LA POLITICA EUROPEA DI VICINATO (PEV)
el quadro delle relazioni internazionali dell’Unione Europea occorre, in primo luogo, far
N
riferimento allo spazio circostante alla stessa Unione. Mentre con alcuni Stati europei come
la Svizzera, la Norvegia, il Liechtenstein e l’Islanda, l’Unione mantiene dei vincoli
contrattuali attraverso l’EFTA (Economic Free Trade Agreement), con altri paesi si sono venute a
creare delle relazioni particolari e diversificate, che ricadono sotto l’ombrello della cosiddetta Politica
Europea di Vicinato (PEV). Questa politica ha ricevuto una base legale all’interno del Trattato di
Lisbona, che ha ereditato tale indicazione dal Trattato costituzionale per l’Unione Europea del 2004.
Nel contesto della PEV è infatti fondamentale l’articolo 8 TUE, il quale costituisce una sorta
di costituzionalizzazione delle special relations che l’Unione ha stretto con i paesi del vicinato.
Innanzitutto, l’art. 8 TUE specifica come l’Unione debba “sviluppa[re] con i paesi limitrofi relazioni
privilegiate al fine di creare uno spazio di prosperità e buon vicinato fondato sui valori dell'Unione”.
Questi valori dell’Unione sono riscontrabili all’art. 21, par. 1, TUE, all’interno del quale viene scritto
che l’azione internazionale dell’Unione si forma sugli stessi principi che ne hanno informato la
creazione: principio democratico, Stato di diritto, universalità e indivisibilità dei diritti dell'uomo e
delle libertà fondamentali, rispetto della dignità umana, principi di uguaglianza e di solidarietà e
rispetto dei principi della Carta delle Nazioni Unite e del diritto internazionale.1
Il secondo paragrafo stabilisce, invece, che l’Unione, ai fini del paragrafo precedente, può
“concludere accordi specifici con i paesi interessati”. Tali accordi potranno comportare reciproci
obblighi e diritti, oltre alla possibilità di condurre azioni condivise. In questo contesto il Trattato parla
di “accordi specifici” con i paesi vicini, lessico che richiama le disposizioni dell’art. 217 TFUE,
all’interno del quale si stabilisce che l’Unione “può concludere con uno o più paesi terzi od
organizzazioni internazionali accordi che istituiscono un’associazione caratterizzata da diritti ed
obblighi reciproci, da azioni in comune e da procedure particolari”. La dottrina si è dunque domandata
se l’art. 8, par. 2, TUE introducesse una nuova base legale per la PEV oppure se questa faccia
riferimento al già esistente art. 217 TFUE. In generale, l’articolo 8 sembra non fornire una vera e
propria base legale, quanto piuttosto una disposizione politica alla Politica di Vicinato: le relazioni
privilegiate con i paesi vicini possono, infatti, essere formalizzate attraverso l’art. 217 TFUE.2
Allo stesso modo, i «valori dell’Unione» sono riportati dall’art. 3, par. 5, TUE. In questo articolo,
infatti, vengono rimarcati i principi ispiratori dell’azione esterna dell’Unione Europea. Questa deve
contribuire dunque «alla pace, alla sicurezza, allo sviluppo sostenibile della Terra, alla solidarietà e al
rispetto reciproco tra i popoli, al commercio libero ed equo, all'eliminazione della povertà e alla tutela
dei diritti umani, in particolare dei diritti del minore, e alla rigorosa osservanza e allo sviluppo del
diritto internazionale, in particolare al rispetto dei principi della Carta delle Nazioni Unite».
2
Questo orientamento è confermato dal fatto che la Commissione, nelle sue proposte di bilancio per
la PEV del 2011, ha definito l’articolo 8 TUE come «la base generale» della Politica di Vicinato; ma allo
stesso tempo, le vere basi legali per il finanziamento dello strumento sarebbero gli artt. 209, par.1, e
212, par. 2, TFUE.
