”? 23 Per poter tuttavia comprendere il carattere “fondamentale” che, alla luce di questa distinzione, Henry riconosce alla fenomenicità [phénoménalité] è necessario riferirsi sin d’ora ad una nozione che particolare rilievo assumerà nel corso delle analisi che seguono, vale a dire alla nozione di ricezione [réception]. All’interno della concezione henryenne dell’apparire, infatti, per potersi costituire come tale, al fenomeno non basta il semplice fatto di mostrarsi perché, propriamente, per potersi dare in qualità di “apparente”, è necessario che quest’ultimo sia appunto “ricevuto” nel suo darsi, cioè “riconosciuto”, “compreso”, “saputo” per 22 Se è da Heidegger che Henry ha ripreso la distinzione fra contenuto e atto dell’apparire, la definizione della fenomenicità intesa nel senso del “come” della donazione del fenomeno è ripresa da Husserl, cfr. E. HUSSERL, Zur Phänomenologie des inneren Zeitbewußtseins (1893-1917), ora in Husserliana, vol. X, a cura di R. Boehm, Den Haag, Nijhoff, 1966, p. 117 (trad. it. Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo, a cura di A. Marini, Milano, FrancoAngeli, 1981, p. 142). 23 EM, p. 50 (trad. it. cit., p. 72). Corsivi di Michel Henry. Introduzione 35 ciò che esso essenzialmente è. Preso in questo senso, la ricezione definisce il modo in cui il fenomeno realizza il proprio apparire (i.e. ottiene quel determinato “senso d’essere” che di volta in volta si conferisce al reale). Ebbene, ciò che in ultima istanza segna, motivandola, la differenza essenziale tra fenomeno (in senso objettivo) e fenomenicità all’interno della prospettiva di Michel Henry risiede precisamente nel modo in cui ciascuno dei due è ricevuto nel suo apparire: la fenomenicità è pertanto distinta dal fenomeno objettivo innanzitutto in ragione del fatto che il modo in cui essa realizza il proprio apparire è irriducibile alla mera apprensione tematica (ricezione d’objectum) che pur tuttavia il suo stesso mostrarsi rende possibile. Mostrare quale sia “in positivo” il senso della ricezione costitutiva della fenomenicità è appunto il compito della fenomenologia fondamentale, ovvero dell’ontologia fenomenologica universale, secondo la versione henryenne di questo concetto. La fenomenologia non soltanto ha il compito di chiarire quale sia la struttura fenomenologica del fondamento in quanto “apparire originario”; essa deve poter fornire risposte adeguate anche circa la realtà di quest’ultimo 24. Nella concezione henryenne della “realtà” dei fenomeni, «è il modo di comprendere il carattere concreto dell’essenza e, in ultima istanza, la sua assolutezza, ad esser in questione»25. Posto infatti che è sul fondo del proprio apparire che la fenomenicità rende possibile il mostrarsi del fenomeno objettivo e che la sua realtà (vale a dire il modo in cui essa è ricevuta) è irriducibile alla ricezione d’objectum ne viene che la possibilità per la fenomenicità di realizzare il proprio apparire non può che risiedere nella fenomenicità stessa, ossia nel suo stesso mostrarsi. La fenomenicità, non soltanto deve poter apparire, ma deve anche potersi ricevere in quanto tale. Il che vuol dire: nell’atto stesso del suo darsi essa deve potersi altresì ricevere e in tal modo fondare il proprio mostrarsi. In ciò, d’altronde, risiede la Selbständigkeit propria del fenomeno originario, ovvero la sua “autonomia” o “assolutezza” come Henry anche la chiama. Alla questione relativa alla “realtà” del fenomeno Henry si richiama al fine di portare allo scoperto il fatto che il concetto di fenomenicità 24 25 Cfr. EM, p. 64 (trad. it. cit., p. 83). EM, p. 72 (trad. it. cit., p. 89). 36 Roberto Formisano non è affatto univoco, bensì essenzialmente duplice, in quanto due sarebbero le fenomenicità possibili; due i “dominî”, gli ambiti relativi all’“essenza della manifestazione”. Di questi, però, uno soltanto definisce nella realtà l’apparire costitutivo del fenomeno originario. A quest’ultima fenomenicità, assoluta e “prima”, Henry dà il nome di immanenza, in opposizione alla tanto esaltata fenomenicità della trascendenza, la quale, agli occhi di Henry, appare piuttosto come una fenomenicità “derivata”, “seconda”. Se per un verso infatti, come giustamente Husserl e Heidegger hanno rilevato sebbene con motivazioni diverse, la trascendenza costituisce la condizione di possibilità per il fenomeno objettivo, per un altro verso è possibile mostrare come in realtà la trascendenza non sia affatto in grado di fondare da sé il suo stesso apparire. Ciò appunto è quanto Henry dimostra in L’essence de la manifestation, indicando la ragione di questa mancanza fondamentale della trascendenza nella sua costitutiva ed eidetica impossibilità di riceversi in quanto tale, nell’atto stesso del suo mostrarsi 26. Con la nozione di “trascendenza”, Henry intende quel tipo di fenomenicità essenzialmente «ricavata dalla percezione degli oggetti del mondo, ossia, in definitiva, l’apparire stesso del mondo»27. La trascendenza altro non è che la schiusura di quel puro ambito di esteriorità in cui e per mezzo del quale “ciò che appare” (in senso objettivo) è reso possibile nel suo mostrarsi in quanto reso visibile. Ora, secondo Henry, proprio la visibilità avrebbe costituito quel criterio di fondo, il presupposto alla luce del quale sin dalle sue origini storiche la fenomenologia contemporanea avrebbe interpretato l’essenza del fenomeno in generale. Identificata con l’essenza tout-court, la trascendenza avrebbe guidato nel suo sviluppo la “fenomenologia storica” la quale, nelle sue pur innumerevoli variazioni, avrebbe sempre interpretato il senso della fenomenicità fondamentale appunto come schiusura di un “fuori” originario, esteriorizzazione di “un puro ambito di esteriorità”, l’apertura di “un orizzonte di visibilità”. Tale, a giudizio di Henry, sarebbe infatti, ad esempio, il senso della fenomenicità celato dietro la nozione husserliana di intenzionalità. Come scrive infatti Henry: 26 Sul significato – o, meglio, sui diversi significati – che la nozione di trascendenza ha assunto nell’orizzonte fenomenologico, cfr. D. ROCCHI, Trascendenza, in Voci della fenomenologia, a cura di E. Ferrario et al., Roma, Lithos, 2007, pp. 643-668. 27 M. HENRY, Phénoménologie de la vie, t. I, cit., p. 60. Introduzione 37 Compresa come intenzionale, la coscienza non è altro che il movimento con cui essa si getta fuori […]. Rivelare, in una simile esteriorizzazione, in questa distanziazione, è un far vedere. La possibilità della visione consiste in questa messa a distanza di ciò che è posto davanti allo sguardo ed è così visto da questo. Ma questa è la definizione dell’oggetto: ciò che, posto innanzi, è in questo modo reso visibile. L’apparire è qui l’apparire dell’oggetto, in un duplice senso: nel senso che ciò che appare è l’oggetto, ma anche nel senso che, essendo l’oggetto ciò che appare, il modo d’apparire qui in questione è esattamente il modo d’apparire che rende l’oggetto visibile: questa messa a distanza da cui sorge la visibilità di tutto ciò che è per noi suscettibile di diventare visibile 28. Che la possibilità del rapportamento intenzionale riposi sulla schiusura del fenomeno del mondo è quanto Heidegger, criticando e cercando di superare le unilateralità della fenomenologia husserliana, ha mostrato in Sein und Zeit. L’apparire del mondo e la schiusura del puro ambito di esteriorità sono concepiti da Heidegger nel senso della temporizzazione della temporalità [die Zeitigung der Zeitlichkeit], secondo il triplice (ma unitario) movimento ek-statico degli schemi temporali dell’avvenire, del passato e del presente 29: «Il mondo – scrive in tal senso Heidegger – […] si temporizza nella temporalità. Esso “ci” “è” col fuori-di-sé delle estasi»30. La temporalità struttura l’apparire del mondo costituendolo alla maniera dell’In-der-Welt-sein, ovvero come Dasein, la cui struttura ontologica è appunto indicata come “trascendenza”: «Sich vorweg – schon sein in einer Welt – als Sein bei innerweltlichem Seiendem»31. Questo duplice riferimento alla “fenomenologia storica” di Husserl e Heidegger è particolarmente significativo per comprendere – in un primo senso almeno – la “portata” della concezione henryenne della fenomenicità. All’interno della koiné fenomenologica contemporanea, in28 Ivi, p. 61. Su questo punto cfr. anche ID., Incarnation, cit., pp. 51-52. In questo passaggio, Henry fa implicitamente riferimento alla nozione di “distanza fenomenologica”, la cui enucleazione concettuale è in L’essence de la manifestation. Per l’analisi di questa nozione si rinvia a infra, Sez. II, Cap. I, § 14. 29 Cfr. SZ, p. 329 (trad. it. a cura di F. Volpi, cit., p. 390; trad. it. a cura di A. Marini, cit., p. 925). 30 SZ, p. 365 (trad. it. a cura di F. Volpi, cit., p. 431; trad. it. a cura di A. Marini, cit., p. 1027). 31 Cfr. SZ, p. 202 (trad. it. a cura di F. Volpi, cit., p. 246; trad. it. a cura di A. Marini, cit., p. 577). In corsivo nel testo. 38 Roberto Formisano fatti, la distinzione posta da Henry in seno al concetto di “fenomenicità” [phénoménalité] è tutt’altro che pacifica. Essa, anzi, è esplicitamente rivendicata da Henry come un elemento di originalità e un’acquisizione propria della sola fenomenologia della vita. E, prosegue Henry, non solo né Husserl né Heidegger sarebbero stati in grado d’avvedersi di tale distinzione, ma neppure il pensiero filosofico in generale. La “fenomenologia storica” avrebbe in questo senso condiviso con il pensiero tradizionale, un esiziale pregiudizio. Un pregiudizio che avrebbe addirittura dominato, orientandolo nel suo sviluppo storico, tutto il pensiero filosofico occidentale dalle sue origini greche sino ad oggi, vale a dire la riduzione della fenomenicità originaria al senso della sola “trascendenza”. Sì che, a giudizio di Henry, il pensiero occidentale (ridotto ad un’unica tradizione di pensiero, indicata con il nome di “monismo ontologico”) non si sarebbe limitata soltanto ad “obliare” il senso della distinzione, ma avrebbe addirittura operato in maniera tale per cui, confondendo i piani, avrebbe di fatto prodotto una falsificazione in seno al modo in cui sino ad oggi è stata posta la questione relativa all’“origine” dell’essere, ossia il problema inerente alla determinazione della struttura fenomenologica di quest’ultimo. Si comprende così perché in L’essence de la manifestation l’elaborazione dei concetti-chiave della fenomenologia della vita, nonché il processo di legittimazione e fondazione per quest’ultima assumano innanzitutto la forma di una “distruzione fenomenologica” del presupposto ontologico fondamentale del monismo, vale a dire la dimostrazione delle inconguenze intrinseche alla tesi circa l’originarietà della trascendenza. La “”distruzione” del monismo ontologico” costituisce la premessa, non soltanto metodologica ma teoretica, alla luce della quale pervenire alla chiarificazione in positivo di concetti fondamentali come appunto quello di “immanenza”, e poi di “invisibilità” e di “affettività”. Tale critica consta essenzialmente di due momenti: innanzitutto, della preliminare chiarificazione del concetto “monista” di trascendenza e della sua enucleazione in chiave fenomenologica; in secondo luogo, conseguentemente, il “collaudo” 32 della trascendenza, ovvero la verifica 32 L’espressione è qui ripresa nel senso indicato da Martin Heidegger in K (trad. it. cit., p. 12). Introduzione 39 circa l’effettiva validità e coerenza di questo concetto con i requisiti propri di una “fenomenicità originaria”. Appare chiaro, in tal senso, il ruolo centrale che il tema della trascendenza ricopre all’interno del percorso teoretico-argomentativo da Henry posto a fondamento della sua “idea” della fenomenologia. La problematica della trascendenza rappresenta il momento più delicato e decisivo della fondazione henryenne della fenomenologia della vita. Di questo momento il presente studio intende fornire un’analisi approfondita, al fine di pervenire ad un’interpretazione il più possibile fedele all’“idea” stessa della fenomenologia henryenne. Ripercorrendo le tappe più significative del percorso argomentativo che intesse la mole di L’essence de la manifestation, l’obiettivo è di pervenire “dall’interno” della prospettiva filosofica henryenne alla comprensione delle motivazioni teoretiche essenziali poste a sostegno della sua “idea” di fenomenologia. Per questo metodo d’analisi, particolare rilievo assume allora, soprattutto, il confronto con quelle che è possibile considerare le “fonti teoretiche” del pensiero di Michel Henry. In L’essence de la manifestation, infatti, Henry procede eleggendo di volta in volta un proprio “referente critico”, una sorta di paradigma a partire dal quale, assumendone la prospettiva, egli perviene ad un primo inquadramento del problema che si accinge ad affrontare. Sviluppando, poi, la tematica all’interno di questa prospettiva, aderendo cioè ai principî del paradigma prescelto, Henry conduce la problematica sino al suo momento “aporetico”, sì che rovesciando la prospettiva iniziale egli perviene alla determinazione del suo modo tutt’affatto personale di intendere ed impostare la questione in esame. Data la particolarità di questo procedimento, proprio l’esplicitazione del confronto diretto della posizione di Henry con le sue “fonti teoretiche” fornisce la chiave per entrare all’interno di questo particolarissimo, stratificato e complesso, percorso argomentativo fondamentale. 3. Piano della ricerca Nell’orizzonte della questione fondamentale relativa alla filosofia prima, la fenomenologia di Michel Henry si distingue innanzitutto, ancor prima che per i risultati a cui conduce, per il modo in cui essa ha saputo ritagliarsi, attraverso un serrato confronto con la filosofia moderna e contemporanea, uno spazio autonomo su cui porre le basi per l’edificazione e lo sviluppo della propria “idea” di fenomenologia originaria. 40 Roberto Formisano Ricostruire questo percorso teoretico, mettendone in luce i passaggichiave e ripercorrendo i diversi momenti dell’edificazione di quest’“idea” e dei suoi concetti fondamentali, è lo scopo principale del presente studio, la cui articolazione interna è pertanto scandita secondo una linea di sviluppo il cui filo conduttore è dato dalla struttura argomentativa di L’essence de la manifestation. La prima sezione è prevalentemente incentrata sulla discussione relativa alle diverse concezioni dell’“idea” della filosofia prima – e dunque della fenomenologia - in Husserl e in Heidegger. Il confronto delle principali tesi elaborate dai padri della fenomenologia contemporanea persegue uno scopo, in realtà duplice: in primo luogo, ricostruire la cornice concettuale entro cui Michel Henry ha di fatto inquadrato le filosofie di Husserl e Heidegger in vista della critica ai rispettivi progetti di fondazione dell’ontologia; in secondo luogo, mettere in luce il decisivo rilievo della connessione essenziale sussistente tra le nozioni di “fenomeno”, “fenomenologia” e “trascendenza”. Attraverso l’analisi delle critiche che Henry rivolge alle filosofie di Husserl e Heidegger è infatti possibile mostrare in che modo l’interpretazione di questo nesso determini di volta in volta la possibilità ed il senso di ciascun progetto fenomenologico di fondazione. Alla “liberazione” dell’“idea” henryenne della fenomenologia dai presupposti di Husserl e Heidegger è dedicata la seconda sezione. In questo contesto è affrontata l’analisi henryenne del cosiddetto “monismo ontologico”. Su questo sfondo si staglia principalmente il confronto di Henry con le filosofie di Fichte e di Heidegger. La ricostruzione dell’analisi henryenne delle tesi fondamentali del monismo ontologico e dei suoi presupposti serve a mostrare in che modo Henry sia effettivamente giunto a costituire per sé il contesto teorico (e teoretico) per la decisiva dimostrazione fenomenologica del carattere non-originario della trascendenza. A partire dallo scoprimento del primato fenomenologico dell’immanenza, nella terza e ultima sezione sono infine ricavate e descritte le caratteristiche essenziali della “fenomenicità originaria” secondo la prospettiva di Michel Henry. Il principale riferimento teoretico in positivo per questa parte è Meister Eckhart. Muovendo dall’analisi delle caratteristiche eidetiche dell’immanenza e delle sue implicazioni metodologiche, sono dunque introdotte e discusse le nozioni fenomenologiche di “affettività”, “passività” e “invisibilità”. SEZIONE PRIMA FENOMENOLOGIA E FILOSOFIA PRIMA. MICHEL HENRY INTERPRETE CRITICO DI HUSSERL E HEIDEGGER In L’essence de la manifestation Michel Henry ha di fatto elaborato i prolegomeni alla sua “fenomenologia della vita”. In quest’opera è delineato il percorso teoretico attraverso il quale l’Autore stesso, nel tentativo di improntare un confronto critico con la sua epoca e le radici teoretiche di quest’ultima, è pervenuto ad un chiarimento a sé del significato fondamentale delle sue ricerche. Nel contesto di siffatto percorso – e dell’orizzonte problematico a cui esso apre – il confronto con la “fenomenologia storica” di Husserl e Heidegger è da Henry introdotto in ordine ad un duplice scopo. Da un lato esso serve a chiarire, per via indiretta, entro quale dibattito critico la sua ricerca sull’“essenza della manifestazione” intende, evidentemente, collocarsi. Preso in tal senso, esso funge da “dichiarazione d’appartenenza”: la sua proposta filosofica si inserisce in quell’ambito della riflessione fenomenologica che nella ricerca di una possibile “via” per la fondazione della filosofia prima trova il suo principale punto di riferimento. Tale “appartenenza”, però, non sembra potersi risolvere in un mero rapporto di “filiazione” con la filosofia di un qualche “maestro” 1. 1 A confermare peraltro quest’ipotesi è lo stesso Henry allorché, in Phénoménologie matérielle, cit., p. 6 (trad. it. cit., pp. 61-62), egli scrive: «Il rinnovamento della fenomenologia non è oggi possibile che a una condizione – a condizione, cioè, che la questione che la determini interamente, e che sia la sua ragion d’essere, sia essa stessa rinnovata. Non ampliata, corretta, emendata, e neppure abbandonata per un’altra, ma radicalizzata in maniera tale che ciò da cui tutto dipende si trovi ad esser rovesciato e, per conseguenza, tutto sia in effetti cambiato». Ed aggiunge, poi: «La questione della fenomenologia […] non riguarda più i fenomeni ma il modo della loro donazione, la loro fenomenicità – non ciò che appare, ma l’apparire. L’aver scorto quest’ultimo e l’averlo analizzato in se stesso è l’inestimabile contributo della fenomenologia storica, il suo tema. Ma occorrerebbe ancora che questo suo tema non 42 Roberto Formisano Non si tratta, cioè, semplicisticamente, di un richiamo alla fenomenologia di Husserl, piuttosto che di Heidegger ecc. La fenomenologia a cui Henry rinvia non è affatto né una “scuola di pensiero”, né tanto meno qualcosa come una “dottrina” a cui poter esprimere la propria adesione o meno. Presa nel suo significato husserliano, la fenomenologia esprime piuttosto un’idea, ovvero un progetto sempre in fieri orientato ad uno scopo, un terminus ad quem verso cui indirizzare la ricerca ed in vista del quale stabilirne l’impostazione iniziale. Così intesa come “idea”, la fenomenologia determina innanzitutto qualcosa da costruirsi coerentemente al suo stesso concetto 2. In L’essence de la manifestation, tale “idea” segue una direttrice precisa: la fondazione di una fenomenologia prima in quanto fenomenologia dell’ego assoluto. Il punto di vista a partire dal quale Henry imposta il proprio confronto con le filosofie di Husserl e Heidegger si concentra infatti, innanzitutto, sul possibile senso che, in linea di principio, in aderenza al suo proprio “concetto”, la riflessione fenomenologica deve poter riconoscere e assegnare al fenomeno dell’ego. Sì che è sulla base di questo riferimento che, in prima istanza, è definita e posta la cornice teoretica del confronto di Henry con le elaborazioni husserliana e heideggeriana della fenomenologia in quanto “filosofia fondamentale” 3. Se, da un lato, il progetto husserliano persegue in funzione dell’apoditticità dell’ego la ricerca della “sicura” via d’accesso [methodos] per la fondazione della filosofia prima, dall’altro, come contraltare, si pone il riconoscimento heideggeriano della Daseinsanalyse quale analitica propedeutica per ogni possibile Fundamentalontologie. Nella ricostruzione del passaggio che, storicamente, ha condotto la fenomenologia contemporanea dalla prima impostazione husserliana alla sua Umkehrung in chiave ontologica per mano di Heidegger, ciò su cui in particolare Henry sofferma la propria attenzione riguarda principalmente le ragioni teoretiche in base alle quali Heidegger avrebbe motivato la propria critica alla concezione soggettivistico-trascendentale husserliana della “fenomenologia prima”. fosse la semplice ripresa della problematica filosofica tradizionale, della coscienza classica o dell’aletheia greca». 2 Sul carattere intrinsecamente “ideale” della fenomenologia, cfr. le considerazioni di M. HENRY, Fenomenologia della vita, cit., pp. 219-231. 3 Cfr. EM, pp. 1-3 (trad. it. cit., pp. 31-33). Fenomenologia e filosofia prima 43 Nel testo del 1963, Henry riprende e ripete queste argomentazioni critiche con l’esplicito scopo di “interiorizzarle” e farle proprie. In sostanza, egli mostra di accettare e condividere le obiezioni mosse da Heidegger, salvo però poi prendere altrettanto esplicitamente le distanze rispetto al tipo di soluzione che questi propone. In breve, per Henry, se è vero, come Heidegger sostiene, che il solo criterio dell’apoditticità dell’ego (in ragione del suo presupposto “trascendentalistico” rappresentato dal concetto husserliano di intenzionalità) non può esser considerato sufficiententemente valido per poter “entrare” pienamente ed a fondo nel problema relativo alla struttura della coscienza, ciò nondimeno questo non vuol dire che la struttura a cui il fenomeno dell’ego deve poter essere riconducibile sia necessariamente quella da Heidegger rinvenuta per mezzo dell’analitica dell’In-der-Welt-sein. Sulla base di questa discordanza di posizione, Henry apre dunque la questione relativa alla determinazione della fenomenicità inerente al fenomeno dell’ego, in aperto contrasto sia con lo Husserl delle Cartesianische Meditationen sia con lo Heidegger di Sein und Zeit. Riattraversando i motivi che, in Heidegger, avrebbero condotto alla sua radicalizzazione in chiave ontologica della fenomenologia, le analisi di questa prima sezione saranno finalizzate a portare in primo piano alcuni dei rilievi teoretici che diventeranno centrali nello svolgimento ulteriore della problematica di L’essence de la manifestation, come ad esempio il carattere ambiguo del concetto heideggeriano di “trascendenza” e della sua interpretazione della Gleichursprünglichkeit di essere e comprensione d’essere in seno alla manifestatività originaria. Capitolo I L’“idea” della fenomenologia in Husserl e la “svolta soggettivo-trascendentale” 4. Husserl e l’“inizio cartesiano” Come Husserl medesimo ebbe a riconoscere, fu sotto la spinta di motivazioni gnoseologiche che, “nella lotta contro lo psicologismo logico e gnoseologico”, egli giunse alla sua personale e prima formulazione dell’“idea” della fenomenologia trascendentale in quanto “scienza eidetica descrittiva della coscienza” 1. Certamente, tra tali motivazioni gnoseologiche, un rilievo centrale è costituito da ciò che Husserl soleva indicare come la “questione della trascendenza”, intendendo per essa il problema relativo alla conoscibilità (e, più radicalmente ancora, alla possibilità stessa di costituzione) di tutti quegli oggetti – sensibili, intelligibili, “metafisici”, religiosi ecc. – apparentemente sussistenti “al di là” della coscienza e indipendentemente da questa. Su quali condizioni si fonda la possibilità per questi oggetti, essenti trascendenti, di costituirsi (agli occhi della coscienza naturale, almeno) come autonomamente sussistenti? Che cosa rende possibile la costituzione di un oggetto trascendente? Come sempre più chiaramente Husserl ebbe a indicare, soprattutto a partire dalla pubblicazione delle Ideen del 1913, la risoluzione fenomenologica della “questione della trascendenza” va ricercata, conformemente al metodo della riduzione fenomenologica, nella cosiddetta “svolta soggettivo-trascendentale”, consistente essenzialmente nel rico1 Cfr. E. HUSSERL, Phänomenologie und Psychologie (1917), ora in Husserliana, vol. XXV: Aufsätze und Vorträge (1911-1921), a cura di T. Nenon e H.R. Sepp, Den Haag, Nijhoff, 1986, pp. 82-124, in part. pp. 123-124. 46 Roberto Formisano noscimento della coscienza pura quale struttura fondamentale per la costituzione di qualsivoglia trascendenza possibile in generale. L’interpretazione dell’essenza della trascendenza nel senso della coscienza pura ha i suoi prodromi, come d’altra parte in più occasioni lo stesso Husserl non ha mai omesso di riconoscere esplicitamente 2, nella filosofia di Descartes. Quest’ultimo fu il “genio” che, all’alba dell’età moderna, intuì ed aprì storicamente alla “svolta soggettivo-trascendentale”, per mezzo della determinazione dell’ego cogito come criterio a partire dal quale impostare il problema della fondazione della filosofia prima 3. Come è infatti possibile leggere nell’Antrittsrede del 1917: Il problema della conoscenza, inteso nel senso […] del problema della trascendenza, […] emerge come problema serio e che determina l’intero sviluppo successivo della filosofia solo con la filosofia moderna, inaugurata dalle Meditationes di Descartes. Lo stesso Descartes è già prossimo a giungere alla formulazione radicale del problema. Anzi isolando il campo delle pure cogita- 2 Al punto da non disdegnare neppure la definizione della sua “idea” di fenomenologia trascendentale come “nuovo cartesianesimo”, cfr. CM, p. 43 (trad. it. E. HUSSERL, Meditazioni cartesiane, a cura di F. Costa, con un saggio introduttivo di R. Cristin, Milano, Bompiani, 1996, p. 37). Peraltro, già in un corso del 1923, per l’appunto dedicato al problema della fondazione della filosofia prima, Husserl aveva affermato senza alcuna retorica: «I germi della filosofia trascendentale li troviamo, storicamente, in Descartes. Il ricordo delle sue meditazioni deve essere d’aiuto nel tentativo di trovare un corretto primo inizio» (ID., Erste Philosophie (1923-24). Zweiter Teil: Theorie der Phänomenologischen Reduktion, ora in Husserliana, vol. VIII, a cura di R. Boehm, Den Haag, Nijhoff, 1965, p. 4; trad. it. Filosofia prima. Teoria della riduzione fenomenologica, a cura di V. Costa, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2007, p. 6). 3 Il proprium del methodos cartesiano risiede nell’inquadramento della questione della filosofia prima nei termini, per l’appunto, d’una possibile fondazione [Begründung]. Descartes intese la questione nel senso di una “riconversione” della filosofia in una scienza universale e assoluta, sul modello delle scienze matematiche. La fondazione della filosofia doveva poter consistere nella possibilità di individuazione e “fissazione” di un criterio “certo” e “indubitabile”, a partire dal quale poter sottoporre a vaglio critico la conoscenza ed il sapere stesso in quanto tale. Nelle Meditationes de prima philosophia, Descartes indicò tale criterio nell’argomento del “cogito sum”. L’apoditticità, cioè l’indubitabile certezza, del cogito doveva costituire la chiave di volta per la rifondazione non soltanto della filosofia, bensì della scienza come tale e di tutto il sistema a priori delle scienze sino ad allora note. L’“idea” della fenomenologia in Husserl 47 tiones ha già predisposto la condizione essenziale per la sua trattazione scientifica 4. Agli occhi di Husserl, il grande merito di Descartes fu l’aver ricondotto la questione della fondazione al problema della costituzione d’essere della coscienza. Certo, l’idea cartesiana di filosofia prima non fu esente da errori, talora anche grossolani 5; eppure, nonostante ciò, al di là dei limiti “storici” imputabili al suo pensiero, nell’impostazione data da Descartes alla questione della fondazione filosofica alberga (sebbene ancora in nuce) un’intuizione decisiva, se è vero che: Il pregio del genio filosofico consiste in questo: anche nelle sue teorie errate e nei suoi ragionamenti ingenui che sembrano perdersi addirittura in banalità, è contenuta una verità più elevata, nascosta eppure percepibile; una verità in statu nascendi, ancora lontana da un’elaborazione e da una fondazione corrette, e che tuttavia, come piena di presentimenti, rinvia al futuro 6. L’intuizione di fondo del cartesianesimo – quella, per esser precisi, contenuta essenzialmente nelle prime due delle Meditationes de prima philosophia – rappresenta per la fenomenologia trascendentale husserliana una verità che attende ancora oggi, a distanza di secoli, d’esser propriamente compresa. Si tratta pertanto di un’intuizione da scoprire, “liberare” dai fraintendimenti che ne hanno impedito il legittimo sviluppo e, sulla base di ciò, da riprendere, chiarire ed elaborare ulteriormente nel suo contenuto essenziale – questo è per l’appunto ciò che la fenomenologia trascendentale husserliana ha riconosciuto essere l’autentica eredità della filosofia cartesiana. A un tempo dunque, secondo Husserl, Descartes capì e fraintese il senso autentico della “svolta soggettivo-trascendentale”. Egli, ad esempio, capì perfettamente la necessità, per la filosofia, di emanciparsi dalla maniera “naturale” di intendere il senso della “realtà” delle cose, e rispose così scientemente all’esigenza metodologica, essenziale per il pensiero filosofico, di “liberare” lo sguardo dai condizionamenti e dai 4 Cfr. E. HUSSERL, Phänomenologie und Erkenntnistheorie, ora in Husserliana, vol. cit., p. 138 (trad. it. Fenomenologia e teoria della conoscenza, a cura di P. Volonté, Milano, Bompiani, 2000, pp. 95-96). 5 Cfr. ivi, p. 138 (trad. it. cit., p. 96). 6 E. HUSSERL, Erste Philosophie, cit., p. 4 (trad. it. cit., p. 6). XXV, 48 Roberto Formisano fraintendimenti dei saperi già precostituiti, così come di ogni tradizione di pensiero in genere. Entro questa situazione, da lui dischiusa attraverso il methodos del “dubbio iperbolico”, egli comprese altresì, o almeno intravide, il senso proprio della fondazione in quanto “trasposizione”, sul piano del metodo, del modo di strutturazione della vita intenzionale della coscienza. In ciò, Descartes avrebbe rappresentato davvero un “fenomenologo ante litteram”. Ma nonostante ciò, sempre a giudizio di Husserl, Descartes non seppe essere altrettanto radicale per quel che concerne l’effettiva messa in atto delle implicazioni teoretiche e metodologiche legate alla sua rivoluzionaria scoperta. In qualche modo, la filosofia di questo genio della modernità fu ancora dominata dai pregiudizi dell’atteggiamento naturale, come testimonia, ad esempio la concezione dell’ego cogito nel senso della mens, sive animus sive intellectus 7. Alla base di questo auto-fraintendimento, Husserl individua la “naturalità” d’un atteggiamento che, seppur fondato soggettivamente, non ha tuttavia mai davvero rinunciato a riconoscere al fenomeno del mondo una certa qual propria “autonomia d’essere”, nel senso della sostanzialità. In ciò, giustamente, Husserl riconosce la presenza d’un residuo obiettivismo in Descartes. La “sostanzializzazione” del mondo, da cui deriverebbe la tesi della separazione fra res cogitans e res extensa, avrebbe introdotto, agli occhi di Husserl, una modificazione essenziale ed un’alterazione decisiva in seno al concetto stesso di soggettività trascendentale. Ciò sarebbe peraltro testimoniato dall’uso cartesiano dell’argomento del cogito, trattato alla stregua d’un assioma geometrico 8: un contenuto conoscitivo oggettivo, da cui ricavare per viam deductionis tutte le altre verità scientifiche in connessione con l’intero sistema a priori delle scienze. Se, dunque, con il dubbio iperbolico Descartes ha di fatto dato avvio ad un tipo di filosofia completamente nuova – una filosofia che, affrancata dal realismo ingenuo, ha cercato la propria fondazione nella sfera del cogito –, questa tuttavia, nella sua fretta 7 A conforto di tali considerazioni, cfr. anche quanto sostenuto in E. HUSSERL, Die Krisis der europäischen Wissenschaften und die transzendentale Phänomenologie: eine Einleitung in die phänomenologische Philosophie, ora in Husserliana, vol. VI, a cura di W. Biemel, Den Haag, Nijhoff, 1954, pp. 82-83 (trad. it. La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale. Introduzione alla filosofia fenomenologica, a cura di E. Filippini, Milano, Il Saggiatore, 1961, p. 108). 8 Cfr. CM, pp. 48-49 (trad. it. cit., pp. 43-44). L’“idea” della fenomenologia in Husserl 49 di fondare le scienze, non avrebbe saputo in ogni caso affrontare sino in fondo il compito di un’interrogazione sistematica della sfera delle pure cogitationes. In breve, dopo aver intravisto il carattere fondamentale della “svolta soggettivo-trascendentale”, Descartes non sarebbe stato in grado di coglierne il senso autentico, cosicché il suo tentativo di fondazione della scienza ha costituito per essa un sostanziale “tradimento”. Ciò detto, tuttavia, secondo la prospettiva della fenomenologia trascendentale husserliana, in cosa dovrà allora consistere positivamente il senso della “svolta soggettivo-trascendentale” e del methodos che questa rende possibile? Per Husserl – e in particolare per lo Husserl delle Cartesianische Meditationen – la grande intuizione di Descartes riguarderebbe essenzialmente la determinazione del senso d’essere dell’ego cogito, alla luce del suo costitutivo carattere di evidenza apodittica 9. Per comprendere la centralità di questa intuizione e la sua effettiva portata è necessario tornare nuovamente alla situazione dischiusa dal dubbio iperbolico e (ri)considerare dapprincipio il problema concernente la legittimazione della Entscheidung cartesiana 10. A giudizio di Husserl, infatti, prima ancora che il cogito è l’evidenza, cioè il criterio in base al quale il cogito acquista centralità, a dover essere posto in questione. - Da dove, allora, il criterio dell’evidenza trae la legittimità che il methodos cartesiano rivendica per essa? La tesi di Husserl, è che il criterio dell’apoditticità, tutt’altro che arbitrariamente scelto, riceve la propria motivazione ultima direttamente dalla struttura stessa della vita intenzionale della coscienza: «L’evidenza – scrive in tal senso Husserl – indica un essenziale aspetto fondamentale del vivere intenzionale in generale» 11. In Husserl, dunque, la legittimazione del methodos cartesiano matura attraverso la sistematica problematizzazione del fenomeno dell’evidenza [Einsicht]. Come Husserl stesso sottolinea, tuttavia, «l’evidenza, nel senso più ampio, è altresì un correlato»12. In quanto correlato, l’evi9 Cfr. CM, p. 7 (trad. it. cit., p. 7); ma anche E. HUSSERL, Die Krisis…, cit., pp. 78-79 (trad. it. cit., p. 105). 10 Cfr. CM, pp. 48-49 (trad. it. cit., p. 43). Su quest’aspetto, cfr. anche D. FRANCK, Chair et corps. Sur la phénoménologie de Husserl, Paris, Les Éditions de Minuit, 1981, in part. pp. 17-19. 11 CM, p. 93 (trad. it. cit., p. 84). Corsivi di Husserl. 12 Ibid. (trad. it. cit., p. 85). 50 Roberto Formisano denza individua una particolare tipologia di intuizione [Anschauung]. In Ideen I essa è definita come intuizione eidetica originalmente offerente a carattere razionale. La comprensione della tesi husserliana concernente il carattere fondamentale dell’evidenza apodittica rinvia essenzialmente alla sua concezione del fenomeno [Phänomen], ed in particolare al ruolo che, all’interno di essa, svolge la nozione di intuizione [Anschauung]. Traduzione del greco phaìnomenon [lett.: il “mostrantesi”], la nozione di fenomeno è indicata da Husserl con il termine tedesco di Erscheinung 13. In quanto Erscheinung, il fenomeno definisce “ciò che si mostra”, primariamente in considerazione del modo in cui questo, nel suo stesso mostrarsi, si costituisce in quanto tale. Fenomenologicamente intesa, la nozione di fenomeno afferma che, nel mostrarsi, “ciò che si offre allo sguardo della coscienza” determina non soltanto il contenuto manifesto di ciò che si mostra nella visione, bensì già sempre anche il “come” [Wie] del mostrarsi stesso. In altri termini, nel mostrarsi come tale, in generale, ad esser dato non è soltanto l’“oggetto” della visione, bensì sempre anche le condizioni stesse di questa visione, vale a dire il modo, l’oggetto considerato nel “come” [Wie] del suo apparire 14. Nel fenomeno, è la modalità stessa attraverso cui qualcosa come un “oggetto” in generale è dato rendersi accessibile, in quanto esso stesso mostrantesi [Erscheinung]. Nella VI delle Logische Untersuchungen, Husserl aveva inizialmente indicato la modalità di afferramento di que13 Nell’ambito delle riflessioni del presente capitolo, il corrispettivo italiano del termine tedesco Erscheinung sarà indicato con il participio presente del verbo “mostrarsi”, piuttosto che con “manifestazione”, al fine di mantenere intatta, nell’economia del nostro discorso relativo ad Husserl, la costitutiva ambiguità di questo termine che, a un tempo, può indicare sia l’atto del mostrarsi come tale sia l’oggetto di tale atto (ciò, conformemente a quanto indicato da Husserl medesimo in E. HUSSERL, Die Idee der Phänomenologie. Fünf Vorlesungen, ora in Husserliana, vol. II, a cura di W. Biemel, Den Haag, Nijhoff, 1958, p. 14, trad. it. L’idea della fenomenologia. Cinque lezioni, a cura di E. Franzini, Milano, Bruno Mondadori, 1995, p. 53). Ma in realtà questa scelta risponde ad un’esigenza duplice: se per un verso essa intende assecondare l’ambiguità di senso della nozione, da Husserl stesso riconosciuta, per un altro verso vi è altresì lo scopo di preservare la connotazione ulteriore che questo termine ed il suo corrispettivo italiano di “manifestazione” assumeranno nel contesto della riflessione heideggeriana (la “manifestazione” in quanto modo d’apparire dell’ente ed in quanto risvolto della differenziazione interna alla “manifestatività” dell’essere: cfr. infra, Sez. I, Cap. III). 14 Cfr. E. HUSSERL, Die Krisis…, cit., pp. 147 ss (trad. it. cit., pp. 172 ss). L’“idea” della fenomenologia in Husserl 51 sto “ulteriore” (rispetto al suo lato meramente oggettivo) risvolto del fenomeno con il nome di “intuizione categoriale”. Con questa nozione, ciò che Husserl intendeva affermare, tra l’altro, è che: il darsi di ciò che rende accessibile il mostrantesi in quanto oggetto di visione (cioè, in breve, il categoriale) si dà esso stesso, e con ciò si rende accessibile, per mezzo di ed in quanto intuizione [Anschauung]. In seguito, come è noto, Husserl abbandonò l’uso di quest’espressione, ma la sua concezione del fenomeno, così come dell’intuizione, si può dire che rimase pressoché invariata nella sostanza 15. Soprattutto, l’esigenza di salvaguardare 15 Quest’indicazione, peraltro largamente diffusa nell’orizzonte della fenomenologia francese contemporanea, la si ritroverà presente anche in Michel Henry, al fondo della sua critica all’intuizionismo husserliano (cfr. infra, Sez. I, Cap. II). Sebbene in L’essence de la manifestation Henry abbia per lo più tralasciato di indicare esplicitamente le proprie fonti critiche, l’origine comune per quest’inquadramento di fondo ampiamente condivisa con il fenomenologi della sua generazione, rinvia al famoso saggio di E. LEVINAS, La théorie de l’intuition dans la phénoménologie de Husserl, Paris, Alcan, 1930 (trad. it. La teoria dell’intuizione nella fenomenologia di Husserl, a cura di S. Petrosino, Milano, Yaca Book, 2002). Il riferimento a questo saggio è significativo per la comprensione delle intenzioni legate al modo in cui, nell’introduzione a L’essence de la manifestation, Michel Henry “usa” le argomentazioni husserliane per delineare le coordinate teoretiche generali entro cui egli inscrive la propria concezione della fenomenicità. Il saggio di Levinas, pubblicato appena tre anni dopo l’uscita di Sein und Zeit, giocò un ruolo fondamentale per la ricezione della fenomenologia e la formazione, tra gli anni Trenta e Sessanta, di intere generazioni di fenomenologi in Francia; ragion per cui, richiamarsi ad esso doveva significare, per il giovane Henry, richiamarsi ad una comune, diffusa e per certi versi dominante maniera di intendere, in quegli anni, la questione del fenomeno e della coscienza in generale. In questo testo (non senza alcune difficoltà interpretative: a tal riguardo cfr. il volume collettaneo Positivité et transcendance. Suivi de Levinas et la phénoménologie, a cura di J.-L. Marion, Paris, PUF, 2000, in cui si segnalano gli interventi di J.-F. Lavigne, R. Bernet, J. Greisch), Levinas tentò, a partire dal concetto di Anschauung, una ricostruzione organica del pensiero di Husserl; ed è appunto a questo inquadramento che Henry, fa riferimento nell’ambito della sua pur breve ricostruzione dell’impostazione della filosofia della soggettività. Non si dimentichi che L’essence de la manifestation nasce come thèse redatta in vista di una sua discussione; il “pubblico” in rapporto al quale quest’opera è stata pensata appartiene primariamente all’ambiente accademico della Francia di quegli anni, ossia studiosi di fenomenologia con i quali Henry condivide un orizzonte comune di riferimenti critici. Per un inquadramento del “paesaggio della fenomenologia” in Francia dagli anni Trenta ai Sessanta (sino anche ai giorni nostri) si segnalano, come ancora utili strumenti introduttivi, oltre all’ormai classico H. SPIEGELBERG, The Phenomenological Movement, Den Haag, Nijhoff, 1982, anche B. WALDENFELDS, Phänomenologie in Frankreich, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1987; S. ZECCHI, La fenomenologia dopo Husserl nella cultura europea, vol I: Sviluppi critici della fenomenologia, Firenze, La Nuova Italia, 1978; ed infine i più recenti contributi di J. GREISCH, Les yeux de Husserl en 52 Roberto Formisano la fenomenologia da possibili fraintendimenti naturalistici o psicologistici convinse Husserl della necessità di condurre la fenomenologia entro percorsi tematici nuovi; e fu appunto all’interno di questo contesto di rideterminazione della questione del fenomeno che, a partire dalla pubblicazione delle Ideen del 1913, prese piede la nozione di “intuizione eidetica” [Wesensanschauung], sì che fu proprio nel contesto analitico dischiuso da questa che la nozione di evidenza fu associata al senso della “svolta” rappresentata dal methodos cartesiano. 5. Concetti husserliani: “intuizione eidetica” ed “epoché” In Ideen I, la questione relativa alla possibile intuizione della struttura del fenomeno è ripresa e sviluppata da Husserl in primo luogo attraverso la tematizzazione della distinzione fra le “intuizioni eidetiche” e le “intuizioni empiriche”, ovvero fra le “intuizioni di essenze” [Wesensanschauungen] e le “intuizioni di dati di fatto”. L’“intuizione eidetica” è introdotta ad indicare quella specifica modalità d’accesso al fenomeno, in grado di esibire in maniera diretta l’insieme delle condizioni di possibilità sotto cui in generale qualcosa come un “oggetto” (correlato degli atti intenzionali della coscienza) può infine giungere a costituirsi come tale: «Il vedere eidetico – scrive Husserl in tal senso – è […] un vedere in senso pregnante[;] non mera e forse vaga presentificazione [ma] intuizione […], capace di afferrare l’essenza nella sua presenza in carne e ossa»16. Tale intuizione, che non semplicemente si rappresenta l’essenza ma coglie e presentifica quest’ultima presentandola “in prima persona”, si differenzia inoltre dall’intuizione empirica anche per il fatto che, nel rendere accessibile alla coscienza l’oggetto della sua visione, prescinde dagli elementi “contingenti” della presentificazione intuitiva, concentrandosi unicamente sul suo aspetto “strutturale” 17. France. Les tentatives de refondation de la phénoménologie dans la deuxième moitié du XXe siècle, in ID., Le cogito herméneutique. L’herméneutique philosophique et l’héritage cartésien, Paris, Vrin, 2000, pp. 13-50; E. FRANZINI, Le origini della fenomenologia in Francia: da Levinas a Sartre, in La fenomenologia, a cura di V. Costa, E. Franzini, P. Spinicci, Torino, Einaudi, 2002, pp. 278-284. 16 Ideen I, p. 11 (trad. it. Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica. Libro primo: Introduzione generale alla fenomenologia pura, a cura di V. Costa, Torino, Einaudi, 2002, p. 18). 17 Cfr. Ideen I, pp. 10-38 (trad. it. cit., pp. 13-40). L’“idea” della fenomenologia in Husserl 53 All’intuizione eidetica è possibile accedere in prima istanza attraverso ciò che Husserl indica come la “neutralizzazione della tesi naturale”, ossia quel naturale rapportarsi al mondo da parte della coscienza che assume quest’ultimo come dato, in quanto esistente 18 indipendentemente dal soggetto. Il piano della riflessione fenomenologico-trascendentale è in primo luogo raggiunto allorché i presupposti della tesi naturale sono come “messi tra parentesi”, ossia posti nella condizione di non poter più influenzare, alla stregua di presupposti teorici acriticamente assunti, lo sguardo rivolto al fenomeno 19. La “messa fra parentesi” agisce come una sorta di “sospensione del giudizio” [epoché], tale per cui la fenomenologia né semplicisticamente nega la tesi naturale, né altrettanto oppone o sostituisce a questa una tesi di tipo nuovo, bensì impedisce di considerare l’atto tetico in quanto tale alla luce delle posizioni che esso stesso introduce 20. Astenendosi da ogni presa di posizione circa il valore d’essere di qualsivoglia fenomeno (ed in questo senso procurandosi in linea di principio ciò che Husserl chiama un «un universo di assoluta mancanza di presupposti»21), l’epoché pone in causa la dimensione della pura operatività della coscienza ed il modo stesso del suo costituirsi come modalità di rapportarsi al mondo. In tal modo, altresì, affrancandosi da ogni presupposto esterno 22, la fenomenologia si ritrova, per mezzo della sola via intuitiva, ricondotta nella sfera della coscienza, all’interno della quale essa ritrova, sub specie noematica, tutte le conoscenze e le proposi18 Cfr. Ideen I, pp. 60-61 (trad. it. cit., p. 67). La tesi naturale pone il mondo come autonomamente esistente; essa scinde l’essere (per lo più considerato nel senso del mero sussistere, della substantia) dall’apparire in maniera tale per cui, da un lato, l’apparire è ridotto a mera “parvenza” [Schein] e, dall’altro, tutto ciò “che è” (dunque anche la coscienza stessa: esattamente come già visto nel caso di Descartes!) è assunto come “esistente” in quanto “porzione del mondo” naturalmente inteso: essente che gode del carattere di sostanzialità. 19 Cfr. Ideen I, pp. 65-66 (trad. it. cit., pp. 71-73). 20 Cfr. CM, pp. 72-73 (trad. it. cit., pp. 64-65). Invece di porre o negare l’esistenza del mondo, l’epoché fenomenologica “neutralizza” la tesi naturale, sospendendo ogni giudizio circa il valore d’essere conferito o conferibile al fenomeno. In tal modo, l’epoché agisce nel senso d’una “svolta” tale per cui, interdetta la naturale separazione fra “essere” ed “apparire”, ed anzi ripristinato il senso della loro costitutiva correlazione, ciò che si dà alla coscienza è assunto unicamente a questo titolo, cioè esclusivamente in riferimento al modo in cui esso si mostra. 21 Cfr. CM, p. 74 (trad. it. cit., p. 66). Corsivi di Husserl. 22 Cfr. Ideen I, p. 122 (trad. it. cit., p. 142). 54 Roberto Formisano zioni delle scienze, ora considerate però unicamente in riferimento al loro modo di costituirsi per la coscienza. Le intuizioni eidetiche si riferiscono propriamente a questa alternativa modalità di rapporto della coscienza alla dimensione costitutiva della sua stessa operatività. Ciò che la nozione di “intuizione eidetica” in ultimo afferma è che l’operatività stessa della coscienza può essere intuitivamente data. Volgendosi a questa ulteriore dimensione della datità, la riflessione fenomenologica è introdotta all’analisi della costituzione di “oggetti di nuova specie”, quali appunto le essenze, e cioè: “oggetti”, il cui essere non è più ridotto all’esistenza mondana naturale, bensì è ricondotto alla possibilità di ri-flessione che la coscienza, in regime di epoché fenomenologica, può operare nei confronti di se medesima e delle operatività relative alla sua stessa vita intenzionale. Le essenze, propriamente, non “esistono” bensì “si danno”, ovvero si mostrano in quanto Erlebnisse, “vissuti” di coscienza. Esse non sono oggetti, per così dire, “esterni” ma nemmeno “interni” alla coscienza, se per “oggetti interni” si intende un contenuto estraneo alla realtà che li contiene nell’orizzonte del proprio dominio. Piuttosto, le essenze appartengono alla realtà della coscienza, in quanto correlati costitutivi dell’attività intenzionale di quest’ultima. Per quanto, dunque, ancora indicate a titolo di “oggetti” le essenze non individuano affatto dei contenuti conoscitivi autonomi, separabili dalla coscienza; esse individuano anzi proprio quegli elementi conoscitivi in virtù dei quali si rende infine possibile la “liberazione” del cogito dall’equivoco “naturale” della sua sostanzializzazione, a favore dello scoprimento del carattere irriducibilmente relazionale inerente alla sua operatività e rappresentato dall’imprescindibile sfera dei suoi cogitata. Ora, proprio perché suscettibili d’esser intuitivamente date, considerate nella loro struttura le essenze possono essere differenziate fra loro in funzione del modo in cui esse si mostrano alla coscienza, ovvero in funzione del riempimento di senso [Erfüllung] che caratterizza la loro datità nonché del modo in cui tale riempimento si produce. L’Erlebnis intuitivo per il quale il riempimento di senso [Erfüllung] si dà pienamente è detto “originalmente offerente”, in quanto capace di afferrare l’essenza nella sua presenza “in carne e ossa” 23. Inoltre, sempre in rife23 Cfr. Ideen I, p. 15 (trad. it. cit., p. 18). L’“idea” della fenomenologia in Husserl 55 rimento al modo in cui è prodotta l’Erfüllung, è possibile differenziare l’insieme delle intuizioni originalmente offerenti in categorie o regioni ontologiche 24. Di ciò, peraltro, si occupa l’eidetica regionale, il cui scopo è fornire una determinazione il più possibile esaustiva dei differenti modi di costituzione del fenomeno in generale, da Husserl chiamati idee regionali 25, ossia “essenze” la cui peculiarità consiste nel mostrare in maniera intuitiva la “regola” relativa alla modalità di presentazione dell’eidos caratteristico di ciascuna regione 26. Come scrive infatti Husserl: Ad ogni regione e categoria di pretesi oggetti corrisponde fenomenologicamente non soltanto una specie fondamentale di sensi […] ma anche una specie fondamentale di coscienza che offre originariamente tali sensi e, inerente a essa, un tipo fondamentale di evidenza originaria che è per essenza motivato dalla datità originaria relativa a questo tipo fondamentale 27 Le intuizioni originalmente offerenti determinano la caratterizzazione generale della nozione fenomenologica di evidenza. A ciascun Erlebnis originariamente offerente ineriscono, infatti, un determinato carattere tetico e, sempre in funzione del suo riempimento [Erfüllung], un carattere di adeguatezza o inadeguatezza della visione. Le evidenze, in generale, indicano quel tipo di Erlebnisse originariamente offerenti per le quali l’Erfüllung si dà in maniera tale per cui: Se consideriamo il noema, troviamo il carattere della presenza in carne e ossa (come pienezza originaria) fuso con il puro senso; e il senso, con questo carattere, funge ora da substrato del carattere posizionale del noema o, in altri termini, del carattere d’essere. E ciò vale parallelamente se consideriamo la noesi 28. Nell’Einsicht correlativa ad un’intuizione originalmente offerente, il riempimento di senso possiede non soltanto la peculiarità di presentare “in carne e ossa” il fenomeno, bensì può anche motivare il carattere teti- 24 Cfr. Ideen I, pp. 23-25 (trad. it. cit., pp. 26-27). Ideen I, p. 350 (trad. it. cit., p. 373). 26 Cfr. Ideen I, p. 330 (trad. it. cit., p. 353). 27 Ideen I, p. 321 (trad. it. cit., p. 345). Corsivi di Husserl. 28 Ideen I, p. 315 (trad. it. cit., p. 339). Corsivi di Husserl. 25 56 Roberto Formisano co di questa intuizione 29. È a questo livello che si inserisce la possibilità di differenziazione e gerarchizzazione delle evidenze. Laddove la posizione riceve il suo originario fondamento di legittimità direttamente dalla datità originaria, essa acquisisce quello specifico contrassegno che Husserl indica con il titolo di razionalità 30. Si definisce propriamente evidenza apodittica appunto quel tipo di Einsicht che, oltre alla razionalità, presenta quale suo elemento costitutivo a priori la determinazione dell’impossibilità di invalidazione nel corso della riflessione fenomenologica 31 . È secondo questa duplice caratterizzazione concernente l’Erfüllung ed il modo del suo darsi che va concepito il ruolo fondamentale che l’evidenza apodittica può svolgere in merito alla fondazione della filosofia prima, giacché solo l’evidenza apodittica è capace di offrire alla riflessione filosofica la garanzia che l’oggetto ch’essa le fornisce non cambierà affatto e lo ritroverà sempre identico a se stesso ogniqualvolta questa riflessione effettuerà nuovamente l’atto che lo offre in evidenza. In questo senso si può allora dire che l’oggetto dell’evidenza apodittica è dato alla coscienza in una 29 I termini “motivare”, “motivazione” sono qui utilizzati nel senso di ciò che forniscono una legittimazione, ossia una giustificazione razionale di una posizione data. Posta tra parentesi la tesi naturale, poiché la questione della conoscenza non può più essere intesa nel senso dell’adeguatezza del conoscere rispetto alla realtà, il senso di tale questione andrà piuttosto ricercata nella coerenza intrinseca alla struttura della conoscenza stessa. 30 La razionalità di una determinata Einsicht può darsi secondo modalità diverse. Questo vuol dire che ulteriori differenziazioni si impongono anche all’interno del ristretto ambito delle intuizioni originalmente offerenti razionalmente motivate. La distinzione emerge soprattutto in riferimento alla possibilità che la datità originalmente offerta in una determinata Einsicht possa esser data in maniera definitiva e completa, cioè in maniera tale per cui sia determinabile a priori che nessuna esperienza sopraggiungente possa aggiungere ulteriormente o anche soltanto togliere qualcosa al senso di tale visione. La differenziazione delle evidenze pertiene ai differenti possibili modi in cui la razionalità d’una visione evidente può strutturarsi. La sola razionalità di una visione evidente non è infatti in grado da sé di escludere «la possibilità che quel che finora era evidente possa poi esser posto in dubbio o che l’essere si riveli come mera apparenza» (CM, p. 56, trad. it. cit., p. 50). Per raggiungere il più alto livello di pienezza e compiutezza, è indispensabile che l’evidenza in questione sia in grado di smentire anticipatamente e per mezzo della sua stessa visione la possibilità aperta che esso sia messo in dubbio, o che addirittura cada nel nulla, «nonostante l’evidenza» (cfr. ibid. In corsivo nel testo). 31 Cfr. CM, pp. 56-57 (trad. it. cit., pp. 50-51). L’“idea” della fenomenologia in Husserl 57 certezza assoluta; esso svolge per questa ragione, in rapporto alla ricerca, il ruolo di un autentico inizio. 6. Significato e necessità di una “fenomenologia della ragione” Stando alla caratterizzazione husserliana, l’oggetto dell’evidenza apodittica non può né deve tuttavia esser considerato alla stregua d’un determinato contenuto conoscitivo, come una privilegiata “porzione di mondo”. L’evidenza apodittica individua piuttosto, in primo luogo, una modalità dell’intuire, la peculiarità della cui visione consiste nel mostrare in originale la struttura ideale e teleologica immanente a ciascuna visione intuitiva. Ecco perché la problematica relativa alla legittimità del methodos cartesiano necessariamente, agli occhi di Husserl, riconduce ai temi di una “fenomenologia della ragione” 32, le analisi della quale soltanto possono offrire l’adeguato chiarimento circa le motivazioni teoretiche ultime dell’impostazione della questione fenomenologica fondamentale a partire dal criterio dell’evidenza apodittica. Scopo della fenomenologia della ragione, infatti, non è soltanto quello di determinare i caratteri fenomenologici dell’evidenza adeguata e perfetta, cioè dell’apoditticità, ma anche di individuare, in funzione di essa, la specifica regione d’essere a cui l’universale legalità eidetica necessariamente rinvia, quale sostrato ultimo di tutti i processi di sintesi eideticamente descrivibili. In funzione di questo percorso, orientandosi verso la ricerca della «coscienza intuitiva e apodittica dell’universalità»33, la fenomenologia della ragione conduce infine all’individuazione dell’Urregion della coscienza pura, offerta nella visione apodittica dell’eidos“ego trascendentale”. Se dunque pensiamo la fenomenologia formata puramente secondo il metodo eidetico come scienza intuitiva a priori, tutte le ricerche di essenze non sono allora altro che rivelazioni dell’universale ego trascendentale in generale contenente in sé tutte le variazioni pure di possibilità del mio io esistente di fatto e quest’io stesso come possibilità. La fenomenologia eidetica ricerca dunque quell’apriorità universale, senza la quale non si può pensare né un io né l’io trascendentale in generale; ovvero, poiché ogni universalità d’essenza ha il valore di una legalità inviolabile, la fenomenologia eidetica ricerca l’universa32 33 Cfr. Ideen I, §§ 136-145, pp. 282-303 (trad. it. cit., pp. 338-360). p. 105 (trad. it. cit., p. 96). CM, 58 Roberto Formisano le legalità d’essenza che a ogni proposizione di fatto intorno al trascendentale prescrive il suo senso possibile 34. La fenomenologia della ragione costituisce quell’analitica preparatoria, necessaria in vista dell’impostazione generale della questione della fondazione, ma soprattutto del definitivo “collaudo” di questa. Il contributo decisivo della fenomenologia della ragione consiste nel mostrare infine che la razionalità propria dell’evidenza apodittica costituisce l’autentico terminus ad quem, il criterio universale in funzione del quale è ordinata e strutturata tutta la vita intenzionale della coscienza come tale. Come Husserl stesso nota in un illuminante passaggio delle Cartesianische Meditationen: L’evidenza è invero, riguardo a un oggetto qualunque, soltanto un accadimento occasionale del vivere coscienziale, e tuttavia essa designa ancora una possibilità in quanto punto di mira di una intenzione tendente a realizzarsi per ogni cosa già presunta o da presumersi; pertanto l’evidenza indica un essenziale aspetto fondamentale del vivere intenzionale in generale 35. In breve, l’evidenza apodittica del cogito determina il logos, l’“universale forma unitaria del flusso” di coscienza entro cui si costituisce l’intero universo degli Erlebnisse – la sfera della correlazione cogitocogitata, il cui senso rinvia, in ultima istanza, alla struttura dell’intenzionalità. Alla luce dell’intenzionalità e attraverso la riflessione fenomenologica, la coscienza rivela possedere un costitutivo carattere teleologico inerente alla sua stessa struttura essenziale 36. Lo studio della ragione mostra come ogni pretesa di fondazione scientifica, perseguita secondo il criterio dell’apoditticità, non risponda ad altro che ad un’intrinseca esigenza propria della coscienza intenzionale in quanto tale – esigenza direttamente legata alla struttura stessa dell’intenzionalità, e cioè al carattere teleologicamente unitario, oltre che universale, della ragione. Per questo nelle Cartesianische Meditationen, Husserl può affermare che se da un lato è naturale che noi abbiamo all’inizio un’idea di scienza ricavata dalle scienze esistenti, dall’altro, assumendo in maniera provviso34 pp. 105-106 (trad. it. cit., p. 97). p. 92 (trad. it. cit., p. 84). 36 Cfr. CM, pp. 92-93 (trad. it. cit., pp. 84-85). 35 CM, CM, L’“idea” della fenomenologia in Husserl 59 ria quest’idea unicamente come presuntiva, tuttavia, possiamo usarla 37. A motivare una simile scelta interviene appunto la fenomenologia della ragione. La caratterizzazione fenomenologica dell’evidenza apodittica offre, esplicitandola, la motivazione teoretica di fondo legittimante l’idea di una “via cartesiana” alla filosofia prima. Motivando dunque questa posizione, l’evidenza apodittica mostra, conformemente al tipo di razionalità che le è proprio, la “struttura ideale” entro cui in generale ha luogo la serie infinita delle manifestazioni intuitive. Essa individua il modello, cioè l’“idea” 38, l’unità teleologica della totalità delle possibili determinazioni per la datità intuitiva in generale. Conformemente a questa, e per questo legittimamente, la “via cartesiana” determina nella razionalità della “visione evidente” [Einsicht], attraverso i criteri di adeguatezza e apoditticità, l’“idea teleologica suprema” 39 per l’edificazione di una scienza fondamentale che sia in grado di soddisfare i criteri ultimi di universalità ed assolutezza. 37 Cfr. CM, pp. 48-50 (trad. it. cit., pp. 43-44). Cfr. Ideen I, pp. 330-331 (trad. it. cit., pp. 354-355). 39 Cfr. E. HUSSERL, Erste Philosophie, cit., p. 29 (trad. it. cit., p. 36). 38 Capitolo II La critica all’intuizionismo 7. Il primato metodologico dell’ego cogito Considerato all’interno della prospettiva fenomenologica husserliana, la ricerca dell’autentico “inizio” filosofico si traduce innanzitutto nella necessità di individuazione e determinazione delle condizioni universali a priori sotto cui la fenomenologia medesima «deve da sé sola pervenire ai sistemi concettuali che determinano il senso fondamentale di tutte le formazioni scientifiche» 1. Così, dall’idea “presuntiva” e preliminare di una scienza assoluta e universale, in quanto conoscenza apodittica, la “fenomenologia prima” husserliana ha proceduto articolandosi in primo luogo in un’analitica dell’evidenza, ossia una fenomenologia della ragione, in maniera tale per cui, esplorando in tutta la sua estensione l’intero dominio della coscienza razionale, alla luce di questa essa ha potuto trarre per sé le dovute assicurazioni di legittimità e validità. Adeguando il proprio methodos alla Zweckidee dell’apoditticità – logos della struttura razionale che regge e regola l’intera sfera della costituzione – la fenomenologia trascendentale si è infine ritrovata condotta sul suolo “originario” dell’intenzionalità, rappresenttato dalla sfera del cogito e delle pure cogitationes 2. 1 Cfr. CM, p. 179 (trad. it. cit., p. 169). Come Henry sottolinea a tal riguardo: «La coscienza che mira ad ottenere l’evidenza apodittica non si orienta dove vuole. Poiché esiste una stretta relazione tra il tipo eidetico di evidenza e il genere d’essere che questa esibisce, la riflessione che si abbandona al telos dell’apoditticità ha a che fare con una realtà ben determinata. L’ego cogito diviene necessariamente il suo tema: non lo era sin dall’origine» (EM, p. 7, trad. it. cit., p. 36). Corsivi di Michel Henry. 2 62 Roberto Formisano A partire dal criterio dell’evidenza, il fenomeno dell’ego emerge in quanto visione apodittica della correlazione strutturale fra il cogito e la sfera delle pure cogitationes. A tale correlazione, che individua la struttura fenomenologica della coscienza intuitiva, Husserl riconduce la struttura del mostrarsi propria del fenomeno in quanto tale. Il compito di chiarificazione dell’essenza del fenomeno, perseguito dalla fenomenologia trascendentale, è così inquadrato da Husserl nel senso d’una chiarificazione di tutti i tipi di posizione razionale che la coscienza intuitiva appunto, strutturandoli, rende possibili, alla luce di quella modalità privilegiata di presentificazione che è l’ego cogito. Dal punto di vista fenomenologico husserliano, infatti, il primato metodologico dell’ego cogito emerge fondamentalmente in considerazione del tipo di posizione razionale ch’esso individua 3. In forza dell’apoditticità, al cogito è riconosciuto principalmente il ruolo di “modello ideale” per la visione intuitiva [Einsicht] in genere, in quanto determinante a priori il tipo di razionalità a cui ogni dato intuitivo deve poter essere idealmente ricondotto. Per queste ragioni, all’interno della prospettiva dischiusa da Husserl, la domanda circa la costituzione essenziale del fenomeno è pensata in maniera tale da rinviare in prima istanza all’analisi della razionalità del cogito 4. 3 «In virtù della sua struttura eidetica – nota Henry – [il cogito] rende possibile in effetti una coscienza […], la cui esperienza si realizza conformemente al tipo di evidenza apodittica e, di conseguenza, si rivela capace di generare una posizione razionale in senso forte, la cui validità cioè non possa più esser messa in questione» (EM, p. 8, trad. it. cit., p. 37). 4 L’assunto di fondo relativo all’impostazione husserliana consiste nel sostenere che il fenomeno, strutturandosi come tale, e cioè manifestandosi, debba non soltanto potersi costituire conformemente alla struttura della coscienza intuitiva, modalità di costituzione già sempre predelineata nell’idea teleologica dell’evidenza apodittica, bensì anche potersi mostrare “in quanto tale” all’interno di questa stessa struttura. Ciò che all’essenza del fenomeno è così richiesto è di poter mostrare se stessa alla luce delle strutture e delle modalità di visione che, nel suo mostrarsi e nel suo costituirsi come tale, essa stessa istituisce e pone. È sulla base di questi presupposti che, in Husserl, l’analisi della struttura del fenomeno “originario” viene infine convertita e ridotta in analisi della struttura della sola coscienza intuitiva, ovvero all’analisi della sua razionalità. La critica all’intuizionismo 63 8. Le contraddittorietà dell’idea husserliana della fenomenologia secondo Michel Henry In Husserl, il cogito determina, in ultima istanza, ciò alla luce del quale e ciò in forza della cui struttura la fenomenologia trascendentale pretende di poter motivare la “comprensione universale dell’essenza della ragione” – della ragione in senso vastissimo, esteso a “tutte le specie di posizioni” 5. La razionalità del cogito offrirebbe infatti il criterio in base al quale descrivere e determinare tutte le possibili modalità di costituzione dei fenomeni; essa determinerebbe la chiave d’accesso per la comprensione della struttura del fenomeno in quanto tale. La Zweckidee dell’apoditticità fornirebbe alla fenomenologia trascendentale, preliminarmente impostata nei termini di una fenomenologia della ragione, il criterio metodologico fondamentale per la chiarificazione della totalità sistematica, teleologicamente ordinata in conformità alla struttura della coscienza intuitiva, delle regioni ontologiche in cui il darsi del fenomeno in quanto tale si struttura. Aperta all’intero dominio delle regioni ontologiche, la fenomenologia trascendentale viene prospettandosi in tal modo come “scienza universale dell’essere di fatto basata su fondazione assoluta”. Nelle Cartesianische Meditationen, Husserl elabora questo spunto, indicando proprio nella fenomenologia della ragione il passaggio necessario in vista di ciò che egli, reagendo alle soluzioni prospettate da Heidegger in Sein und Zeit 6, rivendica come l’autentico concetto dell’ontologia fenomenologica universale: Possiamo dire adesso che nella fenomenologia a priori trascendentale trovano la loro origine e il loro fondamento ultimo […] tutte le scienze a priori in generale […]. Il sistema dell’a priori si può anche designare come sviluppo sistematico dell’a priori universale, connaturato all’essenza della soggettività trascendentale […]; quest’a priori è l’universale logos di ogni essere possibile. In altri termini, la fenomenologia trascendentale pienamente sviluppata sarebbe perciò stesso una vera e propria ontologia universale; non però solo una mera vuota ontologia formale ma anche un’ontologia tale da comprendere in 5 Le espressioni sono tratte da Ideen I, p. 329 (trad. it. cit., p. 352). Sulle reazioni di Husserl all’impostazione heideggeriana della fenomenologia, si rinvia alle fonti raccolte in Fenomenologia: storia di un dissidio (1927). Scritti di E. Husserl e M. Heidegger, a cura di R. Cristin, Milano, Unicopli, 1999. 6 64 Roberto Formisano sé tutte le possibilità regionali dell’essere secondo tutte le correlazioni che a queste appartengono 7. Ricavata a partire dalla Zweckidee dell’apoditticità e data la sua stessa struttura eidetica, tuttavia, la Wesensschau dell’universale logos dell’essere per principio non può mai esser dato pienamente “come tale”. Ad escludere questa possibilità è la costituzione stessa della ragione, la quale non si lascia descrivere in maniera diretta, ma solo ricavare in funzione di uno sguardo d’insieme ottenuto a partire dalle analisi delle singole ontologie regionali. La determinazione dell’apriori universale connaturato all’essenza della soggettività trascendentale si dà sempre e soltanto “asintoticamente” come ricavabile a priori a partire dalla “risultante” fornita dalla sistematica combinazione di infinite porzioni d’essere, ciascuna delle quali determinata dalla Wesensschau di una particolare, determinata e specifica regione ontologica. Orbene, in L’essence de la manifestation è esattamente a partire da quest’ultimo rilievo che muove la critica di Henry nei confronti di Husserl 8. Il primo e sostanziale rilievo di tale critica sostiene lo smarrimento, da parte della fenomenologia trascendentale, del significato universale delle proprie ricerche. Un’obiezione, questa, che ad Husserl fu mossa già da Heidegger e che Henry riprende, desumendola da alcuni passaggi-chiave di Sein und Zeit nei quali Heidegger (accuratamente evitando di presentare in maniera troppo esplicita la sua presa di posizio7 p. 181 (trad. it. cit., p. 170). Corsivi di Husserl. A tal riguardo, cfr. la ripresa di questa critica in M. HENRY, Phénoménologie de la vie, t. I, cit., p. 88: «In Husserl – scrive Henry – la lacuna centrale della fenomenologia […] resta nascosta in ragione del carattere sistematico della problematica e della ricerca che essa sollecita. Una volta posta l’intuizione a fondamento di ogni forma possibile d’essere, una filosofia che volesse costituirsi alla maniera d’una ontologia fenomenologica universale non potrebbe allora realizzarsi che a condizione di operare un’esaustiva chiarificazione delle varie forme possibili di intuizione corrispondenti ai rispettivi vari tipi di evidenza […]. Il minuzioso e tenace proseguimento di questo grandioso progetto, accanto allo scoprimento di nuove forme di intuizione, ha condotto alla scoperta di regioni d’essere ancora sconosciute. E tuttavia, questo straordinario allargamento dell’esperienza umana e dei domini di oggetti divenuti così attingibili, procede di pari passo con un tragico limite. Tutti questi modi d’accesso sapientemente riconosciuti e descritti sono propriamente forme di intuizione alle quali per natura la vita si sottrae. Così la fenomenologia ha prodotto una “riduzione” in un senso puramente negativo rispetto a ciò che avrebbe inteso estendere e liberare: la nostra relazione con l’essere, in quanto nostra vita propria». 8 CM, La critica all’intuizionismo 65 ne contro il suo “maestro”) esprime di fatto le proprie perplessità nei confronti della fenomenologia husserliana. Si consideri, ad esempio, innanzitutto questo passo tratto dal § 3 dell’introduzione a Sein und Zeit, dove Heidegger discute per l’appunto del rapporto (e soprattutto della differenza) fra “ontologia fondamentale” e “ontologie regionali”: I concetti fondamentali sono quelle determinazioni nelle quali la regione reale che sta alla base di tutti gli oggetti tematici di una scienza viene preliminarmente compresa in un modo che serve da guida ad ogni indagine positiva. Questi concetti ottengono perciò la loro genuina dimostrazione e “fondazione” solo in uno studio altrettanto preliminare della regione stessa. […] Tale ricerca deve precedere le scienze positive; e può farlo. […] Ma un tale domandare […] resta anch’esso ingenuo e non perspicuo, se le sue indagini circa l’essere dell’ente lasciano indiscusso il senso stesso di essere in quanto tale 9. Per Heidegger, il compito della Fundamentalontologie è di interrogarsi in prima istanza circa il senso d’essere überhaupt, cioè l’essere “in quanto tale”, in quanto differente rispetto all’ente come ciò che, proprio in ragione della peculiare modalità del suo mostrarsi [phainesthai], rende possibile qualcosa come la manifestazione ontica in generale. La domanda e la relativa chiarificazione del senso d’essere überhaupt deve pertanto anticipare e fungere da “cornice” e “sfondo” per l’indagine circa le idee regionali proprie di ciascun ambito dell’ente. In riferimento alla posizione husserliana questo significa che il senso d’essere überhaupt non può esser “ricavato” limitandosi soltanto allo studio sistematico delle ontologie regionali. Come lo stesso Heidegger sottolinea, ancora: Ogni ontologia, per quanto ricco e consolidato sia il sistema di categorie di cui dispone, resta in fondo cieca e tradisce la propria intenzione più profonda, se prima non abbia sufficientemente chiarito il senso dell’essere e non abbia concepito questo chiarimento come proprio compito fondamentale 10. Ciò che, secondo il punto di vista heideggeriano, fa difetto al progetto husserliano è appunto la mancanza di una propedeutica problematiz9 SZ, pp. 10-11 (trad. it. a cura di F. Volpi, cit., pp. 22-23; trad. it. a cura di A. Marini, cit., pp. 45-47). 10 SZ, p. 11 (trad. it. a cura di F. Volpi, cit., p. 23; trad. it. a cura di A. Marini, cit., p. 49). In corsivo nel testo. 66 Roberto Formisano zazione del methodos necessario per l’inquadramento della questione relativa al modo di costituzione del fenomeno dell’essere in quanto tale. Alla luce delle perplessità heideggeriane, nell’introduzione a L’essence de la manifestation Henry procede indicando nell’“assicurazione” (ossia nel modo di legittimazione ultima per l’assunzione della Zweckidee dell’apoditticità in quanto criterio per la posizione della domanda fenomenologica fondamentale) la “debolezza” di fondo dell’impostazione husserliana. Per poter essere “assicurata” in via definitiva, la via cartesiana richiede come sua condizione preliminare il compimento dell’analitica della ragione; ma proprio questa, per come è presentata da Husserl, si prospetta essere un compito analitico proteso verso uno sviluppo in linea di principio infinito11, sicché, a rigore, la validità del procedimento d’indagine che si affida all’ego cogito, non potendo esser mai dato in maniera definitiva e ultima, è piuttosto da considerarsi come provvisorio, ovvero come costitutivamente provvisorio, giacché corredato da conferme provenienti dall’analisi di strutture eidetiche sempre particolari e determinate. Per questo, dunque, in ragione della provvisorietà e della particolarità dei suoi risultati, il methodos cartesiano si determina essere nullo nel suo valore euristico, in rapporto alla sua pretesa di costituirsi in qualità di “scienza universale”. A questa medesima logica della ricerca risulterebbe essere d’altronde subordinato, secondo Henry, anche l’analisi stessa del cogito. Scrive egli infatti: Il cogito è soltanto una delle verità razionali, ma proprio perché, nell’ambito del suo essere particolare, ha permesso alla coscienza di pervenire all’ordine della razionalità, esso permane [come] l’ideale di una ricerca che in lui ha potuto realizzarsi per la prima volta; l’ideale di una ricerca alla quale esso suscita o conferma un compito definito: acquisire contenuti che possano fregiarsi del titolo di “verità” 12. L’inconsistenza della soluzione prospettata da Husserl è pertanto indicata nella pretesa di poter “ricavare” come “sommatoria” di un’infinità sistematica di verità particolari – per quanto tutte teleologicamente convergenti ed ordinate in funzione del cogito – l’universale costituzione d’essere del fenomeno in quanto tale. L’assurdità di tale pretesa si 11 12 Cfr. EM, p. 12 (trad. it. cit., p. 40). Ibid. La critica all’intuizionismo 67 paleserebbe appunto nel fatto che, in quanto ideale, l’universale logos dell’essere è ricercato a partire dalla combinazione di verità particolari. A determinare questa tendenza all’interno della fenomenologia trascendentale agirebbe proprio il criterio della razionalità, in base al quale la fenomenologia husserliana ha ricavato l’“assicurazione” circa il proprio fondamento. «La ragione – scrive Henry – non è una facoltà dell’universale», ed aggiunge, poi: Determinando di volta in volta la validità delle posizioni della coscienza realizzantesi all’interno di una cornice d’evidenza la cui struttura eidetica si trova definita nella sua correlazione all’originario senso d’essere di una regione data, [la ragione] consacra se stessa ad un compito sempre orientato verso la scoperta di verità particolari. Ma, perseguendo questo suo compito apparentemente infinito, più meticoloso è lo sforzo della riflessione di determinare i contenuti da legittimare, più rigorosa questa determinazione, più numerose le sfere d’essere che la ragione sottopone al lavoro metodico grazie al quale opera le posizioni che essa può successivamente riconoscere come proprie, più decisivo e più fatale è l’oblio in cui cade la filosofia. Quest’oblio tocca nientemeno che l’universale stesso considerato nella sua essenza propria 13. A giudizio di Henry, la critica di Heidegger è in sostanza legittima, in riferimento al fatto che la filosofia di Husserl, in quanto fenomenologia essenzialmente subordinata al telos della ragione, riducendo la scienza dell’essere ad un mero sistema a priori di ontologie regionali, finisce per configurare il progetto dell’ontologia fenomenologica come un mosaico di scienze particolari. «Il significato della fenomenologia della ragione – scrive Henry a tal proposito – permane […] limitato, in quanto il senso d’essere sul quale essa persegue il suo lavoro ontologico resta sottoposto, in maniera sostanziale, al dominio delle regioni»14; per questo «il significato della fenomenologia della ragione può solo con riserva essere definito “ontologico”, se lo scopo ultimo di questa ragione è il possesso dell’essere singolo e finito»15. 13 Ibid. Corsivi di Michel Henry. EM, p. 13 (trad. it. cit., p. 41). 15 EM, p. 19 (trad. it. cit., p. 45). 14 68 Roberto Formisano 9. La “distruzione” della via cartesiana alla filosofia prima Secondo quanto emerso dalla discussione critica dell’impostazione data da Husserl alla fenomenologia, il methodos husserliano fa perno su di una contraddizione intrinseca. Da un lato esso, per assicurarsi la legittimità del proprio procedimento, si riferisce al criterio teleologico dell’evidenza apodittica in quanto unica motivazione razionale possibile per l’idea della fenomenologia quale scienza assoluta e prima; dall’altro, proprio l’assunzione dell’idea teleologica dell’evidenza comporta eo ipso il sacrificio del significato universale della ricerca fenomenologica, per effetto di un infinito compito di chiarificazione di verità particolari. Scrive Henry: Il fatto di orientarsi verso una determinata struttura d’essere e, all’interno di questa struttura, verso un essere esso stesso determinato da rendere presente con le sue caratteristiche peculiari è […] un tratto distintivo dell’intuizionismo, così come della fenomenologia della ragione che lo sviluppa e su di esso poggia 16. 16 EM, p. 17 (trad. it. cit., p. 44). Corsivo nostro. L’accusa di “intuizionismo” alla fenomenologia husserliana non era nuova al tempo in cui Henry elaborò le proprie tesi filosofiche. Di “intuizionismo”, in riferimento ad Husserl, aveva parlato all’inizio degli anni Trenta già E. LEVINAS, La théorie de l’intuition dans la phénoménologie de Husserl, cit. (cfr. supra, Sez. I, Cap. I, § 4, nota 15), ispirandosi proprio al contenuto dei corsi che, negli anni immediatamente precedenti alla pubblicazione di Sein und Zeit, Heidegger svolse a Marburgo. In questo testo – vivamente presente nella cultura fenomenologica francese del tempo – Levinas non soltanto sviluppa (come appunto riprenderà poi Henry in L’essence de la manifestation) la tesi di una possibile ricostruzione del senso generale della dottrina husserliana a partire dal ruolo che in essa rivesta la visione intuitiva; nelle sue conclusioni (cfr. E. LEVINAS, La théorie de l’intuition dans la phénoménologie de Husserl, cit., pp. 218-219, trad. it. cit., pp. 170-171), egli riporta anche, peraltro presentandoli come sviluppi interni alla medesima fenomenologia trascendentale (cfr. ivi, trad. it. cit., pp. 9-10), gli argomenti centrali della critica heideggeriana a Husserl. Di quest’opera e delle magistrali “sintesi” levinasiane (come, ad esempio, l’articolo Martin Heidegger et l’ontologie, ora in E. LEVINAS, En découvrant l’existence avec Husserl et Heidegger, Paris, Vrin, [1949] 19743, pp. 53-76, trad. it. Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger, Milano, Raffaello Cortina, 1988, pp. 59-86) Michel Henry indubbiamente se ne servì. Come già accennato in precedenza, l’impressione generale che se ne ricava spinge a considerare questo implicito riferimento al lavoro di Levinas piuttosto come richiamo ad alcuni elementi essenziali relativi alla maniera in cui, in quel tempo, in Francia, era evidentemente interpretata la questione relativa al concetto della fenomenologia in Husserl e Heidegger. Di certo, l’intento di Henry non era affatto di entrare La critica all’intuizionismo 69 Il metodo, fenomenologicamente inteso, è sempre “secondo” rispetto alla struttura di cui esso rende possibile la descrizione. Ciò significa che la matrice della contraddittorietà metodologica dell’impostazione husserliana è da ricercarsi nei limiti intrinseci al criterio (l’Anschauung, per l’appunto, in quanto modo di costituzione dei vissuti intenzionali) eletto a titolo di via d’accesso e modalità privilegiata di afferramento per l’essenza del fenomeno. Posta in luce la contraddittorietà metodologica del progetto husserliano, l’obiettivo della versione henryenne della critica all’intuizionismo è di portarne allo scoperto la radice fenomenologica, risalendo in tal modo dal piano del metodo a quello della struttura stessa che lo sostiene, motivandolo. Uno degli assunti fondamentali della fenomenologia di Husserl è l’“assenza di presupposti” 17, che si traduce nell’“indipendenza del punto di vista” e nella “libertà di direzione” dello sguardo fenomenologico rispetto ad ogni teoria pregressa 18. A fornire questa situazione teoretica privilegiata deve poter essere, in linea di principio, la “cosa stessa” [die Sache selbst], per mezzo della sola opera di chiarificazione fenomenologica 19. La messa in luce, per via puramente descrittiva, della struttura nel merito di questo già allora accesissimo dibattito (tra gli anni Trenta e Cinquanta peraltro complicato dalla contrapposizione fra esistenzialismo e fenomenologia); né gli argomenti della “critica all’intuizionismo” furono ripresi con un intento filologico o esegetico. La loro presentazione doveva servire unicamente a mostrare, in maniera ben più generale rispetto allo specifico problema del rapporto Husserl-Heidegger, le ragioni teoretiche generali della “necessaria” evoluzione della fenomenologia da “filosofia della soggettività (trascendentale)” in “filosofia dell’essere”. 17 Cfr. E. HUSSERL, Logische Untersuchungen, vol. II, Halle, Niemeyer, 19223, pp. 19-22 (trad. it. Ricerche Logiche, 2 voll., a cura di G. Piana, vol. I, Milano, Il Saggiatore, 1968, pp. 283-287). 18 Cfr. supra, Sez. I, Cap. I, § 5. 19 Come giustamente nota F.-W. VON HERRMANN, Il concetto di fenomenologia in Heidegger e Husserl, trad. it. a cura di R. Cristin, Genova, Il melangolo, 1997, pp. 31-32: «Ciò che Husserl intende con indipendenza del punto di vista e libertà della direzione della filosofia che procede fenomenologicamente, può essere riassunto come segue: la filosofia fenomenologica vuole fondarsi come filosofia scientifica, prescindendo esplicitamente dai punti di vista e dalle correnti filosofiche già esistenti. In quanto scienza che diventa filosofica, essa non vuole, né all’inizio né nel suo sviluppo, fare alcun uso delle prospettive e delle correnti già date. In tal senso, la fenomenologia vuole ottenere le proprie conoscenza filosofiche in modo privo di presupposti, ricavandole soltanto nella visione spirituale-riflessiva di ciò che è dato intuitivamente allo sguardo riflessivo-guardante, di ciò che può essere colto e visto spiritualmente come dato intuitivo». 70 Roberto Formisano del fenomeno, conformemente al modo di costituzione di questo, è quanto deve poter fornire alla fenomenologia tutte le assicurazioni necessarie circa il proprio “inizio”. In Husserl, tuttavia, come si è visto, la chiarificazione è sempre pensata come operabile esclusivamente alla luce del télos della ragione. Una chiarificazione della ragione, peraltro intesa come via d’accesso [methodos] per la fondazione della filosofia prima, si rende possibile soltanto sotto l’assunto secondo cui, in quanto tale, lo strutturarsi del fenomeno possa darsi esclusivamente in conformità alle modalità di presentificazione prescritte dalla struttura razionale dell’Anschauung. Subordinata al télos della ragione, l’intuizione è costretta a dirigersi sempre e costitutivamente verso un oggetto, un ente o anche un’intera regione ontologica che, in quanto determinata nella sua essenza da un eidos intuitivo, è inquadrata come costituentesi al pari d’una qualunque verità particolare 20. L’accusa che, pertanto, la critica all’intuizionismo rivolge a Husserl può essere così sintetizzata: la concezione husserliana dell’Anschauung, o meglio la centralità che essa riconosce a questa modalità del mostrarsi [phainesthai] sul suolo della riflessione fenomenologica, agisce, al fondo dell’impostazione che essa offre al problema della fenomenologia, alla stregua di una theoria già predeterminante in maniera unilaterale la struttura stessa del fenomeno. Piuttosto che mostrare il fenomeno “come tale”, la teoria dell’intuizione, privilegiando i percorsi tematici dischiusi dal criterio dell’evidenza apodittica, rende di fatto inaccessibili, occultandoli del tutto, altre dimensioni relative alla struttura del fenomeno. Scrive Henry: Il dato intuìto è solo uno degli elementi della coscienza intuitiva. La sua peculiarità è di essere, strutturalmente, circondato dall’orizzonte che delinea attorno ad esso il fascio delle intenzioni significanti non ancora riempite. Il che equivale a dire che una coscienza non può mai realizzarsi pienamente in quanto coscienza intuitiva. Gli elementi della coscienza che rientrano sotto il titolo di “coscienza intuitiva” sono costituiti dalle intenzioni significanti effettivamente riempite. Al di là di queste, si trovano tutte le altre intenzionalità dello stesso tipo, alle quali, tuttavia, in qualità di correlato, corrisponde solo un dato intenzionato ma non intuìto 21. 20 21 Cfr. EM, p. 17 (trad. it. cit., p. 44). p. 20 (trad. it. cit., p. 47). EM, La critica all’intuizionismo 71 La presentificazione intuitiva di un dato fenomenologico, sembra dire Henry, accade sempre e si realizza all’interno di un orizzonte di intenzioni significanti prive di una compiuta Erfüllung. Più in generale si può dire che il darsi di un’intuizione con-implica sempre, costitutivamente, il correlativo strutturarsi di intenzioni non intuitivamente date, le quali “eccedendone” la presentificazione, ne integrano altresì lo strutturarsi. La conseguenza che ne ricava Henry è stringente: all’interno della coscienza, intesa come struttura fenomenologica trascendentale, il costituirsi della coscienza intuitiva con-implica in maniera originaria e pertanto altrettanto ineludibile, il costituirsi di una coscienza non-intuitiva. Con la fenomenologia della ragione, Husserl avrebbe cercato di aggirare questa difficoltà, prospettando la possibilità di uno sviluppo, in linea di principio infinito, dell’opera di chiarificazione fenomenologica, di volta in volta condotta verso l’analisi dei diversi orizzonti di intenzioni significanti non riempite che accompagnano la presentificazione intuitiva; così facendo, tuttavia, egli sarebbe incappato nella difficoltà di non esser più in grado, in definitiva, di fornire la fenomenologia di un’adeguata legittimazione ultima del proprio procedimento e dell’iniziale impostazione per la propria fondazione 22. Posto il rilievo della co-appartenenza, nell’unità teleologica immanente al mostrarsi dei fenomeni in generale, cioè nella struttura della coscienza in generale, di visione intuitiva e visione non-intuitiva, la presunta “radicalità” del progetto fenomenologico husserliano si mostra in tutta la sua parzialità. Nella misura in cui, infatti, la chiarificazione delle intenzioni non riempite è pensata nei termini di una riconduzione all’eidos determinante le condizioni per la loro possibile realizzazione intuitiva, anche la presentificazione di queste ultime richiederà, a sua volta, la chiarificazione di intenzioni con-implicate e tuttavia non intuitivamente date. La chiarificazione fenomenologica in tal modo viene costretta in un procedimento analitico che, se da un lato procede in direzione dell’ideale riconduzione della totalità delle intenzioni non-intuitivamente date all’interno della struttura fenomenologica dell’intuizione, dall’altro, tuttavia, ammette altresì l’impossibilità di principio di realizzazione di siffatto progetto. 22 Per le medesime ragioni precedentemente esposte, cfr. supra, Sez. I, Cap. II, § 5. 72 Roberto Formisano Il vero limite di quest’impostazione è dato dal fatto che la maniera husserliana di intendere la fenomenologia non consente in ultimo di rendere problematico il senso di questa con-implicazione. Non essendo in grado di problematizzare il risvolto non-objettivo, ossia non-intuitivo, proprio della struttura di ogni intuizione come tale, la fenomenologia husserliana si mostra essere del tutto incapace di rispondere alla domanda se, all’interno della struttura della coscienza trascendentale, la conimplicazione di visione intuitiva e visione non-intuitiva determini qualcosa di costitutivo circa il senso del mostrarsi in quanto tale, oppure se esso configuri soltanto qualcosa di accessorio ad esso, di derivato: «Il problema – scrive Henry, evidentemente indirizzando le successive analisi verso gli esiti propri del paradigma heideggeriano – è sapere se l’orizzonte proprio di ogni coscienza intuitiva (essendo quest’ultima sempre anche una coscienza non-intuitiva) individua un elemento contingente della struttura della coscienza in generale, oppure se, tale orizzonte individua, al contrario, qualcosa per principio peculiare a siffatta struttura»23. Per il ruolo fondamentale così conferito alla fenomenologia della ragione, la fenomenologia husserliana si preclude da sé la possibilità di fornire una qualche significativa e coerente risposta a tale quesito. Pensata alla luce della razionalità dell’ego, infatti, la domanda circa l’“eccedenza” di senso correlativa alla visione intuitiva le è sostanzialmente estranea. Dato il suo assunto di fondo, la fenomenologia trascendentale husserliana è costretta a pensare il darsi delle intenzioni significanti non riempite, che accompagnano la coscienza intuitiva in genere, come caso particolare di manifestazione intuitiva [Erscheinung]. Accade così che, per una necessità che discende dal modo in cui è stata ottenuta la legittimazione del methodos adottato, l’impostazione husserliana sottrae la fenomenologia dalla possibilità di interrogare questa ulteriore dimensione fenomenologica, adeguandosi al logos della sua peculiare strutturazione; e la ragione sta nel il fatto che la determinazione ideale teleologica di siffatto logos – il criterio fenomenologico che sorregge e regola il costituirsi di qualsivoglia essenza – risulta essere già sempre dato dalla visione apodittica automotivantesi della soggettività trascendentale (cioè l’universale struttura regionale della “coscienza” [Bewußtsein]). 23 EM, p. 21 (trad. it. cit., p. 47). Corsivi di Michel Henry. La critica all’intuizionismo 73 Henry riassume schematicamente in tre punti i presupposti per questa inevitabile omissione 24. Innanzitutto, impostando alla luce del telos della ragione la questione relativa alla datità “eccedente” la presentificazione intuitiva in generale, la fenomenologia trascendentale, piuttosto che interrogarsi circa la peculiare modalità di costituzione di tali datità, procede impostando la propria domanda in maniera tale per cui il suo sforzo principale è scoprire se si dia la possibilità di determinazione di eide intuitivamente dati che forniscano la motivazione per siffatte costituzioni. L’attenzione della fenomenologia sarebbe in tal modo condotta non intorno al senso di questa datità eccedente, bensì ancora centrata principalmente e soltanto sul suo contenuto. Scrive Henry: La pretesa tematizzazione dell’orizzonte si muta in maniera surrettizia, da un lato, nella mera comparazione di due modi specifici di dati sottoposti a chiarificazione con l’appellativo di “dato originario” e di “semplicemente intenzionato”, e dall’altro, conformemente al telos dell’intuizionismo, nella determinazione di una priorità del primo modo sul secondo 25. In tal modo, peraltro, attraverso il tentativo di riconduzione di una specifica modalità di costituzione all’interno di un’altra ritenuta l’unica fondamentale, la fenomenologia trasgredirebbe uno dei punti fondamentali del suo progetto di fondazione, per il fatto che non sarebbe più la riflessione ad adeguarsi al proprio oggetto d’indagine ricavando da questo la propria motivazione teoretica ultima, bensì sarebbe l’oggetto ad esser subordinato ad un criterio in qualche modo già predeterminato e assunto come indiscutibilmente valido. In secondo luogo, condotta conformemente ai presupposti della fenomenologia della ragione, la riconduzione del dato non-intuitivo, “semplicemente appreso, ma non in originale”, ad una qualche struttura eidetica regionale, per quanto finalizzata in linea di principio alla tematizzazione del costituirsi dell’orizzonte non-intuitivo considerato “in quanto tale”, finirebbe con l’obbligare la fenomenologia trascendentale all’individuazione ed all’analisi di strutture eidetiche particolari (ciò in aperta contraddizione con l’aspirazione di universalità che guida, sin dall’inizio, la riflessione fenomenologica). 24 25 Cfr. EM, pp. 20-23 (trad. it. cit., pp. 47-50). EM, pp. 21-22 (trad. it. cit., pp. 47-48). 74 Roberto Formisano In definitiva, a sancire l’impossibilità di fatto del progetto husserliano, direttamente scaturente dalla sua stessa incoerenza interna, è la pretesa finale secondo cui la struttura eidetica determinante la modalità di costituzione della coscienza non intuitiva debba poter esser esibita nel modo di un’intuizione eidetica. Con ciò, la fenomenologia della ragione chiude la questione relativa all’essenza del fenomeno in un cerchio stringente, non cogliendo e lasciando sullo sfondo, come ignorato, il significato della principale obiezione mossale contro: «L’orizzonte – commenta Henry a tal proposito – è esattamente ciò che sfugge al pensiero nel momento stesso in cui questo pretende di intuirne l’essenza. Questa pretesa essenza […] è inafferrabile per principio dall’intuizione, e ciò [avviene] in una maniera tale che proprio nel momento in cui [tale essenza] è assunta come tema esplicito del proprio pensiero, l’intuizione si trova ad esser ancor di più allontanata da essa»26. Chiusa entro i confini dei propri presupposti, l’impostazione intuizionista non è costitutivamente in grado di percepire la contraddizione su cui il proprio progetto di fenomenologia in ultima analisi poggia. 26 EM, p. 23 (trad. it. cit., p. 49). Capitolo III Trascendenza ed essere 10. Heidegger contra Husserl. La tesi fondamentale dell’ontologia fenomenologica heideggeriana La fenomenologia di Husserl rinvia ad un’impostazione per la quale, in ragione del suo criterio metodologico di fondo, l’inquadramento della problematica relativa alla modalità di costituzione dell’orizzonte non-intuitivo all’interno della questione della struttura del fenomeno diviene di fatto impraticabile. Il motivo centrale di questo limite è stato indicato, sulla via tracciata da Heidegger 1, nella riduzione che di fatto Husserl opera della struttura della coscienza nell senso della sola intenzionalità. L’imporsi della soggettività all’interno di questa prospettiva non è che una conseguenza di tale riduzione. Ma in questa situazione, ciò che agli occhi di Heidegger 1 Conferme ulteriori circa il significato generale di questa ricostruzione critica, da Henry sviluppata essenzialmente sulla base delle indicazioni di Sein und Zeit, sembrano provenire dalle Marburger Vorlesungen (i corsi universitari sostenuti da Heidegger nel periodo di insegnamento a Marburg, tra il 1923-1928). Di questi corsi, pubblicati nella Heideggers Gesamtausgabe soltanto a partire dal 1975 (e dunque ad Henry per lo più ancora sconosciuti all’epoca della stesura di L’essence de la manifestation), in merito alle revisioni critiche heideggeriane circa la fenomenologia di Husserl si segnalano, in particolare, M. HEIDEGGER, Prolegomena zur Geschichte des Zeitbegriffs (Sommersemester, 1925), ora in Heideggers Gesamtausgabe, vol. 3 XX, a cura di P. Jaeger, Frankfurt a.M., Klostermann, 1994 (trad. it. Prolegomeni alla storia del concetto di tempo, a cura di A. Marini e R. Cristin, Genova, Il melangolo, 1991); ID., Die Grundprobleme der Phänomenologie (Sommersemester, 1927), ora in Heideggers Gesamtausgabe, vol. XXIV, a cura di F.-W. von Herrmann, Frankfurt a.M., Klostermann, 19973 (trad. it. I problemi fondamentali della fenomenologia, a cura di A. Fabris, Genova, Il melangolo, 1989). Per quel che concerne l’attuale letteratura critica sull’argomento si rinvia alla bibliografia finale. 76 Roberto Formisano – all’interno della cui prospettiva Henry procede calandosi – rivela il limite di quest’impostazione si impone essenzialmente sul piano metodologico. Per come è pensata nella sua impostazione di base, la fenomenologia husserliana si trova di fatto nell’impossibilità di poter interrogare la costituzione d’essere della coscienza intenzionale; il suo carattere di “fenomenologia della ragione” impone alla riflessione fenomenologica di trattare tale struttura come fosse essa stessa un oggetto intenzionale, di tipo sì privilegiato ma comunque costitutivamente particolare. Conforme al criterio metodologico rappresentato dalla Zweckidee dell’apoditticità, la fenomenologia husserliana si preclude da sé la possibilità di accedere alla dimensione irriducibilmente oltre-intuitiva, caratterizzante nel suo fondamento la vita stessa della coscienza intenzionale. La “soggettivazione” dell’intenzionalità (ciò che Husserl ha indicato come “svolta soggettivo-trascendentale”) si prospetta, dunque, come impostazione intrinsecamente incoerente in riferimento al problema della fondazione filosofica. La critica all’intuizionismo ha prospettato la “via” [methodos] per l’oltrepassamento dei limiti di tale impostazione nella necessità di inquadramento del senso relativo alla con-implicazione di coscienza intuitiva e coscienza non-intuitiva nello strutturarsi del fenomeno in quanto tale. La questione della con-implicazione chiama in causa la fenomenologia, nella necessità di pensare alla possibilità di approccio alla questione del senso d’essere del fenomeno in maniera profondamente diversa rispetto a quanto emerso all’interno dell’impostazione intuizionista. Tornando nuovamente a considerare il significato del proprio concetto, secondo le modalità indicate da Heidegger, la ricerca fenomenologica è sospinta a situare le proprie analisi su un piano diverso rispetto a quello relativo alla molteplicità sistematica delle ontologie regionali. Se il primato di queste ultime è emerso nel contesto della progettazione della filosofia prima in quanto “filosofia della soggettività”, allora l’elaborazione del concetto della fenomenologia dovrà protendere piuttosto verso la prospettazione di una “filosofia dell’essere”, di una filosofia, cioè, incentrata sul senso dell’essere überhaupt, in quanto trascendente rispetto all’ambito di esperienza proprio della vita intenzionale della coscienza. Stando alla prospettiva dischiusa da Heidegger, insomma, è in relazione a questo peculiare campo d’indagine che la questione della fondazione dovrà esser situata e la fenomenologia esser propriamente Trascendenza ed essere 77 pensata in quanto ontologia fenomenologica universale. Scrive infatti Henry: L’ontologia fenomenologica universale presuppone, come prima condizione per una presa di coscienza del suo compito e delle sue proprie possibilità, un radicale oltrepassamento dell’intuizionismo. […] Se una tale ontologia si riferisce al “senso autentico e universale dell’essere in generale” lo fa però in una maniera ben particolare, non riconducendolo alle strutture universali dell’essere né alle loro più alte generalità. Piuttosto, essa si discosta da siffatte generalità, con lo scopo di dedicarsi a quella generalità assolutamente originale che costituisce il suo tema specifico e che trascende ogni genere e ogni generalità relativa a un genere 2. L’ontologia fenomenologica universale di cui Henry parla è esattamente la medesima pensata da Heidegger in Sein und Zeit, per il quale: Il primo passo filosofico nella comprensione del problema dell’essere consiste nel non mython tina diegesthai, nel “non raccontare storie”, ossia nel non determinare nella sua provenienza l’ente in quanto ente riconducendolo ad un altro ente, quasi che l’essere avesse il carattere di un possibile ente 3. Interrogarsi circa il senso d’essere überhaupt vuol dire porre a tema la struttura fenomenologica propria dell’essere, al di là di ogni ente e di ogni possibile determinazione ontica di un ente, ossia in quanto puro e semplice transcendens 4. Proseguendo sul solco tracciato dalla critica all’intuizionismo, l’istanza critica heideggeriana che vuole la ricerca fenomenologica essenzialmente orientata verso la determinazione del senso d’essere überhaupt trova nello studio dell’“eccedenza” [Überschuß] di senso che, irriducibile alla costituzione d’essere dell’intenzionalità, alla maniera di 2 EM, p. 17 (trad. it. cit., pp. 43-44). Il testo è una parafrasi di SZ, § 1, pt. 2. La citazione «senso autentico e universale dell’essere in generale» è tratta dalla prima edizione, in francese, di E. Husserl, Méditations cartésiennes, trad. fr. a cura di G. Pfeiffer e E. Levinas, Paris, Vrin, 1947, p. 74. L’espressione husserliana nel testo tedesco recita, però: «Sinn des Seienden überhaupt» (Cfr. cm, p. 120, trad. it. cit., p. 111. I corsi sono di Husserl). 