Impresa
Sociale
Comitato editoriale
Felice Scalvini
Michele Andreaus, Gregorio Arena, Gianpaolo
Barbe a, Andrea Bassi, Marco Bombardelli,
Luigino Bruni, Fabrizio Cafaggi, Maurizio
Carpita, Ivo Colozzi, Pierpaolo Donati, Giulio
Ecchia, Antonio Fici, Gianluca Fiorentini,
Giorgio Fiorentini, Gianna Giannelli,
Danilo Galle i, Giorgio Giorge i, Andrea
Giovanardi, Benede o Gui, Mauro Maga i,
Domenico Marino, Antonio Matacena, Marco
Musella, Luca Nogler, Giorgio Osti, Fabrizio
Panozzo, Salvo Pe inato, Giancarlo Provasi,
Giovanna Rossi, Lorenzo Sacconi, Marina
Schenkel, Luca Solari, Claudio Travaglini,
Stefano Zamagni.
Direzione scientifica
Comitato di redazione
Istituto Studi Sviluppo Aziende Nonprofit
Via Inama, 5 - 38100 Trento
e-mail: issan@issan.info
Tel. 0461.88.22.89 Fax 0461.88.22.94
Direttore responsabile
Carlo Borzaga, Luca Fazzi
Sara Depedri, Ermanno Tortia, Flaviano Zandonai.
2
IMPRESA SOCIALE
aprile ~ giugno 2008
Sommario
GLI AUTORI
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EDITORIALE
9
Carlo Borzaga
INTRODUZIONE
12
Maria Rosaria Garofalo
IMPRESA SOCIALE E INNOVAZIONE ISTITUZIONALE
Efficienza delle forme organizzative del “fare”
impresa sociale: un confronto
Adalgiso Amendola, Roberta Troisi
Dimensioni politiche dell’impresa sociale
Laura Bazzicalupo
31
63
Etica ed economia: quale etica per quale economia? 82
Fabio Marino
Il puzzle dell’impresa sociale tra impazienze
democratiche ed esigenze partecipative
Angela Iacovino
Responsabile recensioni
(cui inviare i volumi da recensire)
Marco Musella
Università degli Studi di Napoli Dip.to Teoria Economica
Via Rodinò, 22 - 80100 Napoli
Proprietà
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di Solidarietà Sociale Gino Ma arelli
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Redazione
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Stampa
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Cadenza trimestrale
Registrazione
Tribunale di Trento n. 1257 del 15/07/05
93
SOMMARIO
L’impresa sociale nel nuovo welfare: aspe i sociologici 107
Rossella Trapanese
Lavoro volontario: un’analisi cross-sezionale
sul dataset Multiscopo
Damiano Fiorillo
119
Il bilancio sociale. Riflessioni sullo stato dell’arte
alla luce del d.lgs. 155/2006
141
Melania Verde
Aspe i controversi della regolazione e della
valutazione della qualità: implicazioni per il
disegno e l’accountability dell’impresa sociale
Mita Marra
168
IL FORUM
Innovazione ed innovazioni dell’impresa sociale:
considerazioni su identità, limiti, potenzialità
e nuove sfide
195
Intervista a: G. Acocella, P. Monda, S. Sica, P. Stasi
IMPRESA SOCIALE IN ITALIA
Cooperative sociali ed empowerment: una valutazione
del valore aggiunto per il ci adino-consumatore 215
Vanna Gonzales
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ordinario 45 euro
estero 80 euro
studente 25 euro
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3
4
IMPRESA SOCIALE
aprile ~ giugno 2008
Il se ore nonprofit e la responsabilità sociale
delle imprese: un’analisi per la Lombardia
Carlo Borzaga, Alessandra Mori
245
OSSERVATORIO INTERNAZIONALE
Forme dell’impresa sociale in U.K., le Community
Interest Company in uno scenario in cambiamento 277
Dario Carrera, Alex Murdock
RECENSIONI, SEGNALAZIONI E DOCUMENTI
Recensioni e segnalazioni
307
English abstract
313
Referenti regionali
Franco Alleruzzo (Regione Marche);
Andrea Bernardoni (Regione Umbria);
Angelo Bodra (Regione Liguria); Gabriella Bon (Regione Friuli Venezia Giulia); Simone Brunello (Regione Veneto);
Luciano D’Angelo (Regione Sicilia);
Teodora Di Santo (Regione Abruzzo);
Davide Drei (Regione Emilia Romagna);
Paolo Ferraro (Regione Calabria); Anna
Ferretti (Regione Toscana); Michele Fininzio (Regione Basilicata), Guido Geninatti (Regione Piemonte); Massimo Giugler (Regione Valle d’Aosta); Giuseppe
Guerini (Regione Lombardia); Michele
Odorizzi (Provincia di Trento); Klaudia
Resch (Provincia di Bolzano); Ruggero Signoretti (Regione Lazio); Giacomo
Smarrazzo (Regione Campania); Gavino
Soggia (Regione Sardegna); Gianfranco
Visicchio (Regione Puglia).
GLI AUTORI
Gli autori
ADALGISO AMENDOLA
Professore ordinario di Economia politica e Preside della Facoltà di Scienze Politiche presso l’Università degli Studi di Salerno
LAURA BAZZICALUPO
Professore ordinario di Filosofia politica presso l’Università
degli Studi di Salerno
CARLO BORZAGA
Professore ordinario di Politica economica presso l’Università
degli Studi di Trento
DARIO CARRERA
Do orando in Economia e gestione delle aziende e amministrazioni pubbliche presso l’Università degli Studi di Roma
“Tor Vergata”
DAMIANO FIORILLO
Assegnista di ricerca del Dipartimento di scienze economiche
e statistiche presso l’Università degli Studi di Salerno
MARIA ROSARIA GAROFALO
Professore associato di Economia dello sviluppo presso l’Università degli Studi di Salerno
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IMPRESA SOCIALE
aprile ~ giugno 2008
VANNA GONZALES
Assistant Professor alla School of Justice and Social Inquiry at
Arizona State University
ANGELA IACOVINO
Ricercatrice di Istituzioni di diri o pubblico presso l’Università degli Studi di Salerno
FABIO MARINO
Do ore di ricerca presso l’Università degli Studi di Catania
MITA MARRA
Ricercatrice del Consiglio Nazionale delle Ricerche distaccata presso il Dipartimento di scienze economiche e statistiche
dell’Università degli Studi di Salerno
ALESSANDRA MORI
Coordinatrice del Nucleo per la ricerca economica presso la
Banca d’Italia, sede di Milano
ALEX MURDOCK
Dire ore del Centre for Government and Charity Management della London South Bank University
ROSSELLA TRAPANESE
Ricercatrice del Dipartimento di sociologia e scienza della politica presso l’Università degli Studi di Salerno
ROBERTA TROISI
Ricercatrice di Organizzazione aziendale presso l’Università
degli Studi di Salerno
GLI AUTORI
MELANIA VERDE
Do oranda di ricerca del Dipartimento di studi economici
presso l’Università degli Studi di Napoli “Parthenope”
Partecipanti al Forum
GIUSEPPE ACOCELLA
Vicepresidente del Cnel e Professore ordinario di Etica sociale
presso l’Università degli Studi “Federico II” di Napoli
PORFIDIO MONDA
Responsabile dell’U cio di piano ambito S1
SALVATORE SICA
Professore ordinario di Diri o privato comparato presso l’Università degli Studi di Salerno
PATRIZIA STASI
Presidente del Consorzio “La Rada”
7
EDITORIALE
Carlo Borzaga
Editoriale
Come abbiamo già affermato in più occasioni, quella dell’impresa sociale
può certamente essere considerata una storia di successo. In poco più di
vent’anni il conce o è stato proposto, all’inizio molto timidamente e via via
con sempre maggior convinzione, in modo sempre più preciso, utilizzato
sempre più frequentemente per identificare le organizzazioni senza fini di
lucro impegnate nella produzione di beni e servizi di interesse generale
(di welfare, ma non solo) e, infine, riconosciuto dal legislatore, sia italiano
che inglese, come forma tipica di gestione di un ampio spe ro di a ività.
Il numero di imprese sociali si è nel fra empo moltiplicato e la loro forza
economica, nonché la loro rilevanza sociale ed occupazionale, sono ormai
in molti paesi del tu o fuori discussione.
Se però si va oltre queste evidenze e i relativi riconoscimenti, e si analizzano a entamente le interpretazioni che vengono date del fenomeno e della
sua evoluzione si rileva che esse sono quasi tu e cara erizzate da diffuse
di coltà ad acce are i risultati realizzati e dal permanere di le ure in negativo. Se si so olinea la rilevanza assunta dalle imprese sociali nel garantire un’ampia offerta di servizi di welfare, c’è sempre qualche commentatore
pronto a precisare che “sì, ma hanno perso capacità innovativa e sono ormai del tu o dipendenti dalla pubblica amministrazione”. Se si richiama la
capacità dimostrata dalle imprese sociali nel creare opportunità di lavoro
per decine di migliaia di persone, in gran parte provenienti dal non lavoro
e dalla disoccupazione, ci sono schiere di sindacalisti e di giornalisti impegnati pronti a sostenere, “sì, ma a condizioni salariali inferiori a quelle di
mercato (senza precisare ovviamente di quale mercato stiano parlando) e
comunque in sostituzione di altre anti impieghi pubblici”. Se si so olinea
la capacità delle imprese sociali di orientare verso i servizi di welfare risorse
aggiuntive a quelle pubbliche e di consolidare l’offerta, destinando risorse
anche agli investimenti, c’è subito qualche esperto di economia che preciserà, “sì, ma ormai prevalgono le situazioni di gestione in perdita e quindi
9
10
IMPRESA SOCIALE
aprile ~ giugno 2008
ci dobbiamo aspe are a breve una crisi del comparto, forse anche una crisi
che interromperà definitivamente la sua crescita”.
Il diba ito sul fenomeno dell’impresa sociale sembra quindi ancora sospeso a mezz’aria: si riconosce l’esistenza e la rilevanza del fenomeno, ma
lo si continua, di fa o, a considerare un’eccezione alle regole e alle leggi
dell’economia, finendo più a so olinearne i limiti che a coglierne gli elementi di innovazione. Sta, in altri termini, succedendo quanto già avvenuto
per l’impresa cooperativa, riconosciuta nelle sue specificità, ma considerata
una forma di impresa comunque marginale, utile sopra u o nelle fasi di
crisi, ma stru uralmente meno e ciente dell’impresa capitalistica.
Ma dove sta il problema? Nelle cara eristiche e nelle anomalie dell’impresa sociale o negli strumenti, cioè nelle teorie e nei modelli, con cui si è
soliti interpretare il funzionamento delle istituzioni economiche e sociali?
Nel primo caso avrebbero ragione i critici e non resterebbe che prenderne
a o, rinunciando a dedicare tempo allo studio del fenomeno dell’impresa
sociale. Nel secondo caso, invece, si aprono spazi di riflessione nuovi e di
grande interesse perché in grado, non solo di capire più a fondo il senso di
queste nuove istituzioni, ma anche, più in generale, di migliorare la nostra
capacità di interpretazione dei fenomeni economici e sociali.
E’ evidente che è questa seconda la risposta che siamo propensi a dare e la
pista di ricerca che ci interessa, come Rivista e come studiosi che ad essa
fanno capo. E’ infa i nostra convinzione che non sia più possibile interpretare realtà complesse come sono ormai diventate le economie e le società
contemporanee con strumenti di analisi e modelli interpretativi basati su
ipotesi che semplificano eccessivamente la realtà e quindi rischiano di coglierne una parte sempre più piccola. Nonché con modelli fondamentalmente statici, quindi incapaci di cogliere ed interpretare le dinamiche che
cara erizzano i sistemi contemporanei.
In particolare, questi strumenti e questi modelli, costruiti sull’ipotesi che
solo i comportamenti auto-interessati contano e che solo il profi o può essere, alla fin fine, la ragione che spinge le persone a rischiare creando nuove
imprese, non sono in grado di spiegare la rilevanza che sono andati assumendo i comportamenti non auto-interessati e la capacità delle persone
di organizzare questi comportamenti e le motivazioni so ostanti in forme
imprenditoriali, riuscendo a trovare un equilibrio tra diverse motivazioni
e diverse necessità.
Si impone a questo punto una scelta: o continuare con l’utilizzo degli strumenti di analisi consolidati per essere più facilmente acce ati dalla comunità scientifica, oppure porsi alla ricerca di strumenti e modelli interpretativi diversi, meno consolidati e acce ati, ma meglio in grado di spiegare ciò
che sta succedendo, sopra u o sul fronte dell’impresa sociale. Anche se
EDITORIALE
Carlo Borzaga
ciò comporta la messa in discussione di alcune “leggi” dell’economia che
sembravano ormai del tu o consolidate.
In questa ricerca di strumenti e modelli interpretativi del funzionamento
dei sistemi economici e sociali e, sopra u o, dell’esistenza e delle cara eristiche dell’impresa sociale alternativi e quelli tradizionali, si inserisce e
dà un importante contributo questo numero di Impresa Sociale, curato da
Maria Rosaria Garofalo. Ado ando un approccio all’analisi delle istituzioni
economiche, e in particolare dell’impresa, più moderno e dinamico del tradizionale approccio neoclassico, cioè l’approccio etnografico ed evolutivo, i
saggi contenuti in questo numero propongono un’interpretazione dell’impresa sociale come “innovazione istituzionale”. Un’innovazione capace di
produrre nuove “tecnologie sociali”, cioè nuovi modi per far convergere
verso obie ivi di cara ere sociale una pluralità di a ori mossi da valori
e motivazioni diverse, comprese quelle non auto-interessate. Un’innovazione in grado di incidere positivamente sullo sviluppo economico, dal
momento che concorre a rimuovere gli ostacoli alla libertà individuale e a
promuovere la cooperazione.
Siamo tu i consapevoli che il percorso scientifico che dovrà portare ad elaborare un’interpretazione completa e soddisfacente, e quindi, in positivo,
dell’impresa sociale è ancora lungo e richiederà molto tempo e molto lavoro. Ci sono però diversi segnali incoraggianti provenienti anche da ricerche che non hanno per ogge o l’impresa sociale, ma i cui risultati possono
essere utilizzati nel comprenderne cara eristiche ed evoluzione. Questo
numero di Impresa Sociale raccoglie molti di questi segnali, li rielabora e ci
consente di fare qualche passo avanti.
Carlo Borzaga
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IMPRESA SOCIALE
aprile ~ giugno 2008
Introduzione. L’impresa sociale è un’innovazione
istituzionale?
Maria Rosaria Garofalo
I Greci non distruggeranno certo i Greci,
non li faranno schiavi, non devasteranno
le campagne, né bruceranno le case; ma in
quella vece fanno tu o questo ai Barbari.
Platone, La Repubblica, Libro V
Sommario
1. Una chiave di le ura - 2. A favore dell’approccio evolutivo - 3. Una presentazione dei
contributi
1. Una chiave di lettura
L’interesse della comunità accademica e dei centri decisionali della
politica sia per i processi di genesi del terzo se ore, sia per le condizioni della loro sostenibilità ed ada amento nasce, e progressivamente si consolida, negli anni ‘70, quando il modello di welfare
“stato-centrico” entra definitivamente in crisi e ciò, fa o non banale, in concomitanza con il rallentamento della crescita delle economie europee avanzate (Esping-Andersen, 2002; Ferrera, 2007; Sacco,
INTRODUZIONE
Maria Rosaria Garofalo
Zarri, 2006; Sapir, 2004). Fa e salve le peculiarità dei vari approcci
disciplinari, la riflessione teorica ha riguardato inizialmente aspetti macro focalizzandosi sul nesso tra “cambiamento della stru ura
demografica e sociale - deindustrializzazione - allargamento e creazione di nuovi mercati” da un lato, e “mantenimento - ridisegno del
sistema di erogazione dei servizi di welfare”, da un altro lato.
L’idea di fondo di questo volume nasce, ovviamente, da qui in quanto prova ad interrogarsi, in un’o ica plurisciplinare, sui significati
dell’impresa sociale se codificata come un’innovazione istituzionale.
A mio avviso, ciò richiede di collocare l’impresa sociale non solo nel
ridisegno “formale” (nel senso ben noto di North, 1990) delle regole
del welfare, ma sopra u o nei nessi di “complementarietà istituzionale” (nel senso più nuovo di Aoki, 2007) con gli a ori, le risorse e le
politiche che concorrono in un sistema a migliorare le condizioni di
vita delle persone e che, per questa via, aspirano a fare ciò in un’ottica egualitaria o che, a seconda dei casi, ostacolano o rallentano tale
processo di miglioramento e che, per questa via, modificano la mappa preesistente degli incentivi e del potere tra persone e tra gruppi.
Questi nessi di complementarietà istituzionali sono costituiti come
un “incastro” tra le condizioni iniziali materiali di un sistema, quali,
ad esempio, la stru ura economica e la legge, da un lato, ed i fa ori
immateriali, quali, ad esempio, la cultura, la partecipazione al bene
colle ivo, il senso di appartenenza, la fiducia in se stessi, il rispe o
degli altri, da un altro lato (Bowles et al., 2006; North, 2005; Tabellini, 2005). Più in de aglio, l’idea è che “l’impresa sociale come innovazione istituzionale” è una categoria cogente, non solo sul piano
normativo, ma anche su quello interpretativo, sopra u o se essa è
investigata nel livello dei sistemi locali e, ad esempio, alla luce della
persistenza dei differenziali di sviluppo.
Ciò significa che l’impresa sociale contribuisce a modificare le condizioni iniziali di un’economia - e cioè la sua stru ura produ iva,
lo stock di capitale (umano, sociale), le regole di distribuzione dei
benefici - ed in tal modo concorre tanto ad allargare ed a modificare
l’insieme delle opportunità di scelta, quanto la percezione dei benefici offerti nonché le condizioni di accesso a queste opportunità.
Questa è la chiave di le ura qui suggerita: l’approccio metodologico
sarà illustrato di seguito. Da un lato l’impresa sociale contribuisce
a soddisfare il vincolo macroeconomico di tipo keynesiano alla crescita, rappresentato dal cambiamento nella composizione della domanda aggregata in cui prevalgono i servizi, ad esempio servizi di
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IMPRESA SOCIALE
aprile ~ giugno 2008
welfare e beni di rilevanza colle iva, peculiarmente di natura relazionale e, da un altro lato, sostiene il livello di produzione e la produttività del sistema, ad esempio con investimenti specifici in capitale
umano nei nuovi se ori (Lorentz, Savona, 2007). In sintesi: se l’idea
generale è che le lenti dello sviluppo - definito, appunto, come un
processo di cambiamento stru urale - “incorniciano” adeguatamente finalità, funzionamento e condizioni di sostenibilità dell’impresa
sociale, allora essa costituisce un microfondamento del meccanismo
di causazione cumulativa a là Hirschman per la ripresa dello sviluppo nelle economie europee (Garofalo, Nese, 2005).
La sfida che il ruolo crescente del terzo se ore lancia alla riflessione
teorica, e in particolare alla teoria economica, non si esaurisce, pertanto, nell’analisi macro in termini di incremento del Pil e dell’occupazione, ma riguarda anche il livello micro (Borzaga, Defourny,
2001) ed il livello meso, focalizzando l’a enzione su questioni del
tipo: qual è l’intreccio tra fa ori materiali e immateriali all’interno e
all’esterno di un’organizzazione? Quanto le differenti forme giuridiche tra le organizzazioni del terzo se ore contano per gli esiti di tale
intreccio, ad esempio a ivando rapporti di coordinamento/cooperazione come se fosse una “filiera sociale”? Tale intreccio mima (bene o
male a seconda dei casi reali) lo schema formale di obie ivi e regole
definite da un design intenzionale o, piu osto, esso risulta come una
novità, più o meno spontanea, che emerge, si seleziona, si diffonde e
si rafforza lungo una traie oria ereditata dalla storia?
Un punto che a me pare sia rilevante per argomentare una risposta a
tali questioni, è quello relativo al “se ore” di a ività e, in particolare,
se esso identifica l’impresa sociale nella sua finalità di sostenere, se
non addiri ura di promuovere, il sentiero di sviluppo di un’economia. Se i servizi di welfare vengono codificati come “beni meritori” e
di rilevanza sociale (Ben-Ner, Gui, 2003) a cui corrisponde un sistema
di diri i e, a seconda degli asse i politico-istituzionali dei singoli paesi, un sistema di diri i esigibili, allora ne consegue che né finalità e
regole per la governance interna ed esterna sono date esogenamente o
casuali, né la performance del terzo se ore è deterministica ed unica,
date, appunto, le finalità e le regole. L’intreccio di finalità, regole e
performance di un’impresa sociale “incastrata” si configura, piu osto, come un fenomeno complesso. A mio avviso esso può essere adeguatamente spiegato con le lenti dello sviluppo in cui si ipotizza che
la causazione cumulativa segua un sentiero di tipo evolutivo, direi
meglio neo-evolutivo (Wi , 2003, 2006). Seguendo questo approccio
INTRODUZIONE
Maria Rosaria Garofalo
finalità e regole sono il risultato di un processo “sociale” di apprendimento, a raverso il quale sono state veicolate credenze, valori, conoscenze, posizioni di potere, se non addiri ura “istinti” ed “emozioni”,
che contano nella scelta di finalità e regole e che, quindi, contano nella
performance di quella impresa sociale, e, a loro volta finalità e regole
possono mutare, per un meccanismo di induzione all’indietro, e così
via: questo è il nodo del “meccanismo” di coevoluzione.
In particolare se, come de o, si ipotizza che l’impresa sociale sia una
forza trainante dello sviluppo, i meccanismi propagatori possono essere gli effe i che finalità, natura dell’output e modi di produzione/
erogazione dei servizi di welfare e di rilevanza sociale sono in grado di
a ivare in un sistema. Effe o moltiplicatore ed acceleratore del reddito (e dell’occupazione), a fronte di una nuova composizione della
domanda finale, possono spiegare un pezzo della storia (esternalità
pecuniarie positive, indire e e/o dire e, nei casi virtuosi). Tu avia, se
il meccanismo di causazione cumulativa si ferma qui, non c’è niente di
nuovo nel sentiero virtuoso che un’economia può seguire.
L’altro pezzo della storia è spiegato dal ruolo peculiare dell’impresa
sociale come un’innovazione istituzionale per lo sviluppo, secondo diversi modalità e canali di emersione, adozione, successo e diffusione,
che possono essere così schematizzati: (i) per la natura dell’output e
dei processi di produzione/erogazione dei servizi di welfare e di beni
di rilevanza sociale si trasme ono un insieme di valori etici, modelli
culturali, predisposizioni psicologiche nello scambio e finanche sentimenti non esclusivamente auto-interessati e monetari; (ii) l’emergere
e il funzionamento di un’impresa sociale è una novità in quanto corrisponde ad una “possibile” modalità di azione (agency) nello spazio
della produzione/prestazione di particolari beni e dello scambio di
fa ori (Dopfer et al., 2004); (iii) la novità dello schema di agency, rispetto a quello tradizionale della scelta razionale strumentale, è che “valori” e “credenze” sono le motivazioni e le determinanti di un’azione
economica e della sua performance (ad esempio, incidono sul criterio
sogge ivo del costo-opportunità del tempo, sulla trasmissione gratuita della conoscenza privata, sui criteri di divisione del lavoro e sui
modelli di ruolo, sulla partecipazione a iva ai mercati intesa come un
diri o, sul prevalere dell’effe o di sostituzione o dell’effe o di reddito
nella decisione di offerta di lavoro o di investimento in capitale umano
nella famiglia, ecc.); (iv) in quanto motivazioni e determinanti umane,
esse sono eterogenee, una novità istituzionale dell’impresa sta proprio
nella “cultura produ iva” dell’eterogeneità (Dragone, Viviani, 2007).
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IMPRESA SOCIALE
aprile ~ giugno 2008
I punti (i) e (iv) servono ad individuare alcuni canali a raverso cui
valori e credenze non stre amente auto-interessati introducono
novità a livello micro, ad esempio, riguardo a finalità e regole di
governance di un’impresa sociale. (v) Un ulteriore punto riguarda
i beneficiari: coerentemente con i punti espresssi (i) e (iv), finalità
e se ore di a ività dell’impresa sociale concorrono a modificare le
“aspirazioni” (Appadurai, 2002) non solo dei beneficiari dire i dei
servizi erogati, ma anche della colle ività di appartenenza, favorendo ed incentivando la partecipazione a iva su tu i i mercati: in
particolare, se l’impresa sociale non fallisce, allora i servizi di welfare
e i beni di rilevanza sociale favoriscono l’emporwement non solo di
coloro che, sebbene fossero esclusi, percepivano, tu avia, l’inclusione a iva come un bisogno e come un diri o, ma anche di coloro che
erano asimmetricamente svantaggiati persino nella distribuzione
delle aspirazioni all’interno di una popolazione. In altri termini, se
non fallisce allora l’impresa sociale funziona come uno schema di incentivo egualitario, modificando la percezione dei benefici derivanti
dalla partecipazione a iva che l’impresa sociale concorre, appunto,
a rendere possibile in un particolare sistema. Gli effe i agglomerati,
ripetuti e di successo dei cambiamenti di possibili azioni, nei vari
domini, possono giocare il ruolo di meccanismi propagatori dello
sviluppo di un sistema, in cui l’innovazione dell’impresa sociale è
una forza trainante.
2. A favore dell’approccio evolutivo
Se l’idea qui suggerita di ado are le lenti dello sviluppo per decodificare l’impresa sociale come innovazione istituzionale è plausibile, allora occorre me ere in evidenza i punti salienti in cui teoria, metodo
e policy-making si discostano dall’approccio ortodosso in riferimento
sia all’analisi dell’impresa, e in particolare all’interazione “impresacontesto”, sia all’analisi delle istituzioni, e in particolare alle soluzioni escogitate contro i fallimenti del mercato e del decisore pubblico.
In questa sede non si presenterà, ovviamente, né una sistemazione
completa e critica della le eratura economica che compone lo stato
dell’arte dell’impianto ortodosso e di quelli eterodossi, né si farà il
punto delle riflessioni peculiari delle altre discipline (rappresentati
nei contributi del volume; cfr. par. 3) che studiano il fenomeno “impresa sociale”. Piu osto si illustrerà, in breve, solo alcuni punti che
sembrano rilevanti per sostenere l’idea generale già espressa.
INTRODUZIONE
Maria Rosaria Garofalo
1. Sul piano teorico si me ono in evidenza almeno due elementi
novità che, a mio avviso, sono peculiari non solo della teoria economica: la prima riguarda il modello micro dell’impresa sociale, la
seconda riguarda il modello di cambiamento di un sistema. È dalla
sovrapposizione di questi due elementi che si può costruire la categoria di impresa sociale come innovazione istituzionale.
La prima novità consiste nella messa so oscacco della tradizionale
“cornice” neoclassica che spiega un qualsiasi fenomeno reale, selezionandone solo quegli aspe i che possono essere spiegati in base
alle ipotesi ben note di scelta razionale strumentale che separano
i mezzi dai fini (Bowles, 1998) e che, pertanto, considerano solo il
risultato della scelta e non anche il modo con cui si è conseguito. La
ricchezza della teoria microeconomica recente, articolata in una varietà di filoni e modelli, può essere le a proprio in base alle specifiche
“idiosincrasie” o “imperfezioni” introdo e nel paradigma tradizionale della razionalità strumentale e perfe a (Akerlof, Yellen, 1987),
come, ad esempio, asimmetrie nella dotazione delle risorse, pluralità
dei criteri di scelta, disponibilità ed elaborazione delle informazioni,
memoria, motivazioni so ostanti alle preferenze, potere, peso dei
valori condivisi, ecc. In questa le eratura, imperfezioni ed idiosincrasie consentono di spiegare con maggiore aderenza alla realtà, e
di volta in volta, l’effe ivo processo di scelta di agenti reali, le loro
implicazioni in termini di equilibrio soddisfacente a là Simon, i fallimenti dei mercati, la natura delle esternalità, il loro segno (positivo o
negativo) e le conseguenze sul benessere colle ivo, nonché genesi e
finalità dei rimedi istituzionali. Non è questa la sede, ovviamente, di
suggerire una tassonomia di tale le eratura, né di selezionare e combinare uno o più modelli organizzativi, sovrapposti con tipologie
normative, da ada are ed utilizzare per lo studio di caso “impresa
sociale”: diversamente l’idea, in qualche modo derivata dall’opzione
metodologica a favore di un approccio evolutivo, è quella di spiegare la peculiarità dell’impresa sociale non in base a specifiche anomalie (cognitive, motivazionali, organizzative) rispe o al modello base
di scelta, ma di investigare da dove emergono quelle “idiosincrasie”
e “imperfezioni”, se sono inerti o se tendono a modificarsi e come si
trasme ono ad altri a ori di un sistema e si radicano in esso, inibendo o favorendo il cambiamento a seconda dei casi.
L’espressione “a seconda dei casi” va presa sul serio e cioè non solo
con le lenti teoriche suggerite dalla microeconomia o del diri o o
dalla filosofia politica e morale che specificano natura, ruolo e re-
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IMPRESA SOCIALE
aprile ~ giugno 2008
gole dell’impresa sociale come novità istituzionale, ma anche con
le lenti dello sviluppo: esse servono a decodificare, come de o, sia
all’indietro il suo incastro, sopra u o a livello di sistemi locali, con
la stru ura economica e l’asse o istituzionale formale ed informale
(North, 2005; Wi , 2003; Aoki, 2007), sia in avanti con i canali di trasmissione e diffusione di nuovi insiemi di motivazioni, credenze e
valori. L’impresa sociale si candida, allora, a diventare un’istituzione
dell’economia in quanto concorre a produrre quelle “tecnologie sociali” (Nelson, 2001) che nel meccanismo di causazione cumulativa
virtuosa giocano il ruolo di infrastru ura per lo sviluppo e ciò in
quanto rimuovono gli ostacoli alla libertà individuale della scelta
economica, che è razionale, ma imperfe a, favoriscono il coordinamento delle decisioni di investimento tra e all’interno di un’organizzazione, promuovono la cooperazione e ne distribuiscono i benefici.
Ed è questa via che allargano e diversificano le opportunità di scelta
tra gli agenti, e rendono tali opportunità dei diri i esigibili.
Se le cose stanno così, il miglioramento delle condizioni di vita a livello individuale sposta verso l’alto la funzione di miglioramento di
sviluppo umano a livello di sistema, che a sua volta a iva il sentiero
evolutivo, e fa ciò in modo non neutrale, poiché trasme e e/o modifica valori e credenze. In particolare, la nuova categoria “impresa
sociale come innovazione istituzionale” ha senso all’interno di un
sistema, in quanto spiega il suo processo evolutivo come un sentiero
che amme e soluzioni di equilibrio multiple.
La seconda novità che la teoria economica sembra suggerire sta
proprio qui e riguarda l’ipotesi di una causazione bi-direzionale tra
crescita e sviluppo umano (Ranis et al., 2003): il primo anello della
catena - che va dalla crescita allo sviluppo - consente di me ere in
evidenza quanta parte del reddito nazionale, distribuito a famiglie,
se ore pubblico e organizzazioni nonprofit viene speso per il perseguimento di obie ivi sociali, in se ori quali i servizi di cura e di beni
relazionali e di interesse sociale, che migliorano lo sviluppo umano;
il secondo anello della catena - che va dallo sviluppo alla crescita
- me e in evidenza il processo di retroazione sulla crescita, che è
messo in a o a seconda degli effe ivi risultati o enuti in termini di
miglioramento dello sviluppo umano. Il processo di crescita continua e dipende, nel nostro caso, dall’ammontare, dalla distribuzione
e dalla natura dei benefici creati dall’impresa sociale, ad esempio,
la qualità del lavoro, gli incentivi ad innovare i modelli di azione,
la priorità dei fini e la cultura dell’eterogeneità. Un’ultima notazio-
INTRODUZIONE
Maria Rosaria Garofalo
ne: che la causazione è bi-direzionale vuol dire che il miglioramento
della funzione di sviluppo umano è la condizione perché un’economia continui a crescere; tu avia, poiché nel sentiero contano tanto
“condizioni iniziali” quanto natura e varietà delle preferenze, che
veicolano cultura e valori, l’equilibrio è multiplo a seconda dei casi
e cioè se prevale il peso delle condizioni iniziali o la propensione ad
innovare.
In sintesi, la riflessione teorica più recente sulle novità espresse dal
terzo se ore, spesso condo a sulla base di analisi comparate (tra
se ori e tra paesi/regioni) tende o dovrebbe tendere ad a raversare
gli stre i confini disciplinari, e ciò proprio al fine di suggerire sia
un’”euristica”, sia una “visione ontologica” (Wi , 2006), condivise
tra i singoli approcci disciplinari, che siano entrambe ada e a spiegare tanto l’evoluzione interna al terzo se ore da cui emerge la “novità” dell’impresa sociale, quanto il suo incastro istituzionale con
altre tipologie di a ori da cui si rafforza la capacità di successo, adattamento e diffusione nel se ore del welfare, quanto, infine, e direi in
modo conseguente, il suo possibile ruolo nel sentiero di sviluppo del
sistema cui appartiene.
2. Come per ogni discorso teorico, anche in questo caso, occorre chiarire le sue premesse metodologiche: a sostegno dell’idea suggerita,
l’impresa sociale non va studiata con la logica e gli strumenti di un
caso di studio, ma come un a ore che proprio per il suo emergere e
per il suo processo di selezione e adozione all’interno del se ore o
del sistema apre spazi nuovi alla conoscenza, seguendo un sentiero
non univocamente cumulativo, ma “rivoluzionario” a là Kuhn. In
altri termini, poiché l’idea è che l’impresa sociale è un’innovazione
istituzionale che può giocare un ruolo nello sviluppo, allora l’obiettivo è di spiegare come all’interno di una popolazione di a ori (istituzionali) emergano dei cambiamenti, e quindi quali siano gli effe i
della selezione competitiva su questi cambiamenti.
Dei tre approcci metodologici più o meno consolidati nell’analisi delle istituzioni in economia - ipotetico-dedu ivo, etnografico ed evolutivo - è quest’ultimo che, a mio avviso, apre sfide interessanti soprattu o se si considera la sua recente riformulazione proprio in risposta
all’impianto deterministico della “nuova economia istituzionale”
(Eggertsson, 1998) che innova, ma solo dall’interno, il paradigma teorico neoclassico e che, pertanto, finisce per ridurre l’impa o sulla
crescita indo o da innovazioni istituzionali, disegnate formalmente
per mimare il modello di scelta razionale perfe a. Diversamente, le
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IMPRESA SOCIALE
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analogie prese dal linguaggio evoluzionistico e biologico servono
all’economia (neo)evolutiva che vuole spiegare l’imperfezione, l’eterogeneità degli agenti (e cioè delle loro azioni nei vari domini) e, in
particolare, le determinanti del processo di cambiamento.
Provare ad individuare le determinanti dell’emergenza del terzo settore e del suo modificarsi nel medio-lungo periodo rispe o ai vincoli
e alle opportunità del contesto macro, comporta, quindi, uno spostamento importante non solo sul livello di analisi, ma contestualmente anche “sul piano metodologico”: l’insieme delle risorse e i criteri della loro distribuzione, il rispe o di regole di comportamento,
l’insieme degli obie ivi e la loro gerarchia non possono essere più
considerati come se fossero in sé neutrali e tra loro indipendenti, ma
vanno considerati per il loro contenuto, direi per il loro valore. Tu i
questi elementi vanno considerati, quindi, in base sia ai processi della loro formazione, sia per i meccanismi di retroazione che possono
indurre sui processi cognitivi e sulle motivazioni che guidano i comportamenti e le interazioni degli agenti e delle organizzazioni.
De o in altri termini, i risultati delle azioni individuali, che hanno
luogo nei vari domini delle scelte umane (ad esempio, produzione,
consumo, investimento, partecipazione all’azione colle iva, creazione di linguaggi, rafforzamento del gruppo, trasmissione di valori, dono, ecc.) modificano tanto l’insieme delle condizioni iniziali
(risorse ed alternative ammissibili) quanto l’insieme degli obie ivi
(natura e gerarchia): ciò che va enfatizzato ed analizzato è la natura
evolutiva (Bowles, 1998) o meglio co-evolutiva di tale processo di
cambiamento (Binder, Niederle, 2006). Che la retroazione non è un
processo deterministico può voler dire diverse cose, in parte complementari tra loro. In primo luogo, essa non ricade solo su quei singoli
agenti coinvolti in un’azione in un dominio, ma modifica anche l’insieme delle opportunità - ad esempio, a raverso una migliore percezione delle opportunità e degli incentivi - e la natura degli obie ivi
del gruppo sociale di appartenenza, tra gruppi di un sistema, e del
sistema nel suo complesso. In secondo luogo, la retroazione si verifica tra domini diversi (Aoki, 2007): ad esempio, un cambiamento nel
sistema di credenze, del tipo “fiducia in se stessi” promuove investimenti in capitale umano che favoriscono sia la formazione di un
pool di lavoratori specializzati, sia la domanda delle imprese e ciò,
a sua volta, non solo riduce i costi di ricerca ed il rischio di investimenti idiosincratici (dei lavoratori e delle imprese), ma anche a rae
risorse e coordina investimenti in se ori collegati; il successo e la
INTRODUZIONE
Maria Rosaria Garofalo
stabilità economica delle imprese sociali sostengono e diffondono le
motivazioni ad offrire un alto effort lavorativo o tempo per trasferire liberamente conoscenze in questo se ore e per accompagnare il
processo di innovazione produ iva o organizzativa; un orientamento redistributivo della policy sociale genera effe i di spiazzamento
sull’intensità della ricerca di lavoro individuale e diffonde modelli
di “pigrizia”, indebolisce gli incentivi delle pari opportunità e rafforza modelli di ruoli diseguali all’interno della famiglia, ecc. In terzo luogo, il beneficio individuale si sostiene se genera un beneficio
colle ivo, poiché la produzione stabile di servizi di rilevanza sociale
(che è l’output dell’impresa sociale) produce un beneficio per la colle ività (o per una sua parte) e, a sua volta, è la distribuzione di questo beneficio che rafforza la capacità di produrre dell’impresa sociale. In quarto luogo, il risultato effe ivo di un processo di retroazione
è un equilibrio multiplo in cui contano i processi di produzione del
risultato (outcome), le motivazioni so ostanti al comportamento e la
percezione e l’a ribuzione di valore a quel risultato.
Ovviamente, la lista dei processi di retroazione (e del loro impa o
sul sentiero di cambiamento) non si ferma qui. In sintesi, le ipotesi
che servono a spiegare l’impresa sociale come un’innovazione istituzionale per lo sviluppo sono quelle dell’economia (neo)evolutiva
(Dopfer et al., 2004; Wi , 2003, 2006). Essa spiega il cambiamento
economico come un processo che parte dal livello meso, che è definito da una (nuova) regola o da un’idea “generica”, che può essere
“a ualizzata” in modi differenti a seconda delle possibili azioni degli agenti nei vari domini (interazioni tra agenti, relazioni tra agenti
e beni, ecc.). Ciò significa che un’innovazione introdo a al livello
meso retroagisce sui comportamenti micro e produce conseguenze macro: il processo di cambiamento segue tre fasi che consistono, rispe ivamente, nell’emergenza di una nuova regola, nella sua
adozione e ada amento a raverso un apprendimento, e nella sua
“sopravvivenza”. Tu avia, poiché la capacità di apprendimento (ad
esempio, la percezione delle nuove opportunità e dei benefici offerti
dalla nuova regola) è limitata ed è influenzata dalle cara eristiche
culturali (credenze, conoscenze non riflesse, abitudini, ma anche
valori etici, norme, motivazioni, sentimenti, ecc. Tabellini, 2005), il
sentiero di sviluppo non è deterministico ed amme e la possibilità
di cambiamenti, eterogeneità ed imperfezioni.
3. Analogamente agli spostamenti sul piano teorico e metodologico,
il ruolo crescente del terzo se ore e sopra u o la sua ricca artico-
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lazione interna impongono uno spostamento sul piano della policy:
esso consiste nella messa so o scacco dell’approccio tradizionale
che fonda il processo decisionale politico sull’ipotesi secondo cui gli
obie ivi desiderabili di una policy di welfare sono indipendenti dalle
preferenze della colle ività (Bowles, 1998) e, ancor di più, dall’articolazione sociale di quel sistema di preferenze, se non addiri ura
dalle preferenze non rappresentate e, in casi di marginalità e povertà, non percepite. Fa e salve le peculiarità dei modelli nazionali di
welfare riformato, l’indirizzo di policy prevalente nei paesi dell’Unione europea di non arretrare su posizioni liberiste di puro mercato
a fronte del fallimento dello Stato nel campo delle politiche sociali,
ma piu osto di rinvigorire l’approccio del liberalismo, ad esempio,
della tradizione smithiana (Bowles et al., 2005), sembra consistere
nell’allargamento, e magari nella diversificazione, delle opportunità
iniziali disponibili per la scelta individuale, intendendo in tal modo
contrastare le asimmetrie individuali nella dotazione di risorse materiali e non e, quindi, nell’effe ivo potere decisionale. L’idea è che
se l’approccio redistributivo della policy sociale non è stato fino in
fondo in grado di contrastare le asimmetrie ex post tra gli agenti,
ed anche tra i gruppi cui essi appartengono, allora obie ivi ultimi e
connesse misure di intervento sembrano allinearsi su un approccio
distributivo di uguaglianza ex ante delle uguali opportunità, e fanno
ciò a partire dal ridisegno delle regole formali di accesso ai vari mercati, e sostenendo regole informali sul valore della partecipazione al
bene pubblico.
L’orientamento politico più recente - noto come “il rilancio del modello sociale europeo” di crescita e solidarietà - si costruisce, com’è
noto, su un approccio di “integrazione” tra quelle policy che concorrono a migliorare le condizioni di vita delle persone, considerate nella loro individualità, e cioè sia nella specifica condizione di “dipendenza”, sia nell’appartenenza ad una specifica tipologia di famiglia/
gruppo/sistema economico locale (Caroleo, Garofalo, 2006). L’e cacia dell’integrazione tra risorse, misure di intervento, a ori e regole
decisionali che erano peculiari delle varie politiche se oriali si può
ora intendere sia in un’o ica statica che realizza la “presa in carico”
dei sogge i sele ivamente individuati quali target di quelle policy secondo lo schema dell’”inclusione a iva”, sia valutando le economie
di agglomerazione e i collegamenti che il processo individuale di
inclusione a iva realizza sui vari mercati, sia valutando sopra u o
quanto numerosa e ripetuta è la “migrazione” dei beneficiari delle
INTRODUZIONE
Maria Rosaria Garofalo
politiche di welfare da comportamenti “pigri” di dipendenza da forme di sussidio a favore di comportamenti a ivi e propensi al rischio
e all’investimento e, conseguentemente, se e quanto tale migrazione
è in grado di modificare le condizioni del contesto di appartenenza,
sia esso familiare, sociale o locale.
Coerentemente con le premesse metodologiche precedentemente
illustrate, l’approccio evolutivo è peculiare anche nel processo del
policy-making: poichè esso funziona a raverso un processo di apprendimento sociale in cui tanto i risultati effe ivamente conseguiti retroagiscono sul sistema degli interessi rappresentati, quanto gli obie ivi
che entrano nell’agenda di policy e la loro scala di priorità passano
a raverso i tra i culturali di una popolazione e sopra u o dei gruppi
rappresentati e cioè del loro potere, allora ne consegue che l’impresa
sociale diventa uno degli a ori istituzionali di tale processo. Nella misura in cui l’impresa sociale per la sua finalità istituzionale produce
servizi di welfare e beni di rilevanza sociale, si deriva che il suo impa o sul cambiamento nelle condizioni di vita dei beneficiari passa
a raverso la capacità di rappresentanza di interessi, e forse anche di
negoziazione, di persone e gruppi altrimenti esclusi.
3. Una presentazione dei contributi
La chiave di le ura che è stata suggerita, e cioè di decodificare l’impresa sociale come un’innovazione istituzionale per il processo di
sviluppo di un sistema secondo una visione neoevolutiva, a raversa
e conne e i contributi che compongono questo volume e che secondo linguaggi e interessi differenti, vale a dire a seconda delle differenti appartenenze disciplinari, provano a comporre il puzzle della
novità dell’impresa sociale. In particolare, i vari contributi presentati
fanno questo sovrapponendo forme giuridiche a criteri economici,
discutendone le implicazioni in termini di e cienza ed e cacia
(Amendola e Troisi), rintracciando nei fondamenti di filosofia morale e politica le dimensioni non materiali che si combinano con quelle
formali e materiali (Marino, Bazzicalupo) e, pertanto, modificano
ed incentivano determinati comportamenti non egoistici quali, ad
esempio, l’offerta di lavoro volontario (Fiorillo), illustrando modelli
per la governance interna ed esterna quali, ad esempio, la regolazione
della qualità dei servizi (Marra), il bilancio sociale (Verde) e le reti
partenariali intra ed interse oriali nel processo di policy-making del
welfare (Iacovino, Trapanese).
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La pluridisciplinarietà - che rifle e in buona sostanza l’impianto
del volume - risponde all’esigenza di individuare in quale dominio
(economico, culturale, giuridico, politico, ecc.) delle possibili azioni di un agente emergono “novità”, e come queste si incastrano e
retroagiscono sia sui comportamenti micro, sia sulla performance
di un sistema macro. Tale esigenza viene affrontata, nei vari contributi, in un’o ica comparata che prende l’avvio dalla conoscenza
consolidata relativa al terzo se ore nel suo complesso o a qualche
specifica forma organizzativa, individuandone implicazioni, teoriche o normative, per l’impresa sociale. La preferenza implicitamente accordata all’approccio neoevolutivo si rintraccia anche nel fa o
che non essendo l’impresa sociale un’istituzione consolidata né nei
fa i né nella conoscenza, essa può essere adeguatamente investigata
come una risposta potenziale alla “novità” introdo a a livello meso,
che può riguardare o il livello formale se si considera la normativa o
quello informale se si considera la cultura. Tu avia, sebbene la novità “impresa sociale” sia considerata come un allargamento ex ante
delle opportunità di scelta, ciò non è privo di ambiguità: da un lato,
essa è un’istituzione che concorre a perseguire l’obie ivo di policy di
inclusione a iva, ispirato al principio dell’uguaglianza e, da un altro
lato, concorre ad innescare un circuito virtuoso di sviluppo di lungo
periodo, se ispirata ad un principio di giustizia. E ciò dipende da se
e come è affrontato il problema delle asimmetrie di potere che è, in
qualche modo, a monte della percezione delle opportunità e degli
incentivi predisposti da un welfare proge ato sull’inclusione a iva.
Amendola e Troisi, partendo dal fa o che nel corso del tempo il terzo se ore è stato interessato in Italia da una significativa proliferazione di interventi di legislazione speciale, e dal fa o che nella regolazione del terzo se ore si sta affermando un principio generale di
autonomia sogge iva nella definizione della forma giuridico-organizzativa desiderata, affrontano due problemi cruciali. Il primo è in
che misura questa ampia libertà di scelta della forma organizzativa
sia destinata a trovare applicazione operativa nel se ore nonprofit;
il secondo, e più rilevante, è quello di individuare criteri e metodi di
scelta tra i diversi tipi di organizzazione che siano economicamente
ed organizzativamente e cienti. Utilizzando le lenti dell’economia
delle organizzazioni, costruiscono una tassonomia delle organizzazioni nonprofit e successivamente procedono ad una valutazione del
grado di e cienza di alcuni tipi di organizzazione che, in base alla
normativa, possono svolgere a ività di impresa sociale. Bazzicalupo
INTRODUZIONE
Maria Rosaria Garofalo
si interroga sulla stru ura complessa dell’impresa sociale dalla prospe iva della filosofia politica, che ne tematizza la pluridimensionalità tra governo dei bisogni e rinegoziazione del pa o di solidarietà
sociale. Non viene messa in discussione solo la retorica neoliberale,
secondo cui l’impresa sociale è una sezione del displacement della
politica del mercato, ma anche la retorica dei “sogge i a ivi”, se
centrata sulla libertà della scelta individuale piu osto che orientata
alla partecipazione al tavolo delle decisioni, in cui il destinatario è
chiamato ad argomentare, a fronte di altre domande, il senso e la
generalità della propria. Marino, che si interroga sul nesso tra etica
ed economia, parte dall’idea che sebbene sembri che solo da poco
anche l’economia abbia rivendicato per sé una paternità etica, in
realtà l’economia è da sempre quaestio interamente etica, e in particolare si concentra sul contributo di Adam Smith e sulla sua più
recente rivitalizzazione, ad esempio, nel liberalismo di Sen. Iacovino
suggerisce un percorso particolare, che non è solo semantico, che va
dall’impresa sociale come ossimoro all’impresa sociale come norma:
fa ore cruciale è la cultura che fa di questa istituzione un sogge o
per la democratizzazione del sociale, oltre che uno spazio di democratizzazione delle relazioni interne. Fiorillo affronta il tema delle
motivazioni che inducono gli individui a fornire lavoro volontario:
esse sono bene identificate in teoria, mentre le loro determinanti empiriche sono ancora poco conosciute. In particolare è investigata una
motivazione di consumo ed una motivazione di investimento nella
scelta di essere volontario, utilizzando un dataset u ciale italiano,
l’Indagine Multiscopo sulla famiglia. Nel modello di investimento,
cruciale è il ruolo dei fa ori sociali e dei fa ori ambientali. Trapanese
si pone nella prospe iva peculiare dell’analisi sociologica e sceglie di
affrontare prima il discorso sul terzo se ore e conseguentemente di
focalizzare l’a enzione sull’impresa sociale: l’idea nasce dalla consapevolezza che è necessario individuare il contenitore di senso generale per poi so olineare le cara eristiche di una delle sue espressioni
concrete. La cornice è, naturalmente, la riforma del welfare segnata
dalla legge 328/00 per cui rilevanti ai fini del discorso sull’impresa
sociale sono il decentramento, la programmazione pluriennale e le
relazioni istituzionali interne al terzo se ore. Verde affronta il tema
della rendicontazione sociale: l’idea di base è che l’impresa sociale,
proprio per le cara eristiche che le assicurano un patrimonio di fiducia e di rispe o da parte dell’opinione pubblica, debbono tener conto
delle decisioni assunte e delle azioni effe ivamente intraprese, forse
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più delle altre imprese. È a questa consapevolezza che occorre ricollegare il vincolo legislativo imposto alle stesse di “descrivere”, di
“misurare” e di “verificare” costantemente le a ività sociali (e non)
poste in essere. Marra propone una riflessione critica, condo a in
base ad una comparazione tra tipologie organizzative, sulle a uali
forme della regolazione e della misurazione della qualità dei servizi
socio-sanitari, al fine di selezionare indicazioni per l’impresa sociale. Essa considera in quale modo i meccanismi regolativi - come, ad
esempio, l’accreditamento e la certificazione - e gli strumenti valutativi ex post contribuiscono a migliorare la qualità delle prestazioni:
il nodo della regolazione è il decentramento non solo dei processi
decisionali, ma anche dei flussi informativi al fine di esercitare concretamente il principio della responsabilità dell’azione pubblica.
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Impresa sociale
e innovazione istituzionale
EFFICIENZA DELLE FORME ORGANIZZATIVE DEL “FARE” IMPRESA SOCIALE: UN CONFRONTO
Adalgiso Amendola, Roberta Troisi
Efficienza delle forme organizzative del “fare”
impresa sociale: un confronto
Adalgiso Amendola, Roberta Troisi
Sommario
1. Premessa - 2. L’evoluzione normativa recente - 3. Le forme organizzative per l’a ività
di impresa sociale: libertà di scelta ed efficienza - 4. Centralità delle risorse umane e forme
cooperative di impresa sociale - 5. Centralità delle risorse umane e forme associative di impresa sociale - 6. Centralità delle risorse di capitale e forme societarie di impresa sociale 7. Conclusioni
1. Premessa
1.1. Nel corso del tempo il terzo se ore è stato interessato in Italia da
una significativa proliferazione di interventi di legislazione speciale,
con finalità prevalentemente (ma non esclusivamente) premiali rispe o ad a ività di utilità sociale. Questa proliferazione normativa
ha determinato un asse o della regolazione del se ore nel quale la
normazione riferita alla forma giuridica delle organizzazioni si intreccia e spesso si sovrappone a quella riferita alle finalità - di utilità
sociale o non - ed alla natura - commerciale o non commerciale - delle a ività svolte.
L’effe o generale, all’a o dell’entrata in vigore della nuova normativa
sull’impresa sociale, era quello di “una forte confusione e segmentazione istituzionale ed organizzativa, che, da un lato, crea la sovrapposizione di diversi criteri regolativi, dall’altro, rischia di vincolare la
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IMPRESA SOCIALE
aprile ~ giugno 2008
flessibilità organizzativa del terzo se ore” (Libro Bianco, 2005, p. 32).
Com’è noto la normativa del Libro I del codice civile è finalizzata alla
normazione dei sogge i: essa regola con specifiche norme una serie
definita di forme giuridico-organizzative (associazioni, fondazioni,
comitati), ma non vincola in alcun modo finalità ed a ività che gli
enti possono perseguire. Nel quadro di una piena libertà di azione, e
senza imporre alcun vincolo di non distribuzione degli utili, il codice si limita a prevedere che siano indicati negli statuti: scopi, a ività,
governance e criteri di erogazione delle rendite.
La successiva regolazione incrementale, d’altro canto, ha dato luogo,
da un lato, alla proliferazione di profili speciali, dall’altro, a nuovi
tipi giuridico-organizzativi con una specifica regolamentazione, in
entrambi i casi quasi sempre collegati al se ore ed alla natura di
interesse pubblico delle finalità e delle a ività. Con ciò di fa o vincolando la libera auto-organizzazione della società civile, a raverso
un frequente legame automatico tra finalità e natura delle a ività e
forma giuridico-organizzativa.
In direzione opposta sembrano andare, invece, sia il d.lgs. 460
4/12/1997: ”Riordino della disciplina tributaria degli enti non commerciali e delle organizzazioni non lucrative di utilità sociale”, sia,
molto più di recente, la legge 13 giugno 2005, n. 118, “Delega al Governo concernente la disciplina dell’impresa sociale”, e regolata dal
successivo d.lgs. 24/03/2006, n. 155. La legislazione fiscale introdo a
dal d.lgs. 460/1997, specie con riferimento alle Onlus, associa, infa i,
il tra amento fiscale favorevole alla finalità di utilità sociale delle
a ività, piu osto che alla specifica forma giuridico-organizzativa
a raverso la quale queste finalità sono perseguite. Ciò pure escludendo le tipologie giuridico-organizzative regolate dal Libro V del
codice civile (società di capitali, società di persone, cooperative, ad
eccezione delle cooperative sociali).
Questa inversione di tendenza è resa ancor più evidente nella nuova disciplina dell’impresa sociale, che ha segnato una significativa
innovazione normativa per il se ore delle organizzazioni nonprofit.
La legge 118 del 13 giugno 2005, infa i, introduce per la prima volta
la possibilità di utilizzo (anche) delle forme societarie per l’esercizio di a ività economiche di utilità sociale, a raverso la disciplina
dell’impresa sociale, definita nel successivo d.lgs. 24 marzo 2006, n.
155. Con ciò ponendo, di fa o, fine alla rigida dicotomia tra enti, da
un lato, ed organizzazioni imprenditoriali, dall’altro, regolati rispettivamente nel Libro I e nel Libro V del codice civile.
EFFICIENZA DELLE FORME ORGANIZZATIVE DEL “FARE” IMPRESA SOCIALE: UN CONFRONTO
Adalgiso Amendola, Roberta Troisi
1.2. Nella regolazione del terzo se ore è dunque in a o il progressivo affermarsi di un principio generale di autonomia sogge iva
nella definizione della forma giuridico-organizzativa desiderata. Il
problema è in che misura questa ampia libertà di scelta della forma
organizzativa, in linea di principio assolutamente condivisibile, sia
destinata a trovare applicazione operativa nel se ore nonprofit. Ma
anche di valutare in che misura l’eventuale non ada abilità di alcune
forme organizzative, ad esempio, di tipo societario, alle a ività di
produzione di beni e servizi di utilità sociale, possa generare, invece, distorsioni nell’accesso corre o alla legislazione premiale e di
valorizzazione prevista per l’impresa sociale. Ciò rende, a nostro avviso, assolutamente cruciale, anche nel campo delle organizzazioni
nonprofit, il problema di individuare criteri e metodi di scelta tra i
diversi tipi di organizzazione che siano economicamente ed organizzativamente e cienti.
Obie ivo generale del presente lavoro è, pertanto, di provare a valutare se questa opzione del legislatore di a ribuire un’ampia libertà di
scelta delle forme organizzative per l’esercizio di a ività nonprofit,
e in particolare di a ività commerciali con finalità di utilità sociale,
sia da considerarsi complessivamente e ciente. A tal fine, facendo
riferimento ad alcune nozioni di economia delle organizzazioni, esamineremo in che misura le principali forme giuridico-organizzative
tra le quali la normativa vigente perme e di scegliere per l’esercizio
di a ività di impresa sociale, si configurano come organizzazioni efficienti, in rapporto ai diversi tipi di a ività di utilità sociale definiti
dalla stessa normativa.
Come si dirà meglio più avanti, tra fa ori essenziali da considerare a
riguardo sono, sia le finalità perseguite, sia la specifica natura dell’attività da realizzare (Grandori, 1999; Hansmann, 1980, 1988, 1990). Si
tra a, appunto, degli stessi fa ori cui si riferisce il criterio funzionale
della regolazione per il terzo se ore per il quale il legislatore sembra avere optato. Un primo passaggio necessario è dunque quello di
provare a me ere a punto una tassonomia delle organizzazioni nonprofit, cioè delle diverse tipologie giuridico-organizzative, previste
dalla normativa vigente, in rapporto alle finalità - di utilità sociale o
non - ed alla natura delle a ività - commerciali o non commerciali.
Per procedere in tal senso si farà riferimento principalmente, ma non
esclusivamente, al d.lgs. 460/1997 “Riordino della disciplina tributaria
degli enti non commerciali e delle organizzazioni non lucrative di utilità sociale”, e al d.lgs. 115/2006 che ha regolato l’impresa sociale.
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Un secondo passaggio, altre anto necessario, è poi quello di provare
ad analizzare il grado di e cienza dei principali tipi di organizzazione che possono svolgere a ività di impresa sociale, in rapporto ad alcune cara eristiche stru urali della specifica a ività svolta.
L’elemento più rilevante da considerare a riguardo è costituito dalle
cara eristiche delle risorse produ ive critiche o strategiche in ragione di ciascuna specifica a ività di produzione di beni e servizi di
utilità sociale (Milgrom, Roberts, 1994; Hansmann, 1988). A livello
di prima approssimazione, stante l’individuazione puntuale che il
legislatore fa delle a ività di utilità sociale, si farà riferimento ad una
distinzione tra a ività commerciali di produzione di beni e servizi
nelle quali il fa ore strategico è il lavoro ed a ività commerciali di
produzione di beni e servizi di utilità sociale nelle quali il fa ore
strategico è il capitale. Con riferimento a questa distinzione, si procederà a valutare comparativamente l’e cienza di alcune tipologie
generali di organizzazioni, susce ibili, in base anche alla normativa
vigente, di svolgere a ività di impresa sociale.
1.3. Il lavoro è organizzato come segue. Nel par. 2 si richiamano
sinteticamente gli aspe i qualificanti della regolazione prevalentemente funzionale di recente introdo a dal legislatore, facendo riferimento principalmente, ma non esclusivamente, al d.lgs. 460/1997
e al d.lgs. 115/2006 che ha regolato l’impresa sociale. Nel par. 3 si
definiscono i contorni di quella che si può definire una tassonomia
funzionale delle forme organizzative e si introducono alcuni conce i
di teoria economica delle organizzazioni utili ai fini dell’analisi e si
chiarisce la nozione di a ività di impresa sociale. Successivamente
si procede ad una valutazione del grado di e cienza di alcuni tipi di
organizzazione che, in base alla normativa, possono svolgere a ività
di impresa sociale, cioè un’a ività di natura commerciale volta alla
produzione di beni e servizi di utilità sociale. Nei par. 4 e 5 si esaminano comparativamente le forme di organizzazione del lavoro di
tipo cooperativo e le forme associative e se ne valuta l’e cienza in
rapporto allo svolgimento di a ività di impresa sociale nelle quali il
lavoro è fa ore strategico. Nel par. 6 si esaminano le forme di organizzazione di tipo societario e se ne valutano i profili di e cienza in
rapporto allo svolgimento di a ività di impresa sociale nelle quali il
fa ore strategico è il capitale. Infine, nel par. 7, si formulano alcune
considerazioni conclusive.
EFFICIENZA DELLE FORME ORGANIZZATIVE DEL “FARE” IMPRESA SOCIALE: UN CONFRONTO
Adalgiso Amendola, Roberta Troisi
2. L’ evoluzione normativa recente
2.1 Come si è de o, due principali fonti legislative a raverso le quali il legislatore ha provveduto a disciplinare gli enti nonprofit sono
il d.lgs. 460/1997 e la l. 118/2005. Si tra a, come è noto, di due a i
normativi molto diversi per contenuti e finalità, comunque entrambi
essenziali per definire la natura e gli ambiti di operatività degli enti
nonprofit e, come si è de o, estremamente consequenziali.
Nel d.lgs. 4/12/1997, 460, come si è de o, l’impostazione prevalente è
che i diversi regimi di agevolazione fiscale debbano essere riferiti alle finalità ed alla natura delle a ività piu osto che alla forma giuridica delle organizzazioni. Per questo motivo, specie con riferimento alle Onlus,
l’a enzione è volta, in primo luogo, alla natura delle a ività, ma come
vedremo, essa si rifle e anche sulla tipologia degli enti. In via di sintesi,
gli enti (in quella sede definiti) non commerciali - da ora nonprofit - risultano suddivisi in qua ro so ocategorie (Amendola, Troisi, 2004).
1. Enti associativi ed enti non associativi, senza scopo di lucro, che
offrono prevalentemente a ività non commerciale sia con soci che
con terzi, ai quali è accreditato un regime agevolativo ordinario. Il
riferimento è ad enti nonprofit costituiti, sia in forma associativa, sia
come fondazioni (prevalentemente cara erizzata da un capitale da
amministrare), sia in forma di comitati. Il regime fiscale è peraltro
stre amente dipendente dalla finalità non commerciale dell’a ività.
2. Associazioni riconosciute e non, senza scopo di lucro, che svolgono
anche a ività commerciale, alle quali è accreditato un regime agevolativo di favore. In questa categoria il legislatore combina il criterio
funzionale con quello sogge ivo. La finalità commerciale dell’a ività è vincolata alla natura associativa dell’ente. La casistica è limitata,
infa i, alle associazioni, riconosciute e non, per le quali il legislatore
concede una significativa deroga ai principi fiscali applicabili in presenza di un’a ività commerciale, in ragione della natura dell’a ività
svolta ed in presenza di una serie di requisiti statutari. Tra i quali
vanno ricordati: il divieto di distribuzione degli utili o avanzi di gestione, l’obbligo di devoluzione del capitale in caso di scioglimento,
la libera eleggibilità degli organi, supportata dal principio del voto
singolo, la sovranità dell’organo assembleare, l’intrasmissibilità della quota, l’obbligo di rendicontazione economica. Si tra a di requisiti che mirano a conferire concretezza ad un ente associativo: non
un semplice nome, ma una vera colle ività di persone liberamente
associate in vista della realizzazione di uno scopo comune. L’idea è
che un’a ività commerciale può essere esercitata solo da una vera
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IMPRESA SOCIALE
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associazione, ricavabile dai suoi contenuti più che riconoscibile da
un’etiche a associativa che possa dissimulare un’eventuale conduzione di mezzi e capitale organizzati alla produzione economica.
Rispe o al tipo di associazioni rientrano in questa categoria: le associazioni politiche, le associazioni sindacali e di categoria, le associazioni culturali, le associazioni sportive e dile antistiche.
3. Enti associativi di promozione sociale, senza scopo di lucro, che
svolgono prevalentemente a ività commerciale sia nei confronti dei
propri associati sia nei confronti di terzi. Anche per questa categoria il legislatore combina il criterio funzionale con quello sogge ivo: l’a ività commerciale comporta determinati benefici fiscali, in
quanto svolta da un particolare tipo di ente associativo. La tipologia
giuridico-organizzativa di riferimento è quella dell’ente associativo
che persegue finalità di promozione sociale a contenuto assistenziale, non rientrante nelle a ività tassativamente individuate per le Onlus (vedi oltre). Dove gli enti di promozione sociale svolgessero, ad
esclusivo vantaggio dei terzi ed in maniera complementare, le a ività tipizzate per le Onlus, esclusivamente per tali a ività fruirebbero
del più favorevole regime fiscale previsto per le Onlus.
4. Organizzazioni non lucrative di utilità sociale (Onlus). Si tra a di
categoria interamente definita sul criterio della finalità - non commerciale - e della natura - di utilità sociale - dell’a ività. Il legislatore,
infa i, riconosce un regime fiscale di particolare favore alle organizzazioni nonprofit che svolgono a ività non commerciali di utilità
sociale (Pe inato, 1999). L’a ività deve essere svolta esclusivamente
a beneficio di terzi, e la sua natura di utilità sociale è tassativamente
1
definita dalla legge. Ai fini della qualifica di Onlus, invece, non asSono organizzazioni non lucrative di utilità sociale (Onlus) le associazioni, i comitati, le fondazioni, le società cooperative e gli altri enti di carattere privato, con o senza personalità giuridica, i cui statuti o atti costitutivi, redatti nella forma dell’atto pubblico o della scrittura privata
autenticata o registrata, prevedono espressamente:
a) lo svolgimento di attività in uno o più dei seguenti settori: assistenza sociale e sociosanitaria; assistenza sanitaria; beneficenza; istruzione; formazione; sport dilettantistico;
tutela, promozione e valorizzazione delle cose d’interesse artistico e storico di cui alla
legge 1 giugno 1939, n. 1089, ivi comprese le biblioteche e i beni di cui al decreto del
Presidente della Repubblica 30 settembre 1963, n. 1409; tutela e valorizzazione della
natura e dell’ambiente, con esclusione dell’attività, esercitata abitualmente, di raccolta e
riciclaggio dei rifiuti urbani, speciali e pericolosi di cui all’articolo 7 del d.lgs. 5 febbraio
1997, n. 22; promozione della cultura e dell’arte; tutela dei diritti civili; ricerca scientifica
di particolare interesse sociale svolta direttamente da fondazioni ovvero da esse affidata
ad università, enti di ricerca ed altre fondazioni che la svolgono direttamente, in ambiti
e secondo modalità da definire con apposito regolamento governativo emanato ai sensi
dell’articolo 17 della legge 23 agosto 1988, n. 400;
1
EFFICIENZA DELLE FORME ORGANIZZATIVE DEL “FARE” IMPRESA SOCIALE: UN CONFRONTO
Adalgiso Amendola, Roberta Troisi
sume alcun rilievo la tipologia giuridico-organizzativa dell’ente: perché una fondazione, un’associazione o anche una cooperativa sociale
possano accedere al regime fiscale previsto per le Onlus è su ciente
lo svolgimento di un’a ività di utilità sociale nei se ori indicati, accompagnato da una serie di requisiti statutari e di governance.
In sintesi dalla le ura del d.lgs. 4/12 /1997, 460 è possibile ricavare le
seguenti indicazioni:
• nessun requisito di forma è richiesto agli enti nonprofit che svolgono a ività non commerciale;
• è richiesta la forma associativa in presenza di a ività commerciale (di un determinato tipo);
• la particolare forma associativa volta ad a ività di promozione sociale può svolgere, come tu e le forme associative, a ività
commerciali, ma con maggiori benefici fiscali;
• nessun requisito di forma è richiesto alle Onlus, a quegli enti cioè
che svolgono a ività di utilità sociale che per definizione non
può essere a ività commerciale.
In sostanza, il legislatore vincola al rispe o della forma associativa
soltanto quegli enti che intendono svolgere un’a ività commerciale,
stabilendo nei casi di a ività non commerciale e di a ività di utilità
sociale il principio della piena neutralità dei tipi utilizzabili, seppure
entro i limiti tipologici definiti nel Libro I del codice civile.
b)
c)
d)
e)
f)
g)
h)
i)
l’esclusivo perseguimento di finalità di solidarietà sociale;
il divieto di svolgere attività diverse da quelle menzionate alla lettera a) ad eccezione di
quelle ad esse direttamente connesse;
il divieto di distribuire, anche in modo indiretto, utili e avanzi di gestione nonché fondi,
riserve o capitale durante la vita dell’organizzazione, a meno che la destinazione o la distribuzione non siano imposte per legge o siano effettuate a favore di altre Onlus che per
legge, statuto o regolamento fanno parte della medesima ed unitaria struttura;
l’obbligo di impiegare gli utili o gli avanzi di gestione per la realizzazione delle attività
istituzionali e di quelle ad esse direttamente connesse;
l’obbligo di devolvere il patrimonio dell’organizzazione, in caso di suo scioglimento per
qualunque causa, ad altre organizzazioni non lucrative di utilità sociale o a fini di pubblica
utilità, sentito l’organismo di controllo di cui all’articolo 3, comma 190, della legge 23
dicembre 1996, n. 662, salvo diversa destinazione imposta dalla legge;
l’obbligo di redigere il bilancio o rendiconto annuale;
disciplina uniforme del rapporto associativo e delle modalità associative volte a garantire l’effettività del rapporto medesimo, escludendo espressamente la temporaneità della
partecipazione alla vita associativa e prevedendo per gli associati o partecipanti maggiori
d’età il diritto di voto per l’approvazione e le modificazioni dello statuto e dei regolamenti
e per la nomina degli organi direttivi dell’associazione;
l’uso, nella denominazione ed in qualsivoglia segno distintivo o comunicazione rivolta al
pubblico, della locuzione “organizzazione non lucrativa di utilità sociale” o dell’acronimo
Onlus.
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2.2. Nel solco di una sostanziale continuità si colloca, come si è detto, anche la legge 118 del 13 giugno 2005, “Delega al Governo concernente la disciplina dell’impresa sociale” ed il successivo d.lgs.
24/03/2006, 155. Il legislatore, infa i, ado ando un criterio di regolazione puramente funzionale, riferito alla finalità - commerciale - ed
alla natura - di utilità sociale - dell’a ività, sancisce il principio della
neutralità delle forme giuridico-organizzative, in un’accezione ancor
più ampia di quanto previsto dal d.lgs. 460/1997. La gamma delle
forme giuridiche compatibili con la qualifica di impresa sociale, infa i, si estende non soltanto agli enti associativi del Libro I del codice civile, ma, con l’eccezione delle cooperative, comprende anche i
tipi associativi del Libro V.
L’a ività d’impresa sociale è definita come un’a ività “economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o servizi di
utilità sociale, dire a a realizzare finalità di interesse generale […]”
(art. 2). Anche questa cara eristica segna una continuità con la disciplina prevista per le Onlus. Il legislatore, infa i declina in un’elencazione tassativa le a ività d’impresa sociale confermando una quasi
totale corrispondenza con le a ività di utilità sociale sancite dal d.lgs.
2
460/197. In sostanza si replica l’utilizzo dello stesso criterio di classifiArt. 2. Si considerano beni e servizi di utilità sociale quelli prodotti o scambiati nei seguenti
settori: a) assistenza sociale, ai sensi della legge 8 novembre 2000, n. 328, recante legge
quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali; b) assistenza
sanitaria, per l’erogazione delle prestazioni di cui al decreto del Presidente del Consiglio dei
Ministri in data 29 novembre 2001, recante “Definizione dei livelli essenziali di assistenza”,
e successive modificazioni, pubblicato nel supplemento ordinario alla Gazzetta Ufficiale n.
33 dell’8 febbraio 2002; c) assistenza socio-sanitaria, ai sensi del decreto del Presidente del
Consiglio dei Ministri in data 14 febbraio 2001, recante “Atto di indirizzo e coordinamento in
materia di prestazioni socio-sanitarie”, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 129 del 6 giugno
2001; d) educazione, istruzione e formazione, ai sensi della legge 28 marzo 2003, n. 53, recante delega al Governo per la definizione delle norme generali sull’istruzione e dei livelli essenziali delle prestazioni in materia di istruzione e formazione professionale; e) tutela dell’ambiente
e dell’ecosistema, ai sensi della legge 15 dicembre 2004, n. 308, recante delega al Governo
per il riordino, il coordinamento e l’integrazione della legislazione in materia ambientale e misure di diretta applicazione, con esclusione delle attività, esercitate abitualmente, di raccolta
e riciclaggio dei rifiuti urbani, speciali e pericolosi; f) valorizzazione del patrimonio culturale,
ai sensi del Codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al decreto legislativo 22 gennaio
2004, n. 42; g) turismo sociale, di cui all’articolo 7, comma 10, della legge 29 marzo 2001,
n. 135, recante riforma della legislazione nazionale del turismo; h) formazione universitaria e
post-universitaria; i) ricerca ed erogazione di servizi culturali; l) formazione extra-scolastica,
finalizzata alla prevenzione della dispersione scolastica ed al successo scolastico e formativo;
m) servizi strumentali alle imprese sociali, resi da enti composti in misura superiore al settanta per cento da organizzazioni che esercitano un’impresa sociale. 2. Indipendentemente
dall’esercizio dell’attività di impresa nei settori di cui al comma 1, possono acquisire la qua2
EFFICIENZA DELLE FORME ORGANIZZATIVE DEL “FARE” IMPRESA SOCIALE: UN CONFRONTO
Adalgiso Amendola, Roberta Troisi
cazione - la natura dell’a ività, segnatamente di utilità sociale - adottato in via esclusiva ed a raverso un’elencazione tassativa di a ività
ivi rientranti, prescindendo dalla natura degli enti.
La neutralità della forma giuridica, però, come de o - ma è essenziale ribadirlo - nella l. 118/2005 si spinge oltre la previsione degli enti
del Libro I e delle forme di organizzazione del lavoro di tipo cooperativo (art. 10 e seguenti del d.lgs. 460/1997). Per la prima volta viene
introdo a la possibilità di utilizzo (anche) delle forme societarie per
l’esercizio di a ività economiche di utilità sociale, definita nel d.lgs.
155/1006. Con ciò si pone, di fa o, fine alla rigida dicotomia tra enti,
da un lato, ed organizzazioni d’impresa, dall’altro, regolati rispe ivamente nel Libro I e nel Libro V del codice civile (Amendola, 2007).
Al contempo, si rafforza il principio generale già espresso di un’ampia autonomia sogge iva nella definizione della forma giuridica.
L’impresa sociale, non sembrerebbe, dunque, configurarsi come una
nuova tipologia giuridico-organizzativa, o come un nuovo tipo di
contra o associativo, ma piu osto come una qualità che possono assumere, in ragione della natura dell’a ività, tu i i tipi di organizzazione economica. È dunque lecito affermare che, d’ora in avanti, sarà
possibile esercitare a ività di impresa sociale - nel senso definito sopra - in forma di associazione, di cooperativa, di società di persone,
di società di capitali, o di fondazione (Amendola, Troisi, 2008).
Va peraltro precisato che, ad una piena libertà nella scelta del tipo di
organizzazione la normativa sull’impresa sociale fa corrispondere
alcuni rilevanti vincoli di governance. Oltre all’ovvio vincolo positivo
di destinazione degli utili, per il quale un’impresa sociale non distribuisce profi i, ma “destina gli utili e gli avanzi di gestione allo svolgimento dell’a ività statutaria o ad incremento del patrimonio “(art.
lifica di impresa sociale le organizzazioni che esercitano attività di impresa, al fine dell’inserimento lavorativo di soggetti che siano: a) lavoratori svantaggiati ai sensi dell’articolo 2, primo
paragrafo 1, lettera f), punti i),ix) e x), del regolamento (CE) n. 2204/2002 della Commissione,
5 dicembre 2002, della Commissione relativo all’applicazione degli articoli 87 e 88 del trattato
CE agli aiuti di Stato a favore dell’occupazione; b) lavoratori disabili ai sensi dell’articolo 2, primo paragrafo 1, lettera g), del citato regolamento (CE) n. 2204/2002. 3. Per attività principale
ai sensi dell’articolo 1, comma 1, si intende quella per la quale i relativi ricavi sono superiori
al settanta per cento dei ricavi complessivi dell’organizzazione che esercita l’impresa sociale.
Con decreto del Ministro delle attività produttive e del Ministro del lavoro e delle politiche sociali sono definiti i criteri quantitativi e temporali per il computo della percentuale del settanta
per cento dei ricavi complessivi dell’impresa. 4. I lavoratori di cui al comma 2 devono essere in
misura non inferiore al trenta per cento dei lavoratori impiegati a qualunque titolo nell’impresa; la relativa situazione deve essere attestata ai sensi della normativa vigente. 5. Per gli enti
di cui all’articolo 1, comma 3, le disposizioni di cui ai commi 3 e 4 si applicano limitatamente
allo svolgimento delle attività di cui al presente articolo.
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IMPRESA SOCIALE
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3, d.lgs. 115/2006), un’impresa sociale deve ado are meccanismi di
governance di tipo democratico, che rispe ino il principio della porta
aperta (art. 9) e prevedano forme di coinvolgimento dei lavoratori e
dei destinatari dell’a ività” (art. 8).
3. Le forme organizzative per l’attività di impresa sociale:
libertà di scelta ed efficienza
3.1. L’evoluzione recente della normativa sul terzo se ore segnala,
dunque, con chiarezza che il legislatore sembra avere optato per una
forma di regolazione basata su un criterio funzionale, riferito cioè
alle finalità ed alla natura delle a ività delle organizzazioni nonprofit, piu osto che su un criterio sogge ivo, riferito cioè alle specifiche
tipologie giuridico-organizzative. Ciò, naturalmente, nel rispe o del
generale vincolo di non distribuzione degli utili, che, per definizione,
cara erizza e distingue le organizzazioni nonprofit. L’opzione è per
una sostanziale libertà di scelta della tipologia giuridico-organizzativa, entro i de ami del Libro I del codice civile, nel caso di a ività
non commerciali (con l’eccezione delle cooperative sociali), comprendendo anche le tipologie organizzative regolate nel Libro V, nel caso
di a ività commerciali - ancorché limitatamente a quelle individuate
come di utilità sociale. Con ciò si stabilisce “un principio generale di
autonomia sogge iva nella definizione della forma giuridica desiderata”, in grado di superare il frequente legame automatico stabilito
tra finalità e forma giuridica, che ha creato vincoli eccessivi alla libera
auto-organizzazione della società civile, di cui si è de o.
A questo punto può essere utile, preliminarmente, un semplice esercizio di classificazione delle diverse tipologie di organizzazioni nonprofit
contemplate dalla normativa, riferito sia alle finalità generali - di utilità
sociale o non - sia alla natura - commerciale o non commerciale - delle
a ività svolte. Ciò allo scopo di disporre di una tassonomia di riferimento, sulla base della quale avviare una riflessione preliminare, ancorché non sistematica, sul grado di e cienza dei diversi tipi di organizzazione nonprofit ado abili per svolgere a ività di impresa sociale.
Sulla base delle indicazioni legislative discusse in precedenza è possibile organizzare gli enti nonprofit secondo un criterio di classificazione funzionale, coerente con l’impostazione altre anto funzionale
della regolazione recente. Esso è basato sui seguenti criteri:
• la natura commerciale o non commerciale dell’a ività; chiarendo che la nozione di a ività commerciale, alla quale qui si fa
EFFICIENZA DELLE FORME ORGANIZZATIVE DEL “FARE” IMPRESA SOCIALE: UN CONFRONTO
Adalgiso Amendola, Roberta Troisi
•
riferimento è quella economica, e dunque non corrisponde alla
nozione giuridica di impresa commerciale; intendendosi per attività commerciale un’a ività imprenditoriale che culmina nella
definizione di un prezzo di mercato realizzata a raverso criteri
di economicità della gestione;
la finalità di utilità sociale o non di utilità sociale dell’a ività,
riferita, a seconda dei profili, alle indicazioni generiche o alle indicazioni tassative contenute nella normativa.
TABELLA 1 - CLASSIFICAZIONE FUNZIONALE DELLE ORGANIZZAZIONI NONPROFIT
Attività commerciale
Utilità
sociale
No utilità
sociale
Att. non commerciale
a) Assoc. impresa sociale
Assoc. non riconosciuta impresa sociale
b)Onlus (eccetto cooperaSocietà capitalistiche impresa sociale tive sociali)
Società di persone impresa sociale
Cooperative sociali tipo A
c) Enti associativi
d)Enti associativi e non
Promozione sociale
associativi
Cooperative sociali di tipo B
La tabella 1 sintetizza, in un certo senso, quella che potremmo definire la tassonomia funzionale del legislatore, nella misura in cui
fa riferimento, come si è de o, sia alla natura, commerciale o non
commerciale, sia alle finalità - di utilità sociale o no - dell’a ività. Da
essa emerge un quadro cara erizzato fondamentalmente da due elementi. Il primo è che appare evidente la grande libertà di forme che
il legislatore abbina all’obie ivo di utilità sociale, riconoscendo: (i)
in presenza di a ività non commerciale un’ampia libertà di utilizzo
di tu e le forme organizzative previste dal Libro I del codice civile
(quadrante II); (ii), nel caso di a ività commerciali, una completa
libertà di scelta della forma organizzativa, estesa anche alle tipologie
giuridico-organizzative previste nel Libro V (quadrante I). Il secondo è che, d’altro canto, quando non sia ravvisabile una finalità di utilità sociale - puntualmente individuate nella normativa - il criterio
sogge ivo sembra prevalere su quello funzionale. Ciò nel senso che
è sopra u o alla tipologia della forma organizzativa in sè che sembra associarsi, se del caso, un qualche regime di premialità o di favor
legislativo. Un’opzione questa che vale sia per le a ività commerciali (quadrante III), sia per le a ività non commerciali (quadrante IV).
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Questo lavoro si sofferma essenzialmente sull’a ività di impresa sociale, cioè sull’esercizio di un’a ività economica volta ad impiegare,
secondo una data tecnologia, risorse per la produzione di beni e servizi di utilità sociale che vengono ceduti ad un determinato prezzo
- i cui criteri di determinazione dipendono dal contesto del mercato
in cui si opera. Il riferimento, pertanto, sarà alle forme organizzative riportate nel quadrante I; cioè a tu e le forme organizzative che,
in base alla normativa vigente, possono svolgere a ività di natura
commerciale con finalità di utilità sociale.
3.2. Secondo una nozione largamente condivisa in le eratura una
“organizzazione e ciente” può essere considerata come l’insieme
dei diri i degli a ori - diri i di uso, di decisione, di monitoraggio,
di appropriazione del residuo - e cientemente allocati secondo la
natura delle a ività, le cara eristiche delle risorse e la tecnologia
(Grandori, 1999). Questa definizione è complementare e per certi
versi integra, la nozione di organizzazione implicitamente utilizzata
da Hansmann in tema di scelta e ciente tra diversi tipi di organizzazione (Hansmann, 1980, 1988, 1990). Com’è noto, il presupposto
del ragionamento di Hansmann è che, dal punto di vista economico
ed organizzativo - oltre che giuridico - l’elemento essenziale che differenzia i diversi tipi di organizzazione va individuato nel criterio
di a ribuzione del diri o di proprietà a sogge i che sono in rapporto diverso con l’organizzazione. In particolare il diri o di proprietà
può essere a ribuito alle diverse tipologie di patron (o associati), cioè
a sogge i con i quali l’organizzazione sviluppa con maggiore sistematicità e frequenza rapporti di transazione, perché essi possono
conferire il capitale (gli investitori), il lavoro (i lavoratori) o essere
fornitori o clienti dell’organizzazione, nell’o ica di minimizzare i costi associati alle transazioni con questi agenti (Hansmann, 1988).
Combinando i due approcci, un’organizzazione è dunque una particolare modalità di allocazione di diri i di natura diversa - e quindi
non solo e non necessariamente diri i di proprietà - ad agenti di
natura diversa, date le finalità dell’a ività e le risorse necessarie (o
strategiche) per la loro realizzazione. L’individuazione di modalità
e cienti di allocazione dei diri i e di e cienti stru ure di governo
delle transazioni - cioè dei tipi di relazioni contra uali esplicite o
implicite che le regolano - dipende, in primo luogo, dalla natura e
dal tipo di a ività e dalla consequenziale sistematicità dei rapporti
di transazione tra alcune categorie di agenti e l’organizzazione. Nel
caso delle organizzazioni nonprofit è tu avia opportuno tener conto
EFFICIENZA DELLE FORME ORGANIZZATIVE DEL “FARE” IMPRESA SOCIALE: UN CONFRONTO
Adalgiso Amendola, Roberta Troisi
anche degli ulteriori vincoli normativi che interessano questo tipo
di enti, considerando, oltre alla natura dell’a ività, le risorse che risultano strategiche per lo svolgimento di queste a ività, le finalità
di utilità sociale e, sopra u o, il vincolo di non distribuzione degli
utili.
La principale questione che si affronta in questo lavoro può essere,
pertanto, così riformulata. Si tra a di provare a valutare quali sono
le forme giuridico-organizzative più e cienti: (i) per lo svolgimento
di determinate a ività di impresa; (ii) a raverso le quali si persegue un obie ivo di utilità sociale e (iii) rispe o alle quali è stabilito
un vincolo di non distribuzione degli utili. Il riferimento è, come
è ovvio, sopra u o alle forme giuridico-organizzative individuate
nel primo quadrante della tabella 1, e segnatamente: le cooperative
sociali, le associazioni - riconosciute e non riconosciute -, le società
di persone e di capitali.
A livello di prima approssimazione in questo lavoro si procede per
schemi ancora generali. Il metodo di analisi consiste nel provare a
valutare comparativamente il grado di e cienza (relativa) delle diverse forme giuridico-organizzative in rapporto allo svolgimento
di determinati tipi di a ività di impresa sociale. Il criterio di valutazione si basa, in primo luogo, sull’individuazione di quali fa ori
produ ivi possono ragionevolmente considerarsi strategici, o critici,
per una data tipologia di a ività, sulla base di alcune cara eristiche
3
generali dell’a ività stessa.
Ora, il quadro delle a ività considerate di utilità sociale è definito,
come si è de o, dalla normativa dall’art. 10 della legge 460/1997, per
le Onlus, che svolgono prevalente a ività non commerciale, e dall’art.
2 del d.lgs. 118/2005, per gli enti che possono svolgere a ività di im4
presa sociale. Si tra a, come è stato notato, prevalentemente, anche
se non esclusivamente, di a ività volte all’erogazione di servizi ed
alla produzione di beni socio-sanitari ed educativi. Quasi sempre la
finalità di utilità sociale è associata ad a ività di fornitura di servizi,
nelle quali il fa ore di produzione strategico risulta essere, con tu a
evidenza, il lavoro, nelle quali cioè sono sopra u o le risorse umane a
configurarsi come risorsa critica. In un minor numero di ipotesi, come,
Un ulteriore approfondimento delle considerazioni che seguono, in corso di realizzazione,
procederà sulla base dell’esame di dettaglio delle singole attività, attraverso l’analisi di case
study di gestione concreta di attività di utilità sociale.
4
Ricordiamo che il legislatore prevede tassativamente le attività di utilità sociale realizzabili
(per le Onlus vedi art. 10 legge 460/1997 in nota 1, per l’impresa sociale art. 2, legge 118/2005
in nota 2).
3
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IMPRESA SOCIALE
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ad esempio, nelle a ività di valorizzazione del patrimonio artistico e
culturale - o nei casi di a ività d’impresa sociale non vincolati nei contenuti, ma nell’obbligo d’inserimento di sogge i svantaggiati - può
essere invece il capitale a rappresentare una risorsa critica. In questi
casi si tra erebbe di “organizzazioni” produ rici di beni e/o servizi
di utilità sociale, che comportano la gestione di risorse con costi fissi
elevati e producono output di alto valore aggiunto, oppure di a ività
commerciali che, per la loro natura, vanno affrontate a raverso l’impegno di capitali rilevanti, o comunque strategicamente più rilevanti
delle risorse umane (Mori, 2008).
