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Fogazzaro e il cinema

GIULIANA MUSCIO FOGAZZARO E IL CINEMA PICCOLO MONDO ANTICO DI MARIO SOLDATI (1941) TRA CALLIGRAFISMO E INTERPRETAZIONE La complessità narrativa dei romanzi di Antonio Fogazzaro non lascerebbe supporre la discreta quantità di adattamenti cinematografici di cui la sua opera è stata fatta oggetto1; qui ci soffermeremo però solo su quello probabilmente più famoso e riuscito, Piccolo mondo antico di Mario Soldati (1941), interpretato da Alida Valli e Massimo Serato. La letteratura critica su questo film è profondamente influenzata dal dibattito suscitato alla sua uscita dalla rivista (antifascista e preneorealista) «Cinema», che prima lo lodò per il suo uso del paesaggio, poi lo attaccò per la sua letterarietà e inclinazione ‘calligrafica’. La definizione di ‘calligrafico’, all’epoca dispregiativa, emerge in quegli anni, in una fase assai vivace della storia del cinema italiano, compresa tra il 1939 e il 1944, in cui il dibattito estetico-ideologico intorno al verismo è sintomo precoce dell’antifascismo (non solo cinematografico) a venire, ma condanna il cinema esteticamente ricercato, spesso di matrice letteraria, praticato da Mario Soldati, Alberto Lattuada e Renato Castellani, definendo questi autori per l’appunto ‘calligrafici’, dediti cioè alla bella forma, alla bella scrittura2. Nel 1941 la rivista «Cinema» sostiene a più riprese la necessità per il cinema italiano di ispirarsi a Verga e al realismo, considerando negativa in sé la scelta di adattare per lo schermo un autore deca1 Malombra è stato proposto per la regia di Carmine Gallone nel 1918; di Mario Soldati nel 1942 e di Bruno Gaburro nel 1984; Soldati ha diretto inoltre nel 1941 Piccolo mondo antico e nel 1947 Daniele Cortis. Si vedano in argomento A. BERNARDINI, Fogazzaro e il cinema, in Album Fogazzaro, a cura di A. Chemello, F. Finotti, A. Scarpari, Vicenza, Accademia Olimpica, 2011, pp. 89-98 e L. MORBIATO, Fogazzaro al cinema, in Vicenza e il cinema, a cura di A. Faccioli, Venezia, Regione del Veneto-Marsilio, 2008, pp.152-158. Non affrontiamo qui la questione teorica dell’adattamento, caratterizzata da una bibliografia sterminata e interdisciplinare, che ridotta a pochi cenni si trasformerebbe in un buonsenso critico-semiotico, che potrebbe suonare banale. 2 Sul ‘calligrafismo’ si veda A.COSTA, Soldati, Fogazzaro e il “calligrafismo”, in La bella forma. Poggioli, i calligrafici e dintorni, a cura di A. Martini, Venezia, Marsilio, 1992, pp.95-104. 174 GIULIANA MUSCIO dente come Fogazzaro. In realtà Soldati non aveva ‘scelto’ Fogazzaro; anzi prima di entrare nel progetto del film, non aveva neppure letto Piccolo mondo antico; lo lesse in una notte, quando il giovane produttore Carlo Ponti lo arruolò per dirigere la pellicola3. L’adattamento cinematografico del romanzo non nasce quindi da un progetto personale di rilettura dello stesso, da un approccio interpretativo a Fogazzaro, ma da un’opportunità professionale, che il regista coglie però con intelligenza. Il che aiuta a spiegare l’equilibrio sorprendente nel film tra la lettura fedele del testo e un’appropriazione stilistico/tematica piuttosto personale. L’adattamento filmico di Soldati può apparire infatti, come una tradizionale ‘illustrazione’ da sussidiario del celebre romanzo (approccio cui ci hanno abituati gli sceneggiati televisivi) ma regia, fotografia, interpretazione attoriale, montaggio, ovvero il complesso stilistico della messa in scena, lavorano in modo più articolato, proponendo un’interpretazione del romanzo, radicata nel peculiare momento storico in cui viene adattato (a conflitto iniziato, ma prima della guerra civile) dalla sofisticata cultura visiva e artistica del giovane regista. (In effetti la qualità visiva davvero speciale di questo film non manca di impressionare positivamente gli stessi giovani ribelli della rivista cinematografica, come vedremo.) La polemica di «Cinema» viene ripresa qui perché è alla base del giudizio critico sul film che persiste tuttora e perché evidenzia le alterne fortune del decadentismo nella cultura italiana e gli argomenti della storica battaglia contenuto/forma, verismo/formalismo, impegno sociale/individualismo ‘calligrafico’ che caratterizza il dibattitto intellettuale nazionale, non solo sul piano cinematografico e certamente non solo in quegli anni. Nel saggio Per un paesaggio italiano, apparso su «Cinema» del 25 aprile 1941, Giuseppe De Santis (futuro regista, tra gli altri, di Riso amaro, 1949) loda l’interessante uso che Soldati aveva fatto degli esterni, girati sul posto, in Piccolo mondo antico: A ridarci la speranza giunge, ora, per ultimo, questo PICCOLO MONDO ANTICO (sic) di Mario Soldati, che a tali considerazioni ci ha indotti. Per la prima volta nel nostro cinema abbiamo visto un paesaggio, non più