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Problemi filologici connessi all’edizione di testi educativi e precettistici: l’Epistola a Ramondo dello pseudo-S. Bernardo Michelangelo Zaccarello 1. Un case study filologico Come si comporta un filologo di fronte a un breve testo di natura moraleggiante, poco conosciuto oggi ma ampiamente usato a scopo educativo e forse scolastico nel Medioevo, e per ciò stesso tramandato da un’imponente mole di testimonianze? Di esso non è disponibile alcuna ricostruzione filologica (né sistemazione introduttiva alla recensio) che renda conto della vistosa polimorfia delle redazioni superstiti: quali sono i primi passi per procurarne una qualche edizione scientifica metodologicamente fondata? Presentata così, si tratta di una situazione da non augurarsi, in quanto capovolge molti protocolli di ricerca e standard metodologici della critica testuale, ma tutti sanno che essa risulta piuttosto comune nell’esperienza ecdotica e nella realtà dei codici. Specie laddove le finalità pratiche dell’opera prevalgano sulle pretese letterarie, i copisti abbandonano ogni residuo scrupolo di fedeltà al testo di partenza, e a una trasmissione testuale già tipologicamente incline all’intervento si sovrappone l’ulteriore libertà di manipolare la struttura stessa del testo, producendo redazioni compendiate o interpolate: come esempi si possono citare, rispettivamente, le difformità del canone nei volgarizzamenti italiani della Legenda aurea di Jacopo da Varazze (ove si riconoscono criteri selettivi indirizzati a precise esigenze delle singole comunità, come si osserva spesso nei laudari) e i fenomeni di interpolazione osservati che caratterizzano la 1023 1024 Michelangelo Zaccarello tradizione dello Specchio di vera penitenza di Jacopo Passavanti1. Del resto, quanto siano frequenti gli intarsi e le interpolazioni nella trascrizione di testi moraleggianti o comunque di rilevanza etica lo dimostra già nel Trecento la tradizione dei commenti danteschi, in cui tanto Andrea Lancia quanto l’Ottimo commento attingono, rispettivamente, al De virtutibus et de vitiis et de donis Spiritus Sancti di Alano di Lilla, sia pure «in forma fortemente selezionata e adattata a nuove esigenze pastorali», e a «un volgarizzamento compendiato della Summa de vitiis et virtutibus di Peraldo»2. In queste pagine cercherò di simulare passo per passo un’operazione filologica consimile, con le sue varie difficoltà e implicazioni di metodo, in relazione al recupero di un breve testo; lo scarso rilievo letterario di quest’ultimo non parrebbe neanche meritare un’edizione critica, ma nei secoli XIV e XV esso costituiva una sorta di passepartout per l’educazione dei figli, premiato da una diffusione straordinaria, duratura ed estesa su scala autenticamente romanza. Si tratta dell’epistola al giovane cavaliere Raimondo da Castellambrogio per ammaestrarlo sulla condotta di sé e sul governo familiare, attribuita a San Bernardo di Chiaravalle e diffusa nella redazione latina almeno dal sec. XIII o già nel secolo prima, secondo don G. De Luca, che coglie con chiarezza il particolare statuto dell’operetta3: Sono aforismi, d’un conio nitido ed elegante il più delle volte; aforismi di umana amara accortezza, nei quali poco entra la morale, e nulla il cristianesimo […]; san Bernardo non ha nulla a spartire con esse, sebbene sotto il suo nome si siano diffuse tanto più sicure. 1 Si vedano, rispettivamente, G.P. MAGGIONI, Ricerche sulla composizione e sulla trasmissione della Legenda aurea, Spoleto, CISAM, 1995, dove il quadro è complicato dall’accertamento di varianti redazionali d’autore, e da conseguenti variazioni del testo di partenza (pp. 109-139), e G. AUZZAS, Tradizione caratterizzante e interpolazioni di exempla nello Specchio della vera penitenza, in «Filologia italiana», 1 (2004), pp. 61-71. 2 L. AZZETTA, Vizi e virtù nella Firenze del Trecento (con un nuovo autografo del Lancia e una postilla sull’Ottimo commento), in «Rivista di studi danteschi», 8 (2008), pp. 101-142, alle pp. 105 e 141. 3 Prosatori minori del Trecento. I. Scrittori di religione, a cura di G. DE LUCA, MilanoNapoli, Ricciardi, 1954, p. 817. Si tratta dell’epistola Ad Raymundum dominum Castri Ambruosii, la n° 456 in PL CLXXXII, coll. 647A-651A. Dell’uso di questa breve epistola come fonte di excerpta morali avverte R. AVESANI, Quattro miscellanee medievali e umanistiche, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 1967, p. 42. L’Epistola a Ramondo dello pseudo-S. Bernardo 1025 Volgarizzata nelle principali varietà europee entro il secolo XIV, in Italia essa assume una presenza abituale nelle miscellanee di ambiente mercantile, specie d’area toscana, tra la seconda metà del sec. XIV e il secolo successivo. In questa serie di concisi ammonimenti, sono riassunti precetti di mercatura e massime di sapore proverbiale, che coprono un’ampia gamma di attività quotidiane; è presente anche il mondo femminile, dal modo di comportarsi con le donne di casa alla dibattuta questione delle loro vesti: in alcune testimonianze, il testo compare vicino a trattati de ornatu mulierum4. In proposito, è opportuno tener presente che è solo con il principio del sec. XV che compaiono i primi esempi di scritture precettistiche indirizzate all’educazione delle donne laiche, di cui porta un’eco l’epistola di Leonardo Bruni a Battista da Montefeltro (1405)5. Come testo del buon secolo della lingua, una redazione trecentesca dell’epistola (ms. Bologna, Biblioteca Universitaria, ms. 1798) è stata pubblicata nel 1866 da U.A. Amico come dispensa 69 della bolognese Scelta di curiosità letterarie inedite o rare6. Una redazione ampliata, caratterizzata da interpolazioni e riscritture, ho edito di recente dal Ricc. 1383, interamente autografo di Paolo di messer Pace da Certaldo, autore di un’opera affine per area tematica, quel Libro di buoni costumi che vanta edizioni procurate da illustri filologi del Novecento quali S. Morpurgo e A. Schiaffini7. Come si è accennato in apertura, il testo ebbe circolazione su scala davvero europea: le traduzioni di area germanica sono state studiate da C.D.M. Cossar8, ma l’amplissima diffusione romanza del testo latino e 4 È il caso dell’Ashburnham 315, miscellanea devota che riserva un’occhio di riguardo per il versante femminile della buona condotta di vita: ivi si trovano anche delle quartine con parole ch(e) diseva una misera peccatrice nel ponto della morte sua (c. 82r). 5 Si veda in proposito X. VON TIPPELSKIRCH, ‘… Si piglino libri che insegnino li buoni costumi…’. La lettura femminile e il suo controllo nella precettistica della prima età moderna, in «Schifanoia», 28-29 (2005), pp. 103-120, a p. 104 e n. 14. 6 Epistola di S. Bernardo a Ramondo. Volgarizzamento del buon secolo, a cura di U.A. AMICO, Bologna, Romagnoli, 1866. 7 Il libro di buoni costumi di Paolo di messer Pace da Certaldo, documento di vita trecentesca fiorentina, a cura di S. MORPURGO, Firenze, Le Monnier, 1921, che offre anche tre specimina del codice; Paolo da Certaldo, Libro di buoni costumi, a cura di A. SCHIAFFINI, Firenze, Le Monnier, 1945. 8 C.D.M. COSSAR, The German Translations of the Pseudo-Bernhardine Epistola de cura rei familiaris, Göppingen, Kümmerle, 1975. 