Com’è noto, nell’ambito dell’economia dell’organizzazione, e in particolare secondo l’approccio di Hansmann, richiamato in precedenza, la scelta (e ciente) tra i diversi tipi di organizzazione, dipende,
in primo luogo, dalla natura dell’a ività e in particolare dalla natura
dei fa ori e delle risorse che risultano strategiche data la “funzione
di produzione”. Ad esse si conne ono, infa i, i criteri di allocazione
dei diri i (non solo di proprietà) agli associati (o patron) e le forme
di governo delle transazioni più e cienti, nella misura in cui minimizzano la somma dei costi di proprietà e dei costi di transazione
(Hansmann, 1988). Aggiungendo un ulteriore tassello alla tassonomia funzionale proposta nella tabella 1, si procederà pertanto, indagando in successione sulle forme organizzative più e cienti: (i) in
presenza di a ività commerciali, vincolate alla non distribuzione degli utili, con finalità di utilità sociale, nelle quali il fa ore strategico
è il lavoro; (ii) in presenza di a ività commerciali, sempre vincolate
alla non distribuzione degli utili e con finalità di utilità sociale, nelle
quali il fa ore strategico è il capitale.
Per le ragioni di seguito esposte, per le a ività del primo tipo si farà
riferimento alle forme associative e segnatamente alle cooperative
sociali, esaminate nel par. 4, ed alle associazioni riconosciute e non
riconosciute, esaminate nel par. 5. Per le a ività del secondo tipo si
farà riferimento alle forme societarie di tipo capitalistico, prese in
considerazione nel par. 6. Sempre nel par. 6 brevi osservazioni saranno dedicate, riservandoci futuri ulteriori sviluppi, all’ipotesi in
cui sia il capitale che le risorse umane rappresentano fa ore strategicamente rilevante.
EFFICIENZA DELLE FORME ORGANIZZATIVE DEL “FARE” IMPRESA SOCIALE: UN CONFRONTO
Adalgiso Amendola, Roberta Troisi
4. Centralità delle risorse umane e forme cooperative di
impresa sociale
4.1. Da uno sguardo d’insieme alla le eratura sulle cara eristiche
delle a ività di fornitura di servizi di utilità sociale, quasi sempre ad
alta intensità di capitale umano, emerge che ad esse si associano in
genere problemi di azione nascosta, connessi al fa o che il capitale
umano è la risorsa critica (strategica). Essi derivano dalla di coltà
di controllare la prestazione del lavoratore (Ben-Ner, 1986; Borzaga,
2003; Ortmann, 1996; Salamon, Anheier, 1997; Musella, Troisi, 2007).
Com’è noto, infa i, i servizi di utilità sociale sono, per propria natura, multidimensionali, di di cile misurabilità e non standardizzabili. Sinteticamente, si ricorda che all’utilità sociale del servizio ed alle
sue cara eristiche si associano vari tipi di asimmetrie informative,
tra cui, in particolare, l’esistenza di vantaggi informativi dei lavoratori rispe o all’organizzazione, conseguenza dell’incompletezza dei
contra i di lavoro (Borzaga, 2000). La multidimensionalità del servizio, la non standardizzabilità, la non programmabilità, l’erogazione
ad hoc rendono complesso sia il monitoraggio dell’effort dei lavoratori che del risultato, con la conseguente possibilità di comportamenti
opportunistici.
In presenza di a ività in cui le risorse umane sono risorsa critica, ma
non controllabile, il contenuto dei contra i che regolano le transazioni di lavoro non può limitarsi ad elementi di assicurazione (Knight,
1921) o a zone d’indifferenza basate sull’allocazione di diri i alla remunerazione a fronte di doveri di prestazione (non controllabili!)
(Simon, 1947). Diventa, invece, più e ciente disegnare stru ure di
governo delle transazioni di lavoro di tipo associativo. La forma, è
quella di contra i associativi, che prevedano una condivisione più
o meno estesa dei diri i reali di utilizzo dell’organizzazione, comprensivi di un diri o di proprietà con cara eristiche, si vedrà specifiche, legate al divieto di distribuzione degli utili.
È questo il caso delle cooperative sociali, nelle quali i soci lavoratori,
in quanto tali, sono appunto titolari di diri i reali sull’organizzazione, tra i quali il diri o di proprietà, configurandosi così una tipologia
di organizzazione in cui la proprietà è a ribuita ai patron che conferiscono all’organizzazione le risorse umane (Hansmann, 1988). Sul
piano dell’e cienza della governance, in questo contesto, se lo status
di socio lavoratore è disciplinato in un contra o che sappia allocare
in maniera e ciente i diri i ad esso connessi, come si vedrà meglio
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IMPRESA SOCIALE
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in seguito, i costi di transazione connessi ai problemi di azione nascosta e di asimmetria informativa ex post, dei quali si è de o, possono risultare sensibilmente rido i (Brosio, 1995). Con parole diverse:
laddove viene meno la possibilità di controllare la performance, sia
come comportamento che come esito del comportamento, il controllo cambia i suoi connotati da processo di monitoraggio a processo di
minimizzazione delle divergenze in tema di obie ivi (Ouchi, 1979).
4.2. Soffermiamoci sulle cara eristiche del contra o associativo nelle cooperative sociali. Esso prevede l’allocazione in testa ai soci lavoratori di un diri o reale di utilizzo dell’organizzazione che non
corrisponde pienamente ad un diri o di proprietà, non perlomeno
secondo la nozione prevalente, secondo la quale il diri o di proprietà su un’organizzazione economica comporta, sia un diri o al
5
controllo sia un diri o all’appropriazione del residuo. La ragione
è molto semplice: tra i vincoli imposti dal legislatore per lo svolgimento di a ività nonprofit c’è, come de o, il divieto di distribuzione
6
degli utili. Ne consegue che in un’organizzazione nonprofit, in testa
agli associati titolari del diri o di proprietà viene a mancare il diritto ad appropriarsi del residuo, che secondo l’approccio prevalente,
costituisce il principale incentivo all’esercizio del controllo (Alchian,
Demsetz, 1971; Coase, 1960, 1937).
Ciò ha alcune implicazioni rilevanti nel caso dei contra i associativi
di tipo cooperativo. La prima implicazione riguarda il fa o che, a
parità di condizioni, potrebbe venir meno un importante incentivo
al controllo dell’organizzazione, con un conseguente aumento dei
costi di transazione connessi a situazione di asimmetria informativa ex post (azione nascosta). Va rilevato, peraltro, che nelle organizzazioni di tipo cooperativo, in genere, l’incentivo individuale al
controllo sarebbe già rido o in ragione del numero eventualmente
elevato di soci lavoratori, che genererebbe un problema di azione
colle iva (Olson, 1973).
La seconda implicazione si riferisce, invece, all’incentivo all’effort
del socio lavoratore. Si può, infa i, argomentare che, in presenza di
Secondo Hansmann (1988) la proprietà reca con sé il diritto di controllo dell’effort o degli
esiti dell’effort del capitale umano perché (anche) da questo dipende il risultato reddituale
d’impresa, dunque la corresponsione di utili. Il diritto di controllo è strumentale al diritto
all’appropriazione del residuo ed, in un circolo virtuoso, è il diritto all’appropriazione del residuo a legittimare la titolarità del diritto di controllo.
6
Si ricorda che al divieto di distribuzione degli utili si può “limitatamente” derogare, attraverso
il riconoscimento statutario del ristorno, cioè di una limitata percentuale degli utili commisurata alla quantità del lavoro profuso, distribuita a titolo di maggiorazione salariale. Sui problemi
che solleva la natura del ristorno si rinvia a Musella, Troisi (2007).
5
EFFICIENZA DELLE FORME ORGANIZZATIVE DEL “FARE” IMPRESA SOCIALE: UN CONFRONTO
Adalgiso Amendola, Roberta Troisi
un vincolo di distribuzione degli utili, i soci lavoratori potrebbero
essere, a parità di condizioni, meno incentivati ad una prestazione
lavorativa o imale. Un aumento dell’impegno dei lavoratori, infa i,
accrescendo la produ ività del lavoro inciderebbe positivamente sui
risultati d’impresa e quindi sui profi i. Ma se i profi i non possono
essere distribuiti ai soci lavoratori è evidente che questo meccanismo di incentivo verrebbe a mancare. Anche in questo caso va tu avia precisato che, in presenza di un numero elevato di soci lavoratori
l’incentivo della partecipazione agli utili sarebbe poco e cace, sempre a causa di problemi di azione colle iva. Si può dunque argomentare che, quando, come nelle organizzazioni nonprofit il diri o
di proprietà non è completo, perché non comprende il diri o ad appropriarsi del residuo, i meccanismi di incentivo, sia al controllo che
all’effort lavorativo, devono derivare da contenuti diversi del diri o
reale di uso dell’organizzazione.
Riteniamo vi siano due articolazioni importanti di questo diri o che
possono supplire all’assenza del diri o alla distribuzione degli utili.
A ben guardare i soci lavoratori di una cooperativa sociale, nella loro
posizione di proprietari dell’organizzazione, sono titolari, innanzitu o, di un diri o di partecipazione alla gestione dell’organizzazione (diri o al controllo). Questo diri o presenta due cara eristiche:
(i) si esprime a raverso il voto capitario (una testa un voto), perché
la crucialità del lavoro di ognuno, l’essere cioè tu i risorsa critica per
le cooperative sociali, consente il conferimento di pari dignità nelle
dinamiche assembleari: la decisione colle iva è la somma di decisioni individuali; (ii) comporta, in conseguenza di ciò, che l’assunzione
dei rischi di impresa, connessi alle decisioni ado ate, sia uguale per
tu i; (iii) implica che i soci lavoratori, a raverso l’esercizio di questo
diri o, possono contribuire alle scelte di gestione dell’organizzazione, e, su tu e, possono determinare, a raverso la stima della retribuzione, il valore del proprio lavoro. Essi sono, inoltre, titolari di un diri o di proprietà uguale ed indiviso sui mezzi di produzione, il che
comporta - per le ragioni che seguono - costi di rischio connessi alla
proprietà dei mezzi di produzione egualmente elevati in capo a tu i
i soci lavoratori, e non riferibili pro quota, come nelle organizzazioni
di proprietà dei capitalisti, al valore dei conferimenti effe uati. Nella posizione di lavoratori, infine, i soci lavoratori di una cooperativa
sociale sono titolari di un diri o alla remunerazione - a fronte di un
dovere di prestazione - di norma secondo una relazione contra uale
di lavoro subordinato.
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4.3. Su queste basi, la forma organizzativa della cooperativa sociale si può configurare, dunque, come una rete di contra i associativi che comportano l’a ribuzione ai lavoratori di diri i reali di uso
dell’organizzazione, declinati in un diri o di partecipazione e in un
diri o di proprietà colle ivo sui mezzi di produzione. Questa configurazione assume rilevanza in considerazione del fa o che stiamo
considerando a ività di natura commerciale - nel senso indicato in
precedenza - e dunque a ività che impiegano risorse per produrre e
cedere ad un determinato prezzo di mercato beni e servizi di utilità
sociale. Si tra a naturalmente di a ività la conduzione delle quali
impone criteri di economicità di gestione, in assenza dei quali le organizzazioni economiche che le svolgono sono esposte al rischio di
7
fallimento.
Esaminiamo le conseguenze del fallimento sui soci lavoratori. In
primo luogo, in qualità di soci, la perdita della titolarità del diri o
di uso dell’organizzazione comporterebbe la perdita del diri o di
proprietà colle ivo sui mezzi di produzione, con un conseguente
danno patrimoniale che sarebbe di uguale valore per tu i i soci. A
differenza che nelle organizzazioni di proprietà dei capitalisti/investitori - nelle quali l’a ribuzione del diri o di proprietà a questa
tipologia di associati è giustificata proprio dalla riduzione dei costi
di rischio permessa dalla possibilità di differenziare l’investimento
- nel caso di una cooperativa (sociale) il fallimento si tradurrebbe in
una perdita del valore del capitale uguale per tu i i soci lavoratori.
Ciò comporta, nel linguaggio della teoria dei costi di transazione,
elevati costi di proprietà connessi al rischio e ciò implicherebbe, per
questo specifico aspe o, una valutazione negativa sul grado di e cienza di questa forma di organizzazione.
C’è tu avia da valutare il fa o che il rischio di perdita dell’intero
valore del capitale, può costituire, per ciascun socio lavoratore un
potente incentivo, non solo all’effort ed alla produ ività del lavoro,
ma anche all’esercizio del controllo della gestione dell’organizzazione. E ciò, sempre nel linguaggio della teoria dei costi di transazione,
determinerebbe una riduzione, sia dei costi di transazione connessi
ad asimmetrie informative ex post (azione nascosta), sia dei costi di
proprietà connessi al diri o di controllo.
In secondo luogo, in qualità di lavoratori, i soci lavoratori di una
cooperativa sociale, in caso di fallimento perderebbero ovviamente
Per fallimento s’intende lo stato d’insolvenza che conduce alla morte d’impresa, indipendentemente dalle scelte del legislatore di adottare tipologie diverse di procedure concorsuali.
7
EFFICIENZA DELLE FORME ORGANIZZATIVE DEL “FARE” IMPRESA SOCIALE: UN CONFRONTO
Adalgiso Amendola, Roberta Troisi
il lavoro. Tu avia essi subirebbero un danno ulteriore, superiore alla
semplice perdita della retribuzione ed indipendente dall’eventuale
differenziale retributivo, nel caso di riassunzione presso un’impresa
profit. Essi, infa i, perderebbero definitivamente la facoltà di determinare il valore del proprio lavoro, che discende dal diri o di partecipazione alla gestione dell’organizzazione, del quale i soci lavoratori di una cooperativa, come si è de o, sono titolari.
Se queste osservazioni sono valide, si può ragionevolmente ipotizzare
che, a parità di condizioni, il socio lavoratore a cui è a ribuito, sulla
base di un contra o associativo, un diri o reale di uso dell’organizzazione con le cara eristiche sopra menzionate, è fortemente incentivato
a contribuire alla sopravvivenza ed alla stabilità dell’organizzazione,
anche in assenza della possibilità di percepire gli utili.
Ora, sopra u o nel se ore nonprofit e in presenza di finalità di utilità sociale, sopravvivenza e stabilità sono cara eristiche essenziali
8
per due ragioni:
• un’organizzazione nonprofit che svolge un’a ività commerciale
con finalità di utilità sociale, può anche non essere impresa lucrativa, nel senso del perseguimento del massimo profi o; essa
tu avia, in quanto forma di esercizio di a ività di impresa, è comunque vincolata a modalità di economicità di gestione, e ad
obie ivi di sostenibilità e di stabilità economica dell’a ività di
produzione;
• un’organizzazione nonprofit che svolge a ività commerciale con
finalità di utilità sociale, produce beni e servizi di interesse collettivo - ancorché non beni pubblici - a vantaggio della colle ività o
di gruppi di sogge i, che rientrano gli stakeholder dell’organizzazione; colle ività e stakeholder possono avere interesse, non solo
alla qualità, ma anche alla stabilità nel tempo della produzione
del bene o del servizio di utilità sociale, cioè alla sopravvivenza
dell’organizzazione.
Alla luce di queste osservazioni, possiamo ragionevolmente concludere che, sopra u o quando la risorsa critica è il capitale umano,
quella cooperativa può essere una forma di organizzazione e ciente per svolgere un’a ività di natura commerciale, con finalità di utilità sociale, quando vige il divieto di distribuzione degli utili.
8
Sul diritto/dovere di sopravvivenza si rinvia a Musella, Troisi (2007).
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IMPRESA SOCIALE
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5. Centralità delle risorse umane e forme associative di
impresa sociale
5.1. Si tra a ora di valutare se, oltre alla forma cooperativa di organizzazione fondata su contra i associativi con le cara eristiche
descri e, siano ipotizzabili come e cienti anche forme associative
di organizzazione fondate sempre su contra i associativi, nei quali,
tu avia, i diri i sono allocati in modo diverso. È questo il caso delle
associazioni, riconosciute e non riconosciute. Una cara eristica di
queste forme di organizzazione è che esse si basano su un tipo di
contra o di associazione che separa ne amente la posizione di associato da quella di lavoratore, a ribuendo al primo ed al secondo
9
diri i reali di uso dell’organizzazione secondo disciplinari diversi.
Per valutare le implicazioni che ciò può avere in termini di e cienza
è opportuno partire dalla considerazione del tipo di a ività di utilità
sociale. Il riferimento è sempre ad a ività di natura commerciale con
finalità di utilità sociale nelle quali il lavoro è la risorsa strategica.
Il fa o che le risorse umane siano fa ore strategico è rilevante per
due motivi: il primo riguarda il problema, già segnalato precedentemente, di non controllabilità della performance dei lavoratori e dei
risultati della prestazione, il secondo, più immediato, ma altre anto
importante (su cui ci soffermeremo in seguito), riguarda il fa o che
il capitale non sia, per esclusione, fa ore strategico rilevante.
Nel caso delle associazioni, stante la separatezza tra lo status di associato e quella di lavoratore, la stru ura di governo delle transazioni
di lavoro è quella propria dei contra i di lavoro subordinato. Come
è stato notato, quando il capitale umano è risorsa critica, questa
stru ura di governo risulta in generale meno e ciente dei contra i
associativi di tipo cooperativo esaminati in precedenza (Hansmann,
1980). In presenza dei problemi di azione nascosta e di di coltà
di controllo della prestazione - che, come si è de o, cara erizzano
le a ività di produzione di beni e servizi di utilità sociale - risulta,
infa i, particolarmente arduo il disegno di contra i di lavoro subordinato su cientemente completi da eliminare o ridurre i costi di
transazione ad essi connessi (Milgrom, Roberts, 1994). Una soluzione alternativa, più perseguibile, è quella di dare enfasi a meccanismi
d’incentivo extramonetari, basati sull’allineamento degli obie ivi individuali dei lavoratori subordinati con gli obie ivi colle ivi dell’or9
Il Libro I c.c. prevede lo status di associato, ma non anche quello di lavoratore subordinato
per il quale si rinvia alla disciplina prevista all’art. 2094 c.c. e seguenti leggi speciali in materia.
EFFICIENZA DELLE FORME ORGANIZZATIVE DEL “FARE” IMPRESA SOCIALE: UN CONFRONTO
Adalgiso Amendola, Roberta Troisi
ganizzazione (Ouchi, 1979). Nel se ore nonprofit il disegno di simili
meccanismi di incentivo sembrerebbe a maggior ragione realizzabile appunto perché: (i) l’a ività di impresa è finalizzata ad obie ivi
di utilità sociale, piu osto che ad obie ivi di massimizzazione dei
profi i e (ii) vige il vincolo di non distribuzione dei profi i.
5.2. Per approfondire questo aspe o, si consideri l’elemento specifico che, oltre al vincolo di non distribuzione dei profi i, dovrebbe
cara erizzare un’associazione che svolge a ività di impresa sociale.
L’art 8 del d.lgs. 115/2006 vincola tu e le forme giuridico-organizzative che possono svolgere a ività di impresa sociale - e quindi anche le associazioni - a modelli di governance che prevedano forme
di coinvolgimento nelle decisioni, sia dei destinatari dell’a ività, sia
dei lavoratori. Coerentemente con queste prescrizioni di governance, dobbiamo pertanto ipotizzare che, in un’associazione che svolge
a ività di impresa sociale, i lavoratori subordinati possano intervenire sugli obie ivi di utilità sociale perseguiti, a raverso specifiche
forme di partecipazione a talune decisioni rilevanti per la gestione
dell’organizzazione. Questa particolare forma del contra o di lavoro subordinato, che possiamo definire di lavoro e partecipazione,
determinerebbe la seguente allocazione di diri i ai lavoratori:
• un diri o alla remunerazione a fronte di un dovere di prestazione lavorativa, secondo il tradizionale schema dei contra i di
lavoro subordinato (o forme similari);
• un diri o di partecipazione alle decisioni più o meno limitata.
A ben guardare, con queste cara eristiche, la stru ura di governo
delle relazioni di lavoro in un’associazione che svolge a ività di impresa sociale, si presenta più e ciente di quella che si avrebbe altrimenti. E ciò per motivi analoghi, ma non identici, a quelli esaminati
nel caso delle cooperative sociali. Nei contra i di lavoro subordinato
o parasubordinato, infa i, le questioni di problemi di asimmetria
informativa ex post - conseguenti alle di coltà di monitorare le prestazioni dei lavoratori - sono affrontate operando sulla durata dei
contra i o sul disegno dei meccanismi di incentivo monetario. Ma,
come si è de o, è estremamente di cile disegnare contra i di lavoro su cientemente completi da annullare o ridurre fortemente i
costi di transazione. L’allocazione dei diri i che si ha nel contra o
di lavoro e partecipazione, aggirando il problema del disegno o imale degli incentivi monetari, introduce, per converso un potente
meccanismo di incentivo extramonetario. Esso è costituito dal diri o
di partecipazione alle decisioni, e, specie in presenza di finalità di
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IMPRESA SOCIALE
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utilità sociale, può rappresentare un strumento molto e cace per
favorire e perseguire l’allineamento degli obie ivi individuali dei lavoratori subordinati con gli obie ivi colle ivi dell’associazione.
In un’associazione che svolge a ività di impresa sociale, gli associati, analogamente ai soci lavoratori delle cooperative sociali, sono
titolari di quello che abbiamo definito un diri o reale di uso dell’organizzazione, che rifle e l’incompletezza del diri o di proprietà che
si ha in presenza di vincoli di non distribuzione dei profi i. Nel caso
delle associazioni, tu avia, è necessario distinguere tra le associazioni riconosciute, che assumono personalità giuridica propria, distinta
da quella degli associati, e le associazioni non riconosciute, per le
quali non emerge invece una personalità giuridica dell’organizza10
zione distinguibile da quella degli associati.
Nelle associazioni riconosciute, il diri o reale di uso dell’organizzazione, del quale sono titolari gli associati, consiste essenzialmente
nel diri o di controllo, cioè nel diri o di partecipazione alla gestione
dell’organizzazione. Esso comprende, e ciò è significativo, il diri o
di definire le forme di partecipazione dei lavoratori e, naturalmente, degli stessi associati, ma non comporta un diri o di proprietà
sui mezzi di produzione, dei quali è titolare l’associazione, ma non i
singoli associati. Nelle associazioni non riconosciute, il diri o reale
di uso dell’organizzazione si articola, invece, in: (i) un diri o di controllo e di partecipazione alla gestione dell’organizzazione, del tu o
analogo; (ii) un diri o di proprietà sui mezzi di produzione utilizzati dall’associazione (che non ha personalità giuridica propria).
In generale il diri o d’uso dell’organizzazione, di cui sono titolari gli
associati, non potendo, come sappiamo, prevedere diri i all’a ribuzione del residuo,11 si limita a prevedere un diri o di definizione degli obie ivi generali dell’organizzazione - tra cui, a differenza, delle
cooperative, la determinazione del valore del lavoro altrui - e, per
questa strada, la determinazione delle forme di partecipazione alle
decisioni da parte dei lavoratori. Ora, è possibile considerare che gli
associati esprimono, per certi versi, la costituency dell’associazione,
nella misura in cui promuovono e perseguono, anche a raverso attività di impresa sociale, specifiche finalità di utilità sociale. Il diri o
Si veda, per le associazioni riconosciute la disciplina prevista dal c.c. dall’art. 14 all’art. 35,
e, per le associazioni non riconosciute, la disciplina prevista dall’art. 36 all’art. 42.
11
L’associato, anche in veste di amministratore o di consigliere, svolge prestazioni normalmente gratuite, salvo il rimborso delle spese debitamente documentate sostenute in nome e
per conto dell’associazione e/o per l’assolvimento di uno specifico incarico, ove preventivamente autorizzate dall’assemblea.
10
EFFICIENZA DELLE FORME ORGANIZZATIVE DEL “FARE” IMPRESA SOCIALE: UN CONFRONTO
Adalgiso Amendola, Roberta Troisi
di controllo, ed il connesso diri o di determinazione delle modalità di partecipazione dei lavoratori, costituiscono indubbiamente un
modo che può essere molto e cace per favorire l’allineamento degli obie ivi individuali dei singoli associati e dei lavoratori, con gli
obie ivi dell’organizzazione. Non sembrano, tu avia, ravvisabili in
questa forma di allocazione dei diri i di proprietà ulteriori meccanismi di incentivo a i a contribuire al buon funzionamento dell’organizzazione.
Va rilevato a riguardo che, come si è de o, lo svolgimento di un’a ività commerciale che abbia finalità di utilità sociale, a parità di condizioni, dovrebbe facilitare l’allineamento degli obie ivi di utilità
individuale con quelli colle ivi dell’organizzazione. Ciò in primo
luogo perché, per vincolo normativo, è richiesta l’adozione di forme
di governance nelle quali siano previste forme di partecipazione alle
decisioni, non solo dei lavoratori subordinati, ma anche dei destinatari dei beni e dei servizi di utilità sociale prodo i. Tu avia è probabile che questo indubbio vantaggio non sia su ciente a rendere
completi contra i di associazione nei quali, l’assenza del diri o ad
appropriarsi del residuo, non risulta compensata, a differenza che
nelle cooperative sociali, dal riconoscimento di altri diri i reali. Ciò
ingenera, di conseguenza, in testa agli associati, minori incentivi ad
esercitare un controllo sull’organizzazione, che ne garantisca il buon
funzionamento e la stabilità nel tempo.
5.3. Vale la pena di approfondire queste riflessioni, esaminando, analogamente a quanto abbiamo fa o per le cooperative sociali, quali
sono i rischi degli associati in caso di fallimento dell’associazione
per insolvenza legata all’a ività commerciale che svolge. Ora, il fallimento comporta la risoluzione del contra o associativo e di conseguenza la perdita della titolarità dei diri i reali ad esso connessi.
In particolare gli associati perdono diri o di partecipazione alla gestione dell’organizzazione, ma non anche, stante la separazione tra
status di associato e status di lavoratore subordinato, la retribuzione.
Inoltre, in rapporto all’essere l’associazione riconosciuta o non riconosciuta, gli associati, potrebbero sopportare perdite corrispondenti
al valore dei mezzi di produzione. Peraltro sopportano questo tipo
di rischio solo se i beni non sono a ribuiti all’organizzazione - come
nel caso delle associazioni non riconosciute - ed in ogni caso, si tratterà, come de o precedentemente, di beni di valore limitato poiché
la forma associativa di organizzazione del lavoro, non presuppone
la presenza di un capitale di rilievo, ma al contrario fa delle risorse
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IMPRESA SOCIALE
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umane la risorsa strategica. È pertanto ragionevole concludere che,
nel caso di ca iva gestione dell’a ività commerciale svolta, per gli
associati, il rischio patrimoniale è del tu o assente, nel caso delle associazioni riconosciute, o comunque molto contenuto, nel caso delle
associazioni non riconosciute.
In conclusione, si può affermare che le associazioni, riconosciute o
non riconosciute, sono di forme di organizzazione del lavoro meno
e cienti delle forme cooperative del lavoro per lo svolgimento di
a ività commerciali con finalità di utilità sociale. I diri i di parteci12
pazione alle decisioni, che il legislatore ha previsto per i lavoratori,
sono senza dubbio essenziali in presenza di un obie ivo di utilità
sociale, per le ragioni su esposte. Ma l’allocazione dei diri i agli
associati non è in grado di scongiurare forme di opportunismo a
detrimento del buon funzionamento e della longevità di un’organizzazione - sogge a, come visto, al rischio di fallimento - nonché a
detrimento di una domanda di stabilità delle a ività di produzione
di beni e servizi di utilità sociale da parte della colle ività.
6. Centralità delle risorse di capitale e forme societarie di
impresa sociale
6.1. Sia pure in un numero più limitato di ipotesi, l’a ività di produzione di beni e servizi di utilità sociale può avere nel capitale un
fa ore strategico, in alternativa o in aggiunta al capitale umano. Tra
i se ori indicati nell’art. 2 del d.lgs. 155/2006 si può fare riferimento, ad esempio, all’assistenza sanitaria, alla tutela dell’ambiente e
dell’ecosistema, alla valorizzazione del patrimonio culturale, o ancora ai servizi strumentali alle imprese sociali. Com’è stato notato,
in questi se ori, le a ività di produzione di beni e/o servizi possono
comportare notevoli investimenti fissi, o la gestione di risorse con
costi anche molto elevati, e possono dar luogo a produzioni di elevato valore aggiunto (Mori, 2008).
Come si è de o, le diverse tipologie di organizzazione, rilevanti per
l’analisi economica, si possono distinguere, in primo luogo, in base
al criterio di allocazione dei diri i di proprietà alle diverse tipologie di agenti associati all’organizzazione (patron): gli investitori, i lavoratori, i fornitori o i clienti dell’organizzazione, ecc. Un possibile
criterio di e cienza nella scelta tra diversi tipi di organizzazione,
cioè nella scelta dei patron ai quali a ribuire il diri o di proprietà
12
Art. 12 d.lgs. 24/03/2006, n. 155.
EFFICIENZA DELLE FORME ORGANIZZATIVE DEL “FARE” IMPRESA SOCIALE: UN CONFRONTO
Adalgiso Amendola, Roberta Troisi
è, come si è de o, quello proposto da Hansmann, consistente nella
minimizzazione dei costi di proprietà e dei costi di contra azione
(transazione). Per costi di proprietà s’intendono i costi delle decisioni colle ive, i costi di controllo e i costi connessi al rischio. Per costi
di contra azione s’intendono i costi di informazione asimmetrica, di
13
potere di mercato ed i costi legati agli investimenti specifici.
In base a questo criterio, l’indicazione prevalente è che, per tu e le
a ività di produzione di beni e servizi ad alta intensità di capitale, o per le quali il capitale è risorsa critica o strategica, le tipologie
giuridico-organizzative più e cienti sarebbero quelle di tipo societario. L’impresa di tipo capitalistico, nella quale il diri o di proprietà
è a ribuito all’investitore, emergerebbe dunque come opzione più
e ciente, prevalentemente - ma non esclusivamente - per le a ività produ ive nelle quali il capitale costituisce un fa ore produ ivo
strategico.
In questo paragrafo si valuterà se questa prescrizione trovi riscontro
anche nel caso delle a ività commerciali con finalità di utilità sociali,
nelle quali il capitale è risorsa critica. Il nostro interesse, pertanto,
ricade sopra u o sulle società di capitali, con l’obie ivo di verificare
in che misura l’opzione di questa forma organizzativa per svolgere
a ività di impresa sociale è un’opzione e ciente, anche considerando i vincoli e le prescrizioni di governance previsti dal d.lgs. 155/2006:
(i) divieto di distribuzione degli utili (art. 3); (ii) principio della porta
aperta (art. 9); (iii) forme di coinvolgimento nelle decisioni dei lavoratori e dei destinatari dell’a ività (art. 8).
6.2. Nelle organizzazioni di tipo capitalistico, tra le quali rientrano
le società, il diri o di proprietà è a ribuito agli associati che apportano all’organizzazione le risorse di capitale, cioè agli investitori (o
capitalisti). Quando le risorse di capitale sono rilevanti, la scelta di
questo tipo di organizzazione risulta più e ciente per una serie di
fa ori che riguardano prevalentemente i costi connessi all’esercizio
del diri o di proprietà, consistente, come si è de o, in un diri o di
Si offre delucidazione sulla natura dei costi rinviando ad Hansmann per maggiori approfondimenti. a) Costi di contrattazione: a1) potere di mercato, s’intende la condizione di monopolio
vantata dall’impresa nei riguardi di qualche contraente per cui è conveniente assegnare a questi la titolarità; a2) investimento specifico, s’intende la condizione di monopolio generata da un
investimento specifico; a3) informazione asimmetrica: vantaggi informativi nei confronti di un
contraente che rendono conveniente assegnargli la titolarità. B) Costi di proprietà: b1) costi di
controllo manager: costi d’influenza e di monitoraggio operato manager; b2) costi di decisioni
collettive: i costi per raggiungere un consenso; b3) assorbimento del rischio: connessi alla
variabilità del reddito d’impresa, individuano soggetti capaci di assorbire il rischio meglio di
altri in base alla diversificazione del loro reddito.
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controllo sull’organizzazione ed in un diri o ad appropriarsi del residuo. Tra essi i più rilevanti sono: (i) un maggiore incentivo all’esercizio e ciente del controllo sull’organizzazione, in ragione della
possibilità di appropriarsi del residuo; (ii) una minore propensione
a comportamenti rischiosi di impresa susce ibili di comprome ere
il valore del capitale; (iii) la possibilità di differenziare il rischio, differenziando l’investimento (Hansmann, 1980, 1988, 1990; Milgrom,
Roberts, 1994).
Si tra a di valutare in che misura questo schema di ragionamento
sia applicabile anche nel caso di a ività di impresa sociale in forma
societaria. Ciò tenendo conto del fa o che il principale elemento di
specificità di un’organizzazione di tipo societario che svolga a ività
di impresa sociale, è costituito dal vincolo di non distribuzione degli
utili previsto dall’art. 3 del d.lgs. 115/2006. Ne consegue, a nostro
avviso - analogamente a quanto avviene nelle altre forme di organizzazione nonprofit - l’iscrizione di contra i a raverso i quali allocare
in testa agli investitori/capitalisti di un diri o reale d’uso dell’organizzazione, non del tu o corrispondente ad un pieno diri o di
proprietà. La natura nonprofit dell’organizzazione comporta, infa i,
che del diri o di proprietà, pur permanendo il diri o di controllo,
venga a meno il diri o ad appropriarsi del residuo. Ciò determinerebbe il venir meno del principale incentivo ad esercitare un controllo e ciente sull’organizzazione, generando pertanto ine cienza
organizzativa.
Il punto merita, tu avia, di essere approfondito. A ben guardare, nel
caso di un’organizzazione societaria che svolge a ività di impresa sociale, l’investitore/proprietario non può essere equiparato ad un donatore - come, ad esempio, nel caso delle fondazioni - come pure è
stato proposto (Mori, 2008). Egli effe ua, invece, un vero e proprio
investimento di capitale in un’organizzazione che svolge un’a ività
di natura commerciale con finalità di utilità sociale. In presenza di un
vincolo sulla distribuzione degli utili, si tra a di chiarire dunque quali
siano i possibili “rendimenti a esi” dell’investimento effe uato.
Il tema è in realtà assai complesso e riguarda in primo luogo il problema della compatibilità tra finalità e comportamenti non egoistici
degli agenti ed esercizio di a ività di impresa, che esula dagli obiettivi di questo lavoro. È su ciente rilevare a riguardo che, com’è stato notato, nella realtà operano “imprenditori che pongono in cima
alla propria stru ura di preferenze quella di lavorare in un’impresa
centrata sul principio di reciprocità, da cui traggono un modo di or-
EFFICIENZA DELLE FORME ORGANIZZATIVE DEL “FARE” IMPRESA SOCIALE: UN CONFRONTO
Adalgiso Amendola, Roberta Troisi
ganizzazione del processo produ ivo basato sulla mutua fiducia, sul
senso di equità, sul rispe o delle sogge ività. E vi sono imprenditori
che invece preferiscono organizzare il lavoro in modo anonimo e
impersonale e per i quali il rispe o delle norme di legge è un vincolo
e non un argomento della loro funzione obie ivo” (Zamagni, 2006).
Così è altre anto possibile ipotizzare la figura di imprenditori/filantropi - o investitori/filantropi - i quali preferiscono impiegare i propri talenti e le proprie risorse di capitale per dare vita ad un’impresa
sociale anziché ad un’impresa capitalistica e destinare poi i profi i
o enuti ad obie ivi di utilità sociale (Zamagni, 2006).
È quindi rilevante provare a definire i possibili argomenti della funzione obie ivo dell’investitore/filantropo, allo scopo di individuare
i rendimenti a esi dell’investimento in un’a ività di impresa sociale. A riguardo è stata formulata l’idea che tra gli argomenti della
funzione obie ivo di un investitore/filantropo, entrino almeno due
elementi: (i) il conseguimento dei risultati, in termini di realizzazione delle finalità di utilità sociale perseguite; (ii) la preservazione del
valore del capitale investito (Amendola, Troisi, 2008). Il primo elemento a iene all’e cacia, il secondo elemento a iene all’e cienza
della gestione dell’a ività di impresa sociale.
Su tali basi si può ragionevolmente argomentare che il rendimento
a eso dell’investimento in un’a ività di impresa sociale sia la realizzazione di una specifica finalità di utilità sociale, dalla quale deriva
14
uno specifico rendimento sociale. Ne consegue che, nelle organizzazioni societarie che esercitano a ività di impresa sociale, il diri o
reale d’uso dell’organizzazione si articola in realtà in: (i) un diri o
di controllo sull’organizzazione, ma anche in (ii) un diri o al rendimento sociale dell’a ività di impresa sociale; ciò nel senso che gli
investitori/proprietari avrebbero una sorta di diri o ad incassare i
15
dividendi sociali derivanti dalle a ività realizzate.
Se questo è vero, allora anche nelle organizzazioni di tipo societario
che svolgono a ività di impresa sociale, non vengono meno i meccanismi di incentivo all’esercizio del controllo sull’organizzazione,
dal momento che all’incentivo del profi o in un’organizzazione societaria nonprofit si sostituirebbe l’incentivo del rendimento sociale
In realtà, come è stato evidenziato e come si vedrà più avanti, questa nozione di rendimento
può essere ulteriormente articolata (Amendola, Troisi, 2008).
15
Dividendi, sia in termini di soddisfazione per il raggiungimento delle finalità di utilità sociale
in sé, sia in termini di ricaduta positiva di immagine, sia in termini di eventuali esternalità positive che possono generarsi su altre attività economiche nelle quali l’investitore/proprietario
sia impegnato.
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dell’investimento. In entrambi i casi, sul presupposto che il capitale
sia fa ore strategico, sarebbe e ciente a ribuire la proprietà agli
investitori.
Per le conseguenze che ne derivano, può essere, inoltre, rilevante
considerare le possibili diverse articolazioni dell’interesse che gli investitori/filantropi possono nutrire per il rendimento sociale del loro
investimento in un’a ività di impresa sociale. È possibile ipotizzare
a riguardo che, oltre alla preservazione del valore del capitale investito, gli investitori/filantropi siano interessati, alternativamente:
• alla realizzazione di una data finalità di utilità sociale, dalla quale può derivare un rendimento sociale specifico;
• alla realizzazione di una finalità di utilità sociale purchessia, dalla quale può derivare un rendimento sociale generico.
Si tra a di una differenza non irrilevante, perché nel primo caso l’investitore/filantropo, non essendo indifferente allo specifico obie ivo
di utilità sociale perseguito - ad esempio, sviluppare la ricerca in uno
specifico campo della medicina - non ha interesse a differenziare il suo
investimento. Nel secondo caso, invece, essendo indifferente al tipo di
finalità di utilità sociale perseguito, può differenziare l’investimento,
allo scopo di minimizzare il rischio (Amendola, Troisi, 2008).
Questa circostanza, a nostro avviso, ha una particolare importanza,
se si tiene conto del fa o che un’organizzazione di tipo societario
preposta allo svolgimento di un’a ività commerciale, sia pure con finalità di utilità sociale, è, come tale, sogge a al rischio di fallimento.
Rischio che viene assunto dall’investitore/proprietario nella misura
dell’investimento realizzato. Ne consegue che, quando l’investimento è finalizzato a perseguire una finalità sociale specifica, il rischio
connesso alla perdita del capitale in caso di fallimento è maggiore e
quindi maggiore dovrebbe essere l’incentivo ad esercitare il controllo sull’organizzazione.
6.3. La scelta operata dal legislatore d’inclusione delle forme di società capitalistiche a raverso le quali svolgere a ività commerciali
di produzione di beni e servizi d’interesse generale con obie ivo di
utilità sociale, in cui il capitale sia fa ore strategico ed in assenza di
distribuzione degli utili, risulta perciò essere una scelta e ciente se
i contra i di associazione allocano i diri i di cui si è discusso in capo
ad un investitore filantropo.
Si tra erà, come de o, di forme d’impresa di beni e/o servizi di utilità sociale che comportano la gestione di risorse con costi elevati
e producono output di alto valore, una forma d’impresa dove, per
EFFICIENZA DELLE FORME ORGANIZZATIVE DEL “FARE” IMPRESA SOCIALE: UN CONFRONTO
Adalgiso Amendola, Roberta Troisi
la natura dell’a ività, l’e cienza economica è rilevante e va affrontata con le modalità dell’impresa capitalistica ed i contra i costitutivi dell’organizzazione preposta a tale a ività devono, per essere
e cienti, privilegiare sogge i che possano finanziare l’economicità
dell’a ività e supportare la stabilità dell’organizzazione.
Anche per queste forme d’impresa capitalistica il legislatore prevede
forme di partecipazione dei lavoratori alle decisioni dell’organizzazione, per cui i contra i di lavoro subordinato comportano, come
si era già de o a proposito delle associazioni, un ampliamento della zona d’indifferenza (Simon, 1947) alla titolarità di un diri o di
remunerazione e di partecipazione alle decisioni contro il dovere
di prestazione lavorativa. Anche qui, valgono perciò le stesse considerazioni a proposito del valore incentivante del diri o di partecipazione in termini di allineamento degli obie ivi individuali agli
obie ivi colle ivi.
Si offrono infine brevi spunti di riflessione circa la possibilità di ricorrere a forme di organizzazione del lavoro in cui, in base alla natura dell’a ività, il capitale e le risorse umane rappresentino entrambi
fa ori strategici, per cui i contra i associativi che l’organizzazione
stila sono rivolti sia a riconoscere diri i reali di uso dell’organizzazione a raverso cui dare enfasi al ruolo ed alle a ività delle risorse
umane, sia diri i reali a raverso cui garantire il corre o impiego del
capitale.
Un contra o con queste cara eristiche potrebbe riconoscere un
diri o di controllo ed un diri o di partecipazione alle decisioni
più incisivo del diri o di controllo a dato all’investitore filantropo in una società capitalistica. La maggiore incisività potrebbe dipendere dall’ampliamento delle materie su cui esercitare il diri o
di decisione e dalla indelegabilità dello stesso ed altre anto si potrebbe ipotizzare per gli spazi del diri o al controllo. Un modello
organizzativo ideale in cui il ruolo delle risorse umane è strategico,
anche nell’a ività di gestione, fa riferimento ad un asse o sociale
numericamente rido o, dove, appunto, un esiguo numero di soci
investitori conferisce un “non ingente” capitale di dotazione volto
alla realizzazione di un obie ivo di utilità sociale. A numeri rido i
essi svolgono, naturalmente, un ruolo determinante nell’adozione
delle a ività di gestione strumentali al raggiungimento di quella
utilità sociale da cui deriva il rendimento sociale a eso. A numeri
rido i, inoltre, la possibilità di definire un obie ivo comune è più
certa, essendo ovvia la minimizzazione dei costi di coordinamento
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legati al controllo ed alle decisioni. Il modello organizzativo ideale non trova però nella legge adeguata ratifica: ricordiamo, infa i,
la vigenza del principio della porta aperta tra le cara eristiche di
governance imposte dalla legge per le organizzazioni che svolgono
a ività d’impresa sociale.
Di certo, invece, un contra o associativo in questo contesto organizzativo, deve e può riconoscere, per il ruolo investito dal capitale
in queste organizzazioni, il diri o al rendimento sociale dell’investimento analogo a quello previsto per l’investitore filantropo nelle
società di capitali.
Deve, però, altre anto riconoscere, in caso di insolvenza e dunque
di fallimento, essendo risorse strategiche sia il capitale che le risorse umane, costi di rischio più elevati, legati non solo alla possibile
aggressione del patrimonio sociale, ma anche, se pure in subordine,
all’aggressione dei patrimoni individuali.
A costi di rischio così elevati a fronte della possibilità di un rendimento sociale, o comunque più elevati di quelli sopportati dal socio
filantropo nella società di capitali ed in assenza di diri i reali di uso
delle organizzazioni che sappiano dare, nel contra o associativo,
enfasi al ruolo delle risorse umane, non sembra corrispondere una
forma di organizzazione del lavoro e ciente.
7. Conclusioni
Vogliamo a questo punto offrire un quadro di sintesi di questo lavoro.
Riproponiamo perciò la domanda postaci nelle prime righe di questo
lavoro: la possibilità di utilizzo di tu i gli enti del Libro I e del Libro
V per lo svolgimento di a ività commerciali di utilità sociale consente
di accedere a tipologie giuridiche indiscriminatamente e cienti? La
piena libertà di forma organizzativa sta a significare piena fungibilità
delle tipologie giuridiche utilizzabili secondi i criteri dell’e cienza?
Secondo la nozione di e cienza in questo lavoro proposta, sono, dunque, tu e le tipologie giuridiche fondate su contra i capaci di allocare
in maniera e ciente diri i diversi ad agenti diversi?
Operando una distinzione tra a ività economiche nonprofit, volte al
perseguimento di obie ivi di utilità sociale in cui il fa ore strategico
è il lavoro rispe o ad a ività economiche nonprofit, volte al perseguimento di obie ivi di utilità sociale in cui il fa ore strategico è il
capitale siamo giunti alle conclusioni che seguono.
EFFICIENZA DELLE FORME ORGANIZZATIVE DEL “FARE” IMPRESA SOCIALE: UN CONFRONTO
Adalgiso Amendola, Roberta Troisi
La scelta tra i vari tipi di organizzazione a raverso cui esercitare
un’a ività commerciale che persegua una finalità di utilità sociale
in cui la risorsa strategica è il lavoro ed in cui non sono distribuiti
gli utili sembra orientarsi verso la forma colle iva di organizzazione del lavoro come forma ele iva, trascurando forme associative di
natura diversa.
Perciò in una possibile graduatoria di forme associazionistiche del
lavoro e cienti alle condizioni di cui si è discusso si ritiene che: i) la
cooperativa sociale sia forma ele iva; ii) l’associazione non riconosciuta sia forma meno e ciente (la sopportazione del rischio della
perdita dei mezzi di produzione è limitata, ma almeno presente); iii)
l’associazione riconosciuta sia forma organizzativa ine ciente.
La scelta tra i vari tipi di organizzazione a raverso cui esercitare
un’a ività commerciale che persegua una finalità di utilità sociale in
cui la risorsa strategica è il capitale, in assenza di distribuzione degli
utili ricade sulla forma societaria di tipo capitalistico, in cui all’investitore tradizionale va sostituito un investitore filantropo interessato
al rendimento sociale dell’investimento.
Maggiori di coltà di configurazione pone, per ragioni d’individuazione di un contra o che sappia allocare e cientemente diri i reali
di uso dell’organizzazione, il caso di una forma organizzativa quale
la forma societaria a base personale in cui sia il capitale che le risorse
umane svolgono un ruolo strategico.
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DIMENSIONI POLITICHE DELL’IMPRESA SOCIALE
Laura Bazzicalupo
Dimensioni politiche dell’impresa sociale
Laura Bazzicalupo
Sommario
1. Premessa - 2. Complessità del conce o di servizio e modello disciplinare biopolitico 3. I dati che hanno rilievo ai fini della dimensione politica dell’impresa sociale - 4. Criteri
della politicità - 5. Sogge i a ivi?
1. Premessa
La prospe iva dalla quale questo saggio si interroga sui cambiamenti in a o nel se ore delle imprese sociali è quella della teoria o
filosofia politica. La complessa stru ura dell’impresa sociale è infa i
pluridimensionale. Qui avranno rilievo gli interrogativi che è opportuno porsi circa la rilevanza e il significato politico di questo se ore
di a ività economica.
Naturalmente la stessa dimensione politica dell’impresa sociale è,
a sua volta, articolata e pluridimensionale. Se assumiamo la definizione di impresa sociale proposta nel documento Social Enterprise:
A Strategy for Success, del 2002 dal governo britannico: “Un’impresa
sociale è un’a ività economica (business) avente, in modo preponderante, obie ivi sociali e tale che i surplus siano prevalentemente
reinvestiti nell’a ività o nella comunità, piu osto che essere orientati dalla massimizzazione dei profi i di azionisti o proprietari” (DTI,
2002, p. 13) è ovvio il rilievo che essa assume in relazione al governo
dei bisogni e al pa o di solidarietà sociale che, nella crisi del welfare,
deve essere ri-negoziato. Questa dimensione politica di supporto o
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di compensazione di fronte alla sempre più marcata ridefinizione
ridu iva del ruolo dello Stato sociale - dimensione che viene sostenuta sia dalla retorica neoliberale della mano invisibile e/o da quella
della società civile generosa e comunitaria, ma che, comunque, mira
a sostenere la potente spinta alla de-regolazione e al disimpegno dello Stato - è stata messa in luce in modo prevalente nelle iniziali fasi
dell’emersione del terzo se ore e della welfare society nei primi anni
‘90. Il consolidarsi della fenomenologia, gli esiti spesso imprevisti
e l’approfondimento critico che l’ha accompagnata, invitano oggi a
spostare l’interrogativo sulla natura della politicità messa in azione
da questa agency costitutivamente prismatica e complessa.1
2. Complessità del concetto di servizio e modello disciplinare
biopolitico
La fenomenologia delle imprese sociali accentua ed esalta una linea della trasformazione in a o nel mondo economico, la prevalenza dei servizi sulla produzione materiale di beni. Questo cara ere,
dal punto di vista della teoria politica, ha rilevanza in relazione allo
stesso, complesso, conce o di servizio: complesso e problematico se
si pensa alle categorie politiche liberali classiche, quali libertà, autonomia, uguaglianza, dal momento che rimanda ad una sorta di diseguaglianza oblativa e a sogge i deboli, aiutati, promossi, incentivati
da sogge i più forti e più competenti: una diseguaglianza oblativa
che viene assunta come stru urale all’interno di un modello, quello
liberale, formalmente ugualitario e fondamentalmente utilitaristico.2
Naturalmente la piega dell’economia in direzione dei servizi potrebbe agevolmente essere intesa - e lo è di fa o in alcune interpretazioni
del tema - all’interno del modello degli scambi economici di puro
mercato, “a saldo”, dove il servizio, non meno di un qualsiasi bene
può essere prodo o, comprato e scambiato. Eppure il filosofo politico non può non so olineare il peso che l’aura del conce o porta
con sé in termini di rapporti personali (e perciò non formali e poco
“moderni”), in termini di a nità al conce o di cura che per secoli
rientrava nell’alveo dell’azione privata/familiare e dunque so ra a
alla reciprocità e simmetria dell’azione pubblica, giuridicamente ed
Sotto questo profilo cfr. almeno i recenti Putnam, 2004; Donati, Colozzi, 2002; Magatti,
2005.
2
La problematizzazione qui rappresentata del concetto di servizio è più radicale della soluzione
plurale dei generi di economia suggerita dalle prospettive teoriche sul dono quali quelle di
Caillé, 2000; Godbout, 2001.
1
DIMENSIONI POLITICHE DELL’IMPRESA SOCIALE
Laura Bazzicalupo
economicamente definita.
Di per sé questa piega verso il servizio collega il terzo se ore (ma
significativamente, anche l’intero sistema economico) alla grande
tendenza della politica contemporanea alla consunzione delle mediazioni giuridiche ed istituzionali e delle forme astra e e ugualitarie della teoria moderna liberale e all’assunzione di un ruolo che
oggi viene definito, sulla scia di un’espressione foucaultiana3 come
“biopolitico”. Si tra a cioè della ripresa di una funzione di governo,
di presa in carico - da parte del potere politico come da parte dei poteri economici - delle vite delle persone all’interno di un discorso di
legi imazione sociale, politico-economica, ultimativa ed indiscussa
costituita dal benessere, dall’incremento di ricchezza, dalla protezione sicuritaria della vita. Se è vero che questo regime di discorso, questa retorica di legi imazione, sono recepiti in modo irriflesso
come un’ovvietà, in realtà essi a ancano e in larga parte confliggono con la storia assai più “disincarnata” e “formale” dei valori
moderni, storia che fa perno sulla divisione tra privato e pubblico,
tra società e Stato, tra economia e politica. Tu o il percorso del Novecento, tra le due polarità degli Stati totalitari e dello Stato sociale
postbellico, era già segnato d’altra parte da questo potente anche se
non sempre esplicito riferimento al ruolo biopolitico di protezione,
cura, incentivazione della vita (vita come bios) e dalla naturalizzazione e biologizzazione degli obie ivi politici. Riferimento alla vita
che piega così gli obie ivi politici alla logica economica della soddisfazione dei bisogni. Nonostante infa i, la teoria moderna abbia
come perno conce ualmente insostituibile un sogge o giuridicopolitico (ma anche economico) autonomo e responsabile di sé, delle proprie scelte di vita privata, di rappresentanza, di orientamento
politico - sogge o la cui libertà viene garantita dall’essere concepito
per astrazione dai condizionamenti culturali, bio-sessuali, religiosi,
economici - nella realtà la modernità ha visto l’affermazione sempre
più consapevole della complessità eteronoma e della dipendenza sia
sociale, culturale, economica che psicobiologica di ciascun singolo e
di gruppi e masse dai contesti sociali e corrispe ivamente ha visto
inclinarsi la politica a tecnica di governo e di presa in carico delle
vite dei consociati.
La tesi foucaultiana me e in evidenza come nella modernità politica
progressivamente si sia a ancato al discorso giuridico che fa perno
sulla coppia sovranità-sogge o, un sistema di “tecniche” di esercizio
3
Una panoramica sul concetto di biopolitica in Bazzicalupo, 2005.
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del potere di cara ere strategico ed economico volte a rendere e cace il potere politico stesso. Si tra a di discipline, di orientamenti e
condizionamenti delle condo e il cui modello primo è stato il potere
pastorale, che, curando e potenziando a raverso l’addestramento
e l’istruzione in modo funzionale i corpi e i comportamenti, agevolandone e migliorandone la salute, l’igiene, hanno costituito l’altra faccia, indispensabile, di quel complesso di valori, idee e diri i
che denominiamo liberalismo. L’uguaglianza universale e formale,
la reciprocità dei diri i, la libertà di iniziativa garantita dalla legge
poggiano sul limite ad esse imposto dal disciplinamento gestito ed
organizzato dall’amministrazione pubblica, e dunque dipendono da
quegli aggiustamenti concreti. “Essi devono essere considerati come
delle tecniche che perme ono di adeguare [...] tra loro la molteplicità degli uomini e la moltiplicazione degli apparati di produzione
(e con ciò bisogna intendere non solo la produzione propriamente
de a, ma la produzione di sapere e di a itudini nella scuola, la produzione di salute negli ospedali […])” (Foucault, 1976, pp. 239-240).
La coppia diri i-discipline non viene pensata in modo antinomico,
ma piu osto complementare sul piano della concretezza, per quanto
so oposte a logiche assolutamente diverse. “Bisogna piu osto vedere nelle discipline una sorta di controdiri o: esse hanno il ruolo
preciso di introdurre dissimmetrie insormontabili e di escludere la
reciprocità. Prima di tu o perché la disciplina crea tra gli individui
un legame “privato”, che è un rapporto di costrizione interamente
differente dall’obbligazione contra uale; l’acce azione di una disciplina può ben essere so oscri a contra ualmente, ma la maniera
in cui viene imposta, i meccanismi che fa giocare, la subordinazione non reversibile degli uni in rapporto agli altri, il “più” di potere
che è sempre fisso dalla stessa parte, l’ineguaglianza delle posizioni
dei diversi partner in rapporto al regolamento comune, oppongono
il legame disciplinare al legame contra uale e perme ono di falsare
sistematicamente quest’ultimo […] in più, mentre i sistemi giuridici
qualificano i sogge i di diri o secondo norme universali, le discipline cara erizzano, classificano, specializzano, distribuiscono lungo una scala, ripartiscono a orno ad una norma, gerarchizzano gli
individui gli uni in rapporto agli altri, e, a limite, squalificano e invalidano” (Foucault, 1976, p. 242-243).4 La democratizzazione della
Si rimanda per esemplificazioni di questa ancora valida definizione foucaultiana all’ultimo
paragrafo di questo saggio dove si discute la valenza politica dei contratti di servizio sociale
(voucher o budget) in questa prospettiva che esplicita la limitata garanzia di libertà offerta
dalla modalità contrattuale.
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DIMENSIONI POLITICHE DELL’IMPRESA SOCIALE
Laura Bazzicalupo
sovranità e lo spostamento del suo fondamento sul consenso sociale
sono passati proprio a raverso i meccanismi della disciplinarietà,
non esteriormente coercitiva, ma acce ata, introie ata, fa a propria
dal corpo sociale educato ad assumerla e a condividerne gli obie ivi, in modo tale da nascondere il meccanismo repressivo: il potere
non viene subìto “come una potenza che dice no”, ma come ciò che
a raversando i corpi, “produce delle cose, induce del piacere, forma
del sapere, produce discorsi”. Diventa cioè, “una rete produ iva che
passa a raverso tu o il corpo sociale, molto più che come un’istanza
negativa che avrebbe per funzione di reprimere” (Foucault, 1977,
p. 13). Dunque la politica moderna e tardo moderna ha governato
le differenze omologandole in termini di popolazioni, in direzione
dell’incrementazione, del benessere, della tutela ed incentivazione
della vita che potesse costituire tanto il perno sistemico delle differenze stesse che la leva per il potenziamento del sistema e del controllo sociale. La biopolitica, emersa sul modello del potere pastorale
e disciplinare, intesa come presa in carico della vita e governo della
stessa in base a principi che risultassero indiscussi di autorità e verità - e in primis la scienza medica e la scienza economica - rappresenta
la modalità distintiva delle relazioni di potere e di controllo sociale
moderno e tardo moderno. Si connota come relazione governamentale necessariamente diseguale e gerarchica, garantita da competenza e finalizzata al bene del governato: in una parola “servizio”, a dispe o dell’universale affermazione di uguaglianza e libertà, autonomia e parità-delle-differenze che risuona nella retorica non discussa
del nostro tempo. A dispe o, ma in modo complementare, poiché la
garanzia della libertà ha il suo rovescio e la sua condizione nell’introiezione dei modelli disciplinari e delle dissimmetrie acce ate in
nome dell’autorevolezza dei regimi di verità. Questa dinamica non
lineare che annoda la gestione del potere a raverso tecniche ed economie che “servono” funzionalmente a corpi e bisogni, con i diri i
liberali ad esercitare l’autonomia e alla non invasività dello Stato,
me e al centro il tema del governo, cioè della modalità con la quale
vengono stru urati da alcuni i campi d’azione di altri, in modo non
necessariamente violento e repressivo, ma comunque eteronomo,
generando rapporti di dipendenza e di dissimmetria.
I grandi campi d’intervento del biopotere sono la gestione amministrativa e statistica e la politica di incremento e di regolazione
di natalità, morbilità, abilità ed ambiente: dunque di tu o quanto
a iene alla vita e, per quanto riguarda questo saggio, alle impre-
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se sociali. Di qui l’assurgere della vita, della salute, del benessere
materiale e morale di ciascuno e di tu i, omnes et singulatim, a riferimento centrale delle pratiche di potere della politica in genere,
delle imprese sociali in particolare. Sono forme di governo degli
uomini, che, me endone in gioco la vita, ne determinano i comportamenti tanto come a ori quanto come destinatari: ne plasma
l’esistenza nel lavoro, l’intera personalità, l’affe ività e l’etica, la
percezione del “sé”, il riconoscimento della propria dignità. Il paradigma pastorale del biopotere ci perme e dunque di decifrare
la razionalità politica di questa governamentalità cara eristica del
terzo se ore: cura, mission di salvezza del singolo e dell’insieme.
Per questa via il tema del terzo se ore, in cui più evidentemente si
concentra l’opera biopolitica, diventa cruciale per la teoria politica
stessa esplicitando ed esaltando un cara ere diffuso e sempre più
determinante della politica e dell’economia tardo moderna (Bacchiega, Borzaga, 2001).
Mi si perdoni questo excurcus, ma, a mio avviso, è necessario che
sia chiaro il quadro in cui, dal punto di vista degli studi politici sui
flussi di potere, si colloca il discorso dell’impresa sociale o del terzo
se ore, se ci si vuole so rarre alla ripetizione di quanto è stato, anche egregiamente, già de o.
3. I dati che hanno rilievo ai fini della dimensione politica
dell’impresa sociale
La presa d’a o infa i della deriva biopolitica di governo delle
vite nell’economia e nella società, infa i ci perme e di afferrare
il discrimine più profondo, se c’è e quando c’è, tra imprese che
replicano, in forme nuove e con a ori privati, quella dinamica
gerarchica, assistenziale ed eteronoma, che è tipica della modalità biopolitica di gestione del potere, rieditando la sostanziale,
anche se non formale diseguaglianza che ha reso privatistico e
incapacitante un certo tipo di welfare, e imprese che si trovano
a sperimentare la possibilità, sempre enunciata negli intenti, ma
assai raramente perseguita, di promozione della responsabilità e
partecipazione sociale e politica, magari acce ando logica e regole del mercato.
A mio avviso, questo rinnovarsi, oggi, degli studi critici sul se ore
in questione, è indizio della necessità di approfondire con coraggio
le dinamiche so ese all’azione imprenditoriale sociale per indivi-
DIMENSIONI POLITICHE DELL’IMPRESA SOCIALE
Laura Bazzicalupo
duarne conce ualmente e non solo empiricamente i nodi logici che
determinano i fallimenti o i (più rari) esiti positivi. Questo comporta
l’approfondimento, necessariamente interdisciplinare, dei processi
di sogge ivazione. Come vedremo, infa i il nodo della questione,
che inclina in un verso o nell’altro la dimensione politica dell’impresa sociale, sta nella presa d’a o del cara ere processuale e non presupposto del sogge o autonomo. Questo cara ere, cioè “il divenir
sogge o” dei singoli, la filosofia politica moderna liberale, ma anche democratica, non ha ritenuto suo compito pensare, preferendo
immaginare quel famoso sogge o autonomo dell’economia e della
politica, come Minerva che armata di tu o punto esce dalla testa
di Zeus. La dinamica di condizionamento, disciplinamento, assogge amento della persona, che spinge a rifle ere sulla processualità
dell’autonomizzazione e sulle influenze che la ostacolano o la agevolano ed induce a ripensare la diseguaglianza e il servizio, nonché
le pratiche di cura, come momenti interni allo sviluppo biologico e
sociale e non come evento residuale della riproduzione della società,
e spinge a decodificarla al fine di individuare lo spazio per possibili
processi di capacitazione e di enpowerment. Sulla qualità dei processi
di sogge ivazione e non sull’e cienza della saturazione di bisogni
indo i e standardizzati si misura la dimensione di politica a iva o
eteronoma dell’impresa sociale.
D’altra parte se osserviamo, in questa prospe iva, da una parte
l’azione, l’”intrapresa”, e le sue motivazioni, dall’altra, i ruoli e la
partecipazione dei destinatari potremo illuminare obie ivi e razionalità non sempre espliciti nella relazione di servizio, ed eventualmente su quelli misurare l’economicità dell’impresa e la sua capacità
di stare sul mercato. Fortunatamente mi sembra che si intravveda la
crisi, anche tra gli scienziati dell’economia, dei modelli econometrici e la rivalutazione delle riflessioni degli economisti più avveduti
sulla complessità dei meccanismi di motivazione e di scelta e sulla
loro interdipendenza e relazionalità psicologica. E questa a enzione
è tanto più importante se si vuol parlare di imprese sociali che, pur
all’interno dell’obie ivo di servizio sociale e dunque di relazionalità
da promuovere e da tutelare, si mantengano all’interno del sistema
mercato. Mercato non da intendersi nell’immagine no-where, inesistente e ideologica, del mercato isolato dal mondo, ma come luogo
di scambio dove flussi di desideri e di poteri, anche istituzionali,
politici, culturali, ecc., si incrociano condizionandosi in modo asimmetrico.
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La sostanziale, assoluta, prevalenza del linguaggio economico su
tu i gli altri codici di accesso al sistema sociale - prevalenza che rende così oppressiva l’immagine economicista delle relazioni sociali
- va a sua volta decodificata per cogliere le passioni, i bisogni, le
potenzialità esistenziali che, traducendosi nel linguaggio del mercato, vengono veicolate in modo simbolico, accedendo allo scambio:
questa decodificazione, che rinvia alle dinamiche interrelazionali
dell’azione socialmente rilevante, ci perme erebbe infa i di afferrare gli obie ivi so esi a quelli enunciati esplicitamente o formulati
in modo autoritativo e gerarchico da chi si assume il compito di catalogare i bisogni e le domande, di a ribuire ruoli, di erogare beni e
servizi: in una parola, dal gestore del potere nella relazione diseguale di cura e di servizio. Potrebbe essere infa i opportuno chiederci
quale sia l’obie ivo del desiderio o di quello che viene qualificato
come bisogno, oppure di interrogarci su quale motivazione spinge a prestare opera in un campo piu osto che in un altro. E questo
implicherebbe la valorizzazione del senso relazionale dei desideri e
degli stessi bisogni. Probabilmente individueremmo appunto nella
relazionalità l’obie ivo forse dell’economia tu a, certo dell’impresa
sociale, alla quale parametri, poco coerenti e scientificamente validi
solo in determinati regimi di verità, a ribuiscono valutazioni di e cienza e congruenza (Bazzicalupo, 2006).
Come si vede l’operazione di riflessione filosofico-politica sull’impresa sociale è complessa ed ambiziosa: ovviamente solo in parte
potremmo qui misurarci con questi obie ivi. E però si tra a di una
sfida alla teoria politica per ripensare l’intero suo lessico che risulta carente nell’identificazione di questo che potremmo qualificare
come un displacement del politico. È necessario comunque chiarire
alcuni aspe i preliminari del discorso.
4. Criteri della politicità
L’impostazione che ho dato a questa questione implica innanzitu o
che si so olinei, già all’interno del welfare state la modalità con cui
si individua la politicità dell’azione. Nell’apogeo del welfare state,
l’enunciazione del cara ere pubblico dell’azione sociale era garantito da una sostanziale coincidenza del pubblico con lo Stato e rimandava dunque al pa o di ci adinanza e di solidarietà che, in forme
diverse, ha cara erizzato le democrazie occidentali postbelliche e a
lungo ha orientato il conce o di giustizia in senso redistributivo. Si
DIMENSIONI POLITICHE DELL’IMPRESA SOCIALE
Laura Bazzicalupo
intende che dal mio punto di vista si realizza pienamente, nel periodo d’oro dello Stato sociale, la complementarietà della logica giuridica dei diri i, liberale, e la logica biopolitica della gestione delle diseguaglianze che rende effe iva la governamentalità liberale. L’istituzione Stato costituiva la cornice del criterio di politicità che teneva
uniti i tra i dell’azione sociale: aveva come obie ivo beni comuni di
rilevanza colle iva (scuola, sanità, previdenza non si riferivano al
singolo bisognoso, ma “valevano” pubblicamente come diri i della
società alla sua riproduzione) ed era fru o di discussioni pubbliche e di confli o politico la scelta di questi beni comuni. Coloro
che usufruivano di servizi erano “ci adini”, non dunque designati dallo stigma del bisogno, ma cara erizzati da diri i, per natura
universalistici: d’altra parte ciò che veniva fornito era funzionale
alla crescita armonica del sistema produ ivo e all’ordine sociale.5 A
questa rappresentazione del pa o sociale ha corrisposto a lungo un
modo di concepire la cosidde a etica dell’economia in termini redistributivi di giustizia sociale. Si pensi a Rawls. Il predominio che
la sua ipotesi di contra o sociale ha mantenuto nell’ambito delle
teorie politiche dagli anni ‘70 agli anni ‘90 del secolo scorso, è prova
di un’indiscussa prevalenza della prospe iva liberale giuridica dei
sogge i. Qui la politicità e pubblicità dell’azione sociale era garantita appunto dalla natura pubblica dei beni, dalla contra azione sulle
regole e dalla parziale sconnessione della domanda da una teoria
dei bisogni in direzione di una teoria dei diri i. Veniva oscurata
dunque la concretezza di sogge i dipendenti, bisognosi di cura, diseguali nelle concrete possibilità di formulare i propri proge i di
vita: o meglio si presupponeva, nell’ipotesi di un’acce azione delle
regole da parte di tu i i consociati all’oscuro della loro posizione
bio-sociale, che le scelte di vita fossero interne alla conservazione
e al potenziamento del modello sociale ed economico liberale stesso. La definizione rawlsiana di società, d’altra parte, fa perno su
regole di cooperazione in vista di un mutuo vantaggio e quindi su
un presupposto di identità di interessi che possono sì configgere,
ma che sono regolabili perché commensurabili e quindi rendono
possibile “una ripartizione adeguata dei benefici e degli obblighi
della cooperazione sociale” (Rawls, 1971, p. 22). Già le osservazioni
di Sen, solo parzialmente riconducibili al quadro rawlsiano, mettevano in crisi una concezione troppo formale dell’uguaglianza e
delle sogge ività. L’eterogeneità delle persone e degli ambienti 5
Un riferimento chiave per lo stato sociale è Ewald, 1996.
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eterogeneità che per Sen si manifesta a raverso differenze di età,
di sesso, bisogni fisiologici, vulnerabilità, mala ie, qualità di livello
della vita, ecc. - impedisce di considerare che un’eguale ripartizione di beni primari si traduca meccanicamente in un eguale livello
di libertà. Così l’analisi sli a dai beni primari e dalle risorse di cui
gli individui dispongono a le vite reali che gli individui possono
scegliere di vivere, vite che “chiamano in causa la capacità di svolgere funzioni svariate” (Sen, 2002, p. 76). L’approccio al tema della
diseguaglianza nella prospe iva delle capability, enunciata da Sen e
ripresa da Zimmerman (2006, pp. 467-484) implica come vedremo,
un’importante conversione del quadro conce uale in direzione di
una libertà positiva, che foucaultianamente si può trascrivere nel
registro dei poteri: esercizi di potere diversi, dissimmetrici, ma comunque produ ivi. Conversione che lo rende forse conciliabile anche con pratiche identitarie ed espressiviste.
Quello che comunque in questo quadro teorico di giustizia distributiva resta carente è l’eterogeneità e la di cile compatibilità di un discorso giuridico che fa perno su autonomia ed uguaglianza - discorso
non rinunciabile rispe o al quale la dimensione politica può essere
magari rivendicata in una più concreta dose di partecipazione dire a
alla discussione sulla natura dei beni e sulla soluzione dei problemi
- ed una realtà di fragilità e di debolezze che richiedono pratiche di
cura e di sostegno differenziate personalizzate e procedure du ili e
coinvolgenti: pratiche di cura e di sostegno che, svolgendosi in posizioni di necessaria dissimmetria, tendono a perpetuarle smentendo
le enunciazioni di uguaglianza di potere se non di diri o. Se, da una
parte, cioè - parlo sempre nella prospe iva della teoria politica - ci si
trova a fronteggiare un’insu cienza delle teorie liberali e normative
che rimuovono le differenze concrete e sopra u o formalizzano ed
universalizzano regole, diri i e soluzioni sociali delegandone la gestione, come fa o residuale e compensativo per quanto funzionale
all’ordine, alle istituzioni di politica sociale legi imate da procedure
standardizzate, dall’altra, l’intero blocco di categorie liberali, facendo perno sull’autonomia e la libera scelta, trova di coltà a pensare
la dinamica di erogazione di servizi e di cura in direzione di sogge i temporaneamente o definitivamente diseguali o deboli. Eppure
questa prassi di servizio si evidenzia, nella tarda modernità, come
il tra o preponderante della politica e dell’economia, inclinata ad
occuparsi di gestire desideri, bisogni, organizzazione del tempo, del
piacere, della salute, della “vita” tout court.
DIMENSIONI POLITICHE DELL’IMPRESA SOCIALE
Laura Bazzicalupo
D’altra parte, è stato de o ormai infinite volte, che la fenomenologia
e la storia dello Stato sociale ha ampiamente disa eso quella conce ualizzazione liberale rawlsiana, imperniata su sogge i e diri i,
in direzione della passivizzazione dei destinatari dei servizi sociali
e della standardizzazione delle domande e dei beni, e ha realizzato
quel portato di diri i in modo paternalistico, chiudendo gli spazi di
diba ito e di confli ualità sulle domande e sulle risposte, favorendo
quindi una piega privatistica della gestione. Come, sulla scia di Foucault, ho tentato di argomentare, diri i formali liberali e liberogeni e
gestione effe iva delle diseguaglianze in modo biopolitico, pastorale, sono due facce della stessa medaglia. Questa deriva rappresenta
dunque, come ho accennato prima, un’ampia conferma della piega
biopolitica del governo delle vite.
Nella crisi, sorre a dalle retoriche neoliberiste, dell’impegno pubblico, la separazione tra politico e statuale è, però, una delle conseguenze teoricamente più interessanti. La politicità (e dunque anche
lo spazio pubblico) diviene propria di a ori non statuali che concorrono a decidere su beni comuni e ne discutono pur non avendo
crismi statuali e deleghe democraticamente conferite o mediate da
organi politici come i partiti. Contemporaneamente la prevalenza
del regime di verità di mercato orienta l’a ività delle istituzioni, che
continuano ad erogare gran parte dei servizi sociali, a so oporsi
ai criteri di economicità ed e cienza che sono stati a lungo propri
del mercato e dell’impresa privata e di profi o, anche se si tra a
di gestire, come sappiamo, beni di rilevanza pubblica e colle iva,
quali la scuola, la sanità, la previdenza. Questo duplice movimento
costituisce un vero terremoto nella classica separazione (ma anche
connivenza) tra privato/mercato e pubblico/solidale, tra sogge i di
diri i e assogge amento ai bisogni. Si deve cominciare a ragionare
sulla modalità di azione o di gestione che tanto nel caso delle sempre forti agenzie statuali che in quelle non statuali si possa definire
pubblica e politica e se possibile valutare la qualità di questa dimensione politica e pubblica non temendo di so oporla a critica. Non
basta essere statuali per avere una modalità pubblica e democratica
di gestione dei servizi, come non basta essere a ori privati perché
l’azione o l’impresa non abbia rilevanza pubblica e politica.6 Si tra a
piu osto di logiche, non totalmente garantite dal tipo di agenzia che
le pone in essere.
Un programma ambizioso di democratizzazione è in Roustang et al., 1996. Una penetrante
analisi critica in de Leonardis, 2002.
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Di logiche - cioè di modalità o razionalità dell’agire - bisogna parlare, se si vuole cogliere in questo fenomeno complesso di sli amento
delle pratiche sociali, dal pubblico al privato e viceversa, se ci siano
e dove siano le dimensioni politiche e veramente pubbliche.
Se nel conce o di servizio c’è una densità di pratiche governamentali che non possono escludere la diseguaglianza, l’autorevolezza
della competenza, la dissimmetria delle posizioni, allora la nostra
a enzione si deve a nare per cogliere la dinamica che spinge queste stesse pratiche in direzione di regimi di azione incapacitanti e
privatistici o verso spazi recuperati al destinatario della pratica di
servizio che perme ano un ruolo a ivo di scelte, proge ualità, futura reciprocità.
Innanzitu o va de o che, se si tra a di modalità (dunque di logiche)
della prassi, allora il cara ere politico e pubblico non sarà statico,
non sarà una condizione o uno status dell’agenzia o dell’istituzione,
ma emergerà in modo dinamico dalle processualità organizzative.
Hannah Arendt (1994, p. 18 ss.) ha qualificato il cara ere pubblico e
politico dello spazio a raverso il criterio della visibilità: in uno spazio
pubblico la scelta, il punto di vista singolare (e originariamente privato) si misura con le altre prospe ive aspirando a generalizzarsi, ad
essere ado ato da altri. Mentre è problematico dedurre le posizioni
dei singoli dall’universalità dei diri i, come pretende il lessico politico moderno, è plausibile invertire il processo verso la dimensione
pubblica e arendtianamente politica dell’azione, individuando il processo di generalizzazione a raverso il confronto e la partecipazione
di quanti vengono coinvolti in quella definizione privata del bene/
servizio e delle regole per produrlo. In questa rappresentazione la generalizzazione appare innanzitu o un processo e non un dato. Inoltre
questo movimento parte dal basso a raverso un confronto concreto
e plurale di prospe ive diverse, laddove nella teoria rawlsiana l’universalità è il presupposto qualificativo di diri i e di principi e da essa,
in un movimento discendente, vanno dedo e regole e soluzioni concrete. Boltanski e Chiapello (1999, 2002) hanno evidenziato invece - in
accordo con la qualificazione arendtiana della politica - la “salita in
generalità” delle istanze idiosincratiche e private dei singoli. Se è vero
che una prassi di servizio non può prescindere da una logica di tipo
singolarizzante e personalizzante, la dimensione politica può essere
acquisita a raverso la forma organizzativa che a raverso il confronto
delle esperienze singolari porta a generalizzare alcuni aspe i del problema e delle soluzioni suggerite o messe in pratica.
DIMENSIONI POLITICHE DELL’IMPRESA SOCIALE
Laura Bazzicalupo
Questa dinamica, che prevede la visibilità di quanti sono coinvolti e la
formazione dal basso della domanda tocca un punto assai delicato del
discorso politico. In effe i in un procedimento di gestione biopolitica
e governamentale delle vite è proprio la visibilità dei singoli e la formulazione della domanda che vengono espropriate e gestite dall’alto.
La domanda stessa viene formulata in modo tale che ne sia possibile
la saturazione senza un’abilitazione del destinatario del servizio stesso a definirsi come identità a iva nella relazione. Poiché l’intero processo di servizio sociale viene pensato - sia in sede di istituzioni statali
assistenziali, che nelle isomorfiche istituzioni più o meno caritative come un processo volto a colmare mancanze, a soddisfare esigenze, a
saturare vuoti e bisogni (la chiave semantica del conce o di bisogno è
totalmente dipendente dal conce o di incompletezza e di mancanza),
il ruolo dell’a ore o imprenditore sociale, statale o meno, si concentra
nella saturazione di questa incompletezza o mancanza. Saturazione
pericolosamente simile alla materna o paternalistica di soddisfazione
del bisogno nel circuito di godimento tra nutrice e neonato che condanna alla dipendenza e alla coazione a ripetere. Da questa prospettiva l’impresa sociale, quale che sia lo statuto dei suoi a ori, assume
il ruolo materno o paternalistico della saturazione delle mancanze
anche se dichiara di agire sulla base di diri i. Di fa o considera i destinatari come non-pienamente-maturi, non ancora e completamente
autosu cienti e dunque - sempre sulla base di un presupposto di responsabilità e solidarietà della colle ività nei loro riguardi - offre cose,
beni e servizi per colmare questa residualità.
Il presupposto da cui occorre invece muovere, se vogliamo immaginare il processo di sogge ivazione come non totalmente alienato
all’assogge amento e al condizionamento eteronomo, è nel riconoscimento che il punto chiave dell’impresa sociale non sta nel genere
di servizi prodo i, ma - come dovrebbe essere in ogni relazione politica e come oggi è ravvisabile nelle relazioni economiche di mercato
- nello spazio dato all’espressione alla domanda, nell’esplicitazione
del desiderio e del bisogno. È questa che deve essere so oposta primariamente al processo di risalita in generalità, piu osto che la decisione circa la possibile risposta alla domanda stessa. Si tra a di un
riposizionamento di non poco conto.
È la riconosciuta priorità della domanda ad aver rivoluzionato il
modello fordista in direzione della crescente importanza dell’organizzazione, comunicazione e relazionalità rispe o al più controllabile e gestibile dall’alto momento produ ivo. Anche se è vero che la
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domanda è condizionata da influenze che ne alienano la spontaneità della formazione e della formulazione, assistiamo ad un sempre
maggiore ruolo a ivo del consumatore che si fa partecipe della produzione stessa. L’essere ancora se oriale di questa svolta e il suo ambivalente dipendere da dinamiche di alienazione non ne indebolisce
l’ambivalente portata politica e conce uale. D’altra parte a questo
riposizionamento del ruolo del consumatore corrisponde, come ho
già accennato, la centralità dell’idea di impresa che, assumendo il
ruolo centrale che precedentemente aveva il lavoro, si carica di una
densità simbolica inedita, non estranea, sia pur in modo ambiguo,
alla categoria di agency politica. I singoli possono essere capaci di
a ivare forme di intrapresa, iniziative che si istaurano su relazioni
esistenti e che ne producono di nuove senza porsi in una condizione
di alterità rispe o agli utenti, ma li coinvolgono esa amente nella
formulazione della domanda. Cosicché quest’ultima diventa luogo
dell’identificazione esistenziale sociale e politica. Agli evidenti rischi
di diseguaglianza e di “sostanziale” alienazione dell’intero sogge o
alle leggi del mercato può corrispondere un’apertura del processo
di produzione di relazioni, una promessa di autogoverno, di disposizione di sé. Che ci sia spazio organizzativo per chi domanda può
significare essere abilitati a chiedere e ad organizzare le procedure
e la valutazione di fa ibilità delle proprie richieste; può significare
ancora farle filtrare in procedure di confronto e di confli o dire o e
realistico con le richieste e domande di altri per favorire quella salita
in generalità che ne potenzia la fa ibilità.
Ma sopra u o creare uno spazio adeguato alla voce delle domande
significa coglierne l’istanza identitaria, di riconoscimento che struttura ogni desiderio e ogni relazione interpersonale, così come Hegel
ha evidenziato nella sua “fenomenologia dello spirito”, cogliendovi
genialmente la chiave di volta della politica. Verrebbe in chiaro che
la natura del desiderio è dipendente dalla relazionalità, e che, in fin
dei conti, si tra a sempre, anche nel sistema sociale dell’economia,
di desiderio di riconoscimento e di relazionalità. L’impresa sociale
risponde ad una domanda di riconoscimento piu osto che ad una
muta richiesta di saturazione di bisogni. Non che questa non venga
messa in gioco: ma in ogni richiesta di scuola di quartiere, di assistenza agli anziani, di servizi di comunicazione, c’è una richiesta di
modalità di essere. Non cose, beni, ma esistenze, persone, vite che
vogliono entrare in relazione, essere riconosciute, agire a ivamente. Allora perché parlare di sogge i deboli ed incapaci, bisognosi di
DIMENSIONI POLITICHE DELL’IMPRESA SOCIALE
Laura Bazzicalupo
governo e di sostegno? Perché la domanda di riconoscimento identitario viene proprio da sogge i deboli che non si ritrovano nei ruoli
e nei modelli standard e se ne sentono esclusi (ma deboli, dipendenti
- sempre o a tra i - nella nostra vita siamo tu i). E va anche acce ato
il dato che probabilmente la richiesta di riconoscimento sarà condizionata e assogge ata alle logiche pubblicitarie e alla manipolazione, o, talvolta, all’urgenza della sopravvivenza. Ciò nonostante riconoscimento e relazionalità sono i prodo i primari della domanda
interpersonale di servizio.
Ma non basta: andrebbero studiate in modo interdisciplinare le possibili modalità di formazione di un sogge o, i processi di apprendimento e adempimento della persona, che passino a raverso il confronto con le prospe ive di altri al fine di rinforzarne la dimensione
politica. Questi processi implicano una concezione positiva concreta
della libertà/potere degli individui: libertà di accrescere progressivamente - se “non troppo governati”, secondo la felice espressione
di Foucault - la propria capacità di autodeterminarsi e di autogovernarsi agendo sui fa ori di conversione che trasformano “gli stati di
essere e di fare” (i funzionamenti) e le “varie combinazioni di essere
e di fare” (le capacità) in funzionamenti effe ivi (Sen, 1994; Borghi,
Chicchi, 2007). L’effe ivo esercizio di libertà concrete si manifesta
nella prassi che esercita scelte e predispone mezzi, che si confronta
con altri per validare come generali le proprie domande e dunque
che governa, quanto più è possibile, la propria vita.
Chiarire gli obie ivi dell’impresa sociale significa chiarire il tipo di
dimensione politica che essa genera. Naturalmente anche un’impresa
sociale che ado a schie e logiche biopolitiche facendo perno sulla dipendenza e sull’adempimento dei bisogni, sulla loro classificazione in
termini di cose che mancano e servizi che soddisfano, ha una dimensione politica. Anzi, come ho de o, si accorda pienamente al modello
biopolitico che una democrazia sempre più svuotata di senso e di partecipazione vede a uarsi. Dietro un’impresa sociale di questo tipo sta
una logica dell’autorità scientifica o parascientifica che garantisce che
la gestione delle vite non è fa a per l’interesse di chi eroga i servizi,
ma nell’interesse dei destinatari dell’azione sociale, “al servizio” dei
governati con competenze tecniche, mediche ed economiche, tali da
zi ire qualunque ipotesi diversa. Si tra a di una logica congruente,
appunto tecnica: non si vede come possano i singoli destinatari, per
di più costitutivamente carenti in quanto sogge i deboli, discutere
dell’opportunità di una scelta, per esempio economica, piu osto che
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di un’altra. Se la logica organizzativa è biopolitica, l’eventuale opposizione a queste scelte è generica, gestita a sua volta da gruppi di interesse che danno voce allo scontento e comunque raramente capace
di entrare nel vivo della discussione tecnica stessa. D’altra parte se
la soluzione di queste richieste viene so ra a al mercato, l’apparente
guadagno in termini politici, la possibilità di scelte cioè anche diseconomiche, viene pagato in termini di formazione di un’area residuale
che fa da zavorra e che inevitabilmente offre spazio ad opache negoziazioni di aiuti pubblici e politici. Stare dentro al mercato è complicato, ma è una sfida che, dal punto di vista della teoria politica,
può me ere in scacco le logiche del potere istituzionale che gestisce
consenso e voti. La stessa parola “impresa” comincia a perdere, come
quella di capitale umano e capitale sociale, l’aura dicotomica rispetto al lavoro salariato che aveva nel lessico fordista e diventa modello
centrale dell’agency contemporanea. Stare nel mercato qui significa
stare in quello spazio a raversato da miriadi di flussi di potere non
solo schie amente economici, ma anche culturali, politici, istituzionali e dare espressione e riconoscimento a poteri che assumono il codice
economico per esistere ed essere visibili.
Ma non è anche questa dell’impresa-intrapresa e dei destinatari a ivi, una nuova retorica?
5. Soggetti attivi?
In realtà l’emergere del terzo se ore e la crisi della coincidenza tra
politico e statuale è stata immediatamente legata a questo discorso
sul cambiamento di ruolo dei destinatari dei servizi: come se dopo
il welfare e la sua gestione biopolitica/eteronoma della domanda dovesse aversi con l’impresa sociale di iniziativa privata o cooperativa,
un riposizionamento ispo facto del ruolo dei destinatari non più passivi, ma a ori delle politiche e dei servizi che li riguardano.
C’è tu a una retorica - anche qui - circa la personalizzazione dei servizi su misura dell’utente, la valorizzazione delle sue preferenze in un
ventaglio di alternative offerte, la possibilità di stipulare contra i, di
partecipare a tavoli deliberativi, comunque in genere a promuovere
l’agency degli interessati. In effe i, ripeto, questo processo di a ivazione è largamente implicato nella generale a enzione del mercato
stesso alla domanda e alla personalizzazione dei consumi, piu osto
che (o almeno contemporaneamente al) movimento di socializzazione e democratizzazione della politica. L’uso di termini quali cliente,
DIMENSIONI POLITICHE DELL’IMPRESA SOCIALE
Laura Bazzicalupo
utente, consumatore evidenziano come in questo senso il terzo se ore non sia per l’appunto che una sezione del displacement dell’intera
politica in direzione del mercato. Naturalmente si danno modalità
ed accentazioni diverse a seconda che l’agency del destinatario si dia
in termini di libertà di scelta (e dunque sia da ricondursi alla libertà/
sovranità del consumatore), oppure sia orientata alla partecipazione
al tavolo delle decisioni in cui il destinatario è chiamato ad argomentare e giustificare a fronte di altre domande il senso (e la generalità)
della propria (Bifulco, de Leonardis, 2005, 2006).
Mentre, per esempio, nel voucher, la dimensione del contra o e la
conseguente individualizzazione dell’offerta di intervento evidenzia
certo un ruolo a ivo, ma pone comunque il destinatario nella posizione tradizionalmente passivo-rece iva del consumo, la variante
contra ualistica offerta dal “budget di cura” perme e un’influenza
maggiore nella determinazione delle prestazioni e nella modalità di
erogazione (Monteleone, 2005). Si potrebbe parlare in questo caso di
una posizione a iva nel mercato intermedia tra produzione e consumo. È interessante so olineare la diversa dimensione politica, poiché la scelta pura e semplice tra diverse offerte di servizi rimanda
ad un individuo, come è proprio della teoria liberale, presupposto
come capace di scegliere in assoluto, e dunque di domandare, le cui
eventuali debolezze non sono rilevate nella modalità di organizzazione del contra o. Invece nell’ipotesi di budget, che vede le istituzioni pubbliche che, anch’esse in posizione contra uale, sorvegliano
e garantiscono il cosa e il come dell’erogazione contra ata dai sogge i, per quanto interna al mercato, si delinea una messa in gioco
dell’eventuale e probabile situazione di debolezza contra uale da
parte dei sogge i utenti dal momento che il dispositivo mira alla capacitazione e al sostegno della capacità di domandare. Si deve pensare che nella realtà concreta la forma contra uale, da sempre simbolo di libertà e volontarietà delle parti private contraenti, non garantisce di per sé affa o la possibilità che la parte contraente debole,
che richiede la cura o il servizio, sia in grado con il semplice scegliere
di esercitare un potere pari a chi offre, il quale, stante all’inevitabile logica biopolitica del servizio, ha dalla sua il sapere/potere della
competenza e dell’autorità per imporre il contenuto contra uale.