rarefatto, pacchiano-pittoresco, ma 3 A. BERNARDINI, Fogazzaro e il cinema, in Album Fogazzaro, cit., p. 95. FOGAZZARO E IL CINEMA 175 finalmente rispondente alla umanità dei personaggi sia come elemento emotivo che come indicatore dei loro sentimenti4. Dietro a queste considerazioni si percepisce un’idea di cinema come progetto complessivo di messa in scena, in cui tutte le funzioni sono a servizio del racconto, ma anche di istanze realiste (e di impegno sociale); e non a caso, visto che questi critici diventano di lì a poco i registi del neorealismo5. Il commento inoltre muove un’aperta critica al cinema del regime, girato in studio, perciò inautentico, lontano dalla gente e dalla realtà. Nel fondamentale manifesto estetico-politico Verità e poesia. Verga e il cinema italiano, apparso nel numero del 10 ottobre 1941 di «Cinema», Mario Alicata e lo stesso De Santis, dichiarata la propria posizione («noi che crediamo nell’arte specialmente in quanto creatrice di verità»), pur definendo Soldati «autore di alcuni tra i più fantasiosi, liberi e forti racconti italiani d’oggi», lo accusano di aver abbandonato «le sue osterie, i suoi porti, i suoi interni oppressi e senza luce e i suoi paesaggi coloriti e puri, per i risotti coi tartufi di Antonio Fogazzaro»6. Nel saggio Alicata e De Santis stigmatizzano: Infatti, anche nella scelta di una tradizione letteraria il cinema italiano rivela curiose predilezioni: Antonio Fogazzaro e Girolamo Rovetta, Lucio D’Ambra e Flavia Steno, Nino Oxilia e Luciana Peverelli… Questa scelta sembra quasi confermare tacitamente la sciocca leggenda che la letteratura italiana manchi per divino decreto di una tradizione narrativa. La polemica di «Cinema» costituisce quindi un attacco a tutto campo alla cultura cinematografica e letteraria italiana e identifica nella dipendenza letteraria una delle tare ataviche del nostro cinema, soprattutto in considerazione dello scarso spessore degli autori talvolta impegnati nella scrittura filmica o adattati per lo scher4 G. DE SANTIS, Per un paesaggio italiano, in «Cinema», n.116, 25 aprile 1941, pp. 262-263. I saggi di «Cinema» qui citati sono stati ristampati nell’antologia a cura di Orio Caldiron, «Cinema» 1936-1943. Prima del neorealismo, Roma, Fondazione Scuola Nazionale di Cinema, 2002. 5 Si veda in merito G. MUSCIO, Le ceneri di Balzac. Sceneggiatura e sceneggiatori nel neorealismo, in Sulla carta. Storia e storie della sceneggiatura in Italia, a cura di M. Comand, Torino, Lindau, 2006, pp.109-142. 6 M. ALICATA, G. DE SANTIS, Verità e poesia. Verga e il cinema italiano, in «Cinema» n.127, 10 ottobre 1941, pp. 216-217. 176 GIULIANA MUSCIO mo; utilizza inoltre questa dipendenza per spiegare la lontananza del cinema dalla realtà sociale italiana. Se la critica si può condividere in parte, ammettendo che il cinema italiano fino ad allora aveva abusato di fonti letterarie, non si possono mettere sullo stesso piano Fogazzaro e il ‘crepuscolare’ Oxilia (e se è per questo, un ‘verista’ come Rovetta), se non per un pregiudizio generico contro la letteratura del decadentismo. Da un lato quindi «Cinema» riconosce a Piccolo mondo antico il merito di essere uscito nelle valli e nei luoghi del romanzo, dall’altro lo accusa di aver scelto una letteratura a suo giudizio ‘minore’, invece che quella che avrebbe potuto «ispirare la fantasia di un cinema il quale cerchi cose e fatti in un tempo e in uno spazio di realtà, per riscattarsi dai facili suggerimenti di un mortificato gusto borghese». I due autori insistono (se pure in modo piuttosto contorto): A chi va a caccia di falsità, di retorica, di medaglie di pessimo conio, dietro agli esempi di altre produzioni cinematografiche cui la perfezione tecnica non salva dalla miseria umana e dalla povertà di ragioni alle quali esse fanno appello, i racconti di Giovanni Verga ci sembrano indicare le uniche esigenze storicamente valide: quelle di un’arte rivoluzionaria ispirata ad una umanità che soffre e spera. Certo Piccolo mondo antico non aveva l’ambizione di essere ‘arte rivoluzionaria’, ma non si sarebbe potuto neppure accusarlo di falsità e retorica; anzi, a un occhio meno schierato, il taglio di Soldati nell’adattamento, soprattutto nel finale, avrebbe potuto apparire davvero come un’apertura a «un’umanità che soffre e spera». La pellicola era ancora troppo appesantita però da quelle ‘piccole cose di pessimo gusto’ che infastidivano i giovani intellettuali di «Cinema», distraendoli dalle possibili eccezioni nella loro lettura ipercritica (e partigiana) del cinema calligrafico, che la loro familiarità col cinema sovietico coevo impediva di vedere nella sua innovatività stilistica. La rivisitazione analitica del film Piccolo mondo antico ci permette quindi di affrontare due questioni affatto marginali nella storia del cinema italiano: quella del paesaggio e quella della sua dipendenza