1026 Michelangelo Zaccarello le relative versioni volgari sono sostanzialmente prive di studi specifici ed edizioni scientifiche, oggi come nel 1954, quando don G. De Luca lamentava la disparità tra la fortuna immensa del testo nel Medioevo e l’oblio in cui esso era caduto modernamente9. Esso fu diffuso ampiamente anche a stampa, con la pubblicazione prima ad opera di Günther Zainer (Augsburg 1468-1470, due edizioni fra cui è difficile stabilire la priorità), poi in Italia, a Roma prima per Georg Lauer, ca. 1470 (una copia alla Pierpont Morgan Library di New York, segnata ChL622K), poi per Ulrich Han (ca. 1475). Le 15 edizioni censite dall’ISTC costituiscono senza dubbio il relitto di un più ampio contingente10; l’operetta era infatti talmente esile e di apparenza dimessa che il tasso di conservazione degli esemplari deve ritenersi minimo: si pensi che le prime edizioni tedesche sono stampate su un unico foglio, bianco al verso, suggerendo che, rispetto alla collocazione all’interno di sillogi d’indirizzo edificante comune nella tradizione manoscritta, in questi incunaboli fosse associata all’epistola una funzione di vademecum, se non addirittura di breve propiziatorio da portare con sé11. Tanto nella tradizione manoscritta quanto nelle edizioni a stampa, l’operetta figura attribuita al Santo di Chiaravalle, come del resto tanti altri testi e strumenti di natura didattica che circolavano all’epoca, indirizzati tanto alla formazione del laico quanto del chierico (il Floretus, la Formula honestae vitae, il Modus bene vivendi in christianam religionem ecc.)12. Nel vastissimo canone delle opere del Santo, e specialmente nelle Epistole, sono infatti assai frequenti i testi destinati al- 9 Prosatori minori cit., pp. 817-818. Il riferimento è naturalmente all’Incunabula Short-Title Catalogue della British Library di Londra (ISTC), database consultabile all’URL http://www.bl.uk/catalogues/istc/index.html. 11 Si veda la riproduzione dell’editio princeps, stampata su un solo foglio di grande formato e bianca al verso; in questo senso potrebbero intendersi anche le parole di Paolo da Certaldo, che nel Libro di buoni costumi ammonisce: «Legi spesso la pìstola di santo Bernardo, e fai che sia il tuo legiere chon efetto d’opera» (Il Libro di buoni costumi cit., p. liv; il passo è ricordato anche in Prosatori minori cit., p. 818). 12 La Formula honestae vitae, leggibile in Patrologia latina. The full-text Database, Chadwyck-Healey Inc./ProQuest LLC, 1996 (PL), vol. 184 [S. Bernardi Abbatis Primi Clarae-Vallensis Opera Omnia], coll. 1167B-1172A, era molto spesso confusa con l’omonimo trattato di Martino da Braga (che nel Medioevo circolava a sua volta anche sotto la falsa attribuzione a Seneca: vd. P. DIVIZIA, Novità per il volgarizzamento della Disciplina Clericalis, Parma, Unicopli, 2007, p. 25 e n. 6, con bibliografia ivi citata). 10 L’Epistola a Ramondo dello pseudo-S. Bernardo 1027 l’ammaestramento di individui e comunità religiose13. Pertanto, non mi pare che occorra pensare a un equivoco di persona, ma a un’attribuzione stereotipata e, per così dire, autoschediastica: poiché ricalca modi e finalità di opere caratteristiche di un certo autore, l’attribuzione a quest’ultimo vi assolve non un valore letterale o documentario legato alla vera origine dell’opera, ma equivale a una definizione di genere e/o fornisce un’identificazione dell’orizzonte tematico di essa. È il fenomeno che si osserva, per fare un esempio, nella tradizione della cosiddetta Lettera a Balbo che, spesso attribuita a Giulio Cesare e stabilmente infiltrata all’interno del corpus dei Commentarii, risulta certamente più tarda, e sembra addirittura presupporre l’opera di Svetonio14. Tantomeno occorrerà insomma presupporre uno scambio fra autori omonimi, come quanti in varie epoche hanno attribuito l’Epistola a un minor Bernardo, il Magister Bernardus Silvestris15. Tale fenomeno è assai frequente nella tradizione manoscritta, come si osserva per la frottola Mentre che âmor pensavo di attribuzione contesa fra Giannozzo Manetti e Giannozzo Sacchetti, e porta inevitabilmente al prevalere nelle rubriche del nome più illustre: attribuzioni siffatte sono da respingere in quanto faciliores, e non hanno di norma una vera plausibilità in termini di identità stilistica e sostanza tematica16. 13 Ad es., le due Quomodo se gerendum erga episcopum intrusum (PL CLXXXII, col. 1197, 353 e 360), le varie Pro reformatione monasteriorum (ivi, 58, 91, 96, 391, 427), e le varie esortazioni indirizzate a giovani aspiranti monaci (De adolescente qui se in ordine recipi postulabat, ivi 441). 14 L. CANFORA, Studi di storia della storiografia romana, Bari, Edipuglia, 1993, pp. 51-53 (cap. IV: La Lettera a Balbo e la formazione della raccolta cesariana). 15 AVESANI, Quattro miscellanee cit., pp. 42-43 (con cit. del Lexicon für Theologie und Kirche, herausgegeben von J. Höfer und K. Rahner, 14 voll., Freiburg, Herder, 1957-19682, II, col. 248). Ma l’attribuzione a Bernardo Silvestre appare più antica, poiché compare nel Catalogus laurenziano di Angelo Maria Bandini (1778), che dell’Epistola dice S. Bernardo abbati Claraevallensi perperam tributa […] quae tamen est Bernardi cognomento Silvestris seu Carnotensis (V, col. 534). Non si sa molto di questo Bernardo filosofo platonico del secolo XII, commentatore dei primi sei libri dell’Eneide e autore di una Cosmographia in prosimetro, dedicata a papa Eugenio III nel 1147; sulla sua opera si possono almeno vedere B. STOCK, Myth and Science in the Twelfth Century: A Study of Bernard Silvester, Princeton, Princeton University Press, 1972 e il più recente saggio di P. DRONKE, Bernard Silvestris: Nature and Personification, in ID., Intellectuals and Poets in Medieval Europe, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 1992, pp. 41-61 (si tratta del cap. I/2, pure dedicato principalmente all’interpretazione allegorica della Cosmographia di Bernardo). 16 Sull’attribuzione della frottola, si veda E. PASQUINI, Il codice di Filippo Scarlatti (Fi- 1028 Michelangelo Zaccarello Quel che è sicuro è che l’illustre attribuzione non ha giovato alla fortuna filologica e critica del testo, schiacciato tra la grandezza del presunto autore, e il sostanziale anonimato dei suoi contenuti, concrezione di sentenze dell’antichità e di saggezza popolare; sostanzialmente trascurato dagli studi bernardiani in quanto apocrifo, esso non si è al contempo mai potuto emancipare da quel corpus. È una sorte che unisce vari generi testuali e agisce particolarmente sulle forme brevi, secondo un meccanismo evocato in tempi recentissimi da A. Bettarini Bruni per un sonetto attribuito a Cecco Angiolieri17: Quando un testo ha la ventura di essere attribuito a un autore, anche se le ragioni dell’annessione si rivelano non giustificate, rischia di essere tenuto al limite di quel corpus a segnare per inerzia un’orbita subordinata. Quando poi la frammentazione è estesa […] l’interferenza negativa agisce verso il centro […] e accentua l’insignificanza individuale delle componenti di quella nebulosa di contorno. Non ultimo motivo di disinteresse per l’operetta è da ritenere lo scoraggiamento a cui difficilmente il filologo può sottrarsi di fronte al vertiginoso numero di attestazioni che essa vanta nei codici italiani dei secoli XIV-XV (al netto di quelle coeve del testo latino): già S. Morpurgo ne indicava diciassette nella sola Biblioteca Riccardiana di Firenze, mentre P.O. Kristeller ne segnala più remote attestazioni in codici conservati in Inghilterra e negli Stati Uniti18. Va notato per inciso che su tradizioni tanto esuberanti, e parimenti caratterizzate da una diffusa tendenza all’innovazione, la moderna filologia ha talvolta sperimentato applicazioni computer-assisted che permettessero di confrontare un elevato numero di testimoni: in parrenze, Biblioteca Venturi Ginori Lisci, 3), in «Studi di filologia italiana», 22 (1964), pp. 363580, a p. 574. 