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Lubrina Editore Sguardi, 1 Viaggio d’inverno Gerhard Roth Viaggio d’inverno Gerhard Roth Lubrina Editore Sguardi, 1 Gerhard Roth VIAGGIO D’INVERNO Prefazione e traduzione Luca Bani Lubrina Editore Luca Bani vive e lavora a Bergamo. Attualmente è dottorando in Letterature comparate presso l’università di Bologna. In passato si è occupato della narrativa di Claudio Magris, del pensiero politico del poeta e scienziato bergamasco Lorenzo Mascheroni, dell’opera di alcuni tra i maggiori scrittori tedeschi (Goethe e Th. Mann) e di letteratura di massa. Questa è la sua prima esperienza come traduttore. Edizione originale: Winterreise, 1978. © 1978 by S. Fischer Verlag GmbH, Frankfurt am Main © Lubrina Editore, 2001 via Cesare Correnti, 50 24124 Bergamo - Italy www.lubrina.it ISBN 88 7766 238 7 Printed in Italy Il presente volume è stato tradotto dal tedesco da Luca Bani con il contributo della Comunità Europea nell’ambito del programma “Cultura 2000”. Cultura 2000 Prefazione Luca Bani 7 Questa traduzione è nata grazie all’aiuto, al sostegno e ai consigli preziosi di Gunhild Schneider, Lorenza Maffioletti e Alessandro Belotti. A loro è dedicata, con affetto e riconoscenza. “Si parte per cambiare, per rinnovarsi, ci si allontana dalle proprie abitudini per far morire una parte di sé e allo stesso tempo per permettere alla nuova di nascere. Questa è, se non altro, almeno l’illusione che anima il viaggiatore a mettersi in cammino”1 Il grigiore dell’ultimo giorno dell’anno, la noia e la routine di una relazione trascinata con stanchezza, la desolazione di incontrare volti da cui traspare solo rassegnazione e solitudine, il gesto disperato del marito della sua amante e, soprattutto, il disgusto profondo per se stesso e per ciò che lo circonda sono le premesse dalle quali si dipana la vicenda del maestro Nagl e dalle quali prende le mosse, forse ispirata dal volo di un elicottero blu nell’infinito del cielo, la sua intenzione di abbandonare tutto e di intraprendere un lungo viaggio liberatorio alla ricerca del proprio io. Un viaggio da fare non da solo, però, ma insieme a un’amica, a una vecchia amante che è stata fondamentale per Nagl: forse la sua vera e unica storia d’amore, dopo la quale – nel testo non si parla mai di relazioni precedenti – non ci sono stati che vani e infruttuosi tentativi di ricreare la stessa intensità affettiva: tentativi disperatamente messi in atto per dimenticare e, forse, per vendicarsi. __________ 1 D. Nuocera, I viaggi e la letteratura, in A. Gnisci (a cura di), Introduzione alla letteratura comparata, Bruno Mondadori, 1999, p. 123. 9 L’Austria della fine degli anni Settanta, che ci viene restituita dalle descrizioni implacabili di Gerhard Roth, è un paese pigro e indolente, adagiato su se stesso e in uno stato di perenne letargo2. Un paese nel quale ogni tentativo di interrogazione critica sulla realtà circostante o sul passato recente, che si cerca a tutti i costi di allontanare, viene rigettato dalla maggioranza dei cittadini e, quel che è peggio, mercificato dallo Stato: se tu mi dai la tua coscienza critica, le tue domande, la tua insoddisfazione e il desiderio di ribellarti a tutto ciò che ti sta intorno – sembra dire lo Stato – io ti garantisco una vita tranquilla, un lavoro sicuro e una pensione dignitosa. Perché io sono lo Stato padre, ma anche padrone! La narrativa di Gerhard Roth, come quella degli altri appartenenti alla Grazer Gruppe, ha profonde radici ontologiche e protestatarie e nasce dalla contrapposizione al modello sociale della pacifica, neutrale e apparentemente idillica Austria felix. La scrittura d’opposizione di Roth, però, non parte dall’inventario del reale per raggiungere il suo scopo, bensì dall’intimistico disagio esistenziale del singolo individuo, dalla frantumazione dell’io e della percezione, dalla perdita del senso della realtà, dalla distorsione dei rapporti interpersonali e, sicuramente, anche da una sincera, ma spesso repressa, nostalgia per la totalità dell’io e per la dimensione epica della vita che sembrano essere oramai irrimediabilmente perdute. Questa affinità tematica rende Gerhard __________ 2 Cfr. I. Drewitz Gerhard Roth: Winterreise, in “Neue Deutsche Hefte”, Heft 2, n° 158, 1978, p. 365. 10 Roth degno erede di una lunga tradizione letteraria austriaca che ha come padri fondatori autori come Joseph Roth, Robert Musil ed Elias Canetti3: il rimpianto per una mitica – e quindi forse mai esistita – totalità attraversa questa tradizione come un fiume carsico, che costantemente riemerge per far sentire la propria forza e ribadire il proprio ruolo di idea guida. Ecco allora il viaggio in Italia del maestro Nagl4. Ed ecco anche la riconferma di un topos che, nelle intenzioni di Roth, non assume più una funzione assertiva e di conferma di una tradizione nobile e radicata, quella del viaggio in Italia appunto, ma ne diventa la parodia e la confutazione. Dall’Italia non si ritorna più ‘formati’ e ‘adulti’, pronti cioè ad assumere con dignità e impegno il proprio ruolo nella società, tutt’altro. Dall’Italia non si ritorna proprio. Ciò non toglie, tuttavia, che la rappresentazione che del nostro Paese viene data in questo romanzo possa far sorridere il lettore italiano, e questo non a causa di un difetto delle capacità narrative di Roth, ma per una inevitabile e probabilmente genetica ingenuità di molti scrittori tedeschi, anche contemporanei, che rende le loro descrizioni ‘italia__________ 3 Cfr. M. Batl, Gerhard Roth, Wien – Graz, Droschl, 1995, p. 37. 4 Per un’analisi comparatistica del topos del viaggio in G. Roth e P. Handke si rimanda a G. Melzer, ‘Dieselben Dinge täglich bringen langsam um’. Die Reisemodelle in Peter Handkes ‘Der kurze Brief zum langen Abschied’ und Gerhard Roths ‘Winterreise’, in AA.VV., Die andere Welt. Aspekte der österreichischen Literatur des 19. Und 20. Jahrhunderts. Festschrift für Hellmuth Himmel zum 60. Geburstag, Bern und München, Francke Verlag, 1979, pp. 373-393. 11 ne’ sempre un po’ stereotipate. L’Italia e gli italiani hanno una vitalità potente, brutale, spontanea e sconcertante per un nordico: sono belli, terribili e indifferenti come la natura e, in fondo, come la vita. Il contrasto oppositivo tra austriaci e italiani è presente fin dalle prime scene del romanzo: “Nel vagone ristorante sedevano un giovane austriaco, con un paio d’occhiali dalla montatura di metallo e una giacca a vento, placidamente immerso nella lettura e un italiano dagli occhi sporgenti che lo fissava, così che anche Nagl lo fissò fino al momento in cui si girò. Quando prese la mano di Anna, l’italiano rise e, senza pudore, guardò Nagl negli occhi. Indossava un abito nero, una camicia bianca, una cravatta scura e i suoi capelli erano scrupolosamente pettinati all’indietro. Anche quando Nagl gli lanciò un’occhiata furente non si lasciò intimidire, ma continuò a guardarlo. Subito dopo si alzò, si fermò davanti a Nagl e disse: “L’ho solo guardata”. Stava lì, come il gendarme con la mano sanguinante, poi barcollò e percorse senza voltarsi il lungo corridoio tra i tavoli della carrozza ristorante”. Nel testo di Roth, comunque, l’accento sulla ‘diversità’ italiana viene posto anche consapevolmente per due ragioni ben precise: segnare lo stacco tra punto di partenza (l’Austria grigia e conformista) e il punto di approdo (l’Italia colorita e caotica) e, in questo modo, rimarcare ancora di più il fallimento del viaggio del protagonista nonostante la scelta di una meta così radicalmente diversa da quella d’origine. Come abbiamo già affermato, venire in Italia non serve più a nulla, 12 il viaggio stesso non serve più a nulla perché trovarsi a Napoli, a Vienna o in Alaska non facilita un percorso interiore o una riflessione su se stessi con qualche possibilità di approdare ad un sia pur remoto e minimo risultato5. Ma un tentativo viene comunque fatto, perché la realtà quotidiana non è più sopportabile ed è diventata soffocante e claustrofobica. Bisogna partire. Bisogna cercare di recuperare il significato della propria esistenza. Bisogna raggiungere Napoli e il mare, perché il mare è l’immagine della totalità perduta6, così come ne sono metafora lo spazio siderale, in cui sono sospese le stelle e la terra, e la natura, della quale le eruzioni vulcaniche e i ghiacci polari – argomenti preferiti delle letture e delle meditazioni di Nagl – sono un’immagine grandiosa e potente. “Poi, improvvisamente, comparve il mare, abbagliante di chiarore e soffuso di morbida luce nella sua remota lontananza. Era splendido, lontano e immenso. Piccole barche sembravano stargli sopra e lui le lasciava fare, imperturbabile e indulgente. Nagl non riusciva a distogliere lo sguardo. La morte era entrata nell’oscurità opprimente del suo scompartimento, mentre il mare era lì, immerso nella luce, invitante e meraviglioso, lontano e indistruttibile. Un idrovolante lo sorvolò e vi si posò, alzando della spuma bian__________ 5 I. Drewitz, Op. cit., p. 366. 6 Sul ruolo del mare e l’evoluzione dell’immaginario marino nella società occidentale moderna e contemporanea si veda A. Corbin, L’invenzione del mare. L’Occidente e il fascino della spiaggia 1750-1840, Venezia, Marsilio, 1990. 13 ca vicino ad alcune boe che sembravano minuscole goccioline di sangue”. Ma è solo una breve illusione, un tentativo abortito subito di ritrovare se non se stesso, almeno il bandolo della matassa che, come il filo di Arianna, possa ricondurre il protagonista alla luce. Infatti: “D’un tratto Nagl non aveva più voglia di vedere il mare. Gli sembrò persino giusto non avere visto il mare”, oppure: “Quando dal treno aveva visto il mare, gli era apparso come una grande promessa: la luce tremolante, la curva dell’orizzonte, la vastità. Ma da qui gli appariva freddo e buio e gli tornò in mente la strada deserta del porto che gli stava davanti”. Il desiderio di totalità, però, non può venire represso e costantemente riemerge, quasi fosse la labile traccia di un sogno, di una fantasia primordiale. Ed ecco che la mente di Nagl si immerge in meditazioni irreali e sintomatiche del suo stato di necessità: “Il desiderio delle stelle, del cosmo, di vederlo, di abbracciarlo con lo sguardo e di perdersi in esso era in lui come un’immagine dell’aldilà. Pensò allora che c’erano nel cosmo migliaia di miliardi di stelle. Qualche volta aveva permesso ai bambini di osservare la luna con un telescopio notturno, parlando loro di questa quantità. Già le varietà sulla terra erano inimmaginabili – c’erano un milione di animali diversi e quattrocentomila tipi di piante. Acqua, aria e terra erano pervase di materia organizzata che assorbiva un’infinità di elementi trasformandoli, cresceva, si riproduceva e sviluppava sottospecie, uccideva e veniva uccisa per fare posto ed essere di nutrimento a nuovi germogli d’erba, ad ascaridi, balene, usignoli o cocco14 drilli”, ma ciononostante: “[…] la consapevolezza della fine del mondo non gli permetteva di vivere diversamente, neanche la conoscenza della molteplice vita su di esso lo confortava”. Anche l’esperienza religiosa, ormai anacronistica e insignificante per un personaggio come Nagl, viene rivisitata e meditata con un vago sentimento di nostalgia, che pur basandosi su una forte vena critica e polemica non sfocia mai nella dissacrazione, ma si stempera, appunto, nel rimpianto per un mondo che oramai è divenuto inattingibile e inutilizzabile7. Nelle prime pagine del romanzo, quando la descrizione dello squallido grigiore del mondo esterno e della realtà esistenziale si materializza nel corteo funebre che accompagna il feretro del veterinario, in mezzo a tanta desolazione e rassegnazione gli unici personaggi che emergono, ovvero che emanano una sorta di luminosa aurea di speranza e di salvezza, sono il prete e i chierichetti. Più avanti viene meglio descritto il difficile rapporto di Nagl con Dio: è il rapporto con la divinità di un uomo a cui la realtà circostanze, con una violenza inaudita, nega quotidianamente la possibilità dell’esistenza del sacro e mortifica tutti i suoi tentativi di trovare in essa non tanto un conforto, quanto una giustificazione, un’intima forza che possa permeare di senso e di significato il percorso umano. Dio, allora, rimane solo ed unicamente __________ 7 Per un’analisi esaustiva della dimensione religiosa nell’opera di G. Roth si veda P. Ensberger, Gerhard Roth, Tübingen, Stauffenberg, 1994. 15 l’ultimo ed estremo tentativo, nei momenti difficili, di risolvere le situazioni critiche con delle pratiche e delle forme mentali che ricordano gli esorcismi: diventa un puro e semplice amuleto e perde completamente la sua dimensione divina8. Ciò non toglie al protagonista la capacità di guardare alla religione con la nostalgia a cui abbiamo già accennato: “Dieci anni prima aveva abbandonato la Chiesa. Quando si trovava in uno stato di grande difficoltà, allora pensava a Dio. Aveva anche pregato, quando si trattava di qualcosa di importante per lui, ma non appena il momento era passato si era dimenticato di tutto. Talvolta l’esistenza di Dio era la sua unica speranza. Quando dolore e solitudine l’avevano spinto a parlare con Dio, non aveva dubitato della sua presenza. Ma quando invece vivacchiava nella monotonia, le ore passavano e lui non riusciva neppure a percepirsi, allora l’esistenza di Dio gli appariva poco probabile. Talvolta, però, sentiva che doveva esserci. Per suo tramite tutto assumeva un significato palese, non era più soltanto evidente, ma diventava coerente. […] Solo raramente aveva avuto, senza alcuna ragione particolare, la sensazione che ci fosse un Dio. Se ne era rimasto seduto lì tranquillo, i contadini avevano piantato il mais, lo avevano mietuto, avevano messo l’erba a seccare, raccolto il ribes, le foglie di un albero avevano brillato alla luce del sole, a scuola i bambini, con le labbra contratte, avevano imparato una nuova lettera e tutto questo aveva emanato una forza tale da conferirgli sicurez__________ 8 Ibid., p. 76. 16 za”, oppure: “La religione, dove tutto era colorato e splendente e definito, rappresentava per lui una difesa contro la pazzia. […] La vita aveva bisogno della sua intelligenza per sopravvivere, e questa intelligenza scherniva tutto ciò che in lui agognava ad una consolazione. Ma nella condizione di una lunga morte, quando era la vita ad apparirgli una morte, la religione gli sembrava essere un qualcosa di assolutamente semplice e naturale”. Il disorientamento di Nagl nei confronti della vita in generale e della propria in particolare, ha come conseguenza naturale la distorsione dei rapporti interpersonali. La confusione di un ego che non riesce più a stabilire un equilibrio relazionale tra sé e il mondo e che si perde in una dimensione percettiva che possiamo decisamente definire onirica – e prova ne siano le descrizioni, ad esempio, dei mercati di Napoli o delle calli di Venezia che ci vengono presentate attraverso gli occhi stralunati del protagonista – non può che arrivare a strumentalizzare il ruolo e la presenza dell’altro, dell’amico, del compagno: in questo caso di Anna. Quest’ultima non è un’interlocutrice di Nagl, non è una persona, un’identità autonoma e contrapposta utile a definire il proprio io e a fare esperienza del diverso. Anna è solo un altro estremo tentativo di Nagl di recuperare una dimensione umana dalla quale ormai si sente, e in realtà è, totalmente estraneo. Come il viaggio, il desiderio del mare e la religione, Anna fa parte di una strategia di autorecupero messa in atto dal protagonista, strategia che sarà 17 destinata, ovviamente, a fallire nonostante Anna ne sia cosciente e si presti al gioco, almeno fino alla constatazione che questo suo rendersi disponibile non è servito a nulla e che forse sono altre le strade che Nagl deve percorrere per ritrovare se stesso: “Anna pianse e disse che già dal giorno prima si era accomiatata da lui. Rimanergli accanto non lo avrebbe fatto tornare in sé”. Il rapporto tra Anna e Nagl non è solamente il tentativo di due ex amanti di riprendersi e di ricominciare una relazione, tentativo costellato dalle inevitabili ripicche, da rancori segreti per il dolore subito e da sensi di colpa mascherati per quello provocato. C’è anche questo, ovviamente, ma si tratta solo di una leggera patina di normalità che il protagonista crede di poter dare alla sua vicenda e che viene inesorabilmente spazzata via dalla brutalità dei rapporti sessuali che Nagl impone alla sua compagna e dalla nitidezza con cui questi vengono narrati9. La pornografia, in questo romanzo di Roth, è uno dei tanti segnali che ci aiutano a identificare e isolare il crescente delirio del protagonista e il suo progressivo rinchiudersi in un solipsismo sempre più esasperato. Ciò non vieta che Nagl tenti disperatamente di recuperare, attraverso Anna, se stesso. Ci sono momenti, all’interno del romanzo, in cui sembra intravedersi una lieve speranza nella vicenda di Nagl, speranza data da l’insorgere della tenerezza, del desiderio di amare e dall’apparenza di una __________ 9 Sulla pornografia nell’opera di G. Roth, e in particolare in Winterreise, si veda W. G. SEBALD, Literatur. Pornographie? Zu Winterreise Roths, in “Merkur”, n° 38, 1984, pp. 18-45. 