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Cult Tv

Cult Television a cura di Barbara Maio RIGEL EDIZIONI I diritti d’autore del presente volume appartengono alla curatrice Barbara Maio. Il volume è pubblicato secondo la Creative Commons Public License http://www.creativecommons.it/ ISBN 97888908180-0-4  2013 by Rigel Edizioni 00147 Roma, Via dei Lincei n.39 Web Site: http://apsrigel.blogspot.it Contact: barbaramaio@osservatoriotv.it Indice Introduzione di Guglielmo Pescatore pag.8 Prima Parte Cosa è un Cult? di Barbara Maio pag.12 Pensieri sparsi sulla tv (from the blog) di Henry Jenkins pag.23 HBO e il concetto della tv di qualità di Jane Feuer pag.32 Il Cult Transmediale di Corrado Peperoni pag.44 Cult Television e Industria Televisiva di Catherine Johnson pag.51 Seconda Parte Twilight Zone come Cult Television di Barry Keith Grant pag.66 L’eteroglossia di Star Trek di Roberta Pearson pag.77 Farscape, Incidenti e Territori Inesplorati di Jay P. Telotte pag.91 Lost. Persi in una Grande Storia: la Valutazione nella Narrazione Televisiva di Jason Mittell pag.101 Piaceri Ripetuti: Storia, Narrazione e Formati Multipli nella Televisione di Fantascienza. Star Trek: Enterprise e Battlestar Galactica di Lincoln Geraghty pag.119 Torchwood e il Cult Emergente di Matt Hills pag.133 24. Le Molte Possibili Riflessioni su una Serie di Culto di Vito Zagarrio pag.146 Queer as Folk: il programma più gay mai realizzato di Giada Da Ros pag.163 Presentazione e Ringraziamenti Questo volume è stato progettato tanti anni fa, con l’idea di tentare di colmare (almeno in parte) un vuoto nella letteratura accademica riguardo la “Cult Tv”. Infatti, con il passare degli anni si andavano sempre più aggiungendo titoli in lingua inglese sull’argomento mentre l’Università in Italia restava a latere di questo argomento estremamente prolifico di convegni e pubblicazioni all’estero, oltre che terribilmente affascinante e attuale. In questa ottica va anche il mio nuovo progetto di ricerca Osservatorio Tv (www.osservatoriotv.it) che ha l’obiettivo di diventare negli anni un punto di riferimento e di consultazione per gli studi televisivi in lingua italiana. Varie vicissitudini professionali hanno rallentato questa mia ricerca e quindi con maggiore convinzione ringrazio gli studiosi che hanno partecipato a questo volume e che non si sono arresi di fronte ai miei continui rinvii. Studiosi che con le loro ricerche hanno occupato gran parte dei miei anni universitari ed è quindi stato un onore poterli ospitare in questo mio volume. Ringrazio Roberta Pearson e Jane Feuer per aver partecipato alla conferenza da me organizzata a Roma nel 2010 sulla Cult Television che è stata frutto di interessanti spunti e riflessioni. Ringrazio gli autori e le case editrici che hanno concesso i diritti per i loro saggi. Ringrazio in particolare Giada Da Ros che ha collaborato alle traduzioni e il professor Guglielmo Pescatore che mi ha concesso una introduzione d’autore. Ringrazio Mauro Corsetti per la copertina e l’editing. Infine, dedico questo libro – come ogni cosa che faccio – alla mia Cecilia. B.M. Gli autori del volume Barbara Maio è Dottore di Ricerca in Cinema e Tv (Roma Tre, 2006). Ha pubblicato ampiamente su cinema, televisione e nuovi media. È direttore responsabile e fondatore dell’ejournal Ol3Media (http://host.uniroma3.it/riviste/Ol3Media/) e direttore del progetto di ricerca Osservatorio Tv (www.osservatoriotv.it). Tra le sue pubblicazioni Legittimare la Cacciatrice. Buffy The Vampire Slayer (Bulzoni, 2007), La Terza Golden Age della Televisione (Edizioni Sabinae, 2009) e HBO. Televisione, Autorialità, estetica (Bulzoni, 2011). Giada Da Ros, laureata in Giurisprudenza, è giornalista e critica televisiva. Si occupa da anni di studiare la tv e le forme narrative seriali. Ha pubblicato ampiamente in raccolte riguardanti le serie tv e in particolare nel volume Screwball Television: Critical Perspectives on Gilmore Girls edito da David S.Diffrient e David Lavery (Syracuse University Press, 2010). Jane Feuer è Professore alla University of Pittsburgh. Si occupa di cinema e television studies. Nel 2010 è stata Fullbright Distinguished Professor presso l’Università di Tübingen in Germania. Tra le sue pubblicazioni più rilevanti MTM: Quality Television (BFI, 1984) e Seeing Through the Eighties: Television and Reaganism (BFI, 1996). Lincoln Geraghty è Reader in Popular Media Cultures presso la University of Portsmouth. Tra le sue pubblicazioni Living with Star Trek: American culture and the Star Trek universe (IB Tauris, 2007), American Science Fiction Television (Berg, 2009). Barry Keith Grant è Professor presso la Brock University, Canada. È uno degli studiosi più affermati su Cinema e Tv Studies. Autore di molte pubblicazioni, tra le più recenti Shadows of Doubt: Negotiations of Masculinity in American Genre Films (Wayne State University Press, 2011), Invasion of the Body Snatchers (BFI, 2010), New Zealand Cinema: Interpreting the Past. (Intellect, 2011). Matt Hills è Professor in Film e Tv Studies presso la University of Aberystwyth. La sua area di ricerca è particolarmente specializzata verso i cult media e le fan cultures. Tra le sue pubblicazioni Fan Cultures (Routledge, 2002), The Pleasure of Horror (Continuum, 2002), Blade Runner (Wallflower, 2011). Henry Jenkins è Professore alla University of Southern California e in precedenza al MIT. Si occupa principalmente di comunicazione crossmediale. In Italia è disponibile il suo volume Cultura Convergente (Apogeo, 2007). Il suo blog è punto di riferimento per i media studies (http://henryjenkins.org). Catherine Johnson è Lecturer in Culture, Film and Media presso la Nottingham University. La sua area di ricerca è focalizzata sugli aspetti produttivi della televisione serializzata. Ha pubblicato Telefantasy (BFI, 2005) e Branding Television (Routledge, 2011). Jason Mittell è Associate Professor presso il Middlebury College, Vermont. Nel 2011/12 è stato Fellow in Residence presso l’Università di Göttingen in Germania. Tra le sue pubblicazioni Genre and Television (Rotledge, 2004), Television and American Culture (Oxford University Press, 2009). Roberta Pearson è Professor di Film and Television Studies presso la Nottingham University. Si occupa principalmente dello studio dei testi e dei generi relativamente all’American Television Drama. Ha pubblicato Reading Lost (IB Tauris, 2009), Cult Television (University of Minnesota Press, 2004). Corrado Peperoni è Dottorando presso la Facoltà di Scienze della Comunicazione dell’Università La Sapienza di Roma. Ha frequentato il Master Cine&Tv presso l’Università Roma Tre ed ha pubblicato su televisione e narrazione crossmediale. Tra le sue pubblicazioni Simpson, il Ventre Onnivoro della Tv Postmoderna (Bulzoni, 2007), La Narrazione Crossmediale 1.0. Introduzione ai Nuovi Universi Finzionali (Aracne, 2010). Guglielmo Pescatore è Professore Ordinario all’Università di Bologna. Ha pubblicato ampiamente sulle serie tv, il concetto di autore e di genere. Promuove il convegno internazionale MediaMutations che ormai da anni è punto di riferimento di studiosi italiani e stranieri. Tra le sue pubblicazioni Le Nuove Forme della Serialità Televisiva (Archetipolibri, 2008), L’Ombra dell’Autore (Carocci, 2006). Jay P. Telotte è Professor presso l’Ivan Allen College of Liberal Arts, Georgia Tech. I suoi studi spaziano dai generi - specialmente fantascienza - agli studi comparativi alla relazione tra film e tecnologia. Tra le sue pubblicazioni più rilevanti The Cult Film Experience: Beyond All Reason (University of Texas Press, 1991), Science Fiction Film (Cambridge University Press, 2001), Disney Tv (Wayne State University Press, 2004). Vito Zagarrio è Professore di Filmologia presso l’Università Roma Tre. È diplomato al Centro Sperimentale e PhD alla NYU. È anche regista autore di 3 lungometraggi. Tra le sue pubblicazioni Frank Capra: Authorship and the Studio System (Temple University Press, 1998), L’Anello Mancante. Storia e Teoria del Rapporto Cinema-Televisione (Lindau, 2004), John Waters (Il Castoro, 2005). Introduzione di Guglielmo Pescatore È difficile fissare in maniera univoca una data dalla quale fare partire l'interesse per i fenomeni di culto televisivo, anche perché questi ultimi si intrecciano con pratiche mediali - si pensi alla cultualità cinematografica o alla scena della musica pop - che hanno attirato da subito lo sguardo degli studiosi. Tuttavia pare ragionevole riferirsi a un testo come Textual Poachers: Television Fans and Participatory Culture, pubblicato da Henry Jenkins nel 1992, indicandolo come fondativo di quel filone di studi che ha indagato fan, culti, comunità e produzioni culturali legati alla televisione. Sono dunque passati più di vent'anni e quegli studi si sono evoluti, raffinati, ma anche differenziati secondo direzioni, se non divergenti, almeno piuttosto specifiche: essenzialmente, da un lato le indagini di tipo etnografico, dall'altro le ricerche miranti a ricostruire un nuovo modello teorico nel quale inquadrare questi fenomeni. Lo stesso Jenkins ha proposto, a distanza di una decina d'anni, il frame della cultura convergente, destinato a diventare uno dei paradigmi influenti degli studi mediali contemporanei. Tuttavia, in vent'anni è cambiata molto anche la televisione, la produzione seriale e dunque le pratiche e gli oggetti di culto ad essa legati. Se nei primi anni Novanta la televisione USA era nel pieno di quella che Robert J. Thompson avrebbe poi definito “seconda golden age” e il riferimento più ovvio per i fenomeni di culto era rappresentato da Star Trek, si stava sviluppando in quegli stessi anni un processo di serializzazione della fiction che avrebbe portato ad esiti imprevedibili proprio nell'ambito delle serie di culto. Era difficile immaginare allora che gli elementi di continuity, tutto sommato piuttosto convenzionali, di Hill Street giorno e notte potessero trasformarsi nell'intricata e indecidibile architettura narrativa di Lost, una serie che prevede e richiede la fruizione dei fan e riesce a organizzare la propria cultualità. Il culto televisivo si è dunque trasformato da pratica divergente, collaterale alle tradizionali modalità di fruizione, a canone fruitivo voluto e cercato dall'industria televisiva, perché capace di creare solidi legami tra il prodotto seriale e le sue audiences. Se le manifestazioni dei trekkies potevano apparire fenomeni di folklore (anche in senso proprio), tutto sommato un po' ingenue e marginali, oggi sappiamo bene che i prodotti seriali sono progettati come ambienti abitabili, nei quali gli spettatori/utenti possono muoversi, raccogliere informazioni, giocare, sviluppare legami affettivi. Mondi la cui definizione è in parte lasciata proprio agli spettatori, attraverso le pratiche di fan fiction, certo, ma anche grazie alle comunità che 8 discutono, interpretano e organizzano il sapere narrativo proposto dalle serie. Caratteristiche proprie della tv di culto che le serie contemporanee utilizzano come elementi essenziali nel definire e modellare l'interazione con lo spettatore. Insomma, la cult tv sta diventando sempre più la tv tout-court, almeno per quel che riguarda la fiction seriale. Le trasformazioni a cui abbiamo fatto riferimento, che riguardano gli ultimi decenni, si inseriscono in un processo complessivo di de-istituzionalizzazione dei media e della televisione in particolare. Accade che il medium televisivo, soprattutto per quello che riguarda la fruizione, vede modificati i propri contorni tradizionali. Palinsesto e flusso, controllati dall'emittente, cedono il passo a fruizioni destrutturate e controllate (parzialmente) dallo spettatore, grazie al videoregistratore e ai dispositivi di time shifting prima, alla disponibilità dei programmi in rete poi. Dunque la relazione mediale viene sostituita sempre più dalla relazione seriale: una volta guardavamo la televisione nel soggiorno di casa secondo i tempi definiti dal palinsesto; oggi seguiamo una serie e lo facciamo, a prescindere dal medium e dalla forma di fruizione istituzionale, quando ci pare, dove ci pare e con il dispositivo che ci pare. Il rapporto di consuetudine che avevamo con la televisione si frantuma e si suddivide nei mille rivoli delle serie che seguiamo e nella capacità di queste ultime di creare dei legami consolidati con le proprie audiences. E tuttavia le cose stanno ancora cambiando: il successo delle reti pay (i cosiddetti canali premium), che hanno raggiunto nel mercato USA livelli produttivi, sia quantitativi che qualitativi, tali da rivaleggiare con le principali reti free-to-air, ha imposto nuove formule narrative. Formule spesso improntate a modelli di continuity che guardano alla tradizione letteraria o al cinema e che si accompagnano a nuovi modi di intendere e praticare il culto televisivo. Ad essere valorizzati sono innanzitutto gli autori, gli attori, i personaggi. Le individualità dunque prima ancora che l'offerta di un mondo arredato col quale interagire in maniera attiva o anche solo affettiva: la quality television prende le forme di un cinema esteso più che espanso, che vuole essere guardato più che partecipato. Gli sviluppi più recenti, che vedono i primi accenni di competizione tra network pay e over the top tv (Hulu, Netflix, ecc.) sembrano confermare questa direzione: si pensi a House of Cards, prima (mega)produzione per Netflix, che fa leva sull'accoppiata Fincher/Spacey e i cui episodi sono usciti in contemporanea, come in un film diviso in più parti. La serialità televisiva è dunque oggi una materia fluida, in movimento, difficile da definire una volta per tutte. Forse ancora più sfuggenti sono le scelte dei fan e delle audiences che trasformano alcuni di questi prodotti in oggetti di culto, o anche le formule che possono 9 indirizzare queste scelte. Ciò non vuol dire che, a distanza di vent'anni, non si possa fare un bilancio che ci aiuti a capire che cosa sia cambiato e magari anche che cosa sta cambiando. È quanto si propone di fare questo libro, affrontando sia il contesto generale che i singoli casi di successo e affidando il compito ad alcuni tra i maggiori specialisti di serialità televisiva, di cui raccoglie gli scritti. Ne viene fuori un panorama certo mobile, ma bene a fuoco, che permetterà al lettore di approfondire un universo di fenomeni tutt'altro che marginali nel panorama mediale contemporaneo. 10 Prima Parte 11 Cosa è un Cult? di Barbara Maio Nel 1966 Susan Sontag1 cercava di definire il termine “camp” andando incontro ad una serie di difficoltà anche solo nello stilare una lista di caratteristiche che potessero delineare i contorni del termine. La Sontag affermava che “l’essenza di Camp è il suo amore per l’innaturale, per l’artificio, per l’eccesso. In più Camp è esoterico, una specie di cifrario privato, addirittura un distintivo di riconoscimento tra piccole cricche urbane”.2 Una tale definizione evidenzia molte delle caratteristiche e delle problematiche che hanno accompagnato - e che tuttora accompagnano - la definizione del termine “cult”. Infatti, nell’industria culturale audiovisiva definire il termine “cult” è una impresa quasi impossibile tra un eccesso di caratteristiche e una mancanza di limiti ben definiti. Sull’idea di cult si sono pronunciate parecchie “voci”: una delle più importanti e, soprattutto, quella che ha più segnato la critica contemporanea sull’argomento, è di Umberto Eco. Nel suo noto saggio3 su Casablanca (Michael Curtiz, 1942), Eco mette in evidenza alcuni tratti necessari all’oggetto “cult”: il cult deve essere amato, deve essere in grado di creare un mondo a sé stante nel quale il fan possa “vivere” e dal quale possa trarre citazioni e riferimenti, deve essere in grado di poter vivere anche in segmenti, non solo nella sua interezza. Ancora, Eco rileva come la qualità del cult - perché una certa qualità è necessaria venga fuori anche senza l’ausilio dell’autore. Questa figura così dibattuta, finisce per sparire nel testo stesso. Il cult, quindi, si pone come un oggetto indipendente, che non necessità di un creatore ma solo di un recettore. Eco parla di “cult culture” cioè della necessità di una conoscenza approfondita di tutto ciò che circonda l’oggetto cult cioè i riferimenti metatestuali, alla pop culture, al mondo che lo crea e lo circonda. Emerge nell’analisi di Eco il fatto che il cult sia “casuale” cioè che emerga a posteriori, spesso dopo anni dalla sua creazione. Nel cinema e fino a qualche anno indietro, questa affermazione può senz’altro considerarsi quasi una regola. Jay P.Telotte4 parla di testi che vengono creati per una audience al contempo eterogenea ed altamente specifica, e che poi vengono amati “beyond all reason” da un pubblico attento e fedele. Telotte cita - tra gli altri - esempi come Via col vento (Victor 1 Susan Sontag, “Note sul camp”, in Contro l’interpretazione, Mondadori, Milano, 1967. Ivi, pag.359. 3 Umberto Eco, “Casablanca: Cult Movies and Intertextual Collage”, in Faith in Fakes, Vintage, Londra, 1998, pagg.197-212. 4 Jay P.Telotte, “Beyond alla Reason: The Nature of the Cult” in The Cult Film Experience, University of Texas Press, Austin, 1991, pagg.5-17. 2 12 Fleming, 1939), Quarto Potere (Orson Welles, 1941) e Gioventù Bruciata (Nicholas Ray, 1955), esempi di film prodotti nell’ambito dell’industria mainstream statunitense e divenuti poi oggetto di culto. Il merito di questi film è quello di evocare una certa nostalgia verso il passato (Via col vento), dipingere figure iconiche (Quarto Potere) o fare affidamento sulla Golden Age Hollywoodiana e sui suoi interpreti (James Dean). Questo può essere visto come un lato del cult, con un’altra facciata rappresentata invece da ciò che definiamo “sottocultura”, cioè una serie di film che nascono al di fuori dall’industria mainstream - Hollywoodiana o no - e che giocano molto sulla rappresentazione dell’estremo - sesso, violenza, surrealismo - e sulla permeazione reciproca dei generi classici. A questa seconda categoria si possono ascrivere tutta una serie di titoli che incarnano il lato più accattivante e trasgressivo del cult: Plan 9 From Outer Space (Ed Wood jr., 1952), La notte dei morti viventi (George Romero, 1968), El Topo (Alejandro Jodorowsky, 1970), Pink Flamingos (John Waters, 1972), L’Esorcista (William Friedkin, 1973), The Rocky Horror Picture Show (Jim Sharman, 1975), Eraserhead (David Lynch, 1976), Possession (Andrzej Zulawski, 1981). Se il primo gruppo appartiene all’eredità legata alla narrativa classica di Hollywood5, il secondo può essere senz’altro il rappresentante di un periodo in cui l’estetica trash6, il pastiche postmoderno, l’utilizzo spregiudicato dei generi classici hanno la meglio. Si tratta di “peccati”7, cioè di film che esulano dalla produzione, mainstream o indipendente, dell’industria cinematografica. Il riferimento diretto è a quella ideologia della sottocultura legata a movimenti e gusti estremi che ha dato vita alla pratica del “midnight movies”8, il rituale della visione notturna ed in luoghi deputati allo svolgimento di questa cerimonia da condividere solo con altri adepti. Janet Staiger sottolinea come il rituale della visione notturna del cinema underground servisse - nei primi anni Sessanta - alla creazione di “comunità”9, e come successivamente questo movimento sia servito all’emancipazione della comunità omosessuale che di lì a poco tempo avrebbe segnato la vita newyorchese. In questo senso, questo tipo di prodotti cult si è sovrapposto - e spesso ibridato - con il movimento del cinema d’avanguardia poiché entrambi 5 Ivi, pag.8. Cfr. Deborah Cartmell, I.Q.Hunter, Heidi Kaye e Imelda Whelehan (a cura di), Trash Aesthetics, Pluto Press, London and Chicago, 1997. 7 Mark Jancovich, Antonio Reboll, Julian Stringer e Andy Willis, Defining Cult Movies, Manchester University Press, Manchester and New York, 2003, pag.1. 8 J.Hoberman, Jonathan Rosenbaum, Midnight Movies, Da Capo Press, New York, 1983. 9 Janet Staiger, “Finding Community in the Early ‘60”, in Perverse Spectators, New York University Press, London and New York, 2000, pag.126. 6 13 “non offrono soluzioni o programmi, ma una serie di sfide intricate, tracce e messaggi in codice che sovvertono forma e contenuto”.10 Analizzando quindi Casablanca piuttosto che El Topo, possiamo affermare che il cult sia qualcosa che nasce da fuori, cioè non nel modo e nella forma in cui un film viene prodotto ma, piuttosto, nel modo in cui viene recepito e poi fatto vivere al di fuori dell’industria stessa. Infatti, il punto focale del cult risiede nel pubblico che deve ricordare a memoria le battute del film, vestire come i protagonisti, creare una sorta di circolo quasi religioso solo per chi veramente ama quel determinato film. Ma c’è un altro aspetto che va tenuto in considerazione nell’analisi del cult e cioè il periodo storico: infatti, nota Justin Smith come prodotti “innovativi diventino con il passare del tempo icone familiari”11. Guardando oggi alcuni film cult noti per la loro trasgressione, ci si può stupire per la loro ingenuità. Ciò vale per l’aspetto sessuale (Rocky Horror Picture Show), quello orrorifico (L’esorcista), quello politico (La notte dei morti viventi). Questo tipo di film, pur mantenendo la loro forza, perdono gran parte della loro carica trasgressiva con il passare degli anni. Ogni analisi, quindi, va contestualizzata nel giusto periodo storico, sociale e politico. Ed infatti, in epoca di new media, di internet, di comunicazione globale, la creazione del prodotto cult ha subito dei cambiamenti sostanziali. Se scorriamo rapidamente le critiche e le campagne promozionali di film realizzati negli ultimi anni, il termine cult è stato associato a prodotti molto diversi tra loro12: Le ali della libertà (Frank Darabont, 1994), Priscilla. Regina del Deserto (Stephan Elliott, 1994), Titanic (James Cameron, 1997), Face/Off (John Woo, 1997), Il Grande Lebowski (Joel e Ethan Coen, 1998), Fight Club (David Fincher, 1999), Matrix (Andy e Lana Wachowsky, 1999), Blair Witch Project (Daniel Myrick e Eduardo Sanchez, 1999), Ginger Snap (John Fawcett, 2000), Donnie Darko (Richard Kelly, 2001), saghe come quelle di Terminator (1984-2009), Il Signore degli Anelli (2001-2003), Pirati dei Caraibi (2003-2011), Twilight (2008-2012), praticamente ogni film di Tim Burton, Quentin Tarantino, David Lynch, e quasi ogni horror proveniente dall’oriente. In pratica, la natura elitaria e chiusa del cult è andata man mano sfumando per colpa di una eccessiva iper-comunicazione che si sviluppa oggi intorno a prodotti di questo genere. Ancora, il termine “cult” è andato sempre più a delineare un sovragenere, e film che in anni passati non avrebbero mai potuto raggiungere lo status di 10 Amos Vogel, Film as a Subversive Art, D.A.P./CT, UK, 2005, pag.308. Justin Smith, Withnail and Us. Cult Films and Film Cults in British Cinema, IB Tauris, London, 2010, pag.17. 12 Per elenchi, liste e definizioni di film cult vedi il sito http://www.cultographies.com/. 11 14 cult vengono, invece, oggi presentati come tali già solo per mezzo di un trailer o una preview per poche persone. In pratica, ciò che prima nasceva e si sviluppava spontaneamente attraverso un passaparola tra appassionati di cinema, la costanza dei gestori delle sale che a mezzanotte proiettavano questi film per mesi anche con pochi spettatori e le riviste underground specializzate nel segnalare questi prodotti, oggi si realizza stando comodamente seduti in casa di fronte ad un PC ed inserendo una entry in un qualsiasi blog, forum a tema cinematografico, social network. Questa tecnica di marketing ha sicuramente il vantaggio, per la casa produttrice, di poter veicolare un prodotto direttamente ad un pubblico interessato a questo genere di film senza, comunque, dimenticare il resto del pubblico che può essere interessato a questo determinato prodotto per la presenza di un attore, per la storia raccontata, per il genere etc. Di contro, però, l’eccessiva circolazione del termine cult e il fatto che ormai sia diventata una etichetta più che comune, porta ad una perdita di valore del termine. Il risultato più evidente di questo trend è che ad ogni stagione cinematografica abbiamo diversi film che vengono presentati come cult e che poi spariscono nel giro di pochi mesi. Assistiamo quindi ad un rovesciamento dei tempi del cult: dove prima nasceva lentamente e si sviluppava negli anni per restare ancorato alla memoria collettiva degli adepti, oggi si arriva rapidamente al cult con una sovrabbondanza di paratesti (la colonna sonora, il sito web, il romanzo dal film, il fumetto etc.), per poi esaurirsi rapidamente e finire dimenticato. Film cult troppo pensati a tavolino e che nascono in seno all’industria mainstream, mancano del giusto fascino e della forza che questi prodotti invece richiedono. Interessante a questo riguardo può essere una rapida analisi del film Dal Tramonto all’Alba (Robert Rodriguez, 1996). Come notano Mendik e Harper13, il film contiene tutte le caratteristiche per divenire un film cult. Dal punto di vista produttivo, il film è realizzato da Rodriguez, già noto al pubblico per El Mariachi (1992) e Desperado (1995), due film che hanno raccolto interesse di pubblico e critica, il primo andando anche a vincere il Sundance Film Festival (un festival “cult” per la sua natura indipendente) e il secondo vedendo protagonisti una coppia di sicuro richiamo come Antonio Banderas e Salma Hayek. La storia del film presenta tratti chiaramente postmoderni e di pastiche: inizia come una storia on the road fino alla prima metà per poi virare, senza preavviso, verso il vampire movie ricco di sangue e immerso nell’estetica gore e splatter. Gli attori protagonisti incarnano in maniera diversa l’archetipo della cult star: George Clooney è noto all’epoca soprattutto per il suo ruolo 13 Xavier Mendik e Graeme Harper, “The Chaotic Text and the Sadean Audience: Narrative Transgressions of a Contemporary Cult Film”, in Unruly Pleasure, Fab Press, Surrey UK, 2000, pagg.237-249. 15 in E.R. ma è già una star che ha superato il limite del piccolo schermo ed infatti, l’anno seguente, vestirà i panni di Batman (Batman & Robin, Joel Schumacher, 1997). Quentin Tarantino - anche produttore e sceneggiatore del film - è già un autore cult avendo realizzato Le Iene (1992) e Pulp Fiction (1994). Harvey Keitel è un attore già affermato e divenuto, all’inizio degli anni Novanta, presenza fissa della scuderia Tarantino e specializzato in ruoli difficili (Il Cattivo Tenente, Lezioni di Piano). Juliette Lewis è giovane ma ha già la fama di attrice promettente e cattiva ragazza grazie a film come Cape Fear (Martin Scorse, 1991), Kalifornia (Dominic Sena, 1992), Mariti e Mogli (Woody Allen, 1992), Assassini Nati (Oliver Stone, 1994). Oltre il cast principale, il film fa molto affidamento anche su una serie di ruoli secondari iconici costruiti con cura: Santanico Pandemonium (Salma Hayek) è la ballerina sexy nonché regina dei vampiri che si esibisce al Titty Twister, il locale dove arriva il gruppo in fuga. Il suo nome fa anche riferimento ad un film cult messicano (in italiano La Novizia Indemoniata di Gilberto M.Solares) del 1975. Sex Machine è il motociclista interpretato da Tom Savini, nome noto agli appassionati di horror sia per le sue interpretazioni in film come Zombi (George Romero, 1978) o Creepshow (George Romero, 1982) ma, soprattutto, come creatore di make-up ed effetti speciali per noti film horror come Venerdì 13 (Sean S.Cunningham, 1980) e Due Occhi Diabolici (Dario Argento e George Romero, 1990). Frost è il veterano del Vietnam interpretato da Fred Williamson, volto ricorrente in film entrati nel mondo del cult come Quel maledetto treno blindato (Enzo Castellari, 1978), film al quale si è inspirato Tarantino per Bastardi senza gloria (2009), o I guerrieri dell’anno 2072 (Lucio Fulci, 1984). Senza andare ad elencare tutta la filmografia degli attori secondari, è chiaro come anche nella scelta del cast per ruoli minori si sia andato cercando tutta una serie di volti archetipi da Bmovie di vario genere, dal “poliziottesco” agli “exploitations” films. È chiaro, quindi, come per cast, tematica, stile ed estetica, Rodriguez e Tarantino abbiamo costruito a tavolino questo cult o comunque con una alta consapevolezza del genere. A distanza di qualche anno è però anche chiaro come il film non abbia poi lasciato questa impronta così rilevante nella storia del cinema cult, pur rientrando in questa categoria. Ovviamente non tutti i film cult possono avere il seguito del Rocky Horror Picture Show solitamente indicato come il cult per eccellenza - ma un film del genere avrebbe avuto le potenzialità per divenire anch’esso un archetipo del genere. È probabile che una delle problematiche di questo film possa essere nell’eccessiva presenza di elementi cult “a priori” mentre, come visto, il cult richiede una legittimazione “a posteriori”. 16 Cult e mainstream Fin qui il discorso si è concentrato sull’industria cinematografica ma il termine cult è stato anche spesso associato a prodotti televisivi. Programmi come Twilight Zone (Rod Serling, 1959-64), Doctor Who (Sidney Newman, 1963-89) e Star Trek (Gene Roddenberry, 1966-69) sono sempre associati al termine cult. Negli anni Sessanta questi show hanno segnato la storia della serialità televisiva, risultando poi decisivi per prodotti successivi che hanno spesso fatto riferimento a questi “padri”. Ma definire il termine cult in televisione è, se possibile, ancora più complicato che per il grande schermo. Sicuramente possiamo mutuare alcuni tratti dal cult cinema ma, come notano Sara Gwellian-Jones e Roberta Pearson “[il termine] cult è spesso associato ad ogni show inusuale o di qualità, che attira una audience di nicchia, con un appeal nostalgico, che è considerato emblematico di una sottocultura, o ritenuto di moda”14. Analizzando la produzione cult del piccolo schermo, bisogna necessariamente partire da alcuni chiarimenti, magari ovvi ma vitali nella ricerca di una definizione il più possibile corretta. Innanzitutto, a differenza dell’industria cinematografica, in televisione non esiste la produzione indipendente ma solo quella mainstream. Show inusuali e particolari sono comunque prodotti/distribuiti da network come ABC, CBS, NBC o BBC. La parte indipendente può risiedere nella primissima parte produttiva ma, in ogni caso, non esiste un circuito distributivo indipendente. Già questa notazione evidenza una prima, grande differenza tra cinema e tv cult poiché anche nel caso di prodotti che si sono affermati sui canali via cavo a pagamento (HBO, AMC, Showtime e altri), parliamo sempre di una “nicchia” relativa composta da milioni di spettatori. In una recente conferenza sulla Cult Television15, Roberta Pearson e Jane Feuer hanno sottolineato come spesso, ma non sempre, un prodotto cult coincida con uno di qualità. Il tema della qualità televisiva è ormai dibattuto ampiamente da anni16 e critici e studiosi concordano sull’importanza della parte dedicata alla scrittura, alla prevalenza dello sviluppo narrativo sull’aspetto visuale e di messa in scena. Jason Mittel17 parla di una “complessità narrativa” che si va affermando dagli anni Novanta e che è divenuta un tratto distintivo di 14 Sara Gwellian-Jones e Roberta Pearson (a cura di), Cult Television, University of Minnesota Press, Minneapolis e Londra, pag.IX. 15 Cult Television Conference, 28 maggio 2010, Università Roma Tre, Roma. 16 Cfr. Barbara Maio, La Terza Golden Age della Televisione, Edizioni Sabinae, Cantalupo in Sabina, 2009. 17 Jason Mittel, “Narrative Complexity in Contemporary American Television” in «The Velvet Light Trap», n.58/2006, pagg.29-40. 17 prodotti di qualità e di sperimentazione. Come visto, però, per il cinema, non è necessario che un prodotto cult sia anche di alta qualità, anzi esiste tutta una categoria che fa proprio della mancanza di qualità un tratto distintivo. In ottica televisiva il discorso varia andando a far spesso coincidere qualità con cult ma è necessario anche qui andare ad analizzare a fondo le sfumature del termine “qualità”. Pensiamo, ad esempio, a due prodotti recenti come The Sopranos (HBO, 1999-2007) e Grey’s Anatomy (ABC, 2005- ). Il primo show è creato da David Chase, sceneggiatore e produttore da golden age della tv (Kolchak, Moonlight, Un medico tra gli orsi), per HBO, all’epoca ancora alla ricerca di una identità e di una affermazione sul nascente mercato della tv via cavo. La storia è quella della famiglia Soprano, in particolare del suo capofamiglia Tony, piccolo boss mafioso del New Jersey. La narrazione, pur non mancando dei topoi del genere Mob-movie, si concentra molto sul personale di Tony, sulle sue crisi, sul rapporto tra le due “famiglie”, quella biologica e quella mafiosa. La serie è diventata un cult ma, soprattutto, è una serie di altissima qualità, da più parti indicata come un capolavoro non solo del piccolo schermo ma, in generale della popular culture. La caratteristica principale dei Sopranos è l’attenzione per lo sviluppo narrativo e dei personaggi. In più momenti Chase ha dichiarato di voler realizzare la serie come se ogni episodio fosse un piccolo film ed infatti ogni episodio dei Sopranos presenta una complessità poco frequente sul piccolo schermo ma possibile solo in una narrazione lunga per la possibilità di poter far crescere i personaggi nell’arco di più anni e di tante ore di televisione. Pensiamo, ad esempio, alla cura con cui è costruito il personaggio del protagonista, Tony Soprano, che diventa veramente una figura archetipa del piccolo schermo ma trascende anche questi limiti. Il pubblico impara ad amare questo boss che uccide e infrange la legge ma che è vicino a noi per le sue crisi ed i suoi dubbi. Sulla figura di Tony Soprano sono stati anche scritti libri sulla leadership o sulla cucina18. La forza di una serie come questa è decisamente nello sviluppo narrativo e nella cura dei numerosi personaggi, che seppur a volte rischiamo di cadere nello stereotipo dell’Italo-Americano mafioso e ignorante19, sono comunque costruiti con cura e coerenza. 18 Due titoli per tutti: Allen Rucker e Michele Scicolone, The Sopranos Family Cookbook: As Compiled by Artie Bucco, Grand Central Publishing, New York, 2002, e Deborrah Himsel e Peter Cairo, Leadership Sopranos Style: How to Become a More Effective Boss, Dearborn, Chicago, 2003. 19 Sulle proteste della comunità Italoamericana, ricordo quella di Charles Gargano per il Columbus Day, (http://www.nydailynews.com/archives/gossip/2000/09/15/2000-0915__sopranos__won_t_be_parade_f.html), quella di Mario Cuomo (http://www.nysun.com/opinion/benvenuto-giuliani/55853/) e quella della deputata Marge Roukema (http://www.foxnews.com/story/0,2933,24278,00.html). 18 Anche nel caso di Greys Anatomy il punto di forza evidente è nella costruzione delle storie ma in forma diversa dalla serie di Chase. La serie, creata da Shonda Rhimes è ambientata in ambito medico e ci illustra la crescita di un gruppo di giovani specializzandi in un ospedale di Seattle. Il tono è tra il dramma e la commedia ma la parte più rilevante della narrazione, dal punto di vista del genere, è l’aspetto romantico. Infatti, la centralità della storia è sul personaggio di Meredith Grey, specializzanda di stirpe, con un rapporto molto complesso con la madre - ex medico geniale ora costretta a combattere l’Alzheimer e che morirà nel corso della serie -, e con un focus particolare sulle storie sentimentali, sue e dei suoi colleghi. Arrivata ora alla nona stagione, la serie ha mutato direzione riducendo la centralità del personaggio di Meredith e puntando invece su una maggiore importanza del cast corale. Ciò è dovuto a motivi contingenti - la gravidanza dell’attrice Ellen Pompeo - che hanno portato ad una minore presenza sullo schermo dell’iniziale protagonista. Eppure, quello che poteva essere un colpo mortale per una serie con un forte protagonista centrale, si è rivelato una fonte di nuova linfa ed entusiasmo delle storie che hanno visto l’entrata di nuovi personaggi e l’evoluzione di alcuni già esistenti. Lo sviluppo di Greys Anatomy, come detto, è molto focalizzato sulle storie d’amore e ciò porta spesso la serie a risultare “leggera”, quasi comica, con un continuo scambio di partners, con amori che nascono e si esauriscono nel giro di pochi episodi, con matrimoni e tradimenti: questo le conferisce un tono godibile, anche se a volte poco realistico, che è uno degli elementi più amati dai fans. Ma di contro, la serie è anche melodramma allo stato puro, dove grandi tragedie fanno da contraltare a questa leggerezza narrativa. Questo continuo mix tra dramma e commedia, attrae molti spettatori che possono seguire con palpitazione le storie di amore ma possono anche piangere di fronte alle morti dei personaggi amati o delle tragedie che essi vivono. L’aspetto medical passa quasi in secondo piano, laddove le storie dei pazienti si fanno cornice delle storie dei medici o servono ad evidenziare la loro bravura. La breve presentazione di queste due serie può servire a mettere in evidenza come scelte narrative diverse possano dare vita a due cult show che attraggono un pubblico diverso ma che ricerca una narrativa dall’ampio respiro e di lunga durata. Nel caso dei Sopranos si tratta di uno show indirizzato ad un pubblico adulto, anche per la violenza di alcune situazioni, che ha creato poi una serie di merchandising20 che ha ulteriormente ampliato gli introiti di base, uno show che si è evoluto per sei stagioni da tredici episodi che alla fine compongono un puzzle completo della figura di questo boss umano ma spietato. Nel secondo caso, ci troviamo 20 Vedi sito HBO Shop: http://store.hbo.com. 19 in una narrazione che per ora conta ben nove stagioni per un totale al momento di oltre 180 episodi, che ha saputo rinnovarsi pur restando legata al suo stile originario, che attrae un pubblico soprattutto femminile con un range di età più ampio, che ha espanso il proprio mondo con uno spin-off, Private Practice, ambientato in una clinica di Los Angeles, che è servito anche per cross-over tra le due serie e per sviluppare al di fuori della linea narrativa storie iniziate sull’uno o sull’altro versante. Entrambe le serie possono essere considerate dei cult ma solo i Sopranos può essere considerata anche di qualità, attivando le categorie proposte da Thompson. Eppure entrambe sono o sono state un successo, in assoluto ed in relazione agli obiettivi del proprio network. Ma la definizione di cult televisivo, come anticipato precedentemente, è molto complicata, e anche solo volendo stilare un elenco incompleto di cult show degli ultimi venti anni troviamo programmi anche molto diversi tra loro, per genere, formato, innovazione, che però fanno tutti molto affidamento su uno sviluppo narrativo importante. Come teorizza Roberta Pearson21, e prima di lei Muriel Cantor22, la figura dell’hyphenateauthor diventa sempre più rilevante non solo nella ricerca di qualità ma, anche, nella costruzione di un cult a priori23. Oggi sono diversi gli autori che incarnano questo ruolo: Joss Whedon e J.J.Abrams su tutti, spaziano tra cinema e televisione in maniera fluida e organica. Whedon ha raggiunto l’olimpo hollywoodiano con The Avengers e Abrams è a capo della nuova saga cinematografica di Star Trek e sarà regista del prossimo capitolo della saga di Star Wars ma continua a produrre serie interessanti come Alcatraz e Revolution. Ed il loro successo cinematografico ha le sue radici nel piccolo schermo e nella diffusione che esso consente. Quello che risulta chiaro, è che la cult television, con il suo seguito di un fandom appassionato e fedele, diventa un modello produttivo rilevante in una ottica industriale, soprattutto oggi dove lo sviluppo di un prodotto si realizza in forma multimediale, trasversale e multipiattaforma. La frammentazione, lungi dal fare perdere forza un prodotto, diventa una risorsa economica non secondaria alla fonte della prima messa in onda. Questa spinta economica porta anche ad una competizione fortissima sulla creazione di nuovi prodotti che possano entrare nel mercato e rimanervi il più possibile. 21 Roberta Pearson, “The Writer/Producer in American Television, in Michael Hammond e Lucy Mazdon (a cura di), The Contemporary Television Series, Edinburgh University Press, Edinburgo, 2005, pagg.11-26. 22 Muriel G.Cantor, The Hollywood Tv Producer: His Work and His Audience, Basic Books, New York, 1971. 23 Su questo argomento rimando al saggio di Catherine Johnson in questo volume. 20 A dimostrazione che la messa in onda non è più vitale nell’economia di un prodotto, prendiamo l’esempio della serie Firefly24 creata proprio da Joss Whedon nel 2002 per la Fox. Whedon arriva alla produzione di Firefly - serie che ibrida fantascienza e western e racconta la storia di un equipaggio di una navetta spaziale di ribelli - dopo il successo di Buffy The Vampire Slayer25 e del suo spin-off Angel, due serie, specialmente la prima, indicate spesso dagli studiosi come chiaro esempio di cult television contemporanea. La produzione di Firefly si interrompe dopo soli 14 episodi a causa dello scarso successo dei primi episodi e dalla poca voglia del network di rischiare. Eppure un autore cult come Joss Whedon non manca il suo obiettivo: la serie viene giudicata dal pubblico la “miglior serie di fantascienza di tutti i tempi”26, la rivista TV Guide la inserisce nella classifica delle 30 Serie Cult di tutti i tempi27 (precisamente al 25° posto, subito dopo Twin Peaks, e con Buffy sempre di Whedon al 3° posto), il cofanetto della serie in DVD diventa un grandissimo successo28, dalla serie viene tratta una collana di fumetti che sviluppa ulteriormente la storia, ottenendo un buon successo di vendita, e la storia viene completata sul grande schermo con un film per la sala, Serenity, che ottiene il secondo posto nella classifica di spettatori nella sua prima settimana di programmazione29. In pratica, il successo di una serie non dipende più, almeno principalmente, dalla sua prima messa in onda ma, se ha determinate qualità, può vivere di una lunga vita commerciale. È certo che questa strategia industriale fa perdere parte dell’aurea romantica che circonda l’oggetto cult ma in una industria che, in quanto tale, vive di profitto, questo meccanismo assicura la possibilità di creare una grande varietà di prodotti che si assestano anche ad un livello alto di qualità, facendo sempre più spesso parlare di una televisione superiore al cinema, almeno per la sua capacità di raccontare storie e descrivere personaggi che entrano 24 Cfr. Rhonda V.Wilcox e Tanya Cochran, Investigating Firefly and Serenity: Science Fiction on the Frontier, IB Tauris, London and New York, 2008. 25 Sulla serie vedi anche Barbara Maio (a cura di), Buffy The Vampire Slayer. Legittimare la Cacciatrice, Bulzoni, Roma, 2007. 26 Vedi: http://www.newscientist.com/article/dn8211 27 Vedi: http://www.tvguide.com/news/top-cult-shows-40239.aspx 28 Il cofanetto DVD ha vinto l’Academy of Science Fiction, Fantasy & Horror Films del 2004 Saturn award per Best DVD television release; ed è stato nominato per il Golden satellite award in the Best DVD extras category. Il cofanetto è attualmente ancora la 2° posto di vendite nella classifica delle serie di fantascienza (battuta solo dalla seconda stagione di Fringe) su Amazon: http://www.amazon.com/gp/bestsellers/dvd/292665/ref=pd_zg_hrsr_d_1_3 consultato il 14 marzo 2011. 29 Il film è stato lanciato in US il 30 settembre del 2005 incassando oltre 10 milioni di dollari; vedi: http://boxofficemojo.com/movies/?id=serenity.htm 21 nel vissuto quotidiano di ogni spettatore abituale, modificandone il gergo, fungendo da esempi di vita, assicurando un contributo sentimentale alla vita quotidiana di ognuno di noi. Il cult televisivo è sempre più comune ma, non per questo, meno affascinante. 22 Pensieri sparsi sulla tv (from the blog) di Henry Jenkins Questo saggio è un insieme di parti di post del noto blog Confessions of an Aca-Fan (http://henryjenkins.org/) di Henry Jenkins, uno dei più noti studiosi contemporanei di Media Studies, con una particolare attenzione al fandom, al mondo della convergenza multimediale e della narrazione nei videogames. Le parti riportate in questo saggio sono stralci di post che è possibile ritrovare nella loro interezza ed in lingua originale sul sito di Jenkins. I titoli dei post sono stati lasciati in originale. Si ripubblicano qui con il permesso dell’autore che si ringrazia. ***** 15 Gennaio 2007 Supernatural: First Impressions Lo scorso inverno chiesi ai lettori del blog di nominare il loro show preferito. La scelta più popolare è stata la serie della CW chiamata Supernatural. […] Lo si può paragonare a X-Files o Buffy o Night Stalker, ai quali superficialmente assomiglia, ma questa seria ha anche una propria peculiarità. È duro immaginare come una serie così buona sia totalmente trascurata dal network, dai critici ma chiaramente non dai suoi fans. […] Come spesso capita, i primi episodi non mi hanno particolarmente impressionato; erano comunque buoni dal punto di vista del genere, dei personaggi e il plot aveva del potenziale ma non ero ancora catturato. L’episodio che mi ha legato alla serie è stato Skin. E da lì è divenuto sempre più intenso. […] Per chi, come me, spesso si confonde sugli shows a tema sovrannaturale, questo parla di due fratelli che viaggiano per l’America combattendo le forze demoniache e cercando il padre scomparso. Le creature che incontrano in ogni episodio sono quelle da racconto intorno al fuoco, ispirate alle storie di strada e alle leggende metropolitane. Il suo horror sovrannaturale è qualcosa che oggi il cinema ci offre raramente - qualche brivido senza essere forzatamente gore. Infatti, i suoi riferimenti sono più al cinema vintage come nei film del produttore Val Lewton (The Cat People, I Walked with a Zombie, The Leopard Man) che al cinema horror contemporaneo. Eric Kripke cita un range di film che vanno da Poltergeist, An American Werewolf in London, a The Evil Dead. Lo studioso Robin Wood ha identificato la formula centrale dei film horror - la normalità minacciata dal mostruoso - e suggerisce che questa formula si divide in tre elementi normalità, mostruoso e la relazione tra i due. Ed è a questo livello che possiamo separare Supernatural dai tanti altri show simili. 23 Joss Whedon ha descritto i vampiri e i demoni rappresentati in Buffy come una “metafora” per l’esperienza adolescenziale in America: rappresentano l’orrore che può essere trovato sulla bocca dell’inferno dell’educazione pubblica Americana. I mostri di X-Files diventano alla fine interni alla cospirazione del governo che Mulder e Scully tentano di svelare: la verità è la fuori e ogni mostro che viene smascherato ci porta più vicino ad essa. All’inizio della serie tutto ci portava al confronto tra fede e scienza con i due partners che contestavano la validità del punto di vista dell’altro. Qualcosa di simile succede in Lost, dove gli elementi sovrannaturali sono pochi e lontani tra loro, giusto per stuzzicare lo spettatore a seguire le tracce del puzzle che costituisce la serie. In Supernatural, i mostri sono, in effetti, cicatrici emotive e ferite fisiche. Rappresentano i problemi emozionali non risolti, spesso all’interno del nucleo familiare, e diventano corrispettivi dei drammi che vivono i protagonisti nella serie. Sam e Dean escono a cercare cose strane e non familiari e finiscono con il comprendere se stessi e la loro relazione più chiaramente. Queste sono cose tipiche del melodramma: Peter Brooks ci dice che il melodramma esterna le emozioni. Prende ciò che provano i protagonisti e lo proietta nell’universo. Così, le vite emotive dei protagonisti vengono mappate in oggetti fisici, vengono specchiate attraverso altri personaggi, diventano più articolate attraverso gesti e movimenti e, ad un meta livello, ci parlano attraverso la musica, che è l’elemento che ha dato il nome la melodramma stesso. Supernatural è un melodramma nel miglior senso possibile. Ad un primo livello, contiene tutti gli elementi maschili del melodramma, l’horror, la ricerca dell’eroe, la rivalità tra fratelli, i problemi edipici irrisolti, ma, ad un altro livello, è densa di elementi che possono attrarre il pubblico femminile. La storia è una lunga sequenza di ferimento/conforto. Ogni episodio sembra strutturato tanto intorno ai personaggi quanto al mostro della settimana. Tutto qui sembra disegnato per suscitare emozioni nei personaggi e forzarli a comunicare tra loro attraverso i vari muri che tradizionalmente vengono eretti dal genere maschile. In particolare, Dean sembra odiare i momenti da “ragazzette” e spesso afferma come non voglia essere in contatto con i suoi sentimenti, ma questo non ci impedisce di scoprire vere emozioni quasi ogni episodio e gli ultimi episodi della stagione obbligano ogni personaggio a capire cosa importi veramente e quali siano i loro obiettivi. […] Quello che dona alla serie la sua struttura epica è la ricerca del demone che ha ucciso la madre dei protagonisti. L’obiettivo finale è ciò che tiene insieme questa famiglia disfunzionale: è anche ciò che li tiene lontani (poiché ognuno ha dei segreti su cosa sia successo quella notte e 24 il trauma li ha colpiti in modi differenti). Non tutti gli episodi contribuiscono allo sviluppo di questo tema centrale – anche se molti sono connessi in un modo non subito evidente e la storia acquista maggiore importanza dalla terza parte della prima stagione (e forse dopo). Questo non è un drama corale del tipo oggi molto considerato dai critici: il focus è fortemente sui due protagonisti ma intorno a loro accumuliamo, episodio dopo episodio, una ricca schiera di personaggi secondari, alcuni ricorrenti, altri che appaiono solo per una singola storyline. Non è sempre chiaro chi è chi mentre guardiamo un episodio e la vera forza della serie è che un personaggio che sembra destinato ad una sola apparizione, rispunti successivamente. La serie spende abbastanza tempo a costruire questi personaggi con un effetto negativo: vogliamo sapere cosa accade a questi personaggi dopo la fine dell’episodio e, nel caso di familiare, vogliamo sapere più cose della loro storia e del rapporto con il padre. C’è tanta possibilità di sviluppo delle storie secondarie da tenere occupata una armata di fan writers per parecchio tempo. Un punto di forza della serie è anche la costruzione dei personaggi femminili secondari, abbastanza inusuale per una serie così centrata sulle figure maschili. Ogni settimana vengono introdotte una o due donne che lottano contro il sovrannaturale e contro le circostanze che la vita a loro riservato. Come suggerisce Carol Clover in Men, Women, and Chain Saw, i films horror offrono tradizionalmente una schiera di ruoli femminili forti, in parte perché l’uomo può accettare il rischio e la vulnerabilità nel cuore dell’orrore riconoscendolo in una vittima femminile. Clover descrive il ruolo della “Final Girl” nei slasher film, ad esempio mostrando donne che reagiscono affrontando le loro paure nel corso dell’azione. Queste donne sono a volte un interesse romantico per Sam e Dean ma, più spesso, sono estensioni del loro dramma. […] Gli uomini non le desiderano tanto per l’aspetto romantico o sessuale ma le usano come specchio per guardare nelle loro anime. Ogni donna insegna qualcosa che hanno bisogno di imparare prima di tornare emotivamente completi, e in questo processo insegnano allo spettatore qualcosa riguardo agli uomini che non avremmo saputo altrimenti. […] Si possono certamente comprendere alcune delle virtù della serie anche solo da un singolo episodio decontestualizzato ma il vero valore si può comprendere solo guardando la serie dall’inizio. C’è un crescendo di emozioni nella vita dei personaggi che si comprende meglio guardando più episodi in poco tempo. Questo è il tipo di serie per il quale sono stati creati i DVD box set. 25 18 Gennaio 2007 The Merits of Nitpicking: A Doctor Diagnoses House Io e mio figlio siamo entrambi grandi fans della serie tv Dr.House. Guardo lo show per i personaggi e le loro interazioni – specialmente quelle di Hugh Laurie ma anche per i suoi rapporti con gli altri dottori. Mio figlio si è invece dimostrato curioso della dimensione medica della serie e, in cerca di informazioni al riguardo, si è imbattuto nell’affascinante blog Polite Dissent (http://www.politedissent.com/) che offre delle opinioni mediche sulle serie tv come House, sui fumetti e su tutta una serie di testi di cultura popolare. Il blog promette “Fumetti, Medicina, Politica e Divertimento”. Il suo autore, Scott, si descrive come parte di una famiglia di praticanti del Southwestern Illinois. Il blog di Scott è un buon esempio di “fan criticism” che va solitamente sotto il nome di “nitpicking” (ndr spulciamento, pignoleria). Il “Nitpicker” esamina i propri programmi favoriti attraverso una lente particolare - in questo caso la medicina - nella quale ha raggiunto una particolare preparazione. Mi sono interessato all’argomento mentre svolgevo la ricerca sulla Science Fiction Audiences riguardo a Star Trek al MIT. Quello che ho scoperto all’epoca - erano i tardi anni Ottanta - era che gli studenti del MIT venivano spesso attratti dalla nostra scuola per un interesse verso la fantascienza e dibattevano dei confini tra scienza, speculazioni ragionevoli e non plausibili torri di babele tecnologiche per lavorare alle loro ricerche scientifiche. Il piacere era di indicare l’un l’altro cosa era sbagliato nella scienza di un particolare episodio di Star Trek e proporre soluzioni più realistiche. […] Questi scienziati ed ingegneri in training non erano spiacevoli nel dimostrare la loro superiorità rispetto allo show: parte del piacere era nel trovare le differenze tra la scienza reale e quella inventata. In un certo senso è un modo di guardare uno show attraverso la lente del reale ma è troppo semplicistico liquidare la cosa in questo modo poiché tutti i fans della fantascienza riconoscono che essa presenta delle speculazioni non solo sulla rappresentazione del mondo ma sulle possibilità alternative di un suo sviluppo. Il classico nitpicker ha un rapporto di amore/odio con il suo programma favorito: da una parte lo show deve essere abbastanza buono per poter stimolare lo spettatore e la sua conoscenza, dall’altra deve essere abbastanza impreciso da poter trovare degli errori in una particolare area della conoscenza. Così Scott analizza House in termini ospedalieri, di procedure e test medici e di apparecchiature, e nello specifico di ogni caso presentato. Nel suo insieme, Scott sembra gradire l’aspetto speculativo della serie ma è contrariato dalle scorciatoie che spesso gli 26 sceneggiatori devono prendere per spiegare complicate procedure mediche in meno di un’ora di programma. È stato ampiamente osservato come shows procedurali come House o CSI possano giocare un importante ruolo nell’eccitare il pubblico Americano riguardo alle professioni rappresentate. In seguito a questo tipo di shows si ha solitamente un incremento delle vendite di libri non di finzione riguardo all’argomento e un aumento delle iscrizioni ai college che offrono questo tipo di corsi. Il parallelo ovvio sono gli studenti del MIT che si sono appassionati di scienza grazie a Star Trek. 12 Dicembre 2009 The Revenge of the Origami Unicorn: Seven Principles of Transmedia Storytelling […] Comunque lo si chiami, il “transmedia entertainment” è divenuto sempre più importante nelle nostre conversazioni riguardo a come i media operano nell’era del digitale – da libri recenti (come quello di Jonathan Gray Show Sold Seperately: Promos, Spoilers, and Other Media Paratexts o quello di Chuck Tryon Reinventing Cinema: Movies in the Age of Media Convergence) a siti web dedicati (come Narrative Design Exploratorium - http://narrativedesign.org/ - che ha proposto una serie di grandi interviste con trans media designer e storytellers) e siti web creati da transmedia producers come Jeff Gomez, per spiegare il concetto ai propri clienti. Vediamo degli studiosi leader nelle proprie discipline - da David Bordwell nei film studies a Don Norman nella ricerca sul design - ragionare sulla estetica e il design delle esperienze trans mediali. Tutti questi influssi di nuovi interessi ci invitano a definire alcuni principi che possono modellare gli sviluppi delle nostre analisi sulla narrazione transmediale e rivedere alcune delle nostre formulazioni precedenti. Sei anni fa, fans e critici rimasero shockati dal concetto di “transmedia” nel momento della sua prima apparizione nel film dei fratelli Wachowski, The Matrix. Ora c’è quasi una aspettativa transmediale, come è successo con i fans della serie Flashforward perché la serie rimandava ad un URL che regalava solo una povera e scarna estensione a chi lo seguiva. Abbiamo raggiunto il punto dove i media franchises saranno giudicati aspramente se non soddisfano la nostra fame di contenuti transmediali? Iniziamo con una definizione di “transmedia storytelling” come un principio operativo: “il transmedia storytelling rappresenta un processo dove elementi integrali di una fiction vengono sistematicamente dispersi tra una moltitudine di diversi canali con l’obiettivo di creare una esperienza unificata e coordinata”. 