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Letizia Tedeschi Costruire è una cosa incantevole Sapete d’altronde che la mia passione edilizia è più forte che mai e alcun terremoto ha potuto distruggere tanti edifici quanti noi ne erigiamo. Costruire è una cosa incantevole: divora il denaro, ma più costruisci più hai voglia di costruire. È una malattia o forse, come l’alcolismo, una sorta di vizio. Caterina II a Melchior Grimm Non di rado la storia, per ritrovarsi e motivare se stessa, deve indietreggiare ricorrendo alla sua memoria più remota, facendo emergere più nitidamente le movenze profonde, i segni e gli atti primigeni da cui ha preso vita un’intera vicenda. Questo è tanto più vero nei confronti dell’epopea “classicista” che è il simbolo più evidente e concreto dello sforzo compiuto dalla Russia all’avvento del Settecento, il secolo dei lumi, per modernizzarsi in senso europeo. Nell’osservare i primi episodi di questa vicenda, la fondazione nel 1703, a seguito di un lungo viaggio attraverso l’Europa, da parte di Pietro I il Grande della nuova capitale dell’impero, San Pietroburgo, in un non-luogo – che susciterà una leggendarietà negativa da parte di poeti e scrittori russi – sulle rive della Neva, scelto allo scopo di consolidare le nuove terre conquistate e assicurare, oltre allo sbocco sul Mar Baltico, anche un futuro commerciale e militare di grande potenza navale alla Russia, rivolgendosi nel contempo allo scenario europeo, a lungo trascurato e anzi subordinato al fronte orientale, la storia della nuova Russia, che prende avvio con questa fondazione, pare proprio assumere un’eloquenza senza eguali. Non si può affermare lo stesso per altre nazioni e altre grandi capitali europee: non per Parigi, che è la culla del “secolo filosofico” da cui scaturisce la modernità, radice della società civile aperta e plurale che a tutt’oggi caratterizza l’intera Europa; non per Londra, dove si attuano i primi eventi modernisti in ambito artistico, né per Madrid, splendidamente passatista, neppure per la grande e polimorfa e contraddittoria Vienna o la magica Praga, ma neanche per la bella Monaco o per il modello di riferimento più vicino a San Pietroburgo sotto il profilo ambientale che è Amsterdam, il grande porto fluviale, oppure anche, per venire all’Italia, il portale d’oriente, la Serenissima repubblica marinara di Venezia. Quest’ultima è una città-mare immersa in un microclima che si presenta in modo molto simile all’ambiente in cui sorge il nucleo primitivo di San Pietroburgo, costituito attorno alla Fortezza e alla Cattedrale dei Santi Pietro e Paolo opera di Domenico Trezzini. A conferma di un qualche lecito legame con la Serenissima, si ricordi come dai documenti d’archivio si può apprendere che Pietro volle visitare la città lagunare, sia pure per poche ore e in assoluta clandestinità o in incognito. Il fatto straordinario che dà avvio a questa storia è costituito proprio dalla nascita, voluta da Pietro il Grande, di una nuova capitale del suo impero, il vasto impero russo, che viene edificata dove le acque della Neva dominano selvagge, in un’area fangosa, battuta dai venti artici, deserta e inospitale, piegando in tal modo la natura alla volontà dell’uomo, con tipico spirito illuminista. San Pietroburgo, città programmata, è predestinata e sarà dunque per vocazione e non solo anagraficamente e fisicamente la città più moderna del Settecento, in virtù di questo atto apparentemente XXI tanto paradossale e capace di prefigurare lo sviluppo dell’inurbamento aggressivo nei confronti dell’ambiente che caratterizza tutti i secoli che seguono. La nuova capitale della Russia sarà dunque l’autentica capitale illuminista e neoclassica tra tutte le città d’Europa e proprio per questo potrà essere paragonata, più di ogni altra, alla città che vanta invece le più cospicue e remote radici storiche, Roma. San Pietroburgo viene infatti a proporsi come una nuova Roma risorgente al “norte” e parimenti capace, come l’Urbe, di dare vita a una nuova classicità. Contribuiscono a ciò, nell’ordine, prima la figlia di Pietro il Grande, Elisabetta Petrovna, poi e in misura assai maggiore e con nuovo slancio, dopo il colpo di stato che depone Pietro III per eleggere al suo posto la consorte, la principessa di Anhalt-Zerbst, la quale, divenendo nel 1762 imperatrice di tutte le Russie, prende il nome di Caterina II. È quest’ultima la figura chiave della nostra vicenda, e dunque è con il 1762 che può prendere effettivamente il via – stringendo sui fatti che ci premono – la nostra storia, dal momento che è proprio questa straordinaria zarina colei che promuove un vasto programma teso a modificare il volto architettonico della capitale, delle altre città, delle residenze imperiali, un programma che si farà sempre più ambizioso e verrà a compiersi soltanto dopo di lei, sotto il regno del nipote Alessandro I, il grande avversario di Napoleone che governerà fino al 1825, ricevendo dalla sua impostazione l’impronta fondamentale. In questo generale rivolgimento che si realizza con il coinvolgimento di tutta Europa, vale a dire grazie alla presenza di architetti e costruttori francesi, inglesi, olandesi, tedeschi, italiani e ticinesi, autori di tante straordinarie fabbriche in ogni parte dell’impero, un ruolo primario è recitato dalla cultura architettonica italiana, con la realizzazione per esempio a Mosca di nuovi edifici, dopo il nucleo monumentale del Cremlino cui avevano dato già apporti significativi architetti e maestranze di tradizione italiana. In questo volume, frutto di una ricerca triennale promossa dall’Archivio del Moderno dell’Accademia di architettura di Mendrisio, ci occupiamo unicamente dell’apporto della cultura architettonica italiana all’edificazione della capitale e delle altre città russe secondo i nuovi orientamenti neoclassici, senza alcuna pretesa di esaustività o compiutezza che richiederebbe ancora molti altri sforzi e altri anni di studio. Si tenta egualmente di portare qualche elemento conoscitivo nuovo, pubblicando documenti inediti non solo per l’Occidente ma anche per gli studiosi russi. Ci auguriamo di concorrere così, al seguito del confronto ravvicinato e diretto consentito dal convegno internazionale di studi dedicato a La cultura architettonica italiana in Russia da Caterina II ad Alessandro I (svoltosi in due sessioni: Ascona, 6-7 aprile 2000, e Venezia, 20-21 aprile 2001), che ha preceduto e avviato