La questione torna all’asimmetria costitutiva della relazione biopolitica di servizio e dunque rimanda ai dispositivi organizzativi che
devono essere molto sorvegliati perché possano rinforzare il ruolo
della domanda e della deliberazione sugli interventi e sulle scelte.
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La dimensione politica dell’impresa sociale si gioca dunque all’interno della consapevolezza della complessità della relazione di servizio
e di cura e della dipendenza che generano. Sia che la dipendenza generi diseducazione, abitudini passive di assistenzialismo, autosvalutazione e vincoli che inchiodano le biografie dei sogge i aiutati,
dunque una progressiva deprivazione delle capacità, sia che generi
a eggiamenti da free rider e opportunismo, la relativa gestione ha i
tra i biopolitici eteronomi della saturazione dei bisogni e della tacitazione delle identità e delle richieste di riconoscimento.
È necessario invece immaginare che la responsabilità della cronicizzazione delle dipendenze e della svalutazione dei “sé” va ascri a a
chi eroga servizi e consegue dalla modalità con cui viene organizzata,
dal fa o che punta sul cosa e non sul come che, da un punto di vista
politico, è il vero ogge o della richiesta stessa. È necessario pensare
le condizioni di autoresponsabilizzazione e di autogoverno che - supportate dal lavoro comune dell’impresa - possono dar luogo all’abilitazione e all’esercizio di scelte. Con a enzione critica. Perché è noto,
a partire da numerose esperienze, che la stessa famosa partecipazione della società civile, che dà risultati interessanti in proge i specifici
quali la riqualificazione di un quartiere, e politiche locali dello spazio
urbano con sogge i generalmente autonomi, è assai più problematica
in caso di politiche assistenziali, di cura, con sogge i costitutivamente
assogge ati al bisogno. In questi casi il sogge o è spesso isolato, ha
di coltà a confrontare le sue esigenze e le sue domande con quelle di
altri ed argomentare il processo di risalita in generalità, dunque di coltà di pubblicizzazione e politicizzazione della sua domanda. Ed è
più facile che la sua situazione sia tra ata in modo ridu ivo e la pluralità delle possibilità venga tacitata. Né d’altra parte - come sempre
in democrazia - c’è garanzia alcuna che un tra amento partecipato e
sociale delle questioni e degli interessi sia capace di risposte inclusive
ed aperte: spesso i colle ivi sociali danno luogo ad esclusione e ad atteggiamenti immunitari verso l’estraneità e la debolezza altrui. Niente
dunque risulta di facile soluzione.
DIMENSIONI POLITICHE DELL’IMPRESA SOCIALE
Laura Bazzicalupo
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Etica ed economia: quale etica per quale economia?
Fabio Marino
Sommario
1. Premessa - 2. Etica ed economia: quale realtà? - 3. Mai più economia senza etica! 4. Economia, etica e politica: verso un principio di eguaglianza - 5. Una sola idea di impresa,
una sola etica per l’uomo economico
1. Premessa
Se è vero che con vistosa preponderanza, oggi, il conce o di valore
si coniuga in termini economici, si lega a quello di negoziazione, di
scambio di una merce in luogo di un’altra di equivalente portata, e
che, sempre più, l’uomo dimentica che ciò che gode di un valore infinito e perdurante, eticamente rilevante, non può mai accompagnarsi
ad una quantificazione economica, non deve mai concedersi all’a o
mercificatorio; è pur vero che sempre più di frequente l’uomo stesso sembra prendersi una pausa dal mondo caotico della produ ività per chiedersi se è indispensabile trovare un valore d’interesse in
ogni aspe o della vita, se l’interesse è segnato sempre da un rendiconto, o se è possibile riaffermare il valore dell’uomo, a discapito di
“un generico valore”.
2. Etica ed economia: quale realtà?
Benché sembri che solo negli ultimi tempi, quelli più intensi del ritorno alla ribalta nella pubblica opinione delle riflessioni sui diri i in-
ETICA ED ECONOMIA: QUALE ETICA PER QUALE ECONOMIA?
Fabio Marino
violabili dell’individuo-uomo, della difesa dei diri i civili calpestati
dagli interessi di partito come delle aziende, della rinnovata coscienza
ambientale e naturalista, bene! Benché sembri che solo da poco anche
l’economia abbia rivendicato per sè una paternità etica, scopriamo con
rinnovato entusiasmo che l’economia è da sempre quaestio interamente etica: “La tradizione legata all’etica risale almeno ad Aristotele […]
collega la materia dell’economia ai fini umani, riferendosi all’interesse
di questa scienza per la ricchezza. […] Lo studio dell’economia, benché collegato in senso immediato al perseguimento della ricchezza, a
un livello più profondo è legato ad altri studi, rivolti alla valutazione
e all’avanzamento di obie ivi più fondamentali” (Sen, 2006).
Pertanto, se l’economia è riflessione etica, l’etica si riappropria del
suo potere di suscitare il discorso “sul” e “per” il pubblico, di ricondurre la riflessione sul bene comune che è, poi, questione sul riconoscimento di un comune valore verso cui convogliare le forze
socialmente produ ive e gli sforzi individualmente operabili.
L’economia etica si rivela, pertanto, non una semplice e specifica dimensione produ iva destinata ad un mercato di occasionale e sogge iva bontà: l’economia è da sempre etica e le regole che la definiscono sono da sempre regole etiche di socialità.
Non a caso Sen ripete in più occasioni che “l’etica è importante per
l’economia per due diversi motivi. Il primo è che molta economia
riguarda provvedimenti che vanno presi e poi esaminati e valutati. E
non è possibile fare una valutazione se non si hanno dei valori […]. Il
secondo motivo per cui l’etica è importantissima in economia è che il
comportamento umano dipende da valori etici” (Sen, 2006).
È nel suo essere azione pensata, direzionata e poi agita, a fare
dell’economia, e di tu i i suoi a i e scelte economiche, una praxis, un
agire umano volto all’affermazione di un valore di riferimento.
Ma se l’economia in se est et per se concipitur realtà etica, è, dunque,
processo aggregante l’uomo e concretante la società, è a o sociale
nel suo immediato porsi, come nella ricerca del fine per cui si dà:
qual è, dunque, il senso dell’espressione impresa sociale? Può mai
sussistere, alla luce di quanto de o, un’impresa economica che
non sia sociale nelle forme e nei fini? Possiamo concepire un darsi dell’economia che sia ricerca del valore (accogliendo l’originaria
riflessione aristotelica sul tema) ed un prodursi dell’a o economico
come ricerca di un generico valore di profi o? Se l’economia che si
identifica con l’etica è affermazione del valore, quella che se ne distacca è foriera del dis-valore?
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Sostanziando il discorso in termini di antitesi, risulterebbe, in breve,
inevitabile scivolare nella semplicistica etiche atura di un’impresa
che opera per il bene, quello sociale e comune per intenderci, ed un
imprendere che si dà per un proprio bene mercificato e mercificabile. Ma, allo stesso tempo, scivoleremmo verso un pendio scivoloso
che inevitabilmente (ri)condurrebbe le riflessioni economiche sul
mercato e sulla malvagità delle sue ferree leggi che leggono l’uomo
quale vi ima predestinata, schiava del danaro, reclusa in quella fe a
di mercato parcellizzato in cui il do impone sempre un ut des.
Con un rapido colpo di spugna cancelleremmo le sostanziali ri-conquiste dello spazio etico che la ri-le ura smithiana proposta da Sen,
e da altri “economisti eticamente orientati”, ha determinato; dimenticheremmo, così, che “[…] Smith so olinea l’importanza del ragionamento morale in un quadro adeguatamente ampio” (Sen, 2002), e
ritorneremmo, molto velocemente, ad imputargli la paternità della
moderna economia schiava delle leggi del Mercato.
3. Mai più economia senza etica!
Posta in tali termini, pertanto, la distinzione profit-nonprofit, che
oggi riveste un ruolo importante so o il profilo normativo e fiscale,
sembra risultare poco significativa: qualunque azione o intervento
operato da una realtà “organizzata”, ed economicamente impegnata, genera quel surplus di guadagno che assume vesti diverse solo in
riferimento al processo di contabilizzazione cui viene so oposto.
La differenza profit-nonprofit, difa i, risiede sul riconoscimento e
l’accoglimento di regole di “condo a sociale” ed economica che non
devono considerarsi appannaggio esclusivo di quella impresa che
più si sostanzia in quanto sociale.
La differenza che meglio ci sembra rintracciabile, dunque, si a esta
sul terreno della razionalità di scopo, di quell’insieme di criteri, imperativi e de ami ad essa costituzionali. Ma, ancora, non possiamo
tralasciare il rispe o per quella etica della responsabilità ed il vincolo relativo ad un senso del limite che, nel caso dell’impresa sociale,
si pongono in termini di risorsa e non semplicemente di onere: e,
infa i, proprio in ciò risiede quel tra o di socialità che del nonprofit
è elemento di sostanzialità.
Pur tu avia, nessuna legge, se non quella egoistica del Mercato, padre e figlio del processo di guadagno/profi o, vieta che tali cara eri possano a ribuirsi anche alle realtà economiche del profit: difa i
ETICA ED ECONOMIA: QUALE ETICA PER QUALE ECONOMIA?
Fabio Marino
questi tra i possono ben essere presenti nella più tradizionale impresa capitalistica che, però, tende a considerarli vincoli occasionali,
se non addiri ura opzionali, riconoscibili ed accoglibili, nelle maglie della propria organizzazione e gestione aziendale, solo qualora
risultassero funzionali a quelle personali strategie, messe in a o al
fine di massimizzare gli obie ivi d’impresa ed affermarsi in quella
specifica area di mercato parcellizzato entro cui opera.
Pertanto, tu i quegli elementi che nell’impresa sociale hanno il tra o
della risorsa, si trasformano in pesanti vincoli ed oneri che tendono a
rallentare l’ascesa dell’impresa capitalistica.
Se, pertanto, acce iamo l’idea che il nonprofit, che non sa trasformare questi vincoli in risorse, perde la propria identità sociale, dobbiamo, di conseguenza, accogliere l’idea che il profit, che riesce a
convertire il vincolo in risorsa, conquista una sua socialità.
È solo grazie a questi sforzi che possiamo coniugare inscindibilmente l’etica all’economia declinando una nuova era per la scienza economica capace di orientarsi a raverso le coordinate del bene comune, quale fine economico, e della cooperazione quale stile aziendale:
“Quando la cooperazione genera guadagni, possono esistere molti
accordi reciproci che, diversamente da quanto accade in assenza di
cooperazione, prevedano benefici per tu e le parti” (Sen, 2002).
Lo stile cooperativo si qualifica come dimensione di vita, ovviamente di vita sociale, a cui le impostazioni più tradizionalistiche della
scienza economica tendono a contrapporre in modo perentorio il
principio della massimizzazione dell’interesse proprio: è, questo, lo
scontro tra il principio del nonprofit, cooperazione in vista del bene
comune, e quello del profit, promozione instancabile del proprio interesse.
Questa opposizione binaria risente della tradizionale le ura del pensiero di Adam Smith concentratasi per molti secoli sull’assunto per
cui questi abbia identificato l’individuo nell’uomo economico, “[…]
promotore instancabile del suo particolare interesse (e di null’altro).
Eppure dal punto di vista della storia del pensiero, ciò è a dir poco
discutibile, dato che la convinzione con cui Smith sosteneva la centralità dell’interesse proprio in alcune sfere di a ività (ossia nello
scambio) fu a ancata dall’indagine di altre motivazioni, importanti
per il comportamento umano in generale” (Sen, 2005; [n.d.a.] il corsivo è un’aggiunta).
Come suggerisce a più riprese lo stesso Sen, centrare la scelta economica sull’assioma della massimizzazione dell’interesse proprio,
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risulta una forte restrizione del principio di razionalità che, inevitabilmente, conduce all’impossibilità di spiegarsi molti comportamenti agiti dall’uomo: “Pertanto, la visione ristre a della razionalità è
stata estesa incorporando una stru ura aggiuntiva […]. Infa i, nella
visione ristre a, ci sono questioni ancora irrisolte: spiegare perché
spesso le persone lavorino insieme in a ività produ ive interdipendenti, perché spesso si riscontrino comportamenti animati dalla coscienza civica […], oppure perché l’osservazione di alcune norme
basilari vincoli stre amente le azioni egoistiche in moltissimi contesti” (Sen, 2005).
Di certo, le motivazioni che sollecitano e dirigono gli stili collaborativi si alimentano in ambienti e contesti dal tra o squisitamente sociale, così come trovano ampia accoglienza in individui formati alla
dimensione altruistica dell’agire sociale, ma senza alcuna eccezione
la collaborazione, figlia della socialità, è tra o umano in quanto è
l’uomo stesso ad essere radicato in una dimensione vitale di socialità: “[…] quella sogge ività a raverso cui il corpo umano diventa
un recipiente animato dello spirito si forma a partire dalle relazioni
intersogge ive con altri. Il “sé” dell’individuo può nascere soltanto
lungo la via sociale dell’alienazione e può stabilizzarsi soltanto in un
reticolo di rapporti non danneggiati” (Habermas, 2002).
Se questa è la rinnovata vita dell’economia, l’etica le sarà sempre al
fianco assumendo, in una dimensione dialogica, il ruolo della consigliera, promotrice di quegli assiomi di responsabilità etica, senso del
limite, rispe o degli altri a ori del mercato, collaborazione, partecipazione dei lavoratori, re-distribuzione degli utili, giustizia sociale
che si pongono anche quali criteri veicolanti la riaffermazione di un
principio di eguaglianza.
4. Economia, etica e politica: verso un principio di
eguaglianza
Parlare di giustizia sociale significa sempre ricondurre la riflessione
sulla questione dell’eguaglianza, principio cardine della modernità
e da quest’ultima messa a repentaglio nelle diverse forme di a acco
sferrate dalla moderna incursione della scienza, come dalla recente
debolezza dello Stato nazione e dall’acce azione di un diri o che si
a da al criterio del balacing of law, associatosi all’ormai tradizionale
balacing of power, e che ha ormai aperto la porta al più recente balacing of ethics.
ETICA ED ECONOMIA: QUALE ETICA PER QUALE ECONOMIA?
Fabio Marino
Diversi e molteplici sono gli approcci e le interpretazioni del principio di eguaglianza: dall’eguaglianza distributiva di Ronald Dworkin, al rispe o per ogni agente morale capace di porsi degli obiettivi elaborata da Bernard Williams; dall’interpretazione di Thomas
Nagel che, in nome dell’eguaglianza economica, giunge a tollerare
parziali riduzioni della libertà, alle eguali opportunità di Richard
J. Arneson impegnato a cancellare le differenze tra svantaggiati ed
avvantaggiati (Acocella, 2003).
Un ruolo ancora centrale e ricco di interesse riveste il pensiero di Michael Walzer sulla questione in ogge o: questo filosofo e politologo
statunitense elabora nelle pagine di “sfere di giustizia” (1983) una
le ura innovativa del principio di eguaglianza che trova, nei successivi Pluralism, Justice and Equality (1995) e “Geografia della morale:
democrazia, tradizioni e universalismo” (1999), una valida ed articolata difesa alle continue critiche rivolte alla sua teoria dell’eguaglianza complessa.
L’assunto da cui parte Walzer per elaborare tale teoria è che “[…] i
principi stessi della giustizia hanno una forma pluralistica, che beni
sociali diversi devono essere distribuiti per ragioni diverse, secondo
procedure diverse, e che tu e queste differenze derivano da concezioni diverse dei beni sociali stessi, risultato inevitabile del particolarismo storico e culturale” (Walzer, 1987).
L’inadeguatezza di un’eguaglianza, per così dire, “semplice” è dovuta al pluralismo dei beni che determina il pluralismo delle possibilità distributive, di conseguenza, la necessità di un’eguaglianza
complessa si deve alle violazioni sistematiche che le società, nel passato come nel presente, hanno operato nei diversi ambiti dei beni
sociali.
Il rapporto tra le diverse società storiche ed i beni sociali è sempre
stato regolato dalle dinamiche della dominanza e del monopolio:
la prima modalità “rappresenta un modo di usare i beni sociali che
non è limitato dai loro significati intrinseci o che plasma tali significati a propria immagine, la seconda, invece, rappresenta un modo
di possedere o controllare i beni sociali allo scopo di sfru arne la
dominanza” (Walzer, 1987).
Per Walzer entrambe queste posizioni risultano inadeguate: la prima
perché non amme e il pluralismo dei beni, la seconda perché presupporrebbe un’eguaglianza semplice (una sorta di momento zero della
storia sociale in cui tu i gli individui posseggono la stessa quantità
di beni sociali) che “richiederebbe un continuo intervento statale per
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spezzare o limitare monopoli incipienti e per reprimere nuove forme
di dominanza” (Walzer, 1987). Una terza via, pertanto, si rende necessaria: quella centrata su un principio eguaglianza complessa.
Prefigurarsi una condizione di “eguaglianza complessa” significa
immaginare una società in cui i vari beni sociali, pur essendo, come
del resto ci mostra la storia, monopolizzati, non sono universalmente convertibili; solo in tal modo nessun bene potrà avere il “monopolio” assoluto sugli altri beni e quindi sugli individui della società: “l’eguaglianza semplice è una condizione distributiva semplice
[…] l’eguaglianza è una relazione complessa fra persone, mediata
dai beni che creiamo, condividiamo e spartiamo; non è l’identità dei
beni” (Walzer, 1987).
Se è vero che “l’eguaglianza è un ideale fa o per essere tradito; uomini e donne impegnati la tradiscono, o sembrano tradirla, non appena organizzano un movimento per l’eguaglianza e spartiscono fra
di loro potere, posizioni e influenza” (Walzer, 1987), la tradizionale
riparazione a tale mancanza, offerta dall’eguaglianza semplice - voler imporre un originario regime di eguaglianza, per cui tu i hanno
tu o in eguali proporzioni - risulta inadeguato. Occorre una nuova
forma di eguaglianza complessa che disegni l’immagine di una società in cui un bene posseduto da un individuo, e non proporzionalmente distribuito agli altri membri della società, non pone tale
individuo in posizione di dominio sugli altri. Il bene di cui parliamo
qui è “[…] sia l’essere e il fare sia l’avere, sia la produzione sia il
consumo, sia l’identità e lo status sia i capitali, i possedimenti, e i
beni personali” (Walzer, 1987), tu o quell’insieme di elementi che
regolano e costituiscono i rapporti sociali. È da tale presupposto che
Walzer giunge a descrivere la società quale insieme di differenti sfere, ambiti di azioni che regolano e in cui, al tempo stesso, si svolge la
vita degli individui. È, dunque, la società stessa un sistema di beni
interconnessi, ed è l’equa o l’iniqua distribuzione di tali beni a determinare l’insorgere della disuguaglianza sociale; in vista di un superamento della disuguaglianza, ciò che conta è il valore dato al bene
e il suo criterio di distribuzione: “[…] la giustizia distributiva non è
una scienza integrata, ma è un’arte della differenziazione. L’eguaglianza non è che il risultato di quest’arte […]” (Walzer, 1987).
La giustizia distributiva si pone quale centrale questione dei nostri
tempi, della scelta economia come di quella politica, perché “la società è una comunità distributiva: […] noi ci me iamo insieme per
condividere, spartire e scambiare delle cose” (Walzer, 1987); cose che
ETICA ED ECONOMIA: QUALE ETICA PER QUALE ECONOMIA?
Fabio Marino
non sono soltanto ogge i, in quanto gli uomini producono, elaborano, non soltanto realtà materiali, ma anche pensieri, sentimenti e
speranze, ed è per questo che la vita sociale, per Walzer, si svolge in
sfere che vanno dal denaro al lavoro, dall’amore alla grazia divina.
Queste diverse sfere sono veri e propri sistemi distributivi analizzati e descri i con evidenti richiami al mercato, “storicamente […]
uno dei più importanti meccanismi di distribuzione dei beni sociali” (Walzer, 1987), di certo non l’unico sistema distributivo, ma una
delle tante sfere, che, insieme a quella del potere politico, tende ad
oltrepassare i propri confini, il proprio ambito d’azione volendo imporsi anche alle altre sfere.
L’eguaglianza complessa ha proprio il merito di impedire un tale
abuso di una qualunque sfera sulle altre: di fa i “il regime dell’eguaglianza complessa è l’opposto della tirannide, poiché istituisce un insieme di relazioni che rende impossibile il dominio” (Walzer, 1987),
è la garanzia della tutela dell’individuo in quanto ci perme e di elaborare un “principio distributivo aperto: nessun bene sociale X deve
essere distribuito a uomini e donne che possiedano un altro bene
Y solo perché possiedono Y e senza considerare il significato di X”
(Walzer, 1987).
Risulta, pertanto, evidente come un tale principio perme a non solo
di riconoscere e tutelare l’autonomia delle singole sfere, ma anche il
ci adino, in quanto la sua “[…] posizione […] in una sfera, o rispe o
al bene sociale, non può essere danneggiata dalla sua posizione in
un’altra sfera, o rispe o ad un altro bene sociale” (Walzer, 1987).
Le scelte economiche si rendono terreno fertile per l’a uazione di
un nuovo sistema di eguaglianza sociale solo se trasformano la razionalità semplice, quella tradizionalistica del guadagno/profi o, in
razionalità complessa che, come suggerisce Sen, è capace di spiegare
la scelta della collaborazione in vista di un bene comune: del resto se
questa epoca è segnata dal paradigma della complessità, ogni principio deve declinarsi nel rispe o di questa complessità.
Alla luce di tale teoria risulta ancora più evidente lo stre o legame tra decisione politica, scelta economica, ed orientamento etico
in vista del concretarsi, nelle nostre quotidianità, di una sostanziale
eguaglianza sociale: solo l’intenzionalità di una politica volta all’affermazione di concreti a i di eguaglianza sociale può sollecitare
un’economia aperta a scelte di profi o sociale, di un’economia capace di accogliere l’orientamento etico non come un vincolo, ma come
una risorsa garanzia di crescita.
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Nonprofit e profit si differenziano, in tale o ica, solo per una scelta
di campo connessa allo stile più o meno collaborativo del loro imprendere, ma le finalità del loro farsi impresa confluiscono verso una
comune dimensione sociale.
5. Una sola idea di impresa, una sola etica per l’uomo
economico
Se, dunque, ogni impresa, benché nella diversità organizzativa e gestionale, è sempre socialmente orientata, non regge più il limitante
discorso di un’etica della responsabilità, propria del nonprofit, e di
un’etica degli affari, propria del profit.
Il discorso etico, intorno all’uomo e alle scelte del suo agire, si declina, pertanto, nei soli termini dell’etica della responsabilità che è sempre responsabilità sociale perché scandita dalla dimensione in cui si
articola e si agisce il vivere quotidiano dell’individuo: la società.
La responsabilità è la dimensione etica più confacente all’uomo, e a
questa epoca della complessità in cui egli vive.
La nostra propensione per un’etica della responsabilità è sollecitata
dal più che evidente “[…] collegamento tra responsabilità e risposta.
[…]. Tale collegamento spiega perché la responsabilità implichi un
necessario riferimento all’altro (al quale si deve rispondere) e per
questo si eserciti nell’ambito dei rapporti interpersonali, rapporti che
vengono regolati a raverso impegni, garanzie reciproche, promesse; e spiega altresì perché tale termine abbia trovato una prima utilizzazione in ambito giuridico e politico” (Da Re, 2003). In entrambe
queste dimensioni, infa i, ciò che risulta chiaramente evidente è il
sostanziarsi della responsabilità in termini di promessa solenne di
un impegno da agirsi nel futuro: è, quindi, la responsabilità un dovere proie ato nel futuro, nel senso di un dovere che consenta la
possibilità di un futuro, così come di un impegno a tutelare il futuro,
futuro che per il vivere sociale si coniuga in termini di bene comune,
eguaglianza sociale, giustizia.
Ma non può esservi responsabilità che non sia assunta liberamente dal
sogge o: non basta la responsabilità imposta dal timore, presunto o effe ivo, della sanzione legale, qui occorre rintracciare nell’uomo la radicale e libera assunzione di responsabilità, occorre ritrovare un uomo
che in piena libertà si riscopra sogge o pienamente responsabile.
La libertà, come disposizione dell’animo, ma anche come condizione sociale dell’individuo, diventa terreno fertile per l’accoglimen-
ETICA ED ECONOMIA: QUALE ETICA PER QUALE ECONOMIA?
Fabio Marino
to di un’istanza di responsabilità. Parliamo qui di libertà negativa
e di libertà positiva, di quella libertà “da” come di quella libertà
“di”, imprescindibili per l’accoglimento dell’imperativo categorico kantiano: “Se potessimo convincerci tu i ad ado are, per fede
religiosa o per convinzione laica, l’imperativo categorico kantiano,
e quindi ad improntare il nostro comportamento, anche quando
non è controllabile e quindi non è sanzionabile, alle regole generali
che consideriamo giuste, regaleremmo alla società un formidabile
strumento di progresso economico, oltre che di convivenza civile”
(Muraro, 2007).
Ma un principio etico di responsabilità non può semplicisticamente
declinarsi, nel campo dell’economia e dell’impresa, nella consueta
riflessione sulla responsabilità sociale d’impresa: la responsabilità
nell’agire dell’uomo è sempre sociale perché la socialità è la dimensione in cui si dispiega la vita umana.
Di certo guardando alla definizione che l’Unione europea ha fornito, scopriamo che nelle indicazioni rivolte ai sistemi economici
di a uare fa ivamente “l’integrazione volontaria delle problematiche sociali ed ecologiche nelle operazioni commerciali e nei rapporti con le parti interessate”, risiede la chiara volontà di stimolare
un’idea di economia che si allontani dal rigido schema consequenzialista della massimizzazione del profi o per l’azienda ed i suoi
azionisti.
Se, invece, riuscissimo a leggere l’assunto di responsabilità come
nuova ro a per l’agire umano, scopriremmo che la stessa economia,
con le sue svariate forme di impresa, è capace di massimizzare il
benessere sociale a raverso il rispe o per l’utente come per il cliente, la partecipazione a più livelli dei sogge i coinvolti, la solidarietà
verso il sistema sociale e civile in cui l’economia stessa si concreta
nelle diverse forme di impresa.
Variando semplicemente il nostro punto di vista sul sistema mondo
in cui interagiamo possiamo (ri)appropriarci di un innovato sistema di valori in cui la responsabilità sociale è matrice di ogni agire:
responsabilità sociale che anche in ambito economico, però, si dà
nell’originario significato di rispondere del bene sociale perché “[…]
è bene per la società che anche nell’impresa, pur pensando primariamente al profi o, si possa e si debba parlare di valori, di regole
non scri e, di a enzione volontaria alle esigenze colle ive” (Muraro, 2007).
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Riferimenti bibliografici
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Walzer M. (1987), Sfere di giustizia, Feltrinelli, Milano.
IL PUZZLE DELL’IMPRESA SOCIALE TRA IMPAZIENZE DEMOCRATICHE ED ESIGENZE PARTECIPATIVE
Angela Iacovino
Il puzzle dell’impresa sociale tra impazienze
democratiche ed esigenze partecipative
Angela Iacovino
Sommario
1. Premessa - 2. L’impresa sociale: da ossimoro a norma - 3. Verso una democratizzazione del
sociale. Partecipazione funzionale o apertura democratica? - 4. Il resto che sfugge
1. Premessa
Significativa esemplificazione di innovazione istituzionale ed organizzativa, l’impresa sociale è concepibile come formula imprenditoriale inedita e potenzialmente capace di innervare ipotesi feconde
di sviluppo locale, coerentemente con le dinamiche processuali di
trasformazione delle politiche sociali, con il recente arcipelago istituzionale scandito dal pluralismo territoriale, nonché con l’esigenza
di democraticità che pervade e legi ima l’intromissione della socialità nelle logiche degli scenari economici. Qual è la reale situazione,
i cui contorni sono fondati giuridicamente, ora? Come ha inteso il
legislatore scandire l’avvenire della regolazione dell’insicurezza e
ridurre le crescenti e prepotenti controversie in tema di codificazione dell’associazionismo? La partecipazione dei ci adini all’elaborazione delle politiche sociali costituisce il portato fondamentale delle
nuove logiche di programmazione e di implementazione di policy,
nelle quali il ruolo della società civile, relativamente alla regolazione
dei problemi sociali, diviene preponderante. Ma, a cosa rispondono
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esa amente le procedure di partecipazione? Quali illusioni e disillusioni alimentano? Consentono davvero di prendere decisioni più
democratiche, entro un contesto di aumentata incertezza e di ridotta padronanza, scandito, peraltro, dai processi di mondializzazione
degli scenari?
2. L’impresa sociale: da ossimoro a norma
Il conce o di impresa non è generalmente considerato in termini
giuridici; per taluni giuristi, addiri ura, la nozione è percepita come
irritante perché inafferrabile e precariamente delimitabile (Supiot,
1985). Arduo connotare l’impresa in sé, dunque; più agevole riconoscerla mediante l’immagine deformata che rinvia allo specchio
di ciascuno dei rami del diri o in cui, riflessa, si trova invischiata.
L’inesistenza di un’unica concezione giuridica non impedisce, naturalmente, alle imprese di funzionare e queste, di volta in volta, si
ada ano alla modesta sorte che riservano loro i giuristi, i quali ne
predispongono condizioni e mezzi tecnici per normarne l’organizzazione e prevederne l’evoluzione. Né l’assenza di una comprensione
giuridica sistematica dell’impresa ostacola la possibilità di concepirne il funzionamento come asse o giuridico in sé, il che genera non
pochi problemi agli ordini giuridici positivi tradizionali, da un lato,
e agli ordini economici, dall’altro (Robé, 1995).
Diversi ed eterogenei sono gli interessi che un’impresa me e in gioco e, altre anto prismatici diventano i ganci quando quell’impresa
assume un’agge ivazione che pare quasi, a prima vista, snaturarle
l’animo e modificarle il destino. Il termine generico di impresa sociale, ad uno sguardo più a ento e ad una riflessione matura, non
segna affa o una ro ura rispe o alle organizzazioni dell’economia,
e dell’economia sociale, quanto, piu osto, una sorta di allargamento delle loro forme potenziali. In tal senso, l’impresa sociale appare
come portatrice di una diale ica situata all’incrocio di strade diversificate: diversa dalla logica dell’impresa privata tradizionale, giacché
il potere non s’identifica con il capitale, sviluppa tu avia scambi di
natura commerciale, costringendo l’economia a non ridursi al mercato, ma ad includere i principi di redistribuzione e di reciprocità,
divenendo, così, stru ura che coniuga finalità solidaristica ed organizzazione imprenditoriale (Vitale, 2005).
Impresa sociale, nel de aglio, è espressione riferibile a quelle specifiche organizzazioni la cui peculiarità “non è costituita dall’esse-
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re vincolate nella distribuzione di utili ai proprietari, ma quella di
combinare una natura imprenditoriale, con i suoi connotati di volontarietà, autonomia, rischio e propensione all’innovazione, con la
produzione di un servizio a favore della comunità in cui operano o
di gruppi specifici di ci adini” (Borzaga, 2002). Scopo primario di
siffa a formula organizzatoria, dunque, è il perseguimento di un
agire imprenditoriale socialmente utile. Anche l’impalcatura normativa, che ne disciplina l’asse o complessivo, evidenzia la natura
imprenditoriale, insistendo, altresì, sulla finalità solidaristica, quando all’art. 1 del decreto legislativo 24 marzo 2006 n. 155 (Disciplina
dell’impresa sociale, a norma della legge 13 giugno 2005, n. 118), nel
definire la nozione, a ribuisce la qualifica di impresa sociale a “tu e
le organizzazioni private che esercitano in via stabile e principale
un’a ività economica organizzata al fine della produzione e dello
scambio di beni e servizi di utilità sociale, dire a a realizzare finalità di interesse generale e che hanno i requisiti” riferibili all’utilità
sociale, all’assenza di scopo di lucro, alla stru ura proprietaria e alla
disciplina dei gruppi.
Quale è l’intima natura dell’impresa sociale? In che termini rappresenta una forma di imprenditorialità? Quanto ancora del dogma
“nonprofit”, sul quale in passato è stata modellata, tra iene in sé?
Può un’organizzazione con missione apertamente sociale, intraprendere mete imprenditoriali e perseguire le sue poste in gioco seguendo il ritmo d’impresa? “L’impresa for-profit è finalizzata al profi o
che è anche il contributo sociale all’asse o economico-sociale della
società. L’impresa sociale è finalizzata al sociale con la condizione
dell’equilibrio economico-finanziario indispensabile per il dinamismo a ivo e prospe ico nella logica economico-aziendale della
continuità, perdurabilità, e cienza ed e cacia dell’organizzazione
stessa. L’integrazione è possibile e sarà sempre più fa ibile ed indispensabile alla luce anche della normativa vigente” (Fiorentini,
2006).
Se la definizione di imprenditore viene utilizzata per indicare anche
coloro i quali si preoccupano di “sociale”, proviamo, allora, nel modularne i tra i, a verificarne la plausibilità identificativa. Impresa
ed imprenditore sono termini che rifle ono un fare, un’a ività, una
proge ualità, una funzionalità; un enterpriser è, in taluni casi, un avventuriero, un sogge o pieno di iniziativa. Non basta. C’è un senso supplementare del termine che merita menzione: analogamente
al musicista, il cui possesso delle abilità tecniche non basta a fare
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della sua arte un’arte, così l’imprenditore deve mostrare un certo
fiuto nel prevedere opportunità feconde e, nel realizzarle, garantire
la creazione di ricchezza (Chell, 2007). Creare valore, insomma. In
tal senso, l’uomo intraprendente (Smith, 1967), il creatore di ricchezza, è etiche a ada abile anche al leader del se ore nonprofit, il cui
comportamento motivato genera qualcosa di valore. È, infa i, nella
creazione di “qualcosa di valore” che rintracciamo un possibile (e
plausibile) collegamento con i due termini apparentemente antitetici, impresa e sociale.
Le sempre più fi e interrelazioni tra società ed economia, la scelta
di collaborare per ridurre la frammentazione scenografica a uale
(Kent, Anderson, 2003), suggeriscono, peraltro, di ripensare e riformulare le teorie sugli imprenditori, concepiti non solo come creatori
di valore materiale, ma anche come agenti di sviluppo e “archite i
del sociale”. La rinnovata destinazione delle energie, in precedenza
destinate unicamente al risultato lucrativo, ed ora orientate ai valori sociali, spesso di resa indire a nello scambio di integrazione con
il pragmatismo operativo della cosa pubblica, invoca un aggiornamento ed un adeguamento della prospe iva di imprenditorialità: la
figura dell’imprenditore va, insomma, completata da tasselli mancanti (Sorrentino, 2007).
Nondimeno, l’idea di impresa sociale seguita a generare perplessità
in ordine agli ossimori: l’impresa rimanda ai valori dell’individualismo, al conseguimento di successi personali, nonché all’assunzione
personale di responsabilità delle azioni; “sociale”, invece, si riferisce
ad a eggiamenti e valori che sono culturalmente dedo i, contestualizzati. Concepita, tu avia, come coacervo potenziale di condizioni
in grado di promuovere fecondi livelli di sviluppo di un paese, l’impresa sociale sedimenta i suoi corollari e diviene, nel tempo, una sorta di “crociata morale”, oltre il simpliciter economico. In quest’o ica,
le persone possono essere intraprendenti perché mossi e costre i,
interiormente, da una sorta di prescrizione morale: l’impresa è impregnata, ora, di un inedito ingrediente, la “buona ci adinanza”
(Fairclough, 1991). Progressivamente, l’idea di impresa si arricchisce
di ulteriori sfumature semantiche, divenendo entità dalla stru ura
malleabile e mutevole al variare del clima politico e delle influenze
istituzionali che ne plasmano, inevitabilmente e per fini sociali e politici, il significato.
Ciò de o, quale possibile sintonia concilierebbe la dicotomia tra impresa e sociale? Cosa fa dell’impresa, un’impresa sociale? La cultura e
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l’ethos dell’impresa sociale si sostanziano sui principi della solidarietà,
sul comportamento etico e su una missione la cui causa è spiccatamente sociale. Ciò non fa che scontrarsi con l’altro ethos, quello della
condo a imprenditoriale che scandisce l’organizzazione for-profit,
basata sul contra o di lavoro, animata da pragmatismo strumentale
ed orientata alla creazione di un certo tipo di valore, abbastanza lontano, quando non antitetico, dallo spirito che riecheggia dalla socialità
democratizzante di cui si fa promotrice l’impresa sociale.
Come uscire da siffa a empasse? Le imprese sociali devono comportarsi “imprenditorialmente”: connotiamo il comportamento imprenditoriale, decontestualizziamolo e verifichiamone l’ada abilità
altrove, nella socialità appunto, che è serbatoio di solidarietà e reciprocità, ed anche di potenziale democraticità. Ebbene, l’impresa
sociale crea opportunità ed intraprende azioni, “implacabilmente”
(avendo valutato a entamente le opportunità), senza riguardo alle
risorse alienabili a ualmente controllate (prescindendo dalle risorse
concretamente a disposizione), guardando, nel contempo, al valore
sociale innervato, e alla ricchezza prodo a, da reinvestire in ulteriori
iniziative, per assicurarsi la sostenibilità futura. Il senso delle “risorse” è, naturalmente, piu osto ampio. Un vantaggio competitivo è
offerto non solo da quelle alienabili, ma anche da quelle inalienabili:
sociali, personali, intangibili; risorse che includono la conoscenza tacita, l’intelligenza emotiva che, nel caso dell’impresa sociale, possono essere incentivate, prelevate dallo spirito di comunità e dedo e
dal contributo volontario delle reti sociali e locali.
Vieppiù, l’analisi del comportamento imprenditoriale risulterebbe
incompleta se non si contemplasse il ruolo del capitale sociale: gli
imprenditori usano le loro reti personali e sociali nella realizzazione
dell’opportunità (Granove er, 1973), e lo sviluppo di un’opportunità
può dipendere, in parte, dalla fiducia e dalle persone sulle quali si
può contare. Insomma, al cuore del processo imprenditoriale c’è un
bilanciamento di comportamento sociale ed economico generatore, a
sua volta, di valore sociale e di valore economico. Concentrarsi unicamente sulle conseguenze economiche (accumulazione di capitale
e creazione di ricchezza materiale) significa mortificare il principio
di realtà, che, al contrario, se disvelato, fa apparire anche i benefici
sociali (crescita occupazionale, sviluppo della comunità nonché delle capacità individuali).
In questo senso, allora, ogni economia è sociale. L’entrare in rapporto dell’economico col sociale, e viceversa, delinea orizzonti alterni,
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variando al mutare dei modelli di sviluppo. “L’economia è intimamente sociale, nel suo input e nel suo output” (Lévesque, 2006); l’impresa capitalista non funziona solo con i capitali, con i contra i di
lavoro, con l’acquisto di macchinari e di materie prime: l’impresa
non può funzionare corre amente se i lavoratori non offrono ciò
che non può essere acquistato, cooperazione ed impegno al lavoro.
Parimenti, la produzione capitalistica non può essere ad alto rendimento in un ambiente naturale caotico. Tu o sommato, il “sociale”,
concepito come legame sociale e come capitale sociale, interferisce
fin dalla genesi “della” e “nella” impresa capitalista. Ed ancora: ogni
economia è sociale come input, innescando processi quali la coesione sociale, la cooperazione, la partecipazione, la creatività, l’immaginazione, l’impegno al lavoro, il capitale sociale, la formazione e
competenza, l’ambiente naturale. Come output: favorendo impiego,
in termini di sicurezza e di creazione, sviluppo locale, e, non di poco
conto, qualità della vita. Da siffa a prospe iva, ogni economia (ed
ogni impresa), produce del “sociale”, benché la dimensione sociale
dell’economia non sia apertamente riconosciuta né dagli economisti, che parlano di esternalità per cara erizzare talune conseguenze
sociali della produzione capitalista, né dagli imprenditori, quando
valutano la prestazione della loro impresa a partire esclusivamente
dai rapporti che provengono dal bilancio finanziario.
Facendo la sua comparsa, l’impresa sociale, quale espressione di
una nuova esigenza di coniugare solidarietà ed esercizio dell’a ività
economica, consentirebbe il superamento dell’originaria concezione di ne a separazione tra la realizzazione di finalità di interesse
generale, di competenza del se ore pubblico, ed il perseguimento
di fini egoistico-lucrativi, propri dell’ambito privatistico (Locatelli,
2006); modificando, in ultima analisi, la concezione tanto dell’impresa, quale organizzazione che crea valore sia economico che sociale,
quanto dell’imprenditore, che persegue finalità di natura economica
e di natura ideale.
L’ossimoro muta in norma, e nel mutare diviene strumento che offre asilo normativo a tu e quelle forme imprenditoriali susce ive
di coniugare l’a ività di produzione dei beni o servizi con i valori
di solidarietà sociale, rinforzando, in ultima analisi, il mondo del
nonprofit, nel quale gravitano valori di tu o rispe o: estraneità agli
interessi economici, dono, solidarietà, volontà ed entusiasmo, etica,
realizzazione di fondamentali interessi colle ivi. Bene. Ma il decreto
sull’impresa sociale perde intelligibilità se avulso dal contesto in cui
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si inserisce: “l’agge ivo sociale, perso il comune significato di societario, nobilitando il lessema, vuol so olineare l’estraneità dell’impresa alla logica del profi o e richiamare l’intero sistema di valori
positivi che cara erizzano il terzo se ore. Si ha però l’impressione
che il decreto sia arrivato per forza di inerzia, emani fumo di buone
intenzioni ma non dia risposta a nessuno dei problemi dell’associazionismo” (De Giorgi, 2007).
Certamente si riconosce la portata innovativa, sul piano legislativo,
concretata dal superamento della “rigida dicotomia, a ualmente
prevista dal codice civile, fra gli enti di cui al Libro I e quelli del
Libro V”, ma il “fraseggio” del provvedimento “evoca lo stile della
normativa di promozione, da cui sono fa e transitare alcune regole;
l’andamento complessivo comunica l’impressione di sfociare nella
consueta a ribuzione di benefici, tu avia, almeno al momento, non
previsti, anzi drasticamente esclusi dalla norma di chiusura” (De
Giorgi, 2007).
3. Verso una democratizzazione del sociale. Partecipazione
funzionale o apertura democratica?
Sono decenni, ormai, che la deriva dello stato del benessere ha provocato l’inverarsi di nuove forme di intervento agite da organizzazioni che privilegiano la finalità sociale piu osto che la logica del
profi o, e che si sforzano di rinnovare le modalità di partecipazione
degli utenti alla produzione dei servizi. Naturalmente, tali iniziative
suscitano un ritorno di interesse per un’economia sociale rinnovata,
a eso che questa si riferisca a quegli organismi colle ivi orientati
alla gestione democratica, cara erizzati da principi non lucrativi e
da modalità di associazione volontaria, presupposta come partecipativa. Le forze e le energie dell’economia sociale e solidale non sbocciano, però, senza la democrazia, indiscutibile condicio sine qua non.
Così, l’approccio dell’impresa sociale si distinguerebbe dagli approcci relativi al terzo se ore (nonprofit compreso) proprio per l’accento
posto sul funzionamento democratico, condizione indispensabile affinché le cara eristiche dell’impresa sociale possano produrre seriamente i loro fru i. La questione è duplice: da una parte, la partecipazione a iva delle persone coinvolte è funzionale all’identificazione
dei bisogni non soddisfa i, abitualmente poco visibili; dall’altra, la
costruzione congiunta dell’offerta e della domanda per gli utenti, e
per i professionisti, presuppone uno spazio pubblico che consenta il
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diba ito e la deliberazione, per verificare quanto e come ciò che appare come somma di problemi individuali costituisce, in realtà, un
problema sociale. Parimenti, la mobilitazione e l’ibridazione delle
risorse, di qualsivoglia natura, non si a ivano senza il consenso di
tu i gli agenti impegnati nell’impresa.
Ebbene, requisito fondamentale delle imprese sociali risulta essere il
perseguimento di finalità di interesse generale mediante la realizzazione di a ività indirizzate alla colle ività. Per la naturale e ontologica
vocazione sociale, queste nuove formule imprenditoriali rappresentano esempio formalmente esplicito di impresa, in cui gli elementi di
socialità ne legi imano e sostanziano l’esistenza riguardo alle finalità,
alla disciplina giuridica e finanche all’organizzazione (Regoliosi, 2006).
Ad emergere, in primissima istanza, nell’esercizio di a ività qualificate come commerciali, e, dunque, afferenti alla fornitura di beni e alla
prestazione di servizi, è la necessità di prestare a enzione alla composizione degli stakeholder e allo speciale rapporto con l’imprenditore.
La normativa sull’impresa sociale individua, al riguardo, i destinatari
delle a ività sociali ed i lavoratori coinvolti nell’organizzazione, precisando che per entrambi i gruppi è indispensabile promuoverne il
coinvolgimento, concepito come “qualsiasi meccanismo, ivi comprese
l’informazione, la consultazione o la partecipazione, mediante il quale
lavoratori e destinatari delle a ività possono esercitare un’influenza
sulle decisioni che devono essere ado ate nell’ambito dell’impresa,
almeno in relazione alle questioni che incidono dire amente sulle
condizioni di lavoro e sulla qualità dei beni e dei servizi prodo i o
scambiati” (art. 12, d.lgs. 24.03.2006, n. 155).
Ne deriva che la condivisione degli obie ivi dell’impresa sociale è
dire amente collegabile alla socialità stessa rimandando, altresì, al
coinvolgimento dei lavoratori e degli utenti, confortando quanti credono che la gestione di un pubblico servizio debba essere condo a
secondo modalità condivise e concordate, nell’o ica della nuova filosofia di governance, modellata sulla base del novellato art. 118 della
Costituzione, che al 4° comma fa esplicito riferimento al principio di
sussidiarietà orizzontale. Dietro tale impostazione si cela lo sforzo
volenteroso di elaborare, e progressivamente diffondere, una nuova
cultura in grado, da un lato, di valorizzare la sogge ività e, dall’altro, di investire l’organizzazione ed il suo ambiente di riferimento,
coinvolgendo, per l’appunto, diversi stakeholder: “Il territorio è agito
in forma di comunità che è origine e finalità dell’azione imprenditoriale” (Scara i, Zandonai, 2007).
IL PUZZLE DELL’IMPRESA SOCIALE TRA IMPAZIENZE DEMOCRATICHE ED ESIGENZE PARTECIPATIVE
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La norma, peraltro, chiama in causa la ci adinanza sociale, non tanto so o il profilo dei diri i sociali (pure da non trascurare), quanto
nel senso di un’espressione della ci adinanza capace e susce iva di
definire modalità di regolazione dei problemi colle ivi. In tal senso,
una seria riflessione sulla democratizzazione del sociale deve fare
il punto sulla reale rappresentazione e sulla concreta partecipazione dei ci adini alla definizione, elaborazione e gestione delle politiche sociali, e finanche alle politiche di sviluppo locale. La via da
ba ere è quella del democratic stakeholding: offrire a tu i coloro che
intessono rapporti con le organizzazioni della società civile la reale
possibilità “di partecipare al processo deliberativo nelle forme che
devono essere inventate. Giova ricordare che non basta la comunicazione trasparente (dare informazioni corre e e veritiere; né basta
la consultazione di tipo concertativo. Occorre arrivare all’inclusione
nel processo decisionale dell’impresa nonprofit di tu i coloro che in
essa operano” (Zamagni, 2007).
In questo senso, tre, e complementari, sembrano essere gli angoli di
visuale: le trasformazioni della rappresentanza politica e la riconfigurazione del sociale latu sensu pensato, l’emersione di nuovi ruoli e
nuove istanze per i ci adini, gli utenti ed i partner, e, infine, le esperienze locali di democratizzazione, entro i confini di un contesto che
rimane confli uale e relativamente burocratico.
Non a caso, le nuove dinamiche di programmazione e realizzazione
delle politiche sociali rifle ono esigenze democratiche so o un duplice profilo: da una parte, i ci adini ed i gruppi rivendicano diri i,
invocano ascolto e chiedono di partecipare alla gestione del sociale;
dall’altro, i governi esaltano e promuovono un più incisivo coinvolgimento degli utenti e dei produ ori, senza, tu avia, creare sempre
le condizioni favorevoli per una tale implicazione.
Favorendo lo sviluppo delle reti sociali e l’emersione di nuovi spazi
di negoziazione e di decisione, il paradigma associativo dell’impresa sociale, ed il particolare sistema di governance e di organizzazione
partecipativa ad esso correlato, perme e una ro ura con l’individualismo ed il monetarismo, e l’ascesa della dimensione colle iva e
dello sviluppo sociale come prioritarie dimensioni di senso. Le poste in gioco, certamente economiche, sono sopra u o democratiche
perché il rafforzamento del rapporto tra gli Stati e la società civile
tende a limitare l’impronta del mercato sulla vita sociale. In tale prospe iva, l’affermazione della società civile non andrebbe contro il
proge o politico comune; al contrario, i poteri pubblici mostrano di
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non potere più, “solipsisticamente”, produrre le politiche pubbliche:
privi della capacità di agire autonomamente, si aprono al confronto
con la società civile concepita, ora, quale straordinaria interlocutrice,
sorgente feconda di proposte.
S’innerva, lungo il sentiero, la prospe iva della governance partecipativa; tematica centrale nel discorso politico contemporaneo, che
finalizzata ad esprimere un nuovo rapporto con la democrazia, finisce con l’enfatizzare proprio il ruolo centrale della società civile,
divenuta rinnovata interlocutrice politica. Una politica essa stessa
so oposta a necessaria trasformazione, ora che ha perso il suo primato sugli altri poteri che scandiscono il divenire della società (Vitale, 2007), e in un momento, peraltro, in cui gli a ori sociali sembrano
essere poco autonomi rispe o agli effe i prodo i dalla riconferma
di un altro primato, quello del mercato, e da una regolazione sociale fondamentalmente tecno-burocratica. In questo senso, la reviviscenza della società civile corrisponderebbe al desiderio-bisogno di
rinnovare le modalità di partecipazione politica e, per questa via, di
democratizzare il sociale.
Siffa a volontà di rivitalizzare la ci adinanza, tu avia, pone non
poche domande; nevralgiche quando si tra a di fare i conti con le
trasformazioni della democrazia e della comunità politica, che invocano nuove forme di azione da parte dei ci adini. L’ideale della
democrazia partecipativa, come apologia della democrazia dire a o
come opportunità per elaborare budget partecipativi, alimenta a sua
volta un rinnovato ethos politico, fino a sfiorare ipotesi di democrazia
deliberativa, a eso che la regolazione sociale non è più verticalmente “collegata” al principio gerarchico, ma procede secondo traie orie orizzontali. La frammentazione del politico aprirebbe, così, allo
spazio della deliberazione e rivitalizzerebbe finanche la solidarietà,
producendo una riarticolazione delle sue forme (Thériault, 1996). E,
a differenza della teoria liberale che tende a ridurre la democrazia
a quella rappresentativa, la democrazia deliberativa ricaverebbe la
sua legi imità non tanto dalla volontà determinata, ma dal processo
di formazione di questa stessa volontà che costituisce per l’appunto
la deliberazione.
Ebbene, tale istituzionalizzazione solleva ulteriori perplessità relativamente all’autonomia dell’organizzazione ed alla capacità critica
dei gruppi che animano la società civile: l’integrazione con l’azione
pubblica, la contra ualizzazione, il finanziamento pubblico non minano l’autonomia e la capacità critica dei gruppi?
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L’articolazione tra assistenza pubblica e beneficenza privata aveva
condo o, come si sa, a rendere sfumate le frontiere tra le iniziative
solidali e l’intervento pubblico; la situazione a uale di disimpegno
dello Stato sembra rinforzare un movimento di strumentalizzazione e di interdipendenza tra i servizi pubblici e le iniziative private
(che queste abbiano o meno cara ere lucrativo). La domanda non
è più quella dell’intrusione delle associazioni in un sistema politico-amministrativo segnato dalla distrazione delle questioni locali,
ma quella del necessario ricorso agli a ori associativi per condurre
bene, e sul campo, politiche territoriali; lo Stato (come le altre collettività pubbliche) non può avere la presunzione di agire da solo su
numerosi campi. L’onnipresenza delle partnership è legata alla sua
necessità quasi inelu abile: l’importanza della mobilitazione delle
risorse umane “ci adine” per la produzione di politiche pubbliche,
come il bisogno di individualizzare le risposte, obbliga a pensare
in termini di partnership e a configurare un sistema capace di funzionare al meglio ripartendo compiti e competenze, associando le
pertinenze complementari e dispiegando forme d’azione più vicine
ai bisogni della popolazione.
Il successo di talune tematiche (particolarmente la lo a all’esclusione sociale), libera nuovi spazi per l’espressione di “forze vive” che si
definiscono al di fuori delle linee di competenza abituale in materia
di assistenza e di azione sociale. Si delinea così una concezione del
welfare come mix, di un pluralismo della protezione sociale, o altresì
del cosidde o welfare pluralism (Evers, 1997). Naturalmente, ciò che
cara erizza la partnership associativa, progressivamente normalizzata, è l’affermazione dell’a ore associativo come a ore economico a
pieno titolo. In questo senso, la promozione di sviluppo e la diffusione di tale modalità organizzativa non rinvia semplicemente alla
produzione di policy, ma fa riecheggiare con forza il tentativo della
politica di limitare, o almeno contenere, i voraci appetiti del potere
economico. Ed è sempre in questo senso che, nella misura in cui il
bersaglio è comba ere l’egemonia di un solo a ore, la volontà di
innescare meccanismi associativi diventa una posta in gioco democratica. La dinamica diviene complessa ed interessante oltremodo,
giacché siffa a modifica apre ad una serie di questioni ulteriori: c’è
apertura del gioco politico tradizionale nei confronti dei nuovi e
potenziali a ori? O il posto della società civile rimane emarginato?
Nella cornice di tale riflessione siamo incerti essenzialmente su un
aspe o delle politiche sociali: il tipo di rapporto tra mondo associa-
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tivo e mondo istituzionale che si me e in scena nella produzione
dell’azione sociale rifle e o meno la domanda di partecipazione degli abitanti al miglioramento della loro cornice di vita?
Il passaggio da un sistema di welfare a prevalente presenza pubblica
ad uno animato dal reale bisogno, e calibrato sulla concreta domanda
dei ci adini, segna una svolta ed anche un’opportunità nella misura
in cui si abbandonano le logiche redistributive tout court e si sposano
iniziative programmatiche baricentrate su esigenze sociali e civili territoriali. Ed in questo senso, l’impresa sociale, concepita come organizzazione imprenditoriale, può divenire protagonista principale di
percorsi di innovazione sociale, oltre che motore per la creazione di
valore al servizio della comunità locale. Partecipazione e presenza del
ci adino (in qualità di co-produ ore del servizio) garantirebbero così
il darsi concreto di quella governance, che orchestra e rende possibili
i nuovi processi di decisione e di produzione delle politiche sociali
a uali, nonché le prospe ive di sussidiarietà verticale ed orizzontale.
4. Il resto che sfugge
La riflessione sull’impresa sociale, quale strategia normativa ed operativa delle nuove dinamiche di policy, che si rifle e, in ultima analisi
nella formulazione di politic, chiama prepotentemente e dire amente in causa la qualità della vita democratica e la stessa democrazia. Il
legame, come informa Amartya Sen, tra diri i sociali e democrazia
non può che presentarsi avvinghiato: lo sviluppo economico-sociale
è processo che deve consentire agli individui di realizzare pienamente la loro libertà; del resto, sul piano normativo, lo sviluppo perderebbe di senso (non sarebbe né augurabile, né possibile!) se non
favorisse la libertà, e dunque l’effe ivo riconoscimento dei diri i.
Non basta assicurare i diri i politici fondamentali; bisogna, altresì,
dissipare il campo da quelle costrizioni che ne ostacolano la realizzazione effe iva; in tale prospe iva, i diri i sociali divengono prolungamento dire o della democrazia e concreta manifestazione della
libertà (Sen, 1999).
Di certo sono questioni complesse oltremodo, le cui plurime dimensioni (locali, nazionali e sovranazionali), oltre ad inserirsi in una fi a
e policentrica trama contestuale, ove il sociale si definisce secondo
logiche di governance, scatenano domande cruciali in merito alla rappresentanza politica, al ruolo delle istituzioni e degli utenti, ed alle
esigenze concrete della democratizzazione.
IL PUZZLE DELL’IMPRESA SOCIALE TRA IMPAZIENZE DEMOCRATICHE ED ESIGENZE PARTECIPATIVE
Angela Iacovino
Non è di poco conto “fare i conti” con la riconfigurazione degli scenari e chiedersi, per esempio, quale è il destino delle identità e dei
valori comuni in un contesto sempre più aperto alla diversità sociale? Quale posto devono e possono occupare le imprese sociali, le
partnership, le reti e l’economia sociale rispe o ai meccanismi invalsi,
ed ancora dominanti, del mercato e dello Stato? Infine, quale capacità hanno i gruppi, i movimenti e le associazioni, di rimanere autonomi e critici entro un contesto in cui le loro azioni e le loro risorse sono
ancora legate a quelle dei livelli istituzionali di governo? Bisogna,
altresì, chiedersi se la democratizzazione del sociale non poggi sulla
destru urazione della comunità politica, causata proprio dall’indebolimento progressivo dei valori comuni.
L’ideale di democrazia partecipativa, che esalta la società civile e le
sue molteplici ispirazioni, potrebbe mandare in frantumi quel bene
comune, da sempre in di coltà di composizione, e finanche l’interesse generale rischierebbe di divenire evanescente. Il rischio so eso
potrebbe inverare il dissolvimento proprio di quella sfera pubblica
che s’intende, invece, esaltare e salvaguardare, e che potrebbe cedere il passo agli interessi particolari. Così, al di là delle specifiche
rivendicazioni, bisognerebbe custodire e coltivare lo spirito di una
società civile riflessiva, animata ed a iva, capace di contribuire seriamente alle dinamiche di coesione sociale. Siffa a vitalità e siffa a
coesione fondano la reale capacità di una società di definire proge i
condivisi.
I valori comuni come si sa, per incarnarsi, necessitano di un reale
spazio aperto di deliberazione: ciò determina una costante tensione
tra la democratizzazione del sociale e le tradizionali pratiche della
rappresentanza politica. Nondimeno, siffa a tensione può risultare
feconda e portatrice di rinnovamento. In tal senso, il radicamento
dell’impresa sociale, e la conseguente sedimentazione di pratiche
economiche di natura spiccatamente solidale, servirebbero a gestire
al meglio le politiche sociali ed avrebbero, nel contempo, una seria
ricaduta in termini di un più ampio proge o politico di riabilitazione delle istituzioni pubbliche in rapporto al mercato.
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L’IMPRESA SOCIALE NEL NUOVO WELFARE: ASPETTI SOCIOLOGICI
Rossella Trapanese
L’impresa sociale nel nuovo welfare: aspetti
sociologici
Rossella Trapanese
Sommario
1. Il diba ito scientifico sul terzo se ore - 2. L’impresa sociale e la legge 328/00 - 3. Alcune
riflessioni conclusive
1. Il dibattito scientifico sul terzo settore
Il terzo se ore è stato ogge o di studio da parte di economisti, politologi e sociologi, i quali ne hanno evidenziato una o più cara eristiche in base ai propri orientamenti scientifici e alle differenti categorie di analisi utilizzate. I sociologi hanno focalizzato più l’a enzione
sulle tipologie di beni prodo i dalle imprese sociali e sulle motivazioni che so endono l’azione di chi partecipa alle organizzazioni di
terzo se ore. L’interesse è rivolto alle funzioni che le imprese sociali
svolgono all’interno della società e sopra u o agli aspe i relazionali che cara erizzano il loro rapporto con la colle ività, con i singoli
utenti, ma anche con gli enti locali, e con le altre organizzazioni di
terzo se ore.
In questo saggio, la riflessione partirà in generale dalla definizione
e dal ruolo svolto dal terzo se ore nelle società complesse, per poi
guardare nello specifico in Italia all’evolversi dell’impresa sociale,
definita dai sociologi area della cooperazione sociale, con l’implementazione della legge quadro 328/00 di riforma dell’assistenza.
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La scelta di affrontare prima il discorso sul terzo se ore e poi di focalizzare l’a enzione sull’impresa sociale nasce dalla consapevolezza
che è necessario individuare il contenitore di senso generale per poi
so olineare le cara eristiche di una delle sue espressioni concrete.
Il terzo se ore si manifesta sullo scenario internazionale con forme
e modalità di operare molto differenti. Proprio per questo motivo
molte sono le terminologie utilizzate quali: nonprofit sector, informal
sector, charitable sector, independent sector, ecc.
Le organizzazioni di terzo se ore sono il prodo o di un contesto
culturale, politico ed economico e rispondono alle esigenze delle
persone, in termini di aggregazione e di auto-aiuto, e della società in
rapporto ai singoli, in termini di garanzia dei diri i sociali. Quindi,
provando a costruire una tra azione sul terzo se ore e l’impresa sociale non è possibile generalizzare, ma è opportuno contestualizzare
questo fenomeno, considerando le garanzie, i vincoli e il ruolo che
tali organizzazioni hanno all’interno di un territorio.
Nel diba ito italiano i termini utilizzati per definire la moltitudine
di forme assunte dal terzo se ore sono: terza dimensione, proposta
da Ardigò; privato sociale, coniato da Donati; terzo sistema, individuato da Ruffolo, Borzaga e Lepri; economia civile, di cui parla
Zamagni.
Ardigò pone l’accento sulla “dimensione” culturale che cara erizza
la pluralità di azioni prodo e dalle organizzazioni di terzo se ore.
L’autore sostiene che le relazioni o i rapporti generati dal terzo settore sono orientati alla solidarietà, alla reciprocità, alla condivisione,
ecc. Sostiene inoltre che il terzo se ore costruisca uno spazio pubblico autonomo e non sistemico distinto sia da quello politico-statuale
sia da quello economico.
Donati ha elaborato il conce o di terza dimensione, indicando l’area
della solidarietà associativa come privato sociale. Donati individua
qua ro poli su cui si organizza in modo dinamico la società: lo Stato;
il mercato; il privato sociale; le reti primarie. Mentre lo Stato produce
beni pubblici, il mercato beni privati e le reti primarie beni relazionali
primari, il privato sociale produce beni relazionali colle ivi. Il conce o
è stato ben chiarito dall’autore nei testi “Teoria relazionale della società” e in “La Ci adinanza societaria”. L’autore sostiene che con il termine “terzo se ore” viene focalizzata l’a enzione sopra u o sul discorso
politico ed economico, mentre con “privato sociale” l’a enzione è posta sul discorso relazionale. In quest’ultimo caso il terzo se ore è visto
come insieme di gruppi orientati dal valore della reciprocità.
L’IMPRESA SOCIALE NEL NUOVO WELFARE: ASPETTI SOCIOLOGICI
Rossella Trapanese
La terminologia terzo sistema nasce nell’ambito economico. Il termine pone l’a enzione sul cara ere imprenditoriale che so ende
alle organizzazioni di terzo se ore, ma con la differenza che le organizzazioni di terzo se ore hanno come finalità principalmente il benessere colle ivo, anziché il profi o economico come nel caso delle
aziende.
Il termine “economia civile” viene utilizzato da Zamagni e dagli studiosi della scuola bolognese di economia politica. L’autore propone una distinzione tra economia privata ed economia civile. Mentre
l’economia privata si basa sull’interesse individuale, l’economia civile si basa sui principi di reciprocità e responsabilità. L’autore insite
nella sua tra azione sulla necessità di beni relazionali negli a uali
contesti storici. Tali beni non possono essere prodo i né dallo Stato,
né dal mercato, in quanto si contraddistinguono per una cara eristica fondamentale: la relazionalità, che può essere prodo a solo da
enti nonprofit.
Ciò che colpisce dopo un’accurata ricognizione della produzione
scientifica è che l’analisi di questo fenomeno sociale può essere svolta
solo in maniera interdisciplinare e multidimensionale: interdisciplinare in quanto ogni se ore disciplinare può individuare specifiche
cara eristiche delle organizzazioni nonprofit; multidimensionale
perché ogni fenomeno sociale assolve per sua natura a più funzioni:
politica, economica, culturale, ecc.
Facendoci guidare dal modello AGIL, proposto da Parsons, utilizzato tra l’altro da Donati nelle sue tra azioni, è possibile individuare
le funzioni che il terzo se ore svolge nelle società complesse. Prima però sarà opportuno spiegare che il modello AGIL è un modello sistemico che tende a definire la società come composta da tanti
sistemi funzionali in interazione tra loro. I sistemi principali sono:
l’economia (A), la politica (G), l’integrazione (I), la cultura (L). Ogni
sistema può differenziarsi al suo interno in so osistemi; pensiamo,
ad esempio, ai se ori politici. Ogni sistema assolve ad una funzione.
E ogni fenomeno può essere le o in base ai rapporti con i sistemi
con cui interagisce o in cui è inserito. A questo quadro teorico vanno
aggiunte due dicotomie conce uali quali quella di spazio/tempo e
quella di interno/esterno. Queste ultime dicotomie ci perme ono di
so olineare, da una parte, che ogni sistema di terzo se ore può essere analizzato solo in modo contestuale, cioè all’interno di uno spazio
specifico e di un tempo determinato, dall’altra, che ogni organizzazione di terzo se ore ha modalità organizzative interne specifiche e
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svolge funzioni esterne in base ai rapporti che decide di avere con gli
enti politici, i ci adini, i media, ecc. Seguendo il modello di analisi
parsonsiano si può affermare che il terzo se ore assolve ad un ruolo
politico, ha una dimensione economica, svolge una funzione d’integrazione ed è orientato nelle azioni da un sistema valoriale.
Il ruolo politico svolto dal terzo se ore è principalmente un ruolo
di pressione e di rappresentanza di quelli che sono gli interessi e le
richieste della popolazione. Il terzo se ore svolge anche un ruolo di
innovatore, non solo avanzando richieste di benessere sociale, ma
proponendo proge i innovativi di prevenzione.
Tu e le agenzie di terzo se ore hanno un’organizzazione interna,
una gestione economica, si a engono a delle regole fiscali, ricercano
e ricevono dei fondi che gestiscono come delle aziende.
Il terzo se ore genera integrazione sociale, anche se questa funzione
viene poco percepita. Un esempio, potrebbe essere la partecipazione
delle persone alle associazioni che ha come finalità il far parte di un
gruppo, il condividere interessi. Il discorso si apre così ai conce i
quali la reciprocità a a a consolidare il legame sociale tra le persone
appartenenti ad una comunità.
Infine, la dimensione culturale consente di rifle ere circa l’orientamento di valore che so ende alle azioni. La partecipazione ad un’associazione o il lavoro prestato per un’impresa sociale è motivato
da valori quale la reciprocità, la solidarietà, la condivisione. Sicuramente molte sono state le distorsioni motivazionali relative alla
prestazione di lavoro per le imprese sociali orientate solo alla ricerca
di lavoro, ma ciò non toglie che con gli a uali a estati di formazione professionale (OSA) richiesti a chi decide di lavorare nell’ambito
socio-sanitario, tali problemi si possano, o meglio, si stanno già risolvendo.
C’è accordo tra i sociologi circa il ruolo non residuale che il terzo settore svolge nelle società complesse. Si pensa che il mondo del terzo
se ore sia il prodo o di una naturale organizzazione interna della
società civile che si è consolidato dopo la crisi dei sistemi di welfare.
Infa i, nel corso del tempo si è assistito ad un processo di differenziazione interna del se ore a a a meglio svolgere la funzione di care
in modo organizzato e rivolta a canalizzare le risorse di socialità verso obie ivi condivisi di sostegno alle persone in di coltà.
Il discorso proposto da Luhmann (1983) credo che sia illuminante
rispe o a quello che è stato il diba ito sui sistemi di welfare ed il
terzo se ore.
L’IMPRESA SOCIALE NEL NUOVO WELFARE: ASPETTI SOCIOLOGICI
Rossella Trapanese
Lo Stato ha l’obbligo di garantire i diri i sociali e per assolvere a
questo compito organizza politiche a e a migliorare le condizioni di vita delle persone. Dal secondo dopoguerra agli anni ‘80 lo
Stato ha assolto a questa funzione sopra u o a raverso erogazioni
monetarie che non hanno e non potevano risolvere, dice Luhmann,
problematiche che emergono all’interno di altri sistemi funzionali,
quale, ad esempio, quello dell’integrazione, si pensi alla solitudine
degli anziani o all’abbandono scolastico. Le soluzioni invece potevano essere solo ricercate lì dove le problematiche emergevano o
dove si poteva far leva su legami sociali già preesistenti. Secondo
l’autore, necessitava far leva sulla società civile. L’evoluzione delle
forme organizzative assunte dal terzo se ore è stata la risposta civile
ai bisogni sociali.
Il terzo se ore svolge un ruolo fondamentale all’interno delle società
complesse in quanto sostiene i processi di integrazione dei soggetti all’interno delle comunità locali e della società in generale. Cioè
rende il sogge o parte del tu o, lo rende partecipe della vita comunitaria.
In una società in cui le forme assunte dalle famiglie determinano in
molti casi la disgregazione dei legami primari, si pone sempre più
con forza la necessità di servizi rivolti alla tutela dei sogge i più
fragili: anziani, disabili, bambini.
I dati riportati dal Libro bianco sul welfare (Ministero del Lavoro e
delle politiche sociali, 2003) indicano che il numero delle famiglie
con un disabile è pari all’11% delle famiglie residenti in Italia; nella maggior parte dei casi ci si trova di fronte disabili gravi e di età
superiore ai 65 anni. Inoltre, aumentano sempre di più i nuclei unipersonali e le famiglie con un capofamiglia anziano. Gli anziani che
vivono da soli rappresentano più della metà della popolazione al
di sopra dei 65 anni, di questi la maggior parte ricade tra i “grandi
anziani”.
Di fronte a questo scenario la risposta fornita dal nuovo sistema di
assistenza diventa la sussidiarietà, cioè la partecipazione di tu i gli
enti e le organizzazioni nella proge azione di iniziative di sostegno
e di integrazione del sogge o in di coltà. Ogni a ore del sistema
me e in rete le proprie risorse tecniche, materiali, umane concordando interventi ad hoc. È sicuramente un proge o complesso. Ciò
che risulta interessante è il cambio del modello culturale ado ato
che supera il modello assistenziale a favore di una programmazione
concordata, in cui tu i hanno un ruolo ed assumono delle responsa-
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bilità, compreso, e sopra u o, l’utente. All’interno di questa nuova
organizzazione, l’impresa sociale diventa un a ore fondamentale
del proge o che entra a dire o conta o con l’utente, promuovendo
(dal basso) un percorso di aiuto per rendere autonome e non dipendenti le persone.
2. L’impresa sociale e la legge 328/00
Il terzo se ore è un insieme di organizzazioni che si rapporta costantemente ad un territorio e, potremmo dire, è il prodo o di un
territorio in termini culturali, sociali, politici ed economici. Questa
riflessione perme e di capire come sia stato possibile che in contesti
come quello romagnolo, toscano, umbro si sia affermata una cultura
della cooperazione ormai da decenni e in contesti come quelli meridionali si sia dovuto aspe are la riforma del sistema dell’assistenza.
Per quanto concerne i se ori del terzo se ore, è possibile individuare cinque aree principali che sono: il volontariato, la cooperazione
sociale, l’associazionismo, le fondazioni civili, gli enti nonprofit (Colozzi, Bassi, 2003).
Dagli anni ‘90 in poi si è assistito ad una crescita della cooperazione
sociale (Colozzi, Bassi, 2003). Gli studiosi del fenomeno individuano alcuni elementi che considerano cara erizzanti la cooperazione
sociale: la crisi dello Stato sociale; l’aumento delle richieste di benessere sociale; l’eterogeneità delle richieste da parte delle persone
in stato di bisogno e delle associazioni che li rappresentano; il dinamismo del terzo se ore in termini di partecipazione politica e di
adeguamento dei modelli organizzativi e di gestione.
La cooperazione sociale nasce da due processi: uno dall’alto, a o ad
individuare le di coltà dei modelli precedenti e il metodo di lavoro concertato a cui necessita ispirare le politiche, e l’altro dal basso,
in cui si assiste all’emergere di forme di partecipazione al diba ito
politico circa la necessità di garantire a pieno i diri i sociali a tu e le
categorie sociali.
Nella legge n. 381/91 vengono esplicitamente indicate le finalità solidaristiche a cui le cooperative devono orientare il loro lavoro. Il
passaggio dal conce o di mutualità a quello di solidarietà risulta
fondamentale in quanto individua nelle cooperative sociali un a ore
di promozione del benessere colle ivo. Alle imprese sociali, divenendo a ori del sistema di welfare, gli viene riconosciuto il ruolo di
promotore, non solo di esecutore dei servizi. Tale distinzione per-
L’IMPRESA SOCIALE NEL NUOVO WELFARE: ASPETTI SOCIOLOGICI
Rossella Trapanese
me e il passaggio da a ore subordinato al sistema politico ad a ore
politico del sistema, cioè chi si fa portatore di aspe ative e di a ività
di promozione delle richieste degli utenti.
Interessante risulta anche la distinzione tra cooperative di tipo A e
cooperative di tipo B proposta dalla legge: le prime orientate a fornire servizi socio-assistenziali ed educativi, le secondo a e a promuovere l’integrazione lavorativa di categorie svantaggiate. Al discorso
normativo so ende un sistema valoriale in cui diventano centrali i
due conce i di partecipazione e di responsabilità sociale. Si può notare come ritorna, anche da un punto di vista normativo, il discorso
sulla solidarietà, sulla partecipazione e sull’integrazione.
Nella legge n. 328/00 si fa riferimento ad un welfare dei talenti, che
dona dignità al sogge o, e ricorda il discorso fa o da Giddens nel
testo “La terza via”, in cui l’autore auspica un passaggio dal welfare negativo, con espresso riferimento al Piano Beveridge (1942), al
welfare positivo in cui ci sia un lavoro di integrazione dei sogge i
per a ivare sempre più i processi di partecipazione. Per i sociologi
i conce i di partecipazione e di integrazione risultano centrali nel
discorso relativo alle imprese sociali.
I proge i proposti e realizzati dalle imprese sociali si sono sempre
più evoluti nel corso degli anni; da a ività di semplice assistenza ad
anziani e disabili, le iniziative hanno assunto sempre più le forme di
proge i di promozione delle potenzialità dei sogge i e di prevenzione allargando il bacino dell’utenza coinvolta anche ai giovani, agli
immigrati, alle persone in condizioni di tossicodipendenza. Altro
processo di cambiamento è la partecipazione come soci delle imprese sociali delle persone disabili, degli immigrati e degli ex detenuti.
Tale dato mostra un’apertura non solo alle problematiche in termini
di risposta ai bisogni, ma anche alla persona nella sua totalità, considerando anche i suoi desideri di autonomia e di produzione.
Gli economisti credono che la riforma del se ore dell’assistenza, ad
opera della legge quadro n. 328/00, abbia determinato un aumento
delle organizzazioni di terzo se ore a causa dell’aumento dei fondi
stanziati a favore delle politiche di welfare. Tale discorso è sicuramente valido, ma va sicuramente ampliato con un approfondimento
di cara ere culturale.
La legge ha richiesto ai piani di zona (comuni in forma aggregata)
di promuovere politiche sulla base di una concertazione allargata
con tu e le parti sociali presenti sul territorio. I principi culturali su
cui sono state a ivate le discussioni sono: la sussidiarietà, l’univer-
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salismo delle prestazioni, la solidarietà sociale, ecc. Il terzo se ore
è stato uno dei primi interlocutori dei piani di zona sociali, in molti
casi ha orientato la scelta dei servizi da a ivare. La programmazione
in tu e le aree individuate dalla legge quadro (anziani, disabili, minori, responsabilità familiare, immigrati, povertà e dipendenze) ha
determinato un aumento della domanda di servizi.
La legge 328/00 ha creato un input al sistema politico locale generando una serie di output anche negli altri sistemi: da un punto di vista
economico, ha determinato una crescita della domanda di servizi
alla persona. Tale richiesta ha incentivato la nascita o la riorganizzazione di imprese sociali; da un punto di vista culturale, si è assistito
nel corso degli ultimi se e anni ad una presa di coscienza da parte
degli utenti dei diri i sociali garantiti o, per meglio dire, che dovrebbero essere garantiti. Tale processo culturale ha generato aspe ative
e richieste che si sono rivelate degli incentivi nel miglioramento delle prestazioni. Inoltre, a raverso una circolazione delle informazioni
si è avuto un aumento delle richieste di prestazioni anche per persone in condizioni meno gravi o/e in condizioni economiche agiate, e
da parte di famiglie che hanno accolto positivamente le iniziative a
favore dei bambini e degli adolescenti.
La legge 328/00, è chiaro, ha creato nuova coscienza critica, generando un diba ito nella sfera pubblica circa i se ori d’intervento.
Ha fa o prendere consapevolezza a più categorie sociali dei propri
diri i. Ad esempio, le famiglie hanno capito che non erano più sole
ad offrire care, ma che si poteva far richiesta di aiuto e di sostegno.
Ha a ivato processi di cambiamento nel se ore dell’associazionismo
che è diventato sempre più informato e capace di avanzare richieste
di servizi mirati. Ha proposto ai giovani e ai meno giovani una strada da percorrere per creare lavoro, promuovendo imprese sociali.
Ritornando alla sfera pubblica, l’a ivazione di un dialogo sociale porta anche alla diffusione delle informazioni circa le garanzie, ciò che
viene e ciò che dovrebbe o potrebbe essere offerto, e quindi anche una
valutazione ed un controllo delle prestazioni. Mentre nei primi anni
di programmazione dei piani di zona l’anziano a cui veniva offerto
il servizio di assistenza domiciliare (servizio già erogato anche prima del 2000, ma poco conosciuto), si sentiva quasi un privilegiato a
ricevere un servizio che vedeva pioversi dall’alto. Oggi, con una nuova consapevolezza, l’anziano e la famiglia conoscono anche con quali
modalità quel servizio deve essere offerto. C’è stata una circolazione
delle informazioni. Nei centri di aggregazione si parla, si discute, si ri-
L’IMPRESA SOCIALE NEL NUOVO WELFARE: ASPETTI SOCIOLOGICI
Rossella Trapanese
fle e insieme. Oggi si pretende un servizio, ma un servizio di qualità.
Le imprese si devono e in molti casi si stanno adeguando.
Nell’erogazione dei servizi si stabilisce un rapporto face to face tra
persone. Lo scambio non avviene mai senza coinvolgimento emotivo e senza che si stabilisca una qualche forma di reciprocità. Da un
lavoro svolto per conto dell’Osservatorio provinciale sulle politiche
sociali di Avellino1 in cui si chiedeva agli operatori delle imprese
sociali, che operavano su tu o il contesto provinciale, che tipo di
rapporto si stabilisce con l’utente, in tu i i casi veniva risposto che le
persone assistite diventavano “persone familiari, parte del contesto
di vita”. Alcuni dichiaravano che passavano a fare visita agli utenti
anche al di fuori degli orari di lavoro, o che si erano scambiati con
loro i regali di Natale.
Il lavoro che viene erogato è carico di significati simbolici in quanto
è composto da una parte formale, costituita dalla prestazione, ed
una parte informale, che dipende dalla relazione che l’operatore stabilisce con l’utente. Non va naturalmente so ovalutato che l’utente
è una persona in di coltà e che in molti casi dipende parzialmente
o totalmente dall’operatore. In alcuni casi gli operatori sono le uniche persone con cui l’utente interagisce oltre ai familiari, ove questi siano presenti. Il significato a ribuito alla prestazione da parte
dell’utente è diverso da quello a ribuito dagli operatori. Gli anziani
in assistenza domiciliare, utilizzano il tempo in cui l’operatore l’aiuta
nel riasse o dell’abitazione, per raccontarsi e confrontarsi. In un’altra indagine in cui si richiedeva agli utenti cosa rappresentasse per
loro l’aiuto offerto dagli operatori il piano formale veniva sempre
messo in secondo piano rispe o al piano informale di poter “fare
una chiacchierata, uscire a fare una passeggiata, essere accompagnata dall’amica”, ecc. Dove questi servizi accessori, quali, ad esempio,
l’accompagnamento, non fossero presenti viene fa a esplicita richiesta da parte dell’anziano che preferisce rinunciare ad una casa pulita e in ordine rispe o all’opportunità di trascorrere qualche ora in
compagnia, meglio se all’esterno dell’abitazione. Lo stesso discorso
è stato riscontrato con le persone diversamente abili.
Si comprende bene che quello svolto dalle imprese sociali è un ruolo
delicato, in quanto vengono erogate non solo prestazioni, ma anche
beni relazionali. Immaginiamo il ruolo svolto da una cooperativa sociale che svolge servizi per la realizzazione dei laboratori educativi.
L’autrice del saggio ha coordinato l’Osservatorio sulle politiche sociali della Provincia di
Avellino dal 2003 al 2005.
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In quei casi l’obie ivo non è tanto trasme ere conoscenze tecniche
quanto abituare i ragazzi a lavorare insieme e a rispe are le norme
del vivere civile.
Su un piano più tecnico organizzativo è possibile fare alcune riflessioni.
All’interno del variegato mondo del terzo se ore l’impresa sociale
può essere considerata la punta più avanzata in termini di complessità. L’impresa sociale in molti casi nasce da un’associazione che ha
deciso di cambiare natura giuridica. Anche se nella legge di riforma
si fa esplicito riferimento al coinvolgimento di entrambe le tipologie
di organizzazioni, la partecipazione si è differenziata sulla base dei
contesti e delle dinamiche territoriali. Va de o che in contesti più
evoluti, da un punto di vista dell’organizzazione e della partecipazione della società civile nella concertazione e programmazione delle a ività politiche, c’è stato un coinvolgimento maggiore, in quanto
il contesto politico-locale era già abituato a rapportarsi con un territorio dinamico. In contesti “dove c’era poco welfare”, in termini di
politiche a ivate, mancava anche una società civile ben stru urata,
quindi sono serviti alcuni anni a nché si presentassero sul mercato
delle imprese sociali e fosse inserita nei proge i la partecipazione di
associazioni culturali e di promozione sociale.
Dopo una fase in cui c’è stata un’a enzione particolare al miglioramento delle procedure operative, oggi si sta sempre più lavorando
sulla professionalità degli operatori, cercando in questo modo di migliorare gli standard di qualità. Tale lavoro è sostenuto anche dal lavoro di monitoraggio circa la soddisfazione degli utenti svolto da alcune
imprese in collaborazione con i responsabili di area dei piani di zona.
Altro fenomeno importante a cui si sta assistendo sopra u o in alcune aree del Sud Italia è la scelta da parte delle cooperative sociali
di me ersi in rete e di partecipare come aggregazione ai bandi di
gare; ciò evita di me ersi in competizione e di acce are un gioco al
ribasso che non tutela né i soci né i lavoratori. Ciò che va rilevato è la
capacità di un sistema di auto-organizzarsi e di evitare di acce are in
modo ase ico le regole de ate dal sistema politico ed economico.
Si può concludere dicendo che l’implementazione della legge n.
328/00 ha sicuramente modificato il ruolo che le imprese sociali avevano sullo scenario politico. Tale processo era già stato avviato con
la legge 381/91, ma la legge di riforma dell’assistenza, incentivando
la domanda di servizi, ha determinato un processo di incremento
e consolidamento delle imprese sociali. La maggiore a enzione ri-
L’IMPRESA SOCIALE NEL NUOVO WELFARE: ASPETTI SOCIOLOGICI
Rossella Trapanese
volta negli ultimi anni alle politiche di welfare e la nuova coscienza
critica sviluppata tra gli utenti e le associazioni, ha determinato un
aumento delle aspe ative, ma anche delle richieste di una migliore
qualità dei servizi erogati. Nel parlare di servizi alle persone si definisce sempre più spesso l’utente come cliente, ma ai sociologi questa terminologia non piace, in quanto si “disumanizza” il rapporto
operatore-utente, dove questo rapporto, abbiamo più volte ribadito,
è carico di significati simbolici e, riprendendo il discorso di Ardigò,
sostenuto da valori di reciprocità, solidarietà e condivisione.
3. Alcune riflessioni conclusive
Le Regioni hanno avviato già da diversi anni a ività di monitoraggio
per raccogliere sempre più informazioni sulle imprese sociali che erogano servizi alle persone. Il lavoro di accreditamento risulta ad oggi
già una prima garanzia. Ma i parametri di selezione, a nostro avviso,
dovrebbero diventare ancor più complessi e rigorosi. Non sono poche le cooperative che rispondono a livello formale a tu i i requisiti
richiesti dagli enti territoriali, Regione, Comuni e piani di zona, ma a
livello concreto non rispe ano i contra i dei dipendenti, assorbono
tra il proprio personale persone non qualificate, o non svolgono ricerche per valutare la soddisfazione dell’utente. Crediamo che anche
di fronte ad una mole di lavoro corposa sostenuta dai piani di zona
sia necessario inglobare all’interno della programmazione annuale,
biennale o triennale che sia, ricerche a e a valutare le a ività promosse. Siamo consapevoli che i proge i per ogni area di intervento sono
numerosi, ma si potrebbe prevedere un’a ività di monitoraggio per
aree ed incentivare forme di collaborazione con le imprese sociali a e
a far diventare il monitoraggio un’a ività di routine, come accade per
le schede presenza o le schede relative alle prestazioni erogate.
Un altro elemento di riflessione riguarda la necessità di promuovere
un’organizzazione stabile delle programmazioni che possa essere a
cara ere biennale o triennale. Tale scelta può essere fa a a livello
regionale, anche se sappiamo essere dipendente da un punto di vista
finanziario dal piano nazionale. Una programmazione pluriennale
potrebbe dare continuità ai servizi e garantire da un punto di vista
contra uale gli operatori che lavorano all’interno delle imprese sociali. Si deve assolutamente evitare il turnover sia per non perdere
professionalità acquisite, sia per non destabilizzare l’utente che ha
stabilito con l’operatore una relazione emotiva e di fiducia.
117
118
IMPRESA SOCIALE
aprile ~ giugno 2008
Nelle società contemporanee poche realtà associative si sono ritagliate sullo scenario politico uno spazio pubblico autonomo, nella
maggior parte dei casi le organizzazioni di terzo se ore ricercano
e sono sostenute da fondi pubblici e sostengono e/o lavorano con
gli enti territoriali. Ciò però, a nostro avviso, non deve far perdere
di vista quello che è il ruolo politico del terzo se ore, cioè essere
rappresentante delle istanze e delle aspe ative dei sogge i in condizioni di disagio.
Inoltre, crediamo che sia necessario incentivare la collaborazione tra
imprese sociali e area dell’associazionismo e del volontariato. Riconosciamo a tali organizzazioni un patrimonio culturale ed una partecipazione umana che potrebbe tradursi in un valido sostegno alle
a ività erogate, oltre che ad un miglioramento delle a ività di monitoraggio delle effe ive esigenze della popolazione. Va considerato
che anche queste organizzazioni sono state coinvolte da processi di
cambiamento avvenuti a livello culturale, organizzativo e di partecipazione. Queste organizzazioni risultano, a nostro avviso, quelle che
meglio riescono a recepire i bisogni sociali provenienti dalla società civile e in molti casi ad ipotizzare percorsi di superamento del disagio e
di promozione del benessere sociale di gruppi altrimenti emarginati.
Le relazioni tra i diversi a ori del sistema risultano l’elemento centrale di promozione dello sviluppo sociale di un’area. Solo relazioni
ben stru urate possono rendere operativo il principio di sussidiarietà. All’interno del territorio regionale, i rapporti centro-periferia
e pubblico-privato, vanno rivisti ed ampliati alla luce di un utilizzo
più proficuo di tu e le risorse esistenti su un territorio. Il decentramento promosso dalla legge ha ridato dignità al territorio in tu e
le sue espressioni, valorizzando sia le risorse che le persone, ed ha
aperto uno spazio alla formazione di una nuova governance locale.