27 2 Giugno 2010 The Hollywood Geek Elite Debates the Future of Television In primavera Denise Mann dell’Università della California- Los Angeles ed io, abbiamo organizzato un panel di showrunners ed altri esperti di narrazione transmediale per parlare alla conferenza della Society for Cinema and Media Studies che si è svolta nella nostra città. I professionisti dell’industria televisiva erano Carlton Cuse e Damon Lindelof di Lost, Tim Kring di Heroes, Javier Grillo-Marxuach di The Middleman e Day One, Kim Moses di Ghost Whisperer, e Mark Warshaw (The Alchemists) che ha sviluppato i contenuti online di Smallville, Heroes, e Melrose Place. […] Ecco alcuni highlights dell’evento. In un recente articolo per Variety, hai detto che non tutto avrà una risposta alla fine di Lost. Altre fonti dicono che la ABC è interessata a tenere la serie viva dopo l’episodio finale. Queste due notizie sono correlate? Se è così, queste risoluzioni sospese cosa hanno a che fare con un eventuale franchise attivo dopo la fine della serie? CARLTON: La maggior parte di queste cose sono fortemente legate alla narrazione ed è difficile pensare di articolarle specificatamente mentre si cerca di far capire al pubblico che non è possibile rispondere a tutte le piccole questioni suggerite dallo show. Il nostro obiettivo come narratori è rispondere alle grandi domande e portare la storia ad una conclusione soddisfacente. Ma se ti stai chiedendo chi era quel tizio o cose del genere, non avrai risposte dalla serie. La storia che stiamo raccontando in Lost terminerà il 23 maggio, e non abbiamo in previsione nessun tipo di sequel, spin off o altro. Abbiamo strutturato la storia per raccontare le cose più significative. […] Lost appartiene alla Walt Disney Company ed è un franchise di incredibile valore. […] Capiremmo perfettamente se la Disney vorrà continuare a sfruttare il Lost franchise in futuro… Le precedenti serie transmediali alle quali hai lavorato – Smallville e Heroes – hanno forti legami con i fumetti, una direttamente dai fumetti ed una perché deve molto a questa tradizione. Melrose Place è l’opposto. È stata la differenza di genere ad influenzare l’origine delle storie online? Oppure trovi che la teen soap abbia le stesse potenzialità della fantascienza? MARK: È totalmente differente. Ci sono persone che vogliono andare subito online e giocare. Ma questo è in parte il motivo per il quale ho lasciato Melrose Place ed ho deciso di dedicarmi ad altre cose. Se guardiamo al fulcro del discorso, tutto è relativo al fatto di estendere la narrazione e arrivare al fandom. In una soap opera ci sono centinaia di storie nelle quali andare a fondo. […] Credo che ogni storia abbia le potenzialità per divenire 28 transmediale. La CBS ha notoriamente un pubblico adulto che, per definizione, non frequenta molto il web. Eppure Ghost Whisperer ha avuto successo in tv e sul web. Cosa hai fatto per rendere i contenuti online accessibili e attraenti per un pubblico che normalmente non è affascinato da queste cose? KIM: Credo che prima di tutto la demografia del pubblico della CBS sia cambiata negli ultimi 5 anni. […] Abbiamo lavorato 4 anni prima che Ghost Whisperer fosse ordinato e stavamo lavorando alle intersezioni con Internet avendo fatto delle magnifiche scoperte lavorando con Profiler ed abbiamo continuato con il nuovo show. Quello che abbiamo fatto è creare quella che viene chiamata “Esperienza di totale coinvolgimento”, un modello sul quale ho discusso con il prof.Jenkins… La CBS non lo aveva mai fatto prima. Sentivamo che andando nel Ventunesimo Secolo, i nostri obblighi come executive producers e showrunners non erano più solo fare il pitch e vendere lo show. Il nostro obbligo era anche creare l’audience. Credo che nella tv e nel cinema del futuro tutti dovranno capirlo e comprendere che bisogna creare una esperienza e non solo creare qualcosa da guardare. […] Molti studiosi descrivono un trend della televisione verso una maggiore complessità narrativa (archi narrativi più lunghi, grande serializzazione, cast sempre più ampi e così via), e voi rappresentate alcune delle serie che maggiormente hanno seguito questo trend. Quali sono i fattori che hanno portato a questo sviluppo? Quali gli ostacoli che hanno reso difficile questo percorso? JAVIER: Credo che parte della ragione per cui questi shows siano diventati più complicati e novellizzati dipenda dalla frammentazione dei media. Improvvisamente hai una società come AMC che può presentare Mad Men. E si sa che è uno show molto amato e acclamato dalla critica, uno show fantastico ma deve solo attrarre una audience di 2 o 3 milioni di spettatori per farcela e vendere poi parecchi DVD set e tutto il resto. Quando sei sui networks nazionali che sono i grandi di tenere gli shows a margini bassi, c’è più spazio per sperimentare. E’ un frammento dell’audience che guarda Law & Order ma è un pubblico fedele. Hai Battlestar Galactica, Breaking Bad… che sono molto serializzati. E credo che i network vogliano seguire questa tattica. Guardano questi show e dicono: “perché non abbiamo shows come questi?” e provano a farne di altrettanto strutturati. E allora hai Lost che riesce ad avere una storia longitudinale. […] DAMON: Credo che la chiave di questi show serializzati sia “cosa succederà ora?” che shows come Law & Order, CIS non hanno, ed è questo il motivo di base per cui si guarda Heroes e Lost. […] Io e Tim abbiamo lavorato dal 2001 al 2004 a Crossing Jordan ed io proposi un 29 procedural ma la parola “serializzazione” era considerata deleteria perché le repliche erano un tale disastro. Ed Alias era un successo così ci siamo chiesto: cosa ha Alias che noi non abbiamo? E la risposta è un fandom ed una storia serializzata. […] TIM: Il genere serializzato porta ad una sorta di valore sociale basato sulla conoscenza. Se sai una cosa più del tuo vicino riguardo allo show che seguite, sei più cool di lui. Così devi dare al pubblico la possibilità di scavare a fondo. JAVIER: Quando ero executive nella metà degli anni Novanta, uno dei dirigenti del settore ricerca della NBC ci disse: “Come mai Save by the bell ha così successo?” quando è così banale e sempliciotto? E ci ha spiegato che l’audience è frammentata in due grandi parti: circa un 20% è una audience A. Un tipo di audience che va online, che compra nuovi vestiti e tutto questo genere di cose. E c’è l’audience B che si contenta di guardare un episodio, farsi una risata e andare via. E la cosa buffa è che i networks vogliono il primo tipo perché fa finire gli show sulle copertine delle riviste mentre la NBC al tempo preferiva il secondo tipo. E c’è un punto dove è ora Mad Men, che sta sfidando la serializzazione ed ha una sua audience che gli è sufficiente. Non hanno la pressione che aveva Lost nelle prime tre stagioni. Stanno cercando di diventare mainstream senza perdere l’audience originale. Credo che il successo di Lost e Heroes abbia portato a questa saggezza. CARLTON: […] L’avvento di internet ha provocato profondi mutamenti in ciò che puoi fare come narratore. Già dall’inizio del lavoro su Lost ci siamo trovati ad infrangere molte regole fondamentali della televisione: un cast ampio, una narrazione complessa e molta ambiguità nella storia. In un certo modo siamo stati influenzati dal cinema Europeo. […] 11 Agosto 2010 On Mad Men, Aca-Fandom, and the Goals of Cultural Criticism […] Proprio come Vic (in The Shield) o Tony (in The Sopranos), trovo i miei sentimenti per Don Draper e gli altri personaggi altalenanti di scena in scena. Una scena mi può far ammirare Don per la sua visione creativa ed intuitiva della cultura che lo circonda, la successiva mi può portare a disprezzarlo per la sua mancanza di riguardo per come tratta le persone della sua vita. Mi attrae e mi repelle. Una parte della fascinazione dipende da come sia vicino ad una espressione intima ed emozionale. La maggior parte del mio interesse nella serie è nel cercare di comprendere la generazione dei miei genitori. Sono nato nel 1958 ed ero un bambino ai tempi in cui è ambientata la serie. La mia vita è stata profondamente segnata dalle forze culturali che la serie cerca di catturare, inclusi i valori di razza, religione e sessualità che rappresentano i momenti più carichi della 30 serie. Spesso reagisco alla serie come se stessi ascoltando di nascosto i discorsi degli adulti pensando che io sia a letto. Mio padre non sarebbe potuto essere più diverso da Don Draper a tanti livelli e comunque, riconosco le emozioni e lo stoicismo che costruiscono il suo personaggio nella relazione con mio padre (ora deceduto). Così, guardo la serie e mi trovo trascinato alla ricerca di tracce dei miei genitori e dei loro amici nei personaggi dello show ed in cerca di segni dei drammatici cambiamenti che la cultura subiva negli anni Sessanta. Letta in questo modo, non devo avere particolare simpatia per nessun personaggio in particolare per essere emozionalmente coinvolto nella serie. Per prima cosa, i personaggi sono descritti con sufficiente complessità e gradazioni che mi trovo attratto o disgustato da loro in ogni scena. Secondo, ho abbastanza affetto per le persone della generazione di Don che hanno toccato la mia vita da farmi guardare la serie per rispetto a loro e nel desiderio di rompere quel muro emotivo che a volte mi impedisce di comprendere pienamente le loro azioni e i loro sentimenti. Ovviamente, capisco che la serie rappresenta solo una interpretazione di quei tempi, vista sotto una lente moderna, ma a parte i riferimenti al fumo, non penso che il punto sia semplicemente di esprimere superiorità rispetto ai valori correnti ma, piuttosto, di comprendere tali valori e comportamenti come parte di un sistema sociale. La serie ha una forte attitudine a mostrare come i personaggi si rapportino l’un l’altro, suggerendo come una serie di valori e pratiche venissero rinforzate reciprocamente e, quindi, fossero difficili da cambiare. Comunque, vedo in alcuni personaggi la possibilità di crescere in risposta ai cambiamenti culturali del loro ambiente. Ed è per questo che per me è importante guardare più di una stagione della serie per poter comprendere la natura variabile dei personaggi. 31 HBO e il concetto della tv di qualità di Jane Feuer Questo saggio è apparso in origine nel volume a cura di Janet McCabe e Kim Akass Quality Tv. Contemporary American Television and Beyond pubblicato dalla I.B.Tauris nel 2007. Si ripubblica con l’autorizzazione dell’autrice e della casa editrice che qui si ringraziano. Nell’introduzione al libro Reading Six Feet Under, il giornalista televisivo britannico Mark Lawson scrive: “quindi quello che è più rilevante riguardo Six Feet Under è che non solo coraggioso e originale nel contesto televisivo ma anche che non ha chiari legami di origine in nessuna area culturale”30. L’obiettivo di questo saggio è di confutare fermamente questa osservazione. Credo che Six Feet Under non solo abbia dei chiari legami con l’art cinema ma anche con quella tradizione che chiamerò “televisione di qualità”. Come American Beauty (1999) di Alan Ball, sicuramente il film con più legami con l’art cinema che abbia vinto un Academy Award, Six Feet Under puzza di una eredità dell’art cinema europeo combinato con una tradizione televisuale di qualità elevato dalle miniserie di Dennis Potter e dalla tradizione di serialità di qualità della tv Americana, come dimostrerò in seguito. Il giudizio di qualità ha sempre una appartenenza. Cioè qualcuno emette un giudizio da un punto di vista estetico, politico o morale. Se avessi avuto gli strumenti per comprendere gli aspetti estetici di un prodotto nei primi anni Ottanta, quando usai la prima volta il termine tv di qualità, avrei potuto affermare che la definizione derivava da quello che Stanley Fish definisce “interpretive community” che significa una comunità di professionisti le cui norme, ideali e metodi determinano le interpretazioni di validità di un prodotto31. Tony Bennett politicizza questo termine quando definisce l’interpretazione della comunità, una “reading formation”32. (Perché si situano i lettori tra le strutture istituzionali determinando cosa è testo e cosa è contesto, e cosa distingue ciò che è riferito al letterario e ciò che non lo è). Le teorie di ricezione ci insegnano che non ci può mai essere un giudizio di qualità in un senso assoluto ma che c’è sempre un giudizio di qualità relativo ad una interpretazione di una comunità o di una formazione letteraria. Questo è il motivo per cui il termine tv di qualità deve essere utilizzato in maniera descrittiva se si vuol comprendere come funziona 30 Mark Lawson, Foreword, in Kim Akass e Janet McCabe (a cura di), Reading Six Feet Under, IB Tauris, London, 2005, pagg. xvii-xxii. 31 Stanley Fish, Is there a text in this class?: The authority of interpretative communities, Harvard UP, Cambridge, 2005. 32 Tony Bennett, Formalism and Marxism, Routledge, London, 2003. 32 discorsivamente. Dal punto di vista politico, ovviamente, ognuno ha un obiettivo ed il mio è stato e sarà sempre quello di sgonfiare alcuni dei più pretenziosi giudizi con i quali le persone di una certa cultura usano il cinema e il teatro per denigrare la tv. Non ho qui il tempo di tracciare una storia della televisione di qualità contro quella trash33. Qui possiamo solo dire che tale opposizione risale agli albori della tv negli Stati Uniti, con una aspra opposizione tra il live anthology drama e l’emergente forma serializzata. Anche prima che la nozione di “tv quotidiana” venisse solidificata, l’dea che esistesse il drama di qualità esisteva nella forma del programma antologico degli anni Cinquanta. Scritto da sceneggiatori di New York, una attrazione per una audience elitaria, veniva finanziato da sponsors di società individuali per produzioni prestigiose, questi programmi dal vivo venivano legittimati dalla vicinanza con il teatro. Anche perché facevano uso di pochissime tecniche filmiche e restavano legati all’eccitazione del programma dal vivo, segnando un percorso che sarebbe rimasto importante anche per le generazioni future. Da una parte, si definivano di qualità perché evidenziavano una caratteristica essenziale del medium: la possibilità di essere trasmessi live come neanche il cinema poteva. Dall’altra, il loro prestigio derivava dall’associazione con una altra forma di arte “alta”: il teatro, una forma che all’epoca era ampiamente riconosciuta come superiore al cinema dagli intellettuali. Quindi, come ogni tanto accade, quando questa forma veniva adattata in un film (ad esempio, Marty nel 1995, e Days of Wine and Roses e Requiem for a Heavyweight nel 1962), subiva una strana trasformazione nel suo prestigio culturale. Non importava quanto fosse prestigioso l’adattamento filmico, la versione televisiva veniva considerata superiore perché evidenziava l’essenza del medium (la diretta) e quindi era più vicino al teatro. Gli adattamenti di questi programmi sono rimasti oscuri, ma i programmi live sono ancora ammirati e studiati nelle forme in cui sono rimasti. La golden age della live television raggiunse la sua aurea in entrambe le direzioni: dal punto di vista tecnologico era sperimentale, e strutturalmente era teatro e (come la futura HBO) non televisione. Per l’industria televisiva statunitense - definita come una comunità di capitalisti dediti al profitto e a dare all’audience prodotti e non testi - il termine qualità descrive l’aspetto demografico dell’audience. Consegnare una audience di qualità significa identificare l’audience giusta per un particolare prodotto o, nel caso della tv via cavo, attrarre una audience con abbastanza disponibilità economica per potersi permettere l’abbonamento. 33 Jane Feuer, Quality Drama in the US: The New Golden Age?, in Michele Hilmes (a cura di), The Television History Book, BFI, London, 2003, pag.98. 33 Anche se sono stati già scritti ottimi saggi sulla politica economica del passaggio al cavo34, qui vorrei sottolineare la continuità dell’audience di qualità tra i networks e il servizio via cavo. Il passaggio del drama di qualità dai networks alla tv via cavo non cambia la situazione: anzi, la intensifica. Anche un servizio via cavo come quello HBO, ad esempio, ha una piccola audience data dai sottoscrittori dell’abbonamento, soprattutto comparata con l’audience dei networks, si tratta però di una audience molto marcata dal punto di vista demografico e con la volontà di pagare un abbonamento per vedere prodotti specializzati ed originali. I canali a pagamento valutano in maniera uguale i dati Nielsen e quelli degli abbonamenti. Compariamo questi giudizi del 2002 relativi a Six Feet Under e The West Wing: [da «Variety»] … l’audience sperata per il finale di Six Feet Under andata in onda il 3 Giugno alle 21 non si è materializzata, ma l’episodio ha comunque raggiunto un rating di 10.7 nelle tv via cavo. È quasi in pari con l’11.0 che la serie ha raggiunto nelle precedenti 12 settimane (Dempsey, 2002). e [da «USA Today» dove si discuteva della caduta del rating in The West Wing…] … e comunque la NBC afferma che The West Wing mantiene ancora il suo valore perché continua ad attrarre una alta concentrazione di audience benestante – è l’unica serie del prime time i cui spettatori tra i 18 e i 49 anni anno un reddito medio di oltre $ 75.000 l’anno....rimane la serie che attrae l’audience più alta dal punto di vista demografico, e non nello slot più competitivo (contro The Bachelor), secondo il presidente della Warner Bros Peter Roth (Levin, 2002). Ma la maggior parte delle comunità interpretative non definiscono la qualità esclusivamente secondo criteri economici. La Destra Cristiana li definisce in base ai propri valori religiosi. Altri come l’ora defunto gruppo degli Spettatori della Tv di Qualità tendono a dare un valore ai programmi che contengono messaggi positivi dal punto di vista della morale e della politica, in una ottica liberale. Per la maggior parte dei critici giornalistici, la qualità è una 34 Vedi Deborah L.Jaramillo, “The Family Racket: AOL Time Warner, HBO, The Sopranos, and the Construction of a Quality Brand”, in «Journal of Communication Inquiry», 26.1, January, pagg.59-75. 34 scelta estetica di un tipo particolare, definita dal consenso degli autori e degli intellettuali liberali (di questo ne parlerò più ampiamente in seguito). E per gli studi televisivi accademici, la “qualità” è un termine descrittivo che identifica un genere chiamato “quality drama”. Negli anni Novanta, Robert J.Thompson affermava che: “il quality drama era un genere a sé, completo delle sue caratteristiche”35. È evidente come possano esserci seri conflitti tra le diverse comunità interpretative che tentano di offrire un giudizio di qualità sullo stesso programma televisivo. Per meglio spiegare la retorica di quello che appare essere primariamente un giudizio estetico di qualità, voglio illustrare un paragone tra due serie più o meno contemporanee che hanno una audience di qualità: The West Wing della NBC e Six Feet Under della HBO. Contemporanei tra loro e spesso in competizione per la vincita di un Emmy (ad esempio, nel 2003 SFU ha ricevuto 16 nominations e TWW 15), questi due show si presentano come esempi di alta qualità. Come sempre, parlando di qualità, le discussioni intorno a questi shows sono contraddittorie relativamente alle loro strutture. TWW si conforma quasi perfettamente al modello proposto da Thompson di tv di qualità definito come genere. Eppure le analisi intorno a questo programma tendono a separarlo da questo genere. SFU, in contrasto, si conforma al modello HBO della non televisione. Lo fa nello stesso modo in cui lo faceva uno degli show di maggior successo degli anni Ottanta, thirtysomething. L’affermazione di non essere tv è fatta affermando di essere altro, cioè art cinema o teatro modernista. TWW aderisce fortemente al modello del quality drama mainstream degli anni Ottanta e Novanta tanto da divenire un esempio lampante. Il fatto che lo show affermi di essere unico ed originale non fa che rinforzare questa idea; i quality drama affermano sempre di essere originali rispetto ai programmi a loro contemporanei. Eppure analizzando i primi quattro episodi della serie, si rivela subito come vi siano tutte le caratteristiche sviluppate dal quality drama tra gli anni Ottanta e Novanta. Per prima cosa, è serializzato (questo fattore lega sempre il quality drama ad un paragone potenzialmente negativo con la soap opera, come vedremo nella parte relativa agli studi di ricezione). Come tutti i tv drama di qualità, TWW è una soap in termini di strutture narrative anche se non in termini di stile melodrammatico. Come altri quality drama (e a volte come altre soap), non spezza semplicemente la linea narrativa in varie storylines standardizzate ma, piuttosto, le contrappone e sovrappone in una maniera orchestrale quasi musicale. Aaron Sorkin è stato elogiato per la sua abilità di giustapporre linee narrative e diversi gradi di 35 Robert J.Thompson, Television’s Second Golden Age, Continuum, New York, 1996, pag.16. 35 serietà, a volte con una contrapposizione iniziale, a volte con un mix di temi e argomenti. Ad esempio in Proportional Response (1x3), si inizia con due storylines principali dell’episodio precedente Post Hoc, Ergo Propter Hoc (1x2), la morte di Morris Tolliver (Ruben SantiagoHudson) e l’incidente della squillo di Sam Seaborn (Rob Lowe), entrambi gestiti dalla Casa Bianca. Dopo la sigla iniziale, un nuovo argomento, l’assunzione di Charlie Young (Dulé Hill) come assistente personale del Presidente, è ricamata nella scena sulla risposta militare alla Siria relativa all’abbattimento di un aereo militare nel quale era anche Tolliver. In ogni caso, il produttore di TWW, John Wells, aveva usato questa tecnica già in China Beach dieci anni prima, anche se non viene mai citato come collaboratore creativo di TWW. TWW ha un cast ampio che funziona come una famiglia di collaboratori ed infatti, come era per Hill Street Blues e St.Elsewhere, si tratta di una famiglia patriarcale. L’enfasi che viene messa portando dinamiche domestiche sul posto di lavoro non distingue questo show da altri di qualità medici o polizieschi; è il tipo di professione che è diverso, una distinzione di argomento piuttosto che di genere o struttura. Nella tradizione della qualità, TWW contrappone momenti di divertenti ad altri estremamente seri, spesso terminando con una nota elegiaca. I primi tre episodi terminano con un momento presidenziale nella camera ovale. Come Hill Street Blues e thirtysomething, gli script usano un linguaggio elevato e complesso con molti scambi sagaci di battute. Alcuni momenti di ripetono puntualmente dando regolarità all’episodio: ad esempio, l’incontro con la stampa di C.J. Cregg (interpretata da Alison Janney) ricorda la chiamata mattutina di Hill Street Blues. Le serie “non tv” di HBO seguono un percorso diverso dalla tradizione del quality drama statunitense. Seguendo un sentiero meno battuto, questi show cercano di non essere associati alla tradizione del genere quality drama. Seguendo una tradizione minore ma che può essere incarnata da show come Twin Peaks e thirtysomething, The Sopranos e Six Feet Under si appoggiano ad altri media rispetto alla televisione, pur contenendo elementi narrativi serializzati. David Chase in origine voleva che i Sopranos fossero venduti come film e che ogni episodio fosse considerato un mini-film36. Six Feet Under è altamente serializzato, usa linee narrative multiple e un cast ampio, ma è troppo identificato stilisticamente con una genere non televisivo legato all’art cinema Europeo. Questo legame con il cinema è chiaro già dalla sigla iniziale. L’imagismo della sequenza dei titoli iniziali (della Digital Kitchen) è come un piccolo art film ed ha meritato anche un approfondimento nell’edizione del DVD. Il tema musicale del musicista hollywoodiano di seconda generazione Thomas Newman, non 36 James L.Longworth (a cura di), Tv Creators, Syracuse UP, Syracuse, 2000, pagg.20-36. 36 sembra assomigliare a nessuna altra sigla televisiva. Secondo una fonte su internet: “Newman spesso utilizza strumenti inusuali e rari accanto alla classica orchestra sinfonica per creare un clima enigmatico e unico che sia al contempo pastorale e lussureggiante, ma infusi al ritmo della world music”37. Il suono del tema musicale di SFU è principalmente composto da una combinazione di piano e sintetizzatore. Lo stile pizzicato deriva da una orchestra dal vivo. Viola e violino attraversano la melodia e sono create da un “evi” (electronic valve instrument), che suona come un clarinetto soprano. La strumentazione suona come Africana38. The West Wing, al contrario, segue la tradizione dei temi musicali classici della tv ed è composta da W.G. ‘Snuffy’ Walden, conosciuto per i temi di thirthysomething, I’ll fly away, My so-called life e Once and Again (ad esempio il franchise Zwick-Herskovitz ma anche Roseanne). Gli extra nel DVD della prima stagione descrivono come Walden abbia composto il tema con la chitarra e dopo lo abbia sintetizzato con una orchestra completa per dare un tono più “presidenziale”. Le origini di Six Feet Under non potrebbero essere più chiare che nel piccolo omaggio all’autore televisivo Dennis Potter nell’episodio The Foot (1x3)39. In questo episodio, Claire Fisher (Lauren Ambrose) cammina in maniera realistica nella cucina e subito parte un numero musicale che potrebbe essere tratto da Pennies from Heaven. In The New Person (1x10), David Fisher (Michael C.Hall) replica il numero di Bob Fosse, Got a Lot of Living To Do, come un numero di All That Jazz, un film che tenta di mescolare le scene oniriche di Fellini alla tradizione tutta Americana dello show-business – nelle forme, se non nei contenuti, non molto lontane da American Beauty. L’uso paradigmatico della narrazione che deriva dalla soap, in opposizione alla più lineare narrazione legata al film classico Hollywoodiano, inserisce SFU nella tradizione del drama televisivo Americano. La forza dello show nel poggiarsi su più storie che si alternano nel vasto cast non è mai stata più chiara che nell’episodio That’s My Dog (4x5), quando gli sceneggiatori tentano una narrazione più lineare legata al cinema. Il rapimento di David da parte di un autostoppista trasforma le varie storie in un thriller e questa singola linea narrativa prende il sopravvento sulle altre. Gli episodi successivi descrivono le conseguenze del rapimento su David ed il suo stress post-traumatico, isolando la sua storia dalle altre della 37 Thomas Newman, Filmtracks, 1 in http://www.filmtracks.com/composers/newmant.shtml Intervista a Thomas Newman a cura di Gary Calamar in Open Road del 18 settembre: http://www.supermusicvision.com/frames.htm 39 Non che questo sia il primo omaggio a Potter nella tv statunitense. Chicago Hope, ad esempio, gli dedica un intero episodio, Brain Salad Surgery (4x3), nella forma di un musical stile Potter. C’è qui addirittura un personaggio che si chiama Denise Potter (Tasha Smith). 38 37 famiglia. La storia di David scende ad un livello da thriller Hollywoodiano di seconda scelta, ma gli sceneggiatori devono aver sentito il bisogno di rendere la narrazione più lineare per farla più cinematica e quindi “non televisione”, dimenticando che il drama di qualità è sempre “non televisione” ma, piuttosto, una elevazione delle strutture narrative della soap. Oltre alla musica di avanguardia, SFU aggiunge anche una tradizione interamente del cinema modernista che tematizza la vita e la morte, il sogno e la realtà: il cinema di Federico Fellini, Ingmar Bergman e Alain Resnais, solo per citare i padrini. Nel primo episodio della seconda stagione, Nate Fisher (Peter Krause) sperimenta una fantasia su suo padre che gioca a dama cinese con un uomo e una donna, che si scoprono essere la Morte (Stanley Kamel) e la Vita (Cleo King). Questa velata allusione ad Antonius Block (Max Von Sydow) che gioca a scacchi con la Morte (Bengt Ekerot) nel Settimo Sigillo (1955) di Bergman, serve a ricordarci che SFU condivide certe tematiche con tutta una serie di film che sono giudicati artistici. Ma qui la serietà del testo originale è virata alla parodia postmoderna con la Vita e la Morte che cercano di fare sesso. L’uso della diegesi onirica è divenuta caratteristica dell’art cinema. Nel mio libro Seeing Through the Eighties ho tracciato la curiosa evoluzione con la quale la sequenza onirica - un segno caratteristico dell’intrattenimento popolare legato al musical Hollywoodiano e alla soap opera - si è evoluta con thirtysomething nella “diegesi del sogno”, una confusione molto artistica dei livelli tra sogno e realtà40. La diegesi del sogno diviene in SFU un legame dove sogno e realtà possono facilmente essere associate con morte e vita. Lo show è popolato da fantasmi, con il padre (Richard Jenkins) che muore nel primo episodio ma appare costantemente in una atmosfera tra sogno e simbolismo. I corpi morti che popolano lo show riappaiono come fantasmi, come ad esempio quello del ragazzo gay morto (Marc Foster interpretato da Brian Poth) che appare a David alla fine della prima stagione e lo spinge fare il suo coming-out nella sua disputa con la Chiesa Episcopale. Nell’arco di tutta la prima stagione, SFU si appoggia spesso ai momenti fantastici spesso usati anche da Potter e comunque comuni alla tradizione del drama di qualità statunitense. In questi momenti soggettivi i personaggi vedono spesso non la realtà ma i loro desideri. In An Open Book (1x5) e Knock Knock (1x13), il disagio di David nell’essere gay e diacono della Chiesa è espresso prima con una inquadratura dal punto di vista del pulpito dove si immagina di vedere solo uomini nudi, e poi con una fantasia dove vede la sua vera congregazione applaudirlo alla sua rivelazione. Ma David non è l’unico personaggio che sperimenta fantasie sui suoi desideri. Claire esprime la sua insoddisfazione verso la scuola immaginando la testa del suo 40 Jane Feuer, Seeing Through the Eighties, BFI, London, 1995, pagg.86-92. 38 insegnante di matematica esplodere ed immaginando le ragazze più popolari che recitano storie insulse riguardo al loro futuro (Brotherhood, 1x7). Quando Ruth Fisher (Frances Conroy) prende accidentalmente dell’Ecstasy, entra in un mondo di sogno desaturato filtrato verso il blu, con una apparizione di Nate Sr. (Life’s Too Short, 1x9). Anche senza l’aiuto delle droghe, Ruth fantastica su una apparizione riguardo il suo fidanzato fiorista Russo (Ed O’Ross) che si presenta in uniforme militare mentre lei dovrebbe essere ad un appuntamento con Hiram Gunderson (Ed Begley Jr.). In The Trip (1x11), la sua aperta tolleranza verso l’omosessualità di David è contraddetta dall’immagine del figlio in un rapporto sadomaso con un altro uomo; nella realtà lei risponde schizzando loro acqua da un tubo da giardino molto fallico. Ancora, in una altra manifestazione della diegesi del sogno, personaggi morti o del passato interagiscono con quelli reali in una maniera che ricorda il teatro modernista. Tra i più importanti, Nate Sr. che appare frequentemente nello show come una immagine soggettiva della famiglia. Claire, ad esempio, immagina di guardare la tv con lui, di parlargli al battesimo del figlio di Federico Diaz (Freddy Rodriguez) ed immaginando il padre che porta a casa dei film (Knock Knock, 1x13). Nella prima stagione Mark Foster perseguita David aiutandolo nel suo processo di coming-out, e Brenda più volte ha flash di scene tratte dal libro che il suo terapista ha scritto su di lei bambina, Charlotte Light and Dark. Sicuramente, l’utilizzo più esteso della diegesi del sogno è nella premiere della terza stagione (Perfect Circles, 3x1), sotto forma di sogno che Nate sta avendo mentre viene operato al cervello. Sia questa sequenza che quella della dama cinese che apre la seconda stagione sono dirette da Rodrigo Garcia, il figlio del premio Nobel per la letteratura Gabriel Garcia Marquez, uno scrittore associato al realismo magico della letteratura del Ventesimo Secolo e che David Lavery indica come molto influente su American Beauty e SFU41. Alcuni dei momenti più surreali della serie sono opera sua. Anche se, come evidenzia Rodrigo Garcia nel commento presente nel DVD della premiere della seconda stagione, Alan Ball si muove dentro e fuori la realtà e la fantasia, questo effetto può essere facilmente attribuito anche a Garcia e alla sua regia. Come sottolinea Lavery: “Quando i critici identificano American Beauty come ‘realismo magico’, la scena della busta di plastica diventa cruciale, così come quando in maniera similare anche SFU ne viene associato, non è per un simile riconoscimento 41 David Lavery, It’s Not Television, It’s Magic Realism: The Mundane, the Grotesque and the Fantastic in Six Feet Under, in Kim Akass e Janet McCabe (a cura di), Reading Six Feet Under, IB Tauris, London, 2005, pagg.19-33. 39 – a volte grottesco, a volte fantastico - di ‘una intera vita dietro alle cose?’42 Ancora continua affermando che “scrittori latino-americani come Gabriel Garcia Marquez, Isabel Allende e Jorge Luis Borges hanno fatto del realismo magico una tipica forma espressiva letteraria”43 ma vorrei aggiungere che anche se è così, per il pubblico televisivo Americano si tratta comunque di una manifestazione di cultura alta. Non analizzerò questa sequenza (ampiamente analizzata da Lavery) cercando di interpretare il significato perché l’ambiguità strutturale è sempre costruita in questa maniera nell’art cinema. È sufficiente dire qui che l’utilizzo della mise-en-abyme implica prima che Nate sia morto e poi rivela che si tratta di un sogno originato dal subconscio di Nate. Vorrei indicare questa scena come il più drastico esempio di auto-identificazione di SFU con l’art cinema modernista. Non solo SFU fa riferimento all’art cinema ma, anche si identifica esso stesso con l’art cinema. Lo fa attraverso l’auto promozione di HBO, per mezzo del materiale extra presente nel DVD ed incoraggiando critici come Lavery verso questa interpretazione. HBO utilizza da tempo la tecnica sagace dell’interdiegeticalità connettendo i suoi show della domenica sera con la loro promozione, in un unico mondo unificato. Nella promozione, HBO ci mostra come siano saggi i propri shows e come sia postmoderna una loro interpretazione. Realizzando la presunzione del suo stesso claim “non tv”, HBO si è già fatta parodia di se stessa, nella forma in cui pubblicizza un dispenser per acqua affermando “It’s not Tv. It’s H2O”. Permettetemi di citare una parte del materiale promozionale dell’azienda produttrice del dispenser: HBO ha recentemente contattato la Wonderland Production, sezione editorial, music, sound design e audio per un aiuto nella creazione del promo Watercooler, acclamato dalla critica. Questa impressionante campagna promozionale, con uno stile da mockumentary, presenta nei credits una serie di shows stellari del network, che riporteranno in auge i dispenser dell’acqua salvandoli dall’estinzione. Poichè il produttore/editor/compositore Bill McCullough ha lanciato Wonderland nel 2001, HBO lo ha chiamato come executive della parte creativa della campagna dei promo, attraverso il coinvolgimento nella parte postproduttiva di shows come Six Feet Under, Def Poetry e Angels in America. Watercooler è il progetto più recente della HBO 42 43 Ivi, pag.27. Ibidem. 40 per guadagnare il più possibile con l’azienda di postproduzione con base in Soho. (New York, NY, 25 marzo 2004). Come un saggio e postmoderno canale vi cavo, HBO è sempre un passo avanti ai critici che pensano che HBO non sia conscia di cosa significhi la campagna “not tv”. In più, nel caso abbiate perso il promo, il creatore Alan Ball interpreta nei DVD lo show mentre lo state guardando. È come avere un piccolo autorevole/critico punto di vista in un bel pacchetto DVD. Nel commento all’episodio finale della prima stagione, Ball evidenzia alcune delle scene favorite. Ci fa sapere che una inquadratura che guarda lungo una strada ne echeggia una altra in un tunnel nel pilot ed è una scelta consapevole per simbolizzare il viaggio verso la morte. Ci spiega che i fantasmi non sono fantasmi “per sé” ma piuttosto una tecnica drammatica per ritrarre il dialogo interiore dei personaggi. Ad esempio, il fantasma di Mark Foster articola l’interna omofobia e autocommiserazione di David. Così, HBO è un canale via cavo dal servizio completo. Ci da dei testi che non sono televisione. Li interpreta per noi. Li promuove come art cinema. Sottolinea le sue promozioni e ci mostra come siano postmoderne. Elimina completamente il bisogno di un libro come questo. Cosa resta a noi critici da scrivere? Potremmo chiedere: “come può uno show che fa così forte uso della serializzazione non essere tv?” ed HBO potrebbe rispondere: “perché la usa in maniera così sgraziatamente ed orgogliosa del suo status di art cinema. Questo è esattamente quello che thirtysomething faceva negli anni Ottanta e lo poneva al di fuori della programmazione standard del genere di qualità. Quello cioè che piazza The West Wing fermamente al centro della tv di qualità cioè la sua forza nell’orchestrare dolcemente più storylines. E comunque, interviste sulla stampa popolare rilasciate dai creatori HBO fanno ogni tentativo per dimostrare come i loro programmi siano teatro e non tv. Nell’Agosto del 2002 un articolo di Variety citava Alan Ball dicendo che scrittori come lui, che arrivano dal teatro “tendono ad avere una maggiore comprensione delle strutture narrative che sono fuori dal paradigma televisivo”44. Craig Wright, story editor per HBO, che ha avuto un nuovo spettacolo Water Flower Water nell’estate del 2003 al Contemporary American Theater Festival, afferma che “a differenza della maggior parte degli show televisivi, che hanno un focus maggiore sullo sviluppo del plot, la maggior attenzione in SFU è sulla complessità delle persone. Questo è il 44 Robert Hofler, Noises Off: B’way Gets Patriotic, in Variety del 12 agosto: www.variety.com/article/VR1117871014.html 41 motivo per cui lo show mi sembra teatrale”45. Continua Jill Soloway affermando che “al contrario di tanti veloci momenti televisivi, i conflitti umani sono sviluppati nel tempo. Ci sono dei momenti lenti come spesso a teatro”46. In caso ci si domandasse qualche esempio di questi momenti più lenti e più centrati sul personaggio nei drama di qualità degli ultimi venti anni, vorrei sottolineare che l’affermazione di teatralità è raggiunta attraverso l’erosione di una lunga tradizione di drama di qualità che è televisione. La mia affermazione è rafforzata dalla straordinaria storia apparsa in USA Today subito dopo che Alan Sorkin ha lasciato The West Wing47. L’articolo afferma che “la magia è finita” per aver permesso a rozze persone della tv come John Wells e John Sacret Young di prendere il sopravvento su Sorkin. Non sono qui per dire se la magia era andata prima o dopo l’abbandono di Sorkin. Voglio solo sottolineare che due degli artefici del drama di qualità responsabili per l’ultima stagione di China Beach e la prima di ER, sono stati relegati al ruolo di produttori di un game-show, mentre Sorkin li rimpiazzava come unica voce autoriale. Anche se The West Wing segue la tradizione dell’orchestrazione della serializzazione del drama di qualità, forse allo stesso livello di China Beach ed ER, retoricamente - in competizione con The Bachelor - cerca comunque di essere non tv. Se si dice solitamente che la tv dei reality è “non scritta”, TWW appare come uno dei testi maggiormente scritti che appare nella tv a cavallo dei Secoli. Ciò deriva dalla statura di Alan Sorkin, un autore outsider del mondo televisivo. Ad esempio, quando TWW stava perdendo audience nella fascia delle donne tra i 18 e i 34 anni a favore di The Bachelor nell’inverno del 2002, Sorkin rilasciò una intervista provocatoria a Newsweek dicendo che registrava il suo show e che guardava The Bachelor. Sorkin confessava poi, ovviamente, che non aveva mai visto questo reality show “ma comprendeva come alcune donne giovani potessero aver scelto il reality così avrebbe iniziato ogni episodio non con un riepilogo ma facendo sposare Janel Moloney con un boxer di una celebrità milionaria. Sarebbe stata una cerimonia breve. E poi avrebbero mangiato vermi”48. Ovviamente non ha mai visto The Bachelor poiché confonde stereotipi di altri reality show. Ma non c’è nessun capitale culturale per Sorkin nel conoscere tutte le sfumature della tv. Infatti, l’autore è ben conscio che il suo capitale culturale è proprio nel non conoscere la reality tv. 45 Ibidem. Ibidem. 47 Robert Bianco, Once Powerful West Wing Falls from Grace, in USA Today del 23 Settembre: www.usatoday.com/life/television/reviews/2003-09-23-west-wing_x.htm 48 Anon, Sorkin Wings It, in IMDB del 29 Ottobre: www.imdb.com/news/sb/2002-10-29#tv2 46 42 La reality tv è il grande opposto al drama di qualità. Comunque, può anche essere autoriale, come provano i ben conosciuti brands del produttore Mark Burnett di Survivor e The Apprentice. Leggiamo la bio di Burnett dal sito della NBC: Una delle forze maggiori dietro alla tv dei reality e un vero visionario, Mark Burnett ha una lunga storia come executive producer di show vincitori di Emmy in locations internazionali. Burnett intraprende con spirito pionieristico il successo dei reality non scritti guadagnando audience altissime e introducendo milioni di Americani ad un genere interamente nuovo. Poiché i reality non sono nè più nè meno originali che i drama HBO e poiché entrambi i generi hanno i loro autori e geni, perché uno dovrebbe essere più artistico di un altro? Entrambi sono quello che Todd Gitlin49 definisce forme ricombinate di televisione. Il reality mescola il documentario al game show e alla soap opera. Il drama di qualità mescola la soap con generi ben strutturati come il poliziesco o il medical. I programmi HBO mescolano serie e serial con il teatro postmoderno o con l’art cinema. E questo è il punto. Per le comunità interpretative questo conta e solo alcune particolari ricombinazioni hanno valore. Credo di aver dimostrato che non c’è nulla di nuovo né originale genericamente parlando, nei prodotti HBO rispetto alla tradizione del drama di qualità e che non possa essere legato ad una eguale tradizione dell’art cinema. Per questo possiamo identificare un vuoto - sono quasi tentata di chiamarla contraddizione - tra l’analisi testuale del drama di qualità ed il suo contesto discorsivo. 49 Todd Gitlin, Inside Prime Time, Pantheon Books, New York, 2000. 43 Il Cult Transmediale di Corrado Peperoni Nel panorama mediale contemporaneo sempre più spesso diventano oggetto di culto prodotti del mainstream audiovisivo che puntano su forme di narrazione espansa - distribuita su molteplici canali mediali - che riescono ad offrire al pubblico possibilità di coinvolgimento attivo inedite in molte produzioni più tradizionali. Il riferimento principale è al transmedia storytelling50, e alla crescente diffusione di realtà autoriali e produttive capaci di utilizzare queste tecniche narrative. Per inciso raccontare espandendo il flusso narrativo su più media, richiede una gestione manageriale della storia, sia dal lato più propriamente produttivo, sia da quello più direttamente connesso al processo creativo. È infatti imprescindibile una visione d’insieme del progetto, utile a garantire che i contenuti sviluppati sulle (e per le) diverse piattaforme, siano coerenti fra loro, e contribuiscano alla creazione di un universo finzionale credibile. Tutto questo si è tradotto nella comparsa di una nuova figura professionale, il “Transmedia Producer”, il cui rilievo va crescendo soprattutto nel mainstream d’oltreoceano. Ecco parte della definizione che di questo ruolo fornisce, nel suo sito51, il sindacato dei produttori (Producer Guild) statunitensi: […] a Transmedia Producer credit is given to the person(s) responsible for a significant portion of a project’s long-term planning, development, production, and/or maintenance of narrative continuity across multiple platforms, and creation of original storylines for new platforms. Transmedia producers also create and implement interactive endeavors to unite the audience of the property with the canonical narrative and this element should be considered as valid qualification for credit as long as they are related directly to the narrative presentation of a project […]. Si tratta quindi di una professionalità complessa, capace di individuare e governare le differenti potenzialità dei diversi media, e di trovare per ognuno di quelli che si decide di utilizzare il contenuto migliore. Ma in grado anche di disegnare il rapporto con il pubblico, ideando e gestendo ambienti interattivi che ne favoriscano l’incontro intorno al franchise. 50 51 Cfr. Henry Jenkins, Cultura Convergente, Apogeo, Milano, 2007. Vedi http://www.producersguild.org/?page=coc_nm 44 Questo primo cenno al pubblico ci porta alla nostra domanda di ricerca: quale rapporto esiste tra la realizzazione e diffusione di questi universi narrativi espansi e il raggiungimento/mantenimento dello status di cult da parte di alcune serie televisive? Anche in questa prospettiva Lost può essere un caso di studio particolarmente significativo: le sue sei stagioni televisive sono state accompagnate da molteplici e complesse espansioni transmediali, quali mobisodes e webisodes (la serie online Missing Pieces), tre Alternate reality games (Arg), vari libri. In questa sede è sufficiente circoscrivere l’analisi a Lost Experience, Arg lanciato nel maggio del 2006 e conclusosi nel settembre dello stesso anno, tra il termine della seconda e l’inizio della terza stagione televisiva di Lost. In una storyline parallela a quella della serie per il piccolo schermo, la protagonista è Rachel Blake, figlia di una ex-dipendente della fantomatica Hanso Foundation, di cui ha scoperto le reali e sinistre finalità, celate sotto le ben più accettabili insegne degli scopi umanitari. Convinta che la fondazione sia anche responsabile della morte di sua madre, Rachel dissemina su vari media informazioni riservate della Hanso, per denunciarne le reali, sinistre, mire. Tra queste informazioni settanta codici numerici che, opportunamente raccolti dai partecipanti all’Experience, consentono di ricostruire un filmato di oltre sei minuti (lo Sri Lanka Video52) contenente rivelazioni utili per comprendere alcuni dei misteri lasciati in sospeso nel corso della prime due stagioni della serie televisiva. Per chi decide di viverla, l’Experience è quindi una caccia al tesoro, con i codici utili a ricostruire lo Sri Lanka Video sparsi tra siti internet, libri, spot televisivi, riviste ed eventi live. Inizialmente il focus del gioco è intorno al sito “ufficiale” della Hanso Foundation, in cui una hacker (Persephone, che solo successivamente si scoprirà essere Rachel Blake) dissemina indizi che mettono in discussione la filantropia delle fondazione. Come “rabbit holes”53 per attirare gli spettatori della serie nell’arg, vengono utilizzati spot della fondazione stessa, mandati in onda sull’Abc, Channel7 e Channel4 nei primi giorni del maggio 2006. Al termine di questi spot appare un numero di telefono, al quale risponde una voce registrata che rimanda al sito della Hanso, o a sue specifiche sezioni. In questa prima fase viene anche pubblicato il libro Bad Twin, che vede accreditato come autore uno dei passeggeri morti nel volo 815, Gary Troup. In molti quotidiani vengono pubblicati annunci a pagamento della Hanso Foundation, che condanna il libro per aver gettato discredito sulla fondazione. 52 Vedi http://www.youtube.com/watch?v=E-eHEYswgK8 Per una prima introduzione agli Alternate Reality Games ed alla terminologia loro connessa, cfr.: http://crossmediapeppers.wordpress.com/2011/11/07/alternate-reality-games-arg-una-breveintroduzione/ 53 45 Nella fase successiva della Lost Experience si entra quando il sito della Hanso viene chiuso in risposta all’attività di hackeraggio di Persephone. Nascosto nel codice sorgente del sito rimane il link al blog di Rachel Blake, che apparentemente non è altro che un diario del suo viaggio in Europa. Inserendo codici segreti in specifiche sezioni del blog, si viene tuttavia introdotti in un sito fantasma (stophanso.rachelblake.com) in cui Rachel carica periodicamente video che documentano i suoi tentativi di smascherare la Hanso e il suo nuovo amministratore unico, Thomas Werner Mittelwerk. In questa sua rincorsa alla verità Rachel Blake arriverà a seguire Mittelwerk fin nello Sri Lanka, mentre i partecipanti alla Lost Experience raccolgono altri indizi, sparsi in televisione, in rete o in eventi dal vivo, per poter accedere ai contenuti che Rachel continua a mettere a disposizione nell’area riservata del suo sito. Una svolta decisiva avviene al San Diego Comic Con del 2006. Il 22 luglio Rachel è tra il pubblico che assiste al panel di Lost, presieduto da parte del cast e del team autoriale della serie. Quando è il momento delle domande dal pubblico, Rachel si fa consegnare il microfono e si scaglia verbalmente contro le persone sul palco, accusandole di essere d’accordo con la Hanso, di coprirla, insistendo perché ammettano che la fondazione esiste davvero. Infine prima di essere portata via dalla security - Rachel urla al resto del pubblico che chi vuole sapere la verità deve connettersi al sito hansoexposed.com54. È da questo momento che l’obiettivo dei partecipanti alla Lost Experience diventa quello di raccogliere i settanta codici numerici che consentono di mettere insieme le singole parti dello Sri Lanka Video girato di nascosto da Rachel Blake. Nel video, le cui rilevazioni sono il premio per i fan di Lost così onnivori da partecipare in maniera attiva e costante all’Experience, Mittelwerk proietta un filmato orientativo di Alvar Hanso che svela molti segreti sulla Dharma Initiative, avviata a metà degli anni Settanta del secolo scorso per cambiare le sorti dell’umanità, predette nella cosiddetta Equazione di Valenzetti (4 8 15 16 23 42), le cui cifre ricorrono numerose volte nel corso della seconda stagione della serie televisiva, ma il cui significato viene svelato solo nel corso di questo arg. Il progetto Dharma, con azioni volte a intervenire su fattori ambientali ed umani, aveva quindi proprio lo scopo di modificare le cifre dell’equazione di Valenzetti, costantemente trasmesse dalla stazione radio nell’isola55. Lo Sri Lanka Video è sicuramente il cuore dell'Experience, ma non ne rappresenta la conclusione, 54 55 che avviene invece nell’ultima decade del settembre 2006, dopo l’ultimo Vedi http://www.youtube.com/watch?v=NdHUO8zbNEM&feature=related Vedi http://www.youtube.com/watch?v=RijErmNZS8Y 46 podcast di DjDan e dopo la diffusione del Norway Video. DjDan, nei mesi in cui si svolge l’Experience, diffonde tredici podcast, principalmente tramite i siti dajdan.am e radioharvest.com. Il dj, che chiama i suoi ascoltatori conspiraspies, sostiene la lotta di Rachel contro la HansoFoundation ed anzi, nel suo ultimo live podcast (di cui, sul web, è disponibile la trascrizione integrale56) del 24 settembre 2006, ospita in diretta Rachel Blake. Nel corso dei suo intervento Rachel spiega come e perché sia diventata una hacker, e parla della sua fuga attraverso 8 paesi in 12 giorni. Dice inoltre di essere in viaggio anche nel corso di quella stessa diretta, senza specificare meglio dove si trovi. E giustifica con i rischi che corre diffondendo informazioni di quel tipo, (‘non ho avuto scelta’) la decisione di segmentare in 70 parti distinte lo Sri Lanka video. Nel corso del tuo intervento arriva la chiamata di un ascoltatore che spiega di saper hackerare le frequenze radio utilizzate per finalità militari o di sicurezza. Djdan manda in diretta l’intercettazione. L’audio proviene dal quartiere generale della Hanso Foundation, e rivela che Thomas Mittlewerk ha fatto esplodere il palazzo ed è riuscito a sfuggire all’arresto. A questo punto DjDan torna in studio e chiede a Rachel di fare chiarezza una volta per tutte. Rachel, prima di interrompere velocemente la conversazione, dice agli ascoltatori di andare sul sito della Abc per scoprire finalmente tutta la verità. Nel sito della Abc viene appunto diffuso in Norway Video - capitolo finale dell’Experience in cui Alvar Hanso, dalla Norvegia, dichiara di essere prigioniero di Mittelwerk, che è il responsabile di tutte le atrocità che chi ha partecipato alla Lost Experience ha avuto modo di scoprire57. Dall’Experience torniamo ora alla dorsale narrativa principale del franchise, le stagioni televisive. Che queste siano un cult, è certamente fuori discussione, ma qual è il contributo che al raggiungimento di questo status hanno dato estensioni narrative transmediali come Lost Experience? Nel panorama mediale contemporaneo è ormai diffusamente condiviso - ed empiricamente innegabile - che il successo commerciale, come pure l’appartenenza ad una major del circuito produttivo e/o distributivo siano condizioni del tutto compatibili con lo status di cult, che è ormai lungi dall’essere confinato a fenomeni come i midnight movies, a filmografie di nicchia, 56 Vedi http://lostpedia.wikia.com/wiki/DJ_Dan_September_24,_2006_Live_Podcast_Transcript/Part_1 57 Per una analisi più approfondita dell’arg The Lost Experience cfr. http://crossmediapeppers.wordpress.com/?s=lost 47 ad un approccio da topo di cineteca, per il quale il ritrovamento, la ricerca, la proiezione del video introvabile erano alcune delle cerimonie fondamentali. Il primo esempio di mainstream cult è probabilmente Star Wars, alla fine degli anni settanta. La creazione di un universo finzionale così ampio ha consentito molteplici espansioni diegetiche nel tempo e nello spazio mediale, che hanno a loro volta dato al pubblico più fedele numerose possibilità di esplorazione e di reinvenzione grassroots, con la fan fiction. Del resto l’iperdiegesi è una delle caratteristiche ricorrenti che molti degli autori che si sono occupati di cult media riconoscono nei prodotti riconducibili a questa categoria, soprattutto in riferimento alle serie televisive di culto58. In questa ottica le espansioni transmediali alimentano il culto in quanto esplodono nello spazio mediale il potenziale iperdiegetico non ancora sviluppato negli episodi per il piccolo schermo, dando ulteriore nutrimento ai fan più accaniti che, proprio in quanto tali, amano scoprire nuovo materiale legato all’oggetto della loro passione. In altri termini maggiori sono i contenuti che si mettono a disposizione dei propri fan – ovviamente nell’ambito di confini qualitativi e quantitativi che non inflazionino il franchise - e più si soddisfa il loro desiderio di espandere le occasioni di contatto con il prodotto, di incontrare altri fan e di avere un maggiore coinvolgimento nel mondo finzionale. In questa prospettiva l’espansione transmediale non genera il culto, ma contribuisce al suo mantenimento. Così Lost Experience ha avuto come scopo primario quello di tenere desta l’attenzione dei fan più affezionati anche nel periodo di assenza dal piccolo schermo - tra la seconda e la terza stagione - garantendo loro un nutrimento finzionale in mesi che altrimenti sarebbero stati caratterizzati dal digiuno totale, almeno per quanto concerne la disponibilità di contenuti ufficiali inediti. L’attuale è un’era in cui prodotti che un tempo avrebbero entusiasmato solo una nicchia di geek entrano sempre più spesso nel mainstream; gli hardcore fans mantengono tuttavia intatta la necessità di distinguersi dal grande pubblico, di riconoscersi e sentirsi riconosciuti come i veri fan, gli esperti della serie televisiva59. In questa seconda prospettiva l’espansione transmediale non alimenta il culto ma contribuisce a crearne le condizioni di esistenza. In questo senso è significativo quanto affermato in uno degli audio podcast ufficiali della serie: «Diehard Lost fans know about the numbers 58 Cfr. Matt Hills, Fan Cultures, Routledge, Londra, 2002, pag.137. 