17 A. BETTARINI BRUNI, Sul sonetto Pelle chiabelle di Dio, no ci arvai, in «Medioevo letterario d’Italia», 4 (2007) [ma 2008], pp. 9-31, a p. 9. 18 Il riferimento è, rispettivamente, a S. MORPURGO, I manoscritti della r. Biblioteca Riccardiana, Roma, s.e., 1900, p. xxxiv e ad indicem, e alla versione elettronica di Iter italicum, accedunt alia itinera: a database of uncatalogued or incompletely catalogued humanistic manuscripts of the Renaissance in Italian and other libraries, edited by P.O. KRISTELLER, Leiden-New York-Köln, Brill, 1995 (CD-rom + manuale di accompagnamento). Le attestazioni più pertinenti ivi reperibili sono nei codici London, British Library, Harley 4094, Oxford, Bodleian Library, Bywater 5 (Western 40037), New York, Columbia University Library, Lodge Ms. 7. L’Epistola a Ramondo dello pseudo-S. Bernardo 1029 ticolare, si è cercato di porre tutte le varianti sullo stesso piano, evitando di introdurre preliminarmente una distinzione (sospetta di apriorismo) fra lezioni plausibili ed errori: in tal modo, ad es., W. Robins ha recentemente edito i Cantari della Reina d’Oriente di Antonio Pucci19. La pressoché totale reversibilità dei risultati ottenuti con tali indagini, tuttavia, espone al rischio di confondere la convergenza in errore con il comune rispecchiamento della lezione originaria, come ha rilevato con chiarezza P. Trovato20: rappresenta un a priori anche maggiore, e di più nefaste conseguenze, l’idea che, per distinguersi dagli incoerenti lachmanniani, lo stemma debba farsi da solo quali che siano i dati da cui si parte, ovvero che il grafo suggerito da un procedimento in apparenza oggettivo e impersonale come un software per la costruzione di cladogrammi non possa essere messo in discussione. In sintesi, trattandosi di un testo utilizzato per l’insegnamento e l’educazione familiare, la pur nutrita tradizione superstite non può che rappresentare la punta di un iceberg ben più vasto: anche se le testimonianze potessero essere adeguatamente censite, le integrazioni a tale novero sarebbero continue, man mano che si rendano disponibili cataloghi più precisi e meglio consultabili; inoltre, con un siffatto profilo testuale ogni eventuale ricostruzione stemmatica non potrà che essere guardata con sospetto, data la massima divaricazione che la separa dalle reali vicende tradizionali, ovvero dall’“albero reale” che potrebbe rappresentarle21. Non ultimo elemento di sospetto per il profilo tradizionale dell’Epistola è che il suo utilizzo in contesti educativi e scolastici può implicare che essa venisse spesso mandata a memoria, e trascritta solo 19 Il testo così ottenuto è ivi affiancato da un’altra edizione, di impianto bédieriano, procurata da A. MOTTA: Antonio Pucci, I Cantari della Reina d’Oriente, Bologna, Commissione per i Testi di Lingua, 2007. 20 P. TROVATO, Critica testuale e ideologia. Riflessioni ed esperienze di un filologo italiano, in Storicità del testo, storicità dell’edizione, a cura di F. FERRARI e M. BONTEMPI, Trento, Università degli Studi, 2009, pp. 23-42, a p. 38. 21 Sull’importanza del rapporto fra lo stemma codicum e l’albero reale, ovvero la più fedele rappresentazione possibile delle reali vicende di trasmissione del testo, e sul discusso statuto del primo (puro strumento grafico o rappresentazione sintetica) ha richiamato di recente l’attenzione P. TROVATO, Archetipo, stemma codicum e albero reale, in «Filologia italiana», 2 (2005), pp. 9-18. 1030 Michelangelo Zaccarello in un secondo momento per agevolare l’apprendimento altrui. Oltre alla notevole difformità della lezione, potrebbe suggerirlo la sua trascrizione nei contesti più difformi delle miscellanee manoscritte, spesso in forma avventizia su fogli sciolti o spazi rimasti disponibili, dato spesso associato, se non alla matrice orale o mnemonica, almeno all’utilizzo di fonti diverse rispetto al corpo principale. Per fare alcuni esempi, in alcuni casi la trascrizione è eseguita dalla mano principale del codice, ma appare aggiunta in calce alla silloge solo in un secondo momento: tale la copia sulle carte finali del ms. Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale (BNC), II IX 61, c. 234v (copia frammentaria), BNC, Panciatichi 20, cc. 109r-110v (stessa mano), ivi, Biblioteca Medicea Laurenziana (BML), LXI.38 o Biblioteca Riccardiana (BR), 1680; nel BNC, II II 82, composito, la copia compare al principio del secondo codice, ma appartiene ad altra mano e ha presumibilmente riempito uno spazio lasciato bianco (cc. 165r-167v), come prova il fatto che utilizza anche lo spazio in calce alla c. 168r, ove sono trascritti i dì che sono buoni (et) rei a trarsi sangue d’adosso come apresso diremo22. 2. «Recensere sine archetypo et possumus et debemus» Anonimato, esile consistenza, dispersione sono gravi ipoteche per lo svolgimento della recensio, ammesso che per l’Epistola convenga seguire un protocollo tradizionale. Tanto per cominciare, data la natura marcatamente caratterizzante della tradizione, per recensio non s’intenderà in questo caso un procedimento di tipo tradizionale (quello che si soleva dire “lachmanniano”, e che ora più opportunamente viene indicato come metodo genealogico o degli errori comuni), ovvero finalizzato alla costituzione del testo critico per via comparativa, ma tutt’al più indirizzato alla scelta del testo base, della redazione che (in base a una serie di considerazioni linguistiche, culturali e letterarie non meno che ecdotiche) converrà pubblicare come opera di riferi22 Nel ms. laurenziano l’Epistola compare dopo due carte lasciate bianche (le 89r e 90r dell’ant. num.), ma la rubrica è aggiunta successivamente in inchiostro diverso in calce a c. 89r: [P]istola di san B(er)nardo mandata al S(i)g(no)re Ramo(n)do del Castello Ambrosio della cura della casa e famiglia. L’Epistola a Ramondo dello pseudo-S. Bernardo 1031 mento, o comunque momento particolarmente significativo della ricezione del testo in particolari ambiti storici23. Tanto per il circuito “privato” di produzione e circolazione, quanto per l’umile contesto codicologico di partenza, è lecito paragonare la tradizione di questi testi a quelle dei “libri di famiglia”, per i quali tanto la redazione originaria quanto le successive edizioni condividono varie tipologie di interazione (sociale, culturale, etica) con le comunità di lettori a cui si rivolgono, ambienti comunque ristretti e delimitati da ben precise coordinate geografiche e socio-culturali. Con i dovuti adattamenti, si può ricordare quanto sostenevano un ventennio fa A. Cicchetti e R. Mordenti in relazione a tale tipologia di documentazione storica e alle relative edizioni24: Obiettivo di una tale ricerca ‹filologica› non sarebbe, evidentemente, la ricostruzione congetturale della versione originale, e neanche la correzione dell’edizione ‹ottocentesca›, ma proprio ciò che collega questi due poli rappresentati dal testo originale e dal testo edito; […] non si dovrebbe cioè guardare solo alle modificazioni linguistiche e testuali, ma soprattutto alle griglie ideologico-interpretative che ogni edizione presuppone e rivela. Come si è accennato, non solo a queste tipologie di testi corrisponde spesso un sostanziale anonimato, ma l’enfasi sui loro contenuti e sul relativo impiego didascalico sancisce una sostanziale irrilevanza della personalità dell’autore e della priorità, temporale o qualitativa, di determinate redazioni. Se ciò è vero sul piano della storia della tradizione, anche il filologo dovrà prioritariamente stabilire alcune coordinate della diffusione e modalità di fruizione di tali testi, in contesti circoscritti sul piano geografico e diacronico. Più che una 23 Le fasi di recensio e collazione, secondo la formulazione autentica di Bédier e le sue più corrette applicazioni, serviranno a selezionare tale testo da riprodurre non in modo aprioristico, ma sulla base di una sua provata poziorità sul resto della tradizione disponibile, e dunque su una preliminare applicazione di metodi comparativi: cfr. da ultimo L. LEONARDI, L’art d’éditer les anciens textes (1872-1928). Les stratégies d’un débat aux origines de la philologie romane, in «Romania», 127 (2009), pp. 273-302, che ricostruisce alle pp. 297-298 qual era l’approccio metodologico di Bédier prima della svolta del Lai de l’Ombre nel fatidico 1928, sostanzialmente basato su errori comuni come nell’articolo sul ms. oxoniense della Chanson de Roland (1912). 