All’interno di queste sinergie di forze, il ruolo svolto dalle imprese
sociali e da tu e le organizzazioni di terzo se ore è essenziale in
quanto espressione della capacità della società civile di organizzarsi.
Riferimenti bibliografici
Colozzi I., Bassi A. (2003), Da Terzo se ore a Impresa Sociale, Carocci, Roma.
Luhmann N. (1983), Teoria politica nello stato del benessere, Franco Angeli, Milano.
Ministero del Lavoro e delle politiche sociali (2003), Libro Bianco sul welfare, Roma.
LAVORO VOLONTARIO: UN’ANALISI CROSS-SEZIONALE SUL DATASET MULTISCOPO
Damiano Fiorillo
Lavoro volontario: un’analisi cross-sezionale
sul dataset Multiscopo
Damiano Fiorillo
Sommario
1. Introduzione - 2. Ricerche esistenti sul lavoro volontario - 3. La decisione di offrire lavoro
volontario - 4. I dati - 5. Evidenza econometria - 6. Considerazioni conclusive
1. Introduzione
Milioni di individui offrono lavoro per nulla, sia formalmente, partecipando ad organizzazioni volontarie, sia informalmente, aiutando direttamente altri individui. Mentre le motivazioni che inducono gli individui ad essere volontari sono bene identificate in teoria, ancora poco è
conosciuto riguardo le loro determinanti empiriche. La le eratura empirica sul lavoro volontario, in preponderanza anglosassone (Menchik,
Weisbrod, 1987; Brown, Lankford, 1992; Day, Devlin, 1996; Freeman,
1997), fornisce risultati non univoci riguardo il comportamento del volontario evidenziando sia una condo a economica standard (costo opportunità del tempo) sia un comportamento di investimento.
Il presente studio contribuisce alla le eratura in un duplice modo. Innanzitu o, il lavoro investiga una motivazione di consumo ed una motivazione di investimento nella scelta di essere volontario utilizzando
un dataset u ciale italiano, l’Indagine Multiscopo sulla famiglia anno
1997, dell’Istituto Nazionale di Statistica. In secondo luogo, il lavoro
esamina, nel contesto di un modello di investimento, il ruolo dei fa ori
119
120
IMPRESA SOCIALE
aprile ~ giugno 2008
sociali e dei fa ori ambientali nella decisione di offrire lavoro non pagato. Per mia conoscenza, questo è il primo studio che testa un’ipotesi di
consumo verso un’ipotesi di investimento usando dati u ciali italiani.
Il piano del lavoro è il seguente. La sezione 2 espone una brevissima rassegna delle motivazioni del lavoratore volontario, mentre la
sezione 3 presenta i modelli teorici per l’analisi dei dati. La sezione
4 descrive i dati e fornisce un’analisi descri iva dell’a ività gratuita
per un’organizzazione sociale. La sezione 5 presenta la strategia econometrica e i risultati conseguiti. L’ultima sezione conclude.
2. Ricerche esistenti sul lavoro volontario
L’a ività volontaria e gratuita, cioè con un salario esplicito uguale a
zero, svolta in organizzazioni sociali è una questione di interesse non
solo dei sociologi e dei politologi, ma anche degli economisti i quali
si sono impegnati a comprendere le motivazioni alla base di questo
comportamento. Tre principali ipotesi teoriche sono state avanzate a
seconda dell’assunzione concernente la motivazione del volontario.
Nel modello del “bene pubblico”, il volontario è interessato
all’output dell’organizzazione che il suo contributo aiuta ad incrementare. Ne risulta che in questo modello il lavoro volontario è un
input e nient’altro. Nel modello del “consumo privato”, il volontario
è motivato dall’a o di dare “per sé”. In questo schema, il volontario
gode del prestigio che questa a ività gli reca che è consistente con
la le eratura sui warm glow (Androni, 1989, 1990). Nel modello di
“investimento”, il volontario migliora il suo capitale umano, incrementa la sua occupabilità ed il suo reddito futuro. L’a ività gratuita
rende possibile acquisire nuove abilità e guadagnare esperienza che
possono essere utili sia ai lavoratori sia agli individui in cerca di occupazione. L’a ività gratuita, inoltre, fornisce la possibilità di acquisire informazioni private riguardo l’esistenza e le cara eristiche dei
posti di lavoro vacanti. Infine, l’a ività gratuita può essere usata dal
volontario per rivelare abilità che altrimenti potrebbero essere solo
supposte (Prouteau, Wolff, 2004; Ziemek, 2006).
3. La decisione di offrire lavoro volontario
In questo lavoro si esamina le determinanti dell’a ività gratuita ricorrendo ad un modello teorico di consumo privato e ad un modello
teorico di investimento.
LAVORO VOLONTARIO: UN’ANALISI CROSS-SEZIONALE SUL DATASET MULTISCOPO
Damiano Fiorillo
Il modello di consumo privato
Nel modello di consumo privato il volontario deriva la sua utilità
dire amente dall’a o di agire “per sé”. È il volontariato ed i premi
associati con questa a ività a motivare gli individui a donare. Questi
premi includono auto-integrazione, acquisizione o mantenimento di
un certo grado di status sociale, soddisfazione dal tipo di lavoro svolto o dal rafforzamento di norme etiche e sociali, o semplicemente un
sentimento warm glow per avere fa o qualcosa di buono (Androni,
1990; Ziemek, 2006) .
Un modello di consumo privato può essere derivato da Menchik e
Weisbrod (1987), Freeman (1997) e Banks e Tanner (1998) in cui le
preferenze di un individuo sono espresse nel seguente modo:
U = U ( X , H l ,V )
(1)
s.t. V = V( H v )
(2)
X =W ( 1 - H l - H v ) + Y
(3)
dove l’utilità dipende dal consumo privato, X , dal tempo libero, H l ,
e dal contributo privato all’offerta di bene caritatevole V. L’offerta di
bene caritatevole, V, è prodo a donando tempo H v . Nell’equazione
del vincolo di bilancio (3), H w + H l + H v =1 è il vincolo temporale,
H w è il tempo dedicato al lavoro, W è il reddito da lavoro, mentre
Y è il reddito non da lavoro. Il tempo totale, il prezzo del bene privato e il prezzo del bene caritatevole sono normalizzati ad uno. Il
contributo privato del bene caritatevole, V , entra dire amente nella
funzione di utilità del volontario e può essere tra ato come un bene
di consumo normale. Massimizzando la (1) a raverso la (2) e (3), la
condizione del primo ordine rispe o al tempo donato risulta
+
=0
(4)
Ne deriva che la scelta di offrire lavoro volontario varia inversamente con il reddito da lavoro, il costo opportunità del volontariato, e
dire amente con il reddito totale W + Y .
121
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IMPRESA SOCIALE
aprile ~ giugno 2008
Il modello di investimento
All’interno di organizzazioni di volontariato, il volontario può incrementare il valore di mercato del suo lavoro poiché egli può ricevere formazione e nuove abilità, può acquisire utili conta i oppure
può segnalare la propria abilità a potenziali datori di lavoro. Questi
mezzi possono perme ere al volontario di procurarsi lavori retribuiti con un salario più elevato rispe o a quei lavori retribuiti che il volontario potrebbe acquisire senza la sua esperienza di volontariato.
Il volontariato basato su guadagni a uali persi per o enere redditi
futuri più elevati può essere considerato come un comportamento di
investimento (Duncan, 1999; Ziemek, 2006).
Nella le eratura sul capitale sociale l’a ività gratuita per un’organizzazione sociale è considerata una forma molto comune di capitale
sociale. Nel modello di Glaeser, Laibson e Sacerdote (2002), la partecipazione passiva ed a iva (lavoro volontario) in un gruppo sociale
è una forma di investimento in abilità sociali, in virtù della quale una
persona può conseguire rendimenti di mercato dalle relazioni con le
altre persone. In quel modello l’investimento in capitale sociale è simile all’investimento in capitale umano e all’investimento in capitale fisico. Di seguito il modello di Glaeser, Laibson e Sacerdote (2002)
è ripreso ed applicato al lavoro volontario quale comportamento di
investimento. L’idea di fondo è la medesima: l’individuo investe in
abilità al fine di o enere migliori prospe ive di reddito.
L’a ività gratuita individuale è rappresentata come una variabile di
stock, V, mentre l’a ività gratuita aggregata (funzione dell’a ività
gratuita individuale) è rappresentata anch’essa come una variabile
di stock, Vˆ . Ciascun individuo riceve, per ogni periodo, un flusso
di pay-off pari a VR( Vˆ ), dove R( Vˆ ) è una funzione differenziabile
con l’a ività gratuita aggregata come argomento, con R’( Vˆ )> 0. Lo
stock di a ività gratuita segue la dinamica del vincolo di bilancio,
V t + 1 = δ V t +I t , dove 1-δ è il tasso di deprezzamento. Il livello di investimento, I t , ha un costo del tempo pari a C( I t ) con C(·) crescente e
convessa, mentre w è il costo opportunità del tempo, rappresentato
dal tasso di salario. L’individuo vive su T periodi e sconta il futuro ad un tasso β. Inoltre, con probabilità θ l’individuo lascia la sua
comunità. In questo caso, il valore dell’a ività gratuita si deprezza,
riducendosi di λ < 1 del suo valore. Questo declino ca ura l’idea che
molto dell’investimento in a ività gratuita è specifico della comunità. Quindi, φ = (1-θ) + θλ è il fa ore di deprezzamento derivante
dalla mobilità.
LAVORO VOLONTARIO: UN’ANALISI CROSS-SEZIONALE SUL DATASET MULTISCOPO
Damiano Fiorillo
Il problema di massimizzazione individuale risulta quindi:
T
max
I o, I 1, ..., I T
t= 0
" t Vt R Vˆt ! wC( It )
[ ( )
s.t. Vt +1 = !Vt + It $t
]
(5)
(6)
L’individuo massimizza la sua funzione obie ivo considerando l’attività gratuita aggregata, Vˆ , fissa. La condizione del primo ordine
associata al problema di investimento è data da:
'
wC ( It ) =
1
(!"# )
T t +1
1 !"#
()
R Vˆ
(7)
La condizione del primo ordine implica i seguenti risultati di statica
comparata: l’investimento in a ività gratuita (i) declina con la mobilità θ; (ii) declina con il costo opportunità del tempo w; (iii) aumenta
in comunità con maggiore a ività gratuita aggregata Vˆ ; (iv) declina
con l’età. Quest’ultimo risultato indica che lo stock di a ività gratuita
presenta un picco in corrispondenza della classe di età media.
Modello di consumo verso modello di investimento
Entrambi i modelli predicono un’associazione negativa tra il costo
opportunità del tempo, il reddito da lavoro, e la decisione di offrire
lavoro volontario. La principale distinzione tra le predizioni dei due
modelli riguarda l’effe o della variazione nel reddito complessivo e
nell’età. Come si è già de o, un modello di consumo privato predice
che l’a ività gratuita aumenta con il reddito complessivo, laddove
un modello di investimento non afferma una tale relazione. Riguardo all’età, un modello di consumo non sostiene che il lavoro volontario varia con l’età, mentre un modello di investimento predice una
riduzione negativa con l’età poiché diminuisce l’a eso periodo di
vita su cui l’investimento produce i suoi redditi.
Il ruolo dei fattori sociali ed ambientali
Il modello di investimento (5) e (6) mutuato da Glaeser, Laibson e Sacerdote (2002) perme e di spiegare il ruolo delle variabili sociali che
ca urano l’a accamento alla comunità locale. Nella le eratura sul
capitale sociale (DiPasquale, Glaeser, 1999) e sul lavoro volontario
(Menchik, Weisbrod, 1987; Day, Devlin, 1996) le variabili sociali che
ca urano l’a accamento alla comunità locale risultano influenzare la
decisione individuale di offrire lavoro gratuito. Il modello di investi-
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IMPRESA SOCIALE
aprile ~ giugno 2008
mento (5) e (6) è in grado di predire il ruolo di queste variabili sociali
e culturali: poiché sono specifiche di una comunità, esse riducono la
mobilità e quindi incrementano l’offerta di lavoro volontario.
Il modello di investimento (5) e (6) inoltre rappresenta un’utile
base per considerare e spiegare il ruolo di variabili ambientali a
livello comunitario, quali la fiducia e l’e cienza giudiziaria. In letteratura, esiste un’evidenza empirica che mostra una correlazione
positiva tra il capitale sociale e questi fa ori ambientali. In analisi
cross-section e cross-country, Brehm e Rahn (1997), La Porta et al.
(1997), Stolle e Rochon (1999) mostrano una correlazione positiva tra il capitale sociale e la fiducia, mentre Knack e Keefer (1997)
rivelano una correlazione positiva, sebbene non statisticamente
significativa, tra il capitale sociale e l’e cienza giudiziaria. Concepita l’a ività gratuita individuale quale forma comune di capitale
sociale individuale, si potrebbe a endere un’analoga correlazione
positiva tra l’a ività gratuita, la fiducia e l’e cienza giudiziaria.
Una possibile spiegazione potrebbe essere la seguente: in comunità in cui la fiducia è ristre a ai propri familiari, cioè prevale il
“familismo amorale” (Banfield, 1958), la vivacità associativa è limitata e l’a ività gratuita è circoscri a (Putnam, 1993). All’opposto, i
legami familiari sono il veicolo principale a raverso cui o enere
opportunità di impiego. In comunità in cui l’e cienza giudiziaria
è bassa, cioè occorre molto tempo prima che i comportamenti opportunisti degli agenti siano sanzionati, è alta la probabilità che la
qualità dei conta i sia bassa. In altri termini, è alta la probabilità
che un individuo si imba a in comportamenti opportunisti altrui
anche prestando gratuitamente lavoro. In entrambi i casi, l’a ività
gratuita ne risulta frenata.
Sia, nel modello di investimento (5) e (6) mutuato da Glaeser, Laibson e Sacerdote (2002), σ la probabilità che a livello di comunità si
abbiano comportamenti familistici ed opportunistici. Quando questo si verifica, il valore dell’a ività gratuita di ciascun individuo si
deprezza, declinando in proporzione di μ < 1 del suo valore. Sia,
quindi, η = (1 - σ) + σμ il fa ore di deprezzamento derivante dalla
presenza di comportamenti familistici e opportunistici esistente a livello di comunità. La (6) diventa
Vt +1 = "!Vt + It "t
(8)
mentre la condizione del primo ordine associata al problema di investimento (5) e (7) è data da
LAVORO VOLONTARIO: UN’ANALISI CROSS-SEZIONALE SUL DATASET MULTISCOPO
Damiano Fiorillo
'
wC ( It ) =
1
(!"$#)
T t +1
1 !"$#
()
R Vˆ
(9)
Ne risulta che l’investimento in a ività gratuita declina in presenza
di comportamenti familistici e opportunistici σ.
4. I dati
In Italia, la decisione degli individui di offrire lavoro volontario è stata analizzata ricorrendo ad indagini campionarie opportunamente
costruite (Borzaga, Musella, 2003; Cappellari, Turati, 2004). In questo
lavoro si utilizzano i dati nazionali u ciali dell’Indagine Multiscopo
sulla famiglia, aspe i della vita quotidiana, dell’Istituto nazionale di
statistica. L’Istat ha avviato il nuovo corso delle Indagini Multiscopo
sulle famiglie nel 1993: ogni anno un campione rappresentativo di
circa 20.000 famiglie e 60.000 individui è rilevato al fine di o enere
informazioni sugli aspe i fondamentali della vita quotidiana e sui
relativi comportamenti. Rispe o all’ampio flusso di informazioni
disponibile nel dataset Multiscopo, si utilizzano i dati riguardanti
l’a ività gratuita, le cara eristiche personali ed il reddito familiare
prendendo come unità di analisi l’individuo. Poiché si è interessati
alla relazione tra l’a ività gratuita ed il reddito complessivo, si seleziona l’indagine campionaria del 1997, che, unitamente a quella del
1996, contiene dati sul reddito familiare. L’indagine domanda agli
individui se, negli ultimi dodici mesi, hanno svolto a ività gratuita
in qua ro tipi di organizzazione sociale: associazione di volontariato, associazione non di volontariato, partito politico e sindacato.
Sulla base di queste domande si formano qua ro dummy di a ività
gratuita, una per ciascun tipo di organizzazione, che assumono valore 1 se l’individuo risponde positivamente e 0 altrimenti.1
La tabella 1 sintetizza i dati della Multiscopo sull’a ività gratuita
fornita da individui di età uguale e superiore ai 14 anni. L’a ività
gratuita più diffusa è quella per un’associazione di volontariato con
una percentuale dell’8,0%, seguita da quella per un’associazione non
di volontariato con una percentuale pari al 3,59%. L’a ività gratuita
per un partito politico e per un sindacato hanno, rispe ivamente,
I dati della Multiscopo sull’attività gratuita per ciascuna delle organizzazioni sociali presentano una percentuale di missing pari circa al 2%. Questi missing sono trattati nel modo più
semplice eliminandoli ed analizzando solo il campione ridotto di osservazioni complete.
1
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percentuali dell’1,66% e dell’1,49%. In media, i maschi offrono più
lavoro volontario delle donne, in ognuna delle organizzazioni sociali considerate (tabella 2).
TABELLA 1 - ATTIVITÀ
VOLONTARIA PER UN’ORGANIZZAZIONE SOCIALE: INDIVIDUI DI ETÀ DI
14
ANNI E PIÙ
Sì
No
Dimensione
Assoc. di
volontariato
8,3%
91,7%
48,960
Assoc. non di
volontariato
3,6%
96,4%
48,921
Partito politico
Sindacato
1,7%
98,3%
48,954
1,5%
98,5%
48,927
Fonte: elaborazione su dati Multiscopo anno 1997.
TABELLA 2 - ATTIVITÀ VOLONTARIA PER UN’ORGANIZZAZIONE SOCIALE: DIVISIONE PER SESSO
Assoc. di
Assoc. non di
Partito politico
Sindacato
volontariato
volontariato
M
F
M
F
M
F
M
F
Si
9,3% 7,4% 4,5% 2,8% 2,7% 0,7% 2,6% 0,5%
No
90,7% 92,6% 95,5% 97,2% 97,3% 99,3% 97,4% 99,5%
Dimensione 23,651 25,309 23,625 25,296 23,646 25,308 23,633 25,294
Fonte: elaborazione su dati Multiscopo anno 1997.
La tabella 3 mostra i dati della Multiscopo sull’a ività gratuita offerta da
individui di età uguale e superiore ai 14 anni distinguendo due gruppi
di persone: individui di età compresa tra i 14 ed i 64 anni ed individui
con più di 65 anni. Dalla tabella 3 emerge che gli individui più anziani
offrono meno a ività gratuita in ciascuna organizzazione sociale.
TABELLA 3 - ATTIVITÀ VOLONTARIA PER UN’ORGANIZZAZIONE SOCIALE
Assoc. di
volontariato
Panel A
Si
No
Dimensione
Panel B
Si
No
Dimensione
9,3%
90,7%
41,009
2,9%
97,1%
7,951
Assoc. non di
Partito politico
volontariato
Individui di età 14-64 anni
4,1%
1,9%
95,9%
98,1%
40,976
41,005
Individui di età di 65 anni e più
1,2%
0,4%
98,8%
99,6%
7,945
7,949
Sindacato
1,7%
98,3%
40,983
0,5%
99,5%
7,944
LAVORO VOLONTARIO: UN’ANALISI CROSS-SEZIONALE SUL DATASET MULTISCOPO
Damiano Fiorillo
La tabella 4 riporta il nome, la definizione e la fonte di tu e le variabili usate in questa analisi. Per la maggior parte delle variabili esplicative i dati sono o enuti dire amente dalla Multiscopo. Tra queste
variabili includo, il sesso, lo stato civile, l’età, il numero dei figli, il
livello di istruzione, la dimensione della famiglia, lo stato di salute,
il titolo di proprietario dell’abitazione in cui si risiede e la le ura
frequente dei quotidiani.
TABELLA 4 - ELENCO VARIABILI ESPLICATIVE
Variabile
AAvol
AAnovol
APpol
ASind
Femmina
Coniugato
Età14a19
Età20a34
Età35a44
Età45a54
Età55a64
Età66
Nessuna.
Licenza
Diploma
Laurea
Figli0_5
Figlio6_15
Compfam
Osalute
Proprietario
Descrizione
Dummy, 1 se attività gratuita per una associazione di volontariato; 0 altrimenti
Dummy, 1 se attività gratuita per una associazione non di
volontariato; 0 altrimenti
Dummy, 1 se attività gratuita per un partito politico; 0 altrimenti
Dummy, 1 se attività gratuita per un sindacato; 0 altrimenti
Dummy, 1 se femmina; 0 altrimenti
Dummy, 1 se coniugato/a; 0 altrimenti
Dummy, 1 se età è compresa tra 14 e 19; 0 altrimenti
Dummy, 1 se età è compresa tra 20 e 34; 0 altrimenti
Dummy, 1 se età è compresa tra 35 e 44; 0 altrimenti. Gruppo di riferimento
Dummy, 1 se età è compresa tra 45e 54; 0 altrimenti
Dummy, 1 se età è compresa tra 55 e 64; 0 altrimenti
Dummy, 1 se età è uguale e superiore a 65; 0 altrimenti
Dummy, 1 se nessun titolo; 0 altrimenti
Dummy, 1 se licenza elementare e licenza media inferiore, 0
altrimenti
Dummy, 1 se licenza media superiore, 0 altrimenti. Gruppo
di riferimento
Dummy, 1 se diploma universitario, laurea e dottorato; 0
altrimenti
Dummy, 1 se il numero di figli ha una età compresa tra tra 0
e 5; 0 altrimenti
Dummy, 1 se il numero di figli ha una età compresa tra 6 e
15; 0 altrimenti
Numero di individui che vivono in famiglia
Dummy, 1 se l’individuo considera se stesso in ottimo stato
di salute
Dummy, 1 se l’individuo è proprietario dell’abitazione in cui
vive;0 altrimenti
Fonte
Multiscopo
Multiscopo
Multiscopo
Multiscopo
Multiscopo
Multiscopo
Multiscopo
Multiscopo
Multiscopo
Multiscopo
Multiscopo
Multiscopo
Multiscopo
Multiscopo
Multiscopo
Multiscopo
Multiscopo
Multiscopo
Multiscopo
Multiscopo
Multiscopo
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Frel
Quotidiani
Ln(RF)
Occupato
Dipendente
Sprivati
Fiducia
Inefgiu
Dummy, 1 se l’individuo si reca in un luogo di culto almeno
una volta a settimana; 0 altrimenti
Dummy, 1 se l’individuo legge quotidiani tutti i giorni della
settimana; 0 altrimenti
Logaritmo naturale del reddito familiare complessivo mensile ottenuto prendendo la media delle categorie.
Dummy, 1 se l’individuo è occupato; 0 altrimenti
Dummy, 1 se l’individuo è occupato come dipendente; 0
altrimenti
Dummy, 1 se individuo è occupato nel ramo dei servizi privati; 0 altrimenti
Voti a livello regionale per tutti i referendum occorsi in Italia
tra il 1946 ed il 1989. Per ciascuna regione i dati delle votazioni sono medie nel tempo.
Numero medio di anni necessari a completare un giudizio
di primo grado. È calcolato usando dati del tribunale sulla
lunghezza dei giudizi e poi effettuando la media tra i Tribunali
localizzati nella stessa regione
Multiscopo
Multiscopo
Multiscopo
Multiscopo
Multiscopo
Multiscopo
Guiso et al
(2004)
Guiso et al
(2004)
Le variabili riguardanti la proprietà e la le ura dei giornali sono incluse perché indicatori dell’a accamento alla comunità locale disponibili nel dataset della Multiscopo. DiPasquale e Glaeser (1999) sostengono che i proprietari hanno un incentivo a migliorare la comunità in cui vivono al fine di proteggere il loro investimento e perché la
proprietà è una barriera alla mobilità. Glaeser et al. (2002) affermano
che i proprietari al fine di incrementare il valore della loro proprietà
locale hanno incentivi ad investire in forme di capitale complementare al capitale residenziale, come le organizzazioni civiche. Putnam
(1993, p. 109) argomenta che i giornali, specialmente in Italia, sono il
mezzo più valido per diffondere le informazioni sugli avvenimenti e
sui problemi del posto. I le ori sono meglio informati dei non le ori
e perciò meglio preparati a partecipare alla scelta di certe decisioni
riguardanti la comunità.
Considero, inoltre, le variabili connesse allo stato lavorativo, al tipo
e al se ore di impiego, particolarmente rilevanti quando la variabile
dipendente è l’a ività gratuita per un sindacato.
La Multiscopo fornisce informazioni riguardo la forza delle credenze religiose. Secondo Pla eau (1998, p. 771) le credenze religiose
(ca oliche e protestanti) hanno un ruolo centrale nel processo di generazione e mantenimento delle norme morali intese come regole
che prendono in considerazione il comportamento altrui. Quindi,
poiché le credenze religiose supportano comportamenti prosociali,
caritatevoli, altruistici, è ammissibile ipotizzare che più le credenze
LAVORO VOLONTARIO: UN’ANALISI CROSS-SEZIONALE SUL DATASET MULTISCOPO
Damiano Fiorillo
religiose sono forti più comportamenti altruistici sono probabili.
Il dataset Multiscopo non fornisce informazioni sul reddito da lavoro
dei rispondenti e rende disponibile dati sulle ore lavorate a se imana solo per un so oinsieme ristre o del campione degli individui.
Un’informazione troppo esigua per stimare il reddito da lavoro. Tuttavia per l’anno 1997, la Multiscopo rende utilizzabile informazioni
sul reddito complessivo mensile della famiglia, diviso in categorie.
Seguendo Freeman (1997) si considera la media delle categorie come
variabile del reddito familiare. Nel contesto del lavoro volontario,
l’inclusione del reddito come variabile esplicativa può generare problemi econometrici di simultaneity bias. Al riguardo, Day e Devlin
(1996) mostrano empiricamente che il volontariato può incrementare il reddito familiare. In un simile caso il reddito è una variabile
endogena piu osto che una variabile esogena con la possibilità che
le stime parametriche siano biased. Ciò nonostante, è consolidato nella le eratura sul lavoro volontario (Menchik, Weisbrod, 1987; Day,
Devlin 1996; Freeman, 1997) e nella le eratura sul capitale sociale
(Alesina, La Ferrara, 2000) considerare il reddito come una variabile
esogena. In questo studio il reddito complessivo familiare è quindi
tra ato come una variabile fissa.
Altre informazioni riguardanti le variabili ambientali, non disponibili nel dataset della Multiscopo, sono la fiducia e l’ine cienza giudiziaria.2 Esse sono calcolate a livello regionale. La variabile fiducia
è misurata dalle votazioni a tu i i referendum avvenuti in Italia dal
1946 al 1989. Questi referendum coprono un’ampia gamma di questioni, quali la scelta tra monarchia e repubblica (1946), il divorzio
(1974), l’aborto (1981), la regolazione della caccia (1987), l’uso del
nucleare (1987), misure di ordine pubblico (1978). La scelta degli individui di partecipare ai referendum non è motivata né da incentivi
economici né da incentivi legali. Essa è guidata solo da pressione
sociale e norme morali. Essa è quindi un indice della forza e del radicamento delle norme morali, delle norme civiche in un data comunità. La variabile ine cienza giudiziaria è determinata dal numero
medio di anni necessari ad un Tribunale a completare un giudizio
di primo grado. Essa è quindi un indice della qualità e della forza
dell’ambiente legale a livello comunitario.
La tabella 5 riporta le statistiche sommarie ed alcune correlazioni del
campione so o studio.
2
Questi dati sono stati forniti gentilmente da Luigi Guiso.
129
130
IMPRESA SOCIALE
aprile ~ giugno 2008
TABELLA 5 - STATISTICHE SOMMARIE E CORRELAZIONI
Variabile
Aavol
Aanovol
Appol
ASind
Femmina
Coniugato
Eta14a19
Eta20a34
Eta35a44
Eta45a54
Eta55a64
Eta66
Figli0_5
Figli6_15
Nessuna
Licenza
Diploma
Laurea
Compfam
Osalute
Proprietario
Frel
Quotidiani
Ln(RF)
Occupato
Dipendente
Sprivati
Fiducia
Inefgiu
Inefgiu
Fiducia
AAvol
AAnovol
APpol
ASind
Obs
48960
48921
48954
48927
49917
49917
49917
49917
49917
49917
49917
49917
49917
49917
49917
49917
49917
49917
49917
49383
49667
49211
49217
48329
49917
49917
49917
49917
49917
Inefgiu
1.0000
-0.8201**
-0.1113**
-0.0539**
0.0156**
0.0049
Panel A. Statistiche sommarie
Mean
Std.Dev.
Min
0.08
0.27
0
0.04
0.19
0
0.02
0.13
0
0.01
0.12
0
0.52
0.50
0
0.59
0.49
0
0.08
0.28
0
0.27
0.44
0
0.17
0.38
0
0.16
0.37
0
0.14
0.34
0
0.16
0.37
0
0.14
0.40
0
0.33
0.64
0
0.06
0.24
0
0.57
0.49
0
0.30
0.46
0
0.07
0.25
0
3.27
1.28
1
0.46
0.50
0
0.74
0.44
0
0.27
0.44
0
0.25
0.43
0
14.67
0.58
12.61
0.43
0.49
0
0.31
0.46
0
0.16
0.37
0
0.79
0.08
0.64
3.79
1.15
2.06
Panel B. Correlazioni
Fiducia
Aavol
Aanovol
1.0000
0.0773**
0.0402**
-0.0125**
0.0008
1.0000
0.2727**
0.1259**
0.1038**
1.0000
0.1304**
0.1027**
Max
1
1
1
1
1
1
1
1
1
1
1
1
4
5
1
1
1
1
10
1
1
1
1
15.89
1
1
1
0.89
6.76
Appol
ASind
1.0000
0.2899**
1.0000
Note: Il campione della Multiscopo riguardo l’attività gratuita è dato da individui
di età uguale e superiore ai 14 anni. La descrizione delle variabili è riportata nella
tabella 4. Il Panel A contiene statistiche sommarie, Il Panel B mostra le correlazioni
tra le variabili ambientali e le variabili di attività gratuita. Il simbolo ** enota che il
coefficiente di correlazione è significativo al livello del 5%.
LAVORO VOLONTARIO: UN’ANALISI CROSS-SEZIONALE SUL DATASET MULTISCOPO
Damiano Fiorillo
5. Evidenza econometrica
In questa sezione si forniscono stime del ruolo delle cara eristiche
personali, delle motivazioni estrinseche, delle variabili di a accamento alla comunità locale e delle variabili ambientali nel comprendere la scelta degli individui di svolgere a ività gratuita per
un’organizzazione sociale. Si analizzano le determinanti del lavoro volontario ricorrendo ad equazioni probit. In linea con le ipotesi
avanzate nella sezione tre del lavoro, si è interessati a due differenti
investigazioni.
In primo luogo, si verifica se la decisione di essere volontario è un’attività di consumo oppure un’a ività di investimento regredendo le
determinanti individuali dell’a ività gratuita contro le dummy del
volontariato per mezzo di un’equazione probit standard del tipo
Prob(Vi ) = Ф( ’Xi + ’R)
(10)
dove i = 1… N indica gli individui, Vi è la dummy dell’a ività gratuita, Xi il ve ore delle cara eristiche individuali, del reddito familiare
e fa ori sociali, con l’associato ve ore dei coe cienti di controllo .
R indica il ve ore delle dummy regionali con associato il ve ore dei
coe cienti e Ф è la funzione di densità cumulativa normale standard. L’inclusione delle dummy regionali è motivata dall’obie ivo di
ridurre l’eterogeneità del campione so o studio.
In secondo luogo, si esamina se le variabili ambientali comunitarie,
quali la fiducia e l’ine cienza giudiziaria, supportano il modello
di investimento regredendo queste variabili, unitamente alle determinanti individuali, contro la dummy del volontariato per mezzo di
equazioni probit standard del tipo
Prob(vi) = Ф( ’Xi + τT)
(11)
Prob(vi) = Ф( ’Xi + ωI)
(12)
dove T è l’indicatore della fiducia con associato il relativo coe ciente τ, mentre I è l’indice dell’ine cienza giudiziaria e ω il corrispondente coe ciente.
Dalla stima dei coe cienti , τ, e ω si intende o enere utili indicazioni delle determinanti individuali ed ambientali dell’a ività gratuita
prestata per un’organizzazione sociale.
131
132
IMPRESA SOCIALE
aprile ~ giugno 2008
Risultati base
I risultati dell’equazione probit (10) sono riportati nella tabella 6 in cui
le stime dei coe cienti delle covariate sono coe cienti probit marginali valutati alla media, mentre gli errori standard (riportati in parentesi)
sono corre i per l’eteroschedasticità ed il clustering dei residui a livello
regionale. L’usuale notazione (*) denota il livello di significatività.
Risulta, innanzitu o, che le femmine svolgono probabilmente meno
a ività gratuita rispe o ai maschi, mentre le persone sposate sembrano ridurre la probabilità di diventare volontari, tranne che per un
partito (APpol) (il coe ciente è però non significativo) ed un sindacato (ASind). Questi risultati indicano che in associazioni di volontariato (AAvol) e non di volontariato (AAnovol), il lavoro non pagato
è fornito probabilmente in prevalenza da maschi celibi, mentre nei
gruppi APpol e ASind il lavoro volontario è prestato probabilmente
in preponderanza da maschi coniugati.
La ragione per cui le femmine prestano meno a ività gratuita dei maschi nei gruppi AAvol e AAnovol può essere individuata facendo riferimento a quel periodo della vita che è particolarmente affaccendato a
causa del matrimonio, del me ere su una nuova famiglia e dell’a ività
di crescita dei bambini piccoli. Infa i, per una AAvol, i coe cienti delle
variabili Coniugato, Età20a34, Figli0_5 sono negativi e statisticamente
significativi.3 Per una AAnovol, il coe ciente della variabile Coniugato
è negativo e statisticamente significativo, mentre i coe cienti dei regressori Età20a34 e Figli0_5 sono negativi, ma non significativi.4
Le persone con bambini di età compresa tra 6 e 15 anni prestano più
a ività gratuita delle persone con bambini più giovani: il relativo
coe ciente è positivo e significativo per i gruppi AAvol, AAnovol e
ASind. In particolare, per questi gruppi sociali la correlazione positiva
tra la dummy dell’età compresa tra 35 e 44 anni e la dummy dei bambini
tra i 6 e 15 anni potrebbe indicare che i genitori sarebbero coinvolti in
lavori volontari correlati all’a ività dei loro bambini. Tu avia, la non
significatività della variabile Compfam, indicante la dimensione della
famiglia, non perme e di confermare questa interpretazione.
La dummy della classe di età compresa tra 20 a 34 anni e la dummy dei bambini di età inferiore a 6 anni sono altamente correlati per i gruppi sociali AAvol e AAnovol.
4
I risultati non cambiano stimando un’equazione probit per una AAvol ed una AAnovol solo sul
sottocampione delle femmine. I dati sono disponibili sotto richiesta.
3
LAVORO VOLONTARIO: UN’ANALISI CROSS-SEZIONALE SUL DATASET MULTISCOPO
Damiano Fiorillo
TABELLA 6 - STIME PROBIT DELLA PROBABILITÀ
UN’ORGANIZZAZIONE SOCIALE
DI SVOLGERE ATTIVITÀ GRATUITA PER
AAvol
AAnovol
APpol
Femmina -0.0182*** (0.0211) -0.0133*** (0.0216) -0.0123*** (0.0453)
ASind
-0.0109***
(0.0386)
Coniugato
-0.0174***
(0.0295)
-0.0035**
(0.0273)
0.0002
(0.0584)
0.0018***
(0.0418)
Età14a19
-0.0136***
(0.0405)
0.0042
(0.0554)
-0.0041*
(0.1043)
-0.0045***
(0.1025)
Età20a34
-0.0083**
(0.0330)
-0.0028
(0.0464)
-0.0038***
(0.0554)
-0.0045***
(0.0388)
Età45a54
0.0038
(0.0284)
0.0007
(0.0352)
0.0006
(0.0464))
0.0021**
(0.0454)
Età55a64
-0.0180***
(0.0263)
-0.0046
(0.0596)
-0.0016
(0.0743)
0.0005
(0.0847)
Età66
-0.0511***
(0.0381)
-0.0199***
(0.0787)
-0.0075***
(0.1106)
-0.0008
(0.0971)
Figli0_5
-0.0109***
(0.0278)
-0.0018
(0.0343)
-0.0003
(0.0400)
-0.0004
(0.0423)
Figli6_15
0.0076***
(0.0227)
0.0025*
(0.0221)
0.0010
(0.0327)
0.0011**
(0.0307)
Nessuna
-0.0631***
(0.1050)
-0.0276***
(0.1145)
-0.0085***
(0.1228)
-0.0064***
(0.2115)
Licenza
-0.0360***
(0.0329)
-0.0190***
(0.0263)
-0.0088***
(0.0507)
-0.0045***
(0.0334)
Laurea
0.0279***
(0.0352)
0.0123***
(0.0446)
0.0040***
(0.0408)
0.0006
(0.0621)
Compfam
0.0007
(0.0126)
-0.0005
(0.0157)
0.0004
(0.0168)
-0.0003
(0.0179)
Osalute
-0.0094**
(0.0281)
-0.0063***
(0.0358)
-0.0019***
(0.0304)
-0.0022***
(0.0370)
Proprietario
0.0089***
(0.0208)
0.0044***
(0.0280)
-0.0004
(0.0307)
-0.0007
(0.0397)
Frel
0.0288***
(0.0363)
0.0074***
(0.0339)
-0.0033***
(0.0485)
-0.0019**
(0.0489)
Quotidiani
0.0122***
(0.0251)
0.0054***
(0.0287)
0.0111***
(0.0348)
0.0046***
(0.0410)
Ln (RF)
0.0092***
(0.0284)
0.0059***
(0.0377)
0.0004
(0.0480)
0.0008
(0.0439)
Occupato
-0.0073*
(0.0357)
0.0028
(0.0403)
0.0005
(0.0474)
0.0018**
(0.0465)
Dipendente
-0.0039
(0.0322)
-0.0057**
(0.0404)
0.0010
(0.0450)
0.0095***
(0.0397)
-0.0049**
(0.0203)
-0.0020
(0.0389)
-0.0030***
(0.0500)
-0.0018***
(0.0387)
Sprivati
Dummy
Reg.
Osservazioni
Pseudo R2
Log likelihood
SI
SI
SI
SI
46702
46668
46703
46673
0.0892
0.0719
0.1146
0.1560
-12192.621
-6701.6497
-3485.8065
-3092.3713
Note: La variabile dipendente è uguale ad uno se l’individuo ha svolto negli ultimi
dodici mesi un’attività gratuita per: un’associazione di volontariato, un’associazione
non di volontariato, un partito politico, un sindacato. I coefficienti riportati sono
stime probit calcolati sulla media campionaria delle variabili indipendenti. Gli errori
standard riportati in parentesi sono corretti per l’eteroschedasticità ed il clustering
dei residui a livello regionale. I simboli ***, **, * denotano che il coefficiente è
statisticamente differente da zero a livello del 1, del 5 e del 10%.
133
134
IMPRESA SOCIALE
aprile ~ giugno 2008
In secondo luogo, i coe cienti delle dummy dell’età indicano una relazione non lineare tra l’età e la probabilità di svolgere a ività gratuita
per un’associazione di volontariato ed un partito politico. La probabilità di diventare un volontario per una AAvol e un APpol aumenta
con l’età fino alla classe media compresa tra 45 e 54 anni e poi si riduce. Queste stime dell’età non cambiano quando si introduce quale
ulteriore regressore una dummy per l’anno di nascita (non riportata).
Inoltre, il declino per le persone più anziane non dipende da un effe o
benessere. Controllando per le persone che dichiarano di essere in ottimo stato di salute, il declino persiste. L’evidenza che l’a ività gratuita cade con l’età, ceteris paribus, tenderebbe a supportare il modello di
investimento poiché più una persona è anziana, minore sarà il periodo di recupero del lavoro volontario investito e, quindi, minore sarà
l’a ività gratuita intrapresa. Questo risultato sembrerebbe, pertanto,
consistente con quelli o enuti da Menchik e Weisbrod (1987) e Day e
Devlin (1996) per gli Stati Uniti ed il Canada.
La probabilità di essere un volontario aumenta con il livello di istruzione: le persone senza titolo e con un titolo di scuola elementare e di
licenza media svolgono significativamente meno lavoro volontario
rispe o alle persone con un titolo di scuola media superiore, mentre le persone con laurea effe uano significativamente più lavoro
volontario. Si noti come i coe cienti delle variabili dell’istruzione
sono altamente significativi tra le diverse organizzazioni sociali, ad
eccezione del coe ciente della variabile laurea che risulta non significativo per l’organizzazione sindacato. Questa relazione positiva
può essere considerata una delle esternalità benefiche dell’istruzione formale (Day, Devlin, 1996, p. 44).
Considero, adesso, i risultati che riguardano le variabili connesse al
radicamento locale e alla forza delle credenze religiose. In un’associazione di volontariato e in un’associazione non di volontariato l’a ività gratuita è fornita probabilmente da persone che sono proprietarie
dell’abitazione in cui vivono, leggono tu i i giorni i quotidiani e si
recano in chiesa almeno una volta a se imana. I coe cienti delle variabili Proprietario, Quotidiani e Frel presentano un segno positivo
altamente significativo. Circa l’a ività gratuita fornita in un partito e
in un sindacato si hanno risultati simili riguardo la le ura giornaliera
dei quotidiani, ma contrapposti riguardo la forza delle credenze religiose: il coe ciente della variabile Frel presenta un segno negativo
molto significativo. La variabile Proprietario, invece, non è statisticamente significativa. L’evidenza empirica, quindi, per una AAvol e una
LAVORO VOLONTARIO: UN’ANALISI CROSS-SEZIONALE SUL DATASET MULTISCOPO
Damiano Fiorillo
AAnovol conferma i risultati di DiPasquale e Glaeser (1999) e Glaeser
et al. (2002), supporta le predizioni di Putnam (1993) ed è consistente
con il modello teorico di investimento secondo cui il radicamento alla
comunità è rilevante nel spiegare la scelta di essere un volontario.
Riguardo alla forza delle credenze religiose l’evidenza mostra che
i comportamenti altruistici sono una determinante importante del
lavoro volontario per un’associazione di volontariato ed un’associazione di non volontariato, mentre, probabilmente, i comportamenti egoistici, particolari e speciali dominano l’a ività gratuita per un
partito politico ed un sindacato.
La tabella 6 mostra che il reddito familiare è una determinante importante della decisione di offrire lavoro gratuito per un’associazione di volontariato ed un’associazione non di volontariato. Per questi
gruppi si riscontra una relazione positiva tra la probabilità di essere
volontario e il reddito complessivo familiare mensile: come il reddito familiare cresce, cresce la probabilità di offrire lavoro gratuito.
L’a ività gratuita per un’associazione di volontariato e non di volontariato è quindi un bene normale. Questa relazione positiva tra
la probabilità di essere volontario ed il reddito familiare, riscontrata
per i gruppi AAvol e AAnovol, è coerente con i risultati conseguiti
da Menchik e Weisbrod (1987) e Day e Devlin (1996).
I risultati della tabella 6 implicano inoltre che lo stato lavorativo, il
tipo ed il se ore di impiego sono importanti determinanti della decisione di offrire lavoro volontario. In particolare, lo status di occupato
riduce il lavoro volontario per una AAvol, mentre l’aumenta per un
Asind, così come chi svolge lavoro retribuito come dipendente presta meno a ività gratuita per una AAnovol e più a ività gratuita
per un ASind. Inoltre, le persone impiegate nei servizi privati forniscono significativamente meno a ività gratuita per un’associazione
di volontariato, un partito politico ed un sindacato. I regressori non
mostrati includono dicio o dummy regionali. Quasi tu e le dummy
regionali sono statisticamente significative, confermando le indicazioni descri ive ben radicate nella le eratura sul capitale sociale.
Controlli aggiuntivi regionali: le variabili ambientali
In questa parte del lavoro si analizza il ruolo delle variabili ambientali nella scelta di essere un volontario. Si esaminano singolarmente
le variabili ambientali rappresentate dall’ine cienza della giustizia e dalla fiducia poiché, come so olinea la tabella 5 panel B, vi è
un’elevata correlazione negativa tra i due indicatori.
135
136
IMPRESA SOCIALE
aprile ~ giugno 2008
Nella tabella 7 la variabile dell’ine cienza della giustizia è aggiunta alle
variabili individuali delle cara eristiche personali, del reddito familiare,
dell’a accamento alla comunità locale, delle motivazioni intrinseche e alle
dummy regionali. Poiché l’indice di ine cienza della giustizia è calcolato
a livello regionale potrebbe essere correlato con le dummy regionali.
TABELLA 7 - ATTIVITÀ GRATUITA ED INEFFICIENZA DELLA GIUSTIZIA
AAvol
AAnovol
-0.0124***
(0.0456)
ASind
-0.0182***
(0.0211)
-0.0132***
Coniugato
-0.0171***
(0.0306)
-0.0030*
(0.0274)
0.0003
Età14a19
-0.0137***
(0.0400)
0.0044
(0.0566)
-0.0040*
Età20a34
-0.0085**
(0.0329)
-0.0026
(0.0457)
-0.0038***
(0.0555)
-0.0045***
(0.0382)
Età45a54
0.0040
(0.0285)
0.0008
(0.0356)
0.0005
(0.0449)
0.0020**
(0.0457)
Età55a64
-0.0178***
(0.0256)
-0.0043
(0.0598)
-0.0017
(0.0742)
0.0003
(0.0848)
Età66
-0.0499***
(0.0389)
-0.0196***
(0.0823)
-0.0075***
(0.1115)
-0.0008
(0.0949)
Figli0_5
-0.0109***
(0.0272)
-0.0019
(0.0338)
-0.0004
(0.0401)
-0.0005
(0.0420)
Figli6_15
0.0076***
(0.0221)
0.0025**
(0.0215)
0.0010
(0.0329)
0.0011**
(0.0309)
Nessuna
-0.0627***
(0.1048)
-0.0274***
(0.1172)
-0.0085***
(0.1230)
-0.0065***
(0.2131)
Licenza
-0.0356***
(0.0334)
-0.0185***
(0.0265)
-0.0089***
(0.0513)
-0.0045***
(0.0329)
Laurea
0.0268***
(0.0359)
0.0119***
(0.0461)
0.0040***
(0.0411)
0.0006
(0.0632)
Compfam
(0.0212)
APpol
Femmina
-0.0109***
(0.0388)
(0.0603)
0.0019***
(0.0440)
(0.1054)
-0.0045***
(0.1029)
0.0008
(0.0121)
-0.0005
(0.0157)
0.0004
(0.0170)
-0.0003
(0.0177)
Osalute
-0.0095***
(0.0272)
-0.0061***
(0.0355)
-0.0020***
(0.0311)
-0.0023***
(0.0368)
Proprietario
0.0089***
(0.0211)
0.0042***
(0.0282)
-0.0003
(0.0296)
-0.0007
(0.0398)
Frel
0.0292***
(0.0363)
0.0075***
(0.0332)
-0.0032***
(0.0489)
-0.0019**
(0.0497)
Quotidiani
0.0125***
(0.0251)
0.0058***
(0.0285)
0.0109***
(0.0378)
0.0046***
(0.0414)
Nonni
-0.0241**
(0.1017)
0.0007
(0.1706)
-0.0012
(0.1963)
0.0023
(0.1453)
Tv
-0.0129***
(0.0375)
-0.0085***
(0.0272)
-0.0005
(0.0673)
0.0004
(0.0829)
Ln (RF)
0.0095***
(0.0284)
0.0060***
(0.0374)
0.0004
(0.0475)
0.0007
(0.0434)
Occupato
-0.0081*
(0.0354)
0.0027
(0.0396)
0.0006
(0.0463)
0.0019**
(0.0478)
Dipendente
-0.0034
(0.0321)
-0.0056**
(0.0399)
0.0010
(0.0449)
0.0095***
(0.0398)
Sprivati
-0.0050**
(0.0210)
-0.0023
(0.0392)
-0.0030***
(0.0493)
-0.0018***
(0.0394)
Inefgiu
-0.0120***
(0.0031)
-0.0014***
(0.0048)
0.0009***
(0.0054)
0.0005***
SI
Osservazioni
Pseudo R2
Log likelihood
46573
46540
46574
46545
0.0898
0.0730
0.1148
0.1562
-12147.566
-6665.0335
-3475.6909
-3086.2851
Note: Vedi nota tabella 6.
SI
SI
(0.0037)
Dummy Reg.
SI
LAVORO VOLONTARIO: UN’ANALISI CROSS-SEZIONALE SUL DATASET MULTISCOPO
Damiano Fiorillo
TABELLA 8 - ATTIVITÀ GRATUITA E FIDUCIA
AAvol
AAnovol
APpol
ASind
Femmina
-0.0182***
(0.0211)
-0.0132***
(0.0212)
-0.0124***
(0.0456)
-0.0109***
(0.0388)
Coniugato
-0.0171***
(0.0306)
-0.0030*
(0.0274)
0.0003
(0.0603)
0.0019***
(0.0440)
Età14a19
-0.0137***
(0.0400)
0.0044
(0.0566)
-0.0040*
(0.1054)
-0.0045***
(0.1029)
Età20a34
-0.0085**
(0.0329)
-0.0026
(0.0457)
-0.0038***
(0.0555)
-0.0045***
(0.0382)
Età45a54
0.0040
(0.0285)
0.0008
(0.0356)
0.0005
(0.0449)
0.0020**
(0.0457)
Età55a64
-0.0178***
(0.0256)
-0.0043
(0.0598)
-0.0017
(0.0742)
0.0003
(0.0848)
Età66
-0.0499***
(0.0389)
-0.0196***
(0.0823)
-0.0075***
(0.1115)
-0.0008
(0.0949)
Figli0_5
-0.0109***
(0.0272)
-0.0019
(0.0338)
-0.0004
(0.0401)
-0.0005
(0.0420)
Figli6_15
0.0076***
(0.0221)
0.0025**
(0.0215)
0.0010
(0.0329)
0.0011**
(0.0309)
Nessuna
-0.0627***
(0.1048)
-0.0274***
(0.1172)
-0.0085***
(0.1230)
-0.0065***
(0.2131)
Licenza
-0.0356***
(0.0334)
-0.0185***
(0.0265)
-0.0089***
(0.0513)
-0.0045***
(0.0329)
Laurea
0.0268***
(0.0359)
0.0119***
(0.0461)
0.0040***
(0.0411)
0.0006
(0.0632)
0.0008
(0.0121)
-0.0005
(0.0157)
0.0004
(0.0170)
-0.0003
(0.0177)
Compfam
Osalute
-0.0095***
(0.0272)
-0.0061***
(0.0355)
-0.0020***
(0.0311)
-0.0023***
(0.0368)
Proprietario
0.0089***
(0.0211)
0.0042***
(0.0282)
-0.0003
(0.0296)
-0.0007
(0.0398)
Frel
0.0292***
(0.0363)
0.0075***
(0.0332)
-0.0032***
(0.0489)
-0.0019**
(0.0497)
Quotidiani
0.0125***
(0.0251)
0.0058***
(0.0285)
0.0109***
(0.0378)
0.0046***
(0.0414)
Nonni
-0.0241**
(0.1017)
0.0007
(0.1706)
-0.0012
(0.1963)
0.0023
(0.1453)
Tv
-0.0129***
(0.0375)
-0.0085***
(0.0272)
-0.0005
(0.0673)
0.0004
(0.0829)
Ln (RF)
0.0095***
(0.0284)
0.0060***
(0.0374)
0.0004
(0.0475)
0.0007
(0.0434)
Occupato
-0.0081*
(0.0354)
0.0027
(0.0396)
0.0006
(0.0463)
0.0019**
(0.0478)
Dipendente
-0.0034
(0.0321)
-0.0056**
(0.0399)
0.0010
(0.0449)
0.0095***
(0.0398)
Sprivati
-0.0050**
(0.0210)
-0.0023
(0.0392)
-0.0030***
(0.0493)
-0.0018***
(0.0394)
Fiducia
0.0054***
(0.0006)
0.0002***
(0.0008)
-0.0001***
(0.0010)
-0.0001***
(0.0007)
Dummy
Reg.
Osservazioni
Pseudo R2
Log likelihood
SI
SI
SI
SI
46573
46540
46574
46545
0.0898
0.0730
0.1148
0.1562
-12147.566
-6665.0335
-3475.6909
-3086.2851
Note: Vedi nota tabella 6.
Si osserva, innanzitu o, che i coe cienti delle determinanti individuali dell’a ività gratuita restano stabili e robusti per ognuno dei
gruppi sociali considerati. Il coe ciente dell’ine cienza giudiziaria
137
138
IMPRESA SOCIALE
aprile ~ giugno 2008
è negativo e significativo al livello dell’1% per il lavoro volontario offerto in un’associazione di volontariato ed in un’associazione non di
volontariato. Questa evidenza sembra indicare che le persone che vivono in comunità in cui il sistema giudiziario è migliore probabilmente svolgono più a ività gratuita per queste organizzazioni.
Riguardo l’a ività gratuita prestata in un partito politico ed in un
sindacato, il coe ciente dell’ine cienza giudiziaria è positivo e significativo, sempre al livello dell’1%. Questo risultato sembra rivelare che le persone che vivono in comunità in cui il sistema giudiziario
è peggiore probabilmente svolgono più a ività gratuita per un partito politico ed un sindacato.
Nella tabella 8, invece, è la variabile della fiducia ad essere aggiunta agli altri regressori individuali. Considero sempre tra le variabili
indipendenti le dummy regionali. Nuovamente, il test di multicollinearità applicato ai risultati della tabella 7 rige a l’ipotesi che i predi ori siano correlati.
Si osserva, ancora, che i coe cienti delle determinanti individuali
dell’a ività gratuita restano stabili e robusti per ognuno dei gruppi
sociali considerati. Per un’associazione di volontariato ed un’associazione non di volontariato, il coe ciente della fiducia è positivo
e significativo al livello dell’1%. Questa evidenza appare suggerire
che le persone che vivono in comunità in cui sono radicate le norme morali e la pressione sociale probabilmente svolgono più a ività gratuita per queste organizzazioni. Per un partito politico ed
un sindacato, il coe ciente della fiducia è negativo e significativo a
livello dell’1 percento, enfatizzando che probabilmente le persone
che vivono in comunità in cui sono meno radicate le norme morali e
la pressione sociale svolgono più a ività gratuita per un partito ed
un sindacato.
7. Considerazioni conclusive
La di coltà di ricerca sulle determinanti del lavoro volontario può
essere ben a ribuita alla mancanza di dati appropriati. In questo
studio si sono presentati un modello di consumo ed un modello
di investimento e si utilizza un dataset u ciale dell’Istat, quale gli
aspe i della vita quotidiana dell’Indagine Multiscopo sulle famiglie anno 1997, per esaminare le determinanti del lavoro volontario, in generale, e la relazione tra il lavoro volontario e fa ori
sociali ed ambientali, in particolare. L’analisi non è stata priva di
LAVORO VOLONTARIO: UN’ANALISI CROSS-SEZIONALE SUL DATASET MULTISCOPO
Damiano Fiorillo
limitazione. Si è concepito il lavoro volontario come un comportamento che non è renumerato secondo il meccanismo di mercato
e si è misurato questa definizione con una dummy uguale ad uno
se il rispondente svolgeva a ività gratuita per un’organizzazione
sociale nei dodici mesi antecedenti all’intervista. La mancanza di
informazioni riguardo il reddito da lavoro, ha impedito di usare
questa variabile nelle equazioni probit implementate, mentre la
disponibilità di informazione solo per alcuni anni riguardo il reddito complessivo familiare ha indo o ad utilizzare un’analisi crosssezionale.
Il lavoro ha utilizzato una stru ura analitica della motivazione di
consumo e della motivazione di investimento e ha mostrato che
entrambe le motivazioni influenzano l’offerta di lavoro volontario.
Consistente con la stru ura analitica, l’evidenza empirica ha rivelato che l’a ività gratuita per un’associazione di volontariato presenta
cara eristiche sia di a ività di consumo sia di a ività di investimento. Il movente di consumo spinge gli individui a donare tempo ad
un’associazione non di volontariato, mentre l’acquisizione di informazione, relazioni e conta i motiva le persone ad offrire gratuitamente tempo ad un partito politico. Il lavoro volontario offerto ad
un sindacato non è motivato né da un modello di consumo né da un
modello di investimento. Inoltre, i fa ori sociali ed ambientali risultano importanti determinanti del modello di investimento dell’attività gratuita per un’associazione di volontariato e per un partito
politico.
L’avere riscontrato un legame tra l’a ività gratuita e la forza delle
norme formali ed informali pungola a considerare in modo più approfondito il contesto comunitario in futuri studi sul volontariato.
Ulteriori ricerche in questa area sono certamente opportune.
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IL BILANCIO SOCIALE. RIFLESSIONI SULLO STATO DELL’ARTE ALLA LUCE DEL D.LGS. 155/2006
Melania Verde
Il bilancio sociale. Riflessioni sullo stato
dell’arte alla luce del d.lgs. 155/20061
Melania Verde
L’economia che ignora
o trascura i valori morali
è fallace.
Ghandi
Sommario
1. Introduzione - 2. Evoluzione del conce o di responsabilità sociale. Cenni introdu ivi 3. Dalla responsabilità sociale d’impresa al bilancio sociale - 4. Bilancio sociale. Alcuni dubbi
- 5. Gli scopi e gli ambiti della social accountability - 6. Brevi considerazioni conclusive
1. Introduzione
Nel d.lgs. n. 155 del 24 marzo 2006 (Disciplina dell’impresa sociale, a
norma della legge 13 giugno 2005, n. 118) è fa o obbligo all’impresa
sociale - nuova species nell’ampio genus dell’impresa - di redigere un
documento che sia in grado di misurare e di comunicare le performance sociali.
Questa ricerca è stata resa possibile anche dalla partecipazione al Progetto Equal-Itinera - ITG2-CAM-097 - “Criteri di adattabilità delle competenze sociali”.
1
141
142
IMPRESA SOCIALE
aprile ~ giugno 2008
Prima però di concentrare la discussione sul nuovo “strumento di
accountability” è importante so olineare, seppur sommariamente,
gli elementi che cara erizzano la nuova tipologia di impresa,2 dopodichè il passo è breve per comprendere il senso dello strumento che
ha richiamato l’a enzione del legislatore.
In primo luogo, preme porre l’accento sulla duplice natura del sogge o in questione, al fine di individuare gli elementi da cui scaturisce la stessa denominazione di “impresa sociale”:
• la natura imprenditoriale. L’impresa sociale è un’impresa a tu i
gli effe i in quanto è dedita allo svolgimento di una stabile “attività economica” volta alla produzione o allo scambio di beni o
di servizi (art. 1, comma 1);
• la natura sociale. Lo scopo principale dell’impresa sociale è quello di “servire i membri della colle ività piu osto che generare
profi o”. Il suo compito, dunque, non è la semplice massimizzazione dei profi i per reinvestirli, ma lo svolgimento di un’a ività
di utilità sociale,3 dire a a realizzare finalità di interesse generale4 all’interno dei se ori individuati dal legislatore, o che comunque comporti l’inserimento lavorativo di sogge i svantaggiati o
disabili (art. 1, comma 1 e art. 2, commi 1 e 2).
Per quanto concerne, invece, le “modalità di gestione dell’organizzazione”, le imprese sociali si contraddistinguono per diversi connotati, tra i quali:
• processi decisionali democratici, in virtù dei quali l’esercizio del
diri o di voto è disgiunto dalle quote di capitale detenute, secondo il principio del “una testa un voto”;
• coinvolgimento nel governo dell’organizzazione dei diversi portatori di interesse, in particolare dei lavoratori (art. 12, comma
1);
• divieto della distribuzione, anche indire a, di utili e avanzi di
gestione (art. 3, comma 2).
In sintesi, l’impresa sociale si cara erizza - diversamente dalle imprese tradizionali o for-profit - per l’adozione di pratiche sociali a
Sulla definizione di impresa sociale, cfr. Borzaga (2003); Borzaga (2004). Per un’analisi
dell’evoluzione dell’impresa sociale nel nostro paese si veda Scalvini (2002). Per spunti di
riflessione in termini generali cfr. Borzaga, Defourny (2001). Sul tema impresa sociale si veda
anche Giorgetti (2003); Butera, Catino (2002).
3
“L’utilità sociale” secondo Matacena (2006) non è da considerarsi elemento distintivo dell’impresa sociale. L’autore ricorda, infatti, che tale concetto è posto dalla Costituzione come condizione per lo svolgimento di qualsiasi attività economica privata (art. 41), anziché di determinati
tipi di impresa.
4
Su questo punto, si veda Bombardelli (2005).
2
IL BILANCIO SOCIALE. RIFLESSIONI SULLO STATO DELL’ARTE ALLA LUCE DEL D.LGS. 155/2006
Melania Verde
“favore” della colle ività e nel solo interesse di quest’ultima; si tratta di pratiche che non solo rientrano nel tradizionale modus operandi
delle imprese sociali, ma che sopra u o costituiscono le fondamenta di queste ultime per tradurre in fa i quanto descri o a livello teorico.
Le imprese sociali, proprio in virtù di queste cara eristiche - che assicurano loro un patrimonio di fiducia e di rispe o da parte dell’opinione pubblica - debbono “tener conto” delle decisioni assunte e delle azioni effe ivamente intraprese, forse più delle altre imprese. È a
questa consapevolezza che occorre ricollegare il vincolo legislativo
imposto alle stesse di “descrivere”, di “misurare” e di “verificare”
costantemente le a ività sociali e non poste in essere.
L’ogge o delle riflessioni che seguiranno sarà proprio: la rendicontazione sociale.5 Nello specifico, l’obie ivo delle osservazioni proposte
sarà quello di evidenziare e, in parte di chiarire, alcuni aspe i rimasti “sullo sfondo” nel d.lgs. 155/2006; sia perché, per alcuni di essi,
vi è un esplicito rinvio del legislatore al futuro decreto ministeriale,
sia perché sul tema della rendicontazione sociale non vi è ancora in
le eratura una uniformità di vedute.
In linea generale, gli aspe i su cui si vuole indagare sono: la nozione di bilancio sociale, le funzioni e l’ogge o della rendicontazione.
Si tenterà di risalire ad ognuno di essi a partire dalle stesse disposizioni normative e, laddove non sarà possibile, si farà ricorso alla
le eratura in materia.
Nello specifico, partendo dalla responsabilità sociale d’impresa ed
in particolare dall’evoluzione che essa ha subito negli anni, si introduce il tema della “rendicontazione sociale” arrivando a definire il
conce o di bilancio sociale (par. 1 e par 2). A fondamento del paragrafo 3 la locuzione di “bilancio sociale”. Più de agliatamente, è il
termine “bilancio” ad essere so o accusa, si prova infa i a capire se
il ricorso a tale termine, per indicare il “bilancio sociale”, possa considerarsi corre o. Si prosegue poi con una definizione alternativa del
termine “bilancio”, che chiama in causa l’approccio multi-stakeholder
ed in particolare il “coinvolgimento” di una specifica categoria di
stakeholder: i lavoratori, quali interlocutori privilegiati dell’impresa
sociale (par. 3.1). Nel paragrafo 4 si cerca in primo luogo di inquadrare le funzioni del bilancio sociale, nel tentativo di rispondere alla
domanda: il bilancio sociale quale strumento di comunicazione ed
informazione e/o strumento di governo e di gestione? In secondo
5
Sulle possibili rendicontazioni nell’impresa sociale, si veda Andreaus (2005).
143
144
IMPRESA SOCIALE
aprile ~ giugno 2008
luogo, si prosegue cercando di marcare i confini del documento di
cui si discute, al fine di individuare l’”ogge o della rendicontazione
sociale”. Infine, seguono alcune considerazioni conclusive (par. 5).
2. Evoluzione del concetto di responsabilità sociale. Cenni
introduttivi
“Non può esserci sviluppo sociale senza progresso economico, ma
non può esserci progresso economico senza sviluppo sociale” (Ranghieri 1998). In questa affermazione sono racchiusi il significato e la
portata della responsabilità sociale d’impresa (o corporate social responsibility come preferiscono chiamarla gli Anglosassoni, con l’acronimo in voga CSR) di quell’approccio cioè che possiamo definire globale alla gestione delle a ività di impresa, in quanto colloca sullo
stesso piano, contestualmente, le implicazioni economiche e sociali
dell’agire di impresa.
Il conce o della responsabilità sociale pone inevitabilmente al centro
del diba ito la questione relativa al rapporto tra etica ed economia.
Da decenni, infa i, eccellenza economica e capacità sociale sono perseguite congiuntamente, in linea con il filone di pensiero economico
di cui maggiore esponente internazionale è Amartya Sen (1999), il
quale in un suo scri o afferma: “C’è chi considera una bestemmia
anche il semplice me ere in relazione tra loro etica6 ed economia: io
credo invece che mai come oggi, per il destino dell’uomo sul pianeta, sia necessario coniugarle”.
Ecco allora che si palesa una nuova definizione di economia intesa
come scienza che sia allo stesso tempo “[…] multidimensionale, capace di prendere in carico gli ambienti socio-naturali e culturali sui
quali essa si apre; dinamica e coevolutiva con il mondo nel quale si
inscrive; a servizio dell’uomo e non padrona del suo destino. Un’economia che scaturisce, si innerva nella società civile nella quale ci sia
posto sia per lo scambio mediato dal contra o e dal pagamento del
prezzo sia per la reciprocità, la relazionalità, il gratuito. Un’economia
che senza negare il profi o si riveli in grado di ampliare la gamma
dei criteri sui quali fondare le scelte colle ive”7 (Caselli, 2004).
Come nota Da Re (1993) “Parlare di etica significa fare riferimento ad un insieme di principi,
di valori, di finalità, di norme volti ad illuminare e a guidare in termini di ‘buono’ e di ‘giusto’
la vita degli uomini”.
7
Nel 1961 Onida affermava: “Amministrare trascurando la buona economia, porre in atto processi di impresa che sistematicamente distruggono ricchezza, anziché produrne, è di regola
opera socialmente dannosa”.
6
IL BILANCIO SOCIALE. RIFLESSIONI SULLO STATO DELL’ARTE ALLA LUCE DEL D.LGS. 155/2006
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L’economia finalmente esce dalle finalità in essa incorporate dell’homo oeconomicus e diventa strumento effe ivo dell’uomo in quanto tale.8 Questa nuova concezione di economia9 si accompagna ad un’evoluzione del conce o di responsabilità sociale di impresa, in quanto
all’obie ivo del perseguimento del “profi o” si aggiunge quello del
“bene comune”. Non è, dunque, il solo egoismo che oggigiorno dirige l’impresa, bensì una pluralità di motivazioni.
Può, dunque, considerarsi in parte superata la chiave di le ura alla
Friedman, secondo cui The only social responsibility of business is to
make profit (Friedman, 1962). Per dirla in altro modo, secondo Friedman, le imprese hanno una sola ed unica “responsabilità sociale”10:
massimizzare gli utili a vantaggio degli azionisti. Questo è l’imperativo morale. Ecco perché il perseguimento delle finalità sociali ed
ambientali a scapito dei profi i - nel tentativo di agire moralmente
- in realtà è concepito come un comportamento immorale. C’è, però,
un caso in cui la responsabilità sociale delle imprese è ammissibile:
quando “non” è sincera. L’utilizzo, infa i, dei valori sociali ed ambientali come mero espediente per massimizzare la ricchezza degli
azionisti, e non come fine in sé, è considerato un comportamento
corre o. È come “me ere una ragazza avvenente davanti a un’automobile: non lo fai per promuovere la bellezza, ma per vendere
macchine”. I buoni propositi, come le ragazze avvenenti, aiutano a
vendere. È vero, riconosce Friedman, che questa visione puramente
“opportunistica” della responsabilità sociale riduce quelli che sono
nobili ideali ad un “ipocrita specchie o per le allodole”. Ma l’ipocrisia è virtuosa se incrementa gli utili, mentre la virtù è immorale, se
non lo fa.
La tesi di Friedman è così sintetizzata da Zamagni (2003b): “[…] il
profi o è un indicatore sintetico di e cienza (allocativa). MassimizPerroux (1960) quasi mezzo secolo fa così si esprimeva: “L’evoluzione del capitalismo […]
non avverrà spontaneamente, ma sarà opera di economisti e di imprenditori che abbiano
compreso che l’economia deve essere a servizio dell’uomo: non di pochi privilegiati, ma di
tutti gli uomini”.
9
Il passaggio alla nuova idea di economia - seppure complicato - risulta ineludibile. La metafora di Thurow (1984) rende bene l’idea: “La transizione da un modo di pensare ad un altro è
molto difficile. Comporta abbandonare la propria nave che affonda. Bisognerà costruirsi una
zattera e ‘catturare’ il vento che arriva. Certamente una zattera non avrà l’eleganza della nave,
ma possiederà un’innegabile virtù, quella di stare a galla”.
10
La letteratura sul tema della responsabilità sociale è assai ampia e di crescente spessore, si
rinvia per un approccio organico alla materia ad un’attenta lettura degli scritti che sono raccolti
nel volume curato da Sacconi (2005). Si veda anche, Beda e Bodo (2004); D’Orazio (2003);
Salani (2004); Zamagni (2003a); Becchetti (2005).
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zare il profi o significa fare il miglior uso delle risorse che sono scarse e quindi operare, in ultima istanza, per il bene comune (creare cioè
ricchezza e lavoro per tu i). So o tali condizioni la catena del valore
economico e quella del valore sociale finiscono per coincidere”.
Nonostante il pensiero di Friedman e dei suoi sostenitori, ancora
oggi, raccolga il sostegno di molti, la loro di denza nei confronti
della responsabilità sociale delle imprese è respinta da tu i coloro
che, tenuto conto della “infondatezza teorica” dell’approccio, reputano quest’ultimo antiquato e di controtendenza rispe o agli a uali
orientamenti.
Mc Guire (1963) è stato tra i primi ad introdurre - un conce o negli
anni addietro spesso ignorato, oggi invece più che mai carico di significato - l’idea di corporate citizenship, che consiste nel considerare
l’impresa come una persona fisica, un ci adino appunto, che opera
all’interno di un contesto sociale e che è quindi tenuto ad impegnarsi
per il suo miglioramento. Il conce o di corporate citizenship richiama
l’idea di una maggiore reciprocità tra sogge o economico e società.
Come sostiene Fabris,11 questa inedita forma di ci adinanza dell’impresa comporta il tentativo di quest’ultima di interloquire con la società e di comprenderne i problemi: si tra a di stabilire una relazione profonda con la colle ività, di un coinvolgimento reale verso le
sue istanze.
Negli anni ’70, Carroll enuncia una definizione quadripartita della
CSR: ordina le varie componenti in una piramide, a seconda della
loro importanza. Alla base si trovano le esigenze di economicità, cui
seguono salendo gradualmente le altre tre componenti, di importanza strategica decrescente (fig. 1).
L’impresa deve rispe are, in primis, una responsabilità “economica”, che corrisponde al dovere di creare valore e profi o; ma, oltre
a questa, ha responsabilità che Carroll definisce giuridiche, etiche
e discrezionali (gli a i che ne derivano sono a i volontari, perché
vanno al di là degli obblighi imposti).
Sulla scia delle parole di Mc Guire e di Carroll, altri studiosi hanno
mosso critiche all’ideologia di base della do rina economica classica, arrivando a sostenere che il fine generale dell’impresa è “[…]
concorrere per molteplici vie alla promozione della persona umana.
Il reddito non è il fine dell’impresa, ma ‘è una parte del sistema dei
valori’ della dinamica economica” (Masini, 1979).
In sintesi, al centro della moderna visione di impresa: la logica del
11
Per approfondire questo tema, cfr. Fabris, Minestroni (2004).
IL BILANCIO SOCIALE. RIFLESSIONI SULLO STATO DELL’ARTE ALLA LUCE DEL D.LGS. 155/2006
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cosidde o “triplice approccio” (triple bo om line). A raverso il quale
nel valutare le prestazioni globali di un’impresa non si può prescindere da una visione multidimensionale, volta ad enfatizzare l’importanza della qualità dei rapporti tra l’impresa ed i suoi stakeholder,
che tenga conto nel contempo degli aspe i economici, di tutela ambientale e di contributo sociale.
FIGURA 1 - LA PIRAMIDE DELLA RESPONSABILITÀ SOCIALE
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Fonte: Carroll, 1979.
Ciò se è vero per le “imprese in generale” lo è ancora di più per l’”impresa sociale”, in quanto, risulta - per usare le parole di Salani (2004)
- “[…] portatrice di ‘una nuova cultura della moralità degli affari’
non risponde al solo interrogativo della massimizzazione del profi o, ma ha interessi più vasti e ampi, in quanto nasce dalla volontà
di essere diversa e si disegna diversa nelle regole di gestione e nelle
funzioni, nasce sulla base di bisogni colle ivi non necessariamente
opportunistici, nasce avendo nel profi o il fine e non il mezzo”.
3. Dalla responsabilità sociale d’impresa al bilancio sociale12
Nel momento in cui si riconosce che l’impresa ha una “responsaIl tema del bilancio sociale si è affermato contemporaneamente all’evoluzione del concetto
di responsabilità sociale di impresa cfr. Frederick, 1994.
12
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bilità globale”13 verso l’ambiente in cui opera, allora si riconosce al
contempo che l’informativa destinata agli interlocutori che formano
quello stesso ambiente non deve più avere solo una connotazione
economica, bensì anche sociale.
È, infa i, proprio la crescente consapevolezza della funzione che
l’impresa assolve in campo sociale a me ere in discussione il contenuto della comunicazione di impresa. Fino a qualche decennio
addietro si riteneva su ciente comunicare esclusivamente i dati
relativi all’andamento economico-finanziario della gestione, anche
perché queste erano le uniche informazioni richieste da quanti avevano interessi nell’impresa (shareholder); oggi, invece, è necessario
soddisfare una crescente domanda di informazioni anche sui riflessi
sociali che derivano dall’a ività svolta.
Se è vero, dunque, che l’impresa è economicamente e socialmente
responsabile verso tu i i portatori di interesse va da sé che l’obbligo
di informazione si estende anche verso gli stessi. È ormai un dato acquisito che il bilancio d’esercizio non è più su ciente da solo a soddisfare le multiformi esigenze conoscitive dei diversi interlocutori e
deve quindi essere a ancato da un documento sui generis, in particolare da uno strumento idoneo a dare conto dei risultati di valenza
sociale dell’agire di impresa. Per dirla in altro modo, si tra a di un
documento pensato per dare spazio alla complessa interdipendenza
tra i fa ori economici e quelli socio-politici connaturati e conseguenti alle scelte dell’impresa.
Da qui la necessità - manifestata dal legislatore delegato - di a ancare la “rendicontazione sociale” alla “rendicontazione economica”
al fine di valutare il comportamento delle imprese sociali considerando sia gli aspe i economico-patrimoniali che quelli sociali.
Nel d.lgs. 155/2006 si impone, infa i, all’impresa sociale di redigere,
oltre al bilancio d’esercizio,14 un nuovo documento definito, a raverso una delle denominazioni più in voga, bilancio sociale.15 I due
documenti non sono né contrapposti né stre amente collegati. Se è
Per “globale” deve intendersi dal duplice punto di vista:
- del contenuto, di tale responsabilità, che è sia economico che sociale;
- dei soggetti nei cui confronti si esplica e manifesta tale responsabilità, cfr. Petrolati
(1999).
14
Nel d.lgs. 155/2006 non vi è, però, un esplicito riferimento al bilancio d’esercizio. Il legislatore,
infatti, si limita ad obbligare le imprese sociali alla tenuta di un “[…] documento che rappresenti
adeguatamente la situazione patrimoniale ed economica delle imprese” (comma 1, art. 10).
15
In Italia le prime trattazioni sulla rendicontazione sociale risalgono a Superti Furga, 1977;
Salvemini, 1978; Cavalieri, 1981; Terzani, 1984. Gli studi sul tema si sono, poi, avviati in modo
sistematico con i lavori di Matacena, 1984 e Rusconi, 1988.
13
IL BILANCIO SOCIALE. RIFLESSIONI SULLO STATO DELL’ARTE ALLA LUCE DEL D.LGS. 155/2006
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vero, infa i, che il bilancio sociale, per certi aspe i, è collegato al bilancio d’esercizio, è anche vero che è tu ’altra cosa, in quanto “rende
conto” di elementi che la contabilità esclusivamente economica non
è in grado di affrontare; costituisce una risposta ai limiti del bilancio
d’esercizio, e cioè quello di non considerare tu i gli aspe i più immateriali, dalla fiducia al consenso, alla reputazione che pure determinano in vario modo l’asse o più tangibile e anche più materiale
dell’impresa stessa e del suo successo economico.
L’obbligatorietà della “rendicontazione sociale delle a ività economiche” è sancita nel comma 2, dell’art. 10, che recita:
“L’organizzazione che esercita l’impresa sociale deve, inoltre, redigere e depositare presso il registro delle imprese il bilancio sociale, secondo linee guida ado ate con decreto del Ministro del lavoro e delle
politiche sociali, sentita l’agenzia per le organizzazioni non lucrative
di utilità sociale, in modo da rappresentare l’osservanza delle finalità
sociali da parte dell’impresa sociale”.
Definire con esa ezza il conce o di bilancio sociale16 non è un’operazione facile, in quanto non esiste una sola definizione,17 ma anzi,
al contrario, ne esistono e ne convivono diverse. Ciò deriva dal fa o
che, all’a uale stato dell’arte, la le eratura nazionale ed internazionale non è stata ancora in grado di pervenire alla formulazione di
una definizione del bilancio sociale che sia di generale ed univoca
acce azione.18
In linea generale, possiamo assimilare il bilancio sociale ad un documento pensato per dare visibilità alle domande ed alla necessità
d’informazione e di trasparenza del proprio pubblico di riferimento.
Esso rappresenta uno strumento che può essere in grado di fornire
la certificazione di un profilo etico, l’elemento che legi ima il ruolo
di un sogge o non solo in termini stru urali, ma sopra u o morali,
agli occhi della colle ività di riferimento, un momento per enfatizzare il proprio legame con il territorio, un’occasione per affermare il
conce o di impresa come buon ci adino, cioè un sogge o che perseguendo il proprio interesse prevalente contribuisce a migliorare la
qualità della vita dei membri della società in cui è inserito.
Un primo tentativo di definizione del bilancio sociale è stato compiuto da una Commissione
dell’American Accounting Association, si veda a tal proposito Jensen (1976).
17
Sulla definizione di bilancio sociale si veda Viviani, 1999; Hinna, 2002; Vermiglio, 1984.
18
Vermiglio (2000), per evidenziare l’incertezza terminologica, ha opportunamente assimilato
questo filone di studi ad un “cantiere aperto”.
16
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Secondo Rusconi (1988) il pioniere in Italia degli studi sul tema della
rendicontazione sociale, per bilancio sociale possiamo intendere “un
modello di rendicontazione sulle quantità e sulle qualità di relazione
tra impresa e gli stakeholder rappresentativi dell’intera colle ività, che
mira a delineare un quadro omogeneo, puntuale, completo e trasparente della complessa interdipendenza tra i fa ori economici e quelli
socio-politici connaturati e conseguenti alle scelte d’impresa”.
Più generica è la definizione di Pulejo (1996) secondo la quale il bilancio sociale, documento tipico dell’agire socialmente responsabile,
non è altro che uno strumento che a esta l’a enzione e la sensibilità
dell’impresa sociale al contesto socio-economico, ambientale e culturale in cui essa opera, in grado di rendicontare le “ricadute sociali”
dell’a ività di impresa.
4. Bilancio sociale. Alcuni dubbi
L’identificazione di quello che viene considerato l’elemento innovativo nella disciplina dell’impresa sociale si concretizza a raverso
l’uso di due termini all’apparenza in contraddizione:19 “bilancio” che
richiama un conce o di quantità, mentre “sociale” che rimanda ad
un a eggiamento più a ento all’impa o che l’a ività dell’impresa
produce sugli interlocutori.
Innanzi tu o, occorre partire dall’etimologia del termine “bilancio”
che deriva, com’è noto, da bilanciare che significa appunto eguagliare, pareggiare. Tenuto conto di ciò è facile intuire come il ricorso a
tale termine, che di per sé evoca il bilancio tradizionale o d’esercizio,
per identificare lo strumento di rendicontazione sociale - ossia un
documento che per sua natura non ha un contenuto bilanciante e
quantitativo - sia, da più parti contestato (Pulejo, 1996), in virtù della
di coltà di esprimere, seppur in termini di costi/benefici, il risultato
sociale dell’impresa.
In proposito, Vermiglio (1984), nel criticare l’accostamento del bilancio sociale al bilancio d’esercizio, osserva come: “Sul piano tecnico
il bilancio sociale non ha né la forma né il contenuto del bilancio di
esercizio e, quand’anche esponesse valori tra i dalla contabilità, non
potrebbe presentarli in forma bilanciante, sicché gli mancherebbe
persino la cara eristica tipica di questo”.20
Nel paragrafo successivo si avrà modo di notare che le due terminologie, “bilancio” e “sociale”, non appartengono a due mondi separati.
20
Ciò spiega il motivo per il quale si contesta l’inclusione delle disposizioni normative riguardanti il bilancio sociale, in un articolo intitolato “Scritture contabili” (art. 10, d.lgs.
19
IL BILANCIO SOCIALE. RIFLESSIONI SULLO STATO DELL’ARTE ALLA LUCE DEL D.LGS. 155/2006
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In particolare, il principale limite operativo è proprio la di coltà,
se non l’impossibilità, di misurare, quantificare e riportare nel bilancio sociale i “costi sociali”, intesi come l’insieme dei costi che la
società sopporta in seguito alle conseguenze negative che derivano
dallo svolgimento dell’a ività produ iva e, sopra u o i “benefici
sociali”, vale a dire l’insieme delle utilità che scaturiscono dall’a ività di impresa, utilità che accrescono il benessere della colle ività
anche se non sempre espresse in termini monetari. Anche Terzani
(1995) rileva che “mentre i costi di un’azione sociale sono quasi
sempre identificabili, i benefici che ne conseguono non lo sono altre anto”.
Del tu o diversa la posizione di Hinna (2005), il quale non contesta
l’uso della locuzione bilancio quanto piu osto quella di “sociale”.
Egli propone, infa i, di sostituire l’espressione “bilancio sociale” con
la formula “bilancio di missione”, intendendo per tale il bilancio sociale delle organizzazioni nonprofit, ovvero lo strumento a raverso
il quale esse comprendono e comunicano come e quanto sono state
capaci di realizzare la propria mission.
Tale proposta è, però, respinta da una parte della le eratura economico-aziendale, secondo la quale tra il conce o di bilancio sociale e
le altre definizioni esiste una chiara linea di demarcazione, in quanto
“diversi conce i” stanno ad indicare “diversi strumenti”.
Segue di certo questo orientamento, Zamagni (2004) quando afferma - “Una prima forma di misurazione degli a ributi di cara ere
qualitativo è quella del bilancio sociale, tale documento ci dice solo
ciò che l’impresa ha realizzato, non ciò che essa avrebbe dovuto realizzare perché parte della sua missione. Una forma più avanzata è il
bilancio di missione, con il quale si me ono a confronto gli obie ivi
che l’impresa si era prefissata di raggiungere all’inizio del periodo di
riferimento con i risultati effe ivamente raggiunti. Una forma ancora più adeguata - ma finora da nessuno realizzata - è quella che cerca
di misurare il valore aggiunto sociale dell’impresa, cioè la creazione
da parte dell’impresa di esternalità positive che, non transitando per
il mercato, non sono ca urate dal sistema dei prezzi. È questo il traguardo cui mirare”.
Qualche decennio fa anche Terzani (1984) proponeva la seguente distinzione:
• “bilancio sociale”, documento che a raverso il confronto in termini quantitativi di quanto realizzato dall’impresa, nel rispe o
155/2006).
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delle esigenze sociali, fornisce informazioni sugli obie ivi che
sono stati raggiunti mediante i risultati di gestione;
• “rendiconto sociale”, documento che assume finalità informative più modeste rispe o al precedente, limitandosi ad enfatizzare
solo gli aspe i qualitativi degli interventi effe uati.
Se per alcuni studiosi è, dunque, chiara la distinzione tra “bilancio
sociale” e le altre espressioni, non può dirsi altre anto per le imprese che sembrano utilizzare le diverse terminologie in maniera indiscriminata.21 Il che significa, in fin dei conti, prendere concretamente
a o che nella prassi qualsiasi documento può essere definito bilancio sociale pur non possedendo i requisiti minimi.
A tale riguardo, i risultati di una recente ricerca (Secchi, 2006) confermano il ricorso, da parte delle imprese, alle differenti terminologie
testè menzionate, al fine di indicare il nuovo strumento di accountability. In particolare, una percentuale consistente (75%) delle imprese appartenenti al campione conferma la tendenza a denominare il
documento in questione “bilancio sociale”, all’opposto il ricorso da
parte delle stesse alla denominazione di “rapporto sociale” è solamente del 3%, infine so o la voce “altro” rientrano, con il 22%, le più
svariate terminologie (fig. 2).
Precisato, dunque, che il “bilancio sociale” è cosa diversa dal “rendiconto sociale”, dal “bilancio di missione”, e ancora da quello “socioeconomico”, è opportuno procedere con un maggior grado di de aglio nell’identificazione dello strumento ogge o dell’analisi, formulando le ulteriori classificazioni proposte da Matacena (1984).
Rispe o all’ogge o della rendicontazione, secondo l’autore è possibile segnalare:
• il bilancio sociale interno,22 se il campo di riferimento è limitato
alla “stru ura impresa”;
• il bilancio sociale esterno (o societale), se si prendono in considerazione i riflessi dell’a ività di impresa sull’ambiente esterno,
ossia nei confronti dei membri della più o meno vasta colle ività
locale, nazionale e finanche transnazionale. In quest’accezione il
Questo fenomeno si riscontra anche sul piano internazionale; nella dottrina angloamericana,
ad esempio, l’espressione più comunemente utilizzata corporate social reporting è spesso
sostituita da social audit, corporate social disclosure, social accounting, social statements.
La confusione aumenta quando il termine inglese social reporting è utilizzato come sinonimo
di bilancio sociale, vedi ad esempio Marano (2006).
22
In Francia le bilan social, disciplinato dalla l. n. 77/790 del 12 luglio 1977, è l’esempio tipico
di bilancio sociale interno, proprio perché fornisce informazioni solo in ordine alle condizioni
di lavoro dei dipendenti.
21
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bilancio sociale rendiconta sull’impa o dell’operato dell’impresa nei confronti dei diversi interlocutori.
FIGURA 2 - STRUMENTI DI RENDICONTAZIONE SOCIALE
Fonte: Secchi, 2006.
Rispe o, invece, al contenuto informativo abbiamo:
• il bilancio sociale completo (o bilancio socio-ambientale), se le
informazioni fornite si riferiscono a tu i gli effe i, positivi e negativi, connessi all’a ività di impresa, che si rifle ono sulla società intera;
• il bilancio sociale parziale, se si tiene conto solo di alcuni effe i.
Bilancio sociale. Un’interpretazione alternativa
Proseguendo nell’analisi della discussione relativa all’utilizzo della locuzione di “bilancio sociale” e, in particolare del termine “bilancio” per indicare lo strumento di rendicontazione dei riflessi sociali dell’attività di impresa - ci si è chiesti: è possibile che tale termine sia inteso
nel senso di “bilanciamento”? Vale a dire di equilibrio e contemperamento dei molteplici valori ed interessi in campo: l’impresa, da una
parte, e le legi ime aspe ative dei portatori di interesse, dall’altra.
Il quesito chiama in causa l’approccio multi-stakeholder, in virtù del
quale le imprese devono esaminare differenti punti di vista dei diversi portatori di interesse, coinvolgere e tenere in debita considerazione le istanze che vengono loro so oposte dalla comunità, dai con-
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sumatori, dai fornitori, dai dipendenti e persino dalle generazioni
future, insomma, da tu i gli interlocutori (Pucci, Vergani, 2002). Per
dirla con le parole dell’economista e filosofo indiano, Amartya Sen,
l’impresa sociale “[…] dovrebbe essere capace di ascoltare i propri
stakeholder e di orientare i processi decisionali in ragione delle loro
aspe ative legi ime in un progressivo processo di coinvolgimento
partecipativo e responsabile, cercando di coniugare armonicamente
gli interessi delle singole parti”.23
L’approccio multi-stakeholder me e in discussione l’idea olistica
dell’impresa, del suo essere una da qualsiasi parte la si guardi, la sua
compa ezza a orno ad un unico nucleo di interessi/comportamenti
perfe amente omogeneo e coerente. In altri termini, si tra a di un
nuovo modo di concepire l’impresa, che viene considerata come un
centro sul quale convergono gli interessi riconducibili a vari gruppi
di sogge i, rispe o ai quali deve riuscire a garantire un’adeguata
soddisfazione se intende mantenere vivo il rapporto instaurato con
essi.