1
La PEV, comunque, non è una creazione ex nihilo operata dal Trattato di Lisbona. Al
contrario, essa risulta essere il precipitato di un processo storico-politico che ha portato l’Unione
Europea a formalizzare la propria condotta verso i paesi del vicinato. Per esempio, la politica europea
verso il Mediterraneo trae origine dal summit di Parigi del 1972, quando venne lanciata la Global
Mediterranean Policy, uno strumento di politica estera che la Comunità Europea adottò per
l’emergente scenario internazionale dell’epoca. Oltre alla Guerra dello Yom Kippur del 1973 e la
conseguente crisi petrolifera, verso la quale gli Stati europei adottarono una linea diversa dall’alleato
statunitense, si profilava in quegli anni la possibilità di allargamento a Spagna, Portogallo e Grecia, i
cui regimi dittatoriali sarebbero crollati a cavallo tra anni Sessanta e Settanta. Ciò avrebbe portato la
Comunità Europea a dover fare i conti con i paesi arabi della riva meridionale del Mediterraneo.3
Inoltre, negli stessi anni, nonostante la Guerra fredda, i paesi della Comunità Europea riuscirono a
intrecciare rapporti economici con i paesi del blocco sovietico, siglando accordi con Bulgaria,
Cecoslovacchia, Ungheria, Polonia e Romania.
Durante gli anni Novanta il processo verso est e verso sud continuò. Nel 1993, durante il
Consiglio Europeo di Copenaghen, oltre alla redazione dei famosi “criteri” che avrebbero dovuto
regolare l’adesione degli ex paesi del Patto di Varsavia nell’Unione Europea, si stabilì che con questi
venissero stipulati dei pre-accession agreements (PA), cioè “accordi di pre-adesione”. Parallelamente,
ai cosiddetti New Independent States (NIS), cioè Bielorussia, Moldavia e Ucraina, venne offerta la
possibilità di siglare dei partnership and cooperation agreements (PCA). Quasi simultaneamente, i
paesi meridionale dell’Unione riuscivano a instaurare un rapporto con i paesi arabi del Mediterraneo
attraverso la Euro-Mediterranean Partnership (EMP o Euromed). In quest’ambito, nel 1995, un
incontro tra ministri degli Esteri dei vari paesi in questione diede
vita alla Dichiarazione di
Barcellona, all’interno della quale gli Stati firmatari si impegnavano alla collaborazione politica nel
settore della sicurezza, alla creazione di un’area di libero scambio e alla promozione di scambio
culturali e umani. Nonostante l’area di libero scambio designata per il 2010 non sia stata realizzata,
l’Unione Europea ha stipulato accordi di associazione (art. 217 TFUE) con l’Autorità palestinese
(1997), la Tunisia (1998), il Marocco e Israele (2000), l’Egitto (2004), l’Algeria (2005) e il Libano
(2006).
1. Le caratteristiche principali della PEV
Serve ora interrogarsi su quali siano le peculiarità della PEV e cosa la distingue, ad esempio, dalla
PESC o da qualsiasi altra forma di azione esterna dell’Unione Europea. Per fare ciò è utile cominciare
l’analisi con la lettera Solana-Patten del 2002, la quale stabilisce le basi per una Politica di vicinato
europea.
L. Tsoukalis, «The EEC and the Mediterranean: Is “Global Policy a Misnomer?», International Affairs,
53, 1977, pp. 422-438.