24 A. CICCHETTI-R. MORDENTI, I libri di famiglia in Italia, 2 voll., Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1985-2001, I, p. 115. 1032 Michelangelo Zaccarello ricostruzione piramidale, in sostanza, occorrerà razionalizzare la pluralità delle testimonianze disponibili accertando gli elementi costanti non solo sul piano della lezione, ma anche delle coordinate linguistiche e crono-topologiche dei codici, dalla tipologia libraria di essi, dal contesto sociale e culturale di diffusione: da tali indagini difficilmente emergono elementi di unità e coerenza generale, ma è probabile che si profilino con una certa chiarezza alcuni nuclei di trasmissione almeno in parte omogenei. Inoltre, le coordinate socio-culturali di produzione del testo (specie in contesti cittadini di spiccato e diffuso alfabetismo) suggeriscono fin dalle fasi più antiche direttrici multiple di irradiazione del testo, una pluralità di punti di fuga prospettica verso i quali converge la tradizione. Non sussiste dunque alcuna possibilità di ricostruire, né tantomeno di “immaginare” un archetipo propriamente detto, dal momento che ci troviamo a pieno titolo all’interno di quella nozione di “cultura diffusa” che già S. Timpanaro aveva indicato come avversa all’ipotesi di un unico punto di convergenza archetipica25. Se in quel caso si trattava di opere classiche e dell’opposizione tra l’irradiazione da scriptoria medievali e luoghi di produzione tardo-antichi, ove la scrittura era appannaggio di una ristretta élite, tali riserve varranno a maggior ragione per l’Italia dei secoli XIV-XV da cui ho tratto il mio case study odierno, in particolare per il diffuso e articolato alfabetismo caratteristico dell’area fiorentina e del milieu artigiano-mercantile da cui trae origine la maggior parte delle testimonianze considerate26. Giova ripetere che il metodo stemmatico, e in particolare la nozione di archetipo elaborata in seno alla Textkritik di P. Maas, poggiano su profili tradizionali di opere classiche elaborate, edite e diffuse da scriptoria medievali: l’occasionale recupero, grazie a papiri o a testi25 Si veda anche l’utile nozione di “matrice archetipica”, intesa come piano di irradiazione, coincidente con un unico assetto del testo, ma non necessariamente identificabile in un singolo testimone cui materialmente risalga la tradizione; il concetto risale a P. Maas, ma è sviluppato ed elaborato nelle sue varie implicazioni da E. MONTANARI, La critica del testo secondo Paul Maas. Testo e commento, Firenze, SISMEL-Edizioni del Galluzzo, 2003, p. 412. Le definizioni di archetipo sono poi problematiche e non sempre coerenti sul piano teorico, come ha mostrato di recente TROVATO, Archetipo cit. 26 Lo ricorda R. RUGGIERO, che cita una lettera privata di Timpanaro a P. Mari, nell’articolo Sebastiano Timpanaro e il ‘metodo del Lachmann’, in «Schede umanistiche», 19/2 (2005), pp. 47-79, a p. 77 e n. 45. L’Epistola a Ramondo dello pseudo-S. Bernardo 1033 monianze esterne allo stemma, di fasi più antiche non toglie che l’archetipo oggetto di ricostruzione stemmatica abbia «come tratto costitutivo (ancorché non essenziale) la “medievalità”»27. Ciò implica a carico dell’archetipo determinate caratteristiche del tutto incompatibili con la situazione che dobbiamo immaginare per la diffusione dell’Epistola: la frattura tra il sistema linguistico dell’originale (stabile e “regolato”) e quello multiforme dei copisti, l’unicità dell’exemplar di partenza deputato alla trascrizione, l’assenza di fattori di disturbo (trasmissione orizzontale, circolazione orale o mnemonica ecc.)28. Senza entrare in dettagli che esulano dal presente studio, mi limito a osservare che in filologia italiana si tende ad applicare in sostanza lo stesso procedimento, di matrice stemmatica, a testi che si suppongono legittimamente diramati da un’officina unica, più o meno direttamente collegata alle attività dell’autore (ad es. un’opera umanistica, o frutto di committenza di corte), e testi che è lecito supporre allestiti e diffusi da più centri, che nel caso di volgarizzamenti possono anche assumere diverse e indipendenti iniziative nel procurare i testi di partenza (nel caso specifico dell’Epistola, la presenza di varie versioni latine di partenza è complicata dalla precoce pubblicazione e rapida diffusione delle rispettive edizioni a stampa). La seconda eventualità non inibisce del tutto l’applicazione stemmatica dei dati di collazione, ma ne limita altrettanto chiaramente la portata ai piani “bassi” della tradizione, finendo per assomigliare più a una versione semplificata del metodo tassonomico propugnato da dom H. Quentin che a qualcosa di inscrivibile nel pur variegato complesso della teoresi stemmatica di ascendenza maasiana29. Nella 27 Cfr. MONTANARI, La critica cit., pp. 33-35. Altra cosa è se l’archetipo, in quanto punto di convergenza della tradizione superstite, si identifica con l’originale: tale evenienza, che mantiene un margine di probabilità per testi prodotti e diffusi in epoca medievale e moderna, era stata comunque prevista a livello teorico da Maas, seppure relegata a una probabilità minima nell’ambito classico (ibid., pp. 35-36). 29 La proposta metodologica di Quentin (1872-1935) ebbe scarsa fortuna, penalizzata dalla sua stessa complessità e dalla sostanziale mancanza di direzionalità delle sue applicazioni (il censimento delle varianti produce grafi non facilmente orientabili, se non contravvenendo alle premesse, ovvero distinguendo le lezioni erronee); essa meriterebbe tuttavia una rappresentazione più ampia e circostanziata anche nei nostri manuali, proprio per come si adatta a esempi complessi, ma tutt’altro che infrequenti, di trasmissione di testi volgari tra Medioevo e Rinascimento: tra i manuali pubblicati più di recente, ne tratta con qualche dettaglio P. CHIESA, Elementi di critica testuale, Bologna, Pàtron, 2002, pp. 125-127. 