18 ritrovata intimità tra i due amanti: “Non dissero nulla, solo si strinsero e si accarezzarono”, oppure “Avrebbe voluto che anche lei avvertisse quanto lui l’amava”. Ma tutto ciò è inutile, subito dopo la realtà del disorientamento interiore di Nagl torna a erompere con violenza, inesorabile e distruttiva per tutto e tutti: “[…] e [Nagl] si accorse di come la libidine lo annebbiava”. Quanto Anna fosse strumentale alle necessità di Nagl, lo dimostra il modo in cui lui si sbarazza di lei. Anna è partita, convinta dell’inutilità del suo tentativo e sicuramente stufa del comportamento del protagonista, e a Nagl basta qualche ora di sesso con un’altra donna, Luisa, per sentirsi liberato dalla presenza della sua antica compagna. Tutta la sua disperazione, tutto il suo senso di vuoto alla partenza della compagna non erano altro che una vuota messa in scena, un avvitarsi del suo ego su una spirale di presunta sofferenza che, anche qui, serve a confondere il protagonista e ad allontanarlo dai veri problemi della sua esistenza. Anna o un’altra donna, qualsiasi altra donna, sono in fondo la stessa cosa: una valvola di sfogo. A questo punto a Nagl non resta che ricorrere all’ultima risorsa che gli rimane: la memoria. E questa memoria è rappresentata da un personaggio in absentia, il nonno, di cui noi veniamo a sapere e di cui conosciamo la vita solo attraverso il flusso dei pensieri e dei ricordi del protagonista. Il nonno di Nagl rappresenta bensì il dolore e la sofferenza dell’esistenza, la difficoltà di una vita trascinata tra mille incertezze, fatta di un lavoro umile, itinerante e precario e attraversata 19 da sconvolgimenti politici e sociali (il fascismo austriaco del cancelliere Dollfuss e l’avvento del nazismo), ma dall’altro lato rappresenta anche il legame con la totalità, con la semplicità e la necessità delle cose che per Nagl non è immaginabile e che per lui rappresenta un tesoro prezioso da cercare, da scoprire e da fare proprio. Il legame con la totalità del nonno, legame tanto inconsapevole quanto estremamente profondo e potente, è dato dalla spontaneità e dalla naturalezza di una vita vissuta sotto l’impellente quanto elementare imperio della sopravvivenza: “Per suo nonno la sopravvivenza era stata ciò che dava un senso al suo esistere, mentre per lui il senso diventava una questione di sopravvivenza”. La sopravvivenza, istinto primordiale anche della specie umana, è vincolata al lavoro, alla sua ricerca e al suo mantenimento. E nel lavoro il nonno di Nagl crede, o meglio è costretto a credere a differenza del nipote, il quale lo vede oramai solo come uno dei tanti lacci e lacciuoli che la società ci impone per legarci inesorabilmente a se stessa, per renderci partecipi e integrati – ma anche corresponsabili – della sua struttura e delle sue mostruosità: “Suo nonno aveva creduto nel lavoro. Il lavoro era stato il senso di tutto, perché solo col suo aiuto poteva sopravvivere. Non importava il tipo di lavoro. Vivere senza lavoro era come una lenta malattia mortale, era la consapevolezza della morte che lentamente si avvicina. E così aveva lavorato fin dall’infanzia. Nei periodi di disoccupazione aveva trascorso le notti chino sulla scacchiera, con se stesso come avversario, fino al momento in cui aveva trovato di nuovo un 20 lavoro”. Anche Nagl un tempo ha creduto nel lavoro, ma ora non è più così, non può più essere così perché è come se un velo gli fosse calato dagli occhi: quello che vede non gli permette di credere più a niente, non gli permette di trovare un equilibrio in un’esistenza oramai tanto frantumata e parcellizzata da divenire destabilizzante come non mai. Tutto è falsità, tutto è fondato sulla menzogna: “La sua professione si fondava sulle menzogne, i suoi rapporti con gli altri uomini… Menzogne, nient’altro che menzogne”. Per suo nonno non era così, per suo nonno era diverso perché egli “Aveva creduto nella vita, e questa fede gli era bastata”. Ed è proprio questa fede che permette al nonno di riconciliarsi con l’esistenza, nonostante il dolore patito e le sofferenze e le ingiustizie subite. Nell’immagine più cara che Nagl ha di suo nonno vediamo quest’ultimo sul ponte di una nave dove è finito a fare il fuochista dopo un fallito tentativo di raggiungere l’America: il nonno sta da solo, sul ponte della nave, in mezzo all’immensità del mare che lo accoglie calda e indifferente, ma pur sempre protettiva e rassicurante nella sua totalità. Quel mare che a Nagl, non dimentichiamolo, dopo un’iniziale bagliore aveva comunicato solo freddezza ed estraneità. La chiave della ricerca di Nagl sta in quest’immagine, in questo ricordo che per lui, forse, diventa anche una speranza10: “Con que__________ 10 Si veda, a questo proposito, quanto affermato da W. G. Sebald in Der Mann mit dem Mantel. Gerhard Roths Winterreise, in Die Beschreibungs des Ünglucks. Zur Österreichischen Literatur von Stifter bis Handke, Salzburg und Wien, Residenz Verlag, 1985, p. 151. 21 st’immagine Nagl si diceva che il nonno era fortunato. Si era lasciato la terra dietro le spalle e davanti a sé aveva l’infinità. Lei l’aveva accolto e lui, immobile, incredulo e colmo di riconoscenza era davanti a lei, e in lui era la pace”. Nagl, in fondo, sa benissimo qual è la soluzione al suo tormento interiore e lo dichiara esplicitamente nelle prime pagine del romanzo, quando afferma che “Forse […] la cosa più ragionevole è proprio confidare nella vita, come si confida nella morte, anche se la vicinanza con la vita significa essere vicini agli orrori della vita”. Ma non ci riesce, è più forte di lui e allora non gli resta che fuggire, non gli rimane che desiderare di annientarsi scomparendo a Pompei o gettandosi nel cratere del Vesuvio, perché troppo potente è in lui la percezione della banalità dell’esistenza. Banalità che imprigiona la sua capacità di reazione e lo rende inerme, passivo, vittima dei suoi pensieri e del suo arrovellarsi sterile e senza sbocco. Nagl non vive, Nagl è vissuto e la sua passività lo rende sgomento e lo trascina in un vortice che gli preclude qualsiasi cosa: la fede nel lavoro, una comprensione solidale degli altri uomini, l’amore di Anna. Questa passività gli impedisce di vivere e di accettare le inevitabili imperfezioni e contraddizioni che la vita ci pone quotidianamente davanti. “Mi succede semplicemente […] Vivo alla giornata, senza fare troppe domande. In genere mi viene assolutamente naturale e non ci rifletto neppure. Non mi difendo, né mi adeguo, e neppure mi dico di non avere altra scel22 ta”11. La passività di Nagl fa si che anche l’estraniarsi dal mondo, a questo punto, diventi una consolazione. Ed ecco che il sentirsi, l’essere ‘caduto fuori dal mondo’ diventa un estremo rifugio in cui ripararsi dalla brutalità del quotidiano e contemplare le proprie ferite. Uscire da se stesso, oltre che dal mondo, diventa per Nagl l’unica modalità di approccio alla realtà che però, così facendo, assume connotazioni oniriche, grottesche e ingovernabili, perché a questo punto anche la percezione del protagonista ha valenze stranianti e autodifensive. Il finale del romanzo lascia aperta la soluzione della vicenda di Nagl: il viaggio continua e continuerà forse all’infinito, dirigendosi verso le mete più esotiche che la mente del protagonista riesce a concepire. Ma Gerhard Roth lascia irrisolta e aperta soprattutto la questione relativa al viaggio più importante per l’uomo: quello interiore, quello alla ricerca di una nuova totalità che ci liberi dalla rassegnazione e che ci consenta di governare, e amare, il mondo che ci circonda. __________ 11 Per la comprensione dell’intensità della prima parte di questa frase – che nell’originale è resa con “Es geschieht einfach mit mir” – sono state determinanti le conversazioni con Gunhild Schneider, che mi ha aiutato a capire il profondo senso di passività, di remissività e di ‘lasciare che le cose mi succedano’ implicite nell’affermazione di Nagl. 23 Viaggio d’inverno Traduzione di Luca Bani 25 I A Nagl sembrava che arrendersi fosse la cosa più normale di questo mondo. Tutti ci si oppongono, ma arriva il momento in cui la capacità di resistenza si spegne e vedere come anche tutti gli altri si arrendono genera nella resa un rancore segreto. Questa resta l’unica soddisfazione, l’unico significato. Se tutti si arrendono, allora è evidentemente necessario. Una legge. Era quasi automatico, ma spesso l’umiliazione gli provocava un dolore sottile, che reprimeva velocemente. Era andato fino alla fermata dell’autobus e si era seduto a fianco della donna nella Volkswagen rosso scuro. Tutti gli scomparti dei distributori automatici davanti al negozio erano rotti e completamente ostruiti da bucce di banana, bicchieri di cartone e altra immondizia. Erano così già da mesi. Nessuno si prendeva la briga di togliere quel letame e di gettarlo via. L’auto si fermò con uno stridio di freni che gli diede sui nervi, la moglie del gendarme si appoggiò all’indietro e pescò da un sacchetto di plastica, nel quale si trovava uno stivale da donna. “Ho perso un tacco”, disse. Non gli andava di rimanere seduto in macchi27 na e la seguì nel cortile. Davanti alla bottega del calzolaio c’erano degli scaffali malmessi sui quali erano esposti dei modelli di piedi, in legno color miele, utilizzati per fabbricare scarpe su misura. Erano in parte spezzati o rotti, di alcuni era rimasto solo un pezzo e la polvere li faceva sembrare ciarpame. I modelli di legno erano etichettati con nomi di donna. Nagl spiò nella bottega attraverso la finestra: una piccola stanza dove sedeva il calzolaio. Vicino a lui c’era una lampada a petrolio con un paralume ornato da una decorazione colorata. Paralumi di vetro simili li aveva fabbricati suo nonno a cavallo del secolo. Aveva fabbricato boccette per le medicine, fermacarte, bicchieri e vasi di cui sicuramente non rimaneva quasi più nulla. Quando la moglie del gendarme tornò, Nagl disse che ci aveva riflettuto. “Non vuoi che venga con te?”, chiese la donna. “No, ci ho pensato”. “Ti porto a casa”, disse la donna, mentre si sedeva e appoggiava vicino a sé il sacchetto di plastica vuoto. Quando lui scosse la testa, lei mise in moto. Era una gelida giornata invernale. Era l’ultimo giorno dell’anno. “Ho sempre l’impressione che la vita mi stia ancora davanti, come se avessi organizzato la precedente per un breve periodo e la vita vera e propria dovesse incominciare in un futuro non troppo lontano”, pensò Nagl. “Mi succede semplicemente”, pensò ancora. 28 “Vivo alla giornata, senza fare troppe domande. In genere mi viene assolutamente naturale e non ci rifletto neppure. Non mi difendo, né mi adeguo, e neppure mi dico di non avere altra scelta”. Davanti al negozio del parrucchiere, in fondo alla strada principale del villaggio, s’imbatté nel funerale del veterinario. La banda degli ottoni era già passata. Ora seguivano uomini in costume regionale e con mantelli di Loden, pompieri in uniforme e un automezzo dei vigili del fuoco che, con un cavo, rimorchiava attraverso la neve color argilla il carro funebre coperto di corone di fiori, il cui motore non era partito a causa del gelo. Al mattino aveva piovuto e i contadini portavano degli ombrelli arrotolati. Nei loro volti Nagl riconobbe il grigiore da cui venivano e nel quale dovevano tornare, l’affanno e la solitudine. Vide i bambini accompagnare il corteo timorosi e obbedienti sotto le nuvole basse e veloci. Parevano essere già consapevoli di tutto. La morte, la solitudine, lo squallore non erano sconosciuti a quei bambini. Con genitori e nonni non potevano parlare, dovevano starsene rigidi e impettiti, come ipnotizzati. Per Nagl solo il prete e i chierichetti irradiavano qualcosa di miracoloso. Dai visi dei bambini, invece, trasparivano solo povertà, miseria e il loro stato di totale dipendenza. Aprì con la chiave la porta della scuola e si sedette davanti alla lavagna, nell’aula deserta. Da un angolo poteva vedere il vivaio dei pesci, 29 completamente ghiacciato, sul quale i bambini pattinavano. Amava rimanere seduto nella classe vuota. Lo faceva spesso. Gli piacevano la lavagna verde e pulita, i gessetti appuntiti, la spugna e lo straccio rigido e asciutto. A volte posava su un banco una pila di quaderni da correggere e lavorava fino a che faceva buio. Gli venne in mente una gita che aveva fatto al museo all’aperto di Stübing, dove aveva visto e visitato diverse case coloniche, fucine, affumicatoi, mulini, baite alpine e capanne di carbonai. L’oscurità regnava quasi ovunque in quegli ambienti: nelle capanne dei boscaioli, nelle stanze, nelle stalle, nei locali di lavoro. A volte, dall’interno dei locali, aveva visto davanti alle finestrelle le foglie verdi dei fiori che erano stati piantati nei vasi e che davano l’impressione di proteggere la casa con un ombrello verde e luminoso. Ma ciò che incombeva veramente erano le tenebre, mentre la poca luce del giorno, filtrata dalle piante, destava solamente false sensazioni. Nella fucina c’era un buio tale che, invece di spiare nella casa attraverso il vetro della finestra, aveva visto il suo volto riflesso dietro i fiori. Non lontano dal luogo dove si trovavano gli alveari Nagl aveva scoperto una piccola cappella di legno. Su un tavolo c’era un grosso vaso pieno di girasoli. Alla parete era appeso un ex voto nella quale era raffigurato un uomo con un naso sorprendentemente lungo, le mani protese davanti a un letto e accanto la moglie col bambino in braccio. Su di loro, in una nuvola azzurrognola che rappresentava il Cielo, c’era Maria, qui chiamata Nostra Amata Signora di Heilbrunn, con la coro30 na e Gesù Bambino. Lo sguardo rivolto nel nulla – un misto di fierezza, sofferenza e amore – le conferiva quella intangibilità che solo i severi e giusti re delle favole hanno nell’immaginazione dei bambini. “In ringraziamento del manifesto pericolo, quando mia figlia di sei anni in mortale malattia giaceva, e attraverso l’intercessione di Maria fu risanata”, aveva letto dietro il quadro. Era appeso là come un documento luminoso, una prova. Se ne ricordò nello stesso momento in cui gli venne in mente il funerale. “Forse”, pensò improvvisamente, “la cosa più ragionevole è proprio confidare nella vita, come si confida nella morte, anche se la vicinanza con la vita significa essere vicini agli orrori della vita”. Su una carta geografica era evidenziata l’imperial-regia monarchia, con Vienna come capitale. I fiumi erano segnati in modo così sottile da sembrare dei capillari, le montagne sembravano lastre di ghiaccio che si stavano sciogliendo; la carta era appesa da sempre alla parete. Nagl ne era stato colpito fin dal suo primo ingresso in classe, ma ora era diventata scontata come la fotografia del Presidente federale e la croce sopra la cattedra. Chiuse l’aula e la scuola e, attraversando il frutteto, si diresse allo stagno, dove vide i bambini che ancora pattinavano. Uno di loro era steso sul ventre e picchiava sul ghiaccio con una mazza da hockey. “Perché picchi sul ghiaccio?”, chiese Nagl. Il bambino rise e se ne andò. In quel momento un elicottero blu, con un fracasso sibilante, volò lento e basso sopra la scuola. 31 I bambini, in un gruppo compatto, urlarono eccitati. Ma già l’elicottero era solo un minuscolo punto in lontananza. Nagl lo seguì con lo sguardo finché non scomparve. Da sempre il maestro desiderava vedere il Vesuvio. Aveva letto libri sul vulcanesimo, sulle eruzioni dell’Etna, dello Stromboli, del Fujiyama, ma la sua vera passione erano il Vesuvio e Pompei. Quest’ultima era per lui come un cimitero dei sogni, le cui immagini erano fredde e rigide. Quante volte aveva pensato di sparire a Pompei o di gettarsi nel Vesuvio. Improvvisamente, mentre ancora il suo sguardo fissava l’orizzonte e il nulla nel quale si era disciolto l’elicottero, pensò che era giunto il momento. La sua stanza era in ordine. Sul tavolo, dove lo aveva messo la mattina, dopo averlo caricato, c’era l’orologio da tasca che aveva ereditato da suo nonno: rustico, d’argento, col quadrante color guscio d’uovo, le lancette d’oro decorate. Lo prese in mano, era freddo. Lo portò all’orecchio e ne ascoltò il ticchettio. Il dorso dell’orologio era rovinato dall’uso e inciso con un motivo di fiori e foglie. Pensò alle case coloniche di Stübing, al tempo che passava, al Fujiyama e al Vesuvio. Aveva dimenticato la moglie del gendarme, ma improvvisamente gli venne in mente Anna e la sua infedeltà. Se l’immaginò: piccola, bruna, con grandi occhi e un viso da fanciulla. Ebbe voglia di vederla e di persuaderla ad accompagnarlo. Improvvisamente gli fu indiffe32 rente quello che era successo e quello che sarebbe successo. Questo pensiero fu un sollievo per lui. Trovò un volume con foto a colori di fenomeni vulcanici e lo sfogliò: fioriture di zolfo davanti alle pareti gelate del ghiacciaio Torfajökull nel sud dell’Islanda, il flusso di lava incandescente che traboccava dal Kilauea nelle Hawaii, i geyser nel parco nazionale di Yellowstone, lava dalla vitrea superficie bluastra nell’Idaho, depositi di cenere violetta a Lipari e una veduta del cratere del Vesuvio dal quale usciva una pallida nuvola di fumo. Mise via il libro e telefonò ad Anna. Sebbene fossero amici da tempo, era insolitamente eccitato. In un primo momento, quando lei rispose, pensò di riattaccare, ma quando iniziò a parlare fu preso da una tale gioia che dovette concentrarsi per non continuare a ridere. Come le disse che non sapeva ancora quanto voleva rimanere via, lei lo prese per uno scherzo. Era tutto così naturale. Conosceva la sua spiccata inclinazione per tutto ciò che considerava avventuroso. Inoltre era spensierata per natura. Suo padre aveva un negozio di ottica, ma in qualche modo se la sarebbe cavata anche senza di lei. Improvvisamente ebbe il sospetto che non lo prendesse sul serio. Credeva forse che stesse solamente scherzando? Lo prendeva in giro? Ma lei lo prese decisamente sul serio, e lui notò solo in quel momento con quanta forza lo faceva. Guardò fuori dalla finestra. Per la strada passava il proprietario del cinematografo con gli stivali di gomma e un vivace volpino. Molto presto tutto questo sarebbe stato solo un pallido ricordo. 