3
1
a) Copertura geografica della Politica Europea di Vicinato
Innanzitutto, la lettera fornisce una definizione geografica per la PEV, delimitandone così il raggio
d’azione. La copertura geografica della PEV viene distinta in tre macroregioni: il Mediterraneo, in
riferimento alla Dichiarazione di Barcellona e comprendente, dunque, i paesi del Mashreq e del
Maghreb (Algeria, Egitto, Giordania, Israele, Libano, Libia, Marocco, Siria, Stato palestinese); i
Balcani (Bosnia-Erzegovina, Croazia, Macedonia, Montenegro, Serbia, Slovenia, Kosovo); e, infine,
la Russia e i “vicini orientali”, cioè i già citati NIS (Bielorussia, Moldavia, Ucraina). Attualmente,
però, le relazioni che l’Unione mantiene con gli Stati dei Balcani sono qualitativamente diverse da
quelle dei paesi del vicinato.4
L’articolo 8 TUE invita l’Unione a stipulare rapporti di associazione con tutti i paesi vicini,
non escludendo dunque nessuno dei sopracitati (con l’eccezione, va ricordato, dei paesi balcanici). La
copertura geografica della PEV è, comunque, il risultato della compenetrazione di eventi geopolitici e
di interessi particolari degli Stati membri dell’Unione. Nel 2003, ad esempio, quando la
“Rivoluzione delle rose” prese piede in Georgia, l’Unione Europea volle avvicinare il paese per
rafforzare e stabilizzare l’assetto democratico assunto. Ciò, tuttavia, ha portato il Parlamento Europeo
a insistere per l’estensione della PEV anche ai vicini paesi caucasici, cioè Armenia e Azerbaijan. Allo
stesso modo, quando il sommovimento delle “Rivoluzioni colorate” interessò anche l’Ucraina,
l’Unione Europea si è schierata nuovamente a favore del processo di democratizzazione.
Per quanto riguarda il versante del Mediterraneo e, dunque, il partenariato euromediterraneo, l’inclusione dei paesi del Nordafrica e del Vicino Oriente è dovuta in gran parte alla
volontà dei principali Stati membri che si affacciano sul Mediterraneo (cioè Francia, Italia e Spagna)
di non vedere spostato il baricentro dell’Unione nell’Europa centro-orientale. I primi accordi di
associazione tra Comunità Europea e paesi della zona mediterranea si hanno nel 1962 con la Grecia e
nel 1964 con la Turchia, accordo tra l’altro ancora valido. Tra il 1976 e il 1977 la Comunità strinse
accordi simili con i paesi del Maghreb (Algeria, Tunisia e Marocco) e con quelli del Mashreq (Egitto,
Siria, Giordania e Libano). Degli accordi degli anni Settanta rimane solamente quello firmato con la
Siria; al contrario, gli altri sono stati sostituiti da accordi di nuova generazione, denominati “accordi
euro-mediterranei di associazione”. L’obiettivo di dar vita a un’area di libero scambio, già perseguito
negli accordi degli anni Settanta, viene ribadito nel Processo di Barcellona del 1995, quando gli
Accordi di Oslo di due anni antecedenti consentirono di lavorare contemporaneamente con Israele e
Autorità palestinese.
Innanzitutto, Slovenia (2004) e Croazia (2014) sono entrate a far parte dell’Unione Europea. Come si
è già detto, paesi come Bosnia-Erzegovina, Macedonia, Montenegro, Serbia e Kosovo hanno una
«prospettiva europea», oltre al fatto che sono partner europei nell’ambito di Stabilisation and
Association Process (SAP), accordi che garantiscono a questi ultimi assistenza e supporto finanziario
per poter così soddisfare i criteri di Copenaghen per una definitiva adesione.
4
2
Il Processo di Barcellona, da cui nacque il partenariato euro-mediterraneo, consisteva di tre
basket: un dialogo politico e di sicurezza, la cooperazione economica e il dialogo umanitario, sociale e
culturale. Anche in questo caso l’impostazione dell’Unione fu quella di inserire più accordi bilaterali
all’interno di un sistema multilaterale. Obiettivo precipuo del Processo di Barcellona e, in linea
generale, dei singoli accordi bilaterali, era quello di creare un’area di libero scambio entro il 2010,
attraverso accordi dell’Unione con gli Stati terzi e tra gli stessi Stati terzi.