28 1034 Michelangelo Zaccarello prassi filologica, è difficile negare che si proceda in modo induttivo a interpretare le risultanze della collazione anche in mancanza di errori sicuramente condivisi dall’intera tradizione; anzi, molto spesso una prima classificazione delle testimonianze si fonda sul riconoscimento di una pluralità di “profili testuali” (denomino così le combinazioni di determinate varianti) più che su errori che è estremamente difficile riconoscere con certezza come tali, a causa delle complessità esegetiche del testo e/o della polimorfia della tradizione (specie ove questa sia incline al rimaneggiamento e alla congettura)30. Si può affermare che l’individuazione di relazioni lato sensu genealogiche non serve solo alla definizione e ricostruzione di un archetipo unico, ma contribuisce a orientare la scelta dell’editore nei singoli luoghi del testo e dunque svolge un ruolo decisivo nella costituzione di quest’ultimo. Ma cosa in questo caso si ambisce realmente a ricostruire? L’accoglimento selettivo delle lezioni ci porta a un testo primitivo forse mai realmente esistito, e soprattutto è un esercizio che rischia di contaminare redazioni diverse per luogo d’origine, caratteri di copia, finalità socio-culturali ecc. Ce n’è abbastanza per avvertire preliminarmente che, prima ancora di avviare il procedimento induttivo degli errori comuni, sarà indispensabile avanzare dei dubbi circa la plausibilità delle relazioni stemmatiche che ne potranno emergere e ancor più gravi riserve circa il campo d’applicazione che tale ricostruzione troverà nella restitutio textus. Tuttavia, se vogliamo vedere il lato positivo, si potrebbe affermare che la nostra tecnica comparativa rimane legittima e praticabile se restiamo all’interno di un’area tradizionale omogenea, derivata da un’unica configurazione redazionale; a questo nucleo corrisponderà quindi un altrettanto circoscritto gruppo 30 Per comodità di esposizione, postulo qui l’unità e compattezza del testo, fatto tutt’altro che scontato, specie laddove si tratti di tradizione antologica o di corpus: l’utilizzo di diversi antigrafi, o la contaminazione delle fonti sono fatti non solo frequenti, ma accertati spesso da editiones variorum o postille marginali (ne ho trattato a proposito dei Sonetti iocosi & da ridere di Matteo Franco e Luigi Pulci in M. ZACCARELLO, Reperta. Indagini, recuperi, ritrovamenti di letteratura italiana antica, Verona, Fiorini, 2008, pp. 329-330 e fig. 8). Una soluzione prudente, anche se onerosa, è ridiscutere la scelta del testo base e i termini della ricostruzione stemmatica per ogni singolo componimento, come fa A. DECARIA nella sua recentissima edizione di Le Rime di Francesco d’Altobianco Alberti. Edizione critica e commentata, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 2008 e la mia rec. in «Per leggere. I generi della lettura», 9 (2009), pp. 271-280, in part. alle pp. 274-276. L’Epistola a Ramondo dello pseudo-S. Bernardo 1035 di testimonianze, compatto cronologicamente e geograficamente, che possiamo definire “cespite” tradizionale. La tradizione manoscritta dell’Epistola si presta a un’altra considerazione di carattere generale. Come per molti altri testi di ordine educativo e precettistico, si tratta di opere non solo trasmesse in modalità fortemente caratterizzanti, ma che intrattengono con il contesto di ricezione un rapporto autenticamente interattivo: si pensi al circuito di selezione e adattamento che contraddistingue la tradizione dei laudari in relazione alle comunità destinate a utilizzarli, o al trattamento di compendio e interpolazione che subiscono testi legati all’educazione e alla cultura mercantile come la Sfera di Goro di Stagio Dati, la cui amplissima tradizione è stata assai ben censita da L. Bertolini31. Si è detto della grande dispersione che si osserva nella tradizione testuale dell’Epistola, contenuta perlopiù all’interno di sillogi di carattere precettistico e devozionale. Secondo una prassi diffusa nella critica dei testi mediolatina, ma assai meno frequentata in filologia italiana, una prima indicazione sulle direttrici di trasmissione può venire dal contesto miscellaneo in cui l’operetta è inserita. Sviluppando un’indicazione di A. Balduino, P. Divizia ha insistito in tempi recentissimi sull’opportunità di considerare il contesto materiale in cui i testi sono tramandati, non solo per estrapolarne le opportune indicazioni di ordine storico-tradizionale, ma anche per orientare l’indagine sulle relazioni genealogiche tra le testimonianze: «Che una serie identica di più opere nei manoscritti miscellanei abbia valore congiuntivo (ma non separativo), e serva quindi a individuare dei rapporti di parentela già a prima vista, è un concetto che trova oggi costante applicazione negli studi sui canzonieri e, sebbene più di rado, anche in quelli su testi in prosa»32. Come rileva lo stesso Divizia, occorre distinguere 31 La studiosa ne ha pubblicato tre ampie puntate, tutte riferite a biblioteche fiorentine: Censimento dei manoscritti della Sfera del Dati. I manoscritti della Biblioteca Laurenziana, in «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa», s. 3, 12 (1982), pp. 665-705, Censimento dei manoscritti della Sfera del Dati. I manoscritti della Biblioteca Riccardiana, in «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa», s. 3, 15 (1985), pp. 889-940 e Censimento dei manoscritti della Sfera del Dati. I manoscritti della Biblioteca Nazionale Centrale e dell’Archivio di Stato di Firenze, in «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa», s. 3, 18 (1988), pp. 417-588. 32 P. DIVIZIA, Appunti di stemmatica comparata, in «Studi e problemi di critica testuale», 78 (2009), pp. 29-48, alle pp. 31-35 (da quest’ultima la citazione). 1036 Michelangelo Zaccarello tra combinazioni di testi che condividono area tematica, spunto occasionale, finalità ecc., insomma raggruppamenti di possibile o probabile origine poligenetica, da ciò che M.D. Reeve definisce clusters of texts, ovvero testi notevolmente disparati tra loro eppure riuniti in alcune testimonianze, ciò che contribuisce a suggerire che queste ultime siano legate da parentela genealogica (nella cauta formulazione dello studioso, la presenza condivisa di combinazioni di testi serve «to indicate a historical and textual relationship among manuscripts where they occur»)33. Va detto che tali testi, nonostante l’apparente diversità, concorrono a formare un canone antologico che possedeva una qualche coerenza nello specifico contesto di fruizione, in quanto contribuiva alla diffusione (anche e soprattutto “didattica”) di un paradigma unitario, fosse quest’ultimo di natura stilistico-letteraria, politico-sociale o etico-comportamentale; ma fra i testi in questione intercorrono pur sempre associazioni non ovvie, tali che non sia ragionevole ritenerle frutto congetturale dell’attività di un estemporaneo compilatore. 3. Il contesto antologico dell’Epistola Una prima ricognizione dei codici dell’Epistola (limitata a quelli conservati a Firenze) dovrà in primo luogo prescindere dalle trascrizioni avventizie, estranee a qualsiasi riconoscibile disegno antologico e, come si è detto, sospette di vari fenomeni di trasmissione orale, mnemonica o comunque non lineare. Tali sono da ritenere le occorrenze dei mss. Firenze, BNC, II II 85 e BR, 1094. Si rileva anche una prevalenza cronologica di manufatti risalenti alla seconda metà del Quattrocento; nei pochi codici più antichi, l’Epistola compare abbinata a testi che non tornano nelle testimonianze seriori, come il Libro di buoni costumi nel citato BR, 1383 di Paolo da Certaldo (sec. XIV3/4), o alcune opere di Antonio Pucci (Rime, Proprietà di Mercato Vecchio) 33 L’esempio utlizzato dallo studioso inglese è un cluster in cui co-occorrono Sallustio, Terenzio e Vegezio: cfr. M.D. REEVE, Dionysius the Periegete in miscellanies, in Il libro miscellaneo. Tipologie e funzioni. Atti del Convegno internazionale (Cassino, 14-17 maggio 2003), a cura di E. Crisci e O. Pecere, Cassino, Università degli Studi, 2004, pp. 365-378, a p. 367; l’intero passo in questione è citato e commentato da DIVIZIA, Appunti di stemmatica cit., p. 34. L’Epistola a Ramondo dello pseudo-S. Bernardo 1037 nel ms. BR, 1185 (sec. XV1/2). Ciò contribuisce a porre in evidenza la collocazione dell’Epistola all’interno di almeno tre contesti antologici ricorrenti. Un primo contesto potrebbe definirsi filosofico e sentenzioso: qui l’Epistola compare a stretto contatto con testi quali l’Etica aristotelica