33 Nagl lasciò la casa con la valigia. Aveva fatto appena pochi passi sulla strada dura per la neve schiacciata, quando il gendarme gli si avvicinò. I suoi occhi erano di un azzurro slavato, come se fossero ammollati di lucido liquido oculare. Puzzava d’alcool e la sua espressione era carica d’odio. “Faccio sul serio”, disse. Nagl pensò alla moglie del gendarme e gli sembrò ridicolo mantenere un silenzio colpevole. In pochi secondi il gendarme estrasse la pistola e se la puntò contro la mano. Fissò il viso di Nagl, sparò e poi stette a guardare incredulo la ferita, da cui usciva il sangue. “Saliamo”, ordinò secco a Nagl subito dopo. Nagl prese un fazzoletto e lo avvolse intorno alla mano del gendarme prima di condurlo, valigia in mano, nella sua stanza. Gli tenne la mano sul lavandino e tolse il fazzoletto. Il sangue riprese a scorrere e Nagl aprì l’acqua. “Deve andare dal medico”, disse. Le veneziane di tela erano abbassate e riempivano il bagno di luce gialla. Questo era, dunque, l’ultimo giorno dell’anno: un incontro sbrigativo con la moglie del gendarme, il corteo funebre, l’aula vuota, un ricordo, l’elicottero, una decisione improvvisa, Anna, una valigia con biancheria stirata di fresco e un gendarme impazzito che si era sparato nella mano per gelosia. Vide il Vesuvio sparire in lontananza. Anna sarebbe rimasta da sola sul treno e da sola avrebbe viaggiato. Tutto ciò era grottesco. Anna avrebbe contemplato gli affreschi di Pompei, sarebbe salita sul Vesuvio, avrebbe visto 34 il mare, mentre lui era alle prese col gendarme. “Lo vede, faccio sul serio”, disse il gendarme. “Si”, rispose il maestro. Prese la valigia e uscì. Stava diventando sera. Le nuvole volavano basse e veloci, e quando Nagl alzò lo sguardo ebbe l’impressione di guardare in un immenso mare sopra la sua testa. Un mare che copriva la terra. 35 II Ora la terra era per lui una sfera color zaffiro, marezzata di bianco e abbandonata nell’oscurità dell’universo, un minuscolo granello che fluttuava nel nulla – come aveva visto sulle fotografie a colori. Questa immagine della terra non apparteneva alla sua vita quotidiana. Perché la terra era l’edificio scolastico, il vivaio dei pesci, una suggestione del cielo annotata su un taccuino, i volti dei bambini, era il profumo di cera per pavimenti, i soffioni che si libravano nell’aria, i disegni dei suoi scolari alle pareti, la moglie del gendarme. No, la terra non era composta neppure da queste cose, ma solo da banalità. Il comune, il normale, il quotidiano che si ripetevano mille volte, così che non li percepiva nemmeno più: questo era la terra. Da lontano assomigliava al suo concetto della vita: qualcosa di meraviglioso e misterioso. Ma quanto più si addentrava in questa vita, tanto più essa si scioglieva nei dettagli, nelle piccolezze, nelle ripetizioni. La vita era un vegetare, così come nell’universo la terra non era nulla di particolare, bensì qualcosa di irrilevante. Era in treno e si accorse che stava pensando alla terra come a una stella sconosciuta della quale non si poteva vedere che era abitata dagli uomini, se la si osservava dall’immensa lontananza dello spazio. Pensava alla terra come se non ci 36 vivesse, ma ne fosse al di fuori. Aveva la sensazione di essere caduto fuori dalla terra. Era una sensazione oceanica, piena di solitudine. Forse il suo moto interiore era qualcosa di cui doveva vergognarsi, ma che tuttavia si concedeva. Per suo nonno la sopravvivenza era stata ciò che dava un senso al suo esistere, mentre per lui il senso diventava una questione di sopravvivenza. Da lontano, nel mare nero cupo, vedeva il globo terrestre azzurro che portava con sé la sua vita quotidiana. Era come se non avesse più nulla a che farci. Forse il gendarme era seduto nel suo bagno con la mano sanguinante. Non c’era alcuna differenza tra lui e il gendarme. Solo il caso li distingueva. Il treno si fermò in una stazione con colonne di ferro battuto sulle pensiline e un edificio che, in estate, era ricoperto di vite selvatica. Sotto l’orologio dalle cifre ornate di ghirigori il capostazione, con il berretto rosso, fece partire il treno con un fischio. Tutto era tranquillo, solo la porta a vento della sala d’aspetto mandò uno scricchiolio quando un viaggiatore, uscito fuori spinto dalla curiosità, vi scomparve di nuovo. Ciò che vedeva era la quotidianità, nella quale c’erano solo ovvietà e pretese meschine. “Ma ecco lo sbaglio: non essere mai riuscito a superare l’ovvietà del quotidiano”, pensò. La quotidianità significava reprimere costantemente i suoi pensieri e le sue opinioni politiche solo perché era necessario farlo davanti al direttore o all’ispettore scolastico. Significava insegnare ai bambini una vita fatta di valori ideali, pur sapendo che una vita di ideali dovrebbe essere qualcosa di radicale, ossia una vita con la verità. Senti il desiderio di resiste37 re. L’idea di ribellarsi lo fece improvvisamente sentire forte. Sapeva che questa sensazione sarebbe passata e intanto volle pensare a qualcosa d’altro, per poterla sentire ancora a lungo dentro di sé. Il treno si mise lentamente in movimento. Nagl si alzò e vide le fattorie sparse per la campagna, apparentemente disabitate e con le tende chiuse, e un lontano campo di neve sul quale un uomo, munito di binocolo, osservava uno stormo di cornacchie che si erano levate in volo al passaggio del treno. Nagl non volle più guardare il paesaggio, perché gli ricordava cose sulle quali era sempre stato indulgente. Guardò il vetro del finestrino, ma vide la sua immagine riflessa, trasparente e spettrale e gli sembrò di avere davanti a sé quel suo Io che aveva vissuto fino ad allora. Il paesaggio gli trapassava il corpo: alberi spogli, pali dell’alta tensione, fienili isolati, un fiume. Fuori il mondo era scomparso, non c’era più il mito del lavoro, un lavoro pieno di vincoli che lo aveva sempre profondamente umiliato e che non aveva nulla a che fare con i suoi desideri, i suoi pensieri, le sue fantasie e i suoi sogni. Con stupore notò che la sua unica speranza era stata la vecchiaia, l’unica soluzione il pensiero della pensione, quando non avrebbe più dovuto riscattarsi mese dopo mese da uno stato di minaccioso bisogno per le necessità vitali più elementari: un tetto sopra la testa, il cibo e i propri pensieri. Si risedette e improvvisamente sentì come una grande consolazione l’essere caduto fuori dal mondo. Non era più una vittima di altre vittime. Vide davanti a sé il gendarme nel bagno, mentre il sangue gli sgorgava dal38 la mano. Il gendarme si sarebbe sparato sulla mano in ogni caso, questa era la sua sensazione. Poi pensò al fiume di nubi che passavano basse e veloci, ai bambini che durante il funerale correvano sotto quelle nubi. Poi rivide il globo terrestre dall’esterno, coperto da vortici di nubi bianche: un luminoso pianeta blu dall’incredibile bellezza che, nella quiete mortale dello spazio infinito, pareva incarnare contemporaneamente il senso e la sopravvivenza. 39 III “Mi sono chiesta perché viaggio con te senza riflettere e mi chiedo perché tutto ciò mi sembra così naturale”, disse Anna. Lo sguardo le cadde sul cameriere del vagone ristorante che, nella sua giacca candida, occhieggiava come un uccello spaventato ogni qualvolta un bicchiere tintinnava, come se il tintinnio annunciasse nuove ordinazioni. Anna sedeva di fronte a Nagl e appariva giovane e curiosa. Sulle prime Nagl le aveva voluto raccontare del globo terrestre, ma poi era rimasto silenzioso. Dopo una pausa Anna continuò: “Avevo sempre voluto dirtelo, ma avevo paura di perderti. Per questa paura l’ho fatto di nuovo. Improvvisamente mi hai fatto delle domande in proposito e hai continuato a insistere”. “Ho intuito che mi mentivi. Non volevo più essere ingannato. Ma al contempo avrei voluto sbagliarmi”. Le stava dicendo la verità per liberarsi da un peso. Non aveva più il desiderio di apparirle superiore, come gli capitava sempre quando aveva a che fare con una donna, sebbene lo avesse sempre sorpreso il fatto di poter apparire superiore. “Credo che fosse piuttosto il desiderio di sapere che non era vero niente, che mi ingannavo”, proseguì. “Ma era anche l’impulso ostinato di conoscere tutto di te, che nel frattempo ho perso”. 40 “Ti comportavi in modo sicuro, come se sapessi qualcosa”, disse Anna meravigliata. I bicchieri e la bottiglia di vino si urtarono tintinnando. “La sola cosa per cui sono rimasto tranquillo è stata per come hai risposto. Per come, in un primo momento, volevi liquidare le mie domande, per come ti sei avvicinata alla verità con finta spensieratezza, come se in realtà non fosse successo nulla. Poi le tue frasi sono diventate sempre più prudenti e banali, fino al momento in cui hai detto solo no e hai fissato il soffitto. Inoltre hai fatto una faccia offesa, per intimidirmi. Non ti sei neppure più mossa, perché i movimenti ti avrebbero tradita. Eri sul punto di tradirti con tutto: con ogni rimprovero, con ogni tuo sentirti offesa della mia diffidenza, con ogni asprezza con la quale volevi sottolineare l’assurdità dei miei rimproveri. Improvvisamente sapevo che il mio sospetto era giusto. Mi faceva così male da arrivare a desiderare che tu riuscissi a convincermi che era solamente una mia costruzione. Ma d’altra parte c’era qualcosa in me che non sopportava di essere ingannato. E cominciai a desiderarti. Stranamente quella ferita mi aveva eccitato in modo tale, che volevo assolutamente far l’amore con te. Ma non volevo dirtelo”. Il vagone ristorante con le tovaglie candide, i tovaglioli ripiegati, i bianchi sedili imbottiti, le cortine davanti ai finestrini e il movimento deciso del treno gli procurava una gradevole tranquillità. Anna aveva appoggiato la borsa sul tavolo e l’aveva aperta. Ne estrasse un portacipria di tartaruga, si incipriò con delicatezza la punta del naso e, con la coda dell’occhio, gettò un rapido 41 sguardo verso Nagl. Lui si appoggiò allo schienale, prese il bicchiere in mano e bevve un sorso, mentre lasciava che passasse il tempo sufficiente per poter parlare di qualcosa d’altro. Le chiese degli uomini che aveva conosciuto nel frattempo, lei gli mentì, lui lo capì e tuttavia non volle reagire, non volle sapere assolutamente nulla. Anna guardò fuori dal finestrino e tacque. Qualcosa l’aveva ferita, ma non ne era preoccupato. Lei sedeva nel vagone ristorante e non poteva scappare. Si meritava la sua ferita. Anche lui era stato ferito. Proprio la superficialità delle sue scappatelle era stata la cosa offensiva. Lui avrebbe preferito che lei si fosse innamorata di qualcun altro e lo avesse lasciato, anziché ingannarlo segretamente. Una volta, su quel remoto globo terrestre bianco-azzurro che ad altissima velocità ruotava sul proprio asse e volava nell’universo, aveva ritenuto molto importante tutto ciò. Quel pensiero gli fece apparire piccola la sua pena. Ma in realtà non era stata piccola. Era stata così grande, che lui per molto tempo non era riuscito a trovare il modo d’uscire da se stesso. Anna continuava a guardare fuori dal finestrino. In quell’occasione, quando era venuto a sapere che lei, oltre a stargli accanto, aveva delle avventure casuali, per la prima volta aveva avuto la sensazione di poter essere sostituito. Venire a sapere che altri potevano prendere subito il suo posto, era stata un’esperienza nuova. E quando, un paio di settimane più tardi, si era ammalato, venne chiamato a sostituirlo un insegnante da un paese vicino che il direttore aveva molto apprezzato e 42 al quale i bambini avevano voluto bene. Quando Nagl era rientrato aveva dovuto riconoscere che era stato dimenticato in breve tempo. Cosa aveva avuto l’altro che a lui mancava…? Nel vagone ristorante sedevano un giovane austriaco, con un paio d’occhiali dalla montatura di metallo e una giacca a vento, placidamente immerso nella lettura e un italiano dagli occhi sporgenti che lo fissava, così che anche Nagl lo fissò fino al momento in cui si girò. Quando prese la mano di Anna, l’italiano rise e, senza pudore, guardò Nagl negli occhi. Indossava un abito nero, una camicia bianca, una cravatta scura e i suoi capelli erano scrupolosamente pettinati all’indietro. Anche quando Nagl gli lanciò un’occhiata furente non si lasciò intimidire, ma continuò a guardarlo. Subito dopo si alzò, si fermò davanti a Nagl e disse: “L’ho solo guardata”. Stava lì, come il gendarme con la mano sanguinante, poi barcollò e percorse senza voltarsi il lungo corridoio tra i tavoli della carrozza ristorante. Fuori sembrava esistere solo il buio, e a Nagl venne in mente ciò che aveva letto sulla fine del mondo. L’oceano si sarebbe ghiacciato completamente e infine sarebbe evaporato. La parte rimanente della vita sarebbe scomparsa e una pioggia di pulviscolo meteoritico avrebbe coperto l’intera superficie terrestre con un mantello il cui colore, a causa della presenza dell’ossigeno, sarebbe stato rosso mattone. Quando l’ossigeno si fosse consumato, la polvere meteoritica avrebbe rivelato il suo colore verde e quello strato di colore sarebbe diventato il sudario della terra. Lo aveva letto anni prima e si chiese perché gli venisse in mente proprio ora. 43 Il percorso verso il vagone letto fu un ripetersi continuo di porte che si aprivano sbattendo e sbattendo si chiudevano, un brancicare in un lungo abisso che rimbombava del frastuono del treno. Anna gli aveva sfilato i pantaloni, si era accoccolata al suo fianco e gli accarezzava il membro, ma Nagl era così ubriaco che si addormentò. Nel mezzo della notte si svegliò perché aveva la sensazione che ci fosse qualcuno nel suo scompartimento. La cortina era abbassata e solo un debole chiarore illuminava l’ambiente. Con terrore Nagl vide effettivamente un uomo ai piedi del suo letto. Stava lì e frugava nella sua giacca. Nagl non sapeva cosa fare. Il treno rombava e l’uomo se la prendeva comoda. Improvvisamente si interruppe e guardò verso Nagl. Lo osservò per un paio di secondi e poi lasciò lo scompartimento. Nagl vide che nel corridoio la luce era accesa, quindi balzò in piedi e spalancò la porta scorrevole. Il corridoio era vuoto. Ma aveva spalancato la porta in modo così violento, che il controllore del vagone letto nel suo gabbiotto di vetro si svegliò di soprassalto e chiese turbato cosa fosse successo. “Nulla”, rispose Nagl e rientrò nel suo scompartimento. Si chiuse la porta alle spalle e aspettò che facesse giorno. Quando, alle sei, aprì gli occhi, vide i contorni luminosi e infuocati dei pini marittimi scivolare all’orizzonte. 44 IV L’orizzonte era giallo e sfumava in una coltre di nuvole color ardesia. In cielo c’era ancora la luna. Subito dopo il treno si tuffò nella nebbia e tutto fu ricoperto da un velo bluastro: vigneti, spogli alberi da frutto, case. Guardò fuori dal finestrino e si sentì bene. Che durante la notte ci fosse stato quell’uomo nel suo scompartimento gli appariva ora irreale. Forse aveva sognato? O forse l’uomo aveva sbagliato scompartimento…? Ma allora perché aveva frugato nella sua giacca? Durante la notte Nagl aveva controllato, ma non mancava niente, né i soldi né il passaporto. La nebbia si era diradata e la terra brillava di luce rossa. Si ricordò che la sera prima si era ubriacato. Nella carrozza ristorante Anna aveva pianto. Avevano parlato annebbiati dall’alcol, immersi in malintesi carichi di desiderio. In un armadietto vicino alla sua testa trovò dei bicchieri e una bottiglia d’acqua e, assetato, ne vuotò metà. Come gli appariva bello il paesaggio che vedeva passare fuori dal finestrino, mentre ancora era disteso sul letto. Completamente tranquillo se ne stava lì sdraiato e osservava. Raggiunsero il treno per Napoli correndo. Col fiato grosso ficcarono le valigie nello scompartimento e Nagl provò un senso di felicità appena sentì la lingua sconosciuta che non capiva. Anna 45 lo aveva raggiunto salendo la scaletta e si era sdraiata nuda accanto a lui. Le aveva raccontato dello sconosciuto che durante la notte era entrato nel loro scompartimento. Improvvisamente ebbe il sospetto che avesse qualcosa a che fare con la sua morte. Il treno rombava. Era buio. In un ricordo segreto, sfumato dal sonno, riemersero il funerale del veterinario e la figura del gendarme con la mano sanguinante sul lavandino, l’immagine della terra nel cosmo e quella della fine del mondo. L’uomo era rimasto in piedi nel buio e l’aveva guardato. L’aveva osservato con calma e attenzione, poi, senza fretta, era uscito dallo scompartimento e un secondo dopo era scomparso. Quanto più ci rifletteva, tanto più probabile gli appariva la sua spiegazione: la morte l’aveva accompagnato per tanto tempo, e solo adesso lo liberava dalla confusione che l’opprimeva. Gli si era mostrata non per spaventarlo, bensì per confortarlo e per fargli trovare la serenità. La corsa verso il treno che stava partendo per Napoli, la ressa nel corridoio, la lingua sconosciuta e il volto raggiante di Anna gli erano apparsi, per la prima volta, come qualcosa di libero dalla colpa. Il sole brillava luminoso su uliveti, su canali nei quali Nagl poteva scorgere piante verdi intrecciate sotto la superficie dell’acqua, su ruote a vento che giravano appese ad alte strutture di legno, su cactus verdi e su alberi con arance dorate e boccioli rosa luccicanti tra le foglie. Il pensiero della fugacità gli permise di vedere ancora più chiaramente i germogli, il verde e la fioritura e lo fece stupire che fosse inverno. Anna 46 gli era accanto, seduta su una valigia, e guardava attraverso la porta dello scompartimento una suora che lavorava all’uncinetto. Sedeva vicino a lui, taceva e di tanto in tanto gli stringeva la mano, come per assicurarsi della sua presenza. Poi, improvvisamente, comparve il mare, abbagliante di chiarore e soffuso di morbida luce nella sua remota lontananza. Era splendido, lontano e immenso. Piccole barche sembravano stargli sopra e lui le lasciava fare, imperturbabile e indulgente. Nagl non riusciva a distogliere lo sguardo. La morte era entrata nell’oscurità opprimente del suo scompartimento, mentre il mare era lì, immerso nella luce, invitante e meraviglioso, lontano e indistruttibile. Un idrovolante lo sorvolò e vi si posò, alzando della spuma bianca vicino ad alcune boe che sembravano minuscole goccioline di sangue. Poi il treno si inerpicò su un’altura sassosa, passando davanti ad una stazione color rosa di fronte alla quale c’erano delle palme e carri merci pieni di arance, che Nagl poté intravedere attraverso le grate di ferro. Il mare, sul quale il sole scintillava tremolante, si stendeva ora sotto di loro e Nagl aveva la sensazione di poter scorgere dietro la sua lontananza la curvatura della terra, credeva di poter vedere che era una palla. Ora sapeva anche di che cosa avrebbe voluto parlare col gendarme, dal momento in cui questo si era sparato alla mano fino a quando aveva lasciato la casa: era l’emozione che aveva sentito fin dal primo apparire del mare. E ora, mentre il treno era tornato a correre nell’entroterra, gli parve che uno sguardo più lungo avrebbe priva47 to l’apparizione del suo carattere meraviglioso. Per la prima volta aveva visto il mare. Gli unici viaggi che aveva fatto erano stati quelli per andare in città dai suoi genitori, oppure per recarsi alla piccola cascina nel vigneto – in mezzo a erba alta, alberi da frutta, margherite e garofani selvatici – nella quale faceva l’amore con Anna. L’incontro con la morte non modificò nulla del suo senso di felicità. Era come se fosse una vicina di cui sentiva la pressione del braccio sul suo e di cui, tuttavia, non sapeva niente. 