59 Mark Jancovich continua a riconoscere al senso di contrapposizione, finanche di sfida nei confronti del grande pubblico e delle sue scelte culturali un ruolo fondamentale in tutta la fan culture. Cfr. Mark Jancovich, “Cult Fictions: Cult Movies, Subcultural Capital, and the Production of Cultural Distinction” «Cultural Studies» 16, no. 2 (2002), pagg.306-308. 48 connection to the infamous Valenzetti Equation…. The numbers represent core factors in an equation that predicts the end of the world»60. Come visto il significato dell’equazione viene svelato solo nel corso dell’arg The Lost Experience e non durante gli episodi televisivi. La fruizione dei contenuti transmediali del franchise è quindi uno dei criteri per distinguere lo spettatore qualunque, il fan generalista, da quello realmente accanito, e contribuisce quindi a creare il culto, che non esisterebbe se non ci fosse la possibilità di distinguere i praticanti dai non praticanti. Del resto la complessità dell’Experience, l’elevato coinvolgimento richiesto, in termini di tempo ed impegno dedicato, non lasciano molti dubbi sul fatto che i partecipanti siano davvero da ricercare tra i fan più appassionati della serie, quelli che mirano all’onniscienza. Nell’epoca della convergenza l’espansione transmediale diventa quindi il luogo dove esercitare il culto, quello spazio diegetico più difficilmente raggiungibile che i fan più accaniti percepiscono come ricompensa, come premio esclusivo per la loro fedeltà alla serie. Una sorta di area riservata il cui ingresso è destinato ai soli cultori. Dal canto loro i produttori creano questi contenuti (o ambienti) esclusivi nel tentativo di generare un coinvolgimento cultuale intorno a prodotti mainstream: il rilancio transmediale di una serie televisiva di successo planetario come Lost contribuisce a creare nicchie di culto legate ad un prodotto di grandissimo successo commerciale. Queste nicchie hanno un elevato valore economico, perché i fan che le abitano, pur rappresentando una percentuale esigua del pubblico complessivo, hanno una notevole capacità di amplificazione e contribuiscono a rendere disponibili al resto del pubblico le informazioni aggiuntive svelate nel corso della Lost Experience, svolgendo un vero e proprio compito di evangelizzazione al verbo della serie. Come spiega bene Ed Sanchez, coautore del cultmovie The Blair Witch Project if you give people enough stuff to explore, they will explore. Not everyone but some of them will. The people who do explore and take advantage of the whole world will forever be your fans, they will give you an energy you can’t buy through marketing61. 60 Carlton Cuse e Damon Lindelof, The Official Lost Audio Podcast: February 3, 2010, audio podcast, The Official Lost Podcast, acceduto il 18 novembre 2012. 61 Jason Mittell, Complex TV: The Poetics of Contemporary Television Storytelling, edizione prepubblicazione (MediaCommons Press, 2012). 49 Il culto di pochi diventa la leva per l’evangelizzazione di molti, e per il raggiungimento/mantenimento del successo mainstream. L’espansione transmediale, dal lato produttivo, e la fruizione transmediale, dal lato del pubblico, diventano quindi sempre più spesso i luoghi di culto della serialità televisiva, e non solo. Se il fandom degli anni sessanta e settanta, soprattutto cinematografico, si concretizzava nella ricerca, conservazione e trasmissione di rarità cinefile, oggi si declina sempre più spesso nella disponibilità ad inseguire la sovrabbondanza transmediale di queste saghe, di cui le stagioni televisive sono la dorsale narrativa principale, ma non l’unica. In estrema, conclusiva, sintesi: il pubblico mainstream è un pubblico monomediale, che non declina la propria attenzione verso la serie su canali altri rispetto a quello televisivo, mentre la nicchia degli adoratori trova nell’espansione narrativa transmediale il proprio luogo di culto. E l’attributo cult si associa sempre di più al modo in cui il pubblico, o parte di esso, si relaziona al prodotto, piuttosto che a specifiche caratteristiche estetico-narrative del prodotto stesso. 50 Cult television e Industria Televisiva di Catherine Johnson Questo saggio è apparso in origine nel volume a cura di Stacey Abbott The Cult Tv Book. pubblicato dalla I.B.Tauris nel 2010. Si ripubblica con l’autorizzazione dell’autrice e della casa editrice che qui si ringraziano. È forse paradossale inserire in un libro sulla cult television (che riguarda programmi che hanno una audience di fans) un saggio dalla prospettiva dell’industria televisiva. Forse una delle caratteristiche che definiscono un prodotto cult è che diviene tale nel contesto della sua ricezione, non della sua produzione. Non è possibile produrre un testo cult. In definitiva, i testi che hanno raggiunto lo status di cult lo hanno fatto solo attraverso i propri fans. E comunque, non significa che non sia possibile tracciare una storia della produzione dei cult. Infatti, poiché la cult televisione è divenuta sempre più importante nell’attuale panorama televisivo, è divenuto pressante individuare le ragioni del perché è cambiato l’atteggiamento verso questo tipo di prodotti da parte dell’industria e dei fans. La storia della cult television dal punto di vista istituzionale è piuttosto diversa da quella dal punto di vista dei programmi che hanno ottenuto questo status. Sin dai primi anni della televisione alcuni programmi hanno generato un seguito di fans devoti. In ogni caso, tra gli anni Quaranta e gli anni Settanta la nozione di cult television non era dominante culturalmente e sicuramente non era un concetto presente nell’industria televisiva. È solo negli anni Ottanta che questo concetto assume rilievo nell’industria televisiva e si assiste, quindi, ad un cambiamento della natura e del luogo del concetto. Questo saggio vuole analizzare questi cambiamenti ed offrire una storia del concetto dal punto di vista dell’industria televisiva. Per far questo mi focalizzerò sul drama televisivo e su prodotti di origine Statunitense. Questo non per affermare che altri tipi di programmi (tipo quelli sportivi) non abbiano un seguito di fans e non possano essere inseriti in una analisi storica del fenomeno. Però i programmi sportivi hanno uno status differente dai programmi di fiction. In particolare, si tratta di programmi creati altrove e poi solo trasmessi dalla tv. Di contro, il drama è specificatamente prodotto per la tv. In quanto tale, il caso del drama televisivo è particolarmente rilevante per capire come siano cambiati i modi di produzione nel tempo. In questo cambiamento che ha avuto un forte impatto nei prodotti della cult television e che alla fine ne ha alterato il suo stato all’interno dell’industria, hanno un ruolo rilevante la crescita della competizione e la frammentazione del mercato. 51 Pre-Cult Television e l’importanza della “Syndication”: Il caso di Star Trek Può sembrare strano proporre Star Trek come caso di pre-cult. La serie ha generato un seguito attivo e rumoroso sin dalla sua prima iniziale trasmissione nella seconda metà degli anni Sessanta, e quindi è stata oggetto di numero studi sul fandom rendendola un chiaro esempio di testo cult. Eppure, nel contesto produttivo, Star Trek è molto diverso da recenti show cult come Buffy The Vampire Slayer. Infatti, mentre Star Trek andava in onda negli Stati Uniti (e in UK), il concetto di cult television non era particolarmente diffuso. Piuttosto, la televisione era concepita, nell’industria e nella società, come un medium di massa, un medium per costruire l’idea di Nazione, un medium che serviva a far stare vicina la gente. L’idea della cult television, con le sue caratteristiche di esclusività e specialità, sembrava andare contro lo scopo della trasmissione tv, cioè quello di produrre show che attirassero un maggior consenso possibile a livello nazionale. Sia in UK, dove nel contesto della televisione pubblica la televisione aveva lo scopo preciso di far sentire il pubblico britannico come appartenente ad una sola nazione, o negli Stati Uniti, dove i tre networks nazionali lottavano per ottenere l’audience maggiore, lo scopo primario tra gli anni Sessanta e Settanta era di attrarre una audience di massa per i propri programmi, specialmente quelli di prima serata. Non era inusuale in questo periodo che un programma britannico di successo raggiungesse una audience di 20 milioni di spettatori, o i programmi del prime time statunitense62 raggiungessero i 90 milioni di spettatori63. Negli anni Sessanta e Settanta, mentre in UK la competizione per il maggior rating era mutata dal pubblico servizio richiesto alla BBC e ITV, negli Stati Uniti una audience alta era essenziale per il successo. Nella metà degli anni Cinquanta vi erano tre networks nazionali: NBC, CBS e ABC. Questi tre networks rappresentavano un oligopolio e competevano fieramente per conquistare l’audience maggiore. Il rating serve a quantificare il costo di uno spot all’interno di un determinato programma. Un programma con il rating più alto può vendere uno spazio maggiorato del 50% rispetto a quello con il terzo rating. Di conseguenza, il network che raccoglie i ratings maggiori può guadagnare 20-30 milioni di dollari rispetto ad un suo competitore diretto, ed i ratings influiscono anche sulle quotazioni in borsa dei 62 Anche se i tre principali networks statunitensi (CBS, NBC e ABC) e i due maggiori canali terrestri britannici (BBC1 e ITV) sono in grado di attirare una ampia audience nel prime time, non tutti i canali puntavano a questi risultati. Come vedremo, i canali non-network non possono sperare di ottenere i numeri dei grandi networks in America mentre BBC2 fondata nel 1964 era creata appositamente per produrre programmi minori. 63 Les Brown, The American Network, in Antony Smith (a cura di), Television: An International History, Oxford University Press, Oxford, 1998, pag.155. 52 networks64. Questo modello ha un impatto diretto anche sull’aspetto produttivo. I networks vogliono commissionare programmi che possano classificarsi primi e che possano competere con i programmi degli altri networks per la conquista dell’audience maggiore. Una delle strategie per attrarre l’audience è quella di produrre shows simili a successi già esistenti, cercando di creare qualcosa di “simile ma differente”. Star Trek è un chiaro esempio di questa strategia. Roddenberry vendette l’idea di Star Trek alla NBC come una rielaborazione del genere western in chiave fantascientifica. Il western era stato un genere di successo nella tv statunitense tra i tardi anni Cinquanta e i primi anni Sessanta. Comunque, nel 1965 il genere era in declino con un numero di show in onda nel prime time sceso da 31 del 1959 a 7 nel 196465. Roddenberry presenta Star Trek come “Wagon Train per le stelle”, offrendosi di rinvigorire il genere western trasponendolo in una ambientazione futuristica di viaggi nello spazio, in un periodo in cui questo genere ancora non era molto comune negli Stati Uniti66. Il programma, quindi, prende un genere di successo (il western), che stava cominciando a perdere la sua freschezza e lo rinvigorisce utilizzando elementi del genere di fantascienza. Questa combinazione consente anche di evitare alcuni degli elementi che i networks hanno paura possano alienare parte dell’audience. In particolare, le ricerche della NBC dimostrano come la fantascienza non sia amata dal pubblico femminile. Di conseguenza, nella produzione e nel marketing di Star Trek piazzano una chiara enfasi sulla costruzione di personaggi credibili e affascinanti piuttosto che sulla tecnologia scientifica e futuristica, specialmente con l’obiettivo di rendere il programma attraente per una audience il più ampia possibile.67 Ad un certo livello, la strategia di Star Trek può considerarsi di successo, ed il programma è divenuto popolare presso un pubblico maschile e femminile. Però, lo show ha fallito nel riuscire a guadagnare una audience ampia come ci si aspetterebbe da un programma del prime time. Il primo episodio ha avuto un rating68 rispettabile di 19,8% con uno share del 40,6%, ma 64 Ivi, pag.154. Horace Newcomb, From Old Frontier to New Frontier, in Lynn Spigel e Michael Curtin (a cura di), The Revolution Wasn’t Televised: Sixties Television and Social Conflict, Routledge, Londra, 1998, pag.289. 66 Wagon Train (NBC, 1957-1962 e ABC, 1962-1965) è stato il secondo programma con il più alto ratings nella tv Statunitense nella stagione 1961-62. Quando Roddenberry fece il pitch per Star Trek alla NBC, la maggior parte dei programmi di fantascienza e fantasy erano serie antologiche o dirette ai bambini. 67 Catherine Johnson, Telefantasy, BFI, Londra, 2005. 68 Il rating misura l’audience di un particolare programma in percentuale ai possessori di apparecchi televisivi. Lo share misura l’audience per un programma in relazione con le famiglie di spettatori mentre il programma stesso è trasmesso. Entrambe le statistiche sono stimate con un campione di famiglie. 65 53 la serie non ha saputo mantenere questi livelli scendendo regolarmente sotto il 30% di share (l’unità di misura per la NBC) e finendo al 52° posto tra le serie alla prima stagione69. Nella seconda stagione la serie viene spostata dal giovedì al venerdì sera, in uno slot dove una altra serie di fantascienza, The Man from UNCLE aveva raggiunto buoni risultati. In ogni caso, l’audience continua a scendere e dopo un ulteriore spostamento nella terza stagione, la serie viene cancellata. I fans di Star Trek si lamentarono di questa cancellazione ed alcuni hanno dichiarato come la campagna di lettere di protesta abbia salvato la serie dalla definitiva cancellazione.70 La presenza di una audience rumorosa, però, non è sufficiente a mantenere vivo uno show. Senza i ratings previsti per la prima stagione, Star Trek perdeva potenzialmente i soldi del network non potendo vendere gli spazi pubblicitari al prezzo desiderato. Nella maggior parte dei casi, Star Trek sarebbe scomparso dai nostri schermi. Affinché una serie sia presa per la trasmissione in syndication (una replica su un canale non network), ci sarebbero voluti almeno 100 episodi mentre Star Trek venne cancellato dopo soli 79. Senza la syndication Star Trek difficilmente sarebbe stato ripetuto e sarebbe riemerso alcune decadi dopo in qualche show nostalgico come un momento della storia della tv. È possibile che l’audience avrebbe potuto tenere la serie viva attraverso le fanfictions o altre attività da fandom e magari avrebbe incoraggiato il network ha riproporre la serie negli anni Novanta a seguito del revival degli show di fantascienza. Parlando, però, di un periodo precedente all’home video, è importante sottolineare l’importanza della syndication per la longevità di uno show. Senza la syndication sarebbe stato impossibile per gli spettatori riguardare gli episodi, rimuovendo ogni possibilità di sperimentare o risperimentare il fascino della serie. Ciò è particolarmente importante se pensiamo all’importanza di visione ripetuta per le attività legate al fandom e per creare nuovi fans. La inusuale storia di Star Trek e del suo successo in syndication pur avendo solo 79 episodi evidenzia alcuni dei motivi per cui la cult television è divenuta così importante per i networks negli anni successivi. La Kaiser Broadcasting negozia in maniera anomala la syndication di Star Trek nel 1967 durante la sua prima stagione e due anni prima della sua cancellazione. Il suo interesse per Star Trek risiede nel suo status di emittente non nazionale che non può competere con i grandi networks nazionali. Per questo motivo, pianificano una strategia differenziata, offrendo programmi diversi dai networks nazionali in momenti diversi della 69 Michael C.Pounds, Race in the Space: The Representation of Ethnicity in Star Trek and Star Trek: Next Generation, Scarecrow Press, Lanham, MD, 1999. 70 A questo riguardo vedi John Tulloch e Henry Jenkins, Science Fiction Audience: Watching Doctor Who and Star Trek, Routledge, Londra, 1995, pagg.8-10, e Stephen E. Whitfield e Gene Roddenberry, The Making of Star Trek, Titan Books, Londra, 1991, pagg.345-347. 54 giornata. Piuttosto che programmare Star Trek contro una serie action o di avventura, la trasmettono alle sei del pomeriggio contro i programmi di news e proponendola giornalmente, invece che settimanalmente, trasmettendola più volte. Star Trek risulta particolarmente adatto a questo tipo di strategia, e benché non sia riuscito a guadagnare una audience di massa su un network nazionale, si rivela perfetto per la syndication tra gli anni Sessanta e Settanta71. La variazione normativa degli anni Settanta sulla syndication non fa che incrementare questo mercato. L’interesse finanziario e il Regolamento della Syndication (conosciuto come il “finsyn rule”) prevengono i networks dal praticare una syndication domestica (e cioè vendere o distribuire programmi dei networks dopo la loro iniziale trasmissione nazionale) o dal possedere i programmi che trasmettono. I networks si aprono significativamente verso questo mercato che, quindi, cresce negli anni Settanta certamente aiutato dallo status di cult raggiunto da Star Trek provvedendo un mercato favorevole per questa ed altre serie che possono essere trasmesse per una decade. In particolare, questo regolamento consentiva alle compagnie di produzione di mantenere i diritti dei programmi in syndication, incrementando ampiamente i profitti delle loro produzioni72. La strategia adottata dalla Kaiser Broadcasting con Star Trek in syndication era riferita ad un mercato di nicchia. La società sapeva di non poter avere una audience ampia e così utilizzano lo show con un fine diverso. Mentre i networks erano a caccia di una ampia audience, la Kaiser (e le altri emittenti simili) favoriscono programmi che generano una audience leale e ripetuta. Le due qualità che rendono Star Trek un successo in syndication sono le due regole che Matt Hills73 associa in particolare ai testi cult dei media, l’iperdiegesi ed una narrazione potenzialmente infinita. Il fulcro narrativo di Star Trek è nella ricerca della risposta infinita alla domanda su cosa ci sia al di fuori del pianeta Terra. Questo sviluppo narrativo si presenta con un finale aperto (anche se ogni episodio è autoconcluso) consentendo spazio interpretativo all’audience. Oltre a ciò, l’universo finzionale e futuristico di Star Trek è altamente distintivo (sia visualmente che sonoramente), densamente immaginativo, e solo parzialmente rivelato dai 79 episodi della serie. Questo mondo iperdiegetico è coerente, degno di fiducia e uno spazio sicuro per speculazioni del fandom. Queste caratteristiche testuali che 71 Il successo di Star Trek in syndication risveglia l’interesse del network per lo show. La NBC produce uno spin-off animato della serie originale che andò in onda dal 1973 al 1975, probabilmente tentando di esplorare le possibilità della serie di attrarre una audience di giovani e bambini. La serie poi è stata sviluppata tra gli anni Ottanta e Novanta in una serie di spin-off televisivi. 72 Vedi anche Jane Feuer et al., cit., che afferma come il regolamento fin-syn effettivamente abilita società come la MTM a produrre serie anche in perdita alla loro prima trasmissione, serie che poi guadagnano durante la loro trasmissione in syndication. 73 Matt Hills, Fan Cultures, Routledge, Londra e New York, 2002. 55 Hills evidenzia sono tipiche dei testi per i fans, invitano ad una partecipazione e premiano una visione ripetuta. Anche se queste non sono caratteristiche particolarmente cercate dai networks statunitensi negli anni Sessanta, si rivelano particolarmente adatte alla programmazione ed ai percorsi della syndication che si basa sulla ripetizione e la familiarità. Comunque, con l’industria che cambia nelle successive due decadi, queste caratteristiche diventano sempre più favorite, non solo dal mercato della syndication ma, anche da quello dei networks. Dalla tv del consenso alla tv di nicchia Il primo cambiamento nell’industria televisiva statunitense che ha portato ad un maggiore attenzione verso la cult television, è l’interesse per l’aspetto demografico. Nei tardi anni Sessanta e i primi anni Settanta, gli inserzionisti cominciano a cercare maggiori informazioni sul tipo di audience che segue determinati programmi. Pur restando interessati a comprare slots in programmi di successo, l’interesse si sposta anche sul tipo di spettatori che possono acquistare un determinato bene. Questo tipo di spettatore più propenso all’acquisto è ragionevolmente benestante, ben educato, di città, tra i 18 e i 49 anni. Gli inserzionisti diventano sempre più interessati a questo tipo di audience e la programmazione cambia in relazione a questo dato. Ad esempio, nei primi anni Settanta, la CBS trasforma le sue sitcom da commedie rurali come The Beverley Hillbillies a commedie urbane (spesso con giovani protagoniste femminili) come The Mary Tyler Moore Show e All in the Family. Questo cambiamento è stato interpretato come il punto di svolta della tv di qualità, un tipo di televisione prodotto specificatamente per una audience alta che avrebbe comprato un determinato tipo di prodotti pubblicizzato all’interno di queste trasmissioni.74 E comunque, in questo periodo, i brutali risultati dei ratings rimangono centrali, così che un programma capace di attirare una audience alta ma non in grado di avere dei buoni ratings, difficilmente rimane in produzione. La prima indicazione del cambio di strategia arriva nei primi anni Ottanta con la produzione di Hill Street Blues, dove il rating non è più un elemento vitale del destino del programma. Prodotto dalla MTM, la stessa casa di produzione che aveva la reputazione di produttore di qualità, raggiunta con programmi come The Mary Tyler Moore Show e Lou Grant, Hill Street Blues è un poliziesco che utilizza un cast corale ed una molteplicità di storie che si intersecano. La serie non raggiunge nella sua prima stagione un ottimo risultato di audience, 74 Jane Feuer, Paul Kerr e Tise Vahimagi (a cura di), MTM Quality Television, BFI, Londra, 1984. 56 eppure è un successo di critica guadagnando anche diverse nominations a premi e agli Emmy.75 Anche se i ratings non sono alti (la serie non è mai entrata nella top 20 della classifica degli ascolti arrivando al 21° posto nella sua terza stagione), guadagna una audience leale e regolare ed un successo critico continuo. La serie attrae anche una audience molto redditizia dal punto di vista demografico. Come afferma Paul Kerr Hill Street Blues, con il suo rating relativamente basso, è in realtà il primo programma nel prime time tra gli uomini nella fascia critica dei consumatori tra i 18 e i 49 anni, e terza nella stessa fascia tra le donne76. La popolarità della serie negli spettatori di città è un grande valore per la NBC. Non solo questo tipo di spettatori è di maggior valore per gli inserzionisti (essendo più probabile che acquistino i prodotti pubblicizzati), ma anche le altre cinque emittenti possedute dalla NBC sono locate in grandi città. Anche se la NBC non è ai primi posti nella classifica dell’audience, la sua emittente di punta, la WNBC-TV, con base nel più fruttuoso e ricco mercato statunitense, quello di New York, è prima nel rating del prime time del 198377. Infine, Hill Street Blues ottiene un buon risultato anche nella vendita via cavo (la maggior parte nelle città). Con l’avvento del successo del cavo nei primi anni Ottanta, il programma diventa una offerta attraente della NBC. Il caso di Hill Street Blues evidenzia il momento in cui nell’industria televisiva americana l’importanza del tipo di audience diventa ugualmente rilevante (se non di più) del mero calcolo della sua quantità. Hill Street Blues ha molte delle qualità riconosciute alla cult television. È differente dai polizieschi dello stesso periodo; è seguito da una audience fedele che lo apprezza per la sua differenza e lo pubblicizza con il passaparola. Comunque, anche se il network consente a Hill Street Blues di costruirsi una sua audience, lo show non è costruito e pubblicizzato come un cult. Piuttosto, il network inusualmente decide di tentare una 75 Il pilot di Hill Street Blues guadagna il 15,2% di rating e il 26% di share, scendendo all’11,5 per cento di rating e al 19% di share nel suo secondo episodio. Resta sotto il 20% di share per il resto della prima stagione e si classifica 83° su 92 serie nel primo anno, vedi anche Todd Gitlin, Inside Prime Time, Routledge, Londra e New York, 1983, pag 307. Nonostante questi bassi ratings, vince 8 Emmys nel 1981, un record per una sola stagione in quel periodo. 76 Ivi, pag.154. 77 Ibidem. 57 strategia rischiosa sperando che il successo di critica porti più audience nella seconda stagione. Il rischio è supportato dal particolare tipo di audience del programma e dal continuo successo critico. Solo negli anni Novanta i networks statunitensi tentano di creare programmi indirizzati ad una audience di fans, e ciò è dovuto al cambiamento dell’industria, con il cavo, il satellite e la nascita di nuovi networks. Mentre il cavo e il satellite hanno cominciato ad avere successo già nei primi anni Ottanta quando era prodotto Hill Street Blues, la programmazione dei networks su scala nazionale restava un oligopolio. Ma il cambiamento è vicino. La prima metà degli anni Ottanta vede il progetto di regolamentazione del cavo e la fine della normativa antimonopolio nell’industria televisiva. Questi cambiamenti consentono a delle conglomerate di prendere il possesso dei tre networks storici, e consente a dei nuovi media di entrare in questo mondo per la prima volta in trenta anni78. Questo è il momento della fine dell’oligopolio dei tre maggiori networks che dominava il mercato statunitense dalla metà degli anni Cinquanta. Nel 1986 la conglomerata News Corporation di Rupert Murdoch acquista la Metromedia e la sviluppa in un quarto network che inizia a trasmettere nel 1986 e diventa redditizio nel 1989. Altre conglomerate seguono questa strada e nascono WB e UPN nel 1995. L’emergere di questi nuovi networks con l’aggiunta del cavo e del satellite, frammenta il mercato televisivo. Mentre negli anni Sessanta i tre networks nazionali si dividevano il 90% dell’audience, nel 1990 questa quota si è ridotta al 60%79. I networks nazionali non possono più sperare di conquistare una audience ampia come negli anni Sessanta e Settanta, e questo porta a valutare diversamente anche il successo di uno show. I networks non possono più assicurare agli investitori una audience di 70-90 milioni di spettatori e, quindi, si rivolgono ad una nicchia producendo programmi diretti ad un pubblico attraente per gli inserzionisti. Il profitto non è più deciso dal numero degli spettatori ma è sempre più legato al tipo di audience, e di conseguenza il fattore demografico decide anche il prezzo degli spots. Questi cambiamenti portano anche ad una modifica dalla tv del consenso del maggior numero possibile di spettatori ad una di nicchia con programmi diretti ad attrarre specifiche fasce demografiche desiderate dai networks e dagli inserzionisti. In questa nuova era della tv di nicchia, l’audience dei fans emerge come un segmento attraente. I fans sono leali e guardano e riguardano i loro programmi preferiti (come il 78 Su questo argomento cfr. Erik Barnouw, Tube of Plenty: The Evolution of American Television, Oxford University Press, New York, 1990, e Tino Balio, A Major Presence in All of the World’s Important Markets: The Globalization of Hollywood in 1990s’, in Steve Neale e Murray Smith (a cura di), Contemporary Hollywood Cinema, Routledge, Londra e New York, 1998, pagg.58-73. 79 John Thornton Caldwell, Televisuality, Rutgers University Press, New Brunswick, NJ, 1995. 58 successo di Star Trek in syndication dimostra). I fans sono anche consumatori di prodotti legati al loro show preferito. I nuovi networks coma la Fox o la WB sono di proprietà di conglomerate che possiedono società in più campi. Un esempio di questo tipo di strategia può essere quello di X-Files. X-Files viene prodotto dalla Fox. Quando la Fox comincia le sue trasmissioni nel 1986, non può puntare ad ottenere la stessa audience che avevano i tre networks storici e così produce show indirizzati alla parte dell’audience più remunerativa per gli inserzionisti. Inizialmente, la Fox si concentra sulla fascia dai 18 ai 34 anni e produce show da trenta minuti e teendrama come I Simpson e Beverly Hills 90210. X-Files fa parte del progetto di aumentare questa fascia dai 10 ai 49 anni per poter meglio competere con gli altri networks. Nel far ciò, non tenta di replicare il tipo di shows delle altre emittenti. Mentre la CBS, NBC e ABC tentano di mantenere la loro audience dalle minacce della nuova competizione del cavo e satellite, la Fox tenta di entrare in un nuovo mercato, e questo necessita di una strategia nuova nella realizzazione di serie da una ora. Questa strategia vede la necessità di creare dei programmi cult per attrarre un pubblico di fans. È quindi la necessità della Fox di inserirsi in un nuovo mercato a creare una nuova forma di prodotto di qualità e cult che si realizza in X-Files. Come sottolineano Reeves, Rogers e Epstein80, prima di X-Files nel 1993 esistevano due tipi di cult television. Il primo riguarda prodotti dei networks come Star Trek che non riescono ad ottenere subito una audience alta ma diventano successi e cult in syndication. Il secondo tipo riguarda shows via cavo o satellite come Mystery Science Theater 3000 prodotti specificatamente per un pubblico di nicchia o per emittenti piccole che non potendo puntare a una grande audience ricercano il pubblico attento e leale dei cult shows. X-Files differisce da queste due tipologie in due modi. A differenza dei programmi di nicchia via cavo, questo è un programma di un network che tenta di competere con NBC, ABC e CBS. Secondo, piuttosto che essere una serie prodotta per ottenere successo che poi trova un suo fandom e diviene un cult, X-Files nasce già per diventare un cult e legarsi a una audience di fans-consumatori. Per ciò, la Fox utilizza la strategia dei canali via cavo adattata ai bisogni di un network in un momento in cui il mercato di nicchia diviene sempre più importante per le strategie dei networks. Fox punta all’audience dei fans per due ragioni: perché la lealtà dei fans è particolarmente importante in un momento di forte competizione, e perché l’audience dei fans è nota per essere composta anche da grandi consumatori del merchandising legati agli shows. La Fox 80 Jimmie L.Reeves, Mark C.Rogers e Michael Epstein, Rewriting Popularity: The Cult Files, in David Lavery, Angela Hague e Marla Cartwritght (a cura di), Deny All Knowledge: Reading the X-Files, Syracuse University Press, Syracuse, NY, 1996. 59 può estendere X-Files tra diverse piattaforme di media (inclusi film, giocattoli e pubblicazioni) al fine di incrementare il guadagno intorno ad un unico prodotto. In un periodo in cui lo share diminuisce, guardare oltre le inserzioni pubblicitarie come risorsa economica diventa una strategia di valore, particolarmente fruttuosa nel caso di X-Files. Per la Fox, puntare su una audience di fans è effettivamente un mezzo per minimizzare i rischi e massimizzare i profitti. Il network spera ovviamente di poter realizzare un programma dallo share alto così da poter vendere gli spots ad un alto prezzo81. Ma in ogni caso, si tenta anche di spandere il rischio creando un prodotto designato e venduto per richiamare una audience fatta di consumatori leali sia per i prodotti televisivi che per il merchandising ad essi collegato82. Mentre questa strategia diventa quella anche di altri networks nazionali (ad esempio, la WB adotta una strategia molto simile per Buffy The Vampire Slayer83), nell’ultimo decennio nuovi networks e nuove tecnologie hanno ulteriormente trasformato le strategie produttive usate dall’industria televisiva. I network in abbonamento, in particolare la HBO, sono emersi come settori di profitto puntando verso una audience fedele ed in cerca di qualità. Nel frattempo, i networks nazionali più vecchi necessitano di esplorare nuove tecnologie per incoraggiare il coinvolgimento e la partecipazione del pubblico. Forse l’esempio con il più alto profitto è Lost della ABC. La strategia di marketing sviluppata per Lost, è pensata specificatamente per incoraggiare il tipo di attività partecipatoria tradizionalmente attribuita a un prodotto cult. Lost viene commissionato dalla ABC in un momento di lotta per il rating. Il co-creatore di Lost Damon Lindelof afferma che le basse performances del network lo hanno incoraggiato ad attuare una strategia rischiosa che ha portato alla nascita di Lost: La ABC voleva qualcosa di differente e voleva fare rumore. Rispondeva anche al potenziale di questo [Lost] ed al suo richiamo sul pubblico di massa - non è fantascienza, ne una commedia romantica, 81 X-Files ha un buon rating sulla Fox, raggiungendo un 8,8% di rating ed un 16% di share alla sua prima stagione. Mantiene il suo rating intorno al 10% per tutto il decennio. Bisogna, però, notare come questi rating siano inferiori a quelli della prima stagione di Hill Street Blues indicando come l’audience sia calata e come sia inferiore la misurazione di un successo (particolarmente per un network nuovo come la Fox). 82 Il tentativo della Fox di muoversi verso una audience più ampia di quella originale della fascia 1834, non sempre è di successo; negli anni Novanta sono spesso i programmi diretti in maniera ampia verso un pubblico giovane (tipo i Simpson) ad ottenere i ratings più alti. 83 Catherine Johnson, Telefantasy, BFI, Londra, 2005. 60 ne un action, ne un procedural, ma tutte queste cose mescolate in una84. Mentre il mix generico di Lost offre il potenziale per essere qualcosa di “simile ma diverso” e la possibilità di avere una larga audience di base, la sua struttura narrativa ed il suo mondo finzionale stratificato domandano un pubblico fedele e attento. Lost inizia con un disastro aereo in una isola deserta e segue le avventure dei sopravvissuti mentre cercano di scappare e che scoprono che l’isola non è come sembra. La narrazione della serie è essenzialmente composta come un puzzle da risolvere; replicando una estrema versione della narrativa senza fine definita da Hills che è una caratteristica dei testi cult. Questa narrazione-puzzle invita ad una visione attiva da parte dello spettatore e il suo cast corale e il mondo finzionale estensivo (o iperdiegetico, per usare ancora la terminologia di Hills), offre al pubblico la possibilità di creare e sviluppare le proprie storie intorno alla diegesi di Lost. Oltre questi attributi testuali, comunque, vi è anche una innovativa strategia di marketing per Lost che incoraggia lo spettatore a partecipare a questa iperdiegesi e alla sua narrativa posticipata. Questo include una serie di siti web basati sulle compagnie che appaiono nella serie - ad esempio, un sito per la linea aerea Oceanic (il cui aereo precipita sull’isola) che appare come vero fornendo tutti i servizi che ci si aspetterebbe da un sito del genere. Ma se si accede alla pagina della prenotazione posti e si inserisce una misteriosa sequenza numerica apparsa nella serie, si accede ad una pagina segreta che dava anticipazioni sulla seconda stagione. Questo sito estende la diegesi al mondo di tutti i giorni e nel frattempo incoraggia la conoscenza approfondita della serie - effettivamente premiando l’attività dei fans85. Da una prospettiva industriale, queste strategie dimostrano l’evoluzione della cult television dagli anni Sessanta ad oggi. Sempre di più, i networks statunitensi cercano di creare attivamente dei cult con programmi e strategie di marketing designate appositamente per creare lealtà ed una partecipazione attiva. Per ciò, la cult televisione ed il fandom non sono più visti dall’industria come marginali, atipici, o semplicemente irrilevanti. Come dimostra l’esempio di Lost, il network cerca il fandom incoraggiando le sue attività e creando un legale leale in una era in cui la partecipazione multimediale sta rapidamente diventando la norma. 84 Damon Lindelof citato in Lisa Campbell, Brace Yourself, in Broadcast, 5 agosto, pag.21. Channel 4 stanzia 1 milione di Sterline per il marketing di Lost al momento dell’acquisto dei diritti britannici per la prima stagione e sviluppa un sito web con giochi on-line, indizi e puzzle che consentono ai giocatori di accedere a informazioni sui personaggi e sulla narrativa della serie Lisa Campbell, Brace Yourself, Broadcast, 5 agosto 2005, pag.21 85 61 Il differente contesto in UK Fino ad ora questa discussione sull’impatto della cult television nell’industria televisiva si è largamente concentrata sugli Stati Uniti. Vorrei concludere con una riflessione sul differente contesto britannico. Come per gli Stati Uniti, in UK l’industria televisiva ha attraversato molti cambiamenti sin dagli anni Sessanta, dove BBC1 e BBC2 formano un duopolio con il servizio pubblico commerciale della ITV. Gli anni Ottanta vedono l’emergere di nuovi canali terrestri, prima con l’arrivo di Channel 4 (seguito nel 1997 da Channel 5), e poi con la crescita del cavo, del satellite e del digitale. Ma in UK, la storia della cult television è piuttosto differente. Nonostante la crescita del cavo, del satellite e del digitale, il servizio pubblico rimane legato alla televisione terrestre. Con la crescente competizione tra providers non-terrestri, l’audience è sicuramente diminuita negli ultimi dieci anni86; mentre i requisiti di servizio pubblico di ITV sono diminuiti, ITV1 e BBC1 rimangono fermamente concettualizzati come canali da una programmazione mista per un largo pubblico. Di conseguenza, la nozione di cult television, con il suo carattere di esclusività e specialità, va contro la vera natura di queste due emittenti principali. Mentre le richieste di servizio pubblico di BBC1 (e in maniera meno rilevante di ITV1) di fornire specifici tipi di programmi (come quelli religiosi o per bambini) può essere interpretata come una programmazione di nicchia, BBC1 non sarebbe libera di utilizzare la stessa strategia dei networks statunitensi per cercare un pubblico di nicchia. Comunque, questo non significa che non esista una cult television britannica. Programmi identificati come cult possono essere trovati con più facilità su BBC2 con il suo status di emittente indirizzata ad una audience minoritaria, su Channel 4 per la sua ricerca di programmi alternativi e originali, o sempre più su uno dei canali digitali terrestri come BBC3 o E4. Questo è il caso anche di anche della cult television statunitense trasmessa in UK. Ad esempio, Star Trek venne inizialmente trasmesso in UK nel pomeriggio del sabato su BBC1, ma successivamente ha trovato una sua collocazione su BBC2 in un ciclo di repliche dedicate ai classici della cult television dedicate ad un pubblico giovane e di nicchia. Quando X-Files viene trasmesso per la prima volta in UK, è sul canale minore BBC2 e viene poi spostato su BBC1 alla sua seconda stagione grazie agli alti ratings raggiunti. Anche Heroes della NBC, 86 Nel Dicembre del 1996, lo share di BBC1 è del 31,6% e quello di ITV1 è del 35,6%, mentre il resto dei canali non terrestri combinati raggiunge un 10,2% (vedi Broadcast, 20 dicembre 1996, pag.23). Nella settimana che finisce il 20 aprile 2003, lo share combinato dei canali non terrestri supera per la prima volta quello dei principali canali terrestri, con BBC1 che guadagna il 23,9 per cento di share, ITV1 il 23,8% e gli altri il 26,1% (vedi Broadcast, 2 maggio 2003, pag.1). È interessante notare come lo share dei canali non terrestri sia esploso grazie alla copertura di Sky Sports del calcio, ma questo trend è continuato nel tempo, con i canali non terrestri che emergono sempre più. 62 l’ultimo cult show statunitense ad essere approdato in UK, è trasmesso da BBC2 piuttosto che da BBC1. La programmazione degli show cult statunitensi su canali minori fa parte dello status accordato alla tv statunitense che non rientra nell’idea di servizio pubblico che invece mira a preservare ed incoraggiare la cultura britannica. La centralità del misto di programmi che vengono trasmessi per servizio pubblico ha anche un impatto sulla cult television in UK. Sin dagli anni Cinquanta, la centralità della programmazione statunitense del prime time è composta da serie con stagioni di 26 episodi. Inoltre, come ho evidenziato precedentemente, l’importanza del mercato delle syndication per i profitti di un networks privilegia le serie che superano i 100 episodi. In UK, la produzione di serie è molto più varia. Sin dagli anni Cinquanta la lunga serialità è stata al centro della programmazione; queste serie ora sono il nucleo centrale di BBC1 e ITV1 nel prime time. Però, alcune serie hanno una minor durata solitamente uno, due/tre o sei episodi. Occasionalmente vengono prodotte serie da mezza stagione di 13 episodi, spesso con un occhio al mercato d’oltreoceano87. Questa grande varietà ha un impatto sulla capacità di creare un fandom cult. Nel panorama attuale altamente frammettano e affollato, è complicato per una serie con pochi episodi avere un impatto abbastanza forte da divenire un cult. Inoltre, le serie brevi presentano spesso una serializzazione che tende a chiudersi, mancando quindi delle caratteristiche di apertura necessaria a questi programmi. E comunque, questo non significa che l’industria britannica non sia in grado di produrre dei cult shows. Gli esempi statunitensi di X-Files e Lost dimostrano che shows nati appositamente per divenire dei cult e che incoraggiano la partecipazione del fandom possano raggiungere una ampia audience, in UK e negli Stati Uniti. Ci sono diversi esempi di queste serie britanniche costruite per avere successo negli Stati Uniti. Il successo della BBC1 Spooks (rinominato MI5 per il mercato statunitense), prodotto in stagioni da 13 episodi, ha una audience regolare di 6 milioni di spettatori nel prime time, mentre è anche una sorta di test per la BBC per provare nuove applicazioni multimediali designate per richiamare i fans (come i web games e i contenuti interattivi). Contemporaneamente, il revival del Doctor Who di Russel T.Davies costruito per richiamare i fans e le famiglie, ha oltre 8 milioni di spettatori regolari ed uno share del 40%. Inoltre, il suo richiamo verso i fans e ai bambini, lo rendendo 87 Non è chiaramente nello scopo di questo saggio analizzare la storia della tv serializzata in UK e certamente è un campo molto vario. Ad esempio, negli anni Sessanta, la ITV1 programmava una serie di programmi (come The Avengers) che venivano prodotti già nell’ottica di una programmazione Statunitense (vedi Catherine Johnson, cit., e James Chapman, Saints and Avengers: British Adventure Series of the 1960s, IB Tauris, Londra, 2002). 63 di grande valore per il merchandising ed è stato utilizzato da BBC per realizzare tutta una serie di contenuti interattivi associati al programma. Così, lo show dimostra di avere quelle caratteristiche associate ai cult shows statunitensi, avendo un pubblico leale e attento pronto ad acquistare i prodotti legati allo show88. Come afferma Matt Hills “non ci può essere una classificazione definitiva ed assoluta dei cult media”89. Certamente, dal punto di vista industriale, i produttori possono tentare di creare dei prodotti cult, ma gli shows possono divenire cult solo attraverso le attività partecipatorie degli spettatori e non grazie ai modi di produzione. Eppure, guardando alla storia della tv statunitense (e britannica), c’è una chiara evoluzione del concetto di cult television e di fan audience. Mentre negli Stati Uniti abbiamo un oligopolio, e in UK vi è un duopolio lungo tutti gli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta, l’audience dei fans non ha un particolare valore. Ma con la frammentazione dell’audience negli anni Ottanta e Novanta l’analisi demografica degli spettatori è divenuta vitale, così come l’audience legata ai fans. Con questo cambiamento i networks hanno incoraggiato gli spettatori a venir coinvolti in tutte quelle attività associate con il cult fandom. Anche se la cult audience ha un significato diverso negli Stati Uniti e in UK, la sua fedeltà e partecipazione è importante in entrambi i contesti. Mentre la tv digitale diventa sempre più diffusa e andiamo incontro al definitivo switch-over, l’attuale distinzione tra il mainstream terrestre/networks ed i canali di nicchia, specializzati e digitali, si va indebolendo e l’audience di frammenta ulteriormente. L’industria televisiva cercherà certamente nuove strategie per mantenere ed attrarre l’audience e così, il posto della cult television muterà ancora. 88 È utile notare come sia Spooks che Doctor Who siano stati venduti all’estero, ed il mercato d’oltreoceano ha rappresentato chiaramente una ulteriore forma di introito per i produttori Statunitensi e Britannici. 89 Matt Hills, op.cit., pag.131. 64 Seconda Parte 65 The Twilight Zone come Cult Television di Barry Keith Grant In un famoso discorso alla National Association of Broadcasters il 9 Maggio 1961, Newton Minow, Chairman della Federal Communications Commission, attacca l’industria televisiva definendola come una “vasta terra desolata”. Nel riferirsi al fallimento della televisione nell’affrontare problemi reali, i commenti di Minow si rivelano profetici del decennio in arrivo. Durante gli anni Sessanta, sitcom popolari come The Andy Griffith Show (1960-68), Car 54, Where Are You? (1961-63), The Beverly Hillbillies (1962-71), My Favorite Martian (1963-66), The Munsters (1964-66), and Gomer Pyle, USMC (1964-69), presentano una visione escapista di una America impossibile, non turbata dai conflitti della società contemporanea. Guardando show come Green Acres (1965-71), con una descrizione bucolica di un’America rurale, non si possono intuire le tensioni politiche della Guerra del Vietnam o per i diritti civili che stanno ridisegnando il tessuto sociale della nazione, mentre il suo concorrente Hogan’s Heroes - Gli Eroi di Hogan (1965-1971) sembra cancellare interamente la storia attraverso il ritratto di un soldato tedesco incompetente in un campo di concentramento per irreprensibili soldati americani durante la Seconda Guerra Mondiale. Naturalmente, alcuni programmi che sembravano solo fantasie di evasione riflettevano reali tensioni culturali, come Bewitched - Vita da Strega (1964-72), che intelligentemente mascherava questioni sui ruoli delle donne che le femministe del tempo stavano sollevando in una sitcom su un uomo mortale sposato a una strega con poteri sovrannaturali90. E il genere drammatico più popolare agli inizi della decade, il western, era simile in questo rispetto: mentre programmi come Gunsmoke (1955-75) e Wagon Train (1957-65) affrontavano anche rilevanti questioni di violenza e razzismo, tipicamente le spostavano, attraverso l’iconografia del genere, a un passato ora apparentemente remoto nell’epoca della televisione. Tendendo ad aderire ai principi morali di un eroe non problematico, la maggior parte dei western offrivano agli spettatori una facile e confortante distinzione fra uno stadio di evoluzione sociale più primitivo (ma necessario) e un presente più felicemente illuminato, in cui sappiamo di più. All’interno del continuo riflusso della programmazione di intrattenimento che fluisce dalla terra desolata televisuale, The Twilight Zone - Ai Confini della Realtà si poneva in netto contrasto. Infatti, il programma, che è andato in onda sulla CBS dal 1959 al 1964, è uno dei programmi che Murrow aveva in mente come una di quelle rare eccezioni alla sua generale 90 Walter Metz, Bewitched, Wayne State University Press, Detroit, 2007. 66 condanna. Nei suoi 156 episodi originari, questa pionieristica serie speculativa affrontava frequentemente le tensioni, le paure e le questioni del suo tempo, offrendo un commentario e una critica sociale che facevano riflettere all’interno di storie fantastiche che riuscivano a rendere il pubblico ansioso quanto contemporaneamente a placarlo. Diversamente da Star Trek (1966-69), una delle altre serie di culto di fantascienza che lo hanno seguito, i suoi futuri tendono ad essere più tetri e distopici dell’armoniosa Federazione immaginata della serie di Gene Roddenberry. In effetti, lo spostamento estrapolatorio che Twilight Zone - Ai Confini della Realtà faceva dei suoi mondi narrativi era più radicato nell’America contemporanea, e spesso affrontava temi sociali seri, come la potenza atomica, la Guerra Fredda, il razzismo, così come ruminava su aspetti più oscuri, più scomodi della natura umana e su grandi domande quali la fede, la morte e la mortalità. Twilight Zone ha permesso al presentatore della serie Rod Serling di combinare con successo il suo personale stile esortatorio, se non stile di fare la predica, con premesse estrapolative, per creare efficaci favole morali nella modalità fantastica. Lavorando all’interno della tradizione della fabulazione moralistica che include Esopo, Joel Chandler Harris, e H.G. Wells, Serling ha scritto più di metà dei copioni, e ha fatto da produttore esecutivo così come da impassibile presentatore. Oltre a un’inclinazione alla predica, Serling ha seguito il dictum di uno dei maggiori autori fondanti (e lui stesso una figura di culto) del fantastico, Edgar Allan Poe, riguardo ai racconti brevi. L’enfasi di Poe sull’unità di un singolo effetto - “nell’intera composizione non ci dovrebbe essere nessuna parola la cui tendenza, diretta o indiretta, non sia verso il solo disegno pre-stabilito”91 - ha chiaramente influenzato Serling, dal momento che la maggior parte degli episodi di Twilight Zone si costruiscono inesorabilmente verso un colpo di scena narrativo nel climax. In effetti questo “scambio” (il luogo dell’abbondanza non è il paradiso, ma l’inferno; un astronauta megalomane che fa da signore sopra piccoli alieni è lui stesso schiacciato da alieni più grandi di lui) era una caratteristica significativa del programma e uno dei suoi grandi piaceri. La distintiva enfasi sulla lezione morale del colpo di scena - sottoposta, come avrebbe detto Serling, alla nostra considerazione - era caratteristica del suo lavoro, ed è anche evidente in certi copioni di Serling come Requiem for a Heavyweight (1957), una delle sue sceneggiature per la TV che alla fine è stata sviluppata in un film per il grande schermo scritto da Serling nel 1962. 91 Edgar Allan Poe, “The Philosophy of Composition” and “The Short Story”, in Philip Van Doren Stern (a cura di) The Portable Poe, Viking, New York, 1971, pag. 566. 67 Sebbene altri episodi siano stati scritti da importanti scrittori di fantascienza dell’epoca come Charles Beaumont (22 episodi) e Richard Matheson (14 episodi), o adattati da storie di importanti scrittori del fantastico, da Ambrose Bierce a Ray Bradbury, Serling era innegabilmente l’autore del programma. Gore Vidal ha sostenuto che Paddy Chayefksy, uno degli sceneggiatori drammatici più prestigiosi durante la cosiddetta Golden Age della televisione, che includeva anche Serling, era una autore che usava diversi registi come sua “matita”92, e lo stesso può essere detto di Serling. Vari episodi hanno avuto la regia di prodi di Hollywood dell’era degli studios come John Brahm, Mitchell Leisen, Jacques Tourneur, Robert Florey e Don Siegel, o di registi più nuovi che facevano la gavetta per arrivare in alto nel nuovo medium della televisione, inclusi Stuart Rosenberg, Ted Post, o Richard Donner, ma il programma nondimeno dimostra una notevole coerenza nelle caratteristiche narrative e tematiche così come uno stile visuale sorprendentemente omogeneo. Il pilot della serie, “La barriera della solitudine” (andato in onda come primo episodio il 2 ottobre del 1959), serve come indicazione di quello che sarebbe stato l’irremovibile rifiuto di The Twilight Zone di evitare i problemi contemporanei. L’episodio attinge direttamente alle ansietà relative sia alla Guerra Fredda sia all’inizio dell’era spaziale attraverso la sua trama di un uomo (Earl Holliman) che si trova inesplicabilmente da solo in una città finché non viene rivelato alla fine che questo è il suo incubo mentre viene testato in isolamento dai militari che lo preparano per sopportare le esigenze psicologiche che il viaggio nello spazio comporta. Nel suo incubo, che invoca certi popolari film apocalittici come The Day the World Ended - Il Mostro del Pianeta Perduto (1955) e The World, the Flesh, and the Devil - La Fine del Mondo (1959), il protagonista si domanda “Hanno fatto cadere la bomba?”: il dialogo non richiede alcuna esposizione riguardo a quale bomba egli stia facendo riferimento o che cosa possa significare l’averla fatta cadere. In modo similare, in “Il terzo dal Sole” (8 gennaio 1960), pure nella prima stagione, l’immanente guerra nucleare è descritta dal meravigliosamente minaccioso Edward Andrews come “whoosh, up and over and whammo” (“whoosh, su in alto e dopo un po’ boom”), l’impensabile reso per noi in una concisa eppure vivida onomatopea. Nell’episodio di fantasia “Tutta la verità” (20 gennaio 1961), un sordido venditore d’auto (Jack Carson), dopo aver fatto pressione a un cliente per avere la sua macchina antica, si ritrova con un veicolo maledetto che obbliga il proprietario a dire la verità. Come conseguenza, è incapace di vendere un singolo veicolo perché ammette che cosa c’è che non 92 Gore Vidal, “Who Makes the Movies?”, in Barry Keith Grant (a cura di), Auteurs and Authorship: A Film Reader, Blackwell, 2008, Boston, pag.153. 