letteraria. ‘Rivediamo’ perciò alcune sequenze del film, dove paesaggio e costruzione narrativa riprendono Fogazzaro sia per ‘illustrarlo’ sia per proporre varianti significative. Rispetto alla vexata questio della riduzione letteraria, oltre all’ovvia sottolineatura che Soldati è scrittore a FOGAZZARO E IL CINEMA 177 sua volta, e che ritiene la regia esecuzione di una partitura7, quindi non ha un approccio autoriale forte, è opinione concorde che questo sia un adattamento “fedele” di Fogazzaro, con la volontà di rappresentare lo spirito del libro, piuttosto che il suo meccanismo narrativo. Oltre a sottolineare l’attenzione tematica per un’Italia minore, provinciale e quotidiana, che i due scrittori condividono, osserverei che anche stilisticamente i due autori, privi di una forte firma autoriale e con interessi socio-politici non prioritari o insistiti, si assomigliano. Al di là della congenialità stilistico-tematica tra i due, Soldati ha dato un’interpretazione non banale dell’opera dello scrittore vicentino: Il vento del nord soffia da cima a fondo in tutti i libri di Fogazzaro; e tutti suoi personaggi sono tormentati, divisi, in se stessi o l’uno contro l’altro, tra le forze opposte del bene e del male, della fede e del peccato, della speranza e dello scetticismo. Ecco perché secondo noi Fogazzaro, che è minor ‘artista’ come scrittore puro, di altri autori italiani dell’800-900, è invece uno dei più vivi, dei più moderni, e cioè dei più cinematografici8. A partire da questa dichiarazione programmatica, è interessante perciò analizzare come egli abbia poi specificamente operato nella riduzione filmica di Piccolo mondo antico, riconoscendo in partenza che Soldati non solo intuisce il potenziale ‘cinematografico’ di questo autore ma ne è uno dei migliori interpreti ed adattatori, sia nel caso di questo film che del ben più tormentato Malombra (1942). Egli infatti non si limita a ‘illustrare’ il romanzo, ma lo rilegge; con rispetto ma in autonomia. L’adattamento Nell’adattare il libro, Soldati e i suoi sceneggiatori (ovvero Emilio Cecchi, Mario Bonfantini e Alberto Lattuada, con la colla7 G. RONDOLINO, Soldati: cineasta e letterato, in Mario Soldati La scrittura e lo sguardo, a cura di G. Barberi Squarotti, P. Bertetto, M. Guglielminetti, Torino, Museo nazionale del cinemaLindau, 1991, p. 126. 8 A. COSTA, Soldati, Puig e il volto «pieno di mistero» di Isa Miranda, in Mario Soldati La scrittura e lo sguardo, cit., p.165. 178 GIULIANA MUSCIO borazione del futuro critico di origini vicentine, Filippo Sacchi) procedono a un necessario snellimento del racconto e all’ovvio sfoltimento dei personaggi, lavorando comunque in modo non scontato sul casting, con la scelta della baffuta e disturbante Ada Dondini per il ruolo della (ex seduttrice) marchesa, di una Alida Valli sensibile e moderna, più sobria e decisa nella sue reazioni della Luisa fogazzariana, e di un romantico Massimo Serato, in linea col personaggio contemplativo del libro. Nel caso della figlia della coppia notiamo che nel film essa viene chiamata in prevalenza Ombretta, piuttosto che Maria, a favorire la sua associazione scherzosa con lo zio Piero e ad allontanarla forse, dal cattolicesimo implicito nel suo nome. Alcuni dialoghi vengono ripresi nel film quasi alla lettera, per quanto talvolta ricontestualizzati e sintetizzati. La struttura narrativa è in buona sostanza rispettata, per quel che concerne le scenechiave, che il pubblico dei lettori/spettatori vuole ritrovare: dal pranzo di Sant’Orsola alla filastrocca dedicata a Maria/Ombretta, dalla sua tragica morte alla partenza dei volontari, ma non mancano in esse varianti significative, che analizzeremo. Vengono attenuati però (o meglio, solo accennati) gli episodi che sviluppano gli elementi gotici, caratteristici di Fogazzaro, come lo spiritismo, e i dubbi in materia religiosa di Luisa. In merito a questa scelta si può pensare a un’(auto)censura dei realizzatori, consapevoli dell’imbarazzo del regime fascista rispetto a questi temi, mentre essi accentuano la chiave politico/nazionalista e ‘di classe’ del testo letterario, ovvero il contrasto tra borghesia moderna e aristocrazia passatista. L’aspetto gotico del romanzo di Fogazzaro riemerge piuttosto nel film nella messa in scena dell’incubo della marchesa, realizzato da Soldati attraverso giochi di sovraimpressione e associazioni di immagini, in linea con la tradizione del surrealismo francese, in una sequenza onirica vicina comunque alle pagine dello scrittore vicentino. Come si devia l’elemento gotico sulla marchesa, così si alleggerisce Luisa anche del conflitto religione/scetticismo, che serpeggia con le sue contraddizioni nel film, senza però che ella pronunci alcune delle battute più polemiche, contenute nel romanzo. Forse la differenza maggiore tra romanzo e film sta proprio nel personaggio di