questa pubblicazione, all’arricchimento dell’intreccio sempre fecondo dei diversificati approcci metodologico-critici. Speriamo cioè di accendere ulteriormente il dibattito presso la comunità scientifica e, parimenti, di sollecitare l’interesse e la curiosità per questa frontiera architettonica ancor oggi in larga misura scarsamente esplorata, presso il grande pubblico. Infatti, si è tentato di svolgere un complessivo e articolato, plurale e diversificato – fino all’urto tra differenti “letture” di un medesimo tema o soggetto – approfondimento del neoclassicismo russo, caso unico in Europa, dal momento che alla stessa stregua delle idee degli enciclopedisti esso viene ad assumere il carattere di cultura ufficiale dello stato, contribuendo con mezzi straordinari alla modificazione della cultura russa di metà Settecento e primo Ottocento in senso filo-europeista. In effetti, però, anche se ci limitiamo ad un solo aspetto dell’intero fenomeno, quello relativo alla componente italiana dovuta sia ad architetti e maestranze italiane e ticinesi sia a quant’altri si sono formati su tale cultura (il caso dello scozzese Charles Cameron, per citare il più eclatante), ciò non significa che possiamo ignorare come e quanto il “classicismo russo” sia connotato da un pluralismo di linguaggi e di tradizioni artistiche e architettoniche che chiamano in causa l’Europa, nazione dietro nazione. Né che, proprio per questo, esso è anche l’esito felice, ma indubbiamente complesso, nella misura in cui finisce per proporre un lessico architettonico originale rispetto al resto d’Europa, che è frutto di una straordinaria coralità di difficile decifrazione o lettura proprio in virtù delle molteplici ibridazioni che lo caratterizzano. Viene poi a sommarsi a ciò anche la mai del tutto dimen- XXII ticata cultura orientale. Sennonché quello italiano resta – dicevamo – un contributo fondamentale e anzi primario, quanto meno nell’arco temporale qui preso in considerazione, dall’ascesa al trono di Caterina II, nel 1762, alla morte dell’amato nipote Alessandro I, avvenuta nel 1825, concorrendo a modificare tanto radicalmente la scena culturale, artistica e architettonica russa. Tra le pagine che seguono, si possono leggere come ideale viatico all’incontro con l’architettura costruita che documenta in sé questa svolta e la progressiva affermazione del nuovo orientamento neoclassico, che aggiorna l’impero russo adeguandolo ai parametri europei, per di più secondo la specifica accezione da noi affrontata, almeno i saggi a firma di Sergej O. Androsov, La società russa alla fine del Settecento e il nuovo gusto, che offre un’inquadratura generale di ampio respiro; Dmitrij O. S̆vidkovskij, Da Caterina II ad Alessandro I: la volontà dei sovrani e lo sviluppo dell’architettura russa all’epoca dei lumi, che svolge un’ampia e articolata disamina tesa a definire il complesso intreccio intercorso tra le aspirazioni e i programmi degli zar e la loro traduzione in fatti concreti; infine Howard Burns, La città bianca: continuità e innovazione nell’architettura di San Pietroburgo, 1762-1825, il quale ultimo consente di ripercorrere la storica vicenda secondo le trame che concorrono alla sua autentica attuazione, dando nel contempo un ricco affresco in cui campeggia l’architettura e pare svelare ogni suo segreto. Inoltre, per l’architettura Gianni Mezzanotte, La bâtissomanie di Caterina. Italianisti a San Pietroburgo e Mosca; per finire, Anna Maria Matteucci Armandi, Il trionfo dell’antico nella decorazione degli interni, che inquadra il tema collocandolo entro le coordinate storiche che debbono essere rintracciate per cogliere fino in fondo il significato e il valore di questa problematica, e La musique des yeux. Fantasie in scena e a corte, un affascinante viaggio tra le arti e il fantasmatico mondo teatrale, colto quale polo attrattivo di una tematica affrontata secondo una ricchezza di spunti e di rilievi che concorrono a recuperare il clima del tempo, fremente di suggestioni. Per ultimo si dovrà leggere anche il saggio di Nicola Navone, Tra corte e cantiere. Architetti e costruttori ticinesi nella Russia neoclassica, poiché in esso si penetra nelle fitte maglie di eventi che si svolgono tra i centri del potere e i cantieri disseminanti in ogni parte dell’impero, mettendo a fuoco tecniche, ideologie, frammenti di cronaca e ritrovando così il sapore di un’epoca. Questi saggi si integrano e si completano l’un l’altro, fungendo da direttrici generali su cui posizionare gli altri differenti e particolari contributi che sono presentati sia in saggi specifici sia in ampie schede tematiche come pure, infine, in schede tecniche, concorrendo volutamente al corale esito complessivo. Da dove iniziare tuttavia? Il primo nodo da sciogliere concerneva proprio questo, la possibile cronologia da prendere in considerazione entrando nei fatti di cronaca più decisivi. Si è finito per dare priorità al ruolo svolto da Caterina II, la quale, appena nominata imperatrice, già nel 1764 rifonda l’Accademia di Belle Arti, aggiornandola secondo modelli europei, nel 1768 ordina a Rinaldi il suntuoso Palazzo di Marmo, infine nel 1779 chiama a sé da ogni parte d’Europa forze nuove. Fra queste ultime in particolare Charles Cameron, formatosi a Roma dove aveva rilevato le Terme di Agrippa e la Domus aurea dandone a stampa i risultati, in un volume subito apprezzato, The Baths of the Romans, e i due architetti italiani da cui, idealmente, prende avvio la filatura neoclassica italiana, non solo per l’intervento tanto incisivo di Giacomo Quarenghi, tra i firmatari del volto neoclassico di San Pietroburgo, ma anche per il significato che viene ad assumere la richiesta formulata da Caterina II in persona. Giungono appunto nel 1779, dall’Italia, sostanzialmente da Roma, il bergamasco Giacomo Quarenghi e il parmigiano Giacomo Trombara. La loro chiamata coinvolge naturalmente Johann Friedrich Reiffestein, antiquario romano e agente della sovrana nella “città eterna”. Costoro vengono ingaggiati per edificare la Pietroburgo neoclassica concepita da Caterina come città simbolo di questo rivolgimento generale, addirittura, nelle intenzioni dell’imperatrice, novella Roma. Dal saggio di Christoph Frank, L’arte e l’architettura romane nella corrispondenza di Caterina II di Russia e dalla sua appendice documentaria, risalta con tutta l’evidenza e la forza indiscutibile del documento inedito quanto l’imperatrice