68 va con essi con i potenziali compratori. Nella fantasiosa conclusione riesce a vendere il Modello A a Nikita Khrushchev perché lo usi come strumento di propaganda per mostrare il povero stato della tecnologia e dello stile di vita americano. L’inquadratura finale mostra la faccia di un attore appena intravista che assomiglia al premier sovietico che sorride con quell’orgoglio tipicamente capitalista per la proprietà, mentre viene accompagnato fuori dal parcheggio in macchina. Lo spettatore ridacchia nel rendersi conto che ora Khrushchev dovrà dire la verità, cose che significa che non ci sarà più propaganda comunista e che la Cortina di Ferro alla fine si sgretolerà. L’episodio respinge la minaccia del Comunismo come uno scherzo mentre allo stesso tempo sostiene l’etica imprenditoriale americana. Ma un tale trattamento comico dei problemi del mondo reale è più atipico che comune nel programma. Al contrario, in “In onore di Pip” (27 settembre 1963) una piccola scheda ci dice che l’ambientazione di apertura è una giungla in Vietnam, dopodiché il padre di un soldato (Jack Klugman) proclama che “Mio figlio sta morendo. In un luogo chiamato Vietnam del Sud… Non si suppone nemmeno che ci sia in corso una guerra lì, e mio figlio sta morendo”. E in “Io sono la notte: colorami di nero” (27 marzo 1964) l’oscurità discende sui luoghi in giro per il mondo dove è messo in pratica l’odio - come sentiamo, Birmingham, il Muro di Berlino, e il Vietnam. Questi episodi sono stati per la prima volta mandati in onda in un momento in cui si stava verificando una sostanziale escalation del coinvolgimento degli Stati Uniti nel conflitto del Vietnam (la risoluzione del Golfo di Tonkin, la legge che ha fornito la base legale per l’escalation americana, fu fatta passare dal Congresso nell’agosto del 1964, solo tre mesi dopo la messa in onda di “Io sono la notte”) sebbene la maggior parte degli americani fossero a malapena consapevoli del coinvolgimento pericolosamente crescente in questo remoto Paese sud-asiatico. In questo secondo episodio, Serling esprime con vigore il suo punto di vista nel suo commento finale osservando che questo fenomeno si può trovare nel mondo reale, non ai confini della realtà. Nell’affrontare le questioni e i problemi contemporanei, Twilight Zone si allontana dalle infantili qualità da space opera di precedente fantascienza passata in televisione come quella di Captain Video and His Video Rangers (1949-54) e Rocky Jones, Space Ranger (1954). Allo stesso tempo, era diversa da Science Fiction Theatre (1955-57) nel fatto che la sua enfasi era meno scientificamente orientata, più fantascienza “soft” che fantascienza “dura”, e si focalizzava sulle implicazioni umane e sociali delle sue premesse narrative piuttosto che sugli aspetti tecnologici. Di conseguenza, mentre il costo è sempre stato un problema per le serie di fantascienza, Twilight Zone era caratterizzato da sorprendentemente pochi effetti speciali. La 69 fotografia in stop-motion è centrale nell’episodio “Un cronometro particolare” (18 ottobre 1963) in cui un uomo (Richard Erdmann) scopre un cronometro che ha il potere di fermare il mondo nel suo corso, e “Immagine allo specchio” (26 febbraio 1960) presenta un trasparente di Martin Milner che insegue il suo doppio giù per un vicolo. L’inquadratura finale degli alieni che lasciano la Terra in “Mostri in Maple Street” (4 marzo 1960) è stata effettivamente presa da Il Pianeta Proibito (1956) e mandato in onda capovolto e a rovescio. Ma simili inquadrature sono rare. In “La Paura” (29 maggio 1964) c’è un’altra matte shot di un alieno gigante con un occhio solo che torreggia sul panorama. Questa inquadratura offre un colpo di scena particolarmente interessante, dal momento che sembra un effetto speciale mal realizzato, ma subito dopo scopriamo che è proprio quello perché si scopre che è un pallone gigante, non troppo convincente, ideato dagli alieni che, molto più piccoli degli umani, temono di venire sopraffatti e schiacciati dai giganti terrestri. Questo tuttavia non è per dire che Twilight Zone fosse privo di immaginazione da un punto di vista televisuale; piuttosto il contrario, infatti, il programma spesso confinava con lo sperimentale in modi similari agli sketch surreali di Ernie Kovacs. Come osserva Gary Hoppenstand, con Twilight Zone, Serling ha dimostrato che “capiva pienamente il potenziale del medium della televisione”93. Fra gli episodi degni di nota per il loro stile visuale c’è “Il Teatro delle ombre” (5 maggio 1961) che comincia in un modo formalista, brechtiano, con una giuria che entra in una stanza e si siede mentre le luci si illuminano sul set - una buona scelta dal momento che la trama riguarda un uomo (Dennis Weaver) che dichiara che il mondo è un incubo ricorrente che lui ha e che, quando verrà giustiziato, tutti gli altri che sono irreali cesseranno di esistere. La telecamera a mano, durante lo scontro di boxe ne “Il desiderio dei desideri” (8 aprile 1960), richiama la famosa cinematografia di James Wong Howe per Body and Soul (1947); e in “Re Nove non tornerà” (20 settembre 1960) della seconda stagione, Robert Cummings interpreta un solitario pilota di un B-52 caduto nel deserto con il suo equipaggio inspiegabilmente disperso; dal momento che è il solo personaggio, l’episodio consiste quasi interamente di un monologo interiore in voce fuoricampo accompagnato da primi piani del volto dell’attore. Forse la più interessante manipolazione della colonna sonora da parte della serie è in “Suoni e silenzi” (3 aprile 1964), in cui John McGiver interpreta un patriarca che dirige la sua casa come una nave e che si immagina come il capitano Blight. Mentre la sua allucinazione lo sopraffa, i suoni delle navi e del mare aumentano e diminuiscono in volume. L’episodio più celebrato per i suoi aspetti 93 Gary Hoppenstand, “Editorial” in «Journal of Popular Culture» 37: 4, 2004, pag.562. 70 visuali pieni di immaginazione è probabilmente “È bello quel che piace” (11 novembre 1960), in cui una donna, molto affranta perché è una delle poche persone con un viso terribilmente brutto, è in ospedale che aspetta il suo ultimo tentativo di chirurgia correttiva. Se l’operazione non avrà successo, diventerà un’emarginata, esiliata nella comunità di persone dall’aspetto allo stesso modo repellente. L’episodio è girato in maniera tale (personaggi nell’ombra, inquadrature da sopra la spalla, inquadrature di punti di vista soggettivi e così via) che non vediamo mai i loro volti - fino all’ultimo colpo di scena di climax, quando scopriamo che, dalla nostra prospettiva, i volti dei medici e delle infermiere sono terribilmente distorti mentre la protagonista è bellissima, che le norme sociali di questo mondo sono contrarie alle nostre e che gli standard di bellezza sono socialmente determinati, perciò relativi e soggettivi. La consapevolezza di Rod Serling del medium televisuale (un punto su cui tornerò) è soffusa in Twilight Zone. In “Antipatia per le macchine” (28 ottobre 1960), su un uomo che disprezza le macchine, che qui sembrano avere una loro volontà, Serling appare dentro uno schermo televisivo per la sua narrazione del prologo. Nel primissimo episodio, “La barriera della solitudine”, il protagonista viene segretamente monitorato lungo il corso della sua terribile esperienza da scienziati in TV. In altri episodi la televisione è similarmente associata alla sorveglianza e al lato oscuro della tecnologia. In “Giacche di pelle nera” (31 gennaio 1964) il logo di un occhio solo dei set della televisione intergalattica attraverso cui si guarda l’avanzamento di una forza di invasione aliena non appare dissimile dal logo della CBS, il network su cui veniva mostrato Twilight Zone. In uno degli ultimi episodi, “Che cosa c’è nella scatola” (13 marzo 1964), la TV di casa del tassista Joe Britt (William Demerest) mette in onda la sua vita, incluso il suo futuro che lo mostra mentre uccide la moglie in un momento di rabbia domestica; cercando di evitare che la tragedia diventi realtà, Britt la causa. Serling introduce l’episodio dicendo che “Mr Britt guarderà un episodio davvero grandioso” alla maniera di Ed Sullivan - un riferimento intertestuale al programma di varietà serale estremamente popolare che Sullivan, editorialista della carta stampata, ha condotto per anni. Nell’episodio un dottore diagnostica Britt come confuso nel distinguere passato, presente e futuro perché si è scaldato nella corrente senza tempo di quello che Homer Simpson chiama “la calda luce della televisione”. Il medico conclude che Britt soffre di una allucinazione per il fatto di essere dipendente dalla TV, apparentemente adescato nella vasta terra desolata dall’identificarsi troppo con i programmi che guarda. La creatività di Twilight Zone, la sua abilità nel sollevare quesiti impegnativi in modi 71 immaginativi e di intrattenimento, senza dubbio ha aiutato il programma a guadagnare la attrattiva di cult nel tempo. È stato continuamente in replica sulla televisione americana, e nel 2004 «TV Guide» ha posizionato il programma al numero 8 nella sua lista dei “25 Top Cult di Sempre!” (30 maggio 2004). La maggior parte dei nordamericani, anche coloro che sono cresciuti dopo l’iniziale messa in onda del programma, conoscono il distintivo tema musicale della serie di Marius Constant, le cui primissime note hanno finito per rappresentare una iconografica stenografia del fatto che si sta verificando qualcosa di bizzarro o di strano. Il programma è stato il soggetto di innumerevoli conversazioni di notte fonda dei baby-boomer una attività sociale enfatizzata nella narrativa che incornicia Twilight Zone: The Movie (1983), con la domanda di Dan Ackroyd “Volete vedere qualcosa che fa veramente paura?”. Così come è stato fatto con il programma di Alfred Hitchcock, Twilight Zone ha pubblicato una serie di antologie in brossura di storie su cui sono stati basati gli episodi, che hanno come protagonista il presentatore nel ruolo redattore. E oggi, all’epoca di internet, ci sono numerosi siti web dedicati esclusivamente o in parte a Twilight Zone. Un recente episodio della serie animata Family Guy - I Griffin (1999- ), in cui Peter scopre che ha l’abilità di suonare il piano solo quando ubriaco, contiene un’inquadratura zoom dentro il cervello di Peter che mostra tutte le cellule del cervello morte a causa del suo eccesso nel bere, accetto per una solitaria cellula, i cui occhiali (è una cellula cerebrale, dopo tutto, anche se appartiene a Peter Griffin) cadono e vanno in frantumi, mentre grida “Non è giusto”. Questo, naturalmente, è un riferimento intertestuale a uno degli episodi meglio ricordati di Twilight Zone, “Tempo di leggere” (20 novembre 1959), che ha come protagonista Burgess Meredith nel ruolo di un impiegato di banca misantropo che vuole solo essere lasciato in pace a leggere che incontra lo stesso ironico fato della povera cellula cerebrale di Peter dopo che una bomba atomica lo lascia la sola persona viva. Il presupposto di questo riferimento intertestuale in Family Guy suggerisce l’estensione in cui Twilight Zone rimane iconografico all’interno della cultura popolare per ancora un’altra generazione di spettatori. Twilight Zone esibisce diverse qualità che in parte danno conto del suo status di cult. Umberto Eco ha suggerito che i film di culto funzionano come una specie di assemblaggio in stile collage di parti intercambiabili, e questo è senz’altro vero per Twilight Zone. L’uso da parte della serie di iconografia e convenzioni di genere illustra questo aspetto della sua costruzione. Le familiari iconografie e convenzioni occidentali appaiono in un diverso numero di episodi, incluso “La polvere” (6 gennaio 1961) e “Al Denton nel giorno del giudizio” (16 ottobre 1959). Il secondo fa uso del tema del pistolero, con Dan Duryea nel ruolo di un tiratore la cui 72 velocità è il risultato di una pozione magica. Diversi episodi nel corso della messa in onda del programma fanno uso dell’iconografia e della mise-en-scène del film noir - angoli inclinati, strade bagnate con pozze d’acqua e luce, perfino una hall di specchi che evoca specificamente La signora di Shangai (1947) di Orson Welles - per evocare o il mondo di corruzione e malvagità in stile noir o la pazzia del protagonista, come in “Chi troppo vuole” (25 dicembre 1959). In “In onore di Pip” un padre e suo figlio morente si incontrano in un carnevale dell’immaginazione senza tempo, come le immagini che evocano Nightmare Alley - La Fiera delle Illusioni (1947). “Esecuzione” (1 aprile 1960) fa uso di entrambi i generi nella sua storia di un cowboy cattivo (Albert Salmi), che viene teleportato attraverso il tempo da uno scienziato in una città moderna dove diventa, come la mette lo scienziato responsabile (Russell Johnson), “un primitivo del 19° secolo in una giungla del 20° secolo”. Quando il fuorilegge riesce a sopraffare lo scienziato e va fuori nella città di notte, il mondo diventa una accozzaglia in stile noir di orrore urbano. In un precedente saggio sul cinema cult, ho arguito che, nonostante le loro caratteristiche ampiamente generiche, i film di culto hanno in comune alcune forme di trasgressione, o nell’argomento che hanno come soggetto, nel tono, o nello stile, e inoltre, che tendono allo stesso tempo a offrire qualche forma di recupero ideologico. Inoltre, “Come nei classici film di genere, poi, lo spettatore, alla fine ottiene la doppia soddisfazione sia di rigettare i valori della cultura dominante che di rimanere inscritto in modo sicuro al loro interno”94. Una simile argomentazione potrebbe essere fatta anche riguardo a Twilight Zone. In effetti, il programma, proprio come la zona ai confini della realtà in se stessa, che Serling ogni settimana introduceva con la sua voce fuori campo in apertura come “una quinta dimensione, al di là di ciò che è conosciuto all’uomo… vasta come lo spazio e senza tempo come l’infinito. È il terreno intermedio fra la luce e l’ombra, fra la scienza e la superstizione. E giace fra il profondo delle paure umane e la sommità della sua conoscenza”, era completamente liminale, interstiziale. A livello più immediato, Twilight Zone non era facilmente categorizzabile in modo generico. Era orrore, fantascienza, fantasy, thriller? La fiction speculativa, una categoria critica ma non una categoria riconosciuta da quell’arbitro di gusto non ufficiale che è «TV Guide», ha costituito una sfida alle comode categorie generiche. Serling comincia il suo monologo di 94 Barry Keith Grant, “Science Fiction Double Feature: Ideology in the Cult Film” in J.P. Telotte (a cura di) The Cult Film Experience: Beyond All Reason, University of Texas Press Austin, 1991, pag.124. 73 apertura per “Il fuggitivo” (9 marzo 1962) della terza stagione discutendo la differenza fra fantascienza e fantasy, descrivendo il primo come rendere il probabile possibile e il secondo come rendere l’impossibile probabile, e poi suggerisce che il racconto di questa sera mostra quello che succede quando metti insieme quelle due cose. Se tali distinzioni di narrativa speculativa sembrano inutilmente fini, Serling certamente le prende sul serio. Presenta l’episodio “Un uomo obsoleto” (2 giugno 1961), ambientato in un futuro orwelliano, sottolineando che il racconto di questa sera non è una storia di “un futuro che sarà, ma quello che potrebbe essere” - in altre parole, è estrapolazione narrativa piuttosto che predizione scientifica. Serling continua osservando che “questo non è un mondo nuovo ma semplicemente una estensione di quello che è cominciato in quello vecchio,” una esplicita dichiarazione di come funziona la fantascienza distopica. Un episodio potrebbe essere un avvertimento cupamente ironico come “Tempo di leggere”; un altro una farsa come “C’era una volta” (15 dicembre 1961), un episodio senza dialogo con protagonista Buster Keaton nel ruolo di un portinaio che va indietro nel tempo indossando l’elmetto del tempo di un inventore; e un altro ancora una fantasia sentimentale come “La notte degli umili” (23 dicembre 1960), con Art Carney nel ruolo di un Babbo Natale dei grandi magazzini ubriaco che trova il vero sacco dei giocattoli di Babbo Natale e conseguentemente un proposito nella vita. Gli spettatori non sapevano di settimana in settimana se l’episodio avrebbe assicurato mistero e suspense o una risata confortante. A livello tematico, la visione del mondo del programma, la sua prospettiva ideologica, era profondamente conflittuale, i suoi messaggi morali tiravano in opposte direzioni. Da un lato, il programma criticava le debolezze umane e esortava a essere cittadini migliori; dall’altro lato, ci metteva in guardia contro il cambiare la nostra sorte nella vita. Come esempio del primo, in “Mostri in Maple Street” (4 March 1960) gli alieni conquistano il genere umano manipolando l’innata paura dell’Altro della borghesia americana così che si autodistruggono “il loro peggior nemico”, come osserva al suo compagno uno dei due alieni che hanno architettato la situazione. Mentre i due alieni guardano quanto siano sciocchi questi mortali, mentre osservano da sopra una collina i residenti di Maple Street che vanno nel panico, uno servizievolmente spiega: “Gettali nell’oscurità per qualche ora, e poi mettiti a sedere e osserva lo schema che si ripete”; è sempre la stessa storia perché “il mondo è pieno di Maple Street”. Dall’altro lato, in “Un discorso per gli angeli” (9 ottobre 1959) l’accattivante Ed Wynne è un venditore che cerca di evitare il suo predestinato incontro con Mr. Death - il signor Morte (Murray Hamilton), ma dopo che una bimba, che è sua vicina e amica, è investita da un’auto 74 ed è sul punto di morire, fa una finale piazzata a Mr. Death, in modo da trattenersi al di là del tempo stabilito con la bambina, e alla fine accetta il suo fato e va via con Mr. Death. “Ti prendi quello che ti capita e ci convivi” come osserva in “Una tromba d’oro” (20 maggio 1960) il batterista jazz (Jack Klugman) che ha fatto la gavetta. Sia che si tratti del risultato di un ordine divino, dell’agire diabolico, dell’intervento alieno o del caso, lo status quo tipicamente si risolve in Twilight Zone tornando al punto di partenza. In “Testa o croce” (24 marzo 1961) un cuoco di una bettola (Buddy Ebsen) ha il potere della telecinesi. Il suo capo scopre i poteri del cuoco e lo porta a Las Vegas, dove vanno a far folli vincite al gioco con il cuoco che usa la sua abilità mentale per far giare i dadi a suo favore. Ma poiché usare il suo potere gli dà dei mal di testa, il cuoco sceglie di rinunciare alla ricchezza e di ritornare al suo monotono lavoro da colletto blu. Il cuoco decide volontariamente di tornare al suo posto, ma tutti quei personaggi di Twilight Zone con pecche morali come l’avidità, l’egoismo o il cinismo alla fine ricevono, come George Minafer (Tim Holt) in The Magnificent Ambersons – I magnifici Amberson (1942), quel che si meritano. Come Serling dice alla fine di “Suoni e silenzi” del pomposo Mr. Flemington, ora issato sul suo stesso pennone, “Tutto ciò di cui soffre Mr. Flemington è un caso di giustizia poetica”. Se, per esempio, un episodio ritraeva demoni o angeli, o loro variazioni, la vita dopo la morte era generalmente rappresentata come una burocrazia, con cartelline di documenti e schedari e regole di proibizione per patti demoniaci o interventi divini - che ci disturbano con rivelazioni di forze al di là della nostra comprensione, ma che anche ci rassicurano con la loro quotidiana familiarità. Twilight Zone, particolarmente quegli episodi scritti da Serling, ha in questo modo provocato e rassicurato gli spettatori allo stesso tempo. In questo modo, Twilight Zone è stata in grado di presentare un drama socialmente cosciente senza alienarsi i milioni di spettatori di telelandia. Questa tensione tematica al cuore di Twilight Zone dimostrava la difficoltà nella televisione generalista di fornire qualunque sostenuta critica sociale. Secondo William Boddy, lo stesso atteggiamento di Serling verso il medium della televisione era ambivalente, “presentato alternativamente come una capitolazione nelle sue lotte come riformatore dell’industria o come il logico risultato delle sue battaglie per un drama televisivo serio”95 Serling propagandava Twilight Zone, che costituiva per lui un cambiamento dallo scrivere sceneggiature televisive di prestigio al format più commerciale delle serie televisive, come un veicolo per potenziali pubblicitari per vendere i loro prodotti, eppure allo stesso tempo si è 95 William Boddy, “Entering The Twilight Zone”, in «Screen» 25, n. 4-5 (July/October 1984): pagg. 98-108. 75 lamentato riguardo al compromesso artistico, “che in essenza è quello che lo sceneggiatore televisivo fa se vuole mettere in scena temi controversi”96. Nella quinta e ultima stagione del programma, le immagini delle sigarette Pall Mall o dello shampoo per capelli Lilt sono apparse insieme ai crediti, una dichiarazione grafica della fusione del bilanciamento da parte del programma di arte e commercio. Alla fine di alcuni episodi, quando Serling, un pesante fumatore nella vita reale, appare per parlarci dell’episodio della settimana successiva mentre regge una sigaretta, e una volta o due pubblicizza anche le sigarette Oasis, probabilmente sta soffocando per il fumo letteralmente così come metaforicamente. Come spiega Boddy, Serling è sopravvissuto alla transizione da “l’era del drama di antologia in diretta alle serie di film per la TV che hanno dominato il prime time della TV generalista dalla fine degli anni 50”97. Per riuscire a farlo, Twilight Zone ha preso dai drama televisivi in diretta i suoi “piccoli cast e modesti set” e il suo affidarsi a piani americani e primi piani; eppure mentre al programma mancava la convenzione di personaggi e ambientazioni che continuano tipica delle serie98, è rifuggita da “le strutture narrative di intrecci approssimativi” del format delle serie99 e ha mantenuto le sue proprie convenzioni di colpi di scena e lezioni morali. La durata di mezz’ora del programma (eccetto la sfortunata quarta stagione, quando il programma si è espanso a un’ora per accomodare il palinsesto della rete) era più come la tipica serie dei drama antologici omnibus in diretta per cui Serling aveva scritto in precedenza e che avevano avuto una “virtuale estinzione” per il 1960. Serling ricordava al suo pubblico ogni settimana che la Twilight Zone - la Zona ai Confini della Realtà è, dopo tutto, “una dimensione non solo della vista e dell’udito, ma della mente”. Possiamo interpretare questo come riferito alla tensione fra il medium televisuale come spettacolo commerciale e come arte socialmente cosciente, e a Twilight Zone stessa come a un campo di battaglia dove questo conflitto è stato ingaggiato. Questa tensione sarebbe diventata più pronunciata a mano a mano che la decade progrediva, mentre la televisione trasmetteva le sensazionali e brutali immagini dei notiziari del crescente dissenso al Vietnam e il fermento razziale e l’oppressione assieme al vuoto intrattenimento. La questione se la marca di drama televisuale di Serling fosse meramente un vago umanismo neoliberale o fosse veramente progressista richiede un altro saggio, ma non c’è dubbio che si ergesse come un faro di luce nel mezzo del buio di quella vasta terra desolata. 96 Citato in Marc Scott Zicree, The Twilight Zone Companion, Bantam, New York, 1982, pag.96. William Boddy, op.cit., pag.98. 98 Ivi, pag.107. 99 Ivi, pag.101 e 107. 97 76 L’eteroglossia di Star Trek di Roberta Pearson Analizzando i testi televisivi una analisi mono-prospettica rischia di non cogliere la polisemia degli stessi e di risultare ideologicamente non determinata. È stato chiesto a Rick Berman se il messaggio degli shows di Star Trek possa tendere ad una ideologia liberal: “Direi di no. Credo che lo fossero con Gene, e credo che ci sia una certa tendenza liberale. Ma abbiamo cercato di esaminare i problemi da entrambe le prospettive”100. La risposta di Berman sottovaluta la capacità della televisione e di Star Trek di coinvolgere la sfera pubblica in un rapporto complesso; le voci narrative multiple di una serie con un cast corale creano la possibilità di dare voce a ben più di due lati. Le ambiguità risultanti dalla polisemia del testo rendono difficile identificare la “verità” nel mondo reale del testo e, per estensione, nel mondo reale a cui fa riferimento. Afferma Marie-Laure Ryan, Anche se il testo dovrebbe essere la maggiore autorità nello stabilire i fatti del mondo finzionale, questa autorità non deriva da un potere monolitico ma è distribuita - secondo l’idea di dialogismo di Mikhail Bakhtin - tra una pluralità di voci narranti. E poichè queste voci possono contraddirsi, la verità finzionale non può derivare dalle affermazioni del testo101. Un programma televisivo con un cast corale ricorda per molti aspetti il racconto dal quale Bakhtin deriva il concetto di eteroglossia e il dialogismo che ne scaturisce. Secondo Bakhtin Il racconto può essere definito come una variazione dei discorsi sociali…. e una diversità di voci individuali, artisticamente organizzate…. Il racconto orchestra tutti i suoi temi, la totalità del mondo degli oggetti e delle idee rappresentate ed espresse, attraverso la diversità dei discorsi sociali e le varianti delle voci che fioriscono in queste condizioni. Il discoso autoriale, i discorsi dei narratori, gli 100 Intervista a Rick Berman, co-autore di Star Trek. Marie-Laure Ryan, Possible Worlds in Recent Literary Theory, in «Style» n.25:4, Inverno 1992, pag. 533. 101 77 inserti di genere, i discorsi dei personaggi, sono meramente queste fondamentali unità compositive con le quali l’eterogossia riesce ad essere al centro del racconto; ognuna di esse permette una molteplicità di voci sociali e una ampia varietà di legami e relazioni…102. Bakhtin ebbe una grande influenza sulla teoria pioneristica di John Fiske relativa ai cultural studies applicati alla televisione esposti nel 1987 in Television Cultures. Fiske è così divenuto emblema di un certo indirizzo dei cultural studies il quale ha celebrato la resistenza dell’audience e la guerriglia della semiotica, al contempo trascurando l’ideologia e le determinanti strutturali. Ma l’analisi di Fiske dei testi televisivi è di taglio socio-politico, prendendo da Bakhtin la nozione di “natura dialogica del linguaggio, che lotta contro il punto di vista socio-linguistico…”103. Fiske afferma che la polisemia del testo televisivo emerge non solo nella fase di ricezione ma, anche, nella fase di produzione, poichè i produttori sono alla ricerca di una audience il più ampia possibile. Una caratteristica essenziale della televisione è la sua polisemia o molteplicità di significati. Un programma offre un potenziale di significati che possono essere realizzati, o trasformati in esperienze reali, da una audience che legge…. La motivazione di questo exploit polisemico dei programmi è sociale: la polisemia del testo è necessaria per essere popolare tra gli spettatori che occupano diverse posizioni nella struttura sociale104. Le determinanti strutturali del mercato spesso producono testi incapaci di risolvere le proprie contraddizioni ideologiche, afferma Fiske. Come la società consiste in un sistema strutturato di gruppi differenti, disuguali, e spesso conflittuali, così i testi più popolari esibiscono una struttura simile costruita su una molteplicità di voci e significati spesso in conflitto tra loro. La struttura del testo televisivo e il suo ruolo ideologico in una società capitalista possono provare duramente a risolvere le 102 Mikhail Mikhailovich Bakhtin, The Dialogic Imagination: Four Essays, Austin UT Press, Austin, 1981, pag. 273. 103 Ibidem. 104 John Fiske, Television Culture, Methuen, New York, 1987, pagg.15-16. 78 contraddizioni insite in sé ma, paradossalmente, la sua popolarità nella società dipende dal fallimento nel raggiungere questo fine105. Horace Newcomb e Paul M. Hirsch propongono un punto di vista simile nel saggio “Television as a Cultural Forum”, originariamente scritto alcuni anni prima del libro di Fiske. I conflitti che vediamo in televisione, incardinati in una cornice familiare e non pericolosa, sono conflitti che si sviluppano nell’esperienza sociale Americana e nella sua storia culturale. In alcuni casi si possono vedere forti prospettive che danno ragione ad un punto di vista o all’altro. Ma la maggior parte della retorica televisiva è sulla discussione…. Vediamo affermazioni su problemi e dovrebbe essere chiaro che la posizione ideologica può essere bilanciata nel forum da altri con differenti prospettive.106 Se la maggior parte dei testi la maggior parte delle volte semplicemente riproducono l’ideologia dominante, allora perchè studiare la tv o qualsiasi forma di cultura popolare? La nostra insistenza nel conoscere la natura polisemica e contraddittoria di molti episodi di Star Trek celebra non Star Trek stesso ma il meglio degli studi sulla cultura popolare. La nostra insistenza su un determinato modo specifico di un medium nel creare significati in un testo è sempre nell’ottica di questa celebrazione. Come suggerito precedentemente, uno show televisivo con un cast corale ricrea la narrazione pluralistica alla maniera di tanti racconti. Ella Taylor evidenzia questo punto in relazione al The Mary Tyler Moore Show. Anche se Mary è la start, lo show della MTM non ha una prospettiva singola. Lavora in un gruppo …. E se il gruppo, lavorativo-familiare, è di primaria importanza, così lo sono i singoli membri. Più che in I Love Lucy o The Dick Van Dyke Show, l’attenzione dello spettatore e la sua simpatia sono spostate da un personaggio ad un altro. La narrazione è meno lineare e la decentrazione dei personaggi crea un mondo 105 Ivi, pag.90. Horace Newcomb, Paul M.Hirsch, Television as a Cultural Forum, in Horace Newcomb (a cura di), Television: The Critical View (Sixth Edition), Oxford University Press, Oxford, 2000, pag.566. 106 79 maggiormente relativistico e dove è meno chiara la linea tra bene e male107. Il cast corale presente in sit-com ambientate nel posto di lavoro o nei drama rappresenta un buon mezzo per la polisemia, con i personaggi inizialmente costruiti attorno ad una serie fatta di opposizioni binarie che aiutano l’iniziale sviluppo del plot. Ad esempio, in Frasier, afferma Jonathan Bignell, “L’eleganza e la relativa giovinezza di Fraisier e di suo fratello Nile sono in contrasto cone la rozzezza e vecchiaia del padre…”108. Un cast vario e diversificato è stato il marchio di fabbrica di Star Trek sin dalla serie originale, con una opposizione demografica maschile-femminile, gioventù e maturità, umano e non-umano, e, come sottolineano molti studiosi che hanno scritto dell’ideologia della serie, bianco e non bianco. Opposizioni emotive contribuiscono anche alla costruzione dei personaggi: la logica fredda di Spock contro la calda compassione di McCoy; la riservatezza di Picard contro il fascino di Riker; la razionalità di Data contro l’irruenza di Worf, l’integrità di Odo contro la mancanza di scrupoli di Quark. Tali contrasti non sono unici dell’ambito televisivo; personaggi letterati, teatrali e cinematografici sono spesso costruiti attorno ad una opposizione binaria. Ma la costruzione di questi personaggi e le loro opposizioni binarie sviluppate lungo una serie di episodi piuttosto che in un testo unico è una caratteristica della televisione in opposizione al cinema, eccetto per occasionali forme seriali dello stesso. Questa struttura narrativa porta con sé, potremmo dire, innumerevoli opportunità di eteroglossia. I film che possiamo definire “hyper-link”, quelli con caratteri e linee narrative multiple, alcune che si intersecano altre che scorrono parallele, esibiscono quella che Fiske chiama “molteplicità strutturata di voci e significati spesso in conflitto tra loro”. Questa molteplicità di voci e significati può essere usata per una critica ideologica, come in Crash (Paul Haggis, 2004) o Syriana (Stephen Gaghan, 2005), ma rischia una stereotipazione dei personaggi e una confusione nello spettatore. Come afferma il critico di «Village Voice» Jim Hoberman riguardo Syriana, “Ci sono troppi punti di vista e troppo poco tempo per sviluppare pienamente le caratterizzazioni dei personaggi chiave”109. Syriana ci offre una stanca spia di 107 Ella Taylor, Prime Time Families, University of California Press, Berkeley, Los Angeles e Londra, 1989, pag.126. 108 Jonathan Bignell, An Introduction to Television Studies, Routledge, London, 2004, pag. 92. 109 Jim Hoberman, Spy Game Traffic writer's slick oil thriller oozes with intrigue but crams too much into its drum, in «The Village Voice», 15/11/2005, http://www.villagevoice.com/2005-11-15/film/spygame/ 80 mezza età (George Clooney), un giovane e affidabile uomo d’affari (Matt Damon), il leader liberal di un paese del terzo mondo (Alexander Siddig, a.k.a Julian Bashir in DS9), un viscido e malefico avvocato di una corporation (Christopher Plummer) e un cast di supporto di nomi meno conosciuti e che interpretano personaggi stereotipati. Data la complessità e la confusione nella trama, la presenza di tutto questo star system serve ad orientare il pubblico narrativamente. Ma, allo stesso tempo, lo star system inevitabilmente spinge attori ben conosciuti in ruoli che maggiormente possono avvalersi dell’eteroglossia. Una serie televisiva ha abbastanza spazio narrativo per approfondire tutti i personaggi; dopo alcuni episodi, anche i membri di cast corali (come ad esempio Lost o Heroes) divengono familiari, rendendo più facile agli sceneggiatori la loro caratterizzazione e sviluppo e lo spettatore competente in grado di seguire la loro evoluzione. La familiarità rende anche lo spettatore in grado di accettare con maggiore facilità anche i personaggi meno gradevoli; Quark può essere senza scrupoli ma dopo una stagione o due vi siamo comunque affezionati. Si può affermare che i cast corali delle serie offrano uno dei modi maggiormente validi di coinvolgere la sfera affettiva del pubblico. Si può esplicare questo punto analizzando due episodi di Star Trek, l’episodio della seconda stagione “A Private Little War” della serie originale e quello della terza stagione di TNG “The High Ground”. “A Private Little War” è uno degli episodi che trattano direttamente di problemi di politica contemporanea: lo scontro Federazione/Klingon è una poco celata metafora della Guerra del Vietnam110. Nell’episodio, Kirk ritorna su un pianeta primitivo che aveva visitato tredici anni prima all’inizio della sua carriera. Scopre il conflitto tra gli abitanti del pianeta, quelli del villaggio e quelli delle colline, i primi armati di moschetti dati loro dai Klingons. I Klingons hanno disturbato un giardino dell’Eden il quale, afferma Kirk, avrebbe potuto divenire una importante cultura civilizzata se non fosse stato per la loro intrusione. questo è un ovvio riferimento all’egemonico intervento statunitense in Vietnam: gli americani non si sono immischiati in una guerra civile ma sono andati a combattere i Comunisti fuori dai loro confini per ristabilire la stabilità. 110 Per approfondire il tema della Guerra Fredda in TOS vedi R.Worland, From the New Frontier to the Final Frontier: Star Trek From Kennedy To Gorbachev, in «Film & History», Vol. XXIV, N.1-2, 1994; nello stesso numero è possibile anche approfondire il tema del Vietnam e della “piccola guerra privata”. 81 Kirk decide di riequilibrare la bilancia del potere dando alla popolazione delle colline le proprie armi, una strategia chiaramente legata alla pratica di mutua distruzione operata in tempi di Guerra Fredda. McCoy contesta questa decisione con veemenza. Lo scambio tra i due personaggi illustra il potenziale di eteroglossia della televisione, il dottore umanista contro il capitano pragmatico. K: Dobbiamo rendere pari i due schieramenti. M: Stai condannando l’intero pianeta ad una guerra che potrebbe non finire mai. K: Ti ricordi nel 20th Secolo la guerra nel continente asiatico? Due grandi poteri, non differenti da noi e i Klingon. Nessuno dei due voleva arrendersi. M: Lo ricordo bene. È durata anni sanguinosi. K: E che cosa avresti fatto? Armato una fazione amica con una arma potentissima? La razza umana non sarebbe sopravvissuta tanto da viaggiare nello spazio. No, l’unica soluzione è quella che si è realizzata. Un bilanciamento del potere. Il gioco più sporco ma l’unico che consente la sopravvivenza di entrambe le parti. Nello specificio, questo è un esempio di dialogismo più che di eteroglossia. L’argomento del bilanciamento di potere da parte del capitano è almeno una soluzione mentre McCoy, non avendone una, si può solo lamentare. L’inclusione del freddo e razionale Spock, costretto in infermieria all’inizio dell’episodio a causa di uno sparo dal villaggio, avrebbe potuto portare ad uno scambio eteroglosso. Ci si può domandare se gli sceneggiatori lo mettano da parte deliberatamente per semplificare lo scambio di parole dal punto di vista testuale. Ma anche il capitano sembra avere delle riserve quando alla fine dell’episodio ordina a Scotty di preparare un centinaio di pistole. Come osserva Chris Gregory, questo è uno dei pochi momenti in cui la moralità di Kirk viene messa in dubbio111. “A Private Little War” offre un grado limitato di polisemia, senza dubbio contenuto dal clima politica contemporaneo nel quale il movimento contro la guerra doveva ancora affermarsi tra politici e pubblico. 111 Chris Gregory, Star Trek. Parallel Narratives, Palgrave, Basingstoke, Hampshire, 2000 pag. 166. Come sottolinea Gregory (pag.169), Star Trek continua questo dibattito nel primo episodio di TNG, “Too Short a Season”, nel quale l’ammiraglio Jameson – somigliante a Kirk – ha escogitato una soluzione simile su un altro pianeta che ha causato una Guerra sanguinosa durata mezzo secolo. L’eteroglossia di Star Trek non accade in un solo episodio ma tra episodi e anche tra serie diverse. 82 “The High Ground” è veramente eteroglosso nella sua esplorazione della moralità del terrorismo, con gli sceneggiatori che trattano un problema non vitale nell’agenda politica, forse con meno restrizioni che per la loro controparte in TOS. Nell’episodio, l’Enterprise deve portare delle scorte mediche su Rutia 4, un pianeta devastato dal conflitto tra Rutiani e Ansata. Gli Ansata attaccano in continuazione la popolazione Rutiana per persuadere il governo a dar loro il controllo della parte occidentale del continente che rivendicano come loro diritto. Cercando di coinvolgere la Federazione nel loro conflitto, i “terroristi” e il loro leader Finn, prima rapiscono il dottor Crusher e poi Picard, cercando di far saltare in aria l’Enterprise. Alla fine dell’episodio, il comandante Riker e il capo dei servizi di sicurezza Rutiani, Alexana Devos, salvano le persone in pericolo. Finn, ancora sperando nell’intervento della Federazione, minaccia di uccidere Picard e Alexana lo uccide. In “Domesticating Terrorism: A Neocolonial Economy of Différance” Kent A. Ono afferma che TNG in generale e “The High Ground” in particolare, riproducono l’egemonia dominante senza preoccupazioni. Questa affermazione, come molte delle analisi ideologiche su Star Trek, ignora la complessità testuale in favore di una consistenza teoretica, ignorando la contestazione dell’egemonia che avviene anche nei mondi finzionali. TNG, in quanto testo neo-coloniale, ricorda e dimentica la resistenza, la protesta e l’oppressione. Con i progessi scientifici come il Talos, aderisce fedelmente alla razionalità tecnologica, alla coscienza nazionalistica, e all’autorità militare come mezzo per raggiungere il bene. TNG afferma che tutte le persone sono uguali - ma solo sulla Enterprise, dove i membri dell’equipaggio piantano e fertilizzano una ideologia logica perfetta. Altrove, la supremazia della logica della Federazione deve essere continuamente insegnata……La televisione riproduce paternalisticamente la narrativa neo-coloniale per sostenere il potere ed assicurare che tutto vada bene, anche quando le esigenze sociali e politiche esterne abbondano112. Ono inizia con la decostruzione dell’episodio dall’inizio, con l’apertura del capitano. La Enterprise è diretta su Rutia 4 per consegnare delle scorte mediche a seguito di una violenta protesta. Anche se non allineato, il pianeta ha goduto di una lunga relazione di scambi con la 112 Kent A.Ono, Domesticating Terrorism: A Neocolonial Economy of Différance, in Taylor Harrison, Sarah Projansky, Kent A.Ono, e Elyce R.Helford, Enterprise Zones: Critical Positions on Star Trek, Westview Press, Boulder, Colorado, 1996, pag.159. 83 Federazione. Ora, una generazione di pace è terminata con l’attacco dei separatisti Ansata che domandano autonomia e autodeterminazione per la loro terra. Ono afferma che “anche se il fatto di trasportare medicinali può apparire un atto neutrale in relazione ad una nazione non allineata, la posizione ideologica di Picard non lo è. Picard autorizza una specifica versione delle relazioni storiche anche mentre pronuncia la sua frase di apertura”113. Per Ono, Picard agisce in tutto l’episodio, e per tutta la serie, come il portavoce del patriarcato e dell’imperialismo della Federazione (e dell’America), cioè di chi impone la monoglossia. Picard è “il timone del Patriarcato…al centro della voce autoritaria della televisione…”114. Questa lettura ignora l’eteroglossia potenziale di un cast corale; Picard deve essere l’eroe e il centro morale di tutta la serie, ma non tutti gli episodi lo vedono in questo ruolo. In “The High Ground” Picard non è l’eroe (non ce n’è uno, è questo il punto). Il suo risentimento al rapimento del dottor Crusher da parte degli Ansata, e il trattamento che viene riservato alla sua nave spaziale, chiaramente influiscono sul suo giudizio. Gli scambi tra Picard e il suo equipaggio, alla luce della conoscenza dello spettatore compente della costruzione dei personaggi (i tratti psicologici, le interazioni con gli altri, la biografia), minano la sua autorità. Gli scambi tra gli altri personaggi, in particolare Crusher/Finn e Riker/Alexana, aggiungono un coro di eteroglossia in cui alcune voci sfidano ed altre supportano la reazione alla violenta tattica irrazionale ed ingiustificata dei terroristi. Il seguente dialogo tra Picard e Data evidenzia il problema centrale: la violenza è mai giustificata per fini politici? D. Signore, trovo difficoltoso comprendere molti aspetti della condotta degli Ansata. Molti dei loro comportamenti possono essere definiti dal mio programma come non necessari e inaccettabili. P. Anche dal mio programma, Data. D. Ma se è così, Capitano, perchè i loro metodi hanno successo? Ho analizzato la storia delle ribellioni armate e sembra che il terrorismo sia un modo efficace di promuovere i cambiamenti politici. P. Si, può essere, ma non ho mai accettato la teoria che il potere politico debba passare attraverso le armi. 113 114 Ivi, pag.162. Ivi, pag.170. 84 D. Ma comunque ci sono numerosi esempi di successo: l’indipendenza del Messico dalla Spagna, l’unificazione dell’Irlanda nel 2024, la rivoluzione Kensey. P. Si, lo so. D. Allora sarebbe corretto affermare che il terrorismo è accettabile quando tutti i tentativi di una risoluzione pacifica falliscono? P. Data, questi sono i dubbi con i quali la razza umana lotta in tutta la sua storia. La tua confusione è solo umana. Ono afferma che Picard si limita ad evitare la difficile domanda di Data. “Picard, con la sua caratteristica frustazione per l’ossessione di Data con la razionalità, liquida questa logica potenzialmente pericolosa ricordando il suo stato di “umano”. Picard si aggiudica la razionalità”115. Anche uno spettatore non competente potrebbe discutere sull’interpretazione di Ono in questo scambio. L’affermazione che “questi sono i dubbi con i quali la razza umana lotta in tutta la sua storia” difficilmente rappresenta una chiusura alla questione. Uno spettatore competente potrebbe interpretare lo scambio alla luce delle caratteristiche dei personaggi e della loro relazione. Ono ha ragione nell’affermare che Picard ha precedentemente espresso la sua “frustrazione con l’ossesione di Data per la razionalità”, anche se questa frustrazione viene spesso virata in chiave comica. Ma il ricordare a Data il suo status onorario di umano può essere visto come una velata minaccia. È Picard che, nel classico episodio della seconda stagione “Measure of a Man”, porta Starfleet davanti alla corte per stabilire lo status umano di Data, o almeno la sua condizione legale di essere libero e senziente. Uno spettatore competente sa che anche se Picard trova la logica di Data frustrante, è a lui che Data guarda come suo tutor dell’umanità. In questo contesto, il ricordare a Data il suo status onorario non è un avviso contro ma piuttosto una affermazione del potenziale distruttivo della logica. Ono afferma che Picard sopprime la “logica pericolosa per la narrazione” nel suo dialogo con il Dr. Crusher. Quando Picard è catturato e imprigionato con Crusher, lei si scusa per il suo rifiuto ad abbandonare le vittime di un attacco Ansata portandole sulla nave, rifiuto che causa poi la sua cattura. C. Mi dispiace. Se solo fossi tornata sulla nave. P. Ti avrei dovuto teletrasportare. 115 Ivi, pag.166. 85 C. Non avresti osato. P. Oh si, avrei osato ed avrei dovuto. C. Senza il mio permesso? P. Se non segui gli ordini. C. Se dessi degli ordini ragionevoli obbedirei. P. Dottore, io sono il giudice di ciò che è ragionevole. Estrapolata dal contesto, l’ultima frase di Picard, come afferma Ono, potrebbe essere interpretata come la razionalità maschile contro l’irrazionalità femminile. La frase prende un diverso significato nel contesto della precedente costruzione dei due personaggi: i loro tratti psicologici (Crusher ha un temperamento fiero; Picard ha difficoltà ad esprimere le sue emozioni); biografie (Crusher, la migliore amica della defunta moglie di Picard, lo conosce prima del suo ruolo sull’Enterprise) e interazione tra loro (la tensione sessuale emerge nel rapporto Picard/Crusher sin dalla prima stagione). Una scena precedente dell’episodio fa riferimento al legendario carattere di Crusher. Picard, pensando se richiamare Crusher sull’Enterprise, guarda Riker, che afferma, “Io non vorrei essere nella stanza del teletrasporto per salutarla”. Picard non la richiama, presumibilmente perchè non vuole affrontare la sua rabbia. Kent Ono potrà anche vedere il dottore come una docile femmina assoggettata al volere patriarcale ma non Jean-Luc Picard. Per lo spettatore competente la disputa su “Non avresti osato - Oh si, avrei osato” riproduce soprattutto uno scambio tra vecchi amici o una lite tra amanti. In questa ottica, l’uso da parte di Picard del titolo ufficiale di Crusher ed il suo “sono il giudice” sembrano più l’affermazione di un uomo frustrato piuttosto che l’affermazione della catena del comando, una interpretazione che si dimostra valida grazie alla recitazione di Patrick Stewart. Dopo aver proclamato di essere il giudice di ciò che è ragionevole, Picard si guarda intorno nella camera che li tiene prigionieri, chiaramente realizzando la stupidità di una tale affermazione in tale situazione. Il sottotesto personale nella scena successiva tra i due, in retrospettiva legittimizza la nostra lettura. Picard, pensando ad un piano di fuga, chiede a Beverly se ha guadagnato la fiducia di Finn. Lei mostra i suoi ritratti che lui ha realizzato. Picard afferma: “Hai la sua fiducia ed anche di più. Questo potrebbe essere un vantaggio per noi”. La traccia di romanticismo sembra ricordare a Crusher la problematica relazione che ha con Picard poichè, invece di 86 discutere del piano di fuga, dice: “Jean-Luc, ci sono alcune cose che dovrei dirti nel caso non riuscissimo ad uscire da qui”. Per lo scontento degli shippers di P/C, il salvataggio arriva prima che lei possa dir nulla. La relazione privilegiata di Crusher con Picard, le consente di mettere in discussione la sua autorità, come fa respingendo l’egemonica etichettatura di Finn e gli Ansata come autori di violenza irrazionale. Crusher dice a Picard che il trasferitore inter-dimensionale degli Ansata sta distruggendo il loro DNA e li sta lentamente uccidendo. P. Sono pazzi. C. Non lo so più. La differenza tra un uomo pazzo e un uomo disposto a morire per la sua causa è diventata sempre più sfocata in questi ultimi giorni. P. Beverly, non devo ricordarti l’impatto psicologico di essere un ostaggio. C. Lo so. Lo capisco. Ma il loro leader, Finn, non è quello che credi. P. No, certo. Senza causa o ragione, Finn e la sua piccola banda di fuorilegge hanno attaccato la mia nave. C. Ma aveva delle ragioni - le scorte mediche, i prigionieri. Se esaminiamo veramente il nostro ruolo… P. Beverly, stai difendendo un uomo che potrebbe aver ucciso tuo figlio. L’analisi di Ono omette le due frasi in cui Crusher, affermando che Finn è razionale e che tutti abbiamo le nostre colpe, mette in discussione non solo l’autorità di Picard ma anche quella di tutta la Federazione. Siamo d’accordo con Ono sul fatto che Picard cerchi di chiudere la discussione in maniera brusca, ma suggeriamo anche che questa durezza, in contrasto con la sua usuale sensibilità, riflette la sua visione di parte della situazione. Il dialogo di Crusher con il leader degli Ansata aggiunge una altra voce all’eteroglossia dell’episodio, con Finn mettendo davanti alla Federazione - e implicitamente agli Stati Uniti una questione morale. C. Come può essere così non curante di fronte all’omicidio? F. Io prendo i miei omicidi molto seriamente, Dottore. Lei è un idealista. C. Io vivo in una cultura ideale. Non c’è bisogno della violenza; lo abbiamo provato. 87 F. Sulle sue origini sulla Terra sono nel continente Americano, vero? C. Nord America F. Si, ho letto i vostri libri di storia. Questa è una guerra di indipendenza, ed io non sono differente dal vostro George Washington. C. Washington era un Generale dell’Esercito, non un terrorista. F. La differenza tra generali e terroristi, Dottore, è solo la differenza tra vincenti e perdenti. Vinci e vieni chiamato generale, perdi..... C. State uccidendo persone innocenti. Non riesci a vedere l’immoralità di ciò che fate, o avete ucciso così tanto che siete divenuti ciechi? F. Quanto sangue innocente avete versato nella storia della vostra Federazione? Quante nobili e buone società avete bombardato in guerra, distrutte intere città, e ora godete del comfort che ne è derivato, e vi scandalizzate della nostra immoralità. Io sono disposto a morire per la mia libertà, Dottore. E nella più grande tradizione della vostra civiltà, sono anche disposto ad uccidere per essa. La familiarità dello spettatore con Crusher può far prendere le sue parti e quelle della Federazione contro Finn, ma lo script lavora per rendere il leader Ansata al peggio ambiguo e al meglio un personaggio empatico. Picard e Alexana lo caratterizzano semplicemente come un terrorista, ma la conversazione con Crusher rivela aspetti positivi e le sue motivazioni. Finn appare all’inizio dopo la cattura di Crusher, offrendole del cibo. Essa rimane silenziosa e rifuta. Finn va via dichiarando “Non mi importa. Vuoi rimanere affamata, resta affamata”. Nella scena successiva ancora lui le offre del cibo. Crusher mantiene il suo silenzio e afferma “Questo non è il modo migliore per farsi nuovi amici?” La scuote “perchè non mangiare? Ti sembra che mi importi? Ok, mi importa”. Le porge il piatto e le dice “avanti”. Questa volta lei accetta. Quando lei in maniera apprensiva dice di avere un figlio che rischia di restare orfano, lui la assicura dicendole che lo vedrà ancora. “Non vedo ragioni per ucciderti”. Una affermazione che contraddice direttamente la visione irrazionale che hanno di lui Picard e Alexana. Più tardi, lui le mostra dei disegni che le ha fatto. Alla fine di una concitata conversazione nella quale lei lo accusa di controllare tutti con la paura, lui le regala il blocco dei disegni come offerta di pace, dicendole che non vuole essere temuto da lei. Gli sceneggiatori non ci fanno dimenticare che Finn è perfettamente capace di uccidere Crusher, Picard e l’intera 88 Enterprise per la sua causa perchè facendo altrimenti verrebbe sacrificata la tensione narrativa. Ma per aumentare questa tensione, il personaggio viene costruito come affascinante e attraente che dimostra preoccupazione per Crusher e i suoi colleghi che stanno per morire. Inoltre, al personaggio vengono date motivazioni razionali ed irrazionali per le sue azioni violente. Vuole far esplodere l’Enterprise perchè “abbiamo urlato per settanta anni e nessuno ci ha ascoltato. Distruggi una astronave della Federazione e qualcuno ti ascolterà”. In più, rivela a Crusher che aveva un figlio di tredici anni morto in prigione. Figli morti o in pericolo legano Crusher e Finn ad Alexana, il capo della sicurezza dei Rutiani, le cui preoccupazioni per l’assassinio di innocenti motivano la sua tattica repressiva. Le sue conversazioni con Riker si contrappongono a quelle di Finn con Crusher; le sue argomentazioni della visione egemonica del terrorismo bilanciano le contestazioni di Finn riguardo questa stessa egemonia, e rivela gradualmente quei sentimenti personali che la umanizzano, anche se, potremmo dire, non tanto quanto il leader Ansata. Di contro, essendo Finn umanizzato fin dall’inizio, Alexana appare con una inflessibile ideologia. In un incontro tra Picard e Riker appena dopo il rapimento di Crusher, afferma che “queste non sono persone: sono animali, fanatici che uccidono senza rimorsi e coscienza, che non pensano ad altro che ad uccidere persone innocenti”. Quando Picard si domanda come mai abbiano catturato Crusher invece che ucciderla, Alexana risponde “non chiedermi di spiegarlo. Non posso”. Nella scena successiva, essa dice a Riker che prima di divenire capo della sicurezza si considerava una moderata. Lui le domanda cosa le ha fatto cambiare idea. Essa afferma: “L’evento che ha aperto veramente i miei occhi è accaduto poco dopo il mio arrivo. Una bomba dei terroristi aveva distrutto uno shuttle bus. Sessanta bambini. Nessun sopravvissuto. Gli Ansata affermarono che si era trattao di un errore. Il loro target era un trasporto di polizia. Come se questo risolvesse tutto. Quel giorno ho giurato che avrei messo fine al terrorismo in questa città e lo farò”. In una successiva scena nella piazza centrale, Riker e Alexana guardano la sicurezza radunare i sospetti tra gli Ansata. Alexana dice a Riker che il suo predecessore morto assassinato aveva agito anche con più repressione. “I sospetti sarebbero stati portati al quartier generale e sarebbero svaniti. Io ho messo fine a questo”. L’inflessibile ideologia, viene fuori, ha riguardo dei diritti umani. Anche lei, come Finn, ha delle buone ragioni per le sue azioni. Vedendo un giovane arrestato, Riker domanda “Mi vuoi dire che quel bambino è una minaccia?”. Lei risponde che è stato un giovane a far saltare in aria il bus. “In un mondo in 89 cui i bambini fanno esplodere altri bambini, tutti sono una minaccia”. La sua penultima scena rivela che, a suo modo, è una vittima quanto Finn. Dice a Riker “vorrei andare a casa, nel mio paese, e lasciarmi alle spalle le ronde, gli interrogatori, i corpi nelle strade, vorrei camminare senza guardie del corpo. Ecco cosa voglio”. L’episodio termina con un accordo irrisolto, comunque nella linea dell’umanesimo che guida la serie, piuttosto che, come implica Ono, imponendo una monoglossia nel coro della eteroglossia. Dopo che Alexana uccide Finn, un giovane, con il quale Beverly aveva legato, punta un phaser contro Alexana. Beverly dice “basta uccidere”. Dopo un momento di tensione, abbassa la sua arma. Alexana legge questa azione nella sua prospettiva egemonica. “Già un altro pronto a prendere il suo posto”. Riker replica “Poteva ucciderti. Non lo ha fatto. Forse la fine inizia con un ragazzo che mette giù la sua arma”. Ono afferma che “alla fine dell’episodio lo spettatore ideale ha dimenticato la morte di Finn e il sistema colonialista che ne è responsabile”116. Le differenze sono state articolate ed eliminate. Possiamo affermare che lo spettatore, specialmente lo spettatore competente della serie, è passato, come Data, a ponderare la moralità e l’efficacia del terrorismo. Speculazioni sugli spettatori a parte, è dimostrabile il caso in cui il vecchio potere colonialista non pensa che un episodio sulla riunificazione irlandese del 2024 possa eliminare le differenze. La BBC riferisce che a causa di quello che senza dubbio alcune persone possono considerare un argomento sensibile, l’episodio non è mai stato trasmesso dalla tv terrestre, in Gran Bretagna o nella Repubblica Irlandese e la messa in onda su Sky One era stata rimontata. Ma venne mostrato al Belfast Cathedral Quarter Arts Festival nel 2007. Sean Kelly, direttore del Festival, disse che “molte persone vedranno il lato buffo del potere che decide di censurare un episodio di una famosa serie fantascientifica a causa degli avvenimenti politici del tempo”117. Tornando a parlare di spettatori, ci domandiamo se queste persone, specialmente quelle sensibili all’argomento, hanno apprezzato l’esplorazione del lato morale del terrorismo in “The High Ground.” 