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Strenna di Pagine d’Archeologia 3 2015 Luceria. Il sito archeologico dallo scavo alla valorizzazione Ciano d’Enza (RE) Atti della giornata di studi del 31 maggio 2014 a cura di Marco Podini e Francesco Garbasi Strenna di Pagine d’Archeologia 3 Musei Civici di Reggio Emilia Ministero per i Beni e le Attività Culturali e del Turismo Soprintendenza Archeologia dell’Emilia-Romagna con il contributo di a cura di Marco Podini e Francesco Garbasi Redazione: Francesco Garbasi Progetto grafico e impaginazione: Ufficio grafico Comune di Reggio Emilia Stampa: Centro Stampa Comune di Reggio Emilia Atti della giornata di studi Luceria. Il sito archeologico dallo scavo alla valorizzazione Ciano d’Enza (RE), 31 maggio 2014 Ministero per i Beni e le Attività Culturali e del Turismo Soprintendenza Archeologia dell’Emilia-Romagna con il patrocinio di Comune di Canossa in collaborazione con Associazione Amici di Luceria Gruppo Archeologico VEA In copertina disegno di Alessandro Prampolini, veduta di Ciano d’Enza (RE) con scavo della strada romana (Archivio dei Musei Civici di Reggio Emilia) © 2014 Testi Comune di Reggio Emilia Musei Civici Via Palazzolo, 2 – 42121 Reggio Emilia www.museicivici.re.it ISSN 1593 2435 Indice Presentazione Roberto Macellari e Iames Tirabassi Prefazioni Marco Edoardo Minoja Enzo Musi Gianni Borghi Marco Podini, Francesco Garbasi VII VIII IX X XI Introduzione La potenzialità archeologica del territorio di Luceria Elisabetta Cavazza, Iames Tirabassi, Marco Podini 3 Parte 1 – Antica Luceria: archeologia in Val d'Enza Il progetto di scavi a Ciano d'Enza (RE) di Gaetano Chierici. Alle origini del Museo di Reggio Emilia Roberto Macellari 27 Liguri ed Etruschi lungo la via dell’Enza Daniela Locatelli 37 Luceria tra Liguri e Romani alla luce degli scavi degli anni Ottanta Luigi Malnati 57 I Romani nella Pianura Padana e a Luceria: occupazioni, integrazioni e ibridismi culturali Enzo Lippolis 67 V Strenna 1-2013 di Pagine d’Archeologia Parte 2 – Tutela e valorizzazione a Luceria: nuove prospettive e possibili modelli di promozione culturale in ambito archeologico Gli interventi di consolidamento, restauro ed allestimento didattico di Luceria (Canossa, RE) Renata Curina, Anna Losi 81 Professionisti e associazioni di volontariato: opportunità di crescita e definizione dei rapporti reciproci Filippo Fontana, Francesco Garbasi 93 Valorizzare è far rivivere. La gestione del patrimonio culturale come snodo cruciale Donatella Girotto, Giuseppe Marangoni 101 Prehistoric Art Museum of Mação (Portugal): a project of culture, education and science Sara Cura, Luiz Oosterbeek 107 VI/ Presentazione Roberto Macellari Funzionario Reti e Servizi Culturali dei Musei Civici di Reggio Emilia Iames Tirabassi Già Funzionario Reti e Servizi Culturali dei Musei Civici di Reggio Emilia La collana “Strenna di Pagine di Archeologia”, nata con l’intento di ofrire occasioni di approfondimento monograico senza il vincolo di una periodicità predeinita, giunge al terzo volume, che, come i due che lo hanno preceduto, accoglie gli atti di una giornata di studi (Luceria. Il sito archeologico dallo scavo alla valorizzazione), che si svolse a Ciano d’Enza il 31 maggio del 2014. Anche in questo caso la pubblicazione segue l’evento in tempi relativamente ristretti grazie alla collaborazione che hanno oferto sia gli Autori dei contributi scientiici sia i Colleghi dell’Uicio graico e del Centro Stampa del Comune di Reggio Emilia. Come i due volumi che l’hanno preceduta la nuova “Strenna” è dedicata ad un convegno promosso dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Emilia Romagna, che aveva lo scopo di valorizzare un’area archeologica del territorio reggiano, quella di Luceria. Il Museo di Reggio Emilia negli oltre 150 anni della propria storia non ha mai mancato l’obbligo istituzionale di proporre la propria centralità nella conoscenza, tutela e valorizzazione del patrimonio archeologico provinciale, per l’impostazione voluta dal fondatore e poi mai tradita dai suoi successori. Queste considerazioni valgono in modo speciale per il sito di Luceria, caro a don Gaetano Chierici in dai giorni in cui non esisteva ancora un Gabinetto di Antichità Patrie a Reggio Emilia, il cui primo manufatto regolarmente inventariato sarebbe stato proprio un oggetto di ornamento rinvenuto nei pressi di Ciano d’Enza. Il convegno è anche stato occasione per mettere a fuoco il contesto territoriale e storico nel quale Luceria si inserisce e ciò grazie al fatto che il Comune di Canossa è stato uno dei primi della provincia reggiana a dotarsi, nell’ambito del Piano Strutturale Comunale, della Carta della Potenzialità Archeologica, per realizzare la quale è stato necessario produrre una carta aggiornata. VII Strenna 1-2013 di Pagine d’Archeologia Marco Edoardo Minoja Soprintendente Archeologia dell’Emilia Romagna L’apertura al pubblico dell’area archeologica di Luceria ha rappresentato, per questa Soprintendenza, il conseguimento di un nuovo e importante traguardo nell’ambito delle attività di tutela e valorizzazione del patrimonio monumentale di questa straordinaria e ricchissima regione. L’inaugurazione del sito conferma, inoltre, la realtà di una presenza archeologica difusa all’interno del territorio regionale, segno della vocazione di questo comparto all’insediamento sin dalla più alta antichità. Un territorio da sempre strategico nelle dinamiche di occupazione e di transito, connotato da valli luviali di grande importanza per le connessioni tra le diverse regioni d’Italia e da fertili pianure adatte all’occupazione stabile e in grado di garantire prosperità economica; un territorio che si caratterizza, oggi come nell’antichità, proprio per la presenza capillare e persistente di città, villaggi e nuclei insediativi. Luceria fu uno di questi: dall’età repubblicana sino alla tarda età imperiale essa costituì un presidio strategico allo sbocco della valle dell’Enza; una valle che ricoprì nel tempo una funzione importante di collegamento tra la pianura del Po e i valichi appenninici, che collegano il mondo padano con il comparto tirrenico nelle sue varie accezioni e componenti. VIII/ Gli scavi hanno restituito nel tempo una isionomia a questo luogo importante; scavi iniziati già alla ine del Settecento, portati avanti, nel secolo successivo, grazie alle imprese archeologiche di Gaetano Chierici, proseguiti negli anni a cavallo tra il Novecento e il nuovo millennio a cura della Soprintendenza in collaborazione con l’Amministrazione e le Associazioni locali, e oggi aperti al pubblico che può inalmente appropriarsi di un nuovo importante strumento di conoscenza e di contatto con le proprie radici culturali. Con quest’apertura e con la pubblicazione degli Atti del convegno Luceria. Il sito archeologico dallo scavo alla valorizzazione tenutosi in occasione dell’inaugurazione il 31 maggio del 2014, si compie dunque non solo un percorso di conservazione e valorizzazione di un sito, ma anche un progetto di conoscenza e di ricerca archeologica, con ampie e imprevedibili potenzialità di sviluppo. Sono, queste, le tappe fondamentali che deiniscono il più corretto adempimento delle funzioni assegnate alla tutela del nostro patrimonio culturale, assicurandone la salvaguardia e destinandolo alla pubblica fruizione. Solo in questo modo è possibile raggiungere quell’obbiettivo di crescita culturale che rappresenta uno dei principi fondamentali tutelati dalla stessa Carta Costituzionale. Enzo Musi Sindaco di Canossa Luceria costituisce uno degli abitati di maggiore interesse nella provincia di Reggio Emilia, rimasto in vita, senza soluzione di continuità, dal II-I sec. a.C. ino a circa il V sec. d.C. Il sito è importante sia per la posizione occupata, corrispondente al punto in cui il iume Enza raggiunge l’alta pianura, lungo un asse di percorrenza strategico in dall’età protostorica, sia perché ha restituito informazioni fondamentali soprattutto per quanto riguarda le dinamiche dell’insediamento antico in questo territorio. Riscoperto in circostanze casuali alla ine del XVIII sec., l’abitato fu indagato da Don Gaetano Chierici fra il 1860 e il 1866, che riportò alla luce tombe tardo repubblicane con arredi “ibridi”, che rivelavano chiare persistenze culturali di ambito ligure. Gli scavi più recenti, condotti tra il 1983 e il 2008 dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Emilia Romagna, in collaborazione col Comune di Canossa, l’Associazione “Amici di Luceria” e con il supporto della “Fondazione Manodori”, hanno invece portato alla luce resti signiicativi della fase romana, ancora perfettamente leggibili e oggi inalmente resi fruibili per il grande pubblico. Il Comune di Canossa attraverso un piano di valorizzazione ha riqualiicato l’area, recintandola, realizzando un percorso visitabile all’interno, con passerella e apposita cartellonistica didattica di approfondimento ed ha realizzato un piccolo centro visita che ospita materiali promozionali del territorio. Al ine di favorire la fruizione del sito, questo è stato raccordato tramite apposite segnaletiche sia al percorso ciclopedonale lungo il Canale Ducale d’Enza, sia alla strada provinciale. L’inaugurazione dell’area archeologica di Luceria ha costituito un’occasione importante per fare il punto sulle ricerche passate e recenti, relazionandole alle ultime scoperte efettuate nel territorio e collocandole in una cornice di più ampio respiro scientiico. Il sito è ora gestito dall’Associazione di Volontariato locale “Amici di Luceria” tramite una convenzione con il Comune ed è promosso con visite guidate e attività didattiche nelle scuole svolte da archeologi del Gruppo Archeologico Vea. È intendimento dell’Amministrazione implementare la promozione turistica di Luceria, mettendola a sistema con l’area dei Castelli matildici e la Riserva Regionale della Rupe di Campotrera. IX Strenna 1-2013 di Pagine d’Archeologia Gianni Borghi Presidente Fondazione Manodori Quando si giunge alla conclusione di un progetto e si possono mettere i risultati a disposizione della comunità è per la Fondazione Manodori motivo di grande soddisfazione, soprattutto per avere contribuito alla crescita culturale e sociale del territorio. Questo volume sul sito di Luceria costituisce, infatti, un moderno contributo, scientiicamente fondato, intorno ad una località abitata in età romana, di cui si conoscevano soltanto sporadiche informazioni uscite dagli scavi archeologici dei secoli passati. Le ricerche e gli studi più recenti, documentati nel libro, rivelano per l’età antica una persistenza di vita e un fervore economico nell’area gravitante sulla valle dell’Enza la cui continuità attraverso i secoli conduce ino a noi. X/ Nel volgere dei secoli, il territorio che aveva visto lo sviluppo dell’insediamento romano ha continuato la sua funzione di snodo viario e di richiamo economico sociale. Luceria, come centro gravitazionale, è stata sostituita in età cristiana dalla vicina pieve di San Polo, costruita in parte con materiali di spoglio provenienti dall’antico centro romano, e dal castello di Canossa, destinato a un ruolo centrale nella politica europea dei secoli successivi. Queste ricerche non incrementano soltanto le conoscenze storiche sul territorio reggiano, ma incrementano l’oferta di una nuova meta turistica, che ci auguriamo possa avere nel tempo positive ricadute economiche per la località e diventare laboratorio di apprendimento per gli studenti e le nuove generazioni. Marco Podini Funzionario Soprintendenza Archeologia dell’Emilia Romagna Francesco Garbasi Archeologo, Presidente del Gruppo Archeologico Vea L’inaugurazione dell’area archeologica ha costituito un’occasione importante per fare il punto sulle ricerche passate e recenti, relazionandole alle ultime scoperte efettuate nel territorio e collocandole in una cornice di più ampio respiro scientiico. La giornata di studi ha rapprsentato anche la sede più adatta per illustrare i passi compiuti e i criteri perseguiti nel fondamentale passaggio “dallo scavo alla valorizzazione” del sito di Luceria, nonché un’occasione irrinunciabile per interrogarsi sulle scelte da compiere, oggi e domani, per la gestione e la promozione dell’area archeologica. Il Convegno è stato articolato in due parti principali: la prima dedicata all’approfondimento degli interventi di ricerca svolti a Luceria da metà ottocento sino ai giorni nostri; la seconda alle opere di consolidamento, restauro e valorizzazione dell’area, queste ultime tutt’ora in ieri. Questa struttura, arricchita da un articolo introduttivo dedicato all’analisi delle evidenze archeologi- che del territorio, permette di avere una visione completa sulle problematiche e sulle potenzialità del sito. Inine si è scelto, per mostrare possibili modalità di gestione dell’area all’interno del contesto territoriale, di aprire il convegno a operatori culturali e studiosi che hanno saputo, in contesti diversi ma con problematiche socio-culturali aini, intraprendere percorsi di valorizzazione eicaci che hanno portato giovamento nei rispettivi contesti d’intervento. La pubblicazione degli Atti del Convegno permette la difusione delle conoscenze acquisite nel corso di anni di ricerche e si qualiica come base aggiornata dalla quale partire per condurne nuove. L’effettiva opera di valorizzazione, ancora ai primi passi, avrà il compito di implementare l’oferta culturale del territorio e, anche grazie allo stimolante esempio fornito da altre realtà, saperne cogliere le potenzialità, sviluppandone i legami con l’attuale contesto socio-economico. XI Introduzione Elisabetta Cavazza / Marco Podini / Iames Tirabassi La potenzialità archeologica del territorio di Luceria Elisabetta Cavazza Architetto consulente Regione Emilia Romagna Marco Podini Funzionario Archeologo Soprintendenza Archeologia dell’Emilia Romagna Iames Tirabassi Già Funzionario Reti e Servizi Culturali dei Musei Civici di Reggio Emilia Paesaggio, archeologia e pianificazione: elementi introduttivi Il Paesaggio, in quanto sistema complesso costituito da componenti diverse, variamente e reciprocamente relazionate, accoglie necessariamente modalità di lettura diferenziate a seconda dell'osservatore. Il punto di vista dell'archeologo, ad esempio, non può che essere di tipo analitico: la comprensione dei siti e dei dati materiali restituiti dal territorio, come delle modalità insediative del popolamento antico, si fonda su metodi rigorosamente scientiici e aferenti a speciici ambiti disciplinari. Il pianiicatore, dal canto suo, concepisce il paesaggio essenzialmente come uno “spazio progettuale”, id est come “insieme” che va sì compreso nella sua stratiicata complessità storica, ma anche reinterpretato alla luce delle nuove esigenze della comunità che lo popola. In un’ottica di pianiicazione, dunque, il tema archeologico costituisce soltanto una delle numerose componenti di tale complessità. L’approvazione, nel giugno del 2010, del Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale (P.T.C.P.) e delle relative norme di attuazione ha reso obbligatorio, per i Comuni della Provincia di Reggio Emilia, la redazione della “Carta delle potenzialità archeologiche” quale strumento conoscitivo facente parte dei Piani Strutturali Comunali (P.S.C.). In tale scenario, il Comune di Canossa ha avviato nel 2014 la redazione della propria Carta, incaricando un gruppo di lavoro interdisciplinare composto da Iames Tirabassi, archeologo, Elisabetta Cavazza, architetto, e Emanuele Porcu, esperto per gli aspetti informatici. La nascita, lo sviluppo e il perfezionamento delle carte di potenzialità costituisce, com’è noto, l’esito di un dibattito avviato ormai più di vent'anni fa. Il punto di partenza risiede nell’esigenza, fortemente sentita anche da parte delle pubbliche amministrazioni, di includere il “fattore archeologico” già in fase di progettazione, ainché il rinvenimento possa rappresentare non più un avvenimento fortuito, ma una componente integrante del progetto. Il processo di elaborazione di tali strumenti per il territorio reggiano è iniziato da pochi anni e, sotto molti punti di vista, è da considerarsi ancora in fase sperimentale. Per tale ragione, le carte sinora prodotte e vigenti non sono semplicemente “integrabili” a livello di quadro conoscitivo, in funzione dei nuovi dati archeologici eventualmente provenienti dal sottosuolo, ma perfezionabili anche in termini di impostazione e restituzione, in virtù degli esiti e delle ricadute che dimostreranno di avere sul territorio. Un passo fondamentale, in tal senso, è stato recentemente compiuto grazie alla pubblicazione, da parte della Regione Emilia-Romagna, delle “Linee guida per l’elaborazione della Carta delle potenzialità archeologiche del territorio”, redatte in collaborazione con la Soprintendenza per i Beni archeologici dell’Emilia-Romagna. Queste costituiscono uno strumento uiciale di indirizzo condiviso con la inalità di armonizzare le esigenze diversiicate e spesso contrastanti della pianiicazione, da un lato, e della tutela archeologica, dall'altro. Da questo punto di vista, le Linee guida rappresentano un passaggio ulteriore dalla teoria alla pratica, prevedendo l’elaborazione di ricadu- 3 Strenna 3-2015 di Pagine d’Archeologia te normative da inserire negli strumenti urbanistici, nonché esplicitando l’applicazione procedurale. Tornando alle considerazioni iniziali, il lavoro di redazione delle carte di potenzialità sul territorio reggiano sta dimostrando come i due sopramenzionati “approcci di lettura” – quello dell'archeologo e quello del pianiicatore – possano trovare un punto di incontro, integrandosi reciprocamente e producendo strumenti nuovi e utili per la gestione del territorio e il contenimento delle risorse, utilizzando lo studio archeologico del territorio ai ini della pianiicazione urbanistica. Una duplice natura di cui, in questa sede, interessa soprattutto la componente di ricerca archeologica. Preme, in particolare, evidenziare come l'indagine efettuata sul territorio di Canossa abbia contribuito alla conoscenza del territorio, raccogliendo e sistematizzando dati e documenti d'archivio in parte inediti, nonché efettuando un'importante attività di ricognizione, attività che hanno condotto anche all'individuazione di nuovi siti. La Carta delle potenzialità archeologiche di Canossa, dunque, non va intesa soltanto come strumento funzionale a una migliore gestione del territorio, ma come presupposto di conoscenza e di valorizzazione culturale dello stesso. Questo tratto di val d’Enza acquisisce così un valore ulteriore che si associa alle componenti paesaggistiche immediatamente percepibili, ora maggiormente comprese nella loro dimensione storico-archeologica. Il territorio può rappresentare così un museo difuso, in continua evoluzione, di cui i nuovi strumenti di pianiicazione divengono espressione anche di una politica culturale condivisa a livello istituzionale. (E.C. e M.P.) Riferimenti bibliografici E. Cavazza (a c.), Linee guida per l'elaborazione della Carta delle potenzialità archeologiche del territorio, Bologna 2014. C. Guarnieri (a c.), Progettare il passato. Faenza tra pianiicazione urbana e Carta Archeologica, Firenze 2000. M. Podini (a c.), Tutela archeologica e progresso: un accordo possibile, Atti del convegno del 19 maggio 2012, Reggio Emilia 2013. Caratteri del sistema insediativo nelle diverse fasi di antropizzazione del territorio di Canossa Il lavoro per redigere la carta delle evidenze storico-archeologiche e quella di potenzialità del Comune di Canossa ha attraversato diverse tappe. In primo luogo, è stato necessario raccogliere i dati archeo- 4/ logici editi e inediti relativi alla ricerca scientiica, svoltasi, per questo territorio, nel corso di tre secoli, a partire dal ’700 ad oggi. Purtroppo, una parte signiicativa dei dati non era suicientemente circostanziata e, solo in certi casi, la ricerca d’archivio ha consentito di puntualizzare il luogo di rinvenimento o di deinirne meglio le caratteristiche. Paradossalmente, ciò è stato più facile con i dati antichi che con quelli recenti poiché, per questi ultimi, a volte, si disponeva solo di una segnalazione areale generica o di una coppia di coordinate, risultate poi palesemente errate. La schedatura dei siti e delle segnalazioni è avvenuta mediante una metodologia ormai consolidata e messa in atto inizialmente per redigere il P.T.C.P., quindi continuamente perfezionata attraverso i P.S.C. di Campegine, Castelnovo ne’ Monti, Bagnolo, Bibbiano, per arrivare a quello attuale di Canossa. La schedatura dei siti, volutamente schematica, identiica le principali caratteristiche geo-morfologiche del luogo, le condizioni strutturali e conservative, la profondità di giacitura, ecc. e ne fornisce una cronologia relativa e una bibliograia essenziale. Nelle “schede di sito” troviamo tutti i rinvenimenti che rappresentano emergenze di cui è stato possibile accertare l’ubicazione e l’estensione presumibile, mentre in quelle “di segnalazione” si collocano tutte le emergenze, mal documentate e/o solo approssimativamente o diicilmente ubicabili, oltre che i reperti e i manufatti archeologici sporadici. Una volta conclusa questa raccolta di dati, si è passati a cartografarli. Contemporaneamente sono state efettuate delle ricerche di supericie nelle aree che apparentemente sembravano più vocate all’insediamento o che rappresentavano zone con rinvenimenti mal documentati. L’insieme di questi dati ha consentito di produrre una carta archeologica convenzionale del noto, parzialmente integrata, in più punti, da una ricerca sistematica di supericie che documenta anche le aree prive di stanziamenti umani aioranti. Questa carta che rappresenta la base di studio dell’antropizzazione del territorio è stata impiegata in seguito per ipotizzare la potenzialità delle varie formazioni geologico-morfologiche. Ha però anche consentito di formulare una piccola sintesi storico-archeologica del territorio che riassumiamo rapidamente qui di seguito. Dal Paleolitico al Mesolitico Il territorio del Comune di Canossa comprende una delle poche paleosuperici di età pleistocenica dell’Appennino Reggiano, la quale risulta essere anche Cavazza / Podini / Tirabassi La potenzialità archeologica del territorio di Luceria quella più estesa: Selvapiana. Proprio su di essa sono state rinvenute, in momenti diversi e in più punti, le tracce della frequentazione umana. A Ca’ La Selva e Selvapiana, a Case Predella e a Case Predella est, a partire dagli anni ’70 del secolo scorso e ino ad oggi, sono stati raccolti diversi manufatti litici (ig. 1a,b) che, dopo lo studio scientiico delle industrie del Ghiardo, sappiamo di poter attribuire al Paleolitico Medio di tipologia musteriana. I reperti non sono molti, ma si trovano in giacitura primaria e pertanto abbandonati lì dove oggi li ritroviamo. Essi riaiorano alla supericie dei campi in seguito ad arature profonde che intaccano i depositi loessici al cui interno sono rimasti Fig. 2. Manufatti in pietra di età paleolitica da Rossena. sono stati rinvenuti tre manufatti (ig. 2) apparentemente coevi a quelli di Selvapiana. Inine va messo l’accento sul vasto terrazzo posto a valle di Ciano d’Enza, quello cioè che conserva i resti dell’antica Luceria. Probabilmente su questo terrazzo sono stati raccolti due manufatti che vengono detti paleolitici, ma che il segnalatore non documenta con disegni o foto. Purtroppo, trattandosi di determinazioni fatte da membri della Società Reggiana d’Archeologia, un’associazione di appassionati locali, l’attribuzione, senza vedere i reperti, resta ipotetica. Certo è che questo terrazzo, che anche la carta geologica deinisce pleistocenico, risulta frequentato in età paleolitica dato che poco più a valle, in località Fontaneto, il Chierici, nell’Ottocento, segnalò un sito di tale età. Come capita nei ben più estesi e studiati terrazzi pleistocenici dell’alta pianura, anche qui dal Paleolitico Medio in poi ci sono state frequentazioni saltuarie che hanno lasciato le loro tracce in vari punti. Fra i reperti neo-eneolitici raccolti verso il margine del terrazzo, all’altezza di Luceria, dalla Società Reggiana d’Archeologia in più riprese è presente anche un piccolo nucleo in selce a lamelle che potrebbe risalire al mesolitico, così come a tale età sono forse da riferire due-tre schegge fra quelle rinvenute. Fig. 1. Manufatti in pietra di età paleolitica da Ca’ La Selva (a), Selvapiana (b) e Albareto (c). conservati per circa 60.000 anni. Lembi di paleosuperici simili sono segnalate sulla carta geologica anche a Trinità e ad Albareto, ma è solo in quest’ultima località che un ennesimo manufatto paleolitico fu rinvenuto nell’ultimo quarto del secolo scorso (ig. 1c). Un modestissimo lembo di paleosupericie analoga sembrerebbe poi essere conservata a nord della rupe oiolitica di Rossena, dove su un piccolo pianoro Neolitico ed età del Rame Come ben sappiamo in età neolitica l’insediamento nella montagna è del tutto eccezionale, fatte salve alcune piccole aree pianeggianti che consentivano la semina dei cereali. Diversamente si tratta di frequentazioni occasionali volte a reperire materiali non presenti nei territori di pianura (prevalentemente rocce, minerali e fossili) o per integrare la dieta di pianura con carne derivante dalla caccia degli animali di montagna. È pertanto naturale che fuori da alcune modeste paleosuperici troviamo solo reperti 5 Strenna 3-2015 di Pagine d’Archeologia Fig. 3. Accetta da parata in pietra verde. singoli, prevalentemente accettine in pietra e cuspidi di freccia. Tali reperti risultano nel territorio di Canossa piuttosto numerosi se rapportati ad altre realtà dell’Appennino reggiano, forse perché proprio fra S. Polo e Canossa la valle dell’Enza sfocia in pianura allargandosi a ventaglio e fungendo così da invito alla penetrazione della montagna. Purtroppo le accettine, segnalate dai vari rinvenitori, non sono oggi rintracciabili fra le raccolte museali e pertanto non deinibili crono-tipologicamente, ma probabilmente alcune sono dell’età del Rame (ad esempio quella in diabase). Eccezionale è quella da parata rinvenuta nel 1910 durante i lavori per la costruzione della ferrovia RE-Ciano (ig. 3): purtroppo non conosciamo il luogo preciso in cui fu rinvenuta. Tre sole aree pianeggianti, la cima del Monte Tesa, il terrazzo luviale posto a valle di Ciano d’Enza e, in tono minore, Selvapiana sembrano aver rappresentato un territorio in cui gli uomini del Neolitico possono aver vissuto per un certo tempo. Purtroppo la prima di queste aree è soggetta a dilavamenti e colluvi che hanno rispettivamente asportato e sepolto le eventuali strutture preistoriche, per cui su di essa sono stati raccolti solo sporadici manufatti. La seconda e la terza, rappresentando alti morfologici, 6/ hanno subito sia il dilavamento naturale che le ingiurie dell’agricoltura moderna: anche in queste sono state rinvenute solo alcune selci. Rispetto all’età neolitica, quella del Rame dovrebbe aver lasciato maggiori tracce dato che sappiamo come la montagna in questo periodo fosse piuttosto frequentata. Prova ne siano le peregrinazioni dell’uomo del Similaun sulle vette delle Alpi, la citata presenza di una necropoli simile a quella di Remedello Sotto (BS) a Cerreto Alpi (notizia d’archivio ottocentesca di G. Bandieri), le statue stele della Lunigiana e del Trentino, le valli con incisioni rupestri della Val Camonica, Valtellina, Valle delle Meraviglie. Purtroppo, come molti dei siti presenti in montagna, anche quelli dell’età del Rame, anzi ancor più degli altri, dato che si tratta di strutture modeste sia per estensione che per tecniche costruttive, sono dificili da individuare. Al momento quindi nel territorio di Canossa non vi è nessun sito vero e proprio che abbia restituito tracce di abitazioni o di sepolture sia di età neolitica sia dell’età del Rame. Età del Bronzo A partire dalla media età del Bronzo anche in collina e in montagna si difonde la cultura terrama- Cavazza / Podini / Tirabassi La potenzialità archeologica del territorio di Luceria Fig. 4. Manufatti ceramici dell’età del Bronzo da Rossena. ricola che dalla pianura, dove ha realizzato le prime terramare, si estende ino alle cime della media montagna, ma, a causa delle intemperie invernali, non oltre i 1000 m. di altitudine. Nel territorio di Canossa diverse sono le cime idonee ad accogliere i siti dell’Età del Bronzo che necessitano di difese. Come ben sappiamo la ricerca di rocche naturali su cui impiantare i villaggi è particolarmente sentita a partire dalla ine del Bronzo Medio e per tutto il Bronzo Recente e Finale. Sedi privilegiate sono ovviamente i massicci oiolitici, le rupi calcaree e le cime più svettanti. Purtroppo tali emergenze geologiche sono state in seguito sede di castelli medievali e pertanto i siti più antichi sono stati distrutti per ediicare i grandi manieri. Nonostante ciò, attorno a questi castelli, lungo le pendici dei relativi monti che li ospitano, ad un occhio attento non sfuggono reperti protostorici caduti dalla cima lungo quelle che Leonardo De Marchi ha deinito, appunto, “linee di caduta”. Ovviamente il materiale può essere precipitato verso il basso sia durante la vita del sito protostorico sia durante gli interventi edilizi successivi. Fatto sta che attorno ai famosi castelli di Rossena e di Canossa (ig. 4) (in quest’ultimo caso anche alla sommità, come hanno dimostrato recenti scavi), ma ancor più lungo le pendici di quello di Ceredolo (ig. 5), sono stati raccolti numerosi frammenti ceramici della media e recente Età del Bronzo. Il solo sito non distrutto da interventi antropici successivi è quello che sta sul Monte di Faieto e che è stato oggetto di scavo, prima d’emergenza e poi scientiico, fra 1997 e 2000. Tale sito si sviluppò sia sulla cima del rilievo che sui ianchi del monte dove sono stati individuati due terrazzamenti adibiti a quartieri abitativi. Il più basso dei due è stato esplorato quasi completamente e a tutt’oggi risulta una delle migliori documentazioni relative ad abitati di montagna dell’età del Bronzo (ig. 6-8). Su questo terrazzo realizzato artiicialmente, la cui parete a monte venne protetta con un muretto a secco, gli abitanti protostorici realizzarono una ampia fossa trasversale aperta verso valle in modo da drenare la struttura. Sopra ad essa fu probabilmente collocato un impiantito ligneo sorretto anche da pali. Tale impiantito rappresentò il pavimento di una capanna. Una volta decaduta l’abitazione, l’area fu livellata e fu probabilmente ricostruita una nuova abitazione, questa volta non sollevata da terra. In ogni caso lo scavo ha evidenziato tre successivi momenti insediativi compresi fra il Bronzo Medio tardo (l’impianto della capanna) e 7 Strenna 3-2015 di Pagine d’Archeologia Fig. 5. Manufatti ceramici dell’età del Bronzo da Ceredolo. 8/ Cavazza / Podini / Tirabassi La potenzialità archeologica del territorio di Luceria Fig. 6. Faieto – Il terrazzino artificiale in corso di scavo. Fig. 7. Faieto – I resti della capanna in corso di scavo. 