Luisa, del quale Soldati coglie le interessanti complessità e contraddizioni presenti nel testo letterario, ma di cui sceglie di evidenziare gli aspetti più FOGAZZARO E IL CINEMA 179 attivi e moderni, proponendola sì come una madre dilaniata dai sensi di colpa, che si punisce nella propria affettività, col suo lavoro a maglia e le ossessive passeggiate al cimitero, ma senza insistere sulle sedute spiritiche e sugli aspetti gotico/decadenti. Al contrario di quel che Soldati aveva scritto sul ‘vento del Nord’ e sulle polarità tematiche del libro, ovvero sui contrasti «tra le forze opposte del bene e del male, della fede e del peccato, della speranza e dello scetticismo», questi elementi conflittuali non vengono in realtà sfruttati nel film per creare una contrapposizione drammatica, ma piuttosto servono quali sfumature nella costruzione dei personaggi. Mentre dal punto di vista stilistico e dei linguaggi specifici la sequenza della morte di Ombretta propone una variante implicita ma assai efficace delle pagine fogazzariane attraverso l’uso del montaggio alternato, dal punto di vista strutturale la variante più significativa riguarda il finale, come vedremo: è qui che Soldati marca il territorio cinematografico in modo forse inatteso. A queste due sequenze perciò, si dedicherà un’attenzione maggiore, dopo aver analizzato in termini più generali la messa in scena del romanzo. Paesaggi interni Premettiamo che Piccolo mondo antico vanta una qualità notevole a livello fotografico, visivo e iconografico, il che ci consente di sottolineare l’ottimo lavoro del direttore della fotografia, Carlo Montuori, e di spezzare una lancia a favore della necessità di una rivalutazione storico/critica complessiva della qualità fotografica che caratterizza il cinema italiano nell’interezza della sua storia, ma che di rado viene riconosciuta come valore in sé. De Santis loda infatti Soldati, oltre che per il «senso del paesaggio», per «la cura delle inquadrature» e «l’ambientazione perfetta»9. Il film evidenzia una grande attenzione formale e un sofisticato gusto pittorico, tipici dei calligrafici, nel taglio delle inquadrature, spesso composte secondo una sensibilità pittorica (o tal- 9 Si veda L. MICCICHÈ, L’ideologia e la forma. Il gruppo «Cinema» e il formalismo italiano, in La bella forma, cit., pp. 1-27: 16. 180 GIULIANA MUSCIO volta teatrale), con tendenza alla simmetria, tranne che nelle scene drammaticamente più forti. Tradizioni pittoriche lombarde e risorgimentali permeano l’accurata ricostruzione degli ambienti e i bellissimi costumi. Un aspetto spesso sottolineato dalla critica è proprio l’ampio utilizzo nel film di un denso repertorio di citazioni pittoriche; si riconoscono riferimenti a Hayez, Lega, De Nittis, Michetti, Cremona e Mancini, evidenti nei costumi oltre che in specifiche soluzioni visive e compositive10. Pur nel prevalere della verosimiglianza storica negli interni e dell’approccio naturalistico al paesaggio, nel film si coglie una grande capacità di costruire livelli simbolici nell’iconografia. Vi è quasi un’esplorazione fenomenologica di certi oggetti, come nel caso del lago, delle barche, delle finestre e delle scale. A questi elementi dedicheremo quindi una particolare attenzione nell’analisi, senza distinguere, come si usa convenzionalmente, tra l’uso di essi in esterni o interni. Attraverso le finestre, infatti, il lago e il paesaggio montano interagiscono con le emozioni dei personaggi; anche le scale sono presenti sia negli interni che nella discesa al lago o nel sentiero che attraversa il paese. Punto di partenza dell’analisi rimane in ogni modo il paesaggio, soprattutto per la peculiarità delle riprese: il film è stato girato nel Nord, lontano da Cinecittà e dai suoi studi, e open air, in esterni autentici, cioè nei luoghi del paesaggio fogazzariano, tra i laghi lombardi. Ricordiamo che, all’epoca, uscire dagli studi e utilizzare esterni reali era una pratica assai rara, non solo nel cinema italiano ma anche a Hollywood. Come già riportato, De Santis apprezza il film proprio per l’uso del paesaggio, «non più rarefatto, pacchiano-pittoresco, ma finalmente rispondente all’umanità dei personaggi». Egli si sofferma a esemplificare questa relazione positiva tra personaggi e paesaggio: Penso alla partenza di Franco per Milano, all’alba, Luisa che l’ha accompagnato resta sulla riva mentre egli la vede scomparire, col paesaggio che ondeggia come il movimento della barca che lo trasporta sul lago. Così le sequenze più importanti nel film ci sono 10 Si vedano R. CAMPARI, Cinema e pittura negli anni del “formalismo” in La bella forma, cit., pp. 153-163, e A. MARTINI, Una questione di spazio e di artificio, ivi, pp. 29- 41. FOGAZZARO E IL CINEMA 181 apparse, ancora, quelle in cui tutti gli elementi da noi sopra citati erano presenti; il ballo in campagna, nel primo