116 Ivi, pag.174. Johnny Caldwell, Star Trek Predicts a United Ireland, «BBC News», 14/04/2007, http://news.bbc.co.uk/2/hi/uk_news/northern_ireland/6553307.stm 117 90 Farscape, Incidenti e Territori Inesplorati di J.P.Telotte Farscape è una serie televisiva che trova la sua centralità narrativa e gran parte del suo status di cult in quello che può essere descritto come un incidente. La storia è quella dell’astronauta John Crichton che viene risucchiato in un tunnel spaziale e si trova, come annuncia all’inizio di ogni episodio (con piccole variazioni nel corso delle quattro stagioni) “perso in qualche parte distante dello spazio, in una nave, una nave vivente, piena di strane creature aliene”. Si tratta di una situazione interessante, che può offrire infinite possibilità per ogni sorta di avventure, scoperte, incontri drammatici che caratterizzano la fantascienza più tipica, ma invoca anche un forte desiderio di comunicazione ed interazione mentre afferma “c’è nessuno che riesce a sentirmi?” e “Aiuto?”. Al tempo stesso, questa circostanza apre nuovi modelli di auto-conoscenza per incontri con un sè improvvisamente sconosciuto. Crichton, a differenza di molti eroi della sci-fi, si trova ad essere lui la creatura aliena, un senza-casa che deve costantemente cercare un posto dove vivere in ciò che lui definisce “territori inesplorati” dell’universo, anche quando ha una piccola speranza di poter rovesciare il corso degli eventi; così, il suo lamento continuo è quello di “dover cercare una strada per tornare a casa”. È certo che gli incidenti siano parte integrante per la creazione di un prodotto cult, in televisione come in ogni altro medium. Come la storia insegna, i testi cult non sono semplicemente progettati seguendo una determinate formula generica. Piuttosto, un elemento casuale, un incidente, un accadimento non previsto, legano il testo all’audience. Nel caso di una serie televisiva e del suo pubblico, può essere semplicemente lo spingere un bottone sbagliato, per far approdare lo spettatore - un po’ come Crichton - su un canale inaspettato dove si incontrano forme di vita impreviste ma affascinanti. Forse l’accidente è nel trovarsi casualmente immerso in una narrativa semplice ma di intrattenimento, una distrazione dal quotidiano, solo per sentire una voce che parla allo spettatore con una eloquenza straordinaria o in un tono riconoscibile, confermando che esiste qualcosa “fuori di qui”. Oppure può essere una singola scena, dialogo o immagine che evoca una bella sensazione, un segnale incidentale, anche se solo momentaneo, quello che possiamo definire “ritorno a casa”. Quello che vorrei suggerire - e che credo di aver anticipato in apertura - è che un prodotto come Farscape ha sin dalla sua origine una fortuita congruenza tra le caratteristiche classiche di un cult e la sua narrativa. Certamente, e paradossalmente, la sua convenzionalità porta a un 91 potenziale non convenzionale: insomma, il tipo di situazione casuale che porta alla creazione di un cult. Prendo in prestito questa idea del “cult per caso” - o della scoperta accidentale, la comunicazione accidentale e il percorso accidentale - dal lavoro di Paul Virilio. Parlando a proposito di incidenti che sembrano aumentare a causa della tecnologia moderna tecnologia e della cultura mediata, afferma che si continua sempre ad andare avanti senza pensare alle conseguenze della propria velocità (inclusi problemi con i tunnel spaziali), e si pensa che gli incidenti siano semplicemente inevitabili, spesso rielaborati e “ri-mediati” dai media in qualcosa di meno disturbante. Ma afferma anche che c’è sempre un importante aspetto economico, una ricompensa che accompagna ogni fallimento o, in caso di una serie tv che non riesce a raggiungere il pieno successo, una connessione con una audience cult. Virilio evidenzia che “l’incidente è positivo” perchè “rivela qualcosa di importante che altrimenti non saremmo riusciti a percepire”, infatti, “qualcosa di assolutamente necessario alla conoscenza”118, forse addirittura alla sopravvivenza. Comunque, la ricompensa differisce da incidente a incidente. Se un incidente industriale, se debitamente compreso, può aiutarci ad evitare una catastrofe futura, può aiutarci a non ripetere lo stesso errore, un incidente estetico come una serie tv o un film può portarci a ripetere la stessa esperienza che è quella di impegnarci in un comportamento legato al prodotto cult per soddisfare un bisogno. Potrebbe anche aiutarci, come Crichton, a trovare la nostra strada in “territori inesplorati” della vita e così scoprire una “via per casa” - la quale, direi, è la vera ricompensa dell’esperienza cult. Quello che voglio analizzare qui, per aiutarci a comprendere meglio la nozione di cult, è come la serie Farscape evochi in maniera vantaggiosa questo senso di incidentalità. Infatti, in un certo senso, è un prodotto molto convenzionale, che richiama genericamente la tradizione popolare della space opera la quale, con locations interplanetarie, figure eroiche, azioni avventurose, e situazioni melodrammatiche, domina la prima e meno sofisticata epoca della sci-fi televisiva degli anni Cinquanta, rappresentata da shows come Captain Video (1949-55), Space Patrol (1950-55), e Tom Corbet, Space Cadet (1950-55)119. Questa formula, ulteriormente sviluppata ed esplorata da serie come Star Trek (1966-69), Blake’s 7 (1978-81), e Buck Rogers in the 25th Century (1979-81), è certamente divenuta familiare e quasi scontata. 118 Paul Virilio e Silvère Lotringer, “The Accident of Art”, in «Semiotext(e)», New York, 2005, pag.63. 119 Per una dettagliata discussione della space opera nella televisione di questi anni cfr. Wheeler W.Dixon, “Tomorrowland TV: The Space Opera and Early Science Fiction Television”, in Jay P.Telotte (a cura di), The Essential Science Fiction Reader, UP Kentucky, Lexington, 2008, pagg.93110. 92 Comunque, Farscape ha anche molto di originale e imprevedibile, come a cercare di ribaltare le aspettative date dal suo aspetto di partenza. L’utilizzo delle creazioni di Jim Henson (in particolare Dominar Rygel XVI e Pilot); l’elaborato mix di effetti digitali e sofisticati modelli reali; la creazione di una “nave spaziale vivente”, Moya, come un personaggio centrale (che, nella prima stagione, resta addirittura incinta e da vita a una navetta da guerra senziente); il ricorrente focus sulle pratiche sessuali aliene, specialmente nei personaggi di D’Argo e Chiana; l’enfasi, quasi dominante, dei personaggi femminili, come la Pacificatrice Aeryn Sun; l’inversione di tante caratteristiche tipiche della sci-fi, come l’umano che si trova solo rapprentante della sua specie divenendo, quindi, il vero alieno. Questi sono tutti elementi che segnalano come la serie sia differente dai canoni classici della space opera, oltre che da altre serie del genere. E anche se ognuna di queste novità potrebbe essere abbastanza per attirare una audience cult, nessuna di queste può spiegare il seguito di fans ottenuto dalla serie, tanto da essere proclamata il quarto “cult show ever”120 dalla popolare rivista «TV Guide». Almeno uno degli elementi accidentali, comunque, aiuta a comprendere l’ampio richiamo della serie e l’attribuzione dello status di cult. È ciò che precedentemente ho definito come “scoperta accidentale” che opera su livelli multipli e si muove in parallelo con la storia di John Crichton. Jes Battis racconta simpaticamente alcuni elementi di sorpresa descrivendo la sua scoperta della serie, in particolare attraverso spezzoni sparsi, che inizialmente gli avevano dato l’idea di uno show “confuso e particolarmente stupido”121. Eppure, gradualmente, lo show attira la sua attenzione o lo porta a realizzare che ciò che prima lo disturbava in Farscape è proprio ciò che più la serie presente come innovativo, cioè l’approccio alla narrazione a alla televisualità della sci-fi - l’enfasi su personaggi multipli, così come i punti di vista, che portano a tante linee di azione e di dialogo che si fondono lungo più episodi e archi narrativi, complessità che viene aprezzata dallo spettatore. Comunque, anche se lo smarrito astronauta - e unico umano - rappresenta lo spettatore nella narrativa, il suo punto di vista non è mai dominante, e il suo senso di ciò che è giusto o sbagliato, non si pone mai come unica regola. Piuttosto, lui come l’audience, è ripetutamente sorpreso dalle nuove informazioni, dalle scoperte che arrivano nello sviluppo narrativo. Il suo commento sull’equipaggio di Moya nell’episodio di apertura “Che cosa c’è di sbagliato in voi?”, preannuncia il suo concetto di “sbagliato” che verrà ulteriormente approfondito negli episodi seguenti: che è 120 «TV Guide» ha compilato questa lista nel 2004, poco dopo la cancellazione di Farscape. Che la serie sia ancora nella lista del 2007 suggerisce la sua importanza. 121 Jes Battis, Investigating Farscape: Uncharted Territories of Sex and Science Fiction, I.B. Tauris, London, 2007, pag.21. 93 molto turbato dalla diversità, troppo rapido nel giudicare questi “territori inesplorati”, troppo pronto a guardare le cose dal suo punto di vista umano, un punto di vista messo in serio dubbio man mano che la storia mostra la sua complessità. E certamente, la grande varietà di “strane forme aliene” che Crichton incontra su Moya e nel corso della sua avventura per tornare a casa, costantemente mette in evidenza queste differenze, al contempo sfidando i suo valori convenzionali. Per questo, gli incontri di Crichton con le nuove specie sono attraenti (come con Sebacean Aeryn o Interion Jool) o repellenti (ovviamente quello con Sebacean/Scarran), ma sfidano continuamente la sua identità. All’inizio dell’episodio “Out of Their Minds” (02x09), ad esempio, Moya assorbe una esplosione dalla navetta Halosian che spinge l’equipaggio, con loro sorpresa ed irritazione, a scambiare le personalità, così che la coscienza di Rygel e trasferita nel corpo di Crichton, quella di Aeryn in Rygel, quella di Crichton in Aeryn, quella di D’Argo in Pilot, quella di Pilot in Chiana e quella di Chiana in Dargo. Il risultato è che ognuno, per un periodo, è costretto a mettersi nei panni dell’altro, e di conseguenza, arrivare ad una migliore comprensione delle differenze. Un tema ancora più evidente in “My Three Crichtons” (02x10) nel quale un alieno produce due copie genetiche di Crichton, una con capacità mentali evolute e l’altra una versione preistorica con alte capacità sensoriali. Anche se i membri dell’equipaggio sono affascinati dall’una o dall’altra versione cosa che mette in dubbio Crichton sul suo reale inserimento nel gruppo - John deve ammettere che entrambe le versioni sono “ciò che è”. E quando è messo di fronte alla fredda logica della sua copia evoluta - disposta a sacrificare la sua versione preistorica o l’originale per salvare se stesso e la nave - si pone il problema dell’evoluzione genetica, come afferma D’Argo, che può significare l’evoluzione dell’umanità. È una preoccupazione che evidenzia il suo carattere, così come la volontà della copia preistorica di sacrificare se stesso per il bene comune, e che mette in risalto come gli esseri umani siano (o dovrebbero essere) emozionali, affettuosi, anche disposti a sacrificarsi per gli altri. Questi incontri casuali con gli alieni, anche con il sé alieno, e con le loro differenze, creano degli specchi per Crichton e il resto dell’equipaggio di Moya. In un precedente episodio dove c’è un’altra accidentale duplicazione di membri dell’equipaggio (un tema ricorrente), “Exodus from Genesis” (01x02), la sacerdotessa dei Delvian, Zhaan, vede Rygel dipengere un autoritratto e, incuriosita dall’immagine cruda che ha realizzato, domandava “è così che ti vedi?”. Più tardi, ridisegna il quadro con uno “spirit painting”, cioè un ritratto che cattura il vero spirito di una persona. In questo caso sottolinea la somiglianza tra Rygel e uno dei più popolari leader degli Hyneirian, il suo antenato Rygel il Grande. Più che una semplice 94 gentilezza, il lavoro di Zhaan esprime un ideale al quale Rygel dovrebbe puntare, che è poi in linea con l’ideologia della serie che punta a far evolvere i personaggi al meglio delle loro possibilità, dando loro l’occasione di crescere. Attraverso i loro incontri con le tante diversità, di altre specie o personaggi che hanno motivazioni diverse dalle loro, l’equipaggio di Moya - anche esso insieme per caso - è costantemente sfidato a riconsiderare la visione di loro stessi, come sono visti dagli altri, e come possono, in effetti, migliorare la propria immagine. Un altro punto chiave della visione cult della serie e del personaggio di Crichton è una persistente metareferenzialità ai media, poichè lo show fa riferimento a film, altre serie tv, eventi chiave della storia Americana, e un largo utilizzo di riferimenti alla cultura popolare, da Albert Einstein a Marilyn Monroe a Ronald Reagan. Creando questa ragnatela di riferimenti culturali, lo show stabilisce una linea di comunicazione con l’audience già saturata da questo tipo di materiale, offrendo una inusuale prospettiva - per una serie tv di sci-fi - sullo sviluppo del plot, un senso di “comunicazione incidentale”. In questa situazione, è come se fossimo improvvisamente proiettati in una nuova dimensione. Per fare un esempio, possiamo considerare l’episodio “Kansas” (04x12) dove Aeryn siede di fronte ad un televisore terrestre e, cercando di imparare l’alfabeto inglese, comincia a guardare Sesame Street, che è, ovviamente, popolato da pupazzi creati da Jim Henson, lo stesso creatore dei personaggi di Rygel e Pilot. E nella mini-serie che chiude la serie, The Peacekeeper Wars (2004), una sequenza onirica offre un omaggio quasi scena per scena di 2001: Odissea nello Spazio (1964) che serve non solo per portare nella serie un po’ della serietà del film ma, anche, per inserire la serie in quel filone della sci-fi che tratta dello sviluppo dell’umanità e dell’evoluzione (come notato in “My Three Crichtons”). Questi continui riferimenti sono una costante fonte di humor, aiutano a stabilire il tono misto dello show, e indicano l’importanza della pop culture anche in un contesto molto serio. Infatti, questi continui riferimenti metareferenziali creano un contesto per una più significativa linea di comunicazione che incontriamo anche nei peculiari dialoghi di Crichton. Solo per fare qualche esempio, si riferisce alla sua nemesi Scorpio come “Harvey”, citando il coniglio immaginario del film Harvey (1950); oppure quando si trova di fronte alla varietà di vita offerta da Moya, osserva: “Boy, was Spielberg ever wrong; Close Encounters my ass” (01x01); o, ancora, quando semina le sue conversazioni con riferimenti a Cameron Diaz, Yuri Gagarin, E.T.: L’Extraterrestre, Dr.Stranamore, Buffy the Vampire Slayer, Star Trek, Il Mago di Oz, e anche la poesia “Casey at the Bat”. Come suggerisce M. Keith Booker queste 95 continue allusioni servono a produrre “una sorta di drammatica ironia nello spettatore che può cogliere i riferimenti, mentre nessuno su Moya ha idea di cosa stia parlando”122. Comunque, anche se questa ironia e allusività dei dialoghi è un elemento ricorrente della serie e causa di parte della sua aura cult, non è solo per creare momenti lievi. Ciò che troviamo in questa continua riflessività dei dialoghi è un interessante elemento di analisi della comunicazione della serie e di Crichton stesso. Certamente nel mondo di Farscape l’atto comunicativo non è di per sé un problema, grazie alla presenza di “microbi traduttori” che consentono a specie diverse di parlare la stessa lingua, e che richiama lo sforzo fatto da altre serie tv per spiegare questa necessità narrativa, la più famosa delle quali è Doctor Who e l’utilizzo del Tardis come traduttore. Ma come dimostra Crichton, questa comunicazione è spesso ricca di errori ed incomprensioni, e solo parzialmente compresa, come spiegato drammaticamente in “Look at the Princess, Part I” (02x11) dove si trova costretto ad un matrimonio e destinato ad essere congelato per ottanta cicli semplicemente per un bacio. Su questo sfondo, i commenti di Crichton raggiungono una certa risonanza, poichè sembrano indirizzati a sé stesso e a noi. Infatti, l’impressione è di ascoltare per caso i pensieri di qualcun altro, mentre parla con se stesso per mantenere la propria sanità mentale, o che casualmente abbiamo percepito un messaggio spedito nell’etere e che solo noi possiamo comprendere. Con ciò, ricordando il suo “c’è nessuno qui che può sentirmi?”. Ascoltare Crichton, comprenderlo come nessun altro può nel suo strano ambiente, sapere, ad esempio, che quando immagina se e Scorpio prepararsi a combattere gli Scarrons come se fossero dei Crash Test Dummies di una pubblicità televisiva, e comprendere che ha poche speranze di sopravvivere, questo ci rende più di una tipica audience televisiva. Siamo invitati a condividere la complessa situazione in cui si trova Crichton mentre si trova a risolvere situazioni che sembrano impossibili. La sua avventura, che si svolge in questo strano universo, è ironicamente evocativa della nostra situazione culturale. La casuale scoperta che gli altri parlano la nostra stessa lingua, che condividiamo con essi alcune caratteristiche, diviene cruciale come una colla culturale che lega lo spettatore alla serie123. E comunque, l’elemento più importante nel percorso verso l’universo cult di Farscape è quello che ho definito il “percorso accidentale”. Nella sua analisi sui meccanismi dei film 122 M.Keith Booker, Science Fiction Television, Praeger, Westport, CT, 2004, pag.163. Bruce Kawin suggerisce che questa sorta di effetto sia la vera chiave della soddisfazione derivante dal prodotto cult. Come suggerisce “ciò che il testo sacro da ai suoi seguaci, e ciò per cui essi sono grati, è uno specchio. Dice qualcosa che essi riconoscono come verità, qualcosa che avevano bisogno di sentire e che doveva essere validata”. Bruce Kawin, After Midnight, in Jay P.Telotte (a cura di), The Cult Film Experience: Beyond All Reason, UP Texas, Austin, 1991, pag.24. 123 96 cult, Bruce Kawin descrive l’incontro con questi testi come qualcosa di casuale, un inavvertito incrocio di percorsi, come se una persona andasse in giro “dopo mezzanotte”, “cercando il film che mi sta cercando”124. Ciò che Farscape rappresenta è proprio questa “ricerca” ma su larga scala, letteralmente per tutto l’universo a causa di un utilizzo accidentale e ricercato dello spazio-tempo. Nella sua esplorazione come astronauta, Crichton è gettato in una parte sconosciuta dello spazio, alla quale si riferisce sempre come “territori inesplorati” e, come ho notato, di conseguenza cerca di sfruttare il tunnel spaziale per cercare una via per tornare a casa. Contemporaneamente, è costantemente cacciato - dal personaggio di Scorpio, dalle forze Pacificatrici, dall’impero di Scarran - da tutti coloro i quali vorrebbero usare la sua conoscenza del tunnel spaziale, incluso ciò che è stato impiantato dagli Anziani (una razza interdimensionale estremamente evoluta), per scopi militari, di distruzione o conquista. Di conseguenza, Crichton realizza che ciò che sa del tunnel spaziale rappresenta la sua unica speranza di tornare a casa e l’ostacolo principale alla realizzazione del suo obiettivo. È questa sorta di situazione paradossale che consente una tale complessità del plot, ma anche uno degli elementi principali per lo status di cult della serie e che consente di legare insieme le scelte difficili e le situazioni irrazionali che sembrano avere tanta importanza nel postmoderno, mentre presenta queste scelte e situazioni come una facile soluzione. Sono queste caratteristiche che Jan Johnson-Smith osserva mentre descrive ciò che trova più attraente nella serie, la sua tendenza a “rimuovere tutti gli eventi da ogni riflessione a lungo o corto termine, e rimpiazzarle con elementi più ampi e maggiormente contestualizzati”125. Ma il punto principale del concetto di tunnel spaziale in Farscape è molto seplice: l’incidente è il destino. O, come nota Crichton nell’episodio “Bad Timing” (04x22), “talvolta le cose non accadono come abbiamo immaginato”. Jes Battis sottolinea come ben presto nella serie, la “prima preoccupazione di Crichton sia semplicemente quella di tornare a casa. Ma nel tempo, le sue emozioni, così come l’aspetto etico e politico, si espandono considerevolmente”, e il suo sforzo si concentra su “tutte le domande riguardo la tecnologia, la mascolinità e la nazionalità” 126. La “tecnologia” dei tunnel spaziali diviene una metafora per varie tecnologie terrestri - razzi spaziali, il nucleare, perfino il motore a combustione interna - che nascono come strumenti di conoscenza, esplorazione e sviluppo per divenire poi 124 Ivi, pag.25. Jan Johnson-Smith, American Science Fiction TV: Star Trek, Stargate, and Beyond, Wesleyan UP, Middletown, CT, 2005, pagg.165-66. 126 Jes Battis, op.cit., pag.3. 125 97 pericoli e strumenti di distruzione che dobbiamo negoziare culturalmente per poterli accettare in situazioni non previste. Questa idea è anche quella dello show che legittima il punto di vista di Crichton, che ci trasporta costantemente dove non avremmo mai immaginato, nei nostri “territori sconosciuti”, o almeno quelli che i network preferiscono non esplorare. Oltre a suggerire una ideologia spesso attribuita a Farscape, l’idea dell’evoluzione consente anche un differente punto di vista della direzione umana individuale, evidenziando come raramente la vita segua un percorso chiaro e lineare, e sia piuttosto frutto di incidenti e eventi imprevedibili. Ad esempio, la serie si apre con Crichton che sta sviluppando il “Farscape Project”, una missione di esplorazione spaziale ad alta velocità, quando un tunnel spaziale lo deposita nel mezzo di una battaglia. Qui ha una collisione con un’altra navetta nella quale muore il pilota, fratello del Pacificatore Crais, che giura di catturare e uccidere Crichton. Il suo futuro pianificato da astronauta, seguendo le orme di suo padre, Jack Crichton, è quindi completamente sviato da una serie di eventi letteralmente accidentali che gli aprono un nuovo futuro, in cui tornare a casa fa spazio al comprendere come sentirsi a casa in questa realtà nuova, complessa, sempre variabile. Infatti, grazie alla possibilità dei viaggi nel tempo e nelle dimensioni che Crichton scopre nel corso della serie, infinite realtà sembrano possibili, così come infiniti destini personali. Il fatto è particolarmente evidente quando, nell’episodio “Kansas” (04x12), scopre che la sua presenza nel passato ha accidentalmente alterato la storia della Terra così che suo padre sarà destinato a guidare la missione dello shuttle Challenger, condannato alla distruzione - e la sua morte inevitabilmente influenzerà la vita di John. Dovendo “aggiustare” il passato quel tanto che serve per avere un futuro imprevedibile, Crichton comincia a comprende la vera natura della sua vita. Ancora, nel corso della serie, gradualmente assimila concetti come casa, famiglia, e anche l’idea di se stesso è soggetta al cambiamento. Alla fine, casa, non sarà necessariamente la Terra ma un posto ancora “inesplorato”. La sua famiglia è quella che sta creando con la sua compagna Aeryn, il bambino che dà alla luce nel mezzo di una battaglia nella miniserie The Peacekeeper Wars, e queste “strane forme di vita aliene” che sono divenute amici127, il suo supporto, perfino la sua salvezza nei suoi vagabondaggi. Ciò che Crichton realizza è che questo obiettivo reale è venuto a patti con il senso di instabilità della sua situazione, con il fatto che il destino non è un progetto scientifico attentamente studiato come il Farscape Project al quale stava lavorando ma piuttosto una costante evoluzione di percorsi che devono essere scelti o ai quali 127 Nelle utime stagioni, il commento introduttivo di Crichton parla di “strane, aliene forme di vita” e di Moya come “mia amica”. 98 si deve adattare. Se questa idea è una sfida, se questa visione della vita umana definita da incidenti domanda una revisione del nostro senso di umanità o di obiettivi di vita, è comunque una sfida di notevole importanza e valore, uno dei motivi che pervadono lo show della sua aurea cult. E che ci ricorda non solo ciò che possiamo trovare se usciamo “dopo mezzanotte” come afferma Kawin128, ma anche la nostra responsabilità negli incidenti del destino. Mentre Crichton nel primo episodio dice a suo padre “non posso essere il tuo tipo di eroe” deve comunque, nel corso della serie, impegnarsi in una missione tipicamente umana, una in cui tutti possono identificarsi: scoprire che “tipo di eroe” può essere. Questa missione, suggerisco, viene recepita bene da una audience cult che sta cercando qualcosa, anche se non è sicura di cosa. Ma questo punto richiama quel senso di compensazione che, ci assicura Virilio, è tipicamente parte dell’economia della nostra cultura prona o come descrive questa situazione Edward Tenner, uno dei modi in cui il “disastro è paradossalmente creativo”129. Come propone Virilio, “l’incidentale dell’arte è l’incidentale della conoscenza”130, ed in una serie come Farscape l’intenzione finale è quella di una chiara conoscenza come ricompensa finale. Durante le varie stagioni, la serie propone una gran varietà di verità inclusa la forza e la leadership delle donne, il valore della diversità culturale, la forza di altre vie di conoscenza. Eppure sembra raggiungere questa conoscenza quasi per caso, poichè in un mondo circondato da convenzioni e costrizioni, da un certo modo di vedere le cose - come quello proposto da tante serie tv - questo potrebbe essere l’unico modo per poter incontrare, o essere disposti ad accettare, tali concetti così sovversivi. In questo contesto possiamo considerare la riflessione di Crichton, piuttosto sgarbata, proprio nel primo episodio quando Aeryn esita nell’unirsi agli altri fuggitivi su Moya, insistendo che deve rimanere fedele al suo addestramento ed essere insensibile verso gli altri, non mettere in dubbio il comando, o resistere al suo destino, in questo caso semplicemente aiutando i suoi compagni a fuggire. Crichton afferma che essa “può essere di più”, che può imparare ad essere migliore. L’accettare questa sfida dimostra la forza di volontà del personaggio che verrà evidenziata in tutta la serie, ma porta in rilievo anche uno dei messaggi più importanti che possiamo rilevare nei testi cult, che nonostante tutti i condizionamenti, possiamo scappare dai nostri confini culturali, essere migliori. 128 Bruce Kawin, op.cit., pag.25. Edward Tenner, Why Things Bite Back: Technology and the Revenge of Unintended Consequences, Random House, New York, 1996, pag.327. 130 Paul Virilio e Silvère Lotringer, op.cit., pag.109. 129 99 Per concludere, si può dire che il senso della serie sia nel termine “escape” nel titolo. Poichè lo stesso termine Farscape suggerisce un giocare agli estremi, una visione degli orizzonti oltre il normale, certamente oltre i confini generalmente proposti dai prodotti mainstream. Questa sorta di visione sottolinea il potenziale cult dello show, perche come ci ricorda Kawin, il prodotto cult funziona grazie alla sua reale natura radicalmente differente e situata al margine di “una cultura che mangia e respira e si impregna di compromessi”131, con una uguaglianza costante, con una visione normalizzata. In contrasto, Farscape suggerisce come si possa fuggire da questo mondo verso altre possibilità. Attraverso questo gruppo di “strani alieni”, messi insieme per caso e gradualmente divenuti “amici” si propone una via di fuga, e ci porta ad esplorare “territori inesplorati” della cultura e di noi stessi. 131 Bruce Kawin, op.cit., pag.24. 100 Lost. Persi in una Grande Storia: la Valutazione nella Narrazione Televisiva di Jason Mittell Lost è un grande programma televisivo. I numerosi successi di Lost, nel generare una base di fan diffusa in tutto il mondo, nel produrre un franchise multimediale, e nell’accumulare premi e riconoscimenti critici, dovrebbero tutti puntare verso un’opinione su cui c’è consenso riguardo alla qualità e al valore del programma. Se siete fan dello show siete quasi certamente d’accordo, dal momento che la percepita grandezza è un comune, se non essenziale, fondamento logico dell’essere fan. Ma per i lettori e gli scrittori nel genere che è il nucleo degli studi televisivi di questo libro, una asserzione tanto esplicita di valutazione e lode sembra probabilmente fuori luogo, dal momento che la valutazione è generalmente off-limits per gli accademici della televisione. Come esempio tipico, la prefazione a Television di Jeremy Butler, probabilmente la più approfondita panoramica sulla testualità televisiva americana, esclude questioni di valutazione in poche frasi: Television non cerca di insegnare gusto o estetica. È meno preoccupato della valutazione di quanto non sia della interpretazione. Resiste dal chiedersi: ‘O.C. è grande arte?’ Invece, pone la domanda: ‘Quali significati comunica O.C. e come lo fa?’132. Tali distinzioni fra valutare la programmazione televisiva e interpretare i processi della costruzione-del-significato inquadrano virtualmente l’intero campo - noi studiosi dei media abbiamo un forte investimento nel capire come è costruito, trasmesso e consumato il significato, ma mettiamo fra parentesi questioni di valutazione come al di là del raggio della nostra competenza. Non è come se evitassimo completamente l’atto del giudicare nei nostri studi, dal momento che valutiamo regolarmente i programmi televisivi sui loro meriti politici, sulla loro rilevanza sociale, sulle loro motivazioni economiche, sul loro impatto sull’industria televisiva, o anche sulle loro attrattive per i gusti popolari. Ma mentre possiamo anche 132 Jeremy G. Butler, Television: Critical Methods and Applications, 3rd ed., Lawrence Erlbaum Associates, Mahwah, NJ, 2007, pag.IX. 101 giudicare i vari meriti o difetti di uno show su un terreno più sociologico, è apparentemente off-limits riflettere sul fatto se alla fine un programma sia buono o meno. L’eliminazione della valutazione dalla visuale critica del nostro campo è ancorata alla storia intellettuale degli studi televisivi. Nelle prime decadi della televisione, questioni di estetica e valore erano viste come battaglie perdenti - giustificare gli studi del medium asserendo i suoi meriti estetici, una via perseguita nei primi anni degli studi sul cinema, era ingaggiare il dibattito su un terreno ostile. I detrattori della televisione, sia all’interno che al di fuori del mondo accademico, hanno incorniciato con efficacia il medium come esteticamente inferiore, o al meglio un’imitazione a bassa-risoluzione, ad altri media come il cinema, il teatro, la letteratura e la radio. Invece, la televisione è emersa come un oggetto di studi in termini sociologici, servendo un importante ruolo nel trasmettere ideologie, nel definire identità e nell’influenzare i comportamenti. Gli scienziati sociali americani hanno ideato un paradigma impiegato nel catalogare i vari mali sociali ed “effetti” causati dalla televisione, creando una condanna de facto della qualità del medium basato su tutte le cose orribili che la televisione presumibilmente ci faceva. Per i critici non simpatizzanti con le dichiarazioni pseudoscientifiche dei ricercatori sugli effetti dei media, un paradigma alternativo è emerso dagli studi culturali britannici - le audience erano agenti attivi, non soggetti passivi, e così studiare i processi di decodificazione ha permesso una difesa della televisione attraverso il surrogato di spettatori sofisticati che potevano avere gusti men-che-sofisticati. Gli studi sulla televisione oggi, dal momento che sono influenzati dagli studi culturali, sono ancora interessati agli argomenti della qualità e del valore, ma individuano la valutazione, un tempo rimossa, nella loro agenda, posizionando “qualità” e “valore” all’interno della sicurezza concettuale delle citazioni virgolettate (o fra virgolette, a seconda del lato dell’Atlantico in cui ti trovi). A seguito della smontatura sociologica dell’estetica di Pierre Bourdieu, gli studiosi della televisione guardano alla qualità e al valore come formazioni di dibattito praticate dall’industria, dai critici dei giornali, dagli spettatori, dai gruppi attivisti - essenzialmente da tutti tranne che dagli studiosi della televisione. Mentre nella maggior parte degli altri campi la critica del giudizio estetico di Bourdieu è emersa dopo decadi o secoli di formazione di un canone e di gerarchie culturali, gli studi della televisione non hanno mai avuto un’era di innocenza della valutazione - non abbiamo mai avuto la possibilità di costruire un canone da decostruire! Per la maggior parte, il posto della valutazione nell’agenda degli studi sulla televisione è solamente una pratica esterna da osservare e criticare, non un potenziale percorso di studio. 102 Una simile paratia antifuoco è emersa pure intorno al modo in cui insegniamo televisione. Dopo aver letto Where the Girls Are di Susan Douglas, i miei studenti sono di solito influenzati dalle sue dichiarazioni riguardo alla ambivalente politica di genere di Charlie’s Angels - non perché sia intrinsecamente corretta, ma perché lei argomenta bene la sua tesi133. Ma dopo aver visionato un episodio, i miei studenti commentano sempre quanto sia “cattivo” il programma, con narrative semplicistiche, mancanza di suspense, recitazione legnosa, e uno stile visuale blando. In base ai non dichiarati confini degli studi sui media, le risposte accettabili sono o “beh, abbiamo tutti diritto alle nostre opinioni”, o “quali gerarchie culturali stai sostenendo nel valutare la suspense, la scrittura complessa, la recitazione sottile, o l’avere una visualità vibrante?”. I confini di ciò che è appropriato negli studi sui media sembrano proibire discussioni sui nostri gusti e valutazioni mentre stiamo indossando l’abito di esperti, sia sulla carta stampata che in classe, restringendo la discussione sulla valutazione alle situazioni casuali davanti al distributore del caffè o sullo sgabello di un bar, o ai loro surrogati online. Quando in effetti capita che ci sia una valutazione da parte degli studiosi, arriva travestita. Esaminando il campo degli studi televisivi - o gli altri volumi in questa serie di libri - diventa apparente che una gran quantità di studi si focalizza sui programmi che gli studiosi trovano più “avvincenti”, “interessanti”, “accattivanti” e “complessi” (cioè i programmi che ci piacciono), come I Soprano, The West Wing, X-Files e I Simpson. In che altro modo possiamo dar conto del fatto che Buffy, un cult show con un impatto culturale e industriale marginale che la maggior parte degli spettatori televisivi americani ha a malapena sentito ha più libri pubblicati in proposito del numero degli articoli accademici pubblicati su Law & Order, un franchise di maggior successo, più diffuso, in onda da tempi più lunghi e influente? Non è perché Buffy ha più rilevanza o risonanza sociologica, dal momento che Law & Order sarebbe terreno fertile per esplorare le rappresentazioni culturali e la politica dell’identità che costituisce una buona parte degli studi su Buffy. La sola spiegazione plausibile è la sola che non viene quasi mai esplicitamente articolata - per la maggior parte degli studiosi di televisione, cioè che Buffy è uno show migliore di Law & Order. È ora di lasciare uscire dall’armadio la critica valutativa. Non basta usare parole in codice di valore come “sofisticazione” e “sfumatura” nel riferirsi alla programmazione televisiva che vale la pena studiare e insegnare - ammettiamolo apertamente quando pensiamo che un programma sia grande. Specialmente nel contesto di un libro dedicato a esplorare un singolo 133 Susan J. Douglas, Where the Girls Are: Growing up Female with the Mass Media, Times Books New York, 1994. 103 programma in profondità, dobbiamo essere espliciti nel riconoscere il ruolo della valutazione e il giudizio estetico che aiuta a incorniciare la nostra ricerca e guida il nostro campo. Molti dei nostri sforzi di studio sono focalizzati su programmi che ci piacciono, a cui diamo valore, che pensiamo siano migliori di altri, una ammissione proibita che è più spesso data per scontata in altri campi come gli studi sul cinema o sulla letteratura, dove impegnarsi in uno studio accurato di un autore o di un testo spesso costituisce un’implicita approvazione dei suoi meriti estetici. Non possiamo semplicemente far finta che i nostri gusti e la nostra valutazione non abbiano importanza. Anche se ammettiamo che scriviamo di programmi che ci piacciono, alcuni potrebbero mettere in dubbio i propositi della critica valutativa - perché sprecare inchiostro a spiegare perché ci piace qualcosa? Non è solo un futile tentativo di trattare un’opinione personale come qualcosa che deve essere provato? E non ci sono pericoli nel rivendicare la qualità di certi programmi rispetto ad altri, con paura di elitismo ed esclusione - se gli studiosi asseriscono che i loro gusti sono “corretti”, i gruppi marginalizzati non saranno esiliati ulteriormente e non saranno mantenuti i sistemi ideologici di oppressione mascherati da valore estetico? Tali preoccupazioni sono eco di un atteggiamento difensivo radicato negli studi televisivi, dal momento che il medium, mediante il riferimento di Charlotte Brunsdon alla “povera vecchia televisione”, è sempre destinato a finire nell’estremità bassa delle gerarchie culturali, sotto tanto i media più vecchi quando quelli più nuovi134. Specialmente con la spesso-caricaturata svolta populista degli studi televisivi degli anni Novanta del Novecento, ogni asserzione di gusto o valore potrebbe essere vista come imposizioni egemoniche delle norme borghesi contro il gusto popolare per il volgare e il vile. E perfino all’interno del reame del volgare e del vile, dobbiamo riconoscere che certe stronzate sono meglio di altre stronzate. Possiamo beneficiare del capire perché “la gente” discerne fra scelte che potrebbero diversamente sembrare terribili allo stesso modo a chi guarda dal di fuori? Le dichiarazioni per cui la critica valutativa toglierebbe potere ai gusti marginali sembra fraintendere che cosa si intende per critica e studio, così come esagerare il loro potere culturale - sebbene quello che scrivo di solito rifletta quello che credo, le mie argomentazioni erudite non sono dichiarazioni di fatto, ma piuttosto asserzioni da venir discusse e dibattute. Nel postulare il valore di un programma, non offro tale giudizio come fatto incontrovertibile ma come forte convinzione, dando inizio a un dibattito con una posizione difendibile che importa solo in relazione ad altre posizioni che vi si oppongono - nel dichiarare che Lost è un 134 Charlotte Brunsdon, ‘Poor Old Television’, discordo plenario alla Society for Cinema and Media Studies, London, UK, March 2005. 104 grande programma, do inizio a una conversazione, non ne termino una. Non sogno un giorno in cui gli studi televisivi pubblicheranno la lista canonica definitiva delineando il meglio della televisione una volta per tutte, ma gusto l’opportunità di dibattere apertamente il valore dei programmi senza suggerire che tutte le valutazioni siano ugualmente giustificabili come idiosincratico gusto personale o semplici manifestazioni ideologiche. Solo perché estetica può essere fatta in un modo che priva del diritto di voto alcune posizioni questo non necessita la completa eliminazione di dichiarazioni valutative nel nome di un egualitaristica (e alla fine credo disonesta) poetica di inclusione. I programmi televisivi offrono differenti significati, differenti politiche, e differenti estetiche dovremmo essere in grado di trattare con queste differenze senza preoccuparci che sostenere una dichiarazione di valore possa offendere i gusti di qualcuno. I nostri gusti individuali sono certamente sia forgiati socialmente che individualmente idiosincratici, ma anche formati dai nostri studi del medium e influenzati dal fatto di base che gli studiosi della televisione (si spera) sanno molto di più riguardo alla televisione della maggior parte degli spettatori e dei critici - questa può essere una posizione elitista, ma sono piuttosto sicuro che l’“expertise” sia parte della descrizione del lavoro per insegnare e studiare qualcosa. Se il nostro expertise di studiosi aiuta a formare i nostri gusti, come sono certo faccia spesso, dovremmo riconoscere ed esaminare in che modo, argomentando sul perché un programma potrebbe essere visto come di maggior valore seguendo specifici criteri, ed esaminando come funzionano culturalmente questi criteri. Per fortuna ci sono stati alcuni segni negli anni recenti del fatto che alcuni studiosi di studi culturali sono tornati indietro ad alcuni dei primi scritti della materia per esplorare il ruolo dell’estetica e della valutazione nella cultura popolare. Prima che Stuart Hall efficacemente definisse la portata di una vena di studi televisivi con “Codificare/Decodificare”, ha co-scritto The Popular Arts con Paddy Whannel, offrendo una difesa della cultura popolare attraverso l’analisi estetica e la valutazione. Per Hall e Whannel, la categoria di cultura popolare è forgiata dal tipo di distinzioni rese fuori moda da Bourdieu, ma ancora possibili anche dopo il riconoscimento che i giudizi estetici sono radicati più nel potere culturale che in essenze trascendenti di bellezza. Hall e Whannel, così come altri lavori iniziali di Raymond Williams e Dick Hebdidge sugli studi culturali, cercano l’estetica della vita quotidiana, cercando di capire la cultura popolare sul suo stesso terreno, non misurandola contro paradigmi alieni di 105 arte alta135. Allo stesso modo, un numero di lavori più nuovi di studi culturali136, e qualcuno negli studi televisivi, ritorna a questioni di estetica e di valore per aprirsi alle possibilità della critica valutativa, sebbene questo trend sia stato più comune fra gli studiosi britannici e australiani che in quelli sui media americani. Seguendo la guida di questo ritorno a questioni di forma e valore, dobbiamo guardare da vicino i testi popolari per capire i modi in cui gusto, valutazione ed estetica importano tanto agli studiosi quando agli spettatori quotidiani permettendo a noi stessi di fare delle valutazioni possiamo rafforzare la nostra comprensione della più ampia pratica culturale e dell’importanza della valutazione. Nell’offrire qui la mia personale critica valutativa, non cerco di convincere nessuno che Lost sia l’essenza della televisione, o l’apice delle possibilità artistiche del medium. Ma è un grande programma, e desidero esplorare il perché. Spero di modellare una modalità di critica televisiva che eviti le tendenze universalistiche e canonistiche sui cui altri campi stanno combattendo da anni. Immagino un’esplicita consapevolezza delle pratiche di valutazione in tutte le sfere dell’ideazione e del consumo televisivo, compresa una discussione e difesa delle nostre stesse pratiche di gusto. Una tale modalità di valutazione non cerca di fare dei giudizi di gusto le parole finali di un dibattito, ma le aperture per una discussione. Che cosa rende programmi come Buffy o Lost così attraenti per gli studiosi? Come si intersecano o sono in conflitto i criteri di politica e poetica culturale? Come possiamo dar conto dei nostri cambiamenti di gusto in quanto collegati ai contesti culturali che cambiano, alle esposizioni testuali, all’istruzione formale e all’estetica che si è trasformata? Che aspetto avrebbe una estetica della televisione non-fondante, e come potremmo usare tali valutazioni contingenti nel nostro insegnamento e studio? Solo perché vogliamo evitare i difetti della tradizionale critica estetica non significa che non possiamo immaginare un modo più sofisticato, storicamente-consapevole e sì, migliore, di posizionare la valutazione nell’agenda degli studi televisivi e riconoscere e esaminare i nostri gusti con orgoglio. 135 Stuart Hall and Paddy Whannel, The Popular Arts Pantheon Books, New York, 1965; Dick Hebdige, Subculture, the Meaning of Style, Methuen, London, 1979; Raymond Williams, Marxism and Literature Oxford University Press, Oxford, 1977. 136 Michael Bérubé, The Aesthetics of Cultural Studies Blackwell, Malden, MA, 2005; Simon Frith, Performing Rites: On the Value of Popular Music Harvard University Press, Cambridge, 1996; Alan McKee, Beautiful Things in Popular Culture Blackwell Pub., Malden, MA, 2006. 106 Apprezzare Lost Lost è un grande programma televisivo. Per capire il perché dobbiamo considerare come funziona come programma televisivo, adottando alcune convenzioni essenziali del medium e altre innovative. Non c’è una singola estetica della televisione - la grande televisione può aspirare all’ambizione artistica, o provare piacere nelle attrattive di basso tenore intellettuale, o entrambe le cose allo stesso tempo. Ma anche se l’estetica della televisione è plurale piuttosto che universale, possiamo lo stesso esplorare come un programma si adatta a una particolare serie di possibilità estetiche, e giudicare come soddisfa le proprie ambizioni. La pluralità estetica non è la stessa cosa della relatività estetica - la grandezza può arrivare in una varietà di confezioni e di stili, ma non significa che tutto sia ugualmente grande. Nell’argomentare a favore della grandezza di Lost, prenderò in considerazione quattro norme estetiche che il programma realizza con successo - l’unità di proposito, il fandom forense, la complessità narrativa e l’estetica della sorpresa - suggerendo che questi aspetti rendano conto di molto del valore del programma. Questa non è una lista esclusiva, e ci sono sicuramente altri grandi elementi del programma di cui non do conto, e ci sono certamente molte altre norme o qualità estetiche che Lost non riesce a raggiungere. Ma credo che queste qualità forniscano una argomentazione convincente a favore del valore dello show, e come minimo forniscano un punto di partenza per un dibattito sull’estetica televisuale. Unità di Proposito Lost è un testo unificato, con ciascun episodio che contribuisce a un intero più grande. Forse più di ogni altra serie televisiva americana, questa “interezza” è centrale nella nostra comprensione e nell’apprezzamento del programma. L’episodio pilota (1.02) termina con Charlie che pone un quesito apparentemente facile: “che cosa siamo noi?”, che sembra definire l’interezza della serie. Ogni episodio, ogni flashback, e ogni storia di un personaggio può essere compresa come qualcosa che contribuisce alla più ampia comprensione della natura (o artificio) dell’ambientazione dell’isola di Lost. Diversamente da quasi ogni altra serie televisiva, Lost non presenta nessun episodio che stia in piedi da solo, nessun “mostrodella-settimana” che offra una tregua dalle mitologie serializzate come succede in show ancestrali come The X-Files o Buffy. Dal momento che da lungo tempo all’unità è stato dato un valore estetico come una componente essenziale dell’arte narrativa, non sorprende che una 107 serie televisiva che riesca a partorire un avvincente senso del suo intero offra piaceri e valori particolari. L’unità è particolarmente complicata, tuttavia, all’interno della forma serializzata della televisione. Al momento delle mie prime riflessioni su questa serie erano andate in onda le prime tre stagioni di Lost, cosa che comprende giusto poco più di metà della anticipata interezza della serie. Perciò le mie dichiarazioni riguardo all’unità sono, abbastanza ironicamente, inerentemente parziali. Ma per le narrative serializzate in corso, l’unità è meno una qualità assoluta del testo di quanto non sia un ideale da venir anticipato e percepito - gli spettatori guardano Lost con una parte della mente rivolta verso la totalità della serie per assemblare ogni segmento in una narrativa unificata che non sarà realizzata per anni a venire. Mentre la serie si dipana, i fan giudicano ogni episodio in larga parte sullo sfondo delle loro nozioni dell’intero del programma, e frequentemente rielaborano le loro supposizioni su questo intero alla luce dei nuovi colpi di scena narrativi e delle nuove strategie nel raccontare la storia. Per esempio, il colpo di scena che conclude la terza stagione con dei flash-forward fuori dall’isola, azzera le strategie e le norme di base di Lost nel raccontare la storia, spostando il nostro punto focale dalla domanda “andranno via dall’isola?” alla ricerca più ampia di capire come la vita post-isola si accorda con il mondo narrativo che abbiamo già visto. La televisione Americana ha una sfida addizionale con l’unità, dal momento che una serie di successo viene normalmente premiata con una continuazione che tende all’infinito, almeno finché non si abbassano gli ascolti. Prima del maggio 2007, sarebbe anche stato impossibile valutare quale porzione della serie fosse andata in onda, visto che la televisione delle emittenti americane tipicamente equipara la conclusione di un programma con il fallimento e la cancellazione, non con pianificate risoluzioni narrative. L’annuncio senza precedenti della pianificata data di conclusione del programma tre anni in anticipo ha fatto un esplicito cenno verso questo ideale di unità - nel comunicato stampa della ABC che annunciava la data finale del maggio 2010, i produttori Damon Lindelof e Carlton Cuse annotano: “Abbiamo sempre immaginato Lost come un programma con un inizio, un mezzo e una fine. Annunciando ufficialmente quando sarà quella fine, il pubblico avrà ora la sicurezza che la storia si svolgerà così come abbiamo inteso”137. Perciò la concezione dei produttori dell’unità del programma alla fine ha provocato che la ABC concedesse il dono unico di una conclusione pianificata, 137 ‘Lost to Conclude in 2009-10 Television Season,’ ABC Television Press Release, May 7, 2007, available at http://www.abcmedianet.com/assets/pr%5Chtml/050707_01.html, visitato il 19 nell’ottobre 2007. 108 sebbene quel piano sia stato in pericolo a causa dello sciopero del 2007-08 della Writers’ Guild of America. Più che solo all’unità della narrativa continuata, l’estetica di Lost dà valore al percepito proposito che motiva il suo intero narrativo. La portata e la forma unificate della storia seguono un progetto, e gran parte del piacere estetico offerto da Lost coinvolge gli spettatori nel cercare di analizzare i fondamenti logici dietro allo storytelling del programma. A momenti questo senso di proposito collega direttamente all’intenzione autoriale, come è simboleggiato dalla devozione stile-culto di alcuni fan verso i podcast di Lindelof e Cuse, le apparizioni al Comic Con, e le interviste sui media, che citano il commento dei produttori come proclamazioni divine da parte dei TPTB (The Powers That Be - i Poteri Ultimi). Ma l’unità del programma non è sempre legata alle specificità dell’autorialità, dal momento che molti fan riconoscono la natura collaborativa della sceneggiatura televisiva e l’instabile coinvolgimento di figure chiave della produzione come J.J. Abrams, David Fury, Drew Goddard e Javier Grillo-Marxuach. Piuttosto, la motivazione dietro all’unità di Lost deriva più da un assunto senso di proposito che sembra insito nel progetto narrativo a livello del testo più che al suo effettivo processo di creazione. Quando i fan perdono la fede nello show, i dubbi sottostanti sono spesso innescati da un senso di mancanza di unità che deriva dalla paura che il programma venga “inventato a mano a mano che si va avanti” piuttosto che pianificato con cura in anticipo138. Per me, uno dei grandi piaceri di Lost è il senso di fede nel suo progetto narrativo e nel suo proposito che il programma riesce a instillare. Parte di questa fede deriva dal consumo extratestuale di interviste, podcast, e simili, ma più spesso è il riconoscimento di continuità tematiche e fattuali che attestano un piano generale, o almeno una più avanzata pianificazione di quanto non sia tipico per le serie televisive. Per esempio, le mappe della Rousseau viste per la prima volta in “Solitudine” (1.09) mostrano brevemente un’isola più piccola vicino all’isola principale - la terza stagione ha rivelato l’esistenza di questa più piccola Isola Idra, una coerenza interna minore che si è rivelata rassicurante per i dubbi di coerenza e proposito degli spettatori. Tali casi estendono la fede che altri pezzetti narrativi ancora in sospeso dopo tre stagioni, come Adamo e Eva da “La casa del Sol Levante” (1.06) o la statua del piede gigante 138 Quest’idea del proposito assunto dalla narrativa è stato ispirato dalla discussione di Greg Taylor della valutazione estetica. Vedi Greg Taylor, ‘But Is It Any Good? Evaluative Assessment Reconsidered,’ manoscritto non pubblicato presentato al Middlebury College, October 18, 2007. Grazie all’autore per aver condiviso il suo lavoro precedentemente alla pubblicazione. 109 in “Si vive insieme, si muore soli” (2.23), riceverà alla fine una ricompensa narrativa fedele all’unità interna di Lost. Il piacere di una unità con un suo significato contrasta in modo diretto con altri programmi serializzati che non sanno essere all’altezza di questo ideale di logica interna. Programmi come 24 e Heroes provatamente non raggiungono questo obiettivo, con colpi di scena illogici, personaggi lasciati cadere, o discutibile continuità che solleva dubbi sull’uso costante di senso di proposito e di progetto da parte del programma, perfino per i fan ardenti. Altri programmi, come Alias o Veronica Mars, fanno esperienza di radicali cambi di tono, stile o struttura narrativa come apparentemente motivati dalla pressione dei network di aumentare gli indici d’ascolto rendendo gli show meno complessi e più facili da seguire per i nuovi spettatori - tali cambi fratturano un senso di unità che molti fan attribuiscono alle costrizioni commerciali delle narrative televisive piuttosto che alla perdita di fiducia nelle capacità di raccontare le storie dei produttori. La capacità di Lost di resistere a tali pressioni commerciali, e anche momenti peculiari come quando il proposito creativo vince sulle norme del network, come con l’annunciata data finale, attesta del senso di proposito del programma e fa appello al valore estetico dell’unità. Fandom Forense Se uno dei più grandi piaceri e valori di Lost è la sua unità attuata con proposito, lo show estende questa logica narrativa per supportare un modo particolare di coinvolgimento che può essere indicato con il termine “Fandom Forense”. Dal momento che la logica interna del programma trova motivazione intorno al mistero centrale dell’isola, della sua complessa storia e dei suoi poteri, la struttura narrativa di Lost incoraggia gli spettatori ad analizzare il programma più che a consumarlo semplicemente. La ricerca, sia negli studi culturali che nelle teorie cognitive di comprensione, mette in evidenza come gli spettatori siano attivamente impegnati nell’atto di consumare la programmazione, mentalmente ed emozionalmente coinvolti con i media, più che di accettare passivamente i significati. Tuttavia, la maggior parte di questa ricerca ha evidenziato o come gli spettatori “leggono contro il senso”, creando significati dissonanti all’interno del convenzionale e non mettendo in discussione i margini della cultura popolare, o come i testi impostino i termini per la loro comprensione narrativa e per le reazioni emozionali in un modo attivo, ma ancora altamente convenzionali. Il progetto narrativo di Lost scoraggia il consumo casuale. Mentre ci sono certamente piaceri del momento-dopo-momento di humor, suspense, azione, e storie d’amore, l’attributo più 110 distintivo del programma è il suo mistero centrale che pretende un modo iper-attento di essere spettatori. Essere un fan di Lost significa abbracciare una mentalità da detective, cercando indizi, schedando motivi che si ripetono, e assemblando le prove in ipotesi e teorie narrative. Questo coinvolgimento forense trova una casa naturale nei forum online, dove gli spettatori si riuniscono per postulare teorie e dibattere interpretazioni, e wikipedia di fan come LostPedia.com, una enciclopedia open-source di conoscenza e teorie prodotte dai fan. Anche se certamente molti fan guardano lo show in una maniera più auto-contenuta, i momenti di informazione che trabocca di Lost, come nella mappa sulla porta esplosa vista per la prima volta in “Chiusura” (2.17) o il video di lavaggio del cervello mostrato a Karl in “Non a Portland” (3.07), sembra che pretendano un modo di coinvolgimento forense per organizzare e scoprire una ricchezza di dati narrativi. Il programma commenta anche riflessivamente su questo modo di coinvolgere - Locke risponde al filmato di orientamento del Cigno in “Orientamento” (2.03) con una battuta che è diventata il motto per il fandom forense: “Avremo bisogno di rivederlo”. Per Steven Johnson, questa modalità di coinvolgimento suggerisce il potere televisivo per l’esercizio cognitivo e per lo sviluppo intellettuale; che tali programmi inneschino l’auto-miglioramento o no, non possiamo negare i piaceri mentali del fandom forense che forniscono programmi come Lost139. Tradizionalmente, i testi che pretendono e incoraggiano una modalità di lettura ravvicinata e rinnovano il coinvolgimento si posizionano in categorie rarefatte dell’arte alta e della limitata attrattiva per conoscitori, sia che sia per il modernismo letterario di James Joyce e Thomas Pynchon, o l’estetica dei film d’arte di Michelangelo Antonioni e David Lynch. Per la televisione che mira alla cultura popolare più che all’arte modernista, la fandom forense in cui ci si immerge si compie sui testi per proprietà correttiva più che per ragioni estetiche - i fan di soap opera in onda da lungo tempo o della colonna della fantascienza Star Trek spesso vantano una padronanza delle vicende narrative passate e della continuità più grande dei produttori, rendendo il fandom del “cercare il pelo nell’uovo” meno un caso di piacere narrativo che un modo di controllare che tutto si svolga nel modo corretto e per competitive pretese di proprietà. Mentre altre serie hanno tentato di estrarre come da una miniera i piaceri del fandom forense mirato a mitologie complesse, innovatori come Twin Peaks e X-Files di solito non hanno raggiunto lo scopo del bilanciamento fra far girare un mistero complesso che fosse soddisfacente e ottenere sufficiente costanza e coerenza da incontrare le aspettative delle investigazioni narrative degli spettatori. Finora Lost sembra il primo programma popolare a 139 Steven Johnson, Everything Bad Is Good for You: How Today's Popular Culture Is Actually Making Us Smarter, Riverhead Books, New York, 2005. 