9 Strenna 3-2015 di Pagine d’Archeologia Fig. 8. Faieto – Planimetria delle strutture il Bronzo Recente evoluto (l’abbandono del terrazzo) (ig. 9). Nel corso degli scavi furono eseguiti diversi carotaggi anche sul contiguo Monte Pulce, più ampio e più elevato del Monte di Faieto, ma senza esiti. Anche le ripetute prospezioni su Monte Tesa, un rilievo di grande valenza strategica, ino ad oggi non hanno consentito di individuare alcun sito dell’Età del Bronzo. Certo è che nonostante la vicinanza con Servirola (S.Polo), abitato terramaricolo attivo fra Bronzo Medio pieno e Bronzo Finale, su tutto il territorio di Canossa non è aiorato alcun reperto del Bronzo Finale. Età del Ferro Per questa età si rimanda ai contributi di Daniela Locatelli e Luigi Malnati in questo volume e alla relativa bibliograia. Qui si puntualizzano solo alcune situazioni interne al Comune di Canossa. I siti dell’età del Ferro anteriori alla riconquista ligure del territorio etruscizzato sono solamente tre, ma di rilevante importanza. Innanzitutto abbiamo le tracce individuate occasionalmente nel 1978 a Luceria in un’area del pianoro che non fu mai esplorata scientiicamente. Pur essendo i materiali raccolti poca cosa, a causa delle condizioni precarie dell’intervento di recupero, essi evidenziano un’occupazione precoce, fra VI e V sec. a.C., di quello che sarà in seguito l’agglomerato urbano di età romana. Il secondo sito è Monte Tesa, collocato nel punto più alto di un aniteatro naturale che si afaccia sulla sottostante pianura controllandola visivamente per decine di chilometri. Questo sito, già noto al Chierici come Monte Atesio, ha restituito parecchi reperti ceramici databili al VI-V sec. a.C. (ig. 10), ma, non essendovi mai stato eseguito neppure un piccolo sondaggio, non siamo in grado di deinirne la valenza. Certa- 10/ mente si tratta di un punto di grande importanza strategica e forse anche cultuale. Si tenga conto dei signiicativi rinvenimenti di Età romana (vedi paragrafo successivo), della presenza di un’edicola votiva dedicata a S. Maria e di un punto geodetico nazionale. Il terzo sito di una discreta importanza, vista la quantità di reperti raccolti esclusivamente sulle già citate linee di caduta, è il Castello di Rossena, il solo dei tre che, oltre ai materiali etruschi, ne ha restituito di signiicativi di cultura ligure preromana (ig. 11). Purtroppo la documentazione di questa età, come di quella del Bronzo, è stata spazzata via dagli ediicatori del castello. Più vicine all’Enza troviamo invece le testimonianze liguri di età recente, cioè quelle che si riferiscono ad un Appennino in fase di romanizzazione. Innanzitutto le 11 tombe a cassetta di cremati trovate a sud di Luceria in località Conchello (ig. 12). Poi le due tombe andate disperse, di Currada, a poche decine di metri dal torrente, e di Selvapiana di cui non conosciamo l’ubicazione precisa. Purtroppo essendo state rinvenute in un periodo piuttosto buio della ricerca archeologica nel Reggiano, quello che ha coinciso con la direzione dei Musei Civici di Reggio Emilia da parte di Naborre Campanini, abbiamo solo dati generici e incerti. Età romana Anche per l’età romana e in particolare per Luceria si rimanda al contributo di Enzo Lippolis in questo volume e alla relativa bibliograia. Luceria è l’esito ultimo di una viabilità già presente nel VI-V sec. a.C., ma addirittura probabilmente già attiva come “pista” nell’età del Bronzo. Lontano da questa via i siti sono piuttosto rari e comunque collocati solo laddove sia possibile coltivare della terra. Era pertanto atteso Cavazza / Podini / Tirabassi La potenzialità archeologica del territorio di Luceria Fig. 9. Faieto – manufatti ceramici dell’età del Bronzo. 11 Strenna 3-2015 di Pagine d’Archeologia Fig. 10. Ceramiche etrusco-padane da Monte Tesa. di trovare abitazioni di una certa entità solo in aree pianeggianti e così è stato. Sul pianoro di Selvapiana, oltre a meglio deinire il ritrovamento di Case Predella risalente agli anni ’80 del secolo scorso, è stato possibile intercettarne uno nuovo in località Case Chiapponi sud-est. Nel primo caso sembra trattarsi di una domus piuttosto ampia per la montagna, oltre tutto nella sua periferia N-E erano attive almeno due fornaci, mentre nel secondo le dimensioni e la consistenza dell’ediicio, di cui sono rimasti i ruderi, sembrano ben più modesti, ma si tenga conto che il sito è stato visto arato per meno di un terzo e che in questo punto il terreno è meno stabile. Una terza costruzione, come anticipato nel paragrafo dedicato all’età del Ferro, è ubicata sulla cima di Monte Tesa e in fregio al sito etrusco. Si tratta di 12/ ceramiche e laterizi che non bastano a ipotizzare la funzione di un ediicio di età romana in un’area che è, sì, coltivabile, ma soprattutto strategica. Qui in anni recenti, sono state rinvenute numerose monete di età romana. Tale fenomeno, insolito già in pianura, è rarissimo in montagna e generalmente connesso alla presenza di tesoretti o di aree sacre (vedi Ponte d’Ercole nella montagna modenese). Va inine segnalato un piccolo sito posto a mezzacosta della sponda destra del torrente Enza in località Corte dei Re a Compiano. Altre testimonianze di età romana sono andate distrutte oppure non sono controllabili perché coltivate a prato stabile (Borzano Centro). Abbiamo invece testimonianze di età romana sul terrazzo luviale che ospita il vico di Luceria. Una Cavazza / Podini / Tirabassi La potenzialità archeologica del territorio di Luceria Fig. 11. Ceramiche etrusco-padane e liguri da Rossena. piccola necropoli di una decina di tombe, rinvenute nel 1909, ma andate distrutte a causa dei lavori per la costruzione della ferrovia RE-Ciano, tombe che qualcuno vuol vedere come pertinenti alla vera necropoli di Luceria, e un oggetto sporadico di bronzo (una ibula) trovato a Taverna. Insomma nel territorio di Canossa, oltre a Luceria, abbiamo complessivamente solo 4 siti e 5 segnalazioni, ma di questi solo tre hanno caratteristiche che consentono di considerarli sede di domus o di costruzioni di una certa consistenza. In ogni caso su nessuno di essi sono state condotte indagini di scavo. Età medievale e post-medievale L’età medievale, nonostante l’importanza del vico romano di Luceria, è il momento storico più signiicativo per il territorio di Canossa e di tutta la mon- 13 Strenna 3-2015 di Pagine d’Archeologia Fig. 12a. Planimetria fatta realizzare dal Chierici con evidenziata l’ubicazione della necropoli del Conchello. 14/ Cavazza / Podini / Tirabassi La potenzialità archeologica del territorio di Luceria Figg. 12b, c. Due delle tombe ad incinerazione esplorate al Conchello. Fig. 13a. La rupe ofiolitica di Pietra Nera. 15 Strenna 3-2015 di Pagine d’Archeologia Fig. 13b. Resti murari sulla cima della rupe di Pietra Nera. 16/ Cavazza / Podini / Tirabassi La potenzialità archeologica del territorio di Luceria Fig. 14. Conci d’arenaria presenti sul cocuzzolo che ospitò il castello di Borzano di Vetto (Comune di Canossa) tagna reggiana. Qui infatti si sono svolti molti degli eventi più importanti della vita e delle gesta di Matilde di Canossa. Purtroppo proprio per questo Canossa e Rossena, con l’adiacente torre di Rossenella, hanno eclissato la rimanente storia medievale di questo territorio. Ora invece possiamo dire che, grazie a segnalazioni e a sopralluoghi mirati, siamo riusciti a individuare diverse altre emergenze, anche se purtroppo non hanno lasciato grandi tracce. Rappresentano soltanto un punto di partenza nell’afrontare il tema dell’incastellamento minore in questo territorio e spronano a veriicare l’efettiva consistenza di tali ruderi. Trattandosi di ediici quasi completamente scomparsi perché prima distrutti da eventi bellici e poi probabilmente spoliati per recuperare materiale edile da riciclare, non sarà facile riportare in luce planimetrie signiicative. Serviranno comunque studi e lunghe e diicoltose ricerche d’archivio per ridare ad essi dignità storica. La loro storia infatti è al momento spesso avvolta nella nebbia, tant’è che i numerosi ricercatori locali raramente citano tali castelli. Infatti, se del castello di Ceredolo un fugace cenno viene fatto, del Castrum Praedae di Pietra Nera (ig. 13a,b) si ha notizia dalle ricerche archivistiche di Don Efrem Giovanelli sul passaggio dell’omonimo feudo dai Della Palude ai Pepoli di Bologna, invece del castello di Borzano (ig. 14) nessuno fornisce notizie storiche. Gli storici locali poi danno notizie del castello di Roncaglio, i cui ruderi dovrebbero essere inglobati nella chiesa di S. Michele, santo caro ai Longobardi che giustiicherebbe una tale dedicazione a un ediicio ben più antico di quello che oggi vediamo. I sopralluoghi efettuati non hanno però permesso di individuare nessun paramento murario inglobato nell’ediicio ecclesiastico o presente ai suoi margini. Reperti che sembrano essere anteriori al XIII secolo sono invece stati raccolti in più occasioni nei pressi della chiesa di Monchio delle Olle e, guarda caso, si tratta proprio di frammenti di olle con smagranti calcitici. È stata anche segnalata una sospetta presenza di pietre sul Monte Cavaliere collocato fra Albareto e 17 Strenna 3-2015 di Pagine d’Archeologia Fig. 15. Planimetria fatta realizzare dal Chierici con evidenziata l’ubicazione della necropoli di Case Coppellini. Vedriano. Nella Carta topograica del Ducato di Modena (detta Carta Carandini), 1821-1828, è riportato il toponimo M. te Castello Cavallieri, mentre in altre cartograie tra XVI e XIX sec. si riporta C. Cavaliero o M. Castel Cavagliere. I sopralluoghi eseguiti hanno consentito di appurare che il monte sulla cima è per- 18/ fettamente pianeggiante, ma non sappiamo se ciò sia frutto di livellamenti. Purtroppo tale campo è coltivato a prato stabile, ma un sentiero che lo attraversa diametralmente mettendo a nudo i depositi sottostanti non ha rivelato presenze antropiche. Sui versanti sono sì presenti dei massi, ma sono frutto di erosione selettiva. Cavazza / Podini / Tirabassi La potenzialità archeologica del territorio di Luceria Fig. 16. L’edificio Novecentesco di Villa Marconi. Signiicativa e di grande interesse storico è poi la piccola necropoli a rito misto (1 incinerato, 5 inumati) di Case Coppellini (ig. 15) che, grazie alla presenza di una “ibbia dal dente adunco”, sembra essere di età alto medievale e sembra continuare la tradizione romana, se, come dice il Chierici, le tombe stavano a fregio della strada che usciva da Luceria e attraversava Vico. Inoltre di età post-medievale abbiamo un ritrovamento sporadico ai piedi del Castello di Canossa. Inine, va segnalata la presenza, nel Catasto d’impianto del 1889, della garetta, ovvero di una garitta, cioè una torre di guardia, che in passato controllava il conine fra il Ducato di Parma e quello di Modena, presso l’attuale Villa Marconi, a sud del castello di Canossa. L’originario ediicio, di cui non è nota l’epoca di costruzione, è stato probabilmente distrutto quando venne spostata la sede stradale e ricostruito nel giardino di pertinenza della villa nei primi decenni del secolo scorso. È verosimile, stando alle testimonianze degli eredi, che con le pietre recuperate dalla garitta, sia stato ediicato un into rudere di tor- re che abbiamo esaminato con apposito sopralluogo (ig. 16). Caratteristiche delle formazioni e dei contesti territoriali a differente potenzialità archeologica La carta delle potenzialità archeologiche costituisce uno strumento di recente adozione e perciò in continuo divenire. Si tratta di uno studio che tenta di predire la potenzialità archeologica di un comprensorio amministrativo ben deinito. Ha quindi caratteristiche di empiricità sufragate per quanto possibile da dati di tipo geologico e geo-morfologico corroborati dai ritrovamenti archeologici sin qui efettuati. È una tematica piuttosto complessa e diicile da afrontare già in pianura, dove, se non altro, le formazioni sono tutte di tipo alluvionale, e pertanto ancor più diicile in montagna, dove, invece, a seconda della latitudine, compaiono depositi geologici caratterizzati da diversa petrograia, sedimentologia, deposizione, erosione, accumulo supericiale, ecc. 19 Strenna 3-2015 di Pagine d’Archeologia L’esperienza accumulata con la stesura della carta di potenzialità del Comune di Castelnovo ne’ Monti, la prima di ambiente montano realizzata in regione e irta di diicoltà, ha agevolato in modo signiicativo l'elaborazione di quella di Canossa. Il primo passo consiste nell'individuazione di unità geologiche analoghe per litologia prevalente e pertanto quelle costituite da argilla, arenaria, calcare, rocce eruttive, ecc.; quindi, in base alla giacitura degli strati, è necessario valutare la stabilità dei versanti e la capacità di resistenza all’erosione. Occorre, inoltre, identiicare le coperture sedimentarie sia antiche che recenti, i corpi di frana e i detriti di falda, gli eventuali relitti di origine glaciale e, più in generale, le caratteristiche morfologiche di supericie. Da ultimo, ma con particolare signiicanza, la pendenza dei versanti. È infatti evidente che, anche laddove il substrato geologico non è particolarmente vocato all’insediamento a causa della scarsa stabilità del substrato, la naturale disposizione pianeggiante dell’area ha favorito l’insediamento umano. Ciò ha fatto sì che per convenzione abbiamo scelto come discriminante fra le aree pianeggianti e quelle pendenti un’inclinazione che non supera il 10%. Trasformati informaticamente tutti questi dati e sovrapposti ad essi quelli archeologici, è stato possibile elaborare una carta che evidenzia aree con condizioni relativamente omogenee che si caratterizzano per una più o meno spiccata potenzialità archeologica. Qui di seguito, sono descritte le diverse formazioni e le caratteristiche di ognuna di esse. Formazioni del substrato e fondovalli alluvionali Formazioni maggiormente stabili (arenarie, marne e sedimenti stabilizzati) Questa formazione comprende una potente successione di rocce sedimentarie di origine marina costituita dalle Formazioni di Ranzano, Cigarello, Contignaco, Pantano, Loiano, Petrignacola e dalle Marne di Monte Piano e di Antognola. L’età è compresa fra l’Eocene medio-superiore e il Miocene medio (fra 40 e 10 milioni di anni). Fra di esse sono state individuate quelle più compatte e cioè costituite da arenarie e marne. Si tratta di tutti quei depositi sedimentari marini che la pedogenesi ha trasformato in rocce più (arenarie e calcareniti) o meno (marne) compatte. Tali rocce sono ben documentate nel territorio di Canossa anche se relegate nel solo settore orientale. Su di esse l’insediamento umano dovrebbe essere più frequente perché garantito dal persistere di condizioni di stabi- 20/ lità, dovute sia alla loro compattezza che alla scarsa erodibilità. Nel territorio canossano, a diferenza di altre aree dell’Appennino reggiano, la loro morfologia è però solo raramente pianeggiante perché l’erosione ha prodotto in esse numerose valli separate da stretti crinali diicilmente insediabili. Ciò non toglie che possano esistere ripari sotto roccia o nicchie abitate che solo minuziose e lunghe ricognizioni potrebbero mettere in luce. Simili, per stabilità, sono state considerate le aree detritiche stabilizzate che troviamo attorno alla Paleosupericie di Selvapiana e quelle interconnesse alla formazione oiolitica di Campotrera-Rossena-Rossenella. Nel Reggiano questa formazione ospita la stragrande maggioranza dei siti archeologici più antichi e signiicativi della montagna: quelli dell’età del Bronzo e dell’età del Ferro. Il Comune di Canossa non fa eccezione, ma poche sono le aree idonee all’insediamento (Monte Tesa e Faieto). Formazioni relativamente stabili (flysch o torbiditi) Questa formazione di età Cretacica (fra 75 e 65 milioni di anni) è costituita da rocce che potrebbero essere relativamente stabili (lysch di M. Caio e M. Cassio, arenarie di Ponte Bratica, conglomerati dei Salti del Diavolo, formazione delle Marne Rosate di Tizzano), ma a causa della loro origine (depositi di fondo marino prodottisi in conseguenza del collasso di una scarpata continentale) i sedimenti si sono depositati in sequenze alternate di strati duri e ben cementati (calcareo-marnosi) e da strati teneri e facilmente erodibili (arenaceo-argillosi), fenomeno che ne compromette la stabilità. Inoltre gli strati, poiché scivolati sulle argille durante l’orogenesi appenninica, sono spesso stati deformati e inclinati in vario modo. Ciò fa sì che laddove il lysch si presenta pseudo-orizzontale il suo substrato si possa considerare stabile quanto quello delle arenarie-marne, mentre dove è inclinato tale stabilità varia in funzione del grado di inclinazione: debole se gli strati sono inclinati a “franapoggio”, buona se a “reggipoggio”. Nei casi più esasperati gli strati si presentano addirittura completamente verticalizzati come è possibile constatare appena fuori dal nostro territorio, in Comune di Casina (Muri del Diavolo nel bacino del Crostolo). Solo la puntuale ricognizione degli aioramenti di lysch, con accertamenti sul grado di inclinazione degli strati e sul tipo di giacitura degli stessi può consentire di deinire con precisione la potenzialità archeologica di ciascuno degli aioramenti presenti sul territorio. Di certo possiamo dire che nel territorio canossano tale formazione proprio a causa Cavazza / Podini / Tirabassi La potenzialità archeologica del territorio di Luceria della giacitura è particolarmente instabile e laddove, come sulla sponda destra del torrente Enza, all’altezza di Monchio delle Olle, sembra più stabile, le pendici dei rilievi sono molto verticali per cui poche restano le aree favorevoli all’insediamento. Formazioni stabili ma dilavate (rocce vulcaniche) Tali rocce, presenti in scarsa misura nel territorio reggiano raggiungono l’apice nel territorio canossano. Esse sono prevalentemente costituite da basalti, ma troviamo anche serpentini, gabbri e brecce, tutti risultanti da eruzioni sottomarine veriicatesi sui fondali dell’antica Tetide circa 150 milioni di anni fa e poi dislocati durante la collisione fra la placca africana e quella europea. Proprio a Campotrera è poi presente un lembo granitico strappato dalla lava basaltica mentre fuorusciva dal mantello terrestre. Anche queste rocce, come i lysch, sono state trasportate scivolando assieme alle argille dalle quali oggi sporgono grazie all’erosione selettiva prodotta dagli agenti atmosferici. Sono rocce di grande compattezza anche se sensibili agli sbalzi termici che ne disgregano lentamente la supericie. Questi “monoliti” che spiccano nel paesaggio, come dimostrato da numerosi studi specialistici, sono stati luoghi ambiti sin dalla preistoria perché costituiscono punti arroccati facilmente difendibili. Nel territorio di Canossa esiste l’eccezionale esempio di Rossena, che grazie alla sua cospicua estensione risulta abitata dal Paleolitico Medio ad oggi, non solo sulla formazione vulcanica, ma anche sugli antichi colluvi e sulle frane assestate da millenni, mentre in tutti gli altri casi la supericie sommitale è piuttosto modesta e pertanto poco adatta all’insediamento. Inoltre tale caratteristica fa sì che eventuali piccoli siti siano stati fortemente erosi e dilavati nel corso dei millenni, tant’è che i sopralluoghi efettuati a tutt’oggi, fatto salvo il Castrum Praedae, a Pietra Nera, non hanno dato alcun esito positivo. Formazioni fortemente dilavabili e instabili (depositi argillosi ed aree soggette a frane attive) In questa formazione sono accorpati sia i depositi argillosi, sia tutte le aree soggette a frane attive, indipendentemente dalla litologia sottostante. Un tempo deinite complessivamente “argille scagliose” oggi sono state distinte in numerose formazioni di età diferenti (dal Cretacico inferiore, 125 milioni di anni, al Pliocene inale, 2 milioni di anni) e comunque raggruppate in un insieme deinito “argille caoticizzate” poiché tutte sono caratterizzate dall’assenza di stratiicazioni dovuta alle deformazioni subite durante e dopo la deposizione oppure a frane sottomarine (olistostromi). Tali depositi di fondale marino nel territorio di Canossa sono prevalentemente costituiti da argille depositatesi sul fondo dell’antica Tetide e qui dislocate dai sollevamenti della catena appenninica durante l’orogenesi. Su tale formazione, soprattutto laddove l’inclinazione sia accentuata o dove la falda freatica non sia ben drenata, sono frequenti le frane e ancor più i calanchi, ma anche dove i versanti sono più tendenti all’orizzontale i suoli presentano il fenomeno del colluvio, un lento e modesto movimento verso valle. Ciò fa sì che questi depositi poco si prestino all’insediamento umano e ancor meno siano idonei alla conservazione delle loro eventuali tracce. Questo non esclude che sulle argille ci siano siti archeologici, ma, quando presenti, essi si trovano nelle aree più pianeggianti e mostrano sovente i danni del degrado naturale. Ai ini della potenzialità archeologica sono state assimilate ai depositi argillosi tutte le aree soggette a frane attive, un fenomeno ben noto e frequente, soprattutto laddove esistono terreni poco coerenti come le argille, ma anche sulle altre rocce quando la loro stratiicazione sia a “franapoggio” o i versanti abbiano pendenze eccessive. Nelle aree soggette a frane gli eventuali siti archeologici hanno subito certamente ingenti danni poiché dalla nicchia di distacco della frana al sottostante fronte d’accumulo tutto ciò che è presente sul suo corpo in movimento è stato abbondantemente dislocato e sconvolto. In tutto il Comune di Canossa rarissime sono le attestazioni di siti su questa formazione e quasi tutte frutto di segnalazioni dubbie o topograicamente non precisabili con esattezza. Fondovalle alluvionali tardo-olocenici in evoluzione Sono tutte quelle aree pianeggianti o lievemente terrazzate che caratterizzano il fondo delle valli, comprensive delle conoidi torrentizie. Nel Comune di Canossa, estese soprattutto lungo il corso dell’Enza, sono esclusivamente di origine tardo olocenica e pertanto posteriori all’evo antico. Da ciò si ricava che su di esse non possono esservi siti archeologici pre-protostorici, ma neppure di Età romana. Contesti maggiormente vocati all'insediamento antico e medievale Terrazzo Luceria-Ciano Il solo terrazzo luviale di età pleistocenica è quello che si è formato nel letto dell’Enza fra Carbo- 21 Strenna 3-2015 di Pagine d’Archeologia nizzo e Rio Luceria, estendendosi però anche a valle di questo corso d’acqua, in oltre S. Polo. La sua altezza rispetto all’attuale letto del iume (circa 25 m.), la sua composizione pedologica e la presenza di materiali preistorici attribuiti genericamente al Paleolitico (purtroppo sia quelli segnalati dalla Società Reggiana di Archeologia che quelli segnalati nell’Ottocento dal Chierici poco più a valle del Rio Luceria, a Fontaneto in Comune di San Polo, non sono oggi reperibili e non sono neppure stati pubblicati, pertanto è impossibile determinarne l’età precisa) inducono a ritenere che la sua datazione sia analoga a quella dei terrazzi dell’alta pianura ben documentati dagli studi efettuati nel sito del Ghiardo. Pare insomma che i sedimenti che lo compongono siano stati messi in posto nel corso dell’ultima glaciazione e che i loess che sigillano i depositi ghiaiosi contengano manufatti del Paleolitico Medio. Tale terrazzo in più punti è poi stato velato dai colluvi derivanti dai colli posti ad oriente e dalle piccole esondazioni dei modesti drenaggi che lo percorrono o lo incidono da sud verso nord. Fatto sta che questa formazione, sia per la sua collocazione geograica privilegiata di fondovalle, sia per le sue caratteristiche di terrazzo ben drenato e pianeggiante, ha attratto dalla preistoria ad oggi l’insediamento umano sviluppatosi attorno a un antico percorso viario probabilmente già in uso nel corso della protostoria e poi divenuto irrinunciabile dall’età romana in poi. Questa è la formazione da sempre più vocata all’insediamento umano di tutto il territorio di Canossa, come attestano, oltre al sito di Luceria, i numerosi ritrovamenti precedenti riferibili a tutto l’arco cronologico preistorico, protostorico e a quello storico successivo. Paleosuperficie di Selvapiana e Trinità Si tratta di depositi sedimentari di origine continentale accumulatisi sulle superici pianeggianti del nostro Appennino nel corso del Pleistocene. Sono cioè spessi pacchi di detriti ghiaiosi depositatisi negli interglaciali o durante gli stadi caldi dell’ultima glaciazione, quindi formazioni luvio-glaciali prodotte dallo scioglimento dei ghiacciai con conseguenti iumane che scendevano verso valle, e dei sovrastanti loess depositati negli stadi freddi. Tutti questi depositi, ovunque si trovino, garantiscono che loro stessi e i substrati ad essi sottoposti rappresentino aree stabili dal Paleolitico Medio. Tale età si colloca nella fase centrale dell’ultima glaciazione, quella wurmiana. Fatto sta che su questi depositi è possibile trovare siti 22/ archeologici di ogni età a partire almeno dal Paleolitico Medio. Ad Albareto, ma soprattutto a Selvapiana, le ricerche di supericie hanno ben dimostrato tale fenomeno, restituendo inoltre diverse tracce di frequentazioni preistoriche e storiche di età romana, mentre sino ad oggi non sono segnalate presenze archeologiche post-romane e tracce di insediamenti medievali. Altre superfici vocate all'insediamento antico e medievale Le aree pianeggianti sono state determinate interpolando diversi dati: quelli oggettivi derivanti dai geoprocessing, in grado di scegliere le giuste pendenze; la lettura delle curve di livello, atta a determinare crinali e cime di rilievi; l’analisi dei depositi archeologici noti e delle segnalazioni di rinvenimenti; la lettura dell’insediamento storico, in grado di fornirci l’antichità delle superici stesse. Tali aree contemplano tutte quelle superici da tempo stabili e vocate all’insediamento umano e comprendono sia le paleosuperici vere e proprie che le aree stabili da lungo tempo, ma non pedogenizzate. Le paleosuperici, come è noto, sono aree stabili da lungo tempo che la pedogenesi ha trasformato in suoli maturi. Sono pertanto zone idonee all’insediamento perché normalmente pianeggianti e fertili. Inoltre, proprio perché di lunga durata, hanno maggior probabilità di aver accolto, nel tempo, gli insediamenti umani. Ovviamente laddove vengono riscontrati siti il loro grado di conservazione dipende dalla stabilità del substrato che ospita tali superici: in caso di paleosuolo vero, da identiicare con ricerche mirate, la conservazione, nonostante le modiiche apportate dalla pedogenesi, dovrebbe essere generalmente ottima. Purtroppo solo raramente tali paleosuperici sono state riconosciute e datate come nel caso di Selvapiana e Trinità. Le aree stabili da lungo tempo ma non pedogenizzate sono diverse e a volte piuttosto estese, come possiamo constare fra Rossena e Canossa, dove purtroppo non c’è stato tempo per efettuare ricerche di supericie. Va inine ricordato che la sola pendenza non basta a circoscrivere aree stabili e omogenee ai ini della potenzialità archeologica. Come detto più sopra, un po’ ovunque sono stati necessari degli aggiustamenti, soprattutto laddove la conoscenza diretta del territorio consentiva di valutare i dati oggettivi risultanti dai geoprocessing. Tre sono gli esempi più eclatanti: la sommità di Monte Tesa, il complesso oiolitico di Campotrera-Rossena-Rossenella e l’alto Cavazza / Podini / Tirabassi La potenzialità archeologica del territorio di Luceria morfologico Selvapiana-Albareto-Trinità. In tutti e tre i casi le elaborazioni automatizzate davano per stabile solo una parte delle aree, mentre, grazie alle ricognizioni e ai dati archeologici, in realtà sappiamo che le frequentazioni antropiche sono presenti un po’ ovunque su di esse. Conca di Selvapiana Si tratta di un piccolissimo bacino di modestissima profondità formatosi in una depressione della paleosupericie di Selvapiana, poi drenato dalla piccola incisione valliva che partendo dal suo bordo orientale scorre verso nord-est. Tale bacino è stato in parte saturato dal blando colluvio delle sponde. I sedimenti accumulatisi sembrano piuttosto modesti. Pare pertanto che l’intero ciclo di sedimentazione sia avvenuto dopo l’optimum climatico dell’Olocene cioè nel post-Atlantico, a partire forse dalla fase tarda del Subboreale, circa 3000 anni fa. Quindi questa conca, dal punto di vista della potenzialità archeologica, deve essere valutata come una velatura della paleosupericie di Selvapiana. (I.T.) De Marchi 2005 = L. De Marchi, Archeologia globale del territorio tra Parmense e Reggiano. L’età del Ferro nelle valli Parma, Enza e Baganza tra civilizzazione etrusca e cultura ligure, Prato 2005. Fabbi 1953 = F. 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CVII e segg.. 1 Antica Luceria: archeologia in Val d'Enza Roberto Macellari Daniela Locatelli Luigi Malnati Enzo Lippolis Il progetto di scavi a Ciano d'Enza (RE) di Gaetano Chierici. Alle origini del Museo di Reggio Emilia Roberto Macellari Funzionario Reti e Servizi Culturali dei Musei Civici di Reggio Emilia Oltre ad unirmi al generale plauso per il conseguimento di un obiettivo tanto atteso, desidero innanzitutto ringraziare gli organizzatori di questa giornata di studi per avere dato voce al Museo di Reggio Emilia, la cui origine, come si dirà, è strettamente intrecciata con le fasi iniziali della ricerca archeologica nel sito di Luceria, ma anche per avermi oferto l’opportunità di richiamare l’attenzione sulla igura di don Gaetano Chierici, vero fondatore dell’archeologia reggiana. Le considerazioni che intendo proporre non possono prescindere da alcuni fondamentali lavori sulla storia della ricerca archeologica in questo luogo, ad iniziare dagli studi di Marcel Desittere (Desittere 1985, p. 25, ig. 12), di Enrica Cerchi (Cerchi 1993), di Enzo Lippolis (Lippolis 1998) e del compianto Luciano Patroncini (Patroncini 1994). L’avvio di ricerche sistematiche a Luceria è del maggio 1861, all’indomani cioè della nascita del Regno d’Italia, nel nuovo clima politico che si riverbera su tutte le iniziative volte a valorizzare il patrimonio culturale patrio. L’esplorazione archeologica di Luceria è, si potrebbe dire, iglia dell’unità nazionale. Al tempo stesso è iglia di un insuccesso, forse l’unico nella luminosa carriera scientiica di Gaetano Chierici, che corrisponde alla prima ricerca sul campo da lui stesso condotta: il generoso tentativo di salvare e valorizzare il cosiddetto larario romano di Montecchio Emilia con il suo corredo di una dozzina di statuette di divinità e di monete romane, risalente al 1855 (ig. 1). In quell’occasione Chierici aveva sollecitato il sostegno di mons. Celestino Ca- vedoni, massima autorità in materia di antichistica nell’ambito del ducato di Modena e Reggio, con il ine di creare i presupposti per una raccolta civica a Reggio Emilia, nella quale potessero conluire le antichità patrie che ino a quel momento avevano preso strade diverse, dai musei di Modena e Parma al commercio antiquario. Il ruolo ambiguo giocato in quell’occasione da Cavedoni, la cui apparente disponibilità nascondeva la volontà di favorire le collezioni ducali della capitale, ma soprattutto l’epidemia di colera, da cui Chierici era rimasto contagiato con rischio della stessa sopravvivenza, avevano mandato in fumo un piano sapientemente orchestrato, con l’inevitabile dispersione di quel piccolo patrimonio archeologico, approdato con ogni probabilità ancora una volta oltre Enza (Macellari 1997, p. 3 s., foto 4 e 5). L’appassionata relazione inviata a Cavedoni in quella circostanza, oltre a denunciare i numerosi casi di depauperamento del patrimonio culturale reggiano, poneva le premesse per una svolta, della quale avrebbe dovuto farsi promotore il Comune di Reggio, favorendo l’istituzione di una Società per “raccogliere e illustrare le memorie delle cose nostre passate e tener conto delle correnti” e, in ultima analisi, di un gabinetto di antichità (Desittere 1985, p. 18 ss.). La proposta di una Società, che sembra cadere nel vuoto almeno nell’immediato, se si esclude il riferimento contenuto in una lettera di don Vincenzo Capretti, parroco di Correggio, del 1856 (Desittere 1985, p. 20, nota 31), tornerà, come vedremo, di attualità qualche anno più tardi. Dal fallimento del 1855 Chierici si direbbe avesse 27 Strenna 3-2015 di Pagine d’Archeologia Fig. 1. Memoria d’uno scavo fatto in riva all’Enza un miglio sotto Montecchio (BMRe, FdGC, busta 2/1). 