Ciò premesso, è facile intuire come sia di fondamentale importanza
- al fine di rispondere al quesito poc’anzi posto - individuare gli interlocutori dell’impresa sociale, noti come “portatori di interesse”24
o, meglio stakeholder. Con tale termine s’intendono nello specifico
“tu i coloro che hanno un interesse rilevante in gioco nella conduzione dell’impresa sia a causa degli investimenti specifici che intraprendono per effe uare transazioni con l’impresa o nell’impresa,
sia a causa dei possibili effe i esterni positivi o negativi delle transazioni effe uate dall’impresa, che ricadono su di loro” (Sacconi,
2005).
È ormai un dato acquisito che la definizione classica di stakeholder,
è quella fornita da Freeman (1984), secondo il quale “gli stakeholder
primari, ovvero gli stakeholder in senso stre o, sono tu i gli individui e i gruppi ben identificabili da cui l’impresa dipende per la sua
sopravvivenza. In senso più ampio, tu avia, stakeholder è ogni individuo ben identificabile che può influenzare o essere influenzato
dall’a ività dell’organizzazione in termini di prodo i, politiche e
processi lavorativi”. Per dirlo in altro modo gli “stakeholder primari”,
sono coloro che hanno una formale relazione contra uale con l’impresa (ad esempio, i fornitori, i lavoratori e i clienti); gli “stakeholder
secondari”, sono invece tu i gli altri sogge i e/o gruppi influenzati
Sen (2003), intervista apparsa su Il Sole 24 Ore on line citato da Massarenti A.
Il concetto di interesse deve essere inteso in senso ampio, ossia non nel senso esclusivamente economico.
23
24
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in modo indire o dall’a ività d’impresa (ad esempio, le comunità
locali, i mass media, le università, ecc.).
Come si può notare (fig. 3), sono molti i sogge i coinvolti, dire amente ed indire amente, nell’a ività di impresa, ciò rende la loro
identificazione, ma sopra u o la loro integrazione a dir poco problematica. Numerosi, infa i, i quesiti cui ci si imba e, tra i quali: sono
da considerare stakeholder a cui rispondere solo quegli interlocutori
che sono in qualche modo interessati alla sopravvivenza dell’impresa od anche coloro che sono ad essa ostili? E ancora, si deve tener
conto solo degli interlocutori che possono costituire una minaccia (o
un’opportunità) rilevante per l’impresa o si deve prestare interesse a
tu i gli interlocutori, inclusi coloro che non hanno nessuna voce (si
pensi alle generazioni future)? (Rusconi, 2000). Il problema è dunque: verso chi essere “responsabili”?
I dubbi e i problemi da risolvere, oltre all’identificazione degli stakeholder, sono davvero tanti: amme endo, infa i, di riuscire a identificarli con precisione, che vuol dire coinvolgere gli stakeholder?25
Con quali strumenti se ne deve stimolare la partecipazione alla vita
dell’impresa? Gli eventuali pareri richiesti agli stakeholder come entrano nel processo di decisione di impresa e qual è il loro effe ivo
peso sulle strategie di impresa?
È, dunque, irrealistico pensare che un’impresa possa relazionarsi
con tu i i destinatari, del suo agire complessivo, a qualsiasi titolo e
nello stesso modo. Ecco allora che diviene inevitabile per le imprese
“selezionare” i sogge i26 della partecipazione, della consultazione
e dell’informazione - in sintesi del coinvolgimento - allo scopo di
individuare la “categoria” o, nella migliore ipotesi, le “categorie”
con cui instaurare delle relazioni particolareggiate. È, infa i, in
quest’o ica che le imprese - consapevoli del diverso peso politico
dei vari stakeholder e più specificatamente dell’esistenza di “poteri
forti” e di “poteri deboli”- realizzano la ormai nota “mappatura degli stakeholder”.27
Per una risposta si rinvia al par. 5. Sul tema del coinvolgimento degli stakeholder, cfr. Viviani
(2006); Tortia (2005).
26
Il rischio che si palesa è la possibilità di violare sia il principio di neutralità (indipendenza
da interessi di particolari soggetti) che quello di inclusione (non esclusione di stakeholder
interessati). Sui principi di redazione del bilancio sociale, cfr. GBS (2001).
27
Per un approfondimento si consulti la rivista Fuori Orario (giugno 2001).
25
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IMPRESA SOCIALE
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FIGURA 3 - LA VISIONE DELL’IMPRESA NELLA STAKEHOLDER THEORY
Stakeholder
secondari
Associazioni
speciali
Associazioni
consumatori
Associazioni
locali
Azionisti
Stakeholder
primari
Fornitori
Clienti/utenti
IMPRESA
Dipendenti
Gruppi
ambientalisti
Mass media
Gruppi sociali
Sindacati
Fonte: Sicca, 1198.
Tale orientamento è fa o proprio anche dal d.lgs. 155/2006. A tale
riguardo, è necessario porre l’accento sull’art. 12, comma 1, in cui
s’impone all’impresa sociale il coinvolgimento nell’a ività di impresa dei “lavoratori” e delle altre categorie di interlocutori, o per
usare l’espressione del legislatore “dei destinatari delle a ività”.
Seppur in questa disposizione normativa la figura del lavoratore
sia enfatizzata rispe o a quella degli altri stakeholder, l’intenzione del legislatore di qualificare la categoria dei “lavoratori” come
“interlocutori privilegiati” dell’impresa sociale è particolarmente
evidente nell’art. 14, comma 3, in cui - nel precisare l’ogge o del
bilancio sociale - vi è un rinvio agli esiti del coinvolgimento non
di tu i gli interlocutori, quanto piu osto dei “soli lavoratori”.28
Nell’o ica del decreto legislativo il bilancio sociale consente, o
meglio dovrebbe consentire, all’impresa sociale di realizzare - in
28
Sulla partecipazione dei lavoratori nell’impresa sociale cfr. Bolego (2005).
IL BILANCIO SOCIALE. RIFLESSIONI SULLO STATO DELL’ARTE ALLA LUCE DEL D.LGS. 155/2006
Melania Verde
modo preferenziale - l’incontro, il dialogo e la concertazione con i
suoi lavoratori.
A questo punto, è chiara a tu i l’a enzione e la sensibilità del legislatore per le risorse umane, in quanto sembra abbia preso a o che
“al fondo della vita sociale non vi sono solo individui che producono beni e servizi all’interno di imprese, ma anche (e sopra u o) le
relazioni tra individui” (Zamagni, 2005). Altrimenti, perchè stabilire
un’evidente linea di demarcazione tra i destinatari delle a ività e i
lavoratori? Quest’ultimi non sono anch’essi i destinatari dell’a ività di impresa? Perché “render conto”, a raverso il bilancio sociale,
unicamente del coinvolgimento dei lavoratori e non anche degli altri
interlocutori? Si tra a di interlocutori di serie B?
Stando così le cose, non resta altro che soffermarsi sul “significato
del lavoro” all’interno dell’impresa sociale, elemento da cui dipende l’a ribuzione ai “lavoratori” - quali indubbi portatori di interessi
legi imi e di aspe ative nei confronti dell’impresa - dello status di
“stakeholder di rilevanza strategica”.
Per la nuova tipologia di impresa i lavoratori non possono essere trattati alla stregua di ogni altro fa ore produ ivo inanimato, in quanto
sono qualcosa di più: una vera “risorsa”. Nel senso che effe ivamente
il lavoro rappresenta un “valore ed una ricchezza”. Ecco quindi che
diventa di vitale importanza superare la visione tradizionale “impresocentrica”, secondo la quale la colle ività è centrata e ruotante a orno
all’impresa, quale unico sogge o degno di interesse e di a enzione, in
cui i lavoratori altro non sono che mere controparti contra uali di un
rapporto di lavoro subordinato, a tempo determinato o indeterminato,
di tipo full-time o part-time che sia, in favore di una che, al contrario, si
fonda sul riconoscimento della “condivisione” di valori, di obie ivi e
di interessi fra l’impresa e la colle ività, in generale, ed i lavoratori, in
particolare, quali primi membri della comunità stessa (Petrolati, 1999).
Nell’impresa sociale il lavoro ricopre nei confronti della persona che
lo presta, il ruolo di un’occasione, o meglio di un vero strumento, di
progresso personale so o il duplice profilo economico e sociale.
Proseguendo nell’individuazione delle motivazioni che consentono
di qualificare il “coinvolgimento a ivo dei lavoratori” come l’essenza dell’impresa sociale, abbiamo:
• il grado elevato di relazionalità unito alla bassa standardizzazione e alla multidimensionalità dei servizi offerti richiede un’elevata specificità delle prestazioni di lavoro al fine di favorire l’instaurarsi di rapporti fiduciari;
157
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•
la necessità di motivare adeguatamente i prestatori d’opera
nell’erogazione dei servizi che si cara erizzano, nella maggior
parte dei casi, come già de o, per un’importante componente
relazionale.
La convinzione del legislatore circa il ruolo strategico dei lavoratori all’interno dell’impresa sociale trova conferma anche nella prassi
a uale. L’indagine (2006) svolta su un campione di 62 bilanci sociali
italiani, a cui in precedenza si è fa o già riferimento, rileva, tra gli
interlocutori privilegiati del terzo se ore (in cui, com’è noto, rientra
a pieno titolo anche l’impresa sociale): i dipendenti (in 14 su 62, circa
il 23%), i soci (in 15 bilanci su 62), i clienti (in 10 su 62) e la comunità
locale29 (in 16 su 62).
Se è vero, inoltre, che ciascuna classe di stakeholder è costituita da un
coacervo di singoli sogge i, individui o enti, e che non è “a tenuta
stagna”, nel senso che l’appartenenza di un singolo ad una di esse
non esclude a priori la sua contemporanea appartenenza alle altre
classi, allora è anche vero che i dipendenti sono al contemplo clienti
e membri della comunità locale. Ecco allora che, la percentuale dei
bilanci sociali in cui lo stakeholder strategico di riferimento è “il lavoratore” sale fino al 65%.
A questo punto, dovrebbe essere chiaro che l’orientamento del legislatore, così come quello delle imprese sociali, pur non essendo in toto
multi-stakeholder, in quanto l’apertura ai portatori di interesse è, alla
luce delle considerazioni svolte, di tipo “sele ivo”, si riferisce cioè a
due sole tipologie di stakeholder ben definite (lavoratori e beneficiari
delle a ività), pone le basi per la realizzazione del tanto auspicato
bilanciamento delle diverse aspe ative dei sogge i che concorrono
al raggiungimento della mission d’impresa. Ecco, dunque, realizzarsi
con il d.lgs. 155/2006 il passaggio dalla “centralità dell’impresa” alla
“centralità della persona”, in quanto le decisioni che devono essere
ado ate nell’ambito dell’impresa non sono più di esclusiva competenza di quest’ultima, ma all’opposto un ruolo decisivo spe a alle
decisioni, alle esigenze, alle aspe ative e agli obie ivi di coloro che
hanno, come già ribadito, un interesse rilevante in gioco nella conduzione dell’impresa.
Nell’indagine citata per “comunità locale” si è inteso “la collettività di soggetti umani più
vicina, geograficamente e culturalmente, all’organizzazione, la quale ne influenza il comportamento e n’è a sua volta influenzata”.
29
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5. Gli scopi e gli ambiti30 della social accountability
Giunti a questo punto della tra azione il passo successivo che occorre fare è quello di individuare, da una parte, gli scopi che un’impresa sociale persegue a raverso la redazione del bilancio sociale31 e,
dall’altra, l’ambito della rendicontazione. Nello specifico, ci si chiede: Quali sono le funzioni - in seno al decreto legislativo - del bilancio sociale? Il bilancio sociale per il rendiconto di cosa?
Per quanto riguarda il primo quesito, il de ato normativo, pur non
precisando esplicitamente le finalità dello strumento,32 lascia intendere i diversi scopi ai quali esso dovrà dare risposta, in particolare:
• lo scopo di “comunicazione”. Il già citato art. 10, comma 2, impone all’impresa sociale di “[…] redigere e depositare presso il
registro delle imprese il bilancio sociale […]”. Si tra a, com’è
noto, di una tipica forma di pubblicità che palesa la natura di
strumento di informazione del bilancio sociale; se quest’ultimo,
infa i, non fosse stato inteso dal legislatore quale strumento di
comunicazione, ne sarebbe stato più semplicemente imposto
l’inoltro alle sole pubbliche autorità competenti. Il bilancio sociale è inteso, dunque, come uno strumento in grado di migliorare l’e cacia della comunicazione33 dell’impresa non solo verso
i gruppi sociali legi imamente detentori degli interessi che essa
ritiene “degni di a enzione in via prioritaria”, ma verso chiunque sia interessato ai risultati dell’impa o di contenuto sociale
del suo operato (comunicazione monodirezionale);
La rendicontazione sociale è indubbio che debba riguardare l’operare complessivo dell’impresa e non solo singole operazioni. Si pensi, ad esempio, ad una donazione per fini di pubblica utilità, per quanto consistente ed importante dice poco sull’impatto sociale di un’impresa
se questa non rendiconta in modo sufficientemente completo su come si comporta nelle sue
ordinarie operazioni.
31
Secondo Rusconi (1988), gli scopi per i quali il bilancio sociale può essere realizzato sono
i seguenti:
- favorire le pubbliche relazioni;
- formulare strategie sociali verso gli stakeholder;
- valutare la ricchezza prodotta e distribuita;
- migliorare le relazioni industriali;
- effettuare una valutazione globale dell’impresa;
- valutare complessivamente il contributo quantitativo dell’impresa.
32
Per un approfondimento sulle funzioni del bilancio sociale cfr. Bianchi, Mauri, Sammarco,
2001.
33
Per il bilancio sociale come strumento di comunicazione, cfr. Velo, 2003; Caselli, 1998;
Cattaneo, 2003.
30
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•
•
34
lo scopo di “gestione”. La funzione di comunicazione (o informativa), a cui si è fa o accenno poc’anzi, pur essendo la più importante non è fine a se stessa, ma è strumentale al raggiungimento
di altri scopi. Il bilancio sociale non può, infa i, limitarsi a rappresentare e a comunicare in modo freddo e distaccato le conseguenze dell’agire di impresa apprezzabili sul piano sociale, deve
certamente andare oltre e diventare un vero e proprio mezzo di
conduzione e regolazione del rapporto instaurato con i diversi interlocutori. L’impresa sociale deve informare, consultare e favorire la partecipazione dei lavoratori e dei destinatari delle a ività in
modo da consentire a questi ultimi di poter esercitare un’influenza sulle decisioni che devono essere ado ate nell’ambito dell’impresa, almeno in relazione alle questioni che incidono dire amente sulle condizioni di lavoro e sulla qualità dei beni e dei servizi
prodo i o scambiati (comma 2, art. 12). Con il “coinvolgimento
degli stakeholder” o, meglio con la funzione di gestione - le imprese
sociali devono, dunque, non solo costruire, ma anche mantenere
e sviluppare un sistema relazionale allargato rispe o al proprio
contesto di riferimento - in questo modo si apre la strada alla comunicazione reciproca (Petrolati, 1999) non più monodirezionale,
cioè dall’impresa verso l’esterno, bensì bidirezionale, dall’impresa
verso l’esterno e, viceversa, dall’esterno verso l’impresa;
lo scopo di “verifica”. “[…] il legislatore vede nel bilancio sociale innanzi tu o uno strumento di controllo dei vincoli posti
all’impresa sociale, piu osto che uno strumento di rendicontazione” (Andreaus, 2006). In altri termini, secondo questa visione
il bilancio sociale non è altro che un mero strumento di verifica
della sussistenza dei requisiti che connotano l’impresa sociale.
A ben vedere, infa i, la le ura di alcune disposizioni del d.lgs.
155/2006, relative all’ogge o di analisi del documento in questione, ci consente implicitamente di risalire alla summenzionata “funzione di controllo”. Nel decreto legislativo viene, infa i,
fa o obbligo alle imprese sociali di riportare nel documento di
cui si parla: “i risultati del monitoraggio dell’osservanza delle finalità sociali dell’impresa, esercitato dai sindaci” (art. 11, comma
2), così come “la menzione degli esiti del coinvolgimento dei lavoratori dell’impresa sociale all’interno del bilancio sociale” (art.
14, comma 3). Il bilancio sociale diventa un documento sempre
più stru urato che perme e di definire l’identità dell’impresa e
la coerenza tra la mission34 programmata e la gestione a uata.
Nel corso degli ultimi decenni si è assistito ad una lenta, ma graduale evoluzione del concet-
IL BILANCIO SOCIALE. RIFLESSIONI SULLO STATO DELL’ARTE ALLA LUCE DEL D.LGS. 155/2006
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Per quanto riguarda, invece, il secondo quesito (b), nel d.lgs. 155/2006
non vi sono esaustive indicazioni circa l’ogge o della rendicontazione
sociale, in quanto sul punto vi è un esplicito rinvio al decreto ministeriale, ciò premesso il legislatore dispone che in esso si rappresenti:
• “l’osservanza delle finalità sociali” (art. 10, comma 1). Più in dettaglio, dovranno rientrare nell’ogge o della rendicontazione i risultati del monitoraggio dell’osservanza delle finalità sociali35 da
parte dell’impresa sociale (art. 11, comma 2). Il rispe o dell’ambiente, il soddisfacimento degli stakeholder, il miglioramento della qualità dei beni e dei servizi, l’accrescimento della capacità di
leggere i bisogni della società, sono tu e finalità sociali riconducibili alla finalità istituzionale: realizzare l’interesse colle ivo.
A questo punto è lecito chiedersi: Può l’impresa sociale nei fa i
rispe are l’imposizione legislativa? E ancora. Può la legge verificare il rispe o di tale obbligo?;
• “il coinvolgimento dei lavoratori”(art. 14, comma 3). È bene però
porre l’accento sul fa o che ogge o dell’accountability non dovranno essere le modalità36 del coinvolgimento, bensì gli esiti di
quest’ultimo.
Una recente ricerca, condo a da Unioncamere nel 2006,37 ha però
evidenziato come siano le misure ado ate nei confronti del personale (in cui rientra una tipica forma di coinvolgimento: gli incontri
periodici per presentare obie ivi e risultati) piu osto che esiti del
coinvolgimento, a trovare spazio nei bilanci sociali delle imprese appartenenti al campione ogge o dell’indagine.
La flessibilità dell’orario di lavoro (42,3%) insieme al coinvolgimento
nella gestione del personale (41,1%) risultano, infa i, le misure più
ado ate da parte delle imprese; seguono poi l’a ività di consulenza
fiscale e l’organizzazione/finanziamento di corsi di formazione per
almeno il 20% del personale aziendale, rispe ivamente con il 30% e
il 23,1%. Si a estano, invece, su valori notevolmente inferiori altre
best practice come: i prestiti a tasso zero (3,4%), la disponibilità di
to di mission, per ulteriori spunti interessanti sul tema si rinvia a Shcherbinina (2004).
35
“I compiti di monitoraggio dell’osservanza delle finalità sociali” spettano ai sindaci (art. 11, comma 2).
36
Il coinvolgimento può manifestarsi in modi diversi (incontri divulgativi, richiesta di pareri e
commenti, partecipazione a workshop, ecc.) a seconda della forma giuridica che caratterizza
la singola impresa sociale.
37
L’indagine condotta da Unioncamere, tra i diversi aspetti, prende in esame alcune delle più
importanti misure di responsabilità sociale adottate dalle imprese (appartenenti ai seguenti macro-settori: agro-alimentare, manifatturiero, costruzioni, commercio, trasporti, credito,
servizi alle imprese, servizi alle persone) nella gestione delle risorse umane.
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alloggi per i dipendenti (2,1%); infine, la percentuale degli asili nido
interni all’impresa e l’assunzione dei disabili (oltre gli obblighi di
legge) non sfiora neppure l’1%, (fig. 4).
FIGURA 4 - MISURE NEI CONFRONTI DEL PERSONALE38 (VALORI %)
23,1
Formazione di oltre il 20% del personale
41,2
Incontri periodici per presentare obiettivi e risultati
Prestiti a tasso zero
3,4
42,3
Orario flessibile
11,5
Progetti per ridurre rischi salute e sicurezza dei lavoratori
2,1
Disponibilità di alloggi per i dipendenti pagati dall'azienda
3,0
Consulenza fiscale
Asili interni all'azienda per i dipendenti 0,2
Assunzione disabili
0
0,8
10
20
30
40
50
Fonte: Unioncamere (2006), mie elaborazioni.
Deve, inoltre, osservarsi che il legislatore non chiede che sia riportata, nel documento in questione, “un’analisi della forza lavoro”, vale
a dire una fotografia delle cara eristiche di quest’ultima. In altri termini, non s’impone - contrariamente alla prassi a uale - una ripartizione delle risorse umane in funzione:
• dell’età, anagrafica e di servizio;
• del sesso;
• dell’origine etnica e/o religiosa;
• del livello di scolarizzazione raggiunto dai lavoratori;
• della forma contra uale che lega i singoli lavoratori all’impresa;
• della distribuzione delle retribuzioni per categoria.
È importante distinguere le politiche nel campo dell’impiego (assunzioni, addestramento e
formazione, condizioni di igiene e sicurezza del lavoro, ecc.), dalle risorse destinate ad attività
a favore dei dipendenti e del loro nucleo familiare (mensa aziendale, attività ricreative, alloggi
ed altre misure non previste da obblighi contrattuali).
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IL BILANCIO SOCIALE. RIFLESSIONI SULLO STATO DELL’ARTE ALLA LUCE DEL D.LGS. 155/2006
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Non è neppure compito dell’impresa sociale offrire notizie circa le
misure ado ate (oltre gli obblighi di legge) per garantire la protezione dei singoli lavoratori dal verificarsi di infortuni sul lavoro e
dall’insorgenza di mala ie professionali. Per tale motivo non occorre riportare nel periodo di riferimento:
• il numero di incidenti/infortuni sul lavoro occorsi;
• numero delle mala ie professionali insorte;
• condizioni di lavoro che influiscono, dire amente o indire amente, sulla sicurezza e sull’igiene degli ambienti di lavoro.
Stando al de ato legislativo le imprese sociali dovranno, dunque,
cercare di individuare e di riportare nel bilancio sociale i “risultati”
collegati alle diverse a ività di partecipazione, di informazione e di
consultazione, degli aspe i cioè meno facilmente quantificabili, ma
non per questo da trascurare. Potrebbero rientrare, a titolo di esempio, tra gli esiti del coinvolgimento:
• il livello di soddisfazione;
• la crescita professionale;
• le condizioni di vita dei dipendenti e dei loro familiari nella misura in cui dipendono dall’impresa;
• il tasso di rotazione (turnover) dei lavoratori;
• il numero dei lavoratori interessati, nel corso del periodo di riferimento, da dimissioni;
• il livello di fiducia e di consenso;
• la reputazione dell’impresa.
6. Brevi considerazioni conclusive
L’obie ivo di queste considerazioni conclusive non è certamente
quello di indicare “la soluzione migliore” alle diverse questioni a cui
si è fa o cenno nel corso di questo scri o, bensì so olineare come in
a esa che il decreto ministeriale disciplini dagli aspe i di de aglio,
ai cara eri e alle finalità generali del bilancio sociale, resti aperto il
diba ito tra i fautori di una rendicontazione rigida e standardizzata
ed i fautori di una rendicontazione flessibile e poco vincolante.
Semplificando (opportunamente) la le eratura in materia possiamo
dire che vi sono due contrapposte visioni tra le quali occorrerà scegliere.
Da una parte, vi sono i fautori dell’approccio di tipo volontario e
discrezionale i quali temono che l’obbligatorietà del bilancio sociale
possa originare nelle imprese l’insorgenza di un sentimento di in-
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sofferenza nei confronti dello stesso. In altre parole, essi ritengono
che sia alto il rischio che la stesura del documento di cui si discute
sia concepita dalle imprese sociali come un onere amministrativo
cui adempiere, o meglio come un “vincolo imposto dall’esterno”,
piu osto che come “un’opportunità per la propria crescita ed il proprio miglioramento” (Petrolati, 1999). L’idea è che l’imposizione di
linee guida ex novo, a supporto delle imprese sociali nella stesura del
bilancio sociale, possa costituire un intralcio, un forte motivo di impedimento alla libera sperimentazione, al progressivo innalzamento
dello standard minimo generale, questo perché fra le imprese sociali,
in assenza di tale imposizione, si me erebbe in moto una sorta di
“competizione costru iva”.
In molti, inoltre, si chiedono: è giusto investire per comunicare il
proprio impegno sociale ed etico? Non costituisce in sé un a o poco
“etico”? Quale dovrebbe essere l’entità di tale investimento? Quale
impresa va premiata quella che fa poco dal punto di vista sociale, ma
investe molto per comunicarlo o all’opposto quella che fa molto nel
sociale, ma investe poco per farlo sapere?
Dall’altra parte, invece, in antitesi con questa parte della le eratura,
vi sono coloro i quali considerano la regolamentazione legislativa del
documento in questione “[…] secondo linee guida ado ate con decreto del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, sentita l’Agenzia per le organizzazioni non lucrative di utilità sociale” (comma 2,
art. 10) un’occasione per promuovere un profondo processo di standardizzazione delle cara eristiche di contenuto e di forma del bilancio sociale. Ciò consentirà, da un lato, di giungere alla creazione del
tanto auspicato comune denominatore di riferimento per le diverse
esperienze volontarie e, dall’altro, di facilitare il percorso valutativo
ed interpretativo esterno da parte dei destinatari del documento.
A questo punto, all’indomani dell’obbligatorietà del bilancio sociale,
resta aperto il quesito: è giusto che la redazione e la divulgazione del
bilancio sociale siano de agliatamente regolamentate dal decreto o
dovrebbero essere demandate alla discrezionalità delle imprese sociali per lo meno le modalità con cui redigere il documento?
IL BILANCIO SOCIALE. RIFLESSIONI SULLO STATO DELL’ARTE ALLA LUCE DEL D.LGS. 155/2006
Melania Verde
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aprile ~ giugno 2008
Aspetti controversi della regolazione e della
valutazione della qualità: implicazioni per il
disegno e l’accountability dell’impresa sociale
Mita Marra
Sommario
1. Premessa - 2. Efficacia dei meccanismi regolativi ex ante e credibilità delle forme valutative ex post - 3. Un mercato delle valutazioni per decentrare le decisioni e i flussi informativi
- 4. Le implicazioni in termini di accountability
1. Premessa
Per assicurare una migliore qualità delle prestazioni, nella duplice natura di finanziatore del sistema delle prestazioni sociali ed assistenziali e di rappresentante dei ci adini fruitori, l’amministrazione pubblica
(regionale e locale) ha stabilito dei requisiti di organizzazione interna
delle stru ure, di impegno e responsabilità della direzione. Particolare importanza assumono i meccanismi e gli strumenti di generazione
e trasmissione delle informazioni per il monitoraggio e la valutazione della qualità delle prestazioni socio-sanitarie. Essi definiscono un
complesso sistema di governance che regola la qualità dei servizi di
singole organizzazioni o di sistemi locali di organizzazioni.
La regolazione della qualità è un problema di politica economica che
presenta molteplici dimensioni. Si tra a di: (i) programmare, da parte delle istituzioni (regioni, comuni), il volume di prestazioni sociosanitarie da offrire sulla base del monitoraggio e della valutazione
ASPETTI CONTROVERSI DELLA REGOLAZIONE E DELLA VALUTAZIONE DELLA QUALITÀ
Mita Marra
dell’esperienza pregressa; (ii) selezionare gli erogatori pubblici e privati a garanzia della qualità dei servizi e (iii) disegnare ed a uare un
sistema di misurazione (informativo/valutativo) degli esiti o enuti, al
fine di rendere operativa la responsabilità per l’azione pubblica (Donahue, Nye, 2002) e colmare, così, le enormi asimmetrie informative
esistenti nell’erogazione delle prestazioni (Ranci Ortigosa, 2000).
Questo articolo propone una riflessione critica sulle a uali forme della
regolazione e della misurazione della qualità dei servizi socio-sanitari
forniti da organizzazioni pubbliche e private (for-profit e nonprofit).
In particolare, analizziamo in che modo i meccanismi regolativi come, ad esempio, l’accreditamento e la certificazione - e gli strumenti
valutativi - come, ad esempio, il controllo di gestione strategico e la rilevazione della qualità percepita - contribuiscono a migliorare la qualità delle prestazioni e ad esercitare concretamente il principio della
responsabilità dell’azione pubblica. In particolare, tre sono gli aspe i
più controversi su cui concentreremo l’analisi: (a) la natura e l’a dabilità dell’informazione valutativa per l’allocazione delle risorse; (b) il
grado di decentramento delle decisioni allocative e delle informazioni
in un contesto organizzativo/istituzionale e (c) la responsabilità nei
confronti del ci adino-utente.1 Me ere a fuoco questi aspe i può contribuire a migliorare il disegno istituzionale, le funzioni organizzative ed il rendimento delle imprese sociali. L’obie ivo di questo lavoro
consiste, infa i, nel mostrare che organizzazioni decentrate e policentriche non assicurano rendimenti più e cienti rispe o a configurazioni più accentrate e gerarchiche nella misura in cui i flussi informativi
permangono accentrati e l’informazione valutativa rimane di natura
auto-referenziale, poco credibile e manipolabile. La verifica continua
della qualità richiede, piu osto, la generazione decentrata di informazioni valutative e la diffusione del sapere organizzativo in tu i i centri
decisionali dell’organizzazione (Nonaka, 1994; Allen, 2004; Hall, 2004)
in un sistema di incentivi e sanzioni utili a democratizzare le decisioni
e a porre a enzione sui risultati dell’azione pubblica nei confronti dei
ci adini (Bruni, Zamagni, 2004).
Il primo paragrafo esamina le modalità concrete di creazione dell’informazione valutativa che sono a ualmente operanti in Italia a garanzia della qualità dei servizi e delle prestazioni socio-sanitari. L’analisi
Per un’esaustiva disamina del concetto di rendicontabilità nella pubblica amministrazione,
si veda Marra (2006), Pezzani (2003), Behn (2001) che considera più in generale l’accountability nell’ambito delle riforme del New Public Management, Bemelmans-Videc, Londsdale,
Perrin (2007) che propongono, tra l’altro, studi di caso sulle relazioni tra valutazione, audit e
accountability in vari sistemi istituzionali operanti nelle democrazie occidentali.
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considera la natura dell’informazione utile per la regolazione della
qualità dei servizi, che, però, sconta percezioni contrastanti circa l’a dabilità e l’utilità nei processi decisionali organizzativi (Weiss, 1980a,
1980b). La ricostruzione tassonomica delle varie forme di valutazione
utilizzate nei processi decisionali in Italia, è seguita da un’analisi economica del problema della generazione dell’informazione valutativa
e del suo effe ivo utilizzo nei processi decisionali. L’idea è che un sistema di mercato “secondario” (Weimer, Vining, 1999) possa selezionare le migliori valutazioni ed i migliori utilizzatori disposti a pagare
per poter fruire di informazioni valutative a endibili. Il secondo paragrafo, inoltre, esamina criticamente il disegno istituzionale delle organizzazioni rispe o al grado di decentramento delle decisioni e dei
flussi informativi. L’analisi si dipana nell’ambito della teoria economica evoluzionistica delle organizzazioni ed evidenzia la complessità
del processo decisionale organizzativo in condizioni di informazione
imperfe a (Goodman, 2001; Gibbons, 2003; Metcalfe, Foster, 2004; Allen, 2004). L’a enzione è centrata sulla relazione tra stru ura organizzativa formale e canali a raverso i quali l’informazione valutativa viene generata e diffusa per l’allocazione delle risorse e l’esercizio della
responsabilità pubblica.2 Il terzo paragrafo conclude, evidenziando le
implicazioni per l’esercizio della rendicontabilità e le lezioni apprese
per il disegno delle imprese sociali.
2. Efficacia dei meccanismi regolativi ex ante e credibilità
delle forme valutative ex post
L’offerta dei servizi socio-sanitari, in Italia, è complessa: le amministrazioni regionali e le aziende sanitarie ed ospedaliere formulano le
politiche socio-assistenziali ed autorizzano i programmi di spesa. Il
loro coinvolgimento nell’a uazione varia, però, considerevolmente.
Alcuni servizi sono erogati dai comuni (come quelli di assistenza
domiciliare), mentre altri sono erogati dalle Asl e dal terzo se ore.
A ori pubblici e privati concorrono tra di loro per fornire servizi
ai ci adini-utenti, i quali hanno bisogno di informazioni valutative
al fine di scegliere tra i vari erogatori che offrono assistenza sociosanitaria. L’offerta valutativa disponibile è, tu avia, differenziata.3
Per un’analisi più approfondita delle relazioni tra disegno istituzionale, processi e metodi di
valutazione, esercizio della rendicontabilità vedi Marra (2003, 2004, 2006, 2007); Newcomer
(2004); Rist, Stame (2006); Bemelmans-Videc, Lonsdale e Perrin (2007).
3
Faremo riferimento a ricerche empiriche precedentemente condotte sul tema, vedi Marra,
2006; Ranci Ortigosa, 2000.
2
ASPETTI CONTROVERSI DELLA REGOLAZIONE E DELLA VALUTAZIONE DELLA QUALITÀ
Mita Marra
La tabella 1 offre una classificazione analitica degli strumenti più comunemente adoperati rispe o alla prospe iva e ai fini della valutazione, ai metodi utilizzati, nonché alle competenze tecniche richieste
e all’organizzazione istituzionale prescelta (Marra, 2006, 2007).
Schematicamente, possiamo distinguere gli istituti dell’accreditamento e della certificazione della qualità, che funzionano come meccanismi regolativi inter-organizzativi, che autorizzano le organizzazioni certificate ad erogare i servizi in regime di convenzione e quelli
che sollecitano gli erogatori a perseguire un continuo miglioramento
qualitativo foriero di vantaggi competitivi nel tempo. Tali forme di
regolazione si avvalgono di competenze specialistiche esterne nella prospe iva di rafforzare l’e cacia organizzativa e la posizione
di mercato. Esistono, inoltre, pratiche di valutazione interne alle
organizzazioni, come il controllo di gestione contabile, il controllo
di gestione strategico e la rilevazione della qualità percepita dagli
utenti che funzionano come meccanismi di valutazione e controllo
sistematico degli indicatori di realizzazione, prestazione e di risultato per l’allocazione delle risorse all’interno delle organizzazioni in
itinere e ex post. Frequentemente, queste forme di valutazione sono
condo e internamente dal personale di staff dell’organizzazione.
In particolare, l’accreditamento è una procedura formalizzata di valutazione (Se i Bassanini, 2000). La Corte Costituzionale4 definisce l’accreditamento5 “una operazione da parte di una autorità o istituzione
(nella specie Regione), con la quale si riconosce il possesso da parte di
un sogge o o di un organismo di prescri i specifici requisiti (cosidde o standard di qualificazione) e si risolve nell’iscrizione in elenco, da
cui possono a ingere per l’utilizzazione altri sogge i (assistiti, utenti
delle prestazioni socio-sanitarie)” (Oliva, Giorge i, 2000). Gli standard
di qualità per l’accreditamento sono, quindi, un impegno richiesto alla
stru ura, pubblica o privata, per essere giudicata sogge o erogatore
coerente con le scelte e con i vincoli della programmazione regionale
e nazionale.6 Questi ultimi sono stati definiti,7 anche se con modalità
diverse da regione a regione, utilizzando frequentemente il riferimenSentenza n. 416/95, p.to 6.1.
Il concetto di accreditamento è introdotto, per la prima volta in Italia, proprio nell’articolo 7
del d.lgs. 502/92.
6
Si aggiunge un terzo momento, precisato dal d.lgs. 502/92: vale a dire che i nuovi rapporti
contrattuali conseguenti all’accreditamento e necessari per erogare prestazioni per conto del
Ssn ottenendone il rimborso. Riforma d.lgs. 229/1999 “Norme per la razionalizzazione del
Servizio sanitario nazionale”.
7
Secondo il DPR del 14/01/1997.
4
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to fornito dalle norme ISO 9000.8 Una volta o enuto l’accreditamento,
la certificazione di un sistema qualità da parte di un organismo di
certificazione accreditato ha lo scopo di fornire ragionevole fiducia
che l’organizzazione persegue “gli obie ivi e le responsabilità fondamentali per la qualità” (De Ambrogio, 2000). Si tra a di un processo
che interviene una tantum e che fotografa le cara eristiche stru urali e
processuali, ma non è integrata sistematicamente nei processi di programmazione e gestione.
TABELLA 1 - TASSONOMIA DELLA VALUTAZIONE NELLE ORGANIZZAZIONI DEL TERZO SETTORE
Dimensioni
Prospettive
Fini
Metodi
Expertise
Organizzazione
della valutazione della valutazione della valutazione della valutazione della valutazione della valutazione
Controllo di
gestione strategico
Rafforzamento
Analisi docuEfficacia orga- organizzativo e
mentale, indinizzativa
conformità alla
catori, target
legge
Rilevazione
della qualità
percepita
Valutazione
partecipata
Partecipazione Sviluppo della
dei cittadini
conoscenza/
Manager interMetodi della
Accountability empowerment
ni Consulenti
ricerca sociale
verso i bene- del cittadino/
esterni
ficiari
utente
Accountability Finanziamento
instituzionale /
pubblico
Accreditamento
promozione del Rafforzamento
mercato
organizzativo
Rafforzamento
Orientamento organizzativo e
Certificazione
alla qualità
qualificazione
del personale
ISO 9000 o
Vision 2000
Verifica della
conformità
Peer review
Verifica della
conformità
Manager e
consulenti
esterni
Interna
o commissionata
Interna o su
commissione
Valutatori
esterni
Esperti
Istituti di accreditamento
esterni
Certificatori
professionali
Esterni
La International Standard Organization pubblica una serie di norme per la certificazione
della qualità dei beni e servizi immessi sul mercato. La prima edizione della famiglia di norme
ISO 9000 venne pubblicata nel 1987, sulla base di norme e di direttive precedenti applicabili a
settori specifici. Le norme ISO 9000 si sono imposte a livello internazionale come valido strumento di gestione aziendale con l’obiettivo di ottimizzare la struttura organizzativa aziendale
e la relativa prassi operativa. Dopo 13 anni di diffusa applicazione nei più disparati settori industriali e commerciali, si è sentita l’esigenza di rivedere ed aggiornare la normativa ISO 9000
sui sistemi di gestione per la qualità: la famiglia di norme è stata recentemente revisionata e la
nuova versione è stata pubblicata nel dicembre 2000.
8
ASPETTI CONTROVERSI DELLA REGOLAZIONE E DELLA VALUTAZIONE DELLA QUALITÀ
Mita Marra
La previsione del sistema di accreditamento e della certificazione
introduce, quindi, elementi di regolazione del sistema di offerta dei
servizi. In tale contesto, le regioni avviano il processo di accreditamento ed individuano le responsabilità riservate all’amministrazione
regionale e alle aziende sanitarie locali (ASL) nella definizione degli
accordi e nella verifica del loro rispe o.9 L’accreditamento è previsto
anche dall’articolo 11 della legge di riforma dei servizi sociali n. 328
del 2000. Secondo questa normativa sono i comuni che, verificato il
rispe o dei requisiti minimi stru urali, stabiliti a livello regionale
accreditano gli enti e corrispondono loro il rimborso delle tariffe per
le prestazioni erogate nell’ambito della programmazione regionale e
locale. In particolare, a raverso valutazioni comparative della qualità e dei costi, le istituzioni locali definiscono accordi contra uali
che indicano gli obie ivi di salute e i programmi di integrazione
dei servizi, il volume massimo di prestazioni (distinto per tipologia
e modalità di assistenza), i requisiti del servizio da rendere, in particolare riguardo all’accessibilità, all’appropriatezza clinica ed organizzativa, ai tempi di a esa e continuità assistenziale, e, in ultimo, il
debito informativo che le stru ure erogatrici hanno per consentire il
monitoraggio degli accordi ed il controllo esterno di appropriatezza
e qualità dell’assistenza prestata (Oliva, Giorge i, 2000).
Questa forma di accreditamento è, quindi, un sistema in base al quale l’ente pubblico si incarica di tutelare il consumatore che deve scegliere, verificando che le imprese sociali che si candidano ad entrare
nel mercato dei servizi offrano degli standard minimi adeguati relativamente alla competenza degli operatori, alle capacità organizzative e alle qualità delle prestazioni, lasciando al fruitore la possibilità
di fare la scelta finale fra le diverse organizzazioni accreditate. Gli
utenti possono “acquisire” il servizio da una qualunque delle organizzazioni accreditate, operando una scelta che sarà rimborsata dal
finanziatore (Colozzi, Bassi, 2003).10 Il rischio risiede, però, nel: (a)
In particolare, le regioni e le Asl stabiliscono gli indirizzi per la formulazione dei programmi
di attività delle strutture interessate, con indicazione delle funzioni da potenziare e di quelle da
depotenziare secondo il piano sanitario nazionale e il piano sanitario regionale; il piano delle
attività relative alle alte specialità e alla rete dei servizi di emergenza; i criteri per determinare
la remunerazione delle strutture, nel caso queste abbiano erogato volumi di prestazioni eccedenti il programma preventivo (Oliva, Giorgetti, 2000).
10
I parametri per la qualità considerati nella sanità, soprattutto quando consideriamo la valutazione dell’assistenza sanitaria, sono: (i) la struttura: ambienti, attrezzature, risorse disponibili,
personale ed organizzazione del lavoro; (ii) il processo: procedure diagnostico-terapeutiche,
follow-up; (iii) l’esito: cambiamento dello stato di salute attuale e futuro attribuibile; (iv) l’assistenza sanitaria ricevuta. Ciò comporta: (a) attenzione al cliente (esigenze dei clienti, requisiti
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rafforzare le organizzazioni più grandi e stru urate, a spese di quelle più piccole e legate al territorio; (b) adeguare le stru ure pubbliche e private agli standard dei finanziatori pubblici, secondo logiche
di isomorfismo organizzativo (Powell, DiMaggio, 1991); (c) commercializzare parallelamente anche “a nero” le a ività socio-sanitarie
non accreditate; (d) marginalizzare le a ività complementari, come
quelle educative ed assistenziali, non previste da appalti e convenzioni pubblici (Colozzi, Bassi, 2003).
Diversamente, in relazione alla necessità di allargare presenze e tipologie di offerta dei servizi, ma anche di garantire i ci adini sulla
qualità dei sogge i e delle prestazioni, l’accreditamento può rappresentare un’importante occasione per stimolare lo sviluppo di qualità
gestionali - in particolar modo per quanto riguarda le risorse umane
- mirate non solo ad aumentare l’e cienza interna delle organizzazioni che operano nel se ore, ma anche per favorire l’e cienza e
la qualità dell’intera rete dei servizi. In tale prospe iva, si parla di
accreditamento di “eccellenza”, definito come un meccanismo di valutazione esterna, fra pari, della qualità dell’assistenza erogata da un
servizio o da un programma sanitario e/o socio-assistenziale. L’accreditamento di eccellenza, la cui matrice culturale deriva da alcuni
sistemi di accreditamento internazionale, sopra u o di tradizione
anglosassone, rappresenta il sistema di valutazione che risponde
all’esigenza di realizzare la qualità tecnica/professionale piu osto
che la qualità stru urale ed organizzativa. L’accreditamento di eccellenza nasce da una cultura professionale orientata alla qualità, al
sistematico confronto intera ivo sugli aspe i clinici, ma anche organizzativi, finanziari e stru urali degli a ori che operano in ambito
socio-sanitario. I sistemi di accreditamento di eccellenza partono dal
presupposto che il sistema di cura socio-assistenziale e sanitario sia
un’organizzazione professionale, ma anche una politica pubblica, un
insieme di processi decisionali basati su meccanismi di interazione
fra gli a ori che devono trovare un consenso fra di loro; a ori che si
scambiano delle risorse e che cercano di essere soddisfa i.
Si comprende, quindi, che i sistemi di accreditamento differiscono
tra loro nelle finalità che perseguono e nella scelta dei metodi adottati. L’accreditamento autorizzativo o istituzionale è un meccanismo
legislativi); (b) politica della qualità; (c) obiettivi e pianificazione della qualità; (d) conduzione
del sistema di gestione per la qualità; (e) riesame da parte della direzione. L’anticipazione della
tendenza in atto che sarà realtà nei prossimi anni, vale a dire, l’obbligatorietà della certificazione per le aziende che operano nel contesto pubblico e l’orientamento del paziente utente
a preferire ospedali certificati e quindi garantiti (Ranci Ortigosa, 2000; Setti Bassanini, 2000).
ASPETTI CONTROVERSI DELLA REGOLAZIONE E DELLA VALUTAZIONE DELLA QUALITÀ
Mita Marra
specificato ex ante che funziona come una barriera all’entrata nel
mercato della salute. In tal modo, però, il mercato non si sviluppa
lungo dire rici orientate alla qualità, ma rispe o alla capacità di
investimento iniziale delle organizzazioni - investimento che può
anche essere solo di natura politico-clientelare. L’accreditamento
di eccellenza, di contro, è un meccanismo di coordinamento che si
basa sul mutuo aggiustamento degli a ori rispe o ad un obie ivo
di continuo miglioramento della qualità al fine di o enere posizioni
di mercato dominanti in un sistema sempre più competitivo (Marra,
2006). Sviluppare l’una o l’altra forma di accreditamento non è solo
fru o di una scelta deliberata di policy, benché in Italia, il legislatore
abbia sicuramente preferito la fa ispecie autorizzativa istituzionale
rispe o all’eccellenza qualitativa. Si tra a, evidentemente, di un’evoluzione culturale che abbandona pratiche burocratiche per premiare
forme organizzative che “fanno meglio con meno” (Gore, 1993).
Come illustrato nella tabella 1, oltre alle forme di accreditamento e
di certificazione, all’interno delle organizzazioni pubbliche e private
è tradizionalmente in vigore il controllo di gestione di tipo contabile. A questo strumento di controllo si è a ancato recentemente
il cosidde o controllo di gestione direzionale-strategico al fine di
introdurre l’analisi retrospe iva dell’e cacia e dell’e cienza delle
azioni svolte, a raverso una rappresentazione quantitativa dei risultati conseguiti (ba eria di indicatori).11 Tale controllo si definisce “direzionale-strategico” perché non si pone obie ivi puramente
conoscitivi, ma è finalizzato alla decisione, a supportare, cioè, i vari
a ori che prendono parte al processo decisionale tramite dati empirici sui bisogni, sulle domande e sulle modalità di risposta delle
organizzazioni (Oliva, Giorge i, 2000).
Parallelamente, negli ultimi anni si è assistito allo sviluppo, da parte
dei medici e degli operatori socio-sanitari, di un approccio alla valutazione di tipo umanistico e partecipativo, riconoscendo le molteplici
dimensioni dell’intervento socio-assistenziale. L’a enzione crescenMentre gli indicatori per il controllo di gestione tradizionale si utilizzano per il breve termine,
gli indicatori per il controllo strategico si utilizzano per il medio termine. L’accento sull’allocazione del budget alle singole unità organizzative piuttosto che sugli obiettivi (di efficacia del
processo, di innovazione, ecc.) può determinare una connotazione più o meno strategica di
questo strumento analitico/valutativo. In questo caso, la linea di maturazione e di sviluppo
futuro va nella direzione di rafforzare il sistema informativo (quindi, la batteria di indicatori)
rilevando dati non solo di natura finanziaria, ma anche di domanda di servizi da parte dell’utenza (interna ed esterna all’organizzazione), di qualità del processo di erogazione, di prodotti e,
per quanto possibile, di risultati. Si utilizzano in genere almeno 20/25 indicatori; cfr. Oliva,
Giorgetti (2000).
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te al paziente considerato come persona nella sua globalità e non
come “parte malata”, l’affermarsi della sua autonomia e della sua
autorevolezza nei confronti del medico e della stru ura ha portato
come conseguenza quella di avvicinare il mondo dei servizi socioassistenziali e sanitari verso metodologie note, in ambito aziendale,
con il termine inglese di customer satisfaction, ovvero l’analisi della
qualità percepita.12 La raccolta di reclami, dei questionari di soddisfazione, i focus group di pazienti e gli altri strumenti di rilevazione
della qualità percepita rappresentano infa i processi di valorizzazione delle persone utenti dei servizi sanitari. In principio, a raverso
tali processi l’amministrazione sanitaria fornisce al paziente/utente
un riconoscimento, lo considera, infa i, come un interlocutore qualificato e privilegiato al quale chiedere preziosi giudizi sui servizi di
cui usufruisce, sulle loro prestazioni, ma più profondamente sulle
stesse loro scelte terapeutiche e assistenziali (De Ambrogio, 2000).
Tale approccio rappresenta l’esito importante, delicato e tu ora non
consolidato di un lungo processo evolutivo che tocca gli stessi paradigmi etici e culturali relativi alla salute e all’a ività socio-sanitaria
(De Ambrogio, 2000), che tarda, però, ad affermarsi specialmente
nelle pubbliche amministrazioni.13
Si comprende, quindi, che nonostante si registri una molteplicità di
forme in cui si genera l’informazione valutativa utile come misurazione della qualità o come meccanismo di regolazione e selezione a garanzia della qualità, la sua incisività è limitata. Nelle forme
concrete di accreditamento e certificazione in fase di applicazione
nella maggior parte delle regioni italiane è prevalsa una logica istituzionale che livella le valutazioni sui requisiti minimi e si a ua attraverso la verifica di conformità alle regole tecniche e agli standard
che ciascuna regione ha introdo o. In tale contesto, la politica di fiLa Carta dei servizi (Direttiva del Presidente del Consiglio dei Ministri “sui principi sull’erogazione dei servizi pubblici” 27/01/94) indica come strumento di attuazione dei principi fondamentali il dovere di valutazione della qualità del servizio, non solo attraverso verifiche e
relazioni sul raggiungimento degli standard di qualità, ma anche attraverso “invio agli utenti”
di schede e questionari, di “interviste a campione con gli utenti, anche immediatamente dopo
l’erogazione di un singolo servizio”, e di “riunioni pubbliche con la partecipazione degli utenti”
per zone o per unità di erogazione del servizio.
13
La Direttiva della Presidenza del Consiglio (11 ottobre 1994, più nota come “Direttiva sugli
URP” ovvero gli Uffici per le relazioni con il pubblico) considera la rilevazione sistematica dei
bisogni e del livello di soddisfazione dell’utenza per i servizi erogati una delle finalità degli Uffici per le relazioni con il pubblico ed inoltre specifica che “l’attività di ricerca è funzionale alla
programmazione di iniziative di comunicazione e di formazione e alla formulazione di proposte
di adeguamento dell’organizzazione e delle procedure delle amministrazioni.
12
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Mita Marra
nanziamento dei servizi socio-sanitari e l’eventuale creazione di un
mercato privato, la regolamentazione dei rapporti tra ente finanziatore (pubblico), ente gestore ed acquirente, la stessa definizione di
qualità assunta sono alcuni dei fa ori più salienti che condizionano
lo sviluppo dell’uno o dell’altro sistema di accreditamento sopraccitati.
Le altre forme di valutazione introdo e scontano, in generale, un
problema di a endibilità delle informazioni e di limitato rigore metodologico che acuisce la scarsa incisività delle stesse valutazioni nei
processi di programmazione. Recenti studi empirici di natura sociologica14 hanno, infa i, evidenziato che proprio questi aspe i sono frequentemente messi in questione sia dagli a ori che operano nell’ambito del sistema socio-sanitario sia dagli stessi utenti che esprimono
una forte variabilità nelle percezioni di qualità delle prestazioni sociosanitarie.15 In particolare, l’opinione prevalente degli operatori converge sulla percezione di scarsa credibilità degli indicatori normalmente utilizzati nel controllo di gestione o strategico per misurare il
rendimento amministrativo e la qualità dei servizi socio-sanitari erogati all’utenza. Le informazioni o enute a raverso il monitoraggio o
il controllo di gestione vengono “manipolate” per fini politici o burocratici (Marra, 2006): gli indicatori fotografano una situazione poco
verosimile, opportunamente “aggiustata” per far quadrare i bilanci,
evidenziare un numero di prestazioni superiore che giustifica le allocazioni finanziarie, o stimare livelli di produ ività di reparti, unità
o u ci che non corrispondono effe ivamente alla realtà della pratica
socio-sanitaria. L’offerta valutativa ha, quindi, elaborato una nuova
Gli studi sociologici sull’utilizzo della valutazione hanno fornito una classificazione dei diversi “usi” dell’informazione valutativa: l’uso strumentale è legato alle decisioni ed alle azioni,
l’uso concettuale alla formulazione di una strategia o di un programma, l’uso politico o simbolico alla persuasione o al sostegno di una posizione o di una scelta politica (Caplan, 1977;
Weiss, 1980; Vedung, 1997; Kirkhart, 2000). Tali classificazioni, tuttavia, non consentono di
comprendere come i vari usi della valutazione interagiscono in un contesto organizzativo, favorendo o meno processi di apprendimento nel tempo. Le teorie sull’apprendimento organizzativo (Argyris, Shön, 1978; Argyris, 1994; Mayne, 1994), d’altro canto, hanno implicitamente
assunto una visione meccanicistica delle organizzazioni: all’interno o all’esterno di un contesto
organizzativo si possono innescare processi di apprendimento oggettivamente validi.
15
Sulla questione del paradosso della soddisfazione, si veda lo studio di Iaach (2002) che ha
intervistato i pazienti di un reparto ospedaliero in fasi temporalmente diverse. Le risultanze
della ricognizione empirica hanno distintamente evidenziato percezioni opposte degli stessi
intervistati: piena soddisfazione del paziente nella condizione di degente, critica e di insoddisfazione nella condizione di utente dopo sei mesi dalle dimissioni ospedaliere. Ciò deve far
riflettere sull’influenza del contesto (nel primo caso, ospedaliero, nel secondo, familiare) sulle
percezioni di qualità espresse dagli utenti.
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metrica, rimpiazzando il controllo formale e le ispezioni tradizionalmente condo i all’interno della pubblica amministrazione, ha creato
un nuovo vocabolario, una retorica che accomuna l’operare delle organizzazioni sia pubbliche che private, che non necessariamente incide sui processi decisionali di allocazione delle risorse e sull’esercizio
della responsabilità per i risultati o enuti.16 È necessario, quindi, concentrarsi sulle relazioni esistenti tra natura dell’informazione, flussi
informativi e processi decisionali organizzativi.
3. Un mercato delle valutazioni per decentrare le decisioni e i
flussi informativi
In principio, come già precedentemente so olineato, l’amministrazione pubblica, in qualità di ente finanziatore, regola i rapporti fra sogge i
erogatori pubblici ed erogatori privati sulla scorta delle informazioni
sul loro rendimento organizzativo, premiando e, quindi, finanziando
solo quei sogge i che rispondono ex ante ai requisiti di qualità, determinati in sede di programmazione. In un’ideale situazione di mercato
dei servizi socio-sanitari, sia l’utente che il regolatore sono orientati
nella scelta del prodo o migliore a raverso il meccanismo della certificazione del fornitore. Laddove la valutazione e la certificazione acquistano credibilità, esse contribuiscono a distinguere i beni e i servizi
che soddisfano i minimi standard qualitativi e che sono addiri ura eccellenti, fornendo, in tale modo, all’utente-ci adino un’informazione
utile per una scelta “informata”. L’offerta di valutazioni, certificazioni
ed analisi tecnico-specialistiche si inquadra, quindi, nell’o ica di fornire al consumatore-ci adino e al regolatore pubblico informazioni
rilevanti per effe uare la scelta consapevole dei migliori erogatori
nonchè delle migliori prestazioni a disposizione.
La natura dei beni e servizi erogati, tu avia, limita la loro valutazione ex ante. Tale classe di beni e servizi si inquadra, infa i, nell’ambito
dei cosidde i experience goods, per cui un consumatore o un utente possono trarre soddisfazione solo dopo aver fa o esperienza del
consumo. In altri termini, solo in seguito all’utilizzo del bene si può
Dirindin e Vineis (1999) affermano, a tal proposito, che “la letteratura scientifica in campo
medico si è arricchita di un nuovo vocabolario, ricco di concetti (qualità totale, quality assurance, quality assessment, quality development, miglioramento continuo della qualità, ecc.)
e utilizzati - in modo più o meno rigoroso - per favorire uno spostamento di attenzione dai
problemi di efficienza (l’allocazione delle risorse che consente di ottenere il massimo output)
a quelli - più complessi - di effectiveness (l’allocazione delle risorse che consente di ottenere
il massimo outcome) (Dirindin, Vineis, 1999, p. 79).
16
ASPETTI CONTROVERSI DELLA REGOLAZIONE E DELLA VALUTAZIONE DELLA QUALITÀ
Mita Marra
esprimere il giudizio sulla sua qualità. Inoltre, un’inevitabile asimmetria informativa sbilancia le posizioni e la forza contra uale degli
“acquirenti” rispe o ai “venditori”, generando un imponente dislivello informativo che esiste tra offerta e domanda. Ciò garantisce
alla prima una posizione predominante ed una forte capacità di condizionamento e di induzione sul ci adino, per il quale è in gioco una
dimensione cruciale della sua esistenza (Ranci Ortigosa, 2000).
Secondo la teoria economica, in tali circostanze, l’informazione valutativa presenta una duplice valenza: (i) essa è un bene pubblico
ed (ii) è posseduta dagli a ori in maniera non omogenea per cui
sia quantitativamente che qualitativamente possono emergere deficit
informativi che possono provocare processi degenerativi della qualità dei servizi socio-sanitari. È probabile, infa i, che si verifichi una
so o-produzione o un so o-consumo di informazione valutativa: i
rapporti di valutazione o le certificazioni non sono frequentemente
disponibili in quantità e in maniera adeguata; gli utenti e i regolatori possono non acquisirli o semplicemente non utilizzarli. È, inoltre, molto variabile ed eterogeneo l’ammontare di informazioni che
circolano in relazione all’erogazione o al consumo di determinate
prestazioni socio-sanitarie. Ciò suggerisce che sia la natura di bene
pubblico sia il grado di asimmetria nell’informazione che esiste tra
gli a ori in gioco incidono negativamente sull’a endibilità e sulla
credibilità della stessa nei processi di allocazione delle risorse (Weimer, Vining, 1999). Ne risulta, quindi, un costo per la colle ività.
La figura 1 visualizza il costo sociale dell’asimmetria informativa - circoscri o all’area del triangolo a,b,c e stimato sulla base del
confronto tra un consumo “informato” e “non-informato” del bene
esperienziale o relazionale, ad esempio. Q² e Q¹ sono le quantità consumate del bene in presenza di informazioni o meno e l’area P², P¹,
a,b ingloba la rendita del produ ore che offre il bene in corrispondenza di condizioni asimmetriche dal punto di vista informativo. Ridurre tale costo sociale significa migliorare l’offerta e la domanda di
valutazioni. A tal proposito, Weimer e Vining (1999) sostengono che
è possibile suscitare un mercato “secondario” dell’informazione in
cui i potenziali utilizzatori - consumatori o decisori pubblici - siano
disposti a pagare agli agenti - valutatori, analisti, esperti, consulenti
che operano in questo se ore - il valore delle loro competenze tecniche combinate con forme tacite di conoscenza ed apprendimento
sul campo, partecipando essi in un ampio numero di transazioni che
intercorrono tra “venditori” e “acquirenti”.
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IMPRESA SOCIALE
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FIGURA 1 - PERDITA DEL SURPLUS DEL CONSUMATORE PER LE ASIMMETRIE INFORMATIVE
Prezzo
O
b
P
P!
c
D
a
D!
Q!
Q
Quantità/Tempo
In tale scenario, chi non fosse disposto a pagare per le valutazioni, o
meglio chi non fosse disposto ad utilizzarle, non dovrebbe partecipare al mercato con l’effe o di ridurre la quantità delle valutazioni
meno a endibili. In altri termini, l’offerta valutativa non adeguata
dovrebbe diminuire. La riduzione dell’offerta delle valutazioni e
delle certificazioni dovrebbe, in particolare, verificarsi per quei beni
che sono tra loro omogenei, quando, cioè, gli utenti possono facilmente passarsi l’informazione che i valutatori “vendono” ad altri
consumatori dello stesso bene e servizio. In tali circostanze, i consumatori possono far leva sull’esperienza delle reti informali in cui
sono inseriti per o enere informazioni sulla qualità dei beni. Ad
esempio, per un servizio di assistenza domiciliare agli anziani, la
percezione della qualità e del rendimento di un operatore o di una
cooperativa sociale possono diffondersi a raverso il passaparola in
comunità ristre e. Per i beni e servizi non particolarmente complessi
e non costosi,17 quindi, la probabilità che esistano incentivi adeguati
a pagare per o enere i consigli, i giudizi e le informazioni prodotte dai valutatori/certificatori è bassa. Questi ultimi, inoltre, possono
essere poco a ra i dai quei beni o servizi scambiati frequentemente laddove i consumatori valutano dire amente a raverso la loro
È da notare che il prezzo pieno è la misura rilevante - in quanto uno potrebbe essere disposto a pagare per una visita dal dottore per ottenere un consiglio su un farmaco a basso costo.
Ciò che è in gioco, in questo esempio, non è il costo del farmaco, ma il valore della salute.
17
ASPETTI CONTROVERSI DELLA REGOLAZIONE E DELLA VALUTAZIONE DELLA QUALITÀ
Mita Marra
esperienza il grado di qualità senza ricorrere all’intermediazione dei
valutatori. Diversamente, per un servizio di natura più complessa,
come, ad esempio, la riabilitazione dei tossicodipendenti, il processo
di misurazione della qualità del servizio si rivela di gran lunga più
articolato e non trasferibile tacitamente soltanto a raverso canali informali. In questi casi, è ipotizzabile fissare un prezzo, o meglio disegnare un incentivo o una politica pubblica che inducano a produrre
un’informazione valutativa utile per la regolazione e la misurazione
della qualità all’interno di singole organizzazioni e in sistemi locali
di organizzazioni?
Da una prospe iva economica, la classe di modelli che si iscrive
nell’ambito della cosidde a teoria delle unità organizzative, nota con
un’espressione inglese come team theory (Gibbons, 2003)18 consente
di me ere a fuoco i fa ori che spiegano l’incidenza della valutazione
sulla decisione organizzativa. La team theory è, infa i, l’applicazione
della teoria della decisione in termini statistici a contesti organizzativi intesi come unità omogenee, cioè, come agenti che possiedono
informazioni eterogenee e controllano azioni differenti pur condividendo la missione dell’organizzazione nel suo complesso. Mentre
l’unità di analisi della teoria della decisione si fonda sull’agente individuale, definendo le regole di decisione che massimizzano i ritorni
a esi del singolo decisore, la team theory individua un set di regole
di decisione (una per ogni agente) in modo che l’organizzazione nel
suo complesso massimizzi i suoi rendimenti a esi. La team theory
prefigura l’esistenza di vari agenti che esercitano un controllo differenziato sulle decisioni rilevanti per l’organizzazione ed assume che
tali decisioni siano prese in base a flussi eterogenei di informazione:
tale approccio teorico esamina, in sostanza, un processo decisionale
decentrato, ma ignora gli interessi dei membri del team - in altri termini, si assume che non esista ciò che con un’espressione anglosassone si definisce shirking, free riding, lobbying, cioè, i comportamenti
opportunistici dei componenti dell’organizzazione. In questo senso,
la team theory condivide la prospe iva weberiana secondo la quale
l’organizzazione è una macchina, le sue varie parti possono essere
disegnate ingegneristicamente e le loro interazioni possono essere
controllate ex ante e ex post.
In linea con tale approccio, Sah e Stiglitz (1986) confrontano i processi decisionali nelle forme organizzative della gerarchia e della poliarMarschak e Radner (1972) svilupparono una prima generazione di modelli economici sul
processo decisionale all’interno delle organizzazioni (Gibbons, 2003).
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chia per la selezione e la valutazione di due corsi di azione ritenuti
in linea con gli obie ivi organizzativi. In corrispondenza delle forme
organizzative in fig. 2 e 3, è possibile delineare due diversi stili e
processi di assunzione delle decisioni. Nel primo caso, si considerano due unità ed un centro e si identifica con A l’insieme dei proge i
scelti e con R l’insieme dei proge i esclusi. In particolare, l’unità 2
è sovra-ordinata rispe o all’unità 1 e, di conseguenza, osserva solo
le decisioni assunte da quest’ultima nella selezione dell’insieme dei
proge i A. L’unità 2, a sua volta, opera la selezione dei proge i che
trasme e al centro, il quale non è in grado di valutare le scelte effettuate sulla base della verifica dei proge i scartati dall’unità 2. Eventuali errori nella selezione operata ai vari livelli dell’organizzazione
- che possono essere formalizzati stocasticamente come errori sia di
tipo A che di tipo B, vale a dire non si scelgono proge i validi e si
selezionano proge i deboli - non possono, quindi, essere interce ati
in quanto l’informazione generata nell’ambito dei processi decisionali è accentrata ad ogni livello decisionale e non condivisa tra i vari
livelli. In questo tipo di configurazione organizzativa, frequente è la
possibilità che un livello organizzativo intraprenda corsi d’azione i
cui effe i si rivelano controproducenti per un altro livello organizzativo che non condivide lo stesso set di informazioni. Questo tipo
di errori organizzativi sono evidenziati da Goodman (2001) come errori di feedback e di measurement che ostacolano i processi di coupling,
vale a dire, le collaborazioni virtuose tra livelli inter-organizzativi e
inter-istituzionali.
FIGURA 2 - PROCESSO DECISIONALE GERARCHICO
A
Unità 1
A
Unità 2
R
Centro
R
Fonte: Adattamento da Gibbons (2003)
Diversamente, nel caso dell’organizzazione poliarchica (vedi fig. 3),
le unità 1 e 2 operano allo stesso livello ed entrambe comunicano
dire amente tra di loro e con il centro. L’adozione di un insieme di
ASPETTI CONTROVERSI DELLA REGOLAZIONE E DELLA VALUTAZIONE DELLA QUALITÀ
Mita Marra
proge i A comporta la condivisione dei flussi informativi tra le due
unità e, quindi, la possibilità di segnalare reciprocamente le lacune
nell’impostazione e i problemi di a uazione delle scelte di policy.
La selezione di un corso di azione emerge dall’unanime decisione
di non esclusione. Nel caso precedente, invece, la selezione di un
proge o comporta la sua approvazione unanime in tu i i precedenti
stadi decisionali intermedi. Nell’organizzazione gerarchica, il processo decisionale è, quindi, accentrato e l’informazione è considerata esogena: la non condivisione dell’informazione tra le due unità preclude la possibilità di rielaborare l’informazione, generando
nuova conoscenza organizzativa. Ciò sembra, invece, perseguibile
nell’organizzazione poliarchica. In tal senso, più frequenti sono le
interazioni di natura informativa, cognitiva e decisionale tra le varie
unità dell’organizzazione, minori sono le probabilità degli errori di
valutazione e misurazione nell’assunzione delle decisioni allocative
(Goodman, 2001).
FIGURA 3 - PROCESSO DECISIONALE POLICENTRICO
$('+, .
#
!
#
$('+, /
"&(+*)
!
Fonte: Adattamento da Gibbons (2003)
Tradizionalmente, infa i, i decisori al vertice delle organizzazioni
generavano le premesse su cui si fondavano le scelte strategiche da
a uare ai livelli inferiori, mentre gli operatori impegnati nelle attività giornaliere e a conta o con gli utenti erano portatori di una
conoscenza specifica e de agliata, fru o dell’esperienza dire a in
cui erano immersi. Tale conoscenza diventava, tu avia, di cile da
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trasferire come visione strategica. L’interazione - tra i valutatori, i
manager e i decisori - perme e, invece, la socializzazione ed il trasferimento più dire o ed e cace del sapere valutativo all’interno
dell’organizzazione ai vari livelli decisionali (Marra, 2004).
Tale conclusione è avvalorata dai modelli di “esternalizzazione” ed
“internalizzazione” della conoscenza19 in una prospe iva dinamica
ed evolutiva (Nonaka, 1994; Hall, 2004; Allen, 2004). La creazione
e la circolazione delle informazioni nell’ambito dell’organizzazione
contribuiscono a convertire la conoscenza tacita legata alle pratiche
di lavoro (Polanyi, 1967; Nelson, Winter, 1982) in conoscenza codificata. L’apprendimento della conoscenza esplicita20 si trasforma in
conoscenza esperienziale a raverso il learning by doing21 internalizzando forme più e cienti di produzione. Tali processi perme ono
di riformulare continuamente il sapere organizzativo, migliorando
il funzionamento interno dell’organizzazione e il suo ada amento
all’ambiente esterno a raverso l’erogazione di servizi e prestazioni
sempre più adeguate alla domanda.22
L’analisi sin qui condo a suggerisce, quindi, che prescrivere un disegno istituzionale o una stru ura organizzativa decentrati è necessario, ma non su ciente a regolare e cacemente la qualità dei servizi
socio-sanitari a raverso sistemi di misurazione a endibili e credibili. Occorre, invece, decentrare anche i flussi informativi di natura
La socializzazione permette di trasferire conoscenza tacita attraverso l’interazione tra i
membri di un’organizzazione. L’esternalizzazione implica la conversione del sapere tacito in
sapere codificato attraverso la ricostruzione e riformulazione delle premesse a base delle decisioni.
20
La conoscenza esplicita o codificata emerge dalle scoperte e dalle teorie scientifiche sul
mondo e sulla società (Nonaka, 1994). All’interno di un’organizzazione, i pianificatori possono
progettare i programmi sulla base teorica esplicita o implicita e la valutazione può verificare
se quei presupposti teorici sono validi in pratica (Weiss, 2000). Ma, come Weiss (2000) fa
notare, chi si trova in posizioni di autorità utilizza frequentemente un sapere tacito, intuitivo, frutto dell’esperienza e della pratica. “Esternalizzare” tale conoscenza significa utilizzare
il linguaggio per definire concetti che riflettono comportamenti condivisi, giudizi ed opinioni
impliciti e sottintesi.
21
Nonaka (1994) definisce tale sapere con il concetto di conoscenza tacita: vale a dire, il patrimonio delle reti convenzionali ed informali, dei valori e delle credenze che le organizzazioni
generano nelle loro azioni quotidiane. Tale conoscenza è condivisa nell’ambito di un team o di
una “micro-comunità di conoscenza”. Socializzare significa che i membri di una comunità o di
un gruppo non solo comprendono reciprocamente le loro specifiche funzioni, ma condividono
e giustificano la definizione del loro lavoro comune. La collaborazione produce nuova conoscenza che conduce a sua volta alla concezione ed attuazione di “strategie di avanzamento
competitivo” (Nonaka, 1994).
22
Il processo cognitivo, come la socializzazione, è critico perché conduce all’avanzamento
strategico attraverso una politica, un programma, un prodotto o un servizio innovativi.
19
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Mita Marra
valutativa al fine di rendere il processo decisionale più partecipativo
e aperto all’apporto costru ivo dei membri dei vari livelli operativi
(flusso top-down). Inoltre, processi valutativi decentrati possono convogliare ed orientare il flusso di informazioni intorno a quei conce i
chiave all’avanzamento strategico (flusso bo om-up). Occorre, tu avia, verificare la natura dell’informazione, mantenere paralleli i flussi “decentrati” di informazione ed i processi “decentrati” di assunzione delle decisioni. Come nota Gibbons (2003), è possibile, infa i,
che un asse o organizzativo gerarchico, centralizzato ed autoritario,
co-esisti con un sistema decentrato di generazione dell’informazione. Nella condizione in cui flussi di informazione sono decentrati
in stru ure accentrate, agenti diversi possiedono informazioni diverse. Essi comunicano aspe i o parti delle loro osservazioni, ma
un solo agente riceverà in ultimo le informazioni utili ad assumere
le decisioni (Gibbons, 2003). Ciò potrebbe frenare l’apprendimento
(l’internalizzazione) ai livelli inferiori dell’organizzazione, inficiando la qualità presente e futura delle prestazioni rese. Nei processi
decisionali decentrati, invece, agenti diversi possiedono informazioni diverse, esercitando un controllo differenziato sulle decisioni
assunte. Tu avia, non comunicando tra loro, l’informazione non
viene esternalizzata per creare sapere organizzativo strategico utile
a migliorare il rendimento dell’organizzazione.23 L’internalizzazione
e l’esternalizzazione dell’informazione organizzativa sono, quindi,
cruciali per assumere decisioni strategiche e per migliorare continuamente la qualità delle pratiche di lavoro - vale a dire, la qualità
dei servizi resi - a prescindere dal disegno istituzionale o dalla struttura organizzativa prescelta. Tali processi di creazione e diffusione
della conoscenza organizzativa (Nonaka, 1994) contribuiscono a creare sistemi informativi più credibili e meno auto-referenziali, sollecitando la partecipazione degli utenti alle decisioni amministrative e
più concorrenza al fine di migliorare il rendimento organizzativo.
Per concludere, una stru ura che presenti più centri di responsabilità per l’allocazione delle risorse può operare a raverso un accentrato sistema di flussi informativi, ma, in tal caso, essa non risulta in grado di individuare le disfunzioni e gli errori organizzativi
(Goodman, 2001). Sebbene sia decentrata nel suo disegno istituzionale, una stru ura organizzativa può agire a raverso modalità
accentrate di creazione dell’informazione che possono ostacolare i
In tal senso, Gibbons (2003) cita numerosi studi organizzativi che hanno esaminato empiricamente la differenza tra decentramento nei flussi informativi e processi decisionali, tra cui,
Radner (1993), Bolton, Dewatripont (1994) e Garicano (2000).
23
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processi di generazione e trasmissione della conoscenza organizzativa (Nonaka, 1994), utili per migliorarne il rendimento nel tempo. In tal senso, la team theory consente di diagnosticare le fonti
d’ine cienza (Leibenstein,1966), laddove il grado di decentramento
dei flussi informativi non sia allineato al decentramento delle decisioni allocative, al fine di rendere operativa la responsabilità dei
risultati nei confronti dei ci adini.
4. Le implicazioni in termini di accountability
Donahue e Nye (2002) distinguono l’accountability intensiva delle interazioni di mercato rispe o all’accountability estensiva delle relazioni inter-istituzionali basate sull’autorità. In particolare, l’accountability intensiva è circoscri a, ma concentrata in relazione allo spe ro dei
valori condivisi o degli a ori portatori di interesse le cui istanze sono
considerate. Secondo Donahue e Nye (2002) il sistema di mercato è
costruito su uno schema di accountability intesiva. La metrica è la
crescita o il rendimento del valore del capitale a raverso operazioni
commerciali. L’agente è quindi responsabile del rendimento organizzativo o istituzionale nei confronti del proprietario (principale)
e la misura del successo o del fallimento non è ambigua. Il concetto di accountability estensiva, invece, si fonda su una molteplicità di
metriche e di principali. Il manager di un’impresa sociale nel se ore
socio-sanitario è responsabile della qualità dei servizi resi nei confronti dei ci adini, dei pazienti, del Consiglio di amministrazione,
del sistema politico ed amministrativo sul territorio in cui opera e
rispe o a tu o il sistema sanitario nazionale. Ovviamente, non tu i
gli a ori e beneficiari godono dello stesso peso. In altre parole, non
si può semplicisticamente profilare un sistema in cui la soddisfazione dell’utente sia equivalente al valore dell’azionista. La missione
che il manager svolge è complessa. Inoltre, esistono molte versioni
plausibili di qualità della salute e seppure si arrivasse a ridurre a
pochi indicatori qualitativi il rendimento di un’impresa sociale in
tale se ore, la metrica selezionata sarebbe indubbiamente multidimensionale.
In realtà, solo di rado s’incontrano esclusivamente l’una o l’altra versione della responsabilità che, invece, si alternano o coesistono senza
integrarsi reciprocamente. La responsabilità intensiva richiede misure robuste che inducano alla condivisione di alcuni obie ivi, rinunciando ad altre priorità e “desiderata”. La responsabilità estensiva,
ASPETTI CONTROVERSI DELLA REGOLAZIONE E DELLA VALUTAZIONE DELLA QUALITÀ
Mita Marra
invece, esige il continuo bilanciamento di obbligazioni multiple e la
capacità di realizzare non il pieno raggiungimento di tu e le istanze
sociali, ma una loro relativa soddisfazione a seconda delle priorità
prestabilite. Si comprende, quindi, che creare istituzioni e relazioni
di responsabilità implica il trade-off tra estensione ed intensità. I meccanismi di responsabilità che tendono verso l’estensione orientano le
interazioni inter-istituzionali verso forme organizzative complesse e
stru urate. I meccanismi di responsabilità che invece tendono verso
l’intensità orientano le interazioni tra sogge i verso forme decentrate, di mercato (Donahue, Nye, 2002).
Nel nostro caso, dalla ricostruzione dei funzionamenti istituzionali
del sistema informativo/valutativo illustrato nella tabella 1, si deduce che sistemi decisionali ancora accentrati coesistono con flussi
informativi decentrati in quanto a ori differenti osservano pezzi diversi di informazione e comunicano insiemi diversi delle loro osservazioni (Gibbons, 2003). Ciò significa che organizzazioni diverse
o unità o dipartimenti diversi appartenenti ad un’unica organizzazione producono e commissionano forme eterogenee di valutazione
e stru urano sistemi informativi funzionali ai loro specifici bisogni
informativi. L’informazione valutativa prodo a è frammentata e
fluisce verso i vertici decisionali per l’allocazione delle risorse. In
tali circostanze, è cruciale considerare le modalità ed il grado in cui
sarebbe preferibile ridisegnare le relazioni istituzionali di responsabilità per incorporare un’archite ura decisionale policentrica (e
poliarchica) compatibile con flussi informativi decentrati e con il
pluralismo e la frammentazione esistente sia nel disegno che nell’attuazione dei programmi socio-sanitari. Questi ultimi, infa i, sono
realizzati a raverso sistemi organizzativi ed istituzionali complessi
che coinvolgono numerosi a ori in giurisdizioni e se ori di mercato
diversi, portatori di interessi e priorità differenti. Se tali a ori utilizzano sempre più frequentemente gli indicatori del monitoraggio
e del controllo di gestione disponibili per fini diversi in momenti
temporalmente diversi della vita dei programmi e dei servizi sociosanitari, il processo decisionale potrebbe diffondersi gradualmente,
trasferendosi dai luoghi formalmente istituzionali ove il consenso
si forgia in maniera più informale. L’implicazione sostanziale è che
l’esercizio della responsabilità potrebbe articolarsi a raverso relazioni più orizzontali, che a enuano la gerarchia organizzativa.
Al di là delle relazioni di responsabilità formali interne, esistono,
inoltre, pressioni esterne che contribuiscono a rendere le linee di
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responsabilità più orizzontali a raverso il decentramento delle decisioni e dei flussi informativi. L’informazione valutativa può ovviamente amplificare tali pressioni e canalizzarle all’interno dell’organizzazione per migliorarne il rendimento. La valutazione partecipata può creare nuove opportunità di esercizio della responsabilità
organizzativa nei confronti dire amente dei ci adini. Tu avia, per
realizzare operativamente la responsabilità democratica è necessario sviluppare processi valutativi decentrati, ma anche favorire la
comunicazione tra i vari a ori ai vari livelli organizzativi. La carenza
di comunicazione e di interazione crea disfunzioni organizzative e
impedisce miglioramenti qualitativi (Nonaka, 1994; Goodman, 2001;
Marra, 2004; Newcomer, 2004).
L’analisi sin qui condo a evidenzia almeno due dimensioni della regolazione della qualità delle prestazioni socio-sanitarie generalizzabili anche per le imprese sociali. Primo, il disegno istituzionale dei
sistemi di qualità non può prescindere dalla natura, a endibilità e
credibilità dei sistemi informativi. Il contributo effe ivo della valutazione al sapere organizzativo varia a seconda che essa si traduce in
mero strumento di verifica di conformità rispe o a standard universali - come nel caso dell’accreditamento autorizzativo/istituzionale o come continuo processo di miglioramento sulla base dell’indagine
e dell’analisi sistematica dell’operare organizzativo. La costruzione
del sapere organizzativo ha luogo quando i membri di un’organizzazione rifle ono sulle loro azioni e l’informazione disponibile è più
complessa e ricca dell’informazione di cui ciascun individuo ha bisogno per realizzare le sue specifiche funzioni. La condivisione di tale
surplus promuove la socializzazione del sapere tacito: i membri di
un gruppo o di una comunità entrano in relazione dire a, recepiscono le specificità dei compiti e delle operazioni di ciascuno, offrono il
loro contributo, riducendo in tale modo l’impa o della gerarchia organizzativa, costruendo rapporti di reciproca fiducia (Nonaka, 1994;
Marra, 2003, 2007).
Secondo, la pluralità di a ori che prende parte a vario titolo alla programmazione e all’erogazione delle prestazioni socio-sanitarie estende e non certo intensifica la responsabilità pubblica delle imprese
sociali. Nel sistema a uale, la responsabilità per la salute pubblica
è frammentata e condivisa da una miriade di organizzazioni pubbliche, private, profit e nonprofit. È per tale ragione che il decentramento delle funzioni di produzione e la loro privatizzazione devono
anche per gradi a ancarsi ad un decentramento delle decisioni e al
ASPETTI CONTROVERSI DELLA REGOLAZIONE E DELLA VALUTAZIONE DELLA QUALITÀ
Mita Marra
decentramento dei flussi informativi in modo da equilibrare libertà
e responsabilità. Come evidenziato sopra, esiste una stre a relazione tra stru ura organizzativa/istituzionale e sistemi informativi per
garantire la responsabilità pubblica dei risultati nei confronti dei cittadini. La rendicontabilità del sistema è infa i particolarmente delicata nel se ore in questione per la natura pubblica del bene prodotto e scambiato. Ciò suggerisce di preferire meccanismi di garanzia
della qualità che si fondino su centri decisionali e flussi informativi
decentrati, in modo da rendere orizzontali ed intense le relazioni
di accountability e sempre più orientate rispe o agli utenti-ci adini
(Donauhe, Nye, 2002). La comunicazione tra erogatori, manager, decisori ed utenti, l’analisi dell’esperienza passata, la partecipazione
degli utenti alla rilevazione della qualità e la sistematica verifica del
rendimento organizzativo possono, in tale senso, contribuire all’apprendimento e al miglioramento a raverso un reciproco processo di
monitoraggio (Sabel, 1994).
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Il Forum
INNOVAZIONE ED INNOVAZIONI DELL’IMPRESA SOCIALE
Fabio Marino
Innovazione ed innovazioni dell’impresa sociale:
considerazioni su identità, limiti, potenzialità e
nuove sfide
A cura di Fabio Marino
Sulla scia riflessiva tracciata dai saggi che lo precedono, il Forum ha
raccolto le considerazioni e le opinioni di alcune autorevoli voci italiane del mondo accademico e del terzo se ore, da anni impegnate
per lavoro, ricerca e dedizione personale nel rinnovato mondo dei
servizi e delle politiche sociali.
I contributi, così raccolti, hanno permesso di articolare una ricca riflessione sull’impresa sociale alla luce della rinnovata identità, del ruolo
giocato nell’ambito dell’economia e dell’economia sociale, delle criticità e dei punti di forza, che dell’impresa sociale fanno la nuova veste
e il nuovo impegno del nonprofit, delle innovate prospe ive di intervento e sviluppo nelle diverse realtà territoriali, in vista di promuovere e diffondere pratiche e cultura di sviluppo locale socialmente orientato, delle nuove sfide da lanciare all’impresa sociale al fine di rendere
concretamente esperibili le innovazioni che essa ci fa auspicare.
Le risposte, raccolte intorno a questi qua ro quesiti portanti, hanno
dato vita ad un confronto intenso tra le diverse esperienze e i molteplici punti di vista fru o delle variegate realtà di formazione ed
operatività professionale degli esperti coinvolti.
Con il primo quesito ci si è confrontati sull’identità rinnovata dell’impresa sociale, con l’intento di so olineare quale reale innovazione
esperiamo rispe o ai processi innovativi proie ati verso l’esterno,
e a quelli “interni”, che dell’impresa sociale ne hanno configurato il
funzionamento.
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IMPRESA SOCIALE
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FORUM
Viene, pertanto, tracciato il profilo di un’impresa sociale che non
sempre è fedele alle innovazioni che fa auspicare: dall’acquisita
consapevolezza che ormai l’impresa sociale, nella forma di cooperativa sociale, sembra aver smarrito la spinta innovativa esterna, al
punto da rendersi simile ad una generica impresa, al timore che il
suo rendersi ordinario imprendere ha trasformato la dimensione
partecipativa dei lavoratori in un mero tra o di penna, come se la
garanzia della piena partecipazione risiedesse nella formula giuridico-istituzionale che fa di un’impresa un’impresa sociale (Acocella).
Ma, ancora, dal riscontro di un’impresa sociale che vive una fase in
cui sforzo ed impegno sono profusi a far prevale di più l’aspe o di
impresa rispe o a quello di sogge o sociale, alla presa d’a o che, nel
tentativo di rendere chiara la propria identità rispe o a quella degli
altri enti nonprofit, l’impresa sociale ha notevolmente accentuato
la propria cara eristica di impresa, rendendosi sempre più distante dagli originari e stre i legami con i territori, e rendendo sempre
più pallida la propria identità originaria di sogge o di cambiamento
(Monda). Pur tu avia, alle vaghe incertezze di identità, che la riflessione fa intravedere, risponde la certezza dell’intento legislativo
volto a consentire al nonprofit di fornirsi di strumenti trasparenti
d’impresa senza smarrire la propria identità-vocazione. La confusione che esperiamo, dal momento che alla realtà della cooperativa si
a anca quella dell’impresa sociale, si a evolisce innanzi all’accorta
riflessione sulla nozione di public utility e sull’articolato tema della
governance, che si configurano quali tra i imprescindibili della nuova dimensione identitaria dell’impresa sociale (Sica).
Un’identità, quella dell’impresa sociale, che trova nelle idee di “costruire reti” e nelle nuove formule organizzative l’o imale propulsione “a costruire percorsi di senso insieme ad altri, a contaminare
e lasciarsi contaminare, a proge are il proprio sviluppo in relazione
allo sviluppo di altre organizzazioni ed imprese” (Stasi).
Il secondo quesito, invece, ha condo o la riflessione sul campo vivo
della valutazione relativa all’operatività e la fa ività degli interventi
innovativi che dal nonprofit ci si a ende: è stato così possibile scandagliare le luci e le ombre dell’impresa sociale, al fine di rifle ere
sui nodi critici e (ri)scoprire i punti di forza che ne scandiscono il
processo operativo.
Emergono, qui, i forti limiti di un imprendere socialmente orientato che, da un lato, vive la complessità e la molteplicità delle forme
organizzative e gestionali assunte dal nonprofit (che non è solo im-
INNOVAZIONE ED INNOVAZIONI DELL’IMPRESA SOCIALE
Fabio Marino
presa sociale!) che il legame non univoco con il territorio richiede, e,
dall’altro, l’impulso sempre più crescente a scollegarsi dal territorio:
entrambe le circostanze sono cause imputabili della perdita dell’originaria identità.
Di certo, molti sono i pregi e i successi che hanno scandito la crescita
e la diffusione dell’imprendere sociale, ma ancora molto va fa o in
vista di rendere concrete e visibili le trasformazioni economiche e
sociali che l’impresa sociale, in termini di innovazione, può garantire. Nel lungo percorso che l’impresa sociale deve percorrere occorre
che diventi “[…] la realizzazione della democrazia economica e partecipativa nel mondo del lavoro altrimenti rimane una so ocategoria dell’impresa padronale” (Acocella), e, ancora, che si impegni a
“[…] recuperare la sua originaria dimensione di agente comunitario
di cambiamento, dentro ai territori per dare soluzione ai problemi
delle persone e in particolare delle persone meno garantite e fuori
dai territori, a raverso i suoi sogge i di rappresentanza, per completare un quadro normativo fortemente carente sia per gli aspe i
legislativi che per quelli fiscali” (Monda), ma, anche, che all’impresa sociale sia offerta la possibilità di “[…] accedere al finanziamento della propria a ività “commerciale” superando il muro, spesso
insormontabile, del dife o di asset patrimoniali di garanzia” (Sica).