La proposta del presidente francese Sarkozy nel 2008 per la creazione della Unione per il
Mediterraneo (Union for the Mediterranean, UPM), una delle due componenti geografiche della
PEV, andava nella direzione degli interessi geostrategici della Francia verso gli altri paesi del bacino
mediterraneo. Inoltre, già dal 2005, il Processo di Barcellona aveva dimostrato le proprie debolezze,
risultando incapace di instaurare l’area di libero scambio sia per reticenze degli stessi paesi europei, a
causa dell’elevata competitività dei prodotti agricoli dei paesi del Mediterraneo meridionale, sia per la
scarsa cooperazione tra gli stessi Stati terzi. La principale differenza tra il Processo di Barcellona e
l’UPM è l’estensione della seconda, che coinvolge non solo la sponda sud del Mediterraneo, ma tutti i
paesi che vi si affacciano, compresi i paesi balcanici occidentali. In secondo luogo, l’UPM presenta
una struttura istituzionale più approfondita grazie alla creazione del segretariato permanente; inoltre,
essa ha un approccio più pragmatico, dando preferenza a obiettivi strategici come l’ambiente e lo
sviluppo, sicurezza marittima, crescita economica, dialogo fra culture, protezione civile e lotta al
terrorismo.
Contemporaneamente, Stati membri disinteressati all’approfondimento dei rapporti europei
con i paesi arabi, come Polonia e Svezia, risposero invocando una Eastern Partnership (EaP) nel
2009, con l’obiettivo di integrare gli Stati dell’Europa orientale. Le relazioni europee in questa
dimensione sono state agevolate anche dalle recenti tendenze della Russia, la quale persegue
l’obiettivo di riacquistare un peso specifico nel suo vicinato, anche attraverso l’uso della forza
militare.
Le relazioni tra Comunità Europea (e, in seguito, Unione Europea) e Stati parte del
COMECON si erano già avviate a partire dal 1988. Una volta terminata la Guerra fredda e venuta a
mancare l’Unione Sovietica, i paesi ex membri del Patto di Varsavia manifestarono apertamente la
loro volontà di approfondire i rapporti con l’Unione Europea. Vengono in primis stipulati degli
accordi di associazione, definiti “Accordi Europa”, che furono concepiti come preludio dell’ingresso
di questi paesi, ai quali si dedicò anche il Consiglio Europeo che, nel 1993, con i “criteri di
Copenaghen”, stabilì le tre dimensioni (politica, economica e dell’acquis) sulle quali si dovevano
muovere gli Stati candidati. Con l’allargamento del 2004 e 2007, l’Unione si è ritrovata a confinare
fisicamente con Bielorussia, Moldavia e Ucraina, che diverranno protagonisti degli accordi di
partenariato e cooperazione (partnership and cooperation agreements, PCA). Insieme a questi,
comunque, sono inseriti anche i paesi del Caucaso, cioè Armenia, Azerbaijan e Georgia, soprattutto
per gli avvenimenti del 2008 che si sono verificati proprio in quest’ultimo paese.
3
Il partenariato orientale, l’altra componente geografica della PEV, prevede che gli attuali
accordi di cooperazione siano sostituiti con nuovi accordi di associazione per un ulteriore
rafforzamento dei legami con l’Unione. Ciò è il caso dell’accordo di partenariato con l’Ucraina: dopo
la fase di instabilità politica del 2014, il nuovo accordo di associazione è entrato in vigore in modo
parziale dal 1° gennaio 2016. Il nuovo tipo di accordo, denominato “accordo per un’area di libero
scambio globale e approfondita” (deep and comprehensive free trade area, DCFTA), era già in vigore
dal 1° settembre 2014 in Moldavia e Georgia.5 In ogni caso, nell’ambito di ogni accordo di
partenariato e cooperazione è possibile rinvenire una serie di tratti comuni: promozione del dialogo
politico, sostegno alle nascenti democrazie e allo sviluppo di un’economia di mercato, la promozione
del commercio e degli investimenti. Diversamente dai DCFTA, gli accordi di partenariato e
cooperazione non prevedono l’instaurazione di una area di libero scambio globale e approfondita,
bensì applicano il principio della most favoured nation, oltre a garantire la libertà di transito delle
merci e l’eliminazione delle restrizioni quantitative.