3 SZ, p. 6 (trad. it. a cura di F. Volpi, cit., pp. 17-18; trad. it. a cura di A. Marini, cit., p. 35). 4 Cfr. SZ, p. 38 (trad. it. a cura di F. Volpi, cit., p. 54; trad. it. a cura di A. Marini, cit., p. 123). 78 Roberto Formisano un “orizzonte” accompagna e “cinge” la coscienza intuitiva 5 non soltanto il suo primo e propedeutico filo conduttore, ma anche il “più sicuro” 6 fra gli altri possibili. Interpretando il punto di vista di Heidegger, scrive infatti Henry: Per il pensiero desideroso di afferrare l’essenza, l’analisi della coscienza confusa costituisce un filo conduttore più sicuro dell’analisi sistematica dei differenti tipi di coscienza che, nell’evidenza, pervengono di volta in volta a un contenuto rigorosamente determinato. […] La ricchezza intuitiva di una particolare presenza non può inoltre distogliere l’attenzione da una riflessione sull’orizzonte che rende possibile ogni presenza in quanto tale. Il compito è certamente ancora quello di afferrare quest’orizzonte, non come mero orizzonte psicologico, sempre confuso con i contenuti che lo riempiono o con gli oggetti della coscienza […], ma come condizione trascendentale di un oggetto in generale, come forma pura dell’oggettività che prefigura e anticipa, rendendolo possibile, ogni oggetto in quanto tale 7. Libera dal vincolo dell’evidenza, la coscienza non-intuitiva non è sottoposta (né sottopone l’analisi fenomenologica di essa) alla necessità di intendere la struttura fenomenologica della coscienza e dell’essere in quanto tale alla stregua di una qualunque altra regione ontologica. La “libertà di direzione” che caratterizza il punto di vista della coscienza non-intuitiva consente, cioè, di portare in primo piano l’“orizzonte” della presenza intuitiva alla luce della sua differenza di senso rispetto a quest’ultima. L’“orizzonte”, infatti, differisce, quanto al suo mostrarsi, dalla coscienza intuitiva come ciò il cui darsi non soltanto non rientra nella visione di quest’ultima, ma soprattutto è richiesto come imprescindibile condizione di possibilità per la realizzazione intuitiva della correlazione cogito-cogitatum. In secondo luogo, proprio volgendosi a tale orizzonte, alla luce di siffatta differenza di senso, l’ontologia fenomenologica preserva in tal modo la possibilità di inquadramento della struttura della coscienza in generale nel pieno rispetto della sua peculiare mo5 Tutto “ciò che appare” (nel senso dell’Erscheinung) si dà su uno “sfondo” il quale, a sua volta, non mostra se stesso nel modo d’apparire proprio del fenomeno intuitivo, bensì come condizione di questo stesso apparire, ossia come apertura d’un orizzonte di senso in cui ed alla luce del quale all’ente è infine dato di poter mostrarsi in quanto objectum, possibile oggetto di un’apprensione tematica. 6 Come, ponendosi nella prospettiva di Heidegger, lo stesso Henry sottolinea: cfr. EM, p. 24 (trad. it. cit., p. 49). 7 Ibid. Trascendenza ed essere 79 dalità di costituzione: «Alla coscienza intuitiva, – nota Henry a tal proposito – per la quale ancora nessun dato rigorosamente definito è emerso dall’indeterminatezza e dall’oscurità dell’orizzonte in cui si trova immersa, l’appercezione di questo orizzonte non è nascosta»8. Il che significa: alla luce del carattere trascendentale della coscienza non-intuitiva, il senso dell’orizzonte non è più forzatamente ricondotto o cercato soltanto nell’ambito dell’intuizione possibile; e con esso, allo stesso modo, anche il senso dell’essere non è più relegato entro l’ambito di possibilità proprie della costituzione intenzionale. La coscienza non-intuitiva costituisce in questo senso per l’ontologia fenomenologica universale il filo conduttore attraverso cui ottenere, alla luce delle prime determinazioni positive circa il senso d’essere dell’“eccedenza”, indicazioni utili in vista della tematizzazione del puro transcendens. Ricalcando espressioni già heideggeriane, scrive infatti Henry: Ciò che consente a qualunque essere di manifestarsi, di diventare “fenomeno”, è l’ambito di visibilità al cui interno gli è dato sorgere a titolo di “presenza effettiva”. Il dispiegamento di un simile ambito, in quanto orizzonte trascendentale di ogni essere in generale, è opera dell’essere stesso. La tematizzazione di quest’orizzonte trascendentale (o, come anche ci è dato dire, dell’orizzonte fenomenologico universale) non è differente dal pensiero dell’essere. il compito di comprendere siffatto orizzonte è proprio dell’ontologia fenomenologica universale la quale, a titolo di condizione, domina ogni ontologia particolare e ogni scienza ontica 9. L’analisi dell’orizzonte della presenza intuitiva, sciolta dai vincoli della fenomenologia della ragione, determina propriamente, nella prospettiva dischiusa dalla critica all’intuizionismo, la “via d’accesso” [methodos] per la tematizzazione dell’essere überhaupt. Ma il presupposto essenziale per il raggiungimento di quest’“accesso” rinvia in prima istanza ad una rielaborazione globale del concetto stesso di fenomeno – rielaborazione, a partire dalla quale soltanto la fenomenologia può pervenire alla chiarificazione preliminare del suo compito più propriamente “ontologico”. 8 9 Ibid. Ibid. (trad. it. cit., p. 50). Corsivi di Michel Henry. 80 Roberto Formisano 11. Il concetto di “fenomenologia” in Heidegger Indicazioni circa il passaggio tematico che, dai riscontri della critica all’intuizionismo, conduce alla ri-definizione della questione della fondazione filosofica ed al ribaltamento della sua impostazione di fondo nell’ottica di una ontologia fenomenologica universale, sono fornite da Heidegger nel quadro della sua elaborazione del concetto della fenomenologia, esposta nel famoso § 7 della sua introduzione a Sein und Zeit. In questo paragrafo, Heidegger indica il significato primario dell’espressione “fenomenologia” nel suo essere un Methodenbegriff, ossia come concetto di quella modalità del sapere che non muove dalla definizione dell’oggetto tematico della filosofia bensì primariamente dal modo di trattazione [Behandlungsart] della sua ricerca. Il concetto di metodo, scrive Heidegger, «non caratterizza il contenuto objettivo di un “che cosa” [Was] relativo agli oggetti dell’indagine fenomenologica, ma il “come” [Wie] di quest’indagine»10. Ciò che distingue la fenomenologia rispetto a qualunque altra modalità del sapere è il fatto che, in quanto Methodenbegriff, essa non dispone propriamente di un “oggetto” tematico. Più precisamente, il concetto (heideggeriano) di fenomenologia esige d’esser pensato in maniera tale per cui non afferma nulla – e dunque nulla prescrive – circa la costituzione d’essere dell’“oggetto” dell’indagine fenomenologica. In quanto concetto di metodo, la fenomenologia deve allontanare da sé l’idea prescrittiva secondo la quale ciò attorno a cui vertono le proprie riflessioni debba poter essere ottenuto soltanto per mezzo di un’apprensione tematica. «Con ciò – scrive ancora Heidegger – questo trattato non si sente obbligato né a un “punto di vista”, né a una “corrente”, giacché la fenomenologia non è né l’uno né l’altra, né mai, finché comprende se stessa, potrà diventarla»11. Prendendo dichiaratamente le distanze rispetto alla fenomenologia trascendentale husserliana, Heidegger sottolinea come, proprio perché pensata in quanto concetto di metodo, la fenomenologia può rispettare i principî fondamentali dell’“indipendenza del punto di vista” e della “libertà di direzione”, già espresse da Husserl. Le aspresioni Standpunkt e Richtung (chiara allusione alle indicazioni teoretiche 10 SZ, p. 27 (trad. it. a cura di F. Volpi, cit., p. 42; trad. it. a cura di A. Marini, cit., p. 93). 11 Ibid. Trascendenza ed essere 81 husserliane) sono poste tra virgolette proprio in ragione di questa convergenza d’intenti ma divergenza di prospettive. L’allusione a Husserl ha il senso specifico di una radicalizzazione del concetto della fenomenologia, nel senso duplice di un ritorno alla sua fonte che però, al contempo, si configura altresì come suo approfondimento. La radicalizzazione spinge in tal modo la fenomenologia ad agire «contro se stessa e contro tutto ciò che si esprime come conoscenza fenomenologica» 12, con il solo obiettivo di condurla sul suolo di una più autentica comprensione dei propri presupposti ultimi, libera da vincoli (come l’assunzione del criterio dell’apoditticità) che possano in qualche modo condizionare lo sguardo fenomenologico. Scrive Heidegger: I chiarimenti circa il concetto preliminare di fenomenologia dimostrano che in essa l’essenziale non è essere realtà effettuale come “corrente” filosofica. Più in alto della realtà effettuale sta la possibilità. La comprensione della fenomenologia sta solo nel concepirla come possibilità 13. La “possibilità” della fenomenologia inerisce alla determinazione del modo per la sua fondazione in quanto filosofia prima. Siffatto modo – il metodo [methodos], appunto, della fenomenologia – non costituisce alcunché di astratto o di arbitrariamente posto dall’analisi, ma consiste essenzialmente nell’enucleazione concettuale del modo di strutturazione del fenomeno in quanto tale, come Heidegger stesso illustra per mezzo dell’analisi dei due termini, phainomenon e logos, che compongono l’espressione “fenomenologia”. Heidegger traduce il termine greco phainomenon come das-Sich-anihm-selbst-zeigende, il mostrantesi-in-se-stesso nel senso di ciò che si palesa nel suo essere. Egli non limita la traduzione al solo “mostrantesi”, ma aggiunge la clausola specifica per cui ciò che si mostra si rende visibile in se stesso, ossia si mostra in quanto tale, pienamente e per quello che esso effettivamente è. Il significato di tale concetto è ulteriormente chiarito da Heidegger per mezzo di una duplice precisazione: egli 12 Cfr. M. HEIDEGGER, Grundprobleme der Phänomenologie, ora in Heideggers Gesamtausgabe, vol. LVIII, a cura di H.-H. Gander, Frankfurt a.M., Klostermann, 1992, p. 6. 13 SZ, p. 38 (trad. it. a cura di F. Volpi, cit., pp. 54-55; trad. it. a cura di A. Marini, cit., pp. 123-125). Corsivi di Heidegger. 82 Roberto Formisano distingue così il mostrantesi-in-se-stesso tanto dalla parvenza [Schein] quanto dalla manifestazione [Erscheinung]. Riferendosi allo Schein, Heidegger afferma esplicitamente che esso indica propriamente soltanto una forma privativa, cioè derivata per negazione, del mostrarsi-in-se-stesso. In tal modo, Heidegger esclude dall’ambito del mostrarsi-in-se-stesso, o mostrarsi in quanto tale, il significato della parvenza 14. Il senso del mostrarsi-in-se-stesso è di realizzare una modalità di incontro. Esso individua un modo dell’apparire, il cui significato è di rendere accessibile la positività del mostrarsi stesso alla luce di ciò che è mostrato (cioè alla luce unicamente di se medesimo). La differenza fra Schein e Sichzeigen pertiene alla positività del mostrarsi del fenomeno. Quest’ultimo non può non mostrarsi così com’esso è in se stesso. Tuttavia, al fenomeno è dato potersi mostrare in se stesso secondo diverse maniere; ed è appunto a tal proposito che interviene la differenza fra il significato eminente del fenomeno e l’Erscheinung. Mentre lo Schein è atto ad indicare una modificazione privativa del mostrarsi-in-se-stesso (cioè indica, di fatto, un non mostrarsi di ciò che appare), l’Erscheinung, tradotto con “manifestazione”, appartiene alla positività del fenomeno e tuttavia non si identifica con esso, in quanto ne costituisce piuttosto, per così dire, una determinazione interna. All’interno della “positività” dell’apparire enucleato nel concetto di Sichzeigen, l’Erscheinung individua una modalità determinata di realizzazione di quest’ultimo. Propriamente, afferma Heidegger, l’Erscheinung non mostra, bensì annuncia il mostrantesi-in-se-stesso 15. Che la struttura dell’Erscheinung sia quella dell’annuncio vuol dire: la presenza di ciò che è manifesto non esaurisce il senso della “positività” dell’apparire concepito come tale. Se, in riferimento all’Erscheinung, la “positività” del fenomeno è ri(con)dotta al mostrarsi di ciò che si dà come oggetto di un’apprensione tematica, allora, esattamente come emerso a proposito della coscienza intuitiva, la presenza di ciò che è manifesto rinvia essenzialmente ad un apparire che, eccedendone il senso, definisce tuttavia la condizione di possibilità del suo stesso apparire. In 14 Cfr. SZ, p. 29 (trad. it. a cura di F. Volpi, cit., p. 43; trad. it. a cura di A. Marini, cit., p. 97). 15 Cfr. ibid. (trad. it. cit., p. 99). Trascendenza ed essere 83 altri termini, per mezzo del concetto di Erscheinung, all’interno dell’ambito generale dell’apparire inteso nel senso dello Sichzeigen Heidegger introduce una distinzione preliminare fra il fenomeno “ordinario” (i.e. il fenomeno objettivamente inteso come “ciò che si mostra”, il “contenuto” dell’apparire) ed il fenomeno inteso in senso “eminente” (i.e. la manifestatività, ossia l’apparire concepito come tale) 16. La differenziazione in senso al mostrarsi-in-se-stesso sta a significare che la struttura del fenomeno in generale consta di una sua articolazione interna, il cui senso è appunto custodito nel rapporto fra manifestatività e manifestazione, che è rapporto duplice in quanto: da un lato, è contrassegnato da una relazione di differenza riconosciuta come costitutiva (la manifestatività non si dà alla maniera della manifestazione); dall’altro, esso assume un peculiare significato trascendentale per cui la manifestatività, che mostra se stessa in una maniera irriducibile rispetto all’Erscheinung, si dà in quanto condizione di possibilità per l’apparire di quest’ultimo. Ciò che “innanzitutto e per lo più” [zunächst und zumeist] si mostra è l’Erscheinung. Fenomenologicamente intesa, la manifestazione è concepita da Heidegger come modalità del mostrarsi propria di ciò che si dà in quanto oggetto di apprensione tematica (nel linguaggio di Husserl: in quanto correlato della visione intuitiva), ossia la determinazione ontica e l’ente in generale. La manifestazione mostra l’ente, ma il mostrarsi dell’ente non riposa in se stesso; l’ente non mostra il mostrarsi-in-sestesso in quanto tale, bensì lo annuncia: il suo mostrarsi rinvia a qualcosa di ulteriore, ad una modalità del mostrarsi che trascende la puntuale determinazione dell’ente e che per questo permane inattingibile alla sola luce della modalità di rapporto ch’esso individua. In questo senso è da intendersi l’affermazione heideggeriana secondo cui ciò che si mostra in se stesso (il fenomeno in senso eminente, la manifestatività come tale) non si mostra conformemente al modo di una possibile 16 In questo senso è da intendersi l’affermazione heideggeriana secondo cui: «Fenomeno – il mostrarsi-in-se-stesso – vuol dire un modo eminente di incontrare qualcosa. Manifestazione invece vuol dire una relazione di rimando ontica, contenuta nell’ente stesso, tale che il rimandante (annunciante) può adempiere la sua funzione solo se si mostra in se stesso, se è “fenomeno”» (SZ, p. 31, trad. it. a cura di F. Volpi, cit., pp. 45-46; trad. it. a cura di A. Marini, cit., p. 103). Corsivi di Heidegger. 84 Roberto Formisano apprensione tematica. Tale è appunto la manifestatività dell’essere, fenomenologicamente inteso come puro transcendens. Proseguendo su questa direzione, Heidegger afferma 17 inoltre che, concepita a partire dalla manifestazione ontica, la manifestatività “resta al coperto” [ist verboten], e tuttavia, aggiunge, essa appartiene sempre anche al mostrarsi di ciò che innanzitutto e per lo più si rende tematicamente accessibile, come ciò che ne costituisce il senso ed il fondamento [Sinn und Grund]. L’insieme di queste indicazioni sono disposte da Heidegger in questo ordine secondo un intento ben determinato. Per quanto, infatti, in ragione della struttura dell’annuncio, il mostrarsi dell’ente [Erscheinung] non costituisca una modalità privilegiata del phainesthai in generale, esso non costituisce neppure alcunché di accessorio in seno al mostrarsi-in-se-stesso del fenomeno ma determina, al contrario, comunque un momento strutturale di esso. Il fatto che, come dice Heidegger, la manifestatività “appartenga essenzialmente” all’Erscheinung vuol dire che entrambe sono da considerarsi quali risvolti di un’unica struttura fenomenologica, sebbene non entrambe collocabili sul medesimo piano. Strutturandosi in quanto manifestatività, il mostrarsi-in-sestesso articola le condizioni sotto cui render possibile il realizzarsi della manifestazione ontica per mezzo del cui annuncio, pur non mostrando se stesso in maniera tematica, anche la manifestatività si rende in qualche modo accessibile nel suo peculiare senso d’essere. Conformemente a questa direzione dell’indagine, Heidegger sviluppa inoltre la chiarificazione della seconda componente greca dell’espressione fenomenologia. Logos, afferma Heidegger, è il discorso [Rede], ossia il parlare inteso come modalità del mostrare [das aufweisende Sehenlassen] 18 che rendendo percepibile ciò di cui si parla lo rende altresì in tal modo accessibile. Concepito in tal senso, il discorso fenomenologico si caratterizza innanzitutto come discorso che, nel modo appunto della descrizione e della riflessione, “fa vedere”, cioè “mostra” esso stesso. La fenomenologia individua essa stessa una modalità del mostrare che è propria del fenomeno – una modalità, cioè, in linea di principio, non estrinseca al fenomeno ma coerente e (nelle sue intenzio17 Cfr. SZ, p. 35 (trad. it. a cura di F. Volpi, cit., pp. 50-51; trad. it. a cura di A. Marini, cit., p. 115). 18 Cfr. SZ, pp. 32-33 (trad. it. a cura di F. Volpi, cit., pp. 47-49; trad. it. a cura di A. Marini, cit., pp. 107-109). Trascendenza ed essere 85 ni di metodo, almeno) conforme al modo di costituzione di ciò che si mostra in quanto tale. “Fenomenologia”, in altri termini, altro non indica che una “declinazione”, ovvero una “trasposizione” sul piano del discorso, e cioè del pensiero e della riflessione, del modo di costituzione del fenomeno come tale in quanto metodo per la sua stessa di-mostrazione fenomenologica 19 [phänomenologische Auf-weisung]. Considerato in riferimento al contenuto formale delle sue componenti, il concetto di fenomenologia viene ad assumere in definitiva la connotazione di “modalità del mostrare che fa vedere il mostrarsi-in-sestesso conformemente al modo in cui esso si mostra come tale”. Posto tuttavia il significato fenomenologico dello Sichzeigen, la fenomenologia si determina altresì al modo di un far vedere il mostrarsi-in-se-stesso alla luce della co-appartenenza di manifestazione e manifestatività, conformemente al modo di costituzione di siffatta struttura. Ancora, in quanto Methodenbegriff, la fenomenologia assume infine, in definitiva, lo specifico significato di enucleazione concettuale del modo di strutturazione del mostrarsi-in-se-stesso in quanto co-appartenenza e con-implicazione di manifestazione e manifestatività. Come si può vedere, la determinazione heideggeriana della fenomenologia in quanto Methodenbegriff è pensata in conformità alla struttura della con-implicazione e alla luce del significato fenomenologico della co-appartenenza di manifestazione e manifestatività in seno allo Sichzeigen. Che la fenomenologia costituisca essenzialmente un concetto di metodo vuol dire, allora che, in quanto riflessione circa il modo di strutturazione del mostrarsi [phainesthai] in quanto tale, ossia del fenomeno in quanto mostrarsi-in-se-stesso, la fenomenologia non necessita del19 Spingendoci ancora oltre su questa strada si potrebbe addirittura dire che il logos proprio del discorso fenomenologico individua non soltanto il metodo di una mera descrizione, bensì il modo in cui il fenomeno stesso, in quanto tale, giunge ad accedere alla comprensione (e dunque esso stesso a mostrarsi) della sua stessa costituzione d’essere, cosicché, in quanto concetto di metodo la fenomenologia starebbe ad indicare il modo in cui al fenomeno è costitutivamente dato di potersi mostrare a se stesso come tale, nel modo del comprendere. Questa suggestiva caratterizzazione del fenomeno è tuttavia, a questo momento delle nostre analisi, ancora prematura; il suo dispiegamento potrà essere sviluppato soltanto al termine dell’intero percorso analitico al cui centro è posto non soltanto il termine, il nome od il concetto della fenomenologia, bensì la struttura fenomenologica stessa che rende la comprensione d’essere possibile in quanto tale, ovvero, in prima istanza, la trascendenza del Dasein. 86 Roberto Formisano l’assunzione di un qualche “oggetto tematico” o di vincoli teorici di alcun tipo per il fatto che per essa la via d’accesso [methodos] le è già sempre data in ragione della positività del fenomeno. Il fatto che la manifestazione “innanzitutto e per lo più” si palesi in maniera tale però da annunciare sempre anche il mostrarsi-in-se-stesso di una modalità di rapporto che ne trascende l’ambito di visibilità sta a significare che la via d’accesso per questa modalità altra di rapporto non sia affatto da cercare “altrove”, ma abbia già in questa stessa modalità del mostrarsiin-se-stesso preparato il methodos, in vista del suo trascendimento. In quanto aufweisende Sehenlassen, la fenomenologia non deve far altro che limitarsi a cogliere le profondità di ciò che, alla luce dell’articolazione interna alla struttura del fenomeno, le appare già sempre dato in tutta la sua eccedente pienezza. Impostata in vista della co-appartenenza, l’analisi della struttura della manifestazione fornisce in questo senso da sé la via d’accesso per la modalità di rapporto che, strutturando la manifestatività dell’essere in quanto tale [überhaupt], ne determina altresì la costituzione delle condizioni fenomenologiche di possibilità. Entro questa prospettiva, il fenomeno ontologico è inteso come quell’apparire [phainesthai] che, strutturandosi in quanto manifestatività e in tal modo non rendendosi accessibile alla maniera di un eidos intuitivo, bensì restando al coperto, rende possibile il mostrarsi anche di ciò che si dà nel modo dell’intuizione – ovvero ciò che Heidegger, sotto il nome di Erscheinung, intende per lo più come “mostrarsi ontico”. È infatti alla luce di tale concezione della struttura del fenomeno che Heidegger inquadra la questione fondamentale dell’ontologia, ovvero la questione della differenza fra essere ed ente. Spostando l’attenzione dal “che cosa” al “come” ed introducendo, in seno a quest’ultimo la differenziazione fra intuitivo e non-intuitivo, la fenomenologia interviene fornendo alla domanda ontologica classica (“Che cosa è essere?”) una nuova formulazione: pensato in prima istanza alla luce del mostrarsi proprio dell’ente, qual è il senso del mostrarsi dell’essere considerato, in quanto tale, a titolo di fenomeno? Che l’essere – non-ente – abbia un senso vuol dire che il “non” (l’abissale profondità del fenomeno in cui, in contrasto con la “positività” propria del palesarsi della semplice manifestazione ontica [Erscheinung], è riconosciuto il modo del mostrarsi dell’essere in quanto differenza: non-ente, ni-ente, Nichts) non ha significato meramente negativo. Trascendenza ed essere 87 Esso non sta ad indicare la semplice negazione della positività ontica. Al contrario. Fenomenologicamente inteso, il “non” consta di un suo proprio significato, una sua propria “positività”, che è esattamente compito dell’ontologia fenomenologica portare in chiaro. Compresa alla luce del carattere strutturale dell’articolazione interna alla costituzione essenziale del fenomeno [das Sich-an-ihm-selbstzeigende], la relazione essere-ente diviene il filo conduttore principale della fenomenologia medesima, la quale, per questo motivo, in quanto Methodenbegriff, riceve la determinazione ulteriore di “metodo della ricerca ontologica”, ossia metodo della ricerca finalizzata alla chiarificazione della manifestatività dell’essere. Scrive infatti Heidegger: «Fenomenologia è il modo di accesso e il modo certificante di determinazione di quello che deve diventare il tema dell’ontologia. L’ontologia è possibile solo come fenomenologia»20. La fenomenologia è pertanto assunta in questo specifico senso, in quanto “filosofia prima” con il titolo di ontologia fenomenologica universale. Scopo di tale modalità del sapere si configura essere il portare, sul fondo dell’intrinseca svelatezza che già sempre le appartiene, la manifestatività dallo stato di velamento allo stato fenomenologico di chiarezza, conformando il proprio metodo unicamente al modo di costituzione di questa originaria modalità del mostrarsi-in-se-stesso e nel rispetto del suo costitutivo dis-velarsi. 12. La trascendenza del Dasein Scopo dell’ontologia fenomenologica è chiarire il senso dell’essere überhaupt in quanto fenomeno. Poiché però, per quel che concerne la sua realizzazione effettiva, la manifestatività dell’essere si è rivelata tale per cui, nel costituirsi della sua struttura, essa con-implica sempre il dispiegamento delle condizioni di possibilità del mostrarsi ontico, è chiaro che la ricerca onto-fenomenologica non può prescindere dalla preliminare problematizzazione del senso inerente a siffatto dispiegamento, ovvero – come Heidegger stesso spiega – essa non può prescindere dall’interrogare innanzitutto quell’ente per il quale proprio la do- 20 SZ, p. 35 (trad. it. a cura di F. Volpi, cit., p. 51; trad. it. a cura di A. Marini, cit., pp. 115-117). Corsivi di Heidegger. 88 Roberto Formisano manda circa il senso d’essere überhaupt individua un elemento essenziale della sua stessa costituzione d’essere, vale a dire il Dasein. Dasein è la nozione per mezzo della quale Heidegger fornisce la propria enucleazione della struttura fenomenologica della cosiddetta “coscienza”. Entro tale enucleazione si trova in effetti racchiuso l’insieme delle motivazioni teoretiche che hanno condotto Heidegger verso la sua presa di posizione estremamente critica nei confronti della concezione husserliana del progetto fenomenologico di fondazione della “filosofia prima”. Come già detto, per Heidegger la tanto esaltata “svolta soggettivo-trascendentale” da Husserl inferta alla fenomenologia si fonda su una concezione unilaterale della struttura della coscienza, a cui proprio il concetto di intenzionalità conduce nella misura in cui quest’ultima consente di intepretare la dimensione “trascendentale” dell’apparire come “autonoma” e “indipendente” rispetto alla costituzione del mondo naturale. Viceversa, per Heidegger, questi due risvolti inerenti alla struttura dell’apparire [phainesthai] considerato in quanto tale non possono affatto esser tenuti “separati” come se, in ragione del suo carattere costituente, la coscienza sia come svincolata da qualsivoglia “coinvolgimento” nel mondo. In questo senso, la riconduzione della coscienza alla sola intenzionalità si rivela esser unilaterale anche per il fatto che essa rende inaccessibile, occultandola, la strutturale coappartenenza di coscienza e mondo, il cui fondo è peraltro riconosciuto da Heidegger proprio in quella differenza di senso portata allo scoperto all’interno della sua concezione del fenomeno 21. Contro tutte queste unilateralità, la soluzione prospettata da Heidegger consiste in una radicalizzazione dell’approccio fenomenologico tale per cui la struttura “costituente” dell’intenzionalità è infine ricondotta e analizzata in riferimento a quel peculiare modo d’essere proprio di quell’ente che racchiude in sé la possibilità stessa della costituzione trascendentale 22, quale è appunto il Dasein. Orbene, la struttura a cui, secondo Heidegger, l’intenzionalità deve poter essere ricondotta è ciò che egli chiama la trascendenza, intenden21 Cfr. supra, Sez. I, Cap. III, § 12. Cfr. la lettera di Heidegger a Husserl del 27 ottobre 1927, ora in Husserliana, vol. IX, a cura di W. Biemel, Den Haag, Nijhoff, 1968, pp. 600-603 (trad. it. in E. HUSSERL-M. HEIDEGGER, Fenomenologia. Storia di un dissidio, a cura di R. Cristin, Milano, Unicopli, 1986, pp. 76-77). 22 Trascendenza ed essere 89 do per essa non semplicemente, in senso gnoseologistico, il mero rapporto del soggetto e dell’oggetto [Subjekt-Objekt-Beziehung], quanto piuttosto una struttura di senso eminentemente ontologico. Scrive infatti Heidegger: «Se si connota ogni comportamento in rapporto all’ente come intenzionale, allora l’intenzionalità è possibile solo sul fondamento della trascendenza» 23 . La trascendenza del Dasein è innanzitutto riferita al carattere di comprensione d’essere [Seinsverständnis] costitutivo di quest’ultimo. Se in Heidegger l’intenzionalità è essenzialmente intesa come la struttura del rapportamento ontico, la trascendenza ne definisce propriamente il “fondamento” per il fatto che è per l’appunto il fatto di essere già sempre aperto alla comprensione dell’essere dell’ente via via incontrato nel mondo che rende possibile il rapporto con quest’ultimo, ad esempio anche al modo della coscienza intuitiva. In Vom Wesen des Grundes questo riferimento essenziale della trascendenza del Dasein al suo costitutivo carattere di comprensione d’essere è altresì definito da Heidegger alla maniera di un “oltrepassamento dell’ente nella sua totalità, in vista di un mondo”. Trascendere vuol dire infatti, primariamente, oltrepassare. Il significato che, tuttavia, questa nozione di “oltrepassamento” assume nella prospettiva onto-fenomenologica heideggeriana, non ha nulla a che vedere con il significato “ordinario” del termine. Nel linguaggio ordinario, il termine oltrepassare assume innanzitutto e per lo più una connotazione “spaziale” tale per cui, il “passar oltre” sta a significare un “superamento” tale per cui ciò che è superato è altresì lasciato alle spalle, ossia abbandonato o rimosso. Nella prospettiva indicata da Heidegger, al contrario, l’“oltrepassamento”, in quanto peculiarmente “oltrepassamento dell’ente”, non fa riferimento ad alcun abbandono, né ad alcuna rimozione. Nell’“oltrepassamento” compiuto alla maniera della comprensione d’essere, l’ente oltrepassato non è affatto “rimosso”, ma anzi “conservato”, se così è concesso esprimersi, come ciò che proprio nel modo dell’oltrepassamento trova già disposte le condizioni di possibilità per la propria manifestazione 24. 23 WG, p. 135 (trad. it. M. HEIDEGGER, Dell’essenza del fondamento, in ID., Segnavia, a cura di F. Volpi, Milano, Adelphi, 1987, p. 91). Corsivi di Heidegger. 24 Cfr. WG, p. 156 (trad. it. cit., p. 112). 90 Roberto Formisano Comprendendo l’essere dell’ente – e in questo senso oltrepassandolo nella sua totalità – il Dasein struttura la possibilità di rapportarsi ad esso, in tal modo rendendo l’ente medesimo “manifesto in se stesso”. In ciò d’altronde risiede propriamente il carattere d’esser-svelante proprio del Dasein: nel fatto che comprendendo l’essere esso dispiega in e per il suo stesso esserci le condizioni di possibilità dell’apparire ontico. Se, tuttavia, oltrepassando, il Dasein non abbandona l’ente ma appunto lo rende piuttosto manifesto in se stesso, se cioè nell’oltrepassamento l’ente individua “ciò che” è oltrepassato, “ciò in vista di cui” [Woraufhin] il Dasein si slancia in avanti alla maniera della comprensione d’essere è il mondo [Welt]. Come scrive Heidegger a tal riguardo: Il Dasein umano […] esiste in modo tale che l’ente gli è sempre manifesto nella sua totalità. […] La totalità è compresa anche senza che tutto l’ente manifesto sia còlto espressamente o addirittura esaminato “in modo completo” nelle sue connessioni specifiche, nelle sue regioni e nei suoi strati. La comprensione ognora precomprensiva e circomprensiva (vorgreifend-umgreifend) di questa totalità è l’oltrepassamento verso il mondo 25. Il mondo, che non è un ente, non è neppure semplicemente la mera somma degli enti. Esso piuttosto definisce l’Umwillen von…, l’in-grazia-di-cui, alla luce del quale, propriamente, l’ente è infine reso manifesto 26 in e per la comprensione d’essere del Dasein. Tale fenomeno, che non “è” secondo il modo d’essere dell’ente, definisce piuttosto il “come” dell’essere stesso dell’ente 27, vale a dire ciò alla luce di cui all’ente è infine dato di poter apparire. Sì che non è allo stesso modo del rapportamento ontico che il Dasein, nell’oltrepassamento, si rapporta al mondo. Tale rapporto accade piuttosto alla maniera di un puro progetto disvelante, tale per cui, aperto alla comprensione dell’essere, il Dasein è altresì aperto alla possibilità stessa di rapportarsi direttamente all’ente che nel-mondo gli si fa via-via incontro 28. Alla comprensione dell’essere dell’ente che fonda la possibilità del rapportamento ontico il Dasein è tuttavia aperto in quanto innanzitutto aperto alla comprensione della sua stessa costituzione d’essere. Il di25 Ibid. Cfr. WG, p. 157 (trad. it. cit., p. 113). 27 Cfr. WG, p. 143 (trad. it. cit., p. 99). 28 Cfr. WG, p. 158 (trad. it. cit., p. 114). 26 Trascendenza ed essere 91 svelamento alla luce del mondo, costituito dall’oltrepassamento dell’ente, non si realizza soltanto in riferimento agli enti non-Dasein ma anche e soprattutto in riferimento al Dasein medesimo. Sì che è propriamente in-grazia-del mondo che il Dasein è costituito (e si comprende essenzialmente) come un’ipseità [Selbstheit]. Il mondo appartiene necessariamente alla costituzione d’essere del Dasein, come l’Umwillen von… alla luce del quale esso realizza la sua propria ipseità, vale a dire il (non ontico) rapportarsi-a-sé in quanto comprensione del suo stesso essere 29. Nella misura in cui, però, è precisamente nell’oltrepassamento verso il mondo che può maturarsi qualcosa come l’ipseità del Dasein, il mondo si rivela allora come ciò in vista di cui il Dasein medesimo esiste, ossia ciò in grazia di cui il Dasein è costituito in quanto esistente. Per poter rapportarsi al suo proprio essere nel modo del comprendere ed in tal modo costituirsi come esser-sé [Selbstsein], il Dasein deve aver progettato un mondo. Tale progetto di un mondo (i.e. comprensione d’essere) è quanto già in Sein und Zeit Heidegger aveva anche indicato come progetto delle sue più proprie possibilità d’essere 30 . Ma proprio dall’analisi esistenzial-ontologica del Dasein, e nella fattispecie di ciò che Heidegger aveva indicato come la Sorgestruktur, era altresì emerso che il progetto delle possibilità nel Dasein accade sempre in maniera tale per cui esso si trova [sich befindet] già sempre situato in mezzo all’ente. Come Heidegger stesso indica in un passaggio di Vom Wesen des Grundes: Colui che oltrepassa e quindi si eleva, deve, in quanto tale, sentirsi situato [sich befinden] nell’ente. Così sentendosi, il Dasein è a tal punto coinvolto dall’ente da farne parte e da esserne pervaso nel suo stato d’animo. Si dice allora trascendenza un progetto del mondo tale che il progettante è anche già dominato nel suo stato d’animo dall’ente che oltrepassa 31. In quanto In-der-Welt-sein, il Dasein – l’ente strutturato secondo trascendenza (ontologica) – si costituisce essenzialmente in quanto “progetto gettato” [geworfener Entwurf], ovvero (come l’analisi esistenzialontologica della Sorge rivela) esso è, esiste essenzialmente come “avan29 Cfr. WG, p. 157 (trad. it. cit., p. 113). Cfr. SZ, § 31, pp. 142-148 (trad. it. a cura di F. Volpi, cit., pp. 176-183; trad. it. a cura di A. Marini, cit., pp. 411-427). 31 WG, p. 166 (trad. it. cit., p. 122). Corsivi di Heidegger. 30 92 Roberto Formisano ti-a sé-esser-già-nel-(mondo) in quanto esser-presso (l’ente incontrato nel-mondo)” 32 [Sich-vorweg-schon-sein-in-(der-Welt-) als Sein-bei (innerweltlich begegnendem Seienden)]. Per Heidegger non è possibile pensare un progetto (di un mondo) che non sia già sempre un getto nel mondo, giacché è appunto per il fatto di trovarsi sempre già situato in mezzo all’ente, e non a prescindere da ciò, che il Dasein esiste essenzialmente in quanto anche oltre l’ente, aperto alla comprensione del suo essere. Tutti questi “momenti” costitutivi della struttura d’essere del Dasein – il comprendere [Verstehen], il sentirsi situati [Befindlichkeit] e dell’esser-presso [Sein-bei] l’ente intramondano – nella prospettiva heideggeriana non costituiscono affatto dinamiche “autonome” ma tutte legate e con-implicantesi l’un l’altra; sì che, sul piano della ricerca ontofenomenologica, tutti questi diversi “momenti” vanno concepiti, inquadrati, tematizzati e sviluppati nella loro unità. E tuttavia, che i “momenti” dell’esistenza si costituiscano in maniera essenzialmente unitaria non vuol dire neppure che l’In-der-Welt-sein consista o possa esser ridotto alla mera “sommatoria” di questi. Nell’accadimento dell’In-der-Welt-sein, infatti, essi non si susseguono l’uno dietro l’altro, come in una “progressione lineare” di “stadi” (modi o condizioni d’essere) successivi. Nel loro darsi, nel loro strutturarsi – contenstuale allo strutturarsi stesso del Dasein in quanto In-der-Weltsein – tali momenti si costituiscono in maniera cooriginaria. E la cooriginarietà di siffatti momenti è quanto appunto l’interpretazione temporal-ontologica della Sorge perentoriamente afferma 33. Considerata nella cooriginarietà delle sue “estasi” (l’avvenire [Zukunft], l’esser-stato [Gewesenheit] e la presenza [Gegenwart]), la temporalità individua la determinazione ultima dell’essenza della trascendenza, l’enucleazione unitaria della struttura dell’In-der-Welt-sein. Essa, come Heidegger stesso scrive, costituisce «in sé e per se stessa l’originario “fuori-di-sé”»34, intendendo con ciò che il modo in cui si dà trascendenza, nel senso della 32 Cfr. SZ, p. 192 (trad. it. a cura di F. Volpi, cit., p. 235; trad. it. a cura di A. Marini, cit., p. 549). 33 Cfr. SZ, p. 327: «Die ursprüngliche Einheit der Sorgestruktur liegt in der Zeitlichkeit» (trad. it. a cura di F. Volpi, cit., p. 388; trad. it. a cura di A. Marini, cit., pp. 919-921). In corsivo nel testo. 34 «Zeitlichkeit ist das ursprüngliche “Ausser-sich” an und für sich selbst» (SZ, p. 329; trad. it. a cura di F. Volpi, cit., p. 390; trad. it. a cura di A. Marini, cit., p. 925). In corsivo nel testo. Trascendenza ed essere 93 schiusura [Erschlossenheit] d’essere, è quello della temporizzazione estatica di un orizzonte di senso secondo l’unità di avvenire, esser-stato e presenza. Come Heidegger stesso ha scritto a tal riguardo: La condizione esistenzial-temporale della possibilità del mondo sta nel fatto che la temporalità, come unità estatica, ha qualcosa come un orizzonte. […] Con l’esser-ci fattivo viene rispettivamente, via via: progettato un poter essere nell’orizzonte dell’avvenire [Zukunft], dischiuso l’“esser-già” nell’orizzonte dell’esser-stato [Gewesenheit], svelato un pro-curato [Besorgtes] nell’orizzonte della presenza [Gegenwart]. […] Ciò implica: in base alla costituzione orizzontale dell’unità estatica della temporalità, a quell’ente che è via via il proprio ci appartiene qualcosa come un mondo dischiuso 35. Nell’estollersi delle estasi, l’orizzonte da queste dischiuso definisce propriamente l’in-vista-di-cui [Woraufhin], cioè il mondo, in rapporto al quale l’oltrepassamento accade come e-sistenza, esser-ci [Da-sein], in quanto In-der-Welt-sein. Temporizzandosi in vista del mondo, e cioè conformemente alla costituzione estatico-orizzontale della schiusura di quest’ultimo, il Da-sein è, essenzialmente, in quanto “schiusura dell’orizzonte temporalmente finito dell’essere, esistente in un mondo” – schiusura esistente oltre l’ente nella sua totalità e pur tuttavia già sempre anche coinvolta in mezzo ad esso. In definitiva, come anche lo svelamento della cooriginarietà dei diversi momenti strutturanti la costituzione interna alla trascendenza del Dasein conferma e mostra, è possibile affermare che, epurata da ogni valenza o residuo di tipo gnoseologistico (come ad esempio la “separazione”, in Husserl ancora presente, fra la dimensione trascendentale della coscienza ed il mondo), è in questo duplice movimento di oltrepassamento e coinvolgimento che risiede essenzialmente il senso ontologico generale dell’enucleazione heideggeriana della trascendenza in quanto “schiusura estatico-orizzontale”. 13. Perplessità di Michel Henry La determinazione del senso ultimo della trascendenza, ovvero del Dasein come essenzialmente schiusura estatica di un mondo, fornisce un’indicazione essenziale riguardo alla verità dell’essere ed alla struttu35 SZ, p. 365 (trad. it. a cura di F. Volpi, cit., pp. 431-432; trad. it. a cura di A. Marini, cit., pp. 1025-1027). 94 Roberto Formisano ra fenomenologica di quest’ultimo inteso quale apparire “originario”. Se, infatti, come Heidegger stesso dichiara in un passaggio-chiave di Sein und Zeit: «Essere – non ente – “si dà” solo finché verità è. Ed essa è solo finché e nella misura in cui esserci è»36, posto che, per quanto emerso in precedenza, il Dasein non possa che esistere se non in quanto In-der-Welt-sein (aperto alla comprensione del suo proprio essere alla luce dell’Außer-sich costituito e dischiuso dalla temporizzazione estatica della temporalità), ne viene che la comprensione d’essere, costitutiva della schiusura del Dasein, si tiene strutturalmente in una relazione essenziale con la verità dell’essere 37. La comprensione d’essere coappartiene costitutivamente alla struttura fenomenologica dell’essere. Essa definisce propriamente quell’apertura in e per cui prende terreno l’istituirsi della differenza fra verità ontica e verità ontologica, vale a dire quell’articolazione interna costitutiva della manifestatività dell’essere in quanto fenomeno in senso non ordinario o objettivo ma “originario”. Si chiarisce peraltro in tal modo perché, agli occhi dell’ontologia fenomenologica heideggeriana, in ultima istanza, la “via d’accesso” [methodos] verso la posizione della domanda ontologica fondamentale, debba passare ed esser ricercata innanzitutto attraverso una Daseinsanalyse, ovvero attraverso una preliminare analitica non dell’essere stesso in quanto tale, ma di un ente ben determinato – un ente dotato di un particolare privilegio ontico-ontologico, quale appunto la comprensione d’essere è per il Dasein. Alla luce della tesi della coappartenenza strutturale di essere e comprensione d’essere in seno alla manifestatività, si chiarisce, in effetti, che la preliminare (e provvisoria) riconduzione della Seinsfrage alla Daseinsanalyse altro non costituisca se non una “trasposizione metodologica” della struttura onto-fenomenologica stessa del Dasein. In quanto “via d’accesso” preliminare, la Daseinsanalyse dovrebbe fornire solo il passaggio iniziale, il “primo inizio” in vista di una radicalizzazione stessa del domandare propriamente ontologico. Come lo stesso Heidegger aveva indicato alla fine del § 69 dedicato al problema temporale della trascendenza del mondo: 36 SZ, p. 230 (trad. it. a cura di F. Volpi, cit., p. 277; trad. it. a cura di A. Marini, cit., p. 651). Corsivi di Heidegger. 37 Cfr. WG, pp. 133-135 (trad. it. cit., pp. 90-91). Trascendenza ed essere 95 La concreta elaborazione della struttura del mondo […] può essere intrapresa solo se l’ontologia del possibile ente intramondano sia con sufficiente sicurezza orientata in base a una chiara idea dell’essere in assoluto. La possibile interpretazione di questa idea richiede quell’esplicitazione preliminare della temporalità del Dasein alla quale la presente caratterizzazione dell’In-derWelt-sein deve appunto servire 38. Come è noto, questa ulteriore e “orientativa” esplicitazione dell’idea dell’essere überhaupt alla luce della problematica della temporalità, che avrebbe dovuto occupare la famosa terza sezione di Sein und Zeit, non fu mai pubblicata da Heidegger in ragione del maturarsi della cosiddetta Kehre. Ma, indipendentemente da quelle che furono effettivamente o avrebbero potuto essere gli sviluppi della riflessione heideggeriana a tal riguardo, per Henry già in questo stesso “primo inizio”, nonostante pure il suo carattere provvisorio e propedeutico, l’ontologia fenomenologica heideggeriana si scontrerebbe con una difficoltà rispetto alla quale emergerebbe il carattere intrinsecamente aporetico di questo preliminare inquadramento della costituzione d’essere del Dasein. La ri(con)duzione della struttura di questo ente alla trascendenza e la conseguente elezione di quest’ultima quale methodos per la riflessione onto-fenomenologica lascerebbe infatti del tutto indeterminato il senso relativo all’insieme di rapporti sussistenti fra il senso d’essere peculiare dell’ente Dasein (e cioè il legame strutturale che tiene uniti insieme comprensione e verità ontologica, in L’essence de la manifestation da Henry indicato per mezzo dell’espressione “rapporto trascendentale”) e il senso d’essere considerato in generale (in quanto “essenza” sia dell’ente Dasein sia dell’ente non-Dasein). Se per un verso, infatti, proprio nel senso indicato dal primato ontico-ontologico, il Dasein è rigorosamente tenuto distinto rispetto a qualunque altro ente in ragione del comprendere, costitutivo della sua struttura d’essere, per un altro verso, «in tutt’altro senso […] il Dasein si trova subordinato all’essere, nel momento in cui quest’ultimo non è per lui nient’altro che ciò che esso è per qualsiasi altro ente»39. Sì che, conclude Henry: 38 SZ, p. 366 (trad. it. a cura di F. Volpi, cit., p. 433; trad. it. a cura di A. Marini, cit., p. 1029). 39 EM, p. 43 (trad. it. cit., pp. 65-66). 96 Roberto Formisano L’espressione “essere del Dasein” è dunque profondamente ambigua, poiché ora indica l’essenza dell’esserci, in quanto questi intrattiene con l’essere un rapporto trascendentale, ora il fondamento che è in esso […] parimenti a qualsiasi altro ente 40. L’obiezione che dunque Henry muove nei confronti di Heidegger è la seguente: la ri(con)duzione della struttura d’essere del Dasein alla trascendenza non consente affatto di escludere, ma anzi lascia significativamente aperta la possibilità di riconoscere una certa qual omogeneità di fondo fra il senso d’essere di ciascuno di questi due tipi di ente. Sì che, scrive Henry: «Se l’essere del Dasein è costituito essenzialmente dalla temporalità, se quest’ultima è […] l’orizzonte dell’essere, non è forse allora più che mai ambigua la subordinazione del Dasein al senso dell’essere in generale?»41. Trasposta, poi, sul piano metodologico, tale ambiguità condurrebbe alla seguente, ulteriore, difficoltà: Nel momento in cui l’ontologia fondamentale è fatta poggiare sull’analitica del Dasein, quest’ultimo chiaramente interviene in quanto reca in sé il potere di rapportarsi originariamente all’essere. [In questo caso] è il rapporto trascendentale dell’esserci umano con l’essenza ad esser posto in causa. Al contrario, nel momento in cui si dichiara che l’analitica esistenziale non può compiersi altrimenti che sotto il presupposto implicito dell’essenza, il rapporto [dell’essenza] con l’essere del Dasein è identico al rapporto che essa intrattiene con l’essere di qualsivoglia altro ente. Se l’esserci umano è sottoposto al potere della trascendenza, è necessario allora precisare il modo in cui questa opera: fonda essa l’essere del Dasein subordinandolo a sé secondo un rapporto trascendentale, oppure l’esserci umano è semplicemente immerso nell’ambito aperto dalla trascendenza, allo stesso titolo di qualunque altro ente? 42 In realtà, appare decisamente evidente che, con la posizione del problema dell’omogeneità dell’essere 43, Henry manifesti l’esplicita intenzione di spingersi ben oltre l’interpretazione heideggeriana della trascendenza, cioè ben oltre l’impostazione da questa scaturente della Seinsfrage. Nella prospettiva onto-fenomenologica disposta da Heidegger, infatti, la questione dell’omogeneità dell’essere non si pone, né 40 Ibid. (trad. it. cit., p. 66). EM, p. 45 (trad. it. cit., p. 68). 42 EM, pp. 43-44 (trad. it. cit., p. 66). 43 EM, p. 45 (trad. it. cit., p. 68). 41 Trascendenza ed essere 97 avrebbe senso che sia posta, nella misura in cui, proprio alla luce della trascendenza è in definitiva assunto che sia l’ente intramondano sia il Dasein, sebbene in modi essenzialmente diversi, appartengono a quell’unica e medesima struttura fenomenologica che è la manifestatività stessa dell’essere in quanto tale. Da questo punto di vista, il pensiero heideggeriano sembra essere assolutamente coerente con le proprie premesse. E difatti, a ben vedere, ciò che Henry contesta ad Heidegger non riguarda affatto la coerenza interna al suo “sistema” di pensiero (coerenza, peraltro assicurata dal carattere “circolare” che, alla luce della trascendenza, appunto, la riflessione onto-fenomenologica acquisisce in senso ermeneutico). Ciò che Henry rivendica come problematico concerne piuttosto la “natura” delle premesse heideggeriane, ed in particolare il carattere di “puro presupposto” che il concetto di trascendenza conserverebbe all’interno della Seinsfrage, sin dalla sua preliminare impostazione esistenzial-ontologica. Si comprende, dunque, in tal senso la “necessità critica” di Henry, il quale, sollecitando una problematizzazione dell’enucleazione heideggeriana dell’essenza del Dasein, mira in realtà a condurre fuori dall’orizzonte di pensiero del paradigma heideggeriano il problema concernente l’effettiva legittimità della determinazione della trascendenza come criterio per la posizione della domanda circa la struttura fenomenologica dell’essere. Ciò a cui egli mira, infatti, è innanzitutto una “verifica” di questo presupposto. – E tuttavia: porre la questione della trascendenza fuori dal paradigma onto-fenomenologico, non è forse una contraddizione? Assumere la trascendenza, riservandosi tuttavia di fare a meno dell’impianto teoretico-metodologico che essa a suo modo motiva, non costituisce forse questo un uso illegittimo di siffatto concetto? Invero, quest’uso sarebbe illegittimo solo nel caso in cui, effettivamente, la questione della trascendenza fosse posta a partire dall’enucleazione heideggeriana della trascendenza. Ma appunto ciò è quanto, con la posizione del problema dell’«omogeneità dell’essere» 44, Michel Henry ha di fatto negato di voler fare. Per Henry, operare la “verifica” circa la legittimità della preliminare assunzione della trascendenza non vuol dire ri44 La formula è di Michel Henry, cfr. ibid. (trad. it. cit., p. 67) e supra, Sez. I, Cap. § 13. III, 98 Roberto Formisano prendere e condurre le categorie del pensiero heideggeriano su di un “terreno teoretico” a cui esse non appartengono, bensì portare allo scoperto le ragioni ultime in forza delle quali alla trascendenza sia effettivamente data la possibilità di agire come “presupposto” all’interno del progetto fenomenologico di fondazione della filosofia prima. Pertanto l’intento di Henry non è affatto quello di assumere anch’egli l’enucleazione heideggeriana della trascendenza per verificarne la legittimità, quanto piuttosto quello di radicalizzarla nel suo concetto. A tal fine, la problematizzazione del presupposto della trascendenza richiede, in questo senso, innanzitutto una sua “preparazione”, quanto meno l’esplorazione della possibilità di una enucleazione ulteriore di siffatto concetto – ma soprattutto una enucleazione tale che, ricomprendendo al proprio interno anche il concetto heideggeriano di trascendenza, ne renda tuttavia possibile la verifica finale. L’esplorazione di siffatta possibilità – la sua “preparazione” ed il suo svolgimento – costituiscono per l’appunto il corpo centrale di L’essence de la manifestation, quel plesso di argomentazioni per mezzo delle quali Michel Henry è infine giunto alla determinazione della propria “idea” della fenomenologia prima. Questo plesso, nella disamina dell’intera sua elaborazione, sarà l’oggetto della seconda sezione del presente studio. SEZIONE SECONDA DELLA TRASCENDENZA, OVVERO SULL’ORIGINE DELL’ESSERE Dal confronto con la “fenomenologia storica” è stata ricavata l’indicazione generale secondo cui, comunque abbiano tentato, sia Husserl che Heidegger, di pensare e di motivare la propria “idea” di “filosofia prima fenomenologica”, le loro soluzioni sono apparse non prive di unilateralità e ambiguità. Per Henry, il punto debole di entrambe queste interpretazioni della fenomenologia rinvia, non già agli esiti a cui esse conducono, quanto piuttosto al comune presupposto di fondo che le orienta: la convinzione che la fenomenicità originaria (sia che la si interpreti nel senso dell’intenzionalità, sia che la si interpreti nel senso della temporalità estatica) debba necessariamente esser ri(con)ducibile alla trascendenza e al senso della sua costitutiva estaticità. La riduzione della fenomenicità originaria alla sola dimensione fenomenologica dischiusa dalla trascendenza è l’elemento caratteristico di quell’orizzonte ermeneutico, in L’essence de la manifestation indicato come “monismo ontologico” [monisme ontologique]. Esemplificata all’estremo, la tesi caratteristica del monismo ontologico consiste nel riconoscimento dell’esistenza di un unico – e perciò anche originario – modo di costituzione del fenomeno considerato in generale. Che si tratti propriamente della fenomenicità costitutiva della manifestatività dell’essere o che si tratti della fenomenicità fondante la possibilità della manifestazione ontica, nella prospettiva del monismo ontologico il riferimento essenziale ed ultimo rinvia in definitiva sempre e soltanto alla struttura della schiusura estatica d’orizzonte. Che cosa tuttavia sia trascendenza, nella prospettiva del monismo ontologico, non è alcunché di scontato o ovvio. In quanto “atteggiamento ermeneutico di fondo”, il monismo ontologico non si presenta alla maniera d’una teoria filosofica compiuta ed esplicita. La sua tesi feno- 100 Roberto Formisano menologica è qualcosa che, per poter esser analizzata e discussa, richiede innanzitutto d’esser “disseppellita”, strappata alle recondite profondità in cui dimora e, portata alla luce, mostrata nella sua veste defintiva. Il monismo ontologico non si identifica, infatti, con nessuna teoria, nessuna delle correnti di pensiero o “scuole”, che nei secoli hanno animato la storia della filosofia in Occidente. Eppure, secondo Henry, in tutte queste è tuttavia possibile scorgere la presenza del monismo, a condizione che siano considerate in maniera rigorosa, alla luce delle assunzioni di fondo e dei principî che le regolano. Henry non esita neppure ad individuare la nascita del monismo ontologico, facendola coincidere con la nascita del pensiero filosofico stesso. I due eventi non sono evidentemente lo stesso, sebbene il monismo ontologico individui la traccia, l’elemento di continuità tra pensiero antico, moderno e contemporaneo, nella misura in cui tutti – ciascuno a modo suo – si rivelano esser vincolati al loro fondo ad un’unica “idea” comune, un’unica e sempre medesima concezione della fenomenicità, della quale peraltro già il confronto con Husserl e Heidegger ha già offerto un primo esempio. Non a caso, la stessa “fenomenologia storica” è difatti concepita da Henry come lo sviluppo più avanzato e significativo di siffatto modo di concepire la fenomenicità originaria. Le unilateralità riscontrate in Husserl e in Heidegger sono assunte da Henry come testimonianze “paradigmatiche” delle unilateralità caratteristiche del monismo stesso, considerato in quanto tale. Questo vuol dire però che, nella prospettiva indicata da Henry, il superamento della “fenomenologia storica” necessita d’esser inquadrato nella cornice del progetto, ben più ampio e ambizioso, di un oltrepassamento del monismo ontologico, da realizzarsi attraverso la “distruzione” di quest’ultimo ovvero, sulla base della preliminare messa in chiaro della tesi fenomenologica fondamentale del monismo e della chiarificazione del suo significato, la dimostrazione fenomenologica dell’intrinseca incoerenza dei presupposti e dei principî che ne fondano la caratteristica interpretazione della fenomenicità dell’essere. A questa “distruzione” e della “via” [methodos] impiegata da Henry per realizzare tale oltrepassamento è dedicata la presente sezione. Ripercorrendo le argomentazioni henryennes, è innanzitutto discussa la nozione di “distanza fenomenologica” [distance phénoménologique], vale a dire quel “minimo comune denominatore”, l’elemento caratteristico che Henry individua al fondo di tutte le filosofie appartenenti al- Della trascendenza 101 l’orizzonte ermeneutico del monismo ontologico 1 . Posto in chiaro il contenuto fenomenologico della nozione “monista” di trascendenza, sono successivamente approfondite e discusse le implicazioni ontologiche inerenti a siffatta nozione. A tal scopo, sulla base delle indicazioni fornite in L’essence de la manifestation, è sviluppata un’interpretazione fenomenologica delle tesi fondamentali dell’Idealismo tedesco 2. Una volta definita nei suoi tratti essenziali la concezione monista della trascendenza, in quanto determinazione del modo di costituzione del fenomeno in generale, è quindi discusso il problema relativo ai possibili modi di realizzazione della fenomenicità. Come sarà infatti mostrato, coerentemente alla tesi fenomenologica fondamentale del monismo è costitutivamente lasciata aperta la possibilità di interpretare in molteplici modi il processo di realizzazione della fenomenicità. In tal modo si spiega d’altronde il motivo per cui, benché tutte fondate su un unico presupposto, le filosofie del monismo siano capaci di presentarsi in forme diversissime, sempre nuove, e talora anche in contrasto tra loro. Ciò che, nel variegato panorama delle filosofie moniste, sul fondamento del comune riconoscimento della trascendenza come fenomenicità originaria, ne determina i differenti esiti ha a che fare con la risposta che, conformemente alla propria specifica interpretazione della trascendenza, ciascuna di queste filosofie interpreta (o, anche, assume inconsapevolmente) il modo in cui l’essere, per costituirsi in quanto fenomeno, deve poter essere ricevuto in quanto tale. L’enucleazione del modo in cui, coerentemente al principio della “distanza fenomenologica”, il monismo deve poter pensare la ricettività della trascendenza e la sua essenza è in realtà legato a doppio filo con il problema sollevato al termine della sezione precedente, relativo al presupposto dell’“omogeneità dell’essere” 3. Sviluppata nell’ambito della critica al monismo ontologico, la questione della ricettività consente ad Henry di re-impostare e ri-pensare in maniera organica il problema sollevato da Heidegger, relativo al rapporto tra essere ed ente in seno alla manifestatività originaria. In breve, la domanda cruciale sarà la seguente: dato il presupposto della “distanziazione”, ovvero della diffe1 Cfr. infra, Sez. II, Cap. I, § 14. Cfr. infra, Sez. II, Cap. I, § 15. 3 Cfr. supra, Sez. I, Cap. III, § 13. 2 102 Roberto Formisano renziazione tra essere ed ente sul fondamento della trascendenza del Dasein, come dovrà essere intesa la strutturale appartenenza della manifestazione ontica in seno alla verità ontologica? Formulata in questi termini, nella misura in cui si accetta il presupposto secondo cui l’ente “in qualche modo” 4 ricopra effettivamente un qualche ruolo significativo nel processo di realizzazione della manifestatività dell’essere, soltanto due, secondo Henry, sono le soluzioni possibili 5. Storicamente, queste sono state le posizioni difese, da un lato, dalle cosiddette “filosofie della coscienza” (ovvero le “filosofie della soggettività”, come ad esempio le filosofie dell’Idealismo tedesco) e, dall’altro, dalla “filosofia dell’essere”, ancora una volta paradigmaticamente espressa dal pensiero di Martin Heidegger. Nel primo caso, la manifestazione ontica è considerata come ciò in cui l’essere, il fenomeno originario, porta a compimento il proprio phainesthai. A detrimento di questa posizione, chiaramente insostenibile, Henry recupera la critica di Heidegger alla “metafisica”: obliando il senso della differenza ontologica, le “filosofie della coscienza” risolvono la verità dell’essere nella verità ontica, ri(con)ducendo il senso della ricettività ontologica a quella ontica, la cui realizzazione ha luogo nell’ambito dell’esistenza fattiva del Dasein e della sua storia. Facendo dell’ente un elemento imprescindibile per la manifestatività dell’essere, l’esito (paradossale e ontologicamente inammissibile) a cui l’impostazione propria di tali filosofie inevitabilmente conduce è il riconoscimento della manifestazione ontica come ciò in cui la verità dell’essere trova in ultimo il proprio fondamento. Diversamente, sul versante della “filosofia dell’essere”, lì dove il pensiero esplicitamente si volge alla salvaguardia della differenza ontologica, l’ente è concepito semplicemente come partecipe della verità dell’essere: ciò in cui e per mezzo di cui la verità ontologica opera la propria fondazione non è l’ente, bensì la schiusura in-grazia-del-mondo delle condizioni di possibilità per la manifestazione ontica, ovvero l’accadere estatico-temporale dell’esserci come orizzonte del disvelamento della fenomenicità originaria, in quanto aletheia. 4 Esattamente in quel modo [Wie] che, pur rinviando alla trascendenza, resta tuttavia da chiarire nel suo significato fenomenologico e nelle sue implicazioni ontologiche. 5 Cfr. infra, Sez. II, Cap. I, § 17. Della trascendenza 103 Per Henry, tuttavia, la filosofia dell’essere svela la propria inadeguatezza per la costitutiva incapacità di risolvere la profonda ambiguità che, nell’esistenza concreta del Da-sein, viene a istituirsi tra l’essere [Seyn] inteso come ciò sul fondamento della cui schiusura il Da-sein è aperto all’orizzonte delle sue proprie possibilità esistenziali, e l’essere (i.e. l’essere dell’ente) inteso come l’oggetto via via ricevuto nella fattiva comprensione dell’esserci. La sostanza delle obiezioni già incontrate nel contesto dell’analisi dell’interpretazione heideggeriana della filosofia prima sarà dunque ripresa, per esser però questa volta nuovamente sviluppata nel contesto del confronto più ampio ineerente al problema fenomenologico della ricettività e della determinazione del modo in cui, conformemente all’eidos dell’estaticità, la trascendenza dovrebbe poter realizzare il proprio mostrarsi in quanto tale. Insistendo nuovamente sulla difficoltà metodologica a cui il presupposto dell’“omogeneità dell’essere” inevitabilmente conduce, sarà mostrato in che senso ed in che modo, a giudizio di Henry, il presupposto della trascendenza renda di fatto impossibile ogni “verifica” circa la validità della pretesa riduzione della struttura fenomenologica dell’essere al senso della sola temporalità estatica. Sì che, posta ormai in aperta contrapposizione rispetto all’impostazione heideggeriana, la questione decisiva a cui la riflessione henryenne circa il monismo ontologico porterà è la seguente: se sia possibile sviluppare un inquadramento della questione inerente al modo di costituzione ed alla realtà della trascendenza indipendentemente dalla problematica relativa alla manifestazione ontica 6. Nel contesto di questa re-impostazione della questione della trascendenza, particolare rilievo assume la lettura che, in L’essence de la manifestation, Henry ha svolto della Anweisung zum seligen Leben di Johann Gottlieb Fichte. Proprio sollecitato dall’esigenza di individuare una valida alternativa in grado di delineare una possibile “via di superamento” 6 Ciò è quanto Henry stesso intende allorché, in EM, p. 71 (trad. it. cit., p. 89), scrive: «La determinazione dell’essenza deve […] fornirci la cornice ontologica per una discussione del rapporto di questa essenza all’esistente che trova in essa il suo fondamento. Tale determinazione può dire in effetti solo […] se il fatto di non occuparsi più dell’esistente sia definitivo, e se l’essenza che consente quest’abbandono consente di concentrarsi solo su di essa, di astrarre dalla determinazione ontica e, assolutizzandosi in quest’astrazione, di sussistere ciò nonostante in tal modo, preservando in questa sua autonomia la sua assolutezza». 104 Roberto Formisano dell’impasse rappresentato dal “circolo ermeneutico” heideggeriano, è infatti all’Anweisung zum seligen Leben di Fichte che Henry significativamente si volge. Attraverso l’analisi del fenomeno della “coscienza religiosa” 7, Henry scopre nella tesi dell’“autonomia” della comprensione ontologica, espressa attraverso le nozioni di “alienazione” e “parousia” 8, il criterio fondamentale alla luce del quale poter finalmente impostare in maniera definitiva la “verifica” dei presupposti ontologici del monismo. Re-inquadrata alla luce di siffatto criterio, la questione della ricettività sarà pertanto sviluppata nella forma d’una revisione critica delle tesi heideggeriane circa il senso (originario) della temporalità estatica 9. Sviluppata sotto l’egida della tesi dell’indipendenza della comprensione ontologica rispetto alla comprensione esistentiva, l’esito a cui tale revisione condurrà sarà l’enucleazione di un nuovo concetto di trascendenza – propriamente, l’enucleazione del concetto henryen di trascendenza: quel concetto che, sottoposto infine a “collaudo”, servirà a mostrare in definitiva l’unilateralità fondamentale del monismo, l’illegittimità della riduzione della fenomenicità [phénoménalité] al senso della sola estaticità. 7 Cfr. infra, Sez. II, Cap. II, § 19. Cfr. infra, Sez. II, Cap. II, § 20. 9 Cfr. infra, Sez. II, Cap. III. 8 Capitolo I Il “monismo ontologico” e la filosofia prima 14. La distanza fenomenologica La nozione di “distanza fenomenologica” è introdotta da Henry per definire l’essenza della trascendenza, vale a dire il modo [Wie] della sua costituzione in quanto fenomeno. Storicamente, il “contenuto” di siffatta nozione avrebbe cominciato ad emergere e ad esser esplicitamente riconosciuto dal pensiero filosofico soprattutto con l’avvento della modernità. Non a caso, la chiarificazione del concetto di distanza fenomenologica è sviluppata da Henry a partire dal commento ad un passo tratto dalle Objectiones di Gassendi al cogito cartesiano 1. Il confronto di Gassendi con la filosofia di Descartes è richiamato come exemplum della contrapposizione fra comprensione naturale e comprensione cartesiana della trascendenza. Nel testo delle Objectiones, ciò che Gassendi pone direttamente in questione è il senso della certezza, a partire dalla quale Descartes indica nel cogito il senso, la costituzione d’essere del “fondamento”. Come può – afferma in sostanza Gassendi – il cogito esser “certo” di sé, ossia della propria ipseità, in quanto conoscenza che esso ha di se stesso? Come può esser “sicuro” del fatto che la conoscenza che esso ha di sé e ciò che egli è realmente siano in effetti la stessa cosa? Difatti, ciò a cui la certezza si riferisce è 1 Cfr. EM, pp. 72-75 (trad. it. cit., pp. 90-92). Per il testo delle obiezioni di Gassendi, cfr. Objectiones quintae, in R. DESCARTES, Œuvres, vol. VII: Meditationes de Prima Philosophia, a cura di P. Tannery e C. Adams, Paris, CNRS-Vrin, 1973, pp. 256-346 (trad. it. di A Tilgher, riveduta da F. Adorno, Quinte obbiezioni, in R. CARTESIO, Opere, vol. II: Meditazioni metafisiche. Obbiezioni e risposte, a cura di E. Garin, Roma/Bari, Laterza, 20008, pp. 243-331). 106 Roberto Formisano che, in quanto cogitans, la res pensa se stessa. La domanda-chiave dell’obiezione “realista” è, allora: in che modo è dato al pensiero di poter pensare se stesso? Scrive Gassendi: Considerando perché e come può accadere che l’occhio non veda se stesso, e che l’intelletto non si concepisca, mi è venuto in mente che nulla agisce su se stesso; poiché, in effetti, né la mano […] tocca se stessa, né il piede si dà un colpo. Ora, essendo, invece, necessario, per avere la conoscenza di una cosa, che questa cosa agisca sulla facoltà che conosce, cioè […] che l’uniformi e la riempia della sua immagine, è cosa evidente che la facoltà stessa, non essendo fuori di sé, non può […], quindi, formare la nozione di se stessa. E per qual ragione pensate voi che l’occhio, non vedendo se stesso in sé, si vede, nondimeno, in uno specchio? Senza dubbio perché tra l’occhio e lo specchio vi è uno spazio […]. Datemi, dunque, uno specchio contro il quale voi agiate nella stessa guisa, e vi assicuro che, venedo a riflettere e a rinviare contro di voi la vostra propria specie, potrete allora vedere e conoscere voi stesso, non già, a dir vero, per una conoscenza diretta, ma almeno per una conoscenza riflessa; altrimenti non vedo come possiate avere qualche nozione o idea di voi stesso 2. Come la mano non può toccare se stessa ed il piede non può colpirsi da sé, così anche l’occhio non può vedersi “in se stesso”. La mano, il piede, l’occhio possono sentire e percepire qualcosa soltanto nella misura in cui sono poste in rapporto a qualcosa d’altro, qualcosa di esterno. Così – per restare aderenti alla metafora di Gassendi – dell’occhio si dirà che esso può vedere se stesso solo per mezzo d’uno speculum che ne rifletta l’immagine. Fuor di metafora, ciò che Gassendi rivendica è il fatto che, nel sapere “qualcosa”, nel sapere di tipo “tematico” proprio di ogni percipere, il pensiero e la facoltà di conoscere in genere non si creano da sé i propri oggetti, bensì li ricevono da “fuori”. Per potersi rapportare a qualcosa in generale, il terminus ad quem, cioè l’“oggetto” del rapporto, deve poter esser fornito loro sulla base d’una mediazione, dall’esterno. Allo stesso modo, secondo Gassendi, poiché ciò che il cogito apprende alla luce del dubbio iperbolico in realtà non configura altro che il “sé” in quanto “oggetto” del proprio sapersi, non è vero che questa presunta modalità privilegiata di perceptio si realizza in assenza di ogni condizione o condizionamento: come l’occhio per poter vedere se stesso necessita d’uno 2 Ibid., p. 292 (trad. it. cit., p. 283). Il “monismo ontologico” e la filosofia prima 107 specchio, così il pensiero per potersi fare oggetto del suo stesso percipere, al pari di un’immagine riflessa, deve potersi innanzitutto esteriorizzare, farsi altro da sé, “porsi a distanza”. La “distanza”, nell’ottica realista e ancora naturale di Gassendi, definisce il senso non soltanto del rapporto soggetto-oggetto, bensì anche del rapporto che innanzitutto la coscienza, come tale, intrattiene con se medesima appunto nel modo del percipere. Nonostante in Gassendi la metafora della distanza sia, in maniera peraltro abbastanza vaga, riferita al significato gnoseologico della trascendenza, in essa, a giudizio di Henry, sono soggiacenti precise premesse di carattere fenomenologico generale 3. Al di là del carattere più superficiale della metafora, infatti, ciò che il concetto di distanza esprime, nella contrapposizione alla filosofia di Descartes, è il carattere di costitutiva esteriorità del cogito, ovvero l’esteriorità intesa come condizione di possibilità del rapporto che, in generale, il soggetto intrattiene con l’oggetto così come con se medesimo, in quanto oggetto del proprio sapersi. Elaborata nel suo significato fenomenologico, la tesi di Gassendi consente in effetti la messa a fuoco dell’aspetto decisivo e centrale del concetto di distanza fenomenologica. Ciò che in tale concetto è affermato è la tesi secondo cui: per potersi mostrare, in generale il fenomeno (ovvero, indistintamente, qualunque tipo di fenomeno già solo per il fatto d’apparire) deve poter essere posto a distanza e collocato in un ambito di esteriorità; cosicché, allo stesso modo, anche il cogito è da intendersi come prodotto di una distanziazione che il pensante deve poter compiere nei confronti di se medesimo. Al pari di qualunque altro fenomeno, l’ego cogito, per potersi mostrare in quanto “se stesso”, cioè in quanto ipseità, e rapportarsi-a-sé nel modo del pensiero, deve potersi collocare innanzitutto in un ambito di esteriorità, un “orizzonte di senso”, entro cui soltanto potersi ritrovare come “oggetto” del proprio pensiero, in quanto distanziato. In questo senso si può dire che la tesi di Gassendi indichi in qualche modo, seppure in maniera ancora confusa e naturale 4, nella preliminare apertura di 3 Cfr. a tal proposito quanto scrive Henry a giustificazione della propria interpretazione in EM, pp. 74-75 (trad. it. cit., pp. 91-93). 4 Come l’evidente commistione fra distanziazione e objettità testimonia. Gassendi concepisce in maniera confusa l’esteriorità come condizione di possibilità ponendosi 108 Roberto Formisano un ambito di esteriorità la condizione di possibilità del mostrarsi [phainesthai] del fenomeno in generale. Posto in luce il “sostrato fenomenologico” implicito nella tesi di Gassendi, il concetto di distanza fenomenologica rende riconoscibile sul fondo della sua obiezione critica nei confronti di Descartes una linea argomentativa non dissimile da quella sviluppata nei primi decenni del Novecento da Martin Heidegger, poi sistematizzata in Sein und Zeit. Certo, Gassendi mostra di possedere una concezione ancora “spuria” dell’essenza del fenomeno, come testimonia il fatto che egli, da realista, confonde ancora il senso fenomenologico della distanza con quello ancora ontico della “spazialità”. E tuttavia, come inequivocabilmente lo stesso Henry afferma, in realtà «Heidegger pensa la stessa cosa di Gassendi, solo che la pensa nella sua verità ontologica» 5. In effetti (almeno per quel che concerne il rilievo dell’esteriorità del cogito), non diversamente da Gassendi anche Heidegger ha sostenuto la tesi secondo cui originariamente non è il mondo (cioè l’orizzonte di senso verso cui la coscienza è aperta) ad esser significato dall’autocomprensione del cogito, bensì il contrario – è il cogito che, per poter accedere a se stesso e comprendersi in quanto “sé”, ossia per potersi rapportare a se stesso e costituirsi nella sua ipseità, deve poter essere innanzitutto costituito um der Welt willen 6, ossia in-grazia-del mondo. Per potersi mostrare alla coscienza in tutta la sua pienezza ed evidenza, il cogito deve potersi distanziare da sé; per poter accedere a se medesimo, deve poter avere esso stesso la struttura dell’accesso, e dunque strutturarsi esso stesso in quanto apertura estatica d’orizzonte. La schiusura di questo ambito – dall’ontologia fenomenologica per l’appunto identificata con la costituzione d’essere del fenomeno del mondo [Welt] – indica una struttura “trascendentale” rispetto al carattere di evidenza del cogito 7 . Richiamandosi a quest’aspetto della lezione heideggeriana, scrive dunque Henry: entro la quale al fenomeno è dato di potersi mostrare, e non ancora – come, al contrario, la problematica inerente al monismo ontologico farà emergere – l’esteriorità stessa, come tale, in quanto fenomeno. 5 EM, p. 81 (trad. it. cit., p. 97). Corsivi di Michel Henry. 6 Cfr. K, p. 228 (trad. it. cit., p. 197); ma cfr. anche supra, Sez. I, Cap. III, § 12. 7 Cfr. SZ, p. 38 (trad. it. a cura di F. Volpi, cit., p. 54; trad. it. a cura di A. Marini, cit., p. 123). Il “monismo ontologico” e la filosofia prima 109 Il concetto di distanza fenomenologica deve chiaramente essere distinto da quello di distanza spaziale o reale. La distanza che separa le cose o che separa noi da queste è una distanza che è possibile misurare oggettivamente […] e che è propria dell’Umwelt. Tuttavia, vissuta nell’esperienza percettiva originaria, questa distanza è il fenomeno del mondo. […] Il mondo è la condizione trascendentale dello spazio […]. Ora, il concetto di distanza fenomenologica non è legata allo spazio, […] ma è propria del fondamento, della mondanità del mondo 8. La nozione henryenne di distanza fenomenologica introduce ad una enucleazione nuova dell’essenza del mondo, cioè la mondanità [Weltlichkeit] intesa nel senso della costitutiva estaticità del Dasein in quanto orizzonte trascendentale dell’essere. Posto il primato del mondo sul mostrarsi in generale, il carattere di evidenza costituisce un tratto secondario, “derivato” e, preso da solo, non essenziale del mostrarsi del cogito. Nel rapportarsi-a-sé che determina la struttura del cogito cartesiano, ciò che originariamente è dato alla coscienza è la struttura fenomenologica del mondo come ciò soltanto in-grazia-di-cui [worumwillen] essa può ottenere l’accesso alla sua stessa costituzione d’essere nel modo del comprendere. Come Heidegger scrive infatti a tal proposito: L’esserci, esistendo, è il suo “ci”: ciò significa innanzitutto che il mondo “ci” è […]. E quest’ultimo “ci” è a sua volta precisamente come ciò in-grazia-dicui l’esserci è. Nell’in-grazia-di-cui [Worumwillen] è dischiuso l’esistente essere-nel-mondo in quanto tale, schiusura, questa, che abbiamo chiamato comprendere 9. Alla luce della struttura fenomenologica del Worumwillen, l’accesso si rivela essere come tale già in se stesso trascendenza, esattamente nel senso dell’apertura dell’orizzonte di senso non-objettivo nel modo della schiusura estatica. La sua struttura è già sempre quella dell’In-der-Weltsein. Compreso nel suo significato esistenzial-ontologico, dunque, il concetto onto-fenomenologico di mondo [Welt] definisce propriamente la struttura e la condizione di possibilità per l’accesso al fenomeno [Phänomen – nicht nur Erscheinung] come tale. Esso individua l’essenza del mostrarsi [phainesthai] in generale, ossia lo strutturale in-grazia8 9 EM, pp. 75-76 (trad. it. cit., pp. 92-93). SZ, p. 143 (trad. it. a cura di F. Volpi, cit., p. 413). Corsivi nostri. p. 177; trad. it. a cura di A. Marini, cit., 110 Roberto Formisano di-cui [Worumwillen] sul fondo del quale la comprensione d’essere [Seinsverständnis], posta in rapporto a se medesima nel modo della schiusura [Erschlossenheit], trova disposto l’accesso, ossia la possibilità di rapporto, non soltanto all’ente bensì anche all’essere stesso, in quanto fenomeno. La critica che, in Sein und Zeit, Heidegger riserva a Descartes si concentra per l’appunto essenzialmente sui rilievi fenomenologici dell’accesso e del mondo 10. La comprensione del mondo, configurando essa stessa la comprensione da parte del Dasein della sua stessa costituzione d’essere, individua ciò che – dal punto di vista metodologico – è la premessa decisiva in vista dell’impostazione della Seinsfrage heideggeriana. Se la posizione della domanda circa il fondamento dipende dal modo in cui la comprensione d’essere interpreta il senso della sua stessa costituzione essenziale, questo rinvia primariamente al fenomeno del mondo, in quanto Worumwillen della schiusura estatico-orizzontale dell’accesso al fenomeno in generale. Heidegger critica Descartes per il fatto che la comprensione del mondo sottesa al suo tentativo di fondazione filosofica poggia in ultima istanza sulla riduzione del Worumwillen costitutivo della comprensione d’essere, cioè il fenomeno del mondo, al senso d’essere proprio della mera sostanzialità 11. In breve, Descartes avrebbe confuso il come [Wie] dell’accesso da parte del cogito al senso della sua propria ipseità [Selbstheit] con il come dell’accesso che è proprio della conoscenza intesa nel senso dell’intellectio e del conoscere matematico-fisico 12. Descartes, insomma, avrebbe confuso il senso dell’accesso del cogito a se medesimo e della certezza correlativa a quest’accesso con lo ständiges Verbleib, la stabile permanenza di ciò che innanzitutto e per lo più agli occhi del comprendere si mostra sem- 10 Sulla critica di Heidegger a Descartes, si rinvia in particolare ai contributi di J.L. MARION, Réduction et donation, cit., in part. pp. 119-161; J. TAMINIAUX, Lectures de l’ontologie fondamentale. Essais sur Heidegger, Grenoble, Millon, 1989, pp. 213-230; F.-W. VON HERRMANN, Sein und Cogitationes. Zu Heideggers DescartesKritik, in Durchblicke, a cura di V. Klostermann, Frankfurt a.M., Klostermann, 1970, pp. 235-254. 11 Cfr. SZ, p. 94 (trad. it. a cura di F. Volpi, cit., p. 121; trad. it. a cura di A. Marini, cit., p. 279). 12 Cfr. SZ, p. 95 (trad. it. a cura di F. Volpi, cit., p. 122; trad. it. a cura di A. Marini, cit., p. 281). Il “monismo ontologico” e la filosofia prima 111 pre sottomano nel-mondo13. Confondendo la Weltlichkeit con il senso d’essere di ciò che in-grazia-del mondo giunge alla manifestazione [Erscheinung], Descartes avrebbe operato in maniera tale per cui «da una determinata idea di essere che soggiace occultata nel concetto di sostanzialità, e dall’idea di una conoscenza che ha questo modo di conoscere l’ente, viene, per così dire, dettato al “mondo” il suo essere»14. Guidato da una predeterminata concezione della Weltlichkeit, Descartes avrebbe dunque ri(con)dotto il senso dell’accesso a se medesimo da parte del cogito a quello della mera prossimità ontica. Infatti, se dal punto di vista ontologico l’accessibilità della sua propria costituzione d’essere a se medesima è quanto primariamente la schiusura del fenomeno del mondo, in quanto Worumwillen del rapportarsi-a-sé della comprensione d’essere, offre al Dasein, tuttavia, non casualmente, accade che proprio nel momento in cui il Dasein prova ad accedere a se stesso – ovverosia, nel momento in cui ciò che è comprensione d’essere tenta di farsi altresì oggetto tematico del suo stesso comprendere – ecco che l’iniziale “prossimità” [Nähe] a se medesima della struttura del rapportarsi-a-sé sembra dissolversi. La prima vicinanza del Dasein a se medesimo scompare e il “soggetto” del conoscere si scopre essere al contempo massimamente “lontano” da sé. Per mezzo della Daseinsanalyse, Heidegger fa notare come immancabilmente, in questa dinamica, la comprensione d’essere si trovi di fronte ad uno “scarto”: il “soggetto” del conoscere è come se si riconoscesse sdoppiato in due distinte entità. L’esser-comprensione (come dire: il viversi in quanto comprendente) e l’esser-oggetto del comprendere, nel momento in cui si punta a farli collimare, si scoprono non esser coincidenti. La critica all’intuizionismo ha enucleato questo scarto, catalogandolo come “eccedenza di senso” 15. Procedendo oltre su questa medesima linea, la Daseinsanalyse assume questo carattere di “lontananza” [Entfernung] come contrassegno del carattere costitutivo di estaticità, cioè di “esternità” 16 a se stesso, da parte del Dasein. In questa prospettiva, 13 Cfr. J. TAMINIAUX, Lectures de l’ontologie fondamentale, cit., p. 223. p. 96 (trad. it. a cura di F. Volpi, cit., p. 122; trad. it. a cura di A. Marini, cit., p. 283). 15 Cfr. supra, Sez. I, Cap. II, § 9. 16 Cfr. P.A. ROVATTI, La posta in gioco. Heidegger, Husserl e il soggetto, Milano, Bompiani, 1987, pp. 30-31. 14 SZ, 112 Roberto Formisano l’estaticità nomina il modo di costituzione della relazione di co-appartenenza dell’essere e della comprensione d’essere in seno alla struttura del mostrarsi [phainesthai] in generale, vale a dire lo strutturarsi della possibilità d’accesso, in quanto apertura in-grazia-del mondo, da parte della comprensione d’essere nei confronti di se medesima. Il che significa: l’accesso all’essere in generale (ovvero, indistintamente, sia all’essere dell’ente, sia all’essere in quanto tale che all’essere dell’esistenza medesima) si dà primariamente in quanto schiusura d’un ambito di pura esteriorità, la cui struttura fenomenologica è quella propria del Da-sein, in quanto essenzialmente In-der-Welt-sein. Nell’ottica della Daseinsanalyse, “vicinanza” e “lontananza” sono pensate ontologicamente come modulazioni di quella distanza 17 che rende possibile alla maniera di un’ek-stasis – un “uscir fuori”, nel senso di una differenziazione interna 18 – la struttura del rapporto considerato in quanto tale. Non a caso, il termine che Heidegger utilizza in Sein und Zeit, riferendosi al carattere di estaticità dell’In-der-Welt-sein, è quello di Ent-fernung. Nel linguaggio di Sein und Zeit, il verbo Ent-fernen è utilizzato ad indicare principalmente il progetto [Entwurf] del mondo 19, definito dalla temporalità estatica 20 , entro cui si trovano tracciate le coordinate essenziali 21 per l’accesso e l’incontro fra comprensione d’essere e fenomeno in generale. Il concetto esistenzial-ontologico di Ent-fernung nega che qualcosa come l’“accesso” al fenomeno possa esser dato alla maniera d’una “puntiforme immediatezza”. Conformemente al senso dell’estaticità co17 Da non intendersi assolutamente in senso ontico o esistentivo, cfr. SZ, p. 105 (trad. it. a cura di F. Volpi, cit., pp. 133-134; trad. it. a cura di A. Marini, cit., pp. 307-309) e EM, pp. 76-77 (trad. it. cit., p. 93). 18 Cfr. supra, Sez. I, Cap. III. 19 Cfr. SZ, pp. 104-105 (trad. it. a cura di F. Volpi, cit., p. 133; trad. it. a cura di A. Marini, cit., p. 307). 20 Cfr. SZ, p. 329 (trad. it. a cura di F. Volpi, cit., p. 390; trad. it. a cura di A. Marini, cit., p. 925). 21 In senso esistenzial-ontologico, si tratta dell’unitario estollersi di Zukunft, Gewesenheit e Gegenwart, la cui fenomenizzazione dischiude la temporalità – die Zeitlichkeit, ossia «il fondo ontologico originario dell’esistenzialità del Dasein» (SZ, p. 234, trad. it. a cura di F. Volpi, cit., p. 282; trad. it. a cura di A. Marini, cit., p. 665. Corsivi nostri) – come l’ekstatikon puro e semplice, pura estaticità e trascendenza. Cfr. SZ, pp. 328-329 (trad. it. a cura di F. Volpi, cit., p. 390; trad. it. a cura di A. Marini, cit., pp. 923-925). Il “monismo ontologico” e la filosofia prima 113 stitutiva del Da-sein, l’accesso vuole piuttosto una sua “spazialità” [Räumlichkeit] da identificarsi con la trascendenza propria dell’In-derWelt-sein 22, ovvero con l’orizzonte estatico del mondo. Sicché è strettamente in riferimento a queste determinazioni che sono da intendersi le affermazioni henryennes secondo cui: «La distanza fenomenologica è il potere ontologico che dà a noi accesso alle cose; essa stessa è quest’accesso, un accesso nella lontananza e attraverso quest’ultima» 23. Essa «modula le originarie Entfernungen, dispiega l’ultimo orizzonte di visibilità all’interno del quale ogni cosa può diventare visibile per noi», ovvero «la dimensione ontologica dell’esistenza»24. Ciò che, come Gassendi, anche Heidegger avrebbe pensato dietro la nozione esistenzial-ontologica di Ent-fernung si riferisce dunque essenzialmente alla dimensione estatica inerente alla struttura fenomenologica del mondo in quanto condizione di possibilità del mostrarsi in generale. Ciò che, tuttavia, a differenza di Gassendi, Heidegger avrebbe avuto il merito di portare allo scoperto nel suo significato ontologico è il fatto che: proprio in quanto condizione di possibilità del rapporto in generale, l’estaticità va altresì intesa come momento costitutivo della manifestatività dell’essere. Concepita conformemente al senso esistenzialontologico della Weltlichkeit, l’estaticità determina non soltanto il modo in cui l’esistenza comprende in-grazia-del mondo la sua stessa costituzione d’essere, bensì – e soprattutto – il modo in cui la manifestatività deve poter realizzare il proprio apparire sul fondamento del nesso essenziale individuato fra apertura d’orizzonte, comprensione d’essere e verità ontologica. Questo modo è per l’appunto, cioè esiste, in quanto si identifica nella sua essenza con la struttura fenomenologica della comprensione d’essere, vale a dire l’apertura estatica d’orizzonte in quanto In-der-Welt-sein. Strutturarsi della manifestatività e costituirsi delle condizioni fenomenologiche di possibilità per la manifestazione ontica (scil. rapportarsi alla maniera della ni-entificazione e dell’oltrepassamento, da parte del Dasein, nei confronti della sua stessa costituzione d’essere) individuano agli occhi dell’ontologia fenomenologica heideggeriana due risvolti dif22 Sul significato della trascendenza del Dasein dal punto di vista onto-fenomenologico, cfr. supra, Sez. I, Cap. III. 23 EM, p. 77 (trad. it. cit., p. 94). 24 Ibid. Corsivi di Michel Henry. 114 Roberto Formisano ferenti di un unico accadimento, che è il mostrarsi del fenomeno in quanto tale nel senso dell’originaria co-appartenenza [ursprüngliche Zusammengehörigkeit] di manifestatività e comprensione d’essere. Il concetto di distanza fenomenologica è pertanto introdotto da Henry come enucleazione dell’elemento comune ad entrambi questi risvolti, ossia dell’estaticità intesa come tratto distintivo del rapporto considerato in quanto tale e, quindi, della struttura stessa del mostrarsi considerato in generale. 15. Oltre la contrapposizione. La lezione dell’Idealismo tedesco La tesi ontologica a cui il concetto di distanza fenomenologica conduce afferma che, per mostrarsi in quanto tale, l’essere deve poter essenzialmente esteriorizzarsi, ovvero: non tanto porsi “fuori di sé” quanto piuttosto costituire esso stesso, come tale, il puro ambito di esteriorità entro cui soltanto a qualcosa come l’ente (objectum) è dato potersi manifestare. In quanto determinazione dell’estaticità come essenza del mostrarsi [phainesthai] in generale, la distanza fenomenologica ha consentito ad Henry di portare allo scoperto il primo tratto comune, al fondo della comprensione ontica (Gassendi) e ontologica (Heidegger) della trascendenza. Sarebbe tuttavia errato – oltre che riduttivo e limitante – credere che, in ragione di queste prime due indicazioni, la caratterizzazione dell’estaticità nel senso della distanziazione coinvolga solo le filosofie di ispirazione “anticartesiana”. La tesi che, anzi, esplicitamente Henry sostiene, in aperto contrasto con la polemica heideggeriana nei confronti della metafisica moderna e delle filosofie della soggettività in genere 25, è che il significato ontologico della distanza fenomenologica si trova in realtà, in maniera neanche tanto occultata, alla base anche di quelle che in L’essence de la manifestation sono indicate con il nome di “filosofie 25 Il cui fondamento, a giudizio di Heidegger, riposerebbe tutto su un’interpretazione ontica della trascendenza costitutiva del Dasein. Esemplare in tal senso è l’affermazione riportata in SZ, p. 320 (trad. it. a cura di F. Volpi, cit., p. 380; trad. it. a cura di A. Marini, cit., p. 899), secondo cui: «Il concetto ontologico del soggetto caratterizza non l’ipseità dell’io in quanto sé, bensì la medesimezza e la stabilità di qualcosa sempre già sottomano». Corsivi di Heidegger. Cfr. tuttavia anche SZ, pp. 317-318 (trad. it. a cura di F. Volpi, cit., pp. 376-378; trad. it. a cura di A. Marini, cit., pp. 891-895). Il “monismo ontologico” e la filosofia prima 115 della coscienza”, ossia quelle filosofie le quali, pur inserendosi nell’ambito dell’interpretazione “cartesiana” della trascendenza nel senso della soggettività, ciononostante sono state in grado di superare il residuale “sostanzialismo” della filosofia di Descartes. Esempio eclatante ne sarebbero le filosofie dell’Idealismo tedesco. Nel § 11 di L’essence de la manifestation, per l’appunto dedicato al rapporto fra “filosofia dell’essere” e “filosofie della coscienza”, Henry così scrive: Ma può l’opposizione tra la coscienza e la cosa (opposizione “classica”, da Descartes in avanti) essere identificata, come comunemente è stato fatto, con quella della coscienza e dell’essere? Non è forse evidente, al contrario, che l’analisi filosofica della “cosa” ricade sotto la medesima dialettica e obbedisce alle medesime prescrizioni dell’analisi filosofica dell’ente? […] Infatti, nel suo concetto, la coscienza non si oppone all’essere, ma semplicemente all’ente. Come l’essere, la coscienza riceve il senso d’essere l’essenza e il fondamento. L’opposizione della coscienza e della cosa e l’opposizione dell’essere e dell’ente sono identiche. L’avvento dell’Idealismo moderno dissimula, nella storia del pensiero, l’apparizione di un modo nuovo e propriamente filosofico di domandare: quello che, interrogandosi sulla condizione di possibilità della cosa, propone in tal modo alla riflessione, come oggetto suo proprio, la chiarificazione della sfera ontologica dell’esistenza 26. In breve, Henry sostiene che, assunta come criterio ermeneutico generale, la nozione di distanza fenomenologica mostra come, in realtà, ben al di là delle sole “filosofie della coscienza”, anche la “filosofia dell’essere” sia riconducibile ad un medesimo presupposto di fondo, il quale, variamente interpretato, rinvia sempre e comunque, in ultima istanza, al nesso della strutturale coappartenenza di manifestatività ed esistenza. In questo senso, nel passo citato, Henry invita a pensare, alla luce del concetto di distanza fenomenologica, le coppie oppositive “essere vs. ente” (cruciale nella tematizzazione heideggeriana della differenza ontologica) e “coscienza vs. cosa” (tipica delle filosofie dell’Idealismo), come una sorta di percorsi ermeneutici “paralleli”, ciascuno ben radicato nel proprio tracciato e tuttavia entrambi orientati secondo un unico “fuoco” prospettico, ovvero un’unica e medesima direzione di sviluppo. 26 EM, pp. 92-93 (trad. it. cit., pp. 106-107). Corsivi di Michel Henry. 116 Roberto Formisano Al centro di questo parallelismo, ancora una volta è il significato ontologico del rapporto [Verhältnis]. Legato ad una concezione ancora “gnoseologistica” della trascendenza 27, la nozione di rapporto è pensata dall’Idealismo a partire dall’opposizione della coscienza e della cosa, sebbene esso, per contro, non conservi già più il significato naturale di una mera relazione fra sostanze 28. Riflettendo intorno alla “cosità” della cosa, l’Idealismo sarebbe piuttosto giunto all’identificazione della coscienza con la struttura stessa del rapporto, in senso non-objettivo. La coscienza, cioè, sarebbe già non più pensata semplicemente come uno dei termini della contrapposizione, bensì identificata con la struttura stessa della relazione oppositiva 29. L’identificazione della coscienza con la struttura di questa relazione oppositiva rinvia alla concezione idealistica della rappresentazione [Vorstellung], ovvero alla struttura trascendentale della relazione soggetto-oggettiva [Subjekt-Objekt-Beziehung]. Ciò che, infatti, fa sì che in generale l’ente si mostri è la coscienza nella misura in cui questa assume la “cosa” come oggetto tematico del proprio percipere, cioè del proprio pensare [cogitare], che per l’Idealismo è essenzialmente un 27 Cioè inquadrando ancora il rapporto come tale nel senso della relazione soggettooggettiva [Subjekt-Objekt-Beziehung]. 28 Cfr. EM, pp. 102-103 (trad. it. cit., p. 105), ma anche EM p. 105 (trad. it. cit., p. 118). 29 È conformemente a questa determinazione che la coscienza è, come tale, indicata a titolo di condizione fenomenologica di possibilità per il mostrarsi della cosa, ovvero – come sottolinea Henry nel passo citato, in EM, p. 94 (trad. it. cit., p. 108) – come “essenza della manifestazione”. Cfr. ibid.: «La connessione della filosofia della coscienza con il problema della verità – scrive ancora Henry – compreso nel suo significato ontologico universale consiste nel fatto che è per mezzo del concetto di coscienza che la filosofia moderna pensa la condizione di possibilità della manifestazione della cosa, l’essenza della manifestazione come tale»; ed aggiunge, poi, appena più avanti: «Prima di scadere in effetti al rango di essente semplicemente privilegiato - come l’opposizione istituita tra la coscienza e la totalità dell’ente che le è “esteriore” testimonia - la coscienza interviene anzitutto nel disegno ontologico di un pensiero vòlto ad interrogarsi circa il potere che offre all’ente la condizione di diventare fenomeno per noi» (Corsivi di Michel Henry). Come peraltro giustamente Sansonetti ha rilevato, all’origine della concezione idealistica della coscienza, Henry pone l’apporto determinante di Jacob Böhme (cfr. G. SANSONETTI, Michel Henry. Fenomenologia, Vita, Cristianesimo, cit., p. 25), da cui Henry avrebbe ricavato, rielaborandola, la categoria fondamentale dell’op-posizione: cfr. J. BÖHME, Questioni teosofiche, ed. it. a cura di F. Cuniberto, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1996, in part. pp. 60-67. Il “monismo ontologico” e la filosofia prima 117 rappresentare [Vor-stellen]. Tradotto alla lettera nelle sue singole parti, il verbo tedesco sostantivato Vor-stellen significa: porre-innanzi. Ciò che, nell’ambito della rappresentazione [Vor-stellung], fa sì che il fenomeno sia mostrato come ob-jectum è il suo esser-posto-innanzi [Vor-gestellt-sein], ossia il suo star-di-contro [Gegen-stehen] ad un soggetto. Il che, nell’ottica dell’Idealismo, vuole altresì dire: il fenomeno, in quanto oggetto [objectum], si dà come contro-stante [Gegen-stand] nella misura in cui esso è posto-innanzi [vor-gestellt] da un soggetto. Concepita nella sua struttura in quanto rappresentazione, la coscienza nomina in prima istanza la condizione fenomenologica di possibilità per il mostrarsi della determinazione ontica, ovvero il modo d’apparire della “cosa” in quanto oggetto [objectum]. Così intesa, però, la Vor-stellung non sta ad indicare la condizione di possibilità del solo “oggetto” del pensiero rappresentativo. Allo stesso modo dell’oggetto, infatti, anche il soggetto è subordinato alla struttura della Vor-stellung. Soggetto si dà nella misura in cui esso si rappresenta, ossia si rapporta a se stesso nel modo del pensiero [cogito]. Ciò significa che, non diversamente da qualunque altro oggetto [Gegen-stand], per potersi costituire come tale il soggetto deve poter esser-posto-innanzi [vor-gestellt-sein] a se medesimo. Soggetto ed oggetto appartengono ad un’unica essenza comune, ovvero la Vorgestelltheit. Essi ricevono la propria costituzione d’essere in e per il loro rapporto, cioè in e per la loro ob-posizione, posizioneinnanzi nel modo della reciproca contro-posizione. Entrambi si determinano come risvolti di un unico accadimento, che è la loro relazione. Per questo la coscienza, che non può esser ridotta a mero termine dell’opposizione, non può neppure esser semplicisticamente confusa con il mero “soggetto” della rappresentazione: «La coscienza – dichiara esplicitamente Henry – […] non è il soggetto. […] La coscienza consiste propriamente nel rapporto del soggetto e dell’oggetto, essa è questo rapporto in quanto tale»30. Ed ancora, in un passaggio successivo: La coscienza consiste nell’opposizione del soggetto e dell’oggetto, cioè nel loro rapporto. Essa è il rapporto in quanto tale. Il rapporto è il termine concreto. Astratti, al contrario, sono i termini tra i quali il rapporto si istituisce […]. L’oggetto non potrebbe essere estrapolato da questa struttura, […] poiché solo all’interno di questa esso è in quanto oggetto. Dal canto suo, il 30 EM, pp. 102-103 (trad. it. cit., p. 115). In corsivo nel testo. 118 Roberto Formisano soggetto non ha alcuna sussistenza in quanto essere determinato dall’opposizione all’oggetto 31. Che la coscienza non si identifichi con il solo soggetto della rappresentazione significa essenzialmente che, rapportandosi a sé nel modo del pensiero rappresentativo, la coscienza non sa se stessa come objectum. Il Vor-stellen che la struttura non è il medesimo che pone-innanzi, al modo della reciproca contra-posizione il soggetto e l’oggetto della rappresentazione. Riferito al modo di costituzione della coscienza concepita come tale, il Vor-stellen non è più di tipo tematico. Il senso del porre-innanzi che struttura il rapportarsi-a-sé costitutivo del fenomeno della coscienza è chiaramente “eccedente” rispetto al porre-innanzi relativo alla determinazione ontica [objectum]. Per questo, infatti, ragionando intorno alla struttura fenomenologica della rappresentazione, Henry scrive: La rappresentazione è sempre rappresentazione di qualcosa; implica un rappresentato che essa ha per l’appunto il compito di rendere presente. È pertanto opportuno che la rappresentazione intesa come atto del rendere presente a sé sia distinta dalla realtà che perviene alla presenza all’interno di siffatto atto, e cioè il rappresentato in quanto tale. Il rappresentato è qualcosa di ontico; al contrario, la rappresentazione – che significa la presenza come tale – si riferisce ad un processo ontologico 32. Henry distingue in maniera netta un porre-innanzi di tipo ontico (per comodità espositiva sinora indicato come ob-posizione) ed un porreinnanzi di tipo ontologico (op-posizione). Pensato nel suo risvolto ontico, il porre-innanzi (e, insieme con esso, anche la coscienza intesa come struttura della relazione oppositiva e condizione di possibilità della cosa in generale) si determina in questo senso come modo di costituzione del fenomeno in quanto oggetto (ossia dell’ente in quanto objectum). Diversamente, considerato nel suo risvolto ontologico 33, la rappresentazione si determina come posizione-innanzi – significativamente non nel modo dell’objectum – della relazione soggetto-oggettiva nei confronti di se 31 p. 104 (trad. it. cit., p. 116). Corsivi di Michel Henry. p. 99 (trad. it. cit., p 112). Corsivi nostri. 