28/ Macellari Il progetto di scavi a Ciano d’Enza (RE) di Gaetano Chierici. Alle origini del Museo di Reggio Emilia ricavato una lezione fondamentale: la causa della salvaguardia del patrimonio culturale locale non si sarebbe potuta vincere operando in solitudine, sia pure animati dai più nobili intenti. Solo l’istituzione delle Deputazioni di Storia Patria, per iniziativa di Luigi Carlo Farini già nel febbraio del 1860, e in particolare della sottosezione reggiana della Deputazione di Modena, di cui Chierici fu da subito uno dei sei soci efettivi (Desittere 1985, p. 23), gli avrebbe fornito la cornice all’interno della quale poter operare evitando errori e ingenuità di un recente passato. L’istituzione delle province gli ofriva poi nuove speranze che potesse arrestarsi l’emorragia del patrimonio culturale reggiano verso il parmense ed il modenese. Sin dalla prima adunanza della sottosezione reggiana, il 31 maggio del 1861 (quindi esattamente 153 anni fa), Chierici portava l’attenzione dei soci sul “luogo presso Ciano, dov’è sospetto d’alcuni eruditi che fosse l’antica Luceria ricordata da Tolomeo”, preannunciando un suo sopralluogo (Desittere 1985, p. 25). Lo stesso tema sarebbe stato dibattuto in tutte le successive adunanze della Deputazione. A condurlo a Luceria era certamente la conoscenza diretta del Calendario di Corte per l’anno 1777 dell’abate Schenoni, che dà notizia degli scavi condotti da una Società di Parmeggiani quando Ciano rientrava nei conini del ducato di Parma (Patroncini 1994, p. 13). Lo dimostra la trascrizione di quel rapporto di scavi, che si conserva fra le carte dell’archivio Chierici, nella quale Enrica Cerchi ha riconosciuto la mano di Michele Lopez, il direttore del Museo di Parma (Cerchi 1993, p. 8), con cui in quei giorni del 1861 Chierici intratteneva una serrata corrispondenza (BMRe, FdGC, busta 14/2, nn. 2-5). Ma ad attrarlo a Luceria era soprattutto la scoperta, avvenuta nel marzo di quell’anno, di quattro tombe a cassetta laterizia allineate lungo un tracciato stradale accuratamente selciato, nel corso di lavori agricoli nel fondo di Francesco Bernuzzi in località Conchello, i cui corredi erano stati acquistati dal dott. Giuseppe Grisanti (Cerchi 1993, pp. 9 – 14), socio corrispondente della Deputazione. Il preannunciato sopralluogo di Chierici a Ciano si svolse efettivamente, con la guida di Grisanti stesso, e produsse quel Ragguaglio degli scavi fatti nel territorio di Ciano nel mese di marzo del 1861 (ig. 2), presentato alla Deputazione nelle due tornate del 19 e 28 giugno (BMRe, FdGC, busta 2/7, fasc. 1, cc. 1-8). Una preoccupazione agitava Chierici: che Grisanti potesse prendere contatto con il Museo di Parma e che i corredi di Luceria prendessero la via d’oltre Enza, come era accaduto altre volte in passato. Si giustiica così una lettera a Lopez di quello stesso 1861, preceduta dalla mediazione di un giovane Luigi Pigorini, nella quale Chierici a nome della Deputazione reggiana lo pregava, si direbbe lo scongiurava, di non accettare materiali da Ciano: “costì si riiutino le oferte di oggetti provenienti da Ciano rimettendoli a Reggio, dove s’è disposti a comprarli per quel che valgono”, minimizzando l’importanza di quelle scoperte e lasciando trasparire il reale suo ine, l’istituzione di un gabinetto di antichità a Reggio: “Luceria non può dare che poche e povere cose, e solamente interessanti per noi, che mancando di tutto vogliamo tentare di dar principio a una raccolta che diremo domestica” (Desittere 1985, p. 103 s., n. 3). Benché la nuova realtà istituzionale, con la nascita delle province, sembrasse ofrire un valido sostegno al disegno di Chierici e degli altri deputati reggiani, la minaccia di una nuova migrazione delle antichità reggiane verso il Museo di Antichità di Parma continuava a costituire una sorta di ossessione, come sembra dimostrare la corrispondenza con Pigorini di qualche mese più tardi, che contiene il fermo rimprovero nei confronti del “Gabinetto di Parma” che aveva accettato il dono di materiali terramaricoli da Campegine, raccolti da Carlo e Giacomo Cocconi in terreni di loro proprietà (Lettera di L. Pigorini, Parma 27 ottobre 1862, BMRe, FdGC, busta 15/1/2). Ottenuta l’approvazione dei soci della Deputazione, dal 23 al 28 settembre Chierici, che pure non consta avesse ancora maturato esperienze di scavo, poteva prendere parte attiva ad una nuova esplorazione nel sito di Luceria, che portò alla scoperta di cinque tombe della prima età imperiale romana, dei cui corredi è conosciuta soltanto una bottiglia in vetro giallo tipo Isings 103, che Chierici poté ofrire in dono alla Deputazione (Cerchi 1993, p. 14 ss.). Con un secondo rapporto, il Ragguaglio degli scavi fatti a Ciano nel settembre 1861, egli aggiornava la Deputazione sull’esito delle nuove ricerche (Patroncini 1994, p. 32 s.). Nella riunione dell’11 dicembre i deputati, visto il buon esito delle prime indagini sistematiche, davano mandato a Chierici non solo di proseguire gli scavi, ma anche di proporre nuove modalità di intervento, che prevedessero “la cooperazione di molti” (Patroncini 1994, p. 84 s.). È in questo quadro che matura la Proposta di società, che Chierici sottopone alla Deputazione nella riunione della settimana successiva, ottenendone unanime approvazione. La riunione del 18 dicembre ofrì innanzitutto a Chierici l’occasione per presentare il suo Progetto di scavi a Ciano, che prevedeva la prosecuzione delle ricerche lungo il 29 Strenna 3-2015 di Pagine d’Archeologia Fig. 2. Ragguaglio degli scavi fatti nel territorio di Ciano nel mese di marzo del 1861 (BMRe, FdGC, busta 2/7, fasc. 1, cc. 1–8). 30/ Macellari Il progetto di scavi a Ciano d’Enza (RE) di Gaetano Chierici. Alle origini del Museo di Reggio Emilia Fig. 3. Mappa dei ritrovamenti nell’area di Luceria (Archivio dei Musei Civici di Reggio Emilia). 31 Strenna 3-2015 di Pagine d’Archeologia Fig. 4. Dettaglio della carta archeologica della provincia di Reggio Emilia redatta da Chierici nel 1876, con lo scavo di Luceria (Musei Civici di Reggio Emilia). tracciato della strada selciata, o via dei sepolcri, per approdare, così auspicava, al cuore dell’insediamento. Il buon esito dei lavori avrebbe sicuramente creato i presupposti per il tanto atteso museo archeologico a vocazione provinciale. Il Progetto contemplava inine l’assicurazione ai deputati di avere già preso contatto con alcuni proprietari di quei terreni che si rivelavano promettenti per ottenerne le necessarie autorizzazioni ai lavori di scavo, in cambio di risarcimenti che avrebbero tenuto conto dei danni arrecati alle coltivazioni ma anche della stima degli oggetti rinvenuti, della quale sarebbe stato investito niente meno che Celestino Cavedoni. Ma preliminare a tutto ciò sarebbe stata la creazione di una Società per gli scavi di Ciano, destinata a inanziarli, il cui regolamento prevedeva che ogni socio si impegnasse ad acquistare una o più azioni da 10 lire, allo scopo di costituire un fondo di almeno 300 lire. Gli scavi erano già programmati per quell’anno e i materiali che fossero venuti alla luce sarebbero stati donati al Comune di Reggio, perché con essi costituisse il primo nucleo dell’auspicato museo archeologico (Desittere 1985, p. 113 s., n. 15). La Società per gli scavi di Ciano nasceva probabilmente ad imitazione di associazioni analoghe, come il Sodalizio per il Museo Patrio per il Tirolo, fondato a Innsbruck nel 1823, o come la Società Co- 32/ lombaria iorentina, che svolgeva ricerca archeologica fra Chiusi e Sovana dal 1858; o, per passare a realtà più vicine e ben note a Chierici, la già ricordata Società di Parmeggiani e la Società archeologica modenese, costituita quest’ultima nel 1844, della quale facevano parte il conte Luigi Forni, gli antichisti Celestino Cavedoni e Carlo Malmusi e addirittura il duca Francesco IV. Altre società sarebbero in seguito iorite a Torino, a Novara ed in Istria, e per rientrare nella nostra regione, a Bazzano dove dal 1873 avrebbe operato un sodalizio che riuniva noti paletnologi come Arsenio Crespellani e Torquato Costa (Di Pietro 1995, p. 53 ss.). Della nuova Società reggiana facevano parte 25 membri, scelti fra i soci della Deputazione, della quale sembra fosse diretta emanazione, a cominciare dal vicepresidente, Paolo Terrachini, che si vide riconoscere una posizione di vertice anche nella Società, dal tesoriere, Giuseppe Turri, noto biblioilo e collezionista, da Giulio Cesare Vedriani a Chierici stesso (Desittere 1985, p. 114). Vi era rappresentata la nuova classe dirigente uscita dalle due guerre di indipendenza, a cominciare dal sindaco di Reggio, Pietro Manodori, e dal presidente della Camera di Commercio, Agostino Sforza (Ferraboschi 2003, p. 126), con alcuni leader dei moderati come Enrico Terrachini e Domenico Sidoli (Idem, p. 55), ed alcu- Macellari Il progetto di scavi a Ciano d’Enza (RE) di Gaetano Chierici. Alle origini del Museo di Reggio Emilia Fig. 5. Saggio degli scavi fatti a Ciano nel 1862 (Archivio dei Musei Civici di Reggio Emilia). ni reduci delle battaglie risorgimentali, come Fortunato Modena (Idem, p. 55), con esponenti della élite ebraica ma anche con un canonico della cattedrale, con rappresentanti della borghesia delle professioni, come l’avv. Giuseppe Fornaciari (Idem, p. 155) e della nobiltà, come il conte Gian Battista Spalletti (Idem, p.158). Colpisce in questo elenco la presenza di Achille Sidoli, che nel 1845, quando era ancora giovinetto, era stato aidato all’istitutore don Geatano Chierici per un memorabile viaggio, una sorta di grand tour, verso Roma e poi Napoli con i Campi Flegrei e Pompei, la Sicilia, e, sulla via del ritorno, Paestum, Capua e l’Etruria. Achille Sidoli era l’ultimo iglio di Giovanni, carbonaro scomparso prematuramente in esilio, e di Giuditta Bellerio, della quale è nota la lunga relazione con Giuseppe Mazzini. Il giovane Achille era stato aidato al sacerdote dal nonno paterno, legittimista, che intendeva sottrarlo all’inluenza nefasta della madre, evidentemente ignaro dei sentimenti patriottici che animavano don Gaetano Chierici. Il giovane era inevitabilmente destinato a deludere le aspettative del nonno: qualche anno più tardi avrebbe infatti partecipato agli ultimi moti mazziniani e alla difesa della Repubblica Romana (Macellari 2011, p. 73). Quel viaggio verso i tesori archeologici del nostro Paese aveva lasciato un segno indelebile non soltanto in Chierici, che era tornato a Reggio archeologo appassionato, ma si direbbe anche in Achille Sidoli, che nel 1862 ritroviamo fra i membri di una società archeologica. Costituita la Società, in una successiva riunione, il 26 agosto, si procedette alla nomina della commissione direttiva degli scavi, aidandone la responsabilità a Chierici, il quale aveva nel frattempo arricchito il proprio curriculum di archeologo militante, scavando nella cripta della Cattedrale di Reggio (Scavo nei sotterranei della chiesa cattedrale di Reggio fatto nel principio del 1862, BMRe, FdGC, busta 2/4) e poi a Codisotto (Relazione dello scavo di Codisotto fatto nella ine del febbraio e nel principio del marzo del 1862, BMRe, FdGC, busta 2/2), tutto in quel febbrile 1862. Si stabilì anche di iniziare le nuove ricerche non prima del 9 settembre, con l’intento di recare il minore danno possibile alle coltivazioni. Gli scavi iniziarono quando convenuto e si protrassero per tredici giorni, impegnando una ventina di operai, 33 Strenna 3-2015 di Pagine d’Archeologia Fig. 6. Alessandro Prampolini, veduta di Ciano (Archivio dei Musei Civici di Reggio Emilia). con il coinvolgimento diretto di tre soci, Bartolomeo e Giovanni Sidoli e Ludovico Guidelli, oltre naturalmente a Gaetano Chierici. La Relazione alla Società archeologica reggiana degli scavi eseguiti a Ciano nel settembre dell’anno 1862, che si conserva fra le carte manoscritte di Chierici (BMRe, FdGC, busta 2/7), permette di ricostruire le strutture riportate in luce: una strada acciottolata larga circa 6 metri, con orientamento nord-sud, e resti di ediici con più fasi costruttive, alla più antica delle quali (I-II sec. d.C.) andrebbero ricondotti rocchi di colonna in calcare e frammenti architettonici, che Chierici non esitò ad interpretare come resti di un piccolo tempio dorico in relazione con una vicina fontana. Della documentazione di scavo fa parte una accurata mappa dei ritrovamenti, vecchi e nuovi, preparata per un’adunanza della Società (ig. 3). Questo strumento sembra già attestare il grande interesse dell’autore per la cartograia archeologica, che avrebbe trovato la massima espressione nella spettacolare Carta archeologica della provincia di Reggio Emilia (ig. 4). Ne fa anche parte un disegno a china delle strutture emerse da quel saggio (ig. 5). Qualche tempo dopo Chierici 34/ avrebbe commissionato ad Alessandro Prampolini una veduta prospettica del suo scavo, che sembra una rielaborazione di quel disegno (ig. 6). Prampolini, pittore di paesaggio e scenografo, membro di una famiglia di patrioti e patriota lui stesso, era ben noto a Chierici, in quanto aveva potuto beneiciare di una pensione artistica comunale che gli aveva consentito di soggiornare a Roma, subentrando ad un altro pittore reggiano, Alfonso Chierici, suo fratello, il quale dimostrava grande apprezzamento per il suo talento artistico. A Roma si era segnalato per alcune notevoli rappresentazioni di rovine, che forse giustiicano la commissione della veduta di Luceria da parte di Gaetano Chierici (Farioli 1984). Mentre con la campagna del settembre 1862 si concludeva l’impegno diretto di Chierici sul terreno di scavo di Luceria, nuove side venivano da lui contestualmente afrontate: innanzitutto con sorprendente puntualità onorava l’obbligo di rendere pubblico l’esito dei suoi scavi, in due tornate degli Atti della Deputazione (Chierici 1863a; Chierici 1863b). Ma soprattutto realizzava il principale obiettivo, suo e della Società archeologica, da molti anni a quella parte: Macellari Il progetto di scavi a Ciano d’Enza (RE) di Gaetano Chierici. Alle origini del Museo di Reggio Emilia Fig. 7. G. Chierici, inventario della Collezione di Paletnologia, 1, c. 1 (Archivio dei Musei Civici di Reggio Emilia). l’apertura di un Gabinetto di Antichità Patrie, in un locale contiguo al Museo Spallanzani che il Comune rese disponibile alla Deputazione. Si può anzi afermare che proprio la necessità di custodire in luogo idoneo i corredi funerari di Luceria, che la Deputazione aveva acquistato dal dott. Grisanti, spinse i deputati a maturare l’idea di un Gabinetto e a stenderne la deliberazione. È signiicativo che proprio uno degli oggetti di quei corredi, la “catenella a doppia treccia d’argento” sia registrato nell’inventario del neonato museo con il numero 1 (ig. 7). Riferimenti bibliografici BMRe, FdGC = Biblioteca Municipale “A. Panizzi” di Reggio Emilia, Fondo don Gaetano Chierici. Cerchi 1993 = E. Cerchi, La romanizzazione della Cispadana: il contributo degli scavi di Gaetano Chierici a Luceria (18611862), in «Civiltà Padana» 4, 1993, pp. 7-26. Chierici 1863a = G. 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Inoltre, soprattutto nella fascia a occidente dell’attuale provincia di Modena, l’occupazione del territorio appare strettamente inalizzata al controllo delle vie transappenniniche da e verso il Po, fatto da cui risultano fortemente condizionati sia le modalità di aggregazione del popolamento e le sue componenti ‘etniche’, sia il panorama della cultura materiale, spesso divergente da quello dell’ambito territoriale più vicino alla ‘capitale’ Bologna (Fig. 1). Del resto, anche per le più antiche epoche dell’Età del Bronzo Media e Recente, è ampiamente noto il ruolo svolto dalle valli del Secchia e dell’Enza nell’ambito degli scambi tra mondo terramaricolo e mondo peninsulare e della circolazione del metallo dalle aree minerarie toscane. Dopo il tracollo del sistema insediativo terramaricolo, si assiste a una sensibile riduzione numerica degli insediamenti, con il mantenimento di quelli collocati in posizione più favorevole al controllo del territorio e delle vie di scambio tra i giacimenti metalliferi della Toscana settentrionale e la Pianura Padana, da cui – tramite la grande arteria luviale del Po – era possibile l’accesso da un lato alla valle dell’Adige e all’Europa transalpina, dall’altro al mare Adriatico e al Mediterraneo orientale2. Punto nodale di tale sistema di comunicazioni è la rupe di Bismantova, verso cui dovevano convergere le percorrenze che scendevano dai passi appenninici di Pradarena e del Cerreto e la cui necropoli protovillanoviana ben illustra, tramite i materiali dei corredi funerari, la fitta rete di contatti ‘internazionali’ in cui l’insediamento era inserito3. Verso Bismantova dovevano probabilmente puntare non solo le vie di percorrenza provenienti dalla valle del Secchia (a controllo della quale stava ad esempio l’insediamento individuato sulla cima del Monte Valestra4), ma anche quelle relative al bacino 1 4 Problematiche afrontate ad esempio in Locatelli 2009 e in Locatelli 2014d, limitatamente al periodo compreso tra il IX e il VI secolo a.C. 2 3 In generale sul Bronzo Finale in Emilia occidentale: Locatelli 2009, pp. 25-26; Locatelli, Malnati c.s.; sulla speciica situazione reggiana Tirabassi, Zanini 1999, pp. 246-248 e Locatelli 2014a. Per quanto concerne il versante toscano, i contatti dovevano avvenire soprattutto tramite la valle del Serchio, per la quale si conosce una consistente frequentazione di Bronzo Finale: Perazzi 2004, pp. 138-141. Per una rassegna dei siti e relativa bibliograia, si veda Armanini 2007, passim. Sulla necropoli di Campo Pianelli, da ultimo, Locatelli 2014b e Locatelli 2014c. Per l’edizione completa dei corredi Catarsi, Dall’Aglio 1978. Miari 2004, pp. 154-155, con bibliograia precedente e, per i più recenti scavi condotti da I. Tirabassi sui terrazzi posti sotto la cima del monte, Montanari, Tirabassi 2007. 37 Strenna 3-2015 di Pagine d’Archeologia Fig. 1. Carta con localizzazione dei siti menzionati nel testo (elaborazione grafica R.Gabusi). idrograico dell’Enza, collegato al precedente tramite un percorso intervallivo che sfruttava i corsi dei torrenti Tassobbio e Maillo: non è pertanto privo di signiicato il fatto che l’insediamento di Montecastagneto, localizzato proprio sul rio Maillo, abbia di recente restituito testimonianze relative a una consistente fase di frequentazione databile nel Bronzo Finale.5 Tale fatto potrebbe dunque essere assunto come prova dell’utilizzo della via dell’Enza già in questa fase, benché – in area più vicina alla pianura – i dati a nostra disposizione si limitino alla sporadica presenza di materiali a Campo Servirola di S. Polo 5 Dopo le ricerche ottocentesche del Chierici, il sito è stato interessato tra il 2005 e il 2011 da campagne di scavo dirette dalla scrivente per conto della Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Emilia Romagna, ed è attualmente inedito. Prime anticipazioni sullo scavo sono in Locatelli, Malnati, c.s. 38/ d’Enza6, nei cui pressi potrebbe forse essere localizzabile un altro insediamento, stando alle indicazioni – in verità piuttosto labili e incerte – fornite da uno scavo efettuato nel 1995 in località Pontenovo7. 6 7 Mi riferisco ad esempio alla presenza di frammenti di ibule ad arco serpeggiante a contorno quadrangolare (Preistoria protostoria 1975, ig. 25, 6-7), di una tipologia assimilabile a quelle rinvenute a Monte Valestra – Case Pantani (Preistoria protostoria 1975, ig. 63, 4-5) e a Bismantova (Catarsi, Dall’Aglio 1978, pp. 38-39, n. 6.2.1). Nel corso di un intervento di emergenza è stata infatti portata a luce una serie di buche di palo forse riconducibili a una palizzata la cui costruzione è stata in maniera dubitativa collocata nell’età del Bronzo Finale (Catarsi Dall’Aglio 1997a), non tanto in base a indicazioni cronologiche fornite dai materiali, quanto per la posizione stratigraica degli elementi immediatamente al di sotto del livello in cui, in un’area contigua, erano state individuate strutture databili all’età del Ferro. Locatelli Liguri ed Etruschi lungo la via dell’Enza Un ulteriore motivo di interesse è rappresentato dal fatto che gran parte dei materiali ceramici di Bronzo Finale recuperati a Montecastagneto presenta forti analogie con la facies dei castellieri del Levante ligure, a riprova di una possibile connotazione culturale in questo senso dell’area appenninica reggiana in da periodi molto antichi (Fig. 2). Del resto riferimenti allo stesso orizzonte possono essere riscontrati anche nei materiali di coevi insediamenti aferenti al bacino del Secchia, come quello di S. Michele di Valestra sulla cime del monte omonimo, nonché nelle due tombe a incinerazione di X secolo a.C. rinvenute in località Case Pantani, su un terrazzo del versante orientale dello stesso monte, ricondotte ad ambito ligure per via del rituale di seppellimento entro cassetta litica e della morfologia di ossuari e ciotole di copertura8. Dopo uno iato di quasi due secoli rispetto alle testimonianze menzionate, indizi di una ripresa del popolamento della zona appenninica reggiana si manifestano soltanto nella seconda metà dell’VIII secolo, probabilmente in connessione con la conclusione del processo di formazione urbana di Bologna, processo che doveva aver indotto un momentaneo convergere degli interessi etruschi – e conseguentemente delle comunicazioni transappenniniche – verso la città e il suo immediato comprensorio9. Le localizzazioni dei materiali (Bismantova e San Polo d’Enza) sembrano indicare l’avvenuto ripristino di quel sistema integrato di comunicazioni Secchia-Enza che avevamo visto attivo nell’Età del Bronzo Finale, e – per quanto estremamente sporadiche – ci parlano di contatti ad ampio raggio, ben esempliicati dal fermaglio di cintura di ispirazione golasecchiana da San Polo10, dalla ibula a sanguisuga proveniente dal monte Pezzola (Tirabassi 2014, p. 44) o dalla ibula ora dispersa che il catalogo Chierici indica come proveniente da Bismantova e che trova confronti con l’ambito etrusco-settentrionale costiero11. 8 Miari 2004, pp. 156-157 (e relativa scheda alla p. 187, III.37), con bibliograia precedente. Confronti per la ceramica sono indicati in Locatelli 2014d, pp. 103-104, ntt. 7-9. 9 Sulla temporanea disattivazione della via del Secchia, e conseguentemente della complementare via dell’Enza, tra la ine del Bronzo Finale e la ine dell’VIII secolo: Locatelli 2009, pp. 27 e 47-48. 10 Damiani et alii 1992, p. 174, n. 1392, tav. LXXXIX, confrontabile con Peroni 1975, p. 233, ig. 62,4. 11 Macellari 1995a, pp. LXVIII-LXIX, ig. 1; poi anche in Locatelli 2009, tav. 3,4. Il progressivo attivarsi di nuovi nuclei di insediamento lungo la valle dell’Enza è un processo ormai in atto nel corso del VII secolo a.C.: all’incirca alla ine dello stesso secolo si è pertanto deinito un asse del popolamento che a partire da Servirola San Polo, situata allo sbocco del iume dall’alta valle, prosegue verso l’aperta pianura con gli insediamenti di Montecchio e Sant’Ilario d’Enza, quest’ultimo verosimilmente collocato – insieme all’abitato di Quingento in sinistra Enza – in corrispondenza del passaggio della pista pedemontana est-ovest che poi sarà ricalcata dal tracciato della via Emilia12. Appare inoltre in da subito chiaro che l’obiettivo di tale assetto insediativo è il controllo della via che dai passi appenninici conduce al Po: è infatti alla conluenza tra quest’ultimo e l’Enza che, a partire almeno dalla metà del VII secolo, doveva essere attivo un vero e proprio scalo. Il noto complesso di materiali proveniente da Brescello, così datati e da sempre interpretati come corredo funerario di una rappresentante femminile dell’élite locale, ofrono un panorama di confronti tale – soprattutto considerando la consistente presenza di ambra e le ibule a navicella13 – da orientare verso l’interpretazione del sito come centro di smistamento di prodotti, nonché di incontro delle vie di scambio che provenivano da un lato dai passi appenninici, dall’altro dall’Italia settentrionale e nord-orientale (Fig. 3). Nel corso del VI secolo l’assetto così deinitosi vede un ampliarsi del numero degli insediamenti e un consolidarsi del ruolo dei centri già esistenti14. Allo sbocco del iume in pianura il terrazzo di Servirola diventa il principale centro di aggregazione del popolamento: all’abitato di età arcaica dovevano appartenere i resti di capanne e di impianti produttivi individuati dal Chierici nel 1863 (Macellari, Bertani 1998), e i materiali di importazione ivi rinvenuti ci indicano il suo ruolo di primo piano nella redistribu12 Dai livelli superiori della terramara di Quingento proviene uno spillone con capocchia a noduli serrati databile a partire dalla ine del VII secolo a.C. (Saronio 1989, pp. 110 e 114, n. 2, tav. 1,2). Per i materiali di VII secolo da Servirola e Sant’Ilario si veda oltre; a Montecchio, invece, la fase iniziale di insediamento, probabilmente da collocare allo scorcio del secolo, è documentata da materiali scarsamente caratterizzati. 13 I primi indicano infatti intensi rapporti con l’area adriatica, le seconde trovano confronti in ambito veneto. Per i materiali: Damiani et alii 1992, pp. 113,132,188-189, 217, 229-231. Sul contesto anche Locatelli 2009, pp. 43-47. 14 Tirabassi 1989, in particolare pp. 40-44 e tav. VI, con elenco completo dei siti ino a quel momento noti, cui qui si aggiungono le localizzazioni più recenti. 39 Strenna 3-2015 di Pagine d’Archeologia Fig. 2. Montecastagneto (Castelnovo ne’ Monti): ceramica di impasto databile al Bronzo Finale (disegni C. Buoite; elaborazione grafica R. Gabusi). 40/ Locatelli Liguri ed Etruschi lungo la via dell’Enza zione di tali prodotti in direzione del Po (Damiani et alii 1992, pp. 83-84, nn. 540-542). A monte di San Polo d’Enza rinvenimenti sporadici di materiali di supericie sono stati efettuati nei comuni di Canossa e di Vetto, rispettivamente a Monchio delle Olle e a Groppo (Lasagna Patroncini 1990, p. 140, n. 236; De Marchi 2005, pp. 98-99, ig. 4), nonchè sulla postazione più elevata del monte Tesa (Lasagna Patroncini 1990, pp. 141-144). Sul versante sinistro si segnala la ibula ad arco ingrossato e stafa lunga recuperata a Lupazzano (Comune di Neviano degli Arduini), sito collocato sul crinale displuviale tra val d’Enza e val Parma, in posizione di altura corrispondente a quella occupata – sull’altra sponda – da Monchio delle Olle.15 I rinvenimenti della sponda reggiana si localizzano probabilmente non a caso in corrispondenza dell’accesso ai percorsi intervallivi che sfociavano nella valle del Secchia proprio in prossimità delle due località che nel Bronzo Finale rappresentavano le principali postazioni di controllo lungo quella direttrice, benché in questa fase cronologica non siano materialmente documentati né l’utilizzo di tali percorsi, né la continuità di vita degli insediamenti di Montecastagneto e del Monte Valestra, che al contrario sembrano riattivarsi soltanto in un periodo successivo. Il fatto però che, anche in un momento posteriore, non siano documentati rinvenimenti di materiali molto più a monte della conluenza del Tassobbio nell’Enza, induce a ritenere plausibile l’ipotesi già prospettata circa il fatto che l’itinerario dell’Enza si innestasse sul crinale occidentale di quello del Secchia proprio grazie alle valli del Tassobbio e del Maillo, usufruendo così di un percorso più agevole verso i passi appenninici (Tirabassi 1989, pp. 45-46); si conigura in tal modo un sistema integrato di comunicazioni che doveva mettere in rapporto reciproco i bacini di entrambi i iumi. Da San Polo in direzione dell’aperta pianura una serie pressoché continua di insediamenti si allinea in destra Enza ino a poco oltre Sant’Ilario: tracce in questo senso sono state individuate – sempre in Comune di San Polo – in località Pontenovo16, poi nel 15 Il sito risulta avere una continuità di vita anche nel V secolo (De Marchi 2005, pp. 116-117, ig. 9). La ibula (ig. 9,22) è confrontabile con il tipo 1 delle ibule ad arco ingrossato a tutto sesto e stafa lunga del Reggiano, attestate anche a S. Ilario e a San Polo (Damiani et alii 1992, p. 126, nn. 889-899, tav. LX). 16 In prossimità dell’area che ha restituito testimonianze di età protostorica, un ulteriore intervento di scavo territorio di Montecchio17 e nelle località Romei, Bettolino, Fornaci e Taneto in Comune di Sant’Ilario, dove ai resti di viabilità attrezzata e alle piccole necropoli da tempo conosciute disposte lungo un paleoalveo del iume18 sono ora da aggiungere le tracce di insediamento individuate in prossimità delle località Fornaci e Taneto, a dimostrazione che ciascuna delle necropoli doveva essere in relazione con altrettanti nuclei abitati19. In entrambi i casi sono stati infatti portati a luce resti di impianti produttivi, in particolare fornaci, con annessi pozzi per acqua, silos per la conservazione delle derrate e altre strutture non sempre chiaramente interpretabili; nel primo caso è stata inoltre individuata un’area a probabile destinazione abitativa, con strutture a pianta rettangolare delimitate da trincee di fondazione. Degno di nota è anche il rinvenimento, a sud di quest’ultima area di abitato, di una porzione di massicciata stradale in ciottoli con orientamento NW-SE (Fig. 4), cioè grossomodo parallelo al percorso della via Emilia e pertanto ortogonale alla direttrice dell’Enza individuata nell’Ottocento dal Chierici poco più a nord (Sassatelli, Govi 1992, p. 139, n. 22). Fronteggia Sant’Ilario, sulla sponda parmense dell’Enza, il già citato abitato rivierasco di Quingento di San Prospero, il cui ruolo commerciale è ben messo in evidenza dal rinvenimento di lingotti in bronzo di cui si dirà, e che nel VI secolo appare aiancato da un altro insediamento sorto poco più a nord, sempre in prossimità del corso del iume (San Prospero, località Castellazzo; Saronio 1989, pp. 109-110 e 114-116, tavv. 2-3). ha portato alla luce una fossa di forma circolare e allungata e buche di palo che la presenza di argilla concotta e incannucciato fanno interpretare come area di insediamento. Il rinvenimento di bucchero, ceramica depurata dipinta a fasce e ceramica grigia fanno propendere per una datazione tra il VI e il V secolo a.C. (Catarsi Dall’Aglio 1997b). 17 Dove almeno una decina di siti sono stati individuati lungo la direttrice in destra Enza (Macellari 1997b). E’ in prossimità dei più settentrionali di essi (area della cava Spalletti) che recentemente sono emersi i resti di una necropoli di cui si dirà. 18 Ambrosetti, Macellari, Malnati 1989; per il paleoalveo: Tirabassi 1989, pp. 38-39. 19 La prima indagine è stata condotta dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Emilia Romagna tra il 2004 e il 2006, in prossimità dell’incrocio tra la strada che proviene da Montecchio e la via Emilia (podere Chiesa), la seconda nel corso della costruzione di una strada di collegamento tra SP 38 e la SP 39, sempre nel 2006. 