b) Gli obiettivi della PEV
Obiettivo principale della Politica Europea di Vicinato è quella di creare una zona di prosperità e
buon vicinato (a zone of prosperity and a friendly neighbourhood), la cosiddetta “cerchia di amici”.6
In breve, la PEV è da considerarsi come una politica di sicurezza alla luce dell’allargamento europeo
tra il 2004 e il 2007, che ha portato l’Unione da 15 a 27 Stati membri. Giocoforza, con un
cambiamento simile, l’Unione si è ritrovata ad avere nuovi confini e, quindi, nuovi vicini. Comunque
sia, il fatto che la PEV si sia caratterizzata dagli inizi come politica di sicurezza non deve far pensare
che essa ricada semplicemente all’interno della PESC. Infatti, come specificano la Comunicazione
della Commissione del marzo 2003 e la European Security Strategy del dicembre dello stesso anno, la
sicurezza, nell’epoca della globalizzazione, non è esclusivamente riducibile al fattore militare. Al
contrario, per raggiungere questo obiettivo l’Unione deve impiegare ogni mezzo possibile, che sia
economico, politico, sociale, ecc. Ciò significa che la PEV è, più che un elemento, un sistema, una
“umbrella policy” che vuol riunire in uno schema tutti gli aspetti dell’azione esterna dell’Unione: la
PESC, ma anche il commercio, le migrazioni, la difesa dell’ambiente, la sicurezza energetica, ecc.
5
A differenza dei tradizionali FTA (free trade agreements), i deep and comprehensive free trade area
agreements (DCFTA) prevedono lo smantellamento graduale delle barriere commerciali e mirano alla
convergenza normativa nei settori che incidono sugli scambi, in particolare le norme sanitarie e
fitosanitarie, il benessere degli animali, le procedure doganali e frontaliere, la concorrenza e gli appalti
pubblici. In sostanza, i DFCTA allineano la legislazione commerciale e degli scambi del paese terzo
sulla base degli standard forniti dall’Unione in modo tale da rimuovere non solo le tariffe doganali, ma
anche gli ostacoli non tariffari (contingentamenti, licenze, barriere tecniche o amministrative, ecc.).
6
Comunicazione della Commissione, Wider Europe – Neighbourhood: A New Framework for Relations
with our Eastern and Southern Neighbours, 11 marzo 2003, COM (2003), 104 final, p. 4.
4
La sicurezza dell’Unione Europea è dunque l’obiettivo precipuo della PEV. Questa è da
intendersi verso i paesi vicini, sui confini dell’Unione e all’interno dell’Unione stessa. E’ dunque
interesse dell’Unione far sì che i paesi ai confini siano well-governed, cioè “ben governati”, nel senso
affini agli standard europei in ambito di Stato di diritto, democrazia, rispetto dei diritti umani e delle
minoranze. I paesi laddove non si riscontra una certa vicinanza con tali valori costituiscono una
minaccia alla tenuta dell’Unione Europea: ciò è vero soprattutto in riferimento alla diffusione di
minacce terroristiche, della criminalità organizzata transnazionale, delle frodi doganali e fiscali e dei
rischi nucleari e ambientali.
L’Unione ha dunque l’interesse di promuovere la stabilità nel suo vicinato, che corrisponde
alla sicurezza interna ed esterna. Per far sì che si crei veramente una “cerchia di amici”, l’Unione
promuove la creazione di interdipendenze economiche e politiche tra di essa e gli Stati vicini. In breve,
l’Unione, in cambio dei progressi concreti compiuti dai paesi vicini in termini di riconoscimento dei
valori comuni e di attuazione effettiva delle riforme politiche, economiche e istituzionali, nel senso di
allineamento della legislazione con l’acquis, dovrebbe essere disposta a offrire a questi ultimi
un’integrazione economica più stretta con l’Unione (“a stake in the EU’s Internal Market”).
Come vedremo, la PEV si allinea a quella che è la politica europea per l’allargamento, ma non
arriva mai a sovrapporvisi. Per la PEV è infatti fondamentale che gli Stati del vicinato si avvicinino
quanto più possibile ai criteri di Copenaghen per garantire un allineamento agli standard politici,
economici e dell’acquis.