Con poderosa evidenza si riconoscono gli sforzi che l’impresa sociale deve compiere a nchè possa associare al suo più evidente punto
di forza - “l’impresa sociale ‘abita’ i territori e riconosce bisogni, processi, cambiamenti. Riesce quindi a programmare servizi in grado
di rispondere in tempo reale alle istanze territoriali” - l’acquisizione
di quelle risorse economiche “purtroppo assenti!” e di quel grado di
scientificità che solo le Università e le altre istituzioni possono garantirle, sogge i, questi, “[…] spesso lontani e “distra i” (Stasi).
A raverso il terzo quesito si è ricondo a la riflessione sulle innovazioni dell’impresa sociale in riguardo all’articolato piano dello sviluppo locale, con l’intento di verificare i rapporti esistenti tra queste
due complesse realtà, ed il desiderio di rintracciare nella loro stre a
connessione una possibilità di promozione e diffusione di pratiche e
di cultura di sviluppo locale.
(Ri)scopriamo, così, grazie ai contributi offerti, che l’intima interconnessione tra impresa sociale e territorio è generatrice di sviluppo.
La diffusione di una concreta cultura di sviluppo locale, dimensione
portante per concretare interventi fa ivi di sviluppo, procede di pari
passo con la promozione della coesione sociale, che le cooperative
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sociali hanno spesso favorito: è solo a raverso la stre a connessione proge uale ed operativa delle varie realtà del terzo se ore, e il
risvolto occupazionale che garantiscono, che si può determinare un
significativo impa o economico e sociale su uno specifico territorio
(Acocella).
Ma il vero volano dello sviluppo locale resta la possibilità della partecipazione a iva dei membri della specifica comunità locale: questi, alla luce delle diverse esperienze di governance possibili, si fanno
garanti dello sviluppo locale, regolando i processi di squilibrio e disuguaglianza che allo sviluppo si accompagnano, garantendo, così,
una reale crescita economica e sociale. Per tale motivo all’impresa
sociale non resta che l’obbligo di recuperare la sua originaria e prioritaria funzione di promozione di coesione comunitaria e sociale, di
riaffermare il proprio ruolo di “[…] tessitore di reticolarità verticali
e orizzontali” (Monda), di ripristinare, dunque, la connessione territorio-impresa sociale per contribuire alla promozione e diffusione
di pratiche di cultura e di sviluppo locale, sempre ricordando che
non possiamo cancellare “[…] la valenza, lessicale e giuridica, del
sostantivo impresa” (Sica), essendo l’agge ivazione “sociale” il tratto virtuoso dell’imprendere nelle specifiche realtà locali, un tra o
di virtuosità che deve essere mantenuto ed alimentato anche all’interno degli articolati meccanismi a ivati nelle sfide che il mercato
lancia all’impresa nonprofit così come a quella profit.
Si scopre, così, il ruolo privilegiato dell’impresa sociale, la quale risulta “[…] oggi l’unica realtà in grado di agire e cacemente il cambiamento proprio perché ‘abita’ i territori e non li considera semplicemente territori di conquista” (Stasi).
Ma cosa ancora possiamo e dobbiamo chiedere all’impresa sociale?
È questo il senso del quarto quesito che, con l’intento di individuare
opportunità e sfide, ha “imposto” ai sogge i coinvolti di indicare i
termini di una concreta sfida da lanciare all’impresa sociale alla luce
di reali opportunità da concretare.
È stato, questo, il momento opportuno per ribadire la doverosità,
per l’impresa sociale, di garantire la sostanziale e fa iva partecipazione dei lavoratori, di riscoprire il ruolo della non distribuzione
degli utili, quale banco di investimento e crescita d’impresa, e non
semplicistico vincolo istituzionale, di riscoprire/mantenere/rinsaldare
il legame con i sogge i del terzo se ore, quale sfida a fortificare quei
legami che intercorrono tra tu i i sogge i del variegato mondo del
nonprofit (Acocella).
INNOVAZIONE ED INNOVAZIONI DELL’IMPRESA SOCIALE
Fabio Marino
Così, ancora, forte deve levarsi l’invito, per l’impresa sociale e quanti in essa e per essa operano, a recuperare gli ideali di partecipazione
a iva, di democrazia economica e di responsabilità civile e comunitaria, che da sempre la sostengono, al fine di non svilire l’impresa
sociale, nella sfida innovativa che l’a raversa, trasformandola in impresa tout court (Monda).
È nel tentativo di “confrontarsi senza contaminarsi” (Sica) che rintracciamo il nuovo verso cui l’impresa sociale deve dirigersi: la possibilità di restare “[…] impresa differente eppure sogge o di mercato
a pieno titolo […]”. Occorre però rivendicare, e non solo a endere,
interventi legislativi ad hoc, così come lavorare, in termini di formazione, a nché possa definirsi una nuova dimensione della cultura
d’impresa: a ese, queste, che vedono unite le istanze del profit con
quelle del nonprofit alla ricerca di una nuova idea di economia, mercato, sviluppo, eticamente e socialmente orientati.
All’impresa sociale spe a, ora più che mai, “affrontare la sfida del
divenire agente di sviluppo della comunità e dei territori in cui ‘abita’, ponendosi come motore di sviluppo delle culture a raverso processi di costruzione di reti di senso” (Stasi).
Hanno contribuito al confronto ricco e profondo sull’innovazione e
le innovazioni dell’impresa sociale il prof. Giuseppe Acocella, Vicepresidente del Cnel, già Professore ordinario presso l’Università degli Studi “Federico II” di Napoli; il do . Porfidio Monda, Responsabile dell’U cio di piano ambito S1; il prof. Salvatore Sica, Professore
ordinario presso l’Università degli Studi di Salerno, già componente
del Comitato scientifico del Libro Bianco sul terzo se ore Agenzia
per le Onlus; la do .ssa Patrizia Stasi, Presidente del Consorzio “La
Rada” e Consigliere nel Consiglio di amministrazione CGM.
1. IDENTITÀ RINNOVATA: ALLA LUCE DELLA SUA ESPERIENZA, COSA DIVENTA L’IMPRESA SOCIALE GUARDANDO ALLE INNOVAZIONI PROIETTATE VERSO L’ESTERNO, E ALL’INNOVAZIONE CHE
NE HA CONFIGURATO IL FUNZIONAMENTO INTERNO?
ACOCELLA
Purtroppo l’impresa sociale, nella forma di cooperativa sociale,
ha perso un po’ la spinta innovativa esterna, sia perché la sua diffusione ha permeato il territorio e quindi la sua intrinseca novità
si è a evolita, sia perché in alcuni casi, il meccanismo degli appalti e della gestione ordinaria delle a ività l’hanno resa sempre
più simile ad un’impresa come le altre. Il radicamento con il territorio ed il coinvolgimento degli stakeholder, forse punti cardini
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della sua innovazione rispe o al territorio andrebbero rilanciati.
Se per innovazione interna si intende una modalità organizzativa
che ha inteso coinvolgere i lavoratori in tu e le fasi decisionali,
forse anche qui si è andati verso una sempre maggiore similitudine con l’impresa ordinaria. Come per l’innovazione esterna qui
pesa il fa o che ormai una cooperativa sociale che esiste e funziona da diversi anni ha dovuto assumere elementi di stabilità
organizzativa che l’hanno resa ordinaria, dando spesso però per
scontato che la forma cooperativa garantisse in sè la partecipazione. Inoltre sulle modalità organizzative/partecipative interne
pesa sempre l’aspe o dimensionale che solo raramente però,
viene messo in evidenza dalle ricerche di se ore. Non dimentichiamo inoltre che il livello salariale del se ore è rimasto basso e
so oposto sempre a concorrenza del sistema degli appalti che si
rinnovano mediamente ogni tre anni.
MONDA
Nella realtà quotidiana risulta molto più facile parlare di “imprese sociali” piu osto che della “impresa sociale” perché la nascita,
lo sviluppo e l’evoluzione di questa categoria di enti nonprofit
presenta una molteplicità di esperienze di cilmente riconducibili a un’unica definizione o a un’unica visione prospe ica.
Possiamo però affermare, nel contempo che tu e le esperienze si
differenziano a seconda se prevale e in che misura, la dimensione
imprenditoriale rispe o a quella sociale o viceversa e contemporaneamente se nella cultura gestionale prevale di più quella tecnocratica e burocratica di stampo dirigistico o più quella democratico-comunitaria di stampo concertativo.
Possiamo altresì affermare senza ombra di dubbio che stiamo vivendo una fase in cui prevale di più l’aspe o di impresa rispe o
a quello di sogge o sociale, ovviamente, con una ricchissima varietà di sfumature.
L’impresa sociale nacque nel corso degli anni ’80 come evoluzione
naturale delle tante iniziative sociali di base, spontanee, informali
e volontarie, fortemente legate ai contesti territoriali e finalizzate
a dare soluzione ai tanti problemi sociali delle comunità locali dei
quali non si facevano carico i servizi pubblici e men che meno le
imprese private che non trovavano nessuna convenienza economica nell’intervenire.
Nel corso di tu i gli anni ’90 abbiamo assistito, in particolare nel
Centro-Nord, ad un’espansione crescente della cooperazione so-
INNOVAZIONE ED INNOVAZIONI DELL’IMPRESA SOCIALE
Fabio Marino
ciale alimentata dalla contemporanea espansione della spesa sociale degli enti locali e, in parte anche della sanità, specialmente
nell’area dei servizi sociali e socio-sanitari esternalizzati.
La forte confusione, in questa prima fase di espansione, tra cooperazione sociale, volontariato e altri enti nonprofit non meglio definiti, ha consentito l’erogazione di servizi a basso e bassissimo costo mediante l’uso e l’abuso di manodopera precaria,
spesso dequalificata e mal pagata con il pieno consenso degli
enti locali.
Dalla fine degli anni ’90 ad oggi l’impresa sociale ha progressivamente distinto la propria identità da quella degli altri enti nonprofit, si è ne amente differenziata dal mondo del volontariato,
ha posto maggiore a enzione al tema delle tutele sindacali dei
lavoratori, ha cercato di accentuare la sua cara eristica di impresa. Ma nel fare questo percorso ha progressivamente allentato i
legami con i territori e la propria identità originaria di sogge o
di cambiamento. Un rischio sicuramente ipotizzabile, ma chiaramente molto rilevante rispe o alla sua identità originaria.
SICA
L’aspe o interessante ed innovativo della disciplina dell’impresa sociale è senza dubbio la scelta di non intervenire sulla natura giuridica dei sogge i dell’a ività, ma sulla qualificazione
dell’a ività stessa; più chiaramente, il legislatore ha rinunziato
a far coincidere la “rilevanza sociale” con il tipo di sogge o che
esercita l’a ività - ad esempio, optando per un’associazione, una
fondazione, un comitato -, ma ha concentrato la propria a enzione sulla “a ività economica organizzata al fine della produzione
di beni o servizi di utilità sociale, dire a a realizzare finalità di
interesse generale”. Sicché anche gli enti del Libro V del codice
civile possono aspirare ad essere “imprese sociali” se esercitano
l’a ività contemplata dalla normativa, con particolare riguardo
all’art. 2 decreto legislativo n. 155/2006 che fissa la nozione ed i
se ori di “utilità sociale”. Tra questi è appena il caso di ricordare
l’assistenza sociale, quella socio-sanitaria, l’educazione, l’istruzione e la formazione, la tutela ambientale e dei beni culturali, la
ricerca e l’erogazione di servizi culturali.
È evidente la volontà di una “fotografia” dell’esistente, cioè
della variegata realtà del terzo se ore italiano, particolarmente
a ivo, appunto, negli ambiti menzionati. Gli elementi centrali,
sono, dunque, oltre all’operatività esclusiva in vista dell’utilità
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IMPRESA SOCIALE
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sociale, il divieto di distribuzione di utili so o qualsiasi forma,
anche indire a, l’obbligo di reinvestire gli eventuali proventi
dell’a ività istituzionale e l’impossibilità che sogge i pubblici
o privati con finalità lucrative controllino, anche a raverso la
facoltà di nomina della maggioranza degli amministratori, le
imprese sociali.
L’intento legislativo è chiaro: consentire che il mondo del nonprofit si doti di strumenti trasparenti d’impresa senza snaturare la propria vocazione e, al contempo, senza avvertire il limite
dell’ine cienza dei propri strumenti in un’economia di mercato.
Al modello della cooperativa si a anca, non senza rischi di confusione, specie con le cooperative sociali, quello nuovo dell’impresa sociale: in definitiva il prevalente aspe o di demarcazione
tra le due figure si riduce all’ampliamento, ogge ivo e sogge ivo,
della nozione in sé di utilità sociale, “affrancata” dal solo servizio
alle persone svantaggiate.
Non mancano tu avia momenti di “chiarificazione” generale,
come, appunto, la prima sistematica definizione di public utility
e l’imposizione di formule di trasparenza, sin dalla denominazione, obbligatoria, di “impresa sociale”, che va rappresentata ai
terzi.
Pregevole è poi l’insieme di regole in tema di governance, che
presidiano all’effe iva democraticità, alla prevenzione di forme
di non discriminazione nell’ammissione ed esclusione dei soci,
e, sopra u o, in relazione agli obblighi di tenuta delle scri ure
contabili secondo il richiamo alla figura del bilancio sociale.
Adeguate paiono inoltre le norme che a engono al sistema dei
controlli interni, mentre sono qualificanti quelle che concernono
la partecipazione dei lavoratori alle decisioni dell’impresa sociale, almeno per quanto a iene alle condizioni di lavoro.
STASI
L’innovazione fondamentale avvenuta in questi ultimi anni nel
sistema delle imprese sociali è sopra u o legata alle idee di “costruire reti” e a quelle organizzative. Ambedue sono di primaria
importanza, poiché a engono sia al funzionamento interno sia
alla proiezione esterna. La rete induce l’organizzazione a costruire percorsi di senso insieme ad altri, a contaminare e lasciarsi
contaminare, a proge are il proprio sviluppo in relazione allo
sviluppo di altre organizzazioni ed imprese. La forma primaria
di costruzione di rete è quella consortile, che, contrariamente ad
INNOVAZIONE ED INNOVAZIONI DELL’IMPRESA SOCIALE
Fabio Marino
altri consorzi tra imprese, non ha scopo esclusivo di promuovere
risorse economiche, ma di solito svolge in modo primario altre
funzioni: promozione dell’immagine della cooperazione sociale,
elaborazione di strategia di welfare e di sviluppo delle comunità,
rappresentanza ai “tavoli” dove si tracciano le politiche territoriali, ecc.
L’impresa sociale diventa “nodo” di rete, punto di raccordo tra
varie variabili: altre imprese sociali, sviluppo dei territori e delle
comunità, capacità di interpretare fa ori locali in o iche più ampie, stru urare strategie di cambiamento e di sviluppo dell’intero
contesto.
2. LUCI ED OMBRE DELL’IMPRESA SOCIALE: SECONDO LA SUA VALUTAZIONE, QUALI NODI CRITICI E QUALI PUNTI DI FORZA SCANDISCONO IL PROCESSO OPERATIVO CHE SI ACCOMPAGNA
ALLA REALIZZAZIONE DI INTERVENTI INNOVATIVI DEL NONPROFIT?
ACOCELLA
Non possiamo limitare il nonprofit all’impresa sociale, viste le cara eristiche ed i se ori di intervento per essa stabiliti dalla legge
e dal d.lgs. Quindi il nonprofit è molto più ampio. Un elemento
che spesso lega i due conce i/forme organizzative è comunque il
sistema e le politiche del welfare. Quest’ultimo è uno dei nodi critici, in quanto la sua disomogeneità, organizzativa e qualitativa
sul territorio, inficia uno sviluppo omogeneo della stessa impresa
sociale che non è vero che si contestualizza, bensì “deve ada arsi
per sopravvivere” alle stranezze del contesto di riferimento. Altro
nodo critico è quanto appeal avrà l’impresa sociale in quanto tale,
senza far confusione con la cooperazione sociale tradizionale.
Uno dei punti di forza è il riconoscimento in sé, che ne definisce
una forma giuridica da cui partire, dove si parla di un’impresa
non votata all’utile, che sembrava l’unico metro di giudizio. L’altro punto di forza dovrebbe essere rappresentato dalle trasformazioni del sistema economico, che richiedono nuovi modelli
di intervento imprenditoriali. Naturalmente questo va riferito ai
soli se ori dove può operare l’impresa sociale. Ulteriore punto di
forza, dovrebbe essere, e qui si misurerà la capacità innovativa
degli imprenditori sociali, l’elemento partecipativo dei lavoratori. O l’impresa sociale diventa la realizzazione della democrazia
economica e partecipativa nel mondo del lavoro altrimenti rimane una so ocategoria dell’impresa padronale (uso appositamente
padronale).
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IMPRESA SOCIALE
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FORUM
MONDA
I nodi critici più rilevanti per l’impresa sociale, a mio giudizio, si
originano proprio nel progressivo allentamento del legame con i
territori e nel suo divenire sempre più impresa di servizi e sempre meno impresa sociale.
In verità le responsabilità di questo percorso involutivo vanno divise equamente con i sogge i pubblici che hanno posto non pochi
vincoli legislativi, burocratici e finanziari alla crescita equilibrata
nel solco dei valori originari dell’impresa sociale. Quando le piccole imprese sociali fortemente legate ai territori hanno dovuto misurarsi con il mercato e competere a raverso la partecipazione a bandi
di gara con altri sogge i cresciuti a dismisura solo per conquistare
quote crescenti di mercato con logiche meramente commerciali, o
hanno finito per snaturarsi o sono le eralmente scomparse.
D’altro canto bisogna dire chiaramente che in questo ultimo decennio abbiamo visto nascere e crescere tanti sogge i nonprofit
assolutamente privi di radicamento territoriale e/o di valori comunitari tesi esclusivamente allo sfru amento commerciale del
mercato sociale. E lo stesso dicasi di tante organizzazioni cooperative nate per associare e valorizzare le non poche esperienze
positive che pure i territori hanno liberamente espresso, che abbiamo visto trasformarsi, non saprei dire quanto consapevolmente, in meri appaltifici avulsi dai territori e meramente orientati ad
incrementare i volumi di fa urato.
Il rischio che vedo nell’evoluzione di questo percorso è l’assimilazione dell’impresa sociale all’impresa privata profit e il ritorno da
parte di molti enti locali alla gestione dire a (o mediante l’a damento dire o a sogge i pubblici di gestione) dei servizi sociali.
Non va trascurato, altresì, il peso crescente dei sogge i privati nel
nuovo mercato dei servizi che lentamente si sta definendo a seguito della legge 328/00, in particolare nell’area dei servizi sociosanitari.
Il mondo del nonprofit e della cooperazione sociale in particolare, può, ovviamente, ancora invertire questo percorso se riesce a
recuperare la sua originaria dimensione di agente comunitario di
cambiamento, dentro ai territori per dare soluzione ai problemi
delle persone e in particolare delle persone meno garantite e fuori dai territori, a raverso i suoi sogge i di rappresentanza, per
completare un quadro normativo fortemente carente sia per gli
aspe i legislativi che per quelli fiscali.
INNOVAZIONE ED INNOVAZIONI DELL’IMPRESA SOCIALE
Fabio Marino
SICA
Nel complesso i profili di innovazione non mancano.
In maniera specifica, di estremo rilievo mi sembra l’obie ivo (raggiunto) di “sdoganare” l’utilità sociale dal rigido collegamento
con i servizi alla persona, ampliando, ogge ivamente e sogge ivamente, l’idea in sé di utilità sociale.
I passi avanti fa i segnare dalla disciplina del 2006 sono significativi, ma i nodi critici sono ancora notevoli.
Il legislatore ha optato per la formalizzazione della nozione di
impresa sociale, lasciando intendere di non considerarla un novum genus di sogge o giuridico, quanto, specificamente, una modulazione peculiare di sogge i preesistenti.
La cara erizzazione in senso etico-sociale non elimina una serie
di problemi connessi alla contraddizione di fondo contenuta nella stessa dizione “impresa sociale”.
Si allude alla coesistenza tra il profilo del mercato e quello della
socialità dell’agire dell’impresa.
Per lungo tempo, questa contraddizione è parsa insanabile, all’insegna del modello secondo cui qui c’è il charitable aid, lì il business.
Oggi sono numerosi gli indizi del superamento di un simile contrasto.
Il mondo degli affari scopre forme - anche giuridiche - di “responsabilità sociale d’impresa”, e sempre più frequentemente si
allude all’“etica degli affari” come nuovo parametro dell’agire
corre o degli imprenditori.
Tra l’altro, ci si accorge che il comportamento eticamente corre o
conviene: si pensi al plus in termini di marketing che comportano
i vari “bollini ecologici”, le certificazioni di qualità dei prodo i e
così via.
Dal canto suo, il mondo del nonprofit fa i conti con la necessità di ripensare in chiave di mercato la propria a ività e nessuno
grida più allo scandalo se il criterio qualificativo della “impresa
socialmente ed eticamente” orientata venga rinvenuto nella non
distribution constraint principle.
La normativa italiana tenta di raccogliere tali segnali, ma non lo
fa fino in fondo.
È carente sul piano del nonprofit, perchè resta irrisolto il profilo
dell’accesso al credito dell’impresa sociale: è risaputo che il found
raising, specie se si è scelto di essere impresa, non può limitarsi
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IMPRESA SOCIALE
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all’appello alle pubbliche so oscrizioni; l’impresa sociale deve
poter accedere al finanziamento della propria a ività “commerciale” superando il muro, spesso insormontabile, del dife o di
asset patrimoniali di garanzia.
Tu o ciò resta colpevolmente fuori non tanto dalla disciplina del
2006 in sé - sarebbe stato impensabile che in quella sede si fosse
affrontato dire amente il tema - quanto dalla predisposizione di
un’organizzazione di rilevanza interna ed esterna dell’impresa
sociale a o ad aggirare gli ostacoli segnalati, che, tu avia, impongono pur sempre un ripensamento globale della “cultura bancaria” italiana e, più in generale del mondo finanziario, sganciato
dal patrimonio “che si tocca” e teso a valorizzare il patrimonio
immateriale delle idee, delle passioni, delle emozioni, che possono appunto trasformarsi in “impresa”.
STASI
Punti di forza: l’impresa sociale “abita” i territori e riconosce bisogni, processi, cambiamenti. Riesce quindi a programmare servizi
in grado di rispondere in tempo reale alle istanze territoriali.
Punti di debolezza: l’innovazione ha bisogno di risorse economiche slegate dai servizi e destinate alla sperimentazione. Risorse
purtroppo assenti! Ha bisogno di dimostrare scientificamente la
valenza e l’e cacia della sperimentazione, quindi di collegarsi
alle Università e ad altre istituzioni per monitorare i percorsi, ma
questi sono spesso lontani e “distra i”
3. IMPRESA
SOCIALE E SVILUPPO LOCALE: IN CHE MISURA (E SE!) L’IMPRESA SOCIALE, RI-
SPETTO ALLE REALTÀ TERRITORIALI A
LEI PIÙ PROSSIME, CONTRIBUISCE ALLA PROMOZIONE
O ALLA DIFFUSIONE DI PRATICHE E DI CULTURA DI SVILUPPO LOCALE?
ACOCELLA
Le cooperative sociali o i loro consorzi, perché solo di questo qui
si può parlare, per quello che fanno hanno un impa o dire o con
una fascia della popolazione bisognosa, non solo in termini economici. Questo fa sì che siano un importante strumento di coesione sociale, che molte volte sta alla base di processi virtuosi di
sviluppo locale. Certamente però esse rappresentano un tassello
del tu o, che vede diversi sogge i responsabili.
Le cooperative sociali che lavorano continuativamente, rappresentano, per la loro capacità economica ed organizzativa, spesso
i sogge i di riferimento per il mondo del terzo se ore in occasio-
INNOVAZIONE ED INNOVAZIONI DELL’IMPRESA SOCIALE
Fabio Marino
ne dell’organizzazione di eventi o altre iniziative, che sono anche
sponsorizzate dalle stesse cooperative o dai consorzi sociali. Questo fa sì che anche per questa via rappresentino un momento di
coagulo e di promozione di processi di sviluppo locale.
Nelle realtà medio piccole le cooperative sociali inoltre alcune volte
rappresentano quasi le più grandi imprese private in termini di occupazione. Vista la dimensione dell’imprenditoria privata in Italia,
una cooperativa sociale con 20-30 o più soci lavoratori, a cui vanno
qualche volta aggiunti dei dipendenti, in realtà anche di 30-40.000
abitanti, rappresentano dimensioni di imprese notevoli per il panorama italiano. Questo elemento spesso non viene evidenziato
come meriterebbe, oppure rischia di essere solo interpretato in
chiave “ele oralistica” locale. Il numero di lavoratori rapportato al
contesto locale può avere un grosso impa o anche economico sullo
sviluppo locale. Se poi si parla di consorzi o di grandi cooperative
si raggiungono facilmente i 200-300 lavoratori.
In sintesi, le cooperative sociali spesso favoriscono la coesione
sociale, il coagulo fra realtà del terzo se ore e, con la loro dimensione occupazionale, possono avere anche un forte impa o economico sul territorio per effe o della distribuzione di reddito che
fanno.
MONDA
Per rispondere a questa domanda bisogna intendersi sul significato del termine “sviluppo” e in particolare dei termini “sviluppo
locale”.
Sicuramente quando parliamo di sviluppo intendiamo non solo
un percorso di crescita economica, ma anche di forte cambiamento
delle condizioni sociali, culturali e ambientali dei territori e delle
popolazioni che li abitano. Parliamo, cioè, di processi integrati di
crescita delle condizioni di benessere della popolazione. Ma per
realizzare in modo e cace percorsi di sviluppo locale orientati al
benessere delle persone e non alla mera crescita economica diventa essenziale la partecipazione a iva dei sogge i della comunità
locale al fine di realizzare larghi processi identitari di governance.
Siamo tu i consapevoli che le politiche economiche hanno come
obie ivo prioritario lo sviluppo delle a ività produ ive e la creazione di valore economico e rispondono perciò a proprie regole
di funzionamento interno, ma siamo anche convinti che la mera
crescita economica produce sovente gravi squilibri ambientali e sociali e spesso accentua invece di ridurre le disuguaglianze sociali.
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IMPRESA SOCIALE
aprile ~ giugno 2008
FORUM
Le politiche sociali e la partecipazione a iva dei sogge i della comunità locale ai percorsi di governance possono svolgere la
funzione di regolatori dello sviluppo riducendo drasticamente
gli squilibri e le disuguaglianze da esso prodo e e nel contempo
possono concorrere ad accelerare e a rendere costante nel tempo
la crescita economica assicurando la presenza dei servizi necessari per la produzione, la riproduzione e la crescita qualitativa del
capitale umano e sociale fondamentale per la crescita e il funzionamento delle unità produ ive.
L’impresa sociale nella misura in cui saprà recuperare la sua prioritaria funzione di sogge o promotore di “agire comunitario” e
di tessitore di reticolarità verticali e orizzontali, per promuovere processi economici orientati alla soluzione dei problemi delle persone a maggior rischio di esclusione sociale, rappresenta
sicuramente uno dei maggiori produ ori di “capitale sociale” e
quindi un sogge o protagonista dello “sviluppo locale”.
SICA
Il rapporto tra imprese sociali e realtà territoriali è stato e sarà
sempre intensissimo; non va infa i dimenticato che il terzo settore e le autonomie locali hanno condiviso molto cammino e talune parole chiave - fra tu e, sussidiarietà - possono ben essere
usate rispe o all’uno ed all’altro ambito. La matrice dell’impresa
sociale va inoltre comunque scorta nell’art. 2 della Costituzione,
nel richiamo, cioè, al personalismo solidale, e nell’art. 3, ovvero
all’impegno della Repubblica di rimuovere gli ostacoli che impediscono il libero sviluppo della persona umana.
Anzi proprio una le ura malintesa di tale ultima disposizione,
con la sostituzione, di fa o, di “Repubblica” con “Stato”, ha determinato i cinquat’anni di fallimento di molta parte di welfare,
nella deriva peggiore di “pubblica” assistenza. Proprio come le
autonomie locali nella loro marcia verso il federalismo, il mondo
del nonprofit ha faticato ad affermare l’idea che esiste una dimensione che è “altro” dal privato e dal pubblico e si qualifica come
privato sociale.
Non v’è dubbio quindi che le imprese sociali, nella loro connessione “genetica” con le realtà locali - non a caso di solito esse sono
organizzate su base nazionale in forma federativa - possono contribuire alla diffusione di pratiche di cultura e di sviluppo locale.
Ma non va azzerata la valenza, lessicale e giuridica, del sostantivo
“impresa”: la qualifica sociale deve essere il canale di creazione
INNOVAZIONE ED INNOVAZIONI DELL’IMPRESA SOCIALE
Fabio Marino
di un paradigma virtuoso - per organizzazione, “sentimento” sociale, ambiti di intervento - per le realtà locali; e, nondimeno, se
acce ano la sfida del mercato, le imprese sociali devono essere in
grado di vincerla senza “scorciatoie” né giuridiche, né, in senso
lato, politiche, né di altra natura.
È la parte più di cile, e per questo, forse, più esaltante del percorso dell’impresa sociale dall’emersione della relativa nozione
sino alla sua consacrazione normativa. Trado o in termini esemplificativi, tanto equivale a sostenere che la dura, ma inevitabile
legge della concorrenza - in sede di appalti, di offerta di prodo i,
ecc. - non può consentire deroghe per il solo fa o che l’impresa
sia “sociale”.
STASI
Ritengo che l’impresa sociale abbia il compito di stimolare culture di sviluppo locale. Ritengo che sia oggi l’unica realtà in grado
di agire e cacemente il cambiamento proprio perché “abita” i
territori e non li considera semplicemente “territori di conquista”.
Proprio per questo suo abitare è in grado di coglierne criticità, rilanciare innovazione e cultura di sviluppo. Questa almeno è l’ottica delle cooperative che vivono la mia rete consortile.
4. OPPORTUNITÀ E SFIDE: SULLA SCORTA DEI SUOI PERSONALI CONVINCIMENTI, QUALE SFIDA LANCEREBBE ALL’IMPRESA SOCIALE NELL’OTTICA DELLE REALI OPPORTUNITÀ DA CONCRETARE?
ACOCELLA
Riprendendo alcuni argomenti dei punti precedenti si possono
elencare alcuni elementi che possono simbolicamente essere rappresentati come sfide.
La “democrazia economica”: se il d.lgs. sull’impresa sociale sottolinea, anche se in modo blando, la partecipazione dei lavoratori
all’art. 12, questa è una cara eristica che dovrebbe diventare centrale nell’impresa sociale. La differenza con l’impresa tradizionale deve misurarsi in particolare sul livello di coinvolgimento reale
dei propri lavoratori. Non avrebbe senso e futuro un’impresa sociale che di sociale ha solo il logo e la denominazione esterna, ma
che all’interno è omogenea ad altre imprese di capitale. Tale elemento dovrebbe essere ancor più valorizzato nelle imprese sociali che assumono forme organizzative cooperative e/o associative.
Collegato per molte ragioni alla democrazia economica vi è
l’aspe o che potremmo sintetizzare in “dimensione/partecipa-
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IMPRESA SOCIALE
aprile ~ giugno 2008
FORUM
zione”. Un’impresa sociale di dimensioni grandi o con una base
sociale sterminata va da sè che rischia di far venir meno la reale
partecipazione dei lavoratori, come un elemento discriminante.
Riscoprire il ruolo della non distribuzione degli utili. Questo elemento non può essere solo visto come se l’obie ivo gestionale
delle imprese sociali sia quello del pareggio. Questo deve essere
invece il volano del proprio sviluppo. L’impa o di questo vincolo
va rile o in positivo nei processi gestionali interni.
Riscoprire/mantenere/rinsaldare il legame con i sogge i del terzo
se ore. L’impresa sociale, come la cooperazione sociale, rappresenta probabilmente lo sviluppo logico giuridico, ma anche socioeconomico, del processo iniziato con la razionalizzazione (?) normativa del terzo se ore e del sistema dell’economia sociale. Quindi
pensare o pensarsi impresa sociale separatamente da tu i gli altri
sogge i del terzo se ore avrebbe effe i deleteri. Vi è invece la necessità, ed in tal senso rappresenta una sfida, di fortificare l’insieme
dei legami tra tu i i sogge i di questo mondo così articolato.
MONDA
L’impresa sociale nasce da grandi idealità di partecipazione a iva,
di democrazia economica e di responsabilità civile e comunitaria
sempre fortemente radicate in concrete a ività di trasformazione
di contesti locali a tutela dei diri i dei più deboli.
Essa deve riprendere il suo percorso di sviluppo recuperando in
pieno questi valori originari liberandosi delle tante, forse troppe,
tentazioni di crescita in funzione della mera crescita del fa urato. L’azione economica serve all’impresa sociale per recuperare
le risorse per dare forza alla sua azione di cambiamento e non
viceversa.
La sfida dell’innovatività, sia nella dimensione interna che in
quella esterna, deve tendere a questo fine e non a trasformare
l’impresa sociale in un’impresa tout court. Ovviamente per dare
corpo e gambe a questo processo l’impresa sociale da sola non
basta, servirà un ruolo a ivo dei sogge i pubblici locali e della
legislazione nazionale e regionale e adeguate e mirate strategie
di sostegno finanziario. Molte cose sono già in a o e molte altre
bisognerà avviare.
SICA
La risposta è ampiamente contenuta in quanto sviluppato in precedenza. È probabilmente soltanto possibile aggiungere che l’impresa sociale costituisce la fase più matura, allo stato, della cultu-
INNOVAZIONE ED INNOVAZIONI DELL’IMPRESA SOCIALE
Fabio Marino
ra del terzo se ore. Dal volontariato al fare “impresa eticamente
orientata” il passo non è stato breve, ma è pur vero che non è stata
colmata soltanto una distanza fisica: nello spazio intermedio c’è
l’incremento della professionalità del “volontario”, la coesistenza
dei volontari con i dipendenti, la creazione delle cooperative sociali e oggi, appunto, delle imprese sociali.
La sfida del futuro è essere impresa “differente” eppure sogge o
di mercato a pieno titolo; per vincerla occorrono ulteriori modifiche legislative; va, ad esempio, a enuato il disfavore verso la
partecipazione societaria incrociata di imprese commerciali tout
court e imprese sociali. È tu avia più urgente intervenire sul piano della cultura d’impresa, sul versante della riformulazione del
rapporto tra credito ed impresa.
In altre parole molte delle ba aglie dell’impresa sociale potranno
essere condivise con il mondo for-profit; la vera sfida sarà allora
proprio questa: confrontarsi senza contaminarsi. E magari arriverà il tempo di una società per azioni, che chiederà temporaneamente la qualifica di impresa sociale in relazione ad un periodo stabilito in cui potrà (e vorrà) acce are le regole del gioco
del nonprofit, come impegnare eventuali utili per finalità sociali o
so oporsi ad una più stringente disciplina dei controlli interni in
funzione di trasparenza verso i terzi. Questo sarebbe il momento
di compimento della parabola del terzo se ore e del suo seme
“profetico” all’interno della società.
STASI
Oltre i miei convincimenti, ho vissuto da vicino le sfide importanti e forti che il Consorzio CGM ha lanciato nell’ultimo biennio,
che riguardano essenzialmente due dire rici.
A livello organizzativo:
- collocazione delle a ività più marcatamente imprenditoriali
in un gruppo cooperativo paritetico, di cui CGM resta capofila, composto da società di prodo o che riguardano i principali
ambiti di intervento della cooperazione sociale (educazione,
a ività di cura, ambiente e turismo sostenibile, inclusione sociale, ecc.);
- consolidamento dell’azione di governance della rete consortile
a raverso la promozione di stru ure intermedie (regionali,
geocomunitarie, commissione di garanzia su accessi e recessi
dei soci, ecc.);
- promozione di un marchio comune della rete (welfare Italia).
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IMPRESA SOCIALE
aprile ~ giugno 2008
FORUM
Sul piano dei consorzi territoriali:
- ampliamento della base sociale non solo ad agenzie di terzo
se ore, ma a tu e le realtà presenti sul territorio trasformando
così consorzi e cooperative da imprese sociali ad imprese di
comunità;
- condivisione di elementi strategici comuni grazie all’elaborazione e diffusione di documenti scri i a molte mani riguardanti mission, eticità, modalità di azione imprenditoriale, ecc.
Dopo la fase solidaristica e mutualistica l’impresa sociale oggi si
trova ad affrontare la sfida del divenire agente di sviluppo della
comunità e dei territori in cui “abita”, ponendosi come motore di
sviluppo delle culture a raverso processi di costruzione di reti
di senso, ci adinanza a iva, proge azione partecipata, azioni di
imprenditoria sociale che coinvolgano come protagonisti ogni
singola realtà presente sul territorio.
L’impresa sociale in Italia
COOPERATIVE SOCIALI ED EMPOWERMENT
Vanna Gonzales
Cooperative sociali ed empowerment:
una valutazione del valore aggiunto
per il cittadino-consumatore
Vanna Gonzales
Sommario
1. Introduzione - 2. Il quadro analitico di riferimento: imprese sociali, inclusione sociale, empowerment - 3. Imprese sociali ed empowerment: un modello empirico - 4. Una valutazione
dell’empowerment tra le cooperative sociali in Lombardia e in Emilia Romagna - 5. Come
spiegare la performance delle cooperative sociali: il ruolo cruciale della governance - 6. In
prospe iva: le possibili strategie verso un maggiore empowerment
1. Introduzione
Intorno alla metà degli anni novanta, la Commissione europea ha
messo il terzo se ore al centro delle sue iniziative per rafforzare i regimi di welfare nazionale in Europa. Nel 1997, la Commissione ha infa i dichiarato che lo sviluppo delle nonprofit, nell’ambito dell’economia sociale, sarebbe stato cruciale non solo per dare vita a servizi
innovativi e di qualità professionale, ma anche per contribuire direttamente alle nuove politiche sociali (European Commission, 1997).
In un documento successivo, la Commissione ha messo inoltre in
risalto il contributo di queste organizzazioni alla promozione della
coesione sociale, dell’inclusione e della democrazia (Kinnock, Prodi,
2000). Questo orientamento, combinato con l’affermazione diffusa
dei principi della flessibilità e della responsabilità sociale nella pub-
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IMPRESA SOCIALE
aprile ~ giugno 2008
blica amministrazione, si è recentemente trado o in un proge o di
sostanziale trasformazione delle imprese sociali.
A fronte della generale tendenza, da parte dei governi nazionali, a
produrre nuove leggi che definiscano il profilo normativo dell’impresa sociale, è sorprendente la relativa mancanza di informazioni
in merito agli aspe i sociali di queste organizzazioni. Nonostante i
frequenti - e vaghi - riferimenti al valore aggiunto che esse produrrebbero, le ricerche empiriche sulle imprese sociali ne hanno tra ato in modo quasi esclusivo le proprietà economiche e manageriali.
Una simile impostazione, a fronte dei sospe i che si faccia appello
alle imprese sociali in modo strumentale, per creare “[...] un clima
politico, sociale e intelle uale a favore a un cambiamento su vasta
scala”, ha alimentato notevole sce icismo intorno alla loro legi imità. È anche per questo che, negli ultimi anni, si è dedicata maggiore
a enzione ai modi in cui le imprese sociali influenzano la formazione e l’accumulazione di capitale sociale (Evers, 2001; Svendsen,
Svendsen, 2005; Gonzales, 2006). Disponiamo, nondimeno, di informazioni ancora carenti - sia sul piano dell’elaborazione teorica,
sia su quello della ricerca empirica - per quanto riguarda gli effe i
sortiti dalle imprese sociali sui beneficiari dei loro servizi, e in modo
particolare sui singoli utenti.
Questo articolo è specificamente dedicato al potenziale valore aggiunto delle imprese sociali, come facilitatori di empowerment per i
loro utenti, nel contesto italiano. Centrare l’analisi, e prima ancora
l’elaborazione teorica, sull’empowerment degli utenti è un’opzione
rilevante, per più di una ragione. In primo luogo, fa ori nuovi o
meno nuovi come il sovraccarico delle funzioni dello Stato, la globalizzazione e la crescente frammentazione sociale e politica hanno
indo o una diffusa “ricalibratura” dei sistemi nazionali di welfare
europei (Ferrera, Hemerijck, 2003). In Italia, questo processo è culminato nel 2000, con una significativa riorganizzazione del sistema
dell’assistenza sociale, sancita dalla legge 328/00. Ne è derivato, per
quanto riguarda il terzo se ore, un notevole incremento degli spazi d’intervento nella produzione, nella gestione, nell’erogazione di
servizi sociali; una legi imazione del suo ruolo di partner della programmazione e dello sviluppo delle politiche; nonché, più in generale, l’introduzione di un comune orientamento nazionale volto a
consolidare i mercati sociali. Guidata da criteri come la flessibilità,
l’e cienza e la sostenibilità dei costi, l’apertura al mercato dei servizi
sociali ha alimentato considerevoli preoccupazioni sui suoi possibili
COOPERATIVE SOCIALI ED EMPOWERMENT
Vanna Gonzales
effe i negativi per varie fasce della popolazione, e in particolare per
le sue componenti più povere e vulnerabili.
Un secondo fa ore che spiega l’esigenza di analizzare meglio l’empowerment degli utenti è l’enfasi diffusa sulla partecipazione, quale
discrimine - anche so o il profilo giuridico - tra l’impresa sociale e le
altre forme organizzative di terzo se ore in Italia. Pur occupandosi
principalmente di produrre ed erogare servizi alla persona - dall’assistenza sociale alla formazione lavorativa -, le imprese sociali sono
contraddistinte da uno specifico modello manageriale, da una struttura interna di tipo democratico, dalla potenzialità di agire come intermediari tra le diverse componenti della comunità locale (Borzaga,
Defourny, 2001; Evers, Laville, 2004). Sino a tempi recenti, però, non
esisteva alcun inquadramento giuridico dedicato in modo specifico a queste organizzazioni. La situazione è cambiata con la recente
promulgazione della legge 118/2005, completata dal decreto legislativo 155/2006. Per introdurre un contrappeso all’apertura dei servizi
sociali alla contra azione, e per rendere il contesto economico più
favorevole allo sviluppo di queste imprese, la nuova normativa individua dei criteri di “beneficio sociale” che richiedono una specifica
a enzione agli utenti. Oltre e prevedere una particolare stru ura regolativa, fondata su specifiche forme di rendicontazione (come l’istituzione di bilanci sociali), la normativa obbliga le imprese sociali a
farsi carico della partecipazione stru urale dei lavoratori, così come
degli utenti. Oltre ad enfatizzare la responsabilità sociale verso gli
utenti, e a definire in termini generici - delegandone l’implementazione a future politiche mirate - la produzione di “beni sociali”,
l’istituzione di questo ampio quadro normativo ha permesso di rilanciare il diba ito pubblico circa la natura e le finalità dell’impegno
delle imprese sociali a favore degli utenti; intendendo questi ultimi
non soltanto come clienti, ma anche come stakeholder, nella più ampia cornice della società civile.
Un terzo fa ore, che spiega la crescente a enzione all’empowerment
degli utenti, ha a che fare con la nuova consapevolezza - nel discorso
pubblico - dei cambiamenti in corso nei bisogni sociali, che sollecitano iniziative più e caci nella direzione della ci adinanza a iva
e dell’inclusione sociale. Se la natura “ibrida” delle imprese sociali
ne esalta il ruolo di primo piano nella lo a contro l’esclusione sociale - tra andosi di organizzazioni che possono coniugare obie ivi
economici e finalità sociali (Evers, Laville, 2004; Gonzales, 2006) -,
il fa o che tali imprese si siano sviluppate in parallelo ad un trend
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IMPRESA SOCIALE
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di declino del tradizionale investimento pubblico nei servizi sociali, le rende ogge o di molte critiche. Pesa, in particolare, l’idea che
esse abbiano contribuito a dare vita ad un “welfare mix disorganizzato”, che sancirebbe il declino dell’impegno pubblico per l’equità e
la solidarietà, e quindi avrebbe effe i sostanzialmente negativi sul
benessere dei ci adini (Bode, 2006; Ferraro, 2003). Dal diba ito sui
cambiamenti in corso nel rapporto fra Stato, mercato e società, anche
in termini dei nuovi rischi sociali che ne derivano, scaturisce l’esigenza di elaborazioni teoriche più sofisticate, rispe o sia alle capacità organizzative delle imprese sociali, sia ai benefici sociali che esse
producono; intesi, questi ultimi, non soltanto in relazione ai singoli
utenti, ma anche per gruppi di ci adini molto più ampi.
Alla luce di questo scenario, l’articolo si propone come contributo innovativo alla le eratura sulle imprese sociali, a raverso qua ro passaggi conce uali. In primo luogo, delineerò un quadro conce uale
utile all’analisi dell’empowerment degli utenti, da parte di imprese
sociali che partecipano alla produzione di servizi finalizzati a migliorare la qualità della vita dei ci adini più emarginati. In secondo
luogo, proporrò un modello empirico che crei un raccordo tra due
funzioni essenziali delle imprese sociali - la produzione sociale e la
mobilitazione sociale -, e due forme di empowerment fondamentali
per la lo a contro l’esclusione sociale: l’empowerment dei consumatori e l’empowerment civico. Presenterò quindi i risultati di un’analisi
delle cooperative sociali italiane in due regioni, Lombardia ed Emilia Romagna. A ingendo ad una survey condo a nel 2001, tramite
cui ho raccolto dati su oltre 140 organizzazioni (cooperative sociali
di tipo A e loro consorzi ed associazioni di appartenenza), descriverò una serie di dati rilevanti sull’empowerment degli utenti; discuterò
i fa ori che pesano di più, rispe o alla capacità delle cooperative sociali di generare empowerment; da ultimo, dato il contributo relativamente modesto dimostrato dalle organizzazioni studiate, delineerò
alcune possibili indicazioni per migliorare, in futuro, la “capacità di
empowerment” in capo alle cooperative sociali.1
La legislazione sull’impresa sociale (l. 118/2005, integrata dal d.lgs. 155/2006) sancisce l’ingresso in un nuovo e comune quadro normativo di forme giuridiche diverse, prima normate
in funzione di leggi distinte. Il risultato è che le cooperative sociali - che fino ad allora erano
sostanzialmente sinonimo della versione italiana dell’impresa sociale -, per effetto della nuova
legge non sono che un esempio di un fenomeno molto più vasto. Questo solleva delle ovvie
difficoltà, laddove si cerchi di generalizzare determinate loro caratteristiche al profilo dell’impresa sociale tout court. La scelta di studiare solo questo modello organizzativo, nondimeno,
è derivata dal suo ruolo chiave nel settore dei servizi sociali a favore di soggetti emarginati:
un settore in cui le cooperative sociali vantano una storia e un’esperienza consolidata. Dei
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COOPERATIVE SOCIALI ED EMPOWERMENT
Vanna Gonzales
2. Il quadro analitico di riferimento: imprese sociali,
inclusione sociale, empowerment
Se la le eratura economica collega spesso lo sviluppo delle imprese
sociali all’esternalizzazione dei servizi alla persona, e quindi ad una
strategia di contracting-out della pubblica amministrazione (Carra,
2006), in chiave sociologica queste organizzazioni si prestano ad essere analizzate in una prospe iva diversa: quella della transizione
storica dallo Stato del welfare alle reti del welfare (Gonzales, 2007).
Per effe o della globalizzazione e del passaggio all’economia postindustriale, nonché dei mutamenti in ambito tecnologico e demografico, l’infrastru ura produ iva delle economie nazionali è a sua
volta mutata; la stessa percezione dei bisogni sociali è condizionata
da valori, identità, orientamenti ideologici diversi da quelli del passato. Per effe o di questa duplice transizione, il ruolo dello Stato quale infrastru ura che governa i sistemi nazionali di welfare sociale
- si è trovato notevolmente indebolito (Jessop, 1994; Giddens, 1998;
Gilbert, 2004). Sono andati sbiadendo, di conseguenza, i confini tra
Stato, società ed economia. Si sono così creati gli spazi e le condizioni per lo sviluppo di reti sempre più complesse di a ori del welfare,
comprese le imprese sociali (Evers, 1995; Evers, 2004). Grazie alla
capacità di coniugare funzioni sociali, economiche e culturali, tipicamente legate a categorie organizzative distinte tra loro (quali mutue,
imprese private ed associazioni), le imprese sociali, con la loro natura ibrida, rappresentano un’istituzione sociale del tu o peculiare,
in grado di ada arsi - in un senso quasi darwiniano - al mutamento
accelerato dell’ambiente in cui si trovano.
Se il contributo delle imprese sociali ad una nuova “economia degli
stakeholder”, nel senso indicato poc’anzi, è stato molto diba uto, non
altre anto si può dire di un’altra loro cara eristica: la capacità di coordinare nuove reti sociali in grado di alleviare una delle ricadute negative dell’apertura del welfare al mercato, ossia lo sviluppo di modelli di
intervento più burocratici ed autoritari, che non aumentano in nulla
la dignità, la responsabilità o i diri i di ci adinanza dei beneficiari
dei servizi (Ferraro, 2003). Ora, analizzare il contributo delle imprese
sociali alla lo a contro l’esclusione sociale serve a valutare fino a che
punto esse sappiano controbilanciare gli effe i negativi dell’erosione
due tipi di cooperative sociali, le A sono quelle che si occupano più direttamente di assistenza
sociale. Per approfondire meglio il tema degli utenti più emarginati, la mia analisi si è quindi
limitata alle cooperative di tipo A, escludendo quelle che risultavano occuparsi esclusivamente
di assistenza all’infanzia, o di assistenza domiciliare agli anziani.
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IMPRESA SOCIALE
aprile ~ giugno 2008
della protezione sociale e della “mercificazione” del welfare; si tra a
di un passaggio fondamentale per comprendere il “valore sociale aggiunto” di queste imprese, al ne o dei servizi erogati.
D’altra parte, se si intende l’emarginazione sociale come forma di
alienazione, che rende le persone incapaci di rivendicare una piena
partecipazione alla società, è più facile avvicinarsi alle condizioni di
vita quotidiana delle componenti più marginali della società stessa. In un contesto come quello del welfare italiano, di impianto tradizionalmente residuale e sele ivo (Ferrera, 1996; Fargion, 1998), i
beneficiari dei servizi sociali appaiono sempre più estraniati - o, per
l’appunto, “alienati” - dalle istituzioni sociali, economiche e culturali
che li circondano. Se questo è vero, la visione convenzionale dell’inclusione sociale - in termini di coesione sociale - è del tu o ridu iva,
poiché non tiene conto della rilevanza delle disuguaglianze e delle differenze di status insite nella stru ura sociale, che separano gli
utenti più emarginati dalla generalità dei ci adini. A ben vedere, le
iniziative di contrasto all’“atomizzazione” e all’alienazione di questi
individui, che si basino soltanto sulla promozione del loro capitale sociale, tendono sovente a promuovere - anziché rime ere in discussione - le gerarchie e le disuguaglianze tradizionali; si punisce la
“devianza”, e si punta ad un orizzonte di stabilità sociale, anziché di
cambiamento. Dal punto di vista degli utenti più emarginati, l’inclusione sociale ha maggiori probabilità di successo se passa per l’empowerment, inteso come facilitazione dello sviluppo di competenze
o di capacità - a favore di individui, o di gruppi di individui - che li
me ano nelle condizioni di superare le barriere alla realizzazione di
sé, e quindi all’azione sociale.
Le imprese sociali, da istituzioni che si occupano principalmente di
servizi, possono ado are due principali strategie per promuovere
l’empowerment degli utenti: il loro empowerment come consumatori, e
in qualità di ci adini tout court. L’empowerment dei consumatori è legato alla funzione di “produzione sociale” che è propria delle imprese
sociali. Si tra a di saper promuovere l’autonomia personale e le competenze individuali degli utenti, intervenendo sugli ostacoli di tipo
informativo ed istituzionale che limitano la loro inclusione sociale.
Nel contesto dello sviluppo dei mercati sociali - intesi come processo
tramite cui gli amministratori locali acquistano e/o finanziano servizi
dagli enti privati (for-profit o nonprofit) che li organizzano, li gestiscono e li erogano - esiste un diba ito vivace in merito alle implicazioni
di questo nuovo asse o organizzativo per i consumatori-ci adini. Al-
COOPERATIVE SOCIALI ED EMPOWERMENT
Vanna Gonzales
cuni commentatori evidenziano il potenziale contributo dei mercati
sociali alla diversificazione dei servizi, e quindi alla loro adeguatezza
per un ventaglio di bisogni sempre più composito (in termini culturali, sociali ed economici) (Savas, 1987; Le Grand, Bartle , 1993). Altri
sostengono che l’introduzione dei meccanismi di mercato sarebbe incompatibile con l’orientamento delle politiche pubbliche a promuovere i diri i di ci adinanza e a garantire la mission sociale dei servizi; ne
deriverebbe una crescente stigmatizzazione degli utenti, nonché un
ulteriore indebolimento di reti di protezione sociale già di per sé piuttosto lasche (Ferraro, 2003; Graefe, 2005; Bode, 2006). Ora, gli specifici
effe i dei mercati sociali sui consumatori sono stre amente legati alle
condizioni stru urali e culturali in cui si costruiscono i mercati sociali,
nonché ai regimi di regolazione entro cui si muovono gli a ori sociali
ed economici (Bifulco, Vitale, 2004; Fazzi, 2006). Questi fa ori di governance sono mediati, tu avia, da molteplici processi sociali ed organizzativi, di cui occorre tenere conto per comprendere l’empowerment
dei consumatori. C’è chi sostiene che l’esperienza della cooperazione
sociale abbia chiaramente mostrato che queste imprese possono sostanzialmente modificare l’offerta di servizi di welfare, a tu o vantaggio dei ci adini (Borzaga, Scalvini, 2006, p. 18). Occorre riconoscere,
però, che le imprese sociali si rivolgono a tanti ci adini diversi, molti
dei quali emarginati rispe o alla comunità in cui vivono.2 Un cruciale elemento di potenziale valore aggiunto, per le imprese sociali che
si occupano di assistenza, sta quindi nella loro capacità di orientare
la produzione dei servizi, nella direzione di promuovere l’autonomia
personale dei ci adini emarginati, così come la loro capacità di fare da
consumatori a ivi.
Il secondo meccanismo per promuovere l’empowerment degli utenti
ha a che fare con la funzione di “mobilitazione sociale” che è propria
delle imprese sociali. Se la dimensione della “produzione sociale”
riguarda il lato dell’offerta dei servizi, e la capacità di promuovere
l’empowerment degli utenti in quanto consumatori, la “mobilitazione sociale” ha a che fare con la loro capacità di ristru urare la domanda, nelle reti dei servizi di welfare, promuovendo l’empowerment
colle ivo degli utenti, in quanto ci adini svantaggiati. In quest’otÈ anche importante ricordare che l’effetto benefico della loro azione, nei confronti degli utenti
più emarginati, può convivere con un più ampio processo di indebolimento dei diritti di cittadinanza, che priva gli utenti stessi di opportunità alternative - e forse ancora più promettenti per rafforzare l’inclusione sociale. Se quindi la dinamica interna della contrattazione dei servizi
può avere indubbi effetti benefici per i consumatori-cittadini, è importante guardare anche al
sistema della contrattazione in sé, come possibile fonte di emarginazione su più ampia scala.
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IMPRESA SOCIALE
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tica, l’empowerment civico designa la capacità di promuovere, negli
utenti, un a eggiamento critico verso le norme e le regole non scri e
che fanno percepire ingiustizie e iniquità come un “fa o” ovvio e
naturale. Stiamo parlando, in altre parole, della capacità delle imprese sociali di superare le maggiori barriere culturali e psicologiche
all’inclusione sociale di queste persone: la stigmatizzazione, l’alienazione, la bassa autostima. Se si rilegge in questi termini il contributo delle imprese sociali all’inclusione sociale - alla luce della
loro capacità di mobilitare fasce di popolazione sovente escluse, o
isolate in un contesto di welfare che le stigmatizza - si può parlare di
“empowerment civico” per indicare la capacità delle imprese sociali
di catalizzare l’opposizione all’alienazione dei beneficiari del welfare
rispe o alla comunità più ampia, facendo leva sulla loro comune
insoddisfazione, o facilitando l’impegno civico e politico dei gruppi
sociali più vulnerabili.
FIGURA 1 - DIAGRAMMA CONCETTUALE DELLA CAPACITÀ DELLE IMPRESE SOCIALI DI PROMUOVERE
INCLUSIONE SOCIALE
Se combiniamo entrambe le dimensioni - produzione sociale e mobilitazione sociale - entro un unico quadro conce uale, potremo tenere
conto sia degli aspe i più superficiali dell’empowerment (quelli legati
al potenziamento del ruolo di consumatore), sia di quelli più profondi (orientati al ruolo del ci adino in quanto tale), facendo sempre riferimento al benessere delle componenti più vulnerabili della
società. Giacché queste forme di empowerment vengono solitamente
COOPERATIVE SOCIALI ED EMPOWERMENT
Vanna Gonzales
tra ate come paradigmi distinti, questa visione del valore “sociale”
aggiunto delle imprese sociali aiuta ad approfondire il diba ito sulla
capacità delle imprese sociali di agire a favore di un cambiamento
positivo, entro i confini dei nuovi mercati sociali. Una volta collocate
le imprese sociali nel campo conce uale definito dal loro contributo
all’inclusione sociale, mi accingo a descrivere il modello empirico
a raverso cui ho esplorato l’effe ivo raccordo tra le loro capacità
organizzative e l’empowerment degli utenti.
3. Imprese sociali ed empowerment: un modello empirico
Come si è visto, è importante valutare sia la dimensione della produzione sociale sia quella della mobilitazione sociale, al fine di comprendere più a fondo le potenzialità innovative delle imprese sociali;
per meglio analizzare, in altre parole, il loro contributo alla ridefinizione del paradigma dominante del “mercato dei servizi” (Osborne,
1998), nel senso di me ere in risalto la creazione di reti di welfare più
inclusive. Nello schema della figura 2, l’asse delle X corrisponde alla
funzione di produzione sociale, e quindi alla capacità delle imprese
sociali di promuovere l’empowerment dei consumatori. L’asse delle
Y rappresenta invece la mobilitazione sociale, ossia la capacità di
queste imprese di produrre empowerment civico. La prima variabile
(asse X) si può intendere come un continuum tra l’estremo della “conservazione” - che rimanda al mantenimento dello status quo, o del
modello tradizionale di erogazione dei servizi sociali in Italia (contraddistinto da una scarsa visibilità degli utenti e da un’alta standardizzazione dei servizi) - e l’estremo opposto della “trasformazione”,
che descrive livelli elevati di diversificazione e di personalizzazione
dei servizi, ciò che ne accresce le potenzialità sul piano dell’inclusione sociale. La seconda variabile (asse Y) spazia invece tra il polo
dell’ada amento - che vede l’impresa sociale operare in continuità
con lo status quo, rispecchiandone le iniquità stru urali e istituzionali - e il polo della “mobilitazione”, che si traduce in livelli elevati di
partecipazione degli utenti, e di advocacy a loro favore (processi che
dovrebbero facilitare la loro inclusione sociale). Combinando le due
dimensioni, è possibile me ere a fuoco qua ro modelli distinti, per
quanto riguarda le opportunità di promuovere l’inclusione sociale:
• le istituzioni “tradizionali” (Quadrante I) raccolgono punteggi
modesti rispe o ad ambedue le dimensioni considerate: produzione e mobilitazione sociale. Ne deriva una scarsa capacità di
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IMPRESA SOCIALE
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promuovere l’una o l’altra forma di empowerment. Le imprese
sociali riconducibili a questa fa ispecie tendono a riprodurre il
modello di protezione sociale tradizionale, caritativo, tipico di
tante organizzazioni di volontariato;
• le istituzioni “solidaristiche” (Quadrante II) hanno dalla loro una
buona capacità di empowerment civico, ma non sono altre anto
e caci sul piano dell’empowerment dei consumatori. Grazie al
sostegno offerto agli utenti e ai loro familiari, che ne alimenta
l’empowerment civico, queste imprese sociali sono in grado di
creare maggiore solidarietà e riconoscimento reciproco tra stakeholder diversi, ma non necessariamente di rafforzare l’autonomia
degli utenti, e nemmeno il loro contributo a ivo ai servizi di cui
sono beneficiari;
• le istituzioni “radicali” (Quadrante III) combinano una notevole
capacità di promuovere l’empowerment del consumatore e un’altre anto considerevole capacità di empowerment civico. La loro
azione tende ad ampliare gli spazi di autonomia a favore dei cittadini emarginati e, al contempo, riduce il condizionamento del
mercato sulla loro qualità della vita. A fronte del modello tradizionale dei servizi sociali in Italia, queste organizzazioni rappresentano quindi un’alternativa radicale allo status quo;
• le istituzioni “imprenditoriali” (Quadrante IV), invece, mostrano
grande capacità di mobilitare gli utenti in qualità di consumatori, ma non sono altre anto e caci rispe o al loro empowerment
civico. È l’ambivalenza che emerge nelle cooperative sociali, che
garantiscono, anche nel contesto dei mercati sociali, servizi aperti alle esigenze degli utenti (allo stesso modo delle organizzazioni di terzo se ore nei regimi di welfare liberali), ma incidono
molto meno sullo status degli utenti più emarginati, o sui loro
diri i sociali.
Al fine di valutare la capacità delle imprese sociali di generare empowerment dei consumatori in modo sistematico, proporrò due nozioni
teoriche che descrivono l’ampiezza e la portata della loro “produzione sociale”. Nella produzione di servizi sociali, un importante fattore di successo è dato dalla capacità di riconciliare bisogni diversi,
combinando gli interventi in modo da rendere gli utenti più competenti nell’utilizzo delle risorse istituzionali, in tal modo facilitandone l’integrazione sociale e riducendo i rischi di una loro esclusione
di lungo periodo (Ranci, Lembi, Costa, 2000). Questo aspe o della
produzione sociale assume particolare rilievo per l’Italia e per gli
COOPERATIVE SOCIALI ED EMPOWERMENT
Vanna Gonzales
altri regimi di welfare dell’Europa meridionale, cara erizzati per lo
più da un’offerta di servizi ristre a, particolaristica e poco inclusiva, perché fondata su una definizione di “bisogno” molto angusta
(Ferrera, 1996). Se è vero che le imprese sociali sono sovente i primi
intermediari tra gli utenti più emarginati e il sistema dei servizi sociali, ne segue che, quanto più diversificati sono i loro servizi, tanto
meglio esse sapranno rispondere alla multidimensionalità dei bisogni e delle rivendicazioni degli utenti. Un’effe iva diversificazione
dei servizi, oltretu o, me e i consumatori nelle condizioni di a ingere a risorse e a strumenti diversi, in vista della loro integrazione
nel contesto sociale ed istituzionale, al termine del loro rapporto con
l’impresa sociale.3
FIGURA 2 - TIPOLOGIA DELLA CAPACITÀ ISTITUZIONALE DI PROMUOVERE L’INCLUSIONE SOCIALE
Nella mia analisi empirica ho misurato il grado di diversificazione dei servizi attraverso una
lista che comprendeva otto tipi di interventi diversi: un elenco ampio a sufficienza per tenere
conto della varietà dei bisogni sociali in gioco, ma definito in termini abbastanza rigorosi,
per distinguere tali bisogni l’uno dall’altro. Nell’elenco figuravano diverse forme di assistenza
residenziale (appartamenti protetti, case di riposo, alloggi d’emergenza, ecc.), così come l’assistenza domiciliare, e diversi tipi di centri diurni e territoriali (laddove questi ultimi si distinguono perché non hanno una sede stabile, né orari fissi). Ho chiesto ai rispondenti di indicare
di quali di questi interventi si fosse occupata la loro organizzazione, in forma continuativa,
nell’arco degli ultimi dodici mesi.
3
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Un indicatore più complesso è invece rappresentato dalla personalizzazione, che si riferisce alla capacità di produrre servizi non
standardizzati, capaci di rispondere a bisogni sogge ivi molteplici. Nelle ricerche sui servizi sociali si assume spesso, quale proxy
di personalizzazione, l’incidenza dei servizi non residenziali, che
dovrebbero agevolare la proge azione individualizzata degli interventi. Non è de o, peraltro, che questi servizi siano intrinsecamente diversi dagli altri; capita spesso, infa i, che non vi sia piena
corrispondenza tra un certo tipo di servizi e le a ività che in esso si
svolgono. Per proseguire con l’esempio citato, basta osservare che,
all’interno delle stru ure residenziali, gli anziani autosu cienti
dispongono di un’assistenza molto più personalizzata di quella
che riceverebbero in un se ing domiciliare. In altre parole, la capacità di rispondere ai bisogni degli utenti, da parte degli erogatori di
un servizio, dipende dal cara ere dei bisogni stessi. Non ha molto
senso, quindi, considerare il tipo di servizio, se prima non si guarda alle cara eristiche degli utenti, o all’impostazione dei servizi.
Nell’economia della mia ricerca - al fine di cogliere le differenze di
gradazione, oltre che di sostanza - ho valutato la personalizzazione dei servizi prodo i dalle cooperative, me endo a confronto le
diverse a ività ed iniziative di cui si occupano, per migliorare la
qualità della vita degli utenti.4
Al fine di valutare la capacità delle imprese sociali di generare
empowerment civico, mi sono rifa a a due principali indicatori di
mobilitazione sociale: partecipazione degli utenti e advocacy. Nella
misura in cui facilitano la partecipazione degli utenti, le imprese
sociali perme ono ai gruppi svantaggiati di intervenire nei processi decisionali. E perme ere agli utenti di esprimere apertamente le
proprie opinioni, al contempo tutelando i loro interessi, è un modo
per ridurre i rischi di sfru amento a loro danno. Se si intende la
Ho misurato la personalizzazione come indice di otto tipi diversi di attività, o interventi, indirizzati al gruppo principale di utenti delle cooperative. Si tratta di attività, o interventi, scelti
in base al loro contributo al miglioramento della qualità della vita degli utenti: sono infatti
caratterizzati da una visione olistica dei bisogni e degli interessi degli utenti, e denotano un
livello di qualità che va al di là del “servizio standardizzato”, rivolto a rispondere ad un bisogno
di base. Per individuare le attività o gli interventi che meglio riflettono gli specifici bisogni e
interessi degli utenti, ho fatto riferimento ad alcuni particolari bacini di utenza, a rischio di
emarginazione: anziani, disabili, immigrati, ex tossicodipendenti. Riporto qui, a titolo di esempio, l’elenco delle attività prescelte nel caso dei disabili: 1) counseling e aiuto psicologico; 2)
accompagnamento sociale; 3) terapia fisica; 4) sviluppo di abilità specializzate; 5) ricerca di
lavoro e inserimento lavorativo; 6) assistenza legale; 7) eliminazione delle barriere architettoniche; 8) progetti educativi e integrazione scolastica.
4
COOPERATIVE SOCIALI ED EMPOWERMENT
Vanna Gonzales
partecipazione come condizione di e cacia sociale, si possono
me ere a fuoco i meccanismi “istituzionali” che facilitano l’empowerment civico, e in modo particolare quelli che stru urano e/o influenzano il coinvolgimento degli stakeholder. Se le imprese sociali
comprendono tra gli stakeholder anche gli utenti, perme ono loro
di fare un esercizio di autonomia e di autoe cacia (Pestoff, 1998;
Evers, 2001). Questo, per organizzazioni che producono servizi sociali, è fondamentale, giacché gli operatori professionisti tendono
spesso a monopolizzare i processi decisionali, fino a svuotare di
significato ogni prospe iva di empowerment (Rubin, Rubin, 2001).
L’empowerment degli utenti come partecipanti, quindi, è cosa diversa dal semplice dare loro la possibilità di esprimersi sui contenuti
o sulla forma di un servizio. Si tra a, semmai, di consentire loro
di avere realmente voce in capitolo, così da rivendicare le proprie
preferenze e prerogative, facendo leva su meccanismi di inclusione
formale nella base sociale, nei processi decisionali, nella programmazione dei servizi.
L’advocacy - il secondo indicatore chiave di mobilitazione sociale consiste invece nel rappresentare gli interessi colle ivi degli utenti
“al di fuori” delle imprese sociali: si contribuisce al loro empowerment civico, alimentandone la capacità di esercitare i diri i che stanno loro in capo, e di accedere alle risorse disponibili. La capacità di
sensibilizzare l’opinione pubblica, rispe o ai problemi e agli interessi dei gruppi sociali svantaggiati, è un aspe o importante della mobilitazione sociale: molte volte, infa i, le imprese sociali sono
il principale meccanismo di mediazione istituzionale tra gli utenti
emarginati, con i diri i sociali che essi rivendicano, e le amministrazioni pubbliche, che tendono a rispecchiare gli interessi del “votante
mediano”. Se è legi imo, quindi, imputare alle imprese sociali - con
la loro funzione di servizio - la tendenza a “privatizzare” i bisogni
e gli interessi degli utenti (De Leonardis, 1998), la loro funzione di
advocacy può servire a restituire loro una certa visibilità e rilevanza,
nella sfera pubblica. L’advocacy contribuisce a rendere pubblici ed
espliciti i problemi e gli interessi dei ci adini svantaggiati. Facendo sensibilizzazione nell’opinione pubblica, rispe o a questioni (in
termini di disuguaglianze e di ingiustizie sociali) che passerebbero
altrimenti inosservate, l’advocacy me e a nudo le fondamenta sociali
- come issues che appartengono alla sfera pubblica - di problemi che
sono spesso percepiti, a torto, come soltanto individuali. Quando
si tra a di valutare questa componente dell’empowerment civico, è
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IMPRESA SOCIALE
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quindi importante considerare anche le specifiche a ività intraprese, oltre che la sensibilità e la disponibilità di cui le imprese sociali
danno prova, in generale, a tale riguardo.5
A partire da questo framework empirico, ho sviluppato un’analisi
dell’empowerment degli utenti nelle cooperative sociali della Lombardia e dell’Emilia Romagna.6
4. Una valutazione dell’empowerment tra le cooperative
sociali in Lombardia e in Emilia Romagna7
La mia indagine empirica sulle cooperative sociali lombarde ed emiliane suggerisce molta cautela, riguardo l’ipotesi che le imprese sociali siano uno strumento di empowerment. Delle organizzazioni da me
considerate, il 52% può essere ricondo o al modello “tradizionale”,
il 9% al “radicale” ed un ulteriore 9% al “solidaristico”. Rimane una
cospicua minoranza, nell’ordine del 30%, di cooperative definibili
Al fine di misurare l’advocacy, ho anzitutto valutato la frequenza di alcune forme specifiche
di azione collettiva (campagne, manifestazioni, assemblee comunitarie, ecc.). Ho inoltre considerato le finalità e gli obiettivi dichiarati dalle cooperative sociali, laddove si sforzano di promuovere rappresentazioni condivise e meno stigmatizzanti degli utenti: ad esempio, l’impegno
di queste organizzazioni a favore del diritto degli utenti a rivendicare la propria autodeterminazione, o ad attenuare la loro differenza di status, rispetto agli altri cittadini.
6
Data la presenza di ben note disparità socio-economiche, in particolar modo tra Nord e Sud
del paese, le cooperative in Lombardia e in Emilia Romagna non sono certo rappresentative
del quadro d’insieme della cooperazione sociale in Italia. Si tratta, però, di regioni di grande
importanza, giacché racchiudono un ambiente molto favorevole allo sviluppo delle imprese
sociali. Lombardia ed Emilia Romagna sono tra le regioni italiane più sviluppate sul piano economico, hanno amministrazioni locali tra le più efficienti, ed un patrimonio di capitale sociale
tra i più ricchi di tutto il paese. Se ne può dedurre che le cooperative sociali di queste regioni
siano abbastanza rappresentative delle best practices prodotte dalla cooperazione sociale. Se
le cooperative sociali sono in grado di favorire l’empowerment degli utenti, è lecito attendersi
che quelle qui considerate siano tra le organizzazioni “di punta”, in questa direzione.
7
I dati che utilizzerò in questo paragrafo sono ricavati principalmente da una survey da me
condotta su un campione casuale stratificato di 140 presidenti e direttori di cooperative sociali
di tipo A, in quattro province lombarde (Milano, Brescia, Lecco e Cremona) e in altrettante
province emiliane (Bologna, Reggio Emilia, Parma e Ferrara), nel periodo gennaio-dicembre
2001. Ho fatto uso di un questionario per raccogliere dati circa le attività delle cooperative
sociali, il loro management, il loro profilo organizzativo, i loro valori di riferimento. A questi
aspetti ho affiancato un’analisi degli atteggiamenti e delle opinioni dei cooperatori, rispetto
ai concetti presentati nel paragrafo precedente. Ho poi supportato questa tecnica di indagine
con strumenti diversi, come l’analisi documentale del percorso storico delle cooperative e
dei loro progetti, nonché una serie di interviste in profondità con operatori delle cooperative,
ricercatori e rappresentanti del movimento cooperativo. Per quanto attiene a questi ultimi, ho
condotto 31 interviste con referenti provinciali, regionali e nazionali sia di Legacoop, sia di
Confcooperative-Federsolidarietà.
5
COOPERATIVE SOCIALI ED EMPOWERMENT
Vanna Gonzales
“imprenditoriali”, in grado - come proprio specifico valore aggiunto
- di promuovere l’empowerment del consumatore. Nell’insieme, però,
le cooperative sociali parrebbero svolgere un ruolo estremamente
modesto, laddove si tra a di facilitare l’inclusione sociale.
FIGURA 3 - “SPAZIO
DI PROPRIETÀ”
(PROPERTY
SPACE) DEFINITO DALL’EFFICACIA SOCIALE:
DISTRIBUZIONE DELLE COOPERATIVE SOCIALI PER REGIONE
(ER=EMILIA ROMAGNA;
L=LOMBARDIA)
Colpisce, in primo luogo, che le cooperative sociali delle due regioni
dimostrino una capacità del tu o analoga di promuovere l’empowerment degli utenti. E benché Lombardia ed Emilia Romagna siano tra i
casi potenzialmente più favorevoli, ben il 55% delle cooperative lombarde, e il 45% di quelle emiliane, tendono a riprodurre il modello
di erogazione dei servizi tradizionale.8 Di fa o, le cooperative sociali
dell’Emilia Romagna - regione in cui si è investito molto sulla partnership con le imprese sociali, nella governance dei servizi alla persona
- hanno valori medi appena di poco più alti, per ciascuna dimensioCiascuno degli assi della figura 3 corrisponde ad un punteggio di efficacia sociale diversificato, che spazia tra 0 e 16, laddove 0 rappresenta il punteggio più basso in assoluto, mentre 16
indica il punteggio più elevato. Il valore mediano, pari a 8, fa da spartiacque tra le cooperative
più capaci e quelle meno capaci di promuovere l’empowerment degli utenti.
8
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ne dell’empowerment (7,7 per l’empowerment dei consumatori; 5,4 per
l’empowerment civico), rispe o alle cooperative sociali della Lombardia (6,8 per l’empowerment dei consumatori; 4,9 per l’empowerment civico), regione con una cultura politica ben diversa, che si è trado a in
un processo di rapida “privatizzazione” del sistema dei servizi sociali
(Fargion, 1998; Bifulco, Vitale, 2004). Questo suggerisce l’influenza di
variabili diverse - come la crescita della competitività, la cronica mancanza di finanziamenti, le diverse culture della cooperazione - rispe o
al profilo sociale assunto dalle imprese sociali.
Un’analisi più specifica dell’empowerment civico, tra le cooperative
sociali prese nel loro insieme, evidenzia la loro generale incapacità di fare da “catalizzatore istituzionale” di valori e di pratiche che
contrastino l’esclusione sociale, a livello locale.9 Circa il 14% delle
cooperative ha dichiarato di farsi carico di almeno tre delle varie
a ività di advocacy da me proposte. Si tra a quasi sempre, però, di
a ività svolte in modo sporadico. Meno del 10% del campione, in realtà, svolge in modo sistematico a ività di questo tipo: ad esempio,
la raccolta di reclami e di richieste degli utenti, o la partecipazione
formale ad assemblee pubbliche. Anche laddove le cooperative fanno advocacy per conto degli utenti, quindi, utilizzano ta iche difensive - legate alle lamentele che sono loro pervenute - senza impegnarsi
più di tanto nella mobilitazione a iva dei loro interlocutori. La scarsa capacità di advocacy delle imprese sociali, in una certa misura, ha
anche a che fare con l’altre anto scarsa partecipazione degli utenti ai loro processi decisionali, a titolo formale o informale. Oltre il
70% delle organizzazioni studiate non contempla neppure gli utenti
all’interno della propria base sociale. Anche laddove questo avviene, del resto, è raro che gli utenti siano coinvolti nei meccanismi
di governance delle cooperative. In linea di massima, quanto più si
“sale” nelle responsabilità decisionali interne a queste organizzazioni, si fa sempre meno rilevante l’input e l’apporto degli utenti. Come
mostra la tabella 1, nel 75% delle cooperative sociali gli utenti non
partecipano mai alla definizione o all’articolazione degli obie ivi dei
programmi o dei servizi; nell’84% delle organizzazioni studiate, gli
utenti non contribuiscono in alcun modo nemmeno alla definizione
delle finalità e degli obie ivi perseguiti dalla cooperativa. Il più delle volte, quindi, gli utenti non contribuiscono a definire gli obie ivi
9
Questa parte della mia analisi si riferisce soltanto al livello delle singole cooperative sociali.
I dati che ho raccolto dai consorzi e dalle associazioni di rappresentanza extralocale, nondimeno, indicano che le organizzazioni di secondo livello non sono in grado di compensare
l’incapacità di produrre empowerment civico, da parte delle singole cooperative.
COOPERATIVE SOCIALI ED EMPOWERMENT
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dell’organizzazione, né hanno voce in capitolo rispe o alla distribuzione interna delle risorse e alle priorità da perseguire. Si tra erebbe
di aspe i cruciali, tu avia, per alimentare un senso di e cacia colle iva nelle fila degli utenti.
TABELLA 1 - LA PARTECIPAZIONE DEGLI UTENTI RISPETTO A TRE LIVELLI DISTINTI DEI PROCESSI
DECISIONALI
In modo
frequente
In modo
occasionale
Mai
Definizione e/o articolazione delle finalità e
degli obiettivi della cooperativa
2%
14%
84%
Definizione e/o articolazione dei servizi e/o
degli obiettivi programmatici della cooperativa
5%
20%
75%
Realizzazione di interventi specifici
25%
31%
5%
In mancanza di iniziative mirate intenzionalmente a coinvolgere gli
utenti nel proprio diba ito interno, e negli stessi processi decisionali, gran parte delle cooperative sociali fa ben poco per facilitare un
maggiore “protagonismo” degli emarginati; che si tra i di stabilire
la definizione o il framework da dare ai problemi, e alle loro soluzioni; o di decidere come vadano allocate le risorse, e a beneficio di
chi. È scarsa o nulla, in altre parole, la possibilità che essi maturino
una maggiore “competenza partecipativa” (Keiffer, 1984): quel tipo
di learning by doing che rende le persone più consapevoli delle scelte fa e. Dato il loro ruolo assai limitato nella promozione di empowerment civico - inteso come rivendicazione colle iva delle proprie
istanze, da parte di un gruppo svantaggiato - le cooperative sociali
non me ono sostanzialmente in discussione le gerarchie di status sedimentate nella cultura, che servono tipicamente a limitare gli spazi
di scelta e le opportunità dei gruppi sociali più svantaggiati (Rubin,
Rubin, 2001; Murie, 2005).
Nell’insieme, le cooperative sociali sono più e caci sul fronte
dell’empowerment dei consumatori, piu osto che su quello dell’empowerment dei ci adini. Anche se esistono notevoli variazioni da un
caso all’altro, come evidenziato anche dalla figura 3 riportata poc’anzi, soltanto in una minoranza di casi queste organizzazioni sono in
grado di dare vita ad un certo empowerment dei consumatori. Oltre la
metà delle cooperative studiate (il 52%), del resto, produce un’ampia
gamma di servizi diversi, rivolti ad una platea di utenti altre anto
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IMPRESA SOCIALE
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composita: si va dalle linee telefoniche d’emergenza all’educativa di
strada, fino alle stru ure residenziali a tempo pieno. Soltanto il 18%
delle cooperative sociali tende a rifle ere i modelli di erogazione dei
servizi tradizionali, fa i di interventi non residenziali per fasce di
utenti specifiche, senza prevedere grandi opzioni di assistenza alternative. Per un altro 20% circa del campione, le cooperative sociali offrono più servizi diversi ad un singola categoria di utenti, ciò che indica una maggiore a enzione ai bisogni specifici degli utenti stessi.
Quali che siano i servizi utilizzati, a favore dell’autonomia personale
degli utenti, questi ultimi partecipano in modo frequente o occasionale alla realizzazione di interventi specifici, in oltre la metà delle
cooperative censite. Al giorno d’oggi, il discorso pubblico enfatizza
sempre più l’importanza della responsabilità verso i consumatori
dei servizi. Ora, è interessante notare che - prima ancora del d.lgs.
155/2006 che ha introdo o l’obbligo di stabilire asse i organizzativi
più aperti alla partecipazione degli utenti - gran parte delle cooperative sociali offriva già ai beneficiari la possibilità di intervenire sulla
qualità dei servizi e dei programmi a cui accedevano.
Nonostante questi dati prome enti, uno sguardo più accurato al
tema dell’empowerment dei consumatori rivela un quadro assai meno
roseo. Nella grande maggioranza delle cooperative sociali, gli utenti
continuano ad essere tra ati come persone “dipendenti” da assistere, anziché come consumatori con una voce, un insieme di opinioni, una capacità di scelta che è necessario riconoscere e facilitare.
Ad eccezione di rari casi di cooperative sociali che hanno puntato
tu o sullo sviluppo di comunità, gran parte delle cooperative non
ha affa o promosso una cultura dei diri i e delle responsabilità dei
consumatori. È eloquente, a questo riguardo, la diffusa mancanza di
meccanismi di protezione dei consumatori; e questo benché molte
cooperative sociali abbiano cominciato ad ado are fin dai primi anni
novanta le procedure internazionali di certificazione della qualità.10
Nel 2001 erano poche le cooperative che avessero ado ato procedure di reclamo formale a favore degli utenti, o che raccogliessero in
modo continuativo e non simbolico il loro punto di vista rispe o allo
sviluppo dei servizi. Laddove erano presenti procedure di rilevazione della loro opinione di consumatori, come i questionari, si tra ava
più che altro di strumenti introdo i per rispondere a problemi speIl Consorzio CGM, in collaborazione con Federsolidarietà, ha dato avvio al suo primo progetto ad ampio raggio di controllo della qualità nel 1998. La prima fase di questo progetto si
è tradotta nella certificazione con UNI EN ISO 2001: 2000 (noto anche come Vision 2000) dei
68 consorzi, e di un migliaio di singole cooperative.
10
COOPERATIVE SOCIALI ED EMPOWERMENT
Vanna Gonzales
cifici: deputati a raccogliere informazioni mirate e circoscri e, più
che a facilitare la partecipazione degli utenti - per quanto possibile
- rispe o alla proge azione e l’a uazione dei servizi, o su temi più
generali, inerenti il loro benessere. Tra le cooperative sociali che dichiaravano di aver somministrato dei questionari ai propri utenti
(pari al 41% del totale), in un’o ica di user satisfaction, la grande maggioranza l’aveva fa o in modo del tu o infrequente o estemporaneo.
Se gli utenti avevano senz’altro la possibilità di esprimersi a raverso
meccanismi più informali, la loro possibilità di avere realmente voce
in capitolo, rispe o alla qualità dei servizi usufruiti, era per lo più
limitata ai loro rapporti interpersonali con gli operatori dei servizi.
Con poche eccezioni, le cooperative studiate non sembravano in grado di includere appieno gli utenti nella loro cultura organizzativa, e
nemmeno nelle reti delle comunità locali.
5. Come spiegare la performance delle cooperative sociali: il
ruolo cruciale della governance
Coerentemente con altri studi, che hanno evidenziato l’importanza
della stru ura della governance esterna, ho rilevato che la capacità
delle cooperative sociali di produrre empowerment per gli utenti è
legata alla qualità dei meccanismi di governance che fanno capo agli
enti pubblici. Per molti versi, il processo di continua riforma sociale
e amministrativa, che ha fa o nascere i mercati sociali in Italia tra la
fine degli anni novanta e i primi anni del duemila, è servito a creare
condizioni favorevoli ad un maggior empowerment dei consumatori:
basti pensare alla semplificazione dei complessi meccanismi burocratici, che regolano la pubblica amministrazione; all’introduzione
di meccanismi più inclusivi, formali e no, nel disegno e nell’a uazione delle politiche pubbliche; ai sistemi di valutazione della qualità, alle procedure di certificazione, agli altri strumenti finalizzati
a rafforzare la qualità dei servizi. Al tempo stesso, le politiche di
decentramento e di crescente controllo dei costi, dati anche i ben
noti squilibri territoriali e se oriali nell’offerta di servizi sociali, hanno sostanzialmente indebolito la capacità delle cooperative sociali di
perseguire l’empowerment degli utenti.
Nelle aree regionali che hanno una forte tradizione di partnership
pubblico-privato sociale, negli interventi contro l’esclusione sociale, le stesse cooperative sociali - data anche la buona integrazione
tra azione pubblica e privato-sociale - parrebbero in una posizione
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IMPRESA SOCIALE
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potenzialmente migliore, per realizzare l’empowerment dei consumatori. Laddove mancano queste condizioni, però, le prime forme
di mercato sociale - insieme con le minori entrate degli enti locali e
gli scarsi finanziamenti disponibili per gli operatori privati - hanno
fa o spostare l’accento sull’e cienza economica ed organizzativa, a
detrimento dell’empowerment degli utenti e dell’esercizio a ivo dei
loro diri i sociali.
Delle cooperative sociali da me esaminate, quasi il 90% aveva in essere dei contra i con enti pubblici - tipicamente amministrazioni
comunali, o aziende sanitarie - per uno, o più, dei servizi erogati.
In linea di principio, l’a damento dei servizi a raverso procedure
concorrenziali può garantire una maggiore a dabilità dei fornitori.
In pratica, in un contesto di minori risorse, la priorità assegnata ai
risparmi di spesa, combinandosi con meccanismi inadeguati di monitoraggio e di valutazione dei risultati conseguiti, ha favorito l’affidamento dei servizi secondo logiche strumentali, che hanno reso
ancora più vulnerabili i destinatari dei servizi. Poiché le cooperative
sociali dipendono in misura elevata da finanziamenti pubblici - per
un ordine medio dell’88% del loro bilancio, nel 2000 -, e poiché i
finanziamenti pubblici si fanno sempre più rido i, il bilancio di cui
dispongono le cooperative non consente loro di fare gli investimenti
sociali necessari per o enere risultati tangibili, sul piano dell’empowerment dei consumatori. In Lombardia e in Emilia Romagna, regioni tra le più ricche d’Italia, l’entità media del budget che le cooperative sociali derivavano da tu e le fonti di finanziamento pubblico era
di appena 553.300 euro.11 La cronica insu cienza dei finanziamenti
ricevuti dalla pubblica amministrazione è resa ancora più grave dalla storica debolezza della cultura delle donazioni private; latitano, in
altre parole, le fonti di finanziamento alternative. Facendo riferimento al 2000, a fronte del 60% di cooperative sociali che ricevevano oltre
il 75% del bilancio di gestione da enti pubblici, non oltrepassavano il
5% quelle finanziate soltanto da sogge i privati.12 I recenti tentativi
A paragone dei paesi nord-europei, l’Italia investe una quota modesta della propria spesa
sociale nello sviluppo dei servizi. Del finanziamento pubblico dedicato all’assistenza sociale
(esclusa la sanità), già di per sé relativamente basso, meno del 24% è destinato a servizi.
Benché sia difficile operare un confronto internazionale per quanto riguarda la spesa pubblica
a sostegno di servizi sociali forniti da privati, è emblematico che, a metà degli anni novanta,
in Inghilterra l’incidenza della spesa pubblica per servizi sociali affidati al nonprofit fosse già
arrivata al 34% (Gilbert, 2004). Nel caso italiano l’incidenza della corrispettiva voce di spesa
è, con ogni probabilità, più modesta.