33 Quello, cioè, posto in luce dalla distanza fenomenologica nel senso della pura estaticità. Cfr. supra, Sez. II, Cap. I, § 14. 32 EM, EM, Il “monismo ontologico” e la filosofia prima 119 medesima. Da qui, la definizione della coscienza quale “rapporto, il cui senso d’essere risiede nel suo sapersi, ovvero nell’esser essa stessa posta in rapporto alla sua propria costituzione essenziale”. Questo carattere di “crocevia” della rappresentazione in riferimento alle due dimensioni, quella ontica e ontologica, del mostrarsi [phainesthai] in generale, in L’essence de la manifestation è mostrato anche attraverso l’analisi del corrispettivo francese del termine Vorstellung: représentation. Considerata alla luce della sua radice latina [repraesentatio], la rappresentazione è interpretata nel senso di una ri-presentazione, cioè di uno “sdoppiamento” 34 del senso della presenza 35. Il concetto di presenza, nominato nella nozione di re-présentation, enuclea un duplice riferimento. Esso può esser innanzitutto riferito al mostrarsi di ciò che è rappresentato, cioè alla presenza dell’oggetto della rappresentazione. Presa in questo senso, la presenza si riferisce al carattere di objettità proprio del fenomeno [Erscheinung] dell’ente in quanto objectum. Ma il riferimento della presenzialità ontica dell’objectum non individua che un riferimento secondario, derivato. Prima della mera objettità, il suffisso della presentazione si riferisce propriamente alla schiusura dell’ambito di esteriorità in cui qualcosa come un oggetto può apparire e, più propriamente, al modo in cui siffatta schiusura giunge a costituirsi come tale Orbene, nello sdoppiamento della presenza, ciò che il concetto di re-présentation enuclea è il fatto che, se ontologicamente intesa, la presenza si costituisce come tale nella misura in cui essa si dà come innanzitutto presente a se stessa. Concepita, però, a titolo di essenza della presenza ontica (scil. manifestarsi dell’ente in 34 Sulle implicazioni teoretiche connesse a siffatto “sdoppiamento”, si rinvia a infra, Sez. II, Cap. II, § 20. Solo, infatti, con la lettura dell’Anweisung zum seligen Leben di Fichte – cioè: con l’interpretazione del senso della presenza [parousia] all’interno del contesto ermeneutico di una “dottrina della religione” – quest’ulteriore aspetto della concezione monista della Vor-stellung potrà essere sviluppato nella sua pienezza. Sin d’ora, però, è possibile rilevare, in questa duplice caratterizzazione della Vorstellung, molto di più che un implicito riferimento critico all’ermeneutica heideggeriana della nozione di repraesentatio giacché, come è stato giustamente notato, «il tentativo da parte di Heidegger di tematizzare l’apparire dell’essere al di fuori della Vor-stellung, secondo Henry, si risolve al contrario in una radicalizzazione del presupposto – l’esteriorità – sotteso a tutta la storia della filosofia» (cfr. V. PEREGO, Affettività e immanenza. Michel Henry lettore critico di Heidegger, in «Rivista di filosofia neo-scolastica», XCIII (2001), p. 301). 35 EM, pp. 98-99 (trad. it. cit., p. 112). 120 Roberto Formisano quanto objectum), la rap-presentazione è da intendersi come primariamente riferita alla presenza-a-sé (trasparenza) dell’orizzonte estatico dell’essere a se medesimo. Il significato ontologico del porre-innanzi si riferisce propriamente al modo di costituzione della struttura della coscienza, ovvero al senso del rapportarsi-a-sé considerato in quanto tale. Così determinata, la nozione di rappresentazione definisce, in breve, la struttura fenomenologica propria della comprensione d’essere considerata come tale. Che il modo di costituzione della coscienza risieda nella posizione-innanzi della struttura stessa della rappresentazione significa essenzialmente che il “sé” in rapporto al quale la coscienza dispiega la propria struttura (rapportarsi-a-sé in quanto autocomprensione della sua propria essenza), non si dà al modo d’un objectum. In questo senso è da intendersi, allora, la precedente affermazione henryenne secondo cui: «In realtà, nel suo concetto, la coscienza non è opposta all’essere, ma soltanto all’ente»36. La coscienza si oppone all’ente innanzitutto in ragione della sua non-onticità. Essa non configura il termine di una relazione obpositiva, ma definisce piuttosto la struttura entro cui qualcosa come un’ob-posizione o reciproca contrapposizione di soggetto ed oggetto può aver luogo: Così compresa – si legge in L’essence de la manifestation – la rappresentazione […] si riferisce esplicitamente all’essenza della presenza in quanto tale e ci invita a comprendere questa come presenza propria del rappresentato, ossia presenza di qualcosa che sopraggiunge innanzi in un ambito di esteriorità di cui essa, in quanto essenza comune sia della coscienza sia della rappresentazione, non è altro che l’apertura 37. Piuttosto che la posizione d’objectum, il senso che il porre-innanzi ontologico riceve è innanzitutto quello dell’esser-posto-a-distanza, cioè dell’apertura estatica così come è emersa alla luce della distanza fenomenologica. La coscienza, infatti, agli occhi dell’Idealismo, non è semplicemente un ente privilegiato tra altri enti. Posta in rapporto a se medesima nel modo della rappresentazione, essa sa se stessa, si pensa, cioè si rappresenta in quanto sapere. Questo suo costitutivo sapersi, essen36 37 EM, EM, pp. 92-93 (trad. it. cit., pp. 107). In corsivo nel testo. p. 100 (trad. it. cit., p. 113). Corsivi di Michel Henry. Il “monismo ontologico” e la filosofia prima 121 zialmente di tipo rappresentativo, è ciò che fa della coscienza una struttura trascendentale; sicché è in quanto tale, cioè in quanto condizione di possibilità della relazione soggetto-oggettiva, che la coscienza sapendo se stessa giunge alla consapevolezza della sua costitutiva differenza rispetto alla mera sostanza, alla cosa, all’ente. Concepito, però, in prima istanza a partire dalla differenziazione rispetto al modo di mostrarsi dell’objectum, il significato ontologico del Vor-stellen è altresì sviluppato dall’Idealismo con diretto riferimento anche alla struttura fenomenologica del fondamento [Grund]. La rappresentazione determina, infatti, non soltanto il modo in cui la coscienza, rapportandosi alla sua stessa costituzione essenziale, sa se stessa in quanto coscienza di sé (autocoscienza); essa determina altresì il contenuto di questo stesso sapersi. Che, infatti, la coscienza non possa essere identificata con il mero soggetto della rappresentazione e che il suo sapersi non sia tematico sta a significare che, rapportandosi a sé e con ciò scoprendosi nella sua non-onticità e differenza (non-objettità) rispetto alla costituzione d’essere dell’objectum, la coscienza sa se stessa in quanto atto del porre-innanzi concepito come tale 38. Il che significa: la struttura della coscienza determina quella modalità del mostrarsi per cui il modo di costituzione ed insieme il contenuto sono la stessa e identica realtà 39. Ciò d’altronde è quanto l’Idealismo pensa, alla luce della struttura fenomenologica della rappresentazione, dietro la nozione metafisica tradizionale di soggettività [Subjektivität]. Quest’ultima non indica la semplice “essenza del solo soggetto”, ma si riferisce al modo in cui la coscienza sa se stessa, ossia al senso della sua ipseità, cioè al suo sapersi in quanto sé, per nulla riferito alla determinatezza propria del38 Riflettendo intorno al senso dell’objettità dell’ente, già l’Idealismo avrebbe dunque, secondo Henry, saputo cogliere e a suo modo distinguere in riferimento all’atto del porre-innanzi la mera objettazione dell’ente (cioè il senso del mostrarsi dell’ente in quanto posizione-innanzi della determinazione objettiva, cioè in quanto Gegenstand) rispetto al modo di costituzione non-objettivo della coscienza, in quanto posizione-innanzi nel senso della distanziazione e dell’estaticità, da parte della struttura stessa della rappresentazione. 39 Il carattere di ipseità della coscienza va dunque intesa esattamente nel senso di siffatta identità, ovvero: il carattere fondamentale del suo mostrarsi è da ricondursi alla certezza determinante il modo del suo sapersi come tale. La certezza, così concepita come autocertezza dell’autocoscienza, definisce il senso dell’ipseità intesa come elemento strutturale della costituzione fenomenologica del fondamento. 122 Roberto Formisano l’objectum, bensì soltanto all’identità dell’atto del porre-innanzi con la realtà stessa che quest’atto pone in quanto estatico rapportarsi-a-sé. Entro questa prospettiva, la soggettività indica l’identità dell’atto e del contenuto del risvolto ontologico del porre-innanzi. Correlativamente, sempre alla luce di questa caratterizzazione della struttura della rappresentazione, l’Idealismo avrebbe così riconosciuto e tematizzato il modo in cui la coscienza sa se stessa nella sua ipseità – ovvero: il modo in cui, in quanto porre-innanzi, mostra a se stessa il senso della sua costitutiva identità – indicandolo nella certezza. «Ciò che è intenzionato nel concetto di certezza – scrive Henry a tal proposito – è il significato fenomenologico del potere ontologico della rappresentazione»40. La certezza porta in chiaro il significato fenomenologico del risvolto ontologico della rappresentazione in quanto essa definisce, esibendolo alla maniera propria del pensiero rappresentativo, il modo in cui la rappresentazione come tale appare a se medesima costituendosi in quanto rapporto. Più precisamente, la certezza determina il modo in cui, rapportandosi a sé in quanto coscienza, la rappresentazione si mostra costituendosi in quanto tale. Agli occhi dell’Idealismo, il rappresentare [Vor-stellen] ontologicamente inteso si costituisce originariamente in quanto coscienza per il fatto che esso dischiude la dimensione estatica propria del rapportarsi-asé, in maniera tale che la struttura della relazione oppositiva soggettooggettiva è – entra nell’orizzonte dell’esistenza – in quanto posta-innanzi a se medesima. In questo senso si può dire che la rappresentazione si costituisce come tale ponendo-innanzi la coscienza a se medesima. Il porre-innanzi determina infatti essenzialmente 41 il modo in cui la coscienza sa se stessa. Nella rappresentazione, la coscienza è in quanto posta-innanzi a se medesima nel modo della schiusura estatica. Essa è posta innanzi in maniera tale che, rappresentandosi nella propria ipseità (e soprattutto, identificandosi con la realtà del proprio sapere), essa è data a se stessa in quanto “certa” della propria posizione. Sì che, entro questa prospettiva, la certezza non individua un carattere sinteticamente aggiunto alla rappresentazione. «La certezza – scrive ancora Henry – è 40 41 EM, p. 102 (trad. it. cit., p. 114). Corsivi di Michel Henry. Cfr. ibid. Il “monismo ontologico” e la filosofia prima 123 la certezza della rappresentazione» 42; ed aggiunge, poi: «Per questa ragione […] la certezza non è differente dalla rappresentazione in quanto tale e propriamente le appartiene»43. La certezza individua il più essenziale dei caratteri costitutivi della coscienza, giacché soltanto grazie alla certezza alla coscienza è infine dato, non soltanto di poter sapere se stessa, ma soprattutto di sapersi conformemente al modo in cui è costituita ed identificandosi con esso. Siffatta identificazione, insieme con il carattere costitutivo della certezza sono ciò che hanno consentito, nella prospettiva teoretica dell’Idealismo, di conferire alla coscienza il decisivo carattere di fondamento. Alla luce di quanto emerso, infatti, la coscienza determina in ultima istanza la struttura del fondamento in quanto struttura fenomenologica che, nel modo del sapere (ossia del pensare, che è essenzialmente rappresentare) trova in se stesso, nel modo della sua stessa costituzione, la ragione del proprio essere. L’identificazione della coscienza con la struttura fenomenologica del fenomeno originario appare in questo senso come una necessità essenziale, direttamente conseguente alla comprensione del significato ontologico del rappresentare [Vor-stellen] ovvero dell’estaticità e della distanziazione come modo di costituzione del rapportarsi-a-sé considerato in quanto tale. 16. Il monismo ontologico Condotta sul filo conduttore della distanza fenomenologica, l’ermeneutica della concezione idealistica della trascendenza nel senso della rappresentazione [Vor-stellung] ha mostrato come anche le “filosofie della coscienza”, al pari delle filosofie “anticartesiane” e soprattutto della “filosofia dell’essere”, sebbene ciascuna a modo proprio, abbiano riconosciuto essenzialmente nell’estaticità la struttura fenomenologica originaria. Pensata nel senso della distanziazione, tale struttura è stata (talora inconsapevolmente, talora esplicitamente) assunta da tutte le filosofie sinora prese in esame come essenza del mostrarsi in generale, ovvero del phainesthai considerato in maniera unitaria in riferimento sia al fenomeno ordinario (in quanto struttura fenomenologica delle 42 43 EM, EM, p. 101 (trad. it. cit., p. 114). In corsivo nel testo. p. 102 (trad. it. cit., p. 114). In corsivo nel testo. 124 Roberto Formisano condizioni di possibilità del mostrarsi ontico) sia al fenomeno originario. a) Significato teoretico Che si tratti della “verità dell’essere” in quanto tale o dell’“esistenza” oppure, ancora, della “coscienza”, la dinamica essenziale che motiva e articola questi differenti modi della schiusura è sempre lo stesso. Il modo di costituzione della trascendenza concepita come tale è unico, ed in tutti i casi è sempre definito nel senso posto in chiaro dalla distanza fenomenologica come apertura estatica d’orizzonte. Il fatto che, come ripetutamente denunciato da Heidegger, la “filosofia dell’essere” abbia pensato il senso della schiusura [Erschlossenheit] alla luce del Worumwillen e del concetto esistenzial-ontologico del mondo [Welt], mentre le “filosofie della coscienza” abbiano preteso di poterla ricondurre alla struttura fenomenologica del Vor-stellen, non deve dunque fuorviare. In entrambi i casi, l’elemento strutturale della verità, intesa in senso fenomenologico, è sempre essenzialmente riconosciuto e in vari modi ricondotto all’apertura estatica d’orizzonte. In entrambe le filosofie, la schiusura dell’orizzonte – strettamente determinata nel senso della distanziazione – definisce l’intervallo in cui e per mezzo del quale il fenomeno dell’essere realizza il proprio apparire. In ambedue i casi, «la luce che sorge in questo ambito è a un tempo quella del mondo e della coscienza»44. I concetti di mondo e coscienza individuerebbero, insomma, modi diversi di intendere, in riferimento alla medesima struttura e cioè alla schiusura estatico-orizzontale pensata nel senso della distanza fenomenologica, il presupposto della connessione essenziale di reciproca conimplicazione e co-appartenenza dell’essere e dell’esistenza (ovvero della coscienza) in seno alla struttura della fenomenicità originaria. In estrema sintesi, si può pertanto dire che l’affinità essenziale delle “filosofie della coscienza” e della “filosofia dell’essere” trovi il suo fulcro nella determinazione dell’estaticità come elemento costitutivo del fenomeno concepito in quanto tale. In questo fulcro L’essence de la manifestation indica il presupposto fondamentale del cosiddetto monismo ontologico. 44 EM, p. 108 (trad. it. cit., p. 120). In corsivo nel testo. Il “monismo ontologico” e la filosofia prima 125 b) Sulla valenza “storica” della nozione La nozione di “monismo ontologico” è introdotta da Henry per affermare la sostanziale sottomissione, non soltanto delle “filosofie della coscienza” e della “filosofia dell’essere”, bensì di tutta la storia del pensiero filosofico occidentale ad un’unica impostazione di fondo, l’appartenenza cioè ad un’unica linea di sviluppo. Come Henry mostra nella sua articolata esposizione “storico-critica” del monismo ontologico 45, la tesi dell’unità di senso relativamente sia al mostrarsi dell’essere sia al mostrarsi della comprensione d’essere e, soprattutto, del loro reciproco rapporto di co-appartenenza è possibile ritrovarla, oltre che nell’Idealismo tedesco, altresì al fondo delle più disparate impostazioni filosofiche, da quelle di stampo spiritualista 46 e criticista 47 a quelle perentoriamente oggettiviste 48, dalle filosofie dell’esistenza 49 fino ad Heidegger, ivi inclusa anche la filosofia posteriore alla cosiddetta Kehre degli anni Trenta 50. 45 Cfr. EM, pp. 91-119 (trad. it. cit., pp. 105-129). Eccetto Maine de Biran (alla cui filosofia Henry dedicò la “petite thèse”, cfr. supra, Introd., § 2.A) in L’essence de la manifestation compare soprattutto il riferimento a C.-B. RENOUVIER, Traité de psychologie rationnelle d’après les principes du criticisme, Paris, Colin, 1912. Cfr. EM, pp. 99, 103 (trad. it. cit., pp. 112, 116). 47 Il riferimento è a J. LACHELIER, Psychologie et Métaphysique, Paris, PUF, 1949. Cfr. EM, pp. 113-114 (trad. it. cit., pp. 124-125). 48 Come mostra l’accenno a J. WATSON, The way of behaviorism, New York/London, Harper & Brothers, 1928. Cfr. EM, pp. 116-117 (trad. it. cit., p. 127). 49 I riferimenti, sparsi nel contesto non soltanto della prima sezione di L’essence de la manifestation, ma anche dell’intero libro, individuano come principale bersaglio polemico soprattutto i principali esponenti dell’esistenzialismo francese del tempo (Jean-Paul Sartre e Maurice Merleau-Ponty), mentre più sporadici, se non occasionali, risultano gli espliciti riferimenti a Karl Jaspers. 50 In particolare, proprio in riferimento ad Heidegger e alla Kehre, Henry scrive: «Il rovesciamento della dottrina che emerge nelle ultime opere di Heidegger, dove il principio della fenomenicità è cercato nella radicale esteriorità dell’essere, ha le sue premesse in Sein und Zeit e nel pensiero filosofico tradizionale nel quale esso si trova di fatto incluso». Stupiscono, in effetti non poco, queste parole di Henry così decise, pronunciate in anni in cui ancora molto acceso era il dibattito esegetico circa il significato della “svolta” [Kehre], dove due schieramenti si fronteggiavano reciprocamente fra coloro, come Karl Löwith, che sostenevano la tesi di una “frattura” fra il periodo antecedente a Sein und Zeit e quello posteriore alla guerra (peraltro legata anche alle vicissitudini personali del filosofo, dopo la fine del secondo conflitto mondiale), e quanti al contrario, come d’altronde Heidegger medesimo in prima persona, rivendicavano nella Kehre non soltanto una continuità, ma qualcosa di neces46 126 Roberto Formisano Tali presupposti – si legge in L’essence de la manifestation – dominano lo sviluppo del pensiero occidentale sin dalle sue origini in Grecia; essi indicano l’unica direzione di ricerca e [l’unica modalità] di incontro in cui qualcosa può mostrarsi e, di conseguenza, essere da noi trovata 51. Il superamento della classica contrapposizione heideggeriana tra “metafisica” e “pensiero originario”, tra “filosofie della coscienza” e “filosofia dell’essere”, conduce Henry ad una valutazione netta dell’evoluzione storica del pensiero occidentale. Scrive ancora Henry: A ben vedere, […] sembra che i progressi [del pensiero occidentale] si siano svolti sempre all’interno dell’orizzonte ontologico delineato dal monismo; anche il loro risultato più significativo, nell’ontologia contemporanea, non ha prodotto altro che la “liberazione” di quest’orizzonte, finalmente portato alla chiarezza del concetto e da allora pensato come “orizzonte dell’essere” 52. Se per un verso, infatti, «la filosofia della coscienza appare come il compimento dell’antica filosofia dell’essere»53, d’altro canto essa, alla luce della continuità con la “filosofia dell’essere”, appare altresì come sario ed intrinseco alla verità dell’essere. Oggi, grazie soprattutto alla pubblicazione della Heideggers Gesamtausgabe, la critica ha potuto dissipare molte delle distorsioni che pure non mancarono all’interno del dibattito degli anni Cinquanta; ciò nonostante, è da sottolineare il fatto che, almeno ufficialmente, la questione relativa alla ricezione henryenne della filosofia di Heidegger in L’essence de la manifestation permane ancora oggi un problema sostanzialmente irresoluto, e che forse soltanto uno studio sui materiali preparatori (appunti, note di lettura) per la stesura della thèse potrà contribuire ad illuminare con maggiori dettagli. In ogni caso, sarebbe ancora una volta limitante commisurare questo giudizio di Henry al solo profilo esegetico relativo alla filosofia heideggeriana. In effetti, ciò che Henry sostiene a proposito della filosofia di Heidegger è sempre pensato e discusso alla luce dei rilievi posti in chiaro dalla distanza fenomenologica. Questo significa che qualsivoglia riflessione critica circa il confronto fra i pensieri di Michel Henry ed Heidegger va sempre preliminarmente inserito all’interno di un preciso contesto teoretico, al centro del quale si pone – come si è cercato di mostrare sinora – il problema relativo al senso della relazione di co-appartenenza fra essere e comprensione d’essere. Orbene, ciò che Henry sostiene alla luce della distanza fenomenologica a proposito dell’evoluzione di pensiero di Heidegger è che: nonostante la Kehre, la filosofia di Heidegger mantiene in sé, ancora intatto, il presupposto fondamentale del monismo ontologico, vale a dire la tesi circa il carattere originario della trascendenza e dell’appartenenza della comprensione d’essere in seno alla manifestatività dell’essere. 51 EM, p. 91 (trad. it. cit., p. 105). 52 Ibid. (trad. it. cit., pp. 105-106). 53 EM, p. 93 (trad. it. cit., p. 108). Il “monismo ontologico” e la filosofia prima 127 un «tutt’uno con l’ontologia contemporanea che giustamente ha saputo tematizzare la condizione ontologica di possibilità dell’ente e comprendere questa condizione come ambito ontologico della verità» 54. La tesi che Henry sostiene – su questo punto, in accordo con Heidegger e contro il giudizio di Husserl – è che la “svolta soggettivo-trascendentale”, più che un autentico “nuovo inizio”, rappresenti piuttosto una sorta di primo compimento 55 per l’ontologia classica, per il fatto che, come si è visto, dietro la nozione di coscienza e la tematizzazione del significato ontologico della Vor-stellung, essa ha saputo portare allo scoperto, tematizzato e problematizzato per la prima volta in maniera esplicita «ciò che l’ontologia greca, in maniera pre-filosofica, considerava come l’essere stesso»56, ovvero «l’esistenza dell’ente […], senza chiedersi nulla su quest’esistenza considerata in quanto tale»57. 17. La differenza ontologica nella prospettiva del monismo Nell’economia della problematica posta in L’essence de la manifestation, la ricostruzione, alla luce del comune riferimento di fondo alla trascendenza e al suo potere fondamentale di distanziazione, delle specifiche tesi ontologiche caratterizzanti le “filosofie della coscienza”, da un lato, e la “filosofia dell’essere”, dall’altro, è sviluppata da Henry in vista di uno scopo ben determinato: mostrare quale inquadramento l’annosa questione della differenza ontologica necessariamente riceve, se impostata conformemente ai presupposti del monismo ontologico. La chiarificazione della concezione monista della differenza tra essere ed ente costituisce infatti la “chiave” per mezzo della quale, calandosi all’interno dell’orizzonte ermeneutico del monismo ontologico, Henry porta in primo piano le ragioni profonde delle difficoltà e dell’insufficienza delle soluzioni a cui, ora nella prospettiva delle “filosofie della coscienza” ora nella prospettiva della “filosofia dell’essere”, il presupposto fondamentale del monismo inevitabilmente costringe il pensiero filosofico. 54 EM, p. 94 (trad. it. cit., p. 108). Cfr. EM, pp. 93-94 (trad. it. cit., pp. 107-108). 56 EM, p. 93 (trad. it. cit., pp. 107-108). 57 Ibid. (trad. it. cit., p. 107). 55 128 Roberto Formisano Nell’ambito della riflessione “coscienzialista” circa l’essenza del fondamento, ciò che appare caratteristico di quest’impostazione, secondo Henry, è il fatto che il mostrarsi dell’ente sia stato concepito come ciò in cui lo strutturarsi della manifestatività come tale deve poter trovare il suo compimento ultimo 58. La tesi ontologica fondamentale delle “filosofie della coscienza” sostiene infatti che: per mostrarsi in quanto tale e rendere dunque possibile l’apparire dell’ente in quanto oggetto, l’essere deve potersi rappresentare, porre-innanzi [Vor-stellen] se medesimo nel modo della ob-posizione. Il Sich-vor-stellen dell’essere determina così il costituirsi della struttura fenomenologica della coscienza. Come tale, tuttavia, la coscienza si struttura nella misura in cui essa pone la relazione op-positiva soggetto-oggettiva in rapporto con se medesima. Il che vuol dire: dischiuso l’orizzonte ontologico, tale ambito di esteriorità deve poter esso stesso esser posto in rapporto a se medesimo; ma per poter realizzare ciò è altrettanto necessario che anche la relazione con l’oggetto sia in qualche modo posta. Per quanto, dunque, nella sua purezza, la coscienza non si identifichi con la mera relazione ad objectum, entro questa prospettiva la manifestazione dell’ente come oggetto tematico di percezione determina tuttavia ciò in cui la distanziazione dell’essere strutturante la costituzione fenomenologica della coscienza realizza il proprio mostrarsi in quanto fenomeno. Come l’interpretazione fenomenologica dell’Idealismo ha permesso di chiarire 59, la tesi ontologica fondamentale delle “filosofie della coscienza” afferma in sostanza l’appartenenza della determinazione ontica alla verità dell’essere, a titolo di elemento costitutivo della manifestatività originaria. In altri termini, l’interpretazione coscienzalistica della trascendenza giunge alla conclusione decisiva secondo cui la determinazione ontica costituisce ciò in cui, schiudendosi in quanto trascendenza nel modo della relazione soggetto-oggettiva, l’essere realizza di fattoil proprio mostrarsi originario. Ciò significa che, per mostrarsi in quanto assoluto, il fenomeno dell’essere implica necessariamente il processo di ob-posizione, posizione-innanzi d’objectum. Il mostrarsi dell’essere non può non comportare la contestuale posizione-innanzi d’objectum, per il fatto che questa individua un elemento costitutivo 58 59 Cfr. EM, pp. 137-149 (trad. it. cit., pp. 144-154). Cfr. supra, Sez. II, Cap. I, § 15. Il “monismo ontologico” e la filosofia prima 129 della realtà della coscienza concepita come tale. La coscienza – comunque essa sia interpretata – con-implica necessariamente una relazione ad objectum. In questo senso, scrive Henry, esprimendo il punto di vista di questo tipo di filosofia, «la determinazione ontica è essenziale per la realizzazione dell’essenza» 60. Il mostrarsi dell’essere si realizza nella sua assolutezza nella misura in cui la luce che l’apertura estatico-orizzontale dischiude trova nella determinazione ontica ciò su cui poter risplendere 61 . In linea di principio, dunque, nell’ottica delle “filosofie della coscienza”, l’ente è concepito in quanto elemento strutturale del mostrarsi dell’essere, al pari dell’orizzonte estatico, ed anzi come imprescindibile correlato di questo. L’ente si dà nella sua determinatezza, agli occhi delle “filosofie della coscienza”, come ciò in relazione al quale l’essere deve poter portare a compimento il proprio phaninesthai. Questo, però, non vuol certo dire che nell’approccio di tipo coscienzialistico l’ente sia ingenuamente 60 p. 139 (trad. it. cit., p. 146). Scrive a tal proposito Henry in EM, pp. 134-135 (trad. it. cit., p. 142): «In quanto l’ente permette all’essenza della manifestazione di mostrarsi, diventa fenomenologicamente chiaro il vincolo indissolubile che unisce l’essere e l’ente. Conformemente a siffatto vincolo, concreta risulta essere solo la totalità dell’essere e dell’ente che esso costituisce. L’essere è legato all’ente allo stesso modo in cui la luce è legata alla cosa per mezzo di cui essa diviene visibile. Solo perché l’apparire appare nell’apparente di cui esso è l’essere, l’elemento ontologico è indissolubilmente unito alla determinazione ontica. Così, nell’opera d’arte, si vede la luce unirsi alla terra, in maniera per cui essa non è separata dall’elemento ctonio che, strappandosi alla notte, brilla per noi un istante, come se questo strapparsi dell’ente dall’oscurità del suo ambito originario non fosse diverso dallo strapparsi della luce da un regno che in se stesso è una notte non meno profonda di quella del marmo o della colonna. Così l’artista necessita della pietra, non solo come materia per il suo scalpello, ma innanzitutto come superficie solida su cui far riflettere e rilucere la manifestazione. Nell’elemento ctonio e ascoso della determinazione ontica l’essenza ha la sua dimora». Corsivi nostri. L’immagine del rapporto fra la scultura e la luce è di origine platonica (cfr. PLATONE, Fedro, 252 d, 254 d), ma soprattutto di ispirazione neoplatonica (cfr. PLOTINO, Enneadi, I 6, 9), secondo una linea di sviluppo che, passando attraverso il cristianesimo (cfr. soprattutto DIONIGI LO PSEUDO-AEROPAGITA, De mystica theologiae, II, 1025 b), conduce almeno a Meister Eckhart (cfr. M. ECKHART, Dell’uomo nobile, in ID., Trattati e prediche, ed. it. a cura di G. Faggin, Milano, Rusconi, 1982, pp. 161-162; cfr. anche ID., Dell’uomo nobile, a cura di M. Vannini, Milano, Adelphi, 1999, p. 226), quest’ultimo di certo – insieme al già citato Jakob Böhme – uno dei principali riferimenti di Michel Henry per questa ricostruzione del “monismo ontologico”. Per approfondimenti sul rapporto Henry-Eckhart, si rinvia a infra, Sez. III, Cap. I, § 28. 61 EM, 130 Roberto Formisano pensato come identico all’essere. Al contrario, l’ente è assunto come ciò che mostra l’essere proprio sulla base della differenza che, nel modo della distanziazione, l’essere stesso pone tra sé e l’ente in quanto objectum. Lo sforzo dell’Idealismo è stato piuttosto quello di pensare, nella differenza, l’“unità” dell’essere e dell’ente alla luce della loro costitutiva distanziazione: «Non è l’essenza a manifestarsi – scrive Henry a tal proposito – ma l’ente» 62. La manifestazione dell’ente, considerata di per sé, non coincide con il mostrarsi dell’essere in quanto tale. Il darsi dell’essere definisce la manifestatività (mostrarsi non-objettivo del fenomeno originario). Diversamente, il presenziare dell’ente rinvia ad una modalità del mostrarsi la cui possibilità risiede essenzialmente nella sua percettibilità in quanto oggetto tematico determinato. Come tali, la realtà dell’essere e quella dell’ente non sono sovrapponibili. Il fatto che la manifestatività dell’essere trovi realizzazione nella manifestazione non significa affatto che la manifestazione (pur compresa nella sua totalità) possa esser confusa con la manifestazione dell’essere: «L’essenza della manifestazione – ribadisce ancora giustamente Henry – non è manifestazione di sé». Nella prospettiva delle “filosofie della coscienza”, il darsi dell’essere è stato interpretato come strutturazione non-objettiva delle condizioni di possibilità per la manifestazione ontica. Se, allora, come criterio per la comprensione del senso di questa strutturazione, si assume in prima istanza la manifestazione ontica, il mostrarsi dell’essere acquista piuttosto il carattere di una non-manifestazione. Il senso del suo mostrarsi sarà riconosciuto nella sua costitutiva “non-positività”, come assenza, nascondimento. Il modo [Wie] del darsi dell’essere, pensato come ciò in cui la realtà delle condizioni di possibilità per la manifestazione ontica, è riconosciuta propriamente nel “sottrarsi” dell’essere medesimo rispetto al dominio di quell’orizzonte di luce in cui soltanto all’ente è concesso farsi innanzi, e così rendersi presente. In questo senso scrive Henry: In quanto l’essere del fenomeno [i.e. l’essere dell’ente] si sottrae alla condizione fenomenica a cui solo il fenomeno sottostà, l’essenza della manifestazione si nasconde nello stesso momento in cui realizza la propria opera. Tale celarsi dell’essenza della fenomenicità è la manifestazione dell’ente. Nella misura in cui l’essenza è questo nascondersi, ecco che si trova necessariamen62 EM, p. 132 (trad. it. cit., p. 140). Il “monismo ontologico” e la filosofia prima 131 te vincolata a ciò che è manifesto, cioè all’ente. La non-verità dell’essenza è la verità dell’ente. L’ente porta in sé, nella sua verità, la non-verità dell’essenza della manifestazione. Proprio perché l’essenza è questa non-verità, non può manifestarsi altrimenti se non nella verità dell’ente. […] Il significato fenomenologico del vincolo che indissolubilmente tiene uniti l’essere e l’ente consiste nel fatto che la luce della manifestazione non riluce né altrimenti né altrove rispetto all’ente che si manifesta 63. Tematizzato alla luce dell’Erscheinung, l’essere realizza la propria verità in quanto non-mostrantesi. L’essere mostra giunge a costituirsi come fenomeno svelandosi come il “non”, l’“irriducibile”, l’incategorizzabile alla luce soltanto, però, alla coscienza è infine dato di poter essere ciò che è, ovvero relazione ad objectum. Che la verità ontica realizzi il mostrarsi dell’essere non vuol dunque dire in alcun modo che l’essere debba poter mostrare se stesso in quanto ente. Compresa nel suo significato fenomenologico, l’impostazione coscienzialista intende piuttosto l’ente come ciò rispetto al quale, differenziandosi, l’essere porta a compimento il proprio mostrarsi in quanto struttura della coscienza e condizione di possibilità del rapporto soggetto-oggettivo. Il senso di siffatto mostrarsi, il senso della manifestatività, risiede unicamente nel “non”, ossia nella non-coincidenza in cui è delineato lo “spazio” per la verità di entrambi, dell’essere così come dell’ente. Nel “non” è la Raumlichkeit, la “spazialità” del fenomeno concepito in quanto tale, il cui senso è il medesimo dell’estaticità, cioè della distanza fenomenologica. Come già l’ermeneutica della concezione idealistica della rappresentazione aveva mostrato, le “filosofie della coscienza” non ignorano affatto il significato ontologico della distanza fenomenologica. Esse non necessariamente confondono il senso del mostrarsi dell’essere con con la manifestazione ontica. Ciò di cui, tuttavia, la “filosofie della coscienza” evidentemente non sono in grado d’avvedersi è piuttosto l’aver fatto della manifestazione ontica uno dei requisiti indispensabili per il mostrarsi stesso dell’essere ovvero, come Henry nel testo la indica, «la condizione di possibilità dell’effettivo divenire della fenomenicità» 64. L’ente diviene così anch’esso, insieme con il processo ontologico di op63 p. 134 (trad. it. cit., p. 141). Corsivi nostri. «La condition de possibilité du devenir effectif de la phénoménalité» (EM, p. 140; trad. it. cit., p. 146). Corsivo nostro. 64 EM, 132 Roberto Formisano posizione dell’essere, condizione fenomenologica di possibilità per il mostrarsi della manifestatività originaria, per il fatto che esso determina in ultima istanza ciò in assenza del quale all’essere non è dato potersi mostrare in quanto tale. A questa difficoltà poco sopperisce la distinzione trascendentale fra il mostrarsi dell’essere a titolo di “essenza”, ovvero “condizione di possibilità per il mostrarsi ontico”, e l’effettiva manifestazione dell’ente. Per mostrarsi in quanto condizione di possibilità, ossia in quanto nonverità, l’essere non può prescindere dall’effettivo mostrarsi dell’ente: Nel compimento stesso della trascendenza – si legge in tal senso in L’essence de la manifestation – […] si trova inscritta un’esigenza […]. La trascendenza è la necessità dell’ente. In quanto tale, l’essenza non può realizzarsi se non a condizione che quest’esigenza che la trascendenza reca in sé sia infine soddisfatta. Solo con questa realizzazione l’essenza può concretizzarsi 65. La tesi monista della cooriginarietà [Gleichurprünglichkeit] tra essere e comprensione d’essere viene così ad esser risolta nella tesi «secondo cui l’ente, in quanto elemento appartenente al divenire fenomenico dell’essenza della fenomenicità, deve esser considerato come una condizione dell’effettività di quest’ultima»66. Per Henry, l’assurdità di questa tesi pertiene alla chiara ammissione della non-autonomia [Unselbständigkeit] del mostrarsi dell’essere in quanto tale. Per costituirsi in quanto trascendenza, e dunque potersi mostrare in quanto non-verità, l’essere “ha bisogno” dell’ente nel senso che, se così è lecito esprimersi, tolta la manifestazione ontica, viene meno altresì il mostrarsi stesso dell’essere. L’errore fatale delle “filosofie della coscienza”, dunque, è stato l’aver considerato alla luce dell’objettità dell’ente il criterio in forza del quale intendere il senso della non-objettività della manifestatività originaria – l’aver commisurato la ratio del “non”, custode della costitutiva estaticità del fenomeno originario, riferendola innanzitutto alla positività propria della manifestazione. L’insostenibilità della tesi ontologica coscienzialista si esprime in tutta la sua chiarezza nell’eclatante paradosso per cui se da un lato l’essere mostra se stesso in quanto condizione di possibilità per il mostrarsi ontico, cioè in quanto non-verità, 65 66 EM, EM, p. 129 (trad. it. cit., p. 137). Corsivo nostro. p. 150 (trad. it. cit., p. 155). Corsivo nostro. Il “monismo ontologico” e la filosofia prima 133 per converso l’effettiva manifestazione dell’ente viene a determinarsi come ciò a partire da cui, in ultima istanza, è fatta dipendere la realizzazione del mostrarsi stesso dell’essere. Accade in tal modo che condizione e condizionato giungono a scambiarsi i ruoli, in una confusione il cui apice consiste nell’idea secondo cui nell’ontico è infine individuato il fondamento stesso dell’essere 67. A “liberare” l’ontologia monista dall’imbarazzante contraddittorietà della tesi ontologica coscienzialistica sarebbe intervenuta la “filosofia dell’essere” (Heidegger), la cui opera di “distruzione” sarebbe stata essenzialmente condotta in direzione della problematizzazione del senso dell’appartenenza dell’ente all’interno della costituzione essenziale della manifestatività 68. Pur collocandosi all’interno della medesima cornice teoretico-metodologica monista, caratterizzata dal primato della trascendenza, ciò che dell’impostazione coscienzialista la “filosofia dell’essere” incontestabilmente rigetta è questa “preminenza” accordata alla “positività” della verità ontica e alla sua caratteristica presenzialità, rispetto alla verità ontologica 69. Invero, come Henry precisa, la “filosofia dell’essere” non contesta qua tale la tesi della costitutiva appartenenza dell’ente alla verità onto67 Cfr. EM, pp. 150-151 (trad. it. cit., pp. 155-156). Cfr. Brief, pp. 359-360 (trad. it. Lettera sull’“umanismo”, in M. HEIDEGGER, Segnavia, cit., pp. 310-311). 69 In questo senso, peraltro, Michel Henry invita ad intendere il senso essenziale della critica heideggeriana alla metafisica, cfr. EM, p 119 (trad. it. cit., p. 129): «La ragione di questa critica […] risiede nella volontà di non lasciar decadere l’essenza al medesimo rango di ciò che proprio in quest’essenza ha il suo fondamento. Il rifiuto dei concetti tradizionali di soggetto, soggettività, coscienza, ragione, ma anche di “persona”, l’obiezione costantemente formulata contro la legittimità del loro uso (conformemente alla quale la realtà che essi indicano resta di fatto sempre non investigata quanto al suo essere), stanno ad indicare la trascendenza dell’essere rispetto a tutti quegli elementi pensati come principio della fenomenicità o più propriamente della conoscenza». In definitiva, ciò che, secondo Henry, distinguerebbe la “filosofia dell’essere” dalle “filosofie della coscienza” è il fatto che, mentre queste ultime – allo stesso modo della “metafisica” tematizzata da Heidegger – appaiono ancora strettamente legate all’interpretazione in chiave gnoseologica della trascendenza, nel caso della “filosofia dell’essere” ciò che innanzitutto è cercato è la formula metodologico-critica per il definitivo superamento di questo come di ogni altra forma di gnoseologismo. Il carattere di “fondamento”, soprattutto in quanto riferito alla trascendenza concepita come tale, deve poter essere pensato indipendentemente dai risvolti gnoseologici che, a titolo di comprensione d’essere, il suo mostrarsi rende possibili. 68 134 Roberto Formisano logica. Ciò che essa contesta, piuttosto, è la pretesa determinazione del senso di quest’appartenenza come elemento o “momento” essenziale dell’originario costituirsi della manifestatività dell’essere in quanto tale. Concepita alla luce della trascendenza – cioè nel senso della differenziazione interna che, al modo della distanziazione, struttura il costituirsi del rapporto come tale – la tesi dell’appartenenza dell’ente all’interno dell’orizzonte dischiuso dalla manifestatività appare innegabile. Un mostrarsi dell’ente, situato “al di là” della manifestatività dell’essere non avrebbe infatti senso. Per esprimerci in maniera negativa, si può dire che l’ente non può esser concepito “al di fuori dell’essere”, per il motivo essenziale che, propriamente, è l’essere – l’essere in quanto tale – a determinare nel modo della schiusura estatica l’ambito di pura esteriorità in cui a qualcosa come un ente è dato poter apparire. Indiscutibilmente, l’ente è “ciò che è” in quanto determinazione interna alla schiusura dell’essere. Ma proprio alla luce della costitutiva differenza, ossia dell’“esternità” dell’essere in rapporto all’ente, la “filosofia dell’essere” elabora in maniera decisamente diversa la questione della realizzazione della verità ontologica. L’essere – ribadisce giustamente Henry, seguendo con fedeltà e rigore ineccepibili la lezione di Heidegger – non è un ente. L’essere non mostra se stesso in maniera tematica. Esso non è – né è possibile che si dia come – un oggetto d’una qualche percezione per la coscienza. Piuttosto, come d’altronde già accennato in precedenza a proposito dell’Idealismo, nella manifestazione ontica è da riconoscersi il mostrarsi dell’essere, pensato nel senso della non-verità. Il punto, tuttavia, è che, benché muovendosi sul suolo periglioso di questo passaggio, che dalla determinatezza dell’ente apre al pensiero del ni-ente [Nichts], anche l’Idealismo ha finito col ricadere nuovamente nell’ontico. L’errore è stato l’aver voluto cercare “in controluce”, e cioè sempre a partire unicamente dal riferimento all’ente, il senso della verità ontologica. Legato alla presenzialità dell’ente, ciò che le filosofie dell’Idealismo non sarebbero state in grado di fare è di giungere alla determinazione della “positività” del “non” dell’ente [Nichts], in maniera tale da impostare la questione dell’essere conformemente al senso della sua ni-entità [Nichtigkeit]. Diversamente, ed in aperto contrasto con le filosofie dell’Idealismo, la tesi della “filosofia dell’essere” è che: la ratio del “non” che accompagna costitutivamente e rende possibile la manifestazione è da ricer- Il “monismo ontologico” e la filosofia prima 135 carsi non a partire dall’ente, bensì dalla struttura della comprensione d’essere costituente l’essenza del Dasein, ontologicamente intesa come schiusura estatica d’orizzonte. In questo senso scrive Henry: Nel processo ontologico della opposizione il fenomeno sorge come posto-innanzi. La profonda ambiguità di ciò che è così posto-innanzi deve dunque essere denunciata. Ciò che sorge grazie alla mediazione dell’essenza dell’opposizione, su uno sfondo di luce e come condizione dell’effettivo divenire della manifestazione, non è l’ente ma questo stesso sfondo in quanto tale, ossia l’orizzonte trascendentale dell’essere. In questo dispiegamento dell’orizzonte trascendentale dell’essere si esaurisce l’opera dell’essenza. Con esso si realizza l’effettivo divenire della fenomenicità 70. La realizzazione del mostrarsi dell’essere in quanto trascendenza va pertanto riconosciuta solo ed esclusivamente in riferimento alla schiusura estatica d’orizzonte (ovverosia all’“accadere” dell’esistenza in quanto comprensione d’essere), e non anche in riferimento all’effettiva posizione-innanzi dell’ente via via incontrato nel mondo. Nell’orizzonte del niente [Nichts], e non nella singolarità della manifestazione ontica risiede la realizzazione effettiva della manifestatività dell’essere: questa, in breve, è l’indicazione generale che, muovendo dalle categorie di pensiero della filosofia di Heidegger, Henry ricava come preliminare esplicitazione del significato ontologico del concetto di “trascendenza”, vale a dire della tesi della coappartenenza strutturale dell’essere e della comprensione d’essere in seno alla manifestatività 71. 70 p. 152 (trad. it. cit., pp. 156-157). Corsivi di Michel Henry. Nei Beiträge è oggi possibile leggere, in effetti: «Il riferimento dell’esser-ci all’Essere rientra nel presentarsi dell’Essere stesso, e ciò può esser detto anche nel modo seguente: l’Essere ha bisogno dell’esser-ci, senza questo evento-appropriazione non si presenta affatto» (M. HEIDEGGER, Beiträge zur Philosophie (vom Ereignis), ora in Heideggers Gesamtausgabe, vol. LXV, a cura di F.-W. von Herrmann, Frankfurt a.M., Klostermann, 19942, § 135, p. 254, trad. it. Contributi alla filosofia (Dall’evento), a cura di F. Volpi, Milano, Adelphi, 2007, pp. 257-258). Da sottolineare, comunque, è il fatto che, qualche riga più avanti, lo stesso Heidegger non esiti a riconoscere la profonda “ambiguità” di questa struttura della manifestatività la quale, nel costitutivo riferimento del Da-sein all’essere [Seyn], ovvero nella coappartenenza di essere e comprensione d’essere (e-sistenza), riconosce l’elemento irriducibilmente essenziale e intrinsecamente “necessitato” della verità ontologica (cfr. ibid., trad. it. cit., p. 258). 71 EM, 136 Roberto Formisano Come però emerso già a proposito del primo confronto di Henry con la filosofia di Heidegger 72, per quanto il concetto heideggeriano di trascendenza abbia consentito di portare in primo piano il tema della differenza ontologica, tale concetto (che riconduce ciò che Henry chiama il “devenir phénoménal de l’être”, cioè la realizzazione effettiva della manifestatività, sul suolo della temporizzazione estatico-orizzontale dell’In-der-Welt-sein) appare non esente da ambiguità. Come mostrato in precedenza 73, in Heidegger l’apertura [Erschlossenheit] del Dasein all’essere alla luce del mondo, cioè alla maniera del comprendere, è concepita in maniera tale per cui non è possibile separare il senso ontologico di questa apertura dal modo in cui l’esistenza fattivamente comprende il proprio essere, così come l’essere dell’ente non-Dasein. Ad impedire questa separazione è la struttura temporal-estatica del Dasein. Torna così nuovamente a proporsi il problema, già denunciato, circa la presunta “omogeneità dell’essere”, fra l’essere a cui strutturalmente il Dasein appartiene in quanto apertura estatica d’orizzonte (i.e. l’essere in quanto puro transcendens) e l’essere che si lascia esperire nel modo della comprensione ontologica. Il riaffiorare di questo problema altro non significa se non il fatto che, in merito alla problematica concernente la chiarificazione ultima del senso ontologico inerente al rapporto di coappartenenza strutturale dell’essere e della comprensione d’essere in seno alla manifestatività, la “guida” fornita dalla filosofia di Heidegger non è più sufficiente. La polemica heideggeriana contro il pensiero metafisico, a favore del pensiero dell’aletheia, va superata; e la premessa per questo superamento è da ricercarsi nella messa in discussione della radice comune a cui, tanto le “filosofie della coscienza” quanto la stessa “filosofia dell’essere” si riconducono. In altri termini, l’iniziale caratterizzazione della trascendenza nel senso della “schiusura estatica d’orizzonte” necessita ora d’esser ulteriormente approfondita sotto l’egida d’approccio fenomenologico differente i cui criteri di massima dovranno essere ricavati per mezzo di una critica dei presupposti del monismo ontologico. Per fare questo, tuttavia, sarà innanzitutto necessario condurre la problematica sin qui discussa al di là dell’impostazione teoretico-metodologica heideggeriana. 72 73 Cfr. supra, Sez. I, Cap. III, § 13. Cfr. supra, Sez. I, Cap. III, § 12. Il “monismo ontologico” e la filosofia prima 137 In breve, ciò che è da trascendere è la tesi di fondo che è alla base del cosiddetto “circolo ermeneutico”: l’assunto della complementarietà tra comprensione esistentiva e comprensione ontologica – la convinzione secondo la quale il modo in cui il Dasein fattivamente comprende se stesso e la propria essenza rappresenti qualcosa di costitutivo per quel che riguarda, non solo l’“accadere” della comprensione ontologica in quanto storicamente e-sistente, bensì il darsi della verità stessa dell’essere considerato in quanto tale. Il significato di questa necessità – della messa in discussione dell’assunto heideggeriano e del suo superamento – è innanzitutto metodologico. Giacché qui risiede, in definitiva, il nodo decisivo messo in chiaro e rilanciato da Michel Henry: nel fatto che, impostata conformemente alle necessità eidetiche e metodologiche scaturenti dall’interpretazione heideggeriana della trascendenza, una “verifica” di quest’assunto fondamentale della “filosofia dell’essere” è per principio interdetta, in ragione della “finitezza” propria di ogni comprendere umano il senso del cui limite, in Heidegger, rinvia esattamente quella strutturale e irriducibile “eccedenza di senso” in cui è riconosciuta l’origine dell’essere: l’insormontabile oscurità dell’abisso che, nel modo del dis-velamento, fonda la coappartenenza di essere e comprensione d’essere in seno alla manifestatività originaria. Capitolo II Al di là del circolo 18. Passaggio La riconduzione dell’essenza del fenomeno in generale alla sola fenomenicità della trascendenza è quanto è stato sinora indicato come il tratto distintivo del “monismo ontologico”. Rischiarata nel suo significato ontologico, la tesi fondamentale del monismo è stata riconosciuta nell’affermazione secondo cui – al pari di qualunque altro fenomeno – anche l’essere, per apparire, deve potersi porre a distanza da sé: «L’essere – scrive appunto Henry esplicitando questa tesi fondamentale del monismo ontologico – non è fenomeno, se non a condizione di essere a distanza da sé»1. La maniera in cui l’essere si pone a distanza non è tuttavia quella propria dell’ente. L’essere deve poter realizzare il proprio apparire come ciò che rende possibile l’apparire ontico. La mise-à-distance in e per cui l’essere realizza il proprio apparire si dà piuttosto in maniera tale per cui essa “eccede” costitutivamente la puntuale “positività” della posizioneinnanzi [Vor-stellung] della determinazione ontica. Scrive ancora Henry: «compresa come potere ontologico, l’opera della distanza fenomenologica […] consiste esattamente nell’istituire l’ambito in grazia del quale l’essere potrà apparire a se stesso»2. In definitiva, la determinazione ontologica della trascendenza, rischiarata nel senso della “distanza fenomenologica”, consiste nell’affermazione secondo cui: il modo in cui il fenomeno originario dell’essere 1 2 EM, p. 81 (trad. it. cit., p. 97). Ibid. 140 Roberto Formisano deve poter realizzare il proprio mostrarsi con-implica costitutivamente la schiusura estatica d’orizzonte, vale a dire il dispiegamento della dimensione ontologica dell’e-sistenza in quanto comprensione d’essere. Conformemente a questa determinazione della trascendenza, è dunque possibile riassumere la tesi fenomenologica fondamentale del monismo ontologico secondo la seguente formula: sul fondamento dell’estaticità, essere e comprensione d’essere si danno come costitutivamente co-appartenenti in seno alla struttura fenomenologica dell’apparire originario. Orbene, ciò che tuttavia la nozione di distanza fenomenologica, in quanto enucleazione della tesi fenomenologica fondamentale del monismo ontologico, lascia indeterminato è in che modo sia da intendere in ultima istanza la tesi monista della co-appartenenza di essere e comprensione d’essere in seno alla manifestatività originaria. Le precedenti analisi circa la concezione heideggeriana della trascendenza hanno confermato che non è nel senso della temporalità estatica che siffatta co-appartenenza è intesa da Michel Henry. Questo “distacco” di Henry nei confronti del paradigma onto-fenomenologico heideggeriano appare in tutta la sua evidenza, allorché Henry dichiara esplicitamente: La comprensione ontologica dell’essere è radicalmente indipendente rispetto a qualsiasi comprensione esistentiva. Che la comprensione esistentiva di sé, da parte dell’esistenza, sia […] “autentica” o “inautentica”, tutto questo non modifica in nulla, nella sua struttura universale, la natura originaria […] della comprensione ontologica dell’essere. […] L’indipendenza […] ci spinge a stabilire un’opposizione assoluta tra ciò che l’esistenza è in sé ed il modo in cui tale esistenza si rappresenta o comprende se stessa 3. Contro la (pretesa, da Heidegger) unità costitutiva dell’In-der-Weltsein, la trascendenza tematizzata da Michel Henry, e indicata come enucleazione della concezione propriamente monista di questo concetto, rivendica la possibilità di “liberare” la determinazione essenziale del rapporto fra l’essere e l’e-sistenza (l’“accadere” della comprensione d’essere in quanto schiusura estatico orizzontale) da ogni implicazione o con-implicazione esistentiva o ontica. Essa, cioè, rivendica per sé la possibilità di considerare la struttura ontologica del Dasein indipenden3 Cf. EM, p. 184 (trad. it. cit., p. 184). Al di là del circolo 141 temente dal modo in cui questo fattivamente comprende la propria costituzione essenziale così come l’essere überhaupt. In L’essence de la manifestation, è precisamente nel momento in cui la problematica liberata dalla determinazione ontologica della distanza fenomenologica giunge a trovarsi nella necessità di chiarire quali siano i rapporti fra comprensione ontologica dell’essere e comprensione esistentiva, ovvero in che modo sia possibile pensare il senso della coappartenenza dell’essere e della comprensione d’essere, indipendentemente da ogni implicazione esistenziale, che l’argomentazione henryenne cessa finalmente di riferirsi alle analisi di Sein und Zeit, per volgersi piuttosto alle tesi della Anweisung zum seligen Leben di Johann Gottlieb Fichte, ovvero alla Religionslehre del 1806. Questo cambiamento di riferimenti andrà compreso come un vero e proprio “cambiamento di paradigma”. La comprensione di questa “svolta” che dalla concezione onto-fenomenologica heideggeriana della trascendenza dovrà condurre a quella propriamente “monista”, passando attraverso l’interpretazione fichtiana del fenomeno della “coscienza religiosa”, richiederà innanzitutto una prima ricostruzione del significato generale del discorso fichtiano dell’Anweisung. Alla luce di questa prima ricostruzione del rapporto fra essere ed esistenza dal punto di vista della religione 4, le acquisizioni ottenute saranno poi ricondotte nuovamente all’interno del contesto teoretico-problematico di L’essence de la manifestation e sviluppate conformemente all’interpretazione fornita da Michel Henry5, con lo scopo di trarne, infine, tutte le dovute conseguenze teoretico-metodologiche 6. Questo percorso argomentativo, articolato in queste tre principali tappe servirà a determinare l’insieme delle premesse per la definitiva critica del presupposto fondamentale del monismo. 19. Religione e filosofia. La “Anweisung” di J.G. Fichte In un passo dell’Anweisung, Fichte così spiega la propria concezione della religione: 4 Cfr. infra, Sez. II, Cap. II, § 19. Cfr. infra, Sez. II, Cap. II, § 20. 6 Cfr. infra, Sez. II, Cap. III, § 21-22. 5 142 Roberto Formisano La religione consiste nel vedere, avere e possedere Dio direttamente nella nostra propria persona, e non in una estranea, con il nostro proprio occhio spirituale, e non con uno estraneo. Ciò però è possibile soltanto in virtù del pensiero puro e autonomo, poiché soltanto mediante esso si diventa una vera persona […]. Il pensiero puro è la stessa esistenza divina 7. In quanto visione divina, Fichte riconduce il concetto di religione all’essenza stessa del rapporto fra essere e pensiero; ed afferma: questo rapporto non è estrinseco, ma intimamente legato alla struttura di ciò che egli chiama il “pensiero autonomo”, ossia il pensiero che comprende se stesso e la sua stessa costituzione d’essere, in quanto tale. La religione è essenzialmente intesa come peculiare atteggiamento [Verhältnis] del pensiero, ossia quel modo di rapportarsi a Dio che coinvolge il costitutivo rapportarsi del pensante alla sua stessa costituzione d’essere. Ne viene che, nell’enucleazione fichtiana del concetto di religione, ciò che è posto in merito al rapporto essere/pensiero è il legame essenzialmente unitario fra l’auto-comprensione del pensiero ed il rapporto che questi intrattiene con Dio, in quanto principio d’essere. Nell’ottica dell’Anweisung, la comprensione dell’unità di essere e pensiero (scil. comprensione d’essere) è propriamente il “fatto” della religione 8. Su questo “fatto” riposa l’incontro della filosofia con il cristianesimo. Sempre secondo Fichte, infatti, la religione è già comprensione di quello che è il contenuto essenziale della filosofia “scientifica” 9. Da questa, tuttavia, la religione costitutivamente si distingue 10, in7 Anweisung, pp. 418-419 (trad. it. L’iniziazione alla vita beata ovvero la dottrina della religione, in J.G. FICHTE, La dottrina della religione, a cura di G. Moretto, Napoli, Guida, 1989, pp. 241-400, p. 259). Corsivi nostri. 8 Diversamente, infatti, da tutti gli altri modi di autocomprensione non filosofici dell’esistenza nella sua fatticità, la religione si distingue, secondo Fichte, in ragione del superamento che essa fattivamente realizza della comprensione naturale dell’esistenza come “separata” dall’essere. Ciò che, pertanto, se considerata nella sua tesi fondamentale, la religione essenzialmente – secondo Fichte – afferma è l’unità essenziale di essere ed esistenza (su questo punto cfr. M. GUEROULT, L’évolution et la structure de la doctrine de la science chez Fichte, a cura di H.M. Baumgartner e W.G. Jacobs, Hildesheim/Zürich/New York, Georg Olms Verlag, 1982, in part. pp. 164-165). Orbene, di quale tipo di unità si tratti ed in che modo questa si strutturi – vale a dire: in che modo l’unità di essere ed esistenza sia saputa ed appresa dalla religione intesa come peculiare modo di realizzazione della costitutiva autocomprensione dell’esistenza – su questo punto sarà essenzialmente centrata la seguente lettura dell’Anweisung zum seligen Leben di Fichte. 9 Cfr. M. GUEROULT, L’évolution et la structure…, cit., pp. 209-210. Al di là del circolo 143 nanzitutto per il fatto che, a differenza del pensiero filosofico, è capace di comunicare in maniera più accessibile il senso delle verità ultime. Esprimendosi per “immagini”, la religione rende comunicabili contenuti che altrimenti resterebbero per lo più oscuri all’ordinario comprendere della moltitudine degli uomini. In questo senso è da intendersi il carattere “popolare” di questa dottrina 11 . Nella Vorrede Fichte afferma esplicitamente che la “popolarità” riguarda sì la forma espositiva, ma non anche la sostanza del contenuto e che, anzi, contrariamente a quanto potrebbe sembrare, dietro la multiformità di un linguaggio volutamente “semplice”, le lezioni dell’Anweisung «sono nel loro complesso il risultato della mia autoformazione, perseguita da circa sei-sette anni con maggiore tranquillità e […] in maniera instancabile, alla luce di quella visione filosofica che mi è stata partecipata già tredici anni fa e che […] non ha tuttavia mutato da allora se stessa in nessun punto» 12. La religione – cioè, per Fichte, il cristianesimo esemplarmente espresso nel Prologo al Vangelo giovanneo 13 – pensa le medesime verità della filosofia. Solo che tali verità sono comprese dalla religione in maniera diversa. In ciò, peraltro, è da ascriversi anche il carattere “iniziatico” o “introduttivo” del pensiero religioso. La visione religiosa dell’essere costituisce, infatti, proprio in ragione della sua “popolarità”, una prima mediazione attraverso la quale poter condurre la concezione ordinaria dell’essere al di là dei pregiudizi in cui essa naturalmente si tiene e da cui si lascia in genere più facilmente dominare: «Questa esposizione – spiega Fichte al suo uditorio, nella seconda lezione – fa sì che la verità divenga e si produca, davanti ai nostri occhi, a partire da un mondo pie10 Nella sesta lezione dell’Anweisung, Fichte distingue cinque differenti modi di concepire l’esistenza. Di questi, la religione individua appunto il quarto, mentre la scienza filosofica, posta al gradino più alto della progressione, il quinto. Cfr. Anweisung, pp. 475-491 (trad. it. cit., pp. 311-325). 11 “Popolare” è termine che lo stesso Fichte usa (cfr. Anweisung, p. 399, trad. it. cit., p. 243) ad indicare un gruppo di opere scritte fra il 1804 ed il 1806, quali – oltre, ovviamente all’Anweisung redatta e pubblicata nel 1806 – i Grundzüge des gegenwärtigen Zeitalters (lezioni del 1804-05) e Das Wesen des Gelehrten (lezioni del 1805). Sui caratteri della “popolarità” dell’Anweisung, cfr. l’approfondita esposizione di Giovanni Moretto nell’introduzione alla traduzione italiana del quinto volume dei Sämmtliche Werke: cfr. G. MORETTO, Introduzione a J.G. FICHTE, La dottrina della religione, Napoli, Guida, 1989, pp. 11-67, e in part. pp. 12-21. 12 Cfr. Anweisung, p. 399 (trad. it. cit., p. 243). 13 Cfr. Anweisung, pp. 475-479 (trad. it. cit., pp. 311-314). 144 Roberto Formisano no di errori» 14. La dottrina della religione costituisce una Darstellung, un’esposizione che, conducendo la comprensione ordinaria dell’essere dinnanzi al proprio pregiudizio di fondo, anticipa la visione scientifica facendo sì che ciò che soltanto la scienza può adeguatamente esprimere possa altresì esser in qualche modo già recepito nel suo contenuto essenziale 15. La Anweisung è pertanto da intendersi, essenzialmente, come un “avviamento” al pensiero dell’essere, una prima “introduzione” rispetto al modo in cui i concetti della filosofia debbono poter esser colti. La dottrina della religione è pensata in maniera tale per cui, “predisponendo” al corretto Verhältnis del pensiero nei confronti della sua stessa costituzione essenziale e dell’essere 16, “educa” di fatto al modo di pensare autonomo, necessario per poter correttamente “entrare” [hineinkommen] nell’ambito delle verità della filosofia 17. La “popolarità” dell’Anweisung ed insieme il suo carattere “iniziatico” fanno appunto riferimento alla “propedeuticità” di questa Darstellung, il cui compito è spiegato da Fichte nel senso di una “preparazione” del pensiero naturale al corretto inquadramento del senso del proprio rapporto con l’assoluto. 14 Anweisung, p. 422 (trad. it. cit., p. 262). Corsivi di Fichte. L’iniziazione alla vita beata è l’introduzione della coscienza (cioè l’esistenza) al cammino che essa è necessario che compia per potersi unire a Dio, in Dio. Il senso di questo cammino è quello dell’abbandono delle immagini esteriori del mondo (il topos è neoplatonico-agostiniano), cioè dell’abbandono della maniera ordinaria di come comprensione objettiva dell’essere come sostanza. Ciò che, alla luce di questo abbandono, la coscienza guadagnerà è un diverso grado di consapevolezza, nei confronti del suo stesso essere. Superata la concezione ordinaria dell’essere come sostanza, la coscienza è introdotta alla concezione dell’essere come vita, ovvero come sentimento di sé e come sapere, sapersi. Ma scoprendosi costituita nel sapere, in quanto sapersi, la coscienza scoprirà altresì di non essere essa stessa l’origine del suo stesso essere. Questa origine essa la potrà trovare in un sapersi altro, un sapersi il cui senso è di essere ciò che la coscienza non è né può mai aspirare ad essere, e cioè l’origine del sapere stesso in quanto essere assoluto. In questo abbandono del mondo – che è un ritorno all’origine – è la disposizione “religiosa” della coscienza ed insieme la Darstellung propria della Religionslehre. 16 Cfr. Anweisung, p. 418 (trad. it. cit., pp. 258-259). 17 Cfr. Anweisung, p. 412 (trad. it. cit., pp. 253-254). Sul problema dei rapporti fra religione e filosofia in Fichte, e in particolare sul problema dei rapporti fra l’Anweisung del 1806 e la Wissenschaftslehre del 1804, si rinvia ancora una volta soprattutto al monumentale lavoro di M. GUEROULT, L’évolution et la structure…, cit., pp. 200-212. 15 Al di là del circolo 145 La “preparazione” a cui la Religionslehre introduce rinvia direttamente alla concezione fichtiana del pensiero, ovvero dell’esistenza [Daseyn], e dell’essere [Seyn]. In riferimento a quest’ultimo, nella lezione inaugurale Fichte afferma esplicitamente di rifiutare la definizione, propria della concezione ordinaria, dell’essere come sostanza. Nell’Anweisung si legge, infatti: L’essere – l’essere dico – e la vita sono poi un’unica e medesima cosa. Soltanto la vita può esistere autonomamente, in se stessa e per se stessa; e di nuovo la vita, nella misura in cui sia soltanto vita, comporta l’esistenza. Normalmente si pensa l’essere come qualcosa di statico, rigido e morto; anche i filosofi, quasi senza eccezione, lo hanno pensato in questo modo, persino quando lo presentavano come assoluto. E ciò deriva unicamente dal fatto che, per pensare l’essere, invece che da un concetto vivo, si muoveva da un concetto morto. Non nell’essere in sé e per sé sta la morte, ma nello sguardo apportatore di morte del morto spettatore. Che in questo errore stia la fonte principale di tutti gli altri errori e che a causa di esso il mondo della verità e il regno degli spiriti si chiudano per sempre allo sguardo, è quanto abbiamo indicato altrove per lo meno a coloro che sono in grado di intendere queste cose; qui è sufficiente la semplice citazione storica di questo principio 18. La versione filosofica dell’ordinaria concezione dell’essere quale substantia considera l’essere come assoluto “in sé”, ossia realtà perfettissima, autonomamente sussistente e perciò separata, cioè sussistente indipendentemente da ogni tipo di rapporto [Verhältnis] 19. La substantia rifiuta nel suo concetto il rapporto 20 come determinazione essenziale per la propria struttura d’essere. Ricondotto il senso dell’autonomia dell’essere al fatto d’esser libero, sciolto [ab-solutus] da ogni rapporto, l’essere è assunto alla stregua d’una materia inerte, ossia d’una realtà non soltanto isolata rispetto a qualunque cosa d’altro (sempre pensato in termini di sostanza) ma anche e soprattutto come opaca a se stessa. Posto che il rapporto non ha alcun valore ontologico, la concezione ordinaria dell’essere conduce all’assurda tesi secondo cui in quanto 18 Cfr. Anweisung, pp. 403-404 (trad. it. cit., p. 247). L’ultimo riferimento di Fichte è alla Wissenschaftslehre del 1804. 19 Sulla definizione fenomenologica del senso della sostanza, cfr. supra, Introd., § 2. 20 Per costituirsi come tale, la sostanza non necessita di sapersi. In ciò è da intendersi la sua autonomia, vale a dire l’indipendenza rispetto alla struttura fenomenologica del rapportarsi-a-sé, sì che la “realtà” della sostanza individua una realtà objettiva “opaca” in senso assoluto. 146 Roberto Formisano assoluto – e cioè, in ragione dell’assolutezza che è propria della sostanza intesa come realtà priva di relazione a se stessa come ad altro – l’essere non sa se stesso. Nel passo precedentemente citato, Fichte paragona pertanto l’essere così concepito ad una spoglia “morta”, aggiungendo però la clausola non trascurabile secondo cui: «Non nell’essere in-sé-e-per-sé sta la morte, ma nello sguardo apportatore di morte del morto spettatore»21. La “morte” dell’essere non è qualcosa di originario, non appartiene all’essere in quanto tale, ma è legato unicamente al modo in cui esso è compreso. Il senso della metafora della “morte” rinvia non all’essere, bensì al pensiero, ovvero al modo in cui l’esistenza si comprende e interpreta la sua stessa costituzione essenziale. Si ha “morte”, sul piano ontologico, allorché il pensiero, interpretandosi esso stesso come sostanza (e perciò come separato rispetto all’essere), misconosce il senso del rapportarsi-a-sé che lo costituisce come esistenza e coscienza. Destituendo di ogni valore il rapporto come tale, il pensiero finisce cioè col “chiudere” l’essere nell’assurdità di un “in sé”, in un silenzio ed un isolamento inoltrepassabili. Diversamente, al di là delle distorsioni nelle quali il pensiero si lascia naturalmente coinvolgere, il darsi dell’essere überhaupt è presentato da Fichte come vita. E la “vitalità” dell’essere è riconosciuta nel suo costituirsi in quanto rapporto. L’essere, afferma perentoriamente Fichte, non rigetta il pensiero. Religiosamente inteso, il senso della sua autonomia non è tale da escludere la possibilità di esser saputo nel modo dell’esistenza, ma anzi include in se stesso siffatta possibilità come ciò che proprio nel costitutivo rapportarsi-a-sé che ne determina la struttura interna può trovare, infine, il fondamento proprio. In questo senso si può dire, in via del tutto preliminare, che il rapporto fondamentale dell’esistenza con l’essere è esso stesso riconosciuto e pensato, dalla coscienza religiosa, come fondato sul rapporto che essenzialmente l’essere intrattiene con se medesimo. La struttura fenomenologica dell’essere non esclude il rapporto, bensì lo integra in un sapersi del rapporto che sa se stesso in quanto tale. La “vitalità” dell’essere è riconosciuta nel suo costituirsi in quanto rapporto che sa se stesso in sé. In tal modo, ricondotto sia il rapporto sia il 21 Cfr. Anweisung, pp. 403-404 (trad. it. cit., p. 247). Al di là del circolo 147 sapere all’interno della struttura fenomenologica dell’essere, ne viene che l’inseità dell’assoluto non ha più nulla a che vedere con la mera “sostanzialità” dell’assolutamente irrelato. Posta la non originarietà della sostanza, il senso “vitale” dell’essere in quanto assoluto sta nel fatto che l’in-sé si costituisce come tale solo nella misura in cui esso è posto in rapporto a se medesimo ed è posto in esso in maniera tale per cui sa se stesso come non altro che questo stesso rapporto. La vitalità, lo strutturarsi dell’essere in quanto rapporto – tutti contrassegni della originarietà del suo mostrarsi – sono essenzialmente pensati dalla coscienza religiosa in riferimento al carattere di unicità dell’assoluto. Tale unicità si esprime nel fatto che, per rapportarsi a sé, l’essere non necessita d’altro, esso cioè non necessita di qualcosa di eterogeneo rispetto alla sua propria essenza. Piuttosto, al fine di rapportarsi a sé, è l’essere stesso a farsi altro da sé, in maniera tale per cui, però, se considerata in riferimento alla sua origine, siffatta alterità, nei confronti della quale l’essere realizza il suo proprio mostrarsi, altro non si rivela essere se non pur sempre l’essere medesimo. Compresa alla luce del rapporto, la tesi dell’unicità dell’essere afferma che: l’essere non si rapporta ad altro se non a se medesimo. Il che significa: si dà in-sé soltanto nella misura in cui questo è strutturato in quanto per-sé, ovvero in quanto coscienza, rappresentazione di se medesimo 22. Per potersi costituire come assoluto, l’essere-in-sé deve poter essere innanzitutto posto in rapporto a se medesimo, ovvero farsi persé, realizzare il suo proprio mostrarsi nel modo del sapersi, del sapere se stessa in quanto tale. Posto allora che nulla si dà oltre l’essere se non l’essere medesimo, spiega Fichte proseguendo nell’esposizione della dottrina della religione, solo l’essere esiste 23, sì che l’esistenza [Daseyn], sottratta al valore relativo che essa di volta in volta assume agli occhi del pensiero (finito), è in tal senso intesa, propriamente, come la struttura del mostrarsi dell’essere in quanto assoluto (essere-in-sé-e-per-sé). Nel senso dell’unicità dell’essere, l’esistenza si determina come la struttura entro cui, per mezzo dell’istituzione del per-sé, l’essere realizza il suo mostrarsi in quanto 22 23 Cfr. Anweisung, p. 440 (trad. it. cit., p. 278). Cfr. Anweisung, p. 405 (trad. it. cit., p. 248). 148 Roberto Formisano “sapersi”, cioè in quanto rappresentazione [Vorstellung] 24 . Ciò, d’altronde, è quanto lo stesso Fichte sottintende allorché, nella citazione precedentemente richiamata, egli dichiara: «Soltanto la vita può esistere autonomamente, in se stessa e per se stessa; e di nuovo la vita, nella misura in cui sia soltanto vita, comporta l’esistenza»25. L’essere si dà in quanto assoluto ed in quanto vita nella misura in cui sa se stesso in sé. Concepito alla luce della unicità dell’essere, ciò in cui l’essere realizza il suo mostrarsi nel modo del sapere è appunto l’esistenza, la quale, a sua volta, è per questo determinata in quanto tale come la pura rappresentazione o immagine [Bild] dell’essere. La peculiarità fenomenologica dell’esistenza è riconosciuta, in tal senso, non nel fatto che essa può di volta in volta avere una certa rappresentazione dell’essere, bensì nel fatto che è l’essere a sapere se stesso nel modo dell’esistenza, sì che la determinazione di quest’ultima nel senso della rappresentazione va concepita innanzitutto ed essenzialmente come determinazione del sapersi dell’essere e non come determinazione del sapere che l’esistenza può avere dell’assoluto. Nel senso indicato dalla Religionslehre, il sapersi dell’essere va dunque tenuto distinto rispetto al sapere che, come tale, l’esistenza deve poter avere circa la sua propria costituzione essenziale 26. Il che, però, vuol dire che, nell’unicità dell’assoluto, oltre al sapersi dell’essere – cioè oltre all’esistenza intesa come coscienza o rappresentazione dell’essere – è altresì dato il sapersi dell’esistenza stessa, vale a dire l’esistenza autocoscienza della struttura rappresentativa dell’essere in quanto tale. A tal proposito interviene ciò che Fichte chiama lo “sdoppiamento” dell’essere, e che nel testo della Religionslehre egli esemplifica ricorrendo a due specifiche locuzioni, quali: bloßes Daseyn, la “semplice esistenza” in quanto pura rappresentazione dell’essere, e Daseyn, l’“esistenza” intesa piuttosto nel senso dell’autocoscienza fattiva di siffatta rappresentazione. 24 Cfr. Anweisung, pp. 439-440 (trad. it. cit., p. 278). Anweisung, p. 404 (trad. it. cit., p. 247). 26 Cfr. a tal proposito il seguente passo dell’Anweisung, p. 441 (trad. it. cit., p. 279), in cui Fichte afferma esplicitamente: «L’essere […] che non abbandona affatto il proprio carattere assoluto né si fonde e mescola con l’esistenza, deve esistere. Esso deve perciò venire distinto e contrapposto all’esistenza; e […] questa distinzione e questa contrapposizione devono venire in luce – nell’esistenza stessa». Corsivi nostri. 25 Al di là del circolo 149 Il bloße Daseyn, che riguarda l’esistenza dell’essere in senso assoluto, è concepita come in se stessa già sempre compiuta. Essa non necessita di nulla ed al sapersi che essa realizza non è possibile aggiungere nient’altro. Sul fondo del bloße Dasein, però, allo stesso modo di quest’ultima, vale a dire nel modo della rappresentazione, ha origine altresì la (auto-)coscienza dell’esistenza. Costituendosi come sapere, tuttavia, all’autocoscienza dell’esistenza non è dato poter aggiungere nulla all’esistenza dell’assoluto, in quanto quest’ultimo si dà per l’appunto come già sempre in se stesso compiuto. Il carattere di autocoscienza da parte dell’esistenza individua un modo del sapersi che è – esiste – in una maniera secondaria, derivata. In questo senso, peraltro, anche l’apparente contraddittorietà fra l’unicità dell’assoluto e la tesi dello sdoppiamento viene decadere. Difatti, lo sdoppiamento – la notizia della differenza fra il sapersi originario ed il sapersi dell’esistenza – è un fatto riguardante solo ed esclusivamente l’esistenza 27; e tuttavia, nonostante il sapere di questa notizia non possa aggiungere nulla circa il sapersi in sé già sempre compiuto dell’assoluto, esso dice molto circa il rapporto di fondazione, vale a dire l’unità strutturale di essere ed esistenza. La distinzione fra i due tipi di sapersi (dell’essere e dell’esistenza) e la tesi dello sdoppiamento dell’essere in Daseyn e bloßes Daseyn costituiscono propriamente le tesi caratteristiche della coscienza religiosa 28. Esse definiscono ed individuano il peculiare modo in cui, secondo Fichte, la religione avrebbe saputo cogliere ed esprimere il senso della fondazione dell’esistenza in Deo, vale a dire il criterio alla luce del quale pensare il senso di siffatta fondazione. Esprimendo questa, che costituisce uno dei punti essenziali della comprensione religiosa dell’assoluto, Fichte scrive: L’esistenza deve concepirsi, conoscersi, e formarsi come semplice esistenza, e deve porre e formare di fronte a sé un essere assoluto, di cui essa stessa è la semplice esistenza: mediante il suo essere essa deve annientarsi di fronte a un’altra esistenza assoluta; il che presenta appunto il carattere di semplice immagine, di rappresentazione o di coscienza dell’essere 29. 27 Cfr. M. GUEROULT, L’évolution et la structure…, cit., p. 167. Cfr. Anweisung, p. 441 (trad. it. cit., p. 279). 29 Ibid. 28 150 Roberto Formisano La distinzione fra il bloße Daseyn ed il Daseyn – l’affermazione cioè dell’autonomia del sapersi dell’essere-in-sé-e-per-sé rispetto alle molteplici e parziali immagini di cui nella concreta esistenza il solo persé di volta in volta ha di se stesso – impone alla coscienza autenticamente disposta alla ricerca del suo fondamento ed all’unione con esso la totale liberazione dalle immagini del mondo, sì che soltanto svuotandosi del tutto di qualsivoglia contenuto objettivo essa può giungere a sapersi propriamente come pura immagine [bloßes Bild] dell’assoluto e cioè, se considerata nella sua struttura, come essenzialmente appartenente al sapersi assoluto appunto in quanto rappresentazione. Nel testo dell’Anweisung, questa visione del rapporto di fondazione è esplicitata da Fichte nei termini di una esteriorizzazione dell’essere. È all’interno di quest’impostazione, infatti, che si colloca la definizione fichtiana dell’esistenza come «essere al di fuori del suo essere»30. Che, mostrandosi in quanto tale, l’assoluto esteriorizzi se stesso in quanto esistenza non significa affatto, per Fichte, che l’essere “esca fuori” di sé, come se avesse un limite, una “barriera” da oltrepassare. L’esteriorizzarsi dell’assoluto non configura un mero “uscir fuori” dell’essere. Poiché unicamente all’essere è dato di esserci, esso piuttosto afferma che il “fuori” per mezzo del quale l’essere istituisce il rapporto in vista del suo sapersi altro non è che l’essere stesso nella forma della sua esistenza, e cioè del suo sapersi in quanto tale. Il “fuori” è la struttura del rapportarsi-a-sé come tale, ovvero l’esteriorità originaria in cui e per mezzo della quale l’essere realizza il suo mostrarsi in quanto sapersi assoluto dell’essere-in-sé-e-per-sé. L’esteriorità, intesa come struttura del mostrarsi dell’essere, è da Fichte identificata con l’esistenza per il fatto che essa definisce la condizione sotto cui soltanto all’essere è dato sapersi in quanto tale. L’esteriorità è la condizione fenomenologica del sapersi come tale. Sì che, in questo senso, l’esteriorità definisce l’identità del modo di costituzione dell’essere e dell’esistenza in quanto fenomeni. Definendo l’identità del modo di costituzione dell’essere così come dell’esistenza, l’esteriorità è dunque appresa dalla coscienza religiosa come il criterio alla luce del quale pensare il rapporto di fondazione che, nello sdoppiamento, tiene uniti insieme esistenza ed essere. Concepita 30 Anweisung, p. 440 (trad. it. cit., p. 278). Corsivi di Fichte. Al di là del circolo 151 alla luce di siffatto criterio (cioè conformemente al senso dell’esteriorizzazione) la coscienza religiosa pensa infatti, per un verso, l’esistenza come fondata nell’essere in quanto partecipe del suo stesso modo di costituzione 31; sennonché, per un altro verso, proprio perché nella forma della coscienza religiosa l’esistenza si configura esser quel modo del sapersi che sa d’esser fondato nell’essere (appreso come l’esteriorità pura) in quanto conforme al suo modo di costituzione, sa altresì se stessa in quanto costitutivamente “esteriore” rispetto all’essere, ed in questo senso, propriamente, come sua semplice “immagine”, semplice “rappresentazione”. Fondata, in quanto partecipe del suo modo di costituzione, l’esistenza sa se stessa come “esterna” rispetto all’essere. Quest’affermazione – così come la tesi dello sdoppiamento – va compresa unitamente alla tesi dell’unicità dell’essere. L’esternità dell’esistenza rispetto all’essere riguarda, infatti, non la sua realtà (ché al di là dell’essere non può esservi nulla) quanto piuttosto il suo processo di costituzione. Il che vuol dire: nel suo sapersi fondata nell’essere, l’esistenza religiosamente disposta verso la comprensione dell’assoluto sa se stessa come partecipe del medesimo modo di costituzione dell’essere, in quanto concepito come in se stesso già sempre compiuto. Entro questa prospettiva, la realizzazione del modo di costituzione dell’assoluto (scil. l’esteriorizzazione in quanto tale) viene ad esser concepita la condizione ultima per la partecipazione dell’esistenza alla vita originaria 32. Esistenza (i.e. il sapersi della struttura dell’esteriorizzazione dell’essere) si dà sul fondo del compimento in se stesso già dato dell’esteriorizzazione medesima, in maniera tale per cui (sebbene comprendentesi come essenzialmente partecipe dell’essenza divina in quanto costituita nella medesima maniera del darsi dell’assoluto) la coscienza religiosa si comprende tuttavia, altresì, come non direttamente partecipe della realizzazione di quest’ultimo. Nella forma della coscienza religiosa, sapendo se stessa ed il senso della propria fondatezza conformemente al senso dell’esteriorizzazione propria dell’essere, l’esistenza comprende se stessa in quanto esclusa dal processo di costituzione dell’assoluto. Nello stesso tempo, però, proprio in ragione di siffatta esclusione, essa comprende tuttavia se stes31 32 Cfr. ibid. Cfr. Anweisung, p. 443 (trad. it. cit., pp. 280-281). 152 Roberto Formisano sa come essenzialmente partecipe della realtà prodotta da tale processo. Esprimendo nella forma d’un paradosso questa peculiare situazione ermeneutica si potrebbe dire che, nella forma della coscienza religiosa, l’esistenza realizza il proprio sapersi come partecipe della vita originaria dell’assoluto esattamente in quanto esclusa dal processo di costituzione di quest’ultimo. In questo senso, peraltro, l’apparente contraddittorietà dell’affermazione dell’unicità dell’essere, da un lato, e del suo sdoppiamento nella forma del sapersi, dall’altro, è tolta. L’essere, concepito sia nel suo processo di costituzione sia nel suo sapersi, si dà in quanto tale come uno. Istituendosi però nella forma dell’esteriorizzazione, la sua unicità si dispiega in maniera tale per cui la realizzazione a cui esso conduce è inevitabilmente duplice, nella misura in cui, nel sapersi in quanto tale come essenzialmente unita all’essere, l’esistenza non può non sapere se stessa che in quanto “esterna”, estrinseca al movimento originario in forza del quale l’assoluto struttura la propria verità in quanto essere-in-sé-e-per-sé. Nella prospettiva della dottrina della religione lo sdoppiamento dell’essere è indicato come il criterio a partire dal quale l’esistenza, religiosamente disposta nei confronti dell’assoluto, si volge alla comprensione della sua stessa costituzione d’essere e del senso del rapportarsi-a-sé in quanto tale. Alla luce dello sdoppiamento della struttura coscienziale dell’essere, la coscienza religiosa comprende la propria struttura d’essere come “risvolto interno” al costituirsi dell’assoluto in quanto vita, cioè come momento costitutivo del rapportarsi-a-sé dell’essere in quanto in-sé-e-per-sé. La coscienza religiosa sa se stessa come appartenente alla vita dell’assoluto in quanto costituita in essa, nel medesimo modo del rapportarsi-a-sé. Essa si scopre in tal modo esser radicalmente fondata nell’assoluto, in quanto partecipe del suo essenziale modo di costituzione. E tuttavia, proprio perché partecipe del modo di costituzione dell’assoluto e autocomprendentesi alla luce di questo, la coscienza religiosa comprende il senso originario di siffatto modo di costituzione in quanto già sempre dato in se stesso, ovverosia come “fenomeno”, in quanto già sempre compiuto nel suo mostrarsi. Enucleata a partire dal modo in cui l’originarietà dell’assoluto è saputa nel rapporto di fondazione con l’esistenza da parte della coscienza religiosa, ciò che la tesi dello sdoppiamento dell’essere afferma è, in breve, l’autonomia [Selbständigkeit] del sapersi assoluto rispetto al sapersi dell’esistenza. Ciò che esso afferma è la non dipendenza dell’asso- Al di là del circolo 153 luto rispetto ai differenti modi in cui l’esistenza fattivamente realizza la comprensione di sé, così come dell’essere in generale. Se, dunque, per un verso, relativamente al modo in cui sia l’essere sia l’esistenza strutturano il proprio mostrarsi, la prospettiva ontologica disegnata dalla Religionslehre riconosce un’unica modalità di costituzione dell’apparire in generale, che è quello del rappresentare [Vorstellen], e cioè della trascendenza, per un altro verso tuttavia, tale connotazione, che individua un chiaro contrassegno del carattere monista di siffatta concezione dell’originario, si distingue rispetto al paradigma onto-fenomenologico a cui pure le filosofie dell’Idealismo, nella ricostruzione prima data, erano state ricondotte, per il fatto che di contro all’unicità ed alla unità strutturale rappresentata dalla trascendenza, la tesi dello sdoppiamento dell’essere afferma l’irriducibile dualità fra il sapersi assoluto ed il sapersi dell’esistenza. Presa in questo senso, la dottrina della religione di Fichte si conferma, in effetti, una concezione della trascendenza per nulla affatto riconducibile alle categorie storico-critiche elaborate dal paradigma onto-fenomenologico heideggeriano, in quanto evidentemente incompatibili con il presupposto della co-originarietà di essere ed esistenza. Rispetto a questa enucleazione della trascendenza, quanto la tesi dello sdoppiamento dell’essere afferma è infatti esattamente l’opposto, ossia il fatto che: considerato nella sua originarietà, l’assoluto deve potersi costituire come tale indipendentemente dalla realtà (scil. il sapersi dell’esistenza) che il suo sapersi in-sé-e-per-sé, rendendolo possibile, pure fonda. 20. L’alienazione dell’essere e la parousia dell’assoluto In L’essence de la manifestation, proseguendo sulla linea indicata dall’ermeneutica fichtiana della coscienza religiosa, Henry procede innanzitutto riconducendo il senso ontologico dell’esteriorizzazione dell’essere nella prospettiva aperta dalla nozione monista di “distanza fenomenologica”. Così, ad esempio, il farsi per-sé dell’essere-in-sé, che determina l’esistenza nel senso della costituzione essenziale dell’assoluto così com’essa è saputa dalla coscienza religiosa, è inteso nel senso dell’esser-posto-innanzi [Vor-gestellt-sein], conformemente al significato sia ontologico sia fenomenologico della rappresentazione [Vorstel- 154 Roberto Formisano lung] già messo in chiaro a proposito delle filosofie dell’Idealismo tedesco 33: In conformità a quest’ultima – scrive Henry a tal proposito – il passaggio dell’essere-in-sé nell’essere-per-sé sembra consistere nella posizione fuori di sé dell’essere; esso è il passaggio dell’essere all’esterno di sé. Ciò che in siffatto passaggio giunge a realizzazione è l’essere-all’esterno-di-sé dell’essere-in-sé; e questo essere-all’esterno-di-sé è il per-sé dell’essere-in-sé, ossia la sua esistenza 34. Non diversamente, anche l’“esternità” dell’esistenza nei confronti dell’essere viene ad esser compresa a partire da questo tipo di posizione. In definitiva, la caratterizzazione dell’esistenza [Daseyn] emergente dalla prospettiva ontologica della Religionslehre in quanto “essere al di fuori del suo essere”, si trova così ad esser essenzialmente enucleata nelle nozioni di distaziazione, op-posizione, posizione-innanzi 35. A questa medesima caratterizzazione è altresì ricondotta la tesi fondamentale della Religionslehre secondo cui l’esistenza sa se stessa in quanto costitutivamente “immagine” dell’essere. L’uso del termine immagine 36 [Bild] – è anch’esso inteso da Henry nel senso essenziale del porre-innanzi [Vor-stellen]. Scrive infatti Henry: L’esistenza, di per sé, non è nulla se non l’atto di ritrarsi dell’essere e, annientandosi dinnanzi ad esso, l’atto di porsi l’essere contro, in quanto ulteriore esi33 Cfr. supra, Sez. II, Cap. I, § 15. pp. 86-87 (trad. it. cit., p. 102). 35 Cfr. EM, p. 82 (trad. it. cit., p. 98). 36 Chiaro richiamo, peraltro, al tema biblico della creazione, a Fichte presente soprattutto, da un lato, nella rilettura del Prologo giovannèo da parte della tradizione neo-platonico agostiniana e, dall’altro, per la mediazione della filosofia di Jakob Böhme. Sull’influsso del Neoplatonismo agostiniano in Fichte, sia fatto valere il giudizio di Giovanni Moretto, secondo cui: «Il riferimento al vescovo di Ippona nell’esegesi fichtiana non dovrebbe mai stupire chi tenga presente che il De beata vita e il De Trinitate di Agostino hanno profondamente suggestionato la formulazione della filosofia della religione (come iniziazione alla “vita beata”) e l’ontologia (la Wissenschaftslehre) dell’ultimo Fichte (come dottrina dell’essere e della sua manifestazione: dottrina del Bild). In verità, Fichte non cita mai Agostino, ma non si può dimenticare che egli è stato formato nel curriculum studiorum della teologia luterana, nel quale continuava ad essere presente il magistero del vescovo africano, nonostante l’animosità e l’avversione che nei suoi confronti avevano dimostrato l’Aufklärung e la neologia» (G. MORETTO, Introduzione, a J.G. FICHTE, La dottrina della religione, cit., p. 17). 34 EM, Al di là del circolo 155 stenza assoluta. […] L’esistenza è così pensata come semplice immagine dell’essere ovvero, se si preferisce, come suo concetto […]. L’immagine è il nome dell’esistenza considerata come manifestazione dell’essere, e che Fichte chiama anche con l’appellativo di “sapere” 37. Come in precedenza si è detto 38 , l’esteriorizzazione (cioè il costituirsi della semplice esistenza [bloßes Daseyn] dell’essere in quanto immagine [Bild] o rappresentazione [Vorstellung] di sé) definisce il modo il cui l’essere realizza il proprio apparire, vale a dire il modo in cui esso sa se stesso in quanto tale. Ora, tale principio è stato altresì presentato come valevole, allo stesso modo, tanto per l’essere [Seyn] quanto per l’esistenza [Daseyn]. In quanto autocoscienza della struttura fenomenologica dell’essere medesimo (scil. rap-presentazione, Vor-stellung), nella misura in cui si rivela esser in grado di comprendersi in quanto tale alla luce della sua stessa esteriorità e conformemente all’esteriorità costitutiva dell’assoluto, e così realizzando il proprio sapersi alla maniera della semplice immagine [bloßes Bild], in tal modo l’esistenza [Daseyn] realizza propriamente la comprensione dell’esteriorizzazione in quanto tale 39 . Vero è che la comprensione dell’esistenza non aggiunge nulla al sapersi originario dell’essere, il cui scoprimento esso realizza pienamente (ed antecedentemente a qualsivoglia apporto proveniente dalla ri-flessione della sua struttura rappresentativa o per-sé) in se stesso. E tuttavia, ciò che essa sa è esattamente la struttura del sapersi in quanto tale – una struttura che, saputa nel suo significato fondamentale secondo modi indicati dalla coscienza religiosa e conformemente alla esteriorizzazione dell’essere, ha la sua realizzazione nella costituzione della pura esteriorità dell’essere, vale a dire nel suo farsi “altro” rispetto a sé 40. In questo senso, scrive Henry, «in questo essere-al-di-fuori-di-sé, l’essere in sé divene altro, si aliena; e in quest’alienazione si realizzano le condizioni stesse della sua manifestazione». «L’alienazione – chiosa ancora Henry – è l’essenza della manifestazione»41. Ed aggiunge poi: 37 pp. 82-83 (trad. it. cit., p. 98). Cfr. supra, Sez. II, Cap. II, § 21. 39 Cfr. EM, p. 175 (trad. it. cit., p. 177). 40 EM, pp. 87-88 (trad. it. cit., p. 103). 41 EM, p. 87 (trad. it. cit., p. 102). 38 EM, 156 Roberto Formisano L’essere che si manifesta è l’essere presente. L’essenza della presenza è l’alienazione. La presenza a sé dell’essere fa tutt’uno con la sua separazione da sé nel suo divenire altro. Essa si costituisce nello sdoppiamento dell’essere; sdoppiamento nel quale l’essere appare a se stesso ed entra così nella condizione fenomenica della presenza 42. Esser presente, cioè mostrarsi – mostrarsi a se stesso nel modo del sapere –, vuol dire sapersi; ma in quanto esteriorità, nel farsi presente a sé (e, allo stesso modo, nel farsi presente altresì alla realtà in esso fondata che è l’esistenza), la Selbstheit (i.e. il se-stesso, ovvero l’ipseità non-objettiva dell’assoluto) è saputa dall’assoluto medesimo in quanto altro da sé e cioè, propriamente, in quanto essere op-posto, posto innanzi a se medesimo: rappresentazione, Vor-stellung. «La realtà – afferma perentoriamente Henry – non è reale se non in quanto è al contempo se stessa e altro da sé»43. In breve, considerata alla luce della tesi fondamentale del monismo, il sapersi dell’assoluto – così com’è compreso nel senso indicato dalla Religionslehre di Fichte – si realizza nella forma d’una alienazione. La nozione di alienazione definisce precisamente la condizione di sdoppiamento a cui, sul piano del sapersi, l’essere (in quanto trascendenza ed esteriorità) è essenzialmente sottoposto a fronte della sua strutturale unità per quel che concerne l’unicità del modo di costituzione del fenomeno in generale. Giacché lo sdoppiamento non riguarda semplicemente il “punto di vista” che l’esistenza, nella forma della coscienza religiosa, ha sull’assoluto, né può esser ridotto a mera espressione di questa particolare modalità d’essere della coscienza. Lo sdoppiamento non costituisce la tesi di “un certo modo”, ben specifico e peculiare, di concepire la fondazione ma – come in parte già anticipato dalla lettura del testo fichtiano – esso definisce una condizione essenzialmente ontologica, vale a dire concernente l’essere come tale per quel che riguarda esattamente la sua stessa costituzione interna. L’alienazione non dipende dall’autocoscienza dell’esistenza ma fa riferimento ad un carattere essenziale della struttura fenomenologica dell’essere in quanto rappresentazione. Sul piano del sapersi assoluto, essa definisce una situazione inoltrepassabile, e cioè insopprimibile, ir42 43 Ibid. Corsivi di Michel Henry. EM, pp. 87-88 (trad. it. cit., p. 103). Al di là del circolo 157 risolvibile. L’alienazione è come tale la realizzazione dell’essere, sì che “al di là” di essa nulla può esser effettivamente aggiunto o tolto. Nell’orizzonte ermeneutico delineato dalla coscienza religiosa fichtiana, nessuna sintesi o dialettica può intervenire a “sciogliere” o risolvere la spaccatura interna all’esteriorizzazione dell’essere e alla sua rappresentazione di sé. In quanto costitutivamente fondato nel Sich-vorstellen dell’essere, a nessun tipo di sapere è dato poter oltrepassare, cancellandola, ciò che di fatto costituisce la condizione ultima di possibilità dell’esistenza stessa e del pensiero. «L’alienazione – scrive Henry – è insormontabile»44, intendendo con ciò la tesi della insopprimibilità della dualità dell’essere e dell’esistenza sul fondo della loro co-appartenenza strutturale. Ed ancora, poco più avanti: L’eliminazione dell’alienazione costituisce un’impossibilità d’ordine eidetico. Dal punto di vista ontologico, l’idea stessa di una simile risoluzione rappresenta un’assurdità. […] L’alienazione apre e insieme definisce il campo dell’essere. Essa configura una struttura ontologica ultima. La risoluzione dell’alienazione [nell’unità] non potrebbe mai acquisire un significato ontologico. L’alienazione è piuttosto posta e mantenuta in siffatta risoluzione, in quanto fenomeno ontologico originario che fonda quest’ultima e la rende possibile. L’essere non esiste altrimenti, se non in quanto essere-altro; ma il ritorno dell’altro nel medesimo, ossia l’unità che li tiene insieme e che Fichte chiama “vita”, non cancella affatto la loro duplicità, bensì la presuppone quale suo fondamento ontologico e fenomenico 45. Ciò che, facendosi semplice immagine [bloßes Bildes], l’esistenza realizza alla maniera del suo costitutivo sapersi nella forma della coscienza religiosa è esattamente l’alienazione come sapersi-altro da parte dell’essere che sa se-stesso in quanto assoluto. Il che, però, altro non vuol dire se non il fatto che – sempre secondo la prospettiva gettata dalla Darstellung della Religionslehre – l’esistenza può sapersi, conformemente al modo di costituzione del fenomeno dell’essere, come “essere al di fuori dell’essere” solo fintantoché e nella misura in cui è propriamente il sapersi dell’essere a costituire siffatta esteriorità 46. Nel sapersi dell’essere in quanto esteriorità pura, l’esistenza può trovare fondamen44 p. 87 (trad. it. cit., p. 103). Corsivi di Michel Henry. p. 88 (trad. it. cit., p. 103). 46 Cfr. Anweisung, p. 442 (trad. it. cit., p. 279). 