Proprio per il fatto che la PEV si presenta come una sorta di alternativa all’adesione, pur
avendo alcuni tratti in comune con essa, la sua capacità attrattiva è stata messa in discussione. La
Commissione ha infatti affermato che l’Unione Europea, nell’ambito della PEV, deve “offrire a tutti i
paesi limitrofi una partecipazione al mercato interno” solamente se questi ultimi, in cambio, danno
forma a “progressi compiuti in termini di riforme politiche ed economiche” (principio di
condizionalità).7 Dalla prospettiva europea, la partecipazione di uno Stato terzo al mercato interno
comporta benefici superiori ai costi dovuti all’avvio del processo di democratizzazione che deve
essere portato avanti nei paesi del vicinato. Ciò, però, non è scontato: del resto, l’offerta economica
dell’Unione non è maggiore rispetto a quella che si ottiene con accordi bilaterali come fatto dai paesi
arabi del Mediterraneo. Come è stato scritto, “gli incentivi economici offerti sin qui dall’Unione non
sono sufficienti a giustificare l’avviamento di un processo di lungo periodo per l’avvicinamento della
legislazione [del paese terzo]” all’acquis.8 Si parla, in breve, di struttura asimmetrica della PEV: i
vantaggi acquisiti dall’Unione sono maggiori dei vantaggi ottenuti dai paesi terzi.
7
8
Ibidem, p. 9.
G. Meloni, «Is the Same Toolkit Used During Enlargement Still Applicable to the Countries of the
New Neighbourhood? A Problem of Mismatching between Objectives and Instruments», in M.
Cremona e G. Meloni, The European Neighbourhood Policy: A Framework for Modernisation? , EUI Law
Working Paper 2007/21, p. 96.
5
Come anticipato, ad acuire le tensioni è il parallelismo tra politiche di allargamento e la
Politica Europea di Vicinato. Le prime, infatti, mirano sostanzialmente alla esportazione dell’acquis
dell’Unione Europea verso i paesi terzi, in modo tale da dare un’impostazione istituzionale al paese
che possa far fronte agli obblighi che impone la membership europea. Similmente, la PEV vuol creare
una zona di prosperità interferendo ampiamente negli affari interni dei paesi terzi, stimolando riforme
economiche, politiche e istituzionali. Ma, al contrario delle politiche di allargamento, la PEV non è
sinonimo di futura adesione.
c) La hybrid legal nature della Politica Europea di Vicinato e il suo background giuridico
Per studiare la base legale della PEV di cui in parte abbiamo già parlato occorre far riferimento a quei
sistemi permanenti di relazioni internazionali che l’Unione ha stretto con i paesi vicini e che, come
sappiamo, costituiscono il punto di partenza imprescindibile per l’attuazione della PEV. Nell’ambito
del diritto dell’Unione, con il termine partenariato si intendono proprio quegli insiemi persistenti e
strutturati di relazioni con uno o più paesi terzi. Essi, pur essendo strumenti piuttosto sfumati delle
relazioni internazionali, si distinguono per: a) la condivisione di un sistema di valori e obiettivi che
definiscono la cooperazione tra le parti; b) l’istituzione di organi comuni, piattaforme o tavoli di
lavoro per assicurare che i canali di comunicazione rimangano, in ogni caso, aperti.
Nella categoria dei partenariati rientrano tutte quelle forme di relazioni internazionali che
abbiamo visto, storicamente, essere antecedenti alla nascita della PEV: il partenariato euromediterraneo, i partenariati europei per i Balcani occidentali, il partenariato orientale e quello
transatlantico, oltre ai partenariati particolari con Russia e Cina. Sono da assimilare agli accordi di
partenariato anche l’accordo che istituisce lo Spazio Economico Europeo (SEE) e la Convenzione di
Cotonou. In questi ultimi due casi, comunque, il partenariato poggia su un trattato multilaterale con
tutti i paesi dell’area interessata, diversamente dagli altri, in cui vengono instaurate relazioni bilaterali
che sono, a loro volta, riunite in una cornice multilaterale. A loro volta, i partenariati euromediterraneo e orientale si inseriscono nell’ambito della PEV, che include anche i partenariati per i
Balcani occidentali e quello con la Turchia. Si nota, di conseguenza, la natura concentrica della
PEV: un sistema multilaterale che avvicina l’Unione a Stati terzi attraverso accordi di natura
bilaterale, che a sua volta è ricondotta a una umbrella policy come la Politica Europea di Vicinato.