che più di ogni altro ha fatto sì che il classicismo divenisse espressione della cultura, dell’architettura e dell’arte russa tra XVIII e XIX secolo, fosse alla ricerca di artisti e architetti europei. Così come, quanto ella tenesse a identificare la “sua” Pietroburgo con la “città XXIII eterna”, secondo un’interpretazione che muoveva da Raffaello le cui Logge Vaticane, si apprende, sono oggetto di un’autentica passione, e veniva ad aggiornarsi direttamente sui resti antichi, motivo di incessanti studi, di “scavi” e nuove scoperte. Infine, quale parte avessero in tutto ciò anche le direttive scaturite dall’entourage di Villa Albani nei confronti dell’antico, grazie alla triade Winckelmann, Mengs, Piranesi. Un argomento che occorreva affrontare immediatamente è pertanto il rapporto con l’antico che si viene affermando in questo momento storico in Russia. Si può venire in tal modo a motivare anche la prima parte di quest’opera, dedicata a Caterina, l’Italia e l’antico, sulla scia della mitica identificazione di San Pietroburgo come nuova Roma al “norte”, per dirla con le parole di Algarotti, per il ruolo giocato proprio dalla sovrana nel raggiungimento di tale obiettivo. Perché mai, Caterina II vagheggia una tale simbolica rifondazione? Perché vuole questa investitura per la nuova capitale dell’impero russo? Che cosa vuol dire nei confronti dell’antico e che ricaduta può avere sul costruito? Può, o no, incidere sull’interpretazione, unica rispetto al resto d’Europa, del neoclassicismo quale si viene a manifestare con rinnovato vigore sin dai primi mesi del 1779, in Russia? Il confronto con l’antico sembra filtrato attraverso la sua riattualizzazione storica avvenuta nel Cinquecento e soprattutto attraverso Raffello e la sua scuola – la vicenda delle Logge Vaticane riproposte in scala 1:1 nel Palazzo dell’Ermitage ne è prova eclatante – e, nel contempo, parrebbe riferirsi pure all’interesse crescente per lo “scavo” archeologico. Sembrerebbe fare appello anche alle reiterate misurazioni effettuate sulle monumentali rovine dell’Urbe e dei dintorni, a muovere da Villa Adriana a Tivoli, da Frascati e altri siti che diverranno meta costante delle esplorazioni fatte in Italia, durante il loro soggiorno formativo, dai pensionnaires russi, che poi scenderanno nel napoletano, per Pompei e Ercolano, e dopo una certa data visiteranno anche l’antica Trinacria, la Sicilia. Si somma a tutto questo la più aggiornata elaborazione della complessa eredità greco-romana più volte filtrata e rielaborata dai reiterati revivals verificatisi nel corso della storia e ricalcanti una lunga pratica. Essa è fondata sulla libera manipolazione, sull’audace interpretazione dei modelli antichi, delle icone più preziose, dando agio alle licenze che motivano l’attingimento inesauribile ai reperti di una classicità remota, di una storia perduta e mitizzata e nel contempo condannata, paradossalmente, da un lato all’eterna invariabile vitalità, innanzitutto formale, proporzionale, dall’altro all’aggiornamento senza tregua e dunque all’alterazione continua che non di rado ne stravolge profondamente il lessico. È da tale pratica, ampiamente motivata dall’autorità dell’antico, per la carica di significati simbolici che esso emana dando valore aggiunto all’intera operazione, che scaturirà il “restauro” restitutivo grazie al quale verranno illustrate le ricostruzioni virtuali più varie, dalle filologiche alle fantastiche, dei più significativi monumenti, delle più emblematiche vestigia dell’antichità. Ma perché tutto questo fervore, quest’alacre attività, questo interesse incontenibile per i resti romani, greci, etruschi, italici e, dopo la famosa campagna d’Egitto di Napoleone, anche egizi? Sovviene, per una possibile motivazione, un efficace esempio rilasciato da Erwin Panofsky: il doppio capitello corinzio di Monreale dove le volute s’incurvano a sostenere un sacerdote che sacrifica un toro, invenzione derivante da un rilievo antico raffigurante una tauroctonia di Mitra. Ricorda Panofsky che in questo aggiornamento lo scultore ha sostituito il berretto frigio presente nel modello romano con una specie di turbante che sta a rappresentare, simbolicamente, una figura precristiana. Anche Salvatore Settis in riferimento a questo stesso capitello – scrivendone nel 1986 – si domanda: sarà venuto prima, in questo caso, il contenuto, innescante la ricerca di una rappresentazione iconografica adeguata, o la forma che provoca la ricerca di un contenuto tale che consenta l’inserimento di quella figura in un programma predeterminato? Ma quale programma? Verrebbe da dire, sulla scorta di una moltitudine di elementi: far rivivere, eternare l’antico. D’altra parte, nell’identificazione di San Pietroburgo come novella Roma si può intercettare il segno di un grande progetto, corrispondente a un grandioso programma che va ben oltre quanto si è sommariamente detto. In cui forma e contenuto, intese nel senso testé richiamato, siano compresenti e debbano agire simultaneamente anche in relazione a vari aspetti e ambiti, differenti soluzioni iconografiche, stili- XXIV stiche e segniche che investono i singoli edifici, o intere aree urbane e suburbane, ferma restando la possibilità di attingimento a un passato aulico, quello romano appunto, indiscutibilmente autorevole e nel contempo sufficientemente lontano da non suscitare alcun problema. Tanto più che tale lontananza viene fossilizzando e ammutolendo ogni possibile suggestione rivoluzionaria e soprattutto viene a fugare tutte le ansie che agitano la scena contemporanea, confermando la forza e la bontà di quei valori; gli stessi valori assoluti ed eterni che proprio quel remotissmo passato garantisce. Ma anche facendo in modo che si evidenzi la possibilità di andare oltre il mito, ritrovando la storia nella concretezza indiscutibile dei reperti, nella loro accertata consistenza reale, nella loro necessaria accessibilità. Ecco perché gli artefici della nuova Roma dovevano simultaneamente formarsi sulle barricate della più sfrenata e trainante modernità, Parigi, quella stessa Parigi che è patria degli enciclopedisti (alla fin fine, i teorici del grande programma di rinnovamento petrino-cateriniano) e contemporaneamente sulle vestigia della romanità più rappresentative e certe, Roma, la Roma archeologica e monumentale, peraltro sulla scorta di antesignani significativi. Nel 1752 Vallin de la Mothe, andrà ricordato, aveva visitato