48 V Davanti alla stazione di Napoli stazionava uno sciame di tassisti, facchini, disoccupati e pensionati che li attorniarono immediatamente. Come Anna chiese dell’hotel “De la Gare” un uomo grinzoso e con occhiali, cappotto e cappello gli si parò davanti e dichiarò che l’hotel era fallito. Subito dopo apparve un altro uomo con addosso un cappotto di pelo di cammello e un berretto di velluto, pigiò sulla mano di Nagl un biglietto da visita e prese le valigie. Si lanciò sulla strada larga percorsa da un traffico intenso. Tutti suonavano il clacson e la strada era immersa in una luce abbagliante. Nagl seguì l’uomo che scivolò tra le auto e, in certi momenti, riusciva a vederne solo il berretto di velluto nero. Teneva in mano il biglietto da visita senza avere il tempo di leggerlo. L’uomo svoltò in una traversa. Come Nagl alzò la testa, vide piante in vaso sui balconi in ferro battuto, biancheria appesa fuori dalle finestre e case color ocra dall’intonaco sbriciolato e con i muri coperti di manifesti affissi disordinatamente. Su un’insegna di cartone dalla superficie coperta di bolle stava scritto Laboratorio Dentistico e appena sotto era disegnata una grossa dentiera. L’uomo cambiò marciapiede e scomparve in una casa con l’intonaco blu sbiadito. Nagl non indugiò un secondo, attraversò la stra49 da e irruppe nell’androne. Sentì i passi dell’uomo che saliva le scale e li seguì. In un primo momento si trovò davanti ad una porta e attraverso la fessura per le lettere poté vedere un pezzo di cortile interno, poi salì di corsa le scale del vestibolo e arrivò davanti al triste ingresso di un hotel. Dell’iscrizione “Hotel Principe”, sulla porta di vetro, si vedevano ormai solo frammenti di lettere dorate. Nagl suonò e subito comparve il portiere accompagnato dall’uomo col berretto di velluto. Gli mostrò tre stanze offrendogli di scegliere. Nagl prese quella più luminosa e con vista sulla strada. La stanza era indicibilmente sporca, come le altre del resto, tuttavia Nagl non aveva osato reclamare la valigia. Tra le tende bianco-sporco era appeso un cordoncino con un pomello d’ottone che riluceva alla luce del sole. Le pareti avevano carte da parati monotone, il copriletto aveva buchi provocati da bruciature di sigarette e il tappeto era lacero e polveroso. Al muro era appesa una fotografia del Vesuvio dietro il golfo di Napoli: un’ombra imponente dalla quale salivano nuvole di fiamme, come se il mondo stesse per tramutarsi in un globo di fuoco. 50 VI Come Anna ebbe finito di farsi la doccia, Nagl aprì la tenda e la osservò nello specchio, con i capezzoli turgidi per il freddo sul seno bianco e adolescenziale, il soffice e scuro triangolo pubico e le unghie dei piedi laccate. Improvvisamente si sentì così eccitato, che la strinse sul bidè. Aveva il corpo freddo, ma la bocca era calda. Per la prima volta, da quando l’aveva rivista, la baciò e contemporaneamente pensò a tutti gli uomini con cui lei aveva fatto l’amore. Con la coda dell’occhio vide le sue gambe nude e divaricate, si aprì i pantaloni e tirò fuori il cazzo. Era bagnata, calda e stretta. Sentì la sua mano, la sua piccola lingua piatta che gli leccava il volto e la bocca e i suoi gemiti alti e sonori che lo avevano sempre fatto impazzire, ma pensò che aveva lanciato gemiti simili anche con gli altri uomini e questa idea lo eccitò e lo ferì allo stesso tempo. Poi udì la porta aprirsi e qualcuno appoggiare la valigia sul pavimento. Si fermarono, origliarono e trattennero il loro ansimare. Anche l’altro sembrò origliare, perché si sentì solo il rumore delle macchine dalla strada. Furente Nagl si tirò su i calzoni e spalancò la tenda. Un cameriere, vestito con un’unta livrea verde-scuro, stava nella stanza e rideva con una bocca a cui mancavano almeno 51 un paio di denti. La voce di Nagl era rauca per l’amplesso e il bisbiglio. Naturalmente il cameriere sapeva cosa era successo. In fin dei conti era uscito vestito dalla doccia, mentre Anna continuava a nascondercisi dentro. Il cameriere rise un’altra volta prima di lasciare la stanza. Nagl tornò dietro la tenda di plastica, con un’espressione sdegnata per l’interruzione, ma Anna gli si premette contro bisbigliando e sospirando. Allora la sollevò e la mise sul letto. Cominciò a raccontarle della moglie del gendarme, di come gli stava davanti inginocchiata nuda sul letto e di come lui l’aveva amata, finché Anna iniziò a gemere, rossa in volto, e lo strinse forte a sé. Piazza Garibaldi era distesa nella luce del sole. Nagl si era deciso ad andare al porto. Prima aveva cambiato dei soldi in Piazza Garibaldi e poi, senza averlo cercato, aveva visto il Vesuvio in lontananza. Intanto Anna era entrata in un negozio di animali e si era accoccolata davanti a una gabbia con dentro un cagnolino che aveva infilato il muso tra le sbarre. Nagl la aspettava, rovistando con la mano nella tasca della giacca, dove trovò il biglietto da visita. “Hotel Principe” c’era scritto. Via Firenze 16 e il numero di telefono. Nagl lo mise in tasca e guardò il Vesuvio con la cima coperta dalle nuvole. Quanto più si avvicinavano al porto, tanto più i vicoli diventavano angusti. Dalle arance e limoni su carri o in cassette per la frutta si passava a ceste con peperoni rossi e sodi, cetrioli e zucchine. Fruttivendoli con berretto e grembiule tra52 sportavano cestini di porri, ravanelli, cavoli, finocchi, pere, mele. C’era odore di pesce e carne, frutta, cipolle e formaggio. Davanti a loro sedeva una donna grassa che vendeva una stecca di Marlboro posata su un tavolino, dietro di lei una vecchia scarna le metteva i bigodini. Anna palpava i frutti e gli ortaggi. Era tutto un tastare e un esibire intestini, montagne di cavolfiori, pomodori e cespi di insalata simili a trippe bianco-verdi, cuori, cervelli di esseri viventi. E quanto più Nagl si inoltrava nel vicolo, tanto più gli sembrava di immergersi nei ventri di giganteschi animali macellati, le cui interiora pendevano a forma di grappolo, bizzarri organi simili a carciofi e carote ancora pieni di ossigeno e sangue, meloni che erano giganteschi occhi ciechi. Vedove melanconiche dallo sguardo sofferente sedevano davanti alle viscere di esseri ignoti, gettavano ai passanti sguardi compassionevoli o impacchettavano frutti in sacchetti di carta sui piatti traballanti delle bilance. Nagl vide, incastrate nei muri, le edicole con le immagini sacre incorniciate dalla luce al neon o circondate da lampade votive simili a ghirlande di luce. Davanti a Maria con Gesù Bambino stavano garofani ormai secchi in orribili vasi di vetro, appoggiati su centrini fatti all’uncinetto e insozzati di polvere. Le immagini sacre assomigliavano ai santini che Nagl, da bambino, aveva ricevuto dal suo parroco come ricompensa dopo la confessione. Gli venne in mente anche Stübing, la piccola cappella, le case coloniche prive di luce. La religione gli sembrava un raffinato prodotto fabbricato ad arte dalle mani della morte 53 con l’unico scopo di annunciarsi. In mezzo a quella carneficina di frattaglie della terra si inframmezzavano le edicole sacre, come a voler far risaltare le sofferenze, i dolori, la fugacità. Pensò ad Anna e a come lei lo aveva abbracciato nuda sul letto, alla sua pelle bianca, alla vita che lei poteva regalare, a una sacca embrionale trasparente nella quale si muoveva un uomo embrione. Uomini embrioni camminavano per la strada, erano vecchi, sedevano su poltrone vicino a scatole di cartone piene di uova dalle dimensioni meravigliose – sacche embrionali fossilizzate – vicino a gabbie piene di polli marroni che si pigiavano l’uno sull’altro, gabbie con conigli bianchi e pezzati sopra i quali, in casse di vetro, erano esposti cadaveri macellati e scuoiati. In recipienti di latta blu le aragoste camminavano nell’acqua, nella quale veniva pompata l’aria attraverso tubi di nailon trasparente, su banconi erano esposti pesci morti – sardine, anguille, passere di mare, sgombri, polipi dagli occhi d’oro, razze – ed altri ancora che non aveva mai visto, con teste bizzarre, aculei e grandi bocche, rossi e chiazzati tra grigie seppie morte che sembravano intestini. In una scodella c’erano dei grossi pesci argentati che scintillavano e brillavano nel sole. I negozi là dietro erano blu e senza porte, e i negozianti indossavano grembiuli di plastica e sembravano assassini. Altre botteghe vendevano guinzagli e spugne da bagno che, in grappoli lunghi e fitti, erano appese davanti alle entrate. Dietro una finestra sporca Nagl vide un malinconico negozio d’uccelli con gabbie di ferro, nelle quali stavano accoccolati canarini, colombacci e 54 pappagallini. Fuori dal negozio era tutto un tubare e cinguettare e Nagl si fermò ad ascoltare. In mezzo alla morte e al caos gli uccelli cantavano. Cantavano con prodiga magnificenza, trillavano, pigolavano, cinguettavano e bisbigliavano, mentre la fiumana di gente passava senza badargli minimamente. Bambini circondavano Nagl, lo trascinavano, lo tiravano per i pantaloni e scappavano via, mentre Anna guardava con occhi grandi la vetrina, come se gli uccelli dovessero annunciarle qualcosa che aveva sempre aspettato. Nagl tese l’orecchio: era qualcosa di puro e allo stesso tempo era il ricordo della prima luce del mattino, delle notti di malattia insonne, dei rientri a casa dopo lunghi amplessi, delle mattine in sedia a sdraio davanti alla casa nel vigneto, dove aveva osservato gli uccelli sparire cantando tra il fitto fogliame degli alberi da frutta. Arrivò un furgone carico di lunghi lingotti di ghiaccio, un ragazzo li scaricò con una pinza enorme, l’uomo con il grembiule di plastica li fece in pezzi che poi sparse sopra squali, scampi, sarde e altri pesci che non vivevano più o che stavano per morire. Intanto gli uccelli cantavano dimentichi di se stessi. Per Nagl era come se la natura volesse consolare gli uomini per la propria spietatezza. Vicino ad una cesta con mele, ananas, mandarini, champignon bianchi e castagne vide una bancarella di limonata da cui pendevano reticelle gonfie di limoni e arance, così che il venditore si poteva intravedere solo attraverso una piccola apertura. Nagl urtò contro bottiglie di limonata vuote, quando si avvicinò alla bancarella per farsi spremere in un bicchiere 55 limoni e arance. Bevve ed ebbe l’impressione che il liquido fresco gli corresse attraverso le vene fino alla punta delle dita. Davanti ad una struttura di legno con grandi foglie verdi, sulle quali erano appoggiate teste di vitello mozzate con occhi girati in su, polmoni e stomaci, una giovane donna innaffiava la carne con l’acqua. Anna si fermò davanti ad una bancarella di fiori e ne comprò un mazzo, avvolto nel cellofan, che la faceva sembrare una ragazzina. Uno dei furgoncini a tre ruote la nascose alla vista di Nagl e, quando ricomparve, stava davanti ai pesci a leggere le etichette del prezzo infilate in lunghi bastoni, infilzati sui tavoli. 56 VII Voleva vedere il mare e il Vesuvio, nascosto dalle case, ma Anna lo convinse a prendere una stanza nell’albergo più vicino. Nagl aveva appena chiusa la porta dietro di sé, quando Anna gli s’inginocchiò davanti e gli aprì la patta dei pantaloni. Le sbottonò la camicetta, le tirò fuori le tette, la palpò tra le gambe sfregandole le labbra della vulva e il clitoride e la penetrò. Mentre facevano l’amore, si sdraiò sul letto e stette ad osservare come il suo cazzo scompariva e ricompariva dentro di lei. “Più lentamente” le bisbigliò. Anna respirava affannosamente, lui la fece voltare e le infilò il cazzo nel culo. La strinse a sé, lei gridò, pianse, ma improvvisamente ammutolì e cominciò ad ansimare. Poi stettero muti uno vicino all’altro. A lui tornò in mente tutto quello che c’era stato con lei: il suo sentimento di vergogna e disperazione, la sua solitudine e la forte impressione di insensatezza che lo aveva accompagnato. Prima non aveva riflettuto molto. Il senso era che nulla lo aveva sconvolto realmente. Spesso, di sera, era rimasto sveglio ripensando agli abbracci di Anna e l’aveva desiderata. Anche durante la relazione con la moglie del gendarme aveva pensato a lei. Sul pavimento giacevano i loro vestiti e il mazzo di fiori avvolto nel cellofan e ora sentì la lingua di Anna che gli leccava dolcemente la nuca. 57 VIII Davanti all’albergo un vecchio, seduto su una poltrona, si soffiava l’aria da una guancia all’altra. Stava osservando un dirigibile color alluminio che si librava sopra le case della città. Quando era bambino anche Nagl aveva visto, con suo nonno, un dirigibile. Il nonno lo aveva condotto fino ad una transenna, dietro la quale il dirigibile riposava come un gigantesco mostro narcotizzato. Delle funi lo imprigionavano al terreno e quando arrivava una folata di vento si dondolava bruscamente, come se volesse liberarsi. Quando più tardi si erano seduti in una taverna, sotto un ippocastano, suo nonno per la prima volta gli aveva raccontato di essere andato per mare come fuochista. Era un uomo piccolo e tarchiato, con un’articolazione dell’anca rigida, motivo per cui portava sempre con sé un bastone da passeggio. Aveva i capelli pettinati all’indietro e sopra il labbro superiore portava dei baffetti all’inglese regolati perfettamente. Aveva raccontato di paesi e città di cui Nagl non aveva mai sentito parlare: Algeri, Cristiania, La Valletta, Palermo e su ognuna di queste città sapeva delle storie che a Nagl apparivano meravigliose e che lo turbavano. A Graz erano andati al Panoptikum, uno spazio buio con sgabelli appoggiati davanti a pareti di legno nero. Sulle 58 pareti c’erano degli spioncini che venivano usati come piccoli binocoli da teatro, e con grande stupore Nagl aveva visto immagini colorate passargli davanti a scatti. Suo nonno gli sedeva accanto e appena affiorava l’immagine di una città che conosceva, ripeteva a Nagl la storia che gli aveva raccontato. Le immagini colorate e dalla plastica profondità si erano impresse nella mente di Nagl: ad esse aveva pensato leggendo dei libri ed alcune le ricordava ancora. Si fermò e indicò ad Anna il dirigibile. Gli sembrava l’immagine di un mondo nel quale esistevano altre leggi e gli diceva che tutte le cose erano collegate in un intreccio complesso. Un giovane trasportava casse di tulipani rossi e gialli e di anemoni blu e rossi. Sul marciapiede, vicino ad una parete di mattoni, giaceva un ratto morto dalla lunga coda moscia e dai denti appuntiti. Erano arrivati al muro del porto e stavano davanti a un cancello di ferro, oltre il quale c’era un edificio imponente. Al di sopra del tetto dell’edificio si innalzava il fumaiolo di una nave. Nagl non trovò nessuna fessura attraverso la quale vedere il mare. 59 IX Il vento gli buttava la polvere negli occhi. Lungo via Nuova della Marina, ampia, vuota e illuminata dall’intensa luce del sole, si allungava da un lato un alto muro di mattoni, dall’altro, davanti al mare, si alzavano magazzini e palazzi per uffici chiusi da una parete di cemento. Scendevano per la strada e la sola cosa che si muoveva era la loro ombra. Una linea di contatto elettrica sospesa e delle rotaie si perdevano in lontananza, senza che alcun tram comparisse. Nessun’auto percorreva la strada. Questa era la meta, dunque. Il dirigibile si librava tranquillo nel cielo. Dal porto non si sentiva provenire alcun rumore. La strada sembrava senza fine. In lontananza scoprì, immobile, un camion frigorifero verde sul quale era disegnato un pesce. Il posto di guida era vuoto. Accelerò il passo e si rigirò verso il dirigibile, accorgendosi che non era il cielo quello davanti al quale esso si librava, bensì il Vesuvio, che si innalzava diafano e scuro nel cielo. La cima sembrava coperta dal sole e da un velo di nubi. Ciò che vedeva gli sembrò un ricordo. Il vagare senza fine per le strade, gli edifici, i fumaioli delle navi che sovrastavano gli edifici, il muro di mattoni, la linea elettrica e le rotaie, l’auto parcheggiata, il dirigibile, tutto 60 gli era noto. Doveva essere già stato qui una volta. Mentre riprendeva a camminare più velocemente gli venne in mente l’immagine della terra nell’universo. Pensò a come aveva fatto l’amore con Anna, a come il suo membro scompariva e scivolava fuori quando lei era seduta su di lui. “È così triste qui”, disse Anna improvvisamente. Il dirigibile era adesso piccolissimo, un puntino luminoso sospeso nell’aria, e il Vesuvio incombeva su di lui come un’onda scura. 