Il modello del partenariato è caratterizzato da un insieme di valori e obiettivi che sono
elencati dal Trattato all’art. 2, e che quindi fanno riferimento al “rispetto della dignità umana, della
libertà, della democrazia, dell'uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani,
compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze”. Inoltre, l’Unione Europea, come si è visto,
si impegna, sul palcoscenico internazionale, ad agire secondo i principi su cui essa si informa,
contribuendo alla pace, alla sicurezza e allo sviluppo sostenibile del pianeta (art. 3, par. 5, TUE).
6
In sostanza, il partenariato costituisce una base imprescindibile per accordi ulteriori, i quali si
diversificano sulla base delle diverse situazioni geografiche, politiche, economiche, ecc. Proprio in
funzione di questa distinzione, secondo il principio no one-size-fits-all, occorre che gli strumenti
adottati dall’Unione Europea nell’ambito della sua azione esterna siano flessibili.
Dipendentemente dalla zona geografica (Mediterraneo, Europa orientale, Caucaso, ecc.) si
parla di diversi tipi di accordo di associazione (association agreements, AA). In generale, comunque,
un accordo di associazione è un accordo con Stati terzi o altri soggetti di diritto internazionale che
stabilisce obblighi e diritti reciproci e che definiscono settori di cooperazione attraverso procedure
particolari. La base giuridica su cui si fondano gli accordi di associazione, come si è già visto, è fornita
dall’art. 217 TFUE, già esistente dai Trattati di Roma del 1957. La procedura di conclusione di tali
accordi è, invece, disciplinata dall’art. 218 TFUE, il quale stabilisce anche il ruolo determinante del
Parlamento Europeo che deve dare la sua previa approvazione (procedura di parere conforme). Alla
negoziazione dei trattati di associazione partecipa non solo l’Unione Europea e lo Stato terzo, ma
anche gli Stati membri della prima. L’accordo di associazione ha, tipicamente, contenuti piuttosto
ampi: esso regola solitamente relazioni economiche tra Unione e Stato terzo, con l’obiettivo di creare
progressivamente le condizioni per una graduale liberalizzazione degli scambi di beni, servizi e
capitali; inoltre, comunque, si aggiungono anche obiettivi di altro tipo, come la promozione della
democrazia, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani. Spesso, gli accordi hanno un
approccio funzionalista, legato anche al principio di condizionalità.
Pur diversificandosi tra loro (ricordiamo gli accordi di stabilizzazione e cooperazione con i
paesi balcanici,9 gli accordi euro-mediterranei con i paesi del Nordafrica e gli accordi di partenariato e
cooperazione con i paesi caucasici, dell’Asia centrale e con la Russia), gli accordi di associazione
prevedono l’istituzione, come si è detto, di organi comuni tra le parti. Solitamente, ogni accordo
prevede: a) un Consiglio di associazione, composto da rappresentanti dell’Unione e dello Stato terzo,
coinvolto perlopiù nella adozione dei documenti non vincolanti di natura programmatica, i cosiddetti
“Piani d’azione”; b) un Comitato composto da alti funzionari del Consiglio dell’Unione, della
Commissione e del governo del paese partner; c) una Commissione parlamentare, composta da
parlamentari europei e parlamentari dello Stato terzo. Gli organi, comunque, non hanno bilancio
proprio, né costituiscono una nuova organizzazione internazionale. Anche il partenariato, comunque,
ha una propria struttura a livello più basilare: essa, come per il partenariato euro-mediterraneo e quello
orientale, si sostanzia perlopiù in conferenze intergovernative a diversi livelli ministeriali.
9
Gli accordi di stabilizzazione e cooperazione con i paesi balcanici occidentali sono particolari accordi
di associazioni che l’Unione Europea, dopo gli Accordi di Dayton del novembre 1995, ha deciso di
stipulare con le repubbliche della ex Jugoslavia. Questi hanno l’obiettivo di stabilizzare l’area, teatro di
un prolungato conflitto tra il 1991 e il 1999, con l’obiettivo di portare gli Stati all’adesione.