41 Strenna 3-2015 di Pagine d’Archeologia Fig. 3. Brescello: reperti in metallo, osso lavorato, ambra e pasta vitrea considerati pertinenti a un corredo funerario femminile. Metà del VII secolo a.C. (Reggio Emilia, Civici Musei). Procedendo oltre la linea della via Emilia, in territorio parmense sembra conservarsi una tendenza all’aggregazione del popolamento in prossimità 42/ del corso del iume20, anche se non mancano tracce 20 Rinvenimenti di Casalbaroncolo (strutture di abitato; cenni in Catarsi 2008, p. 142), Casaltone di Sorbolo Locatelli Liguri ed Etruschi lungo la via dell’Enza Fig. 4. Sant’Ilario d’Enza, podere Chiesa (scavo 2006): tratto di acciottolato stradale. VI secolo a.C.. di insediamenti localizzati nella pianura tra Enza e Parma, forse in relazione a corsi d’acqua minori ora scomparsi, allineati comunque lungo una direzione che puntava sulla foce dell’Enza e su Brescello21. Ma è soprattutto in area reggiana che si riscontra la presenza di allineamenti leggermente divergenti dalla direttrice principale e aggregati lungo corsi d’acqua secondari con direzione sud-ovest/nord-est22, nonché di un popolamento più difuso e capillare, come sembra veriicarsi nella zona di Poviglio (Bottazzi, Bronzoni, Mutti 1990, pp. 101-121), probabilmente perché area nella quale le attività di sfruttamento del territorio prevalgono su quelle commerciali. Lungo la via dell’Enza – la cui vocazione commerciale sarebbe denunciata anche dal rinvenimento (tracce di necropoli e tracce di strada selciata; Macellari 2008b, pp. 114-116, 118), Sorbolo-Ramoscello, località Corte Casino (materiali da ricognizioni di supericie; Macellari 2008b, pp. 116-117, ig. 6), Sorbolo-Borghetto di Frassinara (Macellari 2008b, pp.117-119, ig. 4,4-9). 21 Mi riferisco in particolare all’insediamento in località Pedrignano, i cui materiali mostrano chiari riferimenti, come si dirà, con altri attestati oltre il Po. 22 Quali quello verso la zona di Ceresola Nova e Gaida e quello verso l’area di Campegine (Tirabassi 1989, p. 42, rispettivamente nn. 31-37 e 39-42, tav. II). di aes rude e di pani di bronzo con impronta del ramo secco23 – la maggiore testimonianza del rapporto con il mondo etrusco è rappresentata dalla difusione delle importazioni – con conseguente successivo svilupparsi delle produzioni locali – di vasellame in bucchero, attestato in dalla ine del VII secolo. In alcuni casi è possibile desumere indicazioni più stringenti circa l’ambito geograico di riferimento: signiicativa è ad esempio la difusione della ciotola a vasca carenata con alto labbro verticale percorso da solcature orizzontali, forma tipica della produzione pisana di ine VII secolo24; alla stessa produzione pisana è verosimilmente 23 Ciò almeno secondo l’interpretazione di tali reperti come forma di scambio premonetale, concentrati nella fascia di pianura proprio in virtù dell’incrociarsi in questa zona di diverse correnti commerciali. Lungo il corso dell’Enza sono stati efettuati rinvenimenti a Servirola - San Polo, Quingento – S. Prospero, Campegine, Poviglio – Via Tolara. Per la problematica generale e l’illustrazione dei rinvenimenti, Pellegrini, Macellari 2002, pp. 37-59, 125126, con bibliograia precedente. 24 Per la distribuzione del tipo in ambito tirrenico si veda, da ultima, Paltinieri 2010, p. 59. Lungo il corso dell’Enza esemplari sia in bucchero che in impasto provengono da Ceresola Nova (Ambrosetti, Macellari, Malnati 1989, tav. IX, 11-12), da Sant’Ilario, dove sono attestati sia nell’insediamento in località Cave Gazzani (Ambrosetti, 43 Strenna 3-2015 di Pagine d’Archeologia Fig. 5. Localizzazione dei principali porti del Tirreno settentrionale attivi nel VII-VI secolo a.C., in probabile rapporto con gli insediamenti gravitanti sulla Val d’Enza (da Locatelli 2014d). da attribuire anche la ciotola carenata con stampiglia a rosette a otto petali da Servirola San Polo (Damiani et alii 1992, pp. 55, 57-58, n. 244, tav. XXII), o il fondo di ciotola con stampiglia quadrangolare raigurante un quadrupede incedente verso destra proveniente da Parma – località Pedrignano (Stoppani 2013, p. 8), che pare trovare confronti a Massarosa-San Rocchino (Paribeni 1990, p. 85, ig. 35, 36). La presenza di materiali importati dall’ambito tirrenico settentrionale – un fenomeno che peraltro non si limita alla sola valle dell’Enza ma investe anMacellari, Malnati 1989, tav. XIV, 2), sia in quello, ancora inedito, di Podere Chiesa, sia inine in quello di Taneto (Damiani et alii 1992, n. 268, tav. XXIV). 44/ che la più orientale direttrice del Secchia – induce allora a interpretare lo strutturarsi di questi assi di comunicazione come un rilesso di quanto andava accadendo sulla costa settentrionale del Tirreno. Qui il commercio marittimo etrusco, già da tempo attivo e ora egemonizzato dalla città di Pisa, si andava infatti appoggiando su una serie di approdi distribuiti tra la Versilia e il Levante ligure (Maggiani 2004, pp. 222-223; Maggiani 2006), alcuni dei quali certamente rappresentavano anche punti di penetrazione verso i passi e le vie transappenniniche che conducevano alla Pianura Padana 25. 25 La problematica è trattata più difusamente in Locatelli 2014d. L’ipotesi di rapporti diretti tra Emilia occidentale Locatelli Liguri ed Etruschi lungo la via dell’Enza Fig. 6. Sant’Ilario d’Enza, Podere Chiesa (scavo 2006): frammenti di vasi carenati in bucchero decorati a stampiglia con raffigurazione di aquila ad ali aperte. Fine VII-prima metà VI secolo a.C. (disegno C. Buoite). Una delle vie maggiormente indiziate in questo senso, soprattutto per il periodo compreso tra il VII e il VI secolo, è la valle del Magra – ampia e di agevole penetrazione nel tratto più vicino alla costa – dalla quale all’altezza di Aulla si dipartono le vallecole laterali del Taverone e dell’Aulella, che conducono rispettivamente ai passi del Lagastrello e del Cerreto e pertanto alle valli dell’Enza e del Secchia in territorio emiliano. La foce del Magra era dotata di ben due empori, quelli di Fiumaretta e di Ameglia, collocati il primo al limite del territorio ormai etruschizzato della Versilia, il secondo in sponda destra e in territorio ligure26: diicile è però stabilire quale dei due – o in che misura ciascuno di essi – sia da ritenere responsabile della distribuzione dei prodotti del commercio etrusco in territorio emiliano, e nella valle dell’Enza in particolare (Fig. 5). Non mancano infatti – proprio per la fase di ine VII-inizi VI – alcune signiicative consonanze con materiali attestati a Chiavari, sebbene la cronologia dei contesti emiliani risulti più tarda rispetto a quella ed Etruria che prescindevano dalla mediazione di Bologna è già di G. Colonna (Gambari, Colonna 1988, pp. 155 e 158), che però riteneva la valle del Serchio come l’itinerario attraverso il quale le importazioni avevano accesso all’area emiliana. 26 Sull’etruschizzazione dell’area versiliese, da ultimo, Maggiani 2004, p. 223. Per Fiumaretta: Bonamici 1996, pp. 34-35. La frequentazione di VII secolo della zona di Ameglia è documentata da materiali presenti nell’area della necropoli e nelle stesse tombe di età ellenistica (Maggiani 2004, pp. 219-220). dei contesti della necropoli ligure. Per limitarci ai casi riguardanti la direttrice dell’Enza, si possono citare il kantharos in bucchero e un pendaglio a verghetta in bronzo da San Polo d’Enza27, ma soprattutto le stampiglie con raigurazione di un’aquila schematica ad ali aperte rinvenute in un recente scavo condotto in località Podere Chiesa a Sant’Ilario d’Enza28 (Fig. 6). Né va sottovalutato anche l’indizio fornito dalla distribuzione delle statue-stele lunigianesi di età arcaica: evidentemente correlate a forme di autorappresentazione da parte di élites aristocratiche – che si riappropriavano così di una tradizione scultorea millenaria – la loro presenza lungo le direttrici sopra menzionate (valle del Taverone e dell’Aulella) sembra infatti indicare una sorta di controllo dei percorsi commerciali da parte di quei gruppi liguri che l’avanzata degli Etruschi sulle coste della Versilia aveva coninato nell’entroterra (Locatelli 2014d, p. 109). È dunque possibile che nel corso di tutto il periodo arcaico non fossero gli Etruschi – o comunque non solo loro – a gestire le esportazioni di materiale etrusco verso la Pianura Padana e verso il Po, nonché eventualmente a contribuire al popolamento dei centri 27 Per il primo, presente anche con versioni in impasto (Damiani et alii 1992, p. 56, n. 249, tav. XXIII): Paltinieri 2010, p. 52, Taz(it) T 02, ig. 27. Per il secondo: Damiani et alii 1992, p. 169, n. 1349, tav. LXXXVI, con confronti in Paltinieri 2010, p. 78, Pend(br) T 04, ig. 74. 28 Lo scavo, diretto dalla scrivente, è tuttora inedito. La stampiglia è confrontabile con quella presente sulla ciotola carenata proveniente dalla tomba 55D della necropoli di Chiavari (Paltinieri 2010, p. 59, tav. 70,2). 45 Strenna 3-2015 di Pagine d’Archeologia Fig. 7. Distribuzione delle borchie in bronzo di tipo ligure (da Macellari 2008a). collocati lungo le stesse vie, spinti a ciò dalla necessità di controllo delle direttrici commerciali utilizzate. Circa l’eventuale connotazione in senso ligure di tale popolamento29, la documentazione materiale distribuita nel corso di tutto il VI secolo non aggiunge molte indicazioni a quelle già evidenziate; una certa estraneità di alcune forme ceramiche in impasto rispetto alla tradizione padana è tuttavia riscontrabile in alcuni insediamenti della fascia di pianura (ad esempio a Ceresola Nova e a Sant’Ilario d’Enza30), dove alcune morfologie di olle sembrano richiamare l’ambito ligure, e dove – forse non a caso – è attestato un particolare ilone produttivo rappresentato dalla cosiddetta ‘ceramica rusticata’, cioè quel vasellame con supericie esterna ricoperta prima della cottura da una scialbatura di argilla liquida atta a rendere scabra la supericie che è do29 In generale sul problema dei rapporti tra mondo ligure ed Emilia occidentale: Macellari 2008a. 30 Nel secondo caso si tratta dei materiali provenienti dal recente scavo condotto in località Podere Chiesa; per Ceresola Nova: Ambrosetti, Macellari, Malnati 1989, pp. 61-65, tavv. VIII-XII. 46/ cumentata, oltre che nel Reggiano, anche in alcuni siti del Parmense. Sempre a Sant’Ilario sono poi concentrate, per quanto concerne la valle dell’Enza, svariate testimonianze relative a contesti tombali inseribili in quella serie di piccole necropoli a rito misto distribuite nella fascia di pianura tra Piacenza e il Secchia e databili tra i decenni centrali del VI e gli inizi del V secolo, le cui tombe a incinerazione sono caratterizzate dalla deposizione entro un grosso dolio posto all’interno del pozzetto sepolcrale31. È stato sottolineato che tale rituale potreb31 Altro rinvenimento di minore entità lungo l’Enza è quello presso Casaltone di Sorbolo (Vitali 1983, p. 152, n. 15, ig. 14). Da raccolte di supericie condotte in area montana (Groppo in Comune di Vetto citato sopra) proviene inoltre un frammento di fermaglio di cintura a serpentina simile a quello della tomba 20 del sepolcreto delle Fornaci a Sant’Ilario (Ambrosetti, Macellari, Malnati 1989, tav. XXXVIII,1), che potrebbe indiziare la presenza di una tomba. Tutta la documentazione relativa alle tombe a dolio, compresa la inedita necropoli di Pontenure (PC), è stata presa in esame in Zamboni 20082009 (estrema sintesi in Zamboni 2013). La bibliograia relativa a tutti i contesti noti è anche in Locatelli 2014d, Locatelli Liguri ed Etruschi lungo la via dell’Enza be trovare paralleli sia nelle necropoli felsinee che in ambito etrusco-settentrionale, in particolare a Pisa, ma sono la scarsità (in qualche caso si tratta addirittura di assenza) di ceramica di accompagno e la presenza di tipologie di oggetti particolari a sottolineare una sorta di estraneità rispetto al milieu etrusco-padano ed etrusco in generale, estraneità che – messa in evidenza soprattutto per quanto concerne la sfera dell’abbigliamento e dell’ornamento – può a ben ragione essere interpretata come espressione di un’identità culturale precisa. È infatti la presenza in queste necropoli di elementi quali i fermagli di cintura in lamina quadrangolare con decorazione a sbalzo a puntini e borchiette e i pendagli a ruota raggiata che ha indotto prima D. Vitali e poi R. De Marinis a indicare nella documentazione emiliano-occidentale di VI secolo una sorta di facies autonoma, denominata rispettivamente Sant’Ilario-Correggio e S. Ilario-Remedello, o comunque a ipotizzare la presenza di piccoli gruppi estranei alle tradizioni di un’egemonica cultura etrusca32. Ma, una volta appurata l’esoticità del fenomeno delle tombe a dolio, imputabile a fatti non ancora ben chiari33, resta il problema che l’ambito di riferimento culturale non risulta identiicabile in maniera univoca: i confronti infatti spaziano da un orizzonte occidentale (cultura di Golasecca) al mondo ligure, a quello veneto e del Caput Adriae, nonché alla Romagna e a tutto il versante adriatico. Alle stesse conclusioni conduce l’esame di quella particolare produzione di buccheri a probabile destinazione cerimoniale o rituale rappresentati da grandi coppe baccellate, sostegni cilindrici dal proilo costolato, piedi di grandi olle svasati e modanati, le cui testimonianze sono localizzabili in un’area che gravita sul basso corso dell’Enza e dell’Oglio, con attestazioni a Remedello, Fontanella Mantovana e – in area emiliana – a Sant’Ilario e nel già menzionato sito parmense di Pedrignano, oltre che, talvolta con imitazioni in impasto, a Taneto e San Polo34. p. 111, nt. 62. In speciico per Sant’Ilario: Ambrosetti, Macellari, Malnati 1989, passim. 32 Secondo l’opinione di L. Malnati (Malnati 2004, pp. 159160). Per la facies di S. Ilario-Remedello: Vitali 1983, pp. 133-134, 141-142; De Marinis 1986, pp. 65-66, ig. 26; Damiani et alii 1992, pp. 132-134, 146. 33 Dal momento che la maggior parte delle sepolture appartiene a individui di sesso femminile, si potrebbe forse pensare a fenomeni di esogamia piuttosto che allo spostamento di interi gruppi. 34 Sant’Ilario-Fornaci e Sant’Ilario-Bettolino (coperchi con alte impugnature modanate): Ambrosetti, Macellari, Malnati 1989, tavv. XXXIX,3-6 e XLV,1. Taneto (coperchi Privi di confronti precisi con le produzioni note dei centri etruschi – se non per vaghe similitudini con quelle centro-italiche ed etrusco-meridionali35 – questi vasi sembrano raccogliere anche una serie di suggestioni provenienti dal mondo halstattiano orientale. Il fatto dunque che essi siano stati rinvenuti per lo più in connessione con le necropoli inquadrabili nella cosiddetta facies S. Ilario-Remedello36, e che gli stessi corredi di questa facies presentino legami piuttosto stretti – sia a livello di rituale funerario che di tipologie di materiali – anche con l’area veneto orientale e friulana-isontina, potrebbe indurre a concludere che fenomeni di mobilità a partire da quell’ambito e che nel VI secolo investono Bologna possano avere ingenerato la presenza di una tale componente anche in Emilia occidentale (Locatelli 2013a). La questione – allo stato attuale della documentazione – è ben lungi da una risoluzione deinitiva e sicuramente cela situazioni complesse, frutto di rapporti con diversi orizzonti culturali, nonché dell’intersecarsi di svariati fattori (rapporti commerciali, forme di acculturazione, spostamenti di gruppi di persone). Resta comunque il fatto – per tornare al problema del rapporto con il mondo ligure – che nei corredi delle necropoli delle tombe a dolio sono presenti chiari riferimenti anche a questo ambito, ad esempio nelle armille a capi aperti con estremità a pomello simili a prototipi più antichi attestati a Chiacon alte impugnature modanate e fondo di olla): Damiani et alii 1992, p. 57, nn. 265-266, tav. XXIV (bucchero); p. 78, nn. 513-514, tav. XLVII (impasto); p. 61, n. 270, tav. XXIV. Parma-Pedrignano: contesto inedito; anticipazioni in Locatelli 2013c. S. Polo-Servirola (coppa con baccellature e alto piede di coppa): Damiani et alii 1992, p. 61, n. 269, tav. XXIV e p. 65, n. 327, tav. XXIX (impasto). Remedello: De Marinis 1986, pp. 62-64. 35 Il che confermerebbe ancora una volta le direttrici di traico già delineate, dal momento che una componente etrusco-meridionale è presente lungo la rotta tirrenica in dalla sua attivazione alla ine dell’VIII secolo, e non viene meno anche quando tale direttrice è ormai egemonizzata da Pisa e degli empori del Tirreno settentrionale, come dimostrano i materiali di tipo etrusco-meridionale rinvenuti nella necropoli di Chiavari. 36 Così avviene pressoché in tutte le situazioni menzionate, nelle quali i vasi sono stati rinvenuti in fosse collocate in prossimità delle sepolture (a Parma-Pedrignano in una fossa che separa l’area dell’abitato da quella della necropoli), adombrando tra l’altro la possibilità che essi siano da riferire a particolari rituali funerari che contemplino l’utilizzo della ceramica a scopi cerimoniali ma non la sua deposizione all’interno dei corredi. Sul problema: Locatelli 2013b, pp. 33-34. 47 Strenna 3-2015 di Pagine d’Archeologia Fig. 8. Montecastagneto (Castelnovo ne’ Monti): strutture murarie pertinenti all’insediamento di V-III secolo a.C., rinvenute da G. Chierici e riportate alla luce nel corso degli scavi del 2006. 48/ Locatelli Liguri ed Etruschi lungo la via dell’Enza vari37 e nei fermagli di cintura con decorazione a ile di puntini a rilievo, forse da considerarsi un’evoluzione tipologica di quelli chiavaresi, che in taluni casi sostituiscono la decorazione ad appliques semisferiche con quella a pseudo-borchie a rilievo.38 Una delle testimonianze più recenti di questa fase così complessa per il popolamento della valle dell’Enza e dell’area emiliano-occidentale in generale è fornita dalla necropoli da poco individuata a Montecchio, nell’area della cava Spalletti, i cui materiali sono ancora in corso di restauro e di studio39. Si tratta di una decina di sepolture a inumazione, per lo più collocate entro casse lignee e ricoperte da piccoli tumuli di cui sono state riconosciute le tracce. Nonostante l’uso rigoroso dell’inumazione rappresenti una netta diversiicazione dal rituale misto adottato nelle precedenti necropoli, la composizione dei corredi, che ad un primo esame sembrano collocabili in un momento iniziale del V secolo a.C., si allinea al trend compositivo visto in precedenza. Praticamente assente è infatti la ceramica, e gli oggetti di ornamento, tutti appartenenti a tipologie attestate anche a San Polo-Servirola, presentano un panorama di confronti che coinvolge l’ambito golasecchiano, atestino e adriatico40. L’assetto del secolo successivo, cui corrisponde la deinitiva organizzazione del ‘sistema’ Etruria Pada37 Paltinieri 2010, p. 92, tipo Arm(br) T 01, igg. 100-103. In area emiliana il tipo è attestato a San Polo d’Enza e nella tomba 3 del sepolcreto di S. Ilario-Fornaci (Ambrosetti, Macellari, Malnati 1989, p. 104, nn. 16-17, ig. XXVI; Damiani et alii 1992, pp. 153 e 157, nn. 1165-1167, tav. LXXIV). 38 Si tratta di una variante del tipo Fermcint(br) T 01, attestata in ben due tombe della necropoli (Paltinieri 2010, pp. 89-90, igg. 93-94). Difusione in ambito emiliano: Damiani et alii 1992, pp. 173 e 175, nn. 13661368, 1372, 1375, 1377, tavv. LXXXVII-LXXXVIII. 39 Lo scavo, del 2011, è stato condotto con la direzione della scrivente per quanto concerne la fase relativa alla necropoli dell’età del Ferro. 40 Sono infatti presenti, tra gli altri, bracciali spiraliformi tipo 4, varietà A (Damiani et alii 1992, p. 155, n. 1190, tav. LXXVII), vari tipi di pendagli a secchiello, tra cui uno a corpo ovoide e collo cilindrico decorato da incisioni orizzontali attestato anche a San Polo (Damiani et alii 1992, p. 167, n. 1325, tav. LXXXV; per il confronto Damiani et alii 1992, p. 170, nt. 197), pendagli a bulla (Damiani et alii 1992, pp. 168 e 170, nt. 200, nn. 1335-1336, tav. LXXXV), vaghi in pasta vitrea con motivo decorativo a zig zag bianco su fondo blu o con decorazione “ad occhio” molto difusi in area veneta, vaghi in ambra e conchiglie cipree. na e dei suoi capisaldi urbani, vede da un lato una stabilizzazione del popolamento precedente e un incremento del numero degli insediamenti41, dall’altro uno stemperarsi di elementi riferibili al mondo ligure. Ciò in particolare nella zona di pianura, dove la documentazione materiale restituita dai centri di nuova fondazione42 così come da quelli già attivi nel secolo precedente si allinea completamente con quanto documentato dal restante ambito etrusco-padano, probabilmente per efetto della probabile – ma per questo periodo non documentata – attività del porto luviale di Brescello e del conseguente arrivo di merci di importazione che, a partire dal porto di Spina, percorrevano la via luviale del Po. E qui si concentrano anche le iscrizioni che rivelano la presenza di etruscofoni, per lo più rappresentate da sigle, oppure da prenomi scarsamente signiicativi43, più raramente da prenomi uniti a gentilizi (Macellari 2004, pp. 146-151). Non è chiaro tuttavia se il raforzamento della componente etrusca del popolamento che tali iscrizioni sembrano celare debba essere riferita a fattori del tutto interni all’area padana (con una gestione del processo evidentemente da imputare a Bologna) oppure a nuovi apporti provenienti dall’Etruria propria, come sembrerebbe indicare il gentilizio Perkalina menzionato nell’iscrizione rinvenuta a Fodico di Poviglio e per il quale A. Maggiani ha proposto la derivazione dal nome Perkale, che ha riscontri in Etruria settentrionale44. Sta di fatto che la via commerciale che nel V secolo percorreva la valle dell’Enza potrebbe ora avere come corrispondente al di là del crinale appenninico non più la valle del Magra e l’areale ligure, bensì 41 Fenomeni ai quali potrebbe non essere del tutto estranea la presenza del lituo in bronzo da Sant’Ilario d’Enza, databile a ine VI secolo e forse riferibile a qualche episodio di colonizzazione e fondazione (Macellari 1994). 42 Ad esempio il Monte di Montecchio (Macellari 1989a e b; altri materiali in Damiani et alii 1992, passim, riferimenti alla p. 242). 43 Come l’υχυ presente su un orlo di anfora attica databile a ine VI secolo rinvenuto a San Prospero Parmense, che tuttavia R. Macellari interpreta come nome di un indigeno acculturato all’etrusca (Macellari 2008a, pp. 364-375). 44 Nel quale tuttavia il suisso –ale potrebbe essere interpretato come variante ligure del più difuso suisso padano –alu. Sul problema Macellari 2004, p. 148, con riferimenti bibliograici. 49 Strenna 3-2015 di Pagine d’Archeologia Fig. 9. Montecastagneto (Castelnovo ne’ Monti): materiale di tradizione ligure (ceramica di impasto con decorazioni incise e a tacche, ceramica depurata dipinta, borchia in bronzo), (disegni C. Buoite; elaborazione grafica R. Gabusi). quella valle del Serchio in cui, dopo il boom demograico del Bronzo Finale e il successivo spopolamento, decolla una nuova fase insediativa solo a partire dalla ine del VI secolo a.C. (Ciampoltrini 1993a, p. 73). E l’insieme di queste due percorrenze (Serchio e Secchia) rappresenta quasi certamente quel sistema di comunicazioni che dovevano collegare Pisa e il porto di Spina di cui parlano anche le fonti (Maggiani 1985). È da rilevare tuttavia che, man mano che dalla fascia di pianura ci si addentra seguendo questo ipotetico percorso verso il crinale appenninico, oltre a registrare ancora una volta la presenza di materiali che esulano dal panorama di quelli normalmente veicolati lungo le rotte commerciali etrusche ed etru- 50/ sco-padane45, riemergono anche le tracce relative alla presenza della componente ligure. Così accade ad esempio per Servirola-San Polo, centro che è oggetto in questo periodo di una com45 Tali sono ad esempio, in un contesto caratterizzato dalla presenza di ceramica attica e di vasellame in bronzo di tipo simposiaco, la iasca da pellegrino in lamina di bronzo e la ibula presente nella tomba di Bibbiano. La prima, ampiamente difusa in Italia settentrionale e in area transalpina, è probabilmente da riferire a una produzione localizzata in Italia nord-orientale, la seconda – ricollegabile al tipo Fraore – rappresenta un tipo caratteristico dell’area golasecchiana. Per l’esame del contesto e dei materiali: Damiani et alii 1992, pp. 84-85, nn. 545-546; p. 112, n. 751; p. 115, n. 760; p. 130, n. 963; p. 232; Pellegrini 1989. Locatelli Liguri ed Etruschi lungo la via dell’Enza pleta ristrutturazione in senso urbano (Macellari, Bertani 1998) e che doveva fare parte di un sistema integrato a controllo del punto di accesso alla media valle dell’Enza che comprendeva anche il suo corrispondente in sinistra idrograica, l’abitato di Guardiola di Guardasone, nonché l’insediamento sul monte Pezzola, in grado di dominare dall’alto l’accesso alla vallata46. L’abbondanza di ceramica attica e di importazioni etrusche da un lato (rispetto a quanto restituito dagli altri insediamenti della valle dell’Enza)47e la presenza di borchie troncoconiche in bronzo dall’altro48, fa sì che l’insediamento di Servirola appaia come una sorta di centro di smistamento tra il lusso di traici che proveniva dal Po e dalla zona della pianura e quello che giungeva dall’area etrusco-settentrionale, attraverso un percorso proveniente dai passi appenninici segnalato dagli insediamenti di Monte Tesa e poi di Luceria, presso Ciano d’Enza (Macellari 2005, p. 37). La distribuzione delle borchie troncoconiche, oltre a fornire una precisa caratterizzazione culturale del popolamento di V secolo in area appenninica, testimonia che il sistema di comunicazioni già visto operante per un periodo più antico è di nuovo attivo. Benché fondato su un numero maggiore di insediamenti, sorta di punti logistici caratterizzati dalla presenza di pozzi per l’approvvigionamento idrico ora ben visibili l’uno dall’altro (Macellari 2008a, pp. 376-377, Macellari 1995b), esso ripropone il percorso già evidenziato anche per quanto concerne l’innesto della valle dell’Enza su quella del Secchia nel tratto più vicino al crinale, nonché per il ruolo centrale rappresentato dalla Pietra di Bismantova (Fig. 7). 46 L’insediamento, già noto per i rinvenimenti ottocenteschi del Chierici, ha restituito più di recente materiali di V secolo e ceramiche di tipo ligure. Oggetto di sondaggi di scavo efettuati dalla Soprintendenza nel 2005, ha rivelato però uno scarso stato di conservazione degli elementi strutturali relativi all’occupazione del pianoro. Per Guardasone: De Marchi 2005, pp. 103-105, ig. 4. 47 Per le importazioni di ceramica attica: Damiani et alii 1992, pp. 84-106, tavv. B-N, passim; probabili importazioni da area etrusca sono invece gli elementi pertinenti a candelabri in bronzo e tripodi (Damiani et alii 1992, pp. 203 e 206, nn. 1747-1749 e 1765-1767, tavv. O-P), mentre di incerto inquadramento è un amphoriskos in pasta vitrea (Damiani et alii 1992, p. 107, n. 690, tav. A). 48 Ritenute tipiche del costume femminile ligure esse rappresentano, come è noto, una variante tipologica di quelle – più antiche – presenti nella necropoli di Chiavari. Difuse in media e alta valle, San Polo rappresenta il punto più settentrionale di attestazione (Fig. 7, in questo articolo). E tale innesto poteva avvenire ancora una volta tramite percorsi intervallivi segnati da torrenti tributari dell’Enza. È il caso della via lungo il Tassobbio, su cui è l’insediamento di Monte Venera (Macellari 2005, p. 37), o di quella che – come già nel Bronzo Finale – toccava il sito di Monte Castagneto, dove gli scavi condotti dal Chierici sul pianoro sommitale nei decenni inali dell’Ottocento portarono alla luce robuste murature in scaglie di arenaria e un grande pozzo monumentalizzato (sintesi in Macellari 1995b, pp. 88-90). Indagini condotte dalla Soprintendenza tra il 2005 e il 2011 hanno consentito di riportare alla luce le strutture individuate dal Chierici, chiarendo meglio la stratigraia dell’insediamento (Fig. 8). Lo studio dei materiali recuperati è ancora in corso, ma una prima loro ricognizione ha consentito di veriicare innanzitutto che la vita dell’insediamento si prolunga per varie fasi edilizie che senza soluzioni di continuità si dispongono tra il V e il III/ II secolo a.C., nonché la compresenza di materiale di tipo etrusco-padano con altro rapportabile a una facies ligure: si tratta di ceramica di impasto con tipiche decorazioni a onda o a tacche sull’orlo, di ceramica depurata dipinta aine a quella prodotta in area apuana49, oltre che delle usuali borchie tronconconiche, rinvenute del resto anche nell’area alle pendici del monte che doveva fungere da necropoli dell’insediamento50 (Fig. 9). Anche nel corso del V secolo tutto l’ambito appenninico continuerebbe pertanto ad essere interessato da un popolamento ligure, senza che la occorrenza di materiale di tipo etrusco, di per sé imputabile a una circolazione di tipo commerciale, debba necessariamente implicare anche quella presenza isica di etruscofoni che invece segnalano le iscrizioni della fascia di pianura. Dove senza dubbio l’elemento etrusco rappresentava componente egemone, funzionale a saldare il consolidato sistema di comunicazioni dell’Etruria padana con le rotte commerciali transappenniniche, la cui gestione e controllo erano evidentemente state lasciate – mediante forme di accordo di cui ci sfuggono i contorni – ai Liguri stanziati nel comparto appenninico. Non a caso, infatti, 49 Ciampoltrini 1993b, passim; esempi di vasi appartenenti a questa produzione anche in De Marinis, Spadea 2004, pp. 422-428. 50 Il Chierici cita infatti il rinvenimento a Ferniola di sepolture a inumazione e di materiali che di recente R. Macellari ha identiicato tra quelli della collezione Chierici: Macellari 2007, p. 102, ig. 2. 51 Strenna 3-2015 di Pagine d’Archeologia il punto di incontro tra le due sfere di controllo può essere molto probabilmente identiicato nell’insediamento collocato in corrispondenza dello sbocco in pianura dell’Enza, su quel terrazzo di Servirola che alla compresenza di materiali di pertinenza dei due ambiti associa forme di urbanizzazione sconosciute nel mondo ligure e comparabili a quelle adottate nei centri ristrutturati in funzione delle nuove esigenze del sistema etrusco-padano (ad esempio Marzabotto). L’assetto delineato sembra inizialmente sopravvivere anche all’invasione gallica degli inizi del IV secolo: ancora per almeno mezzo secolo infatti la fascia rivierasca del Po, e dunque anche il porto di Brescello, rimangono sotto il controllo etrusco, a giudicare dai materiali di datazione più tarda rinvenuti a Brescello stesso, a Guastalla e a Viadana (sulla sponda lombarda), risultato di quella stessa circolazione di merci che aveva caratterizzato il secolo precedente51. E la medesima continuità di importazioni di ceramiche attiche ed etrusche si riscontra, ino alla metà del IV secolo, a San Polo-Servirola, associata a una presenza di oggetti di tipo lateniano assolutamente sporadica, ma che proprio qui era stata particolarmente precoce. Risalgono infatti alla ine del V-inizi del IV secolo una ibula di tipo tardo-halstattiano occidentale e un gancio di cintura traforato con motivo igurato, considerati indizio la prima di rapporti commerciali con l’Europa centro-occidentale, il secondo – in quanto elemento tipico dell’abbigliamento militare – della presenza di un guerriero celta52. Ad un periodo più tardo, collocabile tra la ine del IV e la prima metà del III, si ascrivono alcuni oggetti di ornamento forse riferibili a una sepoltura femminile: sia bracciale che il collare con anelli applicati contornati da elementi 51 Macellari 2004, pp. 153-155. Non è invece chiaramente valutabile il ruolo di un insediamento posto anch’esso in prossimità della parte inale del corso dell’Enza, ma in territorio parmense, quello di Borghetto di Frassinara. Già attivo nei secoli precedenti, mostra – a giudicare dalle tipologie della ceramica di impasto – una continuità di vita anche per il IV-III secolo, ma non ha per ora restituito materiale di importazione. Il rinvenimento di un frammento di parete con decorazione di tradizione lateniana ha fatto sì che esso venisse messo in relazione con il popolamento celtico della fase dopo l’invasione, ma si tratta di un tipo di decorazione di norma attestata anche nelle produzioni liguri. Per il sito in generale: Macellari 2008b, pp. 117-119, igg. 4, 4-9. 