45 EM, EM, 158 Roberto Formisano to solo laddove tale esteriorità costituisca effettivamente la realizzazione del sapersi originario; ma, appunto, siffatta esteriorità l’essere lo è per essenza, necessariamente in quanto semplice esistenza [bloßes Daseyn], vale a dire in quanto rappresentazione di sé. In termini fenomenologici, è possibile riassumere questo punto dicendo: il sapersi come semplice immagine [bloßes Bild] da parte dell’esistenza, nella forma della coscienza religiosa, non costituisce altro che una ripetizione [Wiederholung] della semplice esistenza, e cioè del sapersi-altro (posizioneinnanzi, Vor-stellung), alla luce del quale soltanto all’essere è dato poter realizzare autonomamente ed in se stesso il proprio mostrarsi 47. Realizzando in se stesso – ovvero, nell’apertura della pura esteriorità, realizzantesi nel modo dell’alienazione – l’essere, in quanto fenomeno originario, dà fondamento alla possibilità per l’esistenza di costituirsi in quanto auto-coscienza (il che, traslato sul piano metodologico per la riflessione fondamentale, vuol dire anche: dà fondamento alla ripetizione), sì che il sapersi di quest’ultima – appartenente alla realtà dell’essere, ma esclusa dal suo processo di costituzione – trova proprio nell’alienazione la sua legittimazione ultima. L’esistenza sa come “duale”, “diviso”, ciò che nel sapersi assoluto è saputo (cioè si realizza nel modo del sapere) in quanto unico, unito essenzialmente in ragione della sua costituzione d’essere, in quanto appunto coscienza dell’essere, rappresentazione, immagine. Ma il motivo per cui, nell’autocoscienza della struttura rappresentativa di siffatto sapersi, è costitutivamente impossibile che l’esser-saputo dell’originario (che è la sua “realtà”, ciò in cui il mostrarsi giunge a compimento) possa risolversi in un toglimento della divisione deriva per l’appunto dal fatto che la realtà dell’unità è essa stessa costituita in quanto alienazione. Se, dunque, per un verso, è vero che la distinzione fra Daseyn e bloßes Daseyn è il “fatto” – non dell’assoluto come tale, ma della sola esistenza (e, in particolare, di quel modo di realizzazione dell’autocoscienza dell’esistenza realizzantesi nella forma della coscienza religiosa) – altrettanto vero è che il fondamento per questa distinzione rinvia, conformemente al senso essenziale dell’esteriorizzazione, diret47 Scrive a tal riguardo Henry in EM, p. 187 (trad. it. cit., p. 187): «L’esistenza è il per-sé […] in quanto la sua struttura ontologica è il mostrarsi dell’essenza della manifestazione pura, la presenza a sé dell’assoluto nella sua assolutezza, la Parousia». Al di là del circolo 159 tamente all’alienazione intesa come “realtà” del fenomeno dell’essere. Ne viene allora che: il motivo per cui non è possibile che si dia una risoluzione dell’alienazione dell’essere nel modo del sapere si deve al fatto che, proprio per quel che concerne la sua realtà (sapersi), proprio l’alienazione fornisce la determinazione del modo in cui l’essere porta autonomamente – vale a dire in se stesso ed indipendentemente da ogni apporto esteriore, come il sapersi dell’esistenza – a compimento il suo stesso sapersi in quanto tale. Se, come scrive Fichte, dunque l’essere si dà originariamente in maniera tale per cui sa se stesso in sé, esso – aggiunge, in breve, Henry – sa se stesso appunto in quanto in se stesso alienato. L’alienazione definisce l’inseità dell’assoluto inteso come trascendenza e rapporto, in quanto compimento in se stesso del mostrarsi originario. Come già sin d’ora è possibile intravedere, effettivamente, con la determinazione dell’alienazione quale modo essenziale del compimento in sé del fenomeno originario, la lettura di Fichte conduce alla definizione di un paradigma filosofico che, nonostante resti comunque radicato nell’ottica del monismo, cioè sempre legato all’idea dell’originarietà della trascendenza, appare tuttavia come decisamente irriducibile alla prospettiva già delineata dal paradigma onto-fenomenologico heideggeriano, dove alla tesi della co-appartenenza [Zusammengehörigkeit] fra mostrarsi e sapere si accompagna sempre la tesi della loro necessaria co-originarietà [Gleichursprünglichkeit]. Ché, in effetti, ciò che la tesi dell’alienazione non consente di sostenere – ed anzi esplicitamente rifiuta – è esattamente l’idea di una qualche co-originarietà fra il sapersi assoluto ed il sapersi dell’esistenza. Tale rifiuto lo si trova espresso nella fondazione “saputa” nella forma della coscienza religiosa, laddove essa consiste nell’esclusione dell’esistenza dal processo costitutivo e interno al mostrarsi dell’assoluto. Esclusa dal processo, l’esistenza sa se stessa come fondata in quanto appartenente alla realtà del fenomeno originario, e cioè, appunto, in quanto alienazione. Esprimendoci in via analogica si può dire che: nel sapersi in quanto semplice immagine [bloßes Bild] dell’assoluto, l’esistenza trova nella realtà di quest’ultimo – che è alienazione – dispiegato il medesimo senso della fondazione riconosciu- 160 Roberto Formisano to per il soggetto e l’oggetto internamente alla rappresentazione 48; sì che, come il rapporto, nella sua costituzione interna, si è determinato essere del tutto indipendente rispetto al modo in cui esso è saputo dal soggetto (ovvero indipendente rispetto al modo in cui il soggetto si comprende nella sua essenza), così, esattamente allo stesso modo, anche la rappresentazione dell’essere, che è la sua semplice esistenza, si determina esser del tutto indipendente, per quel che concerne la sua realizzazione, rispetto al sapersi costitutivo dell’esistenza. Ciò che dunque lo scoprimento del significato fondamentale dell’alienazione porta in primo piano è innanzitutto il rilievo dell’indipendenza del sapersi assoluto rispetto al sapersi dell’esistenza – un’indipendenza che non è solo “creduta” dalla coscienza religiosa, ma “saputa” in senso proprio, come ciò che nella realtà stessa dell’essere, vale a dire nella sua alienazione, trova il suo proprio fondamento e la conferma ultima di validità. L’irriducibilità della prospettiva ontologica aperta dalla lettura dell’Anweisung rispetto alle tesi incontrate a proposito del paradigma ontofenomenologico (Heidegger) è espressa con particolare chiarezza in L’essence de la manifestation attraverso l’uso di una nozione-chiave – a cui Henry ampiamente ricorre – che è quella di parousia. Desunta dalla dottrina teologica cristiana, la nozione di parousia è fenomenologicamente assunta come enucleazione del senso della presenza. Ad essa, in un passo precedentemente citato, Henry implicitamente alludeva allorché, parlando dell’alienazione, la definiva come “l’essenza della presenza”. Epurata da ogni valenza ontica, il senso della presenza rinvia alla struttura del rapportarsi-a-sé del fenomeno. Essa rinvia, cioè, al modo in cui mostrandosi in quanto tale, il fenomeno è innanzitutto mostrato a – cioè saputo da – se medesimo. «L’apparire a sé dell’apparire medesimo – scrive in tal senso Henry – è la presenza a sé dell’assoluto, la Parousia»49. Nel concetto fenomenologico di siffatta nozione, implicito ma costitutivo è pertanto il riferimento alla Selbstheit del fenomeno. Orbe48 Chiaramente, la differenza sta nel fatto che, mentre nel caso della relazione soggetto-oggettiva, la posizione-innanzi che determina l’istituzione del rapporto reca in sé il riferimento a due realtà determinate ed objettive, la ripetizione della posizioneinnanzi costituva dell’essere, che l’esistenza [Daseyn] appunto realizza nel modo di un’autocoscienza, reca in sé e conserva per sé un significato propriamente non-objettivo – una non-objettità il cui senso, stando a quanto emerso sinora, dato in definitiva dall’alienazione in quanto tale. 49 EM, p. 172 (trad. it. cit., p. 174). Al di là del circolo 161 ne, riferita alla valenza non-objettiva della nozione fenomenologica di Selbstheit, la parousia sta ad indicare essenzialmente la presenza nel senso del sapersi (compimento in sé) del fenomeno originario. Sì che, unita al concetto di alienazione, la parousia definisce il compimento del mostrarsi originario – cioè la sua autonomia [Selbständigkeit] – in quanto indipendenza dell’assoluto rispetto alla fatticità dell’esistenza. Come già emerso a proposito dell’interpretazione fichtiana dell’esteriorizzazione dell’essere e ripetuto dall’enucleazione concettuale dell’alienazione, che l’assoluto si dia in quanto autonomo [Selbständig] nel suo compimento non significa che esso realizzi il proprio mostrarsi separatamente rispetto all’esistenza. Giacché, anzi, esattamente al contrario, agli occhi della coscienza religiosa, proprio l’autonomia – indipendenza – dell’essere rispetto al sapersi dell’esistenza è compresa e riconosciuta come il modo della fondazione in Deo 50. Intesa come alienazione, l’autonomia – l’esser in se stesso già sempre compiuto nel suo mostrarsi e nel suo sapersi – si determina come ciò che, proprio in ragione dell’esclusione dell’esistenza dal suo intrinseco processo di costituzione, dà fondamento all’esteriorizzazione di quest’ultima 51 , essenzialmente intesa come ripetizione dell’alienazione dell’essere: esteriorizzazione a carattere non originario, bensì derivato, ma comunque conforme al modo [Wie] della esteriorizzazione originaria. Il che, in altri termini, vuol dire: esclusa dal processo di strutturazione interno, l’esistenza partecipa tuttavia del prodotto scaturente da questo, vale a dire della realtà dell’essere, la quale nella purezza (non-objettità) della sua determinazione interna, funge da modo di costituzione per la realtà (sapersi) dell’esistenza, modo [Wie] per la sua autocoscienza. Alla base di questa tematizzazione, in L’essence de la manifestation, si pone la polemica contro l’interpretazione hegelo-heideggeriana della parousia 52, che intende la Vollendung del mostrarsi originario confor50 Cfr. EM, p. 206 (trad. it. cit., p. 202). Cfr. EM, p. 173 (trad. it. cit., p. 175). 52 Interpretazione che si trova esposta nella Phänomenologie des Geistes, così come in HBE (trad. it. M. HEIDEGGER, Il concetto hegeliano di esperienza, in ID., Sentieri interrotti, a cura di P. Chiodi, Firenze, La Nuova Italia, 1997, pp. 103-190). Per un’analisi comparata di questi due testi, esattamente sui temi indicati di Michel Henry, di particolare interesse è uno studio (mai pubblicato prima del 1971) di Jean Hyppolite, redatto tra il 1959 ed il 1960, dal titolo Étude du commentaire de l’intro51 162 Roberto Formisano memente alla tesi della omogeneità tra sapersi assoluto e sapersi dell’esistenza. Tale omogeneità trova rischiarata nella circolarità della dialettica, ovvero – per usare un’espressione di Heidegger – nella dia-logicità in cui sia la comprensione ontologica che comprensione esistenziale 53, ovvero sia la struttura sia la realtà del fenomeno originario, si troverebbero ccostitutivamente coinvolte. Nel suo commento all’introduzione hegeliana alla Phänomenologie des Geistes, Heidegger riprende la definizione hegeliana della parousia, descrivendola come il modo in cui, rendendosi presente a se stesso e così realizzando il proprio mostrarsi in quanto tale, l’assoluto è altresì mostrato a noi, vale a dire per mezzo della costituzione dell’esistenza finita: «La parousia – scrive Heidegger – è la presenzialità nella quale l’assoluto è al contempo presso noi e, come tale, presso se stesso»54. Tuttavia, sul fondo del nesso di co-appartenenza di mostrarsi e sapere nel senso della trascendenza, l’assoluto può mostrarsi all’esistenza solo nella misura in cui esso sa se stesso, vale a dire: solo nella misura in cui è in grado di realizzare il suo esser-presente a se stesso nella maniera del sapersi. Il significato propriamente fenomenologico di questo vincolo si esprime nel fatto che il mostrarsi da parte dell’assoluto nei confronti dell’esistenza non ha il senso del mostrarsi objettivo di un quid determinato posto in rapporto ad un altro quid. Il mostrarsi dell’essere all’esistenza non sta ad indicare altro che il processo di costituzione di quest’ultima come rivelazione della sua costituzione d’essere a se medesima in quanto tale. Presente a se stesso nel modo del sapersi, l’essere si dà all’esistenza come ciò che, nella sua realtà, ne costituisce propriamente la struttura. La realtà dell’essere si dà come ciò che determina nella sua essenza il modo di costituzione e di presentazione a sé dell’esistenza. Il che vuol dire: costituendosi in se stesso in quanto trascendenza, l’essere determina la possibilità per l’esistenza di costituirsi come tale fornendo a questa nella sua stessa realtà, vale a dire nella trascendenza stessa, il modo di costituzione per il rapportarsi-a-sé della sua costituzione d’essere. duction à la “Phénoménologie” par Heidegger, ora in J. HYPPOLITE, Figures de la pensée philosophique, vol. I, Paris, PUF, 1971, pp. 625-642. 53 Cfr. HBE, pp. 178-180 (trad. it. cit., pp. 166-168). 54 HBE, p. 192 (trad. it. cit., p. 179). Al di là del circolo 163 Orbene, è propriamente alla luce di questa pur vasta e complessa costellazione di indicazioni che in L’essence de la manifestation Henry passa finalmente a porre la domanda decisiva, invitando quindi a chiedersi: ammesso che il senso della fondazione riposi nella co-appartenenza strutturale di essere ed esistenza a quell’unico modo di costituzione che è la trascendenza, in che rapporto la realtà fattiva dell’esistenza si trova ad essere rispetto al carattere originario del mostrarsi dell’essere, vale a dire del suo compimento in sé in quanto sapersi assoluto? È essa interna o esterna? Integrata o esclusa dall’originario processo di costituzione di quest’ultimo? – La tesi hegelo-heideggeriana della dialogicità fra sapersi assoluto e sapersi dell’esistenza (scil., nel linguaggio heideggeriano, della co-originarietà [Gleichursprünglichkeit] fra comprensione d’essere e auto-comprensione d’esistenza), guidata dal presupposto del circolo ermeneutico, propende per la prima opzione, e cioè per la loro integrazione, sebbene intesa in senso puramente e rigorosamente non-objettivo. Non sarà necessario, in questa sede, addentrarsi nelle innumerevoli implicazioni che questa posizione inevitabilmente comporta, intrecciantesi sul piano e ontologico e esistenziale, così come anche sul piano e ontico e esistentivo. L’essenziale sarà piuttosto metterne in evidenza l’elemento decisivo, ovverosia il carattere di irriducibilità e di radicale opposizione che ciascuna delle due opzioni pone nei confronti dell’altra, sul fondo del comune riconoscimento del carattere fondamentale (riferito alla costituzione d’essere dell’esistenza) della realtà dell’essere intesa come trascendenza. Ad essere in gioco, infatti, è propriamente l’originarietà di siffatta realtà, il suo significato fenomenologico di origine dell’essere. Si tratta di capire se siffatta origine includa o meno nel suo processo di costituzione intrinseco il sapersi dell’esistenza, vale a dire di decidere, infine, se il suo carattere di fondamento per quest’ultima possa esser riconosciuto e determinato – saputo – come valido contrassegno per l’originarietà della trascendenza oppure no. Ma appunto qui si colloca la contrapposizione radicale che, sempre all’interno del monismo ontologico, la prospettiva introdotta dalla Religionslehre di Fichte presenta rispetto al paradigma onto-fenomenologico, giacché, internamente a ciascuna delle due, o la forma della coscienza religiosa esclude, rigettandola, la tesi della co-originarietà, o la “filosofia dell’essere” nega 164 Roberto Formisano esplicitamente, catalogandola come ontica, la determinazione della divisione della coscienza dell’essere in quanto originaria 55. Se infatti, sia per Hegel che per Heidegger, sebbene con valenze e significati chiaramente differenti, la parousia dell’assoluto è identificata con la struttura del rapporto dialogico fra comprensione ontologica e comprensione esistentiva, alla luce della concezione filosofico-religiosa (fichtiana) dell’alienazione ciò che nell’enucleazione concettuale dell’autonomia [Selbständigkeit] del sapersi originario è affermato è esattamente l’indipendenza del sapersi assoluto rispetto al sapersi dell’esistenza, nel senso peculiare per cui, pur fondando la comprensione esistentiva, la comprensione ontologica si dà nella fondazione come ciò che “tiene fuori”, escludendola dal suo costitutivo ed intrinseco processo di formazione, l’esistenza considerata nella sua fatticità. Quest’ultima posizione è chiaramente indicata da Michel Henry, lì dove è scritto: 55 In questo senso, ad esempio, allorché Henry, criticando l’impostazione teoreticometodologica di Hegel, scrive esplicitamente in EM, p. 190 (trad. it. cit., pp. 189190): «Il divenire per-sé dell’essere-in-sé della coscienza non ha, a rigore, alcun significato ontologico. L’essenza è tutta interamente contenuta nell’essere-in-sé della coscienza, in cui essa è già da sempre compiuta. Il divenire per-sé dell’essere-insé della coscienza riguarda soltanto il modo il cui questa coscienza comprende se stessa. Come tale, esso ha un significato soltanto esistentivo» – posto che per divenire-per-sé dell’essere-in-sé è inteso il momento della ri-flessione della struttura rappresentativa dell’essere (cioè il momento dell’autocoscienza dell’esistenza in quanto coscienza e rappresentazione dell’essere), ciò che Henry precisamente afferma è che: conformemente alle premesse stabilite dalla forma della coscienza religiosa, vale a dire conformemente all’autonomia della costitutiva trascendenza del sapersi originario, il momento dell’autocoscienza, il farsi semplice immagine da parte dell’esistenza ovvero – per riprendere il linguaggio di Hegel – il farsi “sapere vero” da parte del “sapere reale” (il sapere effettivo dell’esistenza fattualmente autocomprendentesi), costituiscono tutte determinazioni secondarie, derivate, che nulla aggiungono ed in nulla modificano il mostrarsi dell’assoluto il quale nella sua assolutezza, si dà come in se stesso già sempre compiuto nel suo sapersi in quanto tale. Ciò che è alla base della “critica del concetto hegeliano dell’esperienza” (cfr. EM, § 20, pp. 193-200, trad. it. cit., pp. 192-197) e della sua rivisitazione heideggeriana è appunto la posizione di questa decisiva premessa ricavata dall’analisi della Religionslehre di Fichte, assunta come Darstellung dell’apparire dell’essere nella forma della coscienza religiosa, vale a dire la posizione della tesi circa l’indipendenza del sapersi originario rispetto al sapersi dell’esistenza, come sapersi il cui compimento si sottrae al potere del momento riflessivo dell’autocoscienza, ed anzi proprio sottraendosi da esso nel modo della sua esclusione dal proprio procedimento di costituzione interna, dona a questi il fondamento ricercato. Al di là del circolo 165 La comprensione ontologica dell’essere è radicalmente indipendente rispetto a qualsiasi comprensione esistentiva. Che la comprensione esistentiva di sé, da parte dell’esistenza, sia vera o falsa, che si compia in un modo d’essere dell’esistenza che sia “autentico” o “inautentico”, tutto questo non modifica in nulla la natura originaria dell’esistenza, né alla comprensione ontologica dell’essere considerato nella sua struttura universale. L’indipendenza radicale della comprensione ontologica rispetto a ogni possibile comprensione esistenziale ci spinge a stabilire un’opposizione assoluta tra ciò che l’esistenza è in sé ed il modo in cui tale esistenza si rappresenta o comprende se stessa 56. Solo alla luce di questa distinzione possono infine esser compresi l’importanza ed il carattere decisivo della lettura dell’Anweisung nel contesto delle argomentazioni filosofico-critiche di L’essence de la manifestation, il cui scopo – primariamente diretto verso la distruzione del monismo ontologico – è essenzialmente quello di gettare le fondamenta teoretico-metodologiche per un rinnovamento della fenomenologia, nell’ottica di una “fenomenologia prima”. Sì che è ormai forse giunto il momento di dichiararne in maniera esplicita e sintetica l’intera portata. Di per sé, infatti, tale distinzione (enucleazione di un certo modo di intendere il senso originario della co-appartenenza di essere e comprensione d’essere alla luce della trascendenza della manifestatività) oltre a dichiarare l’esistenza di un’“anima” irriducibile ed alternativa a quella già rintracciata del paradigma onto-fenomenologico all’interno dell’orizzonte di pensiero del monismo, non sembrerebbe apportare alcunché di veramente nuovo e determinante. Seguendo il linguaggio già predisposto dalla lettura dell’Anweisung, si può dire che, compreso alla luce dell’interpretazione filosofico-religiosa della trascendenza nel senso dell’alienazione, il concetto di parousia coincide con la semplice esistenza [bloßes Daseyn] dell’essere, vale a dire con il carattere di rappresentazione [Vor-stellung] della sua struttura fenomenologica. Nella parousia l’essere si dà alla maniera della semplice esistenza, sì che semplicemente esso è, nel senso che sa se stesso: si dà in quanto coscienza, Bewusstseyn (che è la nozione con cui Fichte indica il carattere non-objettivo di comprensione d’essere [Seinsverständnis] della verità ontologica). Distinta da questa, è poi – in un senso d’essere derivato – l’esistenza della sua stessa struttura feno56 EM, p. 184 (trad. it. cit., p. 184). Corsivi di Michel Henry. 166 Roberto Formisano menologica, vale a dire il sapersi della rappresentazione in quanto autocoscienza [Selbstbewusstseyn], esistenza fattiva. Orbene, sul fondo di questa distinzione, la parousia (scil. il compimento in sé del sapersi assoluto) si determina – secondo la forma della coscienza religiosa – come evento indipendente dalle “peripezie” a cui è costitutivamente sottoposta l’esistenza (autocoscienza) nella sua fatticità. Su questo punto è incardinato un rilievo metodologico di grande importanza. Nella misura in cui, infatti, della ripetizione [Wiederholung] realizzantesi alla maniera dell’autocoscienza si dice che essa non contribuisce in nulla al compimento (scil. sapersi) del mostrarsi originario, ma che esprime soltanto una realizzazione fattiva di tipo privilegiato dell’esistenza, poiché la ri-flessione dispiegantesi nella forma di una “fenomenologia” non costituisce altro che essa stessa un particolare modo d’essere di questa esistenza, ne viene che, ad esser toccato direttamente, è il senso della chiarificazione fenomenologica, vale a dire lo scopo ultimo e la condizione d’essere di questa modalità del sapere. Se – come sinora, desumendolo dall’analisi del paradigma onto-fenomenologico, era stato assunto – “chiarificare” vuol dire innanzitutto “portare allo scoperto”, “disvelare [unverborgen], ciò che innanzitutto e per lo più, in ragione della sua stessa ed intrinseca struttura fenomenologica, resta al coperto”, è necessario ora ben specificare per chi un siffatto scoprimento si renda effettivamente necessario. Infatti, dal momento che la parousia stabilisce l’indipendenza del sapersi originario (ossia il fatto che, per sapersi in quanto tale, l’assoluto prescinde dalla fatticità dell’esistenza) non è di certo l’assoluto a richiedere alcun tipo di chiarimento ulteriore circa la sua stessa essenza. Come sapersi assoluto, il fenomeno dell’essere non richiede in sé alcuna opera di chiarificazione o chiarimento ulteriori. Esso si dà – ed in ciò risiede la sua qualità fenomenologica originaria – in quanto, sia pure nel modo della trascendenza e della rappresentazione, già sempre chiaro a se stesso in sé. Per converso, questo vuol però dire altresì che, evidentemente, la chiarificazione perseguita secondo i modi della fenomenologia risponde ad un’esigenza che è propria solo ed esclusivamente dell’esistenza fattiva, per la quale soltanto, sottraendosi ai vincoli e alle “distorsioni” che la comprensione naturale ed objettiva dell’essere introduce nel suo fattivo sapersi, lo scoprimento dell’intrinseca chiarezza dell’assoluto fornisce in ultima istanza il fondamento per questo sforzo di autenticità. Al di là del circolo 167 Questa determinazione della chiarificazione fenomenologica – lungi dall’esaurire qui la sua portata – dice qualcosa di veramente essenziale. Mostrando come, nel compimento in sé del sapersi assoluto, l’essere giunga a realizzarsi in quanto esser-presente [parousia] assolutamente chiaro a se medesimo, essa stabilisce altresì che, a titolo di fenomeno, l’essere non è suscettibile di occultamento. Fenomeni come l’oblio, la Vergessenheit della coscienza naturale circa il senso non-objettivo dell’essere in quanto fenomeno, costituiscono dinamiche inerenti al solo sapersi dell’esistenza. Come tali, data l’indipendenza del sapersi assoluto, esse definiscono verità, accadimenti, realizzazioni che non alterano né modificano in nulla il mostrarsi/sapersi in principio dell’apparire originario. In questo senso, scrive Henry, le determinazioni esistentive in cui il fattuale accadere del sapersi dell’esistenza può di volta in volta giungere a realizzazione, sia essa nel modo dell’autenticità o dell’inautenticità, sono del tutto inessenziali in riferimento al modo di compimento del sapersi originario 57. Il che, trasposto sul piano metodologico, vuol dire anche che tutta la disamina circa l’autenticità [Eigentlichkeit] e l’inautenticità [Uneigentlichkeit], tutta la riflessione circa le condizioni sotto cui l’esserci deve poter comprendere la sua propria costituzione d’essere 58, perdono ogni carattere propedeutico in vista della posizione della domanda ontologica fondamentale. Questo perché l’indipendenza motiva un diverso concetto di fenomenologia, non più qualificabile semplicemente come Methodenbegriff dell’ontologia. La tesi heideggeriana secondo cui la fenomenologia nomini il methodos, il “modo” e la “via d’accesso” per il pensiero dell’essere poggia infatti sul presupposto che il modo in cui accade la comprensione d’essere ed il modo in cui l’essere stesso si dà (in quanto aletheia) sono strutturalmente lo stesso, identico e unico modo di darsi che è quello determinato dagli schemi estatici della temporalità, costitutivi della struttura del Dasein. Sennonché, nella prospettiva aperta dall’interpretazione fenomenologica della Religionslehre di Fichte, proprio tale presupposto è stato scardinato. Entro questa prospettiva, la parousia non ha più – né può mai ricevere – il significato di un evento legato ad una qualche Kehre o 57 58 Cfr. EM, p. 179 (trad. it. cit., p. 181). Cfr. supra, Sez. I, Cap. III, § 12. 168 Roberto Formisano Umkehrung dell’esistenza fattiva 59 . Essa individua piuttosto ciò che, realizzandone la struttura, dispiega le condizioni di possibilità di questo rovesciamento 60 – il cui senso è solo per l’esistenza, cioè solo esistentivo, e non anche ontologico. In verità, la distinzione fra ontologico ed esistentivo non nega, stricto sensu, l’omogeneità dell’essere e della comprensione d’essere 61. Essa piuttosto la sussume in una prospettiva diversa che, pur enucleando il nesso mostrarsi/sapere nel senso della loro strutturale co-appartenenza, non la risolve tuttavia nei termini di una loro effettiva co-originarietà. Dividendo il sapersi assoluto dal sapersi dell’esistenza, la co-appartenenza [Zusammengehörigkeit] compresa nel senso della parousia e dell’alienazione, afferma la non-storicità 62 , vale a dire la a-temporalità della struttura originaria 63 in quanto trascendenza. Scrive Henry a tal riguardo: Il sapere trascendentale non è da acquisire, è a priori. Ciò che è all’inizio non è il pudore di un Grund oscuro, ma è il Verbo. La realtà dell’assoluto è presupposta come condizione per ogni realtà possibile in generale, come condizione di una storia. Ma la realtà dell’assoluto è la sua assolutezza, la sua presenza originaria a sé nella Parousia. La presenza a sé dell’assoluto, la riunificazione della sua essenza nella sua unità con se medesima, questa è la natura forte dell’essenza originaria. La Parousia si costituisce all’origine poiché essa costituisce l’essenza di quest’ultima. Poiché costituisce l’essenza dell’origine, la Parousia non è il risultato di nessun progresso; semmai, ne è il presupposto. Nella Parousia risiede la realtà dell’assoluto. Poiché la realtà dell’asso- 59 Cfr. EM, pp. 174-175 (trad. it. cit., p. 177). Cfr. ibid. (trad. it. cit., pp. 176-177); ma anche EM, p. 204 (trad. it. cit., p. 201), lì dove è scritto: «L’essenza compiuta della manifestazione è la condizione di possibilità dell’esperienza, l’essenza dell’esperienza e della verità». 61 Cfr. EM, p. 200 (trad. it. cit., p. 198). 62 Cfr. EM, pp. 201-202 (trad. it. cit., p. 199), ma anche EM, pp. 169-170 (trad. it. cit., pp. 172-173). 63 Cfr. EM, p. 204 (trad. it. cit., p. 201): «Al problema di sapere “come un sapere in sé non-temporale, un sapere assoluto, possa […] avere condizioni temporali nell’esistenza e nel divenire dell’umanità”, bisogna rispondere che un sapere siffatto - se esso è l’assoluto - non ha alcuna condizione storica». Il testo riportato tra virgolette alte è una cripto-citazione che rinvia a J. Hyppolite, Genèse et Structure de la “Phénoménologie de l’Esprit” de Hegel, Paris, Aubier, 1940, p. 575 (trad. it. Genesi e struttura della “Fenomenologia dello Spirito” di Hegel, a cura di G.A. De Toni, Firenze, La Nuova Italia, 1972, p. 735). 60 Al di là del circolo 169 luto è nella Parousia, l’assoluto dispone di questa realtà sin dall’origine. Il destino dell’assoluto non si svolge nella storia 64. Ciò che, nella prospettiva teoretica aperta dal commento alla Religionslehre di Fichte, la distinzione fra sapersi assoluto (comprensione ontologica) e sapersi dell’esistenza (comprensione esistentiva) afferma in merito al presupposto fondamentale del monismo, vale a dire circa la tesi dell’originarietà della trascendenza, è che, contrariamente a quanto sostenuto da Heidegger 65, il senso del puro ekstatikon strutturante la relazione di co-appartenenza fra essere e comprensione d’essere in seno alla manifestatività non si dà esso stesso estaticamente, vale a dire non ha nella temporalità estatica il proprio fondamento ultimo. Posta l’inessenzialità del sapersi dell’esistenza rispetto alla realizzazione del sapersi originario e chiarita l’irriducibilità di quest’anima “filosofico-religiosa” del monismo di contro a quella onto-fenomenologica, rappresentata dalla filosofia di Heidegger, ciò che infine emerge a partire dalla lettura dell’Anweisung di Fichte è la delineazione di uno specifico e tutt’affatto peculiare quadro teoretico-metodologico concernente il significato originario e fondamentale della trascendenza. Destituito il presupposto della co-originarietà [Gleichursprünglichkeit] fra verità ontologica e verità ontica, la tesi monista circa l’originarietà della trascendenza si trova ad esser di fatto liberata da tutti quegli impedimenti e quelle restrizioni in precedenza indicate come la “difficoltà metodologica” del monismo, esemplarmente espressa dall’impostazione teoretico-problematica del paradigma onto-fenomenologico 66. Liberata dalla “circolarità” propria dell’inquadramento onto-fenomenologico heideggeriano della trascendenza, l’enucleazione dei concetti di alienazione e soprattutto di parousia ha fornito alla problematica fondamentale istituita da L’essence de la manifestation il contesto teoretico-metodologico entro cui operare finalmente, in conformità al senso ricavato circa il concetto di autonomia della struttura originaria, la 64 Ibid. Corsivi di Michel Henry. E prima di lui, sebbene ancora nei modi del pensiero metafisico, da Hegel: cfr. M. HEIDEGGER, Überwindung der Metaphysik, ora in Heideggers Gesamtausgabe, vol. VII: Vorträge und Aufsätze, a cura di F.-W. von Herrmann, Frankfurt a.M., Klostermann, 2000, pp. 67-98 (trad. it. Oltrepassamento della metafisica, in ID., Saggi e discorsi, a cura di G. Vattimo, Milano, Mursia, 1976, pp. 45-65). 66 Cfr. supra, Sez. I, Cap. III, § 13. 65 170 Roberto Formisano decisiva verifica dei presupposti ontologici del monismo – verifica, la cui preparazione ed il cui svolgimento costituiscono l’oggetto del capitolo terzo. Capitolo III Critica della trascendenza e “distruzione” del monismo ontologico 21. Ricettività e finitezza. L’orizzonte teoretico del confronto di Michel Henry con Heidegger Rischiarato il significato fenomenologico delle tesi fondamentali del monismo ontologico, si tratta ora di capire se la nuova enucleazione della co-appartenenza [Zusammengehörigkeit] desunta dalla Religionslehre di Fichte consenta effettivamente di dar conto del carattere di “originarietà” sinora sempre e solo presupposto dalla riflessione fenomenologica in atto. Interpretato alla luce dei rilievi emersi per mezzo dei concetti di alienazione e parousia, scrive Henry, «il carattere originario dell’essenza della manifestazione […] significa la manifestazione in e per sé dell’orizzonte puro nel quale l’essenza si objettiva per realizzare la sua opera»1. L’originarietà dell’orizzonte è definita in ragione della sua capacità di dischiudersi e riceversi, ossia di sapersi in quanto tale, conformemente al senso non-objettivo della propria sua costituzione essenziale. Ebbene, è esattamente di questa capacità che la trascendenza è finalmente chiamata a dar prova, ora che il suo significato essenziale è stato portato allo scoperto. «L’essenza – scrive ancora Henry, a tal riguardo – realizza la sua opera da sé. In ciò consiste la sua Selbständigkeit. Il problema però […] riguarda la possibilità di tale Selbständigkeit. Si tratta di sapere come sia possibile la manifestazione dell’orizzonte puro dell’essere»2. 1 2 EM, p. 207 (trad. it. cit., p. 203). Corsivo nostro. Ibid. Corsivi di Michel Henry. 172 Roberto Formisano a) La questione della ricettività La problematica relativa alla definizione della tesi fondamentale del monismo è servita a mostrare come, in verità, non basti riferirsi ai soli concetti di distanza, op-posizione o posizione-innanzi per risolvere la questione relativa al Wie costitutivo della fenomenicità originaria. Infatti, co-essenziale a queste determinazioni è pur sempre anche il rilievo della ricettività, ovvero il processo di realizzazione del fenomeno in generale. Considerare il fenomeno circa la sua realtà effettiva significa però, altresì, impostare la domanda circa il modo del suo sapersi. Il banco di prova con cui il monismo ontologico è chiamato a misurarsi riguarda pertanto il modo in cui, per mostrarsi come tale, conformemente al senso della co-appartenenza, la trascendenza debba poter realizzare il proprio sapersi, ovvero: in che modo, al fine di potersi costituire a titolo di “struttura originaria”, la trascendenza debba poter ricevere se medesima nella totalità della sua schiusura. Scrive infatti Henry: L’orizzonte è ciò che, in quanto trascendenza, l’essenza oppone a se medesima. Per essere reale, tuttavia, all’essenza non basta opporsi l’orizzonte in cui essa compie la propria objettivazione. […] L’opposizione e la ricezione di ciò che, nell’opposizione, si trova opposto all’essenza, costituiscono insieme la possibilità dell’objettivazione. […] Nell’indissolubile unità dell’opposizione e della ricezione d’orizzonte si mostra il carattere fondamentale della ricezione, la quale assicura in effetti la possibilità stessa di questa unità. […] La ricettività dell’orizzonte è allo stesso modo il suo mostrarsi. Se, come è stato mostrato, il divenire fenomenico dell’essenza pura della fenomenicità consiste nel mostrarsi dell’orizzonte, la questione della possibilità interna per questo divenire che dona all’essenza la sua realtà si concentra nel problema della ricettività. Solo la risposta a questo problema può rendere comprensibile nella sua struttura interna la Selbständigkeit dell’essenza 3. Con la messa in risalto della questione della ricettività, Henry pone uno dei punti cardine dell’intera sua opera di “distruzione”, segnando l’apice della parabola argomentativa volta al definitivo oltrepassamento del monismo ontologico. La nozione fenomenologica di ricettività nomina il problema relativo al sapersi originario, vale a dire la questione relativa alla realizzazio3 EM, pp. 207-208 (trad. it. cit., p. 204). Corsivi di Michel Henry. Critica della trascendenza 173 ne della struttura fenomenologica dell’essere in quanto Seinsverständnis: comprensione d’essere – comprensione fedele alla non-objettità della sua stessa costituzione essenziale. Coerentemente all’enucleazione del concetto monista della co-appartenenza fra essere e comprensione d’essere, tale realizzazione è stata indicata come indipendente rispetto al fattivo sapersi che la comprensione d’essere costitutivamente realizza nel modo dell’esistenza finita. Il che, trasposto sul piano metodologico per quel che concerne la problematica relativa alla fondazione filosofica, vuol dire: la questione della ricettività deve poter essere inquadrata e tematizzata come indipendente e autonoma rispetto al modo in cui, nell’esistenza fattiva, siffatto compimento può esser saputo in quanto tale. Pensare la ricettività conformemente all’indipendenza costitutiva della struttura originaria rispetto all’esistenza fattiva significa pensarla alla luce della distinzione fra comprensione ontologica e comprensione ontica 4. In altri termini, ciò che è da pensare è la ricettività indipendentemente da quella particolare modalità che è la ricezione d’ente, “ricezione ontica”. Ma appunto qui è la difficoltà più grande. Commentando questo passaggio, Henry stesso non tralascia di sottolineare il fatto che «è stato possibile occultare il carattere ontologico della ricettività nella misura in cui questa è stata pensata innanzitutto alla luce del problema della ricezione dell’ente, e per questo motivo la si trova legata al concetto di finitezza, così com’esso si presenta almeno in prima istanza»5. Riferimento implicito per questa remarque è, non tanto il pensiero naturale (per il quale, chiaramente, la questione della ricettività è legato a quello della finitezza [Endlichkeit] intesa nel senso di un rapporto fra sostanze), quanto piuttosto – ancora una volta – il pensiero filosofico di Martin Heidegger. Questa breve osservazione – che in L’essence de la manifestation apre il confronto di Henry con le tesi heideggeriane sviluppate in Kant und das Problem der Metaphysik – si rivela essere tanto più sottile ma altrettanto più significativa se si considera il fatto che la filosofia di Heidegger è puntualmente richiamata da Michel Henry come exemplum di un’impostazione filosofica programmaticamente affrancata dal pregiudizio della objettità (ontica), predominante nella 4 5 Cfr. supra, Sez. II, Cap. III, § 20. p. 208 (trad. it., 205). Corsivo nostro. EM, 174 Roberto Formisano comprensione naturale dell’essere, in tutte le sue forme. Se dunque 6, per un verso, merito di Heidegger è stato l’aver tentato di dar forma sistematica e filosofica al pensiero fedele al criterio della pura non-objettità, ciò che nella precedente citazione Henry contesta è, essenzialmente, il fatto di aver mantenuto in questa sua pur rigorosa enucleazione della struttura originaria il riferimento all’ente 7 . Certo, in Heidegger l’ente è di fatto spogliato di ogni ruolo veramente essenziale per quel che concerne la realizzazione della verità dell’essere. E tuttavia, come è emerso a proposito del tema della parousia 8, benché Heidegger abbia sempre dichiarato di concepire l’ontologia fenomenologica come pensiero della costitutiva differenza [Differenz] fra essere ed ente, l’interpretazione della trascendenza nel senso della temporalità estatica non induce ad escludere, ma anzi spinge ad avvalorare la possibilità di impostare la questione della verità dell’essere (e del suo sapersi) nei termini di un rapporto “dia-logico” 9 fra comprensione ontica e comprensione ontologica. “Orizzonte” di questo dialogo è l’esistenza fattiva. All’interno di tale orizzonte, rilievi quali la schiusura dell’essere (genitivo soggettivo), l’apertura – nel modo del comprendere ontologico – dell’orizzonte temporalmente finito dell’esserci, il rapportarsi-a e la ricezione della manifestazione ontica si rivelano essere tutti “momenti” differenti ma tutti costitutivamente con-implicati nell’accadere di un unico evento [Ereignis] che è il realizzarsi della manifestatività dell’essere in quanto aletheia, in-grazia-della temporizzazione estatica del Da-sein nei modi propri dell’In-der-Welt-sein. Orbene, è a questo titolo che, in Heidegger, con rigorosamente in coerenza con il criterio della Gleichursprünglichkeit di essere ed e-sistenza, la ricezione ontica è tutt’altro che esclusa, bensì inclusa all’interno della problematica concernente la struttura originaria. Ed è appunto sul senso e sulle ragioni di questa inclusione (vale a dire, in ultima istanza: sul presupposto della riduzione del senso della trascendenza 6 Come anche è emerso nel corso delle analisi relative alla fenomenologia storica, cfr. supra, Sez. I, Cap. III, passim. 7 Cfr. supra, Sez. II, Cap. I, § 17. 8 Cfr. supra, Sez. II, Cap. II, § 20. 9 L’espressione è di Heidegger, cfr. HBE, pp. 178-180 (trad. it. cit., pp. 166-168). Cfr. anche supra, Sez. II, Cap. II, § 20. Critica della trascendenza 175 alla temporalità estatica) che la precedente osservazione henryenne pone definitivamente in causa la filosofia di Heidegger. Difatti, come la tematizzazione della ricettività che Heidegger sviluppò nel Kantbuch del 1929, l’assimilazione della trascendenza alla temporalità estatica fa sì che all’interno di questa impostazione di pensiero la questione della ricettività originaria sia giocoforza inquadrata innanzitutto a partire dal problema relativo alla possibilità della ricezione ontica. b) Ricezione ontica e ricettività ontologica In L’essence de la manifestation, le argomentazioni heideggeriane del cosiddetto Kantbuch sono riprese e sviluppate da Henry al fine di chiarire secondo quali motivazioni, nella prospettiva onto-fenomenologica posta da Heidegger, l’inclusione della problematica della ricettività ontica all’interno della più ampia riflessione concernente la ricettività propria dell’essere in quanto fondamento (d’ora innanzi: ricettività ontologica) debba poter essere considerata come legittima, ed anzi addirittura necessaria. La riflessione kantiana in merito alla questione dell’essenza del fondamento si rivela essere particolarmente significativa in quanto, come sottolineato dallo stesso Heidegger, essa rappresenta un momento di “svolta”, nel senso di un primo e significativo “passaggio” dalla concezione tipicamente moderna e “gnoseologistica” della trascendenza, verso una concezione addirittura “inaudita” e tale da preconizzare alcune delle tesi fondamentali di Sein und Zeit 10. Secondo quanto affermato da Heidegger, il criticismo kantiano muove inizialmente a partire da un concetto tutt’affatto naturale di ricettività, il cui senso è ricavato in contrapposizione ad un altro concetto, che è quello di “creatività”. Così intesi, ricettività e creatività sono assunti come due possibili caratteri del conoscere in generale 11. “Ricettivo” è detto, allora, quel conoscere al quale non è data la possibilità di porre da sé l’ente. Affinché l’ente possa esser accolto come oggetto per siffatto conoscere è necessario che l’ente stesso, l’ente come tale, sia in qualche modo “già dato”, già predisposto in vista del suo coglimento. La ricetti10 11 Cfr. K, p. 243 (trad. it. cit., pp. 208-209). Cfr. K, pp. 20-25 (trad. it. cit., pp. 30-33). 176 Roberto Formisano vità è in questo senso assunta da Kant come contrassegno della finitezza di quel modo del conoscere, la cui condizione di possibilità è individuata nella “predatità” dell’ente il quale, già nel suo stesso mostrarsi, “anticipa” e “prepara” la sua ricezione alla maniera d’una affectio 12. Viceversa, “creativa” è detta quella modalità del conoscere che di per sé è la condizione stessa di possibilità per il darsi del suo oggetto 13. La distinzione fra “ricettività” e “creatività” si basa in prima istanza sul modo in cui, internamente al riferimento all’ente (presupposto comune ad entrambi i modi del conoscere), il conoscere stesso realizza la struttura del rapporto stabilendo la sua subordinazione o meno nei confronti del suo “oggetto”. Ebbene, proprio l’elemento comune del riferimento all’ente fa sì che, in Kant, ogni conoscenza sia in quanto tale caratterizzata come intuizione 14 . In ciò, d’altronde, è da riconoscersi il 12 «L’intuizione finita ha bisogno, per essenza, che l’intuibile la riguardi, ha bisogno d’esserne “affetta” [affiziert]» (K, p. 26, trad. it. cit., p. 33). 13 Più precisamente, in Kant la distinzione tra conoscenza ricettiva (intuizione finita, “intuitus derivativus”) e conoscenza creatrice (intuizione infinita, “intuitus originarius”) è posta a partire dalla definizione dei rispettivi “oggetti” del conoscere. Oggetto dell’intuitus originarius è l’Entstand, vale a dire l’ente saputo nell’atto stesso della sua creazione. In quanto Entstant, l’ente è in questo caso saputo compiutamente, nella sua pienezza, in ragione dell’identità che si presuppone sussista tra l’atto che pone l’oggetto e la sua conoscenza. Sì che, in riferimento all’intuitus originarius, la ricezione dell’Entstand è concepita come già sempre inclusa nell’atto creativo che pone l’oggetto. Diversamente, oggetto dell’intuitus derivativus è il Gegenstand, ovvero, letteralmente, il “contro-stante”. Nella ricezione del proprio oggetto, la conoscenza finita non include bensì presuppone la possibilità della posizione-innanzi. La possibilità della ricezione del Gegenstand rinvia pertanto a condizioni che non si identificano con la conoscenza effettiva dell’ente, ed il cui dispiegamento accade “prima” (in senso non cronologico, ma trascendentale) di quest’ultima. Che, tuttavia, la ricezione del Gegenstand sia resa possibile solo sotto condizioni date, vuol dire che tali condizioni devono poter esse stesse in qualche modo apparire, mostrarsi. Il che significa: anche le condizioni di possibilità dell’apparire del Gegenstand devono poter in qualche modo esser sapute, ricevute in quanto tali. Poiché, però, ciò che fonda la possibilità della manifestazione del Gegenstand non è possibile che sia esso stesso dato alla maniera di ciò che in lui è fondato, ossia nel modo del porre-innanzi objettivo, ne viene che per siffatte condizioni è necessario ammettere l’esistenza d’una maniera “altra” di ricezione. Come le analisi che seguono tenteranno di mostrare, la ricettività costitutiva dell’intuitus derivativus è tale per cui implica una duplice dinamica, a cui corrispondono due tipi diversi di ricezione, gerarchicamente disposti. 14 Cfr. I. KANT, Kritik der reinen Vernunft (1787), in Kant’s gesammelte Schriften, Akademie-Ausgabe, vol. III, a cura di B. Erdmann, Berlin, Reimer, 19112, p. 49 (trad. it. Critica della ragion pura, a cura di G. Gentile e G. Lombardo-Radice, rive- Critica della trascendenza 177 tratto esplicitamente “gnoseologista” della concezione kantiana della trascendenza, in quanto ancora essenzialmente pensata come struttura per la conoscenza d’objectum. Per converso, tale caratterizzazione della ricettività fornisce una determinazione del senso della finitezza [Endlichkeit], del tutto peculiare. Per Kant, evidentemente, ciò che determina nello specifico la finitezza del conoscere umano non è il suo carattere intuitivo. Poiché infatti ogni conoscere si determina per essenza come intuitivo, in Kant anche il conoscere infinito (scil. “il conoscere divino”) è pensato come costitutivamente intuitivo. Solo che, mentre l’intuizione divina si caratterizza per la sua capacità di crearsi da sé il proprio oggetto, l’intuizione umana non ha altra possibilità se non quella di riceverlo sotto condizioni date. Sì che in questa condizionatezza va in definitiva riconosciuta la radice della finitezza del conoscere umano. La conoscenza umana si rivela pertanto “finita”, non perché intuitiva, ma perché essa sola veramente ricettiva: non sufficiente a se medesima, ma bisognosa di un’ulteriore facoltà che è la capacità discorsiva del pensiero. Come giustamente Heidegger ha sottolineato a tal riguardo: L’essenza della conoscenza umana finita viene delineata per contrasto rispetto all’idea della conoscenza divina infinita, dell’intuitus originarius. […] La differenza fra intuizione infinita e intuizione finita consiste in questo, che la prima, rappresentando immediatamente il singolare (cioè l’ente singolo e unico nella sua totalità), porta primordialmente quest’ultimo al suo essere, offrendogli il modo di sorgere (origo). L’intuizione assoluta non sarebbe assoluta se fosse “assegnata” [angewiesen] a un ente già presente, e se potesse accedere all’intuibile solo conformandosi ad esso. Il conoscere divino è quel modo di rappresentazione che crea, intuendolo, l’ente intuibile come tale. E poiché lo intuisce in modo immediato e totale con subitanea e assoluta trasparenza, non ha bisogno del pensiero. Il pensiero come tale è già, quindi, il sigillo della finitezza 15. Il senso della finitezza risiede non nel riferimento all’ente, ma nel modo in cui siffatto riferimento è reso possibile nella conoscenza. Se, infatti, nell’ambito dell’intuitus originarius, la conoscenza infinita (divina) conosce l’ente im Entstand, cioè nel suo stato sorgivo, in ragione dell’identità di atto creativo e conoscenza dell’oggetto, diversamente, duta da V. Mathieu, Roma/Bari, Laterza, 200010, p. 53); cfr. anche K, p. 21 (trad. it. cit., p. 31). 15 K, p. 24 (trad. it. cit., pp. 32-33). 178 Roberto Formisano nell’ambito dell’intuitus derivativus, la conoscenza finita umana si rivela non esser in grado di stabilire neppure un rapporto diretto con l’ente in quanto tale, costretta com’è a rapportarsi solo con il suo fenomeno. E tuttavia: se, per un verso, è vero che la conoscenza umana non è in grado di accedere all’ente im Entstand, ma di rapportarsi solo al suo fenomeno, dato alla maniera di ciò-che-sta-di-contro, per un altro verso, altrettanto vero è che, per Kant, ciò che pone le condizioni per il farsi incontro del Gegenstand è la facoltà conoscitiva umana per eccellenza, ovvero l’intelletto. In questa capacità Kant scorge la “spontaneità” propria dell’intuitus derivativus. Una “spontaneità” che è da intendersi, evidentemente, non come creazione dell’ente, bensì come posizione a priori delle condizioni di possibilità dell’apparire ontico objettivo. Nella prospettiva kantiana, è noto che il dispiegamento di tali condizioni è ricondotto all’opera congiunta delle forme pure a priori delle facoltà conoscitive superiori, cioè della sensibilità e dell’intelletto. In particolare, la dottrina dello schematismo trascendentale indica nell’intuizione pura del tempo la forma pura a priori garante dell’unità di intelletto e sensibilità, nell’uso teoretico della ragione. Sulla base della mediazione del tempo, l’intelletto – “puro pensiero” – porta a compimento la sintesi determinante l’orizzonte dell’esperienza possibile e dunque il dispiegamento delle condizioni trascendentali per la ricezione ontica objettiva. Nel suo Kantbuch, conformemente a tali indicazioni preliminari, Heidegger insiste circa la necessità di ricondurre la radice della finitezza umana a questo peculiare “stato di assegnazione”, caratteristico della conoscenza umana, il cui senso rinvia non, semplicemente, al rapporto all’ente in cui esso si realizza, quanto piuttosto alla reciprocità (interamente fondata a priori) di sensibilità e intelletto. Sì che è soltanto in virtù di questo “stato di assegnazione” che, in definitiva, la conoscenza finita umana si rivela essere in grado di costituire per sé, nella forma di un sapere non-ontico, le condizioni di possibilità per la ricezione ontica. Tale sapere, in-grazia-del quale la conoscenza umana troverebbe predisposta per sé la possibilità di accesso al rapporto con l’ente ed alla Critica della trascendenza 179 ricezione di questi als Gegenstand, è ciò che Heidegger chiama conoscenza ontologica 16. Orbene, nell’ambito della problematica di L’essence de la manifestation, la domanda che Henry pone, confrontandosi con le dottrine di Kant e Heidegger è la seguente: posto che il dispiegamento delle condizioni a priori della conoscenza finita riposi in una “conoscenza ontologica”, o più in generale in un sapere non-objettivo, in che modo questo sapere è infine esso stesso reso possibile? Dire infatti (come Heidegger pure tenta a suo modo di fare), che la possibilità della conoscenza ontologica, in quanto a priori, riposa nella finitezza del conoscere umano non sembra condurre ad una risposta valida: muovendo dal presupposto che il senso della finitezza rinvia al modo di costituzione di siffatta conoscenza non-ontica, essa piuttosto finisce col “chiudere” la domanda in un circolo, che in realtà è un vicolo cieco. Eppure, dell’origine di siffatta conoscenza ontologica è essenziale che l’ontologia fenomenologica sia in grado di rendere conto giacché, in gioco, è la sua stessa possibilità e legittimità del methodos assunto e delle chiarificazioni che da esso derivano. c) Aporie dell’interpretazione heideggeriana del tempo, secondo Michel Henry La posizione della domanda circa la ricezione delle condizioni di possibilità della donazione del Gegenstand (vale a dire l’ente in quanto objectum) richiede, innanzitutto, un’ulteriore specificazione dell’iniziale distinzione kantiana tra “ricettività” e “creatività”. In particolare, è il concetto stesso di “ricezione” che, sciolto nella sua determinazione essenziale dal vincolo nei confronti dell’ente/objectum, richiede d’esser approfondito. Come indicato da Heidegger, si tratta cioè di pensare il possibile senso per una ricettività non-objettiva – ovvero, se si preferisce, una ricettività non-ontica: la ricezione fondante il costituirsi di quell’orizzonte di senso alla luce del quale soltanto, in quanto fenome16 Scrive infatti Heidegger: «La conoscenza ontica può adeguarsi all’ente ([cioè ai suoi] “oggetti”) solo se tale ente è già in precedenza manifesto come ente, ossia è già conosciuto nella costituzione del suo essere» (K, p. 13, trad. it. cit., p. 21). 180 Roberto Formisano no, all’ente è dato poter mostrare se stesso conformemente al modo d’essere del contro-stante. È nota la riduzione manualistica per cui, nella concezione kantiana della conoscenza, la sensibilità è indicata come la facoltà ricettiva per eccellenza, capace di produrre rappresentazioni solo in maniera passiva – vale a dire per effetto dell’azione che su di essa la “cosa in sé” o noumeno esercita, suscitando in essa le affectiones, e cioè rappresentazioni sempre e solo singolari e costitutivamente prive di quel carattere di unità che è proprio della conoscenza stricto sensu. Diversamente, di contro alla costitutiva passività della sensibilità, si staglierebbe la peculiare spontaneità dell’intelletto puro, capace di fornire alla ragione umana finita rappresentazioni a priori in vista delle possibili unità sotto cui raccogliere il molteplice materiale sensibile. In realtà, se considerato alla luce del significato non-objettivo della ricettività e della spontaneità prima richiamati, il quadro dei rapporti fra intuizione pura e pensiero appare ben più complesso e significativo. Si consideri, ad esempio, la sensibilità. Come si è detto, questa è sì costitutivamente “passiva” (scil. ricettiva in senso ontico), in quanto incapace di porre l’ente e quindi di conoscerlo im Entstand; e tuttavia, altrettanto costitutivamente, essa esercita la propria passività sempre e soltanto sotto condizioni date. È nella misura in cui la sensibilità dispone per sé le condizioni sotto cui rendere accessibile l’ente als Gegenstand, che questo è dato alla maniera delle rappresentazioni singolari ovvero saputo alla maniera delle affectiones. Ma che la sensibilità disponga per sé delle condizioni di possibilità dell’affectio in generale, questo vuol dire che essa le sa, le ha costitutivamente ricevute e per questo se le rappresenta alla maniera di intuizioni che, in quanto prive del riferimento-ad-objectum proprio delle affectiones empiriche, si determinano per questo come intuizioni non-objettive, vale a dire come “intuizioni pure”. Tali sono appunto le forme dello spazio e del tempo. Sì che, al pari del puro pensiero, anche al livello dell’intuizione pura si può rilevare una certa qual “spontaneità”. Predisponendo per sé le condizioni preliminari per la ricezione delle affectiones empiriche, l’intuizione pura prepara altresì il terreno per quello che sarà il compito dell’intelletto in sede conoscitiva, e cioè l’unificazione delle rapresentazioni sensibili sotto forma di concetti. All’interno della concezione kantiana della finitezza, tuttavia, complementare alla spontaneità della sensibilità pura è altresì la ricettività Critica della trascendenza 181 propria del puro pensiero, il quale non potrebbe d’altronde produrre alcuna effettiva conoscenza se, a sua volta, nel predisporre per sé le categorie in vista della possibile unificazione dell’esperienza in generale, non le pensasse in funzione della ricezione del possibile molteplice sensibile scaturente in conformità all’attività spontanea dell’intuizione pura. Come la sensibilità, allo stesso modo anche l’intelletto si determina essere nella sua struttura, insieme, sia spontaneo che ricettivo. In ciò d’altronde risiede la “reciprocità”, cui precedentemente si accennava, di intuizione pura e puro pensiero in quanto contrassegno essenziale della finitezza del conoscere umano. L’essenza della finitezza sarebbe stata dunque riconosciuta e tematizzata da Kant sul fondamento dell’unità delle facoltà conoscitive superiori, vale a dire al loro costitutivo “stato di reciproca assegnazione” che, conformemente al senso della loro purezza (non-objettità), motiva e fonda l’altrettanto imprescindibile (ma derivato) “stato di assegnazione all’ente”. Entro questa prospettiva, tuttavia, ciò che non è chiaro è in che modo lo “stato di reciproca assegnazione” che determina l’unità della conoscenza ontologica giunga a costituirsi esso stesso come tale. In verità, a siffatto “modo” [Wie] si è già accennato allorché si è detto: conoscenza ontologica (progetto delle condizioni di possibilità nonobjettive per la ricezione ontica) si dà nella misura in cui le condizioni che la conoscenza finita pone in vista della ricezione ontica sono come tali già sempre sapute nella loro struttura – vale a dire già ricevute, già intuite conformemente al senso non-objettivo del loro dispiegamento. Cosa significa questo? Esattamente, che la conoscenza ontologica non semplicemente si dà come ciò che fonda il conoscere finito nel senso della costitutiva unità di intuizione e pensiero puro, ma che essa fonda siffatta unità come ciò che trova in essa – nella reciprocità di intuizione pura e puro pensiero – la sua stessa realizzazione. Ora, che la realtà della conoscenza ontologica risieda nella costitutiva unità di intuizione e pensiero puri vuol dire che il senso del loro reciproco “stato di assegnazione” coincide con il modo in cui le condizioni di possibilità per la ricezione ontica realizzano il proprio apparire: ricevendosi in quanto tali, in grazia della perfetta integrazione tra spontaneità e ricettività delle facoltà conoscitive superiori. E tuttavia: a quale facoltà conoscitiva dovrebbe poter spettare, nello specifico, una simile ricezione (e, dunque, un simile sapere)? Indicando kantianamente come “sintesi ontolo- 182 Roberto Formisano gica” 17 il prodotto del reciproco “stato di assegnazione” di intuizione e pensiero, Heidegger scrive a tal riguardo: Dato l’essenziale stato di assegnazione del nostro pensiero puro al molteplice puro, la finitezza del nostro pensiero “esige” che questo molteplice si adatti al pensiero stesso, al pensiero in quanto concettualmente determinante. Ma perché l’intuizione pura sia determinabile per mezzo di concetti puri, il suo molteplice dev’esser sottratto alla dispersione, ossia dominato e raccolto. Questo reciproco prepararsi l’un per l’altro si effettua in quell’operazione che Kant chiama in generale sintesi. In essa i due elementi puri si incontrano da sé; essa salda le commessure che si corrispondono e costituisce, così, l’unità essenziale di una conoscenza pura 18. In quanto “sapere”, la sintesi ontologica determina l’unità essenziale del pensiero finito riferendola ad uno specifico tipo di rappresentazione 19, la quale, proprio in ragione di questo suo carattere fondamentale, per costituzione non può esser ricondotta all’attività conoscitiva né del solo intelletto pura né tanto meno della sola sensibilità 20. Tale rappresentazione, chiamata “immagine pura”, è indicata come il “prodotto trascendentale” 21 di quella terza facoltà, essenziale alla conoscenza finita, che è appunto l’immaginazione trascendentale. L’immaginazione (facultas imaginandi) è innanzitutto indicata da Kant «una facoltà dell’intuizione capace d’operare anche in assenza di objectum»22. Considerata nella sua purezza, la peculiarità dell’immagi17 Cfr. K, pp. 59-65 (trad. it. cit., pp. 58-63). p. 62 (trad. it. cit., p. 61). 19 Il perché di un simile riferimento è ormai chiaro: in quanto realizzazione dell’unità, la conoscenza ontologica – proprio in ragione del suo esser conoscenza – si determina altresì come ricezione (cioè, appunto, come compimento nel modo dell’essersaputo) dello “spontaneo” e non-objettivo progetto delle condizioni di possibilità necessarie in vista della ricezione ontica. Sì che, in quanto realizzazione, ricezione, sapere, la conoscenza ontologica è pensata da Kant, conformemente alla sua concezione ancora “gnoseologista” della trascendenza, nei termini di una rappresentazione. 20 Cfr. K, p. 62 (trad. it. cit., p. 61): «Questa sintesi non è né un fatto dell’intuizione, né un fatto del pensiero». 21 Cfr. I. KANT, Kritik der reinen Vernunft (1787), cit., pp. 119-120 (trad. it. cit., pp. 120-121). 22 ID., Anthropologie im pragmatischer Hinsicht, in Kant’s gesammelte Schriften, Akademie-Ausgabe, cit., vol. VII, Berlin, Reimer, 1917, pp. 117-333, p. 167 (trad. it. Antropologia dal punto di vista pragmatico, in Scritti morali di Immanuel Kant, a cura di P. Chiodi, Torino, UTET, 1970, pp. 535-757, p. 588). 18 K, Critica della trascendenza 183 nazione trascendentale consiste esattamente nel fatto che, proprio in quanto svincolata dal riferimento ad objecta, è in grado di rappresentarsi la pura unità di intuizione e pensiero, alla maniera di un’immagine [Bild] non-objettiva, vale a dire come prospettazione di una pura veduta [Anblick] delle condizioni di possibilità soggiacenti alla ricezione ontica. Scrive Heidegger in questo senso che: «Formando lo schema, l’immaginazione pura dà in via preliminare la veduta (“immagine”) dell’orizzonte della trascendenza»23. Nella misura in cui, però, l’immaginazione pura si rappresenta non-objettivamente l’orizzonte del possibile incontro con l’ente, essa non soltanto lo prospetta, ma ne realizza propriamente il mostrarsi 24. Difatti, in quanto facoltà dell’intuizione capace di intuire, ricevere una veduta, senza che l’intuìto corrispondente si mostri per se stesso come ente e procuri da sé, in via esclusiva, la veduta medesima 25 , l’immaginazione pura si determina essenzialmente come intuizione capace di ricezione non-objettiva. Presa in questo senso, essa fornisce la determinazione essenziale del modo [Wie] fondamentale in cui l’orizzonte è reso “percettibile” a se medesimo, da se stesso ricevibile nel modo di un sapersi non-objettivo. Entro questa prospettiva, pertanto, l’immagine pura definisce ciò in cui e per mezzo del quale l’orizzonte realizza di fatto il proprio mostrarsi conformemente al senso della sua costitutiva non-objettità. Dato il carattere sì intuitivo ma altrettanto non-objettivo dell’immaginazione pura, il modo [Wie] in cui l’immagine pura realizza il mostrarsi dell’orizzonte – nel suo duplice e costitutivo movimento di pro-gettazione (spontaneità) e sapersi (ricettività) – è indicato come Versinnlichung, vale a dire come “sensibilizzazione”. Il concetto di Versinnlichung è richiamato da Heidegger ad indicare il modo in cui, nella conoscenza ontologica, giunge a realizzazione l’unità del pensiero puro e della pura intuizione. Il modo in cui tale unità è saputa – e cioè giunge a costituirsi in quanto trascendenza – è quello della ricezione non-ontica, ossia di una affectio pura. Dunque, l’intuizione che realizza la sintesi ontologica è quella del senso interno, vale a 23 p. 91 (trad. it. cit., p. 84). Cfr. K, pp. 90-91 (trad. it. cit., p. 83). 25 K, p. 128 (trad. it. cit., p. 115): «L’immaginazione “può” intuire, ricevere una veduta, senza che l’intuíto corrispondente si mostri per se stesso come ente e procuri da sé, in via esclusiva, la veduta medesima». 24 K, 184 Roberto Formisano dire l’intuizione pura del tempo. Dispiegando e ricevendo conformemente alla sua costituzione essenziale non-objettiva la schiusura dell’orizzonte, il tempo è riconosciuto come ciò che di fatto realizza l’unità costitutiva del conoscere finito. Il tempo determina e custodisce il senso della conoscenza ontologica. Come Heidegger scrive: «Il tempo originario rende possibile l’immaginazione trascendentale, che è in sé, essenzialmente, ricettività spontanea e spontaneità ricettiva»26. Nella misura in cui poi il tempo – cioè, secondo Heidegger, la temporalità estatica – forma spontaneamente e realizza alla maniera d’una ricezione nonontica, esso si determina propriamente come ciò che fonda la struttura della trascendenza. Conformemente al senso temporale dell’immaginazione pura, la fondazione della trascendenza accade nell’esistenza finita della schiusura estatico-orizzontale alla maniera d’una “pura auto-affezione”, ovverosia alla maniera d’una affectio non-objettiva da parte dell’orizzonte nei confronti di se medesimo 27. 22. Revisione e critica dell’interpretazione heideggeriana del tempo Con la determinazione del significato fondamentale del tempo si è chiarito in che senso, agli occhi di Heidegger, la filosofia trascendentale kantiana – nonostante la sua concezione ancora “gnoseologica” della trascendenza – per mezzo del suo peculiare oltrepassamento della maniera naturale di intendere il senso della ricettività, sia stata ad un passo dalla decisiva scoperta del carattere propriamente originario della temporalità estatica. Ciò che però, per Heidegger, doveva apparire come qualcosa di entusiasmante, per Henry non rappresenta altro che l’ennesima conferma di quel fatale pregiudizio che, al fondo di questa pretesa continuità con la filosofia kantiana, costituisce invero l’humus comune a tutte le filosofie moniste: la ri(con)duzione del senso della fenomenicità originaria alla dimensione fenomenologica della sola trascendenza. 26 K, p. 196 (trad. it. cit., p. 169). Sì che, peraltro, in tal senso, proprio la temporalità è infine indicata da Heidegger come ciò che costituisce il senso stesso della Selbstheit finita. «Il tempo – scrive Heidegger a tal proposito – appartiene all’intrinseca possibilità del puro rapporto di objettivazione. In quanto auto-affezione pura, il tempo forma originariamente l’ipseità finita, facendo sì che il se stesso possa essere autocoscienza» (K, p. 190, trad. it. cit., p. 163). 27 Critica della trascendenza 185 Giunto a questa soglia del confronto con Heidegger e con il monismo ontologico, l’obiettivo di Michel Henry diviene ora, pertanto, la definitiva messa in chiaro delle falsificazioni e delle aporie a cui la riduzione monista della fenomenicità originaria inevitabilmente conduce. Nel contesto della (ri)costruzione e dell’analisi del contenuto fenomenologico implicito nelle tesi fondamentali caratteristiche del monismo ontologico, particolarmente decisive si rivelano essere, ancora una volta, le indicazioni provenienti dalla lettura dell’Anweisung zum seligen Leben di Fichte. Difatti, è sullo sfondo dei risultati ottenuti dalla (ri)elaborazione delle nozioni di alienazione e parousia che il confronto risolutivo e finale con Heidegger è da Henry inquadrato. “Sganciando” l’interpretazione heideggeriana del tempo dai presupposti propri della sua ontologia ermeneutica, e riconducendo dunque le tesi heideggeriane all’interno di quel contesto teoretico-metodologico dischiuso dall’interpretazione fenomenologica della Religionslehre fichtiana 28 , la critica henryenne ai presupposti del monismo si risolve in sostanza in una vera e propria “riappropriazione critica” e “revisione” delle tesi heideggeriane. I concetti fenomenologici di “ricettività” [Rezeptivität] e “finitezza” [Endlichkeit] vengono ora ripensati alla luce della distinzione fra comprensione ontica e comprensione ontologica, e il problema relativo alla ricettività costitutiva dell’essere (scil. la comprensione ontologica) si trova finalmente ad esser inquadrato indipendentemente dai rilievi emergenti sul piano della riflessione concernente l’esistenza fattiva ed il senso del suo esser costitutivamente in rapporto all’ente. Impostato alla luce delle tesi dell’autonomia e dell’indipendenza della comprensione ontologica, il primo punto della revisione critica henryenne si concentra sulla distinzione kantiana fra Entstand e Gegenstand. Come si è visto, questa distinzione è introdotta da Kant ad indicare la differenza istituentesi fra intuitus originarius e intuitus derivativus. Scopo di Henry è mostrare l’inessenzialità di questa distinzione, in ordine alla chiarificazione del senso della ricettività ontologica. In quanto ricezione non-objettiva, è chiaro infatti che la ricettività ontologica non possa essere identificata con l’intuitus originarius, se non altro per il fatto che, stando alla definizione kantiana, l’intuitus originarius costituisce, per essenza, una conoscenza di tipo eminentemente objetti28 Cfr. supra, Sez. II, Cap. II, § 20. 186 Roberto Formisano vo 29. Diversamente, la peculiarità dell’intuitus derivativus è stata per l’appunto rilevata nel fatto che la ricezione del Gegenstand presuppone il dispiegamento di determinate condizioni di possibilità, le quali a loro volta richiedono d’esser ricevute, sebbene non alla maniera dell’ente. Sì che, nella prospettiva indicata da Kant, a determinare l’elemento caratteristico essenziale dell’intuizione finita, non è affatto il tipo di oggetto che ad essa si rende accessibile, quanto piuttosto il modo di costituzione delle condizioni sotto cui la ricezione d’objectum è resa possibile in essa. In altri termini, la ricezione d’orizzonte si rivela essere l’elemento costitutivo della conoscenza finita umana, nel senso che essa è ciò che ne determina la peculiare finitezza. Per Henry, tutto questo assume un significato metodologico decisivo. Per poter comprendere il senso propriamente ontologico della ricezione d’orizzonte, a nulla vale l’eccessiva attenzione profusa da Kant e Heidegger nel descrivere il Gegenstand e il suo modo di darsi. Conformemente al senso dell’autonomia messo in luce dall’ermeneutica dell’alienazione e della parousia, infatti, il senso della ricettività ontologica deve poter essere interrogato indipendentemente dalle realtà di cui esso rende possibile la manifestazione. L’analitica della finitezza, in cui di fatto si risolve la questione della ricettività entro questa prospettiva, necessita d’esser impostata piuttosto a partire dal criterio della nonobjettità, tematizzata però non nel senso di ciò che rende possibile il mostrarsi objettivo, bensì direttamente nel senso di ciò che fonda la possibilità stessa per il mostrarsi dell’orizzonte in quanto tale, e dunque della sua stessa ricezione. Descritta indipendentemente dagli enti [Gegenstände] con i quali innanzitutto e per lo più essa è posta in contatto, la conoscenza finita necessita d’esser inquadrata alla luce di quella non-objettità, ovvero non-entità, in cui risiede la sua peculiare “spontaneità”. Ricondotta su questo terreno, l’analitica della finitezza dovrà pertanto esser sviluppata in direzione d’una “fenomenologia del non-ente”, ovvero di una feno- 29 Peraltro, proprio in riferimento a quest’aspetto, la filosofia kantiana si mostra inscriversi anch’essa all’interno di quella linea di pensiero, in precedenza indicata con il nome di “intuizionismo” (cfr. supra, Sez. I, Cap. II, § 9). Critica della trascendenza 187 menologia del “ni-ente” [Nichts]: una fenomenologia del nulla 30 il cui compito sarà quello di chiarire in che modo, fondando l’orizzonte estatico-temporale dell’e-sistenza finita, la trascendenza sia in grado di realizzare in se stessa la sua stessa ricezione, conformemente al senso nonobjettivo del sapersi (scil. conoscenza ontologica) che la costituisce come tale. Quanto l’idea di una “fenomenologia del nulla” sottintende, dunque, è che, per essere chiarita, la questione della ricezione non-objettiva (i.e. realizzazione della trascendenza qua tale) non può esser semplicemente centrata su ciò che giunge a manifestazione [Erscheinung] sul fondamento della schiusura etatico-orizzontale. La domanda circa il senso della ricettività non-objettiva non può essere inquadrata solo a partire dall’analisi degli Innerweltliches, gli enti nel-mondo. Tutto quanto l’ente può dirci riguardo alla condizione di possibilità del suo mostrarsi può infatti essere espresso sempre e solo negativamente 31. In questo senso, alla notazione heideggeriana per cui: Ora, se l’X conosciuto nella conoscenza ontologica è per essenza orizzonte, questa conoscenza deve esser tale da tenere aperto l’orizzonte stesso, appunto nel suo carattere di orizzonte. E allora è veramente impossibile che questo qualcosa venga afferrato tematicamente come un contenuto di pensiero diretto e singolare. L’orizzonte dev’essere non-tematico, e nondimeno deve esser sott’occhio 32. Henry replica affermando che «la critica del tematismo costituisce tuttavia soltanto una determinazione puramente negativa della natura della realtà objettivantesi nella pura objettivazione dell’essere. Una tale determinazione non caratterizza in alcun modo la realtà positiva del nulla»33; ed aggiunge, poi: 30 Cfr. EM, p. 214 (trad. it. cit., p. 209): «Se l’orizzonte dell’essere è compreso in quanto nulla, non-ente, allora è di una fenomenologia del nulla che si tratta». Corsivi di Michel Henry. 31 Sul senso “positivo” di questa negatività, nella prospettiva di Heidegger, cfr. supra, Sez. II, Cap. I, § 17. 32 K, p. 123 (trad. it. cit., p. 108). 33 EM, p. 213 (trad. it. cit., p. 209). Corsivo nostro. 188 Roberto Formisano Che l’orizzonte non sia qualcosa di ontico, che il suo mostrarsi non possa compiersi in una presa tematica allo stesso modo dell’ente, tutto questo non definisce né la realtà dell’orizzonte né il suo peculiare modo d’apparire 34. Nell’interpretazione della filosofia trascendentale di Kant, Heidegger riferisce sia la possibilità sia la realizzazione della ricezione nonobjettiva al potere fenomenologico dell’immaginazione trascendentale, ovvero all’immaginazione pura in quanto formatrice di trascendenza. In quanto radice dell’unità di spontaneità e ricezione, l’immaginazione trascendentale è stata infatti determinata come ciò che, dischiudendo estaticamente l’orizzonte, ne porta a compimento il mostrarsi per mezzo della pura Versinnlichung. L’immaginazione trascendentale realizza la ricezione dell’orizzonte, cioè il suo sapersi, rendendolo percettibile a se medesimo, ovvero rendendolo suscettibile di un’intuizione pura: passibile di un’intuizione non-objettiva quale si rivela appunto essere l’intuizione pura del tempo, in quanto pura auto-affezione. Ciò che, dunque, Heidegger in breve sostiene è che la realizzazione del mostrarsi della trascendenza nella forma dell’orizzonte finito dell’esistenza accade essenzialmente alla maniera di un’intuizione non-objettiva, cioè di una pura immagine. – Dire tuttavia, come Heidegger pretende di poter fare, che il mostrarsi dell’orizzonte possa realizzarsi in maniera intuitiva (per quanto si tratti d’una intuizione non-objettiva) significa ricorrere ad un argomento quantomeno specioso, se è vero che, come si è detto, l’intuizione trova il proprio fondamento nel Worumwillen realizzante la schiusura, che è la temporalità estatica. Il che vuol dire: la ricezione d’orizzonte in cui e per mezzo della quale soltanto la schiusura della trascendenza trova la propria realizzazione costituisce la condizione di possibilità essenziale per ogni tipo di intuizione possibile in generale. Se però, poi, la stessa intuizione è assunta come ciò per mezzo di cui la trascendenza medesima deve poter realizzare il proprio mostrarsi estatico, ecco che allora l’intuizione diviene non più soltanto ciò che nel fondamento della trascendenza trova dispiegate le condizioni di possibilità del suo mostrarsi bensì, al contempo, ciò che determina il modo di realizzazione del fondamento stesso. Per un verso, tutto questo (cioè l’identità del modo di costituzione della trascendenza 34 EM, pp. 213-214 (trad. it. cit., p. 209). Critica della trascendenza 189 e della realtà che esso rende possibile) lascerebbe supporre che la trascendenza meriti in effetti di fregiarsi del titolo di “fenomenicità originaria”. Che le cose non possano però essere considerate in tal modo lo si ricava dal fatto che una delle principali caratteristiche eidetiche della trascendenza consiste nell’irriducibile differenza tra modo di costituzione e realtà del fenomeno. Se la trascendenza deve poter realizzare il proprio mostrarsi conformemente all’eidos dei fenomeni che essa fonda, allora anche per essa deve valere il principio dell’irriducibile differenza, in virtù del quale l’intuizione (non-objettiva) per mezzo di cui la trascendenza realizza il proprio apparire non può essere identificata con il modo di schiusura della sua struttura estatica. Emerge così una caratteristica “anfibolia” dell’argomentazione heideggeriana che, confondendo i piani, non rinuncia ad assegnare all’intuizione, ora i caratteri di ciò che trova fondamento nella trascendenza, ora i caratteri di ciò che fonda la trascendenza. In ciò, d’altronde, era già stata riconosciuta la “circolarità” del discorso heideggeriano 35. Scrive infatti Henry: Ciò che rende possibile qualcosa come un incontro è stato compreso e definito come quel processo mediante il quale l’essenza si pro-pone, pone-innanzi a sé objettivandosi sotto forma di orizzonte. La critica dell’intuizionismo ha mostrato che l’intuizione è possibile soltanto grazie all’apertura del campo trascendentale dell’essere. Tuttavia, nel momento in cui la riflessione circa le condizioni della fenomenicità effettiva ha palesato che solo mostrandosi in se stesso l’orizzonte dell’essere può compiere la sua funzione e rendere l’ente accessibile, la manifestazione di quest’orizzonte è affidata all’intuizione. Così l’intuizione trova la propria condizione in un orizzonte, il quale non può realizzarsi fintantoché non è intuito. […] Il pensiero che affida all’intuizione il compito di realizzare ciò che è concepito come condizione di questa stessa intuizione si chiude manifestamente in un circolo 36. Per un verso, Heidegger definisce l’immaginazione trascendentale come “essenza dell’intuizione finita umana”, in quanto radice dell’unità di intuizione e pensiero – sì che, come nota Henry, «da questo punto di vista, l’intuizione è subordinata all’immaginazione»37. Nel momento in cui, però, richiamandosi alla dottrina della pura Versinnlichung, Heideg35 36 Cfr. supra, Sez. I, Cap. III, § 14. p. 217 (trad. it. cit., pp. 212-213). p. 221 (trad. it. cit., p. 215). EM, 37 EM, 190 Roberto Formisano ger medesimo pone la domanda circa l’essenza dell’immaginazione 38, la risposta – proveniente dall’analisi dello schematismo trascendentale – conduce ad un vero e proprio “ribaltamento” dei ruoli delle singole facoltà conoscitive. Da un lato, la sintesi originaria dell’immaginazione è indicata come ciò che fonda la possibilità della conoscenza a priori 39 (e dunque la possibilità stessa dell’intuitus derivativus, in virtù dell’unità di intuizione pura e puro pensiero); d’altro canto, allorché è tentata la chiarificazione del modo in cui l’immaginazione debba poter realizzare il dispiegamento delle condizioni di possibilità della conoscenza a priori umana, si è necessariamente ricondotti alla ricezione d’orizzonte – il che vuol dire: entro l’inquadramento fornito da Heidegger, la possibilità della fondazione della conoscenza intuitiva umana implica la riconduzione dell’immaginazione al potere di ricezione che è proprio dell’intuizione pura. Scrive Henry: Il mostrarsi dell’orizzonte puro dell’essere, per il tramite dello schematismo, consiste in una Versinnlichung dell’orizzonte. Questi si mostra in quanto messo in relazione con la sensibilità, cioè in quanto intuìto. Così la percettibilità dell’orizzonte messa in conto dallo schematismo di fatto trova nell’intuizione il suo fondamento. L’intuizione permette allo schematismo di portare a termine la sua opera. La “pura veduta”, “l’immagine-schema” che essa procura, è un’apertura in seno alla trascendenza. Ma quest’apertura è visibile, è veramente “immagine”, solo in ragione del carattere intuitivo di questa. […] Poiché lo schematismo consiste nella formazione di una immagine, esso trova la sua possibilità nell’intuizione 40. A giudizio di Henry, la ragione della “circolarità” della speciosa argomentazione heideggeriana è da ricercarsi in definitiva in un ambivalente uso del concetto di intuizione: Da una parte, l’intuizione è uno dei due poteri specifici e differenziati, la cui collaborazione è indispensabile in vista della produzione di una conoscenza. […] D’altra parte, tuttavia, l’intuizione si dà come costituente l’essenza stessa della trascendenza, in quanto essa rende possibile quest’ultima, assicuran- 38 Domanda che Henry così sintetizza: «In che modo l’immaginazione riceve l’orizzonte che essa stessa ob-jettiva?» (Ibid., trad. it. cit., pp. 215-216). 39 Cfr. I. KANT, Kritik der reinen Vernunft (1787), cit., p. 120, trad. it. cit., p. 121. 40 EM, p. 223 (trad. it. cit., p. 217). Critica della trascendenza 191 done la coerenza interna nella ricezione originaria del prodotto dell’objettivazione della trascendenza 41. Tale ambivalenza emerge, ancora, in maniera tanto più evidente in relazione al fatto che, come indicato dalla dottrina della Versinnlichung, l’intuizione che fonda l’essenza dell’immaginazione trascendentale – ossia l’essenza della trascendenza – è identificata con la forma pura del tempo. Invero, come Henry stesso sottolinea 42, all’interno della problematica relativa alla fondatezza della trascendenza, il tempo è richiamato non a titolo di “forma pura della sensibilità”, bensì come “pura affectio dell’orizzonte nei confronti di se medesimo” – vale a dire a titolo di pura auto-affezione. Il concetto di “auto-affezione” è introdotto da Heidegger ad indicare ciò in cui e per mezzo del quale la trascendenza dovrebbe poter mostrare di poter trovare in se stessa il fondamento per il suo stesso mostrarsi. Analizzando siffatto concetto, Henry procede differenziandolo in due distinte nozioni, che sono: l’“affezione mediante sé” [affection par soi] e l’“affezione di sé” [affection de soi]. Nell’affezione mediante sé, il tempo puro è descritto come quell’adfectio per mezzo della quale l’orizzonte deve poter ricevere se medesimo, in maniera tale per cui «ciò che il tempo riceve come affezione è l’orizzonte puro del tempo»43, ovvero «il tempo medesimo sotto forma di orizzonte» 44 . Nella determinazione del tempo puro come medium della sua stessa affectio in senso non-objettivo, è definita essenzialmente la “spontaneità” del tempo, cioè la sua peculiarità “immaginativa”, in quanto formatore d’orizzonte. Come scrive infatti Henry: Proprio perché l’affezione del tempo da parte dell’orizzonte puro dell’essere è un’affezione di un orizzonte che il tempo stesso ha formato, tale affezione del tempo è un’affezione per sé. Ciò che dunque compie quest’affezione non è l’orizzonte del tempo ma piuttosto il potere originario che dispiega tale orizzonte. Il tempo originario “affetta” se stesso grazie alla mediazione del tempo 41 p. 221 (trad. it. cit., p. 216). Corsivi di Michel Henry. Cfr. EM, pp. 227-229 (trad. it. cit., pp. 221-222). 43 EM, p. 229 (trad. it. cit., p. 223). 44 EM, p. 230 (trad. it. cit., p. 223). Corsivo nostro. 42 EM, 192 Roberto Formisano puro. “Affettandosi” grazie alla mediazione del tempo puro, il tempo si ritorna a sé sotto forma di orizzonte 45. La caratterizzazione del concetto di “affezione mediante sé” consente di portare allo scoperto una decisiva differenza fra ciò che Henry – sovrapponendosi al dettato heideggeriano – chiama il “tempo puro” ed il “tempo originario”, o meglio: fra il modo di costituzione del tempo puro (cioè il “tempo originario”) e la sua realtà (ovvero l’orizzonte, in quanto triplice disseminazione estatica di futuro, passato e presente). Posto che per “tempo originario” sia inteso l’atto della schiusura, esso determina propriamente la struttura fenomenologica del tempo puro. Per converso, concepito nella sua realizzazione in quanto orizzonte, a sua volta il “tempo puro” si determina essere la realtà del “tempo originario”, ossia ciò in cui quest’ultimo realizza il suo stesso mostrarsi come tale. La distinzione, puramente formale, fra “tempo puro” e “tempo originario” serve a mostrare che, benché distinte nel loro concetto, questi due modi della temporalità condividono essenzialmente la medesima e unica ricettività, interpretata nel senso della ricezione d’orizzonte. Posto allora che la ricezione dell’atto della schiusura giunga a compimento nel modo della ricezione d’orizzonte, si chiarisce in tal senso il significato relativo al secondo risvolto dell’auto-affezione, vale a dire dell’“affezione di sé”. Giacché (per riprendere l’espressione utilizzata da Heidegger) ciò che la sensibilizzazione dell’orizzonte in realtà porta a compimento altro non è che il sapersi del tempo originario come tale, il quale si riceve (scil. “sa se stesso”) appunto come tempo puro, e cioè alla maniera della schiusura estatico-orizzontale in cui è – accade come e-sistente – l’esserci umano finito. L’articolazione del concetto di auto-affezione nelle due sue componenti dell’“affezione mediante sé” e dell’“affezione di sé” consente allora di precisare ulteriormente il senso della critica henryenne rivolta ad Heidegger. Ammesso, infatti, che per mezzo della distinzione fra tempo originario e tempo puro si sia chiarito infine in che modo la realizzazione del tempo originario implichi la mediazione del tempo puro, ciò che resta ancora del tutto oscuro è in che modo il tempo puro debba poter 45 Ibid. (trad. it. cit., pp. 223-224). Critica della trascendenza 193 portare a compimento (e dunque realizzare concretamente) la schiusura d’orizzonte resa possibile dal tempo originario. Giacché qui è esattamente il problema su cui Henry vuole che la riflessione fenomenologica concentri la propria attenzione: non in riferimento alla sola possibilità della schiusura, bensì anche e soprattutto al senso della sua effettiva realizzazione. “Affezione di sé” ed “affezione mediante sé”, in quanto risvolti dell’auto-affezione, sono assunti come caratteri costitutivi del tempo considerato nella sua “spontaneità immaginativa” in quanto “formatore d’orizzonte”. Questo vuol dire che, sul fondamento del tempo originario, la formazione d’orizzonte accade come affectio del tempo che, mediante sé, deve poter ricevere se medesimo. Orbene, secondo Henry, proprio in riferimento a quest’ultimo aspetto è da riconoscersi l’anfibolia trascendentale di cui l’argomentazione heideggeriana sarebbe vittima. Scrive infatti Henry: In che modo […] il tempo puro può assicurare la ricezione dell’orizzonte della trascendenza? Cosa, nella natura del tempo, rende quest’ultimo possibile, infine, come affezione di sé? Il tempo assicura la ricezione dell’orizzonte della trascendenza in quanto intuisce il contenuto ontologico puro che la trascendenza objettiva sotto forma di orizzonte. Solo nella misura in cui il temrpo è nella sua natura intuizione esso è possibile come affezione di sé. Ciò che è rilevante nel tempo che, in ultima istanza, rende possibile l’essenza della manifestazione, non è il suo carattere temporale, bensì il suo carattere intuitivo 46. Il vizio di fondo dell’enucleazione heideggeriana dell’auto-affezione consisterebbe essenzialmente, secondo Henry, nella confusione che essa surrettiziamente opera tra la “capacità immaginativa” del tempo e la sua distinta qualità sensibile-intuitiva. In quanto auto-affezione, infatti, è ricevendo se stesso che, nel modo della “sintesi originaria”, il tempo forma l’orizzonte, dispiegando le condizioni di possibilità per il conoscere umano finito. D’altra parte, la ricezione di sé mediante se stesso da parte del tempo puro individua altresì il modo in cui questi effettivamente porta a compimento il mostrarsi stesso di siffatto orizzonte. Ora, che siffatta ricezione di sé mediante se stesso debba poter definire sia il modo di costituzione dell’orizzonte sia il modo della sua ricezione vuol 46 EM, pp. 236-237 (trad. it. cit., p. 229). 194 Roberto Formisano dire che, nella prospettiva heideggeriana, il mostrarsi non-objettivo dell’orizzonte è concepito come riceventesi nell’atto stesso del suo mostrarsi. Posto però che la “capacità di ricezione” (sia essa objettiva o non-objettiva) costituisca una peculiarità propria dell’intuizione mentre la “capacità di formazione” una peculiarità caratteristica dell’immaginazione ne consegue che, alla luce del concetto heideggeriano di auto-affezione, i ruoli dell’una e dell’altra facoltà finiscono col confondersi. Ma proprio qui, allora, è da intendersi la “speciosità” dell’argomento heideggeriano che, sul fondamento del presupposto della Gleichursprünglichkeit di spontaneità e ricettività nella temporalità estatica, da un lato fa poggiare la possibilità della conoscenza umana finita (intuitus derivativus) sulla “capacità produttiva” dell’immaginazione trascendentale, e dall’altro individua nella ricettività (non-objettiva) propria dell’intuitus derivativus l’unico modo per mezzo del quale all’immaginazione è data la possibilità di realizzare il proprio compito fondamentale. Vincolando l’immaginazione alla caratteristica auto-affezione del tempo puro e della sua costitutiva estaticità, l’interpretazione heideggeriana del tempo originario rivela presupporre esattamente ciò che avrebbe dovuto essere suo compito fondare, vale a dire la possibilità stessa dell’intuizione non-objettiva. Sovrapponendo e scambiando i ruoli dell’immaginazione trascendentale e dell’intuizione pura, l’interpretazione heideggeriana dell’autoaffezione conduce in definitiva, secondo Henry, alla situazione paradossale per cui, ciò che fonda finisce col trovare in ciò che è fondato il suo stesso fondamento. Sì che, considerati ciascuno in riferimento alla propria possibilità, fondamento e fondato si rivelano essere imprescindibilmente legati l’uno all’altro, chiusi in una sorta di circolo, questa volta inequivocabilmente “vizioso”, in ragione della reciproca dipendenza di fondamento e fondato. Il superamento della impasse a cui l’interpretazione heideggeriana dell’auto-affezione conduce richiede evidentemente, innanzitutto, un nuovo inquadramento della questione della ricettività, in maniera tale che la distinzione tra le dimensioni fenomenologiche dell’atto che fonda la schiusura estatica e la ricezione dell’orizzonte dischiuso sul fondamento di questo sia fermamente tenuta. Espresso nei termini indicati nel corso della Wiederholung della posizione heideggeriana, la distinzione tra “tempo puro” e “tempo originario” è necessario che sia ora inquadrata di modo che i rispettivi ambiti di pertinenza siano tenuti ben sepa- Critica della trascendenza 195 rati. “Separare” tempo puro e tempo originario vuol dire però, per l’appunto, scardinare il presupposto heideggeriano di fondo concernente la presunta “omogeneità” dell’essere non-objettivo, per quel che riguarda la ricezione dell’atto schiudente e la ricezione del suo “prodotto” ekstatico. Rotto questo vincolo ed espunta la tesi dell’omogeneità, la possibilità dell’atto della schiusura che, formando l’orizzonte, fonda altresì la possibilità stessa della ricezione di quest’ultimo, andrà considerata e tematizzata nella sua autonomia [Selbständigkeit], vale a dire indipendentemente dalle dinamiche di cui essa è fondamento. Appurata la nonappartenenza della ricezione d’orizzonte alla ricettività originaria, si tratta ora di fornire un’enucleazione della non-objettità di quest’ultima, che sia però distinta dalla non-objettità realizzantesi nella forma della temporizzazione estatico-orizzontale dell’esserci. In perfetta coerenza con quanto emerso dall’analisi dell’enucleazione fichtiana della “coscienza religiosa”, la domanda circa l’essenza della trascendenza (scil. il modo di realizzazione della sintesi originaria che ne fonda la schiusura) andrà impostata indipendentemente dalle sintesi – cioè dai saperi, dalle conoscenze e, più in generale, dai modi del comprendere) che fattivamente il tempo realizza nell’orizzonte dell’e-sistenza finita. Slegata dalle dinamiche proprie della comprensione esistentiva e della ricettività costitutiva della temporalità estatica, la questione della ricettività andrà in questo senso ripensata conformemente alle indicazioni teoretico-metodologiche ricavate dall’interpretazione fenomenologica delle nozioni di parousia e alienazione. 23. Dell’originarietà della trascendenza. La “distruzione” del monismo ontologico Proseguendo sulla linea ricavata a partire dalle tesi dell’alienazione e della parousia dell’essere, implicanti la radicalizzazione della distinzione tra la ricettività costitutiva dell’atto fondante la schiusura della trascendenza e l’auto-affezione del tempo puro costitutivo della schiusura a se medesimo dell’orizzonte dell’e-sistenza 47, ciò a cui la revisione henryenne delle tesi heideggeriane circa la fenomenicità originaria 47 «Come è stato infatti mostrato, la realtà della trascendenza non risiede nell’ambito fenomenologico dell’essere» (EM, p. 245, trad. it. cit., p. 236). Il corsivo è nostro. 196 Roberto Formisano perviene è precisamente la tesi dell’irriducibilità della ricettività fondante la possibilità della trascendenza al senso della ricezione d’orizzonte. La determinazione del senso di siffatta irriducibilità è decisamente ricca di conseguenze. Innanzitutto, essa conduce ad un inquadramento nuovo – rispetto alla linea kantiana e heideggeriana – del significato della costitutiva finitezza del Dasein. Se in Heidegger, come si è visto, la finitezza [Endlichkeit] è stata ricondotta al senso della caratteristica unità del potere immaginativo e sensibile della temporalità estatica, ora, messo in discussione il presupposto della duplice costituzione (insieme spontanea e ricettiva) della funzione immaginativa del tempo, la finitezza assume piuttosto il senso della condizionatezza propria della ricettività d’orizzonte. Incapace di ricevere l’atto schiudente la trascendenza dell’essere überhaupt, la ricezione d’orizzonte si rivela essere una modalità della ricezione non-objettiva il cui darsi accade sul fondamento di una ricezione originaria tuttavia presupposta 48 come già sempre data. L’e-sistenza si scopre in questo senso “finita”, conformemente al senso della costitutiva incapacità della ricezione d’orizzonte (realizzante la schiusura del Da-sein) di ricevere nella sua totalità l’atto della schiusura insieme con il suo “prodotto immaginativo”, ossia il solo orizzonte estatico dell’essere, in quanto “distinta” e “altra”, “separata” rispetto all’originaria trascendenza dell’essere. Come Henry stesso scrive, infatti: La finitezza dell’uomo: questa è l’evidenza di cui il pensiero che situa la verità nella spazialità dell’esteriorità pura si impossessa. Ma che cosa significa questa finitezza, più precisamente? Essere finito, per l’uomo che non reca più in sé il principio della fenomenicità, vuol dire essere separato dalla verità 49. Ciò che è decisivo a tal riguardo è il fatto che, in ragione della finitezza dell’e-sistenza e del senso della presupposizione costitutiva della ricezione d’orizzonte, lo svolgimento dell’analitica della ricettività condotta alla luce dei principî dell’alienazione e della parousia dell’essere ricavati a partire dall’interpretazione fenomenologica della Religions48 Cfr. ibid.: «La realtà della trascendenza non è […] definita dalla fenomenicità dell’orizzonte trascendentale dell’essere; semmai da questo è presupposta». In corsivo nel testo. 49 EM, p. 253 (trad. it. cit., p. 243). Corsivi di Michel Henry. Critica della trascendenza 197 lehre di Fichte conduce infine ad un vero e proprio “sdoppiamento” dell’ambito costitutivo della ricettività non-objettiva. Affermando l’irriducibilità della ricettività originaria al senso della ricezione d’orizzonte, ciò che entro questo nuovo inquadramento la tesi fenomenologica fondamentale del monismo ontologico sembra suggerire è in verità uno sdoppiamento delle realtà della trascendenza, individuando, da un lato, la realtà del puro trascendens (scil. la trascendenza dell’essere überhaupt) e, dall’altro, la realtà dell’esistenza (scil. la trascendenza del Dasein costituita um der Welt willen). Posta però questa distinzione, dimodoché nell’ambito dell’unica fenomenicità della trascendenza due siano le realizzazioni possibili conformemente all’eidos della distanza fenomenologica, il compito a cui l’analitica della ricettività si apre allora è quello di fornire una qualche chiarificazione circa il modo in cui tale ricettività determinante la possibilità stessa della trascendenza, in tutto e per tutto distinta dalla ricezione d’orizzonte, debba poter operare in quanto tale; giacché, come Henry stesso precisa, «ciò che necessita d’esser ricevuto non è originariamente ciò che è formato dall’atto immaginativo dell’essenza, quanto piuttosto ciò che rende possibile questa formazione, il potere immaginativo stesso, al suo fondo identico all’essenza»50. Appare chiaro che, in questa prospettiva del monismo ontologico, la direzione da seguire rinvia innanzitutto al presupposto dell’unicità della fenomenicità: poiché la trascendenza definisce l’unico modo di costituzione del fenomeno in generale, allora anche la ricettività realizzante l’apparire stesso della trascendenza deve necessariamente poter operare essa stessa conformemente a caratteri eidetici della distanza fenomenologica. Come però messo in evidenza dall’ermeneutica dell’alienazione 51, sostenere la tesi secondo cui la trascendenza deve poter realizzare il proprio mostrarsi e riceversi conformemente all’eidos della distanza fenomenologica non significa affatto che l’assimilazione della realtà del puro trascendens alla realtà dell’orizzonte trascendentale dell’essere, così tanto strenuamente difesa dal monismo in ragione della pura Nichtigkeit costitutiva di entrambe, rappresenti un’operazione ovvia e pacifica nella sua legittimità. Tutt’altro; giacché, anzi, a giudizio di Henry, è 50 51 EM, p. 256 (trad. it. cit., p. 246). In corsivo nel testo. Cfr. supra, Sez. II, Cap. II, § 20. 198 Roberto Formisano precisamente in merito a quest’assunto che è da riconoscersi l’aporia fondamentale del monismo. La realtà del puro trascendens va distinta della realtà fattiva del Dasein in ragione del fatto che – benché si presuma che entrambe rinviino alla medesima e unica fenomenicità, che è la trascendenza – la ricettività originaria non condivide il medesimo presupposto della ricezione d’orizzonte: essa non può presupporre, bensì necessariamente deve poter realizzare in se stessa la preliminare schiusura della trascendenza dell’essere. Entro questa prospettiva (certamente non più heideggeriana, e tuttavia pur sempre ancora monista), il carattere di presupposto che la realtà del puro trascendens svolge nei confronti della realtà fattiva dell’e-sistenza inerisce essenzialmente al fatto che, incapace di ricevere da sé l’atto fondante la possibilità della sua stessa schiusura, il fenomeno del Da-sein rinvia costitutivamente al darsi della verità dell’essere intesa quale modalità del mostrarsi capace di costituire di per se stessa, indipendentemente dai modi in cui essa può essere recepita e compresa um der Welt willen, il presupposto della sua stessa verità. Stando a questa ridefinizione della finitezza del Da-sein e del suo costitutivo carattere di presupposizione 52 , ciò a cui dunque la verifica critica henryenne co52 Concepita alla luce della distinzione tra i due tipi di trascendenza, dell’essere e dell’e-sistenza, il senso della presupposizione costitutiva della struttura d’essere del Da-sein è qui pensata in maniera radicalmente diversa rispetto a quanto indicato da Heidegger in Sein und Zeit (cfr. SZ, § 44.C, pp. 226-230, trad. it. a cura di F. Volpi, cit., pp. 273-277; trad. it. a cura di A. Marini, cit., pp. 642-653). In Heidegger, il senso della presupposizione d’essere è ricondotta essenzialmente al senso della strutturale appartenenza del Da-sein alla verità ontologica, in quanto momento costitutivo dell’eventuarsi dell’a-letheia. L’e-sistenza, heideggerianamente intesa, si svela “presupporre” l’essere in ragione della sua strutturale condivisione della medesima e unica essenza (scil. la temporalità estatica) del puro trascendens. Diversamente, nel contesto della “verifica” henryenne il senso della presupposizione d’essere è piuttosto ricondotto al fatto che, benché sia l’essere sia l’e-sistenza condividano la medesima e unica essenza della distanziazione estatica, la ricettività costitutiva di ciascuna realtà è pensata come essenzialmente irriducibile l’una all’altra. In particolare, la ricettività dell’essere è pensata nella sua realtà come del tutto indipendente rispetto ai modi in cui essa può effettivamente esser recepita – ovvero compresa – dall’e-sistenza um der Welt willen. La verità del puro trascendens è piuttosto concepita come lo schiudentesi antecedente l’apertura a sé dell’orizzonte trascendentale dell’essere nel modo del Da-sein. Conformemente al senso della parousia messo in chiaro dall’interpretazione fenomenologica della Religionslehre fichtiana, la verità ontologica precede la fatticità dell’e-sistenza come ciò che si presu- Critica della trascendenza 199 stringe quest’orientamento di pensiero è di dar prova, fenomenologicamente, della (sinora soltanto presunta) capacità della trascendenza di costituire in se stessa l’origine e la condizione ultima di possibilità della sua stessa schiusura 53. A differenza della realtà costituita dalla ricezione d’orizzonte, la realtà del puro trascendens si determina pertanto come non-finita 54, non sottoposta al preliminare mostrarsi di “precedenti” condizioni fenomenologiche distinte da sé e in qualche modo già date. Il suo presupposto è non-altro che, unicamente, essa stessa, cioè la sua stessa realtà. In ciò, d’altronde, è stato indicato il senso dell’“originarietà” della fenomenicità fondamentale: nella capacità di ricevere in se stessa l’atto della schiusura della trascendenza stessa prima (in senso non cronologico ma trascendentale) e indipendentemente dalla realizzazione fattiva della schiusura d’orizzonte. In ciò il monismo ontologico ha riconosciuto apertamente il carattere di autonomia [Selbständigkeit] della della fenomenicità originaria. Come Henry stesso precisa a tal proposito: Per la ricettività, concernere l’atto della trascendenza significa concernere, costituire e definire, non più la possibilità della ricezione dell’orizzonte che la trascendenza oppone a sé medesima ma, esattamente, la possibilità della ricezione [dell’atto schiudente] la trascendenza stessa. […] Ciò che infatti necessita d’esser originariamente ricevuto non è il prodotto dell’atto immaginativo dell’essenza, ma ciò che rende possibile questa produzione, ossia il potere immaginativo come tale, al suo fondo identico all’essenza 55. Riceversi, esser ricevuto, vuol dire, in generale, mostrarsi nel senso del realizzare il proprio apparire nel modo del sapersi in quanto tale. La schiusura ontologica, per poter pro-gettare [ent-werfen] l’orizzonte, deve poter innanzitutto costituirsi come tale, cioè mostrarsi/sapersi essa stessa. In ciò, precedentemente 56, è stato per l’appunto indicato il carattere di autonomia [Selbständigkeit] della struttura originaria, fichtianamente intesa come parousia della manifestatività originaria. Conformeme sia in grado di riceversi senza bisogno dell’opera della temporalità estatica, del suo potere di ricezione e di sintesi. 