l’Urbe e gli scavi di Pompei ed Ercolano, a conferma di un costume archeologizzante già attivo in anni non sospetti, ma che naturalmente verrà ad assumere in questo momento altra veste e nuovo significato. Sovviene pure l’eredità di Lessing e di altri, che si basano sull’erudizione antiquaria che li precede come pure sulle interpretazioni offerte dal Quattrocento in poi dagli umanisti, in particolare da autori come Leon Battista Alberti, fonte anche per Raffaello Sanzio, fulcro del revival cinquecentesco che rilancia in grande stile l’antico, come ci viene suggerito da Rolando Bellini nel suo intervento, e che è pure, come attesta l’impresa della replica delle “sue” Logge all’Ermitage, un cardine dell’intero sistema cateriniano. Si può spiegare così almeno una parte di verità storica, e cioè il programma “formativo” cui sono sottoposti, in ossequio al Reglément del 1764 che ha rifondato l’Accademia Imperiale di Belle Arti di San Pietroburgo, i futuri artisti e architetti della nuova Russia i quali, infatti, debbono soggiornare in entrambe le città, per aggiornarsi a Parigi e per visionare, studiare e misurare i resti antichi, dalle sculture alle architetture, e familiarizzare in tal modo con l’antico, a Roma. L’aggiornamento disinvolto dell’antico era pratica corrente nel Seicento, secolo dal quale potevano venire molteplici esempi cui, tuttavia, i neoclassici si opponevano polemicamente anche quando finivano per ricalcarne le orme. Basterà riferirsi, per una verifica, alla conclamata Collezione Ludovisi, un campionario unico sotto vari aspetti. In gran parte essa raggruppava opere provenienti dalle Collezioni Cesio, Cesarini, Altemps e Colonna, fatte restaurare, com’è noto, dal cardinal Ludovisi tra 1621 e 1631, che si servì per questo di Algardi, Buzzi, Rondoni e naturalmente Bernini. Quest’ultimo restaurò il Marte acquistato nel 1622, con l’aggiunta della testa, il braccio sinistro, l’elsa della spada e parte del braccio destro, nonché il piccolo Cupido, accovacciato tra le gambe del dio, un’invenzione tutta berniniana che ha acquisito la sua cifra stilistica, ricordando da vicino, è stato giustamente rilevato dalla critica, la testa di Ascanio nel gruppo di Enea e Anchise che Gian Lorenzo aveva scolpito da poco per i Borghese. Più ancora del grande Gian Lorenzo Bernini, tuttavia, spetta ad Algardi la palma di colui che è riuscito a realizzare, con il recupero della testa di Atena, “pezzo veramente eccezionale”, il restauro che, come scrive nel 1986 la Rossi Pinelli, effettivamente “può essere considerato il ‘manifesto’ delle teorie del restauro seicentesco”, che si poneva in competizione con l’antico. La cui autorità suggerisce questo costante ricorso ai suoi modelli plastici, architettonici o altro ogniqualvolta le circostanze contingenti suggeriscono un azzeramento e una rifondazione della vita culturale di una società. Cui segue il riassetto di un mondo, riaccendendo così, ancora una volta, il mito della rinascita di una leggendaria arcadia che, con l’illuminismo prima e il trionfante neoclassicismo subito dopo, diventa la parola d’ordine del momento. All’antico si attengono tutte le corti europee, tutte le nazioni che aspirano a ruoli di primo piano sulla scena internazionale negli stessi anni in cui Caterina II opera il riposizionamento della Russia nei riguardi dell’Europa, dopo la parentesi della guerra contro l’impero Ottomano. Una guerra che aveva paralizzato XXV ogni riforma assorbendo tutte le risorse disponibili, ma che si conclude positivamente per la Russia, dandole la visibilità agognata sul palcoscenico europeo, con la ben nota battaglia di C̆esme (25 giugno 1770) che apre lo sbocco russo sul Mediterraneo. Frattanto però la peste aveva colpito e depauperato Mosca, impedendo pure la realizzazione del progettato grandioso Cremlino – sorta di reinvenzione ideale di un foro romano mescolato a basilica neopalladiana ed altro ancora – di Baz̆enov, mentre invece la sanguinosa rivolta del 1773-1774 guidata da Pugac̆ev, verrà soffocata solo a seguito della pace con i turchi, siglata a tutto vantaggio dei russi nel luglio del 1774. L’antico si fa strumento politico e manifesta molti altri significati e valori, finendo con il giustificare, attraverso non solo opere quali il Palazzo di Marmo, ma anche altre meno vistose e tuttavia significative, una serie di iniziative che vengono a sottolineare la decisiva svolta neoclassica. Aggiungiamo, di pari passo con quello che, in questo volume, dice Howard Burns: l’affermarsi di “un nuovo tipo di architettura in Russia: razionale, classica (più che classicheggiante o anticheggiante), priva di particolari sapori nazionali (sia francesi, sia inglesi o russi, se per russi si intendano quelli dell’architettura pre-petrina): quindi, nella visione di Caterina, un’architettura veramente adatta alla Russia, impero erede di Roma, che lei stava munendo di un sistema legale e amministrativo di carattere uniforme e razionale basato su principi universali”, approfittando del periodo di crescita economica e di pace che succede agli affanni richiamati, a partire dal 1775. Il saggio di Burns andrà letto a chiasmo con altri contributi, con quello di Gianni Mezzanotte, soprattutto con i testi di Dmitrij O. S̆vidkovskij e di Sergej O. Androsov. Lo si dovrà rivedere all’insegna della complessità che erompe dallo scenario russo, tanto più che esso viene a toccare anche la querelle sull’antico, che va riconsiderata implicando nella sua globalità l’ambizioso programma cateriniano e il suo impegno sul fronte architettonico. Dunque è in tutto questo il senso della mitica rifondazione di Roma voluta dall’imperatrice come simbolica investitura della rinnovata San Pietroburgo. Ne parla nel suo saggio Rosanna Casari, così come Vittorio Strada. Del resto, la querelle così richiamata fa riferimento, forse anche implicitamente, all’origine del topos medievale della “Roma seconda”, alimentato, come si sa, dalla tradizione delle laudes Romae e dalla disseminazione e moltiplicazione delle sedi del potere nel tardoantico. Come ognuno ricorderà una seconda Roma doveva essere, nelle intenzioni di Carlomagno, Aquisgrana; una più salda e corposa seconda Roma era sul Bosforo – la si è già richiamata sia pure implicitamente e in estrema sintesi: è Costantinopoli – e così, come ricorda Eginardo nella sua ben nota Vita Caroli, nel tesoro di Carlo Magno vi erano tre mensae argenteae: una con la descriptio