12
Si tratta di un dato coerente con le rilevazioni dell’Ocse, che evidenziano, nel caso italiano,
una quota relativamente modesta di donazioni private per finalità sociali: nell’ordine dell’1,9%
11
COOPERATIVE SOCIALI ED EMPOWERMENT
Vanna Gonzales
di promuovere lo sviluppo delle fondazioni, e di potenziare le iniziative di fund raising, hanno senz’altro portato ad una maggiore diversificazione delle opportunità di finanziamento disponibili per le
imprese sociali. Considerando, però, gli investimenti necessari per il
marketing (nel caso del fund raising), e i capitali relativamente limitati
che le fondazioni possono me ere a disposizione, è improbabile che
queste fonti di finanziamento siano in grado di influenzare la capacità delle cooperative sociali di favorire l’empowerment degli utenti;
non, almeno, nel breve termine.
Data la forte dipendenza delle cooperative sociali dal se ore pubblico, la loro generale incapacità di promuovere l’empowerment civico
non è un dato che sorprende. Se le riforme delle politiche sociali ripongono sempre più enfasi sulla ci adinanza a iva e sullo sviluppo
del capitale sociale, la realtà degli appalti concorrenziali spinge le
cooperative ad investire molto di più sull’e cienza economica ed
organizzativa, anziché su una prospe iva meno immediata - e dai
fru i molto meno tangibili - come quella dell’empowerment civico.
Se a questo si aggiungono i vincoli di un bilancio assai ristre o, e
l’esigenza di coniugare gli interessi di molteplici stakeholder, è chiaro
che le cooperative sociali non sono affa o incentivate ad investire in
obie ivi sociali di lungo termine, come l’advocacy o la sensibilizzazione dell’opinione pubblica, al cospe o di obie ivi molto più immediati e legati alla semplice erogazione dei servizi.
Occorre poi tenere conto dei legami relativamente modesti che vengono mantenuti con gli a ori delle comunità locali, al di fuori del
movimento cooperativo. Se una piccola minoranza di cooperative
sociali ha saputo sviluppare una vera e propria strategia di sviluppo comunitario, capace di alimentare sinergie diffuse con organizzazioni di tipo diverso, gran parte delle cooperative sociali tende
a “fare rete” soltanto con i propri simili, ed è priva di quei legami
capillari con le comunità locali che le proteggerebbero dal rischio
di considerare gli utenti alla stregua di semplici “consumatori di
servizi”. Esistono strategie gestionali innovative, come il modello di
sviluppo del “campo di fragole” promosso dal Consorzio CGM, che
consentono alle cooperative sociali di mantenersi in stre o conta o
con le rispe ive comunità, incentivando lo spin-off delle cooperative più grandi in organizzazioni di piccole dimensioni, collegate tra
loro a raverso le reti consortili (Carbognin et al., 1999). A loro volta,
del Pil (al 1995), al cospetto del 17% del Regno Unito e del 4% della Svezia; un paese, quest’ultimo, rinomato per il suo sistema di assistenza pubblica, più che per le donazioni dei privati.
235
236
IMPRESA SOCIALE
aprile ~ giugno 2008
però, i consorzi danno vita ad un livello di management ulteriore, che
rafforza la posizione relativa dei dipendenti, ma accresce il distacco
dei ci adini più emarginati dal governo della cooperativa.
Anche le nuove procedure di controllo della qualità, sviluppate dalla fine degli anni novanta e poi a seguito della legge 328, meritano
un supplemento di analisi, al fine di cogliere le ragioni della scarsa
e cacia dimostrata dalle cooperative sociali, nel promuovere l’empowerment dei consumatori. Nella seconda metà degli anni novanta
si è moltiplicato, sia in Lombardia sia in Emilia Romagna, il ricorso
a misure di controllo della qualità, intese - almeno per certi versi - a
migliorare i livelli di soddisfazione degli utenti. Prima ancora della
riforma dell’assistenza del 2000, entrambe le regioni avevano posto
un esplicito divieto alle procedure di appalto basate soltanto sui costi, incentivando le cooperative sociali a seguire la strada dell’accreditamento.
Misure di questo tipo, al pari delle varie forme di controllo della
qualità, segnalano senz’altro lo sforzo di rafforzare la protezione dei
consumatori. Per più di una ragione, però, si sono rivelate ine caci,
per quanto riguarda l’empowerment degli utenti delle cooperative sociali. In primo luogo, tanto le normali procedure contra uali, quanto
i protocolli standardizzati del tipo UNI-EN-ISO, si traducono in misure standardizzate, sostanzialmente inadeguate rispe o agli aspe i
sogge ivi e relazionali della produzione dei servizi, dai quali dipende il rafforzamento dell’empowerment degli utenti. Operazioni come
i piani di sviluppo possono servire a trasme ere informazioni utili
per valutare l’e cienza economica di un’organizzazione; non sono
altre anto utili, però, se l’organizzazione deve ado are dei modelli
di intervento che facilitino la consultazione degli stakeholder. In secondo luogo, i controlli della qualità di mercato sono centrati sugli
aspe i manageriali della produzione dei servizi, e per questo non
aiutano più di tanto a promuovere la responsabilità sociale dei fornitori nei confronti degli utenti vulnerabili. Misure di questo tipo,
acquisite per lo più in un’o ica strumentale (per adempiere ai requisiti previsti dai bandi di gara), non creano grandi incentivi per
investire nella responsabilità sociale verso gli utenti, al cospe o delle altre categorie di stakeholder (amministratori pubblici, donatori,
dipendenti).13 Se, in teoria, le procedure contra uali e altri meccaniAl di là dell’aspettativa di un’adeguata efficienza economica, da parte delle cooperative sociali, gli amministratori locali non sono generalmente a favore di un maggior “peso specifico” degli utenti, nei meccanismi di governance interna, assumendo che il loro controllo
dall’esterno ne potrebbe risultare indebolito. Nemmeno le organizzazioni affidatarie dei servizi
13
COOPERATIVE SOCIALI ED EMPOWERMENT
Vanna Gonzales
smi partecipativi possono rafforzare la responsabilità sociale verso
l’interno, e quindi un impegno esplicito e trasparente a favore degli
utenti (Sacconi, 2006), in pratica - nell’assenza di un sogge o terzo
che faccia da garante - non è de o che queste norme siano effe ivamente rispe ate, nella sostanza delle pratiche organizzative. Considerato, infine, che le misure di controllo della qualità sono state per
lo più imposte in sede di contra o, in un’o ica sostitutiva - più che
complementare - rispe o al monitoraggio dei servizi, non stupisce
che si siano rivelate ine caci nella protezione dei diri i degli utenti.
E poiché i diri i, intesi come garanzie sociali, possono essere garantiti istituzionalmente soltanto da enti pubblici, gli utenti - in assenza
di normative, nazionali o regionali, che prevedano obblighi precisi
in tal senso - non hanno alcun diri o formale a chiamare l’organizzazione a rispondere di eventuali comportamenti scorre i, nei loro
confronti.
Si potrebbe obie are che la legge 118/2005 ha riaffermato la centralità dell’impegno a favore del consumatore-ci adino, individuando
varie prome enti opportunità di rafforzamento dell’empowerment
dei consumatori; ivi compreso l’obbligo di favorire la partecipazione
degli utenti e di redigere un bilancio sociale, o la previsione di forme di supervisione regolative. La futura e cacia di questo tipo di
misure, tu avia, rimane incerta. Alle consuete preoccupazioni per
l’approccio generico e onnicomprensivo delle disposizioni di legge,
e per la mancanza di un esplicito legame tra il tema della partecipazione e quello della governance, si aggiungono dinamiche interne sia
ai governi nazionali sia al terzo se ore, che possono me ere a rischio
le potenzialità pro-empowerment delle nuove normative sull’impresa
sociale.
Dal punto di vista delle politiche pubbliche, la tendenza delle amministrazioni comunali e regionali a privilegiare “pacche i di servizi”
- all’interno di contra i globali - tende a favorire fornitori che diano prova di adeguate capacità gestionali, di professionalità e di un
orientamento alla crescita imprenditoriale. Tu o questo rappresenta
in appalto, d’altra parte, hanno particolari incentivi a rafforzare la responsabilità sociale verso
gli utenti, affermando che questo potrebbe indebolire la posizione degli altri stakeholder, e
innescare un’eccessiva conflittualità nei meccanismi di governance. Di conseguenza, al di là
delle critiche diffuse a modelli standardizzati come UNI-EN-ISO, oggettivamente inadeguati
per promuovere la qualità dei servizi, molti “riformatori” hanno puntato su una soluzione alternativa alla rivendicazione di una maggiore inclusione degli utenti: o la definizione di norme
comuni di settore, fatte elaborare da appositi enti nazionali di certificazione; o lo sviluppo di
accordi interregionali, che portino a sottoscrivere un insieme di standard sistematici a valenza
generale.
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IMPRESA SOCIALE
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una sfida considerevole per cooperative sociali orientate a migliorare
in modo sostanziale l’empowerment degli utenti, in particolare so o
il profilo civico.14 Riducendo il numero di contra i, ed ampliando il
campo di applicazione di ciascun contra o, le amministrazioni pubbliche ritengono di poter cogliere un duplice obie ivo: realizzare
servizi più rispondenti ai molteplici bisogni degli utenti, e minimizzare i costi legati all’avvio, all’amministrazione e alla supervisione di
una molteplicità di contra i, in capo a tanti piccoli fornitori specializzati. Nonostante gli effe i positivi del global contracting, in termini
di ampliamento dell’offerta di servizi, si tra a di una soluzione che
disincentiva l’empowerment degli utenti, poiché spinge le imprese sociali ad assumere stru ure manageriali più verticali, e quindi a valorizzare ulteriormente l’e cienza economica, a discapito della natura
aperta e partecipata dei processi decisionali.
Un altro fa ore critico, per comprendere la capacità di empowerment
delle imprese sociali, è dato dal loro rapporto con il movimento cooperativo nel suo insieme.15 Non c’è dubbio che i singoli leader delle
cooperative abbiano svolto un ruolo importante, a livello sia locale sia
nazionale, nel rivendicare un maggiore “protagonismo” per gli utenti. A livello di sistema, tu avia, le associazioni di rappresentanza del
movimento cooperativo non hanno particolari incentivi a sostenere
la trasformazione degli utenti da destinatari passivi a consumatori
a ivi. La mission fondamentale del movimento cooperativo italiano
è piu osto quella di difendere e promuovere gli interessi dei propri
soci; e giacché gli utenti sono scarsamente rappresentati, nella base
sociale delle cooperative, la loro influenza è del tu o marginale, rispe o ad altri stakeholder. Molti leader della cooperazione potrebbero
obie are che promuovere gli interessi e i bisogni dei soci è un modo
per tutelare meglio anche gli utenti; in realtà, la tutela e la promozione
degli interessi dei lavoratori possono senz’altro entrare in confli o come sovente avviene - con l’obie ivo di facilitare l’empowerment degli
utenti, specie nella visuale dell’empowerment civico. La posizione degli
utenti, di conseguenza, si rivela ancora più vulnerabile.
Si tratta di un orientamento degli enti locali già molto diffuso in Lombardia, regione in
cui il global contracting è stato facilitato dall’istituzione di consorzi ad hoc (Regione Lombardia, Protocollo d’Intesa, 2000). È probabile, peraltro, che tale orientamento si diffonda
ulteriormente in futuro, a seguito della direttiva 2004/18/EC. Tale direttiva, che regola il coordinamento delle procedure per l’assegnazione dei contratti nei servizi pubblici, rimuove la
prerogativa degli Stati di privilegiare i fornitori di servizi del proprio paese, al di sopra di una
soglia minima.
15
Nel 2001 oltre l’89% delle cooperative sociali della Lombardia e dell’Emilia Romagna facevano parte di Legacoop o di Confcooperative.
14
COOPERATIVE SOCIALI ED EMPOWERMENT
Vanna Gonzales
6. In prospettiva: le possibili strategie verso un maggiore
empowerment
Molte questioni, in tema di empowerment ed imprese sociali, avrebbero bisogno di essere approfondite a raverso ulteriori ricerche:
occorre capire meglio da quali fa ori dipendano le variazioni nella
“capacità di empowerment” delle cooperative, e quale sia l’influenza
delle politiche pubbliche, con il passare del tempo, a tale riguardo.
A giudicare dai risultati della mia ricerca, nondimeno, il contributo delle cooperative sociali all’inclusione sociale - in termini di empowerment civico e dei consumatori - è considerevolmente limitato.
A conclusione dell’articolo, proporrò quindi alcune indicazioni che
potrebbero servire a migliore la capacità delle cooperative sociali di
favorire di più, in futuro, l’empowerment dei loro utenti.
L’empowerment civico
Come gran parte delle organizzazioni di terzo se ore, le cooperative
sociali sono profondamente influenzate dalle stru ure e dai processi
culturali che le circondano, per quanto si considerino “alternative”
rispe o all’ambiente economico dominante. Come organizzazioni di
piccole dimensioni (sia per capitale economico, sia per capitale sociale), e - nella percezione dell’opinione pubblica - abbastanza periferiche, le cooperative sociali sono fortemente vulnerabili alle influenze
esterne; che queste provengano dalle amministrazioni pubbliche o da
altri a ori economici, comprese le loro associazioni di appartenenza.
In buona sostanza, la loro scarsa capacità di empowerment civico non fa
che rifle ere questo dato di realtà. Una volta de o questo, il processo
di graduale costituzione dei mercati sociali, nel più ampio scenario
delle riforme legislative in corso, rende sempre più evidente l’importanza di figure di leadership adeguate. Ci sono almeno due strade, date
queste premesse, che i leader delle cooperative sociali possono intraprendere, per favorire lo sviluppo dell’empowerment civico:
• coltivare l’impegno ideale a promuovere la solidarietà verso l’interno e verso l’esterno. Le cooperative sociali che hanno saputo
investire meglio nella creazione di legami sociali tra gli stakeholder, hanno puntato sulla promozione di una reciproca consapevolezza e di un mutuo riconoscimento, come elementi fondanti
della loro identità. A partire da questo orientamento identitario,
le cooperative sociali possono alimentare meccanismi interni utili a produrre, con il tempo, empowerment colle ivo. A raverso
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IMPRESA SOCIALE
aprile ~ giugno 2008
•
relazioni interpersonali che siano abbastanza intense per promuovere l’apprendimento reciproco, ma abbastanza flessibili da
includere i valori e gli a eggiamenti di stakeholder di estrazione
assai diversa, i leader delle cooperative sono in grado di creare
un ambiente favorevole allo sviluppo dell’empowerment civico.
Aiutando le singole cooperative ad inquadrare la propria mission
in un più ampio contesto di valori civici, i consorzi come CGM
possono avere un ruolo importante nel promuovere l’empowerment civico, diffondendo tra gli stakeholder la consapevolezza del
loro interesse colle ivo a sfidare i fa ori stru urali, culturali ed
economici che riproducono, o aggravano, l’esclusione sociale;
estendere e potenziare i legami con i gruppi di advocacy di base.
Nonostante il loro dichiarato impegno al radicamento territoriale, di fa o i legami tra le cooperative sociali e le rispe ive comunità sono piu osto limitati, per portata ed ampiezza. L’avvicinamento ai gruppi comunitari più orientati all’advocacy è un
elemento chiave per migliorare la capacità delle cooperative sociali di generare empowerment civico. È importante non soltanto
per godere di un appoggio diffuso, a prescindere dalla rete dei
servizi erogati, ma anche per creare le sinergie necessarie a sostenere un impegno duraturo per l’inclusione sociale. Oltre a creare
legami con i gruppi comunitari esistenti, le cooperative sociali
possono ampliare ulteriormente le reti di advocacy comunitarie,
tramite lo spin-off di gruppi informali che coinvolgano gli utenti
e i loro familiari e amici. Tu o questo serve ad incoraggiare il
sostegno reciproco, di fronte a problemi di comune interesse, e
può anche stimolare la crescita dell’a ivismo di comunità.
L’empowerment dei consumatori
Vista la posizione intermedia che occupano tra amministrazioni pubbliche e comunità locali, le imprese sociali possono avere un ruolo di
primo piano nel mediare le tensioni che si sono accompagnate al processo di costituzione dei mercati sociali. Se, nel fare questo, promuovano anche l’empowerment dei consumatori, è una questione che dipende
- come si è visto - dalla stru ura di governance, interna ed esterna, in
cui si trovano inserite. Senza dimenticare questo dato di fondo, vale la
pena delineare alcune strategie che potrebbero aiutare le cooperative a
promuovere con più e cacia l’empowerment dei consumatori:
• sviluppare forme di regolazione pubblica che me ano l’accento sulla responsabilità verso gli utenti. Sia in Lombardia, sia in
COOPERATIVE SOCIALI ED EMPOWERMENT
Vanna Gonzales
•
Emilia Romagna le reti locali di servizi sociali sono orientate ai
produ ori dei servizi, più che ai loro utenti. Al fine di facilitare
l’empowerment degli utenti, i meccanismi della regolazione pubblica dovrebbero insistere di più sul principio della responsabilità sociale verso gli utenti. Si tra a di riconoscere che gli interessi
degli utenti non possono trovare una piena rappresentanza entro i confini delle singole cooperative. Allo stesso tempo, se si
considera l’inclusione dei “partner sociali” come un sostituto della dire a rappresentanza degli utenti, la limitata partecipazione delle imprese sociali alle stru ure di governance del sistema
cooperativo si tradurrà in una scarsa capacità di incidere sugli
aspe i stru urali dell’esclusione degli utenti. In uno scenario di
concertazione più ampio, invece, i funzionari locali dovrebbero
contribuire anch’essi a lasciare maggiori margini di autonomia
espressiva agli utenti. Anziché limitare la loro supervisione a generici aspe i regolativi, ad esempio, potrebbero istituire procedure di reclamo alternative, che perme ano agli utenti di rivendicare esplicitamente i propri diri i;
promuovere misure di controllo della qualità più sensibili agli
utenti. Anche se la nuova normativa prevede esplicitamente procedure di partecipazione degli utenti, la formulazione, la gestione
e poi la valutazione di misure che dovrebbero diventare sempre
più inclusive avvengono sempre so o il segno di un ethos manageriale, inada o all’empowerment dei consumatori. Dato che le
politiche di contra azione dei servizi hanno sancito il trasferimento delle responsabilità gestionali alle cooperative sociali, e
poi alle altre forme di impresa sociale, i rappresentanti di queste
organizzazioni dovrebbero rivendicare una visione più ampia
del loro “valore sociale aggiunto”, che tenga conto anche degli
interessi degli utenti. I leader delle cooperative, che già hanno
avuto un ruolo pionieristico nell’introduzione dei bilanci sociali,
potrebbero fare altre anto rispe o allo sviluppo e alla diffusione
di modelli di controllo della qualità più sensibili alle esigenze
degli utenti. Da parte loro, i funzionari pubblici dovrebbero dare
più peso, nella verifica del rispe o degli obblighi contra uali,
alla responsabilità sociale verso gli utenti: ad esempio, a raverso
l’introduzione obbligatoria di una “carta dei diri i degli utenti”,
sulla falsariga di quella già sperimentata nei servizi sanitari. In
alternativa, l’empowerment degli utenti potrebbe diventare una
voce più rilevante negli stessi bandi di gara per i contra i pub-
241
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IMPRESA SOCIALE
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blici. A ualmente, le normative in vigore in Lombardia e in Emilia Romagna so olineano che è compito dei fornitori a ivare e
consolidare adeguati legami con le comunità locali. Si potrebbe
introdurre nei contra i anche la previsione di una loro congrua
rilevazione della soddisfazione degli utenti dei servizi;
• potenziare i canali di finanziamento pubblico e privato. Per qualificare e rafforzare il ruolo delle cooperative sociali, rispe o all’empowerment dei consumatori, occorre anche un considerevole investimento di risorse, umane e finanziarie. Nonostante si tenda a
credere che vi sia una relazione inversa tra disponibilità di risorse pubbliche ed empowerment, si tra a in realtà di due fa ori non
incompatibili, ed anzi complementari. Se però gli amministratori
locali considerano le imprese sociali alla stregua di un semplice
meccanismo per controllare i costi, invece che per investire nelle
comunità, di cilmente le cooperative si potranno perme ere di
distogliere delle risorse dalle necessità immediate, per investirle in
obie ivi di lungo termine. Sarebbero fondamentali, in questa prospe iva, un incremento dei fondi pubblici specificamente dedicati
allo sviluppo delle capacità degli utenti, e - prima ancora - una sensibilizzazione diffusa dell’opinione pubblica circa la “meritorietà”
delle imprese sociali, quali ogge o di donazioni. Dati i vincoli di
bilancio con cui si devono misurare gli enti locali, infa i, è necessario fare progressi tangibili anche sul piano dei finanziamenti
da privati. Accanto a questo, i consorzi di cooperative potrebbero
avere un ruolo importante - sia pure indire o - nel coltivare nuove
strategie di fund raising, puntando anzitu o a raccogliere donazioni stabili e continuative, all’interno della comunità locale.
Buona parte del cara ere innovativo di un’impresa sociale è stato
a ribuito alla sua capacità di coniugare funzioni sociali ed economiche, generalmente ritenute poco compatibili tra loro. A partire
da questa nozione di ibridità, il modello di “capacità istituzionale”
presentato in questo articolo ha cercato di esplorare la capacità delle
cooperative sociali di promuovere l’empowerment dei loro utenti, in
qualità di consumatori e di ci adini. A quanto suggeriscono i miei
risultati, né lo status giuridico di queste organizzazioni, né la loro
specifica stru ura istituzionale conferiscono loro un qualche valore
aggiunto, rispe o all’empowerment civico o dei consumatori. Tra le
diverse cooperative studiate, del resto, si registrano notevoli variazioni al riguardo. Occorre tenere conto dell’influenza dei processi di
costruzione dei mercati sociali, che possono senz’altro indebolire la
COOPERATIVE SOCIALI ED EMPOWERMENT
Vanna Gonzales
capacità delle cooperative sociali di potenziare l’inclusione sociale
dei propri utenti. Al tempo stesso, esistono diverse possibili strategie
- come mi sono sforzata di evidenziare - tramite cui promuovere un
maggiore empowerment degli utenti. In prospe iva sarà cruciale - per
ricercatori, decisori politici, operatori - soffermarsi di più sui complessi legami di interdipendenza tra le imprese sociali e l’ambiente
istituzionale e culturale in cui esse si sviluppano, e riportano il loro
potenziale valore aggiunto a favore dei ci adini più vulnerabili.
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Sommario
1. Introduzione - 2. Definizione e storia - 3. Stru ura - 4. Il finanziamento del se ore
nonprofit - 5. Il nonprofit e la responsabilità sociale d’impresa: il caso della Lombardia 6. Considerazioni conclusive
1. Introduzione
Nel corso degli anni novanta il se ore nonprofit è stato fa o ogge o
di un’a enzione nuova da parte di ricercatori e policy maker, per la
sua capacità di erogare una serie di servizi concentrati in quei settori (istruzione, sanità ed assistenza) dove la produzione pubblica
è cresciuta in maniera insu ciente a far fronte alla domanda. Da
ultimo, l’o avo Censimento generale dell’industria e dei servizi condo o dall’Istat nel 2001 ha sancito la piena visibilità del se ore, che
raccoglie un complesso ed eterogeneo insieme di organizzazioni, accomunate dall’obie ivo di soddisfare bisogni sociali diversi e dalla
cara eristica della non distribuzione degli utili.
Dal 1991 al 2001 il se ore nonprofit - o terzo se ore, come viene talvolta chiamato, non del tu o propriamente, in contrapposizione agli
Le opinioni espresse sono proprie degli autori e non impegnano in alcun modo le Istituzioni di
appartenenza. Si ringraziano L. Sacconi, S. Zamagni per i consigli, e P. Natile per l’assistenza editoriale. La responsabilità di eventuali errori è in ogni caso esclusivamente degli autori. Pur essendo il
lavoro frutto di analisi congiunta, a Borzaga sono attribuibili i par. 2 e 5.1, a Mori i rimanenti.
1
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IMPRESA SOCIALE
aprile ~ giugno 2008
altri due (rispe ivamente, le organizzazioni del mercato e dello Stato) - è cresciuto impetuosamente: le unità locali sono aumentate nel
decennio del 131 per cento e gli adde i del 76 per cento. Nelle sue
235 mila istituzioni è giunto ad impiegare quasi seicentomila adde i
e oltre tre milioni di volontari. Le entrate delle organizzazioni del
se ore hanno raggiunto nel 1999 il 3,4 per cento del prodo o interno
lordo. La progressiva esternalizzazione di alcuni servizi di utilità sociale da parte del se ore pubblico è riconosciuta in le eratura come
una delle motivazioni di questa recente tumultuosa crescita.
Dal punto di vista teorico (Hansmann, 1980; Weisbrod, 1977, 1988;
Borzaga, 2002 per una sintesi), l’esistenza delle imprese nonprofit si
spiega come una possibile soluzione ai fallimenti del contra o derivanti da asimmetrie informative tra produ ori e consumatori, che
impediscono di controllare la qualità del servizio erogato: porre un
vincolo alla distribuzione degli utili è un segnale che i primi offrono
agli altri per rassicurarli che non sfru eranno tali asimmetrie. Oppure, le imprese nonprofit sono interpretabili come risposta alle difficoltà del se ore pubblico di soddisfare una domanda di beni pubblici eterogenei e di nicchia, diversi da quelli domandati dall’ele ore
mediano, ma fondamentali per gli utenti coinvolti; e che a loro volta
non possono venire offerti da imprese di mercato (o for-profit), a
causa della presenza di esternalità e della possibilità di free-riding.
Il primo approccio è appropriato per spiegare le imprese nonprofit
basate sulle donazioni; è meno ada o a quelle che producono beni e
servizi vendibili sul mercato, anche cara erizzati da un certo grado
di meritorietà; queste ultime, però, sono particolarmente rilevanti in
Italia e in Europa, anche nella fa ispecie dell’impresa sociale (Borzaga, 2005).
Non è infrequente che gli enti nonprofit, pur avendo costi di produzione più bassi perché utilizzano lavoratori volontari, o meno remunerati di quelli di altre organizzazioni, si trovino nella condizione di
dover reperire risorse, perché scelgono di me ere a disposizione dei
propri utenti parte del valore aggiunto, per esempio cedendo i propri
prodo i a prezzi inferiori ai costi, o gratuitamente (Borzaga, 2002).
Queste risorse possono assumere la forma più tradizionale delle donazioni, oppure una modalità più nuova, derivante dalla vendita di
beni e servizi alle amministrazioni pubbliche o sul mercato.
Se si analizzano i bilanci aggregati delle organizzazioni nonprofit
italiane, salta all’occhio la quota tu ora modesta delle donazioni, nel
confronto internazionale (non superano il 3,3 per cento del totale,
IL SETTORE NONPROFIT E LA RESPONSABILITÀ SOCIALE DELLE IMPRESE: UN’ANALISI PER LA LOMBARDIA
Carlo Borzaga, Alessandra Mori
contro l’11 per cento raggiunto in Gran Bretagna; Cima et al., 2003);
ben più rilevante è l’incidenza delle risorse derivanti dalla vendita
di beni e servizi, sia a sogge i pubblici sia a privati (oltre il 50 per
cento). Si può presumere che nel nostro paese le esigenze di risanamento fiscale pongano un limite alla crescita futura delle risorse
pubbliche: diventa quindi in prospe iva essenziale, per i sogge i
nonprofit, poter incrementare le risorse di fonte privata.
Dal canto loro, i sogge i for-profit saranno tanto più disponibili a
diventare finanziatori del nonprofit quanto più un “comportamento
etico”, opportunamente definito e misurato, può configurarsi come
uno strumento di massimizzazione del profi o e viene percepito, in
termini aziendali, come un investimento con un potenziale ritorno.
L’eticità di impresa è qui intesa come parte di un conce o più ampio
che comincia ad a rarre l’a enzione degli studiosi: quello di responsabilità sociale di impresa (Corporate Social Responsibility, CSR). La
CSR è stata variamente definita nella le eratura economica e di management (Beda, Bodo, 2004; Molteni, 2004; European Commission,
2001); qui si utilizza la definizione proposta da Sacconi (2004, 2005):
“un modello di governance allargata dell’impresa, in base al quale
chi governa l’impresa ha responsabilità che si estendono dall’osservanza dei doveri fiduciari nei riguardi della proprietà ad analoghi
doveri fiduciari nei riguardi in generale di tu i gli stakeholder”, o
portatori di interessi. Sue cara eristiche sono la volontarietà, la non
obbligatorietà e l’a enzione alla categoria dei “portatori di interesse”, che è più ampia rispe o a quella dei soli azionisti, e comprende
i dipendenti, i fornitori, i clienti dell’impresa, le istituzioni e la colle ività che le vive intorno. Essa dunque è per molti aspe i diversa
e non coincidente con la semplice beneficenza aziendale, che ne può
però costituire un so oinsieme.
In definitiva, la domanda che motiva questa ricerca è: l’assunzione di
alcune delle pratiche di responsabilità sociale da parte di un’impresa
(in particolare, l’a enzione al sociale) può configurarsi come un investimento in grado di aumentare la competitività dell’impresa stessa,
oltre che avere degli spillover positivi esterni all’impresa? Se così fosse,
l’impresa avrebbe un incentivo ad effe uare un’a ività filantropica,
in quanto essa diventerebbe parte della funzione di massimizzazione del profi o; inoltre, i suoi effe i sarebbero misurabili. Diverrebbe
quindi possibile anche valutare come sia più conveniente realizzare
queste pratiche di a enzione al sociale e, in particolare, valutare quali
organizzazioni nonprofit sia più conveniente sostenere.
247
248
IMPRESA SOCIALE
aprile ~ giugno 2008
Questo lavoro tenta di offrire un contributo, utilizzando l’indagine
della Banca d’Italia condo a presso un campione di imprese industriali della Lombardia. La Lombardia rappresenta, anche per il settore nonprofit, un laboratorio particolare: è la prima regione di insediamento in Italia, e Milano, seconda ci à dopo Roma per numero di
adde i, è divenuta nel 2000 la sede della Agenzia per le Onlus.2 Inoltre, le organizzazioni lombarde raccolgono un quarto delle entrate
complessive del nonprofit italiano, e quasi il 30 per cento di quelle
di mercato - provenienti cioè dalla vendita di loro beni e servizi. La
regione è quindi un osservatorio importante per indagare quali relazioni intra engano le organizzazioni nonprofit con le imprese del
se ore for-profit. Una sezione dell’indagine sul 2004 è stata dunque
dedicata all’approfondimento dei legami tra i due gruppi di sogge i,
cercando di descrivere il comportamento etico delle imprese, quantificarne l’impegno, individuarne le motivazioni e so oporre a test
l’ipotesi che i buoni rapporti con la comunità siano accompagnati
da performance superiori alla media in termini di rendimento del
capitale, di produ ività del lavoro o di ritorno di immagine.
La parte rimanente del lavoro è stru urata come segue: il paragrafo
2 definisce le organizzazioni nonprofit e offre una breve ricognizione
storica dell’esperienza italiana; il paragrafo 3 ne illustra le cara eristiche stru urali e le dinamiche con de aglio regionale; il paragrafo
4 ne riporta i bilanci aggregati; il paragrafo 5 fornisce un quadro
teorico e descrive i risultati dell’indagine. Il paragrafo 6 conclude.
2. Definizione e storia
I sogge i nonprofit sono accomunati dalla cara eristica della non distribuzione degli utili e definiti, secondo le Nazioni Unite e i principali organismi statistici internazionali, come “enti giuridici e sociali
creati allo scopo di produrre beni e servizi il cui status non perme e
loro di essere fonte di reddito, profi o o altro guadagno finanziario
per le unità che li costituiscono, controllano o finanziano”. Talvolta,
non del tu o a proposito, ci si riferisce a questi sogge i come al terzo
se ore, in contrapposizione al mercato (il primo se ore) o allo Stato
(il secondo se ore). Altre fonti fanno riferimento al volontariato, ma
L’Agenzia per le Onlus, subito ribattezzata in modo improprio authority del volontariato,
esercita funzioni di controllo sul rispetto dei requisiti di legge e, similmente alla Charity Commission britannica, una funzione promozionale del settore, con la possibilità di proporre pareri
normativi ed iniziative di studio e ricerca; esercita inoltre la vigilanza sull’attività di raccolta
fondi e sulla corretta applicazione delle norme tributarie.
2
IL SETTORE NONPROFIT E LA RESPONSABILITÀ SOCIALE DELLE IMPRESE: UN’ANALISI PER LA LOMBARDIA
Carlo Borzaga, Alessandra Mori
quest’ultima cara eristica, comune nel passato alla maggior parte
delle organizzazioni nonprofit non è più su ciente oggi a definire
un se ore, dove non opera ormai più soltanto personale volontario,
e che spesso è organizzato con criteri di economicità e di impresa.
In Italia, le organizzazioni nonprofit più antiche hanno una duplice
origine: alcune derivano da sogge i religiosi o ecclesiali, di matrice
prevalentemente ca olica; altre, che hanno visto la luce da poco più
di un secolo, sono nate dalla capacità di organizzazione del movimento dei lavoratori. Molte di queste organizzazioni o hanno perso la loro natura privata essendo state trasformate in enti pubblici
(come nel caso delle Opere Pie trasformate in Ipab alla fine dell’800),
oppure sono state sostituite da istituzioni dello Stato sociale (come
nel caso delle società di mutuo soccorso e, più in generale, delle
mutue private). Pertanto, la maggior parte degli enti nonprofit oggi
operanti in Italia ha una storia più recente, che può essere fa a risalire agli anni o anta del Novecento, ed è espressione di istanze
solidaristiche e partecipative della società civile, che hanno saputo
organizzarsi progressivamente in forme sempre più stru urate. Essi
inoltre, a differenza dei loro omologhi statunitensi, hanno sovente
dimensioni contenute, a forte connotazione partecipativa e a gestione democratica, con pochi legami con grandi donatori e, viceversa,
relazioni stre e con le amministrazioni locali.
Le organizzazioni nonprofit possono assumere diverse forme giuridiche, regolate dal codice civile o dalla legislazione speciale: l’associazione, che può essere riconosciuta, cioè con personalità giuridica,
o no; la fondazione, che si cara erizza per la presenza di un patrimonio, e di cui le fondazioni di origine bancaria costituiscono un
so oinsieme; il comitato, che può essere considerato come una sorta
di associazione temporanea di persone che perseguono uno scopo
definito e raggiungibile in un arco temporale limitato; la cooperativa
sociale, che può essere di tipo A (erogante servizi socio-sanitari ed
educativi), o di tipo B (enti che si occupano di inserimento lavorativo di sogge i svantaggiati); l’organizzazione di volontariato; l’organizzazione non governativa (ong). Una menzione a parte merita
l’impresa sociale, disciplinata con la legge 118 del 2005 e successivo
decreto a uativo, che, pur potendo utilizzare qualsiasi delle forme
previste dal codice civile, ha come cara eri fondanti l’assenza di scopo di lucro, il vincolo di non distribuzione e la natura di impresa
privata produ rice di beni o servizi di utilità sociale con finalità di
interesse generale. Essa si distingue per una cara erizzazione spic-
249
250
IMPRESA SOCIALE
aprile ~ giugno 2008
catamente imprenditoriale, che cerca di conciliare su base razionale
gli aspe i apparentemente irriducibili dell’impresa e della solidarietà (Borzaga, 2005; Borzaga, Ianes, 2006). Al fine di godere di alcune agevolazioni fiscali, i sogge i nonprofit possono richiedere la
qualifica di Onlus (organizzazioni non lucrative di utilità sociale).
Quest’ultima è a ribuita di diri o ad alcune forme giuridiche (le
organizzazioni di volontariato e le cooperative sociali) e, solo in presenza di particolari cara eristiche e a ività, alle altre forme.
3. Struttura
L’o avo Censimento dell’Istat sull’industria e i servizi rileva le unità
locali e gli adde i delle istituzioni nonprofit presenti in Italia nel
2001.3 Emerge che il se ore conta in Italia 253.300 unità locali, più
che raddoppiate dalle 109.600 rilevate nel 1991 (tab. 1). La distribuzione regionale evidenzia come sia la Lombardia la prima regione di
insediamento, col 14 per cento del totale (36.000 unità), seguita dal
Veneto (8,8 per cento; 22.400 unità), dal Piemonte (8,7 per cento e
22.100 unità) e dall’Emilia Romagna (8,6; 21.800).
Un indice di localizzazione - calcolato come rapporto tra il peso di
ogni regione in Italia in termini di unità locali operanti nel se ore
nonprofit, e il peso della medesima regione in termini di unità locali
a ive nel for-profit4 - ridimensiona il ruolo della Lombardia (indice
pari a 77,3) o del Veneto (95,5), rispe o ad altre aree del paese, quali
il Trentino-Alto Adige (218,5), il Friuli-Venezia Giulia (152,2), o, al
Sud, la Sardegna (147,2).
Nel nonprofit, in Italia, sono impegnate a vario titolo circa 3 milioni e
900 mila persone: si tra a per oltre l’80 per cento (3.300.000) di volontari
e di quasi 490.000 adde i retribuiti - a cui si aggiungono oltre 100.500
collaboratori esterni e 3.700 interinali (tab. 2). In Lombardia sono concentrati 97.500 adde i (retribuiti), un quinto del totale; il Lazio è la seconda regione per numero di adde i (57.000, con una quota dell’11,7
per cento), seguita dal Veneto (9,3 per cento). Per quanto riguarda i volontari, la presenza maggiore si ha in Lombardia (517.500, pari al 15,6
per cento del totale) e in Veneto (356.500, il 10,8 per cento).
L’unità locale è il luogo in cui si realizza la produzione di beni o servizi; è individuata in
un’unica località e vi lavorano o vi fanno riferimento una o più persone (addetti), per conto di
una stessa impresa.
4
L’indice, per costruzione, assume valori positivi: se è superiore a 100, il peso della regione
nel nonprofit è maggiore di quello nel settore for-profit, e la regione è relativamente specializzata nel nonprofit; viceversa se è inferiore a 100.
3
IL SETTORE NONPROFIT E LA RESPONSABILITÀ SOCIALE DELLE IMPRESE: UN’ANALISI PER LA LOMBARDIA
Carlo Borzaga, Alessandra Mori
TABELLA 1 - UNITÀ LOCALI DEL NONPROFIT PER REGIONE (UNITÀ, VALORI PERCENTUALI E NUMERI
INDICE)
Regioni
Piemonte
Valle d’Aosta
Lombardia
Trentino-Alto Adige
Veneto
Friuli-Venezia Giulia
Liguria
Emilia Romagna
Toscana
Umbria
Marche
Lazio
Abruzzo
Molise
Campania
Puglia
Basilicata
Calabria
Sicilia
Sardegna
Nord-Ovest
Nord-Est
Centro
Sud
Isole
ITALIA
2001
Var. %
1991-2001
Peso %
2001
Indice di localizzazione (1)
22.082
1.194
36.017
10.732
22.375
8.333
7.955
21.789
19.565
5.040
8.501
19.014
5.839
1.446
13.876
13.324
2.492
6.903
17.921
8.946
67.248
63.229
52.120
43.880
26.867
253.344
137,4
226,2
125,4
137,1
134,2
126,3
102,4
96,4
112,2
162,0
122,4
196,2
189,5
130,6
143,7
77,0
99,5
213,5
144,1
188,7
127,3
119,1
143,7
127,2
157,3
131,2
8,7
0,5
14,2
4,2
8,8
3,3
3,1
8,6
7,7
2,0
3,4
7,5
2,3
0,6
5,5
5,3
1,0
2,7
7,1
3,5
26,5
25,0
20,6
17,3
10,6
100,0
107,5
170,9
77,3
218,5
95,5
152,2
102,1
97,3
100,6
125,5
110,3
86,7
105,4
117,8
75,7
96,1
120,7
112,7
118,0
147,2
88,9
112,5
98,2
93,1
126,3
100,0
Fonte: elaborazioni su dati Istat, Censimento dell’industria e dei servizi, 2001.
(1) L’indice è costruito con la formula:
Lr = [(Unpr/Unp)/(Ur/U)]*100
dove:
Unpr = il numero di unità locali del settore nonprofit nella regione r
Unp = il numero di unità locali del settore nonprofit in Italia
Ur = il numero di unità locali del settore for-profit nella regione r
U = il numero di unità locali del settore for-profit in Italia
Valori superiori a 100 indicano che la regione è relativamente specializzata nel
nonprofit; viceversa per indici inferiori a 100 rispetto alla media nazionale.
251
IMPRESA SOCIALE
aprile ~ giugno 2008
95,5
8,5
232,3
0,4
102,7 20,0
57,1
2,8
72,5
9,3
87,4
2,4
87,5
3,1
53,7
8,1
90,1
6,3
91,4
1,5
99,0
2,6
71,7 11,7
45,7
1,5
99,1
0,5
39,9
3,7
55,1
5,6
54,9
0,8
88,6
1,8
57,6
7,0
60,8
2,7
100,1 32,0
64,7 22,5
80,9 22,0
54,3 13,8
58,5
9,7
75,8 100,0
95,5
158,7
92,7
137,4
89,0
96,1
114,6
84,1
86,1
98,4
83,2
137,7
71,6
128,9
62,5
122,5
109,3
107,4
159,3
134,3
95,7
91,7
108,1
90,3
151,6
100,0
Interinali
Co.Co.Co.
Volontari
Dim. media
2001 (2)
41.679
1.954
97.502
13.450
45.576
11.527
15.182
39.406
30.591
7.257
12.506
56.983
7.355
2.569
18.059
27.156
3.770
8.591
34.413
12.997
156.317
109.959
107.337
67.500
47.410
488.523
Indice di localizzazione (1)
Piemonte
Valle d’Aosta
Lombardia
Trentino-A. Ad.
Veneto
Friuli-Venezia G.
Liguria
Emilia Romagna
Toscana
Umbria
Marche
Lazio
Abruzzo
Molise
Campania
Puglia
Basilicata
Calabria
Sicilia
Sardegna
Nord-Ovest
Nord-Est
Centro
Sud
Isole
ITALIA
Peso % 2001
Regioni
Var. % 19912001
TABELLA 2 - ADDETTI ALLE UNITÀ LOCALI E PERSONALE ESTERNO NEL NONPROFIT PER REGIONE
(UNITÀ, VALORI PERCENTUALI E NUMERI INDICE)
2001
252
11,3
323.640
7.723 292
10,1
12.226
308
2
13,8
517.526 21.397 887
8,0
113.755
2.632 117
11,3
356.542
7.947 397
10,1
119.081
2.902 108
9,8
116.602
2.292
51
9,6
308.940
8.665 395
9,3
300.793
7.359 222
8,7
73.592
1.265
75
9,5
112.556
2.556 114
7,5
152.477 13.341 326
7,3
64.087
2.064
31
7,3
15.232
503
16
6,8
156.013
4.490 153
11,5
172.674
4.459 132
8,0
29.139
637
24
6,1
64.563
1.914
80
8,7
169.823
3.837 172
8,0
136.066
4.234 149
12,5
969.994 31.720 1.232
10,0
898.318 22.146 1.017
8,2
639.418 24.521 737
8,2
501.708 14.067 436
8,5
305.889
8.071 321
9,7 3.315.327 100.525 3.743
Fonte: elaborazioni su dati Istat, Censimento dell’industria e dei servizi, 2001.
(1) L’indice è costruito con la formula: Lr = [(Anpr/Anp)/(Ar/A)]*100, dove:
Anpr = il numero di unità locali del settore nonprofit nella regione r
Anp = il numero di unità locali del settore nonprofit in Italia
Ar = il numero di unità locali del settore for-profit nella regione r
A = il numero di unità locali del settore for-profit in Italia
Valori superiori a 100 indicano che la regione è relativamente specializzata nel
nonprofit; viceversa per indici inferiori a 100 rispetto alla media nazionale.
(2) Valore calcolato escludendo le unità locali con 0 addetti.
IL SETTORE NONPROFIT E LA RESPONSABILITÀ SOCIALE DELLE IMPRESE: UN’ANALISI PER LA LOMBARDIA
Carlo Borzaga, Alessandra Mori
L’indice di specializzazione calcolato come sopra, ma sul numero
di adde i retribuiti, è elevato in Sicilia (159,3), nel Lazio (137,7) e in
Trentino-Alto Adige (137,4); al contrario hanno indici inferiori a 100
Lombardia e Veneto, regioni nelle quali gli occupati nelle imprese
for-profit sono numerosi.
La dimensione media dei sogge i operanti nel se ore è piccola: 1,9
adde i per unità locale. Su questo valore, inferiore a quello per le
imprese for-profit (3,8 adde i), influisce il gran numero di enti che,
basandosi sul volontariato, non contano nemmeno un adde o. Al
ne o di questi ultimi, la dimensione media è di 9,7 adde i per unità
locale, con punte più alte nelle regioni del Nord (tab. 2)
Rispe o alla rilevazione del 1991, gli occupati nel nonprofit in Italia
sono aumentati del 75,8 per cento, con una crescita particolarmente
concentrata nel Nord-Ovest (oltre il 100 per cento), specie in Lombardia (102,7 per cento), una delle regioni più dinamiche. L’occupazione nel nonprofit pesa ormai per un non trascurabile 2,5 per
cento sull’occupazione totale del paese. Se si considerano anche i
volontari, le dinamiche sono ancora più accentuate. Sono sopra u o
i lavoratori non retribuiti ad essere aumentati in maniera notevole,
passando da 317.300 del 1991 ad oltre 3,3 milioni del 2001.
Le istituzioni nonprofit sono rappresentate in gran parte da associazioni, non riconosciute (156.100) e riconosciute (62.200). Rilevante è
anche la presenza delle cooperative sociali (5.700) e delle fondazioni
(3.100), che ricoprono un ruolo significativo per la quota di occupati.
La tabella 3 offre un de aglio regionale: la regione più importante è
sempre la Lombardia; notevole è il peso dell’Emilia Romagna nelle
cooperative (19.000 adde i); il Lazio è la prima regione in termini di
adde i nelle associazioni non riconosciute e nelle altre istituzioni.
Con riferimento al se ore di a ività prevalente (tab. 4), la quasi totalità delle unità locali opera nei comparti delle a ività delle organizzazioni associative (sindacati, associazioni di categoria, ecc.) e della
cultura, sport e ricreazione. È qui che si concentra il numero maggiore di personale volontario (più di due milioni e mezzo nell’aggregato). Oltre la metà degli adde i (260.600, pari al 53,3 per cento),
invece, è occupata nel se ore della sanità e dell’assistenza sociale,
dove operano 31.800 unità locali e più di 600 mila volontari. L’istruzione occupa 100.200 dipendenti (il 20,5 per cento) nelle 11.200 unità
locali; la ricerca e sviluppo, da ultima, conta 4.600 adde i in 2.300
unità locali. Lombardia e Lazio sono le regioni col maggior numero
di adde i nei diversi se ori.
253
254
Piemonte
Valle d’Aosta
Lombardia
Trentino-A.A.
Veneto
Friuli-Venezia G.
Liguria
Emilia Romagna
Toscana
Umbria
Marche
Lazio
Abruzzo
Molise
Campania
Puglia
Basilicata
Calabria
Sicilia
Sardegna
Nord-Ovest
Nord-Est
Centro
Sud
Isole
ITALIA
Cooperativa sociale
Istituzioni Addetti Istituzioni Addetti
289
1.324
397
18.516
22
180
31
627
700
18.505
930
24.560
89
564
120
2.776
253
3.571
427
14.265
65
177
121
5.857
113
790
153
4.756
299
1.906
401
18.965
224
1.598
294
12.215
66
219
103
4.049
81
124
143
5.525
306
1.814
396
8.354
52
911
149
3.030
10
50
77
1.053
137
1.300
202
2.007
124
4.095
364
5.480
15
5
75
1.120
94
1.319
195
2.093
103
1.542
797
8.908
35
1.338
299
4.991
1.124 20.799 1.511 48.459
706
6.218
1.069 41.863
677
3.755
936
30.143
432
7.680
1.062 14.783
138
2.880
1.096 13.899
3.077 41.332 5.674 149.147
Fondazione
Associazione rico- Altra istituzione Associazione non
nosciuta
nonprofit
riconosciuta
Istituzioni Addetti Istituzioni Addetti Istituzioni Addetti
5.813
7.939
804
11.290 13.349 8.299
438
330
28
570
601
224
8.922 19.011 1.410 25.377 21.531 15.704
1.385
3.840
132
1.669
8.168
3.889
5.293
5.100
787
10.173 14.234 8.667
2.008
1.563
167
1.139
5.389
1.951
2.165
1.821
368
4.283
4.526
2.547
4.163
4.533
563
4.388 14.228 8.432
5.344
4.448
447
3.695 12.035 6.087
1.080
860
186
627
3.287
1.375
2.083
2.280
289
1.581
5.282
2.358
3.845 11.592
741
25.510 12.578 17.403
1.578
801
105
536
3.594
1.410
498
732
42
311
711
402
3.960
3.410
495
3.848
8.226
5.108
3.409
4.751
461
6.781
7.778
4.739
761
838
63
146
1.374
728
2.229
1.658
246
820
3.717
2.235
4.613
7.011
574
4.168 10.543 11.083
2.644
1.556
209
1.740
4.982
2.677
17.338 29.101 2.610 41.520 40.007 26.774
12.849 15.036 1.649 17.369 42.019 22.939
12.352 19.180 1.663 31.413 33.182 27.223
12.435 12.190 1.412 12.442 25.400 14.622
7.257
8.567
783
5.908 15.525 13.760
62.231 84.074 8.117 108.652 156.133 105.318
Fonte: elaborazioni su dati Istat, Censimento dell’industria e dei servizi, 2001.
Totale complessivo
Istituzioni Addetti
20.652 47.368
1.120
1.931
33.493 103.157
9.894 12.738
20.994 41.776
7.750 10.687
7.325 14.197
19.654 38.224
18.344 28.043
4.722
7.130
7.878 11.868
17.866 64.673
5.478
6.688
1.338
2.548
13.020 15.673
12.136 25.846
2.288
2.837
6.481
8.125
16.630 32.712
8.169 12.302
62.590 166.653
58.292 103.425
48.810 111.714
40.741 61.717
24.799 45.014
235.232 488.523
IMPRESA SOCIALE
Regioni
aprile ~ giugno 2008
TABELLA 3 - ISTITUZIONI E ADDETTI NEL NONPROFIT PER FORMA GIURIDICA - UNITÀ
Cultura, sport e
Sanità e assistenza
Istruzione
Ricerca e sviluppo
Altre attività
Totale complessivo
ricreazione
sociale
Unità loc. Addetti Unità loc. Addetti Unità loc. Addetti Unità loc. Addetti Unità loc. Addetti Unità loc. Addetti
8.765
2.088
744
8.679
167
326
3.084 23.296
210
1.981 22.082 41.679
507
93
30
687
6
3
126
713
56
245
1.194
1.954
13.165 4.518
1.880 20.286
362
853
5.530 57.818
475
2.354 36.017 97.502
4.235
912
317
2.844
48
71
1.311
6.647
182
524
10.732 13.450
9.353
2.269
1.316 11.504
208
254
2.706 23.184
152
1.450 22.375 45.576
3.641
628
288
2.426
76
84
808
6.324
63
502
8.333 11.527
2.976
988
355
3.260
84
157
1.122
8.246
80
485
7.955 15.182
8.678
2.375
933
7.299
186
255
2.647 21.148
158
690
21.789 39.406
7.861
2.620
670
4.462
198
269
2.578 17.337
139
1.351 19.565 30.591
1.957
653
222
1.328
38
60
581
4.102
36
85
5.040
7.257
3.771
680
291
2.139
39
78
1.004
7.345
58
427
8.501 12.506
6.401
3.014
951
9.617
301
868
2.078 27.872
293
1.436 19.014 56.983
2.431
659
177
1.250
34
45
620
3.883
26
328
5.839
7.355
516
112
49
213
8
12
215
1.231
10
158
1.446
2.569
5.062
1.742
659
4.735
137
208
1.350
7.196
60
140
13.876 18.059
4.631
1.810
500
5.273
109
289
1.566 15.478
86
546
13.324 27.156
815
176
97
397
18
23
292
2.513
16
76
2.492
3.770
2.510
556
373
1.657
62
113
774
4.423
35
200
6.903
8.591
6.911
3.376
932
9.458
173
536
2.152 14.796
103
808
17.921 34.413
3.740
918
370
2.644
59
87
1.280
7.058
56
302
8.946 12.997
25.413 7.687
3.009 32.912
619
1.339
9.862 90.073
821
5.065 67.248 156.317
25.907 6.184
2.854 24.073
518
664
7.472 57.303
555
3.166 63.229 109.959
19.990 6.967
2.134 17.546
576
1.275
6.241 56.656
526
3.299 52.120 107.337
15.965 5.055
1.855 13.525
368
690
4.817 34.724
233
1.448 43.880 67.500
10.651 4.294
1.302 12.102
232
623
3.432 21.854
159
1.110 26.867 47.410
97.926 30.187 11.154 100.158 2.313
4.591 31.824 260.610 2.294 14.088 253.344 488.523
Fonte: Istat, Censimento dell’industria e dei servizi, 2001.
Carlo Borzaga, Alessandra Mori
Attività delle organizzazioni associative
Unità loc. Addetti
Piemonte
9.112
5.309
Valle d’Aosta
469
213
Lombardia
14.605 11.673
Trentino-A.A.
4.639
2.452
Veneto
8.640
6.915
Friuli-Venezia G. 3.457
1.563
Liguria
3.338
2.046
Emilia Romagna 9.187
7.639
Toscana
8.119
4.552
Umbria
2.206
1.029
Marche
3.338
1.837
Lazio
8.990
14.176
Abruzzo
2.551
1.190
Molise
648
843
Campania
6.608
4.038
Puglia
6.432
3.760
Basilicata
1.254
585
Calabria
3.149
1.642
Sicilia
7.650
5.439
Sardegna
3.441
1.988
Nord-Ovest
27.524 19.241
Nord-Est
25.923 18.569
Centro
22.653 21.594
Sud
20.642 12.058
Isole
11.091
7.427
ITALIA
107.833 78.889
Regioni
IL SETTORE NONPROFIT E LA RESPONSABILITÀ SOCIALE DELLE IMPRESE: UN’ANALISI PER LA LOMBARDIA
TABELLA 4 - UNITÀ LOCALI E ADDETTI AL NONPROFIT PER DIVISIONE DI ATTIVITÀ ECONOMICA (UNITÀ)
255
256
IMPRESA SOCIALE
aprile ~ giugno 2008
4. Il finanziamento del settore nonprofit
Gli ultimi dati utili per analizzare i bilanci delle organizzazioni nonprofit in Italia sono quelli del Censimento delle Istituzioni nonprofit
sul 1999 (Istat, 2001). Nell’aggregato, le entrate complessive ammontano a circa 37,8 miliardi di euro, mentre le uscite raggiungono i 35,6
miliardi, cifre di poco superiori al 3 per cento del prodo o interno
lordo; si evidenzia così una tendenza a chiudere i bilanci in sostanziale pareggio, o al più in lieve a ivo, che espone il se ore ai rischi
causati dalla mancanza di fonti di finanziamento su cui contare per
investimenti di medio-lungo periodo.
Sempre nell’aggregato (tab. 5), le entrate di fonte privata superano
quelle derivanti dalla pubblica amministrazione (64 per cento le prime, 36 per cento le seconde) e le entrate di mercato (provenienti dalla
vendita di beni e servizi, dai ricavi per contra i e convenzioni o dai
redditi finanziari e patrimoniali) sono prevalenti rispe o a sussidi,
quote sociali e donazioni e alle altre entrate (62,0 per cento le prime;
28,5 per cento i secondi; 9,5 per cento le ultime, che hanno origine
prevalentemente da fondazioni di erogazione).
I dati aggregati nascondono differenze regionali rilevanti. I bilanci
della Lombardia e del Lazio raggiungono insieme circa la metà dei
flussi nazionali e si equivalgono, in termini assoluti (circa 9 miliardi le entrate e poco meno le uscite), nonostante il peso significativamente superiore della Lombardia se misurato sulle unità locali e
sugli adde i. Le altre regioni seguono a notevole distanza (circa 3
miliardi le entrate del Piemonte e del Veneto). Il Lazio raccoglie circa il 30 per cento delle donazioni e delle quote sociali italiane, e un
quarto dei sussidi pubblici (tab. 6); la Lombardia ha una quota pari
al 30 per cento circa del totale delle entrate di mercato (ricavi e redditi da patrimonio).
Totale
per riga
100,0
100,0
100,0
100,0
100,0
100,0
100,0
100,0
100,0
100,0
100,0
100,0
100,0
100,0
100,0
100,0
100,0
100,0
100,0
100,0
100,0
100,0
100,0
100,0
100,0
100,0
Carlo Borzaga, Alessandra Mori
Entrate di fonte pubblica
Entrate di fonte privata
Sussidi e contributi a titolo gra- Ricavi per contratti e/o conven- Contributi degli Ricavi derivanti Donazioni,
Altre entrate
Redditi finanziari
Regioni
tuito da istituzioni e/o enti pub- zioni con enti e/o istituzioni pub- aderenti (quote da vendita di offerte e lasciti
di fonte
e patrimoniali
blici nazionali e internazionali bliche nazionali e internazionali
sociali)
beni e servizi
testamentari
privata
Piemonte
5,4
17,6
16,6
27,8
3,0
14,2
15,4
Valle d’Aosta
22,3
35,4
14,9
18,0
1,7
2,6
5,1
Lombardia
6,3
32,4
11,0
29,0
2,8
9,7
8,8
Trentino-A.A.
27,1
18,1
15,1
20,9
3,9
7,0
7,9
Veneto
8,9
22,5
16,5
28,1
3,2
10,7
10,1
Friuli-Venezia G.
13,1
24,6
20,6
21,3
3,0
6,9
10,5
Liguria
5,4
28,4
15,5
20,2
3,3
8,8
18,4
Emilia Romagna
5,8
22,4
20,2
28,0
4,2
9,1
10,3
Toscana
7,8
19,3
17,0
28,0
3,6
13,4
10,8
Umbria
10,0
20,6
33,1
22,7
2,4
4,6
6,5
Marche
7,5
20,0
18,0
27,7
4,0
10,5
12,3
Lazio
9,0
25,6
20,6
27,4
4,1
5,6
7,8
Abruzzo
8,8
29,0
18,8
25,1
2,1
4,0
12,1
Molise
4,8
56,4
13,6
16,2
1,9
1,6
5,4
Campania
13,0
23,7
19,5
27,9
2,5
3,4
10,2
Puglia
4,5
51,9
14,3
18,9
1,6
2,3
6,3
Basilicata
11,0
26,0
26,9
21,7
2,8
2,4
9,2
Calabria
11,6
31,4
23,8
14,3
6,5
2,8
9,7
Sicilia
17,1
37,1
17,3
17,5
1,8
2,2
7,1
Sardegna
17,3
40,3
14,7
17,4
3,2
1,8
5,3
Nord-Ovest
6,1
28,8
12,6
28,0
2,9
10,6
11,0
Nord-Est
10,2
22,2
18,0
26,7
3,6
9,4
10,0
Centro
8,8
24,0
20,3
27,3
4,0
7,1
8,5
Sud
8,7
37,3
18,0
21,9
2,6
2,9
8,6
Isole
17,1
38,0
16,5
17,5
2,2
2,1
6,6
ITALIA
8,5
27,5
16,7
26,4
3,3
8,1
9,5
IL SETTORE NONPROFIT E LA RESPONSABILITÀ SOCIALE DELLE IMPRESE: UN’ANALISI PER LA LOMBARDIA
TABELLA 5 - DISTRIBUZIONE DELLE ENTRATE DELLE ISTITUZIONI NONPROFIT PER FONTE (VALORI PERCENTUALI)
257
258
TABELLA 6 - DISTRIBUZIONE DELLE ENTRATE DELLE ISTITUZIONI NONPROFIT PER REGIONE (VALORI PERCENTUALI)
IMPRESA SOCIALE
Fonte: elaborazioni su dati Istat, Censimento non profit 1999.
Totale
per
colonna
8,1
0,2
25,4
1,8
7,4
1,5
3,1
5,7
5,4
1,1
1,6
23,9
1,0
0,2
2,6
3,4
0,4
0,9
4,6
1,8
36,7
16,4
32,0
8,5
6,4
100,0
aprile ~ giugno 2008
Entrate di fonte pubblica
Entrate di fonte privata
Sussidi e contributi a titolo gra- Ricavi per contratti e/o conven- Contributi degli Ricavi derivanti Donazioni,
Altre entrate
Redditi finanziari
Regioni
tuito da istituzioni e/o enti pub- zioni con enti e/o istituzioni pub- aderenti (quote da vendita di offerte e lasciti
di fonte
e patrimoniali
blici nazionali e internazionali bliche nazionali e internazionali
sociali)
beni e servizi
testamentari
privata
Piemonte
5,1
5,2
8,0
8,5
7,3
14,2
13,0
Valle d’Aosta
0,5
0,2
0,2
0,1
0,1
0,1
0,1
Lombardia
18,6
29,9
16,7
28,0
21,6
30,6
23,4
Trentino-A.A.
5,7
1,2
1,6
1,4
2,2
1,5
1,5
Veneto
7,7
6,0
7,3
7,9
7,3
9,7
7,8
Friuli-Venezia G.
2,3
1,3
1,8
1,2
1,3
1,3
1,6
Liguria
1,9
3,2
2,8
2,4
3,1
3,3
5,9
Emilia Romagna
3,9
4,7
7,0
6,1
7,4
6,5
6,2
Toscana
5,0
3,8
5,5
5,8
6,0
9,0
6,1
Umbria
1,3
0,9
2,3
1,0
0,9
0,7
0,8
Marche
1,4
1,1
1,7
1,6
1,9
2,0
2,0
Lazio
25,2
22,2
29,5
24,8
30,0
16,5
19,4
Abruzzo
1,1
1,1
1,2
1,0
0,7
0,5
1,3
Molise
0,1
0,5
0,2
0,1
0,1
0,0
0,1
Campania
3,9
2,2
3,0
2,7
2,0
1,1
2,7
Puglia
1,8
6,3
2,9
2,4
1,7
1,0
2,2
Basilicata
0,5
0,3
0,6
0,3
0,3
0,1
0,3
Calabria
1,3
1,1
1,3
0,5
1,8
0,3
0,9
Sicilia
9,2
6,2
4,8
3,0
2,5
1,2
3,4
Sardegna
3,7
2,7
1,6
1,2
1,8
0,4
1,0
Nord-Ovest
26,1
38,5
27,8
39,0
32,1
48,1
42,4
Nord-Est
19,5
13,2
17,7
16,6
18,1
19,0
17,1
Centro
32,9
27,9
39,0
33,1
38,8
28,2
28,3
Sud
8,6
11,5
9,2
7,1
6,6
3,0
7,7
Isole
12,9
8,9
6,4
4,3
4,3
1,6
4,5
ITALIA
100,0
100,0
100,0
100,0
100,0
100,0
100,0
IL SETTORE NONPROFIT E LA RESPONSABILITÀ SOCIALE DELLE IMPRESE: UN’ANALISI PER LA LOMBARDIA
Carlo Borzaga, Alessandra Mori
L’analisi per singola area (fa o 100 il totale delle entrate per ogni regione, tab. 5) rivela, per il Centro-Nord, una prevalenza più spiccata
delle entrate private su quelle pubbliche rispe o al dato aggregato.
Tra le stesse regioni, inoltre, i ricavi per la vendita di beni e servizi sono prevalentemente di fonte privata (26 per cento nella media
nazionale, oltre 29 in Lombardia); viceversa, al Sud e nelle Isole i
sussidi sono più importanti che nell’aggregato (8,7 e 17,2 per cento) e, tra le entrate di mercato, prevalgono di gran lunga quelle a
commi enza pubblica (oltre il 37 per cento). I sussidi sono molto
importanti anche per le regioni a statuto speciale (questo influenza
il dato del Nord-Est). Le donazioni private rappresentano una quota
ancora molto modesta del totale delle entrate, in ogni regione (3,3
per cento nell’aggregato).
Per avere un’idea di confronto con un paese in cui il se ore nonprofit
gode di una lunga tradizione, in Gran Bretagna le donazioni rappresentano l’11 per cento delle entrate, che ammontano a 76,6 miliardi
di euro (Kendall, Knapp, 1996), e gli adde i sono oltre un milione e
mezzo, a cui vanno aggiunti circa 16 milioni di volontari.
5. Il nonprofit e la responsabilità sociale di impresa: il caso
della Lombardia
La teoria
Come si è accennato nell’introduzione, un primo gruppo di interpretazioni proposte dalla teoria economica per spiegare l’esistenza delle
organizzazioni nonprofit postula la presenza di asimmetrie informative tra produ ori e consumatori, per superare le quali i primi pongono un vincolo alla non distribuzione degli utili: ciò costituisce un
segnale di garanzia che queste asimmetrie non saranno sfru ate ex
post per massimizzare il profi o a scapito della qualità del prodo o
(Hansmann, 1980; Glaeser, Shleifer, 1998). Le organizzazioni nonprofit si sviluppano dunque nei se ori (servizi di utilità sociale) dove ciò
che causa il fallimento del contra o è la di coltà da parte dei consumatori di controllare la qualità del prodo o, essenzialmente in alternativa alle imprese for-profit. Questa teoria non sembra tu avia avere
cara ere generale e vale prevalentemente per le organizzazioni la cui
gestione sia a data a manager, diversi dai “proprietari” (che anzi non
esistono, vista l’assenza dello scopo di lucro); si ada a sopra u o alla
realtà statunitense, basata su enti fondazionali, spesso di grandi di-
259
260
IMPRESA SOCIALE
aprile ~ giugno 2008
mensioni, largamente finanziati da donatori che sono i portatori di
interesse più colpiti dalle asimmetrie informative.
Le nonprofit europee hanno invece sovente assunto la forma di organizzazioni gestite con criteri di impresa, che offrono beni o servizi di utilità sociale, cara erizzati da un certo grado di meritorietà,
spesso create da volontari e da essi del tu o o in parte gestite (in particolare nelle fasi iniziali di sviluppo) e sempre più spesso finanziate
dalle amministrazioni pubbliche, o a raverso la vendita dei servizi
ai consumatori. In Italia, in particolare, sono diffuse le cooperative
sociali i cui fondatori o gestori conservano il controllo sull’a ività
(Borzaga, 2005). Esse sovente collaborano e talvolta competono con
le amministrazioni pubbliche nella produzione dei servizi sociali:
cioè di servizi a consumo frequente e ripetuto e quindi in generale
non particolarmente sogge i a problemi di carenza o asimmetria informativa (Borzaga, 2002); essendo inoltre entrambe vincolate alla
non massimizzazione del profi o, quale sarebbe allora il vantaggio
delle prime sulle seconde?
L’interpretazione proposta da Weisbrod (1977) sembra più appropriata: esso individua nelle organizzazioni nonprofit una risposta
complementare a quella dell’operatore pubblico, in grado di soddisfare la domanda di beni pubblici o di interesse colle ivo diversa da
quella dell’ele ore mediano; e di supplenza nei confronti delle imprese for-profit, che non potrebbero soddisfarla a causa non solo di
asimmetrie informative, ma anche di esternalità e di connessa possibilità di free-riding. In altri termini, in mancanza di un’offerta pubblica, derivante da scelte del governo, i soli meccanismi di mercato non
riuscirebbero a garantire un’offerta adeguata so o il profilo quantitativo e qualitativo: molti consumatori - tu i quelli dotati di risorse
insu cienti - non potrebbero acquistare prodo i essenziali all’eventuale prezzo di mercato. L’equilibrio di mercato sarebbe quindi socialmente sub-o imale. D’altro canto, la sola offerta pubblica, in grado di aumentare la capacità di consumo dei ci adini non dotati delle
risorse necessarie, si concentrerebbe su produzioni standardizzate e
non risponderebbe ai bisogni degli ele ori sovra-mediani. Tu avia
pur per molti aspe i convincenti, anche questa spiegazione appare
non del tu o soddisfacente, sia perché limita l’azione delle organizzazioni nonprofit in ambiti residuali (dove il pubblico non interviene), sia perché non spiega le sempre più diffuse esperienze di collaborazione tra pubblico (in qualità di finanziatore) e nonprofit (in
qualità di produ ore). Infine perché sopravvaluta, come l’approccio
IL SETTORE NONPROFIT E LA RESPONSABILITÀ SOCIALE DELLE IMPRESE: UN’ANALISI PER LA LOMBARDIA
Carlo Borzaga, Alessandra Mori
precedente, la capacità del vincolo di non distribuzione degli utili
di garantire la qualità dei servizi, e so ovaluta sia i problemi di e cienza sia la capacità delle imprese for-profit di investire in reputazione e di creare in questo modo legami fiduciari.
L’esperienza sembrerebbe suggerire invece (Borzaga, 2002) che un
vantaggio delle imprese nonprofit rispe o sia a quelle pubbliche
sia alle for-profit sia costituito dalla loro capacità di ridurre i costi
di produzione unitari, sia per l’utilizzo di lavoro volontario, sia per
l’abilità di selezionare lavoratori più motivati, sia infine per la possibilità di contenere il monte salari a raverso forme di remunerazione
non monetaria. Spesso però le organizzazioni nonprofit si pongono
anche l’obie ivo di consentire a sogge i privi di risorse l’utilizzo del
bene o del servizio prodo o, seguendo quindi logiche allocative diverse da quelle di equivalenza tipiche del mercato e modificando
così la distribuzione del reddito a vantaggio di gruppi selezionati
di ci adini; ciò può comportare la necessità di distribuire a costoro i
propri prodo i a prezzi inferiori ai costi, o gratuitamente (si pensi al
recupero di lavoratori svantaggiati o disabili operato dalle cooperative sociali di tipo B che offrono servizi alle famiglie e alle imprese;
o ai prodo i ecologici o solidali che rispondono a standard ambientali o lavorativi più stringenti della media). Quando in questi casi la
differenza tra prezzi e costi è modesta o limitata a pochi utenti, le
imprese interessate possono farvi fronte semplicemente a raverso
il contenimento dei costi, del lavoro e non solo, o grazie al ricorso a
manodopera volontaria accanto a quella retribuita. Quando invece
la platea dei beneficiari diviene più consistente e quindi la funzione
redistributiva si intensifica, le organizzazioni devono trovare risorse
non di mercato per coprire la quota di costi non altrimenti coperti,
vuoi a raverso i canali più tradizionali delle donazioni, vuoi a raverso la vendita a prezzi più elevati a consumatori ricchi o disponibili a rinunciare, almeno in parte, alla rendita del consumatore (attraverso forme di discriminazione di prezzo).
In Italia, come si è visto dai dati censuari, la quota delle donazioni
è modesta; le risorse a uenti dal se ore pubblico non crescono in
maniera su ciente a far fronte alla domanda, a motivo delle esigenze di risanamento fiscale. Diventa dunque di fondamentale importanza, per le organizzazioni nonprofit italiane, poter aumentare la
quota delle proprie entrate che provengono da sogge i di mercato,
sopra u o quando, come negli ultimi anni, è più di cile coinvolgere nuovi volontari.
261
262
IMPRESA SOCIALE
aprile ~ giugno 2008
Dal canto loro, i sogge i for-profit, potenziali donatori o finanziatori, possono avere un incentivo a sostenere il se ore, facendosi carico
di parte di questi extra-costi, se esiste un vantaggio dal cosidde o
comportamento etico. In questo caso, l’a ività filantropica potrebbe
configurarsi come comportamento volto alla massimizzazione del
profi o e i suoi effe i sarebbero misurabili.
Nei paragrafi seguenti, si descriveranno le diverse forme di a enzione al sociale promosse da uno specifico gruppo di sostenitori, le
imprese for-profit della Lombardia, definendo un livello minimo di
“comportamento etico” che fa riferimento ad alcune delle best practice della responsabilità sociale di impresa. Successivamente, si tenterà
di quantificarlo e di comprenderne le motivazioni; infine, si cercherà
di misurare se l’adozione di un comportamento etico si accompagni
a risultati di impresa migliori.
I dati
I dati utilizzati in questa sezione del lavoro provengono da una rilevazione regionale realizzata nell’ambito della più ampia indagine che la Banca d’Italia effe ua annualmente sugli investimenti e
sull’occupazione nelle imprese industriali. I dati sono so oposti a
diversi controlli formali e tengono conto dell’effe o di operazioni
straordinarie eventualmente effe uate dalle aziende (scorpori, cessioni di rami d’azienda, fusioni, ecc.).5
Nel corso della rilevazione, che per la Lombardia ha comportato l’intervista a 338 imprese, è stato so oposto alle imprese stesse un questionario integrativo usato solo a livello regionale, riportato in Appendice. Il sub-campione regionale è stato riproporzionato utilizzando
coe cienti di ponderazione che, a livello di strato, tengono conto del
rapporto tra numero di imprese rilevate e numero di imprese presenti
nell’universo di riferimento, con dati censuari (Istat, 2004). Le medie
e le frequenze campionarie stimate sono quindi utilizzate per fare inferenza sulle corrispondenti variabili della popolazione, salvo diversa
indicazione. Si rimanda a Banca d’Italia (2005b) per ulteriori de agli
sulle cara eristiche stru urali del campione regionale.
Gli indici di stru ura finanziaria per le stesse imprese (Return on
Assets e Return on Equity) sono invece stati estra i dalla base dati
Cerved-centrale dei bilanci, che raccoglie informazioni relative alla
quasi totalità delle società di capitale italiane.6
5
L’indagine nazionale è basata su un campione di aziende stratificato per regione, settore e classe dimensionale, tendenzialmente “chiuso”, che conta circa 3.000 imprese con 20 addetti o più.
Per informazioni più dettagliate sull’indagine si rinvia a Banca d’Italia (2005a), Appendice.
6
Si rimanda a Banca d’Italia (2005b) per un’illustrazione più diffusa di questa base dati.
IL SETTORE NONPROFIT E LA RESPONSABILITÀ SOCIALE DELLE IMPRESE: UN’ANALISI PER LA LOMBARDIA
Carlo Borzaga, Alessandra Mori
I risultati: quali comportamenti etici?
L’indagine campionaria ha cercato di quantificare l’impegno delle
imprese del campione (for-profit) nei confronti di sogge i nonprofit.
Alle imprese del campione è stato chiesto se abbiano compiuto, negli ultimi tre anni, elargizioni liberali nei confronti di questi sogge i,
e di che tipo; se abbiano avuto transazioni commerciali con imprese
nonprofit; se abbiano consapevolmente impiegato forza lavoro appartenente a categorie socialmente svantaggiate (cosa che costituisce una forma di sostegno sopra u o alle cooperative sociali). Si
è cercato poi di quantificare l’impegno delle imprese for-profit, in
termini di percentuale del fa urato dedicato a questo tipo di operazioni. Infine, si è chiesto alle imprese di offrire una motivazione per
l’a enzione eventualmente mostrata verso i sogge i nonprofit.
La le eratura internazionale sulla responsabilità sociale di impresa
annovera tra le best practice anche l’impegno consapevolmente assunto a favore di sogge i nonprofit, anche al fine di realizzare forme
di partnership nella comunità; afferma inoltre che tali pratiche sono
correlate positivamente alla performance dell’impresa (per una rassegna, si veda Molteni, 2004). Utilizzando gli stessi dati, dunque, si
è partizionato il campione in due categorie (imprese “etiche” e non),
per valutare se le imprese dei due gruppi abbiano differenti valori di
produ ività e di redditività. Per il lavoro, si è calcolata la produ ività media annua (in temini di fa urato per dipendente); per il capitale, il ROA (Return on Assets) e il ROE (Return on Equity), entrambi
come media degli ultimi tre anni (2002-2004).
Secondo Beda e Bodo (2004), gli interventi socialmente responsabili
dell’impresa nella comunità di appartenenza sono catalogabili in ordine crescente di impegno a ivo e consapevolezza. In questo lavoro
si è scelto di tenere distinte due categorie di intervento “etico” delle
imprese for-profit: i) la donazione gratuita (intesa in senso sempre
meno passivo, dall’elargizione liberale, alla donazione in natura, alle
sponsorizzazioni), e ii) l’operazione commerciale a favore di sogge i
nonprofit, in senso crescente di complessità (acquisti sociali, etici e
solidali, finanza etica, marketing sociale).
Dall’indagine emerge che, nella media del se ore industriale
lombardo,7 il 71,4 per cento delle imprese ha effe uato una donazione liberale di qualche tipo (fig. 1).
7
I dati sono riproporzionati all’universo.
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IMPRESA SOCIALE
aprile ~ giugno 2008
FIGURA 1 - DONAZIONI AL NONPROFIT E MOTIVAZIONI (VALORI PERCENTUALI)
80
71,4
Elargizioni liberali
Motivazioni
Operazioni commerciali
70
61,0
60
55,6
53,8
50
43,6
40
30
22,0
21,2
16,9
20
16,4
10
2,8
16,8
6,0 3,0
0,6 0,8
3,1
6,3
0,0 0,4 0,0 0,0
2,3
0
ti
ti
a
a
ri
o
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e
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Sp
A
tale oni
O
Mig
D
To
ici
ro
Alt
Fonte: Banca d’Italia, Indagine regionale presso le imprese industriali (2004).
L’impegno più frequente riguarda una donazione in denaro pura
e semplice (55,6 per cento delle imprese), seguita dalla donazione
in natura (21,2 per cento), che può anche assumere la forma della
vendita dei propri prodo i ad un prezzo inferiore a quello di mercato. Non è infrequente la sponsorizzazione di eventi scientifici o
culturali, o l’adesione a proge i di solidarietà internazionale (16,4
per cento), mentre è poco diffusa la promozione, tra il personale, di
iniziative di volontariato di impresa (2,8 per cento).
Il volontariato di impresa è la pratica di coinvolgere il personale
nella comunità locale, con il supporto aziendale. Può assumere diverse forme, sia gestite dire amente dal personale con il riconoscimento dell’impresa (employee-led) - quali, per esempio, il coordinamento del volontariato, le banche del tempo, la mobilitazione
a favore di eventi locali, il matched giving, in cui le donazioni del
personale vengono raddoppiate dall’impresa - sia gestite dire amente dall’impresa (employer-initiated), nella forma prevalente di
distacchi di lungo periodo presso istituzioni nonprofit. Si tra a di
una pratica che ha lo scopo di me ere a disposizione dell’ente nonprofit competenze specialistiche di maggior valore aggiunto che il
semplice aiuto finanziario, e al contempo di sviluppare la motivazione e l’impegno del personale.
Nel campione considerato sono in numero esiguo le imprese che
hanno dichiarato di far ricorso a questo strumento: pur con la cautela imposta dalla bassa numerosità, si tra a in prevalenza di imprese molto grandi (sopra i mille adde i).
IL SETTORE NONPROFIT E LA RESPONSABILITÀ SOCIALE DELLE IMPRESE: UN’ANALISI PER LA LOMBARDIA
Carlo Borzaga, Alessandra Mori
Per quanto riguarda le operazioni etiche-commerciali, effe uate dal
53,8 per cento delle imprese industriali lombarde (fig. 1), l’impegno
di gran lunga più diffuso è l’acquisto di doni aziendali o biglie i augurali (43,6 per cento), seguito dall’acquisto di servizi o beni offerti
da cooperative sociali (16,8 per cento). L’acquisto di prodo i equosolidali è molto meno diffuso (lo realizza il 6,0 per cento delle imprese), così come le operazioni di finanza etica (3,0 per cento). Solo lo 0,6
per cento delle imprese industriali, infine, ha effe uato campagne di
marketing sociale (cause-related marketing).
Il cause-related marketing consiste in un’a ività di promozione commerciale che fornisce al contempo un contributo ad una causa sociale. Nel campione considerato sono pochissime le imprese che
hanno dichiarato di far ricorso a questo strumento: si tra a di imprese grandi e operanti nel se ore dei beni di largo consumo, in
cui il segmento commerciale è rilevante. L’esperienza aneddotica
indica che si tra a di uno strumento in uso in maniera più marcata
tra le imprese commerciali, che questo lavoro, circoscri o al se ore
industriale, non prende in esame. I risultati di un’indagine campionaria riportata in Molteni (2004)8 indicano come motivazione più
importante per una campagna di CRM i benefici immateriali (per
esempio di immagine), rilevata dal 55 per cento degli intervistati.
Per i due terzi del campione inoltre, il risultato principale a favore
del sogge o nonprofit partner della campagna è stato un incremento nella raccolta di fondi.
Una diversa modalità di assistenza agli enti nonprofit prende la forma dell’assunzione consapevole, da parte delle imprese for-profit, di
personale socialmente svantaggiato, recuperato al mercato del lavoro dai programmi messi in a o dalle cooperative sociali.9 Il 7,8 per
cento delle imprese industriali della regione ha compiuto una scelta
di questo tipo: si tra a di un valore decisamente rilevante, indicativo
del radicamento che questo tipo di cooperazione sociale è riuscito a
sviluppare, nonostante l’incertezza delle politiche pubbliche di sostegno.
In conclusione, considerando le imprese che hanno portato a termine almeno una delle operazioni elencate, sono definibili come etiche in senso lato l’81,7 per cento delle imprese industriali lombarde.
Un campione di 40 imprese industriali e dei servizi, impegnate in CRM e diffuse in diverse
aree d’Italia.
9
L’impresa for-profit non paga un salario diverso da quello di equilibrio per il lavoratore recuperato; tuttavia, scegliendo quel particolare individuo invece di un altro, sopporta il rischio di
una minore produttività.
8
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IMPRESA SOCIALE
aprile ~ giugno 2008
Questi risultati si confrontano con quelli medi per l’Italia elaborati
da Unioncamere (Molteni, 2003),10 secondo cui il 70 per cento circa
delle imprese ha effe uato donazioni e circa il 20 per cento ha acquistato beni o servizi da sogge i nonprofit (con valori più alti della
media nel Nord-Est).
Una misura della generosità
Si è cercato poi di quantificare il valore delle donazioni liberali e delle operazioni commerciali a favore dei sogge i nonprofit in termini
di fa urato dei donanti.11
Le donazioni godono, nel nostro ordinamento, di diverse forme di
agevolazioni fiscali. La legge n. 80 del 12 maggio 2005 (conosciuta
anche come “più dai, meno versi”) perme e di dedurre fiscalmente
le erogazioni liberali, in denaro e in natura, effe uate da persone
fisiche o imprese alle Onlus, alle associazioni di promozione sociale, alle fondazioni e alle associazioni riconosciute (aventi per ogge o statutario la tutela, promozione e valorizzazione dei beni di
interesse artistico, storico e paesaggistico), fino ad un ammontare
pari al 10 per cento del reddito dichiarato, con un massimale di
70.000 euro. Sopravvivono in alternativa, e in taluni casi possono
risultare più convenienti per il donante, altre agevolazioni: le erogazioni liberali a favore di enti del se ore dello spe acolo e della
cultura sono deducibili integralmente; sono deducibili anche i costi
delle campagne di CRM e le spese relative ai distacchi dei propri
dipendenti presso le Onlus (nel limite del 5 per mille del totale); le
altre erogazioni liberali sono sogge e al limite del 2 per cento del
reddito, ma senza massimale.
La donazione media delle imprese industriali lombarde è pari allo
0,52 per cento del fa urato medio annuo (circa 113.900 euro). La distribuzione delle donazioni è tu avia influenzata da poche imprese
grandi e particolarmente filantropiche; il valore mediano è molto
inferiore (0,1 per cento del fa urato, pari ad una donazione di circa
21.900 euro).12
Un campione di 427 imprese italiane tra i 20 e i 250 addetti, stratificato per classe dimensionale, macrosettore (industria e servizi) e macro-regione (Nord-Ovest, Nord-Est, Centro e
Sud-Isole).
11
Le indicazioni che seguono vanno interpretate con cautela a motivo della bassa numerosità
campionaria.
12
La mediana è il valore che partiziona la distribuzione di frequenza in modo tale che la metà
della distribuzione sta a destra e la metà a sinistra di esso; rispetto alla media, è meno influenzata dai valori estremi.
10
IL SETTORE NONPROFIT E LA RESPONSABILITÀ SOCIALE DELLE IMPRESE: UN’ANALISI PER LA LOMBARDIA
Carlo Borzaga, Alessandra Mori
Per quantificare l’impegno etico-commerciale si è fa o riferimento
alla possibilità che l’impresa for-profit paghi un prezzo superiore a
quello di mercato per il bene o servizio acquistato. Il 49,9 per cento
delle imprese ha dichiarato di aver effe uato l’operazione a prezzi di
mercato: l’impegno nei confronti del se ore nonprofit è allora molto
labile e si sostanzia esclusivamente nella scelta di preferire, a parità
di altre condizioni, un fornitore nonprofit ad uno for-profit; il soggetto nonprofit è allora assogge ato alle leggi di mercato e non gode di
“favori” di nessun genere. Le restanti imprese invece hanno pagato
un prezzo superiore a quello di mercato: si sono dunque fa e carico
di una parte del costo sociale del servizio offerto dall’ente nonprofit.13
Fra queste ultime, il valore sociale dell’operazione è stato valutato pari
allo 0,38 per cento del fa urato medio annuo (92.400 euro); anche in
questo caso, per l’influenza di poche grandi imprese fortemente donatrici, la mediana è molto più bassa (0,01 per cento, 2.400 euro).
Questi valori si confrontano abbastanza da vicino con i risultati della ricerca Summit Solidarietà - Irs (2006) che, dall’analisi dei dati fiscali sulle
donazioni, quantificano in circa 8.000 euro l’elargizione liberale media
delle imprese italiane. La stessa ricerca o iene valori molto più elevati
(circa dieci volte tanto), e dunque più simili a quelli o enuti supra, restringendo l’analisi alle sole aziende quotate o a quelle manifa uriere.
Impegno etico e performance d’impresa
Una sezione dell’indagine è stata dedicata a cercare di so oporre a
test l’ipotesi, spesso citata nella le eratura sulla responsabilità sociale delle imprese (Margolis, Walsh, 2001) che i buoni rapporti con la
comunità siano accompagnati da performance di impresa superiori
in termini di produ ività del lavoro, di rendimento del capitale, e
di migliori relazioni con gli stakeholder, oltre che da effe i positivi in
termini di immagine.
Dapprima, dunque, si è chiesto alle sole imprese donatrici di fornire
una o più motivazioni dell’a enzione mostrata verso i sogge i nonprofit (fig. 1). La risposta di gran lunga più frequente è stata la ricerca di un ritorno di immagine o di migliori relazioni con la comunità
(per il 61,0 per cento delle imprese), seguita dal miglioramento dei
rapporti con e fra i dipendenti (6,3 per cento). Le altre opzioni suggerite dalla le eratura (Molteni, 2004; Beda, Bodo, 2004) sono state
largamente ignorate: la ricerca a iva di un beneficio fiscale è stata
individuata dal 3,1 per cento delle imprese; la possibilità di miglio13
Nessuna impresa ha dichiarato di aver pagato un prezzo “inferiore” a quello di mercato.
267
268
IMPRESA SOCIALE
aprile ~ giugno 2008
rare i rapporti con i fornitori dallo 0,4 per cento. Nessuno ha rilevato
dire amente un aumento delle quantità vendute o la possibilità di
trasferire sui prezzi di vendita il costo del comportamento etico, né
ha segnalato un abbassamento del costo del credito. Al contrario, il
2,3 per cento delle imprese ha classificato il proprio operato come
un’operazione condo a a prezzi di mercato. Non sembra dunque
che le imprese siano consapevoli dell’azione di quei meccanismi virtuosi che innescherebbero benefici non solo intangibili, per l’impresa, dall’adozione di queste pratiche di responsabilità sociale.
In un secondo passaggio, infine, si è cercato di quantificare le differenze di produ ività e redditività. Le imprese definite come etiche
in senso lato, come elaborato supra (l’81,7 per cento del totale), hanno avuto nel 2004 una produ ività del lavoro maggiore del 60 per
cento rispe o a quelle non etiche (la tab. 7 riporta i valori e i relativi intervalli di confidenza al 95 per cento): l’ipotesi nulla di uguali
produ ività nei due gruppi di sogge i è respinta fino al livello di
significatività del 2,5 per cento.14
TABELLA 7 - PRODUTTIVITÀ MEDIA DEL LAVORO (IN MIGLIAIA DI EURO)
Media
Intervallo di confidenza al 95%
Intervallo di confidenza al 99%
T level
Imprese etiche
277,9
242,8 ÷ 313,1
231,4 ÷ 324,5
2,558 (**)
Altre imprese
175,2
147,3 ÷ 203,1
138,1 ÷ 212,3
Fonte: elaborazioni su dati Banca d’Italia, Indagine regionale presso le imprese
industriali.