tempo, la morte di Ombretta, l’incontro di Luisa, con la marchesa, sotto la pioggia, la corsa per le scale del villaggio delle tre donne che vengono a darle la notizia della disgrazia nel secondo tempo. Il temporale sul lago, che fa da sfondo alla morte di Ombretta, alla corsa di Luisa verso la portantina della marchesa e alla tragica notizia portata dalle tre donne merita però un’analisi a parte e successiva, per saggiare l’interpretazione di De Santis e analizzare il rapporto tra romanzo e film in questa scena madre. Il motivo iconografico dominante in Piccolo mondo antico è, per ovvie ragioni, il lago. Inizialmente esso è uno spazio che sembra circondare e isolare la villa della marchesa, ma in seguito, percorso com’è da barche di ogni tipo (quelle dei prominenti che vanno alla festa di Sant’Orsola, quella più agile di Luisa, quella tradizionale della marchesa e il moderno battello a vapore dei volontari), il lago si fa spazio della comunicazione, del viaggio, del cambiamento, di partenze e ritorni. Sereno sfondo alle attività di giardinaggio di Franco, luogo del ricordo affettivo come di tempeste e di percorsi decisivi, e infine tomba di Ombretta: il lago non è mai uno sfondo cartolinesco o, come scriveva De Santis, «pacchiano-pittoresco». Nella prima sequenza, con la sovrimpressione della data «1850», si vede l’approdo lacustre alla villa della marchesa: un’immagine chiusa e ristretta del lago, come la mentalità di casa Maironi. Dalle barche che portano i ciarlieri ospiti della marchesa, dopo averli messi a tavola per il famoso risotto di tartufi, si passa, alla fine della stessa sequenza, a Franco, che corre verso la riva di un lago tempestoso, per accogliere la barca su cui rema vigorosamente Luisa. «Non ti aspettavo più con questo tempo» le dice, ma la giovane donna non ha di queste preoccupazioni metereologiche e affronta invece la questione dei preparativi per il matrimonio segreto (o meglio, nascosto alla marchesa, nonna di Franco), che non riesce ad accettare. L’introduzione dei due protagonisti, oltre a presentarli attivi, di corsa o ai remi, e sullo sfondo di un paesaggio drammatico (e non mollemente seduti nella villa della marchesa), propone Franco in attesa sulla riva e Luisa in movimento sul lago, l’uomo accomodante e la ragazza desiderosa di chiarezza, evidenziando così il ribaltamento di ruoli attivo/passivo e delle aspettative di genere che il film riprende dal romanzo, potenziandone il con- 182 GIULIANA MUSCIO trasto. (È interessante notare come nel finale, che analizzeremo in seguito, questa prospettiva si rovesci: è Franco che si muove sul battello a vapore dei volontari, mentre Luisa lo guarda dalla riva, in attesa – in un senso duplice.) Un’altra immagine significativa del lago coinvolge Ombretta e lo zio Piero, che le dedica la filastrocca «Ombretta sdegnosa del Missipipì, non far la ritrosa e baciami qui», mentre il papà si dedica al giardinaggio, attività ‘improduttiva’ che lo caratterizza anche nel libro. In questo caso il lago crea uno sfondo rilassante e solare alla vita dei giovani sposi e dei loro affezionati amici. La morte di Ombretta Come è ovvio la sequenza in cui il lago si fa autentico personaggio (attivo, o meglio, distruttivo) è quella della morte di Ombretta, che merita un’analisi più ravvicinata perché dimostra, a mio avviso, come Soldati, attraverso le sue scelte di messa in scena e montaggio, vada oltre l’uso espressivo del paesaggio. Il regista utilizza al meglio scenografia, movimenti di macchina e angolazioni di ripresa, con il saliscendi fisico ed emotivo associato alle scale, le finestre che esprimono il rapporto esterni/interni, tra la casa e il lago, il lago stesso in tempesta, la barca della marchesa, ma anche la barchetta che Ombretta vuol far navigare. Trattandosi di un montaggio alternato, nella descrizione faremo largo uso del concetto di ‘mentre’, assente nel libro, che non pratica questa tecnica narrativa, che permette di seguire due azioni contemporanee, che però avvengono in spazi diversi, e che è una tecnica specifica del linguaggio del cinema. La sequenza si apre con un piano ravvicinato di Luisa che scruta il lago col binocolo, per verificare la posizione della barca della marchesa e allontana la figlia con una certa impazienza, mentre un vento, melodrammaticamente foriero di tempesta, come sottolinea la musica, scuote la tenda. Una finestra sbatte, mentre Luisa, ai piedi delle scale, chiede allo zio se Ombretta è con lui e, rassicurata in merito, si allontana, brandendo un ombrello. La donna sale a fatica i gradoni del sentiero che portano nella parte alta del paese, mentre Ombretta chiede allo zio il permesso di allontanarsi con la sua barchetta e la sua bambola. Mentre Luisa risale faticosamente il sentiero a gradoni, con FOGAZZARO E IL CINEMA 183 un’inquadratura dall’alto molto angolata che enfatizza