urbis Costantinopolitanae, un’altra con l’effigies Romae urbis e una terza con una descriptio totius mundi, tutte e tre derivanti da prototipi antichi e riecheggianti, ai nostri occhi, gli scenari, altamente evocativi e simbolici, degli edifici voluti da Caterina e in particolare della sua residenza di Carskoe Selo. Ma si potrebbe insistere, sollecitati dal saggio di Piervaleriano Angelini, Caterina II e la cultura dell’antico, incentrato sul laboratorio di Carskoe Selo e allora si potrà ricordare anche la seconda Roma medievale interpretata da Pavia, poco oltre da Pisa (grazie al capolavoro di Buscheto), per non dire di Siena che si appropria del mito della lupa che allatta i fondatori di Roma, lupa che, infatti, ancora una volta compare, manipolata all’uopo, come simbolo aulico ai piedi del Buon Governo in una Biccherna del 1344 o sulle mura di Palazzo Pubblico; per finire, restando ancorati alla filatura comunale, con Firenze, “Tamquam Romam sedet semper ductura trumphos”, prima dell’epopea rinascimentale, e cioè attorno agli anni di Montaperti, che cade nel 1260. Vi è poi tutta un’altra storia, quella incentrata sulla Roma religiosa, che vede in Avignone una nuova “seconda Roma” e infine una “terza” rivolta piuttosto alle pretese imperiali che concerne proprio l’ambito russo di cui stiamo argomentando poiché si tratta di Mosca e del suo Cesare (zar). Può essere così svelato l’arcano, Caterina II si appropria di tale ultimo riferimento giocando anch’essa, ma questa volta a tutto vantaggio di San Pietroburgo, impegnata ancora in una sorda competizione con Mosca, un gioco sottile a cui partecipavano la nobilità, l’esercito, altri soggetti, coinvolgendo una fitta rete d’interessi, la carta della traslatio imperii. Una carta che, giova sottolineare, viene rilanciata in prima istanza da Pietro e ancora da sua figlia Elisabetta e nuovamente, appunto, e con rinnovata veemenza, da XXVI Caterina, attraverso un crescente impegno che si traduce nell’arricchire la nuova città, la capitale del nuovo impero di monumenti e di pubblici stabilimenti e di palazzi privati munificamente adorni di rivestimenti lapidei, come il Palazzo di Marmo. Palazzo esibente con enfasi persino eccessiva uno sfarzo, una ricchezza da parte della committenza paragonabile solo a quella remotissima dei Cesari, pertanto senza possibilità di confronto con qualsiasi scenario europeo e tale da riecheggiare anche in questo l’auctoritas dell’Urbe, potenziandone implicitamente il prestigio. La competizione più volte richiamata dalla storiografia con la Prussia di Federico II significa inoltre un investimento ulteriore di San Pietroburgo di quei segni che abbondano nella città dei papi, molteplici “segnali” (perciò, in quanto tali, ripetibili), tra cui campeggiano le grandi fabbriche romane, le colonne istoriate, l’auctoritas della statua equestre del Marco Aurelio, quella di Costantino, tanto scopertamente in contatto, come modelli ideali, con la statua simbolo di San Pietroburgo dedicata a Pietro il Grande, opera di Etienne-Maurice Falconet. In ogni caso, per dirla con le parole di Salvatore Settis, il richiamarsi “a una qualche memoria dell’architettura antica non è casuale”, non lo è stato nei secoli che precedono e non lo è adesso, “ma riflette un ordine di valori basato ora sulla topografia del potere, ora invece sulla sapienza tecnica e artigianale”, rimettendo in gioco nientemeno che “l’eredità di Roma”, finalmente recuperata, si aggiunga, facendo ricorso a quanto emerge dal ricco carteggio di Caterina con i suoi “agenti” e “consiglieri”, i suoi “architetti” e “artisti”, in molte delle sue trame e motivazioni profonde. La spoliazione che, nei secoli, ha tolto a Roma molti suoi simboli, ma per riproporli altrove, facendone rivivere simbolicamente i fasti, finisce per alimentarne la leggenda e per sollecitare il pellegrinaggio verso l’Urbe, restituendo la sua gloria alla città dei papi. Questo, allora, può ricondurci all’ultima delle Romae secundae e cioè “la prima Roma, la Roma dei Cesari e dei Papi, come venne a ricomporre la propria immagine, già nel secolo XII preoccupandosi di conservare il ‘Costantino’ lateranense e la Colonna Traiana”, o di “Romae veterem renovare decorem, come nella Casa di Crescenzo”. Andrà ricordato, contestualmente, che Roma stessa aveva garantito le sue vestigia, ogni memoria storica dell’antica capitale, preservando in più modi e occasioni le “sue incombenti vestigia”, dopo Petrarca, o il ritorno dei papi da Avignone. È attivo anche a San Pietroburgo, dunque, “il colossale sforzo di recuperare un’identità e una memoria che apparivano perdute ma ancora s’incarnavano nelle gigantesche rovine, d’integrare la Roma pagana a quella cristiana in una sola città, di presentarne e accrescerne l’assetto monumentale e urbano con una nobiltà e – secondo le parole di Cola – una ‘maiestate’ degna della Roma antica”. Ed è proprio questa Roma il modello a cui tutta l’Europa neoclassica guarda con indicibile insistenza, ma a cui fa appello in modo particolare la Russia, perché deve sostenere lo sforzo di riallacciare le trame di una storia interrotta. Rivitalizzandola e nobilitando un presente in cui l’utopia, il mito sono parte integrante di un concreto programma politico e dunque assumono la stessa consistenza del necessario supporto tecnico-pratico che è, tutto sommato, il nerbo dei grandi cantieri pietroburghesi e d’ogni altro cantiere aperto nelle città dell’impero, da Mosca a Odessa. In merito alle modificazioni in atto in quest’ultima area si legga il saggio di Marija B. Michajlova, Le città meridionali dell’impero russo: il contributo degli architetti italiani. In altre parole, si tratta proprio di un programma che viene legando direttamente, indissolubilmente, San Pietroburgo a Roma. Ed effettivamente si vedrà affermare sulle rive della Neva “l’auctoritas non del solo motto delfico, ma della sapienza antica, che – come insiste a dire Settis – induce il pio Wibaldo a riprodurre su un architrave della sua abbazia l’epigrafe del tempio di Apollo” e tant’altri summenzionati a trarne “spolia da esibire a testimonianza e sigillo di ogni loro pretensione sull’eredità di Roma”. Dicevamo che sin dall’atto fondativo di San Pietroburgo si è trattato di un’affermazione della scienza edificatoria moderna in virtù proprio del rivolgimento in atto, soprattutto della tecnica, rivestita di nuovo significato grazie agli enciclopedisti, come ricorda