(*): livello di significatività al 5% - (**): livello di significatività al 2,5% - (***): livello
di significatività all’1%
Per quanto riguarda il capitale, l’analisi si è concentrata su due indici classici di redditività, il ROA (Return on Assets, il rapporto tra
utile di esercizio e l’a ivo) e il ROE (Return on Equity, il rapporto tra
l’utile ed il patrimonio ne o), entrambi calcolati come media sui tre
anni 2001-2003. Tra i due, il ROA offre un indicatore più a dabile, meno sensibile al problema della bassa capitalizzazione tipico di
molte imprese italiane. La tabella 8 riporta i valori e gli intervalli di
Per la definizione di intervallo di confidenza, si veda Mood et al. (1974, p. 373); per il test
di uguaglianza delle medie, ibidem, pag. 433. Si ipotizza che le popolazioni di provenienza
siano normali con uguale varianza; i dati non sono riproporzionati; il test è distribuito come
una t con un numero di gradi di libertà pari alla somma delle numerosità campionarie dei due
sottogruppi ridotte di 2.
14
IL SETTORE NONPROFIT E LA RESPONSABILITÀ SOCIALE DELLE IMPRESE: UN’ANALISI PER LA LOMBARDIA
Carlo Borzaga, Alessandra Mori
confidenza al 95 per cento: sia il ROA che il ROE delle imprese etiche
sono significativamente superiori, nella media del triennio, di quelli
delle imprese non etiche (di 3 punti il primo e di quasi 30 il secondo15) e l’ipotesi nulla di indicatori uguali nei due gruppi di sogge i è
respinta fino al livello di significatività dell’1 per cento.
TABELLA 8 - REDDITIVITÀ DEL CAPITALE (VALORI PERCENTUALI)
Media
Intervallo di confidenza al 95%
Intervallo di confidenza al 99%
T level
ROA (Return on Assets)
Imprese etiche Altre imprese
2,1
-0,8
ROE (Return on Equity)
Imprese etiche Altre imprese
4,3
-24,7
1,3 ÷ 3,0
-3,7 ÷ 2,0
-0,2 ÷ 8,8
-65,4 ÷ 16,0
1,0 ÷ 3,2
-4,7 ÷ 3,0
-1,6 ÷ 10,3
-79,6 ÷ 30,2
3,285 (***)
5,863 (***)
Fonte: elaborazioni su dati Banca d’Italia, Indagine regionale presso le imprese
industriali, e Cerved.
(*): livello di significatività al 5% - (**): livello di significatività al 2,5% - (***): livello
di significatività all’1%
Questo risultato non collima con quelli di Molteni (2004), relativi
alla redditività del capitale, che trova un’evidenza solo parziale che
il ROE delle imprese etiche del se ore manifa uriero sia maggiore
che nel gruppo di controllo e conclude che non c’è forte correlazione
tra la CSR e gli indicatori di performance economica. Il tipo di esercizio condo o qui, tu avia, va le o con cautela, perché non considera
quelle variabili che possono avere influenza sia sulla performance
sia sulla scelta se ado are un comportamento etico; dunque, non
perme e di trarre conclusioni sulla direzione del legame di causalità
tra le due cose. Probabilmente i buoni livelli di performance sono la
condizione che perme e alle imprese interventi di sostegno ad a ività sociali di vario tipo; e non viceversa.
6. Considerazioni conclusive
Questo lavoro descrive alcune cara eristiche del nonprofit italiano,
come emergono dai dati censuari. Si tra a di un se ore che impegna quasi seicentomila adde i retribuiti, a cui si a ancano oltre tre
Per queste ultime i valori del ROE sono molto sensibili alla presenza di alcune imprese con
il bilancio in forte perdita.
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IMPRESA SOCIALE
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milioni di volontari, il cui peso è raddoppiato nel corso degli anni
novanta. È un se ore ancora piccolo, in termini di entrate, che non
raggiungono il 3,5 per cento del prodo o interno lordo; dipendente
per oltre un terzo da finanziamenti di origine pubblica. Le donazioni
private rappresentano una quota ancora molto modesta del totale
delle entrate (3,3 per cento) e la tendenza, per le organizzazioni che
ne fanno parte, a chiudere i bilanci in pareggio, o al più in lieve attivo, lo espone ai rischi causati dalla mancanza di fonti di finanziamento su cui contare per investimenti di più lungo respiro.
La necessità in cui versano i sogge i nonprofit di reperire fondi privati (donazioni o risorse provenienti dalla vendita dei propri beni o
servizi) è dovuta alla crescita insu ciente delle risorse della commi enza pubblica rispe o al bisogno; in generale la disponibilità
dei sogge i for-profit a sostenere a ività sociali è tanto maggiore
quanto più essi percepiscono di avere un vantaggio dal cosidde o
comportamento etico.
L’eticità di impresa è stata intesa, in questo lavoro, come l’adozione di
alcune delle best practice della responsabilità sociale di impresa. Partendo dal laboratorio costituito da una regione, la Lombardia, dove
la vocazione industriale si associa ad una forte presenza del se ore
nonprofit (è la prima regione di insediamento), il lavoro presenta
i risultati di una sezione dell’indagine annuale della Banca d’Italia
sulle imprese industriali, relativa alle sole imprese della regione, che
ha investigato le relazioni tra i due gruppi di sogge i, ha misurato
l’impegno delle imprese for-profit nei confronti dei sogge i nonprofit, e ne ha indagato le motivazioni.
Le conclusioni che si possono trarre dall’indagine sono chiare nel
delineare l’esistenza di una rete di relazioni tra le due categorie di
sogge i: sono molte infa i - oltre l’80 per cento - le imprese che si riconoscono in una forma “blanda” di comportamento etico; tu avia,
non sembra che questo assuma quella forma “moderna” di a enzione al sociale, allo sviluppo sostenibile e ai diversi stakeholder auspicata dalla le eratura sulla responsabilità sociale di impresa. Esso
sembra, al contrario, avere le sembianze di una filantropia passiva,
anche piu osto contenuta in termini di impegno economico, che non
supera lo 0,52 per cento del fa urato per l’impresa media (valore che
scende allo 0,1 per l’impresa mediana).
Due aspe i, allora, emergono dall’analisi. In primo luogo, non sembra che le imprese siano consapevoli dell’azione di quei meccanismi
virtuosi che affermano come vi siano benefici concreti, per l’impre-
IL SETTORE NONPROFIT E LA RESPONSABILITÀ SOCIALE DELLE IMPRESE: UN’ANALISI PER LA LOMBARDIA
Carlo Borzaga, Alessandra Mori
sa, dall’adozione di pratiche di responsabilità sociale: in prevalenza,
infa i, esse affermano di averle tenute per riceverne un beneficio intangibile, in termini di ritorno di immagine. Tu avia, e questo è il secondo aspe o che emerge dall’analisi, le imprese impegnate in campo etico, pur con le poche risorse profuse, sono quelle decisamente
migliori in termini di performance: sia la produ ività del lavoro, sia
la redditività del capitale sono risultate significativamente più alte
che per quelle non impegnate in a ività filantropiche. La direzione
di causalità non è chiara. In generale, appare plausibile che siano le
imprese con la migliore performance quelle che possono perme ersi
di tenere un comportamento etico, e non viceversa.
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IL SETTORE NONPROFIT E LA RESPONSABILITÀ SOCIALE DELLE IMPRESE: UN’ANALISI PER LA LOMBARDIA
Carlo Borzaga, Alessandra Mori
Appendice: il questionario
QUESTIONARIO CONGIUNTURALE PER LA LOMBARDIA
ANNO 2004-2005
estratto
Denominazione Azienda
Provincia
Codice Impresa
Classe Istat (Ateco 02)
________________________
________________________
________________________
________________________
Compilare con cura questa prima parte relativa all’azienda
OCCUPAZIONE (inclusa CIG, al netto di operazioni
straordinarie) A FINE ANNO
2002
2003
2004
____
____
____
2003
FATTURATO (in migliaia di Euro)
di cui esportato
2004
(preconsuntivo)
|_____________| |______________|
|_____________| |______________|
Sez. H – Non-profit
Si faccia riferimento al settore non-profit: associazioni o fondazioni;
organizzazioni non governative (ong); cooperative sociali; enti di assistenza;
soggetti che effettuano commercio equo e solidale.
H.1. – La Vostra impresa, negli ultimi 3 anni, ha, almeno una volta: (sono
possibili risposte multiple)
1) effettuato donazioni verso un soggetto operante nel settore
non-profit?
2) offerto i propri prodotti a un prezzo inferiore a quello di mercato
a un soggetto non-profit?
3) sponsorizzato eventi scientifici o culturali o aderito a
progetti di solidarietà internazionale?
4) promosso tra il personale iniziative di volontariato di impresa?
5) altra elargizione liberale (specificare) ____________________________
Non rilevato
__ (0/1)
__ (0/1)
__ (0/1)
__ (0/1)
__ (0/1)
__
H.2. – (Se l’impresa ha risposto sì) Potete fornire il valore medio annuo di questi
interventi in termini di percentuale sul fatturato ?
In percentuale sul fatturato medio annuo……… |__________|% |__| N.R.
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IMPRESA SOCIALE
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H.3. – La Vostra impresa, negli ultimi 3 anni, ha, almeno una volta: (sono
risposte multiple)
1) acquistato beni o servizi da cooperative sociali?
__
2) acquistato prodotti equo-solidali ?
__
3) scelto doni aziendali o biglietti augurali offerti da soggetti non-profit? __
4) operato una scelta di finanza etica?
__
5) svolto campagne di marketing sociale (cause related marketing)?
__
6) altra operazione commerciale (specificare) _______________________ __
Non rilevato
__
possibili
(0/1)
(0/1)
(0/1)
(0/1)
(0/1)
(0/1)
H.4. – (Se l’impresa ha risposto sì) Se per queste operazioni avete pagato un prezzo
superiore a quello di mercato, potete fornire il valore medio annuo di questi interventi in
percentuale sul vostro fatturato (zero per un’operazione condotta a prezzi di mercato) ?
In percentuale sul fatturato medio annuo…………...|__________| % |__| N.R.
H.5. – (Se l’impresa ha risposto sì alle domande precedenti) Quali sono le motivazioni
dell’attenzione mostrata verso i soggetti del non-profit ? (massimo due risposte)
1) ritorno di immagine/migliori relazioni con la comunità
__ (0/1)
2) aumento quantità vendute
__ (0/1)
3) possibilità di aumentare i prezzi di vendita
__ (0/1)
4) migliori rapporti coi fornitori
__ (0/1)
5) abbassamento costo del credito
__ (0/1)
6) migliori rapporti con e fra i dipendenti
__ (0/1)
7) beneficio fiscale
__ (0/1)
8) è un’operazione commerciale condotta a prezzi di mercato
__ (0/1)
9) altro
__ (0/1)
Non rilevato
__
H.6. - La Vostra impresa annovera consapevolmente fra i propri dipendenti o
collaboratori personale socialmente svantaggiato (ex-detenuti, ex-tossicondipendenti) ?
(1) SÌ __
(0) NO __
N.R. __
Osservatorio internazionale
FORME DELL’IMPRESA SOCIALE IN UK, LE COMMUNITY INTEREST COMPANY IN UNO SCENARIO IN CAMBIAMENTO
Dario Carrera, Alex Murdock
Forme dell’impresa sociale in UK, le Community
Interest Company in uno scenario in cambiamento
Dario Carrera, Alex Murdock1
Sommario
1. Il terzo se ore in UK, dimensioni e cara eri distintivi - 2. L’archite ura istituzionale 3. Le social enterprise - 4. Le CIC - 5. Considerazioni conclusive e prospe ive
1. Il terzo settore in UK, dimensione e caratteri distintivi
Così come in altri paesi europei, anche in Gran Bretagna i confini
tra i diversi se ori, pubblico, privato for-profit e nonprofit in cui le
imprese sociali si inseriscono non sono così ne i e danno luogo a
delle aree grigie in cui operano organizzazioni “ibride” con elementi
comuni. A differenza di quanto avvenuto in altri contesti europei,
le esperienze avviate in ambito politico-istituzionale da un lato - si
pensi alle unità pubbliche ad hoc di ricerca, supporto e regolazione
-, delle pratiche e delle innovazioni espresse dall’altro, rendono la
Gran Bretagna un o imo benchmark cui fare riferimento a cui guardare con a enzione in termini di capacità innovativa, di creazione
di mercati, di lobbying istituzionale. Combinazioni virtuose degli
elementi sudde i sono venute, ad esempio, spesso a mancare nel
contesto italiano: isomorfismo delle nonprofit, basse competenze
1
Il Professor Alex Murdock ringrazia Dario Carrera dell’assistenza nella traduzione in italiano
delle parti a lui riferibili e condivise con lo stesso autore. Parti dell’articolo sono riprese dalla relazione del Professor Murdock al Convegno internazionale “Sviluppo locale solidale. Il ruolo degli
incubatori di impresa sociale”, Urban Centre, 26-27 ottobre 2006, Roma (Murdock, 2006).
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manageriali, a ività di lobbying delegata ad organismi talvolta poco
rappresentativi della maggioranza delle organizzazioni (e spesso federate secondo logiche ideologiche e poco strategiche).
Anche in UK, definizioni puntuali e riferibili alle diverse forme di
organizzazioni nonprofit non sembrano ancora esserci. Gran parte
delle rilevazioni statistiche sul se ore fanno riferimento al broader
voluntary and community sector (National Council for Voluntary Organisations, 2006), che si concentra in particolare sulle general charity, indicandone circa 169mila nel 2004 (rispe o alle 98mila del 1991)
con un incremento dal 2000 di circa 28mila organizzazioni.
La dimensione del se ore nonprofit in UK è ogge o di diba ito continuo. Le diverse variabili definitorie utilizzate dalle istituzioni di
riferimento (tra queste, ad esempio, DTI, IFF, NCVO, SEC) ed uno
scenario in continuo cambiamento, rendono la quantificazione delle
organizzazioni e le risorse umane e finanziarie coinvolte di di cile
puntualità. Si va comunque da un minimo del 2,2% della forza lavoro nelle charity ad un massimo del 7% nel terzo se ore, inteso nella
sua accezione più ampia (National Council for Voluntary Organisations, 2004). In tal senso, il governo UK, in un corposo report del 2002
offre una definizione “allargata” di insieme (community) di organizzazioni nonprofit: “The charitable and wider not-for-profit community is
the collective term used to describe charities, community groups, voluntary
organisations, social enterprises and some mutual organisations. These organisations all pursue social aims and do not distribute assets to external
stakeholders” (Prime Ministers Strategy Unit, 2002).
Le entrate del se ore ammontano a 26,3 miliardi di sterline (38%
delle quali derivano da a ività istituzionali), le uscite, a circa 30 miliardi di sterline; la forza lavoro retribuita risulta pari a 608mila unità (National Council for Voluntary Organisations, 2006).
In Gran Bretagna le piccole imprese (small business) sono circa 4,25 milioni, le social entreprise 55mila, le charity 166mila, infine altre voluntary
and community organizations presentano 250mila unità (DTI, 2005).
La composizione delle entrate si presenta con il 47% da ricavi di vendita di beni e servizi (comprese dalla pubblica amministrazione), il
45% da entrate volontarie (quote associative, liberalità), si evidenziano infine le risorse da fonte pubblica per il 38%. Quanto alle uscite,
queste si presentano per il 67% legate all’a ività istituzionali, il 10%
di queste è indirizzato ad a ività di fund raising, il 7% a costi di gestione ed amministrativi, il 15% per interessi su prestiti.
La forza lavoro retribuita nel nonprofit in UK conta 608mila unità,
pari al 2,2% del totale degli occupati in UK (DTI, 2005).
FORME DELL’IMPRESA SOCIALE IN UK, LE COMMUNITY INTEREST COMPANY IN UNO SCENARIO IN CAMBIAMENTO
Dario Carrera, Alex Murdock
FIGURA 1 - LE ORGANIZZAZIONI DI TERZO SETTORE IN UK
Social
enterprises
12%
Voluntary &
Community org.
52%
Co-operative
enterprises
1%
Charities
35%
Fonte: DTI, 2005.
Architettura istituzionale
Come accennato in precedenza, gli organismi istituzionali britannici a ivi nella regolazione, promozione e supporto del nonprofit
sono diversi, e si distribuiscono secondo funzioni e competenze. Tra
queste: (ì) la tipologia - associata alla definizione normativa - delle organizzazioni cui fanno riferimento (DTI, IFF, Charity Commission, House Companies, IP&S, CIC, ecc); (ìì) l’ambito di competenza
pubblica all’interno del quale l’azione della nonprofit ricade (sanità,
ambiente, cultura, ecc.); (ììì) l’ambito territoriale (sia esso corrispondente a regioni o distre i, piu osto che aree rurali, periferiche, ecc.)
che presidiano.2
Al fine di dirigere e coordinare l’a ività di tale articolata archite ura
istituzionale, è stato istituito a livello centrale, nel maggio del 2006,
un apposito u cio all’interno dell’U cio di Gabine o (Cabinet Office), l’Office of the Third Sector (OTS), posizionato all’interno dell’area
funzionale denominata Policy and Coordination. Tale collocazione assolutamente centrale rispe o agli obie ivi di Governo - gli è stata
assegnata in considerazione del rilievo sempre crescente che il terzo
se ore riveste nella società e nell’economia britannica. L’Office, riA titolo esemplificativo, con riferimento al vasto universo britannico delle organizzazioni di
volontariato costituite come enti di beneficenza (charity), in Inghilterra ed in Galles la Charity
Commission viene identificata come una quasi governmental organisation - che per definizione non fa capo al governo bensì direttamente al Parlamento -, in Scozia l’Office of the Scottish
Charity Regulator, è un organismo nato come agenzia e divenuto in seguito autonomo rispetto
alle attività e funzioni ministeriali; in Irlanda del Nord, infine, è organo istituzionale la Voluntary
Activity Unit del Department of Health and Social Services.
2
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sulta infa i essere punto di riferimento trasversale per i diversi dipartimenti che fanno capo all’amministrazione centrale o che sono
(in parte) indipendenti da questi (le cosidde e quasi governmental
organisation). A questi si aggiungono i “45 partner strategici sovvenzionati” che collaborano con l’OTS, selezionati fra le nonprofit competenti nel fornire pareri in relazione agli obie ivi strategici, ovvero
avviare a ività di lobby istituzionale per incidere a livello normativo
e di policy.
La recente creazione dell’OTS si è inserita in una più ampia riorganizzazione del preesistente asse o istituzionale, in quanto ha comportato l’accorpamento in seno al Cabinet Office delle responsabilità
sino ad allora rivestite da due diversi organi: (ì) l’Active Communities
Directorate (ACD), nel dipartimento del Ministero dell’interno (Home
Office), che dava impulso al Governo per il rafforzamento del nonprofit e nella sensibilizzazione della società civile verso una maggiore partecipazione nelle comunità di riferimento; e (ìì) la Social Enterprise Unit (SEnU) creata nel 2001 grazie alla sensibilità ed all’interesse verso il tema della social entrepreneurship della Segretaria di Stato
del Department of Trade and Industry (DTI), Patricia Hewi , che pose
le basi per inaugurare il programma governativo triennale a favore
della promozione e dello sviluppo delle imprese sociali.3 Tale programma, denominato Social Enterprise: a strategy for success (2002),
presentava tre obie ivi principali: (ì) creare un ambiente ada o al
radicamento e alla diffusione della social enterprise, (ìì) rafforzare e
sviluppare la matrice imprenditoriale che la cara erizza ed infine
(ììì) dare rilievo al suo specifico valore aggiunto rispe o all’impresa
“tradizionale”.
Al fine di entrare nel merito degli altri istituti facenti capo all’a ività
di supervisione dell’OTS, si rende necessario individuare quale sia
la definizione operativa di terzo se ore ado ata da tale organismo:
“The third sector is a diverse, active and passionate sector. Organisations
in the sector share common characteristics: a) non-governmental, b) valuedriven, c) principally reinvest any financial surpluses to further social, d)
Nel giugno dello scorso anno (2007) il DTI è stato a sua volta suddiviso in due distinti dipartimenti:
- il Department for Innovation, Universities and Skills, (DIUS) che assomma in sè alcune
delle funzioni dell’ex DTI e alcune dell’ex Department of Education and Skills (DfES);
- il Department for Business, Enterprise and Regulatory Reform (BERR), che invece si occupa della regolamentazione, promozione e tutela del business in tutte le sue forme, e quindi,
pur se in misura minore, anche dell’Enterprising People and Communities e, in questo
senso, delle social enterprise.
3
FORME DELL’IMPRESA SOCIALE IN UK, LE COMMUNITY INTEREST COMPANY IN UNO SCENARIO IN CAMBIAMENTO
Dario Carrera, Alex Murdock
environmental or cultural objectives. The term encompasses voluntary and
community organisations, charities, social enterprises, cooperatives and
mutuals both large and small.”
FIGURA 2 - L’ARCHITETTURA ISTITUZIONALE, IL RUOLO DELL’OTS
DoT
DoH
Home
office
Cabinet
office
DCLG
ACD
Treasury
DTI
Others
SenU
Office of the Third Sector
Government Office for London (GOL)
(represents central government in London)
GLA (Mayor and Assembly)
London Councils (formerly ALG)
32 Boroughs and Corp of London
LDA
Other (Police,
Transport, Fire etc)
SEL
Social enterprises
Fonte: www.sel.org.uk.
La prima parte della definizione richiama le principali cara eristiche dell’azienda nonprofit, vale a dire l’essere privata e autonoma
in quanto non-governmental ed economica e duratura nel tempo in
quanto value-driven. Da notare come non venga segnalata come principale cara eristica quella - di norma immediatamente condivisa - di
essere non-dividend paying (così come il ricorso al personale volontario); bensì il fa o di reinvestire i surplus in ulteriori obie ivi sociali, ambientali o culturali, in modo tale da ricomprendere all’interno
della sua sfera di a ività una molteplicità di organizzazioni di terzo
se ore:
• voluntary and community organization (VCO), comprendenti charity registrate (dalle grandi organizzazioni di beneficenza con
un’entrata annua superiore ai 10 milioni di sterline alle raccolte
di fondi per i bisognosi organizzate a livello parrocchiale) e non
registrate (università, musei e gallerie d’arte, associazioni di social housing, istituti di formazione e religiosi);
281
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IMPRESA SOCIALE
aprile ~ giugno 2008
•
•
mutue e cooperative, comprendenti credit union e industrial and
provident society a ive come cooperative di lavoratori, cooperative agricole, cooperative abitative o consorzi;
social enterprise.
Aspetti di policy
La politica del Governo inglese per l’impresa sociale si rivela di supporto e propositiva. Il box so oriportato (Murdock, 2006)4 offre un
quadro delle politiche per l’impresa sociale al fine di raggiungere
comunità disagiate, di rigenerare la forza ed il capitale sociale della
comunità ed essere motore della rigenerazione economica a raverso
la creazione di occupazione.
Indirizzi di policy sulle social enterprise per la rigenerazione economica e sociale
Social enterprises can strengthen the social and economic fabric of deprived communities (DTI, 2003).
Social enterprises with their roots in communities are ideally placed to assist
in local government reform (London Social Economy Taskforce, 2002)
The role of social enterprises is particularly significant in developing local economies and improving service delivery in priority neighbourhoods
identified in local renewal strategies (London Social Economy Taskforce, 2002).
Il ruolo a dato all’impresa sociale dal policy maker è connesso ad
una particolare concezione di questa come a ore chiave per la programmazione economica ed alla “rigenerazione” delle aree depresse
in termini sociali ed economici in UK. Un’accezione di tal tipo inie a
all’interno del terzo se ore e nelle social enterprise in particolare, un
forte impulso alla competitività ed alla responsabilità del ruolo a datogli, quale a ore in grado di favorire:
• coesione ed inclusione sociale;
• il trasferimento dei servizi pubblici locali ed il rimodernamento
delle politiche governative;
• la creazione di a ività imprenditoriali ed incremento dell’occupazione;
• il miglioramento della produ ività delle piccole imprese;
• la presenza di un maggior numero di imprese nelle aree svantaggiate per la riqualificazione delle stesse;
Intervento al Convegno internazionale “Sviluppo locale solidale. Il ruolo degli incubatori di
impresa sociale”, Urban Centre, 26-27 ottobre 2006, Roma.
4
FORME DELL’IMPRESA SOCIALE IN UK, LE COMMUNITY INTEREST COMPANY IN UNO SCENARIO IN CAMBIAMENTO
Dario Carrera, Alex Murdock
•
la riduzione delle differenze di crescita economica tra le regioni
in UK.
I punti chiave della government agenda, si traducono in politiche dedicate, a livello locale e centrale, quali:
• il fondo per il “rinnovo del quartiere” (2,9 miliardi di sterline);
• il new deal for communities (programma lanciato nel 2003 dall’Office of the Deputy Prime Minister);
• l’active communities directorate (ACU) del Ministero dell’interno,
con focus sulle organizzazioni di volontariato e sulle community;
• i mutui forniti dall’ACU per le imprese sociali a ive in aree
svantaggiate;
• le azioni di supporto alle cosidde e Community-based social enterprise.
Il National Procurement Strategy for Local Government (2003),5 ad esempio, esplicita i partenariati pubblico-privati a ancando alle piccole
imprese (for-profit) le organizzazioni di terzo se ore e le imprese
sociali.6
Altra fonte interessante di studio è il Rapporto Gershon (2004) che si
concentra, in una sezione del documento, sull’e cienza gestionale e
sulle risorse offerte dalle organizzazioni di terzo se ore.7
Tu avia, ad oggi, l’impa o del rapporto non risulta completamente coerente con i propositi enunciati (Murdock, 2006). In particolare,
con riferimento all’impresa sociale così come per le organizzazioni di
5
Office of Deputy Prime Minister (2003), documento disponibile su:
http://www.communities.gov.uk/pub/723/NationalProcurementStrategyforLocalGovernmentinEngland_id1136723.pdf
6
Councils should work with strategic partners to establish the contribution that small firms,
ethnic minority businesses, social enterprise and voluntary and community sector suppliers
can play in the supply chain. This should continue to feature as part of contract management,
Ibidem, p. 49.
7
I principi espressi nel Rapporto Gershon del 2004, costituirebbero le basi della politica del procurement e dei contratti tra settore pubblico ed organizzazioni di volontariato ed imprese sociali.
I recommend the Government improves its funding relationship with the Voluntary and Community Sector by:
- improving stability by moving to longer-term, multi-year funding arrangements where possible;
- considering carefully the appropriate assignment of risk between the statutory body and the
voluntary and community organisation when contracting for service provision;
- making further progress towards full acceptance of the principle of full cost recovery, ensuring publicly-funded services are not subsidised by charitable donations or volunteers;
and streamlining and rationalising monitoring, regulatory and reporting requirements.
(HM Treasury, 2004 disponibile su: http://www.hm-treasury.gov.uk/media/B2C/11/efficiency_
review120704.pdf).
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volontariato, la sostenibilità della gestione di contra i e commesse di
grandi importi e per grandi aree territoriali, risulta di cile da perseguire (Westall, Chalkely, 2007). Come sostenuto da Westall e Chalkely
(2007, p. 36), quale conseguenza del rapporto Gershon, erroneamente si è orientati a considerare che contra i di grandi forniture ed alti
livelli di fa urato siano le sole variabili determinanti. A questo comunque si associano iniziative, quali la National Procurement Strategy
lanciata dalla Improvement and Development Agency nel 2005, al fine di
migliorare l’apporto che le imprese sociali possono offrire nell’offerta
di servizi pubblici, guidando le stesse verso una piena comprensione
del linguaggio (nei bandi, nei contra i) e degli obie ivi strategici del
se ore pubblico (Small Business Service, 2005).
La tabella che segue suggerisce una segmentazione interessante per
favorire maggiori e più specifici matching tra politiche pubbliche ed
imprese sociali ed identifica una serie di policy areas in cui le stesse
sono chiamate ad operare.
TABELLA 1 - IMPRESA SOCIALE ED INTERESSE PUBBLICO
Area di policy
Forme e attività delle imprese sociali
Rurale
Rural social enterprise, microcredit organizations
Riqualificazione territoriale
Sociale e
inserimanto lavorativo
Sviluppo economico
Settori di nicchia, Community enterprise, Credit
Union, Development Trust
Settore socio-assistenziale, servizi alla persona,
Social Firm
Espansione, diversificazione, orientamento al mercato, innovazione (fair trade, energie rinnovabili,
ICT, turismo responsabile)
Fonte: D. Carrera, adattato da Small Business Service, 2005.
Seguono alcune implicazioni:
• l’istituzione di dipartimenti governativi specifici ed unità operative locali;
• le imprese sociali giocano ruoli diversi a seconda dell’area di policy di riferimento; questo provoca la segmentazione delle politiche di governo e del mercato per le imprese sociali;
• le relazioni con il se ore pubblico (in termini di contracting e
lobbying) ed intermediari finanziari da parte degli imprenditori sociali, presuppongono livelli di know how e di innovazione
che favoriscono dinamicità ed effervescenza degli a ori in gioco
FORME DELL’IMPRESA SOCIALE IN UK, LE COMMUNITY INTEREST COMPANY IN UNO SCENARIO IN CAMBIAMENTO
Dario Carrera, Alex Murdock
e dell’intero terzo se ore, sempre più influente ed incisivo nella public agenda quanto nel “condizionare” modelli d’impresa e
“creare” se ori di mercato.
2. Le social enterprise
Nel Regno Unito non esiste una regolamentazione articolata e specifica per le diverse istituzioni nonprofit presenti (cooperative, organizzazioni mutualistiche, di volontariato, ecc.). Il sistema giuridico
britannico rileva comunque una certa flessibilità ed a enzione verso
le organizzazioni che seguono il business model delle social enterprise.
Da una parte, le organizzazioni di volontariato possono registrarsi
presso la Charity Commission, sulla base della legge che le disciplina
e tale status esenta le organizzazioni dal pagamento della tassa sulle
società; imposta relativa invece alle imprese sociali che si costituiscono nella forma della Company Limited by Guarantee (CLG) (società
a responsabilità limitata o “garantita dai soci”, se scelgono l’inquadramento del diri o delle società, il Company Law) ovvero come IPS
(se optano per la legislazione delle Industrial and Provident Societies),
registrandosi quindi nelle forme previste dalla disciplina del diri o
societario, ad esempio, come società per azioni.8
Nel presente contributo, in coerenza con quanto espresso da organi
istituzionali (IFF, 2005) e dalle prassi consolidate in Gran Bretagna,
si distingueranno le charity dalle social enterprise, a ribuendo alle
prime il cara ere charitable e volontaristico, il forte orientamento al
mercato ed alla social innovation (Mulgan, 2007; Nicholls, 2006; Yunus, 2008) alle seconde.
La charity
L’impianto normativo britannico si basa sul common law, ovvero “la
tradizione legale sviluppata dai tribunali nei secoli costituisce la legge” e, nel caso della Charity Commission,9 questa “in materia gode
La forma giuridica normalmente assunta dalle imprese sociali che scelgono di inquadrarsi
secondo il diritto delle società è quella della CLG. In tal caso la società è controllata dai soci
in base al principio “una testa, un voto”, con azioni nominative; la responsabilità del socio, in
caso di liquidazione della società, è limitata nell’ammontare che egli si è impegnato a garantire
al momento del suo ingresso.
9
Il placet da parte della Commission, ente pubblico legato all’esecutivo (che ne nomina i
commissari) nel validare lo status di charity, non si fonda su una definizione precipua, ma sul
principio dell’analogia. Molti degli scopi charitable previsti - ed in continua evoluzione - risultano: riduzione della povertà, promozione della formazione, della salute, della religione, altri
8
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IMPRESA SOCIALE
aprile ~ giugno 2008
degli stessi poteri dei tribunali” e la legge sulle charity, risalente al
1601 (The Charitable Uses Act), si presenta molto articolata, complessa
ed allo stesso tempo in grado di “svilupparsi e rinnovarsi in modo
organico” riconoscendo almeno nove forme giuridiche diverse (Fries, 2002, pp. 133-136). Tra queste, le più frequenti sono:
• l’associazione, spesso senza personalità giuridica (non riconosciuta);
• il trust, di tradizione secolare;
• la charitable company, in cui le responsabilità manageriali sono
disciplinate dalla normativa delle società (ad esempio, sono frequenti le charity registrate alla Companies House in forma di società di capitali), ma la company è sogge a - quanto a coerenza
delle a ività istituzionali con la mission e gestione ordinaria - alla
normativa della Charities Act del 1993.10
Il 78% delle charity ha sede in Inghilterra e si cara erizzano per essere organizzazioni di piccole dimensioni, il 56% di esse presenta entrate annuali inferiori a 10mila sterline e la quasi totalità di esse, circa 147mila (l’87%), presentano proventi annui inferiori alle 100mila
sterline. Mentre più del 65% delle entrate totali è generato dal 2%
delle organizzazioni - le super charities come recita il rapporto della
National Council for Voluntary Organisations (2006).
TABELLA 2 - NUMERO
DI GENERAL CHARITY IN
UK
PER ANNO E VALORE DELLE ENTRATE (IN
MIGLIAIA DI STERLINE)
Meno di 100 £
Da 100 a
1.000 £
Da 1.000 a
10.000 £
Oltre 10.000 £
Totali
1995
2000
109.384
126.219
10.164
12.838
1.331
1.701
121
206
121.000
140.964
2004
146.963
19.064
2.930
290
169.249
Fonte: National Council for Voluntary Organisations, 2006.
fini di advocacy e per la comunità; ma anche la promozione di regole di comportamento etico
nelle imprese e la promozione del commercio equo (fair trade). L’azione della Commission è
circoscritta all’Inghilterra ed al Galles, la fiscalità di vantaggio invece si estende alle charity
residenti in tutta la Gran Bretagna (quindi anche Irlanda del Nord e Scozia).
10
La spinta verso dinamiche più imprenditoriali e l’apertura al mercato da parte del settore
nonprofit, ha portato la Charity Commission a limitare le attività commerciali delle charity
prevedendo che queste siano esplicitamente dirette al soddisfacimento dello scopo sociale,
e prevedendo che tali attività possano essere esternalizzate a società loro controllate, a patto
che gli eventuali profitti vadano “reindirizzati” alla charity.
FORME DELL’IMPRESA SOCIALE IN UK, LE COMMUNITY INTEREST COMPANY IN UNO SCENARIO IN CAMBIAMENTO
Dario Carrera, Alex Murdock
La social enterprise
In UK l’impresa sociale non presenta un’unica definizione ed è stata
per lungo tempo inserita nel charitable and wider not-for profit sector.
Questa identificazione ha creato alcuni problemi di classificazione;
ad esempio, un’impresa sociale può essere costituita nella forma
della charity, ma solo per queste ultime si richiede la registrazione.
Una recente ricerca finanziata dal governo centrale11 ha utilizzato la
seguente definizione di impresa sociale, ogge o di alcune critiche
(in particolare riguardo la porzione generata dall’a ività commerciale superiore al 25%) (IFF, 2005):
• l’a ività prevede l’offerta continuativa ed a pagamento di prodo i o servizi;
• almeno il 25% delle entrate finanziarie deve essere generato da
a ività commerciali;
• il fine principale è conseguire obie ivi di natura sociale ed ambientale;
• i profi i vengono reinvestiti nella stru ura o nella community per
ulteriori fini sociali ed ambientali.
La IFF Research, inoltre, asserisce che le dimensioni del se ore sono
state so ostimate, perché la ricerca: Focuses on those social enterprises which are registered as Companies Limited by Guarantee (CLG) or
Industrial & Provident Societies (IPS). Also, for practical purposes, some
groups that were considered unlikely to include much social enterprise activity were excluded on the basis of Standard Industrial Classifications. By
not including other legal forms the results are very likely to be an underestimate of the size of the sector” (IFF Research, 2005, par. 13.1).
Le imprese sociali, come de o, non hanno l’obbligo della registrazione, così come avviene per le charity; per cui, parte di queste possono
essere imprese sociali o registrarsi come società a responsabilità limitata. Secondo l’IFF Research (2005):
• circa 15mila imprese sociali sono registrate nel Regno Unito
come IPS o CLG;
Fra i primi rapporti ufficiali sullo sviluppo delle social enterprise troviamo il Survey of Social
Enterprises across UK pubblicato nel 2005 dalla Small Business Service del Department of
Trade and Industry. Questo studio rappresenta il primo passo verso una comprensione più
puntuale (da parte del settore pubblico, ma anche delle stesse organizzazioni oggetto di studio) del modus operandi e del “peso” delle social enterprise: si descrivono le caratteristiche
in termini di “che cosa” le rende imprese sociali, si analizzano le risorse umane e finanziarie
coinvolte. Infine, fornisce una stima del numero totale di social entreprise in UK, registrate
come CLG o IPS, favorendo così una scissione netta dal modello offerto dalle charity, prima
richiamato.
11
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IMPRESA SOCIALE
aprile ~ giugno 2008
•
•
il giro di affari annuale è poco meno di 18 miliardi di sterline;
il personale è di 775mila unità (475mila remunerate, 300mila volontari);
• la metà delle imprese sociali riceve trasferimenti, donazioni e
sussidi per un valore pari al 12% delle entrate totali;
• quasi il 90% delle realtà indagate ha generato più del 50% delle
entrate mediante a ività commerciali;
• il 33% delle imprese sociali sono a ive nel se ore dei servizi alla
persona - prevalentemente asili, assistenza all’infanzia, consulenza psicologica, social housing;
• il 51% delle imprese sociali è presente nel 40% delle aree più degradate; la maggior parte nasce per supportare particolari categorie di sogge i (anche con politiche di inserimento lavorativo)
o per la fornitura di beni e servizi dedicati a disabili, giovani,
anziani, famiglie e meno abbienti;
• quasi un quarto delle imprese sociali ha obie ivi di natura ambientale.
La IFF Survey of Social Enterprises per la Small Business Service offre
altri dati interessanti. Le entrate per le imprese sociali derivano da
diverse fonti:
• redditi da lavoro, a raverso la fornitura di beni e servizi (le preminenti);
• concessioni (finanziamenti a fondo perduto) e donazioni, governative e non;
• altre entrate quali redditi da investimenti o da immobili, partecipazioni, quote associative o so oscrizioni.
TABELLA 3 - FONTI DI ENTRATA PER LE IMPRESE SOCIALI IN UK
Tipologie di entrate
Vendita di beni e servizi
Donazioni o sovvenzioni
Altre entrate
Imprese sociali per classi di entrate
Meno di
Da 100.000 a 1mln £ Oltre 1 mln £
99.000 £
84%
80%
86%
12%
17%
11%
4%
3%
3%
Fonte: IFF, 2005.
Secondo la definizione del Social Enterprise London (SEL), agenzia
regionale di supporto all’impresa sociale nel distre o di Londra, le
social enterprise sono un “modello imprenditoriale alternativo in cui
le organizzazioni sono ugualmente orientate a generare profi i di
FORME DELL’IMPRESA SOCIALE IN UK, LE COMMUNITY INTEREST COMPANY IN UNO SCENARIO IN CAMBIAMENTO
Dario Carrera, Alex Murdock
tipo economico” e benefici di tipo sociale ed ambientale; le imprese
sociali “sono presenti in diversi ambiti e con forme legali differenti
[…]; ciò che è più importante è la loro abilità nel produrre benefici
durevoli per la comunità”.
Analizzando brevemente i punti chiave di questa relazione, ci sono
circa 15mila (circa l’1,2% di tu e le società in UK) imprese sociali nel
Regno Unito registrate come società garantite dai soci (88%) o Industrial and Provident Societies (12%).
Il fa urato medio è circa di 285mila sterline, ma come evidenzia la
figura 3, gran parte delle realtà osservate presenta livelli inferiori
alle 250mila sterline.
FIGURA 3 - CLASSI DI FATTURATO DELLE IMPRESE SOCIALI IN UK
Fonte: Small Business Service, 2005.
Le risorse umane sono circa 475mila persone, delle quali il 63% sono
lavoratori impiegati a tempo pieno. Oltre in 300mila lavorano invece
come volontari.12
Un’impresa sociale tipo occupa 10 persone e quasi la metà delle organizzazioni impiega
meno di 10 persone, il 38% occupa tra i 10 e i 49 dipendenti, l’11% ha dai 50 ai 249 lavoratori
e solo il 2% impiega più di 250 persone (Small Business Service, 2005).
12
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IMPRESA SOCIALE
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FIGURA 4 - FORZA LAVORO NELLE IMPRESE SOCIALI IN UK
Fonte: Small Business Service, 2005.
La figura 5 mostra che solo l’11% delle imprese sociali ha il 100% del
personale occupato full-time ed una significativa percentuale (15%)
non ne presenta affa o.
FIGURA 5 - PERSONALE FULL-TIME NELLE IMPRESE SOCIALI IN UK
Fonte: IFF, 2005.
FORME DELL’IMPRESA SOCIALE IN UK, LE COMMUNITY INTEREST COMPANY IN UNO SCENARIO IN CAMBIAMENTO
Dario Carrera, Alex Murdock
Gran parte delle imprese sociali so o forma di CLG o IPS risultano a ive in se ori quali: servizi socio-sanitari (infanzia, assistenza,
servizi abitativi), servizi sociali, social housing, educazione. Grande
rilievo viene inoltre a dato alle cosidde e “imprese sociali verdi”13
per la riqualificazione delle aree urbane.
FIGURA 6 - SETTORI ISTITUZIONALI ED IMPRESE SOCIALI IN UK
Fonte: Small Business Service, 2005.
I principali beneficiari dell’azione delle social enterprise sono persone
disabili (19%), bambini o giovani (17%), anziani (15%) e persone con
di coltà economiche (12%). In generale i servizi offerti “impa ano”
per circa il 24%, elusivamente sulla comunità locale di riferimento.
I beneficiari delle imprese sociali sono un fa ore chiave per le politiche pubbliche che naturalmente identificano i propri obie ivi in
funzione dei gruppi con particolari bisogni. La figura 8 identifica
quali gruppi sono stati identificati come “beneficiari chiave” dal policy maker.
13
Per approfondimenti si veda Aa.Vv., 2007.
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IMPRESA SOCIALE
aprile ~ giugno 2008
FIGURA 7 - IMPRESE SOCIALI ATTIVE NELLA PROMOZIONE E TUTELA AMBIENTALE IN UK
Fonte: Small Business Service, 2005.
FIGURA 8 - BENEFICIARI DELLE ATTIVITÀ DELLE IMPRESE SOCIALI IN UK
Fonte: Small Business Service, 2005.
FORME DELL’IMPRESA SOCIALE IN UK, LE COMMUNITY INTEREST COMPANY IN UNO SCENARIO IN CAMBIAMENTO
Dario Carrera, Alex Murdock
Le tipologie delle a ività e delle aree di disagio sono mostrate nella
figura 9. L’offerta di servizi educativi e di formazione è la più ampia
categoria sia nelle aree più disagiate che in altri territori.
FIGURA 9 - SETTORI DI ATTIVITÀ DELLE IMPRESE SOCIALI IN UK ED AREE DISAGIATE
Fonte: Small Business Service, 2005.
Per quanto riguarda la loro distribuzione, la ricerca si è sviluppata
prendendo in considerazione Inghilterra, Scozia, Galles e Irlanda del
Nord, confrontandole con la distribuzione di tu e le altre imprese
presenti all’interno delle stesse aree geografiche. Sorprendentemente, Londra presenta un maggior numero di social enterprise (22%) rispe o a tu i gli altri tipi di società (14% sul totale); stesso fenomeno
si presenta nel Sud-Est (12% di imprese sociali in rapporto al 9%
delle altre imprese). Situazione contraria si riscontra invece nell’East
e West Midlands, in Yorkshire e in Humber, dove il numero di imprese sociali presenti è inferiore. Per le altre regioni, la relazione imprese sociali-imprese for-profit presenti nei territori tende a bilanciarsi - seppur in termini quantitativi. Inoltre, circa il 90 per cento
delle imprese sociali ha sede nelle aree urbane, ma periferiche, dove
il livello di donazioni da parte dei privati, dei contributi e sussidi
pubblici risulta preminente rispe o alle aree rurali e centrali.
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FIGURA 10 - DISTRIBUZIONE GEOGRAFICA DELLE IMPRESE SOCIALI IN UK
Fonte: Small Business Service, 2005.
FIGURA 11 - FORZA LAVORO, DIMENSIONE E AREE DISAGIATE
Fonte: Small Business Service, 2005.
FORME DELL’IMPRESA SOCIALE IN UK, LE COMMUNITY INTEREST COMPANY IN UNO SCENARIO IN CAMBIAMENTO
Dario Carrera, Alex Murdock
Di grande interesse infine, è la relazione territorio-risorse umane che
l’IFF (2005) me e in luce. L’analisi suggerisce che più le imprese sociali sono localizzate nelle aree disagiate, più è probabile che presentino personale retribuito (fig. 11).
3. Le Community Interest Company
Nel luglio del 2005, quasi in parallelo con l’istituzionalizzazione e
la seguente definizione dell’impresa sociale italiana (giugno 2005),
sono nate in UK con il Community Interest Company Regulation le
Community Interest Company (d’ora in avanti CIC).
La normativa sulle CIC, riconosce - e lo testimonia la stessa locuzione community - come impresa sociale tu e le organizzazioni che, pur
non dichiarandosi nonprofit oriented, legi imano il proprio agire (sociale) in virtù dello stre o rapporto con la comunità di riferimento,
sulla quale “impa ano” le proprie azioni. Come sostenuto da alcuni
autori (Ricci, Be era, 2005, p. 41) ed a conferma dell’accezione inglese, “un’a ività lucrativa ben finalizzata può avere impa i sociali che
vanno oltre il semplice aspe o non lucrativo” ancorato questo ai soli
driver giuridici e fiscali.14
Ricci e Be era (2005) identificano il riconoscimento giuridico delle
social enterprise nella veste giuridica delle Community Interest Company come “una rivoluzione copernicana per il mondo del nonprofit britannico” ed un “riconoscimento di una maturità diffusa nel
rapporto che il ci adino britannico ha con il nonprofit” nonché nel
dar vita a sempre più e caci sinergie con il mondo delle imprese
for-profit, capaci queste ultime di avviare circuiti virtuosi di “operatività sociale”.
La CIC è una nuova tipologia di impresa sociale (un legal vehicle,
come espresso dal regulator) creata per imprenditori sociali che desiderano operare per il beneficio della comunità invece che per scopi
di lucro ed a vantaggio esclusivo della proprietà o di un gruppo ristre o di persone.
La forma legale può essere ada ata a diversi tipi di imprese sociali e
“proge i” nonprofit che sono a servizio della comunità in ogni parte
14
Un articolo del periodico “Third Sector” nel 2006 così recitava: “In essence, the community
interest company (CIC) was created with social enterprises in mind - that is, businesses with
primarily social objectives whose surpluses are principally reinvested in the business or distributed for the benefit of the community, rather than being driven by the need to maximise
profit for shareholders. This includes bodies involved in childcare, community arts, transport,
health, environmental concerns and fair trade”.
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IMPRESA SOCIALE
aprile ~ giugno 2008
del Regno Unito e che combinano il perseguimento del benessere
sociale della comunità con a ività di cara ere commerciale.
Inoltre il livello di governance, i diri i ed i doveri dei membri ed i
requisiti presenti nello statuto, aderiscono alla disciplina delle società britanniche ed europee in generale. Esse presentano quindi un
duplice vantaggio: quello di presentare cara eri familiari e condivisi
dal mondo for-profit, e, d’altra parte, essere facilmente “ada abili”
alle diverse stru ure organizzative cara eristiche del nonprofit.15
Una Community Interest Company può essere una società a responsabilità limitata (Company Limited by Guarantee), una società per azioni
o una Public Limited Company. Se assume la forma di una società per
azioni, la CIC può pagare i dividendi ai propri azionisti, ma entro determinati limiti condivisi con il regulator (o autorità di controllo), pubblico u ciale indipendente designato dal Secretary of State for Trade
and Industry, con funzioni di controllo, ma anche di indirizzo quali:
• controllare la legi imità della costituzione delle organizzazioni
nella veste giuridica di CIC;
• assicurare il rispe o degli obblighi legali cui la normativa si riferisce; quindi intervenire in caso di inadempienze o infrazioni,
prevedendo la possibilità di sostituire le componenti del board
o assumendosi la responsabilità di sciogliere definitivamente la
company, me endola in liquidazione;
• supportare lo sviluppo delle CIC a raverso consulenze professionali, formulazione di linee guida per la costituzione e la gestione, per la diffusione del brend CIC.
Ad oggi (giugno 2008) le CIC registrate risultano essere 1.852 (contro le 180 del 2006).16
Il community interest test e l’asset lock
Come già accennato, le CIC hanno come scopo principale quello di
fornire benefici alla comunità e nella normativa questo obie ivo è
enunciato in termini di community interest test: una società soddisfa
il community interest test se “un ragionevole numero di persone” può
considerare che le sue a ività siano (o, meglio, continuino ad essere)
Interessante a riguardo il dibattito dello scorso anno (2007) in merito alla coerenza del “vestito giuridico” della CIC con le organizzazioni in forma cooperativa e da cui è scaturita (grazie
anche all’attività di lobbying istituzionale della “Co-operatives UK”) la formula Co-operative
CIC. È il caso ad esempio della Eighth day vegetarian health food shop a Manchester (http://
www.eighth-day.co.uk/history.htm). Third Sector, Finance: New model will turn community
interest companies into co-ops, 17 Maggio 2007.
16
www.cicregulator.gov.uk.
15
FORME DELL’IMPRESA SOCIALE IN UK, LE COMMUNITY INTEREST COMPANY IN UNO SCENARIO IN CAMBIAMENTO
Dario Carrera, Alex Murdock
svolte nell’interesse della comunità. Si fa quindi riferimento al senso
comune, alla reputazione che la CIC ha maturato e che le perme e
- fa i salvi gli adempimenti di natura legale ed amministrativa - di
legi imarsi nel tempo e nel territorio di riferimento.
A nché la società venga registrata come CIC, deve consegnare una
dichiarazione (il community interest statement) nel registro pubblico
descrivendo la propria mission e piano strategico e, in caso di generazione di profi i, indicarne le modalità di utilizzo a beneficio della
community.
Il regulator, basandosi su questa dichiarazione, dovrà pronunciarsi
per stabilire la coerenza dell’organizzazione con tu i i requisiti previsti.17
Una cara eristica fondamentale delle CIC, espressa dallo Statuto, e
che non può essere rimossa, è il cosidde o asset lock. Termine generico usato per indicare che tu i gli asset della società (compresi i profi i e altri surplus generati dalle a ività di scambio) devono rimanere in modo permanente all’interno della CIC. Questo impedisce alle
CIC di vendere i suoi capitali per meno del reale valore di mercato,
ad eccezione di asset trasferiti ad un altro ente che presenti anch’esso
un asset lock (come, ad esempio, una charity o un’altra CIC) o indirizzati a beneficio della comunità (trasferimenti gratuiti o investimenti
per avviare altre iniziative).
Infine, con cadenza annuale, la CIC deve consegnare al Registrar of
Company, oltre al bilancio di fine esercizio, una relazione che possa
fornire trasparenza delle operazioni contabili ed extra-contabili; che
sia in grado di descrivere:
• “come” le a ività svolte dalla società abbiano portato benefici
alla comunità;
• gli importi retributivi nei confronti dei manager e del board;
• i dividendi (eventuali) remunerati.
Le CIC devono quindi produrre un report annuale indirizzato al regulator, circa la loro a ività d’impresa a favore della comunità ed
indicando come gli stakeholder siano coinvolti ad esse.
Il Community Interest Report dà informazioni quali: la remunerazione
del board, i dividendi distribuiti (in termini di quote interessi, prestiti
ed azioni) ed esplicita come l’a ività economica svolta dalle CIC inLe forme giuridiche che la CIC può presentare sono: private company limited by shares,
private company limited by guarantee, public limited company.
Le CIC devono presentare una locuzione finale indicativa della forma societaria definita. Per le
public limited companies si avrà community interest public limited company ovvero community interest p.l.c., per le altre forme community interest company o C.I.C.
17
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IMPRESA SOCIALE
aprile ~ giugno 2008
cida sul benessere del territorio in termini di sviluppo locale e coinvolgimento degli stakeholder.18
Limiti ai livelli retributivi, in particolare al management ed ai ruoli dire ivi delle CIC, non sono stati imposti, delegando alla stessa
community il ruolo di “giudice” dell’operato della CIC (anche in funzione di tali parametri, probabili ogge o di regolamentazione negli
anni a venire).
Per il resto le CIC sono sogge e alla normativa vigente dedicata alle
altre company registrate (la Companies Act del 1985).
Come per le altre social enterprise, anche le CIC possono riferirsi ad
una pluralità di fonti di finanziamento.
Il Governo sta supportando da alcuni anni le Community Development
Finance Institutions (CDFI), istituzioni finanziarie ad hoc e la Community Investment Tax Relief (CITR) che concede agli investitori “comunitari” dei vantaggi di natura fiscale se si operano investimenti in
aree svantaggiate secondo indicatori socio-economici, investimenti
gestiti per mezzo delle CDFI.
Queste ultime si cara erizzano per essere istituzioni finanziarie (private ed indipendenti) per lo sviluppo e la rigenerazione di aree e
comunità svantaggiate o di mercati under-served.
Le CDFI hanno finanziato nel 2007 circa 15mila tra iniziative d’impresa e privati, contribuendo alla creazione di 33mila occupati, per
un ammontare complessivo tra investimenti e prestiti di 287 milioni di sterline (il 59% in più rispe o all’anno precedente) (CDFA,
2007).
La Community Investment Tax Relief offre invece sgravi fiscali per circa il 5% annuo per gli investitori che promuovono il proprio capitale
di rischio a favore delle CDFI, che a loro volta investono in iniziative
d’impresa - anche for-profit - a favore dello sviluppo locale.19
4. Riflessioni conclusive e questioni aperte
Il business model della social enterprise viene quindi declinato, nel
contesto inglese, in più forme giuridiche e modelli organizzativi.
Come evidenziato nella tra azione, diverse possono essere le forme
a ribuibili: social firm, charity, CLG, IPS, cooperativa; ma l’equazione
La Community Interest Companies Regulations del 2005, viene applicata in Inghilterra, Galles e Scozia, con la sola differenza che le charity scozzesi non possono trasformarsi in CIC.
19
I fondi investiti da privati e società (di capitali e non) nelle CDFI accreditate sono detassate
grazie alla CITR per il 5% annuo dell’ammontare investito e possono essere dichiarate nell’anno fiscale nel quale l’investimento è avvenuto ed in ciascuno dei quattro successivi.
18
FORME DELL’IMPRESA SOCIALE IN UK, LE COMMUNITY INTEREST COMPANY IN UNO SCENARIO IN CAMBIAMENTO
Dario Carrera, Alex Murdock
impresa sociale-territorio pare quella che il legislatore inglese abbia
privilegiato nel disegnare il “vestito” giuridico della CIC.
L’avvento nel mondo delle social enterprise delle CIC ha dato impulso
e maggiore significatività ad una tripartizione - conce uale, ma ora
anche giuridica - delle organizzazioni di terzo se ore britanniche. Si
assiste oggi, rispe o solo ad alcuni anni fa, ad una sempre più chiara
(anche se - ed a ragione - ancora non completamente ne a e matura)
identificazione delle diverse anime che popolano il se ore:
• quelle basate su azione volontaria e dedite alla beneficenza (ad
esempio, le charity);
• le iniziative di social enterpreneurship (a ività di advocacy, servizi
alla persona e di inserimento lavorativo, a ività in outsourcing
dal se ore pubblico);
• le organizzazioni orientate al social business ed alla social innovation (ad esempio, nella veste giuridica delle CIC ed a ive in
se ori emergenti quali fair trade, energie rinnovabili, turismo responsabile, tecnologie dell’informazione e comunicazione).20
Gli impa i in termini operativi dell’istituzione delle CIC disegnano
quindi uno scenario ancora più dinamico, effervescente, all’interno
del quale possono sintetizzarsi tre leve principali di cambiamento:
1. riorientare nel tempo (quindi in maniera continuativa) l’impianto politico-istituzionale verso nuove esigenze espresse a livello
locale, sposando a pieno l’accezione di impresa sociale quale volano per lo sviluppo locale;
2. rafforzare il grado di trasparenza dell’agire e del “rendere conto”
(accountability) delle imprese sociali con strumenti normativi e
gestionali più idonei e snelli al contesto sociale, economico, istituzionale; 21
3. implementare nuove logiche di partnership for-profit-nonprofit,
allineando quindi il management delle imprese sociali verso una
cultura d’impresa “più decisa” ed al tempo stesso “più aperta”
alla cooperazione con gli a ori di mercato (istituzioni finanziarie
in primis) e trasferendo all’a ore pubblico (eccezion fa a per alcuni se ori in cui la presenza del pubblico è determinante per questioni legate al rispe o della qualità dei servizi e delle procedure
da seguire - ad esempio, in ambito socio-sanitario) il compito di
Per approfondimenti sui concetti di social entrepreneurship, social business e social innovation cfr. Yunus, 2008 e Mulgan, 2007.
21
I partiti politici non possono costituirsi come CIC, né confinarsi come sussidiari a queste.
Le CIC non possono essere coinvolte in campagne politiche o attività legate ad alcun partito,
né essere controllate da questi.
20
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IMPRESA SOCIALE
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supervisore ed al tempo stesso di “consigliere”, come per il caso
della determinazione dell’asset lock e dei livelli di remunerazione
del management, o della formulazione di nuovi strumenti giuridici capaci di riconoscere istanze nuove, emergenti e che fungano
da motore per la crescita del se ore delle imprese sociali; come
per il caso della CIC Co-operative (si veda nota 14).
La prima leva, consiste nel ripensare l’archite ura istituzionale in
termini di funzioni-obie ivo.
La storica Charity Commission appare non più adeguata nel regolare
un se ore ormai in evoluzione verso traie orie di aziendalizzazione
e commercializzazione tali da favorire comportamenti “velati” in cui
a ività non istituzionali e/o esclusivamente commerciali delle charity vengono delegate ad organizzazioni controllate, con il rischio - in
alcuni casi - di snaturare il fine istituzionale ed allontanandolo pericolosamente dall’a ività cara eristica. È questo il caso di molte charity che per ragioni fiscali - e di rispe o di alcuni parametri relativi
alle entrate extra-istituzionali - hanno creato organizzazioni ex novo
o esternalizzato ad imprese terze la propria gestione extra-cara eristica. Se da un punto di vista strategico il giudizio in tal senso non
può che essere positivo, meno chiara potrebbe mostrarsi in queste
triangolazioni la posizione della charity nei confronti del legislatore
e dei vari stakeholder (donatori, clienti, partner, sponsor, ma anche degli stessi soci fondatori e del personale coinvolto).
La trasparenza nel modello offerto dalle CIC (seconda leva) è sostenuta da una normativa che introduce un’authority indipendente che si rivela (nelle intenzioni) di supporto e spin-off invece che ente regolatore
e burocratico, quindi ulteriore elemento di freno allo sviluppo.22
La CIC quindi, pur presentando una regolamentazione meno rigida
e puntuale rispe o alle charity, non possono beneficiare della fiscalità di vantaggio, anche se l’ogge o delle proprie azioni sia definibile
charitable. Una CIC inoltre, non può contemporaneamente presentarsi come charity e viceversa; l’adozione di un modello giuridico
esclude l’altro. Per il resto, le CIC possono beneficiare di tu e le normative ed iniziative di sostegno pubblico, legate al se ore economico di a ività, alla localizzazione geografica, ecc.
22
Proprio in riferimento alle charity, queste possono, con il consenso della Charity Commission, trasformarsi in CIC e perdere il proprio charitable status, compresi i vantaggi di natura
fiscale; (come detto, si rende possibile la situazione in cui una charity sia proprietaria di una
CIC e che i profitti di questa vengano trasferiti alla prima). La decisione di non avvantaggiare
fiscalmente le CIC è legata probabilmente alla volontà del legislatore di non condizionare il
mercato dell’industria e dei servizi.
FORME DELL’IMPRESA SOCIALE IN UK, LE COMMUNITY INTEREST COMPANY IN UNO SCENARIO IN CAMBIAMENTO
Dario Carrera, Alex Murdock
Inoltre, nella forma di società per azioni, possono distribuire i dividendi tra gli azionisti ed ai diversi investitori, preservando la fiducia
da parte dei vari stakeholder per mezzo di strumenti di rendicontazione sociale, quale il community interest report. La quota distribuita è
sogge a ad un limite indicato dal Ministero competente, il Secretary
of State, e formalizzato dal regulator.
Al fine di essere eleggibile come CIC, l’impresa in ogge o deve superare il community interest test: il legislatore deve validare le a ività
d’impresa che devono dimostrare il loro impa o (in termini di benefit)
sulla comunità, a nché sia applicabile il community interest statement.
Le charity sono condizionate nel costituirsi per fini sociali (charitable)
ben definiti dalla normativa; le CIC si differenziano per non dipendere da fini e se ori istituzionali, ma dall’essere vincolati ad a ività
che portino vantaggi e benefici alla comunità di riferimento. Questa
“agilità” porta a relazioni innovative ed originali (terza leva) tra imprese sociali e se ore for-profit, capaci di disegnare traie orie nuove
in cui si interce ino iniziative ad alto potenziale, fino ad ora inespresse o non completamente sviluppate, riuscendo altresì a condizionare consumi e produzioni verso una responsabilità - misurabile
e condivisibile - degli a ori coinvolti.
Per mezzo della veste giuridica di CIC, le imprese sociali possono
dar vita ad a ività di raccolta fondi e di o imizzazione della gestione di questi in via dire a ed esplicita. Si rendono possibili così,
preziosi collegamenti con imprese commerciali specializzate che
perme eranno più alti indicatori di e cacia, una più trasparente
gestione delle risorse finanziarie, un rapporto sempre più saldo con
imprese e management del se ore for-profit avviando circuiti di “collaborazione-competitiva” in cui apprendere know how e “infondere”,
contaminando, modelli d’impresa sociale orientati alla comunità di
riferimento, ovvero alla colle ività intera.
Il contributo, non a caso si è concentrato in un continuo confronto tra il modello delle charity e quello relativo alle CIC. Mentre il
primo, di antica tradizione, apre la strada verso un riconoscimento
istituzionale delle organizzazioni di terzo se ore orientate a percorsi
di aziendalizzazione e sostenibiltà, lo scenario delle social enterprise,
con l’avvento delle CIC, pare assumere contorni più decisi nel riconoscere a pieno l’impresa sociale quale a ore dell’economia locale e
capace di riqualificare il tessuto socio-economico dei territori. Lo testimoniano le numerose iniziative di supporto da parte del sogge o
pubblico, lo confermano le circa 1.850 CIC registrate in tre anni.
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IMPRESA SOCIALE
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Alcune questioni restano comunque sul tappeto; in a esa di evoluzioni e sviluppi. Tra queste si evidenziano:
• la modalità di scelta della definizione (o la percezione “ragionevole” del senso) di community (Iamiceli, 2005, pp. 164-165);
• il grado di sindacabilità da parte delle CIC verso il regulator nella determinazione di parametri funzionali alla propria gestione
(asset lock, ammontare dei dividendi e delle retribuzioni);
• il ruolo sempre più determinante delle organizzazioni di lobbying
verso le istituzioni; il tema della rappresentanza appare sempre
una criticità a uale e quindi irrisolta;
• la competizione interse oriale con le altre forme di impresa sociale (ad esempio, in avvisi pubblici, appalti e gare) o tra CDFI e
a ori della finanza etica;
• il grado di replicabilità del modello CIC; viene da domandarsi
infa i se in altri contesti europei questo possa essere ado ato,
prevedendo - seppur entro certi limiti determinati dall’asset lock
- la possibilità della distribuzione del profi o.
Tu i quesiti che troveranno riposta nel tempo e che le prassi sapranno “valicare” o evidenziarne le debolezze; e magari, nel mentre il
presente contributo volge al termine, un’altra innovazione sociale,
un modello cui far riferimento nei prossimi anni in Europa prende
forma, magari in Italia…
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303
Recensioni,
segnalazioni e
documenti
RECENSIONI E SEGNALAZIONI
Recensioni e segnalazioni
R. BENINI (A CURA DI), L’IMPRESA RESPONSABILE E LA COMUNITÀ INTRAPRENDENTE. RESPONSABILITÀ
SOCIALE, TERRITORIO E PICCOLE IMPRESE IN RETE, HALLEY EDITRICE, MASSA CARRARA, 2007.
Il lavoro è il risultato di un proge o titolato “Etica & PMI”,
coordinato da ECIPA Nazionale, che ha come scopo quello di
elaborare strategie innovative di promozione della CSR intesa
come volano di sviluppo delle risorse umane e della qualità
del lavoro.
Ogge o di studio sono le piccole medie imprese che, probabilmente viziate da una rido a stru ura dimensionale, rischiano
di essere discriminate nell’accesso ai vari sistemi di incentivazione miranti allo sviluppo di una CSR.
L’intervento proge uale, che si basa sui contributi di noti
economisti aziendali e sociologi italiani, mira ad analizzare e
sviluppare elementi innovativi riassumibili essenzialmente in
“innovazione di contesto, degli obie ivi e di processo”.
Il libro è stru urato in due parti: nella prima si è dato risalto ai
contributi sviluppati da studiosi di economia e gestione delle
imprese e da sociologi; nella seconda si è dato risalto alla CSR
studiandone la sostenibilità sia in ambito istituzionale, sia in
ambito strategico gestionale che in ambito operativo e tecnico.
Riguardo alla prima parte del testo, distinguiamo un approccio al tema della CSR di tipo sociologico da uno di tipo strategico gestionale.
Iannone, sviluppa le sue idee partendo dallo studio del conce o di rete, intesa contemporaneamente sia come strumento
di conoscenza della realtà osservabile sia quale stru ura latente della realtà stessa. Partendo da una disanima ampia e
trasversale delle reti di impresa e di a ori e dall’assunto che
la rete è sì strumento di conoscenza della realtà osservabile,
ma anche stru ura latente di quest’ultima, afferma che, per
quanto centrali, i rapporti tra le imprese (imprese-rete) non
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costituiscono l’unico fa ore di determinazione di reticolarità
sul piano economico. Ciò che dire amente incide sulle reti
produ ive è il loro rapporto con l’ambiente esterno; in altre
parole, la produzione si rapporta con fa ori esogeni e con le
risorse territoriali, affonda nel sistema locale e dipende dalla
sua integrazione con le dimensioni socio-culturali del contesto di insediamento. Pertanto, la reticolarità produ iva non
riguarda più solo le imprese, ma a ori tra loro eterogenei: in
particolare, nel Mezzogiorno, la combinazione tra risorse e attori diventa l’obie ivo da raggiungere in quanto lo sviluppo
economico locale può essere perseguito principalmente “attraverso una mobilitazione dall’alto e una responsabilizzazione dal basso dei sogge i locali”.
Il pericolo più immediato che Iannone rileva, nell’ambito di
uno sviluppo economico siffa o, è che si creino coalizioni
meramente collusive, ovvero un uso particolaristico delle reti
a raverso una riproduzione indebita dei legami, che avrebbe
come unico fine il mantenimento del potere. La domanda che
la studiosa si pone è per quali motivi la reticolarità, la concertazione e l’idea di concertazione tra fa ori endogeni ed esogeni acquista oggi un’importanza sempre più crescente. La risposta può essere cercata in fa ori quali la flessibilità, la sfera
istituzionale, la complessità crescente, le politiche pubbliche,
la globalizzazione e lo sviluppo della società del sapere.
Nel suo secondo contributo Iannone affronta il tema della governance relazionale dell’impresa responsabile che si trova ad
“affrontare” il rapporto con gli stakeholder in considerazione
del fa o che l’impresa può essere considerata oggi un’”entità
complessa”; il suo ambiente di riferimento è influenzato da
aspe i culturali, simbolici e riflessivi che fanno della stru ura
organizzativa un’entità culturale.
La cultura aziendale diventa uno strumento di controllo dell’organizzazione, un controllo che si basa, parafrasando Perrow,
sull’interiorizzazione nella coscienza dei vari stakeholder dei
valori, dei codici e degli obie ivi aziendali. La domanda che
si pone è, quindi, cosa differenzia un’impresa responsabile da
un’impresa che semplicemente si adegua ai mutamenti socioeconomici in corso? La risposta prende spunto dalla considerazione che le imprese sono tenute oggi a considerare non solo
il valore inteso in senso economico, ma anche il valore cosid-
RECENSIONI E SEGNALAZIONI
de o sociale. Considerando quest’ultimo come presupposto
fondamentale alla realizzazione del primo, è necessario che il
valore sociale e culturale si rinnovi di continuo. A nché esso
venga “riprodo o” occorre l’esistenza di almeno tre fa ori. In
primis la concertazione, ovvero la reale consapevolezza e condivisione da parte di tu i gli a ori che la cultura aziendale sia
effe iva espressione di RSI. In secondo luogo occorre il rispetto della natura delle risorse, intese come beni relazionali e, in
terzo luogo, la considerazione della differenza tra il conce o
di immagine e il conce o di reputazione. Pur non risolvendo
la questione la studiosa individua l’elemento che fa la differenza tra i due conce i nell’”impegno”, ovvero lo sforzo delle
organizzazioni a far sì che l’immagine che di esse veicolano
all’esterno sia coerente con la reputazione delle stesse.
In questo contesto si insedia il conce o di “governance relazionale” con il quale si vuole intendere l’insieme dei legami che
un’impresa responsabile è tenuta a considerare: essa può essere genericamente definita “l’insieme di assunti utili al governo
delle relazioni tra impresa e stakeholder”. L’a enzione si sposta
così da “quali a ese soddisfare e di quali a ori” sul “come”
soddisfarle.
La “governance relazionale” risulta essere pertanto il risultato
dell’interazione tra fa ori sociali, culturali e normativi ed è
inseribile nella teoria degli stakeholder ai suoi tre livelli di analisi, relazionale, di processo e transnazionale. In quest’ultimo
livello, considerato fondamentale per il management che deve
analizzare e governare la relazione impresa/stakeholder, si possono individuare tre linee principali di analisi: le “risorse”
veicolate nella relazione, la qualità della stessa, la forma dei
rapporti (rete).
L’intervento di Tencati, affronta il tema dello sviluppo sostenibile nella sua triplice dimensione economica, sociale ed
ambientale chiedendosi se l’a uale modello di sviluppo sia
sostenibile, ovvero se abbia la capacità di durare nel tempo
o se le sue potenzialità siano minate da squilibri ravvisabili
principalmente in una crescente emergenza ambientale, forti
disuguaglianze sociali e l’affermazione di un capitalismo vorace. Analizzando i fa ori appena esposti, Tencati arriva alla
conclusione che l’a uale modello di sviluppo appaia insostenibile a meno che non si ado i un “modello europeo” che in
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un’”economia responsabile” sviluppi “imprese responsabili”.
Partendo dall’assunto che il fine ultimo dell’impresa è la creazione di valore, egli ribadisce che un quadro corre o e significativo della qualità della gestione aziendale non può basarsi
solo sulla massimizzazione del proprio shareholder market value,
in quanto esso non coincide necessariamente con la creazione
di valore. Un’impresa crea valore quando orienta la propria
gestione verso l’obie ivo della sostenibilità, ovvero quando è
capace di continuare le proprie a ività in maniera duratura,
tenendo in debita considerazione l’impa o delle stesse sul
capitale sociale, naturale e umano. L’autore conclude il suo
intervento analizzando il distre o reggiano-modenese delle
ceramiche ed il relativo processo di transizione verso la sostenibilità.
Perrini e Pivato, prendono a spunto del loro contributo l’affermazione che la responsabilità sociale non può essere intesa come filantropia aziendale o come opportunità di comunicazione in una logica di window-dressing; essa deve essere
considerata come un elemento fondamentale di sostenibilità
dell’impresa sopra u o in relazione alle esigenze dei suoi differenti portatori d’interessi. Nel loro contributo Perrini e Pivato hanno fornito una definizione e delineato una funzione di
CSR so o il profilo competitivo e strategico ed hanno evidenziato che, le imprese percepite come socialmente responsabili,
hanno un più elevato brand value sul mercato finale di sbocco
ed una maggiore a ra ività sul mercato del lavoro. Le opportunità per le imprese socialmente responsabili si riassumono
in termini di miglioramento di immagine, di gestione delle
risorse umane, di gestione delle risorse ambientali naturali,
delle relazioni con le istituzioni finanziarie, oltre ad un incremento di a ra ività sul mercato finanziario e una più e cace
gestione del rischio di impresa. Pertanto la CSR va interpretata ed applicata come un modello gestionale d’impresa volto
ad integrare gli obie ivi economici, ambientali e sociali, rispettando le relazioni con gli stakeholder. L’adozione e la gestione
della CSR, non deve essere considerata un costo addizionale
per le aziende bensì un fa ore di successo, la cui adozione avviene spesso in maniera spontanea nelle piccole o piccolissime
aziende, tipiche del tessuto imprenditoriale italiano. Gli autori
suggeriscono però un approccio alla CSR più stru urato, dal
RECENSIONI E SEGNALAZIONI
momento che essa deve essere considerata una componente
essenziale della strategia di impresa, lasciando nel contempo
alla libertà di ogni singola impresa il compito di definire le
modalità di perseguimento della CRS.
Pogutz, mira con il suo contributo a sistematizzare i molteplici
livelli in cui si articola la CSR e a fornire una rassegna delle principali esperienze oggi in corso. Egli riporta in maniera
schematica ed esaustiva le tipologie di iniziative di CSR, in
ambito istituzionale e non, evidenziando e conducendo un’attenta analisi dei principali strumenti quali principi e codici di
condo a, standard di gestione e di reporting, label e marchi e
gli award. Inoltre, affronta brevemente il discorso della finanza etica, individuando nelle SRI (Socially Responsible Investing)
forme di gestione degli asset finanziari ispirate al rispe o di
criteri etici, sociali, ambientali e di sostenibilità.
Come accennato in precedenza la seconda parte del testo è dedicata alla disanima del proge o.
I ricercatori ECIPA CNA, ne evidenziano le finalità ed i principi,
principalmente in termini di innovazione di processo, obie ivi
e contesto, e illustrano gli strumenti ado ati nelle varie fasi di
realizzazione del proge o “Etica & PMI”, strumenti che si sostanziano essenzialmente nel disciplinare e nel manuale.
Il gruppo di lavoro della Bocconi di Milano esamina nello specifico il “caso Italia”, analizzando e confrontando le politiche e
gli interventi per la promozione della CSR a livello nazionale
e a livello locale, esaminando nello specifico gli interventi normativi effe uati nelle regioni Lombardia, Piemonte, Emilia
Romagna, Toscana, Umbria, Abruzzo, Marche, Lazio, Campania, Puglia, Sicilia.
Dall’a enta le ura del testo si evince che il tema della CSR e
della sostenibilità del modello di sviluppo economico analizzato si sviluppa su più livelli.
In primo luogo, quello istituzionale, a raverso politiche di
indirizzo, regolamentazioni, strumenti economici ed iniziative di partnership pubblico-private, con le quali i policy maker
orientano gli a ori del nostro sistema economico sociale verso
la “responsabilità”. In secondo luogo, quello strategico e gestionale, che ha portato alla definizione di codici di comportamento, standard manageriali e meccanismi di autovalutazione
e premi. Infine, quello tecnico-operativo, a raverso la predi-
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sposizione di strumenti di misurazione e rendicontazione delle prestazioni, quali rating sociali ed ambientali o indicatori di
sostenibilità sia a livello di impresa che territoriali.
Ricorrendo nel testo in maniera frequente sia il multi-stakeholder
approach sia la triple bo om line theory, si nota che le PMI sono
fortemente legate alla comunità locale: il rapporto che le lega è
di stre a interdipendenza in quanto esse forniscono sì occupazione, prestazioni ed entrate fiscali, ma dipendono fortemente
dalla stabilità e prosperità dell’ambiente in cui si sviluppano.
Potrebbe in questo senso essere applicato il conce o di “ci adinanza d’impresa”: l’ambiente è il luogo delle relazioni e delle iniziative che l’impresa promuove verso la comunità locale
e il valore aggiunto che l’impresa stessa o iene risiede nell’innovatività e creatività dei suoi programmi in relazione alle
specificità del contesto sociale ed ambientale in cui essa opera.
Questo conce o, di immediata evidenza per le organizzazioni
nonprofit che istituzionalmente mirano a creare significative
partnership con le istituzioni e le imprese, sembra scarsamente
applicato alle PMI perché esse hanno una minore abitudine e,
talvolta, una scarsa propensione a comunicare il loro contributo circa le iniziative svolte a favore della comunità.
In realtà gli obie ivi sociali ed economici delle istituzioni, delle
imprese e delle organizzazioni nonprofit non sono ne amente
separati in quanto possono essere sovrapposti qualora si discuta di fa ori che influenzano il contesto competitivo dell’impresa (ad esempio, formazione delle risorse). Pertanto appare
evidente che, se l’impresa investisse nel contesto territoriale in
cui essa opera per la soluzione di problemi sociali, affronterebbe nel contempo anche quegli elementi che costituiscono un
vincolo allo sviluppo della competitività aziendale. In altre parole, l’impresa impiega risorse monetarie in maniera e ciente
e me e nel contempo in azione le sue core competence. Sembra
quindi agevole ipotizzare che se le PMI fossero accompagnate
da politiche ad hoc in tema di “responsabilità” e sensibilizzate
circa l’adozione di comportamenti responsabili, potrebbero inserire nell’ambito della propria strategia aziendale complessiva
la gestione di iniziative socialmente responsabili con lo scopo di
raggiungere interessanti performance aziendali anche nel medio e breve termine.
Assunta Lieto
ENGLISH ABSTRACT
English Abstract
ADALGISO AMENDOLA, ROBERTA TROISI
The third sector has seen a proliferation of special legislation aimed primarily to promote socially useful activities.
While respecting the general non-profit constraint and in
the presence of an objective of social usefulness, legislators
have allowed the use of diverse legal types under the provisions of Book 1 of the civil code in the case of non-commercial
activity and all the legal types envisaged by Books 2 and 3 in
the case of commercial activity. Does full freedom of organizational form mean full fungibility, with regard to e ciency, of
the legal types that can be used?
LAURA BAZZICALUPO
The article examines ongoing changes in the sector of social
enterprises from the perspective of political theory or philosophy. The complex structure of the social enterprise is in
fact multi-dimensional. This raises questions concerning the
importance and the political significance of this sector of economic activity.
FABIO MARINO
The paper investigates the connection between ethics and economics. It concentrates in particular on Smith’s theory and its
recent revival in, for instance, Sen’s liberalism.
ANGELA IACOVINO
The article examines social enterprises and new forms of participatory governance in light of democratization of social
work and the recent configuration of the institutional structure epitomised by the principle of territorial pluralism, and
changes in the planning and management of social policies.
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IMPRESA SOCIALE
aprile ~ giugno 2008
The article asks what real opportunities are available to citizens, how fruitful democratic openness could be designed
without it becoming simply functional participation, and how
space could be created for a renewed and revitalized civil society.
ROSSELLA TRAPANESE
The article discusses the role of the third sector in complex societies. It examines the change in the social enterprise in Italy
with implementation of the framework law 328/00 reforming
the welfare system. The focus is on the relational aspects that
characterize the relationship of social enterprises with the
community and individual users, but also with local authorities and other third-sector organizations.
DAMIANO FIORILLO
The article analyses the determinants of unpaid work for a
voluntary association, a non-voluntary association, a political party, and a trade union, using o cial data from the 1997
Multiscopo survey conducted by the National Institute of Statistics. The analysis shows that unpaid work for a voluntary
association has characteristics of both consumption and investment, whilst the acquisition of information, relationships,
and contacts probably motivates people to devote their time
to a political party.
MELANIA VERDE
It is well known that social enterprises must account for their
decisions and actions more than other organizations. The article starts from this consideration to develop the theme of the
social balance sheet. It concentrates analysis on the notion of
the social report, on the functions and purpose of social accounting in light of the provisions of d.lgs. 155/2006 and subsequent ministerial decrees. When this is not possible, the article draws on the literature on the subject.
MITA MARRA
The nature and reliability of the information used for the
allocation of resources, the degree of decentralization of allocative decisions and information in an organizational/institutional context, and responsibility towards the citizen-user
ENGLISH ABSTRACT
are aspects crucial for improving the institutional design, the
organizational functions, and the performance of social enterprises. Constant assessment of quality requires the decentralized generation of evaluative information and the spread
of organizational expertise in all the organization’s decisionmaking centres, with system of incentives and sanctions able
to democratize decisions and to focus a ention on the results
of public action for citizens.
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FORMAZIONE DIRIGENTI 2008/2009
Corso base per Dirigenti di Imprese Sociale
Il percorso si articola in una serie di moduli formativi che si propongono di sviluppare: una preparazione
teorica di base su che cos’è l’impresa sociale, una definizione dei contesti e degli scenari di sviluppo
dell’imprenditoria sociale e, infine, una riflessione sugli strumenti necessari per la gestione manageriale delle
imprese sociali. Da novembre 2008 a maggio 2009
Corsi specialistici:
1. La leadership nell’impresa sociale: strumenti per la gestione del personale e dei gruppi di
lavoro
Per produrre servizi, beni intangibili che hanno nel “care” il cuore del prodotto è indispensabile una
leadership che alle indispensabili competenze tecniche e tecnologiche unisca capacità di intuito, creatività,
empatia affettiva, apertura di pensiero e di visioni, capacità di condivisione. Per sviluppare queste qualità
personali è necessario scoprirle o riscoprirle in sé, legittimarsele e coltivarle. Scopo di questo corso è
proprio quello di focalizzarsi su queste qualità della leadership, essenziali per la gestione delle relazioni e
della comunicazione nelle aziende. (Ottobre 2008)
2. Il rapporto tra impresa sociale e pubblica amministrazione: verso un sistema integrato?
Analizzare la disciplina comunitaria e la disciplina nazionale in materia di erogazione dei servizi alla
persona. Approfondire le particolarità e l’applicazione di tali discipline nelle diverse regioni italiane.
Obiettivo finale del corso è fornire gli strumenti manageriali per gestire i rapporti con l’ente pubblico a
seconda delle tipologie e delle caratteristiche dei servizi offerti dalle imprese sociali. (Gennaio 2009)
3. Il manager dell’inserimento lavorativo: una figura chiave per lo sviluppo delle coop. B
Il corso propone alcuni strumenti in grado di attrezzare la nuova figura professionale del “manager
dell’inserimento lavorativo”, una figura in grado di: comprendere le logiche delle politiche del lavoro,
conoscere la quantità e le caratteristiche della forza lavoro marginale presente sul proprio territorio al fine
di ottimizzarne l’inserimento in cooperativa ed il successivo collocamento all’esterno, conoscere le
dinamiche del locale mercato del lavoro. (Gennaio 2009).
4. Strumenti di rendicontazione per l’impresa sociale
Il corso ha l’obiettivo di descrivere e spiegare i diversi modelli di rendicontazione possibili per le imprese
sociali. Si analizzeranno inoltre i principi contabili di riferimento e il processo aziendale di strutturazione
della rendicontazione. Infine si approfondiranno gli adempimenti di legge richiesti dalla nuova normativa
in tema di bilancio sociale per le imprese sociali. (Gennaio 2009)
5. La gestione delle risorse umane nell’impresa sociale
Il corso intende fornire un contesto di apprendimento specifico che aiuti ad impostare alcune delle
principali politiche di gestione delle relazioni di lavoro, con una particolare sensibilità alle specificità delle
imprese sociali. Il corso prevede diverse modalità formative in grado di affiancare alle nozioni teoriche la
riflessione su esempi concreti riguardanti la situazione reale delle organizzazioni iscritte al corso.
(Febbraio 2009)
6. Programmazione della produzione e strumenti di budget
Il corso intende fornire riflessioni teoriche e indicazioni pratiche per ottimizzare la programmazione della
produzione e delle attività delle imprese sociali. A tal fine si approfondiranno: l’analisi e il controllo dei
flussi produttivi, la previsione e la determinazione delle richieste/offerte di lavoro, la soddisfazione in
termini di qualità, quantità, tempi e prezzi dei principali stakeholder, l’ interazione tra struttura
commerciale, tecnica e produttiva dell’organizzazione durante tutte le fasi di lavoro. (Marzo 2009)
Per iscrizioni e informazioni: www.euricse.eu
Responsabile Formazione - Paolo Fontana
Tel. 0461/882289 - Mail: paolo.fontana@euricse.eu
ICA Research Conference 2008
“Il ruolo delle cooperative nel sostenere lo sviluppo e favorire la responsabilità sociale”
15 - 18 ottobre 2008
Riva del Garda - Fiere Congressi
Al Convegno verranno presentati 60 interventi di esperti e ricercatori provenienti
da diversi paesi del mondo. L’evento è un’opportunità per studiosi, ricercatori, dirigenti
ed operatori del settore per confrontarsi, condividere esperienze e buone pratiche,
identificare nuove aree d’indagine e stabilire nuovi contatti. Verranno affrontate
tematiche di particolare interesse del movimento cooperativo e dell’impresa sociale
come:
‚
‚
‚
il ruolo delle cooperative nei paesi in via di sviluppo e in transizione;
l’interesse delle cooperative e delle imprese sociali per la comunità;
la responsabilità sociale delle cooperative e la rendicontazione sociale;
‚
i contributi recenti delle scienze umane ad una migliore e più approfondita
conoscenza delle cooperative.
La lingua ufficiale del Convegno sarà l’inglese e per facilitare la partecipazione sarà
garantita la traduzione simultanea del primo giorno e delle sessione plenaria.
Per la registrazione vista il sito www.issan.info
n.3 anno 18°vol. 77
Trimestrale ~ Poste Italiane S.p.A. ~ sped. in a.p. ~ D.L. 353/03 (conv. in L. 27/02/04, n. 46) art. 1, comma 1 ~ BCB Trento ~ taxe percue
luglio
settembre
2008
L’utilizzo dei voucher nel
mercato del lavoro: Una rassegna critica Donna, madre,
lavoratrice. Sostegno e conciliazione con i “buoni di servizio o di accompagnamento” in
provincia di Trento Verso una
progressiva separazione fra le
funzioni di nanziamento,
regolamentazione e produzione delle prestazioni sociali?
Alcune ri essioni sugli ambiti
della sanità e dell’istruzione
obbligatoria Il voucher di conciliazione. Matrici prevalenti e
modelli a uativi in alcune
sperimentazioni
locali
nell’Italia del Nord Tra pubblico e privato: i servizi di
assistenza domiciliare agli
anziani I problemi legati alla
coesistenza di fornitori a nalità sociale e a nalità lucrativa,
in
conseguenza
dell’introduzione, in Belgio, di
un meccanismo di quasimercato nel campo dei servizi
di prossimità I voucher sociali
in Lombardia Conditionally o
unconditionally? Trasferimenti
monetari
e
politica
dell’educazione in Latinoamerica I buoni per la formazione
permanente: l’esperienza della
provincia di Trento Riscoprire
la funzione pubblica del “mercato sociale” dei servizi alla
persona
I buoni servizio nelle politiche
sociali
Impresa
Sociale
I BUONI SERVIZIO NELLE POLICHE SOCIALI
L’utilizzo dei voucher nel mercato del lavoro: Una rassegna critica
Donna, madre, lavoratrice. Sostegno e conciliazione con i “buoni di servizio o di accompagnamento” in provincia di Trento
Verso una progressiva separazione fra le funzioni di finanziamento,
regolamentazione e produzione delle prestazioni sociali? Alcune riflessioni sugli ambiti della sanità e dell’istruzione obbligatoria
Il voucher di conciliazione. Matrici prevalenti e modelli a uativi in alcune sperimentazioni locali nell’Italia del Nord
Tra pubblico e privato: i servizi di assistenza domiciliare agli anziani
I problemi legati alla coesistenza di fornitori a finalità sociale e a finalità
lucrativa, in conseguenza dell’introduzione, in Belgio, di un meccanismo di quasi-mercato nel campo dei servizi di prossimità
I voucher sociali in Lombardia
Conditionally o unconditionally? Trasferimenti monetari e politica
dell’educazione in Latinoamerica
I buoni per la formazione permanente: l’esperienza della provincia di Trento
Riscoprire la funzione pubblica del “mercato sociale” dei servizi alla persona
IL FORUM
IMPRESA SOCIALE IN ITALIA
OSSERVATORIO INTERNAZIONALE
Finito di stampare
nel mese di se embre 2008