61 X Finalmente, preceduto da un delicato rumore di lamiere, arrivò un tram giallo. Subito dopo passò un uomo in bicicletta. “Io non sono nessuno”, pensò Nagl. “Ero un uomo e adesso non lo sono più. E non lo voglio neanche più essere. Per questo mi sembra di avere già vissuto tutto una volta, perché una volta ero un uomo e come uomo sono venuto qui. Se fossi ancora un uomo, dovrei appostarmi ad una finestra aperta e sparare sulla gente che passa. Io non sono nessuno. Posso vedere la terra dal di fuori quando voglio. Di notte, mentre dormo, posso trovarmi in un paese sconosciuto, tra uomini sconosciuti. Io so come sarà la fine del mondo. La terra sarà un’enorme deserto senza fine. Niente ricorderà l’esistenza dell’uomo, nessun albero, nessun ruscello, nessun fiore, nessun animale si lascerà indietro una traccia. Posso vederlo. Gli uomini non sono buoni. Il futuro è un merda. Il passato è una merda. I più grandi criminali sono quelli che credono veramente nel futuro e non oppongono resistenza. Io non sono nessuno. Ho inventato tutto ciò che vedo. Questa strada, il Vesuvio, Anna, le navi, ho inventato tutto. Forse il gendarme non si è sparato sulla mano, ma nel mio petto”. Pensò ai bambini a scuola e gli fecero pena. La commozione gli strinse la gola. 62 Il vento gli scompigliava i capelli. Ora la strada si era animata. D’un tratto Nagl non aveva più voglia di vedere il mare. Gli sembrò persino giusto non avere visto il mare. Forse la cosa migliore era passeggiare su e giù per quella strada del porto e fare l’amore con Anna nelle stanze d’albergo. Oppure semplicemente esplorare Napoli in tutte le sue parti, finché non gli fossero finiti i soldi. Anna si fermò e gli chiese cosa aveva e, quando Nagl la guardò senza dire nulla, gli disse che era strano. Proseguirono. “In realtà quello che mi piace in te, non mi piacerebbe in un altro uomo, ma in te sì”, disse lei. Lo guardò con la coda dell’occhio e rise. Un carro trainato da cavalli, caricato fino all’inverosimile di meloni, venne verso di loro. Il cavallo era marrone e aveva una macchia bianca sul naso. Era già vecchio e il vetturino prese la frusta e lo colpì. Il cavallo proseguì imperturbabile. Automaticamente Nagl pensò alla scuola, agli alunni, all’ispettore scolastico, alla propria vita. Il muro di mattoni sul lato destro terminò, la strada divenne più ampia e, dopo un incrocio, incominciò la fila di case. Gli vennero incontro due marinai che indossavano képi bianchi e sporchi e camicie blu. Uno dei due sbucciò un’arancia e gli gettò la buccia, l’altro rise. Un attimo dopo Nagl cadde a terra, perché gli era stato fatto lo sgambetto. Si portò la mano al naso e vide le dita sporche di sangue. Il sangue gocciolava sull’asfalto, sentì Anna gridare, sentì le braccia di lei, si rialzò a fatica, e, barcollando, si mise in piedi. Erano due tipi tarchiati e di 63 media statura, che accelerarono un po’ il passo non appena lui incominciò a rincorrerli. Improvvisamente si fermarono e, con la faccia seria, lo aspettarono. Uno gridò qualcosa all’altro e immediatamente entrambi gli si scagliarono addosso. Non sentì alcun dolore, solo i pugni che lo colpivano. Non furono molti, forse quattro o cinque, uno sul viso e gli altri sulla pancia e sulle costole. La testa gli doleva e tutto era immerso in un’insolita luce grigia. I marinai corsero via e vide i colletti svolazzargli sulle schiene, come piccole bandiere, poi arrivò Anna, con le lacrime agli occhi. Dal lato opposto della strada accorsero degli uomini che gli fecero delle domande, ma Nagl non li capì. Lo condussero in un vicolo, dove gli portarono una scodella con dell’acqua fredda e un fazzoletto. Il naso aveva smesso di sanguinare, ma era gonfio. Il corpo cominciò a dolergli, ma questo dolore gli apparve come un rifugio. Non gliene importava niente che il suo naso fosse gonfio. Ora appariva minaccioso. Si accorse che la gente indietreggiò quando, senza emettere un lamento, se lo lavò. Percepì anche la loro compassione. Lo portarono davanti ad un negozio dalle saracinesche abbassate e gli offrirono una sedia. Quando si sedette, si accorse che davanti alla casa vicina c’era un manichino di legno. Era stordito, ma si sentiva forte. Anna si appoggiò a lui. Gli parlò, ma Nagl non la ascoltò. Pensò al gendarme con la mano sanguinante. Il dolore poteva essere davvero una liberazione. Naturalmente lo era solo per breve tempo, per i primi momenti, però riusciva ad allontanarlo dagli uomini. Lo faceva 64 sentire forte. Ora sentiva cosa aveva voluto il gendarme. Era stata una forma di liberazione, un modo per mettersi dalla parte del giusto. Ebbe la sensazione di non avere nulla da perdere. La paura era sempre e solo la paura davanti a qualcosa di sconosciuto, davanti al dolore iniziale. L’immagine del dolore iniziale, che può assumere proporzioni gigantesche, rende il cuore piccolo e vile. Non voleva avere più alcuna paura davanti al dolore iniziale, ma voleva essere pronto ad accettarlo. Questo era tutto il segreto della forza. Pensò al cavallo. Si era assuefatto alle bastonate, perché aveva dovuto abituarcisi. Perché è normale che un cavallo non restituisca i morsi. Se ne stava lì seduto e guardava gli uomini: un fruttivendolo gli passò davanti tenendo il piatto di una bilancia appeso ad una catena che aveva fissato alla tasca posteriore dei pantaloni, davanti alla finestra aperta di un chiosco per i giornali c’era un uomo basso con occhiali, cappello e mantello che giocava a carte con il giornalaio, un uomo spidocchiava un cucciolo di cane sdraiato sulla schiena davanti a lui. Anna mise una banconota da cento lire nella mano di un bambino, ma un colpo di vento la fece volare via e il bambino la rincorse. 65 XI Senza meta si diressero verso il frastuono della città, trovarono una trattoria con tovaglie bianche e tovaglioli acconciati e si fecero servire pesce, gamberi e vino da un cameriere calvo. In albergo il portiere con gli occhiali, a cui mancava una stanghetta, sedeva dietro il bancone e risolveva cruciverba. A Nagl faceva male il naso ed era stordito dal vino. In camera si baciarono. Nagl le abbassò i collant e l’adagiò sul bordo del letto. Si accoccolò davanti a lei e cominciò a leccarla. Mentre la leccava, aveva il clitoride davanti agli occhi. Era grosso e lucido e Nagl lo prese in bocca. Leccò finché lei mandò un gemito e tese in aria le gambe divaricandole. Sotto la bocca aveva il copriletto blu e sporco, ma non gli fece più schifo. Pensò al globo terrestre e al fatto che non era più un uomo. Anna si era girata su un fianco per togliergli i pantaloni e gli bisbigliò di amarlo. Nagl non disse nulla. Si sedette su di lei e infilò il cazzo tra i suoi piccoli seni. Appariva brutale il modo in cui glielo metteva in bocca. Lo infilava dentro completamente e in modo tale che lei doveva spalancare la bocca e si strozzava e sbuffava aria dal naso. Le mani di lei si serrarono sui seni e Nagl sentì che stava per venire. Si fermarono a guardare come le schizzava sulla lingua, fino al momento in cui Nagl si 66 lasciò cadere di lato e si addormentò esausto. Per la prima volta dopo molto tempo sognò. Era un sogno confuso, composto dalle immagini che aveva visto. Sognò dei marinai e delle arance, del dirigibile e del vecchio cavallo, che nel suo sogno era un cavallo bianco e sapeva parlare. 67 XII La sera lo risospinse per la strada. Il naso gli faceva male più di prima, aveva un occhio tumefatto e i pensieri confusi a causa del vino che aveva bevuto. Si era visto allo specchio e aveva notato come il dolore gli dava la sensazione di non avere più nulla da perdere. Anna si fermò davanti ad un negozio di cappelli e ne volle uno con un velo nero. Nagl entrò nel negozio e lo comprò. Ora Anna sembrava una vedova. Volle anche entrare in una chiesa, ma la chiesa era chiusa. Dappertutto nei vicoli rilucevano le edicole con le immagini votive di Maria. Un uomo grasso con un cravattino andava a passeggio portandosi dietro la sua poltroncina e usandola come un bastone. In un negozio di immagini sacre un uomo dormiva seduto su una sedia e sembrava morto. Tutti suonavano il clacson, gridavano e schiamazzavano. Una testa di manzo era sistemata tra verdure, pelli di maiale stavano appese a ganci da macellaio e in una vetrina una giovane donna stirava una camicia. Lentamente scese la notte. Il Vesuvio giaceva nel buio. All’angolo della strada un uomo vendeva zuppa di seppie. Un tentacolo mozzato nuotava in una brodaglia rossa, il brodo fu bevuto tutto e il tentacolo con le sue grosse ventose venne 68 succhiato fuori dal bicchiere. Rimase a guardare come Anna, col suo cappello da vedova, succhiava il tentacolo trattenendo il velo sopra la fronte con una mano. Improvvisamente le venne in mente che aveva dimenticato i fiori nell’albergo dove erano stati la mattina. Nagl fu costretto a ripensare al Vesuvio, finì di bere il brodo e i tentacoli scomparvero nella sua bocca. Sbucò in Piazza Garibaldi e sentì il vento. Il velo del cappello di Anna le premeva sul viso. La piazza era immersa nella semioscurità. Le case tutt’intorno sembravano color tuorlo d’uovo e avevano l’aria di essere dei vecchi edifici amministrativi. Ma il cielo sulla piazza era immenso e le stelle brillavano su di lui. Per un po’ passeggiarono nella piazza, per il gusto di sentire il vento. Mobili vecchi venivano bruciati per strada, alcuni uomini si scaldavano e i bambini giocavano. In albergo chiese ad Anna di spogliarsi. Il cappello da vedova, però, doveva tenerlo in testa. Prima di salire aveva ordinato una bottiglia di vino. “Spogliati e guardami”, disse. Lei stava lì in piedi nuda, col cappello nero sulla testa e il velo che le copriva il viso. Le ordinò di voltarsi, di piegarsi in avanti e di allargare le gambe. Il cappello sul comodino. Lei lo fece. Poi lo raggiunse a letto. 69 XIII Il giorno dopo Nagl comprò un ombrello e una bottiglia di grappa. Tornò in albergo e svegliò Anna. Ormai il naso gli faceva male solo quando lo toccava e decise di non toccarlo. Per strada un garzone, sotto un ombrello storto, portava due tazze di caffè e due bicchieri d’acqua su un vassoio. Ogni tanto si vedevano lampi e in lontananza si sentiva il sommesso brontolio dei tuoni. Andò in bagno, tirò la tenda dietro di sé e bevve un sorso di grappa dal bicchiere per sciacquarsi i denti. La grappa era così forte che si strozzò, ma gli scaldò lo stomaco. Passarono di fronte a ristoranti vuoti con tavoli coperti di tovaglie bianche e bicchieri rovesciati, davanti ai quali stavano piccoli gruppi di uomini che fumavano e aspettavano riparandosi sotto tendoni di tela e davanzali. Non si guardavano tra di loro, ma osservavano la piazza allagata dalla pioggia dalla quale rivoli di acqua argillosa defluivano verso le strade adiacenti. Sulla poltroncina di un lustrascarpe era gettato un telone di gomma, le bancarelle erano sgombre e i camerieri servivano clienti sulle strade fuori dai Caffè circostanti. Nel vano della stazione della metropolitana c’era puzza di cloro. Si spinsero sgomitando attraverso la ressa di uomini umidi di piog70 gia, si pigiarono nel vagone e si aggrapparono ai corrimano di ferro, mentre il metrò viaggiava sobbalzando. Nagl se ne stava lì come stordito. Viveva quei momenti molto intensamente, ma non li viveva con mente lucida. Tutto si confuse. Lo disgustava tornare indietro col pensiero. Non voleva neanche pensare a cosa sarebbe successo. Se avesse perso la sua irrequietezza, non sarebbe rimasto a Napoli più a lungo. Anna si era avvicinata ad un finestrino e aveva pulito un pezzo del vetro appannato, attraverso il quale guardava fuori. Nagl non voleva guardare fuori. Lui voleva fare l’amore con Anna in metropolitana, su una montagna di ombrelli ripiegati, voleva sorvolare il porto col dirigibile in compagnia del cavallo bianco, voleva che il suo corpo potesse seguire i suoi pensieri, voleva che fosse possibile tutto quello che poteva immaginare. Su uno dei sedili c’era un giornale, ma non venne nessuno a reclamare il posto nella carrozza sovraffollata. Così Nagl chiese il permesso alla signora che sedeva accanto. La signora si tirò in parte, gli mise il giornale in mano e irritata lo invitò a leggerlo. Rimase seduto nello scompartimento con il giornale italiano che non sapeva leggere e Anna continuò a guardare attraverso lo spioncino nel vetro appannato finché scesero alla stazione di Villa dei Misteri, davanti a boschetti di aranci. 71 XIV In una trattoria, senza sedersi, bevve una dose abbondante di grappa. Provò una senso di liberazione quando l’alcol cominciò a fare effetto. Il momento più bello fu quando ebbe l’impressione che un dito enorme gli toccasse l’interno della testa e lo stordisse. Sentì come il suo cuore si apriva, come diventava se stesso e più inviolabile. A causa di questa sensazione di inviolabilità beveva, anche se il giorno dopo tornava ad essere vulnerabile. Aveva smesso di piovere e una schiera di marinai entrava e usciva dalle rovine delle case. Avevano la stessa uniforme dei due che lo avevano picchiato. Nagl camminava con l’ombrello ripiegato sotto il braccio, come con una nera ala rotta. Pensò che anche i guardiani e i turisti stavano lì con i loro ombrelli ripiegati come uccelli dalle ali spezzate e saltellavano sulle pietre. I marinai si scattavano fotografie davanti agli archi del portone e andavano, con le loro divise, in un ristorante situato tra i ruderi. Nagl voleva seguirli, ma proseguì perché Anna aveva cominciato a piangere. Gettò l’ombrello oltre il muro. Davanti a lui stava il Vesuvio, blu scuro con fili di nebbia bianca. Sembrava coperto dalla neve. Attraverso un’inferriata poté guardare in piccoli giardinetti inselvatichiti tra resti di case diroccate, pozzi di pietra sgretolata, mosaici e 72 tavoli di pietra. Solo in quel momento si accorse di essere solo. Si voltò verso Anna e la vide seguirlo tenendo l’ombrello. Due monache vestite di nero stavano tra le statue coperte di muschio e studiavano una cartina. Anna lo raggiunse e gli disse: “Ti prego, capiscimi”. “Non capisco nessuno”, rispose Nagl. Ricominciò a piovere e riaprirono l’ombrello. “Una volta eri un uomo buono”, disse improvvisamente lei. “Per sentire la mia potenza, per questo ero buono”, rispose lui con forza, “Per sentire il trionfo”. La Casa dei Vetteri colpì i suoi occhi con immagini i cui colori sembravano arrivare alla luce del giorno provenienti da profondità marine. Colori fatti di pollini e di sangue di bue macellato, di aria e di foglia, dipinti così delicati da sembrare spuntati da piante, oppure pensieri costituiti da materia vivente. Sulle pareti c’erano uomini, bambini nudi, uccelli, serpenti, aragoste, grappoli, cani e cervi, pavoni, colonne e anfore. Erano di color ocra e rosso scuro, nero, verde oliva, rosso cotto, plumbei e smaltati. Era un regno pacifico. La sua bellezza e la sua indifferenza verso il tempo gli indicavano una dignità intangibile. Gli ombrelli frusciavano, ma c’era anche il cinguettio degli uccelli che veniva dal giardino della Villa, sui prati e sulle statue della quale cadeva la pioggia. Nagl si ricordò del negozio di uccelli nella piazza del mercato. Gli vennero in mente l’uomo che sul treno aveva frugato nella sua giacca e il mare. Si addossò alla 73 parete, come se volesse verificare che le immagini fossero naturali, come la foresta vergine, le Ande o l’artico. Era completamente intontito, quando un guardiano gli rivolse la parola. Aprì un’inferriata di ferro. Dentro si vedeva un uomo dai colori smorti e con un cazzo imponente. Il cazzo era più grosso dell’uomo. L’espressione del suo viso non mostrava dolore, ma neppure piacere. Era lì semplicemente per farsi contemplare. Dalle pareti di una nicchia buia emersero ombre colorate. Donne con le gambe divaricate stavano sotto uomini oppure gli si sedevano sopra mentre questi, sdraiati davanti a loro, si tenevano il membro in mano. Nagl si ricordò adesso del Panoptikum, gli tornarono in mente i quadri colorati che aveva visto con suo nonno e pensò a come Anna era stata seduta su di lui. Con la mente piena di colori onirici inciampò fuori dalle rovine, sulle pietre accidentate. Sentì di nuovo il canto degli uccelli e d’un tratto, con una sensazione piacevole, i colori gli riempirono la bocca, come se il palato si ricordasse di loro, e da lì gli salirono in testa, dietro gli occhi. Gli uccelli cinguettavano. Tutt’intorno si ergevano neri i profili delle montagne, coperte da banchi di nebbia lacerati. Anche i marinai gli sembravano ora ricordi d’infanzia. Improvvisamente il sole si aprì un varco e le case e i muri gettarono ombre dai colori teneri. Su un muraglione era rimasta una traccia di intonaco, un insolito blu remoto che Nagl osservò e nel quale improvvisamente riconobbe la vita. Scese nell’anfiteatro deserto. Passò per 74 corridoi opprimenti cosparsi di bottiglie abbandonate, coppette per i gelati, lattine di Coca Cola, carte di gomme da masticare e mozziconi di sigarette e si trovò nell’arena. Su in alto vide Anna, seduta sui gradini, tra erbe secche e gialle come criniere di cavalli. In cielo correvano nuvole nere di pioggia provenienti dal Vesuvio. Anche quando aveva lasciato il gendarme sulla sua testa erano passate le nuvole. Sulla strada davanti all’anfiteatro crescevano fiori gialli, nelle crepe dei muri stavano immobili le lucertole. I marinai si erano dileguati. Si diressero verso il Vesuvio che, nero e coperto di nuvole gonfie di pioggia, sembrava voler esplodere. 