il cui volgarizzamento è attribuito a Brunetto Latini (BR, 1357), il Tresor dello stesso Brunetto volgarizzato da Bono Giamboni (BNC, II II 82) e una scelta di massime di sapienti e filosofi antichi (Aristotele, Seneca, Platone, Cicerone, Adriano, Secondo filosofo ecc.: Firenze, BML, XL.49 e BR, 1094)34. Altrove l’operetta compare in un contesto apparentemente legato alla pratica devozionale e probabilmente alla formazione dei ministri del culto, come appare da alcuni codici riccardiani: nel ms. 1304 con una Vita di Gesù estratta dai Vangeli, con il Pater Noster esposto, i Salmi penitenziali, il Fiore di Virtù ecc.; nel ms. 1349 tra l’Apocalisse di Giovanni volgarizzata e un Amaestramento degli semplici sacerdoti; nel ms. 1354 (cc. 41r-42r) con la stessa Vita di Gesù, il Vangelo di Nicodemo, orazioni varie da un lato, ed ammaestramenti per la vita coniugale, varie leggende di santi, nuove orazioni e la Vita di S. Francesco dall’altro; nel ms. 1429 (cc. 57r-61v), tra i sermoni di S. Agostino e varie rime sacre (specie poemi e sacre rappresentazioni: Niccolò Cicerchia, il cosiddetto Credo di Dante, Feo Belcari ecc.). La finalità pratica lascia ampio spazio per adattamenti e differenze di canone: nel ms. BR, 1672 troviamo un contesto analogo, in cui l’Epistola compare accanto a un ammonimento come reverentemente dèe stare l’uomo alla messa; nel ms. BML, Ashburnham 315 della redazione latina, la miscellanea è aperta dalla Quadriga spirituale di Niccolò da Osimo, e l’Epistola compare tra excerpta scritturali e precetti di vita cristiana (confronto tra legge civile e legge sacra ecc.), Ordine della confessione, precetti sul confessionale di S. Antonino. Tali esempi suggeriscono naturalmente altrettanti indirizzi d’uso, cui corrispondono contesti differenziati per quanto riguarda non solo il canone antologico ma la stessa tipologia libraria e grafica, con la comparsa degli unici 34 L’attribuzione a Bono del volgarizzamento del Tresor è priva di fondamento, come ha dimostrato di recente ancora P. DIVIZIA, La Formula vitae honestae, il Tresor e i rispettivi volgarizzamenti falsamente attribuiti a Bono Giamboni. 1. La critica, in «La parola del testo», 11 (2007), pp. 27-44. 1038 Michelangelo Zaccarello manufatti redatti in forme attardate di semigotica entro coordinate codicologiche di àmbito devozionale. Tuttavia, esiste un terzo contesto assai meno prevedibile ma caratteristico di molte sillogi prodotte in area fiorentina nella seconda metà del Quattrocento, e soprattutto intorno agli anni Settanta e Ottanta. L’Epistola si trova qui all’interno di un corpus di epistole e, come si esprimono i testimoni, dicerie: ovvero orazioni, ambascerie, discorsi che si riferiscono a una (vera o presunta) occasione pubblica e civile. L’utilità primaria di tali raccolte sembra dunque il tirocinio retorico legato al formulario epistolare da un lato, sia pure inteso nell’accezione più letteraria, e all’oratoria pubblica dall’altro. Su questa parte della tradizione testuale intendo soffermarmi, precisando che i codici a tale scopo considerati manifestano, al di là di possibili lacune materiali, l’unitarietà del disegno antologico, nel contesto dell’opera di un’unica mano fondamentale o nel rapporto tra gli avvicendamenti delle mani e i cambi di fascicolo. Il testimoniale di questo cluster of texts è piuttosto ampio: ne riassumo gli estremi codicologici nella tav. 2 e passo ad osservarne più in dettaglio il contenuto. Il versante epistolare è dominato dal beato Giovanni dalle Celle (monaco vallombrosano, ca. 1310-1396) e dal suo corrispondente Luigi Marsili (agostiniano, 1334-1394): i rispettivi corpora epistolari sono talmente associati nella tradizione manoscritta che li pubblica insieme anche la recente edizione critica procurata da F. Giambonini35. A un àmbito devoto rinvia anche la cosiddetta Lettera di Publio Lentulo, presunta testimonianza di un governatore romano sulla vita di Cristo; ma nella compagine troviamo spesso le due epistole più fa35 Si veda la parte introduttiva nel primo volume di G. dalle Celle-L. Marsili, Lettere, a cura di F. GIAMBONINI, 2 voll., Firenze, Olschki, 1991, dove si puntualizza la natura caratterizzante e antologica di gran parte della nutrita tradizione manoscritta, osservando la frequente associazione della silloge Dalle Celle-Marsili con l’epistola di S. Bernardo e vari testi che troviamo nel nostro textual cluster: la consolatoria a Pino de’ Rossi del Boccaccio, protesti di Giannozzo Manetti, la comparazione tra Annibale, Scipione e Alessandro ecc. (p. 112). Sulla biografia degli autori, si possono vedere alcuni rari volumi: P. CIVIDALI, Il beato Giovanni dalle Celle, Firenze, s.t., 1906 (poi Roma, Tipografia dell’Accademia dei Lincei, 1907), C. CASARI, Notizie intorno a Luigi Marsili, Lovere, Filippi, 1900 e S. BELLANDI, Luigi Marsili degli Agostiniani. Apostolo ed anima del rinascimento letterario, Firenze, Tipografia Arcivescovile, 1911. Si veda anche la tesi di dottorato di S. BRAMBILLA, Fra Giovanni dalle Celle e Luigi Marsili: studi sulla cultura e letteratura fiorentina di fine Trecento, tutore G. Frasso, coordinatore M. Ferrari, Milano, Università cattolica del Sacro Cuore, 2000. L’Epistola a Ramondo dello pseudo-S. Bernardo 1039 mose di Giovanni Boccaccio, la consolatoria a Pino de’ Rossi e la napoletana, detta Machinta, a Francesco de’ Bardi, e quella di Petrarca a Niccolò Acciaiuoli, gran Siniscalco del Regno di Napoli, sul governo della cosa pubblica. Come si evince anche da quest’ultimo esempio, il tono che predomina in questo terzo tipo di canone antologico è quello dell’umanesimo civile, ove anche il formulario retorico e stilistico doveva essere strettamente funzionale all’impegno politico e a una rettitudine morale intesa come ricerca del bene comune. In tal senso, si può comprendere la frequente inclusione della figura di Dante, attraverso tanto la prolusione di Francesco Filelfo alle letture della Comedia in Santa Maria del Fiore (ad es. BNC, II II 76, cc. 43r-44v) quanto la Vita di Leonardo Bruni (che compare insieme al Trattatello di Boccaccio in BNC, Pal. 51, cc. 103r-118v: cfr. tav. 2)36. L’epistolografia costituisce chiaramente il genere di riferimento per le sillogi in questione, anche se mancano quasi sempre precise indicazioni o marcatori paratestuali in proposito: un’eccezione è costituita dal BN Pal. 51, che reca in apertura l’indice del volume trascritto dalla stessa mano, una mercantesca assai minuta, del testo (Qui si scriveranno tutte le rubriche di questo libro, epistolario di più singulari poeti antichi e moderni, sì come in esso si vederà chiaramente, e p(r)imo […], c. 2r); occorre notare che l’indice riguarda solo le lettere, parte dalla missiva petrarchesca a Niccolò Acciaiuoli, e non menziona la Novella del Grasso legnaiuolo che apre la silloge, trascritta sempre dalla mano principale (4v-10r). Tra le orazioni, prevalgono nettamente quelle dell’uomo politico romano Stefano Porcari († 1453); questi, pur conosciuto ben al di fuori delle mura di Roma, a Firenze era stato capitano del popolo (14271428) e ivi le sue concioni erano particolarmente apprezzate per il tono sentenzioso e il richiamo al buongoverno e alla rettitudine morale37. Su questa linea, si comprende tanto la presenza di alcuni esempi 36 Altrove, al di fuori delle testimonianze riconducibili al cluster, l’Epistola compare a stretto contatto con le Rime dello stesso Dante, come nel ms. Firenze, BR, 1094, dove compare al’interno di una sezione di epistole e dicerie (orazioni) antiche e moderne (Dante, Seneca, Roberto d’Angiò, Cola di