nel suo saggio Fabio Minazzi. È questo un argomento cruciale, unitamente al dibattito suscitato dalla trattatistica che viene assimilata anche tramite traduzioni importanti (basti pensare al lavoro svolto in questo senso da L’vov), la quale è mes- XXVII sa a confronto da un lato con la storia e il costruito, dall’altro con i progetti e i cantieri del giorno. Cosicché non potevamo esimerci dal creare una specifica sezione dell’opera: Idee e Teorie: modernità e retaggio rinascimentale, vestibolo all’incontro diretto con il costruito, ma anche momento di riflessione teso a percepire meglio la singolarità del costruito che supera ogni precettistica e sviluppa una pluralità di linguaggi tale da suggerire un esame diretto di ogni singola architettura. In tal modo si torna a ricalcare l’esempio di questi stessi protagonisti quando, consci di tale complessità, hanno studiato l’antico salendo sui suoi resti e annullando così aprioristiche interpretazioni e ogni vincolo riduttivo di carattere teorico. Come non potevamo non considerare, sempre subordinatamente al taglio dato a questi studi, il portato effettivo di questa modernità e con esso un duplice tema di riflessione che incide profondamente sull’architettura: in primo luogo, la formazione accademica, basata sulla trattatistica, su un’erudizione che si avvale di specifiche biblioteche, di precetti e d’altro, finalmente messa in chiaro grazie a Elena B. Ivanova nel saggio La Classe di architettura dell’Accademia di Belle Arti di San Pietroburgo nell’epoca del classicismo; così come rinviamo, per quanto concerne la trattatistica, agli approfondimenti di Maria Chiara Pesenti, di Giulio Lupo e di Olga A. Medvedkova. In secondo luogo, vale la pena di enfatizzare, il contributo delle idee illuministe all’architettura e all’arte ma anche alla scienza e alla tecnica e quanto ne discende in merito all’apporto specifico delle tecniche, al saper costruire che connota le nuove grandiose fabbriche, dunque quello che ne deriva sul cantiere. Si tratta di un argomento che chiama in causa un nuovo ruolo e valore della stessa prassi, questione nodale su cui insiste nel proprio saggio – già richiamato – Gianni Mezzanotte, La bâtissomanie di Caterina. Italianisti a San Pietroburgo e Mosca. Un fil rouge parrebbe correre, dunque, dalle tavole dell’Encyclopédie ai “cantieri” sparsi per tutta la Russia, da nord a sud, da est a ovest, dando al macchinismo tecnologico un ruolo primario, rivestendo di altro e nuovo valore e significato i disegni presentati dai singoli architetti per illustrare alla sempre più avvertita committenza i propri progetti; disegni e modalità di progettazione che riverberano, sovente, l’iter formativo degli architetti, sia degli italiani sia degli altri che comunque attingono alla cultura architettonica italiana o la cui formazione si è venuta affinando tra Parigi e Roma. Torna anche utile aggiungere qui qualcosa in merito al come e al quanto le procedure restitutive adottate nei confronti dei monumenti dell’antichità vengano a svolgere un ruolo formativo peculiare, i cui effetti non mancano certo nella realtà edificatoria: basti considerare l’operato dei primi borsisti russi spediti in Italia, rispettivamente Vasilij I. Baz̆enov e Ivan E. Starov, ovvero quanto consentono di verificare, in tal senso, gli altri – e fino alle ultime generazioni dell’epoca neoclassica – pensionnaires russi che compiono il fatidico voyage d’Italie e l’inevitabile confronto con l’antico ad esso strettamente legato. D’altra parte, i rilievi compiuti sui resti romani (e più tardi anche greci o pre-romani) rivestono pure un carattere tecnico in quanto sono rivolti, scientemente – al di là delle misure proporzionali, dei dettagli d’ogni elemento, dell’uso appropriato degli ordini, delle caratteristiche esibite dalle modanature architettoniche, dei modelli di piante e alzati offerti dalle monumentali vestigia antiche – all’esame delle soluzioni tecniche adottate dai grandi costruttori del passato. Se a questo aggiungiamo la riflessione che viene a svolgersi in merito al dibattito teoretico attivato dagli enciclopedisti e ripreso ed elaborato ulteriormente da Kant, e lo si riconsidera alla luce di quanto viene offerto in questo volume dai vari studiosi che hanno differentemente approfondito le ragioni che sovrintendono al fervore dei reiterati cantieri, forse si può cogliere il diverso e nuovo sapore che le singole fabbriche vengono a manifestare sia sul piano formale che su quello funzionale e abitativo, rispondente alle nuove esigenze. La committenza muta, infatti, nell’arco breve di pochi anni, la propria domanda non soltanto in relazione alla ratio illuminista ma anche in stretto rapporto con un nuovo gusto e le sue imprevedibili “oscillazioni” (per dirla richiamando il titolo di un fortunato saggio di Gillo Dorfles), rivolgendosi, conseguentemente, ai costruttori con richieste sempre più esigenti e consapevoli sia sul fronte estetico e rappresentativo che sul piano della vita domestica. Si tratta, infine, di mutamenti persino di umore, in relazione pure con le inquietudini e le turbolenze che emergono man mano che avanza il nuovo clima romantico. Senza contare, per XXVIII concludere, l’effetto sotto non pochi rispetti devastante e tale da segnare una sorta di generale cambiamento, provocato dalla guerra napoleonica che tuttavia getta con più forza la Russia nell’agorà europea e ne riafferma, con il rilanciato orgoglio internazionale, anche lo spirito nazionale, finendo per sostenere un valore che verrà a consolidarsi fino al punto di diventare valore assoluto se ancor oggi tale sanguinosa, ma anche epica, vicenda è, per i russi, semplicemente “la guerra patriottica”. Altro sembra essere il patriottismo emanante dall’architettura russa neoclassica, venendo a scrivere più puntualmente della sezione Architetture 1762-1825 che funge anche da ponte tra i due tomi dell’opera. Qui pare agiscano modelli e vocaboli sopranazionali o universali. Meglio ancora: l’architettura di questo momento sembra rifarsi, almeno dopo il 1780, al modello palladiano-quarenghiano e a un’idea di attualizzazione o reificazione dell’antico che a suo modo pare attingere alla “lezione” albertiana. Ne scaturisce l’impiego codificato ma nel contempo libero e flessibile, creativo e filologico al tempo stesso, a seconda dei casi e degli umori, di ordini, modanature, tipologie e morfologie, rispondenti in larga misura alle ragioni