Contrariamente dunque agli Stati terzi oggetto della PEV, che non hanno una «prospettiva europea»,
Slovenia e Croazia (entrate nel 2004 e nel 2014), insieme ad Albania, Bosnia-Erzegovina, Kosovo,
Macedonia, Montenegro e Serbia faranno parte dell’Unione.
7
Come si è detto, la PEV non ha una base legale simile a quella di altri settori disciplinati dall’Unione:
l’articolo 8 TUE non è tale, ma costituisce una previsione politica di carattere generale. La PEV è,
infatti, una umbrella policy, una particolare categoria dell’azione esterna europea portata avanti con gli
strumenti della politica estera dell’Unione. Il framework politico-giuridico in cui si muove la PEV è un
sistema ibrido, un insieme di strumenti di hard law, quindi dal valore vincolante, e di soft legal
instruments, dispositivi spesso ad hoc che non hanno una vera e propria disciplina. Questo sistema è
alla base della natura legale ibrida della PEV (hybrid legal nature).10
Parlando di atti atipici dell’Unione Europea, contrapposti agli atti tipici (regolamenti, direttive,
decisioni), si è fatto cenno ai Piani d’azione della PEV, intesi come agende di riforma politicoeconomica che l’Unione e gli Stati terzi si accordano di portare a compimento. Proprio attraverso i
Piani d’azione la PEV persegue i propri obiettivi: questi, infatti, si vanno ad aggiungere ad accordi
preesistenti dal carattere giuridicamente vincolante. Solo in questo modo, infatti, vengono concordati
Piani d’azione: l’Unione Europea richiede che esistano già degli accordi tra di essa e il paese terzo.
Tra questi, per la politica di vicinato, vi sono gli accordi di associazione con i paesi del Mediterraneo e
gli accordi di partenariato e cooperazione con Bielorussia, Moldavia e Ucraina. I Piani d’azione sono
un esempio di external soft law, di cui la lettera Solana-Patten del 2002 e i Comunicati della
Commissione del 2004 e del 2011 costituiscono un esempio. Essendo atti atipici, i Piani d’azione sono
adottati secondo una procedura non disciplinata dai Trattati: dopo una fase di studio condotta dalla
Commissione sul paese terzo in questione, questa elabora un progetto di Piano d’azione e lo trasmette
al Consiglio. Quest’ultimo, infine, lo ritrasmette sotto forma di raccomandazione al Consiglio di
associazione, l’organo in comune che è stato stabilito in precedenza attraverso accordi di associazione
o di partenariato e cooperazione.
L’uso di documenti non giuridicamente vincolanti è una prassi ormai diffusa per le relazioni
esterne dell’Unione Europea. Ciò non è casuale: essi, infatti, garantiscono all’Unione Europea alcuni
vantaggi che i trattati internazionali non possono offrire. In sintesi, la external soft law dell’Unione
Europea ha i seguenti vantaggi: a) la rapidità con cui possono essere adottati questi atti non vincolanti,
i quali, al contrario dei trattati internazionali, non richiedono quei passaggi indispensabili per la
conclusione di un trattato; b) la flessibilità della external soft law, la quale consente di modificare e
adattare con tempestività i Piani d’azione alle mutevoli condizioni geopolitiche.11
10
«The partnership and cooperation agreements, the association agreements and other existing or
future agreements that establish a relationship with partner countries, corresponding
Communications, Council conclusions and European Parliament resolutions as well as relevant
conclusions of ministerial meetings with the partner countries shall constitute the overall policy
framework for programming and implementing Union support under this Regulation». In Proposal for
a Regulation of the European Parliament and of the Council establish a European Neighbourhood
Instrument, 7 dicembre 2011, COM(2011), 839 final, art. 3, par. 1.
11
B. Van Vooren, EU External Relations Law and the European Neighbourhood Policy: A Paradigm for
Coherence, Abingdon/New York, Routledge, 2012, pp. 193-194.
8