52 Ciò a prescindere dalla questione relativa alla sua dibattuta provenienza (area centroeuropea o meridionale): Damiani et alii 1992, n. 1393, pp. 174 e 176, tav. LXXXIX. Sul problema: Frey 1987; Kruta 1987; Bondini 2003. Per la ibula: Damiani et alii 1992, n. 967, p. 131, tav. LXIV. 52/ globulari, entrambi con decorazione in stile vegetale continuo, trovano confronti – come già il precedente gancio traforato - nella zona marniana53. La possibilità che l’insediamento sul terrazzo di Servirola abbia subito dopo la metà del IV secolo un forte restringimento e sia stato occupato da una necropoli degli ‘invasori’ è ipotesi che si può basare soltanto sui materiali menzionati, e su una punta di lancia che il Chierici dice ritrovata “al centro del tumulo di ghiaia” (Macellari 1997a, p. 1), i quali tuttavia – in assenza di contesti di riferimento – potrebbero anche essere interpretati come oferte in relazione al culto che sembra ancora mantenersi in vita intorno al pozzo situato al centro del terrazzo. Del resto tutto il territorio aferente al torrente Enza non restituisce testimonianze attribuibili con chiarezza all’ethnos celtico in generale, e in particolare poi a quella componente boica che considerazioni di carattere storico inducono a ritenere ricoprisse un ruolo egemone anche nel comparto della pianura occidentale, oltre che a Bologna e nel bolognese. La presenza di individui di stirpe celtica è infatti segnalata soprattutto da oggetti pertinenti la sfera femminile: così è per i reperti sopra menzionati da San Polo, e così è per le armille in vetro rinvenute a Bibbiano, che potrebbero indicare fenomeni altri da quello dell’occupazione stabile del territorio ed essere imputabili a episodi di esogamia destinati a rinsaldare rapporti di tipo commerciale, sempre che – in particolare le ultime – non siano addirittura da inserire nel novero delle semplici acquisizioni di merci esotiche.54 Poche altre indicazioni non chiaramente interpretabili55, troppo generiche e non più controllabili56, op53 Damiani et alii 1992, nn. 1219 e 1436, pp. 157 e 181, tavv. LXXXXII e XCI; a essi si aggiunge un collare rigido inornato (Damiani et alii 1992, n. 1435, p. 181, tav. XCI). Un confronto stringente per il primo collare è in Kruta Poppi 1999, pp. 89-90, nn.116-117. 54 Armille in vetro di produzione gallica risultano infatti abbastanza difuse anche in ambito ligure. Per Bibbiano: Macellari 1990b (databili tra la seconda metà del III e gli inizi del II secolo a.C.). 55 Tale è l’iscrizione leponzia di IV secolo a.C. da PoviglioCase Carpi, recante tuttavia l’indicazione di un nome attestato anche in quelle lunigianesi (Macellari 1990a, pp. 266-267, tav. LXXIX,4). 56 Come le notizie relative al rinvenimento di “ibule celtoetrusche” in località Froldo Croce a Boretto (Carta Archeologica della provincia di Reggio Emilia. Comune di Boretto, 1989, p. 18, n. 1) o di un “complesso funebre di tipo gallico” a Brescello (Carta Archeologica della provincia di Reggio Emilia. Comune di Brescello, 1989, p. 32, n. 1). Locatelli Liguri ed Etruschi lungo la via dell’Enza pure di cronologia molto avanzata57 si aggiungono alle precedenti senza contribuire a delineare una isionomia chiara del territorio di pianura in una fase avanzata del IV e nel III secolo, mentre piuttosto ben radicato appare – come già in precedenza – il popolamento ligure dell’area collinare e montana, testimoniato da rinvenimenti di supericie distribuiti tra bassa e alta valle.58 Dato questo quadro generale, è a mio avviso possibile che la più volte sottolineata ‘rinascita’ dei Liguri della montagna a partire dal momento in cui le invasioni galliche degli inizi del IV secolo determinarono il tracollo dell’assetto precedente sia da imputare non tanto a un aumento del controllo da essi esercitato sul territorio occupato o al fatto che improvvisamente prendano possesso della postazione chiave di Bismantova59, quanto all’isolamento determinatosi nel tempo proprio a causa dell’invasione e della conseguente lessione dei lussi commerciali lungo le rotte transappenniniche. Flessione che, interrompendo anche tutte le dinamiche di scambio commerciale e acculturazione, determinò l’inizio di una nuova fase, nella quale riemersero gli aspetti speciici e caratterizzanti la sola cultura ligure. Aspetti che infatti si manifesteranno in pieno, sul piano sia del rituale funerario che della cultura materiale, nella tarda facies delle tombe a cassetta della valle dell’Enza60, scaglionate tra la metà del III e la metà del I secolo a.C. tra l’alta valle e la pianura a segnalare – nei corredi sempre più ricchi di riferimenti all’ambito romano – la progressiva acculturazione delle genti liguri della montagna dopo la sconitta subita intorno alla metà del II secolo e le successive deportazioni forzate in pianura in nuovi insediamenti pienamente inseriti nei circuiti commerciali del nuovo stato romano, come nel caso di Luceria. 57 Una ibula di tradizione lateniana da Poviglio-podere S. Rosa, confrontabile con esemplari databili a partire dal I secolo a.C. (Bottazzi, Bronzoni, Mutti 1990, ig. 33,13) e una moneta da Boretto appartenente a una emissione non padana, forse pervenuta in età cesariana (Macellari 2008b, p. 119, nt. 36, con bibl. precedente). 58 Dove le ceramiche di impasto di tipo ligure sono spesso associate a ceramica a vernice nera di produzione nordetrusca. Si tratta dei rinvenimenti di Canossa-castello di Rossena, Vetto-Monte Sole, Ramiseto-Castellaro di Cecciola sul fronte reggiano (De Marchi 2005, pp. 193-197, ig. 21), di Montesalandro di Guardasone, Monte Verola e Monte La Pila su quello parmense (Idem, pp. 190, 166-169). 59 Sui materiali che documentano la frequentazione ligure della rupe e della zona circostante nel IV-III secolo a.C., su cui in questa sede non ci si soferma in quanto non strettamente pertinenti alla valle dell’Enza, Macellari 2007, pp. 101-102. Ad essi va aggiunto il recente fortuito rinvenimento, da parte di I. Tirabassi, di tre corredi funerari con oggetti di tipologia ligure efettuato lungo la parete meridionale della Pietra, rinvenimento tuttora inedito. 60 Per la seriazione cronologica delle tombe Malnati 1990, pp. 285-289 e Malnati 2004, pp. 162-163; sintesi sui diversi corredi sono anche in Macellari 2005, pp. 43-44 e Macellari 1997a, pp. 3-4, con carta di distribuzione dei rinvenimenti (ig. 3). Bottazzi, Bronzoni, Mutti 1990 = G. Bottazzi, L. Bronzoni, A. Mutti (a c.), Carta archeologica del comune di Poviglio: 1986-1989, Poviglio 1990. Riferimenti bibliografici Ambrosetti, Macellari, Malnati 1989 = G. Ambrosetti, R. Macellari, L. Malnati (a c.), Sant’Ilario d’Enza. L’età della colonizzazione etrusca. Strade villaggi sepolcreti, Reggio Emilia 1989. Ambrosetti, Macellari, Malnati 1990 = G. Ambrosetti, R. Macellari, L. Malnati (a c.), Vestigia Crustunei. Insediamenti etruschi lungo il corso del Crostolo, Reggio Emilia 1990. Armanini 2007 = M. 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Nel 1983, pochi anni dopo la nomina a funzionario archeologo nella Soprintendenza Archeologica dell’Emilia Romagna, in accordo con il Comune di Ciano d’Enza (ora Canossa), promuovevo con il sostegno dell’allora Soprintendente Giovanna Bermond Montanari, la ripresa degli scavi nel sito dell’antica Luceria. Non si trattava di una scelta evidentemente casuale, ma di una strategia che esprimeva la volontà di indagare alcune delle principali evidenze archeologiche della provincia di Reggio Emilia, già a suo tempo messe in luce dall’opera, in particolare, di Gaetano Chierici, e che aveva portato la Soprintendenza l’anno precedente a condurre una campagna di scavo anche a Bismantova. Per quanto riguarda Luceria, lo scopo dell’intervento di scavo era anche legato a motivi di tutela, in quanto si trattava di veriicare le condizioni di conservazione dell’area archeologica e di deinirne l’estensione a seguito di interventi edilizi che erano stati efettuati negli anni Settanta e che avevano portato all’ediicazione di alcuni stabili a poca distanza dal limite presunto dei resti archeologici. In tali interventi, i controlli in corso d’opera non pare avessero identiicato la presenza di resti antichi. Gli scavi, che a partire dalla ine del Settecento avevano interessato il sito, avevano messo in luce resti riferibili ad un centro di età romana relativamente poco esteso ma con strutture urbane ben riconoscibili, in particolare una strada selciata, pozzi in cotto, diversi ambienti delimitati da fondazioni in ciottoli e alcune sepolture ad incinerazione in cassetta di tegole. Il sito, identiicato con la Nuceria citata da Tolomeo tra le città della Gallia Togata per la presenza sul posto del “ri d’Lusera”, presenta un particolare rilievo nell’indagine sulla problematica relativa al processo di romanizzazione delle popolazioni liguri dell’Appennino emiliano, Friniati e Apuani. Tra le sepolture recuperate lungo la strada selciata almeno una, di cui si è conservato il corredo, è infatti sicuramente attribuibile ai Liguri. Si tratta della tomba 3 del 1861, la cui struttura era costituita da una cassa laterizia, con pareti in mattoni, piano e copertura in tegole. I mattoni erano di dimensioni anomale rispetto ai sesquipedali canonici, con misure (52x40x4) che richiamano quelli rinvenuti nelle mura di Ravenna o in quelle di Modena, presumibilmente databili nell’arco del II secolo a.C. e riutilizzati in una sepoltura di epoca leggermente posteriore. La datazione del corredo, ad incinerazione entro una situla bronzea, riposa soprattutto sulla ibula in argento tipo Nauheim: l’orizzonte di tali ibule è ora collocato all’inizio del La Tène D, negli anni a cavallo del 100 a.C. 57 Strenna 3-2015 di Pagine d’Archeologia Fig. 1. Saggi di scavo sul sito di Luceria. Si tratta di una sepoltura femminile di rango appartenente all’élite di stirpe ligure che si stava integrando nella cultura romana dominante: soprattutto le ibule e i braccialetti in argento si inquadrano nella tradizione locale, mentre le collane, il vaso utilizzato come cinerario e la stessa struttura laterizia della tomba rivelano il processo di acculturazione ormai avanzato. Questa sepoltura, per altro non isolata, anche se delle altre tombe rinvenute non sono state conservate le associazioni in corredo, era indicativa delle potenzialità d’indagine del sito di Luceria per quanto riguarda la fase inale della cultura ligure in Emilia. È per questo motivo che i sondaggi del 1983, proseguiti nel 1985, si sono particolarmente concentrati sull’analisi stratigraica dell’insediamento, non limitandosi quindi allo scoprimento dei resti archeologici di età imperiale romana, ad evidenza strutturale e monumentale, ma concentrandosi anche sull’individuazione della fasi precedenti (ig. 1). Si presentava quindi l’occasione concreta di investigare un abitato ligure dell’Appennino emiliano, 58/ in una situazione di scarsa conoscenza di queste realtà in regione; negli stessi anni invece scavi mirati e studi sistematici erano stati condotti in tutte le realtà liguri contermini, in Liguria, nel Piemonte meridionale e nella Toscana settentrionale (Chiaramonte Treré 2003). Riepilogherò in forma sintetica i risultati dei sondaggi eseguiti nel 1983 e nel 1985, in quanto sono stati editi in forma pressoché completa nel 1990, nel III volume della collana di Studi Miscellanei promossa dal compianto amico Fernando Rebecchi (Cerchi 1987; Malnati et alii 1990.). Le aree sottoposte a scavo furono due, una (AC) collocata nel settore meridionale del centro antico (ig. 2), in prossimità delle realizzazioni edilizie più recenti, allo scopo di delimitare in via deinitiva l’area archeologica e escludere al di là di qualsiasi dubbio ogni possibilità di ulteriori ediicazioni, l’altra (B-D) più spostata verso Ovest (ig. 3), dove il maggior declivio assicurava una consistenza stratigraica del deposito archeologico meglio conservata. Malnati Luceria tra Liguri e Romani alla luce degli scavi degli anni Ottanta Fig. 2. Settori A e C di età romana. Il primo saggio (A-C) ha rilevato la presenza di strutture edilizie di età romana in due diverse fasi, la più recente delle quali, mal conservata perché piuttosto supericiale (ig. 4a-b), vive almeno ino al IV secolo d.C., come testimoniato dal rinvenimento di un follis in bronzo di Costanzo Cesare, datato tra il 330 e il 335; la più antica fase strutturale sembra datarsi ad età augustea. Si tratta di fondazioni murarie in ciottoli e pochi laterizi unite con malta, che sembrano mantenere l’orientamento dell’impianto stradale individuato in varie occasioni in passato e riscoperto negli scavi più recenti (ig. 5). Nel saggio è stato possibile veriicare la stratigraia, che conservava, al di sotto dello strato di età romana un livello di frequentazione con reperti riferibili all’orizzonte ligure databili sicuramente al III-I secolo a.C., con qualche indizio riferibile anche a periodi precedenti. Nel secondo sondaggio (B-D) i livelli di età romana, riferibili alla prima età imperiale, erano molto mal conservati e limitati a resti di strutture murarie e ad un piano pavimentale in battuto. Al di sotto di queste strutture sono stati messi in luce un ambiente rettangolare e una modesta porzione di un altro vano contiguo, entrambi appartenenti ad un ediicio abitativo, obliterato dalle strutture successive (figg. 6a-b). I due ambienti erano sotto-scavati per circa 25 cm rispetto al terreno vergine e si erano conservati in modo decisamente buono, almeno per quanto riguarda i piani pavimentali, in cocciopesto con rarissimi inserimenti di tessere bianche. Gli ambienti erano delimitati da fondazioni murarie in ciottoli ben connessi. I livelli di crollo di questo ediicio erano costituiti principalmente da frammenti di tegoloni che riempivano completamente la cavità artiiciale ino al livello del piano pavimentale della fase successiva; tra i reperti riferibili alla demolizione dell’ediicio era un frammento di ceramica a pareti sottili grigia, che ne deinisce l’obliterazione nella prima metà del I secolo d.C., in coincidenza con la nuova fase edilizia. Il poco materiale recuperato invece in un piccolo saggio al di sotto delle strutture scoperte colloca la fondazione di questo ediicio nella fase di II secolo a.C., in accordo 59 Strenna 3-2015 di Pagine d’Archeologia Fig. 3. Settore B, fase romana. 60/ Malnati Luceria tra Liguri e Romani alla luce degli scavi degli anni Ottanta Fig. 4a. Settore C, strutture di età tardoantica. 61 Strenna 3-2015 di Pagine d’Archeologia Fig. 4b. Settore C, strutture di età tardoantica. con il materiale edilizio che costituiva la copertura ittile in tegole. Purtroppo gli impegni connessi con il continuo lavoro di tutela svolto nella provincia di Reggio Emilia negli anni successivi non mi hanno consentito di proseguire gli scavi di Luceria, come mi ero ripromesso di fare, proprio allo scopo di indagare meglio la prima fase insediativa di questo abitato, così importante per lo studio dell’integrazione delle popolazioni liguri nella nuova provincia romana della Cispadana. Per quanto riguarda i risultati degli scavi di quegli anni, a trent’anni di distanza, non mi sofermerò sulla fase di età romana, per la quale i successivi interventi di scavo di Enzo Lippolis e Renata Curina hanno portato novità e dati più sostanziali. Tuttavia le informazioni acquisite all’epoca per la fase dell’insediamento ligure mi sembrano ancora importanti. Mi pare chiaro che è stata confermata la cronologia relativamente tarda dell’insediamento di Luceria, presumibilmente tra la ine del III e l’inizio del II secolo a.C., in accordo quindi con i dati della necropoli, per quel che si è potuto recuperare di quest’ultima. 62/ Siamo quindi nella fase immediatamente successiva alla prima vittoria romana sui Boi nel 223 o, al massimo, alla disfatta deinitiva dei Liguri Friniati nel 177 a.C.. Si può pensare ragionevolmente che, nel momento in cui è ormai chiusa la fase di scontro tra Liguri e Roma, le comunità liguri superstiti dell’Appennino (i Romani operarono vere e proprie deportazioni in pianura e addirittura nella penisola) si siano andate concentrando in centri abitati di maggiori dimensioni nelle aree di fondo valle, lasciando il sistema di villaggi arroccati in posizioni d’altura. In tali centri maggiormente inseriti nei circuiti commerciali e culturali romani, collegati ai centri coloniali, avviene in modo graduale il processo di romanizzazione, che si va concludendo presumibilmente in età augustea. Si tratta di un percorso che, a grandi linee e in modo più clamoroso, avviene sui colli Piacentini per quanto riguarda Veleia. Credo che l’eventuale prosecuzione delle indagini a Luceria possa in futuro meglio chiarire queste fasi ancora non suicientemente note dell’archeologia regionale. Malnati Luceria tra Liguri e Romani alla luce degli scavi degli anni Ottanta Fig. 5. Settore B, strutture di età imperiale. 63 Strenna 3-2015 di Pagine d’Archeologia Fig. 6a. Settori B e D, fase di II-I sec. a.C. Planimetria. Mi sia consentito concludere questa breve nota con il ricordo di coloro che con me collaborarono a quello scavo, tutti non solo collaboratori, ma cari amici, molti dei quali hanno continuato e continuano anche oggi 64/ a lavorare con successo come archeologi: Lia Scotti, Anna Maria Volontè, Laura Romanazzi, Enrica Cerchi (la cui tesi su Luceria è stata fondamentale), Ivan Chiesi, Donato Labate, Maurizio Forte, Gian Luca Bottazzi. Malnati Luceria tra Liguri e Romani alla luce degli scavi degli anni Ottanta Fig. 6b. Settori B e D, fase di II-I sec. a.C. foto. Riferimenti bibliografici Cerchi 1987 = E. Cerchi, Luceria e il popolamento romano nella bassa valle dell’Enza, in M. Calzolari, G. Bottazzi (a c.), «L’Emilia in età Romana. Ricerche di topograia antica», Modena 1987, pp. 69-83. Chiaramonte Treré 2003 = C. Chiaramonte Treré (a c.), Antichi liguri sulle vie appenniniche tra Tirreno e Po: nuovi contributi, Milano, 17 gennaio 2002, Milano 2003. Malnati et alii 1990 = L. Malnati, E. 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In una prima fase, l’emancipazione politica di colonie e protettorati ha posto le basi di un nuovo sistema di rapporti, che si è afermato in un secondo momento, quando si è imposta la tendenza a una marcata globalizzazione incentivata dalle nuove forme di elaborazione e di comunicazione digitale, responsabili di una vera e propria rivoluzione. Così, mentre le nazioni europee iniziano ad afrontare il rischio di una subalternità che potrebbe invertire i ruoli consueti, si è avviata una rilessione sempre più critica sul tema dei rapporti tra comunità, sui meccanismi come sulle conseguenze sociali dei fenomeni legati alle dominazioni di tipo imperialista, attuate in maniera più o meno violenta, sui processi di integrazione e sullo sviluppo delle culture miste, gli ibridismi, su cui si è sviluppato un acceso dibattito. Al centro dell’analisi si pongono soprattutto il sistema coloniale messo in atto dalle potenze europee tra Ottocento e Novecento e le motivazioni che lo avevano giustiicato. La superiorità culturale e l’opera di civilizzazione invocate dagli europei oggi appaiono sempre più chiaramente il processo di mistiicazione di una realtà animata invece da soprafazioni brutali, da sconvolgimenti radicali dei sistemi di vita delle diverse società violentate dalla presenza europea, con la riscoperta del punto di vista e della qualità culturale degli ‘altri’. La crescita culturale e di identità delle vaste regioni colonizzate o un tempo oggetto di tentativi di colonizzazione, comprese alcune che apparivano depositarie, sin dall’inizio, di una storia sociale complessa e autorevole, come la Cina o l’India, hanno costretto gli osservatori a constatare in molti casi il fallimento e l’ingiustizia del colonialismo. Non ci si deve meravigliare se tali indirizzi di ricerca abbiano cercato paralleli proprio nei fenomeni di colonizzazione antica, per cercare di riconoscerne meccanismi e forme applicative. In quest’ottica, quindi, hanno acquistato un interesse particolare le vaste colonizzazioni conosciute dal Mediterraneo e dall’Europa, prima per opera delle comunità greche tra VIII e II sec. a.C. e poi per mano dello stato romano tra la seconda metà del IV sec. a.C. e il IV sec. d.C. La riscoperta del ruolo delle popolazioni soggette a queste occupazioni e le trasformazioni indotte da tali sistemi politici invitano a rivalutarne la capacità di autonomia e a sottolinearne forme di identità riconoscibili. Anche per poter deinire queste comunità subalterne, si è aperta una discussione sulla terminologia più corretta per poterle indicare: indigeni, nativi, locali, autoctoni sono alcuni dei nomi impiegati, quando non si preferisce usare semplicemente gli etnonimi originari, se sono attestati. La cattiva coscienza degli Europei contemporanei si muove, quindi, ora più correttamente, nella direzione di una rivalutazione attenta dei casi e dei 67 Strenna 3-2015 di Pagine d’Archeologia Fig. 1. Appennino bolognese presso Monterenzio, in cui è ubicato il sito archeologico di Monte Bibele. ruoli assunti dai diversi protagonisti di tali vicende storiche ma non può adattare la realtà antica all’immaginario contemporaneo. L’occupazione dell’Italia romana, per esempio, non può non essere riconosciuta in tutta la sua brutalità, in maniera indipendente dagli esiti culturali del processo messo in atto. Nel momento della conquista e della rideinizione territoriale e amministrativa dei territori si sono sperimentate, infatti, soluzioni radicali e diverse: pogrom di intere comunità (per es. nel caso degli Equi, dei Cartaginesi o dei Corinzi), deportazioni di massa (come per i Picenti e per i Liguri), difuse espropriazioni e marginalizzazioni, interventi che hanno condizionato in maniera nuova e deinitiva il panorama geo-politico e sociale delle regioni conquistate. In alcuni casi, quindi, la colonizzazione non è un fenomeno reversibile. Nella zona tra Appennino e Pianura Padana, per esempio, sono state messe in atto operazioni particolarmente drastiche, ripetendo alcune forme della conquista già sperimentate nell’Italia centrale e meridionale: la deportazione di gran parte dei Liguri Apuani nell’Appennino sud-orientale (i cd. Ligures Baebiani et Corneliani trasferiti con le loro famiglie 68/ nel sub-appennino dauno) e l’allontanamento dei Boi hanno rappresentato due eventi decisivi, con una modiicazione totale del popolamento di queste regioni. Nell’intervento di appropriazione sistematica del territorio non sono certamente mancati alcuni nuclei risparmiati dall’occupazione, ma essi sembrano essere stati coninati entro spazi marginali: le vallate dell’Appennino tosco-emiliano o le zone della pianura meno appetibili e più distanti dal nuovo asse di percorrenza della via Emilia, itinerario di occupazione e di riorganizzazione territoriale. L’archeologia, però, legge con molta diicoltà le vicende che si sono prodotte nei decenni decisivi tra la ine del III e la prima metà del II sec. a.C., a causa sia della lunga durata dei fenomeni sia di un processo di omologazione culturale che ha interessato questo periodo storico anche in maniera indipendente dall’espansione dell’impero. Infatti, già prima dell’arrivo dei Romani, nel territorio in esame si può notare un’apertura a produzioni e comportamenti elaborati nell’Italia centro-meridionale e nel Mediterraneo ellenistico. Soprattutto le aree padane meridionali, quindi, avevano già avviato un processo di integrazione economica, anche se molto parziale Lippolis I Romani nella Pianura Padana e a Luceria: occupazioni, integrazioni e ibridismi culturali e discontinuo, basato soprattutto sullo scambio delle principali risorse locali dell’agricoltura e dell’allevamento. I centri abitati, generalmente di piccole dimensioni, oppida e santuari, come vengono ricordati dalle fonti romane, erano i luoghi in cui tale processo socio-economico trovava il suo spazio di sviluppo più avanzato, in un ambiente che era già, almeno in parte, caratterizzato da presenze miste. La documentazione di Monterenzio, nell’Appennino bolognese, ha mostrato, infatti, la chiara persistenza di nuclei di cultura etrusca accanto a quelli celtici (ig. 1) e, nonostante le diicoltà di riconoscimento, appare evidente anche dalle fonti romane che gran parte delle zone montane centro-occidentali erano occupata dalle tribù liguri; anche in Romagna, la forte pressione dei Celti appare bilanciata da persistenze e acquisizioni territoriali degli Umbri. È verosimile, inine, che alcuni gruppi degli Etruschi sconitti non avessero partecipato all’emigrazione verso sud all’epoca dell’invasione celtica, ma si fossero mantenuti in qualche modo in alcuni oppida boi e cenomani, evidentemente con ruoli subalterni, come potrebbe essere avvenuto nel mantovano e anche nella parte centrale della pianura sub-padana. Toponimi e tradizioni famigliari che emergono dalle fonti letterarie o storie individuali come quella di Virgilio lasciano supporre, infatti, diverse forme di interazione, in cui la componente celtica dominante formava le classi di potere, lasciando altri gruppi in posizione subordinata o marginalizzandoli. Se in qualche modo già misto era il popolamento precedente alla colonizzazione romana, ancor più lo diventa con il processo di colonizzazione, che ha coinvolto gruppi di diversa provenienza, accomunati dalla cooptazione nel sistema federale romano. Essere romano, in sostanza, nel tempo perde progressivamente il carattere dell’identità etnica per divenire, soprattutto dopo l’89 a.C. (con l’estensione della cittadinanza agli Italici), un diritto politico di partecipazione e di condivisione dei vantaggi prodotti dall’espansione dell’impero. L’allontanamento dei Boi dopo la loro deinitiva sconitta aveva creato uno spazio destinato a essere occupato rapidamente dalla nuova potenza politica. Nella parte più estesa della pianura, la deduzione di colonie di diritto romano e di diritto latino ha rappresentato l’esito più evidente del sistema imperialistico in via di sviluppo, aiancandosi anche a concessioni, aitti e forme di sfruttamento dei territori disponibili, che attiravano emigrazione e prospettive di incremento economico. I vantaggi immediati andavano agli assegnatari delle terre, che ne promuovevano boniica e messa a coltura sistematica, creando il sistema regolare e strutturato del paesaggio emiliano, costruitosi attraverso un palinsesto di centuriazioni. I nuovi venuti erano prevalentemente Italici di varie origini, certamente in parte provenienti dalla plebe di Roma e dalle comunità latine, come mostra la cultura materiale di alcune aree, con produzioni e consumi che richiamano direttamente il mondo laziale. Se queste tracce sono più evidenti nell’area romagnola, tendono a rarefarsi in Emilia, dove forse prevalgono altre componenti italiche, tutte certamente da diversi distretti culturali della penisola centro-meridionale. La presenza di un brindisino a Clastidium già prima della guerra annibalica e l’analisi delle formule onomastiche della fase successiva alla colonizzazione mostrano in maniera evidente il carattere eterogeneo di questa emigrazione, sostenuta anche dall’assegnazione di terre ai militari, in un fenomeno intenso che ha comportato un radicale cambiamento del sistema di popolamento dell’area e un rapido aumento della densità demograica. Tra le grandi colonie di popolamento dedotte, alcune sembrano essersi costituite anche con una certa diicoltà: nello stesso caso di Bologna, solo un aumento considerevole delle quote di terra assegnate (50 iugeri a testa) permise il successo dell’insediamento, mentre per Parma si dovette prevedere il riconoscimento del diritto romano ai coloni per garantirne la fondazione; il possesso dei diritti di cittadinanza, quindi, in questa fase rappresentava la vera prospettiva di crescita sociale e costituiva l’elemento fondante dell’identità, più della provenienza etnica. In questo processo di sfruttamento e di inclusione non deve essere sottovalutato anche il ruolo della gestione a distanza: vaste aree sembrano essere state sfruttate in funzione del reddito possibile, prodotto attraverso la manodopera locale (di diversa estrazione etnica e giuridica). Intere comunità del Lazio e della Campania, come per esempio le città di Atella e di Arpino, che in questo periodo rappresentano i centri propulsori dell’Italia romana, acquisiscono diritti d’uso sugli agri vectigales, ampi distretti che gestiscono direttamente, cercando di salvaguardare i propri interessi attraverso la costituzione di legami politici e di evitare, sempre grazie ai sistemi clientelari tipici della società romana, eventuali limitazioni e perdite dovute a nuove assegnazioni di terre. La ricerca archeologica in Emilia Romagna si è a lungo interessata soprattutto di queste grandi colonie, Piacenza, Parma, Modena, Bologna, Rimini, per ricordarne solo alcune tra le principali, mentre ha 69 Strenna 3-2015 di Pagine d’Archeologia Fig. 2. La valle dell’Enza vista da Campotrera verso Compiano. prestato un interesse minore per gli altri insediamenti. Questi sembrano svilupparsi in diverse maniere; in alcuni casi è possibile che possano dipendere dalla persistenza di nuclei del popolamento preromano, in altri possono aver raccolto assegnatari di terre e responsabili di attività in aree distanti dalle colonie, ma tutti hanno accolto certamente italici trasferiti nelle nuove sedi dopo il deinitivo consolidamento politico della regione. Proprio per queste presenze in aree meno strutturate i vari magistrati romani responsabili del governo della provincia sembrano aver promosso la costituzione di luoghi deputati all’amministrazione della giustizia o alla gestione delle attività istituzionali ed economiche. In questo caso, si tratta soprattutto di fora e conciliabula che a volte si sviluppano sino a ottenere un riconoscimento statale e a volte la promozione a civitates e municipia, come avviene a Regium Lepidi, il centro principale del distretto tra Modena e Parma. Nella stessa area, però, Tannetum e Brixellum segnalano situazioni diverse e complementari, sviluppando anch’esse una capacità di aggregazione che permette di acquisire la dignità cittadina, in maniera stabile nel caso dell’importante guado sul Po di Brescello, in forma molto discontinua, invece, per Tanneto. Quest’ultimo, che appare ancora di diicile caratterizzazione topograica, 70/ sembra accentrare alcune funzioni, ma non pare aver mai raggiunto la complessità di un impianto cittadino esteso e complesso, come invece avviene a Reggio. Questo sviluppo in qualche modo incompiuto ne determina il ruolo subalterno, in alcuni periodi iniziali e forse nuovamente dopo il primo impero, oscillando tra una parziale autonomia amministrativa e il ruolo di centro dipendente, di insediamento vicanico compreso forse entro il perimetro municipale reggiano. All’interno di questo sistema di centri minori si colloca anche il caso di Luceria. Il suo interesse, quindi, non consiste solo nella possibilità di conoscere un elemento del sistema di popolamento locale, ma anche nel