la sua fatica, ma anche la sua impotenza rabbiosa verso la “nonna cattiva”, analoga inquadratura angolata dall’alto mostra la figlia che scende cautamente le scale, con la ringhiera minacciosa a dominare lo spazio in primo piano, escludendola e quasi schiacciandola con la sua rigidità, a evidenziare la sua pericolosa solitudine e fragilità. La portafinestra sbatte. Luisa continua a salire mentre Ombretta scende la scala che porta al lago, di nuovo vista dall’alto. Luisa è ostacolata nella sua salita da vento e pioggia; quando arriva in cima – significativamente, alla chiesa – vede sul lago la barca della marchesa che sta approdando, mentre Ombretta cerca di riprendere la barchetta che il lago sta trascinando al largo. Con un’angolazione dal basso, quando il sentiero a gradoni comincia a scendere, vediamo Luisa che guarda verso la portantina della vecchia bisbetica, ed è ancora inquadrata dal basso (quindi in posizione spazialmente dominante) quando rivolge alla marchesa il discorso da tempo preparato. In quel preciso istante tre donne, che stanno scendendo di corsa il sentiero, annunciano la disgrazia e Luisa, con un grido disperato, risale, cercando di avere notizie, mentre in basso la marchesa guarda la scena costernata. Sul lago dondola la barchetta rovesciata di Ombretta. La grande efficacia della sequenza non è legata in modo specifico alla rappresentazione del paesaggio, che non viene inquadrato in sé, neppure per evidenziare la tempesta che si sta scatenando. Lo sfondo del lago è battuto dal vento, ma è un contadino con la gerla a mettere in guardia Luisa in corsa verso la portantina sulla pericolosità dell’evento atmosferico, piuttosto che un dettaglio visivo, come un convenzionale campo lungo delle onde – inquadratura scontata che il regista evita accuratamente in tutta la sequenza. Egli mostra piuttosto gli effetti del temporale e l’incalzare rovinoso degli eventi, costruendo il ritmo visivo del racconto attraverso il saliscendi delle scale e i tempi delle inquadrature nel montaggio, con un andamento musicale collegato al crescendo della tempesta, che giunge all’apice col grido di Luisa e poi va a spegnersi nell’immagine della barchetta rovesciata – una sensibilità musicale che Fogazzaro avrebbe senza dubbio apprezzato. In questa sequenza Soldati gioca sul montaggio alternato, che potenzia, secondo uno schema classico ‘alla Griffith’, la tensione della scena, e utilizza sia le angolazioni di ripresa che gli elementi 184 GIULIANA MUSCIO scenografici (finestre, scale, barche) per suggerire assonanze e contrasti visivi che creano inoltre una relazione più complessa, di analoga impotenza ma anche intraprendenza, tra madre e figlia. Il dinamismo drammatico e contrastato del movimento delle scale, il potere distruttivo del lago, l’attenzione verso una barca che trasporta il personaggio negativo e la distrazione verso la barchetta giocattolo, che produce la morte di Ombretta: una costruzione melodrammatica (in senso tecnico, non dispregiativo) dell’azione che mette in corto circuito natura, convenzioni sociali e fatalità, attraverso un uso articolato del linguaggio filmico, evitando però l’esplicita rappresentazione della tempesta. A ben guardare del resto, non sono molte nell’intero film le inquadrature in campo lungo del lago; piuttosto si tratta di sfondi dell’azione o di soggettive dei personaggi, che magari guardano il lago da una finestra. Proprio le finestre giocano un ruolo chiave nella messa in scena: esse incorniciano i personaggi, chiudendoli in uno spazio compositivo pittorico, che talvolta sembra imprigionarli, e che però comunica con l’esterno – col lago e le sue infinite possibilità. Per esempio una finestra aperta a metà incornicia Luisa, mentre la metà chiusa racchiude Franco, quando la coppia discute del testamento del nonno, che la marchesa ha distrutto – una questione che li separa rispetto allo spazio sociale al di fuori della loro casa. La sequenza della morte di Ombretta inizia con la soggettiva del lago attraverso la finestra ed è marcata, nella sua drammaticità, dalla porta-finestra che sbatte. Nel finale, a Isolabella, è davanti alla finestra della locanda che Franco ricorda il primo incontro con Luisa, e una finestra vista dal di fuori ci rivela in seguito la coppia in una ritrovata armonia. Spazio che si apre e si chiude, cornice che rivela il mondo esterno, che mette in relazione lo spazio privato della casa con quello sociale e storico-geografico del lago e della valle, la finestra diventa anche punto di luce, fonte del bel gioco chiaroscurale che caratterizza il film, ma anche cerniera con gli esterni, che si contrappongono in modo marcato alla rigidità e alla ‘pesantezza’ degli interni. Sia la villa sia la casa più modesta di Franco e Luisa sono decorate da tende e drappeggi, da velluti e tessuti damascati, da un insieme di mobili