della tecnica, ma legati pure a forti vincoli formali, che caratterizzano il movimento neoclassico internazionale e ancor più, parrebbe, il movimento neoclassico russo. Qui si vengono livellando i vertici e nel contempo si innalza il livello minimo generale, portando a un grado di professionalità più alto l’edilizia moderna e garantendo così esiti mai inferiori all’ordinarietà imposta dalla ratio illuminista che, naturalmente, anima ogni attività edile e dunque governa l’intera galassia neoclassica. In ogni caso, se si vuole parlare di patriottismo architettonico – e un tale assunto appare dotato di senso se e quando si voglia cogliere l’originalità di Baz̆enov o di Starov, di Rossi, di tanti altri ancora, nel confronto ravvicinato con la coeva architettura, poniamo, francese o inglese o italiana – urge motivarne il senso. Si dovrà allora rilevare come e quanto gli stessi architetti italiani e ticinesi attivi in Russia, a cominciare proprio da Luigi Rusca o Vincenzo Brenna, acquisiscano a poco a poco per così dire il lessico russo, senza rinunciare alla propria cultura architettonica e semmai enfatizzandola ed esaltando i propri modelli ideali, secondo l’esempio offerto dal bergamasco Giacomo Quarenghi nei confronti di Palladio. Da Carlo Rossi a Domenico Adamini, a Osip Bove e Domenico Gilardi, tutti costoro finiscono per avvicinarsi sempre di più ai colleghi autoctoni, condividendo con questi ultimi progetti, cantieri, idee. Ma è questione delicata. Giacomo Quarenghi docet, gli “abusi” derivanti, in molti casi, da Andrea Palladio, unitamente all’antico, l’altro alimento costante della sua architettura, finiscono per risentire, sia pure in modo del tutto particolare, del clima russo. Ciò si palesa in questo o quell’elemento di dettaglio, per esempio nelle cosiddette Botteghe del Gabinetto imperiale presso Palazzo Anic̆kov che si pongono come filtro architettonico magniloquente tra spazio esterno al perimetro del complesso architettonico e spazio interno, e come segno del linguaggio aulico e filo-palladiano dell’autore commisurato però allo scenario pietroburghese. Lo stesso dicasi per altri architetti di cultura italiana, come lo scozzese Charles Cameron. Quest’ultimo, nel suo esaltare i canoni classici e nel contempo la fantasia e libertà creativa dell’architetto-artista, nel richiamare l’antico con puntigliosità filologica pari solo alla propria libera interpretazione delle vestigia classiche, giocata nei dettagli più piccoli e sfuggenti, finisce per lasciarsi attrarre dall’unicità dello scenario russo, e addirittura per far sua tale eccezionalità, esibendo una progettualità eccentrica, rispecchiamento della committenza russa. Gianni Mezzanotte riconduce alla centralità del problema della cultura italiana: un costruire più vicino al gusto di Caterina II, nonché più concretamente disponibile rispetto alle condizioni reali in cui si va ad operare, poiché più aperto e flessibile, per un verso, se pensiamo a Quarenghi, sulla scorta del vocabolario essenziale di Palladio che interpreta e aggiorna l’antico – per di più, si deve aggiungere, attraverso le tavole del suo trattato, finalmente tradotto dal colto Nikolaj A. L’vov in russo, che vengono prefigurando il linguaggio comunicativo esplicitato dalle planches dell’Encyclopédie – per l’altro, tornando alla prassi, facendo leva sulle potenzialità offerte dalla pratica di cantiere intesa come una capacità operativa che determina la stessa definitiva soluzione architettonica d’assieme. Viene dunque ad assumere rilievo la gestione del cantiere, il patrimonio di esperienze derivanti dalla stratificata cultura architettonica italiana che fonda il proprio prestigio precisamente sulla bontà XXIX dei risultati raggiunti in economia di mezzi e con sorprendente rapidità. Esattamente quanto preme alla committenza russa e dunque farà, sempre, la differenza, sia sotto l’esigente e impaziente Caterina, sia sotto Paolo I che, infine, durante il regno di Alessandro, sulle cui spalle pesa l’obbligo, inculcatogli dalla terribile nonna, di portare a compimento il suo grandioso disegno e con esso il programma edificatorio. Tutto questo presuppone, per esempio in Quarenghi, da un lato la capacità di definire soluzioni applicabili in differenti occasioni, e quindi di saper risolvere proprio sul cantiere le più complesse situazioni contingenti senza mai rinunciare al proprio linguaggio, essenziale e sicuro, dall’altro di sapersi servire di collaboratori efficienti come, su tutti, Tomaso Adamini. È allora inevitabile e anzi necessario introdurre immediatamente un’altra essenziale sezione del volume, quella dedicata agli Architetti e costruttori ticinesi nella Russia neoclassica. Non solo “tra corte e cantiere”, e neppure soltanto sulle tracce degli “architetti e costruttori ticinesi” attivi nella Russia neoclassica, da Rusca agli Adamini, il saggio di Nicola Navone opera una ben più larga e articolata ricognizione e una riflessione critica assai più ricca riallacciandosi in buona sostanza al portato dell’esperienza e della perizia di cantiere, che per tradizione antica vede i ticinesi prevalere sugli altri e farsi valere come onesti lavoratori o meglio come Giovanni Battista Gilardi, nelle parole di Francesco Camporesi, “très diligente et le plus grand praticien que nous avons jamais eu ici”. E si andrà allora, com’è stato detto in merito a Domenico Fontana (lo ricorda proprio Navone), a ragionare con le cose piuttosto che con i concetti e le parole. Il riverberarsi in questa affermazione di una procedura radicata all’esperienza e al cantiere che, stando anche a Mezzanotte, finisce per attribuire grande rilevanza alla componente tecnico-empirica, pare dunque riaffermare una più generale tendenza che vede coinvolti e da protagonisti i ticinesi, ma vede anche implicati i russi, infine gli italiani e suggerisce dunque che il successo schiacciante del bergamasco Quarenghi sia dovuto, in buona misura, proprio a questo, alla sua indiscutibile capacità di gestione del cantiere e alla sua abilità procedurale. La capacità di risolvere ogni tipo di problema sul campo, nel vivo cioè dell’attività del cantiere, senza dover mai né fermare i lavori né abdicare alle contingenze, sovente nell’inospitale Russia straordinariamente invasive, subordinando o modificando la propria idea architettonica ai vincoli concreti. Inoltre, c’è da rilevare un elemento messo in luce da Navone che aggiunge, tramite la