fatto di poter rappresentare una tipologia di abitato. Si tratta, infatti, di un abitato che occupa un livello ausiliare nella gerarchia insediativa, dipendente quindi da un altro centro amministrativo (in questo caso Tanneto o Reggio, forse a seconda dei periodi), ma proprio per questo di particolare importanza per la ricostruzione del sistema organizzativo ed economico interno a una civitas. Inoltre, situazioni simili a quella di Luceria sono poco note e il piccolo agglomerato sulla valle dell’Enza può divenire un caso di studio esemplare per ricostruire il sistema organizzativo dei territori colonizzati (ig. 2). La sua funzione era quella di gestire il collegamento Lippolis I Romani nella Pianura Padana e a Luceria: occupazioni, integrazioni e ibridismi culturali tra l’economia appenninica e quella più complessa della pianura, veicolando le risorse provenienti dallo sfruttamento delle valli e delle aree pedemontane e montane nel circuito di consumo e di scambio gestiti a vario livello nei grandi centri sulla via Emilia. Tutti gli abitati, quindi, erano inseriti in una gerarchia di rapporti determinata dal ruolo demograico, amministrativo, economico; al livello inferiore si pone il popolamento rurale sparso (anche questo distinguibile a seconda del carattere, dalle più semplici fattorie alle complesse ville di produzione), poi i piccoli abitati come Luceria, elementi minori nella rete organizzativa del territorio; gli abitati più complessi, come Tanneto, collocati in un contesto topograico molto favorevole (per es. la posizione sulla grande arteria di attraversamento dell’Emilia); quindi i fora e i centri simili, quali Reggio, che rivestivano un ruolo formalmente pariicato a quello delle grandi città della regione. Queste ultime, come Modena, Bologna, Rimini, avevano però un livello di sviluppo e di ruolo gestionale ancora maggiore. Il sistema quindi era capillare e articolato e, oltre a permettere la difusione insediativa e lo sfruttamento organico del territorio, gestiva il drenaggio delle risorse dalla campagna e dalle aree incolte verso gli insediamenti principali, a loro volta centri dello scambio primario sia a livello locale sia nei confronti dell’esterno. La forma del piccolo insediamento di Luceria tradisce chiaramente le funzioni dell’abitato; esso era posto su un percorso di risalita nord-sud lungo la valle dell’Enza, secondo un itinerario che corre ancora oggi sulla sponda destra del iume, innervandosi nel sistema montano e permettendo anche l’attraversamento dell’Appennino tosco-emiliano (anche se in questo periodo storico non risulta un valico primario, rispetto ad altri passi). È molto probabile che al contempo l’agglomerato gestisse un guado sul iume e quindi fosse collegato anche a un asse di attraversamento pedemontano est-ovest. Se il toponimo antico fosse Nuceria o Luceria è per il momento un problema destinato a restare in sospeso. Il primo nome, per il quale in un primo tempo mi sembrava possibile propendere, rimanda chiaramente a forme linguistiche centro-italiche che non sembrano attestate nell’ambiente ligure; inoltre, esso è riferito ad abitati in posizione elevata, che potrebbero anche spiegarne la formazione linguistica. La seconda forma, invece, connessa a una componente tribale di Roma stessa (i Luceres), era stata già impiegata per un’importante colonia romana nel meridione, l’attuale Lucera, appunto. Non si può escludere, quindi, che un sostrato locale oppure una coincidenza tra questo e forme toponomastiche romane già esistenti in altri luoghi, oppure, ancora, uno speciico elemento legato alla colonizzazione possano essere motivazioni più probabili per una scelta di questo tipo, lasciando supporre, di conseguenza, che il toponimo originario potesse essere quello di Luceria. Elementi di corredo funerario provenienti dalla zona sembrano confermare che lo sviluppo dell’abitato, posteriore alla seconda guerra punica, possa essere imputabile soprattutto a una comunità di origine ligure. In questo caso, l’allontanamento dei Boi dalla pianura e un processo di graduale integrazione politica con la federazione romana possono aver permesso (come per esempio per la non lontana comunità dei Veleiates) l’acquisizione di forme residenziali stabili e una sostanziale integrazione con le comunità di immigrati costituitesi lungo l’Emilia. Il gruppo ligure di pertinenza dovrebbe essere quello dei Friniates, contro i quali i Romani intervengono ripetutamente e che sconiggono deinitivamente tra il 175 e il 173 a.C., distruggendone le roccaforti appenniniche e costringendoli a insediarsi in aree più pianeggianti. Proprio in seguito a tali operazioni potrebbe essere stato deinito il nuovo schema di popolamento del Reggiano e in particolare della valle dell’Enza. Il carattere subordinato dell’abitato di Luceria, all’interno del sistema di popolamento, potrebbe quindi essere collegato anche al ruolo subordinato della popolazione locale, inquadrata probabilmente come incolae all’interno delle nuove strutture amministrative della regione. Lo sviluppo di Tanneto e di Brescello sul medesimo asse nord-sud lascia supporre, comunque, che lungo la valle dell’Enza possano essersi concentrati anche altri gruppi del popolamento preromano della regione, mostrando una situazione che non sembra essere la più consueta in Emilia. Naturalmente, i processi di colonizzazione, che sembrano essersi assestati entro il terzo quarto del I sec. a.C., hanno avviato un processo di ibridazione e di integrazione culturale, segnato dalla rapida difusione del latino e dei comportamenti completamente omologati che caratterizzano l’Italia romana, soprattutto dall’età augustea e dal primo impero. A monte di Luceria si sviluppava l’economia dei saltus e delle superici incolte in cui prevalevano le risorse provenienti dall’ambiente naturale, la raccolta e l’allevamento. Si tratta di aree connotate da un livello produttivo minore ma fondamentali per l’economia delle grandi città della pianura, in quanto garantivano innanzitutto il fondamentale approvvigiona- 71 Strenna 3-2015 di Pagine d’Archeologia mento di legname e di carbone, poi anche quello di materiali da costruzione e forse anche di calce. L’altra importante risorsa era rappresentata dai pascoli e dal prodotto che ofrivano in carne da macello e derivati, tra i quali sembrano prevalere i formaggi. Purtroppo, è diicile accertare se anche in queste aree si producesse il formaggio detto lunense, dal principale porto di imbarco sulla costa tirrenica, caratterizzato da pezzi di grandi dimensioni che potrebbe anche essere un antenato romano dell’attuale Parmigiano. L’omogeneità del popolamento ligure su entrambi i versanti di questo tratto appenninico potrebbe suggerire, infatti, una similarità di forme produttive, ma mancano per il momento elementi speciici legati al riconoscimento di una rilevante attività casearia. Altri prodotti di minore incidenza quantitativa e più occasionali potevano integrare ulteriormente il panorama delle risorse appenniniche, legati alla raccolta di vegetali e di frutta commestibili e al loro consumo. La riscoperta di un’epigrafe che ricorda lo svolgimento di nundinae nel sito di Luceria rappresenta un’acquisizione molto importante. Spiega, infatti, come si svolgeva l’occasione più rappresentativa delle funzioni economiche locali, consistente, quindi, nello svolgimento di iere periodiche. In genere poste sotto una tutela religiosa, tali occasioni rappresentavano in contesti culturali diversi il momento privilegiato di mercato, soprattutto per queste aree marginali. Che tale scambio coinvolgesse prevalentemente il bestiame è molto probabile e la stessa sistemazione dell’area pubblica dell’abitato sembra poterlo documentare. Bisogna però rilevare subito che lo sviluppo di Luceria in questo settore appare essere stato alternativo a quello di altri luoghi storici di iere regionali. Non è assolutamente casuale che proprio nello stesso periodo, l’epoca del principato di Claudio, se da un lato si provvede al riconoscimento formale del ruolo di Luceria (le nundinae richiedevano l’approvazione e la regolamentazione statale), dall’altro si permetteva lo smantellamento deinitivo dell’importante centro religioso ed economico dei Campi Macri, sito che aveva svolto in una fase precedente le medesime funzioni. Questo santuario, legato alla tradizione dei Boi e ubicato in pianura, tra Modena e Reggio, aveva avuto un ruolo rappresentativo nella realtà preromana regionale, forse troppo marcato dal punto di vista politico per non essere considerato dai Romani uno spazio identitario legato al popolamento celtico. Per altri versi, lo sviluppo dei numerosi centri posti lungo la via Emilia aveva senza dubbio privato le riunioni dei Campi Macri di quelle funzioni di raccolta 72/ e distribuzione di risorse, ora svolte dalle varie civitates e coloniae in maniera concorrenziale e più complessa. Così, la discontinuità del popolamento boico forse spiega la sua progressiva perdita di signiicato come spazio di riferimento collettivo e cultuale e la mancata rivalutazione, anche in forme diverse, delle sue funzioni pubbliche può dipendere dall’afermazione di un nuovo sistema di gestione delle risorse. Di certo, comunque, proprio a partire dal principato di Claudio il sito, non ancora chiaramente identiicato sul terreno, appariva abbandonato e in rovina, tanto che i parenti della proprietaria, Alliatoria Celsilla, chiesero formalmente la possibilità di riutilizzare il materiale edilizio delle strutture ancora esistenti, operazione per la quale era necessaria un’autorizzazione del Senato. La concessione verrà accordata con il senato consulto Volusiano del 56 d.C., apparentemente concludendo la lunga e importante storia del sito, identiicato in genere presso Magreta, nel territorio mutinensis. Il rinvenimento ad Ercolano dell’epigrafe su tabula bronzea con l’approvazione del Senato potrebbe essere connesso alla documentazione relativa ai comportamenti da seguire nel reimpiego degli ediici rovinati dal terremoto del 62, ma potrebbe anche avere un’altra motivazione nella possibilità che la famiglia proprietaria possa appartenere all’area campana, mostrando una persistenza di interessi esterni nello sfruttamento delle regioni padane. A Luceria gli scavi hanno messo in luce una strada longitudinale lastricata e dotata di marciapiedi, percorso intorno al quale si addensava lo sviluppo edilizio, attribuendo all’abitato una caratteristica forma rettilinea, comune ad altri casi analoghi (ig. 3). Lo spazio pubblico, posto tra la strada e il iume, era un’area rettangolare, delimitata solo da un semplice muro perimetrale; alcune case poste lungo la strada, anch’esse molto semplici, completavano inine la maglia abitativa privata. Queste non appartengono al tipo delle dimore romane con atrio o con peristilio, ben attestate a Reggio, ma sono semplici aggregazioni di vani, in alcuni casi con un piano superiore, che rivelano la loro funzione plurivalente di strutture destinate ad attività economiche, stoccaggio e residenza allo stesso tempo; in questo senso riprendono piuttosto il tipo delle case-bottega dei quartieri urbani con spiccate destinazioni economiche e basso livello di reddito. Lo spazio pubblico, che si sviluppa in maniera parallela al percorso stradale e da questo risulta accessibile, era il luogo evidentemente deputato allo scambio; invece manca, sinora, ogni traccia di strut- Lippolis I Romani nella Pianura Padana e a Luceria: occupazioni, integrazioni e ibridismi culturali Fig. 3. Sito archeologico di Luceria. In primo piano la strada che faceva da spartiacque tra l’area pubblica, a ovest, e gli edifici residenziali, a est. ture connesse alla gestione politica o amministrativa, funzioni che potevano essere esercitate, quindi, solo in maniera saltuaria, in occasione del passaggio di eventuali magistrati o svolte, più probabilmente, attraverso un trasferimento degli abitanti a Tanneto o a Reggio. Lo spazio così identiicato era quello certamente destinato soprattutto allo svolgimento del mercato e delle nundinae locali, richiamando il recinto per animali d’allevamento più che un’area pubblica vera e propria; in esso si potevano radunare il bestiame e i prodotti locali destinati ai più importanti luoghi di scambio della pianura, dove poi sarebbero stati consumati o utilizzati per il commercio a distanza (ig. 4). Anche la cultura materiale rivelata dallo scavo mostra un modello di vita molto autarchico: sono pochissime le importazioni di ceramica da mensa e anche quella utilitaria appare poco attestata. Gli abitanti, quindi, avevano scarse suppellettili, consumavano poco e producevano pochi riiuti, mostrando un modello di consumo molto diverso da quello delle famiglie insediate a Reggio, dove invece la circolazione dei beni appare variegata e complessa e l’accumulo di riiuti, che rappresenta una delle fonti principali dell’archeologia, mostra un volume e una frequenza molto maggiore. Di conseguenza, a Luceria si deve immaginare un ampio impiego di stoviglie e suppellettili in materiale deperibile, soprattutto in legno, mentre un caso a parte è costituito dalla difusione degli oggetti in metallo. Infatti, sono state rinvenute molte applicazioni destinate a oggetti di uso e di mobilio, elementi di tecnica e di fattura accurata. Essi segnalano l’importazione di manufatti di pregio che costituivano evidentemente gli unici elementi rappresentativi delle famiglie locali più abbienti. Un’applicazione in bronzo, forse di armadio, recuperata durante lo scavo, esibisce il busto di una divinità femminile che sembra identiicabile con Flora o una ninfa (ig. 5), non a caso incarnazione e simbolo di quella disponibilità spontanea della natura e del suo 73 Strenna 3-2015 di Pagine d’Archeologia Fig. 4. Proposta ricostruttiva dell’area pubblica dell’abitato di Luceria, strutturato a mo’ di “recinto” per lo stazionamento temporaneo e lo scambio del bestiame. 74/ Lippolis I Romani nella Pianura Padana e a Luceria: occupazioni, integrazioni e ibridismi culturali Fig. 5. Applique in bronzo con busto di divinità femminile da Luceria. 75 Strenna 3-2015 di Pagine d’Archeologia rapporto con il ciclo della vita che rappresenta molto bene il territorio di Luceria. La storia del piccolo centro è strettamente legata allo sviluppo romano della regione: nasce lentamente al momento della colonizzazione, si istituzionalizza tardi, nell’età giulio-claudia e vive probabilmente sino agli inizi del IV sec. d.C. Dopo questa data è dificile riconoscere tracce di una persistenza abitativa nel sito: può darsi che la crisi economica del tardo impero abbia reso sempre meno visibile il consumo locale, ma non sembra che si possano riconoscere elementi di sopravvivenza signiicativi. Con la guerra greco-gotica, poi, inizia un processo di rideinizione insediativa a livello regionale che privilegia i siti di altura con funzioni strategiche; l’economia della pax romana non è più da tempo possibile e si afermano altri sistemi organizzativi, che orientano in maniera molto diversa il popolamento del territorio. in archaeology and ancient history, in «Archaeological Dialogues» 21-1, 2014, pp. 30-40 (doi: 1017/S1380203814000063). Woolf 1999 = G. 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Insediamento ligure romano nel territorio di Canossa, Reggio Emilia 1994. 77 2 Tutela e valorizzazione Renata Curina / Anna Losi Filippo Fontana / Francesco Garbasi Donatella Girotto / Giuseppe Marangoni Sara Cura / Luiz Oosterbeek Gli interventi di consolidamento, restauro ed allestimento didattico di Luceria (Canossa, RE) Renata Curina Funzionario Archeologo Soprintendenza Archeologia dell’Emilia Romagna Anna Losi Archeologa AR/S Archeosistemi Società Cooperativa Il sito di Luceria è noto in letteratura da diversi secoli, anche se le scoperte e le ricerche archeologiche furono caratterizzate per lo più da interventi saltuari, dettati spesso da diferenti interessi. Le prime scoperte fortuite risalgono al XVI secolo, mentre agli anni tra il 1776 e il 1786 risalgono i primi scavi efettuati da dotti parmensi e inanziati dai Borbone, duchi di Parma; una ripresa delle indagini nell’area di Luceria, più sistematiche e scientiiche, si ebbe alla ine del XIX secolo ad opera di Don Gaetano Chierici. I risultati ottenuti nel corso dei secoli, misero in evidenza i resti di una necropoli e di un insediamento a carattere urbano, distribuito lungo un asse viario che, nel punto in cui attraversava l’abitato, era pavimentato in ciottoli di considerevoli dimensioni, divenendone l’asse generatore. A queste prime ed importanti indagini, seguirono quindi, alla ine del secolo scorso, ricerche sistematiche e un nuovo interesse per questo impianto urbano, posizionato lungo la valle dell’Enza in una posizione privilegiata per il collegamento tra la pianura e i valichi appenninici che conducevano verso le città di Lucca e Luni; un abitato che ebbe una continuità di vita di breve durata. Le prime attestazioni, soprattutto derivanti dagli oggetti di corredo rinvenuti all’interno delle sepolture, risalgono al II-I secolo a.C., mentre il massimo sviluppo urbanistico dell’impianto può essere ricondotto ai secoli centrali dell’impero, cui seguì un graduale e deinitivo abbandono, probabilmente nel corso del V secolo. Come molti insediamenti urbani, anche Luceria dovette risentire della profonda crisi economica e sociale che investì l’impero tra III e IV secolo d.C.; a questo periodo infatti sembra risalire l’inizio di un degrado delle strutture private e pubbliche, queste ultime caratterizzate spesso da una riconversione dell’uso degli spazi che vennero adibiti ad altre funzioni. A partire dal momento del suo defunzionamento, l’area venne destinata esclusivamente a lavorazioni di tipo agricolo, attività che permise da una parte che venisse mantenuta la leggibilità dell’impianto ma nello stesso tempo, data la scarsa profondità di giacitura, rese più diicile la conservazione dei resti strutturali, di cui si sono mantenuti quasi esclusivamente la parti in fondazione e alcuni piani pavimentali in terra battuta o lacerti di mosaico. Le indagini sistematiche, iniziate ad opera della Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Emilia Romagna nel 1983 con l’importante e insostituibile collaborazione dei volontari dell’associazione «Amici di Luceria», hanno permesso di ricostruire in maniera dettagliata parte dello sviluppo planimetrico di questo abitato di epoca romana. È doveroso ricordare in questa sede il fondatore e presidente dell’associazione, Dott. Corrado Chiari, che con grande passione e interesse ha seguito le indagini e gli scavi archeologici, prodigandosi nell’afrontare le diicoltà e gli imprevisti che si sono presentati con l’avanzare dei lavori, promuovendo insieme alla Soprintendenza alcuni eventi signiicativi, tra cui la realizzazione di una mostra fotograica sulle ultime campagne di scavo. Le ultime indagini archeologiche svolte in una serie di campagne di scavo tra il 1983 e il 2008 hanno quindi permesso di deinire l’estensione dell’agglo- 81 Strenna 3-2015 di Pagine d’Archeologia merato urbano ed una sua interna organizzazione, riuscendo ad individuare con una certa chiarezza gli spazi adibiti ad attività pubbliche, quali la grande area scoperta porticata, già parzialmente individuata alla ine del XIX secolo, interpretabile come foro commerciale, e gli spazi privati caratterizzati dalla presenza di abitazioni, alcune delle quali riconoscibili anche nella loro articolazione interna. Le diverse campagne di scavo hanno inoltre permesso di individuare un settore dell’impianto in cui le strutture erano meglio conservate e leggibili nella loro volumetria e quindi di valutare la possibilità di renderlo fruibile, valorizzando le parti ediicate meglio comprensibili e che potessero far percepire al pubblico l’articolazione dell’agglomerato urbano, attraverso un percorso di visita articolato e supportato da un adeguato apparato didascalico. La tappa odierna rappresenta quindi il risultato di un trentennio di attività di indagine e valorizzazione che possono essere così riassunte: • Elaborazione di un progetto di valorizzazione di un’area a seguito delle prime due campagne di scavo efettuate negli anni 1983 e 1985 sotto la direzione scientiica di Luigi Malnati, progetto redatto dalla dott.ssa Cerchi di Archeosistemi; • Avvio da parte della Soprintendenza, in accordo con l’Amministrazione Comunale e con i privati possessori dei terreni, di una serie di sondaggi inalizzati ad acquisire il maggior numero di dati al ine di poter deinire sia il reale sviluppo dell’abitato sia di poter procedere ad una permuta dei terreni, in modo da realizzare l’area archeologica in terreni di proprietà comunale e poter procedere all’esecuzione di un dettagliato progetto di valorizzazione. • Acquisizione da parte del Comune di Canossa di alcune aree e ripresa delle indagini archeologiche per estesi saggi tra il 1990 e 2000; gli scavi efettuati hanno aggiunto nuove informazione restituendo un’articolazione tale di strutture, che ha portato alla redazione di un nuovo progetto e all’apposizione di due vincoli, uno di importante interesse archeologico sull’area che ha restituito i resti dell’abitato, l’altro di rispetto all’area di tutela diretta. • Attività di consolidamento e primo restauro della strada e di una serie di strutture emerse nel corso delle precedenti campagne di scavo relative ad una domus prospettante sulla strada, inalizzate a valorizzare e rendere fruibile la parte meglio 82/ conservata e articolata delle medesime, eseguito dalla ditta Quattoli e dalla Gea di Parma. • Realizzazione di un nuovo progetto, redatto sempre da Enrica Cerchi (anno 2003) su incarico del Comune, proprietario dell’area oggetto di valorizzazione. Aggiornamento al progetto, sempre redatto dalla dott.ssa Cerchi (anno 2005) e realizzazione di quanto indicato nel 1° stralcio progettuale (recinzione esterna dell’area archeologica, passerella di visita sul lato Sud e protezione con grata metallica del pozzo situato nell’area cortilizia di pertinenza della domus). • Esecuzione, da parte di Archeosistemi, dei lavori di consolidamento e restauro delle strutture e redazione dell’apparato didascalico/illustrativo, su progetto della Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Emilia Romagna. Un intervento analogo, svolto in anni precedenti dalla stessa Ditta, aveva riguardato la casa VI di Marzabotto, su progetto dell’Arch. Andrea Sardo della Direzione Regionale, con il coordinamento della Dott.ssa Paola Desantis, direttrice del Museo Archeologico di Marzabotto. • Al termine delle attività di sistemazione e restauro si è proceduto inine alla realizzazione di un apparato didattico, che fornisse informazioni sia di carattere generale (storia delle ricerche e degli scavi) sia particolare sui resti visibili (l’area pubblica, la strada, le botteghe, la casa). I pannelli autoportanti sono stati disposti lungo il percorso d’accesso all’area e sui leggii predisposti sulla passerella. Al momento non è ancora disponibile un aggiornato sussidio informativo su pieghevoli, ai quali può venire aidato il compito sia di illustrare il sito che di pubblicizzarlo, fornendo le informazioni utili per la visita (orari, telefono e indirizzo mail degli incaricati alla visita). • A completamento dell’apparato didattico si prevede di fornire al visitatore un pieghevole, agile guida informativa sulle principali caratteristiche dell’area archeologica. I inanziamenti per il progetto di valorizzazione e per le sue fasi esecutive sono stati erogati dal Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, dal Comune di Canossa e dalla Fondazione Manodori di Reggio Emilia. Il restauro delle strutture L’area inserita nel progetto di valorizzazione è interessata quasi interamente dalla presenza di resti archeologici ma solo una parte, quella orientale, è Curina / Losi Gli interventi di consolidamento, restauro ed allestimento didattico di Luceria (Canossa, RE) Fig. 1. Planimetria generale dell’area oggetto dell’intervento di restauro. stata resa visibile e oggetto di un intervento di manutenzione, consolidamento e restauro che tenesse conto, in particolare, della scelta di progetto di non prevedere opere di copertura che salvaguardassero i resti dagli agenti atmosferici. Si è provveduto quindi a delimitare il lato Ovest della futura area archeologica con un parapetto ligneo, per impedire l’accesso del pubblico alla zona con le strutture emergenti. La parte occidentale, interessata da strutture che si è deciso di non mantenere a vista, è stata adibita ad area di accoglienza al pubblico, ripristinando il manto erboso, eliminando la terra di risulta di precedenti sondaggi di scavo e demolendo la vecchia tettoia, adibita a ricovero per attrezzature, sostituita da un prefabbricato in legno, progettato dall’Arch. Giuliano Cervi, da destinare a reception (luglio-settembre 2012). Le diverse modalità di intervento adottate, costituiscono il risultato di un’attenta disamina delle varie possibilità di esecuzione e sono state efettuate sotto il coordinamento scientiico della dott.ssa Antonella Pomicetti del laboratorio di restauro della Soprinten- denza Archeologia dell’Emilia Romagna. Sono state seguite inoltre le direttive della “Carta del Restauro – circolare 117”, emanata dal Ministero della Pubblica Istruzione nell’Aprile del 1972, direttamente ripresa della Carta del 1931, con un nuovo aggiornamento edito nel 1987. Con essa si cercava di pervenire a criteri uniformi nell’ambito della conservazione del patrimonio artistico ed architettonico, speciica attività dell’Amministrazione delle Antichità e Belle Arti. La pianta (ig. 1) racchiude il complesso delle zone oggetto dell’intervento di valorizzazione, limitatamente al lotto di proprietà comunale. L’estensione complessiva dell’area oggetto delle indagini archeologiche risulta molto più ampia, interessando l’intero pianoro delimitato a Nord dal Rio Luceria, ad Ovest dalla strada sterrata d’accesso attuale, a Sud da Via Conchello e ad Est dalla S.S. Val d’Enza. Si possono distinguere due zone con funzioni diverse, ognuna delle quali si presenta con caratteristiche costruttive particolari, sia dal punto di vista dei materiali edilizi impiegati sia per la tecnica costruttiva utilizzata: 83 Strenna 3-2015 di Pagine d’Archeologia Figg. 2, 3, 4. USM 208 veduta tratto Ovest (prima tecnica), tratto centrale (seconda tecnica) e fondazione di taglio (terza tecnica). 1. Gli spazi privati: l’ediico abitativo 2. Gli spazi pubblici: la strada, i portici laterali e l’area pubblica. Di seguito verranno descritti in maniera sintetica le caratteristiche speciiche e gli accorgimenti utilizzati per il consolidamento e il restauro delle strutture. Fig. 5. Particolare delle fondazioni in pezzame USM 226, 228. 84/ 1. L’edifico abitativo Formato in pianta da spazi rettangolari di diverse dimensioni, risultato di successivi ampliamenti edilizi; questo forse giustiica la diversità delle tecniche utilizzate, anche a livello delle componenti materiche, per le fondazioni e per i primi corsi Curina / Losi Gli interventi di consolidamento, restauro ed allestimento didattico di Luceria (Canossa, RE) Fig. 6. USM 211 situazione iniziale. 85 Strenna 3-2015 di Pagine d’Archeologia Fig. 7. USM 211 consolidamento. 86/ Curina / Losi Gli interventi di consolidamento, restauro ed allestimento didattico di Luceria (Canossa, RE) Fig. 8. USM 211 situazione finale. 87 Strenna 3-2015 di Pagine d’Archeologia Fig. 9. L’angolo Sud Est della casa. Fig. 10. USM 2, estremità Sud Ovest. 88/ Curina / Losi Gli interventi di consolidamento, restauro ed allestimento didattico di Luceria (Canossa, RE) Figg. 11, 12. Le ultime due fasi della sistemazione degli ambienti e l’angolo Sud Est della casa a lavori ultimati. 89 Strenna 3-2015 di Pagine d’Archeologia Fig. 13. Veduta particolare dell’accesso della casa dalla strada. dell’alzato, per le quali si è reso necessario diversiicare le modalità operative di intervento. • Una prima tecnica edilizia prevede murature in ciottoli luviali anche di medie dimensioni, di forma squadrata e lavorata spesso “faccia a vista” (US 2, 201, 211 e parzialmente 208) sostanzialmente in buono stato di conservazione, con limitate lacune; conservano generalmente sia il livello delle fondazioni, sia un corso dell’alzato, ad esclusione del divisorio interno 201, che presentava invece due corsi di alzato (ig. 2). Nel caso del perimetrale Ovest dell’abitazione (USM 211), il paramento murario, oltre a ciottoli luviali lavorati “faccia a vista”, è costituito da blocchi lapidei tagliati e squadrati, mentre l’interno è caratterizzato da un riempimento a sacco di scaglie lapidee e frammenti laterizi. • Una seconda tecnica edilizia presenta una modalità costruttiva mista, esito probabilmente dei diversi periodi di ediicazione e/o rifacimento. Esempliicativo è il caso della USM 208, la quale presenta un primo limitato tratto (Ovest) realizzato in prima tecnica mentre per il restante 90/ • • tratto presenta un ilo in ciottoli luviali sbozzati, ma con un paramento irregolare e riempimento interno a sacco caotico in laterizi e ciottoli (ig. 3). Solamente in un limitato tratto presenta un paramento formato da ciottoli di forma piatta ed arrotondata messi di taglio obliquo, tali da suggerire l’ipotesi della presenza di una soglia di accesso laterale (terza tecnica, vedi infra). Una terza tecnica (ig. 4) mostra fondazioni prevalentemente con utilizzo di ciottoli di forma piatta ed arrotondata, messi in opera di taglio e in obliquo, probabilmente per assolvere in maniera migliore al drenaggio degli elevati, probabilmente realizzati in materiale deperibile (legno, mattoni crudi). Una quarta tecnica (ig. 5), sempre per le fondazioni, utilizza quasi esclusivamente frammenti laterizi disposti generalmente di taglio e a secco, sistemati entro una fossa di fondazione (USM 200, 213, 226, 228, 260); in tutti questi casi si è di fronte a fondazioni di divisori interni, privi pertanto di funzione portante e che potrebbe quindi giustiicare la loro modesta profondità. Curina / Losi Gli interventi di consolidamento, restauro ed allestimento didattico di Luceria (Canossa, RE) Figg. 14, 15, 16. La strada con la copertura di protezione; la rimozione del geo tessuto; la strada ed il portico Est a fine lavori. Nei primi tre casi, dopo un preliminare intervento di pulizia e diradamento manuale della vegetazione, sono stati consolidati gli elementi lapidei dei due paramenti laterali con un intervento di cuci-scuci; in seguito si è proceduto a colmare con pietrisco e malta cementizia gli interstizi superiori, ricollocando in situ il materiale di riempimento interno e ricostruen- do parzialmente le parti della quale si conservava almeno una piccola porzione, anche solamente in fondazione (igg. 6, 7, 8). Nel quarto caso, ci si è trovati in presenza di un materiale laterizio altamente degradato e di diicile conservazione a vista; in accordo con il responsabile del Laboratorio di Restauro della Soprintendenza, si è deciso di mantenere la fondazione originale, isolandola con uno strato di pietrisco inerte a pezzatura ine, sopra la quale è stata ricostruita una nuova fondazione in pezzame, impiegando frammenti laterizi originali recuperati nel corso dello scavo dell’area. La linea delle fondazioni è stata resa con pali di legno di castagno disposti sui bordi esterni. Nel caso di gravi lacune strutturali, anche se si era conservata la traccia delle fondazione e/o delle spoliazioni, che permettevano comunque di ricostruire lo sviluppo delle strutture delimitanti gli ambienti della domus, si è optato, invece, per una ricostruzione di tipo neutro, in quanto risultava arduo attribuire alle tracce strutturali una tecnica piuttosto che un’altra. Facendo ricorso ai pali di castagno sopra menzionati, è stato ricostruito l’andamento planimetrico, riempiendo la lacuna con ghiaia spezzata di media pezzatura. L’intervento conclusivo nell’area dell’abitazione è stato rappresentato da un leggero rialzamento del terreno negli spazi interni alle strutture, originariamente occupati dai piani pavimentali in terra battura e dei quali non rimane alcuna traccia. In via preliminare era già stato eseguito lo sfalcio del manto erboso con decespugliatore e lo scotico manuale del terreno agricolo supericiale per eliminare ogni traccia degli apparati radicali. Successivamente si è proceduto al diserbo chimico (con glifosate 450 g/l, lavorazione sottoposta a controllo e sorveglianza sanitaria e regolamentata da DVR aziendale e Relazione del rischio Chimico secondo il D.Lgs 81 del 2008 e s.m.i.) e a stendere geo tessuto, sul quale si è sovrapposto prima uno strato spesso circa cm 10 di corteccia di pino, poi uno strato di 10 cm di ghiaietto di diversa pezzatura (igg. 9, 10, 11, 12, 13). 