e suppellettili che trasmettono visivamente il senso dell’ingombro, della pesantezza, della claustrofobica impotenza che imprigiona i personaggi. FOGAZZARO E IL CINEMA 185 Più che per il tanto decantato uso del paesaggio, il film si caratterizza perciò, a mio avviso, per una dialettica significativa tra interni ed esterni, che permette a Soldati di raccontare ed esprimere la claustrofobia dei piccoli mondi antichi, evocando anche, secondo l’approccio ‘ermetico’ dei calligrafici, a livello figurativo e formale, ovvero negli interni opprimenti, piuttosto che a livello narrativo, l’atmosfera soffocante del fascismo11. In fondo la distanza tra gli ideali dei giovani critici di «Cinema», che auspicavano un cinema italiano votato al realismo e all’impegno sociale, rispetto al calligrafismo, è più apparente che sostanziale, laddove questo movimento esprime altrimenti il suo distacco dall’estetica e dai valori del regime: con strumenti formali, con la sua antiretorica, con la scelta della sobrietà rispetto all’emotività eccessiva e spiritata del fascismo. L’uso in Piccolo mondo antico di locations ed esterni reali rappresenta quindi una grande novità, nel cinema asfittico dei telefoni bianchi, perché esprime il bisogno di respirare – di uscire da interni soffocanti e ristretti per ritrovare un paesaggio reale, uno spazio geografico aperto quanto autentico. Il finale Nel finale, è all’esterno, sul lago, che si aprono per Luisa e Franco nuovi orizzonti, e si respira un’aria nuova. La sequenza necessita di una lettura analitica più ravvicinata, anche perché è il momento in cui il film si discosta maggiormente dal romanzo. Luisa sta facendo la maglia (una delle sue attività ossessive, anche nel romanzo) mentre lo zio legge a voce alta la lettera di Franco: «Sono quattro anni che non ci vediamo». Prima di partire per la guerra – e magari perdere la vita12 – egli vorrebbe salutarla, ma anticipa le sue obiezioni: «Possibile che tu creda di far piacere a Ombretta non venendo?». Luisa è molto restia a muoversi, al punto che lo zio Piero, questa volta spazientito, commenta: «Io 11 Sul socialismo e l’antifascismo di Soldati si veda P.F. QUAGLIENI, Un impegno mai ostentato, in Mario Soldati La scrittura e lo sguardo, cit. 12 Il seguito del romanzo, Piccolo mondo moderno, racconta che Franco muore effettivamente in battaglia; il film però non sembra tener conto di questo suo destino infausto. 186 GIULIANA MUSCIO sono vecchio e ho visto tante madri perdere i figli, ma nessuna ha fatto come te…», rimproverandola per l’ossessione che ha sviluppato. Davanti alla sua indecisione, lo zio sbotta che andrà lui a Isolabella a salutare suo marito. Per questo, quando una finta soggettiva del lago mostra Franco che scruta l’isola per capire se la moglie è arrivata, anche lo spettatore non sa cosa aspettarsi – il che fa aumentare la tensione di scoprire come si risolverà la crisi coniugale. (Nel romanzo invece Luisa e zio Piero vanno insieme a Isolabella.) Quando Franco sbarca sull’isola, il padrone della locanda lo rassicura, dicendogli che qualcuno lo aspetta. Luisa avanza infatti dallo sfondo, ma non ha slancio alcuno verso il marito, al punto da oscurarsi in viso quando l’oste chiede se deve preparare una stanza, e Franco risponde: «Naturalmente: siamo marito e moglie». La donna confessa che non voleva partire, per non lasciare Ombretta. «Ma Ombretta è qui con noi!», cerca di persuaderla il marito, senza successo. L’atteggiamento di rifiuto apatico di Luisa comincia a cambiare però durante una conversazione di Franco con un turista inglese e l’oste, sulla guerra imminente, in cui il marito si dimostra un patriota «pieno di fuoco e di entusiasmo», come rileva l’inglese, osservando però che il nemico è ben armato. «Siamo tutti pronti a morire, e passeremo», replica con orgoglio Franco, al che il turista commenta: «Mi piace il giovanotto» e un primo piano di Luisa rivela che anch’ella apprezza la passione patriotica del consorte. Nella stanza della locanda, davanti a una finestra spalancata sul lago di notte, Franco, di spalle, le rammenta il loro primo incontro e il senso del loro stare insieme. «Il nostro piccolo mondo è finito» – le dice, ma con una nota di speranza aggiunge: «Quando si parlava della guerra, dell’Italia. Ora è diverso; ora ci siamo. Tra qualche giorno dichiareremo guerra…». A questo punto le fa vedere la rosa che lei gli aveva dato prima di partire per Torino e che lui ha conservato sempre, ma che ora preferirebbe affidare nuovamente a lei, per evitare che possa cadere in mano al nemico. Questa associazione tra il ricordo privato e il sentimento patrio finalmente smuove Luisa, che lo bacia appassionatamente. Un’inquadratura del lago, con una dissolvenza in chiusura, funge da cesura tra ciò che avviene dopo il bacio e la cena di FOGAZZARO E IL CINEMA 187 addio. Dall’esterno viene