53 Cfr. EM, pp. 257-258 (trad. it. cit., p. 247). 54 Cfr. EM, p. 357 (trad. it. cit., p. 330): «Quando si tratta della realtà, non v’è finitezza». In corsivo nel testo. 55 EM, p. 256 (trad. it. cit., pp. 245-246). Corsivi di Michel Henry. 56 Cfr. supra, Sez. II, Cap. II, § 20. 200 Roberto Formisano mente a tale carattere, il come [Wie] della schiusura ontologica, vale a dire la trascendenza medesima, per potersi fregiare del titolo di “fenomenicità originaria” deve pertanto poter dimostrare di essere in grado di costituirsi in se stessa, senza il ricorso ad altro da sé, e quindi di riceversi indipendentemente dal presupposto della distanziazione dell’essere. In breve, ciò che il monismo si trova così a dover difendere è la tesi secondo cui: conformemente ai caratteri eidetici suoi propri, la trascendenza costituisce per sé, originariamente, una modalità della ricettività non-objettiva che, distinta rispetto alla ricezione d’orizzonte, è altresì in grado di garantire la (auto)ricezione della realtà del “puro transcendens”. In quanto, però, irriducibile al senso della ricezione d’orizzonte, ciò di cui il monismo ontologico è chiamato a fornire la dimostrazione fenomenologica è altresì la capacità della trascendenza di assicurarsi da sé la possibilità della sua stessa ricezione indipendentemente dalle condizioni sotto cui opera la ricettività (non-objettiva) costitutiva dell’e-sistenza estatica del Da-sein. Ricevere indipendentemente dalle condizioni e dai modi della comprensione esistenzial-ontologica costitutiva del Da-sein vuol dire ricevere in assenza della condizione ultima di possibilità della ricezione d’orizzonte, ovvero: ricevere in assenza della preliminare alienazione dell’essere. Ora, dal punto di vista del monismo ontologico, ammettere la possibilità per la ricettività originaria di operare la ricezione della trascendenza dell’essere anche in assenza della sua preliminare alienazione significa cadere nel cerchio un’evidente autocontraddizione, per la quale la realtà della trascendenza si rivelerebbe non esser costituita dalla trascendenza medesima 57. Saldamente fermo nel suo assunto fondamentale secondo cui solo nella trascendenza risiede l’unica fenomenicità possibile in generale, nel momento in cui, conformemente ai presupposti dell’alienazione e della parousia dell’essere, il monismo pone la domanda circa il modo in cui la trascendenza debba poter ricevere il suo stesso mostrarsi soddisfacendo la condizione essenziale di autonomia propria della fenomenicità originaria, esso scopre di trovarsi nell’imbarazzante necessità di dover ammettere che la ricezione originaria della trascendenza dell’essere, in quanto eideticamente irriducibile alla 57 Cfr. EM, pp. 258-259 (trad. it. cit., pp. 247-248). Critica della trascendenza 201 ricezione d’orizzonte, non è essa stessa subordinata all’eidos della trascendenza medesima. Ferma nella solida convinzione dell’unicità della trascendenza, la tesi fenomenologica fondamentale del monismo ontologico si scopre così esser affetta da un’esiziale aporia di fondo, così riassumibile: posto che, per il monismo, la trascendenza costituisca l’unica fenomenicità possibile in generale, ammettere che la ricettività originaria sia, nella sua possibilità, in grado di prescindere dall’eidos della distanza fenomenologica equivale ad ammettere che la possibilità del phainesthai della trascendenza rinvii necessariamente alla preliminare costituzione di una fenomenicità “altra” rispetto alla trascendenza, priva dei caratteri eidetici di quest’ultima 58. Sotto l’egida di quest’ammissione, l’aporia fondamentale del monismo ontologico si rivela essere non priva di pesanti implicazioni, di carattere sia metodologico che teorico. Dal punto di vista metodologico, fermo restando il principio generale del monismo circa l’unicità della trascendenza, nella misura in cui è accolta l’idea secondo cui la ricettività originaria debba poter operare anche in assenza della preliminare alienazione dell’essere – e si ammette, dunque, che tale ricettività possa non necessariamente appartenere all’ambito della trascendenza – questo tipo “ulteriore” di ricettività non-objettiva, a sua volta presupposta dalla trascendenza dell’essere epperò irriducibile al senso della ricezione d’orizzonte, si svela essere del tutto indeterminabile nel suo statuto fenomenologico, in quanto sostanzialmente “estranea” alla fenomenicità in funzione della quale il methodos stesso della riflessione fenomenologica che s’interroga di esso è stato sinora ricavato 59. Alla domanda: «Perché la problematica a cui la trascendenza fornisce l’idea di un fondamento si mostra tuttavia incapace di determinare l’essere di quest’ultimo?», Henry così risponde: Il fatto che la trascendenza non si mostri al pensiero che pensa la manifestazione come manifestazione dell’orizzonte significa che la trascendenza non si 58 59 Cfr. EM, pp. 277-278 (trad. it. cit., p. 263). Cfr. EM, pp. 244-245 (trad. it. cit., p. 235-236). 202 Roberto Formisano manifesta in quest’orizzonte. Il che significa: la trascendenza non si fenomenizza nel campo fenomenologico costituito dall’orizzonte 60. La fenomenicità originaria si svelerebbe essere per essenza inattingibile e inaccessibile al pensiero fenomenologico 61 in ragione di un’ulteriorità il cui senso permane peraltro determinabile solo “negativamente” e “per contrasto” rispetto ai caratteri eidetici del Worumwillen della ricezione d’orizzonte 62. Ben più gravi sarebbero però soprattutto le implicazioni teoriche di tale aporia. Se infatti, come il monismo pretende di poter sostenere in ragione del presupposto dell’unicità della fenomenicità, ogni fenomeno deve necessariamente appartenere alla fenomenicità della trascendenza per quel che concerne la sua possibilità ultima, il fatto che la possibilità stessa dell’apparire della trascendenza medesima si riveli per essenza irriducibile all’eidos della distanza fenomenologica starebbe a significare che la realtà del fondamento a partire da cui la trascendenza trae di fatto la propria origine non si costituisce essa stessa alla maniera di un fenomeno. Pensata come sussistente indipendentemente dall’eidos della trascendenza, la realtà del fondamento corre in effetti il rischio d’esser ricondotta a condizioni d’essere di tipo non-fenomenologico. Essa rischierebbe così d’esser scambiata o addirittura assimilata alla stregua d’una substantia che, senza bisogno di mostrarsi in quanto tale, e dunque priva della necessità stessa di sottoporsi all’essenza dell’unica fenomenicità possibile in generale, tuttavia già sempre “è” 63. Sviluppata nel60 p. 275 (trad. it. cit., p. 261). Cfr. EM, p. 276 (trad. it. cit., p. 262). 62 Cfr. EM, p. 275 (trad. it. cit., p. 261). 63 In ciò, peraltro, sarebbe da riconoscersi in realtà la motivazione fondamentale della tesi fenomenologica heideggeriana circa la “necessità” della riduzione della fenomenicità originaria (scil. la trascendenza) al senso della temporalità estatica. Giustamente, dal canto suo, Heidegger riconosceva tale necessità giacché, come appunto la “distruzione” henryenne del monismo conferma, al di fuori delle condizioni poste da siffatta riduzione e dal circolo ermeneutico che essa motiva, la tesi dell’originarietà della trascendenza si svela esser inevitabilmente condannata a tutta una serie di contraddizioni ed aporie invalidanti l’impostazione di fondo per qualsivoglia “idea” della filosofia prima motivata e orientata dall’eidos della pura estaticità. Viceversa, solo entro la cornice teorica del circolo ermeneutico il Vorurteil dell’originarietà della temporalità estatica può esser posto al sicuro e salvaguardato da ogni tentativo di “verifica”, in quanto in esso le condizioni stesse per una “distruzione” à la Henry 61 EM, Critica della trascendenza 203 le sue implicazioni recondite, la tesi fenomenologica fondamentale del monismo ontologico vedrebbe così messo in discussione il principio stesso di ogni pensiero fenomenologico, vale a dire la tesi della strutturale coappartenenza di essere e apparire 64. Che la ricettività realizzante la schiusura della trascendenza dell’essere possa operare indipendentemente dalla ricezione d’orizzonte vuol dire infatti che il modo in cui la trascendenza deve poter realizzare il proprio mostrarsi non appartiene alla trascendenza medesima. Come Henry stesso scrive a tal riguardo: Che la realtà della trascendenza non consista nell’ambito dischiuso dall’esteriorità pura significa che a fenomenizzarsi originariamente in siffatto ambito, come costituente la sua stessa fenomenicità, non è la trascendenza. Questo vuol dire che l’originario apparire della trascendenza non consiste nel mostrarsi dell’orizzonte trascendentale dell’essere. Ciò significa, infine, che il “come” che rende possibile la ricettività della trascendenza e costituisce così il suo mostrarsi, non è il “come” che rende possibile la ricettività dell’orizzonte dell’essere e costituisce il mostrarsi di questo stesso orizzonte. Il “come” che rende possibile la ricettività dell’orizzonte è tuttavia la trascendenza stessa. Che il “come” che rende possibile la ricettività della trascendenza, cioè il suo mostrarsi, non sia il “come” che rende possibile la ricettività dell’orizzonte, cioè il mostrarsi di tale orizzonte, significa che non è la trascendenza ad assicurare a sé la possibilità della sua stessa ricettività. L’originario mostrarsi della trascendenza non è opera della trascendenza medesima 65. delle tesi fenomenologiche fondamentali del monismo sono rese di fatto inaccessibili e rimosse. 64 Questo, d’altronde, a giudizio di Henry, costituisce altresì il motivo principale per cui il monismo ontologico si rivela esser di fatto “costretto” alla contraddizione dell’assimilazione o identificazione di ciò che la distinzione tra ricettività originaria e ricezione d’orizzonte ha rischiarato essere per essenza irriducibile, vale a dire lo “sdoppiamento” della realtà della trascendenza dell’essere e quella del Da-sein. Come Henry stesso scrive, infatti: «Determinare l’essere peculiare del fondamento equivale a mettere in luce il modo originario di rivelazione della trascendenza stessa. Poiché però la problematica non dispone dell’idea di questo modo di rivelazione peculiare e originario, essa non può determinare altrimenti l’essere della trascendenza che assegnando a quest’ultima lo statuto fenomenologico dell’orizzonte. La povertà di mezzi spinge la problematica che aderisce ai presupposti ontologici del monismo a identificare con l’essenza gli elementi strutturali da questa distinti» (EM, p. 274, trad. it. cit., p. 260). Corsivi di Michel Henry. 65 EM, pp. 258-259 (trad. it. cit., pp. 247-248). Corsivi di Michel Henry. 204 Roberto Formisano Posto che, per essenza, al fine di costituirsi in quanto tale, la trascendenza necessiti di rinviare al preliminare dispiegamento di condizioni in qualche modo già date, già costituite in vista della ricezione d’orizzonte vuol dire che non è nel modo della distanza fenomenologica che l’atto operante la schiusura estatica del puro trascendens realizza il suo stesso apparire. Contrariamente a quanto sinora strenuamente affermato dal monismo, la trascendenza si rivela essere per nulla affatto “fenomenicità originaria”, quanto piuttosto una fenomenicità costitutivamente limitata, affetta dall’incapacità di ricevere la sua propria realtà nell’atto stesso del suo mostrarsi. Il paradosso per mezzo del quale la “distruzione” del monismo ontologico giunge all’apice della sua parabola sta tutto nello scoprimento della necessità eidetica secondo la quale, conformemente alla tesi dell’indipendenza della comprensione ontologica rispetto alla comprensione esistentiva 66, è per principio 67 esclusa la possibilità stessa che la 66 In merito a questo criterio, cfr. supra, Sez. II, Cap. II, § 18. Questo, in ragione della differenziazione che, costitutivamente, l’eidos della distanza fenomenologica esige ed implica tra l’atto della schiusura e la sua realizzazione estatico-orizzontale. Il senso di questa differenziazione rinvia al problema fenomenologico relativo al rapporto fra ciò che, in generale, è la struttura del fenomeno (vale a dire il suo modo di costituzione), e la realtà di quest’ultimo, intesa come ciò che siffatto modo rende possibile (su questa distinzione, cfr. supra, Introd., § 2). Lo snodo decisivo di questo problema pertiene al fatto che, per costituirsi come tale (cioè come condizione di possibilità per la realizzazione del fenomeno), la struttura deve poter essa stessa apparire, realizzarsi, esser ricevuta in quanto fenomeno. Distinta dalla realtà che essa rende possibile, anche la sola struttura del fenomeno deve poter disporre di una sua propria realtà. Ciò che però, conformemente all’eidos della distanza fenomenologica, la distinzione tra struttura e realtà del fenomeno pone in risalto è il fatto che, poiché è in quanto distinta secondo il medesimo e unico eidos della distanza fenomenologica che la realtà del fenomeno trascendente è resa possibile dalla struttura di quest’ultimo, le due realtà (del fenomeno costituito e della struttura costituente) si determinano per essenza irriducibilmente diverse tra loro. Così, ad esempio, come la realtà (objettiva) della manifestazione ontica è distinta rispetto alla realtà (non-objettiva) dell’orizzonte che ne rende possibile il mostrarsi, allo stesso modo anche la realtà di tale orizzonte (che è poi la realtà fattiva dell’esserci comprendente), in quanto sempre anch’essa subordinata all’eidos della distanziazione, è da distinguersi rispetto alla realtà della struttura che rende possibile la sua schiusura. Nella misura in cui però – come il monismo pretende che sia, sulla base dei suoi presupposti ontologici – anche la realtà del puro trascendens fondante la possibilità della schiusura del Da-sein si trova ri(con)dotta e subordinata al “dominio” della distanza fenomenologica, ecco che, necessariamente, la realtà della struttura del puro trascendens si scopre anch’essa esser determinata come “altra” rispetto alla realtà effettiva della trascendenza originaria. 67 Critica della trascendenza 205 trascendenza possa costituirsi e riceversi nel modo della trascendenza medesima. Il fatto che la trascendenza non opera della trascendenza stessa – scrive Henry – chiarisce il paradosso in cui la problematica si smarrisce nel momento in cui non è in grado di assegnare alcun fondamento all’idea di fondamento su cui essa pretende di potersi fondare. A restare senza fondamento, però, non è soltanto quest’idea del fondamento, bensì il fondamento stesso come tale. L’incapacità della problematica nel determinare l’essere del fondamento nella sua realtà deriva dall’incapacità del [preteso] fondamento a prodursi in e per se stesso nella dimensione effettiva della fenomenicità. Quest’incapacità del fondamento di prodursi in e per se stesso nella dimensione effettiva della fenomenicità è esattamente l’incapacità della trascendenza di assicurarsi da sé [la possibilità] del proprio mostrarsi 68. Al fine di evitare nuove ricadute nel sostanzialismo tipico del realismo ingenuo 69, l’analisi della ricettività costitutiva della trascendenza spinge indubbiamente, in maniera sempre più insistente, verso la necessità del riconoscimento dell’esistenza di una fenomenicità “altra”, per essenza distinta dalla trascendenza nell stesso modo in cui la ricettività originaria esige d’esser tenuta distinta rispetto alla ricezione estatica d’orizzonte. Rispondere a quest’esigenza significa tuttavia spingersi ormai inequivocabilmente verso il definitivo superamento dei presupposti monisti dell’unicità della fenomenicità e dell’omogeneità dell’essere. Come Henry stesso scrive in L’essence de la manifestation: La messa in chiaro dell’incapacità della trascendenza di assicurarsi da sé la possibilità del suo proprio apparire equivale alla messa in questione dei presupposti ontologici del monismo. Con l’evidenza di questa incapacità emerge infatti l’impossibilità per la trascendenza di fondarsi da sé e di costituire così l’essenza di un fondamento. Nell’impossibilità, per la trascendenza, di costituire l’essenza di un fondamento consiste “l’astrattezza” dell’essenza della manifestazione, così com’essa emerge alla luce dei presupposti ontologici del monismo. L’astrattezza di ciò che, alla luce di siffatti presupposti, si dà come essenza e come fondamento spiega lo scacco a cui la problematica è destinata, 68 69 Cfr. EM, pp. 276-277 (trad. it. cit., pp. 262). Corsivi di Michel Henry. Cfr. supra, Introd., § 2. 206 Roberto Formisano nel suo tentativo di determinare l’essere di tale fondamento e di afferrare, nella sua stessa realtà, la condizione più ultima della manifestazione 70. Quel che si rende dunque necessario, ora, alla luce dello scoprimento dell’incoerenza interna alla tesi fenomenologica fondamentale del monismo, è fornire un inquadramento del problema relativo all’origine della trascendenza che sia in grado di porre “fuori circuito” i presupposti della distanza fenomenologica e dell’alienazione dell’essere dimodoché, nel suo methodos, esso possa lasciarsi guidare unicamente “dalla cosa stessa” – vale a dire dal fondamento dell’essere, considerato innanzitutto alla luce dell’autonomia [Selbständigkeit] necessariamente costitutiva della sua realtà. Ciò che, in tal senso, è pertanto richiesto è l’elaborazione radicale di una “fenomenologia del fondamento” 71, una ulteriore e “nuova” – non heideggeriana ma neppure monista – impostazione metodologica, all’interno della quale il problema riduzione della relazione fenome-nologica fondamentale dell’essere, dell’apparire e del sapere, non sia più indotto a lasciarsi guidare dal methodos della sola trascendenza. Come infatti è emerso, tale riduzione trova la sua motivazione determinante unicamente sotto l’egida del presupposto monista dell’unicità della fenomenicità e della costitutiva trascendenza dell’essere überhaupt. Ciò che dunque è importante riconoscere nella “distruzione” del monismo ontologico operata da Michel Henry è il fatto che essa non semplicemente ha portato al definitivo smascheramento delle aporie del monismo e dei mezzi ai quali quest’ultimo ha potuto ricorrere in vista del loro occultamento. Ciò che, anzi, proprio in ragione della radicalità per mezzo della quale siffatto smascheramento è stato operato, Henry ha mostrato e così “distrutto” riguarda essenzialmente l’impostazione di metodo su cui la fenomenologia storica ha sinora creduto di poter fare ciecamente affidamento. In altri termini, ciò verso cui la “distruzione” del monismo ontologico conduce non è soltanto l’elaborazione di una versione “nuova” della relazione fenomenologica fondamentale tra essere, apparire e sapere (alternativa, ad esempio, a quella 70 p. 259 (trad. it. cit., p. 248). Corsivi di Michel Henry. Giacché, come Henry stesso precisa a tal riguardo, «con la fenomenologia del fondamento, la “Selbständigkeit” dell’essenza è tutt’altro che un presupposto; essa è ciò che mostra se stessa nella sua stessa possibilità» (EM, p. 270, trad. it. cit., p. 257). In corsivo nel testo. 71 EM, Critica della trascendenza 207 fornita da Heidegger, nel senso della Gleichursprünglichkeit di essere e comprensione d’essere in seno alla manifestatività originaria), ma la necessità di ripensare sin nelle sue assunzioni più profonde e ultime, quasi in un movimento di “ricapitolazione” generale, il problema della filosofia prima e della legittimità del suo domandare. Se, come l’analisi della “fenomenologia storica” ha chiarito, è sulla base delle (preliminari) interpretazioni della trascendenza che la fenomenologia ha sinora preteso di motivare la propria impostazione metodologica di fondo, con la critica al monismo ontologico lo sforzo a cui Henry richiama perentoriamente la fenomenologia è di radicalizzare ulteriormente la sua propria, costitutiva, natura riflessiva. Ad essere in discussione, ora, sul piano strettamente metodologico, è lo statuto della riflessione stessa della fenomenologia. Pensata e “modellata” in funzione della (unilaterale) ri(con)duzione della struttura della coscienza alla sola fenomenicità della trascendenza, tale impostazione è stata sinora legittimata essenzialmente in ragione della presunta omogeneità di tale struttura rispetto al modo di costituzione del fenomeno originario come tale. Posto “fuori circuito” il presupposto dell’omogeneità dell’essere, le “parzialità” a cui questo costringeva il modo di concepire il senso e le possibilità della fenomenologia medesima appaiono, ora, piuttosto come un ostacolo da superare e un impedimento di cui liberarsi in maniera definitiva. Per poter fornire un nuovo inquadramento al nodo fondamentale della costitutiva relazione tra essere, apparire e sapere, ciò che si rende necessario, innanzitutto, è allora l’impostazione della questione fenomenologica fondamentale in aderenza non più soltanto alla struttura nonobjettiva della comprensione d’essere concepita come tale, bensì conformemente al criterio essenziale di quella struttura che, non-objettiva ma altresì indipendente rispetto alla ricezione d’orizzonte, costituisce la possibilità ultima della costitutiva co-appartenenza di essere e comprensione d’essere trova fondamento. Il methodos della ricerca fenomenologica deve poter essere cercato non più soltanto nel logos della trascendenza (che, si è visto, sulla scorta di Heidegger, Henry fa risalire sino alle origini del pensiero occidentale) ma piuttosto nel logos costitutivo dell’irriducibile ulteriorità di questa fenomenicità indipendente e “altra” rispetto all’eidos dell’estaticità. Con la messa in luce dell’insufficienza e della non-autonomia della trascendenza e dunque con il rinvio ad una struttura fenomenologica ul- 208 Roberto Formisano teriore ma eideticamente distinta rispetto alla trascendenza medesima ed alla costitutiva estaticità di quest’ultima, la “distruzione” del monismo ontologico conduce all’apertura di un campo d’indagine apparentemente ancora inesplorato, centrato sul riconoscimento dell’esistenza d’una dimensione fenomenologica non-trascendente che, irriducibile al senso della sostanzialità che il realismo ingenuo riconosce agli enti, appare ancora sconosciuta ed ignota al pensiero filosofico come tale. SEZIONE TERZA I FONDAMENTI DELLA PROPOSTA FILOSOFICA DI MICHEL HENRY La chiarificazione della Unselbständigkeit della trascendenza – l’incapacità di garantire per sé, insieme con la ricezione d’orizzonte, la ricezione dell’atto della sua stessa schiusura – svela innanzitutto la nonappartenenza dell’estaticità in seno al processo di realizzazione fenomenologica effettiva dell’apparire originario. L’esclusione dell’estaticità dalla struttura e dalla realtà propria dell’apparire originario non significa, tuttavia, la negazione della trascendenza come tale, ovvero la negazione del suo carattere di “fenomenicità”. Ad esser propriamente confutata è piuttosto la tesi secondo cui questo modo di dispiegamento dell’essenza individui il modo – in quanto unico possibile in generale – di costituzione dell’apparire originario. Ciò che dunque l’esclusione dell’estaticità intende affermare è piuttosto l’esistenza di una modalità “altra” dell’apparire che, irriducibile alla trascendenza, costituisce l’essenza stessa dell’apparire di quest’ultima – un’essenza che, priva dei caratteri eidetici propri dell’estaticità, si rivela pertanto capace di realizzarsi in piena autonomia, indipendentemente da ogni possibile distanziazione, differenziazione interna o mediazione. Come Henry stesso scrive, conseguentemente ai risultati ottenuti dalla critica della trascendenza: Così la problematica si trova in presenza di una duplice evidenza, seguendo la quale appare che, da un lato, la fenomenicità si fenomenizza originariamente in una sfera nella quale ogni trascendenza è assente e, dall’altro, la trascendenza medesima si fenomenizza e trova la propria realtà nella realtà fenome- 210 Roberto Formisano nologica effettiva di questa sfera priva di trascendenza. La realtà della trascendenza consiste in un’essenza che non si trascende 1. L’affermazione dell’“assenza di estaticità” in seno all’apparire originario sollecita innanzitutto l’elaborazione di una distinzione in seno al concetto generale di “fenomenicità” [phénoménalité] fra ciò che è genericamente “trascendentale” e ciò che è “originario” in senso proprio. Il carattere “trascendentale” della fenomenicità, considerata nella genericità del suo concetto, pertiene innanzitutto al suo statuto di “condizione di possibilità” per l’apparire del fenomeno ordinario. Così, ad esempio, la schiusura estatica d’orizzonte è detta “trascendentale” in quanto “condizione di possibilità” per quel tipo d’apparire (i.e. la manifestazione ontica) la cui realizzazione presuppone l’alienazione della sua struttura fenomenologica. D’altro canto, l’apparire stesso dell’estaticità si è rivelato non sottostare esso stesso a questo tipo di condizioni. Benché realizzantesi nella forma dell’alienazione dell’essere, l’apparire dell’estaticità non ne costituisce altresì le condizioni di possibilità. Il che altro non vuol dire se non il fatto che, per quanto “condizione di possibilità” per l’apparire ontico, la trascendenza non costituisce in definitiva l’essenza del suo stesso apparire. Poiché è eideticamente escluso che possa trovar dispiegate nell’orizzonte (che pur essa realizza) le condizioni di possibilità del proprio phainesthai, si può dire che, a titolo di “fenomenicità”, la trascendenza individua soltanto una sorta di “fundamentum lato sensu”, vale a dire un “fondamento non-autonomo”, un modo trascendentale dell’apparire concepito come tale, tuttavia incapace di fondare da sé il suo stesso mostrarsi. Il motivo per cui la trascendenza non può costituire per sé il suo proprio fondamento è stato chiarito dall’analisi della ricettività. La trascendenza, infatti, realizza il proprio mostrarsi in maniera tale per cui la ricettività che le è propria si dà sempre e solo in quanto ricezione del “prodotto” della schiusura e non anche come ricezione dell’atto che pone-innanzi e istituisce la schiusura stessa in quanto tale. Alla luce di siffatte insufficienze strutturali della fenomenicità della trascendenza, la nozione di “assenza di estaticità” interviene rinviando ad una modalità “altra” dell’apparire la quale, proprio perché libera dalla necessità di 1 EM, p. 332 (trad. it. cit., p. 308). I fondamenti della proposta filosofica di Michel Henry 211 differenziarsi all’interno della propria struttura, si rivela essere in grado di riceversi nell’atto stesso del suo darsi. In questa modalità di ricezione che determina propriamente l’autonomia dell’atto che fonda la possibilità della schiusura estatica d’orizzonte è infine da riconoscersi il carattere di “fundamentum stricto sensu” per questo tipo di fenomenicità in quanto, insieme, fondamento per il suo stesso apparire e, altresì, fondamento per l’apparire della trascendenza 2. Riferita dunque al fondamento inteso stricto sensu, l’“assenza di estaticità”, o più semplicemente “non-estaticità”, definisce propriamente il modo di costituzione in cui, ricevendosi nell’atto stesso del suo darsi, l’apparire originario realizza il proprio mostrarsi rivelandosi a se stesso in sé. Esclusa la possibilità della distanziazione, la realizzazione del mostrarsi originario si rivela non potersi compiere altrimenti se non alla maniera d’una relazione a sé radicalmente immanente. 2 In questo senso è peraltro da intendersi l’affermazione henryenne, citata in precedenza, secondo cui: «La realtà della trascendenza consiste nell’essenza che non trascende stessa» (Ibid.). Tale rapporto di fondazione, per cui l’apparire della trascendenza – fondamento per la manifestazione ontica – rinvia ad un apparire “originario”, capace di rassicurarsi da sé, in se stesso, la possibilità della sua stessa ricezione, può essere in alternativa caratterizzato anche nei modi indicati da Husserl nella terza delle Ricerche logiche. Ragionando sulla teoria dell’insieme e delle parti, Husserl introduce la nozione di “parte non-indipendente” che ben rappresenta la condizione propria della trascendenza, ossia la sua non-autonomia fenomenologica (cfr. E. Husserl, Logische Untersuchungen, cit., vol. II, pp. 225-293; trad. it. cit., pp. 17-84). La Unselbständigkeit della trascendenza afferma infatti l’impossibilità per quest’ultima di costituire per sé un “intero” autonomo. La trascendenza individua semmai soltanto una parte non-indipendente di un intero. Essa dipende da qualcos’altro – un “intero” – di cui è soltanto una parte (“non-indipendente”, in quanto la possibilità stessa del darsi della trascendenza riposa sull’effettivo mostrarsi di quest’intero; sì che, tolto l’intero, è tolta la trascendenza medesima). Siffatto intero definisce il vasto campo trascendentale della fenomenicità in generale, ovvero l’ambito della “fenomenicità non-objettiva”, che la critica al monismo ontologico ha mostrato esser irriducibile alla sola estaticità. Ebbene, la Unselbständigkeit della trascendenza ed il necessario rimando che essa implica ad una fenomenicità non-estatica danno luogo ad un rapporto di fondazione di tipo univoco, e non bi-univoco, nel senso che: dato l’intero della non-objettità, di quest’intero solo la trascendenza costituisce una parte non-indipendente. Viceversa, data la costitutiva capacità di auto-ricezione della fenomenicità non-estatica (ciò che, a rigore, consente di qualificarla come modus originarius dell’apparire), quest’ultima si determina piuttosto quale parte indipendente dell’intero: per costituirsi in quanto tale, la fenomenicità non-estatica non necessita di alcun apporto né della trascendenza né dell’intero di cui essa, fondando la trascendenza è parte. La chiarificazione fenomenologica del senso di siffatta univocità si trova ulteriormente sviluppata nel corso della presente sezione. 212 Roberto Formisano Se nella prospettiva del monismo la possibilità del rapportarsi-a-sé rinviava essenzialmente al Worumwillen del mondo, ora, nella prospettiva più propriamente henryenne, rischiarata alla luce del criterio dell’“assenza di estaticità”, tale possibilità è ricondotta ad una modalità del mostrarsi determinata come realizzantesi indipendentemente da quell’orizzonte che è la trascendenza, in grazia del quale il senso del fenomeno non può esser interrogato e problematizzato se non in funzione della sua capacità di rendersi in qualche modo visibile. A questo modo d’apparire che realizza il proprio mostrarsi indipendentemente dall’orizzonte trascendentale della visibilità, Henry dà il nome di “vita”. Per Henry, dunque, anche la vita è fenomeno. A differenza di Fichte – il quale pure chiamava “vita” l’originaria dinamica ek-statica di “divisione” e “riunificazione” dell’apparire dell’essere nel sapere (Vorstellung) – la fenomenicità della vita è però intesa da Henry come quella modalità d’apparire costitutivamente impossibilitata a mostrarsi differenziando se stessa e ponendosi-a-distanza. Non-estatica, la vita non solo non può darsi come “oggetto” di qualche visione, ma neppure alla maniera stessa d’una qualche visione non-objettiva. La vita prescinde, non solo dalla rappresentabilità, bensì dalla visibilità in genere, in qualunque modo possa esser modulata o concepita. Il modo originario di mostrarsi della vita consiste piuttosto in un puro provarsi. La fenomenicità della vita appartiene piuttosto alla sfera dell’affettività, del sentire. Sì che la fenomenizzazione della vita non accade alla maniera d’una sua pro-jezione, bensì in un puro s’èprouver soi-même. La vita non vede se stessa, bensì si sente. Essa non è se non quest’atto stesso del suo sentirsi. Il senso del mostrarsi proprio della vita consiste tutto, esattamente, in un sapersi di tipo non rappresentativo, ma essenzialmente affettivo. La realtà in cui essa si mostra ed il modo in cui essa sa se stessa non sono altro che, unicamente, il suo stesso sentirsi, la sua auto-affezione intesa però, questa volta, in senso rigorosamente non-estatico, come puro ed immediato sentimento di sé. La chiarificazione del significato fenomenologico di siffatta enucleazione della fenomenicità della vita e delle implicazioni essenziali è l’obiettivo principale di questa terza e ultima sezione. Capitolo I Dell’immanenza 24. La non-estaticità ed il ritorno alla questione dell’ipseità Sul piano teoretico, la determinazione della Unselbständigkeit della trascendenza è conseguente alla distinzione dei due diversi ordini di ricettività messa in luce dall’esame della tesi fenomenologica fondamentale del monismo, ovvero la determinazione di due modi di realizzazione del mostrarsi (non-objettivo) considerato in quanto tale. Come Henry stesso precisa a tal riguardo: Ciò che in effetti differisce in ciascuno dei due casi non è soltanto la realtà che si tratta di ricevere ogni volta ma, più essenzialmente, il modo di ricezione di questa realtà considerato in se stesso. […] Proprio perché il modo secondo cui originariamente si compie la loro ricezione non è il medesimo, la trascendenza e l’orizzonte sono realtà ontologicamente differenti. Il modo secondo il quale si compie la ricezione d’orizzonte è la trascendenza. […] Come però ha mostrato la problematica della ricettività, il modo secondo cui si compie la ricezione d’orizzonte non è quello fondante la ricettività della trascendenza stessa 1. Come la “distruzione” del monismo ontologico ha però chiarito, conformemente a questa distinzione della ricettività la riflessione fenomenologica intenta a determinare l’origine dell’essere si trova altresì nella necessità di stabilire per sé un nuovo inquadramento per il problema della fenomenicità. Sì che, muovendo dallo scoprimento delle insufficienze costitutive della trascendenza, si tratta ora, giunti sino a questa soglia, di procedere nella determinazione del methodos in forza del 1 EM, p. 280 (trad. it. cit., pp. 265-266). Corsivi di Michel Henry. 214 Roberto Formisano quale re-impostare la domanda circa l’apparire originario. Scrive infatti ancora Henry: La comprensione dell’impossibilità [della trascendenza] a dare un contenuto all’idea […] della struttura formale dell’autonomia pone la problematica che mira all’essenza del fenomeno dinnanzi alla povertà di mezzi di cui essa dispone, dinnanzi all’insicurezza e all’indeterminatezza degli orizzonti ontologici che le sono propri. […] La comprensione, nella sua origine e nella sua motivazione ontologica profonda, dello scacco nel quale viene a trovarsi la problematica nel momento in cui pretende si afferrare nella sua realtà l’essere del fondamento, reca in sé degli elementi che ineriscono ad una determinazione positiva di questa realtà; come tale, essa ha già un significato positivo 2. La prima traccia da seguire per cogliere tale significato “positivo” della difficoltà metodologica scaturente dalla “distruzione” del monismo rinvia ancora una volta, nuovamente, alla nozione di parousia, vale a dire alla determinazione del senso dell’autonomia [Selbständigkeit] costitutiva di quella fenomenicità che, “libera” dalla necessità eidetica di porsi-a-distanza, è perciò in grado di riceversi nell’atto stesso del suo mostrarsi. La parousia necessita infatti d’esser pensata, ora, non più alla luce dell’alienazione dell’essere, bensì esattamente in conformità al senso dell’indipendenza dalla trascendenza. Scrive infatti Henry: Il motivo per cui l’essere del fondamento sfugge alla problematica che interpreta questo fondamento come trascendenza sta nel fatto che la manifestazione della trascendenza non è opera della trascendenza medesima. […] Operare, per la trascendenza, significa aprire un orizzonte. La sua opera consiste nella formazione fenomenologica dell’orizzonte trascendentale dell’essere nell’atto creatore dell’esteriorità. Per un fenomeno, pertanto, non esser opera della trascendenza significa sorgere e compiersi indipendentemente dal movimento attraverso cui l’essenza si pro-getta e si slancia in avanti sotto forma di orizzonte. Non essere opera della trascendenza significa sorgere, compiersi e mantenersi [presso sé], indipendentemente dal processo ontologico di objettivazione, ossia esattamente in assenza di ogni trascendenza 3. E precisa, poi: 2 3 EM, EM, p. 278 (trad. it. cit., p. 264). p. 279 (trad. it. cit., pp. 264-265). Corsivi di Michel Henry. 215 Dell’immanenza Che un apparire – il mostrarsi dell’essenza compresa come trascendenza – si produca in assenza di ogni trascendenza vuol dunque dire che: l’atto che si rivela indipendentemente dal suo proprio slancio in avanti, indipendentemente dal movimento per mezzo del quale si pro-getta fuori di sé, si rivela in se stesso in maniera tale per cui tale “in se stesso” sta a significare: senza oltrepassarsi, senza uscir fuori di sé 4. La parousia determina l’essenza di quella fenomenicità che, proprio perché indipendente, e cioè priva di estaticità, può meritare l’appellativo di “originario” [modus originarius]. La trascendenza, al contrario, determinata nella sua essenza dall’incapacità di riceversi come tale, è pertanto da caratterizzarsi piuttosto nel senso di un modus derivativus della fenomenicità. a) L’assenza di ek-stasis Posta entro il dominio della distanza fenomenologica, la ricezione della trascendenza accade in maniera tale per cui la realtà che essa riceve non è l’atto della schiusura estatico-orizzontale come tale. Ciò che è ricevuto in essa non può essere identico alla sua stessa struttura ma, differente per essenza, è limitata alla ricezione del solo “prodotto” dell’atto immaginativo 5, vale a dire l’orizzonte temporalmente finito della verità estatica in quanto alienazione dell’essere. Ricettiva nei confronti non dell’atto che opera la schiusura ma soltanto dell’apertura che essa rende possibile, la trascendenza ha in tal senso rivelato il carattere derivativo della struttura della pura estaticità per il fatto che, compresa nella purezza del suo significato ontologico, «lungi dall’implicare la sua identità ontologica con l’essenza, il carattere ontologicamente puro dell’orizzonte lo indica soltanto come ciò che è creato da esso»6. Costitutivamente, infatti, conformemente al logos della trascendenza, la realizzazione della schiusura estatico-orizzontale non può che compiersi sempre e solo in quanto ricezione d’orizzonte. 4 Ibid. (trad. it. cit., p. 265). Corsivi di Michel Henry. Cfr. EM, p. 296 (trad. it. cit., p. 279): «L’orizzonte trascendentale dell’essere non è l’essenza, ma il prodotto della sua immaginazione». 6 Ibid. In corsivo nel testo. 5 216 Roberto Formisano Dall’incapacità della trascendenza di riceversi come tale si ricava l’indicazione generale secondo cui un intero ambito della ricettività non-objettiva e del mostrarsi ad esso correlativo sfugge al dominio della pura estaticità. Quanto è emerso dalla “distruzione del monismo ontologico” è infatti che ciò che si dà come “non-objettivo” non necessariamente appartiene all’orizzonte del dis-velamento estatico. Il senso del fenomeno non-objettivo si è così rivelato “eccedere” il senso della trascendenza 7. Come Henry stesso scrive a tal proposito: «La trascendenza non è ciò che essa è, consegnata a se stessa, in base alla sua essenza […]; la trascendenza, al contrario, è ciò che essa è in quanto determinata indipendentemente da essa»8. Che la trascendenza si dia in quanto determinata nella sua essenza indipendentemente dalla trascendenza medesima, significa che all’ambito della non-objettità appartiene altresì una modalità di ricezione capace di realizzare quanto alla ricezione d’orizzonte è per essenza impedito di compiere: la ricezione della totalità della fenomenicità nell’atto stesso del mostrarsi di questa. Nucleo di fondo di questa concettualizzazione “ulteriore” della nonobjettità, in quanto “eccedente” l’estaticità medesima, è appunto il rilievo dell’indipendenza di questo tipo di ricettività non-objettiva rispetto alla trascendenza ed alle sue prescrizioni eidetiche, ovvero la capacità per questo tipo di fenomenicità di realizzare il proprio mostrarsi in una condizione di assoluta e totale “assenza di ek-stasis”: Il modo originario della ricettività è l’atto che coglie il suo contenuto senza muoversi né oltrepassarsi verso esso, dimodoché la realtà ontologica costituita da siffatto contenuto puro non sia in alcun modo trascendente e non si trovi posto-innanzi alla maniera di un orizzonte 9. La determinazione dell’assenza di ek-stasis non costituisce tuttavia neppur essa una descrizione semplicemente “in negativo” della dimensione originaria del mostrarsi. In quanto eccedente la trascendenza, l’assenza di ek-stasis costituisce tanto poco una mera “alternativa” alla 7 In ciò, d’altronde era stata pure riconosciuta l’unilateralità del monismo ontologico, per il quale “non-objettivo” era sinonimo di “estatico”. 8 EM, p. 428 (trad. it. cit., p. 389). In corsivo nel testo. 9 EM, p. 281 (trad. it. cit., p. 266). In corsivo nel testo. Dell’immanenza 217 schiusura d’orizzonte, da individuarne piuttosto l’essenziale condizione di possibilità10. La “necessità” dell’assenza di ek-stasis nella realizzazione del fenomeno capace di riceversi nell’atto stesso del suo mostrarsi, nell’assoluta mancanza del bisogno di “oltrepassare”, “pro-gettare”, “differenziarsi” in un puro “fuori” [non-ente, Nichts], non ha alcun carattere postulatorio 11. Essa non è frutto di una deduzione logica, né tantomeno di una posizione meramente “teorica”. O meglio: il senso della tesi dell’assenza di ek-stasis come necessaria condizione di possibilità della trascendenza potrà apparire astratto solo fintantoché il senso stesso dell’indipendenza della ricettività originaria sarà considerato in maniera estrinseca e, conformemente al modus operandi della trascendenza, a partire dal confronto con la ricezione d’orizzonte – ovvero solo fintantoché il senso d’essere dell’autonomia della fenomenicità originaria sarà commisurato e pensato in rapporto al senso d’essere di ciò che in essa trae il proprio fondamento 12. Ma appunto questo è quanto, considerato sul piano metodologico, la “distruzione” del monismo ontologico ha richiesto che fosse superato. La scoperta della Unselbständigkeit della trascendenza, ha mostrato la peculiare unilateralità metodologica del monismo nel fatto che esso ha “appiattito” il senso della non-objettità sulla sola estaticità ed ha assunto questa come criterio ermeneutico per la determinazione del senso relativo alla costitutiva autonomia del fenomeno originario. Per queste ragioni, pur giungendo alla determinazione del carattere ontologico “puro” di tale struttura, il monismo si è svelato esser incapace di render conto, con altrettanta purezza, della ricezionedi-sé costituente la realtà dell’originario. Viceversa, ciò a cui i risultati della “distruzione” del monismo ontologico richiamano, al fine di chiarire il senso originario (distinto da quello “derivato”) della non-objettità, è innanzitutto la necessità di pensare siffatto senso conformemente al peculiare modo di prodursi della ricettività non-estatica. 10 Cfr. EM, pp. 271-272 (trad. it. cit., p. 258). Cfr. EM, p. 311 (trad. it. cit., p. 291). 12 Cfr. EM, p. 320 (trad. it. cit., p. 298): «La comprensione della trascendenza a partire dall’oltrepassamento dell’ente nel mondo ha […] per effetto soltanto quello di lasciare sotto silenzio ciò che costituisce la struttura interna della trascendenza stessa, la sua essenza e la sua possibilità». 11 218 Roberto Formisano Ricevendosi nell’atto stesso del suo costituirsi in quanto fenomeno non-objettivo, la fenomenicità originaria rivela in sé la ratio del suo mostrarsi: non “fuori”, né in grazia di un qualche “slancio estatico” – bensì esattamente nell’immediata identità dell’atto e della ricezione del suo mostrarsi, in quanto priva della possibilità stessa d’una loro differenziazione interna. In questo senso scrive Henry: «La possibilità per l’essenza di riceversi essa stessa risiede nell’essenza originaria della ricettività, nell’essenza d’una ricettività la cui peculiarità è di ricevere se medesima»13. Conformemente al proprio concetto, “ricettività originaria” è quella modalità di ricezione in grado di garantire e realizzarsi innanzitutto in quanto ricezione di se medesima 14 . Nell’identità che questo tipo di ricezione implica, ciò che la fenomenicità originariamente è si rivela esser in tutto e per tutto coincidente con il sapersi in cui è la realtà effettiva del proprio mostrarsi. Proprio perché la possibilità stessa di ogni differenza è per principio esclusa, la fenomenicità originaria si rivela costituire quella modalità dell’apparire che mostra se stessa allo stesso modo in cui si riceve. Il suo mostrarsi coincide pienamente con il proprio sapersi, in maniera tale per cui ciò che essa sa (scil. ciò che è ricevuto nel suo mostrarsi) è nient’altro che unicamente se medesima, vale a dire esattamente la realtà dell’atto del suo darsi. In questo senso, in quanto pur sempre sapersi non-objettivo, si può dire che, considerata nella sua realtà effettiva, il mostrarsi originario si risolve in definitiva in una pura trasparenza a se medesimo – una modalità della presenza a sé priva di ogni contenuto tematico di tipo ontico-objettivo, così come scevra di ogni carattere strutturale di tipo estatico 15. 13 p. 299 (trad. it. cit., p. 281). In corsivo nel testo. Cfr. EM, p. 287 (trad. it. cit., p. 272): «Ciò che l’essenza originaria della ricettività riceve è se stessa». In corsivo nel testo. 15 In altri termini ancora, la trasparenza del fenomeno originario non costituisce semplicemente un in-sé (in senso naturalistico e sostanzialistico) così come neppure insé-e-per-sé, nel senso della Vorstellung. Essa non sta ad indicare il “prodotto” del rapportarsi-a, bensì la possibilità di questo fondamento e della sua stessa schiusura estatica. Ora, che la possibilità del rapporto non possa riposare in un assoluto in-sé, inteso in senso classico come substantia, questo è già stato mostrato e discusso (cfr. supra, Introd., § 2; ma anche Sez. II, Cap. II, § 19). Ma lì, nell’ordine della concezione naturale dell’originario, l’assurdità della tesi dell’in-sé originario stava nel fatto che, in quanto privo del per-sé (cioè del rapporto concepito come tale), l’originario si determinava come in se stesso oscuro a se medesimo. “Assoluto”, in quanto sciolto da ogni possibile relazione (e sapere) con se stesso, così come con qualunque altra 14 EM, Dell’immanenza 219 b) L’ipseità, fra trascendenza e non-estaticità Che conformemente alla non-estaticità il sapersi non-objettivo della ricettività originaria si compia alla maniera d’una pura trasparenza vuol dire che, a differenza di quanto emerso alla luce dei presupposti ontologici del monismo, la realizzazione della fenomenicità originaria non è più concepita in nessun modo nel senso della pro-gettazione o della posizione-innanzi d’orizzonte: ciò in cui il mostrarsi originario realizza il proprio phainesthai non è più concepito nel modo della “visione nonrealtà “altra” da sé. Nella critica tradizionale alla concezione naturale dell’in-sé, però, come l’analitica della tesi fenomenologica fondamentale del monismo ontologico ha mostrato, il senso del per-sé è già sempre enucleato nel suo significato ontologico e concepito unicamente nel senso dell’estaticità. Sicché, il presupposto che sorregge la critica tradizionale e monista all’atteggiamento naturale si rivela consistere, innanzitutto, nell’identificazione della tesi dell’assenza di estaticità con l’affermazione dell’esistenza di un “assoluto” inteso in senso sostanzialista, come mero Insichständiges. Da qui, procede poi la serie di equivalenze secondo cui: “assenza di estaticità” (= l’assoluto come mero “in-sé”) = “assenza totale di rapporto” (= “assenza del per-sé”) ⟹ “assenza totale della possibilità stessa del rapporto” (= “assenza dell’in-sé-e-per-sé”) = “assenza della struttura fenomenologica del sapere” (= “substantia”). Ridotta unicamente al senso dell’estaticità, la struttura del rapporto (persé) non consente di pensare il senso dell’assolutezza dell’originario mostrantesi in se stesso a sé se non altrettanto unicamente nel modo dell’essere non-objettivo in quanto in-sé-e-per-sé; essa, cioè, a partire dalla presunzione d’originarietà per quel che riguarda la realtà della struttura estatica, esclude a priori la possibilità che la coincidenza fra in-sé e per-sé possa esser pensata altrimenti rispetto alla loro reciproca trascendenza. Cosicché, tolta l’estaticità, alla struttura del rapporto così intesa è altresì tolta la possibilità stessa di costituirsi come tale, ossia di mostrarsi in quanto sapereche-sa-se-stesso. Distrutto il presupposto fondamentale del monismo ontologico, ciò che al contrario emerge e viene ad imporsi alla riflessione è una maniera essenzialmente diversa – ma sempre e consapevolemente alternativa a quella naturale – di intendere il senso dell’assoluto in-sé. Tale maniera è appunto quella in cui la struttura dell’essere-in-sé-e-per-sé, privo di ogni esteriorità, e pertanto di ogni differenziazione interna, si determina piuttosto nella coincidenza essenziale di per-sé ed in-sé. Privo di ogni estaticità, e dunque privo di ogni rapporto nell’esteriorità, il fenomeno originario (in-sé-e-per-sé) si determina in tal modo, non più alla stregua d’una mera spoglia morta come oscuro in se stesso a sé, bensì come assolutamente trasparente a se medesimo nella pienezza di un sapersi che, pur determinandosi come sapere relativo “a se medesimo”, non ha objectum e, conservando pertanto il carattere di trasparenza a sé, potenzia il senso di quest’ultimo conducendo così alla determinazione del mostrarsi originario come puro sapersi – sapere che, nella pura trasparenza a se medesimo (totale coincidenza di in-sé e per-sé), non soltanto sa se stesso come tale ma realizza il suo mostrarsi originario in una pienezza tale che esclude da sé ogni possibilità di oblio e di nascondimento. 220 Roberto Formisano objettiva” e della “rappresentazione ontologica”. Posto che entro la prospettiva henryenne la possibilità stessa di una differenza tra ciò che la fenomenicità originariamente è e il modo in cui essa necessariamente sa se stessa è per principio esclusa, ciò in cui il sapersi originario si realizza è riconosciuto esattamente in nient’altro che il mostrarsi stesso dell’originario “in carne e ossa”: non la sua semplice “immagine”, quanto piuttosto l’originario stesso “in prima persona”. Nell’ambito della ricettività originaria, ciò che è saputo ed il modo in cui esso è ricevuto – vale a dire la realtà effettiva del mostrarsi del modus originarius – sono, espresse nel linguaggio dell’ontologia classica, “to auto”: l’identico, “lo stesso”, la medesima e unica realtà. “Assenza di ek-stasis” vuol dire infatti, essenzialmente, impossibilità d’altro. Tolta la possibilità stessa della costituzione d’una qualche alterità (distanziazione, differenziazione ecc.) in seno alla fenomenicità originaria, va da sé che la ricettività costitutiva di quest’ultima si caratterizzi nella forma d’una auto-ricezione: ricezione di non-altro, se non di se medesimo, in quanto unico apparire originariamente possibile. Questo però significa che, compresa nel senso della non-estaticità, l’enucleazione della ricettività non-objettiva propriamente originaria (distinta dalla ricettività non-objettiva costitutiva, ad esempio, della ricezione d’orizzonte) conduce di fatto all’individuazione ed alla determinazione di una modalità ulteriore e nuova, rispetto a quelle sinora discusse nell’orizzonte del monismo, del rapportarsi-a-sé costitutivo del fenomeno in generale. In effetti, proprio qui è da riconoscersi uno dei momenti chiave, il punto nodale della critica henryenne al concetto fenomenologico di trascendenza. La “liberazione” della questione della ricettività dai presupposti del monismo ontologico apre al riconoscimento di quella modalità del rapportarsi-a-sé irriducibile a qualsivoglia modo del rapporto ek-statico (sia esso objettivo sia, soprattutto, non-objettivo). Prefigurata nel concetto stesso dell’“assenza di ek-stasis” è possibile in breve reperire, tratteggiata nelle sue linee essenziali, un’enucleazione nuova del fenomeno dell’ipseità che, irriducibile tanto al senso della soggettività ontica quanto al senso della Selbstheit estatica 16, si identifica piuttosto con 16 Secondo la caratterizzazione fornita nel corso della presentazione delle tesi heideggeriane: cfr. supra, Sez. I, Cap. III, § 12. Dell’immanenza 221 la struttura di quella ricettività non-estatica determinante la possibilità stessa della trascendenza del Dasein. In quanto non-estatica, tale ipseità è da intendersi, innanzitutto, come realizzantesi indipendentemente dal Worumwillen del mondo 17. Che nel suo significato originario, cioè non-estatico, il fenomeno non-objettivo dell’ipseità “ecceda” la struttura stessa dell’In-der-Welt-sein vuol dire infatti che, entro la prospettiva aperta dalla critica al monismo ontologico, non ogni modalità d’essere della coscienza è concepita come di necessità subordinata al solo dominio della trascendenza. Oltre all’ipseità costituita um der Welt willen 18, un’ulteriore modalità di costituzione della Selbstheit viene profilandosi – ciò che Henry descrive come “coscienza senza mondo”: una coscienza capace di costituirsi (e soprattutto di riceversi) senza distanza e per questo senza bisogno di differenziazione e di “coinvolgimento” alcuno all’interno dell’orizzonte 17 Da qui, l’impossibilità di una subordinazione ed una riduzione totale della Selbstheit alla sola struttura del mondo. Si badi che la tesi henryenne della “acosmicità” dell’ipseità originaria non intende affatto rifiutare nella loro interezza le tesi heideggeriane circa il carattere estatico del fenomeno esistenziale della Selbstheit, ma solo circoscriverne in maniera rigorosa l’ambito di validità. Ciò che dunque, contro Heidegger, Henry contesta è la pretesa di poter risolvere la questione fenomenologica relativa alla struttura della Selbstheit, circoscrivendo e limitando il senso alla sola dimensione fenomenologica determinata dallo schematismo della temporalità estatica. Affermando la “acosmicità” della Selbstheit (tesi, la cui chiarificazione ulteriore sarà sviluppata da Henry negli anni Ottanta attraverso la sua rilettura del cogito cartesiano. Cfr. i saggi: Sur l’ego du cogito (1983), Le cogito et l’idée de la phénoménologie (1984), Philosophie et subjectivité (1989), Le cogito de Descartes et l’idée d’une phénoménologie idéale (1991), ora tutti raccolti in M. HENRY, Phénoménologie de la vie, t. II, Paris, PUF, 2003), Henry non contesta bensì accoglie i contenuti della distruzione operata da Heidegger nei confronti della nozione tradizionale di soggettività. La acosmicità non contesta affatto ma anzi sottoscrive l’illegittimità della riduzione cartesiana; né tanto meno nega il fatto che la possibilità dello scadimento [Verfallen] rappresentata dall’evidenza del cogito cartesiano riposi in prima istanza sulla struttura ontologica dell’In-der-Welt-sein. Ciò che essa nega, piuttosto, è la validità della pretesa heideggeriana di poter ri(con)durre il senso della Selbstheit unicamente e soltanto alla struttura fenomenologica della trascendenza del Dasein (cfr. supra, Sez. I, Cap. III, § 14). 18 Oltre, cioè, sia alla determinazione della struttura del fenomeno nel senso heideggeriano della libertà [Freiheit] (cfr. M. HEIDEGGER, Vom Wesen der Wahrheit, ora in Heideggers Gesamtausgabe, vol. IX: Wegmarken, a cura di F.-W. von Herrmann, Frankfurt a.M., Klostermann, 1976, pp. 187-191, trad. it. Dell’essenza della verità, in ID., Segnavia, a cura di F. Volpi, Milano, Adelphi, 1987, pp. 143-147), sia alla determinazione della schiusura estatica nel senso del monismo ontologico (cfr. supra, Sez. II, Cap. I, § 14). 222 Roberto Formisano temporalmente finito dell’e-sistenza; una coscienza capace di riceversi prescindendo da ogni forma di alterità, in quanto del tutto priva di esteriorità e per questo del tutto priva dell’esigenza stessa di porsi-a-distanza. Scrive Henry: “Con” o “senza mondo” – queste non sono proprietà aggiunte alla coscienza, ma determinazioni strutturali della fenomenicità della coscienza stessa. Nell’opposizione radicale di queste determinazioni, il concetto di coscienza si divide. […] La coscienza tuttavia è una. Non vi sono due coscienze senza alcun legame tra loro […]. Se la coscienza senza mondo e la coscienza del mondo non sorgono affatto separatamente, come due essenze giustapposte, […] è perché la coscienza del mondo non basta a se medesima, perché non è un’essenza [originaria]. […] L’unità della coscienza del mondo con la coscienza di sé è la sua stessa possibilità. Poiché questa possibilità è una possibilità fenomenologica, anche tale unità è fenomenologica. La possibilità della coscienza del mondo è la coscienza essa stessa in quanto coscienza, non del mondo, […] ma come coscienza senza mondo. Nella possibilità della coscienza del mondo risiede tuttavia la sua essenza stessa, l’essenza della coscienza in generale. Lungi dall’essere una possibilità ipotetica e vuota […] la possibilità di una coscienza senza mondo è la possibilità ontologica originaria della coscienza stessa e, in quanto tale, ne costituisce l’essenza 19. La distinzione di una Selbstheit subordinata al dominio della trascendenza ed una Selbstheit “eccedente” questo medesimo dominio non deve condurre in confusione, in quanto non si tratta affatto di uno “sdoppiamento” dell’ipseità. Coscienza senza mondo e In-der-Welt-sein non indicano due distinte “regioni ontologiche”, disposte sullo stesso piano e contrapposte l’una all’altra. Ciò che infatti l’assenza di estaticità essenzialmente intende è l’eterogeneità di queste due strutture e delle loro rispettive realtà. Tra di esse non sussiste alcuna relazione di reciproca limitazione, quanto piuttosto un rapporto di gerarchica inclusione. Coscienza senza mondo designa infatti la realtà del modus originarius della fenomenicità. In ragione dell’identità costitutiva tra realtà e modo di costituzione dell’apparire originario, la nozione fenomenologica di coscienza senza mondo definisce a un tempo sia il sapersi in cui risiede la realtà della fenomenicità originaria sia il modo in cui tale fenomenicità effettivamente opera la schiusura. In questo senso, la coscienza senza mondo definisce la realtà della struttura in cui risiede la 19 EM, pp. 330-331 (trad. it. cit., pp. 306-307). Dell’immanenza 223 possibilità ultima dell’In-der-Welt-sein. Non si dimentichi, infatti che, come emerso dalla critica al monismo ontologico, ciò che la trascendenza è per essenza incapace di ricevere, cioè la realtà dell’atto che compie l’apertura dell’orizzonte estatico dell’essere, è esso stesso il sapersi originario. Il che significa: la coscienza senza mondo non identifica alcunché di “astratto” o di “separato” rispetto alla coscienza che ogni Dasein, costituito um der Welt willen, è alla luce della sua trascendenza. Essa, semmai, individua propriamente la realtà profonda dell’esserci: quell’essenza che, fintantoché sarà ricercata alla luce del mondo, inevitabilmente sembrerà nascondersi agli occhi dell’e-sistenza comprendente. Ma in quanto “originaria”, ovvero costituentesi indipendentemente dai modi in cui essa è saputa – o anche obliata! – dall’esserci, individua quanto di più concreto (non rappresentato, ma presente in carne e ossa) sia esperibile dall’e-sistenza, la realtà di un sapersi pieno e senza ombre in cui è la radice stessa di ogni possibile altro (derivato) modo di rapportarsi-a-sé: quell’origine e quella radice che, per quanto obliati alla luce della trascendenza, costituiscno tuttavia il fondamento concreto e vivo in rapporto al quale ha luogo il pro-getto estatico dell’In-der-Weltsein. 25. Oblio e rivelazione. La fenomenicità originaria come immanenza Considerato alla luce della distinzione tra la coscienza senza mondo e l’In-der-Welt-sein, l’esserci umano viene caratterizzarsi sempre più come “soglia”, esattamente come quel crinale in cui, sul fondamento della propria trasparenza a sé, il fenomeno originario “libera” la possibilità della propria alienazione, lasciando così accadere e realizzarsi la schiusura d’orizzonte in cui l’e-sistenza finita del Dasein è in quanto situata. La realtà umana assume sempre più le sembianze di un accadere in cui ha luogo la partecipazione ad entrambe le fenomenicità, nel senso che: costituita nella sua possibilità in seno alla realtà dell’apparire originario, la realizzazione dell’e-sistenza accade tuttavia nel modo della trascendenza, in maniera tale per cui, aperta a se medesima um der Welt willen, il suo comprendere (e il suo caratteristico comprender se stessa) si tiene esso stesso innanzitutto nell’orizzonte di quest’apertura. Al contempo, tuttavia, l’esserci umano si determina come partecipe della non-estaticità costitutiva dell’apparire originario, nel senso che in questa – nella realtà effettiva e nel modo del suo sapersi acosmico – s’è 224 Roberto Formisano svelato risiedere e consistere la possibilità stessa del rapportarsi-a-sé non-objettivo (apertura al mondo) che egli strutturalmente è. Che, però, l’esserci umano sia, cioè e-sista, in quanto strutturalmente partecipe ad entrambe le fenomenicità, non vuol dire eo ipso che la sua realtà debba necessariamente risolversi in un ennesimo “dualismo ontologico”. Benché “duplice” per quel che riguarda i modi di costituzione, nella sua realtà e nella sua radice la coscienza è per essenza una e unica, in quanto inerente alla ricettività propria del fenomeno originario che, in quanto non-estatico, esclude la possibilità stessa d’una qualche “ulteriorità” o “alterità” rispetto al proprio sapersi. Rispetto a questo modo del rapportarsi-a-sé, in cui risiede la realtà stessa dell’apparire originario, la realtà dell’esserci si determina quale suo modus derivativus nel senso che è sul fondamento della realtà che il modus originarius già sempre le offre in quanto già in sé compiuto che ha luogo la schiusura d’orizzonte realizzantesi a sua volta nel modo dell’e-sistenza finita. L’esserci (inteso in senso non heideggeriano, ma rigorosamente henryen) è pensato come partecipe di entrambe le realtà della fenomenicità, in ragione dell’appartenenza della trascendenza alla realtà non-estatica della fenomenicità originaria. La trascendenza appartiene alla fenomenicità originaria, nel senso che in essa – nella realtà costitutiva di quest’ultima – risiede la possibilità stessa della schiusura estatica d’orizzonte che è il Dasein, in quanto In-der-Welt-sein. L’esserci si determina in questo senso come partecipe di entrambe le fenomenicità, in quanto fondato nella realtà originaria e tuttavia, al contempo, dischiuso a se medesimo nel modo della trascendenza. Che nella sua fatticità, all’esserci sia data la possibilità di obliare la propria origine e la realtà alla quale egli essenzialmente appartiene, ciò non significa affatto che la radice di questo oblio debba necessariamente esser inscritto nella struttura fenomenologica dell’apparire originario. Quanto, anzi, la critica al monismo ontologico ha appunto mostrato è esattamente l’insostenibilità di questa tesi. Entro la prospettiva henryenne, l’oblio dell’origine dell’essere (in quanto modo d’essere del comprendere, e dunque modalità della ricezione d’orizzonte) presuppone necessariamente la ricettività dell’apparire originario, ovvero l’apparire originario stesso in quanto già sempre compiuto nel suo stesso mostrar- Dell’immanenza 225 si 20. L’oblio non è possibile che soltanto sul fondamento di quella realtà del mostrarsi originario che è esattamente il suo stesso non-objettivo e non-estatico sapersi in quanto totale e piena trasparenza a se medesimo. Sì che, indipendente rispetto ai modi in cui all’esserci è dato poter comprendere se medesimo e l’essere che lo costituisce e fonda, il sapersi originario appare altrettanto originariamente indifferente nei confronti dell’oblio a cui, fintantoché illuminato dal methodos della trascendenza, l’e-sistenza fattivamente lo relega. Tale “indifferenza”, pertiene al fatto che nulla di ciò che l’esistenza può fattivamente comprendere o obliare dell’origine aggiunge o modifica qualcosa al sapersi originario che, in quanto tale, si costituisce e sa se stesso come già sempre compiuto in se medesimo. 20 Cfr. EM, pp. 428-430 (trad. it. cit., pp. 389-392). A differenza di quanto emerso nel contesto della “distruzione” del monismo ontologico (cfr. supra, Sez. II, Cap. III, § 23), il senso della presupposizione di verità, costitutivo del Dasein, è da Henry, in definitiva, sì compreso come rimando ad una fenomenicità interpretata come in se stessa già compiuta, ma non per questo intesa come “separata” rispetto alle realtà che essa rende possibili. In questo senso, d’altronde, in precedenza, si è detto che nella realtà del fenomeno originario risiede nella sua effettività la realtà stessa dell’atto fondante la schiusura della trascendenza. Il che vuol dire: la realtà della struttura della trascendenza, eideticamente distinta dall’orizzonte in cui la trascendenza realizza il proprio mostrarsi, si identifica con la realtà stessa del fenomeno originario. In ciò risiede il senso della loro gerarchia trascendentale. Ora, conformemente a questo significato della relazione di fondazione che sostiene (non soltanto nella sua possibilità, ma anche e soprattutto nella sua effettiva e concreta realtà) la schiusura della trascendenza, si scopre allora che nella prospettiva di Michel Henry il Dasein costitutivamente presuppone la verità nel senso che, nella sua essenza, partecipa della realtà originaria, la quale, nella sua trasparenza a se medesima, è tutta pienamente presente in lui. Benché infatti, in ragione della sua costituzione estatica e dei limiti della ricezione d’orizzonte che ne regola la realizzazione, il Dasein non sia in grado di abbracciare e ricevere nella sua totalità la realtà dell’apparire originario (in sé già sempre compiuto), ciò non toglie che, indipendentemente da come sia fattivamente ricevuto e compreso, il fenomeno originario è tuttavia pur sempre vissuto dal Da-sein come ciò in cui non soltanto è resa possibile ma di fatto ha luogo la rivelazione a sé dell’ipseità finita che, nella sua realtà, ciascun In-der-Welt-sein costitutivamente è. In breve, la realtà originaria (scil. la sua originaria trasparenza a sé) è innanzitutto vissuta dal Dasein, prima ancora d’esser anche solo esperita o pensata alla luce del mondo. Prima ancora di ogni esperienza mondana fattiva e bensì nell’atto stesso di fondazione della trascendenza, l’originario è vissuto dal Dasein non quale possibile oggetto di una qualche intenzionalità o comprensione d’essere, ma come ciò sul fondamento della cui trasparenza ogni intenzionalità o comprensione è come tale resa possibile nell’orizzonte trascendentale dell’essere. 226 Roberto Formisano Impossibile nell’ambito della non-estaticità, l’oblio si svela essere, in breve, una possibilità inerente alla sola e-sistenza; una possibilità che non ha a che fare con il modo in cui originariamente l’essere deve potersi ricevere in quanto tale, ma riguarda solo il modo in cui tale sapersi è a sua volta ricevuto nell’e-sistenza 21. Al modo d’apparire (e di sapersi) costitutivo della coscienza senza mondo, caratterizzato dall’impossibilità di alienazione e di oblio, Henry riserva il nome specifico di rivelazione [révélation]. Se con “manifestazione” [Erscheinung] è stato sinora indicato il mostrarsi ontico e con “objettivazione” quello della trascendenza, con la nozione fenomenologica di rivelazione è intesa quella modalità del mostrarsi per la quale, costituendosi nel modo della trasparenza non-estatica, la fenomenicità porta a compimento il proprio apparire mostrandosi in quanto tale a se stessa in sé. In opposizione alla concettualizzazione emersa nella prospettiva del monismo ontologico, il termine rivelazione sarà utilizzato ad indicare la concezione propriamente henryenne della parousia dell’assoluto. «Infatti – scrive Henry – solo l’essenza si rapporta originariamente a sé, in questa relazione che la rivela a se medesima nella sua realtà. Ma la rivelazione dell’essenza […] è la Parousia. La Parousia è l’essenza della vita» 22. Per parousia, Henry intende rigorosamente l’esperienza inestatica del sapersi/mostrarsi che la fenomenicità originaria compie in non-altro che se medesima, nell’unità inalienabile e indivisibile della sua trasparenza a sé, nell’identità immediata e perfetta del modo [Wie] e della realtà della rivelazione. Essa è “l’esperienza originaria dell’essere”, nel senso del proprio del genitivo soggettivo: essa non è l’oggetto di cui l’essere (scil. la trascendenza) fa esperienza (nel modo dell’e-sistenza comprendente). Diversamente da quanto anche l’Idealismo tedesco ha pensato, la parousia non designa affatto ciò di cui diventa possibile fare 21 L’oblio, in questo senso, indica propriamente quel modo della comprensione che, fintantoché è regolata in conformità al methodos della trascendenza, l’e-sistenza compie nei confronti di se medesima occultando a sé e ai suoi propri occhi la possibilità di accesso a quel modo d’apparire non-estatico e a quella trasparenza di cui è tuttavia pur sempre concretamente partecipe nella propria “carne” e nella sua essenza più profonda. Sul risvolto metodologico inerente al tema dell’oblio e della nonvisibilità dell’accesso alla fenomenicità originaria, si rinvia a infra, Sez. III, Cap. II, § 29. 22 EM, p. 355 (trad. it. cit., p. 328). Corsivo nostro. Dell’immanenza 227 esperienza alla luce della trascendenza dell’essere. La parousia sta ad indicare piuttosto quell’esperienza originaria a cui la trascendenza dell’essere appartiene, per quel che concerne la sua possibilità e la sua origine. Con il termine “esperienza”, Henry sottolinea peraltro il carattere tutt’altro che “statico”, bensì dinamico, della parousia. Irriducibile al senso della dialettica hegeliana, così come irriconducibile all’orizzonte del circolo ermeneutico heideggeriano, la parousia è piuttosto identificata con l’autoricezione che la fenomenicità originaria deve poter compiere in se stessa, in un processo che non soltanto manca di un inizio e di una fine in senso cronologico, ma prescinde del tutto dall’opera della temporalità estatatica. La parousia è nient’altro che questo movimento di ricezione che, alla luce dell’impossibilità d’altro che ne determina l’unicità, la fenomenicità originaria non può compiere altrimenti se non, unicamente, nei confronti di sé, indipendentemente da ogni forma di ek-stasis. Ricevendo se medesima immediatamente e nella sua totalità: questo è il modo in cui la fenomenicità originariamente si dà e realizza il suo mostrarsi, secondo Henry. Che la fenomenicità originaria si riveli mostrandosi in se stessa a sé vuol dire che, senza “uscir fuori” di sé (senza cioè dover “porsi-a-distanza” e quindi alienarsi, ma piuttosto permanendo presso sé 23, nella totale assenza di ek-stasis), l’apparire originario si rapporta a se medesimo in maniera tale per cui, nella trasparenza in estatica del suo sapersi, ciò che giunge a mostrarsi è nient’altro che “se stesso”, la realtà del suo apparire in quanto identica all’atto della sua fenomenizzazione 24. 23 Cfr. EM, p. 316 (trad. it. cit., p. 295): «Cos’è questo “rapportarsi-a”? In cosa consiste la possibilità della trascendenza stessa? “Rapportarsi-a” significa “portare-sestesso-presso”. “Portar-si-presso” non vuol dire però separarsi da sé. Per il movimento che si dirige-verso, vuol dire al contrario: restare presso sé, permanere in sé in maniera tale che siffatto “sé”, contenuto e conservato nel movimento, sia portato con quest’ultimo presso ciò verso cui il movimento stesso porta se stesso. Il “sé” […] è nient’altro che questo movimento stesso. Che il movimento abbia un “sé” vuol dire: tale movimento – il movimento di portare-se-stesso-presso – si mantiene presso se stesso nel suo stesso compiersi e siffatto mantenersi presso sé è altresì il modo in cui esso è originariamente rivelato a se medesimo». Corsivi di Michel Henry. 24 Cfr. EM, p. 354 (trad. it. cit., p. 327). 228 Roberto Formisano Per chiarire il senso generale di questo modo per certi aspetti “inedito” di concepire la rivelazione della fenomenicità originaria, è opportuno considerare primariamente il significato fenomenologico di quel “permanere presso sé” [se maintenir près de soi], a giudizio di Henry costitutivo dell’ipseità originaria. Poiché, infatti, il modo originario della ricettività è «l’atto di afferrare il suo contenuto […] senza oltrepassarsi verso di lui, in maniera tale che la realtà ontologica costituita da questo contenuto puro non sia in alcun modo trascendente e non si trovi affatto posta innanzi alla maniera d’un orizzonte», tale “permanere presso sé”, che definisce il senso “positivo” della ricettività priva dello slancio [Überschwingung] estatico, è indicato da Henry con il nome di immanenza [immanence]. Conformemente alla duplicità di senso del carattere “trascendentale” del rapporto essere/coscienza, le definizioni che, sparse nelle intense e voluminose pagine di L’essence de la manifestation, Henry offre del concetto di immanenza, rinviano principalmente a due determinazionichiave. Di queste, la prima, ricavata “per contrappunto” alla Unselbständigkeit della trascendenza, afferma che: L’atto che si rivela indipendentemente dallo slanciarsi in avanti (indipendentemente dal pro-getto fuori di sé) rivela se stesso in sé, in maniera tale che siffatto “in se stesso” significa: senza oltrepassarsi, senza uscir fuori di sé. Nella sua essenza, ciò che non oltrepassa se stesso, non si slancia fuori ma resta in sé senza lasciarsi né uscir-fuori di sé, è immanenza. Immanenza è il modo originario in cui si compie la rivelazione della trascendenza; come tale, essa individua l’essenza originaria della manifestazione 25. Diversamente, la seconda, riferita al carattere d’ipseità propria della rivelazione originaria, afferma che: Lì dove esiste un rapporto, esso esiste per sé. L’essere-per-sé del rapporto che rende possibile il rapporto come tale è tuttavia determinato. Nell’essenza della rivelazione originaria del movimento che porta se stesso “presso” è inclusa la possibilità per esso di rimanere nel suo compimento presso sé e di essere così possibile come movimento che “porta se stesso presso” e come atto di “rapportarsi-a”. L’auto-rivelazione originaria determinante nella sua intrinseca possibilità il movimento di “portare-se-stesso-presso”, ossia la possibilità ul- 25 EM, pp. 279-280 (trad. it. cit., p. 265). Dell’immanenza 229 tima della trascendenza costituentesi nella sua essenza come atto del “rapportarsi-a”, è l’immanenza 26. Nel contesto delle riflessioni di Michel Henry, la nozione fenomenologica di immanenza riceve una determinazione ben precisa che, in quanto enucleazione concettuale della non-estaticità, non ha nulla a che vedere con i significati che questa ha assunto nell’ambito, ad esempio, della “fenomenologia storica” 27 così come, chiaramente, dell’intero arco di sviluppo del monismo ontologico. 26 p. 316 (trad. it. cit., p. 295). Corsivi di Michel Henry. Esemplare, in tal senso, è la presa di distanza di Michel Henry nei confronti della concezione husserliana dell’immanenza (in particolare, il riferimento – implicito – è al Cap. II della quinta delle Ricerche logiche, dedicata ai vissuti intenzionali e ai loro “contenuti”, in E. HUSSERL, Logische Untersuchungen, vol. II, cit., pp. 363-425, trad. it., vol. II, pp. 156-209). In un breve passaggio del § 30 di L’essence de la manifestation si legge infatti, contro Husserl: «L’espressione “contenuto immanente” viene adoperata, in un senso generalissimo e di fatto ontologicamente indeterminato, per indicare la proprietà che un contenuto ha di esser “dato di fatto” e di trovarsi così, effettivamente, percepito e afferrato […]. In tal modo si parlerà di contenuto “immanente alla coscienza” intendendo per esso il fatto che un tale contenuto è effettivamente entrato nella sfera di questa coscienza e che perciò si trova effettivamente raggiunto da questa. Quel che rimane del tutto indeterminato nel concetto di immanenza è il suo contenuto quando, applicato ad un contenuto effettivamente ricevuto dalla coscienza, tale contenuto altro non è che il modo stesso in cui è operata la ricezione, ossia la “coscienza” stessa. […] Una sola e medesima indeterminazione avvolge l’atto d’apparire considerato nella sua forma e nel suo contenuto puro, cioè, in ultima istanza, l’essenza stessa della manifestazione – proprio quell’essenza la cui chiarificazione era appunto il compito della problematica»; e ancora: «Se l’indeterminazione ontologica del potere assicurante la ricezione di un contenuto è eliminata dalla problematica intenta a ricercare l’essenza della manifestazione nel momento in cui questa prende coscienza del suo stesso compito, il determinarsi di questa consapevolezza non si compie affatto liberamente, ma conformemente a dei presupposti che impediscono qualsiasi comprensione ontologica rigorosa del carattere “immanente” di un contenuto. In effetti, quando un tale carattere non significa, per il contenuto che esso pretende di determinare, semplicemente “essere ricevuto dalla coscienza” (vale a dire, in sostanza e in modo totalmente indeterminato, “apparire”), quando il modo secondo cui avviene la ricezione viene, infine, tematizzato e la struttura interna di questo modo è assunta come problema, si chiarisce allora che la comprensione di questa struttura avviene sempre e inevitabilmente (poco importa se in maniera esplicita o no) alla luce di una filosofia della trascendenza, sì che il contenuto ricevuto dalla coscienza e così “effettivamente dato” assume tale significato in quanto la coscienza lo attinge nell’atto con cui si trascendende verso di esso. L’immanenza riceve così paradossalmente il senso dell’oggettività» (EM, pp. 281-283, trad. it. cit., p. 267). Corsivi di Michel Henry. 27 EM, 230 Roberto Formisano Per lo più concepito alla luce della trascendenza, nel lungo corso della storia del pensiero filosofico il senso originario dell’immanenza avrebbe subito, secondo Henry, innumerevoli falsificazioni. Se, nella generalità del suo concetto, l’immanenza è solitamente concepita ed indicata come l’opposto della trascendenza, il suo contrario – così, propriamente, non è per Michel Henry. Considerata nel suo significato fenomenologico, l’immanenza designa “qualcosa di più” della mera opposizione alla trascendenza. L’opposizione, infatti, implica omogeneità, mentre la messa in chiaro del significato originario dell’immanenza è stato piuttosto rigorosamente definito in funzione del rilievo della eterogeneità circa i due modi fondamentali di realizzazione della fenomenicità. Entro quest’inqudramento, più che l’opposto della trascendenza, l’immanenza è emersa in quanto essenza dell’apparire estatico 28: nonaltro che la realtà stessa in cui, già sempre compiuta nella propria rivelazione a sé nel modo della trasparenza non-estatica, risiede la possibilità ultima della schiusura d’orizzonte. Tra immanenza e trascendenza non si dà opposizione, bensì gerarchia e subordinazione. Determinazione fenomenologica del modus originarius, l’immanenza definisce non soltanto il modo di costituzione della condizione di possibilità della trascendenza [modus derivativus]. Poiché, nell’ordine della rivelazione, modo [Wie] e realtà del mostrarsi si danno in quanto reciprocamente coincidenti, l’immanenza determina la realtà dell’atto che fonda la schiusura – cioè, in definitiva, la realtà della struttura della trascendenza. L’immanenza designa in questo senso proprio quella realtà che, non ricevibile nel modo della ricezione d’orizzonte, permane per essenza occultata al pensiero che si lascia guidare 28 Su questo punto, sino ad oggi, tra le più autorevoli voci del panorama fenomenologico contemporaneo solo Jean-Luc Marion ha puntualmente richiamato l’attenzione, rigettando la vulgata, ormai largamente diffusa nella letteratura critica, che vuole, al fondo del pensiero di Michel Henry, la determinazione di “due opposte fenomenicità”. «Bisogna sottolineare – ribadisce Marion in una nota – che Michel Henry non oppone mai, come in una lotta all’ultimo sangue, l’immanenza e la trascendenza, ma sempre fonda la trascendenza nell’immanenza»; e più avanti, dopo aver citato un passaggio chiave del § 33 (cfr. EM, pp. 322 ss), scrive: «Quante polemiche contro la fenomenologia materiale derivano da questo controsenso ostinato […]? È necessario considerare con molta serietà i paragrafi 32 e 33, i quali, piuttosto che contestare, stabiliscono defintivamente la tesi secondo cui “l’immanenza è l’essenza della trascendenza”» (J.-L. MARION, L’invisible et le phénomène, in Dossier Michel Henry, a cura di J. Leclercq e J.-M. Brohm, cit., p. 224, nota 5). Dell’immanenza 231 dal methodos dell’estaticità. Ma proprio perché occultabile nell’orizzonte della trascendenza, l’immanenza si rivela suscettibile di fraintendimento o oblio fintantoché e nella misura in cui essa è essenzialmente pensata alla luce dell’estaticità. La confusione dei piani che rende l’immanenza omogenea alla trascendenza – e dunque quest’ultima contrapponibile al modus originarius della fenomenicità – è possibile solo fintantoché la filosofia indugia a pensare l’immanenza senza essersi innanzitutto assicurata d’aver fatto dell’immanenza stessa il suo methodos, la sua “via d’accesso” al pensiero dell’originario 29. Diversamente, pensata in conformità al rilievo decisivo della eterogeneità e del rapporto gerarchico di fondazione, l’affermazione secondo cui l’immanenza definisce l’essenza della trascendenza conduce, infine ad una determinazione della struttura interna del fenomeno considerato in generale, il quale – considerato da un punto di vista puramente formale – può esser schematicamente articolato su tre livelli (ciascuno dei quali, oltre al primo, fondamento del suo stesso apparire, costituisce la condizione di possibilità per la fenomenizzazione dei livelli successivi): Primo livello (non-objettivo): la Rivelazione. In quanto originario (cioè autonomo [Selbständig]), il fenomeno struttura la sua propria rivelazione nel modo dell’immanenza (ricezione di sé nell’atto stesso del suo mostrarsi). Modo [modus originarius] e realtà fenomenologica della rivelazione coincidono; essi sono “lo stesso” [scil. trasparenza a sé nonestatica: ipseità assoluta]. Secondo livello (non-objettivo): la schiusura estatico-orizzontale. Sul fondo del compimento in sé della rivelazione (che assicura la ricezione dell’atto fondante la possibilità della schiusura estatico-orizzontale), ha luogo l’esteriorizzazione dell’essere, ovvero: sulla base della ricezione già sempre in sé compiuta dell’atto che fonda la possibilità della trascendenza, accade lo strutturarsi del modus derivativus della fenomenicità originaria in quanto differenziazione del modo di costituzione del fenomeno non-objettivo rispetto alla realtà a partire dalla quale è originato. Ponendosi a distanza, e così strutturandosi alla maniera d’una schiusura estatica, l’accadere della trascendenza e il suo costituirsi in quanto Da-sein realizzano il proprio apparire nel modo della ricezione 29 Per ulteriori sviluppi in merito al problema dell’oblio dell’originario, cfr. infra, Sez. III, Cap. II, § 29. 232 Roberto Formisano del solo “prodotto” dell’ek-stasis, ovvero nel modo della ricezione d’orizzonte. Terzo livello (objettivo): la manifestazione. Sul fondo della ricezione d’orizzonte (scil. comprensione ontologica) ha infine luogo il mostrarsi della totalità dell’ente nella schiusura, in quanto objectum (nelle sue innumerevoli declinazioni di ente intramondano, oggetto intenzionale, Gegenstand ecc.). 26. Non-libertà e passività dell’apparire originario La determinazione del significato positivo della non-estaticità nel senso dell’identità essenziale del modo di costituzione e della realtà effettiva della fenomenicità originaria conduce alla necessaria conseguenza per cui: per mostrare se stessa in quanto tale la struttura della rivelazione non può ricevere altro, se non se medesima ovvero l’unica realtà originariamente possibile in quanto tale. Della ricettività originaria si è detto che essa fonda il suo stesso concetto nell’esclusione della possibilità stessa di ricezione non solo di qualcosa d’“altro” rispetto all’atto che lo riceve, ma anche di se stessa in quanto “altro” da sé. Considerata in questi termini, siffatta prescrizione assume il valore di un’impossibilità essenziale per la struttura originaria alla quale, in effetti, in ragione della sua costitutiva non-estaticità, non è dato poter pro-gettare, né “oltrepassare” se stessa. Nei termini in cui Henry stesso si esprime 30, la struttura originaria si determina, in quanto tale, come non-libera. Il concetto non-libertà è deliberatamente richiamato e sviluppato da Henry in contrasto con Heidegger e con la sua interpretazione esistenzial-ontologica della Freiheit. «La libertà – scrive Henry – ha un significato ontologico»; ed aggiunge poco più avanti: Esser libero, per un potere ontologico puro (ossia, per un puro potere capace di suscitare una manifestazione), significa esser capace di porre altro rispetto alla propria realtà, possere un determinato potere che è per l’appunto quello di porre altro da sé. In quanto tale, il potere di porre altro da sé è un potere creatore. Ma dal punto di vista ontologico la creazione non significa in nessun modo la posizione dell’elemento ontologico stesso, bensì soltanto la posizione 30 Cfr. EM, p. 363 (trad. it. cit., p. 334): «La struttura su cui riposa l’impossibilità per l’essere […] di rompere il vincolo che lo tiene legato a se stesso, di staccarsi da sé e di esistere fuori di sé, è la non-libertà». Dell’immanenza 233 dell’elemento estraneo alla sua realtà (per quanto da questa prodotta). Ad esser prodotto dalla libertà, in quanto creatrice, non è però l’ente, bensì l’ambito dell’alterità, […] in quanto puro ambito ontologico 31. In Heidegger, la libertà [Freiheit] sta ad indicare essenzialmente l’opera fondatrice della trascendenza 32. Essa indica l’atto di schiusura dell’orizzonte trascendentale dell’essere nel modo della temporizzazione estatica dell’In-der-Welt-sein. In questo senso, come peraltro già la discussione relativa all’interpretazione heideggeriana di Kant ha mostrato 33, è da intendersi anche la caratterizzazione ontologica della “creazione”, segnalata da Henry nella precedente citazione, intesa come “spontaneità” dell’atto immaginativo del tempo che apre la veduta d’orizzonte rendendola percettibile a se medesima. La determinazione di questo atto d’apertura a sé da parte della schiusura stessa come “originario” conduce Heidegger alla determinazione dell’essenza del fondamento come non-fondamento [Un-grund], ossia fondamento non-ontico, non-objettivo, in quanto piuttosto “abisso” [Ab-grund], apertura la cui radicalità e profondità permane inattingibile “in se stessa” e irricevibile nella sua totalità, in quanto verità strutturalmente con implicante l’irriducibile polemos di velamento [Verborgenheit] e disvelamento [Unverborgenheit] della manifestatività, ossia del costitutivo legame fra comprensione d’essere ed oblio. In Heidegger, la connessione fra comprensione d’essere ed oblio resta come inoltrepassabile per il fatto che la ricezione in cui la manifestatività realizza il suo mostrarsi è pensata, nella sua possibilità essenziale, non altrimenti che nel modo della sola ricezione d’orizzonte. Di contro alla presupposta “unicità” di questo modo della ricezione (in cui è stato rinvenuto uno dei tratti caratteristici del monismo ontologico), la critica della trascendenza ha però mostrato la possibilità di un altro modo della ricezione, per il quale l’impossibilità dell’oltrepassamento rinvia alla assoluta indipendenza della struttura originaria da ogni forma di comprensione esistenziale. Come lo stesso Henry giustamente sottoli31 p. 364 (trad. it. cit., pp. 335-336). Cfr. M. HEIDEGGER, Vom Wesen der Wahrheit, ora in Heideggers Gesamtausgabe, vol. IX: Wegmarken, cit., pp. 187-191 (trad. it. Dell’essenza della verità, in ID., Segnavia, cit., pp. 143-147). 33 Cfr. supra, Sez. II, Cap. III, § 23. 32 EM, 234 Roberto Formisano nea 34, la Freiheit heideggeriana è libera sempre e soltanto nei confronti dell’orizzonte costituito um der Welt willen, ma mai anche nei confronti di quel potere fenomenologico che ne rende posibile la schiusura. Se la pretesa di Heidegger è stata quella di essersi sforzato di comprendere il senso di quest’impossibilità sempre e soltanto alla luce della trascendenza, con il concetto di non-libertà lo scopo di Michel Henry è piuttosto quello di ricondurre entro il suo dominio più proprio il senso di questa relazione che costitutivamente contrassegna la strutturale relazione che il fenomeno originario intrattiene unicamente con se medesimo (non-altro) nell’ambito della non-estaticità. Impossibilitata a liberarsi di sé, la struttura originaria si determina come essenzialmente passiva. «Ciò che – per esprimersi con Henry – non ha più alcun potere rispetto a sé e alla sua propria realtà si rivela essere, nella sua più intima natura, essenzialmente passivo» 35 . Così inteso, il senso della passività originaria non allude alla subordinazione della fenomenicità all’azione coercitiva d’una qualche altra realtà esterna, opposta e alternativa a quella originaria. La fenomenicità orginaria rivela la sua costitutiva passività non in una relazione esteriore, bensì unicamente nei confronti di non-altro, se non di se medesima soltanto. Priva della possibilità stessa di potersi rapportare ad altro, sia nel senso di una realtà altrettanto originaria ma distinta dalla propria, sia nel senso di un rapportarsi a sé in quanto “altro”, cioè nel modo dell’alienazione, la fenomenicità originaria non può che esser passiva che soltanto nei confronti di se medesima. In questo senso è da intendersi la perentoria affermazione di Henry secondo cui: La passività è la determinazione ontologica strutturale dell’essenza originaria della rivelazione, ossia dell’essere stesso considerato nella sua realtà interna in quanto fondamentamentalmente determinato in se stesso dalla non-libertà 36. La passività costituisce la caratteristica essenziale dell’ipseità nonestatica, e cioè la rivelazione dell’originario in quanto rivelazione di sé 34 Cfr. EM, p. 365 (trad. it. cit., p. 336). EM, p. 366 (trad. it. cit., p. 337). 36 Ibid. In corsivo nel testo. 35 Dell’immanenza 235 – soltanto di sé e non-altro 37. Rispetto ai concetti di rivelazione ed immanenza, la passività esprime la condizione inoltrepassabile da parte del fenomeno originario di questa sua costitutiva ed incessante aderenza a sé, costantemente operante nel modo della pura trasparenza. Se la rivelazione e l’immanenza servono a definire il modo in cui si struttura il mostrarsi originario come tale, il concetto fenomenologico della passività specifica con precisione maggiore il modo in cui la rivelazione realizza in se stessa il mostrarsi in quanto tale dell’originario in quanto mostrarsi a se stesso, ovvero, in definitiva, in quanto mostrarsi a se stesso in sé. La natura interna dell’assoluto – conclude Henry a tal riguardo – è la passività. Assoluto è l’essere che, originariamente e fondamentalmente passivo rispetto a se stesso, non ha come tale (e per conseguenza nei confronti di se medesimo) alcun potere. Esso è l’essere che è ciò che è, in maniera tale per cui non può non esser ciò che è […]. L’essere è ciò che è laddove per essere sia intesa la rivelazione originaria immanente di sé nell’unità 38. I concetti di passività e non-libertà, esprimenti il costitutivo carattere di “impossibilità” di Ent-fernung, “distanziazione” della struttura originaria nei confronti di se medesima 39, non hanno tuttavia un significato meramente negativo. Senza la mediazione di alcunché d’altro, l’apparire originario si costituisce alla maniera d’una immediata esperienza di sé, laddove in siffatta esperienza non v’è nient’altro che il sentimento40 della sua perfetta e piena aderenza a sé, la compenetrazione totale, nella costituzione non-estatica della sua ipseità non-objettiva, di mostrarsi e sapersi in quanto assoluta trasparenza a sé. Ebbene, nel modo della passività, la realizzazione di siffatto mostrarsi a se stesso in sé pienamente, senza riserve o eccedenze di sorta è quanto primariamente Henry riconosce al concetto fenomenologico radicale della vita: 37 Cfr. EM, pp. 355-356 (trad. it. cit., pp. 328-329). p. 369 (trad. it. cit., pp. 339-340). Corsivi di Michel Henry. 39 Sulla nozione di Ent-fernung, cfr. supra, Sez. I, Cap. III, § 14. 40 Cfr. EM, p. 360 (trad. it. cit., p. 332): «La semplicità dell’essere (vale a dire, in assenza di qualsivoglia distinzione e finitezza, la sua onnipresenza a sé) deriva dalla semplicità costituente la sua più intima natura e che lo determina ad essere ciò che esso è, ossia il semplice sentimento della sua pienezza». 38 EM, 236 Roberto Formisano La passività determinante in maniera fondamentale il potere ontologico, in quanto passività dell’essere nei confronti di nient’altro che soltanto di se medesimo, è una passività nell’unità. […] Esser se stesso ciò che si riceve e, come tale, esser essenzialmente passivo rispetto a sé, questa è tuttavia l’essenza della vita 41. 27. Passaggio La questione sollevata dalla denuncia della Unselbständigkeit della trascendenza richiede che il concetto fenomenologico della sua essenza, ossia dell’immanenza, sia non soltanto posto davanti agli occhi della riflessione e descritto, ma pensato conformemente al peculiare senso quest’ultima. Poiché, tuttavia, mostrandosi in quanto tale l’immanenza esclude da sé la possibilità stessa d’esser posta-innanzi, e di esser quindi in tal modo es-posta (estaticamente posta) allo sguardo della riflessione, che cosa vuol dire, allora, l’espressione “pensare l’immanenza conformemente all’immanenza medesima”? Non è forse un ossimoro questa espressione? Com’è possibile ed in che cosa consiste il pensiero dell’originario considerato alla luce della non-estaticità costitutiva dell’invisibile realtà del fondamento? Pensare l’immanenza nel senso della non-estaticità significa pensare la struttura dell’ipseità costitutiva della fenomenicità originaria indipendentemente dalle possibilità rappresentate dalla struttura del mondo 42. Tale pensiero si concretizza nello sforzo di realizzare nel modo della riflessione fenomenologica la ripetizione di una modalità d’apparire [phainesthai] non soltanto priva d’objectum, ma più ancora priva della possibilità stessa del rapportarsi-a, di senso objettivo. In questo sforzo di radicalità, la fenomenologia è chiamata a “subire” l’estrema privazione d’objettità e d’objettività nella misura in cui è “la cosa stessa” – cioè il fenomeno originario – a realizzare in questa assoluta assenza di esteriorità la possibilità stessa del sapere e del pensiero in generale. La “privazione” alla quale la riflessione fenomenologica si lascia condurre rinvia alla costitutiva “povertà” propria della struttura originaria, in quanto “povera di mondo”, “povera d’esteriorità”. «Emerge qui – scrive Henry – per il pensiero che vuol pervenire all’essenziale 41 42 EM, p. 367 (trad. it. cit., p. 338). Corsivi di Michel Henry. Cfr. EM, p. 352 (trad. it. cit., p. 325). Dell’immanenza 237 la strana natura del cammino che esso deve compiere, se vuole almeno raggiungere il suo scopo»; ed aggiunge, appena dopo: Per un siffatto pensiero, in effetti, inoltrarsi in un simile sentiero non significa “dirigersi verso” ma, al contrario, “distogliersi da”. In questo movimento mediante cui è distolto da ciò che forma il suo oggetto naturale, [tale pensiero] non abbandona tuttavia soltanto quest’ultimo e l’infinita ricchezza delle sue molteplici determinazioni. In maniera ancor più essenziale e decisiva per la comprensione della povertà e dello svuotamento a cui esso si vota, [questo tipo di pensiero] si distacca dal modo in cui esso naturalmente abita il mondo e si tiene presso le cose e [si allontana] da quel modo di “dirigersi verso” col quale essa sembrava potesse confusamente identificarsi. Così, nello stesso momento in cui, alla perdita di tutto ciò che è, viene ad aggiungersi la perdita più essenziale, cioè la perdita dell’essere stesso, al pensiero è infine annunciato, insieme con il carattere ontologico della privazione da cui è colpito, la sua vera indigenza. […] Tale abbandono è tuttavia l’abbandono dell’essenza. Quell’abbandono nel quale – nell’estrema privazione in cui più nulla di intramondano sussiste, e neppure il mondo – l’essenza si tiene come permanendo nella sua possibilità. Povertà e miseria, perdita e abbandono, caratterizzano l’essenza se considerata rispetto a ciò di cui essa si trova privata 43. Concepita alla luce della maniera naturale e monista di intendere l’essenza del pensiero, la povertà della struttura originaria si presenta ancora come determinazione “negativa”, ricavata e contrario rispetto ai caratteri essenziali della struttura dell’objettità come tale. Tuttavia, secondo Henry, la determinazione della povertà come impossibilità d’altro non ha affatto alcun significato relativo. Al contrario, ciò a cui essa guarda è l’assoluta trasparenza dell’ipseità originaria rivelantesi in se stessa a sé. L’assenza della possibilità stessa di alterità significa essenzialmente l’unicità della rivelazione e, soprattutto, l’unità del suo sapersi che, privo di distinzioni e di articolazioni interne 44, nell’impossibilità di “uscir fuori” di sé è non-altro che la sua piena e immediata trasparenza a sé, vale a dire all’unica realtà originariamente possibile e attuale. ovvero l’assenza nell’originario sapersi del fenomeno in quanto sapere che sa se stesso in assoluta pienezza della possibilità stessa del sapere objetti- 43 44 EM, p. 350 (trad. it. cit., pp. 323-324). Corsivi nostri. Cfr. EM, pp. 350-351 (trad. it. cit., p. 324). 238 Roberto Formisano vo. Tale assenza significa piuttosto, paradossalmente, la “ricchezza” di sé da parte del mostrarsi originario in quanto ipseità assoluta. Povero d’altro, ma ricco di sé, il sapersi costitutivo del fenomeno originario non manca di nulla. In ciò è da intendersi il carattere assoluto della sua trasparenza a sé, cioè la sua costitutiva autonomia. Dandosi a se stesso senza riserve e ricevendosi con altrettanta pienezza, il sapersi in cui esso realizza il suo proprio mostrarsi – il mostrarsi dell’originario in quanto ipseità – giunge in se stesso al suo pieno compimento in quanto del tutto privo di possibili “zone d’ombra”. L’“assolutezza” della trasparenza non-estatica sta nel fatto che, proprio senza bisogno di costituire in se stessa l’orizzonte in cui e per mezzo della ricezione del quale portare a compimento l’alienazione della propria realtà, essa realizza in se stessa, ricevendo la totalità del suo essere, il suo sapersi/mostrarsi a se medesima in quanto tale. In breve: ciò a cui la struttura originaria rivela se stessa, ciò in cui questa si rivela e ciò che rivela la struttura come tale sono “lo stesso”, e cioè, nella loro realtà fenomenologica, tutti il medesimo sapersi della medesima ipseità. Priva di trascendenza, l’inseitas della struttura originaria così concepita 45 non si risolve nell’absurdum di un in-sé assolutamente irrelato. Decisamente al contrario, la nozione di non-estaticità non soltanto consente di recuperare il carattere originario della pura inseitas nel senso del sapere, ma trova altresì fondamento nella costitutiva autonomia relativa alla reciproca identità, cioè all’unità del modo e della realtà del mostrarsi propria del modus originarius. Come Henry scrive, infatti: L’unità indica la relazione dell’essenza con se medesima, la relazione della forma e del contenuto, relazione che permette esattamente la loro identità. […] Ciò che è dunque indicato con il concetto di “unità” è la natura di questa relazione, il modo in cui l’essenza si dà a se medesima, [ossia] l’essenza stessa. Ma [di tale relazione] l’essenza definisce anche il contenuto. Ciò che originariamente si dà a sé, ciò che si rivela nella rivelazione dell’essenza e la costituisce in quanto tale è esattamente il modo in cui l’essenza si dà originariamente a se medesima, il modo in cui essa si rivela. Ecco perché il contenuto della rivelazione è essa stessa la rivelazione; ecco perché, nella Parousia, è la 45 Sulla determinazione dell’immanenza come rivisitazione del concetto di in-sé, cfr. pp. 373-374 (trad. it. cit., pp. 343-344). EM, Dell’immanenza 239 Parousia stessa a rendersi presente a se medesima – perché in se stessa è la rivelazione, perché la Parousia è nella sua struttura l’Unità 46. Povertà e solitudine sono nomi diversi per quell’unica realtà che, nell’impossibilità d’altro e nella trasparenza a sé costitutive della nonestaticità, si identifica di fatto con la parousia del fenomeno originario: Quando più nulla sussite, l’essenza rimane sola con se stessa. La solitudine ha un contenuto. Ciò che è contenuto nella solitudine dell’essenza è l’essenza stessa. Per questo l’essenza è solitudine, in quanto il suo contenuto è costituito da essa stessa. Ma in se stessa l’essenza non è un contenuto morto. Come contenuto, essa è piuttosto ciò con cui è immediatamente legata, ciò con cui è [già sempre] in rapporto. Ciò che permane nella solitudine dell’essenza è la relazione dell’essenza con se medesima, in quanto costitutiva di questa stessa essenza e della sua solitudine. […] Ma la rivelazione a sé dell’essenza nella relazione originaria a se stessa è la Parousia. La Parousia è l’essenza della vita. La Parousia, che è l’essenza della vita: questa è il contenuto della solitudine. La solitudine è la solitudine dell’assoluto, ma l’assoluto nella sua assolutezza, nella pienezza di sé e nella gioia del suo proprio essere 47. Pensare l’immanenza vuol dire dunque, ancora una volta, pensarne la parousia. Su questa connessione si situa il passaggio fondamentale sotto la cui guida Henry si è spinto verso l’elaborazione della filosofia prima nel senso di una fenomenologia della vita. Come il richiamo ai concetti di povertà e solitudine lascia intendere e soprattutto il concetto di vita (già incontrato a proposito della lettura fichtiana del Prologo giovannèo) chiaramente denuncia, tale passaggio si situa consapevolmente 48 sui sentieri del pensiero mistico-religioso cristiano – l’unico, secondo Henry, che nel corso della storia del pensiero occidentale sia stato capace di avvicinarsi alla comprensione autentica del senso dell’indipendenza e dell’autonomia [Selbständigkeit] del fenomeno originario. 