2. La strada Immediatamente dopo l’interruzione delle campagne di scavo la zona interessata dalla presenza dell’asse stradale e dai portici laterali era stata protetta con geo tessuto, isolato da uno strato di ghiaia (ig. 14). L’adozione di questa procedura conservativa ha impedito alla vegetazione infestante – particolarmente abbondante in tutta la zona – di 91 Strenna 3-2015 di Pagine d’Archeologia Figg. 17, 18, 19. Particolare della canaletta in arenaria; l’area della rampa con muro di chiusura laterale; il portico Ovest a fine lavori. attecchire sui resti archeologici (se non in minima parte). Dopo la rimozione del tessuto, si è reso necessario solo un limitato intervento di pulizia manuale, cui è seguito il consolidamento degli elementi smossi e il tamponamento delle lacune con ghiaia di piccolo formato (igg. 15-16). Diversa era la situazione corrispondente ai portici laterali, originariamente costituiti da basi in laterizi di sostegno 92/ per colonne e muri continui di chiusura, arretrati dalla strada circa 4 metri. Del muro di delimitazione Ovest si conservava solo la parte di fondazione: per questo motivo si è optato per una soluzione con pali di castagno a ricostruirne l’andamento planimetrico, riempiendo la lacuna con ghiaia spezzata di media pezzatura. All’estremità meridionale del Cardine si trova un accesso allo spazio pubblico formato da una rampa, acciottolata come la sede stradale, bordata a nord da una scolina di drenaggio in pietra arenaria (ig. 17). In corrispondenza dell’ingresso alla piazza era collocato uno scalino, sempre in arenaria. Sopra queste strutture si sovrapponeva una muratura in laterizi con asse EO, di una fase edilizia posteriore (ig. 18). Ci si trovava quindi di fronte a rifacimenti strutturali di epoche diverse: per questo motivo, rispettando l’obiettivo iniziale di restituire l’aspetto della zona nel periodo immediatamente precedente il suo abbandono, si è deciso di proteggere con geo tessuto e ghiaia le strutture in pietra, poste ad una quota inferiore rispetto a quella della rampa di accesso alla piazza. Successivamente sono state consolidate le murature in laterizio, anche con il sistema di cuci scuci delle stesse, e livellati con geo tessuto e ghiaia i piani d’uso laterali della strada (ig. 19). Le varie fasi del progetto di valorizzazione descritte hanno permesso quindi di rendere fruibile un settore dell’antico abitato di Nuceria, l’odierna Luceria, vicus che deve la sua importanza, come è stato più volte indicato, alla posizione strategica occupata lungo quell’asse di percorrenza che congiunge i valichi appenninici alla via Emilia e alla pianura. Lo studio delle fonti, la ricerca archeologica e le attività di scavo ad essa correlate si conigurano come un primo passo verso la riscoperta di un sito. Solamente dopo avere completato – anche parzialmente nel caso di settori distinti di scavo – le indagini, è possibile avviare un idoneo progetto atto a conservare i resti strutturali portati alla luce ed attivare le sinergie necessarie per la valorizzazione, fruizione e gestione di un sito archeologico. Questo percorso, dallo scavo alla valorizzazione, è stato seguito anche per Luceria; molto è stato compiuto con la collaborazione di Enti, igure professionali, volontari, molto si dovrà ancora fare, per permettere la continua fruizione di questo patrimonio culturale e per consentire la prosecuzione delle ricerche archeologiche in questo importante sito. Professionisti e associazioni di volontariato: opportunità di crescita e definizione dei rapporti reciproci Filippo Fontana Scuola di Specializzazione in Beni Archeologici Università di Bologna Francesco Garbasi Archeologo Il tema della gestione dei beni culturali coinvolge sempre di più igure professionali specializzate e va di pari passo con le necessità di tutela che sono, come più volte ricordato, di primaria importanza. Quello che si propone in questo intervento è un insieme di rilessioni nate contestualmente all’attività svolta fra i comuni di San Polo d’Enza e Canossa, in un territorio in cui sono individuabili aree di interesse archeologico che fanno capo ai resti dell’insediamento di età romana di Luceria e alle emergenze monumentali di età medievale rappresentate dalle fortezze di Canossa e Rossena. Qui si nota, inoltre, una radicata attenzione da parte della cittadinanza alle tematiche che coinvolgono la ricerca storico-archeologica. Al ine di intervenire con adeguati progetti di valorizzazione e tutela mirati alle aree di interesse ricordate pare determinante sottolineare il rapporto che esiste fra i beni culturali, nel nostro caso archeologici, e il territorio in questione. Un valido esempio di come questo rapporto si sia sviluppato è rappresentato dalla testimonianza e dalle attività del Gruppo Archeologico VEA e dell’Associazione di Volontariato «Amici di Luceria» che da tempo operano sul territorio. I diversi progetti del gruppo VEA hanno visto l’attuazione e l’attività di found-raising per gli scavi della chiesa di Santo Stefano (igg. 1-2), i saggi sul Monte Pezzola e le ricerche per l’inquadramento del territorio nell’età del Bronzo con la collaborazione dei Civici Musei di Reggio nell’Emilia e la supervisione del Museo archeologico Nazionale di Parma (Tirabassi 2003). Maggiormente focalizzate sull’emergenza monumentale di età romana sono state le iniziative dell’Associazione «Amici di Luceria» che sono culminate nello scavo e successiva musealizzazione dell’area archeologica di Luceria. Le dinamiche che coinvolgono i processi di tutela e valorizzazione, lungi dall’essere standardizzate, variano in misura rilevante a seconda del contesto in cui ci si trova ad operare e alla natura dei beni culturali cui sono rivolte le pratiche ricordate. Quello che è emerso nell’area in esame sottolinea una forte potenzialità che risiede innanzitutto nelle buone pratiche elaborate e portate avanti da quella parte di cittadinanza attenta alle tematiche della gestione del territorio; una cittadinanza che possiamo deinire attiva e che è stabilmente strutturata nella rete di relazioni mantenuta dal substrato associativo che abbiamo ricordato. Sono molteplici gli efetti positivi che l’analisi di questo contesto sviluppa e, in particolar modo, appare interessante individuare l’apertura di spazi e prospettive per le diverse professionalità coinvolte nella gestione e nella tutela dei beni culturali. Un approccio di questo tipo è infatti orientato a favorire una gestione qualiicata da parte di professionisti, con la consapevolezza dell’importanza di mantenere il legame con il territorio e con la cittadinanza. La situazione così descritta appare un ottimo punto di partenza per pensare a interventi mirati alla valorizzazione delle emergenze in un costante dialogo con la cittadinanza; i luoghi archeologici e monumentali rappresentano infatti veri e propri luoghi della memoria collettiva la cui fruizione e gestione deve essere costantemente comunicata alla cittadinanza; in particolare passando per quella parte di cittadinanza attiva maggiormente coinvolta e attenta. 93 Strenna 3-2015 di Pagine d’Archeologia Fig. 1. Perimetro delle fondazioni nell’area absidale della chiesa di S. Stefano (San Polo d’Enza, RE). Il punto di focalizzazione delle problematiche relative alla gestione e alla valorizzazione dei beni archeologici del territorio passa per la necessità di organizzare le potenzialità che si esplicano a diversi livelli. Se da una parte ci sono i dati relativi alla tendenza di aumento della popolazione che interessa la fascia pedecollinare della nostra regione, con le evidenti ricadute potenziali sul sistema economico e produttivo, dall’altra parte abbiamo la necessità di tutelare e valorizzare il territorio attraverso i suoi punti di forza di modo che a una crescita demograica corrisponda un adeguato livello di gestione dei beni immateriali (ig. 3). Il substrato del percorso di medio-lungo termine che ha come inalità la tutela e la valorizzazione delle emergenze archeologiche del territorio è rappresentato dai gruppi di volontariato, in particolare il Gruppo Archeologico VEA e l’associazione Amici di Luceria che da tempo operano in loco. I gruppi di volontariato concentrano una grande spinta propulsiva delle dinamiche di gestione negli ambiti in cui operano. Rappresentano infatti un buon esempio di sperimentazione di quella che viene deinita “cittadinanza attiva”. Con questo termine si intende la presa di coscienza del singolo che si sente parte della comunità e il riconosci- 94/ mento che i cittadini possono prendere autonome iniziative per realizzare interessi generali. In quest’ottica si deinisce un rapporto nuovo tra cittadini e istituzioni secondo il principio della sussidiarietà orizzontale. Tale rapporto dà modo di far crescere una sussidiarietà tesa a prendersi cura in modo volontario e libero da obblighi del patrimonio collettivo (Cotturri 2013). Per quanto riguarda, nello speciico, il caso del volontariato nell’ambito dei beni culturali pare necessario considerare, innanzitutto, come questa forma di associazionismo rappresenti la prima ila di quel pubblico interessato al quale si può e si deve rivolgere la necessaria opera divulgativa di chi opera nel campo dei beni culturali. In questo modo è possibile pensare alla costruzione di un ponte di dialogo proicuo fra i professionisti che si occupano di beni culturali, nel nostro caso speciicatamente archeologici, e la cittadinanza. Il rapporto con il territorio non può infatti non passare attraverso una relazione stretta con chi è parte, abita e vive nel territorio stesso che non può essere considerato come un semplice caso di studio ma come il risultato di diversi fattori diacronici che sono ancora in atto e contribuiscono a modiicare il paesaggio. Occupandosi infatti di qual- Fontana / Garbasi Professionisti e associazioni di volontariato: opportunità di crescita e definizione dei rapporti reciproci Fig. 2. Soci del Gruppo Archeologico VEA durante le fasi di scavo della chiesa di S. Stefano (San Polo d’Enza, RE). 95 Strenna 3-2015 di Pagine d’Archeologia Figg. 3-4. Schema riassuntivo dell’organizzazione delle attività e delle ricadute a breve e a lungo termine; schema di alcuni punti importanti che definiscono la figura del volontario. cosa che è un bene comune, come ricorda lo stesso codice dei beni culturali, è prioritario che una delle inalità del professionista sia quella di far conoscere la propria attività e le potenzialità, in àmbito archeologico, del territorio che studia (Settis 2002). Proprio perché di territorio si parla è utile sottolineare come allo stesso livello partecipativo dei gruppi di volontariato si situi un legame forte con i luoghi e con il resto della popolazione. In questo modo il percorso progettuale di medio-lungo periodo ricordato focalizza una rete di legami, di interesse e di dialogo con la cittadinanza indispensabile per la gestione globale degli aspetti culturali e archeologici di un territorio. Un ruolo di così forte impatto e potenziale giocato dagli abitanti stessi dell’ambiente di studio e ricerca è esempliicato nei casi degli Ecomusei del territorio dove i volontari sono spesso parte integrante del sistema museale. Partecipi attivamente nel processo di valorizzazione del territorio, forniscono il primo approccio al visitatore che si avvicina al territorio (Frattara 2008). In quest’ottica pare, perciò, un interessante spunto evidenziare come sia proicuo da ambo le parti un dialogo costruttivo fra la cittadinanza e gli operatori dei beni culturali che può iniziare attraverso il confronto con la parte di cittadinanza che si dimostra più partecipante e attenta al tema. In un quadro teorico così delineato sembrano molteplici le positività che possono emergere dal confronto di professionalità e operatori volontari; ciò nonostante è opportuno sottolineare, nell’ambito di una progettualità di interventi di gestione territoriale, le criticità del modello quali sono emerse in contesti simili. Volendo impostare l’analisi del fenomeno in maniera analitica è utile issare le tappe normative che hanno deinito il volontariato nel campo dei beni culturali. 96/ Il volontariato in questo settore ha, infatti, radici piuttosto stratiicate che contano interventi normativi diversi. Una prima sperimentazione in merito si ha con la Legge del 27 Giugno 1906, in materia di “norme sugli uici e il personale delle antichità e belle arti”, dove agli articoli 47-52 viene istituita e regolata la igura degli Ispettori onorari nel campo delle antichità e belle arti; funzione di indubbio prestigio connessa ad una prestazione volontaria individuale. In seguito due altri provvedimenti, i Decreti del Presidente della Repubblica del 30 settembre 1963 n.1409 e 10 novembre 1966 n. 1356, istituiscono e regolano la possibilità di svolgere prestazioni volontarie individuali presso archivi o biblioteche. In base alle disposizioni dell’art. 3 della legge n. 4 del 14.1.1993 il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo può utilizzare volontari per assicurare l’apertura quotidiana prolungata di musei, biblioteche e archivi di Stato. La legge Ronchey si ricollega alla legge-quadro sul volontariato, la n. 266 dell’11.8.1991, dove viene riconosciuto il ruolo fondamentale dei gruppi di volontariato con i quali le istituzioni pubbliche possono stipulare convenzioni. In questo modo vengono individuate speciiche attribuzioni di competenze che, in accordo con un principio di sussidiarietà, hanno come inalità il perseguimento delle attività di carattere sociale, civile e culturale individuate dalle stesse associazioni. Il volontariato presso Enti pubblici, così come regolato dalla legge-quadro, circoscrive la possibilità di impiego disciplinando il fenomeno esclusivamente dal punto di vista associativo. In questo modo l’associazione stessa risponde del comportamento del volontario tutelando così le istituzioni pubbliche. La legge n. 4/93 prevede la possibilità di utilizzare volontari nelle strutture di- Fontana / Garbasi Professionisti e associazioni di volontariato: opportunità di crescita e definizione dei rapporti reciproci Fig. 5. Esposizione di materiali didattici e riproduzioni di mosaici romani, realizzati dal mosaicista W. Ferrarini, presso il Mercato della Centuriazione Romana di Villadose (RO), a cura del Gruppo Archeologico Vea. pendenti dal Ministero attraverso la stipula di apposite convenzioni, inquadrate dall’art. 7 della legge n. 266/91, con le organizzazioni di volontariato aventi inalità culturali, iscritte da almeno sei mesi nei registri regionali, sentite le organizzazioni sindacali. L’articolo 3 della stessa legge sancisce pertanto la possibilità, per gli Enti, di stipulare convenzioni con Associazioni di Volontariato al ine di assicurare l’apertura prolungata di musei, archivi e biblioteche. L’impiego di volontari nell’ambito dei beni culturali verrebbe a delineare, quindi, una risposta alle inalità culturali e sociali dei gruppi recependo così una tendenza in concordanza con il principio di sussidiarietà già ricordato (Buzzi 1993). Proprio la deinizione degli ambiti di impiego dei volontari rappresentano però il punto più intricato della questione. Il punto più controverso è rappresentato infatti dal problema del c.d. “professionismo negato” dove appunto il volontario si trova a svolgere delle mansioni organiche che necessitano di professionalità ben deinite (ig. 4). Un tentativo di sintesi in merito è stato fatto recentemente dalla regione Toscana con la redazione di una Magna Charta del Volontariato per i beni culturali. Un progetto portato avanti da Regione Toscana e CESVOT, con la collaborazione della Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici della Toscana e della Federazione Toscana dei Volontari per i Beni Culturali, assieme a Promo PA Fondazione. Il documento raccoglie in maniera organica i principi per deinire ruoli, diritti e compiti dei volontari operanti nel settore culturale. Obiettivo della Magna Charta è creare, nella fattispecie in Toscana, un percorso per il riconoscimento, la programmazione e l’organizzazione dell’attività del volontariato nell’ambito del patrimonio culturale statale e locale. Sulla base di queste premesse viene esaminato il problema della deinizione precisa delle mansioni afermando il principio che se da una parte il volontario concorre ad afermare e difendere i beni culturali dall’altra è necessario pensare alla igura di un volontario informato che si ponga, cioè, sotto la 97 Strenna 3-2015 di Pagine d’Archeologia Fig. 6. Esempi di attività didattiche del Gruppo Archeologico Vea (mosaico) e del Gruppo Archeologico di Bondeno (manipolazione dell’argilla). Foto: Francesco Garbasi, Micol Boschetti guida e il riferimento di una igura professionale. In questo modo è possibile pensare ad un dialogo costruttivo che valorizzi tutti gli attori che concorrono alla tutela, a diversi livelli, dei beni culturali; d’altra parte vengono ulteriormente valorizzate e riconosciute le professionalità che operano nel settore moltiplicando gli ambiti d’azione. Vengono inoltre ribadite le buone pratiche per la deinizione delle aree di impiego dei volontari, che seppure cambiando da caso a caso a seconda delle circostanze e degli Enti coinvolti, rispettano alcuni importanti principi quali: la non obbligatorietà della prestazione, la non sostituzione alle igure professionali e la non interferenza con le mansioni ordinarie dell’ente (Velani, Rosati 2012). L’esempio del caso toscano rappresenta, crediamo, un buon punto di partenza per percorrere la strada di un dialogo produttivo che prenda in considerazione le risorse e le inalità delle associazioni di volontariato in un percorso di deinizione di una cittadinanza attiva e partecipe, e allo stesso tempo valorizzi le professionalità che operano nel settore. 98/ Nel nostro caso i progetti di valorizzazione del territorio interessano in particolare modo gli aspetti archeologici del popolamento, della cultura materiale e delle pratiche di archeologia sperimentale. Se la rete sulla quale ci è stato possibile strutturare questa forma di tutela e valorizzazione si basa sulla rete sociale, composta dai gruppi di volontariato, il punto di arrivo di questa progettualità mira a creare opportunità e spazi per le varie professionalità coinvolte in un costante dialogo con la cittadinanza attiva composta, come dicevamo, di volontari. Il processo partecipativo del volontariato per i beni culturali rappresenta quindi una risorsa, in questa prospettiva, capace di creare quella rete sociale nella quale può essere sviluppato un programma di medio-lungo periodo attuato con diversi progetti che vanno dai laboratori, alla didattica, alla salvaguardia dei saperi tecnici, alla ricerca e allo studio che sono e devono essere svolte da professionisti qualiicati. Grazie a queste considerazioni e ad esempi nazionali e internazionali, in cui l’attiva collaborazione tra volontari e professionisti ha permesso lo stabilirsi di Fontana / Garbasi Professionisti e associazioni di volontariato: opportunità di crescita e definizione dei rapporti reciproci circoli virtuosi che hanno portato sviluppo culturale ed economico, si è deciso di iniziare un percorso di valorizzazione operando dall’interno delle associazioni culturali locali, al ine di costruire un programma a medio-lungo termine di corretta gestione delle risorse. La presenza di archeologi e altri operatori professionisti d’ambito storico all’interno del sistema associativo volontario hanno, dunque, lo scopo di organizzare la progettualità a medio-lungo termine delle associazioni e di aprire nuovi canali di dialogo tra la comunità scientiica e la popolazione residente sul territorio. L’impegno diretto da parte di professionisti ha come scopo principale l’ampliamento dell’interesse per i beni culturali locali, in modo da incrementarne il numero di fruitori e di curarne la gestione, che riveste sempre più importanza nell’ampio panorama della gestione territoriale. Tale inalità deve essere perseguita tramite un’adeguata pubblicizzazione dei beni del territorio che spesso non vengono percepiti come patrimonio comune a causa di una ridotta promozione. I beni storico-archeologici, frutto di una società, un’economia e un ambiente circoscritti nello spazio e nel tempo, sono sempre contraddistinti da tratti di unicità, il cui valore immateriale, quando non tramandato nel sentire comune, deve essere aiutato ad emergere dai professionisti del settore. La strutturazione della conoscenza storica di un determinato territorio passa, quindi, dal lavoro di singole igure professionali che una volta individuate le potenzialità di interesse culturale e i metodi di comunicazione più idonei per far rientrare quel patrimonio nel sentire comune di “bene culturale”, ne organizzano la gestione. La memoria di una società è in parte legata ai cosiddetti marcatori territoriali, i monumenti, che veicolano miti, tradizioni e conoscenze. Tuttavia quando manca la monumentalità manca anche il veicolo per la cristallizzazione di ideali e saperi tradizionali. In quest’ultimo caso il lavoro di archeologi e storici è essenziale per la valorizzazione dei territori ricchi di emergenze storiche non conservate in alzato. I membri dei gruppi di volontariato e in particolar modo i professionisti che ne fanno parte devono possedere un’accurata conoscenza del territorio, infatti, le problematiche e le potenzialità che lo contraddistinguono sono i due elementi cardine su cui i singoli progetti devono essere impostati. I gruppi archeologici, in particolare, che di per sé studiano l’evoluzione sociale, culturale ed economica del territorio, raccolgono già un primo nucleo di popolazione interessata a produrre cultura e attenta alle possibili vie di promozione territoriale. In ambito locale, il Gruppo Archeologico VEA, attivo dall’anno 2000, grazie all’impegno del suo fondatore Walter Ferrarini, ha permesso l’avvio di collaborazioni con la Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Emilia Romagna e con il Comune di San Polo d’Enza, creando la prima essenziale rete di contatti tra enti preposti alla tutela dei beni archeologici e cittadinanza interessata a collaborare a tale inalità. La riorganizzazione del Gruppo VEA, iniziata nel dicembre 2012, grazie alla quale diversi archeologi professionisti ne sono entrati a far parte, sta permettendo la progettazione di diverse collaborazioni con enti italiani e stranieri che perseguono le medesime inalità. I progetti, oltre ad essere incentrati sullo sviluppo culturale ed economico del territorio, mirano a creare nuovi spazi lavorativi per gli operatori dei beni culturali. L’ampliamento del numero delle persone e degli enti coinvolti e la condivisione del programma con gli enti pubblici, garantisce il riconoscimento della rilevanza sociale delle attività svolte, fornendo la possibilità di attrarre investimenti sia pubblici che privati a sostegno delle iniziative turistico-culturali proposte. La creazione di spazi culturali, allestendo e organizzando strutture messe a disposizione dalle amministrazioni locali o da privati, e la promozione di progetti inalizzati all’ampliamento e alla fruizione della conoscenza storica (ig. 5), ofriranno nuove opportunità per i professionisti che spesso non hanno adeguati spazi per la realizzazione delle proprie attività e sofrono la ridotta richiesta di attività culturali. Il territorio sul quale si sta attuando questo tipo di organizzazione, volta alla realizzazione nel breve termine di progetti di didattica, ricerca e valorizzazione, che costituiranno la base necessaria su cui impostare il lavoro futuro, coincide con i comuni di San Polo d’Enza (RE) e Canossa (RE). Il territorio, nel suo insieme, seppur con forti differenze interne dovute al cambiamento ambientale e demograico dalla fascia di alta pianura a quella di collina, presenta una generale tendenza all’aumento demograico. L’aumento di popolazione in un territorio ricco di beni storico-archeologici esige un altrettanto importante sforzo di salvaguardia e promozione culturale. I dati regionali1 mostrano che la crescita demograica registrata nel decennio 1999-2009 è stata del 12% 1 Dati relativi all’anno 2009. Popolazione, Relazione sullo stato dell’ambiente della Regione Emilia-Romagna: http://ambiente.regione.emilia-romagna.it/. 99 Strenna 3-2015 di Pagine d’Archeologia nei comuni collinari con popolazione compresa tra i 3001 e i 5000 abitanti e del 15,19% in quelli con popolazione compresa tra i 5001 e i 10.000 abitanti, fasce demograiche compatibili con i comuni rispettivamente di Canossa e San Polo d’Enza, che efettivamente hanno evidenziato un certo incremento. Nel decennio considerato la popolazione regionale è aumentata del 9,5% a fronte di una sostanziale stabilità nel decennio precedente. La decisa crescita demograica è dovuta, in buona parte, ai recenti lussi migratori che rendono più variegato il panorama culturale e richiedono approcci didattici e divulgativi in parte nuovi. L’analisi dei trends regionali ha anche evidenziato un crescente numero di visitatori delle aree archeologiche statali, che nel 2013 ha fatto registrare un aumento del 4,6% rispetto all’anno precedente e del 22% rispetto alla media 2001-20122. I dati relativi agli accessi dei musei regionali, censiti in numero di 326 nell’anno 2000, evidenziano come la maggior parte di essi abbiano un numero di ingressi annuo compreso tra i 1001 e i 5000 visitatori (33%) e che 20 musei (6% degli istituti) abbiano accolto il 68% dei fruitori. Un altro dato signiicativo è che i visitatori (3.470.450 nel 2000) hanno prediletto i musei d’arte 29% e quelli di archeologia 22%, che costituiscono rispettivamente il 20% e il 10% delle strutture museali3. Questi dati, considerata l’alta concentrazione di monumenti e aree archeologiche nel territorio in oggetto, sommati alla radicata tradizione dell’associazionismo volontario, ci fanno ritenere che i comuni in cui operiamo siano aree privilegiate in cui sviluppare progetti culturali e di valorizzazione. Le attività di studio e ricerca si proilano come indispensabili per la creazione di una solida base culturale. L’impatto sociale delle attività culturali, che mettano al centro dell’attenzione la cultura come insieme dinamico di apporti interni ed esterni, punta ad agevolare i processi d’integrazione di culture diferenti, sempre più presenti in ambito locale e nazionale. Le attività didattiche e di archeologia sperimentale permettono, inoltre, la contestualizzazione storica delle emergenze presenti sul territorio e valorizzano le attività manuali tramite il recupero di alcune conoscenze tecniche antiche. La manipolazione di 2 3 Dati disponibili nel sito della Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Emilia-Romagna: http://www.archeobo. arti.beniculturali.it/comunicati_stampa/bilancio_2013.htm. Dati disponibili sul portale della Regione EmiliaRomagna: http://statistica.regione.emilia-romagna.it/ allegati/pubbl/musei_trasparenza.pdf. 100/ varie materie prime, oltre a stimolare l’interesse per l’artigianato aiuta a ridurre il divario tra conoscenze teoriche e pratiche, queste ultime sempre più penalizzate dall’utilizzo decisamente preponderante della tecnologia (ig. 6). Le attività, pensate soprattutto per i ragazzi delle scuole locali, potranno essere aperte ad un pubblico più vasto, attivando corsi speciici inerenti tematiche puntali (es. le coltivazioni antiche, la lavorazione di diferenti materie prime). Il network che il gruppo di professionisti potrà realizzare a livello italiano e europeo, permetterà di poter concorrere all’ottenimento di inanziamenti europei, che diano maggiore consistenza ai progetti volti alla valorizzazione territoriale. Una delle inalità principali, come già ricordato, è quella di creare nuovi spazi lavorativi in ambito culturale, che possano accrescere e soddisfare l’alusso turistico e raforzare la coscienza storica locale, mantenendo un rapporto di stretta collaborazione tra attività di volontariato e attività professionali. Riferimenti bibliografici AA.VV. 1994 = L’ Italia dei nuovi musei, Roma 1994. Buzzi 1993 = A.M. Buzzi, Il rapporto di volontariato nella normativa vigente in «Notiziario dei beni culturali», Roma 1993, pp. 67-73. Cotturri 2013 = G. Cotturri, La forza riformatrice della cittadinanza attiva, Roma 2013. Frattara 2008 = A. Frattari, Open air museum: principi di progettazione per gli ecomusei, Roma 2008. Settis 2002 = S. Settis, Italia S.p.A. L’assalto al patrimonio culturale, Torino 2002. Tirabassi 2003 = I. Tirabassi, L’Età del Bronzo nel territorio di San Polo, Cavriago 2003. Velani, Rosati 2012 = F. Velani, C. Rosati, La Magna Charta del Volontariato per i Beni Culturali, Firenze 2012. Sitografia http://ambiente.regione.emilia-romagna.it/ http://www.archeobo.arti.beniculturali.it/comunicati_ stampa/bilancio_2013.htm http://statistica.regione.emilia-romagna.it/allegati/pubbl/ musei_trasparenza.pdf Valorizzare è far rivivere. La gestione del patrimonio culturale come snodo cruciale Donatella Girotto Vice-presidente Turismo&Cultura soc. coop. Giuseppe Marangoni Presidente nazionale CTG- Centro Turistico Giovanile 1. Superare le separazioni Il management culturale troppo spesso separa la dimensione della conservazione del patrimonio culturale materiale da quello immateriale e l’arte della salvaguardia e recupero da quella del riuso e della valorizzazione. Superare queste separazioni è uno dei principi-obiettivo per una corretta governance dei beni culturali ed è anche uno degli aspetti principali del caso di studio che andiamo sinteticamente ad illustrare nella nostra comunicazione: quello di un’impresa culturale – la cooperativa Turismo&Cultura di Rovigo – la cui vicenda per certi aspetti acquista una signiicatività maggiore se si considera il fatto che opera in una provincia svantaggiata rispetto al resto del Veneto, regione di appartenenza. 