menzione del berlinese Carl Ludwig Engel – attivo tra 1815 e 1816 – e del ticinese Luigi Rusca (che pubblica i suoi rilievi nel 1810), nonché del russo Nikolaj A. L’vov, precisazioni sulle procedure di cantiere, chiarimenti in merito al ruolo assunto dagli imprenditori, producendo una situazione molto vicina a quella odierna. Alla tecnica e alle ragioni della prassi che viene evolvendosi nel cantiere, vengono a dare altri contributi autori come Marija V. Nikolaeva, la quale affronta, pur succintamente, l’organizzazione dell’edilizia attraverso i capomastri italiani e ticinesi. Certo che il fervore dei cantieri che si aprono in ogni regione dell’impero e di cui Nicola Navone viene a dire con slancio e con dovizia di particolari, riallacciandosi idealmente non solo agli altri testi sin qui richiamati, più specificamente rivolti a tali problematiche, ma anche, per esempio, al saggio di Marija B. Michajlova, quest’incredibile fervore stupisce. Se vi sommiamo, poi, quanto viene scritto da coloro i quali si sono dedicati alle novità che concernono Mosca, rispettivamente Igor A. Bondarenko, che tratteggia la ricostruzione di Mosca dopo l’incendio del 1812, Julija G. Klimenko, la quale approfondisce invece il sorgere delle idee neoclassiche nell’architettura e nell’urbanistica moscovite e ancora quanto scrive Alessandra Pfister in merito a Domenico Gilardi, grazie all’intreccio consentito da questi interventi che arricchiscono di sempre nuovi elementi il quadro complessivo, si può avere una visione sufficientemente impressionante dello sforzo compiuto nella Russia neoclassica. Si tratta davvero di un impegno straordinario attuato da schiere di architetti e maestranze mobilitate in ogni parte della Russia. Un’attività che coinvolge tutte le province, ogni città, riallacciandosi idealmente e concretamente, proprio per la rilevanza che finisce per assumere quest’attivismo costruttivo, all’ossessione edificatrice da cui la storia dell’architettura neoclassica russa ha preso avvio e che accendeva l’animo di Caterina II; un’ossessione che, evidentemente, si è spenta solo all’esaurirsi della stagione classicista. A ben osservare in un microcosmo particolare come Carskoe Selo – su cui si hanno svariati apporti XXX di Frank, di Angelini, di altri ancora –, un microcosmo che si modifica e si completa attraverso gli interventi di molti autori al seguito di Cameron ma anche di Quarenghi, di Neelov, di Felt’en e tutti gli altri presenti al fianco di architetti e capomastri, si ha testimonianza indiscutibile di quanto e come costoro offrano un repertorio emblematico e frammentario di tipologie e simboli finalizzati a reificare il mito dell’antico e appropriarsi così della sua eredità. Come pure intenti a reinventare fantasticamente mondi lontani (Cina, India), ma anche le fantasie remote e arcaicizzanti di Bomarzo, oltre che i giochi d’acqua di Tivoli ed altro ancora, fino a superare la soglia della realtà e azzardare una pura surrealtà in cui possa dominare, sfrenatamente, la fantasia. Inoltre qui si attua una sottile quanto “parlante” allegoria, di cui scrive nel suo intervento Piervaleriano Angelini. Infatti, come viene a dire quest’ultimo, il parco finisce per assumere una valenza allegorica suggestiva e in sé rivelatrice, la quale può aprire un varco inesplorato nei confronti della elaborazione concettuale e della stessa disposizione mentale di Caterina, spiegando almeno in parte l’attenzione per ogni dettaglio non solo architettonico ma anche ornativo dedicato dall’imperatrice alle sue fabbriche. Questo, del resto, trova nuova conferma nei complessi apparati ornativi che traducono in un preciso completamento simbolico e nel contempo capriccioso o frivolo e decisamente giocoso la decorazione, le quadrature prospettiche, gli stucchi e quant’altro viene a suggello ed è necessario complemento di una tale suntuosa “residenza”. Il fenomeno non si limita a questa sola residenza imperiale, ma è riscontrabile anche negli stabilimenti pubblici e nei privati palazzi della capitale, delle altre città russe, dando nuovo significato e valore, pertanto, alla decorazione e in generale all’ornato che si fa sempre più complesso e ricco. Studiarlo può voler dire esplorare quell’incredibile patrimonio decorativo tanto illuminante in merito al gusto e al ruolo sociale giocato dall’architettura russa in età neoclassica. Anna Maria Matteucci Armandi approfondisce la decorazione e la scenografia – dove si ha una tradizione d’eccellenza, risalente ai Bibiena, ad altri bei nomi – e apre tutto un discorso particolare nei riguardi dell’attività teatrale e di quella musicale e in ultimo di altre manifestazioni che, come la danza, diverranno un vanto russo. Interessandoci a decorazione e scenografia andiamo, al seguito di questa studiosa, ad esplorare un vichiano “universo mondo” parallelo a quello architettonico ma non meno interessante, un mondo parallelo che si lega strettamente alle realtà architettoniche e non di rado ne svela i più reconditi significati, un mondo dove l’architettura costruita è sostituita da quella rappresentata, provocando infine spunti di riflessione, di suggestioni e di accattivanti aperture. Dunque questi saggi bene introducono, attraverso diversificate e complementari analisi, ricche di documenti, alle rispettive sezioni, Tradizione italiana e innovazione classica nella decorazione degli interni e Il mondo teatrale. Nell’andare a rileggere, sollecitati pure da questi ultimi rilievi, i testi, rispettivamente, di Androsov e di S̆vidkovskij, in cui, attraverso un grand’angolo che ricollega tra loro una molteplicità di elementi, si delineano le trame che saldano la corte alla società del tempo e al paese, in cui ancora si percepisce in tutta la sua unicità la diversità della Russia neoclassica rispetto al resto d’Europa, si può finalmente intendere meglio entro quale scenario venga ad affermarsi questa attività edile che vede imporsi l’esperienza e la cultura architettonica italiana. Forse sono sufficienti questi elementi per percepire la complessità dello scenario indagato, ma si potrebbe insistere nel presentare l’eccezionalità di cui stiamo ragionando attraverso sparsi rilievi in margine innanzitutto all’apporto iconografico del volume: vero e proprio testo nel testo, poi in riferimento ai molti approfondimenti presentati nell’insieme dei contributi critici, delle ampie schede tematiche, delle schede analitiche che si pubblicano. XXXI