Rienzo, Pandolfuccio Franchi e lo stesso Bernardo [cc. 89v115v]), o nel ms. BNC, Pal. 315, c. 98r-v. 37 Nutrito di studi umanistici, seguace di Cola di Rienzo (sul cui modello voleva farsi acclamare tribuno dal popolo di Roma) e grande ammiratore di Cicerone, Porcari si fece ispiratore contro papa Niccolò V Parentuccelli di una congiura che mirava a restaurare un ordina- 1040 Michelangelo Zaccarello antichi di oratoria politica e militare (Cicerone, Giulio Cesare, ma anche il discorso di Catilina ai suoi cavalieri, excerptum volgarizzato dal De coniuratione Catilinae di Sallustio), quanto quella di moderni epigoni: alcuni discorsi di Leonardo Bruni, specie quello per il conferimento del bastone di comando dell’esercito fiorentino al condottiero Niccolò da Tolentino (25 giugno 1443), alcuni protesti di Giannozzo Manetti (1396-1459) rivolti ad ambasciatori in visita a Firenze (ad es. nei mss. BR, 1080 e 1090)38. Si tratta di testi datati con una certa regolarità, che permettono di stabilire la sicura pertinenza dei manufatti a un’epoca successiva, che a Firenze era caratterizzata da vari strascichi polemici circa i vari tentativi falliti di conquistare Lucca, anche oltre la pace di Lodi (1454)39. Ritengo lecito riconoscere in questa combinazione di testi, connessi solo in parte (e in modo assai vario), un cluster of texts del tipo indicato da Reeve: è probabile che dietro alla stabilità di questo canone antomento politico ispirato alla Roma repubblicana. Anche in questo caso, gli unici studi monografici sono piuttosto datati: G. SANESI, Stefano Porcari e la sua congiura: studio storico, Pistoia, Bracali, 1887; L. FUMI, Nuove rivelazioni sulla congiura di Stefano Porcari: dal carteggio dell’Archivio di Stato in Milano, Perugia, Unione Tipografica Cooperativa, 1910. Ma cfr. M. MIGLIO, ‘Viva la libertà e populo de Roma’. Oratoria e politica: Stefano Porcari, in Palaeographica Diplomatica et Archivistica. Studi in onore di Giulio Battelli, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 1979, pp. 387-421. L’eco delle gesta del romano dovette essere notevole anche nel Nord: cfr. R. CESSI, La congiura di Stefano Porcari in alcune cronache veneziane, in «Nuovo Archivio veneto», n.s. 23 (1912), pp. 408-419. 38 Si intende naturalmente che una simile combinazione di testi, fiorentina per origine, non rimase confinata alla Toscana: la si trova ad es. in un codice cinquecentesco appartenuto alla famiglia veneziana dei Papadopoli (Milano, Archivio di Stato, Papadopoli 137, cit. in P.O. KRISTELLER, Iter Italicum. A finding list of uncatalogued or incompletely catalogued mss. II. Italy (Orvieto to Volterra, Vatican City), London-Leiden, The Warburg Institute-Brill, 19983, p. 528). 39 Com’è noto, Lucca viene esclusa dal trattato di pace stipulato a Ferrara nel 1428 e assediata dai Fiorentini una prima volta nell’anno successivo; solo grazie all’aiuto costante di Filippo Maria Visconti, acerrimo nemico di Firenze, la città resiste ai vari assalti, ottenendo la pace nel 1438, dopo fatti gravi quali la deposizione di Paolo Guinigi ad opera dei congiurati Pietro Cenami e Lorenzo Buonvisi (1430): sul periodo, si può vedere G. LUCARELLI, I Visconti di Milano e Lucca, Lucca, Pacini Fazzi, 1984. Per la sua diffusione, l’orazione di Leonardo Bruni è fra gli elementi che maggiormente caratterizzano il cluster sul piano temporale, rappresentando un terminus post quem tutt’altro che remoto: «Ragione di messer Lionardo d’Arezzo cancellieri fiore(n)tino detta da lui im presentia della M(agnific)a S(ignoria) e di tutto il p(o)p(o)lo i(n) sulla ri(n)ghiera qua(n)do si diè il bastone al M(agnific)o huomo Nicolò da Tolentino allora n(ost)ro cap(itan)o in ghue(r)ra la mattina di s(an)c(t)o Johanni Batista cioè a dì 25 di giugno 1443» (BML, XLII 10, c. 18v). L’Epistola a Ramondo dello pseudo-S. Bernardo 1041 logico stia una comune afferenza a un cespite testuale ben preciso, riconoscibile sul piano geografico, nella provenienza fiorentina dei codici in questione, e su quello cronologico, limitato alla seconda metà del Quattrocento con una particolare concentrazione negli anni Settanta e Ottanta. Nonostante l’evidente ricaduta etica del nostro testo e di altri, il senso della compilazione non è militante quanto esemplare, vòlto a campionare esempi mirabili di eloquenza civile e di impegno politico, che dall’antichità ai tempi moderni diano corpo all’ideale dell’oratore profondamente partecipe della vita della sua città, a prescindere dalle posizioni assunte. Quale concreta attualità potevano rivestire testi che facevano riferimento a una stagione tanto diversa della Signoria fiorentina, prima della svolta laurenziana? I discorsi di Leonardo Bruni o Francesco Filelfo assolvono qui principalmente il ruolo di paradigma stilistico da assimilare, modello di un’eloquenza militante che nelle figure del cancelliere di Arezzo o dell’oligarca di Tolentino riconosceva una reincarnazione dei grandi oratori della Classicità40. Non sarà inutile avvertire che, ai fini della determinazione di un textual cluster, la presenza degli autori (e di alcuni loro testi particolarmente significativi nell’orizzonte ideologico che si è in parte delineato) riveste un’importanza ben maggiore dell’integrità dei rispettivi corpora e dell’eventuale accessione di altri testi estranei al canone primario: in altre parole, dato l’approccio fortemente selettivo e caratterizzante dei singoli copisti-collettori, il riconoscimento del cluster si intende sempre al netto di inevitabili alterazioni, aggiunte dettate da disponibilità di testi connessi o tagli imposti da mancanza di spazio o altro (ad es. l’aggiunta dell’oratione che fè Antonio ai suoi kavalieri a40 A problemi in larga parte simili si rivolge il bel lavoro di M. BIANCO, Fortuna del volgarizzamento delle tre orazioni ciceroniane nelle miscellanee manoscritte del Quattrocento, in A scuola con ser Brunetto. Indagini sulla ricezione di Brunetto Latini dal Medioevo al Rinascimento. Atti del Convegno Internazionale di Studi (Basilea, 8-10 giugno 2006), a cura di I. Maffia Scariati, Firenze, SISMEL-Edizioni del Galluzzo, 2008, pp. 255-286, dove il case study riguarda, fra gli altri, l’analoga miscellanea XLIII.26 della BML di Firenze. Da condividere le conclusioni della studiosa: «I manoscritti di dicerie ed epistole raccoglievano insomma testi considerati utili per imparare ad esprimersi bene, insieme a opere di contenuto “geografico”, filosofico o religioso, rispecchiando nell’insieme degli scritti proposti gli interessi di coloro che li possedevano, spesso per averli trascritti di propria mano, e li avevano tanto cari da affidarli nelle sottoscrizioni alla cura dei propri discendenti» (p. 263). 1042 Michelangelo Zaccarello vendo ordinate le schiere per combattere, che segue quella di Catilina, analoga per tono e situazione, nel ms. BNC, II II 76, cc. 85v-86r). Su linee metodologiche non difformi muoveva già, a metà anni Novanta, l’indagine di S. Brambilla sulla complessa tradizione del corpus epistolare di Luigi Marsili e Giovanni dalle Celle: la studiosa arriva prima a ipotizzare persuasivamente l’incompletezza di un teste napoletano, poi a completarlo idealmente con un codice della Beinecke Library di Yale, proprio rilevando l’assenza nel primo di testi che accompagnavano caratteristicamente l’opera principale in quell’assetto antologico e in quel segmento tradizionale. Insieme ad essa41, tali testi costituivano una silloge omogenea di testi volgari, unica all’interno dell’intera tradizione manoscritta dell’epistolario di Giovanni dalle Celle, rappresentata da: Cicerone, Paradossi; ps. Seneca, Delle quattro virtù morali; ser Garzo, Proverbi in rima; ps. Seneca, Dei costumi; Cicerone, Sogno di Scipione; ps. Seneca, Dei casi fortuiti. 