2. Un approccio integrato Nel corso della breve esposizione, cercheremo di illustrare anche in termini esempliicativi come l’approccio integrato alla gestione del patrimonio non si limita agli aspetti della salvaguardia- restauro e riuso-valorizzazione, ma tocca altri elementi di integrazione: il rapporto tra volontariato e impresa, tra pubblico e privato, tra attività scientiica e divulgativa, tra livello culturale e commerciale, tra didattica e gestione, tra luoghi e tecniche museali e tecniche di animazione artistica e di spettacolo, tra utenza locale e utenza turistica. La nostra esperienza ci dice come al di fuori di questa ilosoia gestionale una gestione di beni culturali, specialmente in zone periferiche e non dotate di beni di impatto assoluto- che è il caso più frequente-, non possa reggersi né sul piano economico né su quello strettamente culturale. In proposito, va particolarmente sottolineata l’importanza di un corretto e sistematico rapporto tra pubblico e privato, specie con il privato del 3° settore (associazioni, cooperative), specializzando l’istituzione titolare del bene culturale nella regolamentazione e nel controllo, dando però grande spazio di manovra operativa ai soggetti imprenditoriali che si occupano della gestione (manutenzione, fruizione, valorizzazione). 3. Un caso di studio: Turismo&Cultura Per sviluppare l’argomento, può essere utile alla comprensione afrontarlo attraverso la disamina di un esempio concreto. La cooperativa Turismo&Cultura opera ininterrottamente dal 1984 nella provincia di Rovigo, con interessi diretti e collaborazioni anche in altre province del Veneto e dell’Emilia Romagna. Ha 2 dirigenti, 11 dipendenti a tempo indeterminato, 4 a tempo determinato, 3 collaboratori a progetto, una trentina di collaboratori occasionali. Il giro d’afari si aggira attualmente sui 900.000 euro, modesto in linea assoluta, ragguardevole se si pensa che si occupa di attività culturali in zona svantaggiata. 3.1 Origine ed evoluzione. Dal volontariato all’impresa Può essere interessante un cenno sulle origini. La cooperativa nasce dal Centro Turistico Giovanile, un’associazione presente in Italia dal 1949 e che 101 Strenna 3-2015 di Pagine d’Archeologia Fig. 1. Il palazzo neoclassico dell’idrovora ottocentesca di Amolara-Adria,complesso architettonico dismesso e abbandonato, per cui Turismo&Cultura ha promosso il recupero come Museo sulla storia della civiltà delle acque nel Delta del Po (SEPTEM MARIA MUSEUM), con annesso ostello, sala convegni, ristorante. Il Museo ospita tra l’altro l’associazione culturale di divulgazione storica VIIII LEGIO. 102/ Girotto / Marangoni Valorizzare è far rivivere. La gestione del patrimonio culturale come snodo cruciale principale della nostra terra – integrati da elementi storico-artistici legati alla presenza di ville venete e castelli lungo i iumi. Fig. 2. Ecomuseo Mulino al Pizzon di Fratta Polesine. persegue, secondo una ispirazione cristiana vissuta laicamente, la promozione della persona nei settori della cultura, del turismo, del tempo libero. Ecco allora l’evoluzione: CTG – conoscenza del territorio – passione per la divulgazione – organizzazione di corsi per guide di turismo sociale a livello territoriale, specializzazione poi convertita, in base alle esigenze dell’utenza prescelta, in corsi per animatori culturali e ambientali. L’evoluzione prosegue passando dalla passione e dall’impegno associazionistico al servizio e all’organizzazione in forma imprenditoriale, per rispondere ad esigenza di continuità, di professionalità, di responsabilità, di formazione, di legalità. Il rapporto volontariato-impresa è una costante che abbiamo continuato a salvaguardare e coltivare nel tempo come stimolo motivazionale per tutti gli operatori della cooperativa, compresi dipendenti e collaboratori. 3.2 Le prime attività. Gli itinerari, le visite guidate I primi itinerari approntati sono nel Delta del Po, ambiente allora sconosciuto (si vendevano le cartoline di Venezia). Siamo l’unico team sul territorio a funzionare da supporto concreto ai pionieri culturali e imprenditoriali: il nascente museo civico archeologico di Rovigo, qualche battelliere e pescatore del Delta, un cantiere navale tradizionale, artigiani di terrecotte del Po. Mettiamo in circolo piccoli gadget pieni di sapienza. Oltre al Delta, attenzione ad itinerari ambientali lungo i iumi – la caratteristica 3.3 La formazione degli operatori. Una costante La costante in dall’inizio è la cura della formazione e aggiornamento degli addetti, attraverso corsi e riunioni periodiche, incontri con esperti e testimoni, ricerche e sopralluoghi. Tale formazione ha sempre recepito i contenuti dal mondo scientiico, integrato però con un’apertura di ascolto e attenzione a protagonisti della cultura popolare, artigiani, imprenditori, insegnanti, studiosi non canonici. Parallelamente la formazione ha battuto sulla metodologia della comunicazione, trattando l’opera dei nostri animatori come una mediazione culturale applicata a contesti e utenze diverse. Secondo il concetto di turismo sociale che era il nostro valore di partenza, nessuna categoria doveva intendersi esclusa dalla fruizione dei beni culturali: non solo turisti ma anzitutto residenti, dai bambini dell’asilo agli anziani delle case di riposo, con attenzione anche a portatori di handicap (sordi, ciechi, ecc.). Evidente che i linguaggi e i contenuti devono essere diversi. Sembra ovvio, ma non lo è se si pensa che a livello legislativo e regolamentare dobbiamo ancora combattere con chi ritiene che la igura professionale della guida turistica possa coprire tutte le casistiche sopraccitate. 3.4 Le strutture ricettive. L’idea degli ostelli di città e di campagna Ben presto l’intervento di una giornata o di mezza giornata si rivela insuiciente rispetto alle richieste di gruppi e scuole, dal punto di vista turistico, didattico, socio-culturale. Ecco l’esigenza di impegnarsi in un nuovo campo d’azione: la ricettività. Cominciamo col campeggio nelle isole del Delta per adolescenti. Ma emerge la necessità di una continuità organizzativa e standard di struttura e di sicurezza, con apertura ad altre categorie di utenti: famiglie, adulti amanti della natura, ecc. Ecco gli ostelli. Prima a Padova un ostello di città. Poi A Gorino Sullam presso le foci del Po. Sposiamo in ambedue le ipotesi il concetto ecologico non della nuova costruzione ma della salvaguardia e riuso di fabbricati esistenti e abbandonati da tempo. A Padova un ex asilo notturno. A Gorino un ex asilo d’infanzia. La cooperativa e l’associazione non dispongono però di struttura societaria e capitali per intraprendere l’avventura da soli. Ecco allora l’idea della sinergia privato-pubbli- 103 Strenna 3-2015 di Pagine d’Archeologia Fig. 3. Il Gruppo Ctg di adolescenti “Latin Lovers”. Corsi di lingua e cultura latina, confezione di maschere, teatro di strada su autori latini e non solo, come passione educativa svolta nel tempo libero. co. Il privato ha l’idea, trova l’applicazione, trova la via inanziaria, interpella l’Ente proprietario dell’immobile (Comune, Provincia, Consorzio di Boniica), studia un progetto di recupero e riuso del bene, propone come condizione al tutto la concessione della gestione (decennale, ventennale) alla cooperativa o all’associazione, che poi si avvale in ogni caso della cooperativa come organismo tecnico. L’ostello di Padova ha un giro d’afari di 300.000 euro, con 5 dipendenti e varie collaborazioni esterne. Gorino Sullam € 350.000 con 5 operatori. Ostello Amolara di Adria € 450.000 con 10 dipendenti (ig. 1), Ecomuseo Mulino al Pizzon di Fratta Polesine € 200.000 con 5 operatori (ig. 2). Progetti di recupero e gestione vengono proposti anche per altre utilizzazioni, non commerciali: la Torre Grimani del castello di Rovigo, salvata dall’abbandono e trasformata in uicio turistico; il Complesso Olivetano di S. Bartolomeo a Rovigo, all’interno del quale collaboriamo per la realizzazione del Museo dei Grandi Fiumi e predisponiamo il servizio di animazione didattica del CeDi, di cui si dirà più avanti. In questi ultimi casi la cooperativa non ha un ritorno in termini economici, ma costruisce strumenti di promozione che valgono per tutta la comunità e però in particolare anche per l’azione della cooperativa, potenziandone l’impatto sul territorio. La via gestionale seguita per gli ostelli è di una gestione diretta per i primi anni, per assicurare l’im- 104/ postazione corretta e il lancio della struttura, con denaro fresco che entra a coprire gli investimenti iniziali, e poi ricerca di una gestione separata verso cui si opera un tutoraggio e si mantiene un legame di collaborazione in rete. Vantaggi per l’Ente: ha un percorso garantito; non ha costi di manutenzione ordinaria; ha provocato l’innesco sul proprio territorio di attività culturali e turistiche e di posti di lavoro; ha costi certi complessivamente; ha l’opportunità di coinvolgere il gestore in una parte degli investimenti (attrezzature, arredamenti, sistemazioni ambientali). 3.5 Diversificazione delle attività L’uso delle strutture, così come le attività della cooperativa applicate ai beni culturali, spaziano dal turismo, alla didattica, alle iniziative sociali e ambientali rivolte in particolare ai giovani. Questo, sia perché sono in efetti settori collegati sia perché di cultura, musei e oasi da soli non si vive. Anche qui vale il principio dell’approccio integrato, della diversiicazione dei campi operativi, ma anche dell’utenza. Noi abbiamo sempre cercato di non aidarci solo alle convenzioni con Enti pubblici, ma di avere un nostro mercato di commesse difuse: gruppi, Comuni, associazioni, agenzie, scuole. Sulle scuole in particolare abbiamo sviluppato un ampio ventaglio di proposte: visite guidate, laboratori, progetti didattici, visite animate, percorsi Girotto / Marangoni Valorizzare è far rivivere. La gestione del patrimonio culturale come snodo cruciale annuali e pluriennali di accompagnamento tematico sviluppati d’intesa con Istituti Superiori e che spesso sfociano in convegnistica dove i giovani studenti sono protagonisti con le loro ricerche, aiancati dagli insegnanti all’interno di un progetto studiato ad hoc. Diversiicare signiica anche articolare attività durante il tempo dell’anno, senza fermi che produrrebbero la necessità di interrompere rapporti di lavoro. In questo settore si inseriscono la gestione di Centri estivi comunali – in particolare le animazioni di eccellenza presso musei –, doposcuola, ludoteche, attività teatrali e musicali (ig. 3) connesse all’animazione dei centri storici, attività editoriale. 3.6.1 Elementi di rischio imprenditoriale • attenzione ai costi issi (sedi, energia, pulizie, ecc.). All’occorrenza, trovare soluzioni miste con altri enti e cercare economie di scala. • assumere se c’è esigenza e dopo aver veriicato la redditività. Prima creare il giro. • calcolare bene il rientro degli investimenti. 3.6.2 Punti di debolezza • diicoltà a farsi pagare adeguatamente le attività culturali. • esiguità dei margini sulle attività culturali. • beneici sociali non pagati. • turn over di persone qualiicate. 3.6.3 Punti di forza • addetti motivati e preparati. • diversiicazione delle attività e delle commesse. • radicamento nel territorio. • regia della rete territoriale. 3.7 La cultura radicata. Il progetto Ce.Di per una learning region L’ultimo punto è proprio questo. Il radicamento nel territorio e la costruzione di una rete di relazioni valide sul piano della progettazione, lo svolgimento di servizi culturali e di gestione dei beni culturali e ambientali. Il radicamento riguarda lo studio, la conoscenza e le relazioni. Quindi la consapevolezza dei valori e delle esigenze. Corrispondentemente al radicamento sul territorio Turismo&Cultura ha sviluppato da sempre la massima apertura agli studi e alle esperienze che venivano contemporaneamente portate avanti in altre parti d’Italia e del mondo, interscambiando il più possibile a livello teorico e pratico. A questo livello, il CeDi – Centro per la Didattica dei Beni Culturali e Ambientali – è il modello che abbiamo più esportato e su cui, a distanza di 16 anni, ancora registriamo interesse da parte di Regioni, Province, Istituti Culturali, Associazioni sia in Italia che all’estero. Il CeDi è un progetto che raccoglie l’adesione di organismi vari – pubblici e privati – presenti sul territorio (Enti locali, musei, parchi, archivi, biblioteche, scuole, associazioni) che ha sede presso il Museo dei Grandi Fiumi e funziona anche come sezione didattica dello stesso museo (ig. 4). Il CeDi rende operativa la rete, dando vita ad una learning region, attraverso progetti e servizi qualiicati cui ogni organismo aderente dà un apporto speciico (inanziario, di struttura, di personale, ecc.) agevolando la ricerca di soluzioni le più economiche ed eicaci per la gestione dei Beni Culturali e per l’oferta di servizi educativi e didattici. Il segreto del successo del CeDi è che ha un motore agile ed eiciente: la cooperativa Turismo&Cultura. Fig. 4. Laboratorio di simulazione di scavo nel Giardino del Museo dei Grandi Fiumi di Rovigo, durante l’Animazione di Eccellenza nel periodo estivo. 105 Prehistoric Art Museum of Mação (Portugal): a project of culture, education and science Sara Cura Prehistoric Art Museum of Mação – Earth and Memory Institute Luiz Oosterbeek Polytechnic Institute of Tomar – Quaternary and Prehistory Group of the Geosciences Centre (uID73 – FCT) 1. Departure In 2005 the Dr. João Calado Rodrigues Museum, inaugurated in 1986, reopened ater a major restructuring resulting form a partnership between the Municipality of Mação, the Polytechnic Institute of Tomar (IPT) and the European Research Centre of the Prehistory of Northern Ribatejo (CEIPHAR). he IPT project, since the early 1990’s, was to articulate four dimensions that in terms of juridical and institutional organization are separated. his separation results in a severe injury both for heritage and citizens: the research (essential for the identiication and understanding of heritage), the education (essential for the formation of specialists but also to globally raise an heritage consciousness in society), the conservation (crucial to preserve the identiied remains throughout time) and the fruition of the citizens (justiication of all previous items). In this scope, the goal was to create an excellence research centre strictly articulated with regional development. In September 2000 occurred the discovery of Paleolithic rock art in the river Ocreza valley (Mação). A request of collaboration to preserve the rock art was addressed to the Municipality of Mação and the answer was a proposal of cooperation to reorganize the Museum (Oosterbeek 2002b). he restructuring logic was aligned with the main concerns in the domain of heritage: the axis was not the conservation of collections and sites, neither the research, but the dynamic genesis of a difuse knowledge building, catalyzed but the archaeological heritage. Within this framework, the needs for conser- vation and research emerged as tools for a qualiied social appropriation of heritage, which ultimately is considered as a citizenship vehicle in the frame of what we call Integrated Territory Management (Scheunemann, Oosterbeek 2012). In other words, was implemented an intervention in culture and heritage that aims to exceed these dimensions and contribute to ight against alienation and to raise citizens critical consciousness within the articulation of social, environmental and economical dimensions (Oosterbeek et alii 2011). he Museum reopened in 2005 with a new thematic in the main building (rock art associated with the beginning of agriculture) followed by the launching of heritage memory extensions in diferent locations of Mação municipality. he new permanent exhibition, centered in the Neolithic and Chalcolithic periods, allowed a discourse about the relation between human behavior and its environmental and climatic context. his relation directly connects the worries of current society and the decay of the rural world identities. he knowledge socialization activities and didactic projects where organized over this axis, that values the relevance of technology and rationality in society (ig. 1). Subsequently the tactile (2008) and virtual (PACAD, Digital scientiic and artistic animation program, 2009) exhibitions consolidated this strategy. he Museum through several exhibitions develops a conceptual cadency that always resumes the same thematic: time (agriculture origins, climatic and environmental changes, cultural and artistic innova- 107 Strenna 3-2015 di Pagine d’Archeologia Fig. 1. Permanent exhibition « A trait in the landscape». tions), space (the Tagus river, the natural and social resources) and causality (the freedom of choice and its constraints, the innovation and the central role of technology and education for human beings). In 2011, a new exhibition, emerging form the collections of the Memory Spaces of diferent localities of Mação region, represented a conceptual and technological encounter between the academic knowledge and the secular knowledge and the plural identity of society (Oosterbeek et alii 2010). herefore archaeology and prehistory are fostered as useful tools for the current society in the delineation of new adaptive strategies and new governance solutions (Oosterbeek 2009). 2. Structural lines and principles he irst structuring line of the Museum is research, of its collections and of the territory, conservation being the second. he third line of action is communication, not only in the academic world, but within a global social frame. he fourth line is the services that the museum provides to the community, beyond the dimensions of study, conservation and cultural dissemination. hese structural lines are based in several principles of continuity and innovation. Rigor, demand, diiculty, aversion to the logic of the «spectacle museum», favoring a museum of debate and proximity, are options that reinforce the path, initiated in 2009, towards a construction of a global network, with several 108/ regional and international poles, mainly from South America and Africa. 2.1 Priority to research and conservation his priority is given, at a local level, not only trough the study of the archaeological remains directly connected to the main themes of the Museum (rock art, quaternary, lithic technology, ceramic technology, environment and chronology, heritage, theory), but also to the entire cultural heritage of Mação region. he Museum, together with CEIPHAR and IPT, the Earth and Memory Institute and the Quaternary and Prehistory group of the Geosciences Centre, coordinates projects in Mação and Middle Tagus region, but also in other European countries, as well as in South America and Africa. his diversity of projects reinforces the global ethos of the Museum and contributes to a new dimension of the village of Mação, grounded in the conviction that currently it is possible, and even desirable, that major projects be coordinated and centralized outside the bigger urban contexts (ig. 2). 2.2 Strategic inset within the territory and local and regional population he Museum program assumes the local population as its irst priority, intervening in the social reorganization. Its role is the promotion of encounters, relections, knowledge building and new concepts and the elaboration of critical reasoning. hat’s why in the Cura / Oosterbeek Prehistoric Art Museum of Mação (Portugal): a project of culture, education and science beginning of the reorganization in 2002 one of the irst steps was an extensive inquiry to the population, which actively involved over 10% of the population (including almost 40% of the Mação village itself). he Museum activities are orientated by academic criteria, but in permanent dialogue with the population, as the Museum serves the population and not only the visitors and users. 2.3 Social intervention he interaction with the population takes form in two ways: on one side, the Museum is a space of strategic debate over crucial questions that afect the population (desertiication, forest, domestic violence, etc); on the other side the Museum and the Municipality promote activities that attract the inhabitants to the Museum (inaugurations and ludic intercultural events). 2.4 Accredited quality permanently evaluated at national and international levels he Museum of Mação was positively evaluated and integrated the Portuguese Museum Network from 2010. It was evaluated and certiied by the international organization HERITY and is the headquarter of International seminars on Quality Management of Cultural Heritage an Rock Art, supported by the European Commission that granted the seminars with the Golden Prize of Erasmus. At a local level, the museum promotes independent assessments on a regular basis, including on its inancial viability and local economy impacts. his global culture of quality converges with a local trend, which promotes external permanent assessments on the performance of schools, of forest management or of social services (Oosterbeek 2002a). Fig. 2. Research Laboratories: lithic technology, ceramic and rock art. 109 Strenna 3-2015 di Pagine d’Archeologia 2.5 Subordination of knowledge socialization to the research contents All visits are guided and oriented towards raising doubts and questions, and not as much on “answers”. he visits detailed focus change according to the interest and prior knowledge of museum users, aiming to transform the visits in moments of thought and debate, leading to understand that the focus of diiculties are not the problems, but the dilemma. he same principle guides the knowledge socialization activities that are articulated with the programs of research, mainly those on prehistoric technologies. We privilege the construction of critical reasoning and we don’t reduce the didactics to a simplistic popularization of the research results. Simultaneously we try to involve the users of the museum that have no speciic training in archaeology, into the themes of scientiic research (ig. 3) (Cura et alii 2011; Oosterbeek et alii 2007). 2.6 Global understanding and heritage identity he Museum Project tries to make its visitors and users look into the past in retrospective and at a distance, so that they perceive convergences beyond the diferences that research evidences. he human behavior was always a social and intellectual game of interaction with the environment. Archaeology and heritage reinforce the notion of unity of the human species, serving mainly for the comprehension of the materiality relevance in cultural construction, allowing each citizen to build its own mediated and relective relation with the past and, through that relection, to reach the understanding of convergence and diversity of cultural mechanisms. 3. Action strategies he above mentioned principles have diferent strategies of action, which implementation was time phased according to the programmatic priorities of the Museum and its human and inancial capacities. 3.1 Conservation and formation All these projects are successful because of the concentration in Mação, through several research degrees of more than hundred researchers, many of them with several research fellowships. hrough the implementation of projects outside of Mação, in diferent continents, the Museum reinforces the relevance of the local community, promoting the insertion of students and staf originated of 110/ more than 40 diferent countries in the social-cultural life of the village. his has been resulting in a growing accession of the population towards the dynamic of the Museum project, which is the best base for an afective heritage conservation, which doesn’t exempt the research resources oriented to the study and conservation of collections and sites, but is supported in the understanding of the population about the relevance of heritage preservation and study. 3.2 International and Multidisciplinar research Because of the research and education programs, structured in several partnerships, the Museum develops and collaborates in projects in the Middle Tagus Region in Portugal (Quaternary, Megaliths and Rock Art), in Brazil (projects of landscape archaeology, heritage management, integrated landscape management in 14 diferent states), in Senegal (study of quaternary formations in collaboration with the Fundamental Institute of Black Africa and the University of Dakar), in Angola (Rock Art from the Ebo region) and many other countries. hese projects have diferent funding sources, both national (mainly the Science and Technology Foundation) and international (the respective countries and the European Union). Altogether they allow consolidating Mação and IPT as the only research and heritage management centre in Portugal with an efective international dimension. 3.3 Differentiated communication On the communicational level the major concern is the diferentiation of speech which as to be adapted to diferent interlocutors, always keeping the whole cluster of central lines that conigure the thematic of the permanent exhibition (landscape, technology, hunting-gathering, rural world, agro-pastoralism, social complexiication, rock art, history, identities, innovation, development), of the Archaeological circuits and the Memory Spaces in the diferent localities of the Mação region. he goal of the Museum is to build knowledge, not only in the academic world, but within a global social frame. his goal implies the elaboration of communication plans that integrate the knowledge socialization activities, but are also prolonged in the dialogues that structure the guided visits or in the relation with the media, which has a crucial role in the presentation of the Museum as a pole of cultural and social innovation. Cura / Oosterbeek Prehistoric Art Museum of Mação (Portugal): a project of culture, education and science 3.4 Relation with the community he strategy of establishing in Mação a research pole (supported by a specialized library with more than 50.000 entries), stimulating the permanence of students and researchers, has a great impact on the village. he Museum has currently more than ten thousand annual users, a permanent team of dozens of persons, most of which with research fellowships and living in the village. Since 2007 the hosting capacity is exhausted and new private investments are taking place, though delayed by the current crisis. he insertion of the Museum in the economic life of Mação and the surrounding region results from a strategy articulated with cultural tourism. Actually, if the Museum is capable, with a rigorous scientiic speech of ensuring its responsibility in research and conservation, to attract a signiicant number of visitors, these contribute to the local economy. We know that the medium cost of a user is around 15 euros, but the medium revenue resulting from this compound of users and projects is of around 35 euros. his is an undeniable factor of development for the village. Howev- er, the Museum is not a project of touristic growth, but one of proximity and of local and regional integration. he Museum is currently consolidating the relation with enterprises of Mação and its surroundings, exploring the contribution that its image and partnership networks can give to the promotion and commercialization of diferent products. 3.5 Management (Public-Private partnership) he implementation of goals’ oriented management was made ater consulting with a local company, Beneits & Proits. he balance of this management model is extremely positive: it allowed for the reduction of operational costs and the rigorous monitoring of all working sectors, internal and external. We now have mechanisms that allow us to know what each person does and how much it costs the Museum in terms of human resources, energy or services. his model of partnership is not the mere contracting of an enterprise: the company is involved in the Museum, without inal decision power, but coordinating activities and projects as well. his is done Fig. 3. Knowledge socialization activities. 111 Strenna 3-2015 di Pagine d’Archeologia in terms of a partnership in which the public sector decreases the inancial investment, but controls the dynamic and the strategic decisions. 3.6 Accreditation In a frame of progressive growing, quality control and accreditation foster the regulation of institutions’ performance, which everyday dynamic always tends to set aside the formal plans. Quality as an external controlling mechanism is essential. he international projects are audited and these represent a management tool as well as transparency, which should be implemented on a global level. Beyond the oicial accreditation and evaluation mechanisms, the evaluation is permanent trough questionnaires done to each visitor. 3.7 Technological innovation (Public-Private collaboration) he implementation of a digital scientiic and artistic animation program (PACAD) strengthens an international network that brings together knowledge producers and the average citizen in a unique system of communication, highly accessible and of low cost. PACAD is a simple and innovative concept to make exhibitions with the active participation of the visitors, sharing contents between partners in real time. Departing from cultural heritage the system helps to structure the concepts of space (geography), time (history) and causality (technology, innovation, economy). 4. Concluding he program of the museum of Mação builds from one core consideration: to help fostering critical reasoning. Its focus is not the heritage, but the relevance of heritage to reinforce resilience in society. hus, it tries to overcome the “economy-culture” divide, assuming that the museum is an excellent platform to understand the intercrossing of disciplines and interests, in the context of globalization (Oosterbeek 2007). 112/ References Cura, Oosterbeek, Cura 2011 = S. Cura, L. Oosterbeek, P. Cura, A Educação Patrimonial no Museu de Arte Pré-Histórica de Mação, in M. J. Almeida A. Carvalho (a c.), Actas do Encontro Arqueologia e Autarquias, Cascais 2011, pp.611619. Oosterbeek 2002a = L. Oosterbeek, Absolute quality: a point of view, in M. Quagliuolo (a c.), La Gestione del Patrimonio Culturale - Proceedings of the 6th International Meeting, Barletta, 4/8 dicembre 2001, Roma 2002, pp. 230-233. Oosterbeek 2002b = L. Oosterbeek, Museu Municipal de Mação: Museu de Arte Pré-histórica e do Sagrado no Vale do Tejo, in A. R. Cruz, L. Oosterbeek (a c.), Territórios, Mobilidade e Povoamento no Alto Ribatejo III - Arte Pré-histórica e o seu contexto, «Arkeos» 12, 2002, pp. 11-28. Oosterbeek 2007 = L. Oosterbeek, Arqueologia, Património e Gestão do Território – polémicas, Erechim (Brasil) 2007. Oosterbeek 2009 = L. Oosterbeek, A arqueologia de um ponto de vista social: recursos, identidades e riscos num contexto de mudança, in S. Figueiredo (a c.), Actas das Jornadas de Arqueologia do Vale do Tejo, em território português (Lisbona 2009), Lisbona 2009, pp. 49-63 Oosterbeek, Cura, Cura, 2007 = L. Oosterbeek, S. Cura, P. Cura, Educação, criatividade e cidadania no Museu de Arte Pré-Histórica de Mação, in «Revista de Arqueologia» Sociedade de Arqueologia Brasileira 19, 2007, pp. 103-110. Oosterbeek, Morais, Figueira 2010 = L. Oosterbeek, M. Morais, M.C. Figueira, Espaços de Memória e Cultura em Mação – Portugal e Pelotas – Brasil, in «Arkeos» 28, 2010, pp.189-94. Oosterbeek, Cura, Bastos 2011 = L. Oosterbeek, S. Cura, R. L. Bastos, Pensar Local, Agir Global - O Museu de Arte Pré-Histórica de Mação: memória, intuição e expectativa, in M. J. Almeida A. Carvalho (a c.), Actas do Encontro Arqueologia e Autarquias, Cascais 2011, pp. 487-499. Scheunemann, Oosterbeek 2012 = I. Scheunemann, L. Oosterbeek (a c.), Um novo paradigma da sustentabilidade: teoria e prática da Gestão Integrada do território, Rio de Janeiro, 2012. Finito di stampare dal Centro Stampa del Comune di Reggio Emilia nel dicembre 2015