46 pp. 355-356 (trad. it. cit., pp. 328-329). Corsivi di Michel Henry. pp. 354-355 (trad. it. cit., pp. 327-328). Corsivi di Michel Henry. 48 Sicché è sul fondo di questo passaggio che sono da collocarsi tutti quegli elementi teoretici che, sebbene la loro esplicitazione ultima accadrà a distanza di almeno trent’anni, a partire dalla pubblicazione delle cosiddette “opere cristologiche”, giustamente hanno indotto sino ad oggi gli interpreti a considerare la filosofia di Michel Henry come sostanzialmente unitaria nel suo sviluppo, ovvero come elaborazione e sistemazione di un unico pensiero fondamentale, i cui esiti sfoceranno infine in un esplicito e diretto dialogo con le fonti teoretiche del cristianesimo. 47 EM, EM, 240 Roberto Formisano D’altra parte, il semplice fatto di tornare verso una nuova riappropriazione filosofica della religione non costituisce tuttavia, di per sé, una soluzione in grado di fornire garanzie sufficienti contro il pericolo di un’ennesima deriva monista. Esempio ne è, ancora una volta, il caso della Religionslehre di Fichte. Nella forma della fichtiana Religionslehre, il monismo si è mostrato essere in grado di pensare la parousia, ossia di giungere ad un peculiare inquadramento del senso relativo all’indipendenza del fenomeno originario rispetto alla dimensione veritativa propria dell’esistenza finita. Il limite di siffatto inquadramento sta però nel fatto che la parousia è tuttavia pensata unicamente alla luce della trascendenza. Sotto l’egida del logos dell’estaticità, la coscienza religiosa riconduce il senso del suo stesso e costitutivo sapersi interamente nel dominio dell’alterità, in maniera tale per cui, pur comprendendosi nella sua essenza come radicata sul fondo del medesimo modo di costituzione dell’originario, sa se stessa come “altra” rispetto al sapersi proprio di quest’ultimo. Sul piano metodologico, inoltre, come lo stesso Henry non ha peraltro mancato di sottolineare 49, l’interpretazione fichtiana della parousia si arresta e si compie sul piano d’una filosofia dell’esistenza la quale, proprio in ragione della differenza che la trascendenza istituisce fra sapersi originario e sapersi esistenziale, di per sé non può in alcun modo esser identificata con la filosofia prima: «Nel momento stesso in cui si trova così modificata – scrive Henry, riferendosi per l’appunto alla modificazione che, agli occhi della coscienza religiosa, il concetto di “esistenza” subisce per effetto della distinzione fra Daseyn e bloßes Dasein, e cioè per effetto dell’autoesclusione che l’esistenza finita sancisce per sé nei confronti della semplice esistenza dell’assoluto – […] la filosofia dell’esistenza non riuscirebbe a dimenticare totalemente, senza perdersi essa stessa, il significato ontologico fondamentale a partire dal quale essa si definisce e che le conferisce il suo posto nella problematica». E ancora: Conformemente a questo significato, esistere vuol dire mostrarsi. Dell’esistenza vera, che è quella dell’assoluto e rispetto alla quale la struttura dell’alterità è assolutamente estranea, è necessario mostrare com’essa sia in se stessa e in che modo, a dispetto di questa esclusione, essa sia e resti un fenomeno. 49 Cfr. EM, pp. 374-375 (trad. it. cit., pp. 344-345). Dell’immanenza 241 Che le cose stiano così e che l’esistenza senza differenza dell’assoluto sia effettivamente un fenomeno, ovvero un’esperienza, tutto questo, in Fichte, permane allo stato di presupposto 50. La radice delle contraddizioni in cui inevitabilmente il monismo cade risiede essenzialmente nella estrinsecità del criterio metodologico in forza del quale la filosofia ha preteso di poter ricondurre in ultimo ogni domandare “originario”. In questo senso è peraltro da intendersi l’affermazione, sottolineata da Henry medesimo, secondo cui: L’esperienza dell’essere, nella sua semplicità e nella sua totalità, si realizza in una maniera diversa […] rispetto alla rappresentazione della coscienza religiosa […]. [Tale esperienza] si realizza nell’essere stesso, in maniera tale per cui l’esperienza dell’essere costituisce nella sua totalità […] una struttura ontologica assolutamente universale e indipendente rispetto a qualsiasi comprensione così come rispetto a qualsivoglia determinazione particolare 51. Come la discussione circa la non-estaticità della struttura originaria aveva annunciato, i concetti fenomenologici di povertà e solitudine, prima ancora d’esser considerati soltanto come determinazioni relative alla costituzione d’essere del fondamento, vanno innanzitutto compresi in quanto modalità costitutive del sapere, ovvero del mostrarsi della fenomenicità non-estatica considerata nella sua realizzazione effettiva, sì che è sotto questo inquadramento che sono da assumersi come criteri alla luce dei quali impostare la domanda circa l’originario. 28. Il significato metodologico della povertà. Michel Henry interprete di Meister Eckhart Chiariti i limiti dell’impostazione fichtiana, il modello per questo ulteriore attraversamento della comprensione religiosa dell’assoluto è piuttosto ricercato da Henry nel pensiero di una delle più rappresentative figure della mistica renana, «un pensatore d’eccezione – come Henry stesso dichiara – un tempo giustamente chiamato “maestro”», e cioè Meister Eckhart. 50 51 EM, EM, p. 377 (trad. it. cit., p. 346). Corsivi di Michel Henry. p. 360 (trad. it. cit., p. 332). In corsivo nel testo. 242 Roberto Formisano Il pensiero di Eckhart agisce, nel corso di L’essence de la manifestation, a un tempo come una chiarificazione ed una conferma 52. Innanzitutto, la figura di Eckhart si impone nella riflessione di Michel Henry come il primo – se non l’unico – pensatore che sia stato capace di comprendere a fondo il significato autenticamente radicale dell’immanenza, al punto che la presentazione ed il commento di alcuni luoghi dei suoi sermoni sono da Henry stesso presentati come chiarificazione della sua stessa “idea” di fenomenologia prima. Riferendosi al tema eckhartiano dell’unione dell’anima con Dio, scrive ad esempio Henry: La comprensione delle strutture ontologiche ultime costituenti l’essenza della realtà non sembra essere, apparentemente, lo scopo prefissato di Eckhart. A questi, pare interessi solo l’edificazione delle anime […]. Eckhart predica all’anima la sua unione possibile con Dio. All’anima, insegna che cosa è necessario fare per elevarsi a questa unione, in cui essa troverà felicità e salvezza. Dunque non è certamente la struttura interna dell’assoluto o di Dio, a costituire il tema dei discorsi e delle predicazioni di Eckhart, ma il rapporto dell’uomo con Dio. E tuttavia, rapportarsi a Dio, rendere l’assoluto manifesto a se 52 Sul piano ermeneutico, i riferimenti di Henry ai testi di Eckhart sono decisamente problematici per il fatto che tutte le citazioni riportate in L’essence de la manifestation fanno esclusivamente riferimento ad una traduzione francese delle cosiddette “opere tedesche” (cfr. M. ECKHART, Traités et sermons, a cura di F. Aubier e J. Molitor, Paris, Aubier, 1942) ormai non solo desueta, ma anche in più punti discordante rispetto al testo stabilito dall’edizione critica curata da Josef Quint e dalla Deutsche Forschungsgemeinschaft (cfr. M. ECKHART, Die deutschen Werke, 5 voll., Stuttgart, Kohlhammer, 1936 ss.). Tuttavia, al di là di queste pur importanti questioni “filologiche” (per le quali si rinvia al giudizio di Alain de Libera, esposto nell’introduzione alla sua traduzione di M. ECKHART, Traités et Sermons, Paris, Flammarion, 1993, pp. 69-73), poiché il nostro interesse verte essenzialmente sul modo in cui la lettura henryenne di Eckhat – per quanto “compromessa” dalla traduzione di riferimento – ha agito o interagito con l’elaborazione delle tesi fondamentali della “fenomenologia della vita” e delle sue nozioni-chiave, nella costruzione dei rimandi in nota si è deciso di non ricorrere ad altro se non ai passi esplicitamente utilizzati da Henry, in piena conformità alla maniera in cui l’Autore stesso li utilizza nel corso delle sue argomentazioni. Per completezza, tuttavia, in corrispondenza dei passi citati da Henry saranno forniti i corrispettivi riferimenti relativi all’edizione Quint dei Deutsche Werke (indicata dalla sigla DW). Ove possibile, pertanto, le note saranno strutturate nel seguente modo: dopo il riferimento tratto dall’edizione Aubier-Molitor e l’indicazione (tra parentesi tonde) della pagina di EM da cui la citazione è tratta, sarà fatta seguire l’esplicitazione del numero e del titolo della predica, secondo l’edizione Quint, con i relativi riferimenti di pagina; infine, tra parentesi quadre, le pagine relative alle edizioni italiane correntemente in uso. Dell’immanenza 243 stessi, non è possibile se non attraverso l’opera della fenomenicità, cioè per mezzo dell’assoluto stesso. Per questo, come d’altronde la problematica aveva necessariamente riconosciuto […], la relazione con l’assoluto dipende dalla natura di quest’ultimo e dalla sua struttura interna, o piuttosto è identico a queste: l’unione esistentiva dell’uomo con Dio non è possibile che sul fondamento della loro unità ontologica. Questo è per l’appunto l’insegnamento di Eckhart: secondo lui, è nell’effettivo compimento dell’opera dell’assoluto che consiste l’essenza dell’anima; essenza che, in quanto tale, non differisce da questo compimento o, come Eckhart dice, dall’opera di Dio 53. La lunga citazione mostra per l’appunto il tema eckhartiano dell’unione dell’anima con Dio sia richiamato da Henry ed agisca ai suoi occhi nel senso di una conferma. Eckhart avrebbe, non soltanto pensato la relazione salvifica dell’anima con Dio come fondata in quest’ultimo, ma anche e soprattutto fondata in maniera tale per cui sia all’anima sia a Dio è riconosciuto un’unica essenza, un’essenza comune inerente al modo di costituzione di entrambe queste realtà. Nel testo citato in precedenza, l’attenzione di Henry si sofferma in particolare su un’affermazione di Eckhart che, nella traduzione francese di Aubier e Molitor, così recita: «Quando Dio fece l’uomo, operò nell’anima la sua opera identica a se stesso, la sua opera operante, la sua opera sempiterna. Questa opera era tale da non essere altro che l’anima, e l’anima non era nient’altro che l’opera di Dio» 54. In questo passo, ciò che Henry riconosce è la dichiarazione del significato fenomenologico della relazione dell’anima con Dio, per cui la possibilità del rapporto con l’assoluto dipende dal modo in cui l’assoluto stesso, rapportandosi a se medesimo, giunge a strutturarsi in quanto tale. Nel passo citato, siffatto modo è indicato come l’“opera” di Dio. Costantemente operante nell’anima, tale opera è descritta da Eckhart come sempre uguale a se stessa, cioè non suscettibile di modificazioni interne. L’opera che Dio compie incessantemente nell’anima, è nient’altro che la costituzione dell’essenza di quest’ultima. L’opera di Dio è l’essenza dell’anima. Ciò che Eckhart afferma è che la possibilità dell’unione dell’anima con Dio poggia su un’unità più 53 pp. 385-386 (trad. it. cit., pp. 353-354). Corsivi nostri. M. ECKHART, Traités et sermons, cit., pp. 244-245 (cit. in EM, p. 386, trad. it. cit., p. 354). Il passo, tratto dal sermone Nolite timere eos qui corpus occident (commento a Mt 10, 28) non è numerato e non è presente in DW in quanto appartiene ad un testo di cui è incerta la paternità eckhartiana. 54 EM, 244 Roberto Formisano originaria, su un rapporto che non dipende dall’anima ma che riposa unicamente in Deo, nel suo operare che è dare vita. Il senso di questa unità risiede appunto nell’opera che di Dio compie in se stesso, ovvero nel rapporto di fondazione che, realizzantesi interamente in Deo, conduce l’anima a se medesima, alla sua nascita: la rivelazione dell’anima a se medesima in quanto ipseità. Di tale operare, tuttavia, Eckhart dice anche che essa non costituisce alcunché di distinto rispetto all’opera che ab origine in se stesso Dio compie in rapporto a sé. L’opera che Dio compie nei confronti dell’anima, costituendola come tale per il fatto che la pone in rapporto a se medesima, è esattamente la stessa che Dio compie nei confronti di sé. Anima e Dio, in breve, condividono la medesima essenza, il medesimo e unico modo di rivelazione a sé. Il modo di costituzione dell’anima è esattamente il modo di costituzione dell’Uno (non-altro) che è Dio, ovvero, originariamente, il rapportarsi a sé della realtà originaria nella sua totalità. In questo senso Henry intende la famosa formula eckhartiana secondo cui «Il fondo di Dio e il fondo dell’anima sono un solo e unico fondo»55. Il fondo comune dell’anima e di Dio è l’identità del modo in cui l’essenza di ciascuna delle due realtà (l’anima e Dio) è posta in rapporto a se medesima. Tale modo [Wie] è la fenomenicità dell’immanenza 56. Ricondotto sul suolo del rapportarsi-a-sé costitutivo della struttura veritativa dell’Uno, il tema eckhartiano dell’unione dell’anima con Dio assume il significato di una fondazione dell’esistenza in Deo. L’identità d’essenza affermata da Eckhart non ha infatti un significato semplicemente formale. Ciò che per essa è inteso non è una relazione estrinseca fra essenze separate. Il modo di costituzione dell’essenza dell’anima e – se così è lecito esprimersi – dell’essenza di Dio sono “il medesimo” per il fatto che l’anima è costituita come tale in virtù di una partecipazione alla realtà dell’essenza divina. In questa partecipazione è l’opera di Dio 55 M. ECKHART, Traités et sermons, cit., p. 191 (cit. in EM, p. 386, trad. it. cit., p. 354); cfr. Pr. 15, Homo quidam nobilis abiit in regionem longinquam accipere regium et reverti (Lc 19, 12), in DW, I, pp. 244-253 (trad. it. in ID., Trattati e prediche, a cura di G. Faggin, cit., pp. 253-258). 56 Cfr. EM, II, p. 542: «L’identità ontologica dell’anima e di Dio esprime sul piano metafisico e significa allo stesso modo l’identità nell’essere della sua realtà e della sua fenomenicità». Dell’immanenza 245 nei confronti dell’anima, ossia la sua apertura a se medesima. L’anima è così fondata in Deo nel senso che l’essenza a partire dalla quale essa è costituita propriamente non le appartiene, ma appartiene all’essenza divina, cosicché anche l’anima – l’anima nella sua interezza – appartiene interamente a quest’ultima. Appartenendo all’essenza divina, l’anima trova già sempre operante in interioritatem la sua propria fondazione 57. Essa partecipa ad un’essenza di cui si dice che è continuamente operante in maniera tale per cui si dà come sempre uguale a se medesima. La partecipazione dell’anima all’essenza divina non individua alcunché di estrinseco, di estraneo all’operare di Dio – al punto che, anzi, nella sua essenza l’anima è addirittura identificata con siffatto operare. La trasparenza a sé dell’anima realizzantesi sul fondo della trasparenza a sé di Dio non aggiunge nulla né nulla modifica nella realtà di quest’ultimo, la quale, al contrario, resta sempre uguale a se stessa. Poiché il Fondo dell’anima è costituito da Dio medesimo, poiché in Dio essa trova la sua essenza, quest’ultima non è stata derivata da Dio, non è stata posta né fuori né dentro Dio per mezzo di un’azione che, aggiungendo l’anima, si sarebbe appunto aggiunta all’eterna essenza di Dio. L’anima non è stata creata 58. Eckhart, secondo Henry, distingue in maniera tutt’affatto rigorosa e precisa l’essenza dell’anima rispetto alla natura creaturale di quest’ultima 59. Prima ancora d’esser creatura, l’anima è innanzitutto, nella sua 57 Il topos è neoplatonico ed in Eckhart presente sotto l’influsso delle tesi di Agostino e di Dionigi lo Pseudo-Areopagita. A tal riguardo, cfr. A. DE LIBERA, Maître Eckhart. Traités et Sermons, cit., pp. 24-27, e ID., Introduzione alla mistica renana, Milano, Jaka Book, 1998, pp. 33-38. 58 EM, pp. 386-387 (trad. it. cit., p. 354). Corsivo nostro. 59 La distinzione tra generazione dell’anima in Deo e creazione del mondo si basa sul presupposto dell’interpretazione del motivo cristiano della creazione nel senso della poiesis greca: della pro-duzione, e quindi della es-posizione del finito, cioè, per esprimerci nel linguaggio dell’ontologia fenomenologica contemporanea, della posizione-innanzi dell’orizzonte temporalmente finito dell’e-sistenza. Tale presupposto è, ad esempio, chiaramente visibile nella Religionslehre di Fichte, il quale intende la creazione esattamente nel senso della esteriorizzazione dell’essere. Una simile comprensione del motivo cristiano della creazione ha però senso solo fintantoché e nella misura in cui sono accolti i presupposti del monismo ontologico. Resta allora aperta la questione se, alla luce della “distruzione” del monismo ontologico, il senso della tesi cristiana della creazione possa esser sviluppato anche al di là della distinzione 246 Roberto Formisano essenza, identica all’operare originario di Dio. Quello della creaturalità individua pertanto un carattere derivativo dell’anima, non inerente al rapporto di fondazione che quest’ultima intrattiene con l’essenza divina, in Deo. Ricondotto fuori dall’ambito della creazione, il rapporto dell’anima in Dio non è più concepito come esso stesso fondato sulla differenziazione interna dell’essenza divina nella sua “immagine” [Bild] o “rappresentazione” [Vorstellung]. Secondo Henry, insomma, la differenziazione di Dio nella sua immagine, che è l’opera della creazione, non costituirebbe, agli occhi di Eckhart, una determinazione essenziale dell’originario operare che Dio, compiendo in sé, realizza altresì nell’anima. Ciò che in tal modo è rifiutato è la concezione non soltanto ordinaria della creazione (come atto di “produzione” che Dio avrebbe compiuto “fuori di sé”), ma anche e soprattutto la concezione monista di quest’ultima, che identifica la creazione con l’apertura stessa dell’ambito di pura esteriorità in cui si collocherebbe la struttura della relazione di fondazione fra la coscienza e l’essere originario, cioè Dio. Quest’ultimo punto è altamente decisivo. È infatti necessario notare a tal proposito che, ad esempio, non diversamente da Eckhart – ed anzi sotto l’influenza anche di quest’ultimo – anche nella dottrina dell’immagine elaborata nel contesto della Religionslehre di Fichte l’identità d’essenza fra l’anima e Dio è costantemente affermata. Lo si è già visto: anche nel tentativo di riappropriazione delle verità della religione, le filosofie del monismo non misconoscono ed anzi sottolineano con tenacia l’identità e l’unicità del modo di costituzione relativo sia all’esistenza sia al fenomeno originario – solo che esse intendono tale identità e tale unicità alla luce della trascendenza. Così in Fichte la condivisione d’essenza fra l’anima e Dio era concepita nel senso di una co-appartenenza fra due distinti “momenti”, articolazioni interne al sapersi originario strutturantesi secondo l’eidos della distanza fenomenologica. Collocata nella dimensione della creazione (anche in tal caso, non intesa in senso ordinario, objettivo, ma come schiusura d’estaticità pura), la relazione dell’anima con Dio è inquadrata dal monismo nel contesto di una filosofia dell’esistenza. Nell’Anweisung, ad esempio, il tema della povertà è sì ripreso da Fichte per indicare in quest’ultima il methotra generazione e poiesis a cui Henry continuerà a far ricorso, anche nelle opere della maturità (cfr. M. HENRY, Incarnation, cit., pp. 323-329, trad. it. cit., pp. 261-266). Dell’immanenza 247 dos, la “via” che l’anima deve poter percorrere in vista dell’unione con Dio, ma la “spoliazione” a cui il concetto fichtiano di povertà conduce è sempre inteso soltanto come spoliazione d’objectum. Priva di contenuto objettivo, il sapersi entro cui la coscienza religiosa giunge allo scoprimento del senso della sua identità essenziale con Dio è quello della Vorstellung, per cui: nel momento stesso in cui la coscienza religiosa scopre d’essere essenzialmente coappartenente alla realtà essenziale di Dio, sapendo se stessa come pura (scil. non-objettiva) immagine di Dio, essa sa se stessa altresì come costitutivamente “altra” rispetto a quest’ultimo. Se per un verso, dunque, la povertà è indicata come il methodos indispensabile affinché la coscienza giunga allo scoprimento della radice del suo costitutivo sapersi nell’identità essenziale con Dio, l’alterità che si scopre essere contrassegno essenziale di siffatto sapere conduce alla netta distinzione fra ciò che la povertà mostra (l’unità strutturale del sapersi dell’anima con il sapersi di Dio) ed il modo in cui essa mostra quest’ultimo. In questa non-coincidenza 60 ed appunto per il fatto che essa mostra sì l’identità essenziale dell’anima e di Dio ma nella loro costitutiva differenza, la povertà resta una determinazione d’essere propria della sola esistenza finita. Distinta dalla semplice esistenza dell’essere assoluto, la povertà dell’esistenza finita, svuotata di ogni contenuto intramondano e aperta alla comprensione di quel non-ente che è il mondo, non consente effettivamente l’accesso alla struttura interna del sapersi di Dio per il fatto che le è piuttosto costitutivamente aliena. In tal senso, d’altronde, è stata posta in evidenza la contraddizione a cui inevitabilmente l’interpretazione monista della religione vota se stessa, per il fatto che il methodos della povertà individua un modo d’essere che, in quanto costitutivo della coscienza religiosa, si svela essere non appartenente alla struttura originaria in ragione della costitutiva alienazione di Dio. Diversamente da quanto inteso dalle filosofie del monismo, a giudizio di Henry, i sermoni di Eckhart escludono esplicitamente la tesi secondo cui l’identità essenziale di anima e Dio possa esser pensata nel senso monista della “creazione”, ossia dell’alienazione dell’essere nella 60 Peraltro perfettamente rispondente al carattere essenziale della trascendenza, il cui modo [Wie] di costituzione è per principio differente alla realtà nella quale esso porta a compimento il proprio phainesthai: cfr. supra, Sez. III, Cap. I, § 24. 248 Roberto Formisano schiusura a sé dell’esistenza finita. La fondazione dell’anima in Deo sarebbe piuttosto pensata da Eckhart nel senso di una esclusione dalla struttura del rapporto dell’anima con Dio della possibilità stessa di ogni alterità. «L’alterità – scrive Henry riferendosi alla prospettiva di Meister Eckhart – non è in effetti una categoria vuota, puramente logica […]; al contrario, si trova determinata ontologicamente, in una maniera rigorosa, come propriamente costitutiva di un ambito ontologico, come orizzonte e come mondo». Ed aggiunge, poi: Come il significato dell’alterità, anche il significato dell’esclusione si trova determinato allo stesso modo. L’esclusione è l’esclusione del mondo e, al contempo, di tutto ciò che in esso giunge a manifestarsi. […] Il “mondo”, insieme con tutte le sue “immagini”: ciò è quanto, secondo Eckhart, si trova gettato fuori dall’assoluto. E tutto questo è quanto è necessario tenere fuori dall’assoluto, se si vuol comprenderne la struttura. […] Il rifiuto di tutte le immagini è altresì rifiuto […] dell’esteriorità 61. Sull’irriducibilità, costantemente dichiarata da Eckhart, dell’identità essenziale dell’anima e di Dio, e cioè della loro costitutiva unità, Henry fa poggiare la sua tesi circa la sostanziale estraneità del mistico renano all’orizzonte del monismo. Esclusa la dimensione della creazione dall’ambito del rapporto di fondazione dell’anima in Deo, ne viene infatti che, decisamente all’opposto di ogni deriva monista ed anzi conformemente ai risultati della critica della trascendenza, Eckhart pensa l’identità essenziale dell’anima e di Dio esattamente nel senso dell’esclusione in esso della struttura stessa dell’estaticità. Sì che, proprio in ragione di questa esclusione, per Henry, la filosofia di Eckhart si presenta chiaramente non come “filosofia dell’esistenza”, ma piuttosto come “filosofia dell’originario”, in quanto filosofia dell’immanenza. Contrassegno per questa differenza fondamentale è appunto il concetto di “povertà”, che in Eckhart cessa di indicare soltanto delle determinazioni d’essere della sola esistenza. La povertà, in Eckhart, indica non più soltanto la spoliazione d’objectum ma l’abbandono stesso dell’estaticità in quanto tale 62 . In quest’assoluta povertà, ciò che resta (scil. ciò che il methodos della povertà mostra) è nient’altro che il fondo 61 p. 393 (trad. it. cit., pp. 359-360). Cfr. EM, pp. 393-394 (trad. it. cit., p. 360). Sul significato della povertà in Eckhart cfr. anche A. DE LIBERA, Introduzione alla mistica renana, cit., pp. 188-192. 62 EM, Dell’immanenza 249 dell’anima, ossia il fondo stesso di Dio in quanto operare “sempre identico a se medesimo”. Nell’assenza di alterità, l’identità dell’operare nei confronti di se medesimo non ha altro significato che l’identità del modo di siffatto operare con la realtà che esso alimenta. Del tutto privo di estaticità, tale operare, riferito al rapportarsi-a-sé proprio di Dio, altro non è se non la pura (non-objettiva) ipseità divina. Ciò che dunque, a differenza della concezione fichtiana ad esempio, il concetto eckhartiano di povertà mostra, regredendo anch’esso alla trasparenza a sé dell’anima, è non-altro che Dio, ossia la trasparenza a sé di Dio in quanto impossibilità d’altro. Invero, nel concetto eckhartiano di povertà, Henry riconosce innanzitutto un significato metodologico rigoroso. Lo scopo salvifico della povertà è di mostrare il senso della sua fondazione in Deo, ossia il senso della sua identità essenziale con il fondo divino. Mostrare questo senso significa altresì realizzare, rendere concreto nell’esistenza stessa la sua unione con Dio. Ma in che modo, in quanto abbandono dell’estaticità, la povertà può operare una simile realizzazione? La risposta che, infine, Henry ricava afferma che la povertà mostra l’ipseità divina in maniera tale per cui, partecipando dell’essenza di quest’ultima, si identifica con essa. Scrive infatti Henry: Lungi dall’implicare l’identificazione della creatura con l’assoluto, Eckhart afferma al contrario, rifiutando ogni distinzione e ogni differenza [interne all’assoluto], l’esclusione della creatura da quest’ultimo. […] Comprendere Eckhart significa elevarsi ad intendere […] l’identità tra l’inclusione dell’anima in Dio e l’esclusione di ogni creatura da quest’ultimo; significa comprendere l’essenza e tutto ciò che prende parte al suo mostrarsi, in quanto fenomenizzazione di sé, nella sua determinazione radicale a partire dall’esclusione di ogni differenza […]; significa comprendeere come e perché, per parlare come Eckhart, “quando l’uomo si trovava ancora nell’eterno modo di Dio, nulla d’altro viveva in Lui” 63. In questa identità – il cui senso è quello della non-alterità dell’originario – la povertà mostra all’anima in cerca di Dio “se stessa” non sol63 EM, pp. 397-398 (trad. it. cit., p. 363). Corsivi nel testo. La citazione di Eckhart è tratta da M. ECKHART, Traités et Sermons, cit., p. 256; cfr. Pr. 52, Beati pauperes spiritu (Mt 5, 3) in DW, II, pp. 486-506 (trad. it. in ID., Sermoni tedeschi, a cura di M. Vannini, Milano, Adelphi, 2007, pp. 130-138; e ID., Trattati e prediche, a cura di G. Faggin, cit., 364-372). Il corsivo nella citazione è di Michel Henry. 250 Roberto Formisano tanto allo stesso modo in cui anche Dio è reso trasparente a sé (aspetto che condividerebbe con la coscienza religiosa di Fichte) ma altresì nella realtà stessa di questa trasparenza originaria. La povertà non soltanto individua una condizione essenziale per lo scoprimento dell’essenza divina ma appartiene alla realtà di quest’ultima64. Ciò che la povertà mostra e ciò in cui la povertà si concretizza, ossia l’esistenza spogliata di ogni esteriorità, sono “lo stesso” nel senso che si identificano essenzialmente con quell’unico ed unitario operare che è l’originario rivelarsi a sé in se stesso da parte di Dio: Mirando non più a Dio inteso nel senso restrittivo del suo concetto ma, questa volta, alla sua essenza, in una frase fondamentale Eckhart dice: “Tutto ciò che è in Dio è Dio”. Così si trova restituita alla sua propria positività ontologica l’affermazione secondo la quale nell’assoluto non v’è nulla d’altro, nulla di estraneo. Il fatto che l’essenza abbia un contenuto che le appartiene e che questo contenuto sia da essa costituito, tutto questo rende maggiormente chiare le determinazioni ontologiche fondamentali, da Eckhart raccolte sotto i nomi di “solitudine” e “deserto”, che formano la struttura interna di quest’essenza, vale a dire la natura stessa della Deità. […] Poiché è il fondo proprio di Dio, la Deità che costituisce l’essenza di questo deserto, il contenuto di questa solitudine, quest’ultima e le determinazioni in cui si realizza e che le sono identiche, [cioè le determinazioni di] umiltà e povertà, […] hanno dunque propriamente un contenuto, cioè la Deità stessa. Come tali esso sono l’esperienza stessa di Dio, cioè la sua realtà 65. Il senso dell’“ambivalenza” espressa dal concetto di povertà inteso sia come methodos per la riflessione sia come determinazione essenziale della struttura originaria risiede nel fatto che la realtà del modo che 64 Cfr. EM, pp. 395-396 (trad. it. cit., p. 362): «Umiltà e povertà non intervengono […] all’interno dell’analisi eidetica solo come “momenti”, condizioni preliminari che, pur permettendo il dispiegamento dell’essenza, sono allo stesso tempo estranee alla natura di quest’ultima. Le condizioni del dispiegamento dell’essenza appartengono necessariamente a quest’ultima, in quanto identiche ad essa. L’identità ontologica dell’essenza e delle determinazioni nelle quali essa compie il proprio mostrarsi è da Eckhart esplicitamente riconosciuta e affermata: “La virtù chiamata umiltà – egli dice – è radicata nel Fondo della Deità in cui è inserita in maniera tale da non poter essere altrimenti che nell’unità eterna e da nessun’altra parte”». La citazione di Eckhart è tratta da M. ECKHART, Traités et Sermons, cit., p. 189; cfr. Pr. 15, Homo quidam nobilis abiit in regionem longinquam accipere regium et reverti (Lc 19, 12), in DW, I, pp. 244-253 (trad. it. in ID., Trattati e prediche, a cura di G. Faggin, cit., pp. 253-258). 65 EM, pp. 401-402 (trad. it. cit., pp. 366-367). Corsivi nostri. Dell’immanenza 251 rende possibile lo strutturarsi della schiusura estatico-orizzontale è non-altro che la realtà stessa della fenomenicità originaria. Radicata sul fondo di questa sua realtà in sé già sempre compiuta, l’immanenza (identità di modo e realtà del mostrarsi come tale) apre alla possibilità di un ulteriore “movimento” il quale, proprio in questo suo carattere di ulteriorità rivela il suo carattere derivativo. Tale movimento è appunto l’atto della trascendenza, il mostrarsi inteso come “schiusura non-objettiva”, apertura d’orizzonte nel senso della distanziazione e della differenza. Con l’atto della trascendenza accade che, sul fondo della positività e della compiutezza in sé del fenomeno originario, un “secondo” ambito dell’apparire si trova ad esser dischiuso. Con esso, ha luogo l’apertura del “fuori” che determina il campo fenomenologico “derivato” (trascendentale, ma non originario) dell’estaticità e della ni-entità. Il “fuori”, così strutturato, non accade “al di là” dell’immanenza, ma proprio sul fondo di questa. Più precisamente: accadendo sul fondo dell’immanenza, la trascendenza giunge a costituirsi come tale sempre e soltanto in seno alla rivelazione, sebbene il suo apparire implichi l’esteriorizzarsi di una realtà “altra”. Esprimendoci in maniera metaforica si potrebbe dire che: trascendenza si dà in quanto tentativo di sottrarsi alla costitutiva passività dell’immanenza. Ma poiché contrassegno dell’originarietà è l’impossibilità di sottrarsi ad essa per volgersi ad altro, la trascendenza realizza la propria Freiheit, nel senso heideggeriano dell’aletheia e del Sein-lassen riferito all’ente, collocandosi, per così dire, su un piano non più originario ma “derivato”. Sicché, solo mantenendosi in questa derivazione, che nulla aggiunge e nulla modifica all’immanenza ed all’indipendenza del fenomeno originario, alla trascendenza è infine data la possibilità di esercitare la libertà di istituire per sé il logos della Differenza. Che trascendenza si dia “oltre” la stretta dell’immanenza ma solo su un piano derivato vuol dire, dunque, innanzitutto, che è impossibile che si dia un “fuori”, un’ulteriorità rispetto all’assolutezza del fenomeno originario; inoltre, che il “fuori” dato dalla trascendenza nel modo della trascendenza medesima accade sul fondo della positività del fenomeno originario; infine, che, in ragione del suo carattere derivativo, l’opera di differenziazione (distinzione fra modo e realtà del mostrarsi in quanto schiusura estatica) messa in atto dalla trascendenza, pur accadendo sul suolo dell’originario, non aggiunge né modifica in nulla l’assolutezza di 252 Roberto Formisano quest’ultima, in se stessa e come tale già sempre compiuta. Quindi, pur costituita nella realtà dell’immanenza, ma esercitando la libertà ed il potere “immaginativo” che le sono propri su un piano distinto e derivato rispetto all’originario sapersi della rivelazione, la trascendenza opera “creando” un ulteriore modo del sapersi – quel modo appunto dato dall’alienazione, il quale (ed è questo il rilievo di grande interesse in questo momento dell’esposizione) nella sua realtà essenziale partecipa dell’originario, e tuttavia, conformemente al senso della ricezione d’orizzonte messo in luce dalla critica al monismo ontologico, nella sua realtà effettiva ignora ed occulta a se medesima questa origine. Ciò che la trascendenza “crea” è una sovrastruttura, una dimensione dell’apparire non-objettivo “ulteriore” ma non altrettanto originaria rispetto all’apparire non-estatico dell’immanenza. Nel crearsi il proprio mondo, la trascendenza non dà origine ad alcunché, ma informa del niente la realtà già data in se stessa a sé dell’immanenza; sì che, occultando il potere rivelativo dell’originario, in tal modo istituisce per sé il terreno del dis-velamento dell’essere. Ma, appunto: poiché è sempre e solo sul piano non-originario del modus derivativus che alla trascendenza è data la possibilità di violare la “verginità” dell’immanenza, la realtà di cui esso si finge “creatore” altro non è che l’occultamento della realtà in se stessa rivelata a sé in cui l’atto stesso della schiusura ek-statica è radicata nella sua possibilità. Ciò che, dunque, il concetto di povertà testimonia è il fatto che, proprio perché trascendente nella costituzione, l’e-sistenza si determina come immanenza per quel che concerne la realtà essenziale del suo modo di costituzione. Concepita in riferimento alla possibilità essenziale del suo stesso sapersi, l’e-sistenza si rivela essere in se stessa, indipendentemente dal modo in cui fattivamente comprende se stessa, partecipe della struttura originaria, esattamente nel senso della fondazione in Deo illustrata da Eckhart. In questa partecipazione risiede la possibilità per l’e-sistenza del suo stesso esserci, in quanto rivelazione della struttura estatica della comprensione d’essere a se medesima come tale. Ma è appunto nella partecipazione che il concetto di povertà mostra finalmente il suo valore metodologico. La partecipazione definisce e determina il tipo di motivazione teoretica che la filosofia dell’immanenza reclama per sé a titolo di filosofia prima. Concepita in chiave fondativa, la ripetizione a cui fenomenologicamente la filosofia dell’immanenza tende assume piuttosto i contorni di un radicamento nella parte- Dell’immanenza 253 cipazione. Posto che, alla luce della non-estaticità, partecipare dell’immanenza vuol dire essenzialmente essere rivelato a se stesso in quanto sé nella trasparenza assoluta e per mezzo di questa, “radicarsi nella partecipazione” vuol dire allora “ritornare alla trasparenza”, ovvero radicarsi nell’interiorità a partire dalla quale costitutivamente prende origine il sapersi di ciascun pensante in quanto tale. Intendere la povertà come modo del radicamento in interioritate (e cioè, in senso eckhartiano, in Deo) significa pertanto pensare qualcosa come la messa tra parentesi della trascendenza come tale, operazione la cui possibilità rinvia direttamente al modo di costituzione della trascendenza medesima, ovvero, ancora una volta, alla realtà dell’immanenza e all’immanenza in quanto realtà della rivelazione, ovvero identità della struttura e della realtà del fenomeno originario. Capitolo II Invisibilità e affettività 29. La “positività” dell’invisibile. Implicazioni metodologiche La non-estaticità della fenomenicità originaria e la conseguente definizione dell’immanenza come essenza della trascendenza determinano innanzitutto la positività del campo fenomenologico originario, in quanto ipseità assoluta. Il significato fenomenologico di tale positività rinvia essenzialmente all’interpretazione della struttura della rivelazione come “non-altro”, ovvero “impossibilità d’altro, in quanto impossibilità d’ekstasis” 1. Alla luce di questa determinazione, in un primissimo senso la positività dell’originario si riferisce alla sua assolutezza, ovvero all’assenza ed all’impossibilità di una ulteriorità rispetto alla realtà fenomenologica di quest’ultimo, e cioè rispetto alla sua totale trasparenza a sé in quanto tale. L’assolutezza sta nel fatto che, a mostrarsi in quanto tale nella realizzazione effettiva del fenomeno originario non è soltanto una parte del fenomeno (i.e. il Was, il “contenuto” del mostrarsi), ma appunto il fenomeno nella sua totalità: il contenuto fenomenologico del mostrarsi originario si dà in maniera tale per cui contiene non soltanto la realtà di ciò che si mostra bensì anche l’atto stesso del mostrarsi, in quanto entrambi identici fra loro. Nell’impossibilità d’altro, il fenomeno originario si determina come quell’apparire che, nell’atto stesso del suo darsi è ricevuto nella sua totalità: non-altro è originariamente dato se non il sapersi della totalità 1 Il senso dell’alterità – qui di pari passo negata insieme con l’estaticità – va essenzialmente riferito a quanto enucleato dal concetto monista di alienazione, cfr. supra, Sez. II, Cap. III, § 21. 256 Roberto Formisano stessa della rivelazione in quanto assoluta e totale trasparenza a sé dell’unica realtà dell’immanenza. Poiché, però, in questo contesto il concetto di “totalità” è inteso non in senso quantitativo bensì come “esclusione della possibilità di eccedenza”, il criterio dell’impossibilità d’altro rispetto all’immanenza 2 non determina soltanto l’impossibilità di pensare, accanto oppure “oltre” l’apparire originario, un’“assoluta esteriorità” altrettanto originaria ed opposta all’unico e in se stesso sempre identico fenomeno della rivelazione. Impossibilità d’altro vuol dire altresì che, sul fondamento dell’unicità dell’apparire originario, immanenza e trascendenza stanno ad indicare due modi gerarchicamente disposti della fenomenicità in generale. Operando sul fondamento della trasparenza a sé costitutiva della realtà dell’apparire originario, è in rapporto a questa che la trascendenza opera in definitiva la differenziazione 3; sì che, ricevendo soltanto il “prodotto” della sua pro-jezione ek-statica e così illuminando solo l’orizzonte d’essere costituito um der Welt willen, la tra2 L’inconsistenza, cioè, di un “fuori” che limiti il fenomeno originario e che come tale sia esso stesso da assumersi come originario al pari della struttura della Selbstheit non-estatica. 3 Il che significa: la trascendenza non soltanto riceve dall’immanenza il modo [Wie] del suo mostrarsi, ma da questa, conformemente al carattere originario del suo darsi, riceve altresì il fondamento per la sua differenziazione. Difatti, compiendosi in se stessa, l’immanenza non soltanto offre alla trascendenza la possibilità della schiusura, ma costituisce essa stessa la realtà dell’atto che opera l’apertura estatica dell’orizzonte trascendentale dell’essere. L’immanenza, in quanto immanenza in senso assoluto, è immanente non soltanto a se stessa, ma sempre anche alla trascendenza in quanto realtà del modo del suo mostrarsi, realtà della struttura della trascendenza (genitivo soggettivo). Immanente alla trascendenza, e cioè costituendo di sé la realtà del modo di costituzione di quest’ultima (esattamente: la realtà dell’atto della schiusura, che la trascendenza non è costitutivamente in grado di ricevere), l’immanenza si dà come essenza della trascendenza: non come realtà a sé stante, “disgiunta” e “separata” dal mondo, ma come essenza che, pur non mostrandosi alla luce del mondo, è tuttavia concretamente presente, in tutta la sua realtà, al fondo del processo di costituzione del Worumwillen estatico. L’immanenza costituisce dunque essa stessa, “in carne e ossa”, la realtà della trascendenza concepita “al di qua” della sua alienazione effettiva: essa è il “presente vivente” che, inappercepito alla luce della trascendenza costituisce tuttavia la realtà sul fondamento della quale la schiusura estatica è effettivamente operata, quella realtà fondamentale che, pur nutrendo di sé – del suo sapersi che è la sua rivelazione in se stessa a sé – lo strutturarsi della trascendenza, nell’orizzonte della schiusura estatica permane tuttavia occultata allo sguardo dell’esserci. Così intesa, dell’immanenza è allora possibile dire con coerenza che è lei a costituire, in quanto tale, il senso della trascendenza, in quanto essa stessa (nella sua realtà effettiva e non in virtù di un qualche rimando) realtà dell’atto che opera la fondazione della trascendenza. Invisibilità e affettività 257 scendenza realizza il proprio mostrarsi nel modo dell’occultamento a sé della propria origine 4. La realtà del fenomeno non-estatico si determina in tal senso come ciò che fonda la partecipazione e, sul fondo di questa, per mezzo della delimitazione di un orizzonte finito non-originario ma derivativus del mostrarsi [phainesthai], fonda altresì la differenziazione interna alla fenomenicità nel modo della schiusura estatica. Posto, dunque, che la positività (ovvero la realtà stessa del fenomeno originario in quanto non-estatico) individui, in ultima istanza, ciò che determina la possibilità della trascendenza, si tratta ora di capire in che cosa consista, in via definitiva, il contenuto positivo di siffatta realtà. – Espressa in altri termini, la domanda-guida che a questo punto dell’analisi giunge ad imporsi è: in che cosa consiste, nella sua concretezza fenomenologica, la realtà del fenomeno originario? In che cosa, la positività del suo mostrarsi? Per poter pensare nella sua concreta positività il senso inerente al modo di costituzione della struttura originaria, non v’è altra possibilità se non quella di assumere l’immanenza come criterio e methodos della riflessione fenomenologica stessa, ovvero: pensare l’originario unicamente in conformità all’eidos determinante la sua autonomia. Pensare l’immanenza iuxta propria principia significa però, essenzialmente, pensarla indipendentemente dal potere manifestativo proprio della trascendenza, vale a dire indipendentemente dalla visibilità che la schiusura estatica fonda in-grazia-del mondo. Nella misura in cui, infatti, il senso dell’immanenza e la sua realtà sono interrogati sempre e solo a partire dal lume della trascendenza e in conformità all’eidos di quest’ultima, le determinazioni inerenti la fenomenicità originaria così ricavate non possono che essere inevitabilmente soltanto “relative” e “negative”, 4 Da notare, in tal senso, è in effetti il fatto che, pensato alla luce di siffatta gerarchizzazione, il criterio della differenza ontologica è determinato da Henry, diversamente da Heidegger, non a partire dall’ente (cioè dalla positività objettiva propria della presenzialità ontica e della sua manifestazione), ma a partire, propriamente, dal “se stesso” del fenomeno originario ossia, appunto, dalla determinazione in senso non-estatico della positività di quest’ultimo in quanto parousia. Pur così intesa, però, resta il fatto che la differenza ontologica heideggeriana perde ogni significato fenomenologico originario, appunto perché relativa non alla trasparenza a sé della rivelazione, ma alla derivazione, rispetto a quest’ultima, di una modalità altra di costituzione, non autonoma e in questo senso estranea alla positività originaria, in quanto alienantesi sul fondamento di questa. 258 Roberto Formisano mentre la struttura interna della fenomenicità è destinata a permanere, come tale, non suscettibile di alcuna chiarificazione “in positivo” e quindi a rivelarsi come costitutivamente inaccessibile allo sguardo fenomenologico. Quasi come in gioco di prospettive, la realtà della fenomenicità originaria ed il senso della sua rivelazione a se stessa in sé, commisurate in rapporto ad un eidos che non appartiene loro, sono lasciate ad un oblio la cui ragion d’essere rinvia essenzialmente alla costitutiva incapacità della trascendenza di ricevere la realtà dell’atto che ne struttura il fondamento, in quanto in sé già sempre mostrantesi. In tal modo, peraltro, l’occultamento generato da questa costitutiva incapacità della trascendenza di rapportarsi e ricevere la propria origine finirebbe (come appunto il caso di Heidegger testimonia) col motivare un’esiziale confusione tale per cui l’oblio pro-curato dalla trascendenza è infine interpretato come tratto costitutivo dell’apparire originario medesimo. Diversamente, ciò che la positività della fenomenicità originaria richiede per poter esser pensata nella concretezza della sua rivelazione è piuttosto, innanzitutto, una radicalizzazione dell’epoché fenomenologica. L’“idea” henryenne di fenomenologia prima implica una riduzione fenomenologica radicale nel senso che, a differenza della riduzione praticata ad esempio nella fenomenologia di Husserl, essa non è più rivolta soltanto agli oggetti della coscienza in vista dello scoprimento della struttura intenzionale del loro rapporto, bensì primariamente a questa struttura stessa. Il suo obiettivo è rendere accessibile lo scoprimento del Wie determinante la possibilità ultima d’apparire (e d’essere) di questa struttura, ovvero il suo modo di costituzione. A tal scopo, è tuttavia necessario che, dal punto di vista metodologico, l’inquadramento di siffatta struttura sia messo in condizione di poter prescindere del tutto dagli oggetti e dai fenomeni che questa, sul fondamento del suo mostrarsi, rende possibili. Ma, interrogata circa il modo del suo stesso darsi, la struttura originaria del fenomeno dev’esser in grado di dar conto in se stessa della sua stessa possibilità. Ecco perché, messe in chiaro le insufficienze del monismo ontologico, la radicalizzazione della riduzione fenomenologica è pensata nel senso specifico di una messa tra parentesi della struttura stessa della trascendenza, e dunque anche dell’intenzionalità. L’“idea” verso cui Henry spinge la riflessione sul fondamento si scopre così esser essenzialmente pensata nel senso d’una fenomenologia non-intenzionale: una scienza descrittiva della fenomenicità considerata in se stessa e in conformità unicamente al modo originario della Invisibilità e affettività 259 sua propria costituzione (auto-ricezione non sottomessa all’eidos della temporalità estatica) 5. In effetti, come lo scoprimento della dimensione fenomenologica trascendentale della non-objettità, storicamente operato dalla fenomenologia di Husserl e Heidegger, ha richiesto quale sua premessa fondamentale l’epoché della tesi naturale dell’esistenza del mondo, così lo scoprimento della positività dell’immanenza esige una vera e propria epoché della trascendenza ovvero, come anche Henry la chiama, una epoché del mondo 6. Il che non vuol dire che, nel regime di questa riduzione fenomenologica radicalizzata, il mondo e la trascendenza dell’esistenza vengano ignorati o esclusi dalla riflessione. Il loro carattere di fenomenicità non è per questo misconosciuto. Soltanto, sia il Worumwillen dell’estaticità sia la sua realtà saranno ora inquadrati e tematizzati essenzialmente alla luce di quel rapporto di fondazione il cui senso è stato reperito nell’immanenza. Sì che solo in conformità a questo senso – ora definitivamente eletto a methodos della riflessione fenomenologica henryenne – ed alla fondazione che esso implica, dovrà essere sviluppata l’analisi della fenomenicità originaria. 5 A giudizio di Henry, la descrizione del non-intenzionale e l’approfondimento del carattere trascendentale di questa dimensione fenomenologica sui generis rispetto alla dimensione estatico-orizzontale della trascendenza rappresenta l’autentico impensato della “fenomenologia storica”. Sebbene infatti già Husserl avesse a suo modo distintamente colto l’esistenza di una hyle non-intenzionale al fondo dell’attività noetica della coscienza (cfr. E. Husserl, Ideen I, § 85) la conseguente “idea” d’una “fenomenologia iletica” che ne doveva scaturire fu pur sempre pensata e sviluppata unicamente secondo le possibilità ed il methodos offerti dall’intenzionalità. Diversamente, ciò su cui Henry insiste è, da un lato, l’affermazione dell’irriducibile eterogeneità di queste due dimensioni (iletica e intenzionale), dall’altro, per quel concerne la loro strutturale relazione trascendentale, la disposizione gerarchica delle due fenomenicità, che vuole la trascendenza subordinata ad una modalità dell’apparire di tipo non-estatico. Dal punto di vista metodologico, l’insieme di questi due caratteri motiva la necessità di giungere ad una descrizione della dimensione non-intenzionale ricavata in conformità al modo di costituzione di quest’ultima. Su questo tema, cfr. M. HENRY, Phénoménologie hylétique et phénoménologie matérielle, in ID., Phénoménologie matérielle, cit., pp. 13-59 (trad. it. Fenomenologia iletica e fenomenologia materiale, in ID., Fenomenologia materiale, cit., pp. 67-105); ma anche ID., Phénoménologie non-intentionnelle: une tâche de la phénoménologie à venir, in L’intentionnalité en question. Entre phénoménologie et sciences cognitives, a cura di D. Janicaud, Paris, Vrin, 1995, pp. 383-397; ora in ID., Phénoménologie de la vie, t. I, cit., pp. 104-121. 6 Cfr. EM, II, p. 477-502. 260 Roberto Formisano L’epoché del mondo – «la messa in corto circuito della stessa esteriorità»7 – si rende necessaria per superare l’oblio a cui, dall’interno del proprio orizzonte, il potere manifestativo della trascendenza pretende di poter sottoporre la fenomenicità originaria. In essa Henry riconosce il gesto inaugurale su cui riposa la propria “idea” di fenomenologia che, ponendosi fuori dal “circolo” a cui inesorabilmente il methodos dell’estaticità conduce, procede al disoccultamento dell’accesso all’originario sempre e comunque ricercato non altrove, se non al fondo dell’e-sistenza. L’epoché del mondo opera in questo senso in vista del disoccultamento di quell’accesso che, già sempre rivelato a se stesso in sé, è riconosciuto come costituente esso stesso la realtà del fondo in rapporto al quale ha luogo e “prende terreno” la schiusura estatico-orizzontale, nel modo della remissione a sé dell’e-sistenza um der Welt willen. In quanto fondo autonomo dell’e-sistenza, la realtà dell’immanenza richiede d’esser pensata conformemente al senso di siffatta autonomia. Dal punto di vista metodologico, l’epoché del mondo individua quel gesto inaugurale che introduce pertanto alla necessità di pensare l’originario conformemente al senso della sua costitutiva eterogeneità e indipendenza nei confronti della trascendenza. In breve, ciò a cui la radicalizzazione della riduzione fenomenologica introduce è un’inquadramento del fenomeno originario considerato alla luce della sua effettiva parousia 8. Nella parousia, il fenomeno originario si mostra in quanto tale (“mostra se medesimo a stesso in sé”), nel senso che sa se stesso in sé nell’unità, unicità e identità della realtà e del modo della sua stessa rivelazione. Il suo mostrarsi – che è sapersi, nel senso della pura (non-estatica) trasparenza a sé – non si realizza alla maniera d’una qualche “visione” o “immagine” di sé. Ciò, d’altronde, è quanto già la determinazione della Unselbständigkeit della trascendenza aveva affermato 9. Il sapersi originario non può – “manca essenzialmente della possibilità di…” – vedere se stesso, per il fatto che il “vedere” (scil. l’intuire, il percipere, il rappresentare, il comprendere ecc.) implica, quale suo presupposto, l’oltrepassamento, la distanziazione, la differenza. Il che si7 Cfr. EM, II, p. 493. Nel senso precedentemente indicato e sviluppato nel corso dell’interpretazione fenomenologica delle tesi di Meister Eckhart: cfr. supra, Sez. III, Cap. I, § 27-28. 9 Cfr. supra, Sez. II, Cap. III, § 23. 8 Invisibilità e affettività 261 gnifica però anche l’abbandono della condizione di autonomia, ed il passaggio 10 e la fuoriuscita dal modus originarius al modus derivativus della fenomenicità. La fenomenicità originaria non può non sapere se stessa, così come non è possibile che possa sapersi, cioè realizzare il proprio apparire, alla maniera d’una veduta non-objettiva (scil. sapersi in e per mezzo della schiusura estatica d’orizzonte) Questa modalità non può costituire il senso del suo mostrarsi in quanto “originario”, cioè alla maniera d’un fondamento, per il fatto che il suo darsi è costitutivamente segnato da un’inoltrepassabile passività nei confronti di non-altro se non unicamente di se medesima. Stretta in questa non-libertà – in cui tuttavia essenzialmente risiedono i suoi peculiari caratteri di autonomia, assolutezza e originarietà – nessuno slancio estatico, nessuna possibilità di Entfernung sono permessi. Tale passività contrassegna però nel suo tratto più essenziale l’apparire non-estatico della fenomenicità originaria non soltanto nel senso (negativo) di un’incontrovertibile “impotenza”, ma anche e soprattutto – positivamente – di un’ineguagliabile compiutezza. L’originario, infatti, può costituirsi in quanto fenomeno, nella misura in cui esso sa se stesso (non-altro) nella sua totalità. Impossibilitato a sottrarsi dalla pienezza del suo sapersi in quanto tale (e per questo altresì impossibilitato a mostrarsi alla luce dell’orizzonte finito della temporalità estatica), il fenomeno della rivelazione mostra l’originario a se medesimo, “in carne e ossa”, in assenza della possibilità stessa di qualsivoglia forma di opacità, adombramento o oblio. Passivo nei confronti di sé (non-altro), l’apparire “unico” e “assoluto” della fenomenicità originaria realizza la pura trasparenza a sé in una maniera tale che il criterio di siffatta trasparenza ed il suo senso prescindono del tutto dalle possibilità manifestative rappresentate dalla visibilità a cui la trascendenza dà adito nell’orizzonte del dis-velamento dell’essere estatico. Come il non potersi sottomettere originariamente al dominio della trascendenza determina ciò che ne garantisce il carattere di autonomia, così il non poter vedere se stessa individua ciò che contrassegna in maniera essenziale il senso della realtà dell’immanenza e la pienezza del suo sapersi in quanto tale. In siffatta pienezza, per rapportarsi-a-sé, la 10 Cfr. supra, Sez. III, Cap. I, § 25. 262 Roberto Formisano fenomenicità originaria non necessita di alcun allontanamento, alcuna “fuoriuscita” o differenziazione interna. Per mostrarsi come tale, non ha bisogno di rendersi visibile a sé, cioè di porsi-innanzi e perciò di alienarsi nell’esistenza finita. Essa manca di quest’obbligo, così come del potere (la libertà) ad esso correlato, per il fatto che il suo mostrarsi si realizza in totale trasparenza, in maniera tale per cui ciò che si mostra, la realtà in cui esso si mostra ed il modo in cui si realizza siffatto mostrarsi sono tutte “lo stesso” (la totalità dell’impossibilità d’altro; il che è quanto dire: la totalità in quanto impossibilità d’altro, e viceversa), determinazioni di un’ipseitas assolutamente trasparente a se stessa in sé 11. Irriducibile alla soggettività dell’onto-teo-logia demonizzata da Heidegger, in ragione della sua costitutiva a-cosmicità, a-temporalità estatica, il concetto fenomenologico di ipseità non intende altro se non l’apparire della totalità dell’originario a se medesimo, in quanto immediato sapersi nella sua totalità. Ora, è esattamente nella pienezza di questa trasparenza che Henry riconosce, infine, il senso e la positività della fenomenicità originaria intesa come “l’invisibile”. L’invisibile determina, nella sua concreta positività, il concetto della realtà del fenomeno originario, ossia dell’assoluto. Esso indica a un tempo sia il modo in cui l’originario si rivela in quanto tale (a se stesso in sé), sia il modo in cui esso sa se stesso e sia, in ultimo, il Was, il contenuto di siffatto sapersi 12. La determinazione della positività dell’invisibile consente di togliere con maggiore efficacia l’ambiguità che grava attorno a questo concetto. Intesa in senso originario, l’“invisibilità” definisce infatti qualcosa il cui significato fenomenologico va ben oltre la mera non-visibilità. Come Henry stesso scrive: «Proprio perché non è un concetto antitetico alla fenomenicità, l’invisibile non si contrappone al visibile»13. “Non-visibile” vuol dire, dal punto di vista fenomenologico: non conforme al Worumwillen del mondo [Welt], non suscettibile di manifestazione [Erscheinung], ovvero non-objettivo. Presa in questo senso così preciso, la 11 Come conferma di siffatti rilievi, cfr. il saggio La méthode phénoménologique, pubblicato in M. HENRY, Phénoménologie matérielle, cit., in part. le pp. 109-111. 12 In opposizione alla “luminosità” del Nichts heideggeriano, e ispirandosi piuttosto agli Hymnes an die Nacht di Novalis, Henry indica nell’immagine poetico-mistica della Notte il “volto” di questa trasparenza: cfr. EM, II, pp. 554-556. 13 EM, II, p. 557. Invisibilità e affettività 263 non-visibilità indica un tratto peculiare della trascendenza dell’e-sistenza finita e, come tale, un tratto della trascendenza stessa dell’essere. Conformemente alla definizione che, ad esempio, Heidegger sviluppa del concetto di “fenomeno” 14 in Sein und Zeit, la non-visibilità è indicata come il tratto essenziale del mostrarsi dell’essere in quanto non-ente, ovvero in quanto non-objectum. Essa individua, per l’appunto, il carattere peculiare della trascendenza intesa come modo di strutturazione del fenomeno originario. Tale caratterizzazione del mostrarsi originario è stata, poi, da Heidegger non soltanto mantenuta ma anche radicalizzata in seguito alla Kehre, laddove proprio la non-visibilità (la velatezza, Verborgenheit) dell’essere diventa esattamente il punto focale della riflessione circa la costituzione essenziale della disvelatezza [Unverborgenheit] originaria strutturantesi nel modo della co-appartenenza di essere e comprensione d’essere. Nel “salto” [Sprung] dalla riflessione esistenzial-ontologica (centrata sulla costituzione d’essere dell’orizzonte temporalmente finito dell’e-sistenza costituita in-grazia-del mondo) all’apertura verso la Seinsgeschichte e la Seinserinnerung, il pensiero rammemorante dell’essere, proprio la non-visibilità – ora intesa come “nascondimento”, “oblio dell’essere” – ha costituito il criterio a partire dal quale il pensiero heideggeriano ha di fatto ricavato la sua nuova direzione di sviluppo. “Non-visibilità”, “oblio”, “nascondimento” sono termini che l’ontologia fenomenologica heideggeriana assume ad indicare il carattere propriamente ontologico della differenza strutturante la verità dell’essere, in quanto fenomeno originario. Pensata conformemente all’aletheia, la “non-visibilità” designa quell’essenziale peculiarità della manifestatività originaria per la quale, mostrandosi in quanto tale, l’essere si dà come ciò (non-objectum) che, mostrandosi in quanto tale, dirada [lichtet] l’estaticità realizzantesi nell’orizzonte dell’e-sistenza finita in maniera tale per cui, rischiarando la totalità dell’ente a se medesima um der Welt willen, cioè in-grazia-della struttura ontologica dell’esserci, lascia che l’ente sia, manifestandosi, nella sua presenzialità. In questo senso accade che, mostrandosi in quanto tale e in tal modo rendendo possibile il mostrarsi dell’ente in-grazia-del mondo, l’essere non mostra se stesso, ov14 Cfr. supra, Sez. I, Cap. III, § 11. 264 Roberto Formisano vero mostra se stesso non rendendosi esso stesso visibile, bensì solo strutturando le condizioni fenomenologiche per la ricezione ontica. Nella prospettiva di Heidegger, la “non-visibilità” – insieme con le sue varianti di “oblio” e “nascondimento” – nomina il mostrarsi dell’essere così com’esso si dà um der Welt willen, alla luce del mondo. Tale riferimento è, come già detto, tutt’altro che secondario, ma strettamente legato alla valenza metodologica che, sul piano della riflessione, è accordato alla trascendenza. L’indicazione formale che, sul fondo della tesi dell’omogeneità dell’essere, il methodos della trascendenza impone alla riflessione fenomenologica è sì di pensare la “via d’accesso” all’originario a partire dall’esserci, ma, proprio in ragione di siffatta omogeneità, di pensarla non altrimenti che in conformità ai caratteri eidetici della costituzione estatica dell’In-der-Welt-sein e unicamente alla luce di questi. Da qui trae motivazione il tentativo di pensare la struttura fenomenologica dell’essere alla luce dell’in-grazia-di-cui [Worum-willen] in vista del quale la comprensione d’essere è esistenzialmente dischiusa a se medesima, ossia alla luce del mondo. Le enucleazioni relative al mostrarsi dell’essere come “nascondimento” ed “oblio” costituiscono, entro questa prospettiva, delle determinazioni “positive” del mostrarsi originario, appunto perché sviluppate “alla luce del mondo”, ossia “alla luce dell’estaticità propria della schiusura dell’orizzonte trascendentale dell’essere”, e cioè conformemente al modo di costituzione dell’essere in quanto tale. Ciò che, dunque, “positivamente”, alla luce dell’estaticità, il paradigma onto-fenomenologico afferma circa l’essere überhaupt, riferendolo essenzialmente alla costituzione temporalmente finita della comprensione d’essere, è che la maniera in cui l’essere mostra se stesso come tale è quella del ritrarsi, del diradarsi e, in definitiva, del non-mostrarsi (in maniera objettiva) 15. Diversamente, di tutt’altro significato è il concetto henryen di invisibilità, giacché è ormai chiaro che l’impostazione a cui Henry conduce la riflessione fenomenologica e l’inquadramento che egli dà alla questione dell’apparire originario non sono la semplice “rivisitazione” di quelle già aperte dai padri del pensiero fenomenologico contemporaneo. Irriducibile a queste, la fenomenologia di Henry conduce ad un’impostazione e ad un inquadramento del tutto inediti. Come si accennava in 15 Cfr. Brief, pp. 166-167 (trad. it. cit., pp. 288-289). Invisibilità e affettività 265 precedenza, infatti, l’“idea” verso cui Henry tenta di orientare la fenomenologia, sulla base della critica al monismo ontologico, spinge inesorabilmente verso una radicalizzazione dell’epoché. Sì che anche la tematizzazione henryenne dei concetti fenomenologici di “invisibilità” e “non-visibilità” risponde precisamente a quest’esigenza. Essa riprende il senso della distinzione già discussa a proposito delle nozioni di “coscienza senza mondo” e “coscienza del mondo” 16, ma rispetto a quest’ultima ha in più il merito di portare allo scoperto un aspetto relativo alla critica della trascendenza sinora lasciato ancora in secondo piano. La determinazione della positività del fenomeno originario per mezzo del fenomeno dell’invisibile conferisce alle determinazioni del “nascondimento” e dell’“oblio” – in breve, la “non-visibilità” – uno statuto fenomenologico ben preciso. Il “nascondimento” così come l’“oblio” non individuano altro che modi costitutivi dell’apparire inerente alla sola estaticità. Il che vuol dire: “nascondimento” ed “oblio” si danno non originariamente, ma solo alla luce del mondo, ovvero si presentano agli occhi della riflessione fenomenologica come determinazioni originarie solo fintantoché e nella misura in cui la riflessione procede conformando il proprio methodos al modus derivativus della fenomenicità. Ma poiché considerare la struttura originaria conformemente al solo modus derivativus vuol dire considerarla esclusivamente alla luce del puro ekstatikon, “nascondimento” ed “oblio” determinano il mostrarsi dell’essere non “in quanto tale”, bensì solo così com’esso si mostra agli occhi della comprensione d’essere, conformemente al senso della differenza strutturante il loro rapporto estatico di fondazione. In questo senso, come scrive Henry, l’“oblio” ed il “nascondimento” dell’essere non sono il “fatto” dell’originario, bensì soltanto e più propriamente “il fatto del pensiero”, in quanto pensiero dell’estaticità (genitivo soggettivo). Il rilievo che il concetto di invisibilità consente di portare allo scoperto in riferimento alla critica del monismo è di tipo metodologico. Ciò che esso contribuisce a smascherare ulteriormente è la radice dell’illusione trascendentale in cui il monismo pretende di potersi chiudere una volta risolta ed identificata nella trascendenza l’unica modalità possibile di costituzione per il mostrarsi in quanto tale. 16 Cfr. supra, Sez. II, Cap. III, § 24. 266 Roberto Formisano Come già visto, allorché il methodos della riflessione filosofica è conformato al solo modus derivativus del mostrarsi originario, ricondotto così il pensiero all’interno del “circolo” del monismo ontologico, accade che l’accesso all’originario (già in sé invisibile) subisce un ulteriore occultamento in ragione della costitutiva incapacità della trascendenza di ricevere – e, dunque, di mostrare – la realtà da cui essa di fatto trae fondamento. Orbene, è propriamente su questa “rimozione dell’origine”, inevitabile nell’orizzonte della trascendenza, che prende terreno l’illusione trascendentale del monismo, concretizzandosi nella convinzione di poter risolvere nel “circolo” dell’estaticità il senso dell’apparire, dell’essere, e della loro unità nel sapere. Nella storia del pensiero, il monismo ontologico rappresenta infatti tutt’altro che un mero “errore” della filosofia. Essa non è un mero “incidente di percorso”, il frutto di una grossolana “svista” di cui la filosofia prima possa sbarazzarsi innocentemente 17. Al contrario. Il monismo ha le sue motivazioni; e queste motivazioni non semplicemente fanno perno su una determinata interpretazione della fenomenicità, ma si radica su caratteri eidetici che sono della trascendenza. Essa deve, anzi, la propria “potenza” e la sua quasi inoppugnabile capacità di dominio nel corso della storia del pensiero proprio in ragione del suo estremo rigore ed alla “fedeltà” pressoché totale alla fenomenicità. Con lo smascheramento delle sue unilateralità, la “distruzione” del monismo ontologico ha mostrato non gli “errori”, quanto piuttosto quella mancanza di radicalità, di cui la contraddizione interna alle sue tesi fondamentali e le aporie delle filosofie del monismo non sono che soltanto un’inevitabile conseguenza. Ma, appunto, il perché di questa mancanza di radicalità è quanto il concetto fenomenologico di invisibilità consente infine di chiarire 18. Dell’oblio dell’essere si è detto in precedenza che esso costituisce un “fatto” del pensiero, ovvero del pensiero in quanto esteriorità. “Nascondimento” ed “oblio” si danno nella misura in cui e fintantoché il pensiero aderisce, quanto al suo proprio methodos, al criterio fenomenologico del puro ekstatikon della trascendenza. Sì che, nella prospettiva di Henry, tale “nascondimento” e siffatto “oblio” non individuano caratteri propri dell’originario considerato come tale, ma soltanto dello 17 18 Cfr. EM, II, p. 478. Cfr. EM, II, p. 479. Invisibilità e affettività 267 sguardo che su di esso il pensiero dell’esteriorità apporta conformandosi alle leggi del dominio fenomenologico dell’estaticità. Non l’essere in quanto tale, ma soltanto il pensiero che si lascia illuminare unicamente dal potere dell’estaticità è apportatore di oblio. Solo lo sguardo oblia e nasconde agli occhi dell’esistenza illuminati dalla luce del mondo la realtà dell’immanenza e la possibilità di riconoscere la rivelazione operante al fondo della schiusura estatica del Dasein a se medesimo. Il nascondimento è un “fatto” del pensiero, nel senso che il pensiero si dà, al contempo, sia come ciò che produce il nascondimento sia come ciò nei confronti del quale il medesimo nascondimento è prodotto. Questo agisce sul pensiero in maniera tale per cui ciò che il nascondimento occulta agli occhi della riflessione è innanzitutto il rilievo della sua costitutiva indipendenza della struttura originaria rispetto alla struttura dell’e-sistenza finita. Occultando il senso dell’indipendenza (parousia) e in tal modo alterando il senso della Selbständigkeit dell’originario, il nascondimento agisce al contempo obliterando la gerarchia istituentesi fra modus originarius e modus derivativus. Riducendo il senso del mostrarsi e della sua non-objettità al solo ambito del “visibile”, il pensiero dell’estaticità stabilisce all’interno del proprio orizzonte tutte le condizioni fenomenologiche sotto cui dare fondamento alla tesi dell’originarietà della co-appartenenza di essere e comprensione d’essere in seno alla manifestatività. E la positività dell’immanenza è così ridotta a nonsenso. Il monismo ontologico non può esser liquidato come mero “errore” del pensiero, nella misura in cui è la trascendenza stessa, in quanto tale, a motivare l’occultamento sul fondo del quale il pensiero dell’esteriorità cerca la sua propria legittimazione. In questo senso, il nascondimento non si configura affatto come un’arbitrarietà del pensiero, giacché al contrario esso si dà (conformemente all’eidos dell’estaticità) sintantoché e nella misura in cui il pensiero si tiene rigorosamente fedele alla sola struttura della trascendenza. Ma appunto qui è la forza della trascendenza, nella sua costituzione intrinsecamente ideologica di cui il monismo non è che l’espressione più eminente: nel fatto che occultando la parousia, annullando la distizione gerarchica fra modus derivativus e modus originarius, il pensiero fedele alla trascendenza cancella da sé ai suoi occhi la possibilità stessa di rendere riconoscibile l’intrinseca aporia di un fondamento che realizza il proprio mostrarsi occultando la realtà dell’atto che ne fonda la possibilità. 268 Roberto Formisano 30. L’invisibile alla luce del pensiero di Meister Eckhart Come la filosofia di Heidegger testimonia e sostiene, la trascendenza può motivare una circolarità nell’impostazione della domanda filosofica fondamentale tale per cui, al pensiero che si addentra nella riflessione alla luce dell’estaticità dell’essere, ogni possibilità di riconoscimento dell’intrinseca contraddittorietà interna alle tesi del monismo è di fatto resa inaccessibile. Fintantoché, in forza del suo methodos, la riflessione si tiene all’interno di quest’orizzonte di pensiero ogni “via di fuga” da esso è resa impossibile, appunto per il fatto che ad essere occultata in primo luogo è la possibilità stessa di riconoscimento del criterio alla luce del quale disvelarne l’aporia fondamentale 19. Dal pensiero della trascendenza al pensiero dell’immanenza non si dà passaggio. A negare questa possibilità non è soltanto la prospettiva illusoria del monismo, nel suo principio sempre metodologicamente coerente con il carattere “ideologico” e “occultante” intrinseco alla fenomenicità della trascendenza. Alla medesima conclusione conduce altresì il methodos dell’immanenza, sebbene secondo ragioni del tutto diverse. Se la trascendenza nega il passaggio in forza dell’occultamento, la immanenza lo nega in forza della parousia della rivelazione. La differenza, come si vede, è essenziale. Nel primo caso, la ragione della negazione poggia su un’operazione che la riflessione compie nei confronti di se medesima conformemente all’occultamento che la ricezione d’orizzonte opera. Diversamente, nel secondo caso, la tesi dell’impossibilità del passaggio è ricavata direttamente dal peculiare carattere di autonomia dell’immanenza che, conformemente al carattere di indipendenza [parousia] del modus originarius rispetto al modus derivativus, prescrive appunto una gerarchizzazione dei due modi della fenomenicità tale 19 Nell’orizzonte della trascendenza e del monismo, il senso stesso del fenomeno dell’essere è sovvertito dietro il mascheramento della rigorosa e ferrea coerenza interna del circolo ermeneutico. Il che però significa, altresì, che non ha molto senso sperare che il sovvertimento dell’illusione trascendentale del monismo possa un giorno prodursi dall’interno della sua stessa prospettiva. Sebbene, come la storia stessa della filosofia testimonia, all’interno dell’orizzonte del monismo sia possibile una progressione delle posizioni e una “evoluzione” del pensiero filosofico, la piena adesione al methodos della trascendenza rende il “circolo” del monismo un baluardo inattaccabile, in ragione degli occultamenti che la trascendenza stessa realizza nel suo mostrarsi, motivandoli così anche sul piano della riflessione. Invisibilità e affettività 269 per cui, se per un verso è reso possibile il passaggio dall’immanenza alla trascendenza (ché tale è esattamente il senso della fondazione non-estatica del finito), per un altro verso non è possibile il contrario, una fondazione condotta a partire dal finito, ovvero mostrare l’originario alla luce della trascendenza. Fondata unicamente nella passività assoluta della sua auto-ricezione, l’immanenza chiarisce l’impossibilità di siffatto “passaggio”, in ragione dell’esclusione che la determinazione eidetica dell’assenza di estaticità stabilisce circa la possibilità di un paritetico rapporto di tipo dialettico fra modus derivativus ed originarius. La via che conduce all’immanenza è piuttosto tale per cui essa si presenta allo sguardo della riflessione fenomenologica alla maniera d’una frattura radicale, un “salto” 20 la cui decisione ed il cui prodursi è netto, senza mediazione né gradualità alcuna. Il contenuto filosofico del “salto” verso l’immanenza consiste essenzialmente nella consapevolezza della costitutiva impossibilità di accesso per il pensiero della trascendenza all’interno della struttura originaria. Alla base del “salto” si pone pertanto l’assunzione della tesi circa la eterogeneità dei due principali modi del mostrarsi in generale. Anche se, in realtà – come d’altronde è lo stesso Henry ad affermare – siffatta tesi non fu sempre del tutto ignorata dal pensiero occidentale. A tal proposito Henry parla piuttosto di una sorta di “presentimento” dell’eterogeneità originaria; un presentimento che sporadicamente, nel corso della sua evoluzione storica, il pensiero d’Occidente avrebbe in qualche modo saputo cogliere, senza tuttavia mai riuscire a svilupparlo sino alle sue conseguenze più estreme, ovvero farne l’esplicito assunto metodologico in funzione del quale preparare la problematica relativa alla questione filosofica fondamentale. Sì che, nonostante questa evidente diffi20 A conferma di ciò, cfr. l’autorevole giudizio di R. KÜHN, La contre-réduction comme “saut” dans la vie absolue, in Retrouver la Vie oubliée, a cura di J.-M. Longneaux, Namur, Presses Universitaires de Namur, 2000, pp. 69-70: «Il salto nell’apriori della vita fenomenologicamente assoluta è dunque un salto in “tensione”, in maniera tale che l’inaudito di siffatto salto non derivi da alcun raffronto con la vita fattiva o “da un salto inintelligibile tra due ordini irriducibili”, come l’anima e il corpo nella filosofia tradizionale. Al contrario, l’importanza di questo salto deriva unicamente dall’opera assolutamente originaria della vita che in se stessa è il suo proprio auto-movimento, in quanto semplice rivelazione di sé. Per questo, il pensiero [estatico] non potrebbe mai effettuare un simile salto». 270 Roberto Formisano coltà, in diverse occasioni il pensiero occidentale avrebbe saputo dimostrarsi particolarmente ricettivo nei confronti del problema dell’immanenza. «Nella storia del pensiero occidentale – sottolinea Henry, nella conclusione al § 45 – […] un simile presentimento non permane soltanto implicito, il contenuto filosofico essenziale […] trova una sua formulazione esplicita, per quanto ambigua, nella critica della conoscenza»21. Henry intende la “critica della conoscenza” esattamente nel senso della critica allo gnoseologismo 22, inquadrato però alla luce della tesi dell’eterogeneità del sapersi costitutivo dell’immanenza e del sapere costituito alla luce della trascendenza (declinato nelle forme della comprensione ontologica, della Vor-stellung ecc., tutte vincolate al presupposto della mediazione del mondo) 23. Scrive Henry: Poiché l’ambito entro cui si colloca ogni atto conoscitivo è un dominio di incontri costituito dall’esteriorità pura, al di fuori della quale al contrario si tiene l’essenza originaria della realtà, nella sua tendenza di principio a volgersi verso tale ambito consiste la prima determinazione ontologica della conoscenza. Proprio in ciò risiede il fondamento ontologico della “critica della conoscenza”, nel fatto che tale determinazione non caratterizza solo uno specifico atto considerato nella sua particolarità, […] nel fatto che la sua incapacità di afferrare l’essenza originaria della realtà riguarda la conoscenza stessa, la sua struttura e la sua possibilità 24. Prima ancora del pensiero filosofico, però, la tesi della «eterogeneità ontologica strutturale delle dimensioni ultime della fenomenicità»25 costituisce innanzitutto, agli occhi di Henry, l’intuizione fondamentale del pensiero religioso, ovverosia del cristianesimo 26. «L’opposizione strut21 EM, II, p. 502. Cfr. supra, Introd., § 1. 23 Cfr. EM, II, p. 504: «L’ambito entro cui si colloca la coscienza (al cui interno non si approssima all’essere, ma da questo si allontana) è l’oggettività». 24 EM, II, pp. 503-504. Su questa “prima” determinazione del contenuto peculiare della critica della conoscenza è inoltre imperniata un’ulteriore determinazione essenziale secondo cui, proprio in ragione di siffatta incapacità da parte del pensiero estatico di accedere “dall’esterno” alla struttura interna del fenomeno originario, «nel continuo sorgere degli orizzonti, sempre nuove configurazioni e nuovi contenuti sopraggiungono per il suo lavoro di chiarificazione» in maniera tale per cui, in definitiva «la conoscenza è necessariamente perseguita alla maniera d’una ricerca» (EM, II, p. 506. Corsivi di Michel Henry). 25 EM, II, p. 563. 26 Cfr. EM, II, p. 564. 22 Invisibilità e affettività 271 turale dell’essere e della conoscenza – si legge a tal proposito in L’essence de la manifestation – è l’intuizione centrale della religione»27. O, ancora: La comprensione dell’invisibile nella sua insormontabile, non dialettica, opposizione a ciò che è visibile […] si compie per la prima volta nel cristianesimo in cui essa trova la sua concreta realizzazione storica. […]. Così, con la scoperta dell’invisibile in quanto costituente l’ambito ontologico della realtà e della sua essenza, nell’effettività della sua fenomenicità originaria, è determinata l’essenza del cristianesimo 28. 27 28 Cfr. EM, II, p. 509. EM, II, pp. 562-564. Nondimeno questa medesima convinzione persiste, rafforzandosi nel tempo, anche nelle opere della tarda maturità di Henry, allorché sempre più esplicito diviene il riferimento al cristianesimo. Si confrontino, ad esempio, le precedenti citazioni con la seguente, contenuta in M. HENRY, C’est moi la vérité, Paris, Seuil, 1996, pp. 38-39 (trad. it. Io sono la verità, a cura di G. Sansonetti, Brescia, Queriniana, 1997, pp. 46-47): «Ora l’irriducibilità della verità del cristianesimo al pensiero, a ogni forma di conoscenza e di scienza, è uno dei temi maggiori dello stesso cristianesimo. Una tale situazione non solo conferma l’opposizione del cristianesimo al pensiero occidentale rivolto al mondo e teso al conseguimento di conoscenze oggettive […]. Proprio perché tale opposizione rinvia a un’irriducibilità ultima […], essa pure si trova formulata con una specie di violenza estrema da parte del Cristo stesso: “Ti lodo, o Padre […] per aver nascosto queste cose ai sapienti e agli intelligenti e averle rivelate ai piccoli” (Mt 11,25)». Oppure ivi, pp. 37-38 (trad. it. cit., pp. 45-46): «Il vedere presuppone la messa a distanza di ciò che deve essere visto, quindi la sua venuta al di fuori; più esattamente, e preliminarmente, [esso esige] la venuta al di fuori del “Fuori” stesso, la formazione dell’orizzonte del mondo. […] Che la rivelazione di Dio in quanto sua auto rivelazione non debba nulla alla fenomenicità del mondo, ma piuttosto rifiuti questa perché profondamente estranea alla sua specifica fenomenicità, è ciò che emerge con estrema violenza dall’ultima preghiera del Cristo nell’Orto degli ulivi: “Non è per il mondo che prego” (Gv 17,9). Ora le circostanze, per quanto tragiche, non spiegano questa terribile dichiarazione, che trova la sua schietta giustificazione in una proposizione il cui carattere teorico può difficilmente essere contestato: “Il mio regno non è di questo mondo” (GV, 18,36)». Non dissimile è, poi, anche il caso di Incarnation, lì dove in discussione è appunto il rapporto fra sapersi originario – che è vita – ed il pensiero in quanto pensiero dell’esteriorità: «L’oblio va dunque compreso a partire dalla duplicità dell’apparire. Sul piano del pensiero, l’oblio consiste propriamente nel non pensare più a una cosa, la quale si trova ad essere in questo modo “obliata”. Si trasforma così in un ricordo incosciente. […] Ogni pensiero, ogni rappresentazione nel senso più generale reca pertanto in sé la duplice possibilità dell’oblio e del ricordo. E tuttavia, quale contrasto vi è tra queste due possibilità! […] Rapportata alla vita e non più all’apparire del mondo, il significato del concetto di oblio cambia radicalmente, al punto che una nuova terminologia si renderebbe qui necessaria. È solo rispetto al pensiero che la vita può esser detta “oblio”. Essa è “oblio” nella misura in cui nessu- 272 Roberto Formisano In L’essence de la manifestation, tuttavia, al di là della mediazione già discussa della Religionslehre di Fichte, il richiamo al cristianesimo in vista della chiarificazione dei principî fondamentali della fenomenologia henryenne appare essere mediato soprattutto dalla lettura dell’opera di Meister Eckhart 29. Come lo stesso Henry afferma infatti: La chiarificazione della struttura interna della rivelazione costitutiva dell’essere e della sua realtà è il tema esplicito e centrale della problematica istituita da Eckhart. Al contenuto essenziale di questa si ricollega […] la critica della conoscenza. Di conseguenza, le proposizioni nelle quali tale critica trova la sua formulazione esplicita non costituiscono mai delle semplici affermazioni ma sono costantemente fondate. […] Le intuizioni fondamentali della religione si ritrovano in essa [i.e. nella critica della conoscenza formulata da Eckhart], non più nella dispersione della loro fioritura storica, ma veramente comprese, còlte in una visione interna dell’essere, costituenti questa stessa visione 30. Il pensiero di Meister Eckhart si impone, dunque, agli occhi di Michel Henry come la più profonda comprensione di quella che è possibile considerare la “tesi fenomenologica fondamentale” del cristianesimo, riassumibile nell’affermazione secondo cui: la struttura della rivelazione e la struttura della conoscenza determinano due fenomenicità distinte e tra loro eterogenee; due fenomenicità il cui rapporto è soltanto di tipo gerarchico e mai paritetico, né tanto meno semplicemente “oppositivo”. Di questa tesi, due sarebbero le implicazioni che, appunto, Eckhart avrebbe avuto il merito di portare allo scoperto. La prima di queste è presentata da Henry attraverso l’interpretazione fenomenologica di un no spazio si apre nella sua immanenza radicale, nessuna spaccatura la dischiude, nessun pensiero trova in essa posto» (ID., Incarnation, cit., pp. 265-266, trad. it. cit., pp. 214-215). Corsivi di Michel Henry. 29 Anche se, in realtà, il pensiero di Meister Eckhart costituirà per Henry un punto di riferimento costante nel suo tentativo di confronto diretto fra fenomenologia e cristianesimo. Assolutamente condivisibili appaiono, in questo senso, le notazioni ed i rilievi messi in luce da S. LAOUREUX, La référence à Maître Eckhart dans le phénoménologie de Michel Henry, in «Revue philosophique de Louvain», IC (2001) 2, pp. 220-253. 30 EM, II, p. 533. Invisibilità e affettività 273 passo della predica eckhartiana In hoc apparuit charitas dei in nobis 31. Introducendo al commento di questo passo, Henry scrive: Poiché la fenomenicità costitutiva dell’essere e della conoscenza non hanno nulla in comune tra loro, in quanto esse differiscono nella loro natura, […] l’effettività dell’una implica ogni volta in essa, nel sorgere del suo contenuto manifesto, la non-effettività dell’altra 32. Per “effettività” è qui intesa la realizzazione del mostrarsi di un qualsivoglia fenomeno, ovvero il modo in cui esso è ricevuto. Tale concetto è utilizzato in questo discorso ad indicare il modo in cui esso è saputo nell’atto stesso del suo mostrarsi. Ciò che, pertanto, Henry intende affermato in questo primo passaggio è che: nella misura in cui l’effettività del fenomeno (di qualunque fenomeno) è saputa alla luce della parousia, il sapere (scil. la coscienza) che in tal modo viene ad istituirsi è dato a se stesso in maniera tale che, nella passività che gli è propria (i.e. nell’impossibilità strutturale di volgersi ad “altro”), è già esclusa sin nella sua radice la possibilità stessa di un “apparire estatico” come quello del mondo. Viceversa, nella misura in cui l’effettività del fenomeno è saputa alla luce del mondo – sì che l’orizzonte che rende possibile il darsi a vedere della manifestazione ontica non si lascia esso stesso ricevere come tale 33 – accade che il mostrarsi della fenomenicità originaria (scil. la ricezione di sé da parte di ciò che rende possibile temporizzazione estatico-orizzontale della trascendenza del Dasein), occultata dalla stessa luce del mondo, diviene come tale inaccessibile. In questo senso, scrive Henry: L’irriducibile opposizione delle essenze fenomenologiche ha questo significato ultimo. In conformità a siffatto significato, poiché la manifestazione di una essenza determina in essa la non-manifestazione della sua anti-essenza fenomenologica, ogni apparire è allo stesso modo […] uno sparire 34. 31 Cfr. M. ECKHART, Traités et sermons, a cura di F. Aubier e J. Molitor, cit., pp. 142-145 (DW, I, pp. 85-96, trad. it. in ID., Trattati e prediche, a cura di G. Faggin, cit., pp. 208-213); cit in EM, pp. 534-535. 32 EM, II, p. 534. Corsivi nostri. 33 Cfr. gli argomenti relativi alla “verifica” della trascendenza, Sez. II, Cap. III, § 2425. 34 EM, II, p. 534. Corsivi nostri. 274 Roberto Formisano L’implicazione a cui Eckhart avrebbe dato voce concerne, dunque, la connessione essenziale che si dà fra eterogeneità ed occultamento. Si consideri il passo in questione, a cui Henry allude: La più piccola immagine che si forma in te è tanto grande quanto è grande Dio. Perché? Perché è di ostacolo in te alla totalità divina. Esattamente, dove entra l’immagine, là Dio deve ritirarsi con tutta la sua divinità 35. Ciò che nel passo Eckhart afferma è che: fintantoché l’anima in cerca di Dio volgerà il suo sguardo e dirigerà il suo domandare verso le immagini del mondo, Dio non potrà mostrarsi a lei; fintantoché e nella misura in cui il criterio del suo sguardo sarà dominato dalla luce propria del mondo, Dio, che è in se stesso rivelato a sé, apparirà agli occhi dell’anima come in sé inapparente, in quanto non percepito in lei. In quanto modalità del sapere, il conoscere è un ricevere. Fintantoché la pretesa dell’anima nel suo rapporto problematico con Dio sarà quella di volerlo ricevere alla maniera in cui essa fa spazio in se stessa alle immagini del mondo, il suo domandare non potrà mai ottenere risposta alcuna, per il fatto che la predisposizione all’accoglimento delle immagini agirà nel senso di un occultamento della invisibile (trasparente in senso non-estatico) presenza fondante di Dio in lei. In ciò è il senso fondamentale della critica della conoscenza sviluppata da Eckhart. Il motivo per cui l’anima, per disporsi a ricevere Dio nel modo del sapere, deve poter innanzitutto farsi “povera” d’immagini e “povera di mondo” è dovuto al fatto che, più ancora che l’immagine come tale, è la disposizione stessa a ricevere le immagini del mondo ad occultare e rendere quindi inaccessibile la ricezione della relazione fondante che in se stesso Dio intrattiene con l’anima. Qui d’altronde emerge ancora una volta la valenza essenzialmente “metodologica” del discorso di Eckhart, secondo cui non basta semplicemente rinunciare alle immagini del mondo, ricorrendo a ciò che egli chiama la “povertà esteriore”, per preparare nell’anima il terreno in vista dell’incontro con Dio nell’effettività del sapere e della coscienza. Per prepararsi all’incontro, l’anima deve farsi essa stessa luogo per il 35 M. ECKHART, Traités et sermons, cit., p. 144 (cit. in EM, II, pp. 534-535); cfr. Pr. 5.b, In hoc apparuit charitas dei in nobis (1 Gv, 4,9), in DW, I, pp. 85-96 (trad. it. in ID., Trattati e prediche, a cura di G. Faggin, cit., pp. 208-213, in part. p. 211). Invisibilità e affettività 275 mostrarsi di Dio. A tal scopo si rende allora necessaria piuttosto una povertà d’altro genere – un nuovo methodos – essenzialmente consistente in quella disposizione d’animo in se stessa incapace a ricevere qualcosa che sia altro rispetto alla rivelazione a sé costituente la sua stessa essenza. Tale methodos, che Eckhart chiama “povertà interiore”, è ciò che Henry ha concettualizzato come epoché del mondo. “Povertà interiore” è la povertà conforme alla povertà propria di Dio stesso, ovvero alla sua pienezza di sé in quanto passivo nei confronti di non-altro che se medesimo, realtà assoluta e unica. Conformandosi a questa passività, e rendendosi in tal modo incapace di ricevere “altro” dall’orizzonte del phainesthai, se non la donazione che in se stessa rende possibile il mostrarsi dell’orizzonte medesimo come tale, l’anima – che vive sul fondo di quest’incontro già sempre in atto nell’effettualità stessa di Dio 36 – trova Dio interiormente alla sua propria essenza in quanto identica ad essa, ovvero: nel suo scoprirsi come essenzialmente trasparente a sé nella totale assenza di estaticità, trova Dio come ciò in cui ogni possibile trasparenza è rimessa a se stessa in quanto tale, come trasparenza assoluta che sa se stessa in sé. La seconda implicazione è sviluppata in riferimento alla lettura di alcuni passi delle Istruzioni spirituali 37, lì dove Eckhart discute del rifiuto cristiano al pensiero di Dio in quanto “concetto”. La ragione del rifiuto sta appunto nel fatto che il concetto (scil. l’immagine [Bild] e, nel suo significato ontologico, la rappresentazione [Vorstellung]) non appartiene all’effettività di Dio. Pensare il concetto di Dio significa subordinare il senso fondante del suo darsi ad un atto del pensiero dell’esteriorità. Subordinare Dio ad un atto del pensiero estatico, renderlo dipendente rispetto a tale atto, vuol dire però renderlo contingente 38. È in reazione questo atto di subordinazione che interviene la tesi fenomenologica fondamentale del cristianesimo, la quale, dichiarando l’eterogeneità fra l’effettività di Dio e l’effettività del pensiero, rivendica il carattere di 36 Tale è infatti il senso del rapporto di fondazione, così come è emerso nella precedente disamina del pensiero di Eckhart, cfr. supra, Sez. III, Cap. I, § 31. 37 Cfr. M. ECKHART, Traités et sermons, cit., pp. 27-67 (cit. in EM, II, pp. 540-541); cfr. DW, V, pp. 505-538 (trad. it. Istruzioni spirituali, in ID., Dell’uomo nobile, a cura di M. Vannini, cit., pp. 55-116). 38 Cfr. EM, II, pp. 539-540. 276 Roberto Formisano autonomia del primo rispetto al secondo. Ma proprio richiamandosi anch’egli a questa tesi, Eckhart la riprende e la specifica in maniera tale per cui nel momento stesso in cui afferma la totale indipendenza di Dio rispetto al pensiero, tuttavia ne rivendica altresì la loro unità essenziale in principio. Scrive Henry: Questa permanenza dell’essenza originaria di Dio, la sua indifferenza ontologica verso il processo della conoscenza, verso i suoi progressi e i suoi livelli, è quanto esprimono i temi esistenziali e religiosi dominanti la predicazione di Eckhart: l’accusa nei confronti dell’esistenza libera e alla sua unica libertà di potersi allontanare da Dio e, all’inverso, sul piano della realtà, l’indissolubile unità dell’esistenza con Dio 39. La clausola dell’unità è importante per il fatto che sottrae l’interpretazione eckhartiana di Dio all’equivoco dell’interpretazione dell’“indifferenza ontologica”, che nomina l’indipendenza [parousia] di Dio rispetto al pensiero, nel senso della “separazione” fra i due. Mentre, al contrario, proprio qui sarebbe la grandezza dell’intuizione di Eckhart: nel fatto che l’inseitas di Dio è altra cosa rispetto alla mera sostanzialità. Come già visto in riferimento al concetto di immanenza, il contributo di Eckhart in tal senso sta nell’aver portato allo scoperto il rilievo per cui, compresa nella sua valenza fenomenologica, l’intendimento cristiano dell’inseitas divina nel senso della rivelazione, come ipseitas assoluta e pura interiorità, è da riferirsi all’identità essenziale del modo e della realtà della rivelazione originaria di Dio a se stesso come tale. Posto dunque che per “pensiero” si intenda lo slancio dell’anima verso l’esteriorità, l’unione in principio di Dio con il pensiero è rivendicata per l’appunto in riferimento all’interiorità intesa come ciò su cui tale slancio trae fondamento. Ed è chiaro, infine, che fintantoché l’anima si muoverà nell’orizzonte dell’esteriorità il senso di questa fondazione resterà per lei, ai suoi stessi occhi, occultato ed inaccessibile. Ma il fatto che, permanendo nell’orizzonte dell’esteriorità, l’anima si privi da sé della possibilità di accedere al senso autentico della fondazione non aggiunge né toglie, non modifica in nulla il rapporto che in principio, sul suolo della sua propria effettività, Dio intrattiene con essa. 39 EM, II, 540. Corsivi di Michel Henry. Invisibilità e affettività 277 La possibilità dello slancio verso il “fuori”, la possibilità stessa dell’allontanamento dell’anima nei confronti di Dio, piuttosto che contraddire l’unione in principio fra Dio e l’anima (scil. il pensiero, ovvero la coscienza considerata nella sua “radice”, in quanto rivelazione) al contrario ne costituisce una conferma ulteriore. Innanzitutto: che fra Dio e pensiero vi sia unione in principio vuol dire che non nell’esteriorità risiede il senso di questa unione, bensì unicamente nella realtà di quella trasparenza originaria a se medesima in sé fonda la possibilità dell’ekstasis. Ad essere unito con Dio è il pensiero nella sua radice non-estatica. Ma ciò su cui la possibilità del pensiero estatico trova fondamento è la trasparenza a sé dell’anima. Ciò che Eckhart sottolinea per mezzo della clausola dell’unione è dunque il fatto che Dio e anima sono uniti in quanto interiorità, trasparenze rapportantesi in interioritate nel modo della trasparenza, sul fondamento di quella trasparenza originaria e assoluta che è Dio. L’anima appartiene essenzialmente all’interiorità di Dio, sì che, anche quando si allontana da Dio slanciandosi verso l’esteriorità, l’anima non cessa di appartenervi: ciò su cui la possibilità dello slancio estatico trova fondamento è la trasparenza a sé non-estatica della sua struttura essenziale. Spinta sin nelle sue conseguenze, l’affermazione dell’eterogeneità della struttura della rivelazione rispetto alla struttura della conoscenza costituisce esattamente la preservazione del senso di quest’immanenza della realtà di Dio (i.e. della sua immediata e perfetta trasparenza a se stesso in sé) nell’esistenza finita dell’uomo. 31. Affettività e non-estaticità Nell’invisibilità, la struttura originaria sa se stessa, senza per questo aver bisogno di rendersi visibile. Essa non solo non ha bisogno di farsi objectum per una visione intuitiva; ma altresì, a maggior ragione, non ha neppure bisogno di costituire per sé le non-objettive condizioni di possibilità per il “vedere” in quanto tale. Il suo sapersi non è di tipo rappresentativo, op-positivo, o meglio: non ha nell’ek-stasis la struttura, e dunque la possibilità, della sua realizzazione effettiva. Il senso del sapersi originario potrebbe piuttosto esser ricondotto al săpĕre latino: il “sentire”, inteso nel senso del “provare”, dell’“aver sapore”. Il “sentire”, il “provare” l’“aver sapore”, costituiscono modalità dell’adficere. Generalmente, il senso dell’affettività è ricondotto a quello proprio della sensibilità. Questo è un tratto tipico di ogni forma di objet- 278 Roberto Formisano tivismo. Tale riconduzione è ad esempio manifesta nell’orizzonte della comprensione naturale dell’essere, per la quale l’affectio individua l’effetto dell’azione che, dall’esterno, l’oggetto esercita sulle facoltà conoscitive del soggetto, operando in esse delle “modificazioni” dette appunto affezioni. Entro simili modi di intendere il senso dell’affettività, ciò che la riduzione alla sensibilità intende attestare è il carattere essenzialmente “passivo”, cioè ricettivo in senso objettivo, del soggetto rispetto alla cosa – il che significa: la cosa [objectum] è ciò che determina il senso dell’affettività, in quanto sensibilità. Contro la riduzione objettivista, tuttavia, come si è potuto in qualche modo intravedere nella lettura heideggeriana della Kritik der reinen Vernunft 40, già lo stesso Kant aveva mostrato la possibilità del suo superamento, nel corso dell’elaborazione della dottrina dello schematismo trascendentale. Con la determinazione dell’immaginazione trascendentale come apertura della veduta non-objettiva, ossia come schiusura dell’orizzonte trascendentale dell’essere, l’interpretazione onto-fenomenologica heideggeriana della filosofia di Kant ha appunto indicato il fatto che, per potersi realizzare come tale nella sua apparente immediatezza, la ricezione d’objectum (che è Erscheinung, manifestazione dell’ente) presuppone il dispiegamento di determinate condizioni fenomenologiche come la schiusura della veduta non-objettiva all’interno di cui soltanto l’ente può pervenire alla presenza nel modo del Gegenstand. Ma, appunto, “esser ricevuto” vuol dire “esser affetto da”; sì che, come Henry stesso scrive riprendendo la tesi heideggeriana, ogni affezione ontica (affezione d’objectum) si dà in maniera tale da presupporre al suo fondo un’affezione ontologica, ossia un’affezione non-objettiva 41. Il che ci riconduce nuovamente sul terreno del problema relativo al senso della (necessaria) percettibilità delle condizioni non-objettive del mostrarsi ontico: in che modo la veduta non-objettiva (pro-getto dell’orizzonte trascendentale dell’essere) realizza il proprio mostrarsi in quanto tale? In che modo tale veduta è ricevuta? E cioè: in che modo la veduta nonobjettiva dell’orizzonte trascendentale dell’essere è resa percettibile a se medesima? 40 Cfr. supra, Sez. II, Cap. III, § 21. Cfr. EM, II, p. 573: «Ogni affezione ontica presuppone un’affezione ontologica ed in questa trova il suo fondamento». 