75 XV La Villa dei Misteri era immersa tra alberi carichi di limoni e arance. Un gatto dal naso graffiato vagava davanti all’ingresso. Si strofinò sui piedi di Anna e miagolò. Anna dovette accarezzarlo e Nagl si trovò solo nella casa. Era in un ambiente cupo sulle cui pareti apparivano forme umane, come miraggi di morte. Grandi e mute, di colore giallo pallido e vestite con toghe verdi e violette, fluttuavano sul muro di sangue. Un demone alato era apparso in questo mondo, teneva alzato un flagello dietro la testa e si accingeva a sferzarlo. Nagl fissò il demone alato fino al punto di avere l’illusione di fluttuare lui stesso. Passando per l’anticamera immersa nella penombra, ornata di piante d’un verde luminoso e candidi aironi, ritornò alla luce del giorno, dove il sole brillava e la pioggia cadeva. Gocce luminose scivolavano rapide sui pini marittimi e sull’erba. Un contadino pisciava tra i vitigni, un uomo veniva verso di loro correndo e tenendosi la giacca sopra la testa. Dalla metropolitana, che a velocità folle tornava verso Napoli, Nagl vide, nel cielo scuro, l’arcobaleno inarcarsi dal Vesuvio agli aranceti, mentre Anna dormiva sulla sua spalla. 76 XVI Il suo viso era appoggiato sul lato interno di una coscia. Aprì le grandi labbra ed espirò profondamente. Voleva che lei sentisse il rumore del suo respiro ed espirò di nuovo mentre allargava le grandi labbra il più possibile. Sul comodino era appoggiato il cappello da vedova con accanto una bottiglia di vino. Nagl allungò la mano verso la bottiglia di vino e tolse il tappo di sughero. Intanto Anna lo leccava, e lui cominciò a gemere. Bevve una sorsata dalla bottiglia e innaffiò di vino la vulva. Anna smise di leccarlo e si appoggiò sulla schiena. Le piaceva il modo in cui lui succhiava il vino dal suo corpo e le strofinava il clitoride. Era così eccitata che si sedette sulle gambe di una poltrona ribaltata. La schiena era diritta, le cosce allargate e una ciocca di capelli le cadeva sul viso. Lui allungò le mani verso il suo seno e mise la testa tra le gambe della poltrona. Da lì tutto gli appariva enorme e guardando davanti a sé vedeva i seni di lei con i capezzoli in aria. “Guarda giù” la pregò lui. Lei si sporse in avanti e osservò il viso di lui tra le sue cosce. Il volto di lei era adesso diverso, stravolto dallo sforzo di rimanere piegato che le faceva affluire il sangue alla testa. Si raddrizzò, fece cadere la testa all’indietro e sembrò ascoltare le sensazioni 77 del suo corpo, mentre lui le toccava il clitoride. Nagl scivolò fuori dalle gambe della poltrona e vide il viso estasiato di lei, i suoi occhi chiusi. Aveva sempre bisogno di guardare il suo viso, quando era eccitato. Gli occhi di lei erano socchiusi, le narici fremevano, le labbra erano aperte e di tanto in tanto la lingua si allungava fuori dalla bocca. Si misero sul letto e fecero l’amore finché, esausti, si addormentarono. 78 XVII Il mare davanti a Castel dell’Ovo era scuro e in lontananza si stagliava il profilo di Capri. Tre gabbiani grassi e annoiati stavano appollaiati sulla ringhiera di ferro. Nagl si sedette in un ristorante davanti al quale stavano, all’aperto, tavoli di legno non apparecchiati e sedie accatastate una sull’altra. Gli alberi delle barche si innalzavano senza senso verso il cielo. “Un tempo eri sempre con la mente altrove” disse lei. “Ti era indifferente quello che facevo, eri indipendente da me. Ma mi hai dato la libertà solo perché hai pensato che ero dipendente da te. Lo ero. Tutto quello che ho fatto, l’ho fatto perché volevo riuscire a liberarmi di te. Non volevo più che tu significassi così tanto per me, e d’altronde ti amavo troppo per lasciarti. Poi, quando effettivamente è successo, mi è sempre sembrato insignificante. Te l’ho sempre detto, è insignificante, perché non è successo nulla di importante. In realtà avevo solo paura che lo scoprissi e che perciò mi lasciassi. Non avevo alcun senso di colpa, perché in seguito tutto mi sembrò senza significato”. Il cameriere aveva fatto capolino attraverso la veranda e si era degnato di ricevere un’ordinazione. Barche a remi colorate dondolavano nel molo davanti al ristorante. “Sei sempre stato 79 attento a mostrarmi che non avevo il benché minimo diritto su di te” disse Anna. “Ora non ti preoccupi più di mostrarmelo. Non dici nulla, e io non esigo nulla da te. Ci ho riflettuto a lungo e sono giunta alla conclusione che allora tu volevi proprio chiudere. Spesso avevo l’impressione di esserti diventata importuna. Ero stupita che quello che ti avevo detto ti avesse colpito in quel modo”. Nagl guardava fuori. Un noleggiatore di barche sedeva davanti ad una stufetta in un bugigattolo senza porta. Sul molo in pietra c’erano diverse barche a remi dalla vernice scrostata. In una barca più grossa, con l’interno scanalato e colorato di rosso che ricordava a Nagl il palato di un gigantesco pesce, stava una poltroncina semisommersa dall’acqua piovana. Taceva. Era vero ciò che lei diceva. Non si era mai preoccupato di lei. A volte, quando era rimasto solo, gli era capitato di essere felice. Aveva anche pensato di chiudere con lei, ma poi erano andati a letto insieme e non era riuscito a lasciarla. Anche lui aveva fatto l’amore con altre donne, conoscenze occasionali e vecchie amanti, ma glielo aveva taciuto. Lei avrebbe pianto, un paio di giorni, un paio di settimane, ma lo avrebbe superato rapidamente. Lui era più lento, più permaloso e più vanitoso di lei. Soprattutto lei era più generosa di lui. Con spavento si era accorto che anche lui, dopo essere stato con un’altra donna, aveva provato solo paura di essere scoperto, e così aveva concluso sempre rapidamente le sue avventure. Pensò che c’erano altri uomini che conoscevano i gemiti di Anna, le sue fissazio80 ni, il suo corpo nudo. “Mi capitava spesso di voler parlare con te, ma tu eri solo scontento”. Anche questo era vero. Tutto era stato troppo veloce per lui. La confidenza di lei, le sue doti pratiche e la sua esperienza lo avevano disturbato. Ai suoi occhi lei non aveva molta esperienza. Ma adesso sapeva che questa era stata un’illusione che provava sempre quando si innamorava. Aveva dovuto prenderne atto. E tornava ad eccitarsi ancora di più, sebbene allo stesso tempo ciò lo ferisse. Era un meccanismo strano. Aveva paura del dolore di venire ingannato e, tuttavia, non aveva mai provato un’eccitazione così intensa come in quel periodo. Gli vennero in mente il gendarme e sua moglie. Gli altri uomini avevano amato Anna così come lui aveva trattato la moglie del gendarme, così come lui l’aveva amata. Dalla conoscenza di se stesso poteva arrivare alla conoscenza degli altri, dai suoi sentimenti e dai suoi comportamenti poteva risalire a quelli degli altri. La fissò in viso e pensò a come lei aveva amato gli altri. Tornò a guardare fuori dalla veranda, verso le barche. Là c’era una porta di ferro con dipinti dei grossi fiori colorati, come se fosse estate. Osservava sempre le stesse cose: il mare, le barche e Anna. 81 XVIII Quando dal treno aveva visto il mare, gli era apparso come una grande promessa: la luce tremolante, la curva dell’orizzonte, la vastità. Ma da qui gli appariva freddo e buio e gli tornò in mente la strada deserta del porto che gli stava davanti. Pagò e risalirono la scaletta di legno tra le barche. Quando s’inoltrarono nei vicoli gli capitò di intravedere il mare e le grandi navi che si erano avvicinate. Davanti ad una chiesa verde con l’intonaco che si sgretolava, stava un ufficiale di marina con le bande dorate sull’uniforme e un sontuoso paio di baffi. Bambini urlanti li circondarono e li seguirono. Alla sera bevvero del vino in Galleria Umberto. Come in una stazione, la luce cadeva attraverso le gigantesche vetrate a volta del tetto, sorretto da travi di ferro. Fuori cominciò a piovere. Il cielo della sera riluceva di giallo e le nuvole erano color lilla. In Piazza Dante una donna anziana con un cappotto nero e calze bianche si era distesa sui gradini di una chiesa e dormiva. Nagl, ubriaco, era seduto in una trattoria sotto le pale enormi di un ventilatore, tra i tavoli apparecchiati di bianco, immerso nella chiara luce elettrica. Fuori era notte: la gente passeggiava avanti e indietro, le auto suonavano il clacson, gli avventori man82 giavano con lentezza e scrupolo ed erano vestiti elegantemente, i camerieri facevano rumore con le stoviglie e dalla radio arrivava della musica. 83 XIX La cima del Vesuvio era ricoperta di neve. Nagl guardava in silenzio fuori dal taxi su cui stavano viaggiando. Si era svegliato nella notte ed era rimasto sdraiato nelle tenebre. Aveva cercato di svegliare Anna, ma lei dormiva profondamente. Aveva avuto la sensazione di non riuscire a muoversi né avanti né indietro. Così era rimasto immobile nell’oscurità, respirando profondamente. “È indifferente quello che faccio” aveva pensato. “Se non torno più, se lascio Anna, un altro prenderà il mio posto. Mi devo esercitare a pensare qualcosa d’altro. Andrò dall’ispettore scolastico e mentre parlerò con lui penserò a qualcosa d’altro. Ora che la vita non mi sta più davanti, ora che è iniziata sul serio, improvvisamente non sono rimasti nient’altro che pensieri senza senso. Ho fatto tutto quasi automaticamente. Avevo l’ambizione che tutto quello che facevo apparisse come se lo volessi. In realtà è andata così”. La strada saliva. A destra e a sinistra c’erano delle case davanti alle quali fiorivano i peschi e dei giardini con ulivi, fichi, limoni e viti, margherite e mimose. Piccoli boschetti di acacie e pini marittimi si alternavano. Ma poco dopo spuntarono dal terreno rocce vulcaniche di lava solidificata. Improvvisamente Nagl pensò a suo nonno. 84 Suo nonno aveva creduto nel lavoro. Il lavoro era stato il senso di tutto, perché solo col suo aiuto poteva sopravvivere. Non importava il tipo di lavoro. Vivere senza lavoro era come una lenta malattia mortale, era la consapevolezza della morte che lentamente si avvicina. E così aveva lavorato fin dall’infanzia. Nei periodi di disoccupazione aveva trascorso le notti chino sulla scacchiera, con se stesso come avversario, fino al momento in cui aveva trovato di nuovo un lavoro. Dopo il pensionamento aveva abitato da sua sorella, da cui aveva subaffittato una stanza buia. Davanti alla finestra aperta, che dava su un cortile interno dove c’era un ippocastano, aveva continuato a giocare a scacchi con se stesso. Quando morì i suoi mobili furono sgomberati in mezz’ora. La gente era disgustata da quei mobili, perché erano quelli di un morto. Quando lo seppellirono, fu intonata la “Canzone del lavoro”. Nagl non aveva mai capito la propria vita. Non riusciva a spiegarsela. Finché aveva lavorato, e aveva creduto nel lavoro, non era stato difficile. Non si domandava cosa sarebbe successo. Sotto di lui si stendeva il Golfo di Napoli, la città con le piccole case e il mare, che da lontano e dall’alto era tornato ad apparire bello e ricco di speranze. Davanti a lui c’era il Vesuvio e ora gli appariva sublime, così ammantato di neve e avvolto di nubi. La strada arrancava attraverso pendii di fredda lava rosso-bruna. Stavano risalendo i fiumi di lava, tra i quali si vedevano sporadici ippocastani, pini marittimi e pini silvestri con appese delle pigne. Più su la lava era coperta di neve, 85 all’inizio in modo così discontinuo e a chiazze che le faceva assumere una tonalità grigia, come se fosse stata infestata dall’aspergillo. Salendo, la strada diventava scivolosa per la neve e il ghiaccio e il taxi arrancava lentamente e slittando. Anna conversava con il tassista. Nagl contemplò il suo viso, finché lei non ricambiò lo sguardo. “Perché stai zitto?” gli chiese ridendo. Il taxi si fermò dietro l’osservatorio. Un uomo basso con un berretto bianco uscì e decise che li avrebbe condotti fino al cratere. Aveva solo due denti e portava una borsa. Si inerpicarono sui tornanti innevati del sentiero, circondati dalla neve e da una spessa nebbia grigia. Intanto l’uomo teneva una conferenza sulle eruzioni vulcaniche. Dietro una curva la nebbia brillò gialla di zolfo. In alcuni punti si intravedeva la lava nera sotto la neve. Nagl proseguì senza fermarsi mai, sebbene la guida facesse frequenti soste respirando a fatica. Ma quando vide che Nagl saliva da solo, si affrettò per raggiungerlo velocemente. Nagl lo distanziò troppo, e allora quello si fermò e gridò e, appena vide Nagl voltarsi, gli mostrò una bottiglia di vino che portava nella borsa urlandogli, senza alcun senso, che dovevano rimanere sul Vesuvio per tutto il giorno. Proseguirono verso la cima e la lava sdrucciolò sotto i loro piedi lungo il ripido pendio, giù nella nebbia, con un rumore limpido. 86 XX Nagl alzò gli occhi al cielo, ma il cielo sopra di lui era avvolto dalla stessa nebbia impenetrabile nella quale si perdevano i pendii coperti di neve. Un sentiero stretto era segnato da orme di piedi, e lui le seguì. Improvvisamente si trovò davanti al cratere. Le tracce si erano perse, ma lui non ci aveva fatto caso e si trovò talmente vicino all’orlo della voragine che rischiò di precipitarvi. Gli vennero le vertigini, sentì una fitta alle tempie, ma rimase fermo. Davanti a lui si apriva un immenso avvallamento coperto di neve, lava raffreddata e nebbia. Non si scorgeva anima viva. Rimase immobile a scrutare quelle profondità, fino alle viscere della terra. Non c’era nulla là sotto. Aveva la sensazione di guardare una stella sconosciuta e non la terra. Nemmeno la nebbia si alzò o si diradò. Se avesse fatto un solo passo sarebbe precipitato. Solo a fatica riuscì a scorgere l’altro lato del cratere. Era come se riuscisse ad abbracciare con lo sguardo una gran parte del mondo, dalla cui desolazione scaturivano tuttavia bellezza e verità. Anna e la guida si accostarono all’orlo del cratere e la guida gridò per far sentire l’eco. Nagl sentì un’emozione di cui non riusciva a capacitarsi. Si era immaginato qualcosa di diverso, ma ciò che 87 vedeva gli sembrava molto più plausibile. Vedeva solo questa immensa voragine, la nebbia e la neve e sentiva che l’emozione lo placava. Pensò alla sua classe, ai visi dei suoi alunni, allo stupore con cui l’ascoltavano. Ma lui sapeva anche che tutto ciò sarebbe apparso come un’invenzione. Gli alunni lo avrebbero ascoltato senza riuscire ad immaginarsi nulla. Sarebbe stato il mistero ciò che li avrebbe lasciati attoniti e lui, sapendolo, avrebbe raccontato in tono misterioso. Avrebbe smesso ben presto di convincere se stesso raccontando, gli sarebbe bastato guardare come gli alunni sedevano con le bocche spalancate. Si chinò e toccò la lava. Sapeva che emozione e tranquillità erano in lui e proprio il fatto che non succedesse nulla lo calmava. Il vento freddo gli fece percepire il sudore come qualcosa di estraneo. Anna urlò i loro nomi e questi ritornarono come eco. Discesero per un viottolo angusto all’interno del cratere. Esalazioni che odoravano di zolfo salivano dalle pietre, bollenti quando Nagl le toccava, e alla fine la guida accese dei vapori appoggiando una sigaretta incandescente in una fenditura della roccia. Il vapore li avviluppò e li inzuppò completamente, i capelli divennero umidi e si arricciarono e i peli della barba di Nagl, sul suo volto non rasato, stillarono goccioline d’acqua. Così stavano nel vulcano, tossendo avvolti da una nebbia cinerea, quando improvvisamente sorse il sole e illuminò la nebbia con la sua luce dorata. Nagl vedeva le sagome di Anna e della guida. Tutto durò un attimo. Poi, d’improvviso, la nebbia che li aveva protetti si lacerò e, a picco sotto di loro, apparve il profondo abisso del vulcano spento. 88 XXI Il vento fischiava gelido sulla via del ritorno. Anna lo precedeva. Sotto e sopra di loro stava la nebbia rosata, tutt’intorno solo neve e lava. La luce era accecante, argentata e là dove la neve si era mischiata con la lava luccicavano macchie violette. Camminavano silenziosi e veloci. Nagl vedeva i suoi piedi davanti a sé, le scarpe bagnate, la neve, la lava. Non incontrarono nessuno. Il cielo e la terra erano così vicini che si sfioravano. A Nagl sembrò che il mondo dovesse apparire così a chi lasciava vagare lo sguardo nello spazio per la prima volta. Aveva pensato di essere caduto fuori dal mondo e adesso gli pareva di sperimentare veramente cosa si prova, quando si fa questa esperienza. Sentiva nostalgia degli uomini. Quando arrivarono all’osservatorio, la valle giaceva scura sotto di loro. Il tassista, infreddolito, sedeva col bavero alzato dietro al volante. Guidò con attenzione, scendendo per la strada ghiacciata. 