111 mobilitare con successo gli impulsi forensi dei fan verso un sostenuto piacere narrativo più che verso la frustrazione - sebbene il suo grado di successo potrebbe certamente cambiare nel corso delle tre stagioni finali. L’incoraggiamento, con successo, da parte di Lost del fandom forense attesta le ambizioni del programma che si stende al di là del testo televisivo stesso. Lo show è stato salutato come uno dei primari esempi di “Televisione 2.0” poiché estende la narrativa attraverso strategie di storytelling trans-mediale che servono non solo a far nascere prodotti ancillari, ma aggiunte centrali al progetto narrativo centrale e alla mitologia di Lost. I successi estetici del programma come serie televisiva sono evidenziati dei suoi comparativi fallimenti in altri media - il romanzo collegato Bad Twin è stato visto dalla maggioranza come una aggiunta piuttosto incoerente che confonde i confini fra i tradizionali mondi di finzione, e al momento del mio scrivere i fan non hanno visto come essenziali l’altro videogioco e prodotti ancillari collegati. Il gioco di realtà alternativa The Lost Experience ha esteso il modello forense di partecipazione con più successo, ma la maggioranza dei fan o è rimasta costernata dalla esplicita commercializzazione del gioco, o delusa che le rivelazioni narrative del gioco di realtà alternativa non sembrassero avere risonanza all’interno della serie televisiva centrale durante la terza stagione. Nonostante tali ambiziose ma insoddisfacenti estensioni paratestuali, i fan sono rimasti investiti nell’analizzare il mondo narrativo costruito nella serie televisiva, specialmente dopo la ripresa del programma nell’ultima parte della terza stagione. Complessità Narrativa e Estetica Operazionale Sia l’unità attuata con proposito che la modalità forense di coinvolgimento sono fondati nella innovativa complessità narrativa di Lost. Come ho spiegato altrove, la televisione americana degli anni 2000 ha abbracciato una modalità di complessità narrativa marcata da elevata serialità, tecniche formalmente innovative di sperimentazioni temporali e narrative, e una tolleranza per la confusione dello storytelling e la gratificazione ritardata140. Io sostengo che uno dei piaceri principali della complessità narrativa è una “estetica operazionale”, richiamando l’attenzione su come la macchina dello storytelling funziona come un livello addizionale di coinvolgimento al di là dello stesso mondo della storia. Lost è esemplare in questa estetica operazionale al lavoro - guardiamo la serie non solo come una finestra su un avvincente universo di finzione, ma anche per guardare come la finestra stessa funziona per distorcere o dirigere la nostra linea di visione. Guardare una serie come Lost richiede una 140 Jason Mittell, “Narrative Complexity in Contemporary American Television”, in The Velvet Light Trap, n. 58, 2006, pagg. 29-40. 112 attenzione duale sia alla storia che al discorso narrativo che narra la storia, con piaceri particolari offerti esclusivamente a livello di racconto di una storia. Il finale della terza stagione, “Attraverso lo Specchio” (3.22), fornisce uno dei più eccezionali e lodati trucchi di storytelling del programma. I finali di stagione di Lost hanno tipicamente offerto appaganti cliffhanger nei loro momenti finali, come il rapimento di Walt in “Esodo” (1.24) e la scoperta dell’isola da parte di Penny in “Si vive insieme, si muore soli” (2.23), colpi di scena che innalzano la suspense narrativa e indirizzano le storie future verso nuove direzioni. Ma la terza stagione si è conclusa meno con interrogativi di suspense della storia che con quello che potremmo definire “suspense narrazionale” - rivelando che i supposti flashback di Jack erano in realtà flashforward di una vita dopo essere sfuggiti dall’isola, lo show ci invita a meravigliarci dei suoi meccanismi nel racconto delle storie. La suspense creata da questa rivelazione solleva quesiti riguardo a come la storia verrà narrata in stagioni future. Si focalizzerà sulla vita sulla terraferma con flashback sull’isola? Ci saranno altri flashforward sui personaggi post-salvataggio? Questo è uno dei tanti futuri alternativi? Per una volta, la domanda chiave non è “che cosa succederà”? (da momento che veniamo a sapere che almeno Kate e Jack verranno salvati), ma “come ci racconteranno quello che accade”? Per apprezzare questo momento si richiede che gli spettatori pensino alla meccanica narrativa del programma, abbracciando l’estetica operazionale per godere dello spettacolo dello storytelling procurato da questo cliffhanger narrazionale. L’estetica operazionale può anche servire da punto focale per interi episodi. “Exposé” (3.14), la quasi parodistica riscrittura della storia dell’isola per includere Nikki e Paulo, ha diviso le opinioni dei fan sulla qualità dell’episodio e sulla sua rilevanza rispetto alla serie nella sua totalità. Per apprezzare l’episodio, sembra necessario ingaggiarsi con esso a livello di dissertazione sullo storytelling, considerando come la storia revisionista della vita dell’isola ricorda la fiction dei fan che riscrivono gli eventi canonici, scribacchiando ai margini del mondo narrativo stabilito. Per i fan a cui l’episodio non è piaciuto, la lamentela principale è stata la mancanza di continuità e lo sconvolgimento di quello che sentivano essere già stato stabilito - l’episodio ha presentato nuove informazioni a proposito di eventi già assodati, ma non è sembrato che abbia contribuito a una mitologia più grande. Ma per i fan disposti a giocare il gioco del racconto dello storytelling che “Exposé” offre, i piaceri derivano dalla conoscenza intenzionale che quell’episodio è marginale al punto da essere quasi noncanonico, dando un pizzicotto in modo giocoso alle ossessioni forensi dei fan per la continuità e la coerenza. 113 L’estetica operazionale di Lost offre particolari possibilità espressive che diventano disponibili solo ad una forma serializzata come la narrativa televisiva. Lo show sviluppa delle norme intrinseche nel tempo, stabilendo convenzioni e regole che gli spettatori internalizzano come quelle che definiscono le strategie del programma nel raccontare la storia - ad esempio, ciascun episodio presenta un flashback di un singolo personaggio intramezzato nel montaggio con la vita dell’isola. Gli episodi che violano queste norme spiccano come eccezionali, o nel violare le aspettative dei fan o nel fornire piaceri inaspettati. “Maternità” (2.15) e “Tre minuti” (2.22) presentano dei flashback interni alla vita dell’isola, cosa che segnala una modalità narrativa per riempire i vuoti della storia durante le rispettive assenze di Claire e Michael dal gruppo principale dei protagonisti, e così aumenta le aspettative dello spettatore per rivelazioni cruciali di trama piuttosto che per risonanze della storia passata di un personaggio tipiche dei flashback. “Deja vu” (3.08) offre una estasi temporale più ambigua, con Desmond che riviveva e potenzialmente alterava momenti del suo passato, piuttosto che presentare tali momenti come temporalmente distinti come in un tipico flashback. Per capire questo episodio e la sua più ampia importanza narrativa, gli spettatori devono essere operazionalmente in sintonia con le norme intrinseche dello storytelling del programma e considerare il significato di una tale violazione sulla base del suo sistema narrativo formale più ampio, postulando interrogativi sul trattamento della temporalità da parte del programma che ancora devono ricevere risposta. La maggior parte della televisione mima gli obiettivi di invisibilità e trasparenza della narrazione cinematografica, presentando il mondo della storia in uno stile che lo spettatore ha imparato a considerare come naturalistico e non mediato. Tipicamente i film abbracciano l’autocoscienza e invitano gli spettatori a riflettere sui propri processi di storytelling riflessivamente per propositi comici, come nei momenti auto-consapevoli nei cartoni animati, nella parodie o nei musical, o abbracciano un gioco formale lungo l’estetica modernista tipica dei film artistici o della sua popolarizzazione nei contemporanei film indipendenti come Memento e Donnie Darko141. I programmi televisivi narrativamente complessi, in una gamma che va da Seinfeld a Veronica Mars, da Scrubs a Battlestar Galactica, abbracciano un modello di narrazione auto-cosciente e di opera formale, ma importano questa estetica dei film d’arte nel reame della cultura 141 Vedi David Bordwell, Narration in the Fiction Film, University of Wisconsin Press, Madison, 1985, per un’analisi che definisce il concetto di modalità narrativa sia di Hollywood che del cinema artistico, e David Bordwell, The Way Hollywood Tells It: Story and Style in Modern Movies, University of California Press, Berkeley, 2006 per il resoconto delle strategie narrative del cinema contemporaneo. 114 popolare di mainstream e della fiction di genere. Sebbene Lost giochi con i temi di cultura alta del fato contro il libero arbitrio, e fa i nomi importanti di filosofi da Rousseau a Bakunin, alla fine il programma si posiziona chiaramente all’interno del reame della cultura popolare, con momenti da genere pulp tratti più dalla fantascienza e dai racconti di avventura che dal cinema artistico. Tuttavia, Lost racconta le sue storie usando tecniche formali atipiche dei programmi di genere del mainstream, fornendo ai suoi dedicati fan dalla mente forensicamente attenta un addizionale livello di piacere che va esplorato attraverso l’estetica operazionale, simultaneamente investiti nella storia e in come viene raccontata. L’Estetica della Sorpresa Molti dei valori estetici a lungo termine di Lost possono essere compresi attraverso l’investimento del programma nella complessità narrativa, che incoraggia un modo di visione analitico e che genera un più ampio senso di unità e di proposito. A livello da-momento-amomento, molto del piacere di Lost deriva dall’abilità del programma di confondere le aspettative e di trasmettere un senso di autentica sorpresa. Anche se la televisione americana è quasi definita dalla sua prevedibilità - di posizione in palinsesto, di genere, di forma narrativa, di tipo di personaggi e di razionalizzazione pubblicitaria - Lost mira a sorprenderci quasi a ogni svolta. Sebbene siano molti i programmi che offrono sorprese e brividi, dai colpi di scena fortemente promossi di Law and Order all’audace rifiuto di South Park di rispettare qualunque tabù, Lost è innovativo nell’incorporare la sorpresa a ogni livello della serie. Per me il pilot del programma ha piacevolmente confuso le aspettative. La prima sorpresa è stata l’iniziale rappresentazione da parte del programma dello schianto aereo - poche sequenze nei miei anni da conoscitore della televisione hanno offerto tale risoluta intensità e senso di elevata partecipazione drammatica. Le mie aspettative sono state allo stesso tempo aumentate e diminuite - come potrà funzionare questo in una serie? Come molti, ho approcciato Lost con cornici di riferimento di altre narrative da sperduti-su-un’isola, da Il Signore delle Mosche a Survivor (o se si fosse rivelato un vero disastro, Gilligan’s Island), presumendo che la storia si sarebbe focalizzata sugli sforzi dei naufraghi per scappare da e sopravvivere in un mondo isolato. E se questo fosse stato il solo taglio della narrativa, sarebbe stato deludente, dal momento che niente potrebbe uguagliare l’intensità dei momenti di apertura dello show. Ma come quasi ogni elemento di Lost, le prime impressioni sono fuorvianti. L’isola non è quello che sembra all’inizio, così come ogni personaggio ed evento si scopre essere più di 115 quanto non apparissero all’inizio. Così il genere di programma non è ciò che è sembrato essere all’inizio - questo non è il tentativo della televisione di fare un programma di disastro, un genere apparentemente non adatto per una situazione e una storia continua. Alla fine il genere del programma rimane ancora incerto dopo tre stagioni che è in onda - è un thriller soprannaturale, un mistero scientifico, una soap opera nella giungla, una fantasia religiosa, o tutto il suddetto? Diversamente da mescolanze di genere precedentemente lodate come Twin Peaks o Buffy, Lost rifiuta di mostrare apertamente i suoi riferimenti di genere, preferendo permettere agli spettatori di fare speculazioni sulle cornici estetiche e interpretative rilevanti, e poi confondere le nostre aspettative attraverso colpi di scena e inversioni. Un episodio esemplare è “La caccia” (1.04), un favorito dei fan che ha certamente catapultato il programma nel mio canone personale. L’episodio è il primo a focalizzarsi su John Locke, lo sciamano residente/guida di safari dell’isola il cui expertise apparentemente non conosce limiti - un ruolo che viene confuso quando i flashback rivelano che prima dello schianto, Locke era un venditore di scatole di cartone con un debole per il sesso telefonico. Sull’isola apprendiamo che Locke ha viaggiato con una valigia piena di coltelli da caccia e sa cacciare i cinghiali selvatici; i flashback rivelano che Locke era costretto su una sedia a rotelle e gli era stata negata la possibilità di partecipare a una caccia australiana, la ragione per cui è sul volo destinato a cadere nel Sud del Pacifico. La prima manifestazione dell’isola di apparente paranormalità, la sequenza che rivela la precedente disabilità di Locke e la sua susseguente guarigione, toglie il fiato, visivamente intricata e resa più intensa dalla potenza della avvincente performance di Terry O’Quinn. Mentre questo finale con colpo di scena poteva semplicemente essere una finta nello stile de Il Sesto Senso, la forma seriale del programma ha permesso che questa eccezionale sorpresa risuonasse lungo tutta l’architettura narrativa di Lost, dal momento che ha sollevato quesiti all’interno di molte vicende passate di molti personaggi e ha segnalato che la vita sull’isola potrebbe essere marcatamente differente dalle esistenze prima dello schianto dei passeggeri142. Tali sorprese e violazioni delle aspettative e convenzioni sono ragioni chiave per cui gli spettatori arrivano in massa al programma. In un sondaggio online di fan di Lost condotto per capire perché le persone leggono gli spoiler di un programma così ricco di colpi di scena e pieno di suspense, i piaceri della sorpresa e l’unicità dello show in paragone agli altri programmi televisivi erano fra le ragioni maggiormente citate per guardarlo, con oltre tre 142 Vedi Jason Mittell, “Film and Television Narrative”, in David Herman (a cura di), The Cambridge Companion to Narrative, Cambridge University Press, Cambridge, 2007, pagg.156-71 per un’ulteriore analisi de “La caccia” e delle tecniche narrative di Lost. 116 quarti di coloro che hanno risposto che mettevano in evidenza queste ragioni143. Per me e molti altri spettatori, la capacità di venir piacevolmente sorpresi da una serie televisiva che viola le convenzioni e le aspettative ci fa continuare a sintonizzarci e ad anticipare futuri colpi di scena, offrendo una ricchezza di piaceri sia per il contenuto della storia del programma che per la forma dello storytelling. Per essere chiari, queste qualità estetiche di sorpresa, complessità, coinvolgimento forense e unità non sono ideali universali da venir elevati a qualcosa a cui tutta la televisione dovrebbe ambire. Nei fatti, probabilmente la rarità di una serie che raggiunge o anche solo che cerca di raggiungere tali obiettivi potrebbe dar conto dei piaceri unici di Lost, dal momento che l’elemento sorpresa si estende alla capacità per un dramma televisivo di mainstream di consegnare merci così poco comuni. Paragonare Lost a un altro programma con obiettivi estetici interamente differenti - per esempio la sitcom convenzionale Tutti Amano Raymond evidenzia come la televisione può offrire una vasta gamma di piaceri e aspettative. Raymond non raggiunge né mira a nessuno degli attributi di Lost di unità, coinvolgimento forense, complessità o sorpresa, eppure offre ugualmente i suoi propri piaceri di routine comoda e di familiarità, di costanza nell’offrire momenti e interpretazioni umoristiche, e un reale senso di luogo e di ambientazione che si sente come tangibilmente umana. Porto questo paragone non per abbassare gli apparentemente “minori” risultati di Raymond, ma per mettere in evidenza come nessuna iterazione di norme estetiche dovrebbe essere considerata applicabile o ideale per tutta la televisione. Sebbene io alla fine preferisca gli obiettivi più ambiziosi e i risultati di Lost, c’è sufficiente spazio nella gamma delle possibilità dell’estetica televisiva per accogliere sia le mescolanze innovative di generi che i brani di genere convenzionale ben eseguiti, e perciò dobbiamo giudicare ogni programma nei suoi stessi termini di proposito e progetto. Inoltre, i valori estetici di Lost non sono limitati a queste quattro qualità. Per molti spettatori, i piaceri centrali dello show possono trovarsi in personaggi specifici interpretati con profondità psicologica e interpretazioni convincenti, nei drammi di relazione e nei triangoli amorosi celebrati dallo “shipping” fandom [quel fandom che si dedica a scrivere storie con tematiche romantiche, ndt], negli eccezionali valori produttivi che catturano l’ambientazione dell’isola e 143 Questo sondaggio di ricerca è stato condotto per Jonathan Gray e Jason Mittell, “Speculation on Spoilers: Lost Fandom, Narrative Consumption, and Rethinking Textuality”, in «Particip@tions» 4, no.1, 2007, disponibile all’indirizzo http://www.participations.org/Volume%204/Issue%201/4_01_graymittell.htm. Le ragioni più citate per guardare sono state “Voglio scoprire le risposte ai misteri dell’isola” (91%), ‘Mi piace la trama di suspense (90%), ‘Lo show mi sorprende” (77%), e “Il programma è diverso da qualunque altra cosa in onda” (75%). 117 visualizzano le sequenza di azione in una qualità “da cinema” che trascende il medium, nei momenti melodrammatici di rivelazione emozionale e trascendenza che Lost offre in mezzo alle cospirazioni e alle sequenza d’azione, o nei più ampi temi e argomenti filosofici che spesso sono alla base dell’azione drammatica. Ogni asserzione di valutazione estetica è inerentemente soggettiva e aperta al dibattito, ma non può essere messa da parte semplicemente come un’opinione senza giustificazione o fondamento logico - dovremmo dibattere i meriti comparativi dei successi e dei fallimenti testuali di Lost, offrendolo come esempio per altri programmi e misurando le relative qualità non per arrivare a una oggettiva gerarchia di gusto, ma per prendere parte nei processi di costruzione del gusto che costituisce una parte centrale del nostro consumo televisivo. Spero che sia chiaro non solo perché penso che Lost sia un grande programma, ma perché è importante che gli studiosi della televisione si concedano preoccupazioni valutative nei propri scritti. Non voglio suggerire che il campo abbracci uno spostamento in massa verso la critica estetica, e alla fine celebrare o denigrare i programmi è raramente un singolo obiettivo di studio che valga la pena. Ma possiamo immaginare un coinvolgimento accademico nei confronti della televisione che accolga le sue proprie valutazioni soggettive più apertamente, e metta in primo piano ragioni logiche di tipo valutativo come parte dell’analisi critica. Questo atto di valutazione è una delle ragioni principali per cui io e molti altri avidi spettatori consumiamo i media - vogliamo valutare la qualità di un programma e coinvolgerci in un dibattito amichevole e giocoso sui relativi valori tanto dei programmi che amiamo quanto di quelli che accantoniamo. Gli studiosi televisivi possono continuare a fare tali valutazioni solo fuori servizio, sugli sgabelli dei bar o nei blog, ma c’è qualcosa da guadagnare nell’incorporare esplicite pretese valutative all’interno dei nostri studi. Possiamo aiutare a posizionare saldamente la televisione come un medium più legittimo e culturalmente validato evidenziando quello che fa bene con precisione e rigore, salvando la “povera vecchia televisione” dalla sua isola di devastazione culturale e accogliendo la possibilità per programmi come Lost di raggiungere la grandezza. 118 Piaceri Ripetuti: Storia, Narrazione e Formati Multipli nella Televisione di Fantascienza. Star Trek: Enterprise e Battlestar Galactica di Lincoln Geraghty In questo saggio vorrei evidenziare come attraverso l’utilizzo del formato televisivo, la fantascienza è stata in grado di dare forza ad uno dei suoi aspetti chiave: la storia. Solitamente associata con visioni di un futuro distante, la sci-fi nel cinema e nella letteratura si è occupata della storia nell’ottica in cui l’umanità, avendo imparato dagli errori passati, ha saputo realizzare o almeno immaginare, un futuro migliore. Quello che vorrei dimostrare è che la sci-fi in televisione ha utilizzato il formato generico offerto dal piccolo schermo per occuparsi di problemi chiave - attraverso le serie e i serial - e quindi potendo mettere in scena una narrativa elaborata e dettagliata storicamente parlando. Tali narrative così elaborate hanno ispirato milioni di fans di saghe come quella del Doctor Who e di Star Trek. In termini di crescita del genere, la sci-fi dai tardi anni Ottanta è rappresentativa di quella che Brian Stableford definisce “la terza generazione”, dove “la tv è divenuta il medium principale” attraverso cui i fans seguono la sci-fi. Questo è accaduto grazie alla confluenza di un mercato di nicchia come quello dei racconti e delle riviste di genere con il medium universale della tv144. Ciò che di norma viene considerato un “cult”, prodotto e consumato da una piccola comunità di fans, viene trasferito in televisione. La formula della lunga narrazione offre potenzialmente una durata infinita rendendo il piccolo schermo particolarmente adatto per storie basate su viaggi spazio-temporali, invasioni aliene, mondi alternativi. La fantascienza cinematografica ha offerto agli spettatori tante visioni di mondi futuri dispopici o utopici (La vita futura [1936], Blade Runner [1982], La fuga di Logan [1976], 2001 [1968] solo per citarne alcuni); eppure, è il formato televisivo che consente un discorso storico costante costruito attraverso l’uso dei vari formati televisivi. Queste forme televisive possono essere così divise: primo, i viaggi nel tempo occasionali come nel Doctor Who (1963-89 e 2005-Presente), Sliders (19952000), e Stargate SG-1 (1997-2007) utilizzano la linea temporale della storia come una lavagna per imparare lezioni sul nostro passato o sulle sue versioni alternative. Attraverso il passato possimao meglio comprendere il nostro presente145. Ancora, quando la sci-fi diviene una estensione della storia contemporanea, in serie di lunga narrazione e cult come Star Trek 144 Brian Stableford, “The Third Generation of Genre Science Fiction”, in «Science Fiction Studies», 23.3, 1996, pag.322. 145 John Tulloch e Manuel Alvarado, Doctor Who: The Unfolding Text, Macmillan Press, London, 1983. 119 (1966-1969) e Babylon 5 (1994-1998), all’audience è mostrato come l’umanità è progredita per raggiungere una utopia - e questo può a volte creare mondi alternativi nei quali possiamo utilizzare la storia come una allegoria del nostro presente146. La seconda forma, il serial o la mini serie, si appoggiano al percorso della storia per sostenere la propria narrativa. Ciclico per natura, il flusso televisivo descrive il contesto storico di un serial per mostrare l’umanità ricominciare da capo partendo da uno schizzo. Lo spin-off Il Pianeta delle Scimmie (1974) mostra un futuro nel quale gli umani non sono più la specie dominante147, e la mini-serie Dune (2000) si svolge in un tempo epico, nel quale la razza umana non è neanche presente. Anche se queste serie sono basate su film a loro volte basati su racconti, la televisione è in grado di mettere in risalto le imprevedibilità del tempo dove ogni episodio costruisce il contesto per quello successivo - una narrazione epic ache si espande nello spazio e nel tempo. Le mini serie V (1983) e V: The Final Battle (1984) sono chiaramente dei testi epici, con la sopravvivenza della razza umana in pericolo lungo un ben precisato numero di episodi. Una mini-serie più recente che si è poi sviluppata in un serial molto popolare, Battlestar Galactica (2003-2009), segue il percorso comune a diversi serial di successo Americani come 24 (2001-Presente) in cui l’arco temporale si sviluppa lungo un breve periodo, con continui cliffhangers tra scene, episodi e finali di stagione. Anche serie più episodiche come Babylon 5 e Star Trek, in particolare Deep Space Nine (1993-1999), creano lunghi archi narrativi che regalano allo spettatore le aspettative richieste al genere ma, anche, creano un mondo stabile e continuativo in cui i personaggi, i plots, e le storie personali possono svilupparsi ed evolversi148. Queste serie non solo manipolano gli elementi basilari della sci-fi ma, anche, attingono vari elementi da generi diversi come la soap opera e i serissimi television drama per mantenere vivo il loro mondo di finzione. Nel seguito di questa analisi mi focalizzerò su due recenti serie, Star Trek: Enterprise (20012005) e Battlestar Galactica (2003-2009), una rappresentativa del formato serie, l’altra iniziata come mini-serie e poi proseguita come serie per divenire una delle più popolari ed amate. Analizzando come il formato seriale è cambiato nel tempo, influenzando la 146 Lincoln Geraghty, Living with Star Trek: American Culture and the Star Trek Universe, IB Tauris, London, 2007. 147 Eric Greene, Planet of the Apes as American Myth: Race, Politics, and Popular Culture, Wesleyan University Press, Hanover, NH, 1998. 148 Su questo argomento cfr. Chris Gregory, Star Trek Parallel Narratives, MacMillan Press, London, 2000 e Lincoln Geraghty, “Homosocial Desire on the Final Frontier: Kinship, the American Romance, and Deep Space Nine’s ‘Erotic Triangles’” in «Journal of Popular Culture», 36.3, 2003, pagg. 441465. 120 costruzione narrativa e i riferimenti alla propria linea narrativa storica, suggerisco che mentre Enterprise è ristretto nel suo sviluppo narrativo dalla labirintica meta-narrazione del franchise di Star Trek, Battlestar Galactica sperimenta con codici e convenzioni della forma seriale per offrire eccitanti e inter-connessi episodi che non sono obbligati ad avere riferimenti con un originale. Comuque, mentre le due serie differiscono nel modo di manipolare la linea narrativa, attraverso il consumo in un contesto di fandom di genere entrambe le serie divengono inevitabilmente “storia”, i fans collezionano tutti gli episodi grazie ai cofanetti DVD, quindi trasformandoli da testi di sci-fi contemporanei in un bel pacchetto ben confezionato di storia. La serie di fantascienza: Enterprise Star Trek: Enterprise ha chiaramente un pedigree, ambientato nel passato di dell’universo di Star Trek e solo 150 anni nel futuro di Enterprise, ha tutti i requisiti di una serie tv completa. Per Glen Creeber il formato serie è stato sviluppato tra gli anni Sessanta e Settanta (l’originale Star Trek può essere preso ad esempio di uno dei primi format di serie) e ne descrive le caratteristiche come: Storie continuative (con solitamente gli stessi personaggi e le stesse location) che sono composte in episodi auto-conclusi. Come tali, gli episodi di una serie classica possono essere trasmessi in qualsiasi ordine senza perdere coerenza narrativa149. Questa definizione chiaramente richiama alla mente la serie originale di Star Trek; l’equipaggio dell’Enterprise solitamente termina ogni episodio radunato intorno al Capitano, riflettendo sui precedenti circa 40 minuti di avventura, terminando con uno scherzo o un messaggio filosofico che lega l’azione e la narrativa in maniera chiara. Raramente la storia si protrae per più di un episodio, con “The Menagerie” (1966) unico episodio in due parti, e quando la serie termina dopo il 79° episodio l’equipaggio sembra continuare la sua missione di cinque anni senza un saluto o un augurio (la storia viene ripresa nel 1979 con il film The Motion Picture - e i racconti a riempire il lasso di tempo mancante). Le serie seguenti come Star Trek: The Next Generation (1987-1994), DS9, Voyager (19952001) continuano questo percorso, pur se andando ad incrementare la complessità delle storie e dei personaggi, e contribuendo a perpetuare la sua audience cult. DS9 ricorda alcune serie tv degli anni Novanta come Friends e B5 nel modo in cui attinge alla soap e al melodrama, enfatizzando le amicizie, le famiglie, i mariti e le mogli: “Con questo mix, le possibilità di una 149 Gleen Creeber, Serial Television: Big Drama on the Small Screen, BFI, London, 2004, pag.8. 121 linea narrativa che si focalizza su altro rispetto a danni alla navetta e alieni ostili, sono potenzialmente infinite”150. Intere stagioni si concentrano sulla guerra continua tra la Federazione e il Dominio, con l’arco narrativo che culmina con la scomparsa del Capitano Sisko e la divisione dell’equipaggio - con il loro futuro sconosciuto. Gli spettatori incostanti rischiano di non comprendere lo svolgimento dei fatti e spesso gli episodi terminano con piccoli segni di risoluzione della storia. Creeber definisce questa nuova forma di serie televisiva: Mentre la serie è sempre continuativa e senza fine, le storylines ora spesso si sviluppano tra un episodio e l’altro (anche introducendo dei cliffhangers). Questo produce un accumulo di narrazione che non consente di guardare gli episodi in un ordine casuale ma sempre (e così spesso accade) in sequenza151. La televisione è stata descritta da alcuni critici, Raymond Williams e John Ellis tra questi, utilizzando l’idea di “flusso”, separando i testi trasmessi in un processo liquido e confuso di giustapposizione di sequenze casuali (programmi, news, pubblicità). I modelli scaturiti da questa teoria hanno sottolineato come il flusso televisivo sia composto da qualcosa più che singoli testi, come episodi individuali o programmi, e piuttosto comprende “segmenti”, immagini e suoni and di oltre cinque minuti, largamente autoconclusi ma organizzati in unità più ampie (le stesse pubblicità sono segmenti): “Nella caratteristica forma televisiva della serie aperta e del serial continuativo, i segmenti seguono senza un link preciso se non quello di una ‘vaga simultaneità’”152. Nel caso della serie continua, la struttura del segmento suggerisce che vi sia “un continuo aggiornamento, un perpetuo ritono al presente” dove tutti i personaggi, i luoghi, i caratteri, le ambientazioni, e le situazioni, sono riciclate e rimangono gli stessi, “dando un costante background per gli aggiornamenti settimanali”153. Nel caso di Star Trek, e di molte altre serie di fantascienza, il cast, i personaggi, le navi spaziali e gli equipaggi provvedono ad un background strutturale da cui partire per la storia settimanale. Ancora, ogni episodio è pensato come se si svolgesse in tempo reale, in concomitanza con la 150 Lincoln Geraghty, “Homosocial Desire on the Final Frontier: Kinship, the American Romance, and Deep Space Nine’s ‘Erotic Triangles’” in «Journal of Popular Culture», 36.3, 2003, pag. 442. 151 Gleen Creeber, op.cit., pag.11. 152 Sue Thornham, Tony Purvis, Television Drama: Theories and Identities, Palgrave, London, 2005, pag.6. 153 Ivi. 122 sua reale trasmissione, come se lo sviluppo della storyline fosse progressivo di settimana in settimana: raramente gli accadimenti di un episodio vengono presentati come se fossero già accaduti154. Anche se Enterprise introduce un lungo arco narrativo sulla guerra dei Xindi e la nascita della Federazione nella terza e quarta stagione, paragonando la sua narrazione alle svolte di Star Trek e alle storylines più omogenee di DS9 e Voyager (le premesse di quest’ultimo sono basate su un viaggio verso casa rispetto a un viaggio verso nuove scoperte), la sua narrazione è interamente basata su una linea temporale definita che non solo disegna i parametri di un singolo episodio e degli archi narrativi più ampi ma, anche, sviluppa un finale che si mette al riparo da ogni anomalia o discrepanza del plot. Gli opening credits validano la linea narrativa legando Enterprise alla storia dell’aviazione e dei viaggi spaziali attraverso un montaggio di famose navi, passate, presenti e future: “Le scene dalla storia dell’umanità mostrano l’evoluzione dei voli spaziali e della passione per l’esplorazione, inserendo Enterprise, e quindi Star Trek, in un ben determinato genere della narrativa Americana: quello della storia delle esplorazioni e dei viaggi spaziali”155. Inoltre, l’ultimo episodio, “These are the voyages…” (2005), mette in discussione le precedenti quattro stagioni eradicando le storie e i personaggi dal tempo reale televisivo, e destabilizza la continuità narrativa dell’intera serie. Ogni episodio trasmesso prima di quello finale viene immediatamente etichettato come “storia” e non come un segmento che presenta una porzione di “tempo reale”, o piuttosto come una rappresentazione messa insieme in maniera poco curata di una storia che potrebbe o no essere vera, a seconda dell’accuratezza dei dati in archivio. Con William Riker e Deanna Troi che guardano e partecipano alla versione creata dall’holodeck delle avventure della Enterprise, la narrazione della serie si avvicina più a un drama storico teatrale che ad un prodotto televisivo. A differenza del ritorno di Bobby Ewing in Dallas (1978-1991), che rielabora tutto ciò che è accaduto precedentemente nella stagione come sogno, il divertimento - pur ricco di informazioni - di Riker nel gioco di ruolo dell’holodeck durante l’episodio “The Pegasus” (1994) in TNG, condanna Enterprise ad essere il passatempo di un ufficiale immerso nella narrazione perpetua del popolare - e, quindi, più legittimato - Star Trek: Enterprise, una serie più moderna e presumibilmente più 154 Ivi. Lincoln Geraghty “Eight Days That Changed American Television: Kirk’s Opening Narration” in The Influence of Star Trek on Television, Film and Culture, (a cura di) Lincoln Geraghty, McFarland, Jefferson, NC, 2008, pag.17. 155 123 aggiornata, diviene in questo senso la vendetta storica di una serie da tempo scomparsa: “In particolare, gran parte della storia futura di Star Trek mostrata nelle serie passate previene la possibilità di coprire nuovi territori da parte di Enterprise; non si può deviare o cambiare un passato che letteralmente è già accaduto”156. La fantascienza in Serial/Mini Serie: Battlestar Galactica In un senso simile, Battlestar Galactica può essere descritta come una vendetta di una serie terminata da molto tempo; è, dopotutto, il remake della serie originale degli anni Settanta (1978-1979), serie che si presentava marcatamente figlia di quegli anni, narrativamente e visualmente. Comunque, la moderna Battlestar Galactica è più un prodotto della televisione contemporanea che una rielaborazione di quello che Ed Siegel del «Boston Globe» definisce “il peggior show di fantascienza di sempre”157. Anche se la serie originale è pensata come una versione seriale televisiva dell’evento Star Wars (1977), il risultato è una breve serie iperpubblicizzata che deve trovare una rapida conclusione prima che una cancellazione la porti ad una fine prematura. Nel momento in cui Adama e il suo equipaggio riescono a raggiungere la terra nello spin-off Galactica 1980 (1980), il pubblico è talmente stanco e incredulo di fronte al plot e ai personaggi monodimensionali, che la serie viene chiusa prima ancora che i produttori possano terminare il lavoro - durando alla fine mezza stagione per un totale di sei episodi da una ora. Effettivamente, grazie alla produzione che promette una serie ricca di effetti speciali e invece propone, di settimana in settimana, sempre le stesse scene di voli spaziali, e il fatto che la storia per la sua costruzione dovesse poi inevitabilmente portare gli umani a tornare sulla Terra, l’originale Battlestar Galactica soddisfa i criteri definiti da Glen Creeber per un serial o una mini series piuttosto che per una serie lunga. Il serial è una storia continua ripartita in un determinato numero di episodi che arrivano ad una conclusione nel finale (anche se sono previste altre stagioni). 156 Lincoln Geraghty, Living with Star Trek: American Culture and the Star Trek Universe, op.cit., pagg.133-134. 157 Ed Siegel citato in John Javna, The Best of Science Fiction TV: The Critics’ Choice from Captain Video to Star Trek, from The Jetsons to Robotech, Titan Books, London, 1987, pag.85. 124 La mini serie è, strutturalmente, simile al serial ma normalmente associata al dramma epico (a volte trasmessa in serate consecutive). Nato in America, il termine ha gradualmente perso il suo utilizzo158. Al contrario, Battlestar Galactica nella sua versione attuale mostra apertamente le sue credenziali di serial/mini serie. Riportata sui nostri schermi nel 2003 come una mini serie in due parti per Sky TV in Gran Bretagna e poi trasmessa negli Stati Uniti dal canale SciFi, BG è stata concepita come un evento televisivo “da non perdere” che non solo porta una ventata di novità in un classico televisivo ma viene presentata in network via cavo che funzionano solitamente come “boutiques televisive: luoghi che offrono prodotti particolari e limitati per una audience specializzata”159. Dopo aver attratto un ampio pubblico interessato ancora una volta alla storia dell’umanità in lotta contro l’estinzione, i produttori vanno oltre realizzando tredici episodi che possono consentire una eventuale prosecuzione in caso di successo. Questo tipo di televisione segue la definizione di Creeber relativa al serial/mini serie moderno: Mentre il serial (e la miniserie) ancora tendono a muoversi verso una conclusione narrativa in un numero definito di episodi, la continuità tra episodi separati non è più così ben visibile come in passato, consentendo una ampia possibilità a spettatori occasionali di poter seguire la storia. Anche la risoluzione finale è scoraggiata così da lasciare alla serie ampie possibilità di proseguimento160. Non solo il format di Battlestar Galactica viene ridisegnato per una audience moderna, ora familiare e attratta da ciò che viene definito “must see TV”, una frase coniata per aiutare la NBC a ricrearsi un brand identitario e di programmazione del prime time negli anni Novanta161, ma anche utilizzando una tecnica da soap opera e una narrazione flessibile (dove 158 Gleen Creeber, op.cit., pag.8. Derek Kompare, Rerun Nation: How Repeats Invented American Television, Routledge New York, 2005, pag.172. 159 160 Gleen Creeber, op.cit., pag.11. Cfr. Nancy San Martín, “‘Must See TV’: Programming Identity on NBC Thursdays”, in Quality Popular Television, (a cura di) Mark Jancovich, James Lyons, BFI, London, 2003, pagg.32-47. 161 125 la storia generale si svolge in un complesso di scambi narrativi e di sviluppo dei personaggi) e “tecniche sperimentali” (dove la definizione di realtà sociale è sempre più messa in discussione), segni indicativi della rottura tra serie tradizionale e serial162. Come nota Creeber Non è sorprendente, quindi, che l’utilizzo di tecniche da soap sia divenuto uno strumento conveniente attraverso il quale il realismo sociale contemporaneo cerca di riarticolare e di riesaminare la percezione “psicologica” dei personaggi. In questo contesto, la “soap operaisation” di forme lunghe del drama televisivo non deve essere vista come un allontanamento dal “sociale” e dal “politico” attraverso il “personale” e il “banale”, ma piuttosto come una graduale progressione verso nuove forme di rappresentazione che offorno una articolazione dell’esperienza sociale contemporanea maggiormente articolata163. In un altro senso, la rinascita di Battlestar Galactica come forma seriale lunga, la cui struttura narrativa obbliga ad una fine nel momento in cui gli umani tornano sulla Terra, significa che molta attenzione è data alla caratterizzazione dei personaggi e alla rappresentazione della relazione tra umani e cyclons, o ai conflitti politici e personali tra i militari ed il governo, piuttosto che aderire ad una narrazione sul presente come visto in Star Trek: Enterprise. Reimmaginare serie come Enterprise e Battlestar Galactica è molto più audace di come sembra. Battlestar Galactica non nasconde le sue allusioni verso gli eventi dell’Undici Settembre e verso l’impegno Americano nella guerra in Iraq. La serie, con la sua enfasi sulla serializzazione di un plot compatto (umani che cercano la Terra mentre sono minacciati dai cyloni che sembrano umani), crea contatti diretti con gli eventi politici. Inoltre, il design e la mise-en-scene fanno affidamento sul contemporaneo, attraverso elementi di arredamento, musica popolare e tecnologie attuali. Questi indizi visuali mostrano il contesto reale nel quale la serie è prodotta e sono centrali nel delineare il coinvolgimento politico, sociale e filosofico della serie. 162 163 Ivi, pag.12. Ivi, pag.13. 126 È importante notare come la maggior parte di questi elementi si trovino nella serie originale, come la navetta Viper, il linguaggio dei segni dei piloti, e il nostalgico riuso del vecchio tema musicale di Stu Phillips come ascoltato nell’episodio “Final Cut” (2005), eppure questi elementi non minacciano il potenziale di sviluppo della storia e la sua complessità. Infatti, anche quando la serie ha in vista una inevitabile conclusione, il suo formato non è costrittivo. Gli episodi della prima stagione partono con un riassunto degli eventi narrati nella mini serie del 2003: la distruzione di Caprica, l’attacco alla Galactica, la nascita dei cyclons umani; la storia è ripetuta in una serie di flashbacks tipici delle serie più popolari. Come nota Sarah Kozloff poichè i serials progrediscono di settimana in settimana, devono affrontare dei dilemmi speciali. Per primo, devono aggiornare spettatori che non guardano lo show o hanno perso alcuni episodi… Secondo, i serials devono creare abbastanza interesse e coinvolgimento negli spettatori per sopravvivere alle sospensioni, e i cliffhangers e i flashforwards lavorano bene in questo senso164. Galactica chiaramente li utilizza entrambi - l’aspettativa creata intorno all’inizio della quarta stagione è stata una prova della grande popolarità della serie -, e usa i flashforwards anche all’inizio di ogni episodio, dopo l’iniziale flashback relativo alla mini serie e agli episodi precedenti, costruendo una aspettativa che contribuisce a quel richiamo “must see” della serie. Mentre i flashbacks rappresentano la storia, legando ogni episodio ad una storia precedente (in riferimento all’inizio di Enterprise essa è la storia del volo), i flashforwards creano una sorta di “perpetuo ritorno al presente” che dona a BG una qualità epica: storia, politica, vita, morte, tutte impacchettate in velocità, in un montaggio veloce. Laddove l’attenzione al dettaglio e la percezione di una creazione olografica in Enterprise trasformano lo show da una serie futuristica ad un dramma storico teatrale, Galactica è capace di sfruttare al meglio le sue caratteristiche di serial giocando con i formati e le convenzioni 164 Sarah Kozloff, “Narrative Theory and Television” in Channels of Discourse, Reassembled: Television and Contemporary Criticism, (a cura di) Robert C.Allen, Routledge, London, 1992, pagg.91-92. 127 della televisione contemporanea, e di offrire all’audience riferimenti intertestuali sulla sua storia. La storia è importante nella serie ma non a spese della continuità narrativa e di narrazioni che catturino l’attenzione del pubblico nel flusso continuo della televisione, destando l’attenzione dei “cult fans” per notizie e curiosità. Il piacere ripetuto della fantascienza televisiva Enterprise e Battlestar Galactica offrono entrambe mondi narrativi espansi nei quali gli spettatori, specialmente quelli definiti cult fans, possono immergersi. I format televisivi che supportano la loro produzione e ricezione - la serie episodica e il serial - donano al fan uno schema per la visione che aiuta a costruire e mappare il contesto personale di godimento e apprezzamento. Mentre i mondi narrativi crescono e gli episodi aumentano il potenziale di fatti e accadimenti si eleva, così come i personaggi e gli sviluppi narrativi. Come Sara Gwenllian-Jones e Roberta Pearson affermano, la segmentazione e la ripetizione dei formati di fantascienza in televisione funzionano accanto alla narrazione per offrire possibilità multiple per lo show e per gli spettatori: Serializzazione, densità testuale e, forse ancora di più, la non linearità di più momenti e luoghi presentati, creano le potenzialità per un metatesto potenzialmente infinito mentre il testo cult crea uno spazio da far rivelare dai fans165. Accoppiata con questa creazione di “spazio” per i fans è l’idea di una canonicità che diviene cruciale per gruppi che condividono una passione per uno stesso testo ma, nello stesso spazio, differiscono i livelli di conoscenza e memoria di intricati dettagli del plot e dei personaggi. In un certo senso, la familiarità con il testo e il riconoscimento di fatti e curiosità come forma di potere in un determinato contesto sono interamenti legati alla narrazione, alla storia e ai formati televisivi che supportano la serie: [Il possedere delle notizie] è quindi una forma di capitale culturale attraverso il quale il fandom è in grado di reclamare speciale accesso, e 165 Sarah Gwenllian-Jones e Robert Pearson, “Introduction”, in Cult Television (a cura di) Sarah Gwenllian-Jones e Roberta Pearson, University of Minnesota Press Minneapolis, MN, 2004, pag. xvii. 128 conoscenza, al testo specifico e a gruppi di testi e, così facendo, afferma la proprietà dei testi stessi166. I concetti di curiosità, appartenenza e formato episodico della televisione di fantascienza sono inevitabilmente influenzati dalle nuove tecnologie associate con la videoregistrazione, l’archiviazione, e i DVD box set. Mentre serie come Enterprise e Battlestar Galactica guadagnano il loro status cult attraverso l’originalità su networks e canali via cavo, il potenziale per gli studios di capitalizzare questo mercato cresce attraverso repliche, maratone, home video. Fans che vogliono godere di un piacere ripetuto, senza dover aspettare le repliche decise dal network, posso registrare gli episodi o uscire a comprare una stagione intera in DVD da guardare a proprio piacimento: Questa connessione fisica e culturale tra la televisione e l’home video, consente alle persone di usare le proprie disponibilità per creare o accedere ad una propria programmazione ai propri termine, piuttosto che restare ancorati alla programmazione e ai tempi dell’industria televisiva167. Separare la televisione di fantascienza dai confini di una programmazione settimanale, consente agli spettatori la costruzione di una narrazione personale, guardando gli episodi nell’ordine desiderato, spesso con gli extra, le scene cancellate e i documentari che aggiungono nuovi contesti e letture all’esperienza visiva. Ancora, l’intera storia della narrazione che può essere creata e mantenuta attraverso la forma serie/serial, è destabilizzata nel momento in cui è l’audience ad assumere il controllo del contesto visivo. Guardare gli episodi in ordine sparso, o gli episodi preferiti al di fuori di ogni arco temporale o metanarrativo, o ascoltare il commento over del regista, influiscono sul flusso della televisione regolare che tiene lo spettatore ancorato al presente. 166 Nathan Hunt, “The Importance of Trivia: Ownership, Exclusion and Authority in Science Fiction Fandom” in Defining Cult Movies: The Cultural Politics of Oppositional Taste, (a cura di) Mark Jancovich, Antonio L. Reboll, Julian Stringer e Andy Willis, Manchester University Press, Manchester, 2003, pag.198. 167 Derek Kompare, “Publishing Flow: DVD Box Sets and the Reconception of Television”, in «Television & New Media», 7.4, 2006, pag.339. 129 Gli ambiti di visione sono cambiati poichè le interruzioni pubblicitarie e il logo del network che si sovrappone sullo schermo spariscono e la serie diviene un testo accesibile in ogni momento: Il flusso televisivo della televisione non è solo misurato in tempo ma, anche, in merce fisica, come oggetti culturali piazzati in una collezione di media permanenti accanto alla similiarità di media prodotti per la massa168. Comunque, le repliche e i DVD box set situano la serie anche nel passato; i box set sono un archivio con degli extra che localizzano la serie in una nuova storia, una storia personale: “[il DVD], in quanto medium ibrido dedicato alla riproduzione di una esperienza che gli è esterna, standardizza, frammenta, decodifica, oggettivizza, e segmenta questa esperienza”169. Come accennato precedentemente, la fantascienza usa la storia per raccontare una storia, e utilizza i formati televisivi per creare un senso di dispiegamento narrativo; il piacere della ripetizione nel rivedere un episodio registrato o acquistato in un box set crea una altra storia e narrativa distaccata da quella vista la prima volta sul piccolo schermo. Con la fantascienza ora locata in una storia fissa, personale, attribuita dal gusto dei fans e dalla memoria culturale, il collezionismo di prodotti associati ad una serie, come i DVD box set, divengono parte di una merificazione e storicizzazione della cultura. La natura episodica di Enterprise e Battlestar Galactica, e la loro relazione con una narrazione prestabilita, rendono attraenti forme ideali di un capitale culturale nel quale i fans possono investire. Nel suo studio sulla cinefilia legata all’home video e ai collezionisti di DVD Barbara Klinger170 evidenzia come la crescita di una cultura casalinga sui flm abbia un effetto positivo sulla relazione - una volta antagonistica - tra il cinefilo (una persona che ha una passione per i film mostrati nel loro contesto originale, una sala scura) e la visione domestica (in VCR/DVD o in televisione). Le nuove tecnologie che migliorano la qualità e la disponibilità di film e serie tv che possono essere viste a casa, hanno sottolineato come sia possible per il cinefilo godere della propria passione in un ambiente domestico. 168 Ivi, pag.353. Charles Tashiro, “Videophilia: What Happens When You Wait for It on Video”, in «Film Quarterly», 45.1, 1991, pag.16. 170 Cfr. Barbara Klinger, Beyond the Multiplex: Cinema, New Technologies, and the Home, University of California Press, Berkeley, CA, 2006. 169 130 Il collezionismo è divenuto ancora più importante per coloro che hanno una passione per film e tv man mano che questi testi sono stati possibili da acquistare, mercanteggiare, e collezionare in formati non deteriorabili. In più, i box sets in una collezione di un fan “sono divenuti una aggiunta decorativa come le sedie, i tavoli, i tappeti dell’ambiente domestico”171. Lo spazio casalingo diviene un archivio di fantascienza televisiva che rappresenta un accumulo di capitale del collezionista che agisce come uno storico archivista dell’impatto e dell’influenza di una serie tv popolare: “Gli ardenti collezionisti di TV/video sono, in molti sensi, storici dei media, archivisti dediti alla scoperta e alla conservazione della televisione, passata e presente”172. Collezionare serie di fantascienza in DVD e video, in aggiunta al protezionismo di una gerarchia associata con l’acquisizione di tali media, fa riferimento ad una “mascolinità del cult” definita da Joanne Hollows173 come il modo in cui la maggior parte degli elementi chiave delle pratiche di consumo che costituiscono il cult fandom (collezionare, guardare, leggere le riviste etc.) sono naturalmente mascoline in opposizione con la femminilizzazione della cultura mainstream (film commerciali e televisione). Nel distanziarsi dall’“acquirente femminile” e adottando una maggiore “assertività mascolina” verso il consumo del prodotto, questi fans che collezionano box set e interagiscono con un prodotto visivo, partecipano ad un rituale che storicamente è stato “immaginato come maschile” in paragone all’idea che le donne possano acquistare oggetti solo come parte del loro consumismo domestico174. Hollows e Klinger prendono il caso del “collezionista che [non] è ‘essenzialmente’ una figura maschile”175, del collezionista di film e tv che “non costituisce una comunità omogenea”176, e 171 Charles Tashiro, “The Contradictions of Video Collecting”, in «Film Quarterly», 50.2, 1996, pag.17. 172 Kim Bjarkman, “To Have and to Hold: The Video Collector’s Relationship with an Ethereal Medium” in «Television & New Media», 5.3, 2004, pag. 239. 173 Joanne Hollows, “The Masculinity of Cult”, in Defining Cult Movies: The Cultural Politics of Oppositional Taste, (a cura di) Mark Jancovich, Antonio L. Reboll, Julian Stringer e Andy Willis, Manchester University Press, Manchester, 2003, pag.37. 174 Ivi, pag.46. 175 Ivi, pag.47. 176 Barbara Klinger, op.cit., pag.63. 