41 Invisibilità e affettività 279 Nella prospettiva indicata da Heidegger nel suo Kantbuch, a realizzare la Versinnlichung dell’orizzonte è il senso interno, ovvero la forma pura del tempo inteso come identico all’immaginazione trascendentale. Nell’intrinseca unità 42 delle sue estasi, il tempo è indicato come quel potere ontologico capace di pro-gettare e ricevere l’orizzonte. Come tuttavia la “distruzione” del monismo ontologico ha mostrato, siffatta capacità “unificatrice” del tempo può esser sostenuta solo fintantoché la riflessione fenomenologica permane costretta all’interno di un circolo vizioso, per il quale la capacità immaginativa e quella intuitiva 43 del tempo sono vicendevolmente concepite come l’una condizione di possibilità dell’altra. In tal modo, riconducendo il senso della non-objettità a quello della finitezza costitutiva della trascendenza dell’In-der-Weltsein 44, tale approccio della questione del fondamento non soltanto va incontro alle aporie già discusse, ma, conseguentemente, opera una falsificazione in merito alla struttura ed al senso d’essere della Befindlichkeit, ovvero in merito al significato fenomenologico fondamentale dell’affettività. “Liberata” dalle unilateralità dei presupposti ontologici del monismo, la questione dell’affettività porta finalmente in primo piano quello che è l’interesse principale della fenomenologia di Michel Henry, ovvero la necessità di assicurarsi l’accesso alla fenomenicità originaria considerata iuxta propria principia. Conformando il proprio methodos al modo di costituzione dell’immanenza, il compito che la fenomenologia henryenne assume come proprio è di pervenire alla descrizione della fenomenicità non-estatica considerata nella sua effettiva e concreta realtà fenomenologica. Sì che, diretta “dalla cosa stessa”, cioè unicamente dal modo di costituzione della fenomenicità non-estatica, l’“idea” della fenomenologia è innanzitutto sviluppata nelle forme e nei modi di un’autentica fenomenologia materiale 45: una scienza rigorosa 42 Cfr. SZ, pp. 328-329 (trad. it. a cura di F. Volpi, cit., pp. 389-390; trad. it. a cura di A. Marini, cit., pp. 923-925). 43 EM, II, pp. 600-601. 44 Cfr. K, p. 87 (trad. it. cit., pp. 80-81). 45 Cfr. M. HENRY, Phénoménologie matérielle, cit., pp. 6-7 (trad. it. cit., p. 62): «Radicalizzare la questione della fenomenologia non significa soltanto avere di mira la fenomenicità pura, ma vuol dire interrogare il modo in cui questa fenomenicità originariamente si dà, la sostanza, la stoffa, la materia fenomenologica di cui essa è fatta – la sua materialità fenomenologica pura. […] La fenomenologia materiale è in 280 Roberto Formisano della fenomenicità in quanto scienza descrittiva di quella materialità fenomenologica pura costituente l’invisibile, eppur concreta, viva, realtà effettiva dell’apparire originario. Di questa fenomenologia materiale, L’essence de la manifestation pone appunto i prolegomeni, per mezzo di un rinnovato confronto con la “fenomenologia storica” e dei suoi presupposti, questa volta però considerati alla luce dei risultati della “distruzione” del monismo ontologico. a) Premesse critiche per una “fenomenologia dell’affettività” Nell’ambito della riflessione fenomenologica contemporanea, per quel che concerne l’opera di “distruzione” dei principali pregiudizi riguardanti l’affettività (come, ad esempio, la sua identificazione con la sensibilità e la conseguente opposizione con la ragione ed il dominio dell’a-priori, oppure la riconduzione della vita affettiva a meri stati empirici, legati alla struttura organica e psico-fisica dell’uomo), è nota l’importanza del contributo di Max Scheler 46. In merito a questo tema, grado di indicare questa sostanza fenomenologica invisibile. Questa non è un nulla, ma un affetto o, per meglio dire, ciò che rende possibile ogni affetto, e in ultima istanza ogni affezione e ogni cosa». 46 È singolare notare il fatto che sino ad oggi la critica abbia sostanzialmente lasciato inesplorato il tema relativo al confronto del pensiero di Michel Henry con la filosofia di Max Scheler. Nessuno studio di rilievo può, a tal proposito, essere riportato. Quali siano le ragioni di questa omissione, è difficile dirlo. Diversi possono essere i motivi, in primis probabilmente legati soprattutto alla particolare Wirkungsgeschichte che in Francia, e in Europa, ha caratterizzato la ricezione del pensiero di Scheler. Da non sottovalutare, tuttavia, è il fatto che il confronto con Scheler è introdotto da Henry sullo sfondo di un orizzonte teoretico-problematico nei suoi elementi essenziali già delineato, attraverso il confronto con Heidegger e con l’Idealismo tedesco. Non è infatti da escludere che questo possa aver indotto gli interpreti a considerare il confronto con Scheler come semplicemente “accessorio”, in quanto mera “applicazione” dei risultati emersi dalle analisi sull’immanenza e sull’invisibilità allo specifico ambito dell’affettività. Ciò nonostante, se si considera la maniera in cui la struttura argomentativa dell’intera sezione quarta di L’essence de la manifestation è costruita, è possibile vedere come il confronto con Scheler svolga un preciso ruolo, essenzialmente consistente nella definizione e nella posizione delle premesse fondamentali per la determinazione definitiva della “fenomenologia dell’affettività pura” quale “fenomenologia dell’originario”, nei termini appunto di una “fenomenologia della vita”. Invisibilità e affettività 281 le opere principali in riferimento alle quali Henry ha operato il confronto critico con Scheler possono essere prevalentemente ridotte a tre: Der Formalismus der Ethik und die materiale Wertethik (la cui edizione definitiva risale al 1916, ma in parte già pubblicata sin dal 1913 sullo «Jahrbuch für Phänomenologie und phänomenologische Forschung»), Vom Sinn des Leides (per la prima volta apparso sulla «Frankfurt Zeitung» nel 1915) e Wesen und Formen der Sympathie (del 1923), tutte (a quanto risulta, almeno, dal testo di L’essence de la manifestation) analizzate da Henry sulla base delle rispettive traduzioni francesi allora disponibili 47. La tesi di fondo di Scheler è che gli atti e le funzioni proprie della sfera affettiva, così come gli oggetti con cui questi ci pongono in relazione, mostrano, agli occhi della fenomenologia, caratteri eidetici irriducibili di dignità del tutto pari rispetto ad altri atti od oggetti, come ad esempio quelli della logica. Per Scheler, dunque, anche la vita affettiva si compone di una struttura eidetica. In Der Formalismus der Ethik und die materiale Wertethik, Scheler contesta significativamente il pregiudizio classico della filosofia, che vuole la sensibilità contrapposta alla ragione in virtù del suo presunto carattere di a-logicità 48. Richiamandosi ad Agostino e a Pascal, Scheler rivendica la datità di un ordine assiologico d’oggetti, la cui manifestazione è peculiarmente ed in maniera strutturale legata all’affettività. Egli parla, così, significativamente di un “ordine” e di una “logica” degli affetti, alternativa, ma non meno rigorosa ed altrettanto valida, rispetto all’ordine ed alla logica della ragione. Facendo propri gli assunti fondamentali ed i concetti della concezione husserliana della fenomenologia risalente alle Logische Untersuchungen, Scheler identifica, all’interno della complessa e, come egli stesso dichiara, “stratificata” sfera della vita affettiva, dei tipi particolari di atti e funzioni eideticamente definiti (ciò che, nel linguaggio 47 Ovvero, rispettivamente: M. SCHELER, Le formalisme en éthique et l’éthique matériale des valeurs, trad. fr. a cura di M. de Gandillac, Paris, Gallimard, 1955; ID., Le sens de la souffrance, trad. fr. a cura di P. Klossowski, Paris, Aubier Montaigne, [s.d.]; ID., Nature et forme de la sympathie, trad. fr. a cura di M. Lefebvre, Paris, Payot, 1928. 48 Cfr. M. SCHELER, Der Formalismus in der Ethik und die materiale Wertethik, ora in Gesammelte Werke, vol. II, Bern/München, Francke Verlag, 1980, p. 259 (trad. it. Il formalismo nell’etica e l’etica materiale die valori, a cura di G. Caronello, Milano, Edizioni San Paolo, 1996, pp. 314-315). 282 Roberto Formisano naturale vengono indistintamente chiamati “sentimenti”), la cui peculiarità è appunto quella di consentire la determinazione di oggetti di natura assiologica (ossia i valori) in virtù di rigorose correlazioni, esse stesse, a loro volta, determinate da specifiche strutture eidetiche. In tal modo, Scheler mostra come anche gli atti e le funzioni della vita affettiva appartengano alla sfera noetica della percezione, per cui il concetto tradizionale di quest’ultima dev’essere allargato a ricomprendere ciò che Scheler chiama le “percezioni affettive”: percezioni dotate di uno specifico potere rivelativo, in rapporto al quale si rende individuabile un ambito della manifestatività, caratterizzato dalla presenza di altrettanto specifici oggetti, di natura assiologica, quali sono i valori e le gerarchie di valori. La percezione affettiva costituisce un tipo di percezione sui generis, caratterizzata dal tipo di oggetto (assiologico) che essa sola è capace di rendere manifesto in maniera evidente, e dunque descrivibile nella sua costituzione. La peculiarità l’importanza fenomenologica delle percezioni affettive consiste per l’appunto nel fatto che esse soltanto rendono possibile il coglimento di un’intera classe di oggetti assiologici, altrimenti indescrivibili. Per questo, sul terreno della fenomenologia scheleriana, il sentimento non è più considerato come mera tonalità affettiva, di carattere empirico, che accompagna le rappresentazioni; il sentimento acquista dignità fenomenologica, in ragione dell’oggetto che esso rivela – oggetto che, rispondendo a precise caratteristiche eidetiche, rende possibile e motiva l’idea di una correlazione noetico-noematica di tipi eidetici fra gli atti e le funzioni dell’affettività e i suoi oggetti, ossia di una “logica dell’affettività”. Per Scheler, tuttavia, non tutti i sentimenti costituiscono in quanto tali delle percezioni affettive. I sentimenti costituiscono fenomeni di tipo particolare, difficilmente descrivibili in quanto complessi, stratificati, composti di elementi eterogenei; non tutti i sentimenti, infatti, pongono la coscienza immediatamente in rapporto con i valori. Dal punto di vista di una fenomenologia orientata alla descrizione di oggetti assiologici, si rende indispensabile l’individuazione di quei caratteri eidetici che fanno dei sentimenti percezioni rivelatrici dei loro correlati assiologici, ossia percezioni che siano in grado di mostrare gli oggetti assiologici in quanto tali ed orientare la coscienza fenomenologica esclusivamente su di essi. A tal proposito, Scheler muove distinguendo, all’interno dell’insieme variegato dei sentimenti, ciò che egli chiama gli stati emozionali Invisibilità e affettività 283 dalle percezioni affettive. La distinzione è radicale: gli stati emozionali non costituiscono delle percezioni, e pertanto essi non constano di una struttura intenzionale. Ciò che compone gli stati emozionali è unicamente la loro tonalità affettiva, ossia il fatto d’essere, ad esempio, un dolore piuttosto che un piacere o altro. Gli stati affettivi sono tali per cui non definiscono nulla riguardo al tipo o al modo del sentire ad essi correlato; essi affermano unicamente il fatto che “ho dolore”, oppure “ho piacere”. Una percezione affettiva, al contrario, non ha il proprio riferimento al mero contenuto, al fenomeno affettivo, alla Stimmung dell’affezione, ma alla funzione del sentire. Essa non si sofferma sul “che cosa” è sentito ma, soltanto, mostra come lo stato di dolore o piacere sia dato nel sentire (ad esempio: se sia “sofferto”, “patito”, “accettato” o, addirittura, “goduto”) 49. Da un punto di vista fenomenologico, poiché gli stati affettivi non determinano nulla al di là del dato di fatto di provar questa o quella tonalità affettiva, non hanno alcun particolare rilievo. L’attenzione della fenomenologia è pertanto ristretta al solo orizzonte delle percezioni affettive, di cui Scheler offre un’ulteriore tassonomia, distinguendole in “percezione affettiva di sentimenti”, “percezione affettiva di stati d’animo emotivamente connessi ad un oggetto” (ossia stati d’animo associati ad oggetti sensibili, come ad esempio la tranquillità di un fiume o la tristezza di un paesaggio, ecc.), “percezione affettiva di valori” 50. Senza addentrarsi ulteriormente all’interno del complesso edificio filosofico rappresentato dal saggio sul Formalismus, già soltanto la ricostruzione di queste premesse consente di saggiare i punti essenziali della critica di Michel Henry al progetto fenomenologico di Max Scheler. Questa, infatti, non concerne i singoli aspetti delle analisi scheleriane, quanto piuttosto esattamente i suoi presupposti di fondo. Agli occhi di Henry, già il solo ricorso alla nozione di “percezione affettiva” costituisce invero un aspetto decisamente problematico. Che i sentimenti fenomenologicamente rilevanti siano assunti in qualità di “percezioni” e che solo a questo titolo l’affettività possa acquisire un suo proprio spessore fenomenologico sta infatti a significare che solo nella misura in cui i sentimenti siano conformi ai criteri eidetici dell’in49 50 Cfr. ivi, p. 261 (trad. it. cit., p. 317). Cfr. ivi, p. 262, nota 20 (trad. it. cit., p. 318, nota 20). 284 Roberto Formisano tenzionalità ad essi è riconosciuto un qualche potere di rivelazione fenomenologicamente significativo. In Scheler, l’affettività acquista un significato fenomenologico a condizione che consenta di portare allo stato di evidenza oggetti intenzionali a carattere assiologico quali si mostrano essere i valori. Questi ultimi mostrano il loro carattere assiologico in virtù della percezione affettiva, ma la percezione affettiva gode di questa peculiarità per il fatto che essa costituisce un tipo particolare di atto intenzionale 51 . Posto dunque che, per Scheler, l’affettività ha rilievo fenomenologico solo laddove essa è ri(con)ducibile alla struttura fenomenologica dell’intenzionalità, la sua filosofia mostra chiaramente di condividere esattamente i medesimi presupposti dell’intuizionismo husserliano. La fenomenologia di Scheler presenta dunque i caratteri di una “filosofia della trascendenza” che, come tale, condivide altresì gli assunti fondamentali del monismo ontologico. Esempio ne è il fatto che, in quanto percezione affettiva, il sentimento di valori ed il suo contenuto si costituiscono per essenza come differenti. Esattamente come nel caso della struttura della trascendenza, anche i sentimenti, a titolo di percezioni, sottostanno al criterio monista della distinzione fra il modo [Wie] della costituzione del fenomeno in generale ed il contenuto del suo apparire, cioè la realtà effettiva in cui il darsi del fenomeno giunge a compimento. Scheler stesso, riflettendo intorno al tipo di rapporto che si istituisce fra percezione affettiva e valore, sostiene esplicitamente che mai un oggetto assiologico potrebbe esser fatto coincidere o esser confuso con la percezione affettiva che lo mostra. Percezione affettiva e valore restano sempre ben distinti, delimitati ciascuno nel proprio campo eidetico. Non meno significativamente, tuttavia, la medesima regola la si ritrova anche laddove la percezione affettiva si volge ad intenzionare non valori, bensì i sentimenti stessi. Ciò che è provato nella percezione e ciò che essa mostra per mezzo di questo sentire restano separati. L’esempio eclatante è quello – addotto da Henry52 – della simpatia. Nella concezione scheleriana della simpatia non vi è alcuna reale unione fra ciò che 51 52 Cfr. ivi, p. 263 (trad. it. cit., p. 319). Cfr. EM, II, p. 723. Invisibilità e affettività 285 l’altro prova e ciò che io, in relazione al suo patire, sento. Il sentimento altrui ed il mio di simpatia costituiscono una relazione esteriore. Ma ancor più significativo rispetto a quest’ultimo esempio è il casolimite rappresentato dalla percezione affettiva di uno stato emozionale. Si è detto, in apertura, che lo stato emozionale costituisce quel tipo di sentimento la cui struttura non può esser fatta rientrare nell’alveo dell’intenzionalità. In questo caso-limite, l’estraneità fra sentimento intenzionale e suo contenuto è evidente. Il sentimento intenzionale non è costitutivamente in grado di cogliere l’elemento essenziale di qualsivoglia dato affettivo, ossia il suo contenuto, la sua Stimmung. In effetti, stando a quanto Henry afferma, la Stimmung costituisce l’autentico enigma della theoria scheleriana dell’affettività. Tanto gli stati affettivi (anche detti “sentimenti sensoriali”) quanto i sentimenti intenzionali lasciano le Stimmungen loro proprie nella più totale indeterminatezza. Singolari sono le ragioni di questa oscurità. Infatti, ai primi, cioè agli stati affettivi, è da Scheler negata ogni peculiarità fenomenologica o “potere rivelativo” per il fatto che non sono intenzionali; ai secondi, cioè ai sentimenti intenzionali, il medesimo potere è negato in riferimento alle Stimmungen proprio in ragione della loro costituzione intenzionale, ossia per il fatto che, ridotte a contenuti trascendenti, le Stimmungen perdono il loro peculiare carattere tonale e affettivo, per esser considerati non in quanto “sentiti” ma solo in quanto “intenzionati”, al pari di qualunque altro contenuto della rappresentazione 53. Sulla base di questi elementi, Henry contesta la distinzione che Scheler pone tra “stati affettivi” e “percezioni affettive”, rivendicando quella più originaria fra “sentimenti” e “percezioni” 54. Paradossalmente, Henry riprende e mutua le premesse della sua critica da Scheler medesimo: i sentimenti si rivelano essere nella loro peculiarità affettiva, cioè la Stimmung, irriducibili alla struttura fenomenologica della percezione, perché assolutamente estranei ad essa. Si comprende in tal modo, allora, quale sia l’effettivo ruolo del confronto di Henry con la filosofia di Scheler all’interno della sezione quarta di L’essence de la manifestation. L’analisi del pensiero di Max Scheler è funzionale ad 53 Cfr. EM, II, p. 728. Cfr. EM, II, p. 734. Per la chiarificazione del significato propriamente ontologico e fondamentale di questa distinzione, cfr. infra, Sez. III, Cap. II, § 32. 54 286 Roberto Formisano Henry per la posizione di quello che può esser considerato il punto cardine di tutta la sua concezione filosofica di affettività, vale a dire la costituzione non-estatica del sentimento come tale in quanto “sentire in immanenza” del tutto privo di ogni carattere fenomenologico di trascendenza. Ciò posto, si chiarisce altresì che il senso della critica di Henry alla posizione filosofica di Max Scheler è duplice, in quanto riferita, per un verso, sul piano propriamente teoretico, alla struttura interna del sentimento in generale e, per un altro verso, sul piano metodologico, la possibilità ed il senso della riflessione fenomenologica circa l’essenza del sentimento. Nella misura in cui, infatti, la distinzione fra sentimento e percezione stabilisce l’assenza, nella struttura interna del primo, di qualsivoglia elemento di trascendenza, diviene automaticamente illegittima ogni impostazione fenomenologica per la quale il criterio della riflessione sia ancora in qualche modo legato al criterio dell’intenzionalità e, più in generale, a quello della trascendenza stessa. Ciò che dunque, in contrasto con l’impostazione filosofica scheleriana, Henry in definitiva rivendica in merito al progetto di costituzione di una “fenomenologia dell’affettività” è la necessaria costituzione di quest’ultima nei termini di una filosofia dell’immanenza. b) La falsificazione ontologica dell’affettività Henry non misconosce neppure ad Heidegger il merito d’aver riconosciuto e sottolineato con la dovuta importanza il peculiare carattere manifestativo dell’affettività [Befindlichkeit], consistente essenzialmente nella “rivelazione” a sé della struttura stessa del fenomeno considerato in quanto tale 55. Come egli stesso scrive, infatti, già nella prospettiva heideggeriana l’affettività si impone come quella modalità dell’apparire che rivela all’e-sistenza la sua costitutiva ni-entità. «L’affettività – scrive in tale senso Henry, interpretando la posizione di Heidegger – non è soltanto un potere di rivelazione nel senso ordinario del termine, cioè quello di rivelare questa o quest’altra cosa; in senso proprio, essa indica 55 Cfr. EM, II, p. 735. Invisibilità e affettività 287 il potere di rivelare a noi ciò che rivela ogni cosa, ossia il mondo stesso in quanto tale, in quanto identico al nulla»56. Nella prospettiva heideggeriana, l’affettività rivela la costituzione non-objettiva del fenomeno dell’essere, ovvero la sua trascendenza, in quanto essa ha essenzialmente a che fare con il modo in cui l’orizzonte temporalmente finito del Dasein è dischiuso a se medesimo in-graziadel mondo. In ordine a questo rilievo, la riflessione onto-fenomenologica heideggeriana ha ben insistito circa la valenza innanzitutto metodologica dell’analitica dell’affettività [Befindlichkeit] nel contesto della problematica ontologica fondamentale 57. Entro tale inquadramento, il concetto fenomenologico di affettività viene infatti a designare il modo in cui la struttura del fenomeno non-objettivo realizza il proprio mostrarsi come tale in-grazia-del mondo nel modo d’essere dell’e-sistenza. In tal senso è infatti da intendersi la sottolineatura, posta da Henry nella citazione prima riportata, secondo cui l’affettività determina il modo in cui la struttura che fonda il mostrarsi di ogni cosa si dà a noi 58. L’affettività si dà come quella modalità del mostrarsi in grado di rendere percettibile a sé medesima la trascendenza alla maniera dell’e-sistenza, nel senso della co-appartenenza fra essere e comprensione d’essere in seno alla manifestatività 59. Tale rilievo emerge con particolare chiarezza nell’interpretazione heideggeriana dell’angoscia [Angst]. Indicato come Grundbefindlichkeit, il fenomeno dell’angoscia si distingue rispetto a qualunque altra disposizione affettiva [Stimmung] per il fatto che, nel mostrarsi che in essa giunge a compimento, ciò che si realizza è propriamente lo scoprimento a sé, da parte dell’e-sistenza, della sua stessa costituzione ontolo56 Ibid. Corsivi di Michel Henry. Sul significato metodologico della Befindlichkeit nel contesto della Daseinsanalyse heideggeriana, cfr. J.-F. COURTINE, Heidegger et la phénoménologie, Paris, Vrin, 1990, pp. 236-237. 58 Sul significato insieme teoretico, fenomenologico e metodologico della connessione ora richiamata fra l’apertura a sé [rapportarsi-a-sé] del fenomeno come tale (i.e. apparire non-objettivo) ed il modo in cui siffatto mostrarsi è altresì dato a noi si è già discusso a proposito dei caratteri fondamentali del monismo. A tal riguardo, cfr. supra, Sez. II, Cap. I, § 17. 59 Cfr. SZ, p. 137 (trad. it. a cura di F. Volpi, cit., p. 170; trad. it. a cura di A. Marini, cit., p. 395): «Essa [i.e. la Befindlichkeit] è un fondamentale modo esistenziale della cooriginaria schiusura di mondo, “con-esserci” ed esistenza, giacché quest’ultima è a sua volta essenzialmente essere-nel-mondo». Corsivi di Heidegger. 57 288 Roberto Formisano gica, in quanto non-ontica e mondana 60. Ciò che l’affettività, nella disposizione “fondamentale” dell’angoscia, porta allo scoperto, dietro l’unità dei momenti costituenti il complesso strutturale della Sorge, è la costituzione d’essere del Nichts: la non-onticità dell’apertura estatica d’orizzonte costituita um der Welt willen. Da un lato, attraverso la messa tra parentesi della totalità dell’ente intramondano, l’angoscia svela “il mondo in quanto mondo” 61; dall’altro, essa definisce il “tipo esemplare” di fenomeno, capace di rendere in quanto tale accessibile la struttura fenomenologica soggiacente al prodursi di qualsivoglia esperienza affettiva in generale 62. Più precisamente, ciò che il fenomeno dell’ango60 Cfr. EM, II, pp. 735-736. Cfr. SZ, p. 187 (trad. it. a cura di F. Volpi, cit., p. 229; trad. it. a cura di A. Marini, cit., p. 535): «Come modo della Befindlichkeit, l’angoscia dischiude innanzitutto il mondo in quanto mondo». Corsivi di Heidegger. 62 Lo svelamento dell’e-sistenza nella sua posizione-innanzi rispetto al Nichts, realizzantesi nel fenomeno dell’angoscia, porta allo scoperto ciò che è ontologicamente proprio di ogni disposizione affettiva. Sicché la tonalità affettiva dell’angoscia si distingue rispetto ad ogni altra, non in ragione della sua struttura fenomenologica, ma solo in ragione del tipo di svelamento che essa realizza, e cioè per il fatto che, precisamente, l’angoscia mostra nella sua totalità ciò che le altre disposizioni affettive, riferendo innanzitutto e per lo più ad enti intramondani l’“oggetto” del proprio sentire, lasciano occultato. L’angoscia porta in risalto in tal modo il suo carattere “fondamentale”, per il fatto che il suo mostrarsi non è correlato ad alcunché di objettivo, bensì esattamente al non-objettivo come tale, ovvero al Nichts. In ciò è peraltro il carattere di autenticità dell’angoscia: nel fatto che essa rende percettibile ciò che le altre disposizioni affettive, nel modo dell’inautenticità, lasciano inappercepito sullo sfondo, e cioè il mostrarsi del Nichts in quanto costituzione d’essere dell’In-derWelt-sein. E tuttavia, la stessa angoscia, così come le altre disposizioni affettive sono tutte considerate alla stessa maniera come modi diversi di realizzazione di una unica struttura fenomenologica che è quella della trascendenza. Per quanto distinta rispetto a tutte le altre, l’angoscia appartiene alla medesima costituzione d’essere di queste ultime, sì che mostrando la propria costituzione essenziale essa al contempo offre il disvelamento della struttura relativa a qualsivoglia forma d’affettività e all’affettività medesima in quanto tale. A tal riguardo, cfr. le considerazioni di Michel Henry in EM, II, p. 736: «Questo carattere fondamentale, specificamente ontologico, [quello cioè di aprire al ni-ente] non appartiene tuttavia all’angoscia come tale; tale carattere inerisce piuttosto all’affettività stessa e al peculiare potere di rivelazione realizzantesi nell’angoscia, ossia il trovarsi davanti al nulla. Per questa ragione, un tale carattere si ritrova in ogni disposizione affettiva: qualunque essa sia, la tonalità affettiva ci apre ogni volta il mondo; in tutti i casi essa è ontologica. […] La scoperta della paura è inautentica, in quanto si compie secondo il modo del Verfallen. In quel caso, si intende che la paura concentra la popria attenzione sull’ente di cui essa ha paura […]. La cura dell’ente, tuttavia, presuppone l’apertura del mondo […]. La inautenticità della paura è un modo di questa scoperta, un modo dell’angoscia ed un 61 Invisibilità e affettività 289 scia mostra è la valenza intrinsecamente affettiva della struttura fenomenologica della comprensione d’essere [Seinsverständnis]. Ciò a cui, pertanto, l’analitica della Grundbefindlichkeit dell’Angst conduce è lo scoprimento della strutturale co-appartenenza di affettività e comprensione d’essere nell’atto stesso della schiusura estatica costitutiva della manifestatività dell’essere, nel modo dell’e-sistenza, in-grazia-del mondo 63. Affettività e comprensione d’essere si coappartengono sul fondo veritativo dischiuso dalla trascendenza, giacché, come scrive Henry, «ciò che svela il mondo nell’atto stesso per mezzo del quale lo pro-getta al di là dell’ente come suo orizzonte, è la trascendenza» 64. Entrambi questi modi della ricettività non-objettiva condividono il medesimo carattere fenomenologico per cui, nella loro disposizione fondamentale ed autentica, portano nello stesso modo allo scoperto la struttura del mostrarsi non-objettivo come tale. Qui – scrive infatti Henry – si svela il significato radicale della rivelazione propria dell’affettività, che è quello di rivelare […] non soltanto il mondo o l’ente […], ma il potere stesso che ci apre il mondo nel progetto del ni-ente. Con l’affettività si presenta qualcosa come la possibilità per la trascendenza […] di costituirsi come un’essenza coerente e concreta 65. La ri(con)duzione dell’affettività alla struttura fenomenologica della trascendenza risponde, in primo luogo ed essenzialmente, all’esigenza di mostrare in concreto il costitutivo carattere di unità della trascendenza, a partire dal quale la riflessione onto-fenomenologica heideggeriana pretenderebbe di ricavare, fondando se stessa su di esso, il contrassegno decisivo del presunto carattere di “originarietà” alla temporalità estatica. suo travestimento. Le differenti tonalità sono per l’appunto il modo in cui, in maniera di volta in volta diversa, autentica oppure no, […] si compie la peculiare rivelazione dell’affettività, ossia la scoperta del mondo in quanto tale e del suo nulla». Corsivi di Michel Henry. 63 Cfr. SZ, pp. 142-143 (trad. it. a cura di F. Volpi, cit., p. 176; trad. it. a cura di A. Marini, cit., pp. 411-413): «La Befindlichkeit è una delle strutture esistenziali, nelle quali l’essere del “ci” si mantiene. Cooriginariamente ad essa, questo stesso essere costituisce il comprendere. La Befindlichkeit ha sempre la sua comprensione, sebbene la tenga in sordina. Il comprendere è sempre intonato». 64 EM, II, pp. 736-737. 65 EM, II, p. 738. 290 Roberto Formisano Pensato alla luce della tesi della co-appartenenza originaria di essere e comprensione d’essere in seno alla manifestatività, l’“unità” della trascendenza nomina l’essenziale omogeneità fra il modo di costituzione (dis-velamento, a-letheia) del fenomeno dell’essere e la rivelazione a sé um der Welt willen della comprensione d’essere, vale a dire la contemporaneità di svelamento d’e-sistenza e svelamento di mondo, giacché, come lo stesso Henry sottolinea, «non si tratta semplicemente di un solo potere, come se questo potesse volta a volta dirigersi ora sull’esistenza ora sul mondo, ma è in virtù di un solo e medesimo atto di questo potere unico che necessariamente e all’unisono la rivelazione dell’esistenza e del mondo si compie nell’affettività»66. L’unico potere mediante il quale possono accadere in maniera necessariamente congiunta sia il mostrarsi del mondo nella purezza della sua non-objettità sia il mostrarsi della costituzione d’essere dell’e-sistenza a se medesima, entro questa prospettiva, è il tempo. La temporalità estatica è ciò che costituisce e mostra l’unità della trascendenza e dei suoi “momenti” strutturali. Sì che, riconducendo l’affettività alla struttura della trascendenza67, l’ontologia fenomenologica heideggeriana fa dell’affettività un fenomeno costituito nel tempo e per mezzo degli schemi estatici di quest’ultimo. In altri termini, l’impostazione heideggeriana finisce col voler subordinare il senso della ricettività propria della Grundbefindlichkeit alla ricettività propria del tempo. Dell’inconsistenza di un simile inquadramento e delle insufficienze concernenti il presunto carattere originario della ricettività del tempo si è già discusso. Ciò che però Henry pone in luce ora, in riferimento al tema dell’affettività, è il fatto che con la sua ri(con)duzione ai fenomeni della trascendenza e della temporalità estatica, Heidegger ha spogliato l’affettività di tutto ciò che di più fenomenologico essa serba nella sua struttura, ovvero la realtà inerente alla sua propria ricettività. Tale perdita diviene manifesta, ad esempio, secondo Henry, in Sein und Zeit lì dove Heidegger, dopo aver definito la tesi secondo cui la struttura ontologica della Befindlichkeit si fonda sulla Geworfenheit, procede nella dimostrazione fenomenologica [phänomenologische Aufweisung] della 66 67 EM, II, pp. 743-744. Corsivi di Michel Henry. Cfr. SZ, pp. 339-346 (trad. it. a cura di F. Volpi, A. Marini, cit., pp. 955-973). cit., pp. 402-409; trad. it. a cura di Invisibilità e affettività 291 temporalità di ogni disposizione affettiva, ossia nella di-mostrazione del fatto che «le tonalità, per ciò che esistentivamente “significano” e per come lo significano, non sono possibili se non sulla base della temporalità»68. Discutendo dell’interpretazione esistenzial-temporale qui svolta da Heidegger circa il fenomeno della paura [Furcht], Henry scrive: La scoperta di sé da perte dell’e-sistenza nell’estasi del passato, come esistenza fattiva, […] non contiene tuttavia, come tale […], nulla di affettivo, nulla che possa costituire qualcosa come un carattere affettivo, come il carattere di Stimmung della paura. Una tale scoperta potrebbe benissimo compiersi in una coscienza puramente teorica, indifferente o, per meglio dire, atonale […]. Di più: se davvero si producesse nell’estasi del passato o, in maniera più generale, in quanto modo della trascendenza, la scoperta di sé da parte dell’esistenza accadrebbe proprio in questo modo, alla maniera d’una coscienza teorica, indifferente e a-tonale. Sul fondo della sola relazione estatica, non è possibile nessuna paura 69. Non diversamente, per quel che concerne l’angoscia, si legge in L’essence de la manifestation: Se davvero si realizzasse sotto forma d’una semplice appercezione e come un modo del comprendere, come relazione estatica, il fattivo concretizzarsi di un’esistenza abbandonata e destinata alla morte rivelantesi come ciò che domina l’orizzonte del suo mondo e del suo tempo non riuscirebbe certo ad accendere la Stimmung dell’angoscia. Una simile appercezione, in effetti, altro non è che la presentazione indifferente di un’oggetto indifferente. La sola comprensione dell’esistenza come essere-per-la-morte non determina affatto questo comprendere come angoscia 70. Concepito alla luce del mondo, il senso della Befindlichkeit è quello del “trovarsi in situazione”. Ogni situazione è tuttavia davvero tale solo fintantoché e nella misura in cui è inserita in un contesto. La situazione affettiva, così come Heidegger la intende, esige l’apertura dell’orizzonte estatico dell’essere. Essa lo esige, quale suo presupposto, sua essenza fenomenologica. Ma l’essenza dell’orizzonte è quella della distanziazione, del porre-innanzi, dell’alienazione. Subordinate a siffatto eidos, an68 SZ, p. 340 (trad. it. a cura di F. Volpi, cit., p. 404; trad. it. a cura di A. Marini, cit., p. 957). Corsivi di Heidegger. 69 EM, II, pp. 749-750. 70 EM, II, p. 750. 292 Roberto Formisano goscia e paura (in senso heideggeriano) mancano di concretezza e di realtà – nel senso di un autentico pathos – per il fatto che la loro struttura fenomenologica è assimilata a quella della comprensione d’essere, ossia a quella modalità del mostrarsi che, costituendosi in quanto tale, mostra se stesso nell’occultamento della realtà e della ricettività che ne fondano la possibilità ultima 71. In questo senso, il punto focale in relazione al quale la riduzione heideggeriana dell’affettività alla struttura della trascendenza mostra tutta la sua infondatezza è individuato da 71 Chiaramente, alla luce dei fondamenti che sono alla base di questa critica e che rinviano alla “distruzione” del monismo ontologico, la portata di queste considerazioni non si restringe soltanto a queste due sole Stimmungen, né tanto meno alle sole analisi esistenzial-ontologiche di Sein und Zeit. L’esempio a cui Henry accenna a tal proposito in L’essence de la manifestation è l’interpretazione heideggeriana del sentimento della vendetta nel saggio Wer ist Nietzsches Zarathustra?, pubblicato per la prima volta nel 1953 nella raccolta Vorträge und Aufsätze (cfr. M. HEIDEGGER, Wer ist Nietzsches Zarathustra?, ora in Heideggers Gesamtausgabe, vol. VII, cit., pp. 99124, trad. it. Chi è lo Zarathustra di Nietzsche?, in ID., Saggi e discorsi, a cura di G. Vattimo, cit., pp. 66-82). La grandezza di Nietzsche, agli occhi di Heidegger, sta nel fatto che egli ha saputo pensare nella sua radicalità, e cioè in maniera metafisica sin nelle sue più estreme conseguenze, il senso della vendetta inteso come «l’avversione della volontà contro il tempo e i suoi “così fu”» (cfr. ivi, p. 113, trad. it. cit., p. 76). Se pensare in maniera radicalmente metafisica il senso della vendetta vuol dire rifuggire dalla maniera tradizionale di avversare il tempo rifugiandosi nella perfezione sovratemporale di un mondo iperuranio, chiuso in se stesso, al di là della vita, pensare con radicalità l’essenza metafisica della vendetta vuol dire allora trasfigurarla esattamente nel suo significato estatico-temporale. In questa direzione, d’altronde, si muove l’interpretazione heideggeriana dell’eterno ritorno. «Con il pensiero metafisico della vendetta – scrive Henry a tal riguardo – si rende chiara la possibilità di una interpretazione esistenzial-temporale esaustiva dell’essere di questo sentimento. Quando infatti la vendetta sta ad indicare una relazione con il tempo costituita dal tempo stesso, il suo significato è totalmente temporale» (EM, II, p. 752. Corsivo nostro). Ciò di cui, tuttavia, anche in questo caso, l’interpretazione esistenzial-temporale della vendetta non è in grado di dar conto con i soli mezzi messi a disposizione dalla struttura fenomenologica della trascendenza (e cioè l’op-posizione, la distanziazione, l’occultamento ecc.) è, ancora una volta, il carattere peculiarmente affettivo di qualsivoglia modo del “sentire”. Scrive ancora Henry: «Quel che manca […] a quest’interpretazione [della vendetta] […] è nientemeno che il carattere affettivo della relazione stessa […]. Poiché un tale carattere non consiste mai nell’opposizione come tale, quest’ultima non può spiegare neppure gli altri sentimenti che pure sembrano trovare in essa e nella separazione che essa istituisce la loro origine naturale, come la sofferenza dell’esser-separato, la nostalgia. È vero che l’essere trascendente […] risveglia la nostra sofferenza […]. Ma, se la trascendenza del mondo fonda la separazione di cui soffre la nostalgia, essa non fonda tuttavia il carattere sofferente di questa separazione. La trascendenza non fonda la nostalgia e la sua affettività» (Ibid.). Invisibilità e affettività 293 Henry nella connessione fra il concetto fenomenologico di affettività e l’ipseità non-estatica (scil. trasparenza a sé) costitutiva della coscienza senza mondo 72. Assumendo il punto di vista dell’ontologia fenomenologica heideggeriana, scrive infatti Henry: Una simile connessione si lascia intravedere nell’interpretazione esistenzialtemporale dell’affettività nel momento in cui il potere di rivelazione di quest’ultima – compreso come quello del tempo – si concentra, non più sul mondo, ma sull’esistenza ad esso affidata […] in maniera tale che è l’esistenza stessa, nella sua affettività, a scoprirsi e a rivelarsi a se stessa 73. La connessione problematica fra affettività e tempo ha il medesimo senso della già discussa connessione fra temporalità e ricettività 74. Concepito alla luce della temporalità, il potere di rivelazione dell’affettività risiede essenzialmente nella sua (pretesa) capacità di rendere percettibile a se medesima l’e-sistenza, ovvero la schiusura estatico-orizzontale in quanto tale. “Rendere percettibile” vuol dire però ricevere, sì che la rivelazione di cui l’affettività temporalmente intesa dovrebbe rendersi capace altro non sarebbe che una realizzazione della tanto ricercata ricezione d’orizzonte. Se, dunque, il proprium della Befindlichkeit è quello di porre l’esistenza innanzi alla sua stessa costituzione d’essere, al fine di comprenderla alla luce del suo stesso modo di costituzione, si tratta di capire in che tipo di rapporto infine si trovino le due Selbstheit estatiche, quella “agente” la ricezione e quella “oggetto” della ricezione medesima. Invero, come la critica della trascendenza ha mostrato, ciò di cui l’ontologia fenomenologica heideggeriana non è in grado di render conto è esattamente questo sdoppiamento della Selbstheit fra un’“istanza agente” ed un’“istanza ricevente” – sdoppiamento che, piuttosto che risolversi nell’affermazione della strutturale unità di entrambe, conduce alla già nota difficoltà secondo cui: l’“istanza agente”, per poter essere ricevuta dall’“istanza ricevente”, deve poter esser come tale in qualche modo già data, ossia essa stessa già ricevuta, indipendentemente dalle realtà che, a loro volta, in essa trovano fondamento e possibilità d’essere. Il che, in definitiva, vuol dire: a funger da fondamento non può esse72 Cfr. supra, Sez. III, Cap. I, § 24 EM, II, pp. 752-753. 74 Cfr. supra, Sez. II, Cap. III, § 21-22. 73 294 Roberto Formisano re la ricezione d’orizzonte come tale, bensì solo la ricezione dell’atto in cui è radicata la possibilità per la schiusura estatico-orizzontale. c) Affettività e immanenza Connettendo sul fondo della temporalità estatica 75 Befindlichkeit e Verständnis, l’ontologia fenomenologica heideggeriana tiene ben saldo il legame tra affettività e trascendenza. Ricondotta interamente all’interno del dominio dell’estaticità, l’affettività si scopre così essere strutturalmente omogenea al fenomeno della sensibilità. Sebbene distinta da quest’ultima in ragione della sua costitutiva non-objettità, nella prospettiva heideggeriana affettività e sensibilità si svelano esser entrambe ricondotte in seno ad una medesima e unica fenomenicità, il cui eidos caratteristico è riconosciuto da Michel Henry nella distanza fenomenologica. Considerato però alla luce dei risultati ottenuti per mezzo della “distruzione” del monismo ontologico, il presupposto di questa condivisione d’essenza tra sensibilità e affettività non può più esser mantenuto. La logica al fondo di questa ulteriore “rottura” con Heidegger è ancora una volta la medesima già incontrata a proposito della distinzione delle nozioni di “invisibilità” e “non-visibilità”, “coscienza senza mondo” e “coscienza del mondo”. Tale logica si fonda sull’affermazione secondo cui: «L’atto che forma l’orizzonte, prima di ricevere e formare quest’ultimo, si riceve esso stesso in maniera tale per cui questa stessa ricezione originaria di sé è ciò che ne assicura la possibilità ultima»76. Messo “fuori circuito” il presupposto monista dell’omogeneità dell’essere, si tratta ora di portare finalmente in chiaro il carattere non-estatico che Henry riconosce al fondo di ogni fenomeno di tipo affettivo. In Henry, il concetto di affettività è richiamato ad indicare ciò in cui la ricettività originaria realizza la propria opera. Impossibilitata a ricevere “altro” da sé, la ricettività originaria realizza il mostrarsi dell’immanenza nel modo della piena trasparenza e identità della realtà e del “come” [Wie] della rivelazione. Del senso di siffatta trasparenza e iden75 Cfr. SZ, § 68.B, pp. 339-346 (trad. it. a cura di F. Volpi, cit., pp. 402-409; trad. it. a cura di A. Marini, cit., pp. 955-973). 76 EM, II, p. 576. Invisibilità e affettività 295 tità si è già detto allorché si è discusso del significato fenomenologico della non-estaticità 77. Ebbene, alla luce di tali determinazioni, l’affettività si rivela essere essa stessa la “realtà” della fenomenicità originaria, la “materia” e il “contenuto” del suo sapersi e della sua costitutiva trasparenza a sé. Che l’affettività costituisca la realtà del fenomeno originario vuol dire che la fenomenicità realizza originariamente il proprio apparire in quanto sapersi di tipo affettivo: nella trasparenza a sé, costitutiva della sua invisibilità, la fenomenicità originaria sa se stessa alla maniera d’un pathos, un puro (non-estatico) sentimento di sé. Essa sa se stessa nell’atto immediato del suo sentirsi il quale, in quanto pura affectio non-estatica, definisce tanto il contenuto quanto il modo del suo sapersi originario. Posto il radicamento dell’affettività nell’immanenza, si comprende allora il senso della distinzione henryenne tra affettività e sensibilità, pensato evidentemente in funzione delle rispettive strutture fenomenologiche d’appartenenza di questi due modi del sentire. In breve, la loro distinzione ricalca il senso della gerarchia 78 posta fra immanenza e trascendenza. In questo senso scrive infatti Henry: «L’affettività non è mai sensibile; viceversa, la sensibilità è costantemente affettiva: è questa la legge eidetica che regge il dominio ultimo del fondamento» 79. Come emerso dal confronto con Scheler, in quanto realtà dell’immanenza e dell’invisibilità, l’affettività consiste essenzialmente e definisce fenomenologicamente quella modalità d’affectio in se stessa priva della possibilità stessa di rapportarsi-a in senso estatico, ovvero una modalità d’affectio che non soltanto non presuppone ma anzi esclude del tutto la struttura stessa dell’estaticità come tale. Ma proprio per il fatto che 80, nel suo darsi in quanto tale, la possibilità stessa dell’estaticità è esclusa dal suo mostrarsi, l’affettività si determina essa stessa come fondamento per la trascendenza, fondamento per quel modo dell’adficere che è la ricezione del Nichts, affezione e ricezione d’orizzonte in-grazia-del mondo. 77 Cfr. supra, Sez. III, Cap. I, § 25. Cfr. supra, Sez. III, Cap. II, § 29. 79 EM, II, p. 600. In corsivo nel testo. 80 Per la comprensione del significato rigoroso di quest’inferenza si rinvia alle considerazioni svolte supra in Sez. III, Cap. I, § 24.A. 78 296 Roberto Formisano A titolo di fondamento, l’affettività sta ad indicare la realtà del modo di costituzione sul fondo del quale “prende terreno” 81 l’atto della trascendenza, il momento della differenziazione fra “modo” e “realtà” del mostrarsi in funzione del quale è infine istituita la struttura della schiusura estatico-orizzontale. In questo senso, l’affettività designa tutt’altro che un’“astratta” condizione di possibilità per il sentire estatico (sensibilità). Essa piuttosto si dà come realtà della possibilità stessa di questo sentire, una realtà che, per quanto distinta dalla realtà non-objettiva dell’orizzonte in ragione della luce del mondo, costituisce di sé la realtà del modus derivativus, ovverosia il “positivo” originario nei confronti del quale agisce la caratteristica opera di negazione ed occultamento (i.e. di alienazione) propria della trascendenza. Tale “realtà” è non-altro che la “positività” 82 stessa del fenomeno originario, la sua realtà effettiva e concreta 83. L’affettività si dà come fondamento per la sensibilità nel senso che la sua realtà si rivela esser ciò che fornisce alla sensibilità il “materiale” (l’invisibile trasparenza a sé propria di ogni sentire) in rapporto al quale soltanto è resa possibile l’alienazione dell’essere, il suo temporizzarsi in quanto In-der-Welt-sein. Giacché in ciò è da riconoscersi l’essenza della sensibilità, la sua costituzione inequivocabilmente estatica: nel fatto che in essa la ricezione presuppone l’alterità, la differenza. Se allora, come Henry affermava nella citazione riportata in precedenza, l’affettività si rivela irriducibile all’essenza della sensibilità, ciò si deve all’assenza di estaticità nel suo sentire e nel suo patirsi nell’ineludibilità della passività che lo costringe totalmente trasparente a se medesimo, senza la possibilità di potersi mai sottrarre dall’abbraccio di questa sua totalizzante e rivelativa ricezione di sé. Che l’affettività non sia sensibile, vuol dire che non può – è per principio esclusa la possibilità di – ricevere altro da sé. 81 Esattamente nel senso del Boden-nehmen indicato da Heidegger in Vom Wesen des Grundes, in riferimento alla triplice disseminazione del fondare concepito alla luce della costituzione finita dell’orizzonte trascendentale dell’essere, cfr. supra, Sez. I, Cap. III, § 13. 82 Cfr. supra, Sez. III, Cap. I, § 29. 83 «L’affettività – scrive Henry – non è la condizione del sentire, nel senso di una condizione astratta, disposta dall’analisi riflessiva, o di una condizione logica; piuttosto, essa costituisce l’effettività dell’atto di sentire considerato in se stesso, la sua peculiare fenomenicità, inconfutabile e concreta, l’esperienza stessa del sentire, identica a quest’ultimo e costitutiva della sua realtà» (EM, II, pp. 598-599). Invisibilità e affettività 297 Al contrario, che la sensibilità sia sempre affettiva vuol dire che il potere manifestativo della sensibilità deriva da quella irriducibile trasparenza patica che è il provarsi originario. La sensibilità, proprio come la trascendenza d’altronde, non è anch’essa che soltanto un modus derivativus della fenomenicità e della ricettività originaria. Per la precisione, essa individua quel modo dell’adficere non-objettivo che, realizzantesi in quanto ricezione d’orizzonte, porta a compimento il mostrarsi della trascendenza in quanto occultamento dell’origine, in vista della ricezione ontica d’objectum. Di contro alla tesi heideggeriana secondo cui «ogni Befindlichkeit è comprendente»84, Henry rivendica fermamente il carattere d’autonomia dell’affettività, la sua essenziale indipendenza rispetto alla comprensione d’essere. Scrive infatti Henry: Fintantoché l’affettività ci dischiude il mondo e ci pone davanti al nulla, il suo potere di rivelazione consiste nella trascendenza ed è da questa costituito. Ora, senza più indugiare oltre, è possibile presentare finalmente quest’evidenza: la essenza della rivelazione propria dell’affettività e realizzantesi in essa non è stata colta da Heidegger, e da questi è stata anzi confusa con l’essenza della comprensione ontologica dell’essere rispetto alla quale, considerata nella sua struttura e nella sua fenomenicità, è del tutto eterogenea 85. Che ogni affettività sia in quanto tale comprendente vuol dire che, come è proprio della Seinsverständnis, il potere rivelativo dell’affettività è essenzialmente riconosciuto nella sua capacità di portare allo scoperto la struttura stessa della trascendenza e la sua essenziale Nichtigkeit 86. 84 SZ, p. 335 (trad. it. a cura di F. Volpi, cit., p. 398; trad. it. a cura di A. Marini, cit., p. 943). 85 EM, II, p. 737. 86 Cfr. EM, II, pp. 737-738: «Nella misura in cui il potere di rivelazione che le è proprio è identificato con il potere peculiare della comprensione ontologica dell’essere ed è dunque ricondotto nella trascendenza, in conformità all’eidos di questo potere, l’affettività rivela necessariamente in maniera tale per cui ciò che in essa è rivelato è mostrato in quanto altro da sé, altro rispetto alla propria essenza, ossia, in primo luogo, il mondo (vale a dire il puro ambito dell’alterità) e, in secondo luogo, l’ente manifestantesi entro quest’ambito […] come oggetto. Ma ce ne vuole, alla rivelazione del mondo, affinché possa limitare il potere dell’affettività. Ogni Befindlichkeit “dischiude tutta la pienezza dell’essere-nel-mondo e dei suoi momenti costitutivi”. Aprendo la totalità dell’essere-nel-mondo, […] l’affettività rivela il mondo in quanto 298 Roberto Formisano Ridurre il potere rivelativo della Befindlichkeit alla sola struttura della trascendenza vuol dire però, per Henry, continuare ad “appiattirne” il senso, pensandolo ancora conformemente ai principî del monismo ontologico. Nel definire il carattere propriamente “originario” del rapporto fondamentale tra Befindlichkeit e Verständnis, Henry procede innanzitutto rovesciando l’affermazione heideggeriana secondo cui “ogni affettività è [per essenza] comprendente”. Scrive egli, infatti: L’affettività non è comprendente allo stesso modo in cui il comprendere è affettivo. Queste due frasi non sono semplicemente messe l’una accanto all’altra, come formulazioni equivalenti della struttura ultima del fondamento. Tra loro, esse si trovano […] in un rapporto di fondazione. L’affettività è comprendente solo nel senso limitato in cui il comprendere è affettivo, e nella misura in cui quest’ultimo effettivamente lo è 87. Il senso di siffatto rovesciamento è tutto giocato sulla distinzione che la fenomenicità della trascendenza implica tra la realtà del modo [Wie] del suo apparire e la realtà effettiva in cui la trascendenza stessa porta a compimento il proprio mostrarsi. Nel caso della comprensione d’essere, tale “realtà effettiva” è appunto l’In-der-Welt-sein. Sì che, considerata a partire dalla sua realtà effettiva, la comprensione d’essere appare, per essenza, estatica. Come però la “distruzione” del monismo ontologico ha chiarito, tale “illusione” che tende a confondere e sostituire la realtà concreta dell’originario con la realtà della schiusura estatica ha luogo in ragione dell’occultamento che la ricezione d’orizzonte compie, nella misura in cui lascia nell’oblio ciò che eccede le sue possibilità ricettive. E tuttavia: ciò che la ricezione d’orizzonte lascia in ombra è propriamente la realtà dell’apparire originario – il suo concreto sentirsi, il suo provarsi immediato “in prima persona”. Ebbene, è in questo senso che, nella prospettiva di Michel Henry, il comprendere si determina nella sua essenza come “affettivo”. L’affettività costituisce infatti quella coappartenente a questa totalità […], ma allo stesso tempo, e in maniera ben più essenziale, essa rivela l’In-Essere in quanto tale, ossia l’esistenza stessa ontologicamente interpretata. […] Tuttavia, l’affettività non fluttua nell’aria, come un potere astratto, separato dall’esistenza […]; essa è affettività dell’esistenza: essa appartiene a quest’ultima quale sua determinazione più essenziale». 87 EM, II, p. 608. Corsivi di Michel Henry. Invisibilità e affettività 299 realtà, trasparente in se stessa a sé, da cui la comprensione d’essere trae la propria origine. Sì che, in questo senso, la comprensione d’essere si rivela essere “affettiva” nella misura in cui è considerata nel suo stato sorgivo, indipendentemente dalla fenomenicità a cui innanzitutto essa vincola il proprio sguardo 88. Tra affettività e comprensione d’essere sussiste dunque la medesima gerarchia già incontrata a proposito dell’immanenza e della trascendenza. Esattamente come questi due modi della fenomenicità, affettività e comprensione determinano due modi del sapere 89. Orbene, che il senso “originario” della connessione fra mostrarsi e sapere non si costituisca, come emerso dalla critica alla trascendenza, nel senso della gleichursprüngliche Zusammengehörigkeit fra essere e comprensione d’essere trova così, proprio nel fenomeno dell’affettività, la chiarificazione ulteriore ed ultima del suo significato “positivo”. Come in parte già mostrato dall’analisi del fenomeno dell’invisibile, tale connessione (riferita al “sapersi non-estatico”) trova espressione in un apparire che sa se stesso in sé, ovverosia in un phainesthai il quale, compiendo in se stesso il suo stesso mostrarsi a sé e sottraendosi in tal modo dalla necessità di ricorrere alla struttura fenomenologica della temporalità estatica, senza necessità alcuna di ricorrere al visibile per farsi annunciare, non si pone innanzi a sé ma si sente in se stessa – sente se stessa in un’avvolgente e totale esperienza affettiva, in cui e per 88 Vale a dire indipendentemente dal modo in cui il comprendere realizza il proprio accadere um-der-Welt-willen. Il carattere affettivo della compresione inerisce, in altri termini, non al modo in cui esso fattivamente ha accesso alla sua stessa costituzione essenziale, ma solo ed esclusivamente alla maniera in cui la sua struttura (scil. l’atto della trascendenza che apre la schiusura estatico orizzontale) è rivelata a se medesima, e cioè fondata nel suo stesso apparire. 89 Cfr. EM, II, p. 604: «Perché il comprendere è affettivo: ciò è quanto deve essere chiaro in maniera definitiva. Infatti, comprensione d’essere e affettività non vanno affatto di pari passo, come componenti cooriginarie dell’evento in cui la fenomenicità sorge, né costituiscono quest’ultimo allo stesso modo o allo stesso titolo. Per questo motivo il legame che le tiene unite non è un semplice legame di giustapposizione, una raccolta di proprietà di cui ci si limita puramente e semplicemente a constatarne la simultaneità prima di includere entrambe entro un medesimo assoluto, in nome della Gleichursprünglichkeit. Ma poiché questo nesso è un rapporto di fondazione, poiché l’affettività ha già sempre portato a compimento la sua opera allorché dischiude un mondo, l’affettività si rivela unita a tutto ciò che nel mondo sorge e la presuppone; a tutto ciò, l’affettività è unita in maniera vincolante, esattamente come ciò che rende tutto questo possibile nel suo fondamento». 300 Roberto Formisano mezzo della quale, identificandosi con essa, la trasparenza originaria “vibra” di non-altro se non se medesima, ovvero del positivo originario così mostrantesi in quanto pathos 90. In questo senso, ricorrendo ad un tecnicismo già incontrato a proposito della discussione kantiana circa il rapporto fra fondamento e sapere, Henry indica l’affectio realizzante il mostrarsi originario con il nome di “auto-affezione” [auto-affection], intendendo per essa, non l’azione che la temporalità estatica dovrebbe poter compiere al fine di ricondurre ad unità i diversi momenti della schiusura estatica, bensì – ed in maniera ben più radicale – il sentire se stesso che si produce nell’impossibilità di sentire altro, ovvero un sentire radicale che in se stesso sente non-altro che l’unica realtà che esso è, e cioè la totalità invisibile del positivo originario in quanto tale 91. Schematicamente, si può dunque dire che, sulla base della distinzione gerarchica operata in riferimento al mostrarsi [phainesthai] fra la rivelazione (il phainesthai realizzantesi in assenza di estaticità), la manifestatività (il phainesthai dell’essere nella sua co-appartenenza originaria con la comprensione d’essere) e la manifestazione (il phainesthai dell’ente in quanto objectum), l’intera analitica dell’affettività sviluppata da Henry in L’essence de la manifestation consiste nell’individuazione e nella sistemazione di tre “gradi”, tre diversi ambiti del mostrarsi [phainesthai] inteso nel senso dell’affectio a cui corrispondono altrettanti modi di ricezione. Volendo tentare una descrizione puramente formale, muovendo dal piano del mostrarsi objettivo [Erscheinung] a quello originario, essi sono: 1. L’affezione ontica, a cui corrisponde la ricezione d’objectum. Tenendo ferme le determinazioni messe in opera nella discussione circa la maniera kantiana di intendere l’essenza del conoscere, questo tipo di af90 Cfr. EM, II, p. 680: «L’affettività è l’essenza interiore che non si staglia nella luce, ma resta in sé e si trattiene interamente in se stessa, fuori dal mondo». 91 «Il mondo, – scriverà Henry in un testo apparso per la prima volta nella Encyclopédie philosophique universelle (vol. IV: Le discours philosophique, a cura di J.-F. Mattéi, Paris, PUF, 1998, pp. 1873-1880) – la Differenza, sono il luogo di un’eteroaffezione, alla quale il pensiero riconduce ogni affezione concepibile in generale. Ma la vita si realizza come un’auto-affezione; essa è a-cosmica, in estatica, invisibile. La fenomenicità di quest’auto-affezione è un pathos. È in quest’affettività originaria che la vita è data a sé» (cfr. M. HENRY, Philosophie et phénoménologie, ora in ID., Phénoménologie de la vie, t. I, cit., p. 187). Invisibilità e affettività 301 fezione individua il dominio fenomenologico della sensibilità empirica (i.e. l’affectio intesa in senso naturale). 2. L’affezione ontologica, a cui corrisponde la ricezione d’orizzonte (scil. la Versinnlichung dell’orizzonte non-objettivo). A questo livello, in cui la correlazione fra mostrarsi e sapere (interpretato alla luce della sola estaticità) acquista il senso della co-appartenenza d’essere e comprensione d’essere in seno alla manifestatività non-objettiva, il concetto di affettività assume il significato ontologico della Befindlichkeit descritta da Heidegger in Sein und Zeit, in quanto pura (non-objettiva) affectio della estaticità nel duplice senso dell’affectio condotta dalla schiusura estatico-orizzontale su se medesima e dell’affectio strutturantesi per mezzo dell’estaticità (ossia dall’unitario schiudersi delle estasi della temporalità). 3. L’auto-affezione [auto-affection]: modalità d’affectio che, del tutto priva della struttura dell’estaticità, si realizza indipendentemente da qualsivoglia esteriorità o mediazione, ossia alla maniera di un’ipseità assoluta 92 che, passiva nei confronti di non-altro che se medesima in quanto totalità del mostrarsi in quanto tale, sa se stessa pienamente alla maniera di un sentire assoluto, un pathos che, attraversando la trasparenza originaria, la rende in tal modo presente a se stessa in sé, come interiorità stricto sensu. 32. Dell’originarietà del sentimento Se, alla luce dell’immanenza, l’affettività si determina a un tempo come il “Was” e, insieme, come il “Wie” 93 della fenomenicità originaria, ciò che resta da chiarire, ora, è in che cosa consista tale contenuto, ovvero: quale sia ed in che cosa consista la realtà effettiva dell’affettività 94. 92 Cfr. M. HENRY, Qu’est-ce que cela que nous appelons la vie?, ora in Phénoménologie de la vie, t. I, cit., p. 51: «L’auto-affezione è l’essenza dell’ipseità, laddove il “sé” è il fatto di sentir-si [se sentir soi-même], l’identità di affettante e affètto». 93 Cfr. EM, II, p. 674: «L’affettività è il modo stesso in cui si compie la rivelazione originaria; essa è l’effettività di questa rivelazione, la sua peculiare effettuazione fenomenologica e infine la sua “sostanza”, vale a dire l’apparire che essa determina e in cui si realizza». In corsivo nel testo. 94 Essenzialmente centrate sulle argomentazioni sviluppate in L’essence de la manifestation, le analisi che seguono, intorno alla realtà effettiva dell’affettività, non han- 302 Roberto Formisano Per inquadrare la questione relativa alla realtà del fenomeno originario, nel senso della affettività, conformemente al methodos dell’immanenza, è necessario far nuovamente ritorno alla nozione di passività 95. In quanto essenzialmente legato a non-altro che alla pienezza (positività originaria) espressa dalla non-estaticità della sua struttura, la fenomenicità originaria si determina come passiva nei confronti di se medesima, costituita in grazia dell’impossibilità di allontanarsi dalla sua essenza (che è poi identicamente la realtà stessa della sua rivelazione), essa trova in se stessa il pieno compimento del proprio mostrarsi. In questo senso scrive Henry «l’affettività rivela l’essere allo stesso modo in cui l’essere è rivelato a se stesso nella sua passività originaria nei confronti di sé»96. Passivamente dato a se stesso, ed in questo senso privo della libertà di sottrarsi a questo totalizzante abbraccio dell’originario nei confronti di se medesimo in quanto totalità del mostrarsi come tale, l’essere si dà come rivelato a se stesso in maniera tale per cui, immediatamente e senza differenza alcuna, sa se stesso in sé. Determinata in chiave affettiva, la passività del struttura originaria è la sua “passione” 97. Come esplicitamente Henry stesso afferma, ormai chiarendo definitivamente il senso della sua contrapposizione ad Heidegger, la passione si identifica con ciò che altrimenti è stato anche eno potuto ricomprendere – come pure sarebbe stato necessario, se lo scopo fosse stato anche quello di fornire un inquadramento generale delle prospettive aperte dalla fenomenologia materiale henryenne – il tema della corporeità. Significativamente, infatti, questo tema impegnò Henry sin dalle sue primissime ricerche, poi confluite nel già citato saggio Philosophie et phénoménologie du corps (in cui proprio l’interpretazione fenomenologica di alcune tesi di Maine de Biran, come l’“esperienza immediata immanente” costitutiva del “corpo soggettivo”, fornì lo spunto decisivo per l’enucleazione del concetto di “auto-affezione”) fino a Incarnation del 2002. - Le analisi che seguono definiscono tuttavia la cornice teorica entro cui s’inserisce quest’ulteriore risvolto del pensiero di Michel Henry, il cui contesto teoretico-problematico di fondo rinvia al dibattito fenomenologico relativo al “corpo vivo”, al Leib, al tema della costituzione fenomenologica e, più in generale, al problema di una “estetica fenomenologica trascendentale”. 95 Cfr. supra, Sez. III, Cap. I, § 29. 96 EM, II, p. 586. In corsivo nel testo. 97 Cfr. ibid.: «Con lo scoprimento dell’affettività come costituente l’essenza della passività ontologica originaria (cioè del fondamento ultimo per ogni realtà) è stabilita una connessione, in verità essenziale, tra l’affettività medesima ed il concetto di passività […]. Tale connessione si esprime esattamente attraverso la determinazione dell’essere dell’affettività, in quanto “passione”». Invisibilità e affettività 303 spresso come l’“esperienza” 98 del fenomeno dell’essere, ovverosia con la parousia dell’apparire originario. Se, come emerso a proposito della lettura del saggio Hegels Begriff der Erfahrung, dal punto di vista della filosofia heideggeriana l’esperienza [Erfahrung] dell’essere è stata rinvenuta e indicata nel rapporto di con-implicazione e di dia-logicità fra comprensione ontologica e comprensione esistenziale, nel senso della co-originaria appartenenza [gleichursprüngliche Zusammengehörigkeit] fra essere e comprensione d’essere, per Henry tale concetto va piuttosto rapportato alla parousia del fenomeno originario, ovvero alla sua Selbständigkeit – sì che, alla luce dell’immanenza, l’“esperienza” dell’essere sta ad indicare propriamente il sapersi del fenomeno originario in quanto trasparenza assoluta 99. Nella non-alterità, la passività sta ad indicare la non-libertà di rifiuto nei confronti di un dono, una donazione che, se ricevuta, non può esserlo altrimenti se non in tutta la sua pienezza, senza scarto e senza riserva alcuna 100. L’esperienza originaria dell’essere in quanto fenomeno è l’esperienza di questa ineludibile ricezione, nella totalità della sua struttura e della sua realtà. Questo è il significato originario dell’esperienza [Erfahrung] e della parousia in quanto passione 101. Nella passività, la rivelazione si dispiega come passione per il fatto che, costituita affettivamente come atto del riceversi, e in questo senso del sentir-se-stesso, essa non può mai ed in nessun modo sottrarsi da siffatta realizzazione. Che la passività sia determinata come passione, ciò vuol dire allora che, nell’irriducibile esperienza della rivelazione immanente (che è esperienza immediata della positività del mostrarsi originario a se stesso in sé), ciò che nel suo sapersi è ricevuto e nei confronti del quale la fenomenicità è impossibilitata a sottrarsi è esattamente il fatto di sentire: il sapersi in quanto “s’éprouver soi-même”. Così inteso, il sentire determinato alla luce della costitutiva passività del fenomeno originario consente di mostrare in concreto quale sia la peculiare caratteristica affettiva della rivelazione. Esso mostra ciò che le filosofie del monismo non riescono in alcun modo ad esibire, ossia l’af98 Cfr. supra, Sez. II, Cap. III, § 23. Cfr. supra, Sez. III, Cap. I, § 25. 100 Cfr. EM, II, p. 593. 101 EM, II, p. 586: «L’esperienza di sé dell’essere come originariamente passivo rispetto a se medesimo è la sua passione». In corsivo nel testo. 99 304 Roberto Formisano fettività nella sua concreta realtà, l’affettività alla luce del suo contenuto propriamente affettivo, e non più “fenomenologico” nel senso del meramente “percettibile” 102. Di più: la chiarificazione della passione, mostra come la determinazione dell’originarietà del mostrarsi in quanto tale nel senso dell’affettività non costituisca una semplice postulazione della teoresi filosofica, non una posizione astratta stabilita per sé dalla riflessione. Tale determinazione mostra piuttosto di trarre in ultima istanza la sua propria legittimazione da non-altro che dal peculiare carattere affettivo dell’affettività medesima 103, la quale però solo in regime di epoche del mondo si rende fenomeno logicamente descrivibile 104. Tale “peculiarità affettiva” si trova espressa in maniera sintetica dalla nozione di sentimento. Scrive infatti Henry: «Il concetto della passione è espresso dalla passività originaria dell’essere nei confronti di sé, nel suo sentirsi come tale identico all’essenza stessa del sentimento». E ancora, poco più avanti: Ogni sentimento è, come tale, essenzialmente passivo, passivo rispetto a sé, in maniera tale che, entro questa passività assoluta rispetto a sé e al suo peculiare essere, è consegnato al proprio essere, irrimediabilmente consegnato a se stesso, per esser ciò che è. Essere irrimediabilmente consegnato a sé per essere ciò che si è significa – e non può voler dire altro che – provarsi [s’èprouver soi-même], subire il proprio essere, fare esperienza di sé in un patire più forte di ogni libertà, più di ogni potere di sfuggire da sé o di allontanarsi da sé, sentirsi nell’identità assoluta dell’atto di sentire e di ciò che è sentito in esso, nell’identità a sé del sentimento stesso 105. La nozione fenomenologica di sentimento nomina propriamente il sentirsi proprio dell’atto stesso del sentire, in maniera tale per cui ciò che è saputo (i.e. che realizza il suo mostrarsi come sapere) in siffatto sentire è non-altro che l’atto stesso in quanto tale. In breve: sentimento 102 EM, II, p. 680: «Nessuno ha mai visto un sentimento, e nulla un sentimento ha mai fatto vedere. Tuttavia, quando proprio il nulla è visto e quando il potere che ci fa vedere le cose viene a mancare, nella notte indistinta e senza graduazioni che la luce del mondo lascia ritirandosi, nell’invisibile, il sentimento è sempre là, tutt’intero, a crescere in se stesso e a nutrirsi di sé nell’oscurità. L’oscurità dell’invisibile apre la dimensione ontologica in cui il sentimento trova la sua esistenza originaria, il luogo in cui si dispiega il suo essere». Corsivi di Michel Henry. 103 Cfr. EM, II, pp. 598-599. 104 Cfr. EM, II, p. 687-688. 105 EM, II, p. 588. Invisibilità e affettività 305 è il sentire se stesso come tale da parte dell’atto del sentire medesimo. – Ma che cosa significa, in questo caso, “sentire se stesso”? “Se stesso” è innanzitutto l’atto del sentire, ovverosia l’atto in quanto sentito “come tale” dall’atto medesimo. Il quale, proprio in quanto atto, non è objectum, non ha natura determinata in senso ontico. In primo luogo, dunque, che la nozione di sentimento si riferisca all’atto del sentire considerato come tale conformemente al modo del suo stesso sapersi vuol dire che, nella sua struttura, il sentimento esclude il riferimento ad objectum. Nel riferimento al “se stesso” nel sapere costitutivo dell’atto del sentire è escluso ogni riferimento ad objectum. Come però la critica della trascendenza ha mostrato, una volta messa in chiaro la natura non-objettiva della struttura fenomenologica del sentire, si tratta di chiarire il senso positivo di siffatto “se stesso”. Nel sentire se stesso, l’atto del sentire si sente come tale. Esso non cede alla mediazione del pensiero e della fenomenicità di quest’ultimo (scil. la distanza fenomenologica), ma prescinde da questa 106. Il sentirsi non si rap-presenta o pone-innanzi in un certo modo piuttosto che in un altro. Più precisamente: il modo in cui l’atto del sentire sa se stesso non è indifferente alla realizzazione di quest’ultimo. Ciò che, nel modo dell’esser-saputo, appare nel sentirsi dell’atto è esattamente l’atto nella totalità concreta del suo mostrarsi: «Il sentimento – è scritto in L’essence de la manifestation – si dà a sentire a se stesso in ogni punto del suo essere. In ciò, appunto, […] risiede la sua trasparenza»107. Ora, che, nel sentirsi dell’atto, ad apparire come tale sia l’atto medesimo nella totalità concreta del suo mostrarsi vuol dire che nell’apparire e nel costituirsi del sentire come atto (scil. non-objectum), ciò che è saputo non è soltanto la struttura (“vuota” di contenuto affettivo, come nel caso del Nichts heideggeriano) di siffatto sentire, ma la struttura unitamente alla sua realtà, cioè al suo contenuto affettivo concreto 108. In questo senso, 106 Cfr. EM, II, p. 686: «L’eterogeneità fenomenologica dell’affettività e del pensiero individua una determinazione eidetica irriducibile, derivante dal modo di rivelazione proprio dell’affettività e dal suo “come” [Wie]». 107 EM, II, pp. 858-859. 108 A tal riguardo, cfr. EM, II, p. 646: «L’affettività ha un contenuto ben determinato. Essa designa l’essenza, la cui peculiarità consiste nel sentir-si [se sentir soi-même], nel provare se stessa [s’éprouver soi-même] in maniera tale che, in questo s’èprouver soi-même che la costituisce, essa si dona a se stessa così com’essa è, nella sua realtà. Sul fondo di quest’essenza, che è in essa ed è la sua, l’essenza dell’affettività, 306 Roberto Formisano d’altronde, si è detto che è nel sapersi come tale che l’atto realizza la sua costituzione essenziale. Nel sapersi “come tale”, infatti, l’atto porta a compimento il suo mostrarsi in quanto “sentire” [adficere], per il fatto che: nel sapere unitariamente la struttura e la realtà del suo mostrarsi, ciò che esso sa è esattamente l’identità della struttura e della realtà con il suo stesso sapersi affettivo 109. La “ricchezza” del sentimento, tuttavia, non s’arresta qui. Nel momento in cui l’atto del sentire giunge a compimento alla maniera di un sapersi abbracciante la totalità della propria costituzione essenziale così come la sua stessa realtà, siffatto sapersi si determina non soltanto come ciò che è saputo, ma anche e soprattutto come ciò in cui l’atto del sentire sa se stesso come tale. Ciò in cui l’atto del sentire sa se stesso è per l’appunto la totalità di struttura e realtà del sentire, ovvero esattamente se stesso. Ne viene che l’atto del sentire si costituisce come tale in quanto sentire che sa se stesso in sé. In altri termini, ciò che nella forma concettuale del sentimento è fenomenologicamente enucleato è il sentirsi in se stesso da parte dell’atto stesso del sentire. Preso in tal senso, il sentimento si determina pertanto come determinazione fenomenologico-affettiva essenziale della nozione non-estatica di inseità che definisce la struttura ed il senso del fenomeno originario in quanto sapersi assoluto. Di questa nozione, già la definizione di ipseità non-estatica, avanzata a proposito dell’elaborazione del concetto fenomenologico fondamentale di immanenza 110, aveva mostrato i suoi caratteri essenziali. Ora però, attraverso la determinazione del sapersi originario nel senso del sentimento, un ulteriore e decisivo passo in avanti ogni sentimento è per natura ciò che è, sentimento di sé. Essere il sentimento di sé significa avere un contenuto, ma non uno qualsiasi; significa avere per contenuto ciò che si è in se stessi, la propria realtà. Questa è, esattamente, […] l’affettività: sentimento di sé». 109 In ciò si annuncia anche e soprattutto l’eterogeneità del sentimento rispetto all’intenzionalità. Su questo punto è da cogliersi uno degli aspetti forse più significativi ed esemplari dell’originalità della posizione teoretica di Michel Henry rispetto al panorama fenomenologico contemporaneo che, sin dalle sue origini (da Husserl, passando attraverso Scheler, Pfänder, i circoli di Monaco e Gottinga e oltre), pur riconoscendo la centralità dei fenomeni affettivi nella vita della coscienza e nell’orizzonte delle ricerche eidetiche, ha tuttavia sempre impostato tali ricerche situandole nell’ambito dell’intenzionalità, e dunque nell’orizzonte estatico della trascendenza. 110 Cfr. supra, Sez. III, Cap. I, § 24.B. Cfr. anche M. HENRY, Qu’est-ce qu’une révélation?, cit., pp. 54-55. Invisibilità e affettività 307 è stato compiuto da Henry nella misura in cui la determinazione del senso essenziale di siffatto sapere non soltanto consente di preservare nei suoi elementi costitutivi il valore fenomenologico fondamentale di questa nozione, ma consente altresì e tanto più significativamente di mostrarlo nella sua stessa concreta realtà in quanto pura affettività – «appresa, non più nell’idealità della sua struttura, ma nella sua concreta effettuazione fenomenologica»111. Come Henry stesso scrive, infatti: Questo è ciò che costituisce l’essenza del sentimento, l’essenza dell’affettività in quanto tale: il sentir-si [se sentir soi-même], in maniera tale che il sentimento non sia qualcosa che sente se stesso, questo o quel sentire determinato, talvolta questo o talvolta quest’altro sentimento, ma esattamente il fatto di sentir-si considerato in se stesso nell’effettività della sua effettuazione fenomenologica, ossia nella sua realtà. Come tale, in quanto “sentir-si” fenomenologicamente effettivo, costitutivo dell’essenza come ciò che la rende possibile, il sentimento non differisce affatto rispetto a quest’ultima: l’affettività è l’essenza originaria della rivelazione 112. Intesa come determinazione affettiva essenziale della rivelazione in quanto pura affettività, la nozione di sentimento va compresa alla luce della connessione essenziale che essa intrattiene con la nozione di ricettività originaria. Il “ricevere”, che genericamente vuol dire “essere affetto”, definisce infatti propriamente la maniera in cui il “sentire” realizza il mostrarsi del fenomeno in quanto esser-saputo come tale. Orbene, della ricettività originaria s’è detto a suo tempo che essa realizza la struttura fenomenologica del fondamento in maniera tale per cui, ricevendo se stessa (i.e. essendo affetta da sé) ciò che essa sente (i.e. il “sé” realizzantesi nell’affezione come “ciò che è ricevuto”) altro non è che l’atto stesso del riceversi (i.e. il suo stesso sentirsi) 113. Che, dunque, la 111 EM, II, p. 598. EM, II, p. 578. 113 Cfr. EM, II, p. 692: 112 «In quanto […] l’affettività rivela come affettività, in se stessa e in quanto tale, e il modo di presentazione fenomenologica della rivelazione che essa determina si propone come essenzialmente affettivo, ciò che essa esibisce - cioè il contenuto della rivelazione che in essa trova la sua essenza - è l’affettività stessa. Questo, in effetti, vuol dire per l’affettività essere a un tempo il modo stesso in cui si compie la rivelazione originaria, il suo modo di presentazione fenomenologica, l’effettività di questa rivelazione, la sua propria fenomenicità, la sua sostanza, l’apparire che essa determina e nel quale si realizza. Tutto ciò significa: essere il suo stesso contenuto». Corsivi di Michel Henry. 308 Roberto Formisano ricettività originaria sia in grado di ricevere la ricezione medesima nel suo atto – ed, in questo senso, che sia in grado di realizzare in se stessa la sua propria costituzione – vuol dire: la ricettività originaria si determina come quella modalità dell’adficere che ricevendo l’atto del sentire costituisce la realizzazione di questo atto ed insieme il contenuto del sentire stesso. In ciò d’altronde risiede altresì il senso “originario” che Henry riconosce alla nozione-chiave di auto-affezione 114 , interpretata nel senso appunto indicato dal sentimento. Sì che, in definitiva, il sentimento definisce e mostra, costituendolo come tale, nella sua stessa concretezza affettiva, il senso della ricettività originaria. Messo in luce il tratto essenziale del nesso sussistente fra le nozioni di sentimento, ricettività originaria e auto-affezione, è ora possibile considerare le principali conseguenze direttamente e indirettamente implicate sul fondo di questa relazione. Innanzitutto: che, nella ricettività originaria, l’atto della ricezione porti a compimento la rivelazione nella misura in cui è in grado di ricevere se stesso (scil. la totalità della fenomenicità), questo sta a significare che la realtà del fenomeno originario e la realtà dell’atto della ricezione sono non-altro che la medesima e unica realtà del sapersi inteso come sentimento. Il che, però, non vuol semplicemente dire che le due realtà si concretizzino nel medesimo sentimento, ma in maniera più radicale che queste due realtà sono propriamente “una”, la medesima ed unica realtà del sapersi non-estatico in quanto tale. Nell’affermazione dell’identità delle due realtà e dei due sapersi, ciò che è inteso è esattamente quanto determinato a proposito dell’immanenza 115 come identità del modo di costituzione e della realtà del mostrarsi originario, la reciproca trasparenza dell’uno nei confronti 114 Cfr. supra, Sez. III, Cap. I, § 31.B. In tal modo, sullo sfondo della problematica relativa alla ricettività originaria, si esplica peraltro la relazione essenziale fra le due nozioni di auto-affezione e sentimento che, nella prospettiva di Michel Henry, individua essenzialmente una relazione di identità. Dire auto-affezione o dire sentimento significa nominare in ogni caso sempre la medesima realtà, e cioè la realtà della pura affettività come determinazione strutturale del mostrarsi originario in quanto immanenza e invisibilità. Negli anni successivi a L’essence de la manifestation, dove il ricorso alla nozione di sentimento si farà sempre più raro, è alla nozione di auto-affezione che Henry farà più ampiamente ricorso al fine di descrivere la struttura affettiva della rivelazione a sé del fondamento in quanto vita. Sulla distinzione fra significato originario e significato fondamentale dell’auto-affezione, cfr. infra, Sez. III, Cap. II, § 33. 115 Cfr. supra, Sez. III, Cap. I, § 27. Invisibilità e affettività 309 dell’altro. A questa trasparenza, determinante alla maniera della nonestaticità l’unicità e l’assolutezza del mostrarsi originario, la nozione fenomenologica di sentimento [auto-affection] dà un contenuto affettivo concreto – un contenuto che è, sì, il sapersi del fenomeno in quanto tale, ma non nel senso del percipere (che è sapersi estatico), bensì in quanto sentire [adficere] che, nell’assoluta invisibilità del suo darsi a sé, sente tuttavia il suo esser rivelato a se stesso nel modo della trasparenza assoluta; sì che, in definitiva, concepito nella sua struttura fenomenologica (e, eo ipso, nella sua realtà) il sentimento si dà, come tale, essenzialmente in quanto sentimento di sé da parte della trasparenza assoluta costituente la rivelazione originaria. Nel sentimento si ritrova in tal modo la determinazione fenomenologico-affettiva della “positività” del fenomeno originario, vale a dire la sua assolutezza, il fatto che, nel mostrarsi in quanto tale a se stesso in sé, e cioè nella costitutiva impossibilità di mostrarsi ad altro e di mostrarsi in quanto altro da sé, ciò che il sentimento mostra è esattamente l’originario “in carne e ossa”, l’originario nell’atto stesso del suo sentirsi come tale e, pertanto, l’originario “in prima persona”. In ciò è il costitutivo carattere di auto-affezione, peculiare esclusivamente del sentimento: giacché, propriamente, auto-affezione non può avere il senso della sensibilità, intesa come affectio patita o prodotta da un’enigmatica e sedicente “ipseità” o “coscienza” (sia essa determinata nella sua struttura come objettiva o non objettiva poco importa); il senso del rapporto tra l’una e l’altra sarebbe infatti estrinseco e, come indicato dalla critica della trascendenza, oscuro ed indeterminabile per quel che concerne la sua origine reale 116. Diversamente, ciò che il concetto di auto-affezione 116 Cfr. a tal riguardo il commento di Henry alla determinazione del dis-velamento dell’essere in quanto Ereignis, lì dove, dopo l’ennesima affermazione circa la “positività” del fenomeno originario («L’essenza della fenomenicità non si situa al di là della sua apparizione effettiva, bensì costituisce quest’ultima», EM, II, p. 597), Henry esplicitamente dichiara: «Fluttuanti sono in effetti le considerazioni secondo le quali l’essere si sottrae a noi, ritraendosi e ritirando se stesso. Se “ritrarsi significa qui sottrarsi epperciò anche ad-venire”, sarebbe quantomeno doveroso specificare l’essere di questo “ritrarsi” che fa di quest’ultimo un Ereignis. Se “il fatto d’essere affètto dal reale può aver l’effetto di isolare l’uomo da ciò che lo concerne […] in una maniera senza dubbio enigmatica”, proprio questo farsi avanti dell’enigmatico, l’affezione dell’invisibile è ciò che costituisce il problema. E la filosofia, quando non ha altra possibilità per circoscrivere l’essere ricorre al movimento che l’uomo attua verso l’essere, in quanto movimento dell’uomo verso ciò che gli sfugge. Ma l’essere è 310 Roberto Formisano afferma, enucleando il significato affettivo del riferimento al sé (auto-), è che indipendentemente da ciò che l’apertura affettiva verso il mondo può portare allo scoperto nel modo del sentire, ogni affectio si costituisce come tale in quanto sentire che sente non-altro che se stesso in sé. Ogni affectio si dà, nella sua essenza 117, innanzitutto come sentimento, sì che dal sentimento e alla maniera del sentirsi costitutivo di ogni atto del sentire in quanto tale l’affectio riceve non soltanto il senso che le è proprio – il senso, appunto, affettivo del sentire in generale – ma anche la realtà del suo sentirsi. Il senso e la realtà profonda che costituiscono la natura affettiva di ogni affectio consiste in quel puro sentirsi che, indipendentemente da altro, realizza il proprio darsi essenzialmente in quanto sentimento 118. Legato a se stesso nella forma della passività e della passione, ma appunto, in quanto tale, indipendente dalla possibilità stessa del darsi di una qualche alterità (scil. estaticità) in essa – non-libero, cioè, di poter sfuggire e sottrarsi dal “totalizzante” ed universale abbraccio patico del proprio sentirsi, per aprirsi estaticamente al nulla [Nichts] – il sentimenesattamente non altro che quest’enigma, l’invisibile, non in quanto sfugge a noi e si ritrae, bensì in quanto ci affètta. L’invisibile […] è l’affettività» (EM, II, pp. 597-598. Corsivi di Michel Henry. Le citazioni riportate tra virgolette alte si riferiscono ad alcuni passaggi tratti dalla raccolta di saggi heideggeriani Vorträge und Aufsätze del 1954, nella versione francese di André Préau: cfr. M. HEIDEGGER, Essais et conférences, pref. di J. Beaufrait, Paris, Gallimard, 1958, pp. 158-159. In edizione italiana, cfr. ID., Saggi e discorsi, a cura di G. Vattimo, Mursia, Milano, 1976, pp. 88-89). L’essere nella sua ni-entità [Nichtigkeit] sfugge al comprendere in quanto è innanzitutto proprio il comprendere che, come modalizzazione del mostrare estatico, esclude da sé a se medesimo la possibilità di poter afferrare nella sua concreta realtà affettiva il senso della positività del fenomeno dell’essere e della sua costituzione fenomenologica in quanto rivelazione della totalità dell’essere a se medesimo. Giacché proprio il ritrarsi dell’essere si determina, in questa prospettiva, come ciò che dà fondamento al comprendere come tale. Di più: nel ritrarsi, il comprendere non trova soltanto la condizione del proprio accadere in quanto tale, ma anche la sua realizzazione effettiva; il che vuol dire: nella piena consapevolezza della necessità e della inoltrepassabilità del ritrarsi e dell’occultamento ad esso costitutivamente connesso, la comprensione d’essere si comprende come consustanziale, co-originaria alla realizzazione effettiva del mostrarsi dell’essere in quanto manifestatività. L’enigmaticità, in questo senso, si giustifica come diretta conseguenza del potere fenomenologico inerente al methodos rischiarante la comprensione d’essere nel suo costitutivo atto di ri-flessione inerente alla struttura del suo sapersi essenziale. 117 Come indicato a proposito del rapporto di fondazione che lega affettività e sensibilità, cfr. supra, Sez. III, Cap. II, § 34.B. 118 Cfr. EM, II, p. 705. Invisibilità e affettività 311 to così inteso consente di precisare ulteriormente la determinazione del senso e della realtà dell’esperienza dell’essere, ovvero della parousia originaria. La nozione di parousia nomina l’indipendenza, vale a dire l’autonomia [Selbständigkeit] del fenomeno originario, essenzialmente consistente nel suo sapersi in quanto “sapere che compiutamente sa se stesso in sé”. Orbene, che nel sentimento abbia luogo la parousia del fenomeno originario lo si evince chiaramente dal fatto che nella totalità che sente se stessa in quanto totalità non c’è possibilità di scarto, né possibilità di adombramento od occultamento alcuno 119. Il sentimento si determina in tal modo come il sentirsi proprio della positività originaria in quanto sentirsi della trasparenza assoluta conformemente al senso della sua invisibilità e cioè conformemente al senso della sua costitutiva non-estaticità. A titolo di determinazione affettiva della struttura e della realtà della rivelazione, la nozione di sentimento consente finalmente di mostrare, ancora alla luce della sua vibrante concretezza affettiva, in che cosa dunque consista il senso di ciò che, per mezzo della fenomenologia, Michel Henry ha inteso essere l’autentico fondamento, non solo per la riflessione filosofica, ma per tutto l’essere compreso alla luce della sua stessa origine, e cioè la vita. Scrive Henry: Ciò che silenziosamente perviene a sé […] per la sua passività originaria nei confronti di sé, ciò che prova ciò che esso è e […] si sente, freme in sé nell’interiore fremito della sua propria rivelazione a sé, è la vita. Ciò che la vita è nella sua possibilità ultima e nel suo essere-concreto, diventa trasparente. Ogni vita è per essenza affettiva. L’affettività è l’essenza della vita 120. La vita, nella sua essenza, è non-altro che sentimento; così come, in quanto tale, il sentimento stesso è stato determinato nella sua struttura e nella sua realtà come non-altro che il sentirsi della positività originaria 119 Cfr. EM, II, p. 667. EM, II, pp. 595-596. Cfr. anche EM, II, pp. 679-680: «La fenomenicità […], nella quale l’affettività si risolve pienamente, nella sua totalità, totalmente estranea alla luce del mondo, non è altro che il provarsi [s’èprouver soi-même] dell’essere che prova se stesso e permane in sé e, nel segreto di questo permanere-in-se-stesso, fa esperienza di sé; essa non è altro che l’interiorità del sentimento e della vita – l’affettività stessa in quanto tale». 120 312 Roberto Formisano nella sua totalità 121. Concepita come sentimento, la vita definisce il sentirsi in quanto tale proprio del fenomeno originario in quanto assoluto122. Essa si determina come il “materiale” patico [pathétique] di cui è sostanziato il sapersi in quanto tale dell’assoluto. Sì che, in quanto “materia” e “realtà” della rivelazione di quest’ultimo, la vita non costituisce soltanto il contenuto del sapersi assoluto, ma l’assoluto stesso in quanto tale. Dato il carattere originario del sentimento, il senso dell’assoluto risiede esattamente nel suo darsi in quanto vita. Vivere – scrive a tal riguardo Henry – […] significa essere; ma significa essere, in maniera tale che, con l’intervento del sentimento nel suo rapporto con la vita, non si ha a che fare con un modo di realizzazione particolare e arbitrariamente scelto di quest’ultima. Ciò di cui si tratta, qui, è la struttura interna di tutto ciò che è. Così compresa nella sua struttura interna (cioè nel suo stato sorgivo) l’essere è inseparabile dall’affezione. Nell’affettività, l’essere trova la propria possibilità ultima, […] la propria essenza 123. In breve, nella vita intesa come auto-affezione Michel Henry ha individuato la determinazione essenziale del senso relativo al costitutivo nesso fra mostrarsi e sapere, in quanto pura affettività, sentimento di sé da parte della positività originaria in quanto trasparenza assoluta che totalmente sa e sente se stessa in sé: non più, dunque, co-appartenenza di essere e comprensione d’essere in seno alla struttura originaria del mostrarsi, ma identità di mostrarsi e sapere, alla maniera di un puro sentire-se-stesso nel senso della ipseità non-estatica. 33. Le determinazioni affettive dell’assoluto Poiché l’auto-affezione, vale a dire il “sentimento di sé” nel senso del “sentire (non-estatico) nell’impossibilità d’altro”, definisce identi121 Cfr. EM, II, pp. 692-693: «Poiché l’affettività è il contenuto proprio della rivelazione originaria in cui essa trova la propria essenza, tale rivelazione – ossia l’affettività – si produce necessariamente e si realizza come rivelazione di sé. […] Ed è esattamente per questa ragione che, fintantoché ciò che essa rivela è se stessa, l’affettività – ed essa soltanto, fintantoché si produce necessariamente e si realizza come rivelazione di sé – può significare la vita». 122 Su questo punto, cfr. anche M. HENRY, Philosophie et phénoménologie du corps, cit., p. 151. 123 EM, II, p. 596. Corsivo nostro. Invisibilità e affettività 313 camente la struttura e la realtà dell’apparire originario inteso come vita, la determinazione fenomenologica di quest’ultima non può permanere alla stregua di una mera determinazione astratta. Posto che, nella stretta essenziale che la tiene unita a se medesima, la vita si dia essenzialmente come sentimento, resta da stabilire quale sia infine il contenuto effettivo – la materia affettiva – di siffatta modalità (originaria) del sentire. Qual è il contenuto di questo sentimento universale e in che rapporto questo si trova con i sentimenti di cui comunemente noi, e-sistenze finite, facciamo esperienza, in quanto costituiti in essa? Come l’analitica dell’affettività ha messo in rilievo, in ordine alle questioni sollevate dalla domanda circa il fenomeno originario, come tale il sentimento non può più esser considerato come mero fatto empirico 124. Intimamente legato alla struttura dell’immanenza, il sentimento – vale a dire qualsivoglia sentimento, in quanto tale – non è vincolato ad alcuna circostanza esteriore. Ad impedire una simile confusione, è il carattere non-estatico della struttura fenomenologica del sentimento, ben distinta dalla struttura estatica propria tanto della rappresentazione quanto della sensibilità 125. E tuttavia, si diceva, la distinzione del sentimento dalla sensibilità non si traduce affatto in una “rarefazione” del “sentire in immanenza”, quasi fosse un sentire evanescente, immateriale. Allo stesso modo, essa non conduce neppure ad una reale separazione fra un sentire originario, chiuso in se stesso nell’universalità astratta dell’“abbraccio totalizzante” della sua ricettività, ed il sentimento costitutivo dell’esistenza finita. Sentimento originario e sentimento costitutivo dell’esistenza non possono essere separati in ragione della loro comune appartenenza alla medesima e unica struttura che è quella della non-estaticità. Che sentimento originario e sentimento costitutivo dell’esistenza appartengano non soltanto ad una medesima struttura, ma esattamente a quell’unica e medesima struttura che è l’immanenza sta a significare che sentimento originario e sentimento costitutivo dell’esistenza condividono esattamente la medesima e unica realtà, vale a dire la realtà dell’assoluto in quanto rivelazione piena e totale (parousia) 124 125 Cfr. EM, II, p. 826. Cfr. supra, Sez. III, Cap. II, § 31. 314 Roberto Formisano dell’apparire originario “in carne e ossa” 126. L’esistenza partecipa della realtà del sentimento originario nel senso che è propriamente sul fondamento di quella realtà e dell’immediata trasparenza a sé del suo sapersi che ha infine luogo la schiusura della trascendenza in cui ciascun singolo vivente, aperto all’orizzonte estatico dell’essere, si trova ad esser costitutivamente coinvolto in quanto essere-nel-mondo. Per quanto invisibile, il sentimento originario è pur sempre concretamente presente nel singolo, come ciò sul fondamento della cui trasparenza ha luogo la rivelazione a sé dell’ipseità finita e la loro costitutiva apertura al mondo. Alla luce della non-estaticità, anche l’apparentemente manifesta contraddizione tra l’“universalità” propria del sentimento originario e la “particolarità” dei sentimenti dell’esistenza è del tutto superata 127. Il carattere “universale” e, più ancora, “originario” del sentimento non esclude la particolarità e la determinatezza proprie delle tonalità affettive ma, sottraendo queste ultime dalla sfera dell’empirico e più in generale della mera sensibilità, conferisce alla determinatezza propria delle Stimmungen un significato del tutto nuovo. In ragione della sua costitutiva assenza di ek-stasis, nota infatti Henry, «il fenomenizzarsi nella forma di un sentimento particolare è peculiare dell’essenza dell’affettività»128. 126 Cfr. EM, II, p. 859: «Poiché la rivelazione dell’assoluto consiste nell’affettività ed è da questa costituita, ciò che si rivela e si realizza in essa è la sua realtà, la realtà stessa dell’assoluto». 127 Cfr. EM, II, p. 826: «Essendo radicata nella sua essenza, in una struttura ontologica, la determinazione del sentimento, cioè la sua particolarità, non ha nulla a che vedere con la determinazione propria di un semplice fatto, con la particolarità o la determinazione che in generale appartiene ai fatti empirici e ai fatti psichici […]. La particolarità di un fatto […] è una determinazione a posteriori. Al contrario, la particolarità del sentimento si radica nella struttura originaria di ogni esperienza possibile in generale, in quanto esperienza effettiva, essa è l’effettività stessa identica all’affettività e, di conseguenza, l’effettività in quanto tonalità determinata». Cfr. anche M. HENRY, Souffrance et vie, ora in ID., Phénoménologie de la vie, t. I, cit., p. 148: «Poiché nel suo provarsi [s’éprouver soi-même] costituisce la realtà fenomenologica della vita, l’affettività non resta affatto indeterminata. Non solo essa è originariamente determinata per il fatto che ogni “s’éprouver soi-même” reca necessariamente in esso il “sé” nel quale il provarsi stesso si realizza, dimodoché ogni tonalità affettiva concepibile si propone come tonalità irriducibilmente singolare, […] appartenente a questo “sé” o a un altro “sé”. In effetti, vi è molto di più: è nel suo contenuto effettivo particolare che questa tonalità originariamente “ipséisée” riceve una determinazione propriamente affettiva derivantegli dall’Affettività, in quanto realtà del provarsi [s’éprouver soi-même] costitutivo di ogni vita». 128 EM, II, p. 825. In corsivo nel testo. Invisibilità e affettività 315 Ad operare questo superamento è innanzitutto, appunto, il carattere costitutivamente non-estatico del sentimento in quanto auto-affezione. L’assenza di estaticità è stata precedentemente caratterizzata come passività, non-libertà del fenomeno non-estatico nei confronti di se medesimo in quanto totalità dell’apparire. In questo “abbraccio”, in cui la totalità dell’apparire è immediatamente restituita a se stessa e saputa alla maniera di una trasparenza assoluta, la determinatezza del sentimento è legata a questo carattere totalizzante della ricettività originaria. In altri termini: in quanto non-estatico, il sentimento – qualunque esso sia – non può non fenomenizzarsi altrimenti che nella forma di un sentimento determinato e particolare in quanto sentimento della totalità dell’apparire nel senso della impossibilità d’altro 129. Compresa alla luce dei caratteri propri della ricettività originaria, la determinatezza del sentimento consiste essenzialmente nel suo inscindibile vincolo – che Henry, richiamandosi a Kierkegaard, caratterizza come “eterno” 130 – con l’ipseità costitutiva dell’apparire non-estatico in quanto tale 131. Identità, totalità, passività sono appunto i termini a partire dai quali in L’essence de la manifestation è finalmente svelato quale sia, a giudizio di Henry, il contenuto affettivo “determinato” del sentimento inteso nel senso della sua costitutiva originarietà. Scrive Henry: 129 Cfr. M. HENRY, Qu’est-ce que cela que nous appelons la vie?, ora in ID., Phénoménologie de la vie, t. I, cit., p. 51: «L’essere non ha bisogno di negarsi nella sua universalità per dare a se stesso il momento del particolare. Al contrario, se proprio si vuol parlare questo linguaggio, il particolare è l’essenza dell’essere, la sua possibilità più intima, il dispiegamento della sua positività. L’io, un io, non si differenzia da un altro per certe qualità naturali, psichiche o spirituali, per il fatto che è più sensibile o più intelligente, per il fatto di essere nato in questo o in quest’altro luogo o epoca, e il principium individuationis non deve nulla alle categorie dell’esteriorità. Un io si differenzia da un altro in quanto [lui solo] è se stesso originariamente, ed è se stesso nella sua propria auto-affezione e grazie a quest’ultima. È questo essere-sé nell’affettività ciò che pone ogni vita in relazione con sé e fa sì che essa sia vita all’opposto di ogni altra, nell’assoluta sufficienza [a sé] della sua individualità radicale». Corsivi di Michel Henry. 130 Cfr. EM, II, p. 854. 131 In questo senso, peraltro, è da intendersi l’affermazione henryenne, secondo cui: «La particolarità dell’esperienza pura è esattamente quella del sentimento, ossia di ciò che, essendo affetta da sé e provando se stessa nella passività ontologica originaria nei confronti di sé, è affetta da sé e prova se stessa nella determinazione di ciò che esso è», laddove l’“esperienza” a cui Henry fa essenzialmente riferimento è quella della parousia emersa alla luce della distruzione dei presupposti ontologici fondamentali del monismo. 