89 XXII Dopo le ultime curve, tornati alla luce del sole, svoltarono per il porto commerciale dove si trovavano i grandi piroscafi da Londra, Marsiglia, Amburgo e Dubrovnik. Guardando fuori dal finestrino posteriore, Nagl riconobbe Via Nuova della Marina. Mentre si allontanavano dall’ampia strada del porto, notò che anche questa volta la via era deserta di uomini e veicoli, con l’eccezione di un tram che, in lontananza, diventava sempre più piccolo. Pensò a suo nonno e automaticamente guardò in cielo, cercando il dirigibile. Davanti a loro sgusciò un parco con palmizi e latifoglie e con una fontana. Alcuni uomini ci stavano passeggiando e Nagl, vedendoli, provò per loro la stessa nostalgia che lo aveva invaso in cima al Vesuvio. Si ricordò delle domeniche mattina in cui suo nonno aveva portato lui e suo fratello più grande al parco comunale di Graz, per ascoltare il concerto davanti alla fontana. La banda era nel pergolato e, filtrate dalle foglie degli ippocastani, fantasie di luce cadevano sugli spettatori. In realtà i concerti alla fontana erano sempre stati noiosi. Nagl ci andava volentieri solo per la gente. Sulla via del ritorno il nonno gli comperava un cono di gelato al lampone, freddo e acquoso. Era un avvenimento eccezionale, perché per il nonno era eccezionale comprargli qual90 cosa. Non dava alcuna spiegazione del suo gesto, ma dal fatto che gli bisbigliava parole affettuose e che gli accarezzava i capelli, Nagl intuiva che stava pensando alla propria infanzia. Era nato ad Istanbul. Suo padre, un austriaco soffiatore di vetro, aveva lavorato lì presso una fabbrica italiana. Due erano le storie che il nonno aveva raccontato, alternandole, in quelle domeniche mattina: della morte di suo fratello e di come la sua salma era stata trasportata con una barca al di là del Bosforo per essere seppellita nel cimitero cristiano, e di quando lui aveva tentato di pescare i granchi ad Istanbul. In entrambe le storie avevano giocato un ruolo determinante le grandi navi con nuvole di vapore che uscivano dai fumaioli. Il taxi stava passando vicino alle rotaie del tram e a sporadiche e sudicie case sul lungomare. Le scarpe di Nagl erano bagnate e i suoi piedi freddi. Anna guardava indifferente fuori dal finestrino, ma la sua mano era appoggiata sul suo membro e lo premeva. Quando parlava col conducente si sporgeva in avanti, affinché questi non potesse vedere nulla, e solo una volta lei gli rivolse uno sguardo in cerca di complicità per quel gioco. Indossava un Burberry e lei gli aveva infilato una mano sotto il soprabito, aveva aperto la chiusura lampo dei suoi pantaloni e gli aveva afferrato il membro. Lui riusciva a muovere il cazzo, e tutte le volte che lo faceva lei glielo stringeva. Adesso si stavano dirigendo verso l’interno e si erano lasciati il mare alle spalle. Davanti a un giardinetto di alberi da frutta un uomo con un’irroratrice sulla schiena si lavava gli stivali usando una canna. Gli alberi non avevano foglie, ma subito 91 dietro di loro c’erano verdi uliveti che coprivano il dorso di una collina. Anna tolse la mano dal membro e mise la testa fuori dal finestrino. Il Vesuvio si ergeva lontano, dietro di loro. Non era solo un profilo stagliato nel cielo; per Nagl era già un lontano e curioso ricordo. Nagl pensò all’immenso cratere e a come aveva fissato quella profondità: come se stesse contemplando una stella sconosciuta. Poi il sole, illuminandola, aveva reso fluorescente la nebbia intorno a lui, come se improvvisamente si fossero trovati sul sole stesso, circondati da gas incandescenti. 92 XXIII Il tassista era rimasto indietro e il cassiere, con un cappello pied-de-poule schiacciato sul viso dall’incarnato scuro, li condusse sul fondo del cratere della solfatara, dove i loro passi risuonavano cupi. Era un vasto pezzo di terreno pianeggiante, grigio piombo, morto e senza vegetazione. Nagl avvertì il calore sotto i piedi e, tuttavia, non provò alcuno stupore in quel cono rosso cinabro con le pendici coperte di boschi nel quale la terra soffiava bolle, esalava vapori, gorgogliava e sul quale regnava la puzza di zolfo che stava respirando. I pini marittimi sull’orlo del cratere gli apparvero come macchie d’inchiostro stagliate nel cielo, ginestre gialle fiorivano sui pendii tra mimose, palme, rubiacee e piante di eucalipto. Sul Vesuvio si era sentito più vicino al cielo che alla terra, ma qui, immerso in un calore bollente, si sentiva totalmente legato a quest’ultima. Pensò alle strade del mercato, ai frutti rigogliosi che gli avevano ricordato organi di animali e a un pannello scolastico coperto di tela incerata, sul quale erano riprodotti l’interno di una miniera, felci ed animali preistorici. La guida aveva arrotolato una copia della “Stampa” facendone una fiaccola, l’aveva accesa e l’aveva passata sul terreno sporco di zolfo giallo. Sibilando si erano alzate dal terreno gigantesche nuvole di 93 fumo che poi avevano aleggiato su di loro come ombre scure. Dall’altra parte del vulcano l’osservatorio Friedlaender, ormai abbandonato, apparve tra il vapore. Sui muri rilucevano infiorescenze di zolfo e la casa di pietra era composta da un’unica stanza con finestre munite di inferriata. “Qui, sull’esile fondo del vulcano, un uomo si è seduto e ha osservato quello che succedeva nel cratere”, pensò Nagl. Quest’uomo aveva scrupolosamente riportato su una pianta le crepe del suolo, aveva misurato la temperatura, aveva studiato il sismografo. Ma il terreno sotto l’osservatorio era diventato sempre più sottile e, ad un certo punto, avevano dovuto abbandonarlo. Questa era forse una situazione che gli faceva tornare in mente suo nonno, chiuso nella sua stanza buia e curvo sulla scacchiera? Era curioso: in tutti i periodi di disordine, durante l’austrofascismo di Dollfuss e il nazionalsocialismo, se l’era immaginato sempre chiuso in una stanza buia, chino sulla scacchiera. Era stato un socialdemocratico, ma non aveva provato alcun senso di trionfo al crollo della monarchia e nel 1934 non aveva sparato sui militari fuori dal suo condominio, come invece aveva fatto il fratello. Era rimasto disoccupato e aveva vissuto sulle spalle della moglie, che faceva la donna delle pulizie in una fabbrica di matite. Aveva considerato il nazionalsocialismo con disgusto, a causa della sua potenza, ma anche con stupore, perché aveva trovato un lavoro. Taceva quando avrebbe dovuto rispondere e scrollava le spalle quando gli domandavano il perché. Dopo la guerra, durante la campagna elettorale, aveva fatto propaganda 94 per i socialdemocratici, aveva fatto portare con l’auto dei malati fino al seggio elettorale, era rimasto seduto davanti alla radio fino a notte inoltrata e aveva registrato i risultati nelle liste elettorali. Trent’anni dopo era stato dimenticato dal partito. Non una volta vennero deposti sulla sua tomba quei garofani rossi che di solito portava nell’asola della giacca il primo maggio. Anche il suo nome fu riportato sbagliato nell’annuncio funebre pubblicato sul Giornale dei Lavoratori Socialisti, come se fosse morto qualcun altro. Un sasso, gettato dalla guida, cadde sul terreno con un cupo rimbombo. Era una sensazione strana camminare sulla sottile crosta che ricopriva la terra ribollente. All’uscita la guida raccolse per Anna ramoscelli profumati di mirto ed erica. L’osservatorio era avvolto da vapori di zolfo nella spianata plumbea del cratere che, quanto più si allontanavano, tanto più appariva come la superficie gelata di un lago vulcanico. 95 XXIV Nella tromba delle scale c’era una donna che aveva appeso uno specchio da toletta sul pomello della balaustra e sotto vi aveva appoggiata la borsetta. Aveva capelli lunghi e neri e si stava truccando. Un giovanotto con i baffi le stette accanto per un momento e poi se ne andò senza dire una parola. Nagl aveva detto al portiere che sarebbero partiti la mattina seguente, e quando questo gli aveva chiesto per dove, aveva risposto Roma. Fuori diluviava. In Piazza Dante Alighieri si trovava la trattoria con le grosse pale del ventilatore sul soffitto. Nagl era affamato e, mentre era ancora nella camera d’albergo, aveva provato il desiderio di bere. Era ancora presto. Erano gli unici clienti del locale. Nagl bevve avidamente e cominciò a disturbarlo il fatto che Anna non facesse lo stesso. Si sentiva bene e cercava solo di destare in lei lo stesso benessere. Anna, però, gli gettò un’occhiata di disapprovazione per il suo comportamento. Tacque e continuò bere. Sempre più forte gli cresceva dentro la sensazione che lei lo stesse frodando del suo senso di benessere e della sua buona coscienza. Durante il pranzo si mise a litigare con Anna, interrogandola sui suoi amanti passati e spiegandole quali erano gli errori che in futuro, nei suoi rapporti con le donne, non avrebbe più commesso. Rimase 96 seduto così a lungo che la stanchezza lo fece quasi addormentare. La trattoria si era riempita di ospiti, ma non era ancora tardi. Tornarono in albergo. Se Anna aveva intenzione di lasciarlo, che se ne andasse. Sulla strada davanti all’albergo c’era una valigia di cartone rosso schiacciata, e Nagl le disse di prenderla e di andarsene. L’ultima cosa che vide fu come lei metteva ad asciugare l’ombrello aperto sopra l’armadio. Durante la notte si svegliò e scorse l’ombrello, che sembrava un fiore con l’enorme calice aperto. Si sentì minacciato da questa presenza, si alzò e lo ripose. Attraverso la finestra aperta del balcone sentiva il rumore della pioggia. Solo in quel momento si rese conto di essere ancora vestito. Si spogliò ed ebbe la sensazione di non significare più nulla per Anna. 97 XXV Alla mattina, quando si svegliò, prese due compresse di Alka-Selzer sciolte nell’acqua e, mentre beveva, pensò a come iniziare un discorso con Anna. Poteva interpretare la parte di chi solo molto lentamente ricorda cos’è successo, oppure poteva chiederle scusa, o non fare nulla del genere e limitarsi a dare delle spiegazioni brevi e svogliate alle sue rimostranze o alla sua espressione risentita, cercando di deviare il discorso verso cose decisamente più importanti. Si vestì e scese in strada. Entrò in uno studio fotografico che si trovava di fronte all’albergo e che aveva già notato dalla finestra. Un uomo con un camice da lavoro nero gli venne incontro, una donna stava seduta dietro ad una scrivania assolutamente sgombra. Era evidente che non avevano lavoro. Un paio di occhiali con una lente rotta era sullo scrittoio e attraverso la stanza era stata stesa una corda su cui erano puntate delle mollette. Il cavo del telefono era aggrovigliato artisticamente. Alle pareti erano appese fotografie con coppie di sposi irrigiditi in pose poco naturali davanti a palme o su ponticelli. Era un negozio triste. Nagl chiese che gli facessero una fotografia e, mentre la donna teneva il flash, il fotografo strisciò indaffarato sotto il panno nero. Dopo un’ora, durante la 98 quale Nagl rimase seduto nello studio, il fotografo gli portò sei copie della foto, sulle quali poté vedere il suo viso assente e con la barba lunga. Durante l’attesa aveva tenuto d’occhio l’ingresso dell’albergo, visibile attraverso le vetrine del fotografo. Anna non era uscita. Si era chiesto cosa lo attraesse in lei. Lo aveva eccitato, e questa era stata la cosa più importante. Il suo viso aveva qualcosa di innocente, e su questa innocenza la sua fantasia si era infiammata. Inoltre lei gli aveva fatto capire quanto lo amava. Era stato un impulso infantile, ma in seguito a Nagl era venuto il dubbio che lei lo avesse fatto per calcolo. Lei aveva accettato il suo atteggiamento di disinteresse e di intenzionale distanza. Altre volte gli aveva mostrato di soffrire. Tutto era stato molto convincente e forse era vero. Ma durante tutto il periodo della loro relazione lei aveva avuto segretamente altri uomini, con i quali aveva tentato di alleviare il proprio dolore. Per lui era stato diverso: lui aveva fatto l’amore con altre donne perché lo avevano eccitato o perché si era innamorato. Talvolta lo prendeva una specie di irrefrenabile entusiasmo dal quale gli derivavano, a lui che era una persona pigra, degli obblighi complessi. Poi cercava di districarsi trovando delle scuse e non riusciva più a capire cosa faceva per sua inclinazione e cosa per dovere. Pagò, chiese una busta in cui mise le fotografie e sulla quale scrisse il suo nome e il suo indirizzo, per poi infilarla in una cassetta delle lettere. Nella camera d’albergo i letti erano già disfatti. Gli asciugamani giacevano appallottolati sul 99 pavimento. Sentì Anna in bagno. Quando uscì, lei fece di tutto per mostrargli che era offesa. Se lui, consapevole della propria colpa, le si fosse avvicinato fingendo allegria, lei lo avrebbe respinto recitando la parte della donna profondamente ferita. Non disse nulla e uscì sul balcone. L’andirivieni che vide in strada lo annoiò. Si girò e vide Anna seduta sul materasso che guardava fisso davanti a sé. “Dobbiamo andare”, disse Nagl. “Cos’hai?” chiese Anna. “Se vuoi che torni indietro da sola me lo devi dire”. Nagl gettò un altro sguardo alla strada. “Non hai proprio alcun motivo per non rispondermi”, disse Anna. Poi, improvvisamente gli si gettò al collo e lo baciò. Lui la fece sdraiare sul materasso, la spogliò, la penetrò e cominciò a muoversi con estrema lentezza. I suoi capezzoli erano rosa e turgidi e lui li leccò con la punta della lingua. “Alzati”, le sussurrò. Lei si appoggiò al tavolo, si piegò in avanti e spinse in fuori il sedere candido. Era così carnoso che doveva tenere le gambe ben allargate. Si reggeva sulle punte dei piedi, i seni dondolavano e, poiché teneva la testa completamente piegata per potersi guardare tra le gambe, i capelli le scivolarono dalla nuca ondeggiando avanti e indietro al ritmo della testa. Si gettarono sul materasso. Il sedere di lei gli premeva ancora contro, ma le sue gambe erano chiuse. Gli venne in mente che la finestra del balcone era spalancata e il pensiero lo eccitò ancora di più. Gettò un’occhiata alla porta della camera e si rese conto che non l’avevano chiusa a chiave. Lo disse ad Anna e lei aspettò finché lui la chiuse e ritornò indietro. Ora giaceva tra le gambe di lei che gli si 100 avvolgevano intorno alla schiena. Lei si mise un dito nella fica solleticandogli il cazzo, mentre con l’altra mano gli accarezzava le natiche, pizzicandole leggermente. Il letto cigolava, si leccarono nelle orecchie, sulle spalle e quando Anna venne, lo morsicò sul collo. Un filo di saliva le colava dagli angoli della bocca, il suo cazzo era ancora in lei. Anna gli bisbigliò che lo amava e lui le restituì il sussurro. Quando era solo, era proprio di questi momenti che aveva nostalgia: dormire con una donna, giacere al suo fianco, percepire il suo calore. Spesso, quando era solo, gli era capitato di abbracciare una donna, anche se non gli piaceva in modo particolare. Sentì il suo cazzo scivolare fuori da lei. “Dobbiamo andare”, disse Nagl. “Ancora un momento”, rispose Anna assonnata. Aprì gli occhi, sbadigliò e rise. 101 XXVI Il crepuscolo calava sulle statue candide, i giardini verdi, le fontane e le chiese ricoperte d’oro. Sulla piazza davanti al monumento a Vittorio Emanuele II, bianco e terrazzato, alcuni monaci passeggiavano tenendo gli ombrelli e con i piedi bagnati infilati nei sandali. Lì vicino c’era un gruppo di anziani che raccoglievano firme per chissà quale causa. Per tutto il pomeriggio si erano lasciati portare in giro per Roma, viaggiando senza meta, a bordo di un bus a due piani color verde-chiaro, e passando davanti a case imbandierate da cartelloni che annunciavano Case occupate e da manifesti che proclamavano Basta con la rapina delle immobiliari del Vaticano! Case per i Lavoratori! Stettero per un po’ tra gli anziani, senza alcun motivo. Poi si avviarono verso la piazza dove erano parcheggiati i pullman, sui quali salivano sacerdoti vestiti di nero e con in testa cappelli dalle falde larghe. 102 XXVII Il viaggio in treno era stato estenuante. Erano appena entrati in uno scompartimento, quando un arabo basso che succhiava caramelle aspre aveva attaccato bottone domandandogli di che nazionalità fossero. Gli aveva offerto da fumare, raccontandogli che stava aspettando un suo amico. Questo era un algerino alto, slanciato e con i capelli ricci che indossava occhiali da sole ed era ubriaco. Avevano viaggiato attraverso il verde delle campagne e l’algerino aveva cercato di iniziare una conversazione con Anna. Quando aveva cominciato a farsi più vicino, lei si era seduta accanto a Nagl, al quale l’algerino si era allora rivolto parlando in francese. Con una mano si era toccato tra le gambe e aveva riso. Nagl aveva guardato fuori dal finestrino. Attraverso una vigna, i cui tralci sistemati a reticolo pendevano fra i tronchi, un contadino camminava con a fianco un cane zoppicante. Dopo un po’ aveva visto un bambino che faceva i suoi bisogni dietro delle carcasse di autobus. Ma per tutto il tempo Nagl aveva pensato a come doveva comportarsi con l’algerino. Tuttavia non era successo nient’altro. L’algerino si era addormentato e la sua testa dondolava in sincronia col movimento del treno. A Latina era salito un uomo corpulento, che si era messo a leggere il “Corriere della Sera” 103 divaricandone le pagine in modo tale da nascondere completamente sia il proprio viso, sia quello dell’algerino. Avevano trovato una pensione al quinto piano di una vecchia casa, all’angolo tra Piazza Esquilino e Via Cavour, con tappeti a fiori nei corridoi e un armadio davanti alla porta di comunicazione. Dalla finestra vedevano il cotto rosso e slavato dei tetti. La barba di Nagl era vecchia di alcuni giorni, i suoi capelli spettinati e il Burberry sgualcito. Avevano lasciato i loro bagagli sparsi alla rinfusa nella camera ed erano scesi in strada. 