4. Prime risultanze della recensio Sulla base del riconoscimento preliminare di questo textual cluster, riassunto nella tav. 2, si potrà procedere a una recensio circoscritta al corpus dei manoscritti che lo tramandano; occorre sottolineare che nella collazione si cercheranno elementi congiuntivi, che non devono necessariamente essere erronei, perché manca il postulato dell’unicità del punto di fuga della prospettiva testuale: la ricerca sarà rivolta a tratti distintivi del profilo testuale del cespite di partenza, e dei vari raggruppamenti che si collochino al suo interno. Qualora si abbia a che fare, come in questo caso, con un volgarizzamento, nella determinazione di un cespite testuale occorre valutare l’aderenza all’una o all’altra redazione latina di partenza. Ad es., nel nostro cap. XLI il cespite tradizionale in questione è macroscopicamente caratterizzato dalla mancanza iniziale della traduzione di Quaesivisti de usu vini, che è lecito immaginare ridotto a rubrica o 41 S. BRAMBILLA, Un codice ricostruito e una silloge volgare nell’epistolario di Giovanni dalle Celle, in «Italia medioevale e umanistica», 39 (1996), pp. 397-402, a p. 399. L’Epistola a Ramondo dello pseudo-S. Bernardo 1043 titolo marginale e caduto poi nelle successive trascrizioni42. Come si può vedere dalla tav. 3, tutti gli altri manoscritti considerati traducono la frase iniziale, sia pure con varianti anche macroscopiche (& domandasti ancora BNC, II III 335; anche ci domandasti BML, XL.49, BR, 1156; adomandasti BNC, Panc. 20; dell’uso del vino BNC, II III 335, BNC, Panc. 20; del modo d’usare i vini BML, XL.49, BR, 1156 ecc.). Ciò è indizio di parentela con il testo latino rappresentato dall’incunabolo H, contro gli altri due. Inoltre, si hanno alcune significative varianti nel testo latino: nello stesso brano, le principes di Augsburg (A, 1468-70) hanno un testo più conciso rispetto agli incunaboli italiani: «Qui se ebriu(m) verbis excusat ebrietate(m) suam aperte accusat. Male decet in iuvene vina cognoscere» (le edd. successive hanno «Male sedet in iuvene vinum cognoscere»). Un altro indizio di comune discendenza è la reduplicazione retorica, caratteristica dello stile della predicazione, che interessa un passo di tradizione unanime nel testo latino: «Sentis vinum? fuge consorcium; quere somnum potius q(ua)m colloquium». Ebbene, il testo volgare tramandato dal cespite, al netto delle oscillazioni formali, è: «Se tu senti il vino, fuggi la compagnia. Senti tu il vino? Cerca il sonno piuttosto che il parlare». Della ricerca di una sottolineatura della frase interrogativa, con effetto di coinvolgimento dell’uditorio analogo a quanto avviene nella predicazione, è testimonianza la lezione isolata di BNC, II III 335, che reitera la movenza: «Sentiti tu il vino? fuggi la chompagnia. Sentiti tu il vino? cercha il sonno piutosto che ’l parlare». Il cespite tradizionale così individuato racchiude due diverse configurazioni al suo interno, di diverso livello: abbiamo infatti una chiara suddivisione fra un primo raggruppamento di testimoni X che rispecchiano fedelmente il testo latino (sia pure con le inevitabili difformità), e un secondo gruppo più numeroso Y, che manifesta la mediazione di un comune antecedente. Ad esso vanno ascritte le due grossolane omissioni che si trovano in tutti i componenti del gruppo in questione (BNC, II II 76, Pal. 51, BML XLII.10, BR, 1074, 1080, 1090, 1619): 42 Gli accenni agli spunti tematici che vengono, almeno nella fictio epistolare, dalla missiva di Raimondo sembrano una costante del nostro testo, dall’iniziale Doceri petis a nobis de cura et modo rei familiaris (0647A) al successivo Audivi quod te visitant joculatores, attende quae sequuntur (0649D). 1044 Michelangelo Zaccarello a) a fronte di un testo latino tramandato compattamente («Ebrietas nichil recte facit nisi cum cadit in lutum» [o luto]), il gruppo omette di tradurre l’intera seconda parte della frase: L’eb(b)riez(z)a nessuna cosa fa dirittamente. Solo tre testimoni interni al cespite hanno la frase completa, con varianti (il latinismo loto in BNC, II IV 280 e Magl. VI 115, contro il sinonimo volgare fangho che accomuna il BNC, II III 335 con testimoni esterni al cespite quali il BNC, Panc. 20; notevole il fraintendimento di BML, XL.49 nel lecto, dove certo agisce il successivo consiglio più tosto cercha di dormire che di parlare); b) Un analogo salto riguarda il passo «Qui se ebrium verbis excusat ebrietatem suam aperte accusat», in cui il cespite in questione omette di tradurre verbis (con coincidenza solo casuale con il testo latino tramandato da A, che ha Qui se ebrium excusat […]). Pur oscillando nella traduzione (con parole, col parlare ecc.), i testimoni esterni al cespite non incorrono nell’omissione. Esistono naturalmente suddivisioni ulteriori: a fronte del chiarissimo in diversitate vinorum della redazione latina, alcuni codici hanno un assurdo nella a(d)versità (BNC, II II 76, Pal. 51, BR, 1080), probabile riflesso passivo del linguaggio formulare e ripetitivo che caratterizza la letteratura didascalica e moraleggiante. Si tratta di un errore tanto pregiudiziale per il senso quanto facilmente emendabile: non si può escludere, pertanto, che anche questa lezione appartenesse al comune antecedente del sottogruppo Y, ma il filtro di una tradizione sempre fortemente caratterizzante l’abbia mantenuta solo presso i copisti più distratti. 5. Conclusioni Una soluzione bédieriana, consistente nell’edizione del singolo testimone, è certo giustificata in presenza di particolare interesse per aspetti linguistici o culturali dello scrivente, come nel caso della redazione di Paolo da Certaldo; tuttavia, accanto a questa possibilità (e stante la non completa praticabilità dell’edizione su base stemmatica), esiste a mio parere una terza via, che consiste nell’edizione di una specifica redazione che rivesta particolare interesse sul piano storicotradizionale e sia identificata dalla presenza di un textual cluster sufficientemente caratterizzante e definito. L’Epistola a Ramondo dello pseudo-S. Bernardo 1045 Se oggetto della ricostruzione filologica è un particolare assetto del testo (caratterizzato tanto da omogeneità nella collocazione cronotopologica dei testimoni quanto – sul piano interno – dalla presenza di varianti peculiari), l’operazione di recupero può essere condotta con strumenti familiari della ricostruzione genealogica. Riprendendo in sintesi alcuni dei punti illustrati, si può affermare che nel caso specifico dell’Epistola, per la compattezza del nucleo identificato depongono (a) il rapporto con una specifica redazione latina, (b) la presenza nel testo di errori e lacune caratterizzanti, (c) la notevole congruenza dello statuto socio-culturale e delle coordinate fisiche dei testimoni. All’interno di un cespite così circoscritto, l’analisi comparativa delle varianti, e le relative considerazioni di ordine stemmatico, possono chiarire in modo ulteriore le dinamiche della diffusione del testo, fornendo indicazioni importanti sul suo contesto di fruizione. Nel nostro caso, il prevalere di testi epistolari nella silloge sembra rinviare a un contesto realmente didattico, che unisce all’impostazione moraleggiante la volontà di esemplificare varie tipologie di missive quali modelli retorici e stilistici legati a diversi contesti situazionali e comunicativi (maggiore o minore tendenza alla narrazione, alla parenesi, alla persuasione ecc.).