316 Roberto Formisano L’essenza dell’affettività consiste nel soffrire ed è da questo costituita. In una passività assoluta nei confronti di sé, nell’impossibilità di cambiare se stesso, [il sentimento] si prova e fa esperienza di sé in quanto irrimediabilmente consegnato a sé per essere ciò che è, per sempre carico del fardello del suo stesso essere. Essere consegnato a sé, per sempre carico del fardello del proprio essere, la pesantezza della tonalità inclusa nella sua situazione originaria e costituente quest’ultima, tutto questo è ciò che il sentimento prova quando prova se stesso, quando è ciò che è. La struttura ontologica universale dell’affettività è il suo contenuto determinato, il sentimento particolare in cui si fenomenizza ogni volta. Nel soffrire in quanto soffrir-si [se souffrir soi-même] risiede e si disvela la sofferenza dell’essere, in quanto suo peculiare modo [di darsi] originario e fondamentale, consustanziale all’essenza e da questa posto. L’essere – l’affettività – è essenzialmente sofferenza 132. In quanto costitutivamente passivo, il sentimento si determina, innanzitutto, essenzialmente come sofferenza. In virtù delle peculiarità fenomenologiche dell’apparire originario, la sofferenza determina tanto il modo in cui il sentimento scaturisce ed irrompe nella rivelazione che gli è propria, portandola a compimento, quanto il contenuto specifico di siffatta rivelazione. E poiché nel sentimento ciò che è rivelato è altresì ciò che rende possibile la rivelazione medesima come tale 133, cioè l’assoluto, la determinazione affettiva dell’apparire non-estatico come sofferenza vale altresì come determinazione affettiva dell’assoluto esibito e mostrato in se stesso a sé “in carne e ossa”. L’assoluto si dà innanzitutto ed essenzialmente come sofferenza, per il fatto che esso non può liberarsi, è costitutivamente impossibilitato a rompere il vincolo essenziale dell’abbraccio totalizzante in cui risiede il senso del suo rapportarsi-a-sé – vale a dire, al “sé” inteso non nel senso dell’ego objettivo, come determinazione particolare ed ontica, né tanto meno nel senso della Selbstheit estatica e dell’In-der-Welt-sein, ma dell’ipseità non-estatica propria della ricettività originaria. In ciò, in effetti, consiste il carattere autenticamente patico del sentimento della vita, secondo Henry: nell’impossibilità di sfuggire a se medesima, alla sua propria auto rivelazione, senza la quale la vita stessa semplicerebbe non sarebbe, non potrebbe essere. Sottrarsi al rapporto, cioè sottrarsi alla trasparenza dell’abbraccio che la ricezione originaria realizza nei confronti 132 133 EM, II, p. 827. Corsivi di Michel Henry. Cfr. EM, II, pp. 839-840. Invisibilità e affettività 317 della totalità dell’essere, cioè sia della sua struttura che della sua realtà effettiva, per l’apparire originario significherebbe trasgredire il carattere fondamentale assoluto del suo darsi. In breve, significherebbe non apparire in quanto tale – non essere. Non potendo che costituirsi come assoluta trasparenza in ragione della sua costitutiva non-libertà, l’assoluto realizza affettivamente il suo proprio sapersi originario in maniera tale per cui se stesso in sé nel modo del soffrire ed in quanto sofferenza. Considerata nella sua radice, tuttavia, la non-libertà dell’assoluto rinvia al suo costitutivo carattere di non-estaticità, vale a dire all’impossibilità di ricevere altro se non la totalità della struttura e della realtà del suo stesso apparire. La non-estaticità conferisce all’abbraccio patico che raccoglie e tiene inscindibilmente unito l’apparire a se stesso alla maniera di una trasparenza assoluta un carattere “totalizzante” (e perciò originario) in ragione del fatto che esso esclude la possibilità stessa che “qualcosa d’altro” (cioè tanto l’objectum quanto la struttura stessa dell’objettività come tale) possa “restar fuori”, ovvero esser lasciato da parte in quest’abbraccio e dunque sussistere in assenza di un fondamento fenomenologico autoriceventesi. Ebbene, considerato alla luce di quest’impossibilità d’altro (che è altresì impossibilità di un essere “al di là” dell’apparire originario), il sentimento – esattemente quel medesimo sentimento che è uno ed è l’originario come tale, in quanto pura affettività – se per un verso, conformemente al senso della passività, assume il significato della sofferenza, per un altro, in ragione della pienezza di sé caratterizzante la trasparenza a sé costitutiva dell’immanenza, si determina altresì come gioia. Scrive infatti Henry: L’impotenza del soffrire - la sofferenza - è l’esser-dato-a-se-stesso del sentimento, il suo esser-inchiodato-a-sé nella perfetta aderenza dell’identità e, in quest’aderenza perfetta a sé, il conseguimento di sé; […] il sorgere del sentimento in se stesso nella gioia di ciò che esso è, è il pieno godimento di sé, la gioia […]. Poiché la potenza del sentimento consiste nella sua impotenza ed è identica a questa, ciò che noi sussumiamo sotto il concetto di tale potenza, cioè il suo contenuto fenomenologico effettivo e concreto, […] risiede e si realizza nella passività originaria nei confronti di sé, nella sofferenza del suo soffrire ed è identica a questa. Insieme e indistintamente, sofferenza e gioia 318 Roberto Formisano compongono e indicano ciò che originariamente si fenomenizza nell’essere e lo costituisce: l’effettività della Parousia 134. Sofferenza e gioia si danno come determinazioni fenomenologicoaffettive particolari e tuttavia, riferite all’apparire originario, esse non si escludono, non si oppongono; non sono l’una la limitazione dell’altra, ma entrambe si coappartengono in quell’unico e medesimo contenuto affettivo che è la trasparenza dell’ipseità non-estatica – un contenuto la cui fenomenizzazione trapassa costantemente dalla gioia alla sofferenza in quanto indistintamente e l’una e l’altra 135. Pur nella loro determinatezza, infatti, concepite alla luce della struttura originaria, sofferenza e gioia sono, affettivamente parlando, “lo stesso”, il medesimo e unico s’èprouver-soi-même proprio del fenomeno non-estatico 136. Impossibilitata a sottrarsi dall’abbraccio totalizzante della ricezione originaria, nell’atto stesso del suo esser totalmente dato a se stesso in sé, la vita si dà sia come sofferenza, perché passiva nei confronti di sé, sia come gioia, perché traboccante di sé e della pienezza stessa del suo provarsi 137. Scrive infatti Henry: L’unità di sofferenza e gioia risiede in queste tonalità, nel loro contenuto, ed è da quest’ultimo costituita. La sofferenza è gioia, in quanto in essa, nel suo contenuto e in ciò che essa è, si realizza l’esser-dato-a-sé, il pieno godimento dell’essere, per il fatto che la sua effettività fenomenologica consiste in questo godimento. La gioia è sofferenza, in quanto l’esser-dato-a-sé dell’essere, il 134 EM, II, pp. 830-832. Corsivi di Michel Henry. Cfr. EM, II, p. 832. 136 Cfr. ibid.: «L’unità di sofferenza e gioia è l’unità dell’essere medesimo, l’unità dell’evento ontologico unico e fondamentale nel quale ciò che si sente, sentendo se stesso e provandosi nella passività assoluta nei confronti di sé, […] si sente e si prova necessariamente nella sofferenza e nel pieno godimento di questo soffrire […]. Un solo e medesimo contenuto fenomenologico, una sola tonalità è pensata come sofferenza e come gioia; l’una e l’altra, allo stesso modo, ne compongono la trama, la sostanza e, infine, la fenomenicità, in quanto fenomenicità effettiva e concreta. Sofferenza e gioia sono un unico apparire, l’unico apparire dell’assoluto […], la Parusia». 137 Cf. M. HENRY, Phénoménologie de la vie, t. I, cit., p. 150: «Se è nel soffrire che la vita perviene in sé, allora è nel soffrire che, provando se stessa, la vita gioisce di sé. L’impotenza del sentimento, la sua impossibilità a sbarazzarsi di sé è allo stesso modo la sua potenza, il raccoglimento edificante nel quale la vita è unita a sé e si stringe a se stessa, la sua irruzione in sé - la folgorazione della presenza originaria nella Parousia patica della vita». 135 Invisibilità e affettività 319 suo pieno godimento di sé, risiede e si realizza nel provarsi [s’éprouver-soimême] del suo soffrire, per il fatto che il contenuto fenomenologico effettivo della gioia è la sofferenza di siffatto soffrire 138. Poiché inscritte nella struttura stessa – cioè altresì nella realtà – dell’apparire originario, la sofferenza e la gioia sono caratterizzate da Henry come “tonalità ontologiche fondamentali” 139. La coincidenza di sofferenza e gioia è infatti assunta da Henry come il criterio fenomenologico alla luce del quale rendere finalmente intelligibile, non più come estrinseca successione di stati d’animo, magari intesa come causata da situazioni particolari, l’incessante passaggio da una determinata tonalità affettiva ad un’altra che pure popola ed anima lo svolgersi dell’esistenza, ovvero ciò che genericamente Henry classifica sotto la categoria di «storia dei sentimenti»140. In siffatta “storia” 141 – che nel passaggio dalla sofferenza alla gioia e dalla gioia alla sofferenza trova il suo paradigma affettivo fondamen138 EM, II, p. 833. Cfr. EM, II, p. 834. 140 Cfr. EM, II, pp. 835-846. 141 A tal riguardo, Henry introduce la non poco ambigua nozione di “dialettica immanente”. Come giustamente avverte Sansonetti a tal proposito: «Nel mutuo trasformarsi della sofferenza in gioia, della gioia in sofferenza, si compie quella che Henry definisce l’historialité de l’Absolu, diversa della storicità dell’Assoluto hegeliana, più prossima all’istorialità dell’essere heideggeriana, da cui la distingue per il fatto che […] l’istorialità dell’Assoluto cui guarda il filosofo francese è quella dell’immanenza dell’affettività e dei modi della sua rivelazione. Non si ha a che fare con una dialettica nel senso hegeliano, procedente per opposizioni esterne l’una all’altra – trascendente, nel senso di Henry; si tratta, viceversa, di una dialettica immanente, in cui l’un termine non sta senza l’altro, anzi è l’altro, nello stesso momento e indifferentemente. La dialettica immanente, dice pure Henry, non procede per opposizioni ma per antinomie […]. È proprio il suo carattere antinomico a rendere comprensibile, ad esempio, un’espressione come quella delle Beatitudini, “Beati quelli che soffrono”, dove la beatitudine è presente in uno con la sofferenza» (G. SANSONETTI, Michel Henry. Fenomenologia, Vita, Cristianesimo, cit., p. 84). Riferita al sentimento, il senso della dialettica sta a significare il carattere intrinsecamente “dinamico”, non statico, del sentire in immanenza che, individualizzandosi e fenomenizzandosi in determinazioni affettive particolari, non per questo produce modificazioni interne alla sua essenza, cessando di essere ciò che è già da sempre, originariamente. Il senso della dialettica va letto alla luce della passività e del carattere assoluto dell’ipseità non-estatica, in virtù dei quali il fenomenizzarsi del sentimento originario in una determinazione affettiva particolare non vuol dire la mera esclusione di ogni altra determinazione possibile ma, al contrario, la fondazione della possibilità stessa di fenomenizzazione per ogni altra modalità del sentire in immanenza. 139 320 Roberto Formisano tale – Henry riconosce invero ciò che, a suo giudizio, né la filosofia di Heidegger né nessun altra filosofia aderente ai presupposti ontologici del monismo ha mai potuto cogliere, ovvero l’invisibile realtà non-estatica del la temporalità originaria. «La vita – scrive infatti Henry – è temporalità, ma la temporalità della vita è difficile da pensare»142. Certo, fintantoché il pensiero filosofico insisterà a ricavare il methodos del proprio interrogare la vita a partire dalla trascendenza, la realtà del tempo – così come la realtà stessa della vita e della sua costitutiva auto-affezione – non potranno che rimanere per essenza inaccessibili, in ragione di quell’occultamento a cui necessariamente l’eidos della distanza fenomenologica relega la realtà originaria per far luce e spazio alla schiusura dell’estaticità. Ma, affinché la dimensione invisibile e pur tuttavia reale dell’affettività possa esser colta nella sua pienezza, al di là delle complesse stratificazioni sotto cui l’eidos della Weltlichkeit tenta di nasconderla, è necessario risalire alla notizia del senso fondamentale, e quindi trascendentale, della non-estaticità che proprio nella sua materialità l’affettività testimonia in noi. Risalire alla notizia del senso trascendentale della non-estaticità significa riconsiderare in termini puramente affettivi la relazione di fondazione, che la “distruzione” del monismo ontologico ha portato allo scoperto, tra l’immanenza e la trascendenza; ripensare affettivamente la relazione gerarchica tra auto-trasparenza originaria (invisibilità) e occultamento mondano. Il che significa però anche rovesciare l’indicazione proveniente dall’ontologia fenomenologica contemporanea circa la (presunta) originarietà del dis-velamento (a-letheia), riportandola alla positività del s’éprouver soi-même che è unicamente la vita e non-altro. Operare questo rovesciamento significa allora comprendere la temporalità non-estatica della vita alla luce, essenzialmente, della sua passività. Scrive infatti Henry: La temporalità più originaria della vita deve essere compresa a partire dalla sua intrinseca passività. […] Questa passività nei confronti di sé sta a significare la passività della vita nei confronti del suo proprio fondamento. Che la vita provi se stessa vuol dire che non ha posto essa stessa il contenuto della sua affezione (cioè se stessa). […] La vita prova questo contenuto come ciò 142 M. HENRY, Qu’est-ce que cela que nous appelons la vie?, ora in ID., Phénoménologie de la vie, t. I, cit., p. 53. Invisibilità e affettività 321 che essa non ha posto e tuttavia le è dato e non smette di esserle donato, come ciò che viene in lei a partire da ciò che essa non è. Ma la vita non ha posto neppure la propria essenza, ossia il fatto di venire in tal modo in se stessa e di non smettere di provarsi in questo godimento pieno di sé. La vita non è altro che la passività di questa venuta in sé, e il movimento infinito di questa venuta in se stessa della vita è il suo tempo. Ciò che viene [nella vita], non viene dallo schema estatico dello Zukunft. Ciò che viene è la venuta della vita in se stessa così come la vita la prova nel suo s’éprouver soi-même in maniera tale per cui, provando se stessa, immergendosi nella trasparenza dell’affettività, la vita affonda nella potenza che la pone e non smette di porla 143. La temporalità non-estatica della vita è non-altro che il suo sentirsi, l’eterno ritorno dell’affettività in se stessa a sé, la sua passività, la sua passione. Nell’impossibilità di potersi sottrarre dall’abbraccio patico che la rivela, restituendola nella sua totalità e nella sua pienezza a se medesima, la temporalità della vita è non-altro che questo sentimento di sé: sentimento, atto del sentire trasparente a se stesso nell’eterno movimento, costantemente rinnovantesi, di rivelazione a sé, di donazione e di immediata e piena ricezione di sé, senza riserve. In questa passività inoltrepassabile e in questa passione – che è la realtà, la carne del fenomeno originario 144 – è la storia primordiale. Tanto la “determinatezza” del sentimento quanto la possibilità della sua trasformazione e del passaggio da una tonalità affettiva ad un’altra completamente nuova, ha la sua origine e la sua realtà unicamente nella realtà stessa dell’apparire originario 145, vale a dire nella sua unicità in143 Ivi, p. 56. Corsivi nostri. Cfr. M. HENRY, Incarnation, trad. it. cit., passim. 145 Modello dichiarato per questa determinazione in chiave affettiva dell’assoluto è il Kierkegaard di La malattia per la morte: «Le tonalità affettive fondamentali dell’esistenza sono state intraviste da Kierkegaard, nel Traité du Désespoir, […] nella struttura interna dell’immanenza» (EM, II, pp. 850-851). Tanto più significativo appare questo riferimento a Kierkegaard, se si considera che esso è richiamato da Henry in aperto contrasto con l’interpretazione heideggeriana del pensiero del filosofo danese (cfr. EM, II, p. 851, nota 1). Il concetto kierkegaardiano della disperazione è infatti inteso da Henry nel senso della passività ontologica e definita innanzitutto come il tratto distintivo dell’ipseità non-estatica, e in questo senso è ricondotta al fenomeno dell’auto-affezione: «Il sé, dice Kierkegaard, è il rapporto-a-sé posto da un altro. Esso è la relazione a sé in quanto non ha posto egli stesso questa relazione, non si è posto da sé. Esso è auto-affezione in quanto trova la sua essenza nella passività ontologica originaria dell’essere nei confronti di sé – passività che per l’appunto è l’ipseità in quanto tale. […] Nell’impossibilità di sormontare questa passività, nell’impossibilità per l’io di rompere […] questo il vincolo che lo tiene legato a se stes144 322 Roberto Formisano tesa nel senso della identità e della ipseità non-estatica, affettivamente declinate nella determinazione dicotomica del sapersi assoluto come unità di sofferenza e gioia. so e di sfuggire alla sua sofferenza, consiste la sua disperazione» (EM, II, p. 852. In corsivo nel testo). La disperazione è il fatto dell’ipseità non-estatica, in ragione dell’impossibilità in essa di sottrarsi all’assoluta trasparenza che la costituisce come tale. In questo senso, essa è intesa da Henry come essenzialmente legata al fenomeno dell’auto-affezione. Sul piano dell’esistenza, la disperazione si estrinseca o come rifiuto del costitutivo legame dell’esistenza a se stessa (scil. ciò che Kierkegaard chiama il “non voler essere sé”) o come tentativo di autoposizione e sostituzione della costitutiva ipseità dell’esistente con un altro “sé”, un’altra ipseità creata autonomamente (scil. il “voler essere sé”); in ogni caso la disperazione dell’esistenza si determina come negazione o rinnegamento di ciò che non può esser negato perché costitutivo dell’esistenza stessa. La disperazione dell’esistenza si determina pertanto come un “disperare per se stesso, in quanto disperatamente volersi disfare di sé”. Il senso della disperazione dell’esistenza risiede nell’assurdità (ontologica) della sua pretesa di rinuncia nei confronti dell’ipseità, vale a dire nei confronti di ciò che, proprio in ragione del carattere ontologico della passività, rende possibile qualcosa come il rapportarsi-a-sé, e cioè quindi l’esistenza stessa, e in assenza della quale, tolto il costitutivo vincolo all’ipseità, sarebbe il rapporto stesso, ovvero l’esistenza, ad essere annichilita, perché privata di ciò che costituisce la parte più essenziale del suo esserci. Ma, almeno restando alla lettura henryenne di Kierkegaard, il senso dello squilibrio rappresentato dalla disperazione dell’esistenza non si limita semplicemente al fatto che, in quanto “rapporto posto da un altro”, a quest’ultima le è impedito di liberarsi da un vincolo che non ha in lei la sua propria origine. Per Henry, la disperazione ha innanzitutto un significato ontologico, cioè originario, per il fatto che, interpretando il vincolo all’ipseità nel senso della non-estaticità, l’ipseità è intesa come elemento costitutivo del rapporto in quanto tale, e dunque non soltanto di quel rapporto che è l’esistenza, bensì anche di Dio: «Il fondo della disperazione – scrive Henry – è Dio stesso» (EM, II, p. 857). L’origine della disperazione è in questo senso fatta risiedere nel carattere non-estatico, cioè ontologicamente passivo, dell’ipseità costitutiva della rivelazione di Dio. La disperazione dell’esitenza è a questo titolo intesa come «l’esperienza del suo esser-dato-a-se-stesso e dell’essenza della vita in quest’ultimo» (Ibid. Corsivo nostro); essa si dà essenzialmente come dispiegamento di un’“esperienza” che è la disperazione stessa di Dio, vale a dire la sua originaria passività nei confronti di sé, la sua sofferenza – ma una sofferenza che, in Dio, proprio in ragione della sua originarietà, non può realizzarsi altrimenti che, necessariamente, nel suo contrario, vale a dire nella gioia e nella beatitudine. Sì che, in quanto esperienza della passività originaria, la disperazione diviene pertanto la “via” offerta all’esistenza in vista della sua unione con Dio, ovvero, come scrive Henry, «la disperazione […] è il passaggio, […] ciò che conduce all’assoluto. […] Essa è la mia malattia, l’estrema sofferenza che si realizza nel suo contrario, nella beatitudine che Kierkegaard chiama anche “fede”, e che così egli definisce: “che il sé nell’essere-sestesso e nel voler-essere-se-stesso si fonda in maniera trasparente in Dio”» (EM, II, pp. 857-858. La citazione finale è tratta da S. KIERKEGAARD, La malattia per la morte, trad. it. a cura di E. Rocca, Roma, Donzelli, 1999, p. 84). CONCLUSIONE In un discorso tenuto all’Università di Torino il 9 febbraio 1995 e pubblicato (in sola versione italiana) dalla rivista Filosofia e teologia, Henry aprì il proprio intervento richiamandosi esplicitamente al carattere di “filosofia prima” che egli, evidentemente, riconosceva come intrinseco alla sua propria “idea” della fenomenologia. Con estrema chiarezza egli infatti dichiarò: Vorrei per prima cosa precisare il rapporto tra la fenomenologia della vita e la fenomenologia in generale. Della fenomenologia in generale occorre affermare fin da subito che non può essere identificata con la fenomenologia nata storicamente con Husserl e ripresa da Heidegger […]. Scartando l’esame di questo movimento di pensiero, la mia intenzione è di parlare di una fenomenologia ideale, che risponda effettivamente al suo concetto, e sia ciò che deve essere. Vorrei mostrare che questa fenomenologia ideale non può essere altro che una fenomenologia della vita e che dunque non è una fenomenologia particolare, una branca della fenomenologia a fianco di una fenomenologia dell’essere, del tempo, dell’intersoggettività, dell’arte…, ma è la fenomenologia prima, la fenomenologia pura e semplice 1. Quale sia il “concetto” a cui la fenomenologia, idealmente intesa come filosofia prima, debba secondo Henry in linea di principio potersi conformare è quanto le precedenti analisi delle argomentazioni di L’essence de la manifestation hanno mostrato: la fenomenologia non individua un sapere di tipo particolare ma universale 2, per il fatto che “uni1 M. HENRY, Fenomenologia della vita, cit., p. 219. In L’essence de la manifestation, il tema della “universalità” della fenomenologia è uno dei temi principali attorno ai quali Henry ha svolto il proprio confronto con la “fenomenologia storica”. La perdita di tale universalità è infatti quanto sostanzialmente Henry denuncia nei confronti sia della concezione husserliana del progetto fe2 324 Roberto Formisano versale”, innanzitutto, in ragione del modo in cui essenzialmente esso si dà, è il suo stesso oggetto d’indagine cioè la vita in quanto “fenomenicità originaria” 3. Pensata nella forma di una “fenomenologia della vita”, questa “fenomenologia ideale” è assunta e presentata come “fenomenologia prima” 4 in quanto scienza descrittiva di quella fenomenicità in grado di costituirsi come “fondamento” per il suo proprio darsi, così come per ogni altra differente e possibile modalità del mostrarsi [phainesthai] considerato in generale. La fenomenologia ideale a cui Henry fa riferimento è precisamente intesa nel senso di una pura filosofia dell’originario o, meglio, di un “sapere fondamentale” essenzialmente inerente all’“originario sapersi” di quella fenomenicità che è la vita in quanto pura affettività ed immanenza assoluta – in un termine: in quanto pura auto-affezione 5. Ma, come Henry stesso sottolinea nel passo prima citato, questa “idea” della fenomenologia è tale da non avere alcun precedente nella cosiddetta “fenomenologia storica”. Se considerata alla luce delle filosofie di Husserl e di Heidegger, la “fenomenologia prima” indicata da Michel Henry rivendica il diritto di potersi autointerpretare come qualcosa di decisamente “nuovo”, di “impensato” e perciò di essenzialmente “estraneo” alle elaborazioni che il pensiero contemporaneo avrebbe offerto dell’“idea” della fenomenologia. La concezione henryenne della fenomenologia pretende, insomma, di potersi autodefinire anche indipendentemente dalla storia del pensiero fenomenologico contemporaneo, in ragione unicamente della costituzione interna del suo “oggetto d’indagine”. Ciò d’altronde, come si è visto, è quanto sin dagli anni di L’essence de la manifestation Henry ha sempre sostenuto riguardo alla propria “idea” della fenomenologia. Come le analisi precedenti hanno mostrato, infatti, già in L’essence de la manifestation i richiami alle filosofie di Husserl e Heidegger servirono essenzialmente a dichiarare sin dall’inizio il senso e la portata della propria distanza critica nei confronti tanto nomenologico di fondazione della “filosofia prima” (in quanto essenzialmente perseguito nei termini d’una “fenomenologia della ragione”: cfr. supra, Sez. I, Cap. II) sia di quella heideggeriana (in quanto preliminarmente impostata nei termini d’una “analitica dell’ente-Dasein”: cfr. supra, Sez. I, Cap. III). 3 Cfr. M. HENRY, Fenomenologia della vita, cit., p. 220. 4 Cfr. EM, p. 68 (trad. it. cit., p. 86). 5 Cfr. supra, Sez. III, Cap. II, § 33-34. Conclusione 325 dell’approccio “intuizionista” husserliano quanto da quello “ontologizzante” heideggeriano. Henry rifiuta le concezioni della fenomenologia scaturenti da questi due approcci; anche se, dal confronto diretto con questi due diversi modi di pensare il senso della ricerca fenomenologica, Henry trae e conserva, in effetti, un’indicazione di significato duplice, insieme metodologico e teoretico, alla quale terrà legata sino all’ultimo la propria fenomenologia, vale a dire quell’indicazione per cui, in quanto “scienza fondamentale”, a differenza di tutte le altre scienze cosiddette “objettive”, la fenomenologia prima non definisce né può definire da sé, arbitrariamente, il proprio metodo d’indagine, ma deve poterlo ricavare direttamente ed unicamente dal fenomeno stesso, ovvero dalla sua struttura: “prima” della definizione del metodo della fenomenologia è innanzitutto la preliminare determinazione della struttura del fenomeno concepito come tale. In L’essence de la manifestation, scrive infatti Henry, appena dopo aver concluso la sua disamina critica nei confronti delle filosofie di Husser e Heidegger: I problemi ultimi della fenomenologia riguardano la riflessione della fenomenologia su se stessa e sul suo fondamento. Nella risposta fornita a questi problemi ultimi è in gioco e si decide il senso della fenomenologia. Quest’ultimo, in effetti, dipende direttamente dalla natura del fondamento. In che modo la fenomenologia possa entrare in rapporto con l’essenza, vale a dire con il Come fondamentale in conformità al quale la realtà si realizza facendosi “fenomeno” – tutto ciò dipende dalla natura del “Come” [Wie]. Il problema dell’essenza del fenomeno è primo in rapporto a quello della chiarificazione. La fenomenologia si lascia guidare dal suo oggetto. Il “Come” del suo approccio è subordinato al “Come” della realtà che essa approccia – realtà che è essa stessa il “Come” da investigare 6. Nonostante questa sottilissima linea di continuità, agli occhi di Henry è esattamente in ragione del primato che la fenomenologia stessa, in generale, deve poter riconoscere al “fenomeno” (cioè all’apparire inteso 6 EM, p. 69 (trad. it. cit., p. 87). Corsivi di Michel Henry. Questo del rapporto tra fenomenologia e metodo sarà uno dei temi su cui a più riprese Henry tornerà, soprattutto nel corso degli anni Novanta. A tal riguardo cfr. M. HENRY, Phénoménologie de la vie, t. I, cit., in particolare le pp. 77-121 e pp. 181-196, corrispondenti ai contributi: Quatre principes de la phénoménologie (1991); Phénoménologie non intentionnelle: une tâche de la phénoménologie à venir (1995); e Philosophie et phénoménologie (1998). 326 Roberto Formisano nel suo “come” [Wie] più essenziale) che deve altresì potersi imporre in tutta la sua evidenza, contro ogni possibile tentativo di riconduzione della fenomenologia della vita ad uno dei due paradigmi della “fenomenologia storica”, l’irriducibile diversità sussistente fra la concezione henryenne del “fenomeno” (così come della conseguente “idea” della fenomenologia prima) e le elaborazioni husserliana ed heideggeriana di questo concetto. E tuttavia, come spesso accade in questi casi, contrariamente a quanto una presa di posizione così esplicitamente critica e di rottura nei confronti della storia del pensiero fenomenologico contemporaneo potrebbe (o vorrebbe) lasciar intendere, l’analisi delle ragioni di questa “frontale” contrapposizione ha rivelato la sotterranea presenza di un rapporto in realtà molto più “sfumato”, se non addirittura “ambivalente”, soprattutto nei confronti della ontologia fenomenologica di Heidegger. Più che con Husserl, in L’essence de la manifestation è principalmente confrontandosi con la filosofia di Heidegger che Henry giunge a chiarire il proprio rapporto con la “fenomenologia storica”; per quanto egli dichiari sin dall’inizio le proprie distanze, Henry si serve ancora chiaramente del linguaggio heideggeriano, talora riutilizzandone addirittura intere argomentazioni. Si consideri ad esempio la critica alla concezione husserliana della fenomenologia: come mostrato nella prima sezione del presente studio, si tratta per lo più di tesi da Heidegger già sviluppate nel cosiddetto “periodo di Marburgo”, poi parzialmente confluite nel testo definitivo di Sein und Zeit e da Henry, infine, recepite e rielaborate nella versione già offerta da Levinas nel suo saggio La théorie de l’intuition dans la phénoménologie de Husserl del 1930. Da Heidegger (via Levinas), Henry riprende, sottoscrivendola pienamente, l’accusa di “intuizionismo” nei confronti di Husserl, ribadendo in sostanza la tesi secondo cui la riduzione husserliana della struttura del fenomeno alla struttura dell’evidenza apodittica dell’ego, concepita come “modello ideale e costitutivo” per ogni modalità possibile dell’apparire in generale, ha per effetto la “chiusura” della fenomenologia trascendentale in una sorta di “dogmatismo dell’intenzionalità” 7 tale per cui, privilegiando la sola dimensione intuitiva dell’apparire, essa si sarebbe infine privata da sé sola, in tal modo, di ogni possibilità d’accesso alla dimensio7 L’espressione è di Michel Henry, cfr. EM, p. 62 (trad. it. cit., p. 82). Conclusione 327 ne non-intuitiva (o oltre-intuitiva) altrettanto costitutiva della struttura della coscienza. Per Henry, insomma, così come per Heidegger, all’interno della fenomenologia husserliana l’intenzionalità svolgerebbe essenzialmente il ruolo di un “presupposto”, e ciò in aperta contraddizione con il concetto stesso di una “filosofia prima”. Se centrale nel contesto del confronto di Henry con la “fenomenologia storica”, la mediazione di Heidegger, per quel che concerne l’impostazione di fondo della problematica di L’essence de la manifestation, non deve tuttavia esser sovrastimata. In questo senso, infatti, è a ragion veduta che Henry rivendica l’autonomia della propria “idea” della fenomenologia; un’autonomia riguardante non soltanto la definizione del concetto fondamentale di “vita” ma altresì la determinazione del percorso teoretico-critico attraverso il quale questo concetto ha ricevuto la sua elaborazione definitiva. Come le analisi della seconda sezione hanno infatti mostrato, nel momento in cui Henry affronta la questione del monismo ontologico il concetto di trascendenza che egli utilizza non è affatto semplicemente ri(con)ducibile a quello heideggeriano; più precisamente, egli non lo assume secondo il significato da Heidegger stabilito nel contesto della propria analitica esistenzial-ontologica ma, pur confrontandosi con quest’ultimo, ne fornisce un’enucleazione concettuale del tutto nuova e personale, il cui modello risale piuttosto alle tesi fichtiane della Religionslehre del 1806. Questa differenza fra l’enucleazione henryenne e quella heideggeriana della trascendenza appare evidente sin dalla preliminare determinazione della nozione di “distanza fenomenologica”. Per quanto in L’essence de la manifestation Henry insista nell’indicare i punti di contatto fra questa nozione e quella heideggeriana di Weltlichkeit 8, l’analogia fra questi due modi di considerare la struttura estatica del fenomeno dell’essere è limitata in realtà al solo momento progettuale costitutivo dell’essere dell’esistenza [Dasein]. Il punto in cui l’interpretazione henryenne dell’estaticità dell’essere si discosta chiaramente da quella heideggeriana riguarda l’altrettanto costitutivo (per Heidegger, almeno) “momento” dell’In-der-Welt-sein, rappresentato dalla Befindlichkeit, intesa nel senso del “sentirsi situato in mezzo all’ente”. In Henry, insomma, all’interno del suo concetto di “trascendenza”, è in definitiva assen8 Cfr. supra, Sez. II, Cap. I, § 14. 328 Roberto Formisano te il costitutivo elemento esistenzial-ontologico del “coinvolgimento” nell’ente [Eingenommenheit; inmitten von Seiendem sein] (i.e. il “sentirsi situato” [sich befinden]). In questo senso, tutt’altro che casuale appare allora la scelta henryenne di caratterizzare la trascendenza per mezzo di una connotazione “spaziale” – a cui la nozione di “distanza” primariamente rinvia – piuttosto che con una “temporale”. Dietro questa scelta si cela in realtà il consapevole intento di “rompere” l’unità dell’In-derWelt-sein, da Heidegger stabilita per mezzo della sua analitica della temporalità estatica. Il concetto henryen di distanza fenomenologica “semplifica” quello ontologico-esistenziale heideggeriano di mondo, nel senso che sottrae il contenuto propriamente ontologico (relativo alle condizioni di possibilità del mostrarsi dell’essere in quanto tale) dal presupposto-guida della filosofia di Heidegger, relativo al carattere di reciproca con-implicazione fra la fattiva autocomprensione del Dasein e lo strutturarsi della manifestatività originaria. La trascendenza di cui Michel Henry parla in L’essence de la manifestation ed il suo concetto di “estaticità” sono nozioni del tutto prive di quella “unità” caratteristica della concezione heideggeriana del tempo, secondo cui, conformemente alla cooriginarietà degli schemi temporali dello Zukunft, del Gewesen e del Gegenwart, «Zeitlichkeit ist das ursprüngliche “Außer-sich” an und für sich selbst» 9. La trascendenza henryenne definisce piuttosto un’estaticità “non temporale”, una sorta di “oltrepassamento senza coinvolgimento” 10, tale per cui la nozione stessa di “schiusura estatica” [Erschlossenheit] riceve in ultima istanza la caratterizzazione di una pura (non-ontica, non-objettiva) “esteriorizzazione dell’essere”. Privata, nella sua struttura, da ogni “risvolto ontico”, vale a dire da ogni riferimento all’apparire dell’ente, la trascenden9 SZ, p. 329 (trad. it. a cura di F. Volpi, cit., p. 390; trad. it. a cura di A. Marini, cit., p. 925). 10 Se è concesso esprimersi in tal modo, parafrasando e capovolgendo l’affermazione heideggeriana secondo cui: «Nel progetto di un mondo questo ente [i.e. l’esserci] non è ancora manifesto in se stesso e non potrebbe che rimanere nascosto, se l’esserci progettante, proprio in quanto progettante, non si trovasse già in mezzo a [inmitten von…] quell’ente. […] Colui che oltrepassa, e quindi si eleva, deve, in quanto tale, sentirsi situato [sich befinden] nell’ente. Così sentendosi, l’esserci è a tal punto coinvolto dall’ente da farne parte e da esserne pervaso nel suo stato d’animo. Si dice allora trascendenza un progetto del mondo tale che il progettante è anche già dominato nel suo stato d’animo dall’ente che oltrepassa» (WG, p. 166, trad. it. cit., p. 122. Corsivi di Heidegger). Conclusione 329 za diviene in tal modo il criterio interpretativo generale a partire dal quale è quindi reso possibile l’accostamento fra filosofie così distanti, come quella di Gassendi e di Heidegger stesso, e la riconduzione di queste – così come delle filosofie dell’Idealismo tedesco e, infine, di tutto il pensiero occidentale, nell’intero decorso della sua storia – ad un unico “paradigma”, che è quello appunto del cosiddetto “monismo ontologico”. La chiarificazione del concetto henryen di trascendenza consente inoltre di gettare una luce diversa sulla maniera propriamente monista di intendere il già heideggeriano concetto di “comprensione d’essere” [Seinsverständnis], evidentemente conducendo ad una “nuova” enucleazione del nesso onto-fenomenologico, da Heidegger portato allo scoperto, fra essere, verità ed esistenza. Concepita nella prospettiva del monismo ontologico, la comprensione d’essere definisce il modo in cui la manifestatività dell’essere realizza il proprio apparire, vale a dire il modo in cui il fenomeno dell’essere è ricevuto conformemente al “come” [Wie] della sua stessa donazione. L’accadere della comprensione definisce il modo in cui il fenomeno dell’essere realizza il proprio apparire in quanto ricezione della sua stessa verità. Entro questa prospettiva, la manifestatività dell’essere è concepita in maniera tale per cui essa, costituendosi alla maniera d’una schiusura estatica, con-implica essenzialmente l’“accadere” della comprensione d’essere in quanto esistenza. A differenza della prospettiva heideggeriana, però, in questo caso la realizzazione della manifestatività, sebbene ancora pensata nel senso della originaria coappartenenza [ursprüngliche Zusammengehörigkeit] di essere e comprensione d’essere, è tuttavia intesa come del tutto indipendente rispetto al modo in cui il Dasein è fattivamente dischiuso alla comprensione della sua stessa costituzione d’essere 11. 11 In evidente contrasto con l’ontologia fenomenologica di Heidegger, per mezzo della propria enucleazione della trascendenza, Henry pone, senza soluzione di continuità, una distinzione netta fra “comprensione ontologica” e “comprensione esistentiva”; una distinzione il cui senso consiste appunto nell’affermazione dell’indipendenza, per quel che concerne la sua realizzazione effettiva, fra l’esteriorizzazione dell’essere (con-implicante lo strutturarsi della comprensione d’essere, e dunque l’“accadere” dell’esistenza) e l’“esteriorizzazione” della comprensione d’essere medesima alla maniera del costitutivo rapporto di comprensione del Dasein al suo stesso essere. Cfr. supra, Sez. II, Cap. II, § 21. 330 Roberto Formisano Come si accennava in precedenza, questa tesi dell’indipendenza (che ben dà la misura della distanza fra la concezione henryenne della “questione della trascendenza” e quella heideggeriana) non nasce affatto, in Henry, dal solo confronto con Heidegger, bensì si sostanzia ed anzi trova il proprio modello teoretico nelle tesi della Religionslehre di Fichte. Si motiva così, in effetti, superati i riferimenti alla “fenomenologia storica” in L’essence de la manifestation, il ricorso apparentemente arbitrario alle tesi fichtiane della “dottrina della religione” del 1806. La “apparente arbitrarietà” di tale riferimento sussiste infatti solo fintantoché la differenza fra la concezione henryenne e quella heideggeriana della trascendenza è lasciata allo stato implicito. La messa in chiaro del carattere non heideggeriano della trascendenza tematizzata e criticata da Michel Henry consente, ad esempio, di capire perché Henry avrebbe infine scelto di volgersi a questo testo fichtiano piuttosto che alla Wissenschaftslehre del 1804, su cui le tesi della dottrina della religione evidentemente poggiano. – Perché, infatti, privilegiare quest’opera “popolare”, come Fichte stesso la definiva, piuttosto che riferirsi all’esposizione “scientifica” della concezione fichtiana della filosofia prima? La ragione essenziale risiede nel fatto che Henry era tutt’altro che interessato ai principî metafisici della filosofia fichtiana. Ciò a cui egli era primariamente interessato era piuttosto la sua interpretazione del fenomeno della “coscienza religiosa”. Nel contesto della Anweisung zum seligen Leben, infatti, Fichte dà la chiave per interpretare la realizzazione del mostrarsi dell’essere (nel senso della sua coappartenenza strutturale con l’esistenza) come del tutto indipendente rispetto alla manifestazione ontica. Sennonché la tesi dell’indipendenza dell’esteriorizzazione dell’essere rispetto all’esistenza fattiva è quanto Fichte esplicitamente riconosce come enucleazione religiosa (cristiana) dell’estaticità dell’essere. Nel testo della Religionslehre, infatti, Fichte afferma che, al pari della filosofia, la religione cristiana avrebbe pienamente compreso il senso dell’essenziale coappartenenza di essere e comprensione d’essere in seno all’apparire originario; sì che la differenza fra pensiero filosofico-scientifico e pensiero religioso sarebbe da ricercarsi non nel contenuto ma nel modo in cui tale contenuto sarebbe stato compreso. Allora, tratto tipico di ciò che Fichte chiama la “coscienza religiosa” diviene per l’appunto quell’autocomprensione tale per cui, riconoscendosi come essenzialmente partecipe dell’essenza divina in quanto costituita essa stessa allo stesso modo dell’apparire originario, l’esistenza comprende se stes- Conclusione 331 sa altresì come “estranea” rispetto al processo di realizzazione della manifestatività divina 12 . Nell’interpretazione fichtiana del cristianesimo, Henry ritrova insomma organicamente disposti tutti gli elementi peculiari di quella interpretazione della trascendenza funzionale alla sua critica al monismo ontologico. Non è infatti in ragione di una qualche “affinità di pensiero” che Henry si volge a Fichte. Egli, anzi, come non condivide i principî della filosofia “scientifica” fichtiana (per Henry ennesima espressione del monismo ontologico), così non condivide neppure la concezione fichtiana della religione né tanto meno la sua interpretazione dei concetti fondamentali del cristianesimo. Perseguita sotto la guida tematica delle tesi fichtiane, l’enucleazione della “coscienza religiosa” svolge un ruolo centrale all’interno di L’essence de la manifestation, per tutt’altre ragioni e in tutt’altro senso. In primo luogo, come la definizione delle nozioni di alienazione e parousia testimoniano 13, essa consente di precisare ulteriormente e di articolare nel suo contenuto più propriamente ontologico, il senso del concetto henryen (e monista) della trascendenza. In secondo luogo, proprio la messa in chiaro del carattere essenziale della distinzione fra “comprensione ontologica” e “compresione esistentiva” nel contesto della definizione della tesi della coappartenenza originaria di essere e comprensione d’essere in senso prettamente monista, consente infine di operare ciò che la concezione heideggeriana della fenomenologia essenzialmente impediva, ovvero la “verifica” circa la (presunta) originarietà della trascendenza. Ciò che fondamentalmente rende possibile la verifica della trascendenza è l’enucleazione del concetto (monista) di parousia, per mezzo del quale la tesi dell’indipendenza fra “comprensione ontologica” e “comprensione esistenziale” è interpretata in maniera tale per cui, nella prospettiva del monismo, «il carattere originario dell’essenza della manifestazione […] significa la manifestazione in e per sé dell’orizzonte puro nel quale l’essenza si objettiva per realizzare la sua opera»14. La parousia, così intesa, enuclea l’originarietà della trascendenza identificando nella schiusura estatica non solo il modo di costituzione della 12 Cfr. supra, Sez. II, Cap. II, § 20. Cfr. supra, Sez. II, Cap. II, § 21. 14 EM, p. 207 (trad. it. cit., p. 203). Corsivo nostro. 13 332 Roberto Formisano manifestatività, bensì anche della sua realizzazione, vale a dire il senso della sua ricezione: sì che, nella pura prospettiva del monismo ontologico, l’essere non soltanto deve potersi esteriorizzare alla maniera d’una schiusura estatico-orizzontale, ma, conformemente al modo della sua schiusura, esso deve poter altresì “sapersi” in quanto tale, cioè riceversi 15 in quanto orizzonte, indipendentemente da ogni forma di rapportamento ontico. In questo senso, allora, è nella chiarificazione dell’interpretazione monista della parousia che, in ultima istanza, va riconosciuto il momento culminante della “preparazione” henryenne alla distruzione della tesi fenomenologica fondamentale del monismo ontologico, giacché il concetto monista di parousia non soltanto permette ma anzi impone – esattamente al contrario rispetto a quel che accade all’interno della prospettiva heideggeriana – di pensare la ricettività originaria indipendentemente dalla ricettività ontica. Come emerso dalle analisi della sezione seconda, è esattamente secondo questo tracciato che Henry sviluppa la sua critica alla concezione heideggeriana della ricettività, esposta nel Kantbuch del 1929. La “verifica” della trascendenza ha luogo sotto forma d’una critica all’interpretazione heideggeriana della filosofia trascendentale di Kant appunto perché, sviluppata sulla base delle tesi emerse attraverso la lettura della Religionslehre di Fichte, Henry separa ciò che in Heidegger è assunto come costitutivamente unito nell’accadere del Dasein, ovvero il legame di reciproca con-implicazione fra rapportamento ontologico (schiusura estatico-orizzontale) e rapportamento ontico, comprensione ontologica e comprensione esistentiva 16. Quale sia l’esito di tale “verifica” della tesi fenomenologica fondamentale del monismo ontologico è già stato mostrato. Per Henry non è possibile pensare in maniera coerente la parousia del fenomeno originario alla luce della trascendenza, né è possibile pensare la “vita” nei termini indicati dall’interpretazione fichtiana della “coscienza religiosa”. A questo punto, un’altra interpretazione, non più monista, dei concetti fondamentali del cristianesimo è necessario che sia sviluppata. Il ricorso ad una nuova “fonte teoretica” diviene indispensabile; ed è esattamente in questo momento che in L’essence de la manifestation fa il 15 Sulla connessione fra sapere/sapersi e ricezione, cfr. supra, Introd., § 2. Su questa medesima base è peraltro affrontato da Henry il suo confronto con l’interpretazione heideggeriana in chiave temporale del concetto di auto-affezione, cfr. supra, Sez. II, Cap. III, § 22-23. 16 Conclusione 333 suo ingresso l’interpretazione henryenne dei sermoni di Meister Eckhart. “Lasciandosi guidare” dalle tesi di Eckhart (ovvero, interpretandole alla luce dei risultati ottenuti dalla critica del monismo ontologico), Henry giunge, in primo luogo attraverso l’enucleazione dei concetti di “immanenza” e “invisibilità”, alla delucidazione finale del suo concetto di parousia, ora inteso come affermazione dell’assoluta indipendenza dell’apparire originario rispetto al potere fenomenologico dell’estaticità. L’elemento tematico a partire dal quale Henry giunge alla formulazione di questa tesi è la determinazione, quale caratteristica essenziale dell’immanenza, dell’identità del modo e della realtà della rivelazione originaria. Posto infatti che la fenomenicità originaria debba poter, nell’atto stesso del suo mostrarsi, anche riceversi in quanto tale – posto, cioè, che atto originario d’apparire e ricezione originaria non possano essere distinti – dalla dimostrazione fenomenologica del carattere derivativus della trascendenza Henry ricava la tesi secondo cui: nell’identità essenziale dell’atto d’apparire e della sua ricezione non può esservi estaticità. Il senso stesso di questa “identità” originaria va concepito e chiarito nella sua essenza in quanto non trascendente, ovvero in quanto privo di estaticità. Orbene, conformemente a quest’indicazione preliminare circa l’“assenza di estaticità” all’interno della realtà dell’apparire originario, il concetto di parousia è dunque enucleato ed utilizzato da Henry al fine di esprimere in definitiva la tesi secondo cui: per potersi ricevere in quanto tale, il fenomeno originario della vita deve poter costituire la propria rivelazione senza per questo dover implicare alcuna “differenziazione” fra l’atto ed il contenuto della ricezione, senza cioè dover implicare alcuna distinzione o “distanziazione” 17 fra l’“istanza ricevente” e l’“istanza ricevuta”. L’apparire originario deve potersi realizzare in se stesso, senza “uscir fuori” di sé. Sapersi senza aver bisogno di differenziarsi – e quindi di objettivarsi – né alla maniera del mero oggetto (del conoscere), né tanto meno alla maniera d’una schiusura estatica d’orizzonte. Come espresso dal concetto di immanenza, questa “impossibilità di differenziazione”, vale a dire questa “assenza di estaticità” nella struttura fenomenologica dell’apparire originario, consiste nel fatto che 17 Nel senso della “distanza fenomenologica”, cfr. supra, Sez. II, Cap. I, § 14. 334 Roberto Formisano il modo d’apparire di quest’ultimo e la realtà in cui siffatto phainesthai trova compimento non possono essere distinti, ma si identificano essenzialmente l’un l’altro: tra il modo e realtà dell’apparire originario non si dà distinzione in quanto ciò che è ricevuto nella ricettività originaria, irriducibile allo status di mero “oggetto”, non costituisce soltanto il semplice “contenuto” dell’apparire, ma l’apparire stesso nella sua totalità, ovvero nell’insieme sia della sua realtà sia della sua fenomenicità 18. Nella ricettività originaria è la totalità dell’apparire originario ad esser resa trasparente a se medesima; in ciò, d’altronde, risiede propriamente la “positività” del suo apparire in quanto “invisibile” 19. Si comprende peraltro così in che senso – nella prospettiva aperta da Michel Henry – la ricettività originaria costituisca un apparire “assoluto”: nell’immanenza, infatti, nell’identità del modo di costituzione e della ricezione della totalità della dimensione fenomenologica originaria è esclusa la possibilità stessa che “al di là” di esso, “oltre” l’ambito di verità dischiuso e costituito dalla vita, possa sussistere una dimensione fenomenologica “altra”, “ulteriore” alla vita stessa in quanto altrettanto originaria. Poiché nulla si dà “oltre” l’autorivelazione immanente della vita, l’apparire originario è essenzialmente unico. Esso, inoltre, come l’esplicitazione della sua “non estaticità” ha mostrato 20, in quanto non necessita d’“altro” per potersi ricevere in quanto tale, si determina per questo anche come essenzialmente “autonomo”, in quanto fondato unicamente su se stesso, vale a dire sulla propria realtà, la quale, a sua volta, non solo si identifica con la sua stessa fenomenicità (il “modo” [Wie] del suo apparire) ma “raccoglie” entro di sé la dimensione originaria dell’apparire considerato in quanto tale, nella sua totalità. Considerato alla luce della “non estaticità”, l’insieme di unicità e autonomia consente infine di precisare ulteriormente il costitutivo carattere di assolutezza dell’apparire originario così inteso. Appunto perché realizzantesi nel senso della ricezione della totalità dell’apparire, la rivelazione immanente della vita altro non configura che una totale e “pie18 Cfr. EM, II, p. 858: «Nella perfetta […] aderenza a sé della sua identità, nel suo coincidere con sé, […] l’essere si rivela a se stesso così com’esso è, nella totalità della sua realtà». 19 Sul concetto di invisibilità, cfr. supra, Sez. III, Cap. II, § 30. 20 Cfr. supra, Sez. III, Cap. I, § 25.A. Conclusione 335 na” trasparenza a sé da parte della totalità stessa dell’apparire originario. Questo, in fondo, il senso celato nelle parole di Michel Henry, il quale, nella conclusione a L’essence de la manifestation, dichiara esplicitamente: Totalità, realtà – queste sono le determinazioni ontologiche strutturali comprese dalla problematica, in quanto determinazioni della rivelazione che ha nell’immanenza la sua struttura interna […]. L’assoluto originariamente rivelantesi, l’assoluto la cui rivelazione originaria rende possibile tutto ciò che si rivela e tutto quanto è, necessariamente si rivela nella totalità della sua assolutezza 21. In quanto la rivelazione dell’assoluto (cioè, secondo Henry, la vita) consiste essenzialmente in non altro che la totale autotrasparenza della totalità dell’apparire originario stesso, «la rivelazione dell’essere assoluto – scrive ancora Henry – non è separata da quest’ultimo, non è nulla di esteriore, […] non è un’immagine dell’essere ma permane in esso, nella sua realtà, ed è identica a questa - è l’essere stesso»22. In tal modo, non soltanto (contrariamente a quanto sostenuto dal monismo) la “necessità”, ma anche la possibilità stessa che il sapersi in cui la vita realizza il proprio phainesthai con-implichi una qualche sua esteriorizzazione, la schiusura estatica d’orizzonte, è per principio esclusa. Posto infatti che l’autotrasparenza che la ricettività originaria porta a compimento riguardi la totalità dell’apparire originario e che siffatta trasparenza costituisca essa stessa la realtà dell’apparire originario medesimo, ne viene che il sapersi in cui quest’ultimo realizza effettivamente il proprio mostrarsi si determina essenzialmente come sapersi immediato, trasparenza che non si produce gradualmente ma che, appunto nella sua totalità, è già sempre ricevuta come tale. Concepito alla luce della “non estaticità”, il sapersi originario si determina come costitutivamente impossibilitato a ricorrere ad alcuna forma di mediazione per il fatto che una “mediazione” implicherebbe il ricorso ad un elemento “terzo”, distinto tanto dall’atto d’apparire quanto dalla sua realtà: un elemento, la cui possibilità di costituzione proprio l’esplicitazione dei caratteri di unicità e assolutezza della rivelazione immanente della vita ha per prin21 22 EM, II, EM, II, pp. 858-859. p. 859. In corsivo nel testo. 336 Roberto Formisano cipio escluso. Una “mediazione” sarebbe infatti possibile solo nella misura in cui all’apparire originario sia dato di potersi ricevere non nella sua totalità, ma parzialmente, esattamente nel senso indicato dalla fenomenicità della trascendenza, in quanto ricezione d’orizzonte. In questo senso, l’ipotesi d’una “mediazione” implicherebbe, come suo presupposto, la possibilità di una differenziazione, una estatica mise-à-distance interna alla struttura fenomenologica della vita – possibilità che tuttavia proprio la critica della trascendenza ha mostrato essere inammissibile per ciò che concerne la fenomenicità originaria. In L’essence de la manifestation, il senso di siffatta immediatezza propria del sapersi della vita è da Henry altresì espresso in termini di non-libertà, ossia di radicale passività. Se, con Heidegger, per Freiheit, libertà, si intende il potere fenomenologico del Weltentwurf, il progetto estatico di un mondo, l’apparire originario si determina allora come non-libero, come essenzialmente passivo in senso assoluto, e cioè non passivo nei confronti di qualcosa d’“altro”, non in ragione di un “limite”, ma passivo unicamente nei confronti di se stesso, ossia della totalità del suo phainesthai. L’apparire originario si costituisce come essenzialmente passivo in ragione della sua unicità e della sua assolutezza, ovvero per il fatto che esso non può non riceversi nella sua totalità, e quindi per l’impossibilità di sottrarsi alla totale autotrasparenza costitutiva del suo stesso mostrarsi. Immediato, indipendente da qualsiasi forma di objettivazione e per questo essenzialmente passivo, il sapersi originario è determinato da Henry come puramente affettivo. Il darsi ed il riceversi in totalità, da parte della vita, assumono infatti il senso di una pura auto-affezione. Come già nel caso della trascendenza, anche la nozione di auto-affezione, ripresa dall’interpretazione heideggeriana alla filosofia trascendentale di Kant, è assunta e sviluppata da Henry in un senso completamente diverso rispetto a quello indicato da Heidegger. In Kant und das Problem der Metaphysik, Heidegger utilizza il termine “auto-affezione” ad indicare la mediazione fondamentale del senso interno, ovvero l’“opera unificatrice” del tempo il quale, se per un verso è determinato come ciò che struttura la schiusura estatica dell’orizzonte costituente le condizioni di possibilità per l’apparire ontico, per un altro verso è altresì determinato come ciò che ricevendo, appunto, il “prodotto” di tale schiusura ne realizza l’apparire; sennonché, tale “opera unificatrice” del tempo è però pensata alla luce di quella differenziazione interna, caratteristica Conclusione 337 della trascendenza, tale per cui “ciò che è ricevuto” (i.e. l’orizzonte) è dato in quanto differente rispetto al potere che la riceve (i.e. la temporalità originaria). Infatti, come scrive Henry: «È chiaro che questa affezione del tempo da parte dell’orizzonte ek-statico ch’esso pro-getta e che esso riceve è un’affezione dell’ambito originario dell’alterità; […] il contenuto di questa affezione è costituito solo dall’esteriorità trascendentale»23. Viceversa, in Henry, il concetto di auto-affezione è pensato nel senso della parousia liberata dalla critica della trascendenza. Essa, cioè, fornisce una caratterizzazione in positivo della “non estaticità” della vita, in quanto, come lo stesso Henry esplicitamente dichiara: La vita non consiste in un’auto-posizione, un’auto-objettivazione; essa non pone-innanzi se stessa al fine di essere così affètta da sé, in un vedersi, un appercepirsi alla maniera d’una manifestazione di sé simile alla manifestazione d’objectum. Perché proprio questo la vita non è, e non può essere. La vita è affètta da sé, è “per-sé” senza pro-porsi a sé nell’objettivazione dell’estasi. Essa sente se stessa, senza che questo avvenga attraverso la mediazione di un senso (né del senso interno, né di qualunque altro senso in generale) 24. Impossibilitata ad allontanarsi da sé e “costretta” a riceversi nella sua totalità, la vita sente se stessa, sa se stessa in questo puro sentire ed in quanto puro sentimento di sé: «Nella sua originaria e insormontabile passività rispetto a sé nella perfetta aderenza a sé della sua identità, nella sua coincidenza con sé […], dunque nella sua affettività, l’assoluto […] si rivela a se medesimo così com’esso è, nella totalità della sua realtà»25. In questo senso, l’auto-affezione definisce nel suo contenuto fenomenologico effettivo il modo in cui si realizza la trasparenza a sé della totalità dell’apparire originario, costitutiva dei suoi intrinseci caratteri di unicità e assolutezza. Invisibile, in quanto totalmente trasparente a sé, senza scarto alcuno fra donazione e ricezione, la vita sa se stessa e realizza il proprio phainesthai in quanto puro sentimento di sé. Scrive infatti Henry: 23 M. HENRY, Phénoménologie de la vie, t. I, cit., p. 49. Ivi, pp. 49-50. 25 EM, II, p. 858. 24 338 Roberto Formisano Nell’assoluta unità della sua immanenza radicale l’essere è affètto da sé e prova se stesso in maniera tale che non vi è nulla in esso che non sia affètto da sé e sentito da esso […]. Il sentimento si dà a sentire a se stesso in ogni punto del suo essere. In ciò esso è propriamente un sentimento, in ciò consiste la sua trasparenza. […] Poiché la rivelazione dell’assoluto consiste nell’affettività ed è da questa costituita, […] è la realtà dell’assoluto stesso ciò che si rivela e si realizza in essa 26. E altrove: L’affettività è l’essenza dell’auto-affezione, la sua possibilità non teorica o speculativa ma concreta, l’immanenza stessa còlta non più nell’idealità della sua struttura ma nella sua effettuazione fenomenologica indubitabile e certa. Essa è il modo in cui l’essenza si riceve, sente se stessa, in maniera tale che siffatto “sentirsi” in quanto se sentir soi-même […] si scopre in essa, nell’affettività, come effettivo se sentir soi-même, ossia come sentimento. Questo costituisce l’essenza del sentimento: sentirsi [se sentir soi-même], in maniera tale per cui il sentimento non è qualcosa che sente se stesso, questo o quel sentimento, a volte questo o a volte un altro, ma esattamente il fatto di sentirsi considerato in se stesso nell’effettività della sua effettuazione fenomenologica, vale a dire nella sua realtà. In quanto tale, come siffatto “se sentir soi-même” fenomenologicamente effettivo, costitutivo dell’essenza e come sua condizione di possibilità, il sentimento non differisce da quest’ultima: l’affettività è l’essenza originaria della rivelazione 27. La vita si dà come puro pathos, come trasparenza “vibrante” della sua pienezza – trasparenza “vibrante” di sé. In quanto ad esser rivelata in e per mezzo dell’auto-affezione altro non è che la totalità dell’apparire originario; in quanto, cioè, è la totalità dell’apparire originario ad esser reso totalmente trasparente a sé, il fenomeno della vita si rivela in tal senso come fenomeno costitutivamente ipséisé. Il modo [Wie] e la realtà in cui esso si rivela come tale sono quelli del se ipsum: non – si badi – nel senso di una singolarità che, per chissà quale privilegio ontologico, domini, princeps inter pares, la totalità dell’essere e dell’apparire; il carattere d’ipseità costitutivo del fenomeno della vita va piuttosto inteso coerentemente ai suoi altrettanto costitutivi caratteri d’unicità, di autonomia e di assolutezza, in maniera tale per cui, ricevuta nell’atto 26 27 EM, II, EM, II, pp. 858-859. pp. 577-578. 339 Conclusione stesso del suo darsi, la totalità dell’apparire originario è rivelata come ipseità non-estatica, ovvero come pura interiorità, interiorità assoluta. * * * L’enucleazione henryenne del concetto non estatico di ipseità e la sua elaborazione del concetto fenomenologico di auto-affezione costituiscono di fatto, nonostante Henry non l’abbia mai formulato esplicitamente in questi termini, una presa di posizione ben precisa in merito alla questione protologica rappresentata dalla tesi della cooriginarietà dell’essere e del sapere. In Michel Henry, la cooriginarietà dell’essere e del sapere riceve il senso della pura auto-affezione, di quell’apparire, cioè, il cui phainesthai si dà come verità piena e totale, che come tale rifiuta ogni forma di nascondimento o di oblio, appunto perché, stretta nell’abbraccio patico del suo sentirsi puramente affettivo e immanente, essa non può allontanarsi da sé, differenziarsi e in questo senso sottrarsi dalla sua costitutiva e totale autotrasparenza. Nell’introduzione, alla luce dell’autocontraddittorietà propria della maniera “naturale” d’intendere l’autonomia dell’essere, in quanto “assolutamente irrelato” e “separato” dal sapere, questa tesi era stata indicata come la generalissima “condizione di senso” sotto cui il pensiero filosofico è orientativamente condotto a riconoscere la possibilità della posizione della domanda ontologica fondamentale. Tale possibilità è difatti negata dal pensiero naturale per il fatto che la “separazione” dell’essere dal sapere implica la negazione della possibilità stessa della pensabilità dell’essere. Se, tuttavia, proprio alla luce dell’autocontraddittorietà in nuce presente nel pensiero naturale, fornisce “in negativo” una prima spiegazione circa l’imprescindibilità della tesi della cooriginarietà dell’essere e del sapere, questa tesi, così come non può esser negata, non può neppure esser semplicemente assunta, quasi fosse un principio autoevidente che, alla stregua d’un assioma matematico non necessiti di alcuna legittimazione ulteriore. Al contrario, proprio l’imprescindibilità di questa tesi è quanto il pensiero esplicitamente orientato verso la questione della fondazione filosofica ha il compito di chiarire, mostrando le ragioni della legittimità della sua assunzione. Ciò che tale pensiero ha il compito di chiarire “in positivo” è che cosa questa tesi significhi, quale sia il suo significato ontologico ultimo. In questo senso, la tesi della cooriginarietà dell’essere e 340 Roberto Formisano del sapere era stata presentata come titolo d’un problema – tanto più decisivo, se si considera il fatto che proprio in riferimento ad esso si decide in ultima istanza della possibilità stessa e del senso di una ricerca filosofica “prima”. Il “percorso teoretico-argomentativo” da Michel Henry svolto in L’essence de la manifestation rappresenta in questo senso una “via” attraverso cui ripensare il senso della tesi ontologica secondo cui l’essere sa se stesso in sé. Con la sua fenomenologia dell’affettività, Michel Henry ha a suo modo esplicitato “in positivo” il significato ontologico di quest’ultima, riformulandola nella tesi secondo cui l’essere (in quanto apparire originario) realizza il proprio mostrarsi in quanto “vita”. Che la fenomenicità originaria si costituisca essenzialmente in quanto vita e che la vita, nel senso dell’auto-affezione, definisca identicamente sia il modo d’apparire dell’essere sia la sua realtà (cioè la sua ricezione, il suo sapersi in quanto tale) vuol dire che, in quanto fenomeno, l’essere realizza in se stesso il proprio apparire, in quanto donazione e ricezione, senza riserva alcuna, della totalità della sua costituzione d’essere; l’essere realizza la propria verità in quanto già sempre in se stesso, per l’autotrasparenza costitutiva della totalità della sua realtà, il suo “per sé”. Questa concezione della vita e del fenomeno dell’essere sollecita una riflessione circa il carattere di inseità proprio dell’apparire originario. Non è infatti, certo, alla maniera del pensiero naturale che il senso d’ipseità inerente all’apparire originario è da Henry indicato e ri(con)dotto alla pura interiorità, giacché questo concetto d’interiorità, definito dall’auto-affezione, sta ad indicare tutt’altro che una mera realtà sostanziale “in se stessa conchiusa”. Nell’inseità dell’autotrasparenza non estatica dell’apparire originario non v’è e non può esservi “chiusura”, per il fatto che questa presupporrebbe quantomeno l’istituirsi d’una opposizione fra un “dentro” e un “fuori” nonché, soprattutto, l’assunzione di una omogeneità di senso fra l’uno e l’altro, come se il “dentro” (l’immanenza) ed il “fuori” costituissero due fenomenicità entrambe originarie. Al contrario, esattamente ciò è quanto la delimitazione del carattere derivativus della trascendenza ha esplicitamente negato. Fra immanenza e trascendenza non si dà opposizione ma soltanto una relazione (di fondazione) di tipo gerarchico, per cui: nell’apparire realizzantesi in principio non è possibile che si dia alcuna “eccedenza di senso”; in essa, alcuna differenza, alcuna apertura estatica o schiusura d’orizzonte, alcuna Conclusione 341 finitezza ha originariamente luogo. E tuttavia: che l’apparire originario debba potersi costituire in assenza di estaticità non significa affatto che esso debba potersi mostrare in assenza di qualsivoglia forma di rapporto. L’“assenza di estaticità” non riceve affatto il senso dell’“assenza di rapporto” cara al pensiero naturale 28. Certo, l’“assenza di estaticità” sta a significare che l’apparire originario deve poter realizzare il proprio apparire indipendentemente sia da qualsivoglia forma di ricezione d’objectum (o ricezione ontica) sia da qualsivoglia forma di ricezione d’orizzonte (o ricezione ontologica); ma ciò non esclude affatto, ed anzi invita a considerare in maniera ben più radicale, che il fenomeno originario debba poter ricevere se stesso, nel senso della totalità del suo stesso apparire, senza che questo implichi il dispiegamento d’una qualche “differenza” all’interno della sua stessa struttura fenomenologica. Il fenomeno originario deve anzi poter ricevere se stesso senza esser “costretto” a farsi “altro” da sé. Qui, il “rapporto”, lato sensu, fra l’essere ed il sapere non è affatto escluso, ma concepito al di là di ogni possibile differenziazione interna fra l’atto d’apparire, il modo d’apparire e infine la realtà in cui tale apparire giunge a compimento. Come già affermato in precedenza, l’interiorità costitutiva di quest’ultimo non trae da alcuna “opposizione” o “differenziazione interna” il senso che le è proprio; il carattere di “non estaticità”, che ne definisce l’assolutezza, non le viene da una “negazione” della trascendenza, bensì dalla sua costitutiva passività, vale a dire dall’impossibilità di potersi sottrarre, neanche per un solo istante, dalla totale trasparenza a sé determinante il suo carattere fenomenologico essenziale. Si potrebbe allora esplicitare ulteriormente l’esito della “critica della trascendenza”, da Michel Henry sviluppata in L’essence de la manifestation, riformulandolo nella seguente tesi: per costituirsi in quanto “fenomeno”, senza per questo contraddire i suoi costitutivi caratteri di “unicità” e “assolutezza”, l’apparire originario non necessita dell’istituzione di alcuna apertura estatica, di alcuna “differenziazione” interna alla sua struttura. Presa in questo senso, la critica di Michel Henry al concetto monista di trascendenza costituisce una distruzione fenomenologica dei motivi teoretici fondamentali per i quali, agli occhi del monismo, il costituirsi dell’apparire originario implichi necessariamente e richie28 Cfr. supra, Introd., § 1.B. 342 Roberto Formisano da, al pari di qualunque altra modalità del mostrarsi, il ricorso alla schiusura estatica d’orizzonte. Che tuttavia l’essere, a titolo di “fenomeno originario”, sia “in se stesso il suo per sé”, secondo la formula da noi precedentemente utilizzata ad indicare la posizione teoretica di Michel Henry, è quanto in effetti (a suo modo) anche il monismo ontologico esplicitamente sostiene 29. L’apparire originario dell’essere, infatti, è sì inteso nel senso d’una “pura esteriorizzazione”, e tuttavia non come un semplice “uscir fuori”, da parte dell’essere, dal chiuso della sua interiorità (il che presupporrebbe la pre-esistenza di un’esteriorità antecedente, in senso trascendentale, l’apparire stesso dell’essere), bensì come originaria costituzione d’esteriorità. In questo senso, che l’essere “sia in se stesso il suo per sé” vuol dire semplicemente che per rapportarsi a sé esso non necessita d’“altro”, ossia di una qualche realtà la cui origine risieda “fuori”, al di là dell’essere stesso e del suo apparire. Anche nella prospettiva del monismo ontologico, l’“originarietà” dell’essere consiste proprio in questo, ossia nel fatto che l’essere è in grado di costituire da sé il “per sé” in rapporto al quale sapersi in quanto tale 30. In ciò risiede l’assolutezza della manifestatività dell’essere, ovvero la sua unicità e la sua autonomia, giacché per costituirsi in quanto tale l’essere non ricorre ad un ulteriore principio a lui estraneo, ma appunto solo alla sua propria fenomenicità, a quell’unico e medesimo modo d’apparire sul fondo del quale 29 È opportuno precisare che, in questo contesto e nelle considerazioni che seguiranno, la nozione di “per sé” è richiamata secondo il senso proprio da Henry indicato come caratteristico del monismo, nel § 19 di L’essence de la manifestation. Qui, la nozione di “per sé” è enucleata conformemente al significato della parousia emersa attraverso la lettura dell’Anweisung zum seligen Leben di Fichte, vale a dire conformemente alla determinazione dell’indipendenza della comprensione ontologica rispetto alla comprensione esistentiva. Considerata conformemente a questo significato e a questa distinzione, la nozione di “per sé”, ontologicamente intesa, si riferisce alla struttura dell’esistenza, indipendentemente dal modo in cui fattivamente quest’ultima può comprendere la sua stessa essenza, vale a dire all’esistenza «così come essa è in se stessa e non com’essa comprende se medesima» (EM, p. 186, trad. it. cit., p. 187). Corsivi di Michel Henry. 30 Interpretato alla luce dei presupposti ontologici fondamentali del monismo, infatti, «il carattere originario dell’essenza della manifestazione […] significa la manifestazione in e per sé dell’orizzonte puro nel quale l’essenza ob-jettiva se stessa per realizzare la sua opera. L’essenza [originaria] realizza la sua opera per se stessa; in ciò consiste la sua Selbständigkeit» (EM, p. 207, trad. it. cit., pp. 203-204). Corsivi nel testo. Conclusione 343 anche gli altri tipi d’apparire, come ad esempio, la manifestazione ontica, trovano fondamento. Come l’ente, anche l’apparire dell’essere richiede l’apertura di un mondo; solo che, per quel che concerne propriamente l’essere in quanto tale, la condizione della schiusura estatica non gli proviene e non gli è imposta “dall’esterno”, ma consiste nella sua stessa struttura fenomenologica. In questo senso, l’essere costituisce “in se stesso”, vale a dire nella sua struttura e coerentemente al senso di quest’ultima, il “fuori” alla luce del quale realizzare il proprio apparire. In un certo senso, si potrebbe dire addirittura che il “fuori”, così concepito, è questo “in sé”. Come è possibile vedere, nella prospettiva del monismo ontologico l’“inseità” dell’apparire originario è essenzialmente riferita all’impossibilità di costituzione di una dimensione “altra” e altrettanto originaria, “al di là” dell’essere stesso. Che nella totalità della sua realtà l’essere determini la dimensione unica e originaria dell’apparire in quanto tale, non significa tuttavia che “in sé”, internamente cioè alla sua struttura fenomenologica, sia qualcosa di “monolitico”. Per mostrarsi in quanto tale, l’essere deve potersi objettivare, porsi-innanzi alla maniera della schiusura estatica d’orizzonte. L’essere deve potersi esteriorizzare; ma, conformemente ai principî del monismo, per potersi mostrare nel modo dell’esteriorizzazione, è altresì necessario che l’esteriorizzazione stessa dell’essere sia ricevuta in quanto tale. La maniera in cui il monismo risolve tale questione è riconducendo il senso ontologico della ricettività alla ricezione d’orizzonte, vale a dire al fenomeno della “comprensione d’essere” determinante il carattere propriamente ontologico dell’esistenza. In ordine al concetto monista di parousia, considerata indipendentemente da ogni suo risvolto esistentivo ma semplicemente nella sua struttura, a titolo di schiusura dell’orizzonte finito dell’essere, l’esistenza è in questo senso intesa come costitutivamente con-implicata nello strutturarsi dell’apparire originario. La tesi della con-implicazione, ovvero della coappartenenza della struttura dell’esistenza alla struttura fenomenologica dell’essere indica in che modo il monismo ontologico risolva la questione della fondazione del finito nella verità dell’essere. Questa enucleazione della trascendenza consente in effetti di spiegare perché, nella prospettiva del monismo ontologico, l’ipotesi di una assoluta immanenza dell’apparire originario è a priori esclusa. Conformemente ai principî fondamentali del monismo ontologico, infatti, se si ammettesse la tesi suggerita da 344 Roberto Formisano Henry secondo cui la realizzazione dell’apparire originario deve potersi compiere indipendentemente da qualsivoglia forma di objettivazione o esteriorizzazione, in che modo l’esistenza potrebbe trovar fondamento nella verità dell’essere? L’“assenza di estaticità” non significa infatti l’esclusione di ogni possibile finitezza all’interno dell’apparire originario? E questo non vuol dire eo ipso, a sua volta, l’esclusione dell’esistenza stessa dal sapersi costitutivo dell’essere? L’“assenza di estaticità” non implica forse una “separazione” fra l’essere e l’esistenza, ovvero fra l’essere ed il pensare (finito)? E ciò non costituisce forse, in una maniera certo più elaborata, una chute nella tesi già naturale della “separazione” dell’essere e del sapere? In realtà, come appunto la critica della trascendenza mostra, le difficoltà che il monismo ontologico solleva a difesa della “necessità” circa l’assunzione dell’estaticità quale determinazione essenziale della struttura interna della fenomenicità originaria (vale a dire, anche, quale determinazione del senso della cooriginarietà dell’essere e del sapere) sussistono solo fintantoché l’essenza stessa della finitezza dell’esistenza è ricondotta unicamente alla trascendenza. Tali difficoltà, in altri termini, sussistono solo nella misura in cui la struttura fenomenologica dell’esistenza medesima e del pensiero finito sono ri(con)dotti alla sola fenomenicità della schiusura estatico-orizzontale. Sì che solo nella misura in cui l’essenza dell’esistenza è riconosciuta esclusivamente nella trascendenza potrebbe sussistere il pericolo di una “separazione” fra il sapersi costitutivo dell’apparire originario ed il sapersi costitutivo del pensante finito31. Tale pericolo scompare nel momento in cui è chiarito in che 31 Ri(con)durre il senso del sapersi costitutivo del pensante (finito) alla fenomenicità della trascendenza vuol dire ridurre la sua costitutiva ipseità alla struttura propria della Weltlichkeit, nel senso indicato dall’enucleazione concettuale della “distanza fenomenologica” e, più in generale, delle nozioni ontologiche di “rappresentazione” e “comprensione d’essere”. In ciò, in effetti, consiste la radice della contrapposizione frontale della prospettiva fenomenologica henryenne nei confronti del monismo ontologico, giacché il presupposto a partire dal quale il monismo rivendica la “necessità” di concepire la struttura interna dell’apparire originario conformemente al senso della trascendenza si basa essenzialmente su una unilaterale presa di posizione circa il senso d’ipseità costitutivo del fenomeno dell’ego considerato in quanto tale. Stando a quanto emerso dall’interpretazione di L’essence de la manifestation, la “necessità” rivendicata dal monismo si basa essenzialmente sulla pretesa di poter ri(con)durre la struttura della coscienza – di ogni coscienza possibile in generale – al senso proprio della trascendenza, sì che la possibilità per la costituzione fenomeno- Conclusione 345 senso, alla luce delle argomentazioni critiche di Michel Henry, l’immanenza costituisca a tutti gli effetti l’essenza della trascendenza. La tesi secondo cui l’immanenza costituisce l’essenza della trascendenza è formulata da Michel Henry secondo un significato ben preciso, alla luce del quale il carattere propriamente “essenziale” dell’immanenza rispetto alla trascendenza è riconosciuta nel fatto che l’immanenza costituisce nella sua realtà la fenomenicità della trascendenza. L’immanenza, infatti, definisce sì “ciò che rende possibile” l’apparire della trascendenza, e tuttavia non semplicemente alla maniera e nel senso d’una mera “condizione trascendentale”, giacché il modo in cui essa fonda l’apparire della trascendenza è precisamente lo stesso ed unico modo in cui l’apparire originario fonda la sua stessa verità in quanto vita. Se dunque, per un verso, l’immanenza costituisce l’essenza della trascendenza in quanto determinazione del modo in cui la struttura fenomenologica della schiusura estatico-orizzontale è rivelata a se medesima, poiché nella dimensione fenomenologica propria dell’apparire originario “modo” e “realtà” si identificano, per un altro verso ne viene che, nel senso indicato dal fenomeno dell’auto-affezione, l’immanenza individua quella realtà, cioè quell’“autotrasparenza non estatica”, sul fondo logica di qualsivoglia se ipsum è per principio subordinata alla preliminare apertura di un mondo, di un orizzonte di senso. Sennonché, ciò è precisamente quanto l’enucleazione del concetto henryen di auto-affezione contraddice. Più originaria della Selbstheit autocomprendentesi alla luce del mondo, è l’“ipseità non estatica”, la rivelazione a se stessa in sé della vita in quanto puro sentimento di sé. Il concetto di auto-affezione costituisce infatti la caratterizzazione fenomenologico-affettiva della possibilità di costituzione di una “coscienza non estatica” ovvero, come anche Henry la chiama, di una “coscienza senza mondo” (Cfr. supra, Sez. III, Cap. I, § 25), per la quale proprio il carattere di “non estaticità” individua ciò in cui risiede la possibilità ultima del suo darsi. La “critica della trascendenza” non esclude né nega il fatto che la coscienza possa costituirsi (e comprendersi) in grazia del mondo; ciò che essa pone in chiaro è il fatto che il fenomeno del mondo non è costitutivamente in grado di dar conto della possibilità di questa donazione. Esso non può dar conto di questa donazione, per il fatto che il suo stesso mostrarsi trova fondamento su una modalità “altra” d’apparire, indiependente dall’ambito della pura estaticità ed in se stessa già sempre compiuta, per l’appunto consistente nel puro sentimento costitutivo della rivelazione a sé della vita. L’aprirsi a sé della coscienza alla luce del mondo individua un senso d’ipseità che è “secondo” rispetto all’ipseità propria del suo fondamento. Da ciò, peraltro, trasposta sul piano metodologico della riflessione “prima”, deriva l’insufficienza costitutiva di tutte quelle filosofie il cui tentativo essenziale non si riduce in ultima analisi che all’elezione della trascendenza quale methodos alla luce del quale orientare il pensiero circa l’originario. 346 Roberto Formisano della quale soltanto alla trascendenza è infine dato poter dar luogo alla sua costitutiva objettivazione nel modo della schiusura estatica dell’orizzonte finito dell’esistenza. È dunque sul fondo dell’auto-affezione che, resa innanzitutto trasparente a se medesima, cioè affettivamente costituita in quanto ipseità, l’esistenza è dischiusa anche al mondo. Si chiarisce così il senso che il rapporto di fondazione dell’esistenza (e del pensiero finito) nella verità originaria infine assume nella prospettiva fenomenologica di Michel Henry. Il senso di tale rapporto è quello di una fondazione in interioritate, tale per cui il pensante finito, l’esistente, è non soltanto determinato (per quel che concerne il suo carattere di ipseità) come essenzialmente costituito allo stesso modo in cui la verità originaria della vita struttura il suo stesso apparire, ma, poiché nella vita il modo e la realtà del suo apparire non possono essere distinti in quanto entrambi consistenti nel sentimento di sé onniabbracciante la totalità dell’apparire originario, ne viene che l’ipseità costitutiva del pensante finito consta esattamente della medesima realtà, di quell’“Unico” e “Identico” fundus animæ et Dei di eckhartiana memoria, da Henry interpretato nel senso del medesimo sentimento costitutivo del sapersi della vita. Il pensante (finito) partecipa ed appartiene all’“abbraccio patico” della verità originaria della vita come ciò che in essa trova fondamento. Ma che il pensante, in quanto costitutivamente “finito”, appartenga all’originario sentimento di sé (auto-affezione) dell’assoluto, ciò non significa che esso porti in sé una “porzione limitata” di questa realtà originaria. Una simile interpretazione non avrebbe senso, giacché, in quanto vita, auto-affezione, l’assoluto non è suscettibile di differenziazioni o divisioni interne. Stretto nell’“abbraccio” totalizzante del suo s’èprouver-soi-même, l’apparire originario è costitutivamente “non libero”, impossibilitato a farsi “altro” da sé, come una “parte” distinta rispetto al “tutto”. In esso, non v’è possibilità di distinzione fra “parte” e “tutto”, per il fatto che l’unico modo in cui l’assoluto sa e può darsi è quello dell’autotrasparenza della totalità del suo apparire. Ora, che nella sua essenza il pensante partecipi ed appartenga alla verità originaria, ciò significa che è secondo quest’unico modo che esso è fondato nell’assoluto, nel senso che: non una parte, ma tutta la realtà dell’assoluto, in quanto autotrasparenza della totalità dell’apparire originario, interviene a costituire l’essenza e la realtà dell’autotrasparenza (ipseità non estatica) Conclusione 347 sul fondo della quale il pensante finito è innanzitutto rivelato a se stesso e infine anche aperto al mondo. Che tra l’apparire originario della vita e lo strutturarsi della schiusura estatica dell’orizzonte finito dell’esistenza non si dia “separazione” è quanto appunto il concetto henryen di parousia afferma. Scrive infatti Henry: La coscienza vive […] in presenza dell’essere, il quale è questa presenza stessa. La presenza dell’essere nel quale la coscienza vive […] non è una presenza supposta, come una condizione dispiegata dalla riflessione fenomenologica e pensata quale presupposto per ogni relazione possibile […]. La presenza dell’essere che rende possibile questa relazione – cioè la coscienza stessa – è innanzitutto presente in se stessa [a sé]. […] La realtà della relazione è la sua manifestazione. La manifestazione della relazione è il mostrarsi dell’essere […]. Il mostrarsi dell’essere è il mostrarsi dell’assoluto, e il mostrarsi dell’assoluto è l’assolutezza stessa di quest’ultimo. L’assolutezza dell’assoluto è la Parousia […]. L’essere non si mostra alla coscienza qualche volta, in virtù d’una qualche volontà della coscienza che, in quanto tale, sarebbe separata dall’essenza della coscienza stessa. Sin dal momento in cui […] esiste, […] la coscienza vive in presenza dell’essere che si mostra ad essa, nella Parousia dell’assoluto. La coscienza è essa stessa, come tale, […] Parousia dell’assoluto 32. La vita è presente nell’esistenza come ciò che realizza la presenza a sé (autotrasparenza non estatica) costitutiva di ogni ipseità. Essa non è “separata” ma presente nell’esistenza come ciò che costituisce nella sua realtà la rivelazione a sé fondatrice della schiusura estatico-orizzontale. In quanto vita, l’apparire originario è presente nell’esistenza come ciò che, in quanto pura affettività, compone di sé, del suo sentirsi e conformemente al modo della sua ricezione, la realtà dell’autotrasparenza costitutiva dell’ipseità del pensante finito. Partecipe della verità originaria in quanto essenzialmente rivelato a sé e costituito come ipseità allo stesso modo e per la medesima realtà, che è quella propria della vita in quanto tale, da questa tuttavia, nel suo esserci, il pensante finito si distingue in quanto aperto anche al mondo. Dalla tesi della presenza della totalità del sentimento costitutivo della vita nel pensante, come ciò che ne costituisce originariamente l’ipseità, non consegue l’identità del pensante con la vita in quanto tale. Una 32 Cfr. EM, pp. 167-168 (trad. it. cit., p. 171). Corsivo nostro. 348 Roberto Formisano differenza – è evidente – si produce fra il carattere “originario” della vita ed il carattere “finito” dell’esistenza. Solo che, per Henry, contrariamente a quanto sostenuto dal monismo, tale differenza non può essere direttamente ricondotta in seno al phainesthai proprio della vita, come prodotto della sua esteriorizzazione e della sua objettivazione nella schiusura estatica d’orizzonte. Ciò, infatti, è quanto il carattere di “passività”, costitutivo dell’apparire della vita, esplicitamente nega. La vita non può sottrarsi dalla sua costitutiva auto-affezione, per la quale essa si dà e si riceve nella sua totalità realizzando in tal modo in se stessa la sua verità, in principio. Che la vita non possa mai sottrarsi dalla stretta della sua totale trasparenza a sé vuol dire che anche nel momento in cui fonda la trascendenza, la vita non si modifica, ma opera incessantemente in conformità a quell’unica e sempre medesima maniera in cui essa realizza il suo stesso apparire, ovvero l’auto-affezione. Impossibilitata ad allontanarsi dalla stretta di questo “abbraccio patico” alla totalità del suo apparire, è tuttavia sempre operando nel medesimo e unico modo dell’auto-affezione che, realizzando il proprio apparire, la vita fonda altresì l’apparire della trascendenza, donando così anche all’esistenza finita la possibilità d’essere, cioè di mostrarsi come tale. Non solo: come, nel fondare, la vita non opera né può subire alcuna modificazione, così la realizzazione stessa della schiusura estatico-orizzontale, in quanto apertura al mondo, non aggiunge nulla alla realtà “in sé” (non estaticamente, in interioritate) già compiuta della verità originaria. Finitezza, pertanto, si dà allorché, sulla base del compimento già sempre in atto dell’auto-affezione della vita, la trascendenza, strutturando la schiusura estatica, realizza il proprio apparire alla maniera della ricezione d’orizzonte. In tal senso, la differenza non si produce in seno all’originario quanto piuttosto, precisamente, in seno all’esistenza e soltanto in riferimento alla costitutizione d’essere di quest’ultima, vale a dire per il carattere derivativus della trascendenza e della schiusura che esso realizza, per la sua costitutiva impossibilità di ricevere nella sua totalità il dono (in sé già sempre saputo, cioè ricevuto e compiuto ab origine) della parousia della vita – parousia che, a sua volta, non per questo si “separa” disperdendosi “oltre” la realtà dell’esistenza, ma permane, nella totalità della sua realtà, presente in esso come fondo della sua ipseità e della trasparenza a sé del pensante, indipendentemente dal fatto che quest’ultimo arrivi o meno a comprendere il senso di questa sua costitutiva appartenenza alla verità originaria. Conclusione 349 Considerati nel loro insieme, questi rilievi consentono finalmente di portare l’attenzione su aspetti inerenti alla problematica generale relativa alla determinazione della possibilità e del senso di una “fondazione filosofica”, alla luce della prospettiva fenomenologica dischiusa da Michel Henry. Secondo questa prospettiva, la fondazione di una fenomenologia “prima” non è in definitiva possibile se non unicamente in ragione del rapporto (immanente) di fondazione che, in interioritate, innanzitutto ed essenzialmente, l’assoluto (cioè la vita) intrattiene con ogni singolo pensante. Ancor prima che un’operazione specifica del pensiero, per “fondazione” è pertanto intesa in questa prospettiva non altro che quell’operare che in se stessa, nel suo sapersi, la vita compie nei confronti di sé così come nei confronti del finito: vale a dire non altro che l’unica e indivisibile opera dell’auto-affezione in cui risiede l’assolutezza stessa dell’apparire originario. Sì che, presa in questo senso, la fondazione che la filosofia può operare fenomenologicamente, sul piano della riflessione, altro non configura che una “ripetizione” di questo movimento intrinseco all’autorivelazione patica costitutiva del fenomeno originario. Una ripetizione, peraltro, che, come tale, in quanto essa stessa radicata sull’autofondazione propria della vita, in sé già sempre compiuta, non opera alcunché in seno all’apparire originario, né aggiunge nulla alla verità di quest’ultimo. Scrive infatti Henry: Lungi dal poter essere una semplice conseguenza del lavoro metodologico di chiarificazione proprio della fenomenologia, il mostrarsi dell’essere ne è al contrario la condizione, allo stesso modo in cui esso è la condizione della manifestazione di qualsiasi ente possibile in generale. Il mostrarsi dell’essere non si realizza dunque “alla fine” dell’opera compiuta dalla fenomenologia, ma nel “già sempre” della sua condizione primigenia che, come tale, è […] l’assoluto. L’essere si mostra già sempre prima di qualsivoglia chiarificazione. Già sempre: non solo come presupposto del lavoro di chiarificazione, ma come condizione assolutamente universale per ogni attività della coscienza […] in generale 33. Il senso della “fondazione filosofica”, in quanto “fenomenologia prima”, è sì quello di operare una “chiarificazione” circa la fenomenicità originaria, ma in quanto chiarificazione di una verità in se stessa già totalmente trasparente a sé. Tale “chiarificazione” non sta ad indicare una 33 EM, pp. 165-166 (trad. it. cit., pp. 169-170). 350 Roberto Formisano operazione che la riflessione filosofica compie nei confronti del suo oggetto d’indagine, come se da una preliminare condizione di “oscurità” essa lo portasse infine “in chiaro”, giacché, in quanto in sé già sempre compiuta, l’autorivelazione patica della vita non richiede alcuna “chiarificazione” in tal senso, in quanto già sempre chiara a sé. Compito della riflessione non è modificare né aggiungere nulla al suo oggetto, ma elevarsi all’intelligenza dell’essenza di quest’ultimo, conformemente al modo della sua rivelazione. L’opera chiarificatrice che la riflessione deve poter compiere, dunque, è essenzialmente rivolta non al suo oggetto d’indagine in sé, quanto piuttosto al modo in cui tale oggetto può esser infine dato alla riflessione medesima; come lo stesso Henry dichiara, il senso della élucidation fenomenologica, così concepita, è di mostrare la possibilità di «un modo di far filosofia che non rechi pregiudizio all’essenza»34. “Seconda” rispetto alla vita 35 , la fenomenologia, secondo Henry, può autointerpretarsi come riflessione circa una verità in sé già sempre compiuta, in quanto proprio siffatto compimento “in sé” del fenomeno originario individua ciò in cui risiede, in ultima istanza, la possibilità stessa del sapere filosofico, ovvero la realtà della trasparenza a sé del pensante che opera la riflessione. Possibilità e senso della “fenomenologia prima” sono infatti ricondotte da Henry alla nozione-chiave di auto-affezione. Si scopre in effetti così il valore anche metodologico di questa nozione, la quale sta ad indicare non soltanto il modo di costituzione e la realtà della verità originaria e dell’ipseità del pensante finito bensì anche il criterio alla luce del quale impostare, conformemente alla struttura fenomenologica della vita, la riflessione filosofica circa la fenomenicità originaria. La determinazione della centralità che la nozione di auto-affezione ricopre all’interno dell’enucleazione henryenne della sua “idea” della fenomenologia “prima”, consente finalmente di esplicitare, riassumendola nei suoi punti essenziali, la risposta che questa in effetti ha fornito alla domanda posta all’inizio delle presenti ricerche: se sia possibile pensare more phaenomenologico la tesi secondo cui “l’essere sa se stesso in sé”, in maniera alternativa rispetto a prospettive di tipo 34 35 EM, p. 56 (trad. it. cit., p. 76). Cfr. ibid. Conclusione 351 gnoseologistico, come ad esempio le filosofie dell’Idealismo tedesco. A tal riguardo, la nozione di auto-affezione consente di mostrare, come d’altronde già visto, non soltanto in che modo questo sia possibile ma anche dove in ultima istanza risieda la motivazione teoretica fondamentale per un siffatto pensiero. Con la sua fenomenologia dell’affettività, Michel Henry ha di fatto indicato una efficace “via” per mezzo della quale pensare la questione dell’origine dell’essere e del suo costitutivo sapersi, liberandolo appunto dai limiti dello gnoseologismo, in L’essence de la manifestation enucleati nel concetto del “monismo ontologico”. Indicata nel senso dell’auto-affezione, questa “via” consente di pensare l’inseitas dell’essere, vale a dire la sua realizzazione fenomenologica effettiva, come indipendente da qualsivoglia forma di objettivazione, ossia come “interiorità” in un senso radicale e assoluto, appunto in quanto pura affettività; in secondo luogo, caratterizzando l’unicità e l’assolutezza dell’apparire originario nel senso dell’ipseità non estatica, essa consente di pensare l’appartenenza del pensante nell’essere nel senso di una fondazione in interioritate, come presenza [parousia] della totalità dell’autorivelazione immanente della vita nel pensante in quanto realtà dell’ipseità costitutiva di quest’ultimo; ed infine, proprio in ragione di siffatta presenza [parousia], la nozione di auto-affezione individua altresì la “via d’accesso” (il methodos: la motivazione teoretica fondamentale) per pensare – patire con radicalità, e non semplicemente conoscere, come è proprio di ogni gnoseologismo - l’apparire originario conformemente al senso non estatico della sua stessa assolutezza. 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INDICE Prefazione di Maurizio Malaguti ..................................................................................... 7 Tavola delle abbreviazioni ............................................................................................. 11 INTRODUZIONE 1. Definizione dell’orizzonte teoretico-problematico di fondo ................................... 15 a) La questione della “fondazione filosofica” e l’“idea” della filosofia prima................ 15 b) Della coappartenenza strutturale di essere e pensiero ............................................... 19 c) Essere e affettività. La prospettiva fenomenologica di Michel Henry ........................ 27 2. Presentazione del filo conduttore e degli obiettivi della ricerca ............................. 29 a) “Fenomenologia” e “vita” in Michel Henry ................................................................ 29 b) Trascendenza e ricettività ............................................................................................ 34 3. Piano della ricerca .................................................................................................... 39 SEZIONE PRIMA FENOMENOLOGIA E FILOSOFIA PRIMA. MICHEL HENRY INTERPRETE CRITICO DI HUSSERL E HEIDEGGER I. L’“idea” della fenomenologia in Husserl e la “svolta soggettivo-trascendentale” 4. Husserl e l’“inizio cartesiano” ................................................................................. 45 5. Concetti husserliani: “intuizione eidetica” ed “epoché” ......................................... 52 6. Significato e necessità di una “fenomenologia della ragione” ................................ 57 II. La critica all’intuizionismo 7. Il primato metodologico dell’ego cogito ................................................................. 61 8. Le contraddittorietà dell’idea husserliana della fenomenologia secondo Michel Henry ........................................................................................................... 63 9. La “distruzione” della via cartesiana alla filosofia prima........................................ 68 III. Trascendenza ed essere 10. Heidegger contra Husserl. La tesi fondamentale dell’ontologia fenomenologica heideggeriana ................................................................................ 75 11. Il concetto di “fenomenologia” in Heidegger.......................................................... 80 12. La trascendenza del Dasein ..................................................................................... 87 13. Perplessità di Michel Henry..................................................................................... 93 SEZIONE SECONDA DELLA TRASCENDENZA, OVVERO SULL’ORIGINE DELL’ESSERE I. Il “monismo ontologico” e la filosofia prima 14. La distanza fenomenologica ..................................................................................105 15. Oltre la contrapposizione. La lezione dell’Idealismo tedesco ..............................114 16. Il monismo ontologico ...........................................................................................123 a) Significato teoretico ................................................................................................... 124 b) Sulla valenza “storica” della nozione ........................................................................ 125 17. La differenza ontologica nella prospettiva del monismo ......................................127 II. Al di là del circolo 18. Passaggio ................................................................................................................139 19. Religione e filosofia. La “Anweisung” di J.G. Fichte............................................141 20. L’alienazione dell’essere e la parousia dell’assoluto ...........................................153 III. Critica della trascendenza e “distruzione” del monismo ontologico 21. Ricettività e finitezza. L’orizzonte teoretico del confronto di Michel Henry con Heidegger ........................................................................................................171 a) La questione della ricettività...................................................................................... 172 b) Ricezione ontica e ricettività ontologica ................................................................... 175 c) Aporie dell’interpretazione heideggeriana del tempo, secondo Michel Henry ........ 179 22. Revisione e critica dell’interpretazione heideggeriana del tempo ........................184 23. Dell’originarietà della trascendenza. La “distruzione” del monismo ontologico ...............................................................................................................195 SEZIONE TERZA I FONDAMENTI DELLA PROPOSTA FILOSOFICA DI MICHEL HENRY I. Dell’immanenza 24. La non-estaticità ed il ritorno alla questione dell’ipseità ......................................213 a) L’assenza di ek-stasis .......................................................................................215 b) L’ipseità, fra trascendenza e non-estaticità.........................................................219 25. 26. 27. 28. Oblio e rivelazione. La fenomenicità originaria come immanenza ......................223 Non-libertà e passività dell’apparire originario.....................................................232 Passaggio ................................................................................................................236 Il significato metodologico della povertà. Michel Henry interprete di Meister Eckhart ......................................................................................................241 II. Invisibilità e affettività 29. La “positività” dell’invisibile. Implicazioni metodologiche .................................255 30. La concezione filosofico-religiosa dell’invisibile .................................................268 31. Affettività e non-estaticità......................................................................................277 a) Premesse critiche per una “fenomenologia dell’affettività”..................................280 b) La falsificazione ontologica dell’affettività .........................................................286 c) Affettività e immanenza .....................................................................................294 32. Dell’originarietà del sentimento ............................................................................301 33. Le determinazioni affettive dell’assoluto ..............................................................312 Conclusione...................................................................................................................323 Bibliografia ...................................................................................................................353