131 comunque, lo stereotipo del maschio single disadattato ancora persiste nel fandom di questo genere. Conclusione Nel mercato televisivo sempre in evoluzione, fissato con l’audience di nicchia, la qualità, le produzione brevi, la fantascienza hanno un solido futuro. Le nuove tecnologie di visione come il digitale, TIVO e il sistema satellitare dove tu puoi registrare i programmi come piacciono a te, e il mercato dei DVD box set orientato verso i fans dove ogni serie cult mai prodotta può essere acquistata e tenuta con entusiasmo e con una completezza che assicura al genere una evoluzione dell’audience cross-generazionale su prodotti nuovi e classici. Con la tecnologia che consente agli spettatori di rivedere e rivivere le serie della propria infanzia, così come serie nuove che fanno riferimento ai classici, la fantascienza continua a dare il meglio del suo genere: dipingere il futuro interrogandosi sul passato. Le varie forme di formati serializzati ed episodici non solo sostengono l’appoggio della fantascienza sulla storia ma anche ne amplificano le combinazioni portando l’audience ad una relazione molto stretta con la narrativa. La narrativa seriale è un elemento chiave nel modo in cui la fantascienza affronta la storia. In settimane, mesi e anni, la televisione consente la creazione della storia, lo sviluppo e la conclusione (a volte aperta) che parla al desiderio degli spettatori di vedere epiche viste di mondi alieni e di divenire emozionalmente attaccati ai personaggi con i quali sono familiari. I film e la letteratura di fantascienza possono usare la storia come sfondo della loro narrazione ma raramente vogliono, o possono, indirizzare l’epica natura della storia e dei multipli mondi o visioni aliene. La televisione e le tecnologie innovative associate insieme, offorno nuove e ripetute strade da esplorare, nuovi temi da affrontare, nuovi mondi da immaginare. 132 Torchwood e il Cult Emergente di Matt Hills Sebbene il programma possa presentare attributi da simil-cult - tono irregolare e una certa qualità sgangherata, insieme alla materia del soggetto non mainstream177 - la sua relazione intertestuale con il cult di Doctor Who sta a significare che l’attività dell’audience lo ha contestualizzato come cult anche prima dei suoi precisi attributi testuali e della sua prima messa in onda. Come Philippe Le Guern ha utilmente arguito, seguendo un approccio costruttivista ai dibattiti sulla TV di culto significa che la “questione è… meno quella di sapere che cosa sia il ‘cult’, se l’essenza del ‘cult’ effettivamente proprio esista, che non quella di portare alla luce gli usi che si fanno del termine178”. Questo significa riconoscere che le serie TV possono essere “sempre già cult”179 a causa della loro intertestualità e della loro relazione a riconosciuti testi cult. In altre parole, le attività dell’audience che circondano un testo “genitore” possono trasferirsi al suo ”figlio” testuale, cosa che significa che il fandom cult può precedere l’esistenza di un testo, così come emergere in risposta agli attributi che il testo alla fine mostri di possedere. Ho precedentemente descritto questi differenti percorsi verso lo stato di cult come possibilità “residuali” ed “emergenti”180. I cult ‘residuali’ precisamente coinvolgono le audience riportando i discorsi cult da un testo-originario a una serie di spin-off, successori, o adattamenti, ad esempio i fan di Tolkien che abbracciano il franchise cinematografico del New Line Cinema come interazione residuale del culto di Tolkien. D’altra parte, i cult “emergenti” (come suggerisce l’etichetta) emergono come il risultato, e in risposta a, qualità e attributi testuali, ad esempio le audience per i film de Il Signore degli Anelli del regista Peter Jackson, che ne fanno un culto anche senza aver letto Tolkien, ma piuttosto focalizzandosi sulla costruzione del mondo diegetico dei film e sullo spettacolo degli effetti speciali come indicatore dello stato di cult. 177 Robin Nelson, State of play: Contemporary “high-end” TV drama Manchester University Press, Manchester and New York, 2007, pag.76. 178 Philippe Le Guern, “Toward a Constructivist Approach to Media Cults” in Sara Gwenllian Jones and Roberta E. Pearson (a cura di), Cult Television University of Minnesota Press, Minneapolis, 2004, pagg.19-20. 179 Bruce Isaacs, Toward a New Film Aesthetic Continuum, New York and London, 2008, pag.122. 180 Matt Hills, “Realising the Cult Blockbuster: The Lord of the Rings Fandom and Residual/Emergent Cult Status in ‘the Mainstream’” in Ernest Mathijs (a cura di), The Lord of the Rings: Popular Culture in Global Context, Wallflower Press, London and New York, 2006, pag.168 133 Analizzare i cult dei media come ultra-determinati - sia attraverso l’attività dell’audience (pretestuale) che le risposte (post-testuali) alla struttura e al disegno di un testo - implica che la cult Tv, come il cinema di culto, possa non essere aperta a nessuna singola spiegazione. Allo stesso modo, il binario in apparenza logico o ‘testo’ o ‘audience’ - la ricerca di una “essenza” di cult contro cui Le Guern mette in guardia - può ben disperdersi in spiegazioni che coinvolgono sia ‘il testo’ che l’‘audience’. Seguendo questa linea di argomentazione, nella prossima sezione considererò più in dettaglio come Torchwood sembri testualmente progettato per attirare un fandom cult “emergente” in virtù di una gamma di attributi (instabilità/ rappresentazione della sessualità/ un feeling glocale americano/gallese). Concluderò poi argomentando che la serie ha anche fortemente beneficiato dell’attività dei fan di cult “residuale”, dal momento che i fan di Doctor Who hanno esteso la loro lealtà al marchio e al responsabile del programma dal programma “genitore” della BBC Galles al suo primo spin-off. Qualità Testuali: Torchwood come TV Cult ‘Emergente’ Negli Stati Uniti, dove Doctor Who non è mai stato così ampiamente conosciuto come in Gran Bretagna, e dove quindi Torchwood non poteva essere trattato come pre-venduto a un pubblico leale di fan di Who, il programma è stato più attivamente promosso a un’audience di nicchia di fan di genere/cult, e il capo-sceneggiatore Chris Chibnall ha partecipato al Comic-Con, per cortesia della BBC America, per promuovere il lancio di settembre della prima serie di Torchwood in America… mi è stato detto di aspettarmi una convention di 5.000 persone, ma nel corso dei quattro giorni, penso sia stata più vicina alle 100.000! È la più grande convention nel suo genere nel mondo, e un incontro come nessun altro. La tavola rotonda di due ore di Torchwood è piena di gente fino al soffitto… 6 settembre 2007: USA. Torchwood debutta sulla BBC America, e siamo un successo! È il programma di maggior ascolto di tutti i tempi sul canale181. Questo suggerisce che lo stato di cult emergente può essere più significativo nei termini della carriera transnazionale del programma, essendo che lo status di quasi cult residuale dei 181 Chris Chibnall, “The Great Escapes”, in «Torchwood: The Official Magazine», issue one, 2008, pag.65. 134 derivati di Who ha piuttosto più senso nel contesto del Regno Unito, così come forse per la cultura fan internazionale online di Doctor Who (vedi, ad esempio, doctorwhoforum.com). Peter Hutchings sostiene che il cult può ben avere una “specificità nazionale” in sé182, essendo lo stato mainstream del cinema o della TV differentemente modulato, per esempio nel Regno Unito e in Italia. Qui, tuttavia, non è semplicemente che Torchwood potrebbe essere “mainstream” in una nazione e “cult” in un’altra, come Hutchings suggerisce sia stato il caso per i film di Dario Argento, ma piuttosto che potrebbe prendere percorsi in qualche modo differenti verso lo stato di cult in differenti contesti nazionali. Detto questo, vale la pena notare che Torchwood sembra effettivamente avvicinarsi sempre più al confine dello stato di mainstream, nel Regno Unito almeno, essendo il seguito in cinque parti alla seconda serie, Children of Earth/ Figli della Terra, concettualizzato e commissionato per la prima trasmissione sulla BBC1. Indirizzato a fan di genere/cult, Torchwood ri-dispiega tropi familiari: il suo personaggio principale è efficacemente immortale, e presenta una “fessura” nello spazio-tempo attraverso cui un qualunque numero di creature aliene possono apparire. Il suo stato sia di “Tv cult” che di “Tv trasgressiva adulta” è segnato in un diverso numero di modi, e non solo dall’uso della parola “fottere” nei momenti di apertura del primo episodio, o la rappresentazione di un personaggio che si masturba nel secondo episodio. Il suo contenuto adulto non è semplicemente una questione di rompere i tabù della rappresentazione sessuale o linguistica, come ha argomentato il commentatore fan Stephen James Walker, che ha notato che nel “sollevare [la] … domanda dell’esistenza o, altrimenti, della vita dopo la morte, Torchwood si avventura in un territorio filosofico e religioso molto profondo, in un modo in cui Doctor Who probabilmente non ha mai potuto… Questo veramente mantiene la promessa di una serie adulta che fa riflettere”183. In modo inusuale per un programma che, come telefantasia, tratta di extraterresti e di forze sovrannaturali, Torchwood nonostante questo riflette, dall’inizio del suo episodio di apertura, su una posizione materialista e atea in cui non c’è vita dopo la morte, solo il buio o un nulla eterno. Questa enfasi può essere letta in relazione alle credenze dell’ideatore del programma, Russell T. Davies, ma in ogni caso è un elemento piuttosto notevole da scoprire accanto al formato fantastico e narrativo del programma. Le tensioni fra 182 Peter Hutchings, “The Argento Effect” in Mark Jancovich, Antonio L. Reboll, Julian Stringer and Andy Willis (a cura di), Defining cult movies Manchester University Press, Manchester and New York, 2003, pag.132. 183 Stephen James Walker, Something in the Darkness: The Unofficial and Unauthorised Guide to Torchwood Series Two, Telos Publishing, Tolworth, Surrey, 2008, pag.17. 135 rappresentare il sovrannaturale, come generica telefantasia, e il mantenere una filosofia materialista emergono e vengono drammatizzate nel corso della messa in onda della serie. Per esempio, l’intera premessa di “L’occhio alieno” sembra essere completamente in contrasto con la solita dottrina di Torchwood - stabilita in “Tutto cambia” e rinforzata in “Continuano ad Uccidere Suzie” - che non c’è vita dopo la morte, salvo forse per un eterno buio nulla”184. E l’episodio finale della prima serie, “La fine dei Giorni” (sceneggiatore: Chris Chibnall) gioca, in modo connotativo almeno, in qualche modo contro lo stabilito ateismo del programma nel rappresentare il Capitano Jack Herkness come una figura simile a Cristo. Nonostante tali tensioni creative fra il genere e i concetti teologici, il copione per l’1.08, “Continuano ad Uccidere Suzie” (sceneggiatori: Paul Tomalin e Daniel McCulloch, con un input non accreditato di Russell T. Davies) collega esplicitamente il posizionamento antireligioso della serie con la sofisticazione “adulta” di pensiero. Il personaggio di Suzie Costello (Indira Varma) causticamente rimarca a Gwen (Eve Myles) che il suo credere nel paradiso come a una “luce bianca” è solo il genere di fede infantile che “non ha mai lasciato le scuole elementari”. Qui, ogni credenza nella vita dopo la morte è fortemente rappresentata come un sistema di valori compensatorio e consolatorio piuttosto che come un riconoscimento da adulti di realtà più dure. La “fessura” di Torchwood può assomigliare in modo molto forte alla “Bocca dell’inferno” di Buffy quanto a possibilità e termini narrativi, ma lì dove la seconda è inscritta entro concetti religiosi, la prima è strenuamente secolare. Tuttavia, la ricezione critica di Torchwood non ha sempre validato la pubblicità del programma e la contestualizzazione che ne fa l’industria come di un programma più “adulto” di Doctor Who. In particolare, il noto critico televisivo britannico Charlie Brooker ha argomentato che: Il guaio con il serial nuovo di zecca “sorella” di Who… Torchwood… è che non è veramente chiaro a chi sia mirato. Contiene parolacce, sangue e sesso, eppure ugualmente allo stesso tempo si sente come un programma per bambini. I tredicenni dovrebbero amarlo; tutti gli altri è probabile che siamo più che un poco confusi. Il che non vuole dire che Torchwood sia cattivo. Solo sconcertante185. 184 Ivi, pag.184. Charlie Brooker, “Charlie Brooker's Screen Burn”, «The Guardian», 28 Ottobre 2006, available online (accessed 4/3/08) at 185 136 Brooker dichiara che nonostante l’inclusione da parte del programma di sesso e sangue, i suoi elementi di avventura telefantastica - il SUV ad alta tecnologia del Torchwood, una entrata invisibile al Nucleo attraverso un pietra di pavimentazione “magica”, la mano mozzata del Dottore che viene preservata in un contenitore -, tutto aggiunge un aspetto “infantile” a un contenuto altrimenti “adulto”, e perciò risulta in una bizzarra mescolanza di tonalità molto diverse. Come osserva Stephen James Walker questa è anche una “frequente lamentela dei fan […] che Torchwood ha un tono discontinuo”186. Sebbene questo qualche volta possa venire in superficie come un problema per i fan e per i critici, il teorico Umberto Eco ha notoriamente postulato tale discontinuità come un attributo testuale chiave che sottostà allo stato di culto: per trasformare un lavoro in un oggetto di culto si deve essere in grado di romperlo, dislocarlo e disconnetterlo, in modo che si possa ricordarne solo delle parti senza riguardo per la loro originaria relazione con il tutto… un film disconnesso sopravvive come una serie di immagini di picchi e di iceberg visuali disconnessi. Dovrebbe mostrare non una sola idea centrale, ma molte. Non dovrebbe rivelare una coerente filosofia di composizione, Dovrebbe continuare a vivere, e a causa, della sua gloriosa instabilità187. Torchwood mostra tale “gloriosa instabilità” in gran quantità. Naturalmente, questo non significa che sia mal fatto, ma piuttosto che è marcato da incongruità e da massici cambi di tono. Sia che mostri uno pterodattilo che vola sopra la Cardiff contemporanea, il Capitano Jack che supporta un personaggio mentre commette un suicidio, o una cyber-pupa in stile B movie sui tacchi, Torchwood sembra un esemplare quasi-perfetto di “iceberg visuali” e di molte, molte idee che resistono alla coerenza testuale. Nonostante i discorsi di produzione che enfatizzano che la seconda serie ha imparato dagli eccessi e dagli errori della prima serie188, anche questa era segnata da “gloriosa instabilità”. Una storia continuata riguardava Owen Harper che diventava uno zombie - senza fiato e fame ma apparentemente ancora in possesso http://www.guardian.co.uk/media/2006/oct/28/tvandradio.broadcasting Stephen James Walker, Inside the Hub: The Unofficial and Unauthorised Guide to Torchwood Series One, Telos Publishing, Tolworth, Surrey, 2007, pag.223. 187 Umberto Eco, op.cit., pag.198. 188 Mark Aldridge e Andy Murray, T Is For Television: The Small Screen Adventures of Russell T. Davies, Reynolds and Hearn, Surrey, 2008, pag.218. 186 137 di una circolazione funzionante. La seconda serie ha anche vantato una versione Vittoriana del team Torchwood, e la più diretta appropriazione da parte del programma della fan-fiction slash [fan fiction con tematica omosessuale, generalmente maschile, ndt], il capitano John Hart (James Marsters) e la sua relazione con il Capitano Jack189. Ha anche continuato la tensione del formato fra percorsi narrativi sovrannaturali/paranaturali di telefantasia e una filosofia materialista, atea. Come ha fatto notare l’ideatore e produttore esecutivo di Russell T. Davies, un’altra parte della distintiva identità del programma viene dalla sua rappresentazione della sessualità: non ci sono molte serie su bisessuali che combattono gli alieni sotto Cardiff!... Questo è molto distinto. Siamo chiari, ci sono molti programmi americani che trattano un argomento simile al nostro, e il successo di Torchwood sulla BBC America è stata un po’ una sorpresa per me per questa ragione. Avevo paura che fosse come portare carbone a Newcastle. Ma la ricerca mostra che la sessualità di Jack, così come la sessualità fluida che percorre tutto il programma, è una caratteristica unica190. Sia che il Capitano Jack Harkness sia descritto come “pansessuale”, o sia che una gamma dei membri del team Torchwood si dica che rappresentino “tensione bisessuale”191 o in effetti una ampia “gay-zzazione” di categorie fissate di sessualità, ciò che nondimeno emerge è un costante accento sulla “sessualità fluida”, così come la codifica Davies in questa intervista. I personaggi sono rappresentati nei fatti come persone che si muovono fra scelte di oggetto maschile e femminile, senza che questo venga drammatizzato come alcun tipo di problema, e senza una punizione o problematizzazione narrativa. Si mostra che Ianto Jones, ad esempio, ha una ragazza che è stata parzialmente trasformata in un cyber-essere (1.04 “La donna cybernetica”), e poi più in là ha una relazione con il Capitano Jack (ulteriormente sviluppata lungo la seconda serie). Toshiko (Naoko Mori) ha un’avventura con un alieno che ha adottato una forma di corpo umano femminile come travestimento (1.07, “Un amore venuto da lontano”) e poi si innamora di Owen Harper (Burn Gorman), che pure viene rappresentato 189 Stephen James Walker, op.cit, 2008. Davis citato in Benjamin Cook, “Underground Adventures”, in «Doctor Who Magazine» 391, 2008, p.55. 191 Charlie Brooker, op.cit. 190 138 come una persona che seduce una coppia maschio e femmina in “Tutto cambia”. Dal momento che questi sviluppi sono presentati senza dibattito o angoscia, vi è un senso per cui il programma naturalizza la bisessualità come ordinaria o come una cosa data - sebbene “bisessualità” sia una termine che salta fuori più nei commenti che in Torchwood in se stesso. Al contrario, sembra che il programma deliberatamente respinga e neghi tutte le differenti denominazioni culturali, gay/etero/bi, che potrebbero altrimenti entrare in gioco a restringere le identità dei personaggi. Anche solo per questo intervento testuale, Torchwood potrebbe meritare lo status di cult come una sfida radicale e progressista alle ideologie contemporanee della sessualità. E notate anche che nella suddetta citazione di Russell T. Davies, non è solo la “sessualità fluida” che è vista come l’elemento che distingue Torchwood dai suoi concorrenti di culto/telefantasia, ma anche la sua ambientazione nel Galles: “che combattono gli alieni sotto Cardiff”. Si può senz’altro suggerire che la serie è molto consapevolmente post-Buffy192, nel cercare di co-optare indicatori di TV di “qualità/culto” statunitensi così come nel riflettere e rifrangere la sua identità gallese. Il look che può considerarsi la sua firma, che coinvolge il ripetuto uso di inquadrature di Cardiff riprese da un elicottero, scimmiotta gli alti, patinati valori produttivi delle serie Tv americane, ma allo stesso tempo Torchwood è geograficamente e narrativamente centrato su icone della Cardiff rigenerata, come il Millennium Centre e l’area della Baia. Questa dualità dà al programma una sensazione glocale - misurandosi con la Tv statunitense, non de-localizzando i suoi personaggi o le sue narrative, ma piuttosto esteticizzando l’ambientazione della Cardiff urbana e puntando a una tele visualità in stile americano193. Il risultato è meno transatlantico che bi-Atlantico, cosa che indica una ibridazione testuale di forma statunitense e di contenuto gallese che cerca di collegare intertestualmente gli stili della televisione statunitense di genere/culto con una agenda localizzata. C’è un’altra “gloriosa instabilità” o incoerenza da cult qui, dal momento che una mise-en-scene patinata stile-statunitense è pigiata insieme con l’ambientazione di Cardiff. Come ha notato Eric Freedman, in un saggio che tratta in modo predominante di Buffy 192 Cfr. Richard Stokes, “Like a Kid in a Candy Store”, in Torchwood: The Official Magazine, issue two, 2008 e Stephen James Walker, Inside the Hub: The Unofficial and Unauthorised Guide to Torchwood Series One, Telos Publishing, Tolworth, Surrey, 2007. 193 John Thornton Caldwell, Televisuality: Style, Crisis and Authority in American Television Rutgers University Press, Brunswick, New Jersey, 1995. 139 sebbene l’ambientazione sia comunemente sotto-utilizzata nelle narrative seriali, è nondimeno un importante codice visivo. … l’ambientazione è tipicamente privilegiata solo nella sequenza di montaggio d’apertura di ogni programma seriale… Eppure invece che ignorare l’ambientazione a favore dei personaggi, l’ambientazione merita un esame minuzioso ulteriore come a un codice testuale complesso194. L’ambientazione di Torchwood non è, al contrario, per nulla minimizzata o contenuta da cose similiari ai montaggi di apertura. Piuttosto è presente in primo piano, con anche il set del Nucleo - in modo efficace, la “base” del team Torchwood - deliberatamente progettato per includere, come sua colonna portante, una continuazione della iconica fontana situata nella vita reale fuori dal Wales Millennium Centre. E la dualità Stati Uniti-Regno Unito del programma è strutturata con in mente i suoi precursori chiave di “alta concezione” - X-Files incontra This Life - come recita una delle battute umoristiche chiave di Russell T. Davies nella prima storia: “CSI: Cardiff, mi piacerebbe vederlo”, borbotta l’agente di polizia Andy. Non coincidentalmente, questo cattura un’altra delle tensioni del format, forse chiedendo al pubblico di tollerare o accogliere questa incoerenza di composizione attirando giocosamente l’attenzione su di essa. L’identità gallese di Torchwood è stata resa una priorità della BBC Wales negli eventi promozionali locali per il programma, come “Una Celebrazione di Torchwood” presentata al Millennium Centre, lunedì 21 gennaio 2008 e che prevede una proiezione anticipata speciale in HD dell’episodio 2.11, “Alla deriva”, di Chris Chibnall. Nell’intervista pubblicitaria per la seconda serie, Russell T. Davies ha specificatamente lodato l’episodio, non collegandolo intertestualmente al cult o ai precursori della TV statunitense, tuttavia, ma piuttosto cintando l’età d’oro e la tradizione dei programmi televisivi drammatici britannici. L’episodio 11 è buono alla maniera di Play For Today; è assolutamente, assolutamente straordinario. Vorrei averlo scritto io, e non lo dico spesso, perché penso di essere meraviglioso!… È molto 194 Eric Freedman, “Television, Horror and Everyday Life in Buffy the Vampire Slayer” in Michael Hammond e Lucy Mazdon (a cura di) The Contemporary Television Series Edinburgh University Press, Edinburgh, 2005, pag.163. 140 Cardiff, con un forte cast gallese - c’è Ruth Jones… - recitano con tutto il cuore che hanno. È bellissimo, come un piccolo pezzo da camera195. Nel discorso dell’industria, Torchwood non è per nulla bi-atlantico, invece viene contestualizzato come “molto Cardiff” nello stesso identico momento in cui è articolato con gli indicatori della televisione di qualità del Regno Unito, e con un’opera di Tv singola. E sebbene queste dichiarazioni di uno stato di “qualità” possano essere culturalmente insicure, di nuovo suggeriscono che proprio la multivocalità e l’essere ibrido di Torchwood offre ulteriori segni della sua “gloriosa instabilità” come stato di cult - appropriandosi delle norme e delle narrative della Tv cult statunitense contemporanea nello stesso momento in cui indossa il suo essere gallese come un distintivo d’onore; pigiando insieme le convenzioni del genere telefantasia con la focalizzazione della televisione “seria” su quesiti materialisti e atei; rappresentando la sessualità in modo radicale nello stesso tempo in cui offre storie del “mostro della settimana”. Dato il suo progetto testuale e la sua rampante disuguaglianza nel tono, Torchwood ha molto attratto discorsi di cult come un esempio “emergente” di televisione cult. Nella prossima sezione, andrò avanti nel considerare un percorso alternativo allo stato di cult: il cult “residuale”, dove le audience di riconosciuti cult estendono intertestualmente le loro attività e alleanze a una nuova serie o spin-off, anche in anticipo rispetto alla sua trasmissione. Audience Trasferite: Torchwood come Cult TV ‘Residuale’ Lo stato di cult di Torchwood potrebbe essere discusso per riflettere non solo sulle sue radici nella telefantasia e della sua “instabilità” di tono, ma anche il suo posto come programma TV drammatico “d’autore”, interpretabile come parte della raccolta delle opere di Russell T. Davies e perciò leggibile attraverso la sua culturalmente progressiva e politicizzata “fictiond’autore”: Davies ha continuato a includere personaggi gay… con Doctor Who, e il suo susseguente spin-off Torchwood… Davies ha introdotto il personaggio del Capitano Jack, un viaggiatore nel tempo pansessuale che viene dal 51esimo secolo (John Barrowman)... Certamente i 195 Davis citato in Matt Bielby, “Sexy Beasts” in «Death Ray» issue 10, 2008, pag. 49. 141 contributi di Davies alla “televisione gay” nell’ultima decade… sono stati considerevoli196. E in T is for Television: The Small Screen Adventures of Russell T. Davies, Mark Aldridge e Andy Murray offrono una ulteriore interpretazione della serie che la raggruppa come parte della distintiva oeuvre di Davies: Il Capitano Jack di Torchwood non è proprio lo sfacciato Jack di buon cuore di Doctor Who. In Torchwood Jack diventa distante, misterioso e autoritario. Questo aspetto di Jack lo rende un altro degli “dei solitari” nel pantheon di Davies. Ha percorso le galassie, viaggiando attraverso il tempo e non può morire. Come tale vive la vita di un grado staccata da quelli che gli stanno attorno - cioè il team Torchwood197. Entrambe queste letture suggeriscono che l’autorialità di Davies può formare una parte di una strategia interpretativa tanto per i fan quanto per gli studiosi, con paralleli e risonanze che si trovano attraverso comparazioni di Doctor Who e Torchwood. Posizionare Russell T. Davies come garante della coerenza testuale significa precisamente leggere in modo intertestuale, e portare la dettagliata conoscenza di Doctor Who nelle interpretazioni di Torchwood. In breve, le audience e le loro interpretazioni “derivano e passano” da un testo a un altro. Questo genere di lettura trasversale (leggere uno spin-off almeno in parte attraverso le sue differenze e similarità con il programma genitore) non è tuttavia ristretta agli spin-off. Aldridge e Murray suggeriscono che molti dei diversi programmi di Davies condividono schemi di significato, cioè un’enfasi sul ruolo della televisione all’interno della diegesi, così come hanno come protagonisti personaggi ordinari che si scoprono straordinari, o più o meno metaforicamente “dei solitari”198. The Second Coming, Mine All Mine, e Doctor Who sembrano tutti adattarsi a questi schemi. Il riconoscimento da parte dell’industria che le fan-audience potrebbero seguire “colui che guida uno show” o un auteur televisivo da progetto a progetto pure sembra strutturato nel disegno dell’uscita del DVD per la Regione 2 di Mine All Mine. Un relativo fallimento negli ascolti quando è stato mostrato pre-Who sulla ITV nel 2004, la sua uscita sul 196 Glyn Davis, Queer as Folk: BFI TV Classics BFI Publishing, London, 2007, pag.125. Mark Aldridge e Andy Murray, T Is For Television: The Small Screen Adventures of Russell T. Davies, Reynolds and Hearn, Surrey, 2008, pag.220. 198 Ivi, pagg.153, 162-3, 204. 197 142 mercato alla fine nel 2006, in seguito al successo di Doctor Who, apparentemente ha portato il disegnatore del DVD a ornare la copertina con “Dal premiato sceneggiatore Russell T. Davies”, così come a usare deliberatamente lo stesso carattere tipografico, forma deviante, del marchio di Doctor Who. Qui ci si è rivolti implicitamente ai fan di Who e li si è incitati a portare il loro essere fan di culto fino a comprare Mine All Mine. Torchwood incita in modo piuttosto più diretto questo trasferimento di audience, alla quale viene segnalato dall’anagramma di Doctor Who nel titolo, dal suo uso del Capitano Jack risistemato in modo da farne il protagonista, e dall’apparizione del “Torchwood” lungo la serie del 2006 di Who come un enigmatico annunciatore, cosa che così ha funzionato, in parte, come una pubblicità e lusinga per il programma spin-off. Come è stato notato altrove, “La traccia delle audience ha variato percorsi lungo il franchise, o campi testuali”199, e possono anche tracciare percorsi di consumo e di attività cult attraverso gli spin-off e le carriere degli auteurs. In effetti, Torchwood ha ulteriormente invitato queste risposte intertestuali (cosa evidenziata in Davies e dalle letture di Aldridge e Murray) collegandosi diegeticamente a Doctor Who. Jack si unisce di nuovo al TARDIS alla fine della prima serie di Torchwood, anche se si sente solo fuori dallo schermo piuttosto che vedersi, e il rimanente team Torchwood fa un cross-over nell’episodio finale della quarta serie di Who, che ha seguito la fine della seconda serie di Torchwood, così come Martha Jones (Freema Agyeman) si è unita al Torchwood per un certo numero di episodi. Sebbene non sia necessario aver visto il programma genitore per seguire l’universo diegetico di Torchwood, le loro narrative sempre più deliberatamente unite - sebbene contengano occasionali incoerenze come il fatto se Jack prenda la mano del Dottore con sé alla fine de “La fine dei giorni” - generalmente sono costruite insieme in un network intertestuale coerente (lo stesso è vero per lo spin-off di Who della CBBC, The Sarah Jane Adventures). C’è un che di ironia qui; la più grande pretesa di coerenza testuale di Torchwood, argomenterei, non poggia per nulla sulle sue proprie tonalità e qualità testuali, ma piuttosto nella sua relazione intertestuale con Doctor Who, mirata a trasferire audience cult e dedicate fra i due programmi. In questo caso, un altro criterio di cult di Umberto Eco diventa operativo, ma a un livello intertestuale: 199 Matt Hills e Amy Luther, “Investigating CSI Television Fandom: Fans' Textual Paths through the Franchise” in Michael Allen (a cura di) Reading CSI: Crime TV Under the Microscope, I.B. Tauris, London and New York, 2007, pag. 221. 143 Il lavoro deve essere amato, ovviamente, ma questo non è sufficiente. Deve fornire un mondo completamente arredato in modo che i suoi fan possano citare personaggi e episodi come se fossero aspetti del mondo settario privato del fan, un mondo sui cui uno può preparare quiz e giocare a giochi di minuta erudizione così che gli adepti della setta si riconoscano l’un l’altro un expertise condiviso200. Tuttavia, questo “mondo completamente arredato” quasi-cult che è stato precedentemente soprannominato una forma di “iperdiegesi”201, è pure intertestuale in modo rampante, o transtestuale, nel caso di Doctor Who e Torchwood. Un programma con un seguito cult è messo a profitto in modo vario in un cult secondario o residuale: “in questo caso siamo testimoni di un esempio di metacult, o di culto riguardo a un culto… concepito all’interno di una cultura metasemiotica”202. Di nuovo, tuttavia, questo necessita alcune modifiche: Torchwood, potremmo dire, è un programma TV cult costruito in relazione a un cult che lo precede piuttosto che come il “metacult” di Umberto Eco, può essere teorizzato e classificato, almeno nel contesto del Regno Unito dove Doctor Who è stata una tale ancora dell’audience, come una serie “inter-cult”. Come cult per associazione, così come per il fatto di possedere una gamma di varietà di “gloriosa instabilità” da cult, il programma complica le generalizzazioni da studiosi e dibatte su se lo stato di cult sia testualmente programmabile, o strettamente una questione di attività dell’audience. Certamente affronta direttamente e corteggia il fandom internazionale in un certo numero di modi, incluso nell’appropriarsi testuale delle pratiche culturali dei fan dello scrivere fiction slash (così come nell’adottare la “retcon”, o “continuità retroattiva” nella parlata dei fan, come nome per la sua droga che corregge la memoria). Ma la costruzione testuale di un cult è, dobbiamo notare, una in cui l’attività pre-esistente dell’audience cult - ad esempio il fandom di Who - ha anche contestualizzato questo spin-off di Doctor Who, e il progetto creato da Russell T. Davies, come cult Tv in anticipo rispetto alle sue stesse pretese testuali verso un simile stato. Piuttosto che cercare l’“essenza” della televisione cult203, ho suggerito qui che dobbiamo invece esaminare gli intrecci empirici del testo, dell’audience e dell’intertestualità, un fattore che non dovrebbe essere minimizzato a 200 Umberto Eco, Faith in Fakes: Travels in Hyperreality Minerva, London, 1995, pag.198. Cfr. Matt Hills, Fan Cultures, Routledge, London and New York, 2002. 202 Umberto Eco, op.cit., pag.201. 203 Cfr. Philippe Le Guern, “Toward a Constructivist Approach to Media Cults” in Sara Gwenllian Jones and Roberta E. Pearson (a cura di), Cult Television University of Minnesota Press, Minneapolis, 2004, pagg. 3-25. 201 144 favore di una sovra-enfatizzazione della presunta “unicità” e “innovazione” dei testi di culto204. Come spin-off, Torchwood sembra destinato a essere misurato intertestualmente contro il suo progenitore: “Con Doctor Who istituito come arioso, colorato, e adatto alla famiglia, Torchwood sembrava faticare troppo a forgiare una propria identità molto diversa205. Sia che sia un cult transazionale “emergente” basato sulle risposte dell’audience alle qualità testuali, o un cult residuale basato sulla attività dell’audience trasferita a priori da Who, il programma apparentemente offre un marchio di “compara e contrasta”. È sgangherato nel suo personale modo provocatorio, trasgressivo e delizioso, eppure è consistentemente una parte del più vasto Who-niverso, cioè quella diegesi “completamente arredata”, dettagliata e intertestuale che collega il Doctor Who della BBC Wales con il suo spin-off. 204 Cfr. Bruce Isaacs, Toward a New Film Aesthetic Continuum, New York and London, 2008. Mark Aldridge e Andy Murray, T Is For Television: The Small Screen Adventures of Russell T. Davies, Reynolds and Hearn, Surrey, 2008, pagg.214-15. 205 145 24. Le Molte Possibili Riflessioni su una Serie di Culto di Vito Zagarrio La centralità della serie Un nodo cruciale dei molti discorsi che si vanno facendo a livello teorico sull’ibridazione tra cinema, televisione, video, videogioco, videomusic, cellulari, palmari, ecc. è senz’altro la “serialità” tv, l’enorme produzione dell’industria audiovisiva legata a testi iterativi (ma anche potenzialmente “interattivi”), figlia del romanzo d’appendice letterario, divisa in una variegata gamma di tipologie. In questo vasto panorama ideativo e produttivo - soprattutto nell’ambito dell’industria statunitense - si possono cogliere i segnali più interessanti di quelle che sono e saranno le mutazioni delle tecnologie, dei modelli produttivi e delle modalità narrative206. Ma la forma televisiva seriale viene di solito studiata soprattutto dal punto di vista delle tipologie, appunto, da quello della percezione del pubblico, da quelli dell’immaginario e dell’ideologia, e magari con un approccio femminista. Molti studi sociologici, semiologici, molte analisi nella prospettiva del gender e dei cultural studies, dal punto di vista della percezione del pubblico, da quelli dell’immaginario e dell’ideologia, ma poca riflessione sulla messa in scena della breve e lunga serialità. I tv series assurgono ormai alla dignità di “testi”, studiabili anche da un punto di vista stilistico, e in particolare la serialità americana merita un’indagine attenta e approfondita, anche se non si può parlare di un’autorialità individuale ma di un progetto estetico collettivo (creatore, produttore, sceneggiatore, tecnici, cast, regista, in interazione con lo stesso spettatore)207. È raro comunque che critici, teorici, studiosi di televisione analizzino un prodotto televisivo generalista dal punto di vista della sua testualità: la sua struttura narrativa, la sua regia, il rapporto tra il suo modo di produzione e il suo stile; un’analisi della regia si trova raramente anche per quel che riguarda la serialità televisiva, che pure è quella parte della tv che più si avvicina al cinema, ai suoi codici narrativi, al suo linguaggio, alle sue regole di grammatica e di sintassi. Persino Kristin Thompson, storica e teorica del film, autrice di un noto volume 206 Cfr. Veronica Innocenti e Guglielmo Pescatore, Le nuove forme della serialità televisiva. Storia, linguaggio e temi, Archetipo Libri, Bologna, 2008. Vedi anche V.Innocenti e G.Pescatore, Architettura dell’informazione nella serialità televisiva, in «Imago», n. 3, 2012; il numero della rivista, pubblicata dalle Università di Roma La Sapienza e Roma 3, è dedicato alle nuove forme dell’audiovisivo nell’era digitale, ed è curato da Enrico Menduni e Vito Zagarrio. 207 Cfr. Barbara Maio, La Terza Golden Age della Televisione, Edizioni Sabinae, Cantalupo in Sabina (Rm), 2009; ed anche B. Maio (a cura di), HBO. Televisione, autorialità estetica, Bulzoni, Roma, 2011. 146 sulla narrazione cinematografica e televisiva e sui suoi rapporti con gli “adattamenti”, con gli spin off e i sequels208, dedica poco spazio alla regia delle serie, che pure assurgono alla dignità di “testi”, studiabili anche da un punto di vista autoriale. Il caso 24 Uno dei case studies più emblematici della tendenza sopra esposta è certamente 24, atipica miniserie creata da Joel Surnow e Robert Cochran, un prodotto diventato in breve un oggetto di culto: «La serie 24 rappresenta per il mondo degli action movie quello che 2001: Odissea nello spazio è stato per i film di fantascienza. Una piccola grande rivoluzione», commenta la rivista speializzata «Series»209. E «Variety»: «24 remains a distinctive premise, uncomfortably poaching from the day’s headlines to stoke paranoia and simultaneously prove cathartic in a post-Sept. 11 world»210. È un prodotto emblematico dell’universo iconico multimediale, ibridato e contaminato, che ci circonda: si tratta infatti di una miniserie (una vicenda con un inizio e una fine che si svolge nell’arco di ventiquattro ore, strutturata in modo che ogni puntata racconti un’ora della giornata prescelta), che si coniuga con i codici del series (in ogni puntata accade una quantità di cose e vengono introdotti personaggi degni di una serie, tanto che ogni puntata è godibile in sé) e che della lunga serialità assume l’andamento (lo schema è serializzabile all’infinito) e, come si dice, la “bibbia”. Su 24 si sono scritte molte cose, e l’editoria abbonda di volumi, spesso, però, confinati nell’area delle fanzine o degli strumenti cine-telefili. Si prendano alcuni volumi interamente dedicati alla serie: 24. The House Special Subcommittee’s. Finding at CTU211, è un libro scritto come se fosse un’inchiesta giornalistica: testimonianza di Jack Bauer al Grand Jury, intervista a David Palmer, appunti del procuratore distrettuale, files e testimonianze sulle indagini; il tutto narrato come fosse “vero”, offrendo al lettore la possibilità di confondere i limiti tra fiction e realtà, e di confondersi nei meandri del CTU come grande contenitore di immaginario. 208 Kristin Thompson, Storytelling in Film and Television, Harvard University Press, Cambridge/London, 2003. 209 Cfr. Michele Boroni, Jack is back, in «Series», n. 4, 2005, pag. 22. 210 Brian Lowry, A different day dawns for Fox’s retooled 24, in «Variety», vol. 397, 7, Gennaio 3-9, 2005, pag. 27. 211 Marc Sesarini e Alice Alfonsi, 24. The House Special Subcommittee’s. Finding at CTU, Harper Entertainment, New York, 2003. 147 Da parte sua, il volume 24 The Ultimate Guide212, è un prontuario industriale per entrare dentro i dettagli produttivi della serie. Meglio Secrets of 24, The Unauthorized Guide to the Political & Moral Issues Behind Tv’s Most Riveting Drama213, offre una varietà di temi e di domande: The cultural by-product of the War on terrorism; Jack Bauer, Hero of Our Times; On the set of 24 (una serie di interviste ai protagonisti), 24 and the politics of culture, How well Does 24 reflect the Real world?; At the Crossroads of Urgency and Ethics; Next Threat: The Battles in Jack Bauer’s Future. Tecnologia, morale, mito, politica, sono molti i motivi analizzati dal libro, che propone una varietà di approcci teorici e tematici. Il limite di queste numerose pubblicazioni, però, è che non si entra né dentro il contesto teorico che sottende la serie, né si entra nel merito della rivoluzione linguistica che essa propone e impone. Più interessante senz’altro l’elaborazione europea ed italiana, con saggi specifici interessanti, come quelli di Negri, Barucco, Menarini, o le più generali analisi di Maio, Bandirali, Terrone, che citerò più tardi in questo saggio. Saggio, comunque, che cerca di privilegiare la messa in scena di questo “testo”, mettendolo in relazione con i fenomeni che caratterizzano la grande mutazione del cinema hollywoodiano negli anni ’90-2000. Cominciamo intanto con l’ibridazione dei generi che 24 offre: il plot della prima stagione costruisce lo schema narrativo di quelle seguenti: come si è detto, tutto avviene in una “giornata particolare” (da qui le “ventiquattro” ore del titolo, ma mi piace pensare che ci sia, anche inconsciamente, un riferimento ai famosi 24 fotogrammi tipici del cinema e della velocità standard della pellicola…), quella delle primarie americane che devono sancire la vittoria del candidato democratico alla Casa Bianca David Palmer, un nero. In queste ore paradossalmente intense, l’eroe protagonista, Jack Bauer (interpretato da Kiefer Sutherland, figlio di Donald, come a sottolineare il passaggio di testimone tra due generazioni di attori e di modelli filmici), deve sventare un attentato all’uomo politico - il quale vive a sua volta una fosca trama familiare -, sopravvivendo ogni puntata a mille scontri a fuoco e gestendo anche un dramma privato, il rapimento della figlia e la morte della moglie. La seconda e la terza stagione ricalcano le orme della prima. Altre due giorni vissuti pericolosamente: in uno Palmer, ormai divenuto Presidente, si trova a fronteggiare il pericolo di una bomba atomica, nell’altro la minaccia di un virus capace di distruggere gli Stati Uniti. Motore della vicenda è sempre il fido Bauer, che si muove tra tradimenti e ambiguità pubbliche e private. Un 212 Michael Goldman, 24 The Ultimate Guide, DK, London/New York, Munich, Melbourne, Dehli, 2007. Vedi anche 24, la brochure della produzione, edita da TM & Twentieth Century Fox, con un Foreword del “creatore” Joel Surnow. 213 Dan Burstein e Arne J. De Keijzer (a cura di), Secrets of 24, The Unauthorized Guide to the Political & Moral Issues Behind Tv’s Most Riveting Drama, Sterling, NewYork/London, 2008. 148 patchwork di azioni e di sentimenti tra thriller, fantascienza, melodramma e action movie. Nelle stagioni successive la “bibbia” si ripete, e le variazioni stanno soprattutto nella rappresentazione del potere (il presidente “cattivo”, il presidente donna dai comportamenti ambigui), nelle tipologie della minaccia (terrorismo, guerra nucleare), e nell’indeterminazione dell’avversario (chi sono i buoni, chi i cattivi? e i buoni resteranno tali sino alla fine?). Ma la vera particolarità di 24 è l’uso del linguaggio ibridato tra cinema e televisione, tra pellicola e digitale, con in più una (auto)riflessione sul linguaggio filmico stesso. Ad esempio, il montaggio alternato porta sempre lo spettatore a giustapporre parallelamente le situazioni che sincronicamente si rincorrono. L’uso dello split screen (cioè dello schermo diviso in più fotogrammi dove convivono più scene) aiuta la regia ad accostare temporalmente situazioni e spazi diversi. Si tratta di una trovata narrativa largamente usata sia dal cinema classico che da quello contemporaneo; ma la novità è che 24 usa la frammentazione dello schermo in più “finestre” per raccontare la situazione («in tempo reale») aderendo il più possibile al personaggio, e quindi accentuando parossisticamente il montaggio analitico hollywoodiano classico. Così che in una stessa “cornice” convivono il master shot e le coperture dei dettagli, un campo lungo e un primo piano, il campo e il controcampo. È come se il prodotto televisivo proponesse un’alta riflessione teorica, di tipo metalinguistico, sulla stessa grammatica filmica. Lo sguardo dello spettatore è costretto a spostare l’attenzione da un’inquadratura all’altra o meglio da un sub-quadro all’altro, e viene guidato da una mano sapiente alla scoperta del linguaggio del cinema, dei suoi segreti costitutivi. Ma allora: si tratta di un film o di una serie, di cinema o di televisione? 24 è l’esempio di un mescolamento delle convenzioni: un prodotto tv confezionato con tutti i codici del linguaggio filmico, ma che usa sino all’estremo limite le possibilità del computer (in fondo, le “finestre” di 24 ricordano molto le finestre di “Windows” - il nome non è casuale -, e quelle di softwares di montaggio come Avid o Final Cut…) e della nuova narrazione digitale. E ancora, qual è la sua tipologia? Una miniserie che però non ha una conclusione (ogni volta la vicenda apparentemente conclusa riprende, con potenzialità all’infinito) e scivola nel series, un lungo tv movie aperto che ha tempi interni e regole da lunga serialità (guest stars, apici narrativi prima della pubblicità, precipitare inverosimile di eventi, familiarità dei personaggi; non a caso la storia è un misto tra dramma politico e dramma familiare, fra trame pubbliche e trame private). 149 Un elemento di riflessione lo fornisce il fatto che il tv series, dopo sei stagioni, si apre a una parentesi (formale e narrativa), con un tv movie “classico”, Redemption214, il cui titolo originale doveva essere Exile: nel plot, Jack Bauer dopo una vita condizionata dalla violenza ha bisogno di redimersi, di riconfrontarsi con i veri ideali della vita, e in qualche modo “espiare” le violente trame della serie. «Redemption è una svolta nella vita di Bauer, ed è una svolta secca anche per la serie (…) Questo cambiamento influenza poi la settima stagione, in cui i valori umani tornano alla ribalta: Rispetto, fiducia, famiglia, prendono il sopravvento, ribaltano ogni convinzione e la vita umana conta più di ogni strategia e tecnologia»215. Ma quel che mi interessa, qui, è che le due tipologie di tv series e di tv movie (ma in fondo anche di mini-series) si fondono, offrendo un modo “modulare” di approccio e di percezione allo spettatore. L’ibridazione della tipologia deriva anche da (e si riflette su) la trama del prodotto, fondata sulla globalità delle tecnologie e delle comunicazioni: essenziale, infatti, è la rappresentazione del reticolo mediatico “postmoderno” che il film esalta e denuncia insieme. 24 è tutto basato su micro e macro computer, telefonini mai scarichi, visioni satellitari, intercettazioni, contaminazioni, pedinamenti elettronici di ogni tipo. Non c’è personaggio nella storia, buono o cattivo, che non usi freneticamente il cellulare, un palmare legato al satellite per controllare gli spostamenti dei suoi avversari, un computer per intercettare, verificare, cancellare, creare dati e informazioni. E il cuore logistico della trama, il CTU (l’unità anti-terrorismo), diventa metafora di un cuore pulsante della tecnologia occidentale. È un panorama futuribile ma non troppo, che coglie bene il senso dei tempi che stiamo vivendo, e mette in scena in modo spettacolare e “commerciale” il nuovo universo “digitale”. Se non bastasse questo, va sottolineata anche una possibile lettura ideologica e sociologica: la novità, dal punto di vista dell’etnia, della razza o del gender (il Presidente afroamericano o il Presidente donna), ma anche le oscure dinamiche che attraversano le famiglie dei potenti; il fosco ritratto d’America che viene fuori dal prodotto, i cui scenari sociali sono inquietanti; il 214 Nel film Jack si trova nel Sangala (un fittizio stato dell’Africa inventato per non incorrere nel problema di dover raccontare la complessità di uno reale), dove è in atto una rivoluzione. Lì raggiunge un suo amico, che gestisce una scuola per orfani di guerra. La situazione d’improvviso diviene critica e Jack Bauer non può fare altro che pensare agli altri, ai bambini vittime innocenti di un regime che ha distrutto in parte la loro vita. 24: Redemption (2008) è diretto da Jon Cassar e si colloca temporalmente tra la sesta e la settima stagione della serie, ed è narrato in tempo reale, più precisamente tra le 15:00 e le 17:00 del giorno di insediamento del presidente degli Stati Uniti d'America. 215 Federica Pellegrini, La porta, la chiave, la serratura. Entrare nel contemporaneo attraverso 24, Lost e FlashForward, tesi magistrale discussa con Vito Zagarrio, anno accademico 2011-2012, Università Roma Tre. 150 clima onirico e incubico che percorre la vicenda e che rimandano alla rappresentazione di un inconscio collettivo. Insomma, 24 entra dentro le viscere di un’America inquieta, solo apparentemente sicura delle sue vittorie planetarie, e invece percorsa di mille paure del dopo 11 settembre. Se ne La guerra dei mondi di Spielberg (o nelle serie tv sponsorizzate da Spielberg, come Falling Skyes) il terrorismo era metaforizzato dall’invasione aliena, qui è talmente palesato da diventare a sua volta metafora. Di un disagio privato e sociale, della messa in crisi di una way of life, di una perdita di valori e di sicurezze - dietro l’apparente rassicurante patriottismo dell’eroe - di un generale disorientamento individuale e collettivo. Insomma, 24 permette una riflessione su una serie di fenomeni che stanno caratterizzando il cinema e la televisione americani nell’epoca del post-post moderno: 1) la messa in scena che, pur in assenza di una regia forte in senso tradizionale, offre un livello di maturità mai raggiunto sinora, e il problema della Authorship; 2) L’“esplosione della narrazione” tipica dei testi audiovisivi del nuovo millennio; 3) Il “cinema intensificato” che caratterizza la Hollywood contemporanea e si riflette nei migliori prodotti della tv seriale; 4) L’influenza dell’11 settembre sul cinema e sulla televisione americani, e dunque l’irruzione della Storia sull’immaginario collettivo occidentale. 5) E dunque la possibile lettura da un punto di vista del rapporto tra Cinema (Tv) & Storia. La messa in scena Parto analizzando l’incipit della prima puntata della prima stagione di 24. Un bip orario, drammaticamente accelerato, segna l’inizio dell’“ora x”, lo starting point della storia, basata su un complotto ordito, in un futuro prossimo, contro un candidato presidente nero - degli Stati Uniti. Una scritta ci informa che «the following takes place between midnight and 1.00 a.m. on the day of the California Presidential Primary», un secondo cartello ci dice che «events occur in real time». Entrambi i cartelli sono girati con un leggero zoom in. Ed ecco che si apre la prima inquadratura, l’establishing shot, una ripresa dall’elicottero in avvicinamento sulle torri di Kuala Lampur. Una scritta ci dice che il “local time” di Kuala Lumpur è quello delle 4.00 del pomeriggio, mentre l’inquadratura delle torri si restringe e diventa un riquadro all’interno del frame televisivo, la cui cornice nera permette intanto di fare apparire il nomi del protagonista, Kiefer Sutherland. Sul nero si apre, accanto alle torri, una finestra, con un dolly basso alto a inquadrare una strada affollata della capitale indonesiana. A schermo pieno, stavolta, un CM della strada, con un giallo in controluce e gli 151 stilemi della città bassa alla Bladerunner, in cui compare, lontano la sagoma di un uomo. L’inquadratura prosegue alla destra del fotogramma, mentre alla sinistra l’attenzione dello spettatore viene attratta da un PA dell’uomo, in silhouette, che si avvicina verso macchina sino a PPL, sinché si volta all’indietro. Il gesto del voltarsi viene ripreso in controcampo, in un fotogramma appaiato al precedente, in cui si vede l’uomo in volto. Sotto, nello spazio nero, compaiono altri titoli di testa. Lo schema dello spilt screen prosegue, e mentre nell’inquadratura di sinistra l’uomo arriva il PP, passando da fuori fuoco e fuoco, e apre una porta, nell’inquadratura di destra è ripreso stavolta in CM, FI, in simultanea. Stacco, siamo ora all’interno di una casa, dove domina l’oscurità secondo i codici del noir; a fotogramma pieno l’uomo viene seguito da una steadicam attraverso vari tagli di luce sinché si insinua in un altro ambiente, diviso da una parete. Sul nero di questa si staglia un altro cartello, nonché, in basso, il PP del misterioso uomo che, ripreso da un’altra angolazione più a favore, armeggia con qualcosa. Nel CM vediamo che si tratta di un computer, estratto da una valigia, verso cui la MDP si avvicina. Il montaggio stacca ora a schermo pieno, riprendendo l’uomo (Victor) di profilo in PP. Inquadratura successive: la mdp continua ad avvicinarsi in MF, poi la regia torna in PP, quindi stacca in un’altra dimensione, nello spazio, dove un satellite, ripreso con i codici della fantapolitica (penso a Nemico pubblico), comincia a trasmettere dati. Una rapidissima serie di dettagli digitali portano allo schermo di un computer che si staglia all’interno dello schermo tv, e accanto a cui compare la sagoma di un uomo, in LPP, che accorda il permesso di trasmettere i dati. Stacco sull’altra situazione: la mdp si avvicina a Victor e al computer, arrivando sino alla quinta dell’uomo che guarda il lap top; due “finestre” continuano a mostrare Victor, in PP (prosecuzione dell’inquadratura già vista) e in LPP a includere computer e lampada. Nel PP Victor si volta distratto da alcune voci esterne, e la finestra scompare, mentre a destra persiste il campo più largo, con Victor che telefona. Negli spazi lasciati vuoti dalle “finestre” si invertano intanto altri titoli di testa. Stacco su un’altra situazione e un altro tempo: un CLL sulla metropoli americana sorvolata da un elicottero e una scritta ci informano che siamo a Los Angeles, mezzanotte, due minuti e 14 secondi, tanti quanti sono passati dall’inizio della puntata. Si passa in interni: in CM la MDP descrive un party sofisticato, una leggera panoramica di aggiustamento scopre uno degli invitati, un tipo alto coi baffi che saluta una coppia; a questo punto l’inquadratura prosegue a sinistra in alto, mentre a destra la MDP si concentra sul PP del nuovo entrato, ripreso da un’angolazione leggermente diversa (i titoli, intanto, ci danno i nomi dei creatori e degli sceneggiatori della miniserie). In questa seconda inquadratura la MDP panoramica in basso a 152 cogliere il dettaglio di un telefono cellulare, e l’uomo si avvicina alla MDP sino a PPP. Qui la faccenda si complica: non solo permangono le due inquadrature precedenti, ma si inserisce una terza, col riquadro della persona che parla al telefono con l’uomo dai baffi. Il dialogo ci informa che oggi (tutta la miniserie è puntata sul tema dell’hic et nunc) è previsto un attentato al senatore Palmer. Logico dunque lo stacco al quartier generale del candidato nero (che diventerà presidente alla fine delle ventiquattro puntate). Lo stile cambia radicalmente, e la MDP segue, in piano sequenza e in steadicam, la moglie del senatore che porta un vassoio di caffè verso una terrazza panoramica, ripresa in grandangolo e in panfocus. Poi si stacca invece sui PP degli astanti, la segretaria nera, la moglie ripresa, per contrasto al nuovo establishing shot, con un accentuato tele; di nuovo il CM conclusivo della steady, di nuovo la moglie e un PP a due col marito. Quindi lo stacco definitivo a una nuova situazione, la casa del protagonista, Jack Bauer (Sutherland), ripreso in situazione familiare, apparentemente molto diversa dal clima d’azione della miniserie (descritta con un montaggio analitico classico, animato a volte dall’uso leggero della steadicam). Ci possiamo formare qui, anche perché lo stile del prodotto è già stabilito: il montaggio alternato ci porterà sempre a giustapporre parallelamente le situazioni che sincronicamente si rincorrono. L’uso dello split screen ci aiuterà ad accostare temporalmente situazioni e spazi diversi; una trovata narrativa largamente usata sia dal cinema classico che da quello contemporaneo (mi vengono in mente il Coppola di Tucker e, in maniera parodica, il Waters di A Dirty Shame, che usano lo split screen per descrivere una telefonata o raccontare un flash back). Ma la novità è che 24 usa la frammentazione dello schermo in più “finestre” per raccontare la situazione («in tempo reale») aderendo il più possibile al personaggio, e quindi accentuando parossisticamente il montaggio analitico hollywoodiano classico. Così che in una stessa “cornice” convivono il master shot e le coperture dei dettagli, un campo lungo e un primo piano, il campo e il controcampo. È come se il prodotto televisivo proponesse un’alta riflessione teorica, di tipo metalinguistico, sulla stessa grammatica filmica. Lo sguardo dello spettatore è costretto a vagare da un’inquadratura all’altra, viene guidato da una mano sapiente alla scoperta del linguaggio del cinema, dei suoi segreti costitutivi. Insisto sulle funzioni dello split screen, la manifestazione più evidente della serie, una scelta fatta a priori dagli autori della serie. Come scrive Francesca Negri, essa «sopperisce al gap semantico del montaggio alternato e serve come efficace snodo visivo per alternare i diversi 153 piani narrativi, contribuendo a costruire quel senso di ubiquità che permea il racconto»216; mentre per Barucco viene utilizzata questa tecnica, in cui vede un legame con il reality show, «per facilitare la comprensione della ricchezza narrativa e caratteriale che compone i personaggi, focalizzando lo split-screen su di una stessa scena ripresa da differenti angolazioni»217. Interviene su questa scelta anche Roy Menarini, secondo cui «lo split-screen e il montaggio serrato realizzano la suspence assai meglio di eventuali sequenze ad alto budget»218. Come nota la Pellegrini (che sintetizza bene gli studi italiani su 24 e che qui apertamente riporto), 24 gioca più sulla scomposizione spaziale data dallo split screen che su quella narrativa. La sceneggiatura deve sempre rispettare il real time, bilanciare il conflitto mondiale con quello personale per rendere entrambi credibili e inserire un certo numero di sottonarrazioni da accostare alla linea principale per qualche episodio o per tutta la serie. In queste “regole” che servono a mantenere sempre alta la suspence in ogni episodio e a dipanare la trama della detection story è fondamentale il meccanismo scompositore, (ma allo stesso tempo unificatore visto che ci permette di seguire più trame contemporaneamente) dello split screen. Il senso di simultaneità è indispensabile per il real time, ma come scrive Valeriani, «la presenza sullo schermo di più inquadrature moltiplica l’effetto di simultaneità dell’azione in location diverse, sincronizzando l’ubiquitous view all’urgenza del tempo»219. Lo split screen risulta essere particolarmente usato nelle scene dense di azioni come nota Barbara Maio, invece di imporre una pausa crea un mix di rallentamento e accelerazione poco praticato sul piccolo schermo. Assistiamo in questo caso ad una crisi del testo che viene “risolta” attraverso l’esplosione e la frammentazione proprio dei punti di vista, non della linea narrativa che, invece, resta perfettamente cronologica220. 