inquadrata la finestra della locanda che li mostra a tavola insieme, in armonia, alla luce calda di una candela. Luisa, cogliendo lo sguardo ammirato della cameriera, nota: «Come stai bene in divisa». Si conferma con questa battuta la sintesi tra la passione coniugale e quella patriotica, ma la calda intimità della scena spoglia il momento di qualsiasi enfasi retorica, per evocare piuttosto il raggiungimento della maturità affettiva nella relazione tra i due protagonisti, così diversi tra loro, eppure così profondamente legati. Al mattino i due escono insieme per andare all’approdo del battello dei volontari. Si salutano in mezzo alla gente, sullo sfondo del lago e del battello a vapore, carico di soldati che cantano in coro. Mentre gli amici la salutano, Franco bacia Luisa sussurrandole: «Che Dio ti benedica». Quando sale sul battello per raggiungere i suoi, una vecchietta grida: «Ricordatevi della Madonna». Questi due richiami così ravvicinati alla religione non sembrano turbare però Luisa, mentre i volontari cominciano a cantare: «Addio mia bella addio/ che l’armata se ne va/ e se non partissi anch’io/ sarebbe una viltà». In primo piano Franco canta: «Ma non ti lascio sola/ma ti lascio un figlio ancor/ viva l’amor!/ Sarà quel che ci consola/ il figlio dell’amor». Un primo piano di Luisa, che sorride tra le lacrime, conferma il messaggio implicito nel testo della canzone: l’annunciazione di una possibile gravidanza. All’inquadratura del battello che si allontana, segue di nuovo il primo piano di Luisa, che viene coperto dalla scritta ‘fine’. Per quanto molti di questi elementi narrativi siano presenti nel libro, questa scena si discosta non solo per la microcronologia dal romanzo e, pur non snaturando il senso del finale, ne muta in parte il segno. In proposito sono particolarmente significative alcune varianti di sceneggiatura: nel romanzo lo zio Piero accompagna Luisa e condivide con lei, in parte, questa tappa; la donna vede i militari che cantano sul battello a vapore prima di arrivare sull’isola e non alla partenza di Franco; a Isolabella inoltre sono presenti anche i militari, colleghi di Franco, mentre nel film la coppia è da sola ad affrontare la crisi. Ma soprattutto, invece che finire sul volto di Luisa, sul nuovo mondo, sulla speranza di una nuova vita, il romanzo finisce con la morte dello zio Piero, con lo spegnersi del piccolo mondo antico. 188 GIULIANA MUSCIO L’assenza, in questa scena del film, dello zio Piero e degli amici rende più intimo il recupero del rapporto di coppia tra Franco e Luisa, pur sposandosi alla causa nazionalista, dato che la possibile gravidanza viene suggerita dal testo della canzone patriotica. Mentre il romanzo termina con una morte, il film si chiude con un movimento verso la maturità di Franco, reso uomo dal suo impegno in guerra, e con un’accettazione ritrovata del ruolo materno da parte di Luisa. Verrebbe da dire: Dio, patria e famiglia. Ma la regia di Soldati non produce affatto questa sintesi retorica. Gli spazi aperti del lago, la modernità del battello a vapore che trasporta i soldati, l’energia che sprigiona dalla passione ritrovata della coppia, la sottigliezza con cui si evoca la possibile nuova maternità, la coralità della scena, ma soprattutto la sobrietà del montaggio e dell’interpretazione di Alida Valli, rendono la sequenza un bel finale per quello che potrebbe essere, cinematograficamente, il Via col vento (Gone with the Wind, di Victor Fleming, 1939) italiano. Il lago diventa perciò nel finale del film lo spazio del futuro, del cambiamento, mentre i ruoli, rispetto all’inizio della pellicola, si sono ribaltati: Luisa è ferma sulla riva mentre Franco si muove col battello; ma soprattutto le loro vite si intrecciano con la Storia, anche se non si nomina il nemico o la guerra che si va a combattere; o forse proprio per questo. Che guerra è questa? Certo, la seconda guerra di indipendenza, ma siamo nel 1941, quindi è anche la guerra appena dichiarata dall’Italia, oppure, con un piccolo, ma significativo scarto, la prefigurazione di Salò o forse meglio, della guerra di liberazione. Soldati ‘interiorizza’ il sentimento patriottico, facendone il collante della relazione tra Franco e Luisa e legandolo, attraverso l’inno risorgimentale, in modo diretto, alla nuova gravidanza, aprendosi così alla speranza e a una possibile palingenesi nazionale, con un pianto di cauta speranza per un mondo nuovo, non ancora all’orizzonte. È un altro ‘vento del Nord’ che ci sembra di respirare in questo finale; e la citazione non è casuale né solo fogazzariana, ma legata a quella speranza di rinnovamento, a quella irrequietezza che serpeggia di lì a poco nel paese, ma che inizia cautamente ad emergere in anticipo nel mondo del cinema, che sviluppa il suo antifascismo anche a partire dal dibattito su temi e motivi di Piccolo mondo antico.