216 Francesca Negri, L’age d’or della fiction televisiva contemporanea: il caso 24, Cadmo, Firenze, 2009, pag. 25. 217 Giulia Barucco, 24 un’analisi, in AA.VV., Perché stiamo raccontando questa storia? Dieci inverni e la doppia ora: parlano gli autori. Flash Forward, Lie to me e le altre serie, in «Script: storie e scritture per il cinema e la televisione», 48, Dino Audino, Roma, 2010, pag. 114. 218 Roy Menarini, “You Americans!”, “You American What?”24 e il crollo di tutte le certezze, «La Valle dell’Eden», 18, 2007, pag. 106. 219 Luisa Valeriani, Vertigo. Lo spazio-tempo in 24 e Lost, in Fabio La Rocca, Andrea Malagamba e Vincenzo Susca (a cura di), Eroi del quotidiano: figure della serialità televisiva, Bevivino, 2010, Milano-Roma, pag. 210. 220 Barbara Maio, La terza Golden Age della Televisione, op.cit., pag. 123. 154 Secondo Barucco la motivazione per cui ciò avviene deriva da dinamiche sociali: la visione plurale inaugurata e prediletta dalla televisione risulta essere l’unico modo per riprodurre la ricchezza dell’esperienza sensoriale umana, allegata a un mondo saturo di informazioni. Per questo 24 usa a piene mani la frammentazione visiva in concomitanza di una scena particolarmente toccante o criptica221. Come scrive Francesca Negri, «spazio e tempo nella costruzione di questo racconto, sono indissolubilmente collegati l’uno con l’altro in un rapporto di mutua dipendenza dettato dalla velocità»222. La Negri prosegue mettendo in luce gli aspetti futuristici: è proprio sul piano del tempo e dello spazio, e sulla trasformazione percettiva di questa due basilari categorie epistemologiche, che si forma il nuovo paradigma contemporaneo, in cui tempo e spazio si fondono nella velocità che ha un valore non più (o non solo) come manifestazione del moto, l’“eterna velocità onnipresente” d’ascendenza futurista, tanto più importante quanto più percepita, ma al contrario diviene una velocità connaturata, presente ma invisibile223. Indiscutibilmente il real time crea un effetto di frenesia, l’esperienza visiva si intensifica «mettendo gli spettatori nella condizione di sentire sulla loro pelle la velocità con cui il tempo si esaurisce»224. Nell’unione di forma e contenuto, sancito dallo spazio-tempo, 24 vive nel presente con l’angoscia del futuro e l’impossibilità di ricordarsi del passato, dove quello che conta è solo l’immediato. Come ci ricorda la frase ripetuta da Jack Bauer «do it now», fallo adesso, l’importante è procedere con le fasi investigative e scongiurare ogni tipo di catastrofe, ogni pensiero al di fuori del presente è solo una perdita di tempo. 24 proclama l’importanza del tempo su trama e forma, «decide di eleggere il tempo a motore principale della sua 221 Giulia Barucco, op.cit., pag.114. Francesca Negri, op.cit., pag. 32. 223 Ivi, pag. 73. 224 Giulia Barucco, cit., pag. 114. 222 155 costruzione formale»225 e «rimanda a un’idea di cinema classico come rappresentazione della realtà fisica e sociale»226. Il problema della Authorship Serie come 24 ripropongono con forza il tema dell’“Autore”. Si può dire che l’industria del seriale “civetti” spesso con l’idea dell’Autore, a volte come alibi ideologico, a volte in funzione del controllo; ma non è certo il regista a condizionare la struttura e le scelte linguistiche della serie, che sono invece pensate a tavolino dai “creativi” della casa produttrice. L’“Autore” nel senso di Regista non è che un piccolo tassello, e non il più importante, in una catena di montaggio di prima qualità; nella quale l’autorialità è più diffusa, appartiene a una equipe e forse, più generalmente, al gusto e all’immaginario di un’epoca data. L’evoluzione della serialità può dare definitivamente ragione a Benjamin e Foucault quando parlano di “fine dell’aura” e di “morte dell’autore”…Ciò nonostante (nonostante cioè la presenza di un meta-autore identificabile più che altro con il modo di produzione della singola serie) si può e si deve parlare di regia, di messa in scena, di linguaggio, di grammatica filmica. Alcune delle serie americane dimostrano che c’è grande cinema dietro queste “merci” da consumare tra uno stacco pubblicitario e l’altro, anzi concepite, scritte e girate in funzione degli stacchi pubblicitari; dimostrano che c’è una intensa consapevolezza del mezzo televisivo come di quello cinematografico, che c’è una profonda riflessione (ed autoriflessione) sul linguaggio filmico. Mi farò aiutare qui da una bella tesi di laurea magistrale, in corso di pubblicazione, di Federica Pellegrini, che ha dedicato acute osservazioni a 24, accostata a Lost e a Flash Forward227, e ha riflettuto, anche sulla base di alcune osservazioni di Barbara Maio, sulla nozione d’Autore nella serialità televisiva. Luca Bandirali ed Enrico Terrone, citati dalla Pellegrini, riflettono su questo nuovo complesso concetto dell’Autore: l’autore è il depositario dell’idea originaria, created by, il germe a partire dal quale si sviluppa l’intero mondo narrativo. Il regista è invece il soggetto che presiede l’allestimento della singola puntata 225 Ivi, pag. 113. Enrico Terrone, Il tempo delle serie: il realismo di 24, la razionalità di CSI, il delirio di Alias, «Segnocinema», 130, Novembre-Dicembre 2004, pag. 6. 227 Cfr. Federica Pellegrini, cit. 226 156 sviluppandone il tema specifico così da offrire una particolare visuale e quindi un’interpretazione - dell’universo seriale228. Sempre Terrone, riconduce alla struttura seriale la questione dell’autore e scrive il tempo sovrabbondante e discontinuo delle serie fa vacillare sia l’ipotesi di un Regista-Autore in grado di esercitare il proprio controllo creativo sulla totalità dell’opera, sia il postulato di uno spettatore modello che si pone di fronte al testo cogliendolo in tutta la sua estensione. La genesi del racconto seriale non è abitualmente attribuita al regista ma al produttore, mentre la sua destinazione non è lo spettatore bensì il pubblico229. Per Terrone e Bandirali, «ci confrontiamo con una grande abbondanza di modi di ripresa, alcuni dei quali diventano un marchio di fabbrica»230. Secondo Nicoletti, «le serie tv vincenti nascono da grandi idee e da grandi concept che sono già studiati a priori. E nel concept è compreso anche lo stile di regia»231: un concetto chiarito dalla Maio che porta l’esempio di J.J. Abrams che ritorna a scegliere sempre i medesimi collaboratori per i suoi progetti. Nelle tre serie da lui create Alias, Lost e Fringe infatti ricorrono molti nomi tra sceneggiatori registi e produttori, questo perchè «il tratto autoriale sembra essere questa scelta di professionalità che correttamente amalgamate permettono all’autore di creare un prodotto poliautoriale sotto il suo segno stilistico»232. Ho già avuto modo di dire, a proposito di 24, che «è come se il prodotto televisivo proponesse un’alta riflessione teorica, di tipo metalinguistico, sulla stessa grammatica filmica (…) 24 è l’esempio di un mescolamento delle convenzioni: un prodotto tv confezionato con tutti i codici del linguaggio filmico, ma che usa sino all’estremo limite le possibilità del computer»233. Ciò mette in luce appunto l’alta qualità richiesta dalla tv, l’uso di nuove 228 Luca Bandirali e Enrico Terrone, in AA.VV., Mondi a puntate, le serie televisive americane 19902006, «Segnocinema», 142, Novembre-Dicembre 2006, pag 29. 229 Enrico Terrone, Il tempo delle serie: il realismo di 24, la razionalità di CSI, il delirio di Alias, cit., pag. 6. Teniamo presente che il produttore in America è considerato lo sceneggiatore-ideatore. 230 Luca Bandirali e Enrico Terrone, cit., pag. 30. 231 Mattia Nicoletti, Il regista nelle serie tv. In apparenza un puro accessorio, in http://www.moob.it/2009/08/il-regista-nelle-serie-tv-in-apparenza-un-puro-accessorio/, consultato il 28 Agosto 2009. 232 Barbara Maio, La terza Golden Age della televisione, cit., pag. 41. 233 Ibidem. 157 tecnologie e l’ispirazione presa da quest’ultime. Le tecniche che caratterizzano maggiormente 24 sono un metodo di ripresa realistico e lo split screen. L’immagine sporca, imprecisa con passaggi bruschi, è realizzata prevalentemente usando la macchina a mano con la volontà di creare una simulazione della presa diretta; la credibilità resa da questa modalità di ripresa è indispensabile per la trama che diventa più vera, non si incorre nell’errore di anticipare o far presumere le mosse successive dei protagonisti, così da avere veramente la sensazione di vivere un real time. La regia, dunque, che in un serial può cambiare da stagione a stagione o da puntata a puntata è affidata a numerosi registi, anche se in genere ce ne è sempre uno che prevale come nel caso di Jon Cassar in 24. Stile e tecnica di regia nelle stagioni e nei singoli episodi non cambiano mai di molto: tra i registi principali del serial troviamo, oltre a Cassar, Stephen Hopkins e Kiefer Sutherland, protagonista della serie che nel corso delle stagioni diventa produttore esecutivo e si cimenta anche nei panni del regista. Altri registi che hanno realizzato alcuni episodi sono Paul Shapiro, Frederik K. Keller, Davis Guggenheim, Brian Spicer, Winrich Kolbe. Se per sceneggiatura e regia troviamo molteplici autori, la colonna sonora è affidata a un solo compositore. Anche qui sono interessanti osservazioni della Pellegrini: «rumori, suoni e musiche sono una parte fondamentale di 24, creano suspence e caratterizzano i personaggi quanto le immagini»234. Sean Callery compositore di 24, per cui ha vinto numerosi Emmy, è famoso anche per le partiture di numerosi videogiochi, tra i tanti James Bond: Everything or Nothing e per i commenti musicali di altri telefilm come Star Trek - Deep Space Nine e La Femme Nikita. Il suo stile si contraddistingue per l’unione di suoni ottenuti da strumenti musicali classici, come corni e violini, ed elettronici, come sintetizzatori e sequencer, e di sofisticati effetti ricreati attraverso elaborazioni al computer. Secondo Tomassacci, quando lo spotting, cioè il posizionamento musiche, copre quasi totalmente una puntata, come ad esempio in 24 dove un episodio di 44 minuti richiede a Sean Callery, in media circa 38 minuti di scoring, il commento, oltre che negli specifici segmenti action e nei minimi accenni intimistici cui flette all’occorrenza, ammanta il fotografico per lo più in modalità riempimento, di filler-music da confezione che non di 234 Cfr. Federica Pellegrini, cit. 158 rado trova le sue principali ragion d’essere nel confronto improvvisato con il visivo235. Per Tomassacci ciò è dovuto in parte all’aumento di scene negli interni dove vengono meno gli squarci urbani e viene dato maggior risalto al dialogo che neutralizza la musica per non contraffare il senso della parola. La filler-music, come viene definita da Tomassacci con una nota negativa, non è da considerarsi necessariamente scadente, anzi è proprio per questo suo fondersi apprezzabile, poiché, come scrive Tuzza: per sua natura esprime il massimo della forza quando considerata insieme alle immagini, perchè è in quella interazione che “sboccia” e mostra se stessa. Questa inscindibilità è al tempo stesso pregio e difetto della musica da film: difetto in quanto non strutturalmente stabile come musica ab-soluta, e pregio perché è il massimo che ad una musica da film si possa chiedere: costruire un rapporto intimamente sinestetico con le immagini236. La narrazione esplosa e il cinema intensificato A monte di 24 c’è quella profonda mutazione della narrazione che io ho avuto modo di chiamare la “narrazione esplosa”, ovvero la tendenza a decostruire il racconto secondo le istanze postmoderne e digitali237. Si tratta di opere in cui la concezione moderna della linearità cronologica, incentrata sulla distinzione tra passato e presente entrambi proiettati verso il futuro, cede il passo ad una concezione postmoderna della temporalità frammentata e confusa. Ma sono anche opere che riflettono indirettamente l’influenza delle nuove tecnologie sul linguaggio cinematografico, tramite la scomposizione della linearità cronologica e spaziale del racconto per mezzo di formule quali la ripetizione, la sequenzialità non consequenziale e altre modalità tipiche della narrazione digitale. 235 Giuliano Tomassacci, Musica d’interno. La declinazione del Tv-scoring dagli anni Sessanta alla modernità, in AA.VV., Mondi a puntate, le serie televisive americane 1990-2006, cit., pag. 22. 236 Antonio Tuzza, Michael Giacchino e Lost, in http://www.colonnesonore.net/recensioni/tv/1675michael-giacchino-e-lost.html, consultato il 10 maggio 2011. 237 Mi permetto di rimandare ai miei: Vito Zagarrio, La struttura di Babel(e), «Bianco & Nero», 567, maggio-agosto 2010, pag. 27. Vedi anche V. Zagarrio, La grande mall dell’immaginario. Il cinema di Quentin Tarantino, in V. Zagarrio (a cura di), Quentin Tarantino, Marsilio, Venezia, 2009. 159 Una strutturazione fratta, quindi, come frutto della crisi ontologica ed epistemologica del cinema nell’epoca della crossmedialità, in cui una nuova generazione di filmmakers produce storie per una nuova generazione di spettatori, entrambe abituate all’uso del telecomando, del DVD e del DViX238, insomma ad una possibilità di visione dei film maggiore rispetto alle generazioni precedenti. Pratiche che fanno dei “puzzle film”239 il terreno ideale per una riflessione sul cinema contemporaneo, ormai irrimediabilmente ibridato con altre forme espressive dell’universo iconico, quali la videoarte, il videoclip, il videogioco, o più semplicemente con l’omnicomprensiva categoria degli “audiovisivi” (o delle “immagini in movimento”, nell’accezione di Alessandro Amaducci240). Mi farò aiutare, qui, da una serie di lavori (tesi universitarie, tesi di dottorato, lavori di postdottorato), che hanno indagato a fondo il vasto panorama teorico dedicato a questo nuovo universo testuale, che 24 riflette. Voglio citare giovani studiosi come Valentina Vincenzini, Luca Ottocento, e la già citata Federica Pellegrini, che hanno sintetizzato le posizioni teoriche sul cinema e sulle serie postmoderne (la Pellegrini in particolare, oltre che su 24, su Lost e Flash Forward, che sono le altre due serie di culto che offrono un coté filosofico molto sottile)241. Se da un lato studiosi come David Rodowick riflettono sulla “stagione della paranoia digitale”242, dall’altro studiosi come Lev Manovich e Marsha Kinder riflettono sulla possibilità di nuove forme narrative derivate da strumenti tipicamente informatici quali il loop e il database243. Parallelamente, Gianni Canova parla di metanarratività, ovvero di un cinema che mette in scena il proprio raccontare, le scelte diegetiche, come nel caso di Pulp Fiction di Tarantino244. Si tratta di un cinema, quindi, che mostra se stesso, che esibisce il proprio linguaggio andando oltre i “fuochi d’artificio” di Jullier245, pur mantenendo una forte componente ludica. Inoltre, anche se tale fenomeno non rappresenta la forma narrativa 238 Cfr. David Rodowick, Il cinema nell’era del virtuale, Edizioni Olivares, 2008, pag. 181. Cfr.Warren Buckland (a cura di), Puzzle Films: Complex Storytelling in Contemporary Cinema, Wiley-Blackwell, Hoboken, NJ, 2009. 240 Cfr. Alessandro Amaducci, Anno zero. Il cinema nell’era digitale, Lindau, 2007, Torino, pag. 211. 241 Cfr. Valentina Vincenzini, Nuovi film per nuovi spettatori. Ripensare alla complessità narrativa del cinema nell’era digitale e Luca Ottocento, Il cinema nordamericano «intensificato». Teorie, stili ed esperienze, in «Imago», studi di cinema e media, anno 2 - n.3 primo semestre 2012, numero monografico Rivoluzioni digitali e nuove forme estetiche a cura di Enrico Menduni e Vito Zagarrio. 242 David Rodowick, cit., pag.22. 243 Lev Manovich, Il linguaggio dei nuovi media, Edizioni Olivares, Milano, 2002, pagg. 273-302, 386-395; Marsha Kinder, Hot Spots, Avatars, and Narrative Fields Forever: Buñuel’s Legacy for New Digital Media and Interactive Database Narrative, in «Film Quarterly», vol. 55, n.4, summer 2002, pag. 6. 244 Gianni Canova, L’alieno e il pipistrello, Bompiani, Milano, 2000, pag. 65. 245 Laurent Jullier, Il cinema postmoderno, Kaplan, Torino, 2006. 239 160 dominante del cinema contemporaneo, ancora legato ad una concezione “classica” di racconto, e consiste in un numero relativamente ridotto di film, tuttavia si impone come fenomeno di portata internazionale. Nonostante le diverse modalità di approccio e di valutazione, la teoria contemporanea concorda sull’uso del termine complex storytelling e individua nell’uso di una temporalità non lineare, nell’uso di strutture o concetti dei nuovi media (database, spazio navigabile) e nell’approccio con la realtà virtuale (rappresentazione di mondi paralleli, fantasie dei personaggi) le caratteristiche principali del fenomeno della “narrazione esplosa”. La centralità del nuovo rapporto spettatore-film dato dal progresso tecnologico è il filo comune che lega le nozioni di mind-game films di Thomas Elsaesser246, puzzle films di Jason Mittel247 e psychological puzzle films di Elliot Panek248. Secondo i tre autori, i film con una struttura narrativa non lineare sono una risposta dell’industria cinema alla richiesta di storie in grado di intrattenere un nuovo tipo di “gioco” narrativo da parte di un pubblico sempre più vasto ed esigente. Ripercorrendo i punti chiave del saggio di Jason Mittel dedicato all’analisi della complessità narrativa nella televisione contemporanea, possiamo vedere come anche egli consideri gli anni novanta come gli anni della complessità narrativa (non solo al cinema ma anche nelle serie televisive), in cui l’influenza di altre forme narrative quali i romanzi, i videogames e i fumetti origina un’era di sperimentazione e innovazione. Secondo Mittel, la nascita di una complessità narrativa che lavora principalmente su una diversa percezione del tempo, coincide con una serie di trasformazioni chiave nell’industria dei media, una sorta di conseguenza dell’uso delle nuove tecnologie che ha mutato radicalmente il rapporto tra spettatori e audiovisivi. Tra le innovazioni principali vi sono ad esempio il sistema VCR e il DVD, due supporti che permettono all’utente di gestire arbitrariamente il tempo della narrazione (e quindi si ha la possibilità di accedere alla visione multipla, acronologica o parziale di un testo audiovisivo), mentre la diffusione di internet ha permesso la nascita della fan culture, ovvero la possibilità degli utenti di interagire con il mondo delle narrazioni attraverso videogames, blog, siti, attraverso internet gli spettatori possono acquisire informazioni, discutere, scambiarsi modelli interpretativi e avere conferma/confutazione della propria tesi. Ovviamente, sottolinea Mittel, non è la tecnologia ad intervenire direttamente sulla narrazione, è semplicemente lo spettatore che, per la prima volta, ha un ruolo meno 246 Thomas Elsaesser, The Mind-Game Film, in Warren Buckland (a cura di), op.cit., pag. 16. Jason Mittel, Narrative complexity in contemporary American television, in «The Velvet Light Trap», n. 58, 2006, pagg. 29-40. 248 Elliot Panek, The Poet and the Detective. Defining the Psychological Puzzle Film, in «Film Criticism», n. 31, 2006, pagg. 62-88. 247 161 passivo. Mittel riprende il concetto di operational aesthetic di Neil Harris secondo cui gli spettatori non traggono piacere solamente nel seguire la storia, ma anche dalle tecniche utilizzate per rappresentarla. In questo senso, il videogioco ha sicuramente avuto un ruolo decisivo nella sempre maggiore popolarità dei puzzle films, predisponendo gli spettatori sia ad un rapporto interattivo con la narrazione, sia al piacere del gioco, qui inteso come gioco interpretativo di un cinema che mira al disorientamento e alla confusione. Elliot Panek, completa il quadro tracciato da Mittel, aggiungendo la categoria di psychological puzzle films: La chiarezza della narrazione classica è elusa da film che giocano sulla confusione tra realtà e finzione, insinuando il dubbio nello spettatore che deve trovare la giusta chiave di interpretazione del film: la narrazione non è più affidabile e il ruolo dei vari elementi non è immediatamente evidente. Warren Buckland chiama puzzle films quei film che utilizzano delle strategie narrative che rifiutano la struttura classica del racconto e la rimpiazzano con uno schema più complesso. Ebbene, tutto questo enorme dibattito teorico può essere facilmente applicato a 24, che non a caso è diventato, sin dalla prima stagione, un videogioco prodotto dalla Sony. È per questo che 24 è - forse suo malgrado - un piccolo miracolo creativo, produttivo, ideologico, registico. Un testo che resta nella storia del film e della televisione, o meglio di quel “cinema espanso”, puzzle a sua volta di molti mezzi, tipologie e approcci, che è oggi uno dei fenomeni più interessanti dell’universo mediatico. 162 Queer as Folk: il programma più gay mai realizzato di Giada Da Ros Il programma più gay che sia mai stato realizzato: così è stata definita Queer As Folk (19992000)249, la brillante, devastante, acuta e per molti versi sconvolgente serie inglese scritta da Russell T. Davies250, un autore “con sensibilità per il cult”, come ricorda Lavery in The Essential Cult TV Reader251. È presto divenuto uno dei programmi che hanno fatto la storia della televisione252 e alla versione britannica ha fatto seguito una versione americana253. La definizione è valida oggi come al momento della messa in onda e dà ragione dello stato di cult che le si associa. L’elasticità semantica e il relativismo epistemologico che si accompagnano alla parola “cult” impegnano il mondo accademico in tentativi di definizione non facili. Le Guern afferma che la dicitura, al suo minimo idealizzato, esprime l’attribuzione di un valore, funziona come unificante e produce gruppi e comunità di spettatori che si qualificano come “happy few” e mantengono entusiasmo per il testo, e si manifesta in pratiche di rituali254. Se questi tratti si possono attribuire alla serie, un culto lo è però in primis in una delle accezioni originarie che hanno dato origine a questo metagenere, in quanto “emblematica di una particolare subcultura”, di una cultura ai margini, underground, controversa e per molti versi anti-establishment. 249 Per una guida agli episodi della serie vedi: http://telesofia.blogspot.it/2012/10/queer-as-folk-unaguida-agli-episodi-i.html 250 Autore dal curriculum corposo, Russell T. Davies ha scritto per numerose serie televisive, come Dark Season, Century Falls, Children’s Ward, Revelations, The House of Windsor, Springhill, The Grand, prima di Queer As Folk. Fra i suoi programmi più noti ci sono Doctor Who (è sceneggiatore e produttore esecutivo della nuova stagione di questa serie culto, in onda sulla BBC), Torchwood e Bob & Rose. 251 David Lavery , The Essential Cult TV Reader, The University Press of Kentucky, Lexington, Ky, 2009, pag. 3. 252 Glen Creeber inserisce Queer As Folk nella sua lista dei 50 programmi chiave nella storia della televisione. Cfr. Glen Creeber (a cura di), Fifty Key Television Programmes, Edward Arnold Publishers, Londra, 2004. 253 La versione americana (2000-2005), con Ron Cowen e Daniel Lipman come capo-sceneggiatori, si è articolata in 5 stagioni (ciascuna con un numero variabile di episodi) e ha sviluppato personaggi che nella versione britannica erano marginali. È unanimemente considerata di gran lunga inferiore rispetto all’originaria: ha la tendenza a “iperspiegare” le situazioni, lì dove quella inglese è più asciutta; tende a essere più favolistica, con personaggi un po’ “supereroi”; è più smaccata e meno sottile; è manichea e timorosa delle contraddizioni; è più propagandistica; è troppo sesso-centrica, anche nell’umorismo; ha un bisogno di lieto fine… Obiezioni sensate e condivisibili, soprattutto a soffermarsi ai primi episodi. Per riuscire ad apprezzare la serie e le sue potenzialità è opportuno, a un certo punto, staccarsi completamente dal modello inglese e vederla come qualcosa di autonomo. Solo così si riesce ad apprezzarla. 254 Philippe Le Guern, Toward a Constructivist Approach to Media Cults, in Sarah Gwellian-Jones (a cura di), Cult Television, University Of Minnesota Press, Minneapolis, 2004. 163 Il titolo già spiega molto. “Queer” in inglese significa “strano”, “bizzarro”, “eccentrico”, ma ha anche il significato che in italiano diamo alle parole “finocchio” e “frocio”. Il termine ha una valenza dispregiativa (e nella serie, dei ragazzi vandalizzano la macchina di uno dei protagonisti, proprio scrivendo sulla portiera quella parola con della vernice), ma è anche ora utilizzato in termini sufficientemente neutrali come sinonimo di gay, e infatti si parla di “cultura queer”, le università hanno corsi di “studi queer”. La serie si appropria del vocabolo e lo trasforma in un termine di valenza fortemente positiva. L’espressione in sé, poi, è parte di un detto dello Yorkshire che dice “There’s nowt so queer as folk” che significa più o meno che “Non c’è niente di così strano come le persone comuni”. Questa informazione ci consente di farci un’immediata idea sull’etica e l’estetica del programma che guarda agli omosessuali come a persone comuni, come a gente qualsiasi. Come persone. Il titolo si presta inoltre a un gioco di parole per l’assonanza, nella pronuncia, fra la parola “folk” (gente) e la parola “fuck” (“scopata”, “scopare”, nel senso sessuale del termine, per quanto, nei diversi contesti, traducibile anche in modo differente, in italiano). Il sesso infatti è un ingrediente indispensabile del programma255 e in pre-produzione ci si riferiva alla serie come “Queer As Fuck”. Persone e sesso, abbiamo detto. Persone: ecco la prima rivoluzione copernicana di Russel T. Davies, dunque. Omosessuali non come gay antisettici e innocui (Melrose Place, Party of Five); non virati all’umorismo (Will & Grace, Metrosexuality) o più o meno asessuati confidenti di amici etero (Sex and the City); non modelli (Ellen con anche le note vicende extra-diegetiche), né vittime - di possibili attacchi omofobi, di malattie come l’AIDS, di una opprimente società eterosessuale che li costringe a vivere in modo lacerante il proprio outing (Dawson’s Creek) o li costringe a un perenne mascheramento della propria tendenza; non l’oggetto esotico usato per titillare (come molta pubblicità), né l’occasione per sperimentare (Ally McBeal) o per testare le proprie indecisioni; infine, e soprattutto, non come sub-plot, non come trama secondaria cioè, come simbolica concessione di una quota di schermo all’interno di uno spazio che non è la cultura gay, non è l’esperienza gay. In Queer As Folk gli omosessuali relegano gli eterosessuali a un ruolo marginale (Hazel, Donna) e diventano loro il plot, la trama, i protagonisti. Queer As Folk (QAF) narra le vicende di tre ragazzi e il mondo che li circonda. Stuart (Aidan Gillen) e Vince (Craig Kelly) sono due quasi-trentenni che sono amici dall’infanzia. Il primo 255 “Dovete sapere che tutto ruota intorno al sesso” (1.01) è l’incipit della versione americana. 164 è un pubblicitario di successo, ricco e sicuro di sé, un vero predatore sessuale, il secondo un timido assistente manager in un supermercato con una grande passione per i telefilm, in particolare per Doctor Who, e una passione nascosta non troppo bene per l’amico. Nelle loro vite entra l’adolescente Nathan (Charlie Hunnam), “la scopata di una notte che è diventata una cosa seria”.256 C’è il lavoro, e c’è la scuola, e poi, la sera, ci sono i club, il Babylon in particolare, cattedrale dei rituali notturni del piacere, mecca di tutti i frequentatori di Canal Street, il distretto gay di Manchester in cui è ambientato. Realizzato dalla Red Production Company, consta di due stagioni: la prima di otto episodi, ciascuno di 30 minuti; la seconda, più epica e più arrabbiata, è di due soli episodi, più lunghi, che chiudono la storia e che già nel titolo sono concepiti come qualcosa di separato e di diverso, ”Queer As Folk 2: Same Men, New Tricks”257. Questo cult vuole essere un’istantanea di gente comune, dicevamo parlando del titolo. E per questo Davies ha guardato ai club. “Abbiamo fra le mani il nostro piccolo Kossovo, qui, e non uso quell’immagine con leggerezza”, commenta l’autore osservando come quelli a cui ha guardato non sono persone che i gay come comunità vorrebbero come modelli. Sono una fotografia spesso scomoda, persone di cui ci si vergogna, anche. E infatti non è in cerca di una comunità, come afferma esplicitamente, ma intende narrare vite specifiche. Sono le storie personali, la drammaticità, l’oscurità delle vicende spesso iniettate di humor, le uniche che contano. Sono le vite dei singoli, guardate onestamente, riprodotte nella loro bellezza e talvolta nel loro squallore. Sfugge da ciò che è troppo “sicuro”, troppo “di rappresentanza”, troppo “politicamente corretto”. È una poetica che ripudia il mettersi in posa. Non tutti i gay si comporterebbero in quel modo, quei gay sì. L’atteggiamento (parola chiave per comprendere tutto QAF) è all’insegna del “va bene, sono gay. Andiamo avanti con la storia”. Non è perciò un’etnografia e, anche su specifico suggerimento della produttrice esecutiva Nicola Shindler, evita di essere un programma “antropologico”. Ammette Davies: “(…) all’inizio ho sentito questa incredibile pressione a essere rappresentativo, a includere ogni singola angolazione della vita gay. Lesbiche, uomini gay più anziani, coppie gay monogame, 256 “The one night stand that never went away” (1.01). In Italia è consueto numerare esplicitamente le stagioni, un po’ per pigrizia degli spettatori, che potrebbero non accorgersi che non si tratta di repliche, un po’ per una programmazione che non ha delle partenze in palinsesto costanti nel tempo e quindi affidabili per lo spettatore che volesse cercare di continuare a seguire una serie che ama. Diversamente dall’Italia, nel resto del mondo questo non è necessario. Le stagioni non abbisognano di indicazioni alcune che le separino. Il fatto di aver indicato il “2”, perciò, è stata una scelta specifica e voluta da parte dell’autore, per nettamente differenziare le due “parti” del programma. 257 165 AIDS. Ed è semplicemente troppo ampio cercare di rappresentare un mondo intero - questo non porterà mai a creare una buona storia drammatica. Oh Dio, sarebbe così blando e meritevole. E peraltro, nessuna storia drammatica eterosessuale ha quel genere di mandato. Alla fine, mi sono reso conto che non avevo un punto focale - trovare buoni personaggi, buone storie, e al diavolo la rappresentatività”258. Il candore che si è scelto come stile porta con sé una franchezza nelle scene di sesso e nel linguaggio che non ha precedenti. Questi personaggi si accarezzano, si palpano, si baciano, si penetrano, si succhiano, si leccano senza imbarazzi. Lo fanno da soli, in due, in tre. Lo fanno in casa, in ufficio, nei locali e all’aria aperta. La nudità, anche frontale, è usuale. Il sesso, che ne siano coinvolti i protagonisti o le comparse che fanno da sfondo, satura lo schermo in una sorta di Giardino delle Delizie scevro del moralismo e dell’angoscia che caratterizza Bosch. Celebrazione, ma non solo. L’esegesi dell’iconografia sessuale di Queer As Folk, per quanto senz’altro non sempre intellettualizzata, fa scoprire un valore culturale che travalica l’aspetto ludico dell’atto. “Pensate che le scene di sesso nella storia fossero necessarie?” si domanda, aprendosi al dibattito Glen Creeber259. Senz’altro. Non solo la voracità di Stuart, la ritrosa timidezza di Vince e il senso della scoperta di Nathan sono essenziali ai personaggi, anche il solo infrangere l’invisibilità dell’atto fisico è indispensabile. La nota fondamentale di questi personaggi è che non si scusano di quello che sono e di quello che fanno. Non si può cogliere allo stesso modo la portata di questo atteggiamento senza vederlo mentre si attua. Forse non in assoluto, ma sicuramente in un panorama visivo che non ha mai mostrato nel mainstream questi comportamenti. C’è molta ingenuità e verginità nello spettatore, per l’assoluto deserto che c’è in questo campo, al punto che il semplice fatto di mostrare si rende necessario; è necessità di rendersi vista, ovvia (nella presenza de facto, non nella sua contingente rappresentazione più o meno riuscita), non più scioccante di qualunque scena di sesso eterosessuale. “Pensate che ci sarebbe stata minor controversia se i personaggi fossero stati eterosessuali?” si e ci domanda infatti ancora Creeber. È una domanda di difficile risposta, ma parte del fatto per cui Queer As Folk è sovversivo ed è diventato un cult è perché mette in scena personaggi omosessuali. E potrà anche svelare al suo pubblico i piaceri del rimming (il massaggio dell’ano con la lingua), ma come lo stesso Davies ricorda “non è più esplicito di 258 259 Russell T. Davies, Queer As Folk - The scripts, MacMillan Publishers, 1999, pag.6. Glen Creeber (a cura di), Queer as folk, in Fifty Key Television Programmes, op.cit.. 166 qualunque sesso eterosessuale in tv”260. Anche se senz’altro il confine con la pornografia talvolta è molto sottile. Come una Maya desnuda, Queer As Folk esce allo scoperto, esce dall’armadio e reclama come proprio di una cultura un certo modus cogendi. La complessità e la multidimensionalità dei personaggi consente la scoperta di un ethos differente dal classico eterosessuale a cui siamo costantemente esposti. E si propone senza mediazioni, senza travestimenti, ma proprio nella sua alterità, che per questo può sembrare più temibile, ma che rivendica una maggiore autenticità. Cerca di farsi notare, non di passare inosservata. Stuart a un certo punto accusa l’amico Vince di non essere un omosessuale, ma solo uno straight che va a letto con gli uomini. Essere gay significa di più, evidentemente. Nella rappresentazione del sesso come atto fisico si accompagna anche una rappresentazione del sesso come atto mentale, come ruolo e senso nella vita. Non è solo mancata equivalenza, in alcuni casi, fra amore e sesso (negli atti e nei desideri), è un’apertura del sesso a significati più vari di quanto non sia mediamente consentito, è più pregnante di così. Non perché migliore, non perché peggiore, ma in virtù della propria unicità. “Effettivamente, forse la grande forza delle versioni tanto inglese quanto americana è che gli spettatori finiscono per conoscere questi personaggi nei più intimi dettagli, così invece di vederli semplicemente come “personaggi gay” (e perciò emblematici di certe “tematiche gay”), la loro sessualità alla fine diventa solo una piccola (sebbene importante) parte della loro complessa costruzione psicologica. Come risultato, ci viene dato un insight sul complesso del loro comportamento e sul loro stile di vita più emozionalmente sofisticato e ideologicamente ambiguo”261. Ciò che ha fatto più scalpore è stata l’iniziazione sessuale di Nathan da parte di Stuart. Per una ragione: l’età. Un quindicenne finiva a letto con un uomo del doppio della sua età, proprio nel pilot. Un atto illegale. Mentre quelle scene andavano in onda, in Inghilterra il partito laburista stava discutendo di abbassare l’età del consenso per i rapporti omosessuali all’età prevista per i rapporti eterosessuali, 16 anni. L’intento era proprio quello di scegliere un ragazzo al confine dell’età legale, nella consapevolezza che è comune per una qualunque persona eterosessuale della stessa età essere ed essere rappresentata come sessualmente attiva. La serie stessa di per sé problematicizza (nella forma dei genitori) la differenza d’età, disinnescando la drasticità di alcune letture (così come quella fatta, ad esempio, dalla 260 261 Da «Genre», Dicembre 1999, http://queerasfolk.ca/reviews.html. Glem Creeber (a cura di), Queer as folk, in Fifty Key Television Programmes, op.cit., pag.172. 167 televisione australiana) che ne vedono della pornografia infantile. La stessa funzione ha l’umorismo con cui viene commentata. Stuart nel pilot corre all’ospedale perché la donna a cui ha dato il suo seme ha partorito il suo bambino. La compagna di costei, rispetto a Nathan, commenta: “così avete avuto tutti e due un bambino la stessa sera”262. La non gratuità della scelta del programma di mostrare è confermata proprio dalle scene di sesso del pilot. È proprio la nudità a spaventare. Davies è rimasto sorpreso, e a ragione, della aproblematica accettazione dell’equivalente solamente verbale che pure è presente nello stesso pilot, e che è il ricordo che Stuart ha, di come lui stesso, a 12 anni (diventati 14 nella traduzione italiana), perde la verginità. “Si può leggere qualsiasi reportage sull’argomento, ma “un uomo è stato ucciso” è cosa diversa da un uomo che viene ucciso.” diceva Raymond Williams già nel 1972263 osservando l’immediatezza delle immagini e l’attenzione diversa che reclamano. Parlava di immagini vere, non di finzione, ma una volta che si entra nella prospettiva diegetica, queste sono vere come qualsiasi altra. Il linguaggio ha un ruolo molto particolare ed è complice in tutto ciò. È giocato all’insegna del “riserbo”, potremmo accennare qui, “gnomico” è stato definito, ed ha una valenza politica molto forte264. “Shag”, in inglese, come verbo e come sostantivo (anche riferito a persona), “scopare/scopata” in italiano, riempie la bocca dei personaggi. È stato notato come tale termine è talmente importante da rendere sorprendente l’uso minimo di altri termini con lo stesso significato. I doppi sensi abbondano. L’eloquio è volgare, ma comune, raramente osceno. Il più delle volte è funzionale a una rappresentazione realistica di un ambiente che è comunque anche grossolano e un po’ aspro; quando è più marcato infatti è sempre perché si accompagna ad un’elocuzione anche contenutisticamente radicale (emblematico in questo senso lo statement ideologico e formale della famosa scena dell’outing di Stuart con i suoi genitori265). L’uso ricreazionale delle droghe, con la crudezza delle conseguenze - Phil muore 262 Lisa: So. You’ve both had a child on the same night. (1.01). Raimond Williams, “Televisione come cultura”, in Raimond Williams, Televisione - Tecnologia e Forma Culturale, Editori Riuniti, Roma, 2000. 264 A questo proposito si legga: Giada Da Ros, L'uso del linguaggio gnomico nel Queer As Folk britannico. Il suo uso e non uso politico, in «Ol3Media », Anno 1, numero 3, 2008. 265 “Noi non usiamo martelli. O i chiodi, o le pinze. Noi trapaniamo e facciamo seghe, ma in un altro senso. (…) Noi Froci. (…) Perché io sono un frocio, sono gay, sono una checca. Sono un finocchio, cavalco a pelo, amo i trenini. Sono un diverso, io faccio prove orali, il mio sport preferito è il salto con l’asta, sono omosessuale. Io metto a prova le chiappe. Io sono un succhiacappelle. Io sono la regina dei cessi pubblici, me li faccio tutti. Io amo il cannolo alla crema. L’ortaggio che preferisco è la banana. Lo strumento che suono meglio è il piffero a pelle. Io scopo e sono scopato. Io succhio e 263 168 solo come un cane, nell’appartamento della sua cucina (1.03) - pure è un fattore. Drogadiscoteca, droga-sesso sono binomi comuni. Tutti questi fattori hanno alimentato la controversia sul programma, che ha fatto parlare di sé come pochi altri. La rete inglese che lo ha mandato in onda ha avuto gli ascolti più alti dopo ER, e le vendite di video e CD della serie sono decollati al di là di ogni prevedibile ipotesi, schizzando subito al numero uno delle vendite e mostrando che a comprare il programma non erano solo i gay. Accanto alla parola “innovativo”, Queer As Folk si è potuta fregiare di un altro termine: successo. I dibattiti sono stati focosi. Molti hanno accusato questo cult di essere un programma pornografico e sensazionalista che celebra promiscuità e irresponsabilità. E non si deve credere che fossero solo conservatori. Una forte critica è arrivata dagli attivisti gay che ritenevano che il programma li danneggiasse perché rinforzava gli stereotipi sul loro stile di vita e che alimentasse le paure di molti genitori che vedono i propri figli possibili vittime di corruttori senza troppi scrupoli morali. Il regista Joel Schumacher (Batman Forever), che originariamente si era dimostrato interessato alla realizzazione della versione americana della serie, e che poi ha abbandonato il progetto, ha argutamente osservato che la politicità di QAF consiste proprio nel non essere politico. È come se una poetica di impegno sociale fosse raggiunta proprio attraverso un dichiarato cosciente disimpegno sociale. La produttrice di Queer As Folk crede nella rappresentazione drammatica che ha la capacità di cambiare il mondo. A questa, e a questa sola, spetta il compito di operare dei cambiamenti, lì dove sono auspicati, con la sola forza della sua relazionabilità umana, pregnanza narrativa e complessità psicologica. Superato lo shock, assorbito il senso di ciò a cui stavano assistendo, le critiche negative sono diventate positive. La relazione con il testo da parte dello spettatore è diventata in definitiva luogo di dibattito e interrelazione sociale e culturale e riconosciamo proprio la serie come cult lì dove i testi che la costituiscono “sono investiti di aspirazioni e rivendicazioni di identità: uniscono membri di una stessa generazione attorno a un comune stile di vita; in modo energico traducono strategie di posizione e opposizione; esprimono preferenze culturali enfatizzando valori potenzialmente distintivi”266. E a Queer As Folk possiamo ben applicare delle affermazioni fatte da due autori televisivi che nulla hanno avuto vengo succhiato. Li scappello e li meno e si sono fatti tutti le più belle scopate con me. Ma io non sono un pedofilo.” (2.01) 266 Philippe Le Guern, Toward a Constructivist Approach to Media Cults, in Sarah Gwellian-Jones (a cura di), Cult Television, op.cit., pagg.178-82 dell’edizione Kindle. 169 a che fare con la realizzazione di questo fenomeno: Zwick e Herskowitz267. “Nel cercare di reggere uno specchio ed esplorare da vicino, qualcuno potrebbe dire in modo maniacale, quello che succede all’interno di una famiglia o all’interno di un matrimonio o una amicizia o in una relazione fra partner - in ogni relazione - è essere politici”268. E ancora: “(…) quello che c’è di disturbante nel mondo - il pregiudizio, la violenza, l’abuso, l’odio, perfino il totalitarismo - comincia a casa. In famiglia. Spesso davanti alla TV.” Questo fa Queer As Folk: parla di relazioni, e di famiglia, mostra un genere di vita che per la maggior parte degli spettatori è ai margini e la rende, nella propria domesticità, vissuta e umana, la traduce in un linguaggio che fa leva sul comune denominatore dei rapporti interindividuali ed emozionali. Solleva uno specchio per coloro che quella realtà la vivono e, come uno specchio, dice la verità e non giudica. I protagonisti non discutono mollemente adagiati in un ideale simposio platonico, si raccontano in un pub con in mano un boccale di birra, o si ignorano e si puntano nelle discoteche o nei bagni, facendo della loro quotidianità una affermazione fortemente politica. “Era un dialogo insignificante, era un dialogo profondo, se è possibile accostare questi contrari”, si potrà dire con Saramago269 guardando a molti degli scambi fra i personaggi. C’è la sessualità come esperienza sicuramente, “se per esperienza si intende la correlazione, in una cultura, fra campi del sapere, tipi di normatività e forme di soggettività”270, e c’è un’ermeneutica del desiderio e un’ermeneutica del sé. E c’è un’etica precisa, decisa. I personaggi si confrontano con la vita: la famiglia, l’essere genitori e l’essere figli, la salute, l’età, la mortalità, l’amicizia, l’amore, la lealtà, la fedeltà, l’impegno sociale… Sono noi. Gay. Giallo, blu, rosso: i colori del Queer As Folk inglese sono saturi e decisi. Sono sfrontati, festosi e festaioli contro il color acciaio della città che rimane come sensazione di fondo - città industriale che lavora. Molto inglese. Anche con un filo di patina però - stile Ally McBeal, richiama la produttrice esecutiva. Questo Queer As Folk è in primo luogo una storia d’amore (quella fra Vince e Stuart), mai ammessa, mai totalmente esplicitata, sempre elusa. È una storia di frasi non dette e sguardi. È 267 Sono autori per la televisione di thirtysomething - In famiglia e con gli amici, Once and again Ancora una volta, Relativity e l’inedito, in Italia, My so-called life. 268 La citazione è tratta da un discorso che hanno tenuto nel ricevere un premio, il “Distinguished Entertainment Industry Award” da parte della Anti-Defamation League. Cfr. Herskovitz and Zwick, “The world according to Marshall and Ed”, in « Emmy», June 2000, pag.78. 269 Jose Saramago, Cecità, Einaudi Tascabili, Torino, 1996, pag.168. 270 Michael Foucault, Storia della sessualità - L’uso dei piaceri, Feltrinelli, Milano, 2002, pag.10. 170 una danza silenziosa che due uomini fanno uno con l’altro, entrambi consapevoli e allo stesso tempo entrambi ignari. È un’amicizia che non è mai solo tale, é un amore che non è mai solo tale. È assoluta dedizione l’uno all’altro. “L’amore non corrisposto. È fantastico! Perché non deve mai cambiare. Non deve mai crescere. E non deve mai morire!” (1.08). Sul tetto dell’ospedale nel pilot, alla festa di compleanno di Vince, prima della rottura fra Vince e Cameron, quando al bar Stuart gli elenca gli attori che hanno interpretato Doctor Who (un capolavoro di dichiarazione d’amore mascherata in un elenco di attori), alle nozze della sorella di Vince… Tappe di un amore molto “europeo” nel suo essere sobrio e minimalista, tanto più accentuato dal fatto che tutto, intorno, è il contrario. Questo Queer As Folk è anche un Bildungsroman per il giovane Nathan, che arriva un ragazzino imberbe e pieno di paura e si trasforma in un giovane uomo pronto ad affrontare il mondo (scappa di casa con Donna). Il suo romanzo di formazione lo mostra all’inizio spaesato (chiedere indicazioni è la prima cosa che gli vediamo fare) e ingenuo (risponde che gli piace guardare la TV, a Stuart che gli aveva chiesto che cosa gli piacesse fare, (a letto naturalmente, intendeva questi), ma diventa sicuro di sé e pieno di grinta (smette di stare alle calcagna di Stuart, è pronto a lanciarsi nella mischia, rivendicando la propria autonomia). Celebrativo in chiusura della prima stagione - “It’s raining men”, suona in discoteca su Stuart e Vince che ballano carichi e contenti -, nella seconda serie Queer As Folk diventa più arrabbiato. C’è il Russell T. Davies che dichiara una nuova coscienza nel fatto che, in fondo, tutto ruota intorno al grande tema dell’omofobia. Ci sono le costanti, onnipresenti, piccole e grandi vessazioni della vita quotidiana: Stuart viene ricattato dal nipotino che vuole, mentendo, accusarlo di molestie; Alexander viene tagliato fuori dalla madre dal testamento del padre perché gay; insieme negli Stati Uniti vengono insultati, perché gay, da uno sconosciuto. C’è la rabbia e la reazione. Esce fuori lo Stuart che nel comprarsi la macchina aveva sfondato la vetrina del rivenditore che gli suggeriva la macchina da “uomo di famiglia”, non quella che piaceva a lui, la macchina del gay, che tanto poi muore e la si può ricomprare per meno. Si suscita nello spettatore lo stesso trasporto di rivalsa nei confronti delle ingiustizie: Stuart che piglia di peso il nipotino e a testa in giù gliela ficca nella tazza del cesso e tira l’acqua, e il suo successivo coming out con la famiglia; Stuart che fa saltare in aria la macchina della madre di Alexander; Stuart che punta una pistola e costringe l’uomo che ha insultato lui e Vince a scusarsi. E c’è il gran finale: la fuga degli innamorati, con la cavalleresca corsa in macchina di Vince e della madre perché questi possa raggiungere l’amato. E la chiusura “da fantascienza”, con la trasformazione della notte in giorno e lo 171 sfrecciare verso l’ideale tramonto, gli Stati Uniti. Criticata da molti, rimasti perplessi per l’apparente cambio di registro, ma in realtà simbolicamente appropriata e in fondo coerente con quello che entrambi i personaggi sono. Chi ha potuto vedere Queer As Folk?271 “Solo gli inglesi sono coraggiosi a sufficienza da mandarlo sui normali network tv. (…) è un peccato, perché più persone meritano di vederlo. Voglio che venga discusso nelle scuole e all’università” dice Davies272. In Inghilterra la serie è andata in onda su Channel 4, che si è fatto una reputazione di canale alternativo alla BBC e la ITV anche grazie alla sua attenzione per la rappresentazione delle minoranze. Con oltre 3 milioni e mezzo di spettatori, il programma ha superato le più ampie aspettative di ascolto, mettendo in luce come è andato al di là del bacino di minoranza gay, raccogliendo intorno alla tv in particolare donne eterosessuali e i loro partner273. Ciò che è culto in televisione spesso “esce dalla marginalità delle nicchie e diventa diffuso, liquido, sempre più vicino e previsto dal mainstream”274. Altrettanto spesso “le condizioni di accesso ai testi costituiscono un elemento centrale di cult-ismo come forma di cultura di partecipazione”275 e mantengono una forma di “rarità”, come è stato il caso del nostro Paese. In Italia chi ha colto subito la palla al balzo è stata la satellitare Gay.tv, che a partire dal 2002 ha trasmesso la serie inglese più volte, in originale con i sottotitoli in italiano, e in italiano. Canal Jimmy, sempre sul satellite, ha in seguito mandato in onda la versione inglese in italiano. Pur con dei tagli, ci si aspettava il grande debutto nazionale su la7 (nel 2005 ha mandato in onda The L Word per prima, dopo il passaggio satellitare), ma la messa in onda non si è mai materializzata. Morale, nel nostro Paese, salvo acquisti personali, a meno di non avere il satellite, e diciamo chiaramente, a meno di non avere un interesse verso le tematiche gay a sufficienza da andare a curiosare su una rete di nicchia, la possibilità di venire a contatto con queste storie e con queste immagini è stata ben scarsa. Non che sorprenda, visto l’atteggiamento paternalistico e censorio adottato in generale dalle nostre televisioni. A meno di non far parte del cult fandom, Queer As Folk 271 Lo stesso Russell T. Davies ha detto che la sua aspettativa all’inizio era che in Inghilterra alla fine lo avrebbero visto solo 5 uomini gay e un vicario arrabbiato in “The Making of QAF2” in «Attitude Magazine» (Feb 2000). E ha scherzato dicendo che tutti loro pensavano “Tre uomini e un cane lo guarderanno, due degli uomini lo odieranno, il cane morirà”. Da “Spunk on the Screen” in «Gay Times» (Feb 2000). 272 Da «Genre», Dicembre 1999, http://queerasfolk.ca/reviews.html. 273 “QAF-UK - a University of East London dissertation by Ryan Edwards” (Jan 2004): http://65.39.151.149/rev301.html. 274 Aldo Grasso e Massimo Scaglioni (a cura di), Arredo di serie - I mondi possibili della serialità americana, Vita & Pensiero, Milano, 2009, pag.7. 275 Sarah Gwellian-Jones (a cura di), Cult Television, op.cit., pagg. 296-300 della edizione Kindle. 172 rimane insomma come ha titolato Ken Tucker, giornalista di «Entertainment Weekly», nel 1999, nella annuale selezione dei migliori e dei peggiori programmi tv, “la miglior serie tv che probabilmente non vedrete mai”276. 276 Dice: “Se un qualunque network americano avesse il fegato di mandarlo in onda, Queer As Folk sarebbe al numero 2 della mia lista dei 10 migliori programmi. Ma il fatto che questa ribalda, acuta, inaspettatamente commovente miniserie inglese metta sotto i riflettori, nella prima ora, un antieroe dissoluto (il canagliamente seducente Aidan Gillen) che fa sesso con un ragazzo di 15 anni è stato sufficiente perché qui da noi venisse relegata ai festival di film gay e alle vendite piratate di video da Internet. Ideato da Russell T. Davies, Folk è la storia delle vite di uomini gay in tutta la loro complessità - il sesso è solo uno degli aspetti esplorati. Joel Schumacher sta progettando una versione per Showtime con il protagonista più giovane cresciuto per portarlo all’età legale, ma scusatemi se dubito che chiunque possa mai migliorare l’originale.” In «Entertainment Weekly», #518/519 December 24/31, 1999, pag. 136. Nella sua lista, al numero due c’erano invece Buffy the Vampire Slayer e Angel. Al numero uno I Soprano. Negli Stati Uniti, la serie inglese è andata in onda su C1TV, un network a orientamento gay disponibile via cavo, con modalità particolari, in solo alcune città. 173 174 Cult Television indaga sul fenomeno sempre più in Cult Telkev espansione della serialità televisiva come evento sociale e sempre più legato alla fenomenologia del cult. Serie tv come Star Trek, Lost, 24, Farscape, Torchwood e molte altre, diventano manifesti di pratiche fluide che toccano i temi della narrazione, del marketing, della produzione, dell’estetica visuale. Barbara Maio è Dottore di Ricerca in Cinema e Tv (Roma Tre, 2006). Ha pubblicato ampiamente su cinema, televisione e nuovi media. È direttore responsabile e fondatore dell’ejournal Ol3Media e direttore del progetto di ricerca Osservatorio Tv. Tra le sue pubblicazioni Legittimare la Cacciatrice. Buffy The Vampire Slayer (Bulzoni, 2007), La Terza Golden Age della Televisione (Edizioni Sabinae, 2009) e HBO. Televisione, Autorialità, estetica (Bulzoni, 2011). ISBN 97888908180-0-4  2013 Rigel Edizioni