104 XXVIII Due monache sedevano all’interno di una piccola chiesa ricca d’oro e di marmi. Portavano gli occhiali e stavano leggendo. Avevano l’abito color guscio d’uovo e il velo bianco. Persone entravano dalla porta girevole, allungavano la mano verso l’acquasantiera, si segnavano, si sedevano su una delle sedie e tornavano a scomparire. Nagl se ne stava seduto lì assonnato meravigliandosi della sensazione di benessere che provava. Dieci anni prima aveva abbandonato la Chiesa1. Quando si trovava in uno stato di grande difficoltà, allora pensava a Dio. Aveva anche pregato, quando si trattava di qualcosa di importante per lui, ma non appena il momento era passato si era dimenticato di tutto. Talvolta l’esistenza di Dio era la sua unica speranza. Quando dolore e solitudine l’avevano spinto a parlare con Dio, non aveva dubitato della sua presenza. Ma quando invece vivacchiava nella monotonia, le ore passavano e lui non riusciva neppure a percepirsi, allora l’esistenza di Dio gli appariva poco probabile. Talvolta, però, sentiva che doveva __________ 1 In Austria i battezzati sono obbligati a pagare una tassa alle rispettive chiese di appartenenza (Cattolica, Evangelica ecc.). Chi vuole uscire dalla propria chiesa e, di conseguenza, essere esentato dal pagare la tassa deve fare una dichiarazione scritta che vale come documento ufficiale. 105 esserci. Per suo tramite tutto assumeva un significato palese, non era più soltanto evidente, ma diventava coerente. Spesso, acquattato nelle stanze buie della sua capanna nel vigneto, aveva puntato il fucile ad aria compressa verso uomini, cani, gatti, polli, cornacchie. Di tanto in tanto gli era venuto il pensiero di sparare veramente. Gli sarebbe sembrata una liberazione. A scuola, in certi momenti di furore cieco e senza senso, interrogava i bambini sulla loro famiglia, per calmarsi. Solo raramente aveva avuto, senza alcuna ragione particolare, la sensazione che esistesse un Dio. Se ne era rimasto seduto lì tranquillo, i contadini avevano piantato il mais, lo avevano mietuto, avevano messo l’erba a seccare, raccolto il ribes, le foglie di un albero avevano brillato alla luce del sole, a scuola i bambini, con le labbra contratte, avevano imparato una nuova lettera e tutto questo aveva emanato una forza tale da conferirgli sicurezza. In un angolo sedeva un uomo con la barba, rise, scattò in piedi e uscì di chiesa. Nagl lo seguì con curiosità, aprì la porta e lo vide mendicare accoccolato su uno dei gradini. In un negozio di fronte alla chiesa vide diversi coltelli a serramanico e a scatto. Senza rifletterci ne comprò uno a scatto con l’impugnatura d’avorio e, mentre camminava, continuò a tastarlo, con la mano infilata nella tasca della giacca. 106 XXIX Donne attraenti, con stivali di pelle chiara e soffici mantelli di pelliccia, passavano davanti a loro avvolte in nuvole di profumo. Si erano seduti in un bar, Anna mangiava e Nagl le sedeva di fronte. “Non vuoi mangiare?”. “No”. “Almeno uno spuntino”. “Non ho fame”. Nagl tirò fuori il coltello un paio di volte, lo mise sul tavolo e lasciò che la lama scattasse, ma Anna non volle saperne. “Una volta mi hai raccontato delle donne che per strada segui con lo sguardo, cercando di immaginarti come sarebbe far l’amore con loro”, disse Anna improvvisamente. Lui non si ricordava più di averglielo raccontato e non disse nulla. Anna chiese un taxi, che arrivò solo due ore dopo e intanto Nagl fece in tempo ad ubriacarsi. Alla pensione Anna disse che era stanca. I collant e il reggiseno penzolavano dalla spalliera della poltrona. Nagl abbracciò il suo corpo caldo e la baciò, ma Anna gli disse di lasciarla dormire. 107 XXX La mattina Anna buttò via le coperte e gli prese il membro in bocca. Lui fece finta di essere ancora addormentato, si sentiva stanco, ma era piacevole starsene sdraiato sul letto e spiare con gli occhi socchiusi come lei glielo succhiava e come tutto ciò la eccitava. Anna si alzò, raccolse i capelli dietro la testa e si truccò davanti allo specchio. I capelli, non abituati ad essere sistemati in quel modo, lentamente le ricaddero sul viso. Si accoccolò sul bidè e incominciò a lavarsi. Nagl osservò le sue belle mani con le unghie laccate di rosso strofinare le grandi labbra e accarezzare l’interno delle cosce. Il viso di lei irradiava una gioia spontanea. Nagl si alzò, le si mise davanti e lasciò che lei gli insaponasse il membro. Lo fece con un’espressione assente, gli occhi chiusi e un’eccitante delicatezza. Lui si lavò il membro eretto con acqua fredda e si sedette su una sedia davanti al bidè. Aveva lo stimolo di urinare, ma sentì solo un crampo bruciante quando cercò di farlo. Chiuse gli occhi, pensò a qualcos’altro, ma non funzionò. Allora le infilò un dito nella fica, aspettò e, contemporaneamente, percepì che anche lei stava aspettando. Finalmente pisciò, dolorosamente e a intermittenza, e sentì la sua urina colpire la vulva di lei. Le pisciava addosso e improvvisamente avvertì che anche lei 108 stava pisciando. Anna sedeva sul bidè con le gambe divaricate, le loro ginocchia si toccavano e lei si lasciò andare all’indietro. Nagl aspettò che anche lei finisse, la sollevò, la stese sul letto e le si sdraiò a fianco in modo tale che le gambe di lei appoggiassero sulle sue cosce. Poi il suo cazzo le scomparì dentro. Anna cominciò a strofinarsi il clitoride e Nagl le raccontò di come aveva fatto l’amore con una donna in macchina, di come le aveva messo dentro il suo cazzo e, dopo averlo tirato fuori, di come l’aveva leccata. In quel momento Anna emise un gemito così forte che lui fu costretto a tapparle la bocca. Lei si mise a sedere e gli leccò i capezzoli. Nagl le stava davanti con il cazzo eretto, guardava il suo bel viso e la sua lingua sottile che freneticamente gli leccava i capezzoli. Poi lei lo fece sdraiare bocconi. Gli leccò i glutei, facendogli rizzare i peli delle braccia, poi gli leccò la schiena, salì fino al collo e da lì passò alle spalle e sotto il braccio. Singole gocce di sudore gli colavano sul viso. Aveva la nausea per il troppo bere e rimase sdraiato, nudo e immobile, con gli occhi chiusi. 109 XXXI Al piano superiore dell’autobus verde chiaro si sentì male. Dovette scendere e, all’aria fresca, aspettare che ne arrivasse un altro. Anche sull’autobus successivo si sentì male, respirava faticosamente, avvertiva un dolore sotto lo sterno e una forza invisibile sembrava comprimergli il collo. Era lo stesso senso di oppressione che aveva sentito in treno, quando si era svegliato e aveva visto l’uomo. Insieme ad Anna si sedette davanti ad una colonna, nell’immensità circolare di Piazza San Pietro. Più avanti stava seduto un uomo con un cappello chiaro a fascia nera, occhiali neri con la montatura in corno e un ombrello pieghevole. Lo scrutava con interesse. Nagl era pallido, faceva respiri profondi, si alzò in piedi e vide quanto era grande il cielo, nerissimo sopra di loro. C’erano nuvole cariche di pioggia che quanto più lo sguardo si perdeva in lontananza, tanto più diventavano scure. Non volavano tutte allo stesso livello, ma straripavano una nell’altra come fumo denso. Sulle cime degli edifici le statue candide dei santi si stagliavano come macchie luminose contro il cielo scuro. Stavano una vicino all’altra e Nagl, per riuscire a vederle, dovette sollevare la testa. Pensò al funerale del veterinario e ai bambini che vi avevano assistito come ipnotizzati. I bambini sapevano 110 molte cose, pensò. Vedevano come gli animali venivano uccisi perché c’era bisogno di cibo, lavoravano in casa, in cascina, nei campi, vedevano come un temporale rendeva vane tutte le fatiche, vedevano uomini morire e dormivano coi morti sotto lo stesso tetto. Quando faceva caldo, il sangue scorreva dal naso dei morti, le mosche correvano sui volti di cera di vecchie nonne e vecchi nonni. Fuori il lavoro continuava. I padri tornavano a casa ubriachi, si sentiva quando stavano a letto con le madri. E lui doveva comportarsi come se non lo sapesse, come se non lo riguardasse tutto ciò, doveva rappresentare una normalità che non c’era per niente. Doveva comportarsi come se esistesse solo quell’inesistente normalità. Anna gli accarezzò i capelli e lui le prese la mano. Nagl percepiva con forza quanto la vita fosse ricca, anche quando aveva l’impressione che niente avesse a che fare con lui. Gli venne in mente come, al porto commerciale di Napoli, si era messo a sedere su una sedia, pieno d’ira e col naso gonfio. Allungò la mano verso il naso e sentì ancora dolore. 111 XXXII La basilica gli fece una tale impressione che non pensò più al suo corpo. Le pareti e le decorazioni erano fatte di marmi neri, verdi, gialli e grigi, piene di mosaici d’oro e di stuccature. Al posto del cielo splendeva un soffitto d’oro e in lontananza si ergeva, in mezzo a quattro possenti colonne, un altare. Nagl entrò in una cappella laterale e lì, in una bara di vetro, era deposta la salma di un papa, tutta rivestita d’oro e di velluto rosso. Sembrava che respirasse. Fu il pensiero più banale che gli passò per la testa. Anna guardò il papa morto con stupore, ma Nagl avvertì così intensamente la propria caducità che non riuscì a proseguire. Gli tornarono in mente la luminosa terra blu zaffiro e il suo girare nello spazio, il cratere del Vesuvio nel quale aveva guardato come se si trattasse di una stella sconosciuta, Anna che si era insaponata seduta sul bidè e il gendarme che si era sparato in mano. Sentì ora nuovamente tutto quello che aveva provato quando, con Anna, aveva viaggiato in treno e aveva pensato alla fine del mondo, quando il ricordo lo aveva torturato e il presente tormentato. E poi, durante la notte, lo sconosciuto era venuto da lui nello scompartimento e aveva rovistato nella sua giacca, senza prendergli nulla. Anna aveva proseguito e si era 112 inginocchiata in un confessionale. Si chiese cosa volesse confessare. La vita gli sembrava così piena di sofferenze, che era già faticoso viverla senza dover anche rinunciare a se stessi. Un po’ più avanti vide papa Iosophat che giaceva in uno scrigno di vetro, il suo cranio era imputridito fino all’osso e il viso era coperto da una reticella che lasciava intravedere la forma del teschio. Ma più avanti, sull’altare, brillava una vetrata color miele con una colomba bianca, come a voler attenuare il suo stupore. 113 XXXIII Camminava per la basilica risplendente di marmi. Foglie d’oro e fiori decoravano le colonne di bronzo dell’altare maggiore e la cupola sopra il baldacchino rosso sembrava essere un’enorme finestra aperta sul cosmo violetto. Nagl guardò oltre le stelle dorate, verso altezze vertiginose. Salì sul tetto della basilica e lì le nuvole gonfie di pioggia erano così vicine che credette di poterle toccare. Il sole splendeva e illuminava i santi giganteschi, tra i quali ora guardava la città sottostante. La scala a spirale che portava alla cupola era stretta e le pareti color ruggine erano scarabocchiate di nomi. Attraverso un’apertura arrivarono ad un balcone che internamente correva lungo tutto il perimetro della volta. Gli uomini sotto di lui sembravano così piccoli che a Nagl venne un capogiro. Fece un passo indietro, toccò con entrambe le mani le tessere blu e oro del mosaico, che da sotto avevano brillato in modo così meraviglioso, e uscì di nuovo sulla scala stretta e ripida. Le gambe gli dolevano mentre si inerpicava intorno alla sfericità della cupola, poi furono all’aria aperta. Sotto di loro c’erano le nuvole cariche di pioggia e attraverso di esse videro le bianche figure dei santi. 114 XXXIV Nagl era esausto e si sentiva malato. Pensò a come sarebbe stato se fosse tornato in Austria. Riusciva solo ad allontanare da sé quel pensiero, senza trovare una soluzione. Voleva lasciarsi andare, ma non gli riuscì. Pensò a come si era sentito stupido quando, da bambino, andava a scuola. Aveva imparato a far di conto e a scrivere come un automa, senza sapere il perché. Aveva sentito solo una ineludibile coercizione, una mancanza di via d’uscita davanti alla quale era ammutolito. “Non ha alcun senso”, aveva pensato spesso quando si era arreso, come se ciò che veniva dopo avesse avuto un senso maggiore. Aveva educato i bambini a passare inosservati e a rimanere in silenzio, perché credeva che questa fosse la cosa migliore per loro. Naturalmente i bambini dovevano essere allegri. In verità avevano imparato ad adattarsi e a simulare, l’arte di celarsi e quella di mettersi in mostra. Quelli che non l’avevano imparato erano rimasti indietro. Due chierichetti addobbati con paramenti bianchi e neri, tenendo un’acquasantiera, alzarono l’orlo delle vesti mentre salivano le scalinate della basilica, come donne pudiche. Nagl li seguì con lo sguardo. Gli mancava qualcosa, ma non ne aveva mai parlato. Anche gli altri non si lamentavano. Anna l’ave115 va preceduto e da un venditore ambulante e si era comprata un gelato, col quale gli venne incontro ridendo. 116 XXXV Da lontano videro gli angeli di pietra su Ponte Sant’Angelo. Era mezzogiorno e la luce si rifletteva sul Tevere che scorreva lento e marrone. Davanti al ponte c’era una nave malandata con sopra una casa di legno e una veranda. Sul fiume, ingorgato di mulinelli, si ergevano gli angeli bianchi e stupendi con le loro ali grandi e le vesti a pieghe, come esseri venuti da un gelido pianeta inondato di luce. Nella violenta luminosità del sole, che penetrava attraverso le nuvole gonfie di pioggia dando l’impressione di irradiarsi da loro, c’era la lontananza di un’aurora boreale che dava all’acqua sottostante un luccichio argenteo. Nagl scese lungo il fiume e da lì gli angeli gli volsero la schiena. Anna era seduta su un gradino e stendeva le gambe doloranti. Anche le gambe di Nagl dolevano. Era colmo della pesantezza della terra e gli tornò in mente la storia che gli aveva raccontato suo nonno a proposito della morte del fratello. Era morto di crampi. Due giorni era rimasto composto nella bara in una stanza completamente svuotata, col pavimento di legno strofinato a lucido. Il sole splendeva su di lui attraverso la finestra e il suo volto sembrava quello di uno sconosciuto. La madre gli aveva mostrato l’immagine di un angelo e gli aveva detto che suo fra117 tello era diventato un angelo. Dopo due giorni avevano sistemato il fratello in una cassa e, portandoselo dietro, erano andati sul Bosforo, fino a Büjükdere. Sul Bosforo navigavano sempre grosse navi, enormi vapori, dietro ai quali le onde si infrangevano sulla casa. Il padre, dopo il suo ritorno, era rimasto seduto davanti alla casa finché non era diventato buio e i fratelli avevano parlato sottovoce. La sera successiva qualcosa aveva colpito le grandi persiane della finestra. Lui le aveva chiuse, perché aveva pensato che qualcuno fuori di casa lo stesse chiamando e il rumore del mare lo coprisse, e allora qualcosa era volato via dalla finestra. Aveva guardato, ma non aveva visto più nulla. Probabilmente era stato un gabbiano, aveva pensato in seguito. Ma allora aveva pensato che fosse suo fratello. 118 XXXVI Si erano seduti su una panchina lungo il fiume, sotto degli alberi spelacchiati. Era stanco e pensò ai morti. Per riuscire a trovare lavoro il bisnonno era andato fino a Wies, da Köflach fino a Vordersdorf, da Voitsberg fino a Moosbrunn, da lì fino a Reifnig. A Köflach aveva sposato una donna di Schneegattern, nell’Alta Austria. Il matrimonio era stato una nuova speranza, un breve emergere dallo stato di torpore. Alla fine dell’estate si era trasferito a Pirano e poi a Istanbul, per lavorare come soffiatore di vetro in una fabbrica italiana. La vita era stata il lavoro. Il nonno era venuto al mondo sul Bosforo, sulla costa dell’Asia Minore e, senza saperlo, aveva sempre guardato all’Europa. Quando il suo sguardo spaziava per il Bosforo, credeva di vedere il mondo intero. In esso era racchiuso tutto, evidente e recondito. Navi enormi passavano trasportando uomini stranieri e davanti alla casa venivano portati a riva pesci e molluschi. Anche il sapere degli uomini sembrava venire dal Bosforo. Talvolta la madre lo aveva mandato da un molatore di vetro che istruiva i bambini. Lui aveva guardato fuori dalla finestra che dava sul Bosforo e, poiché non aveva capito più nulla, gli si era creata una relazione meravi119 gliosa tra il Bosforo e i numeri e le lettere che comparivano sulla lavagna della scuola. Poi il bisnonno aveva voluto tornare nel mondo. Il mondo era stato in primo luogo l’estero e poi la monarchia austriaca. Non aveva tempo. Cercava la speranza come un amante infedele di cui era succube e che ininterrottamente lo tradiva e lo abbandonava. A Trieste faceva freddo. La nuova speranza, la vita, il mondo avevano, per il nonno, il sapore del freddo. Ghiaccioli pendevano dalle navi. Per la prima volta vide la neve. L’appartamento era umido e buio, solo le navi nel porto erano messaggere di speranza. Il bisnonno si trasferì a Reifnig e, poiché lì non riusciva a mantenere la sua famiglia, a Vordersdorf, a Köflach, indietro fino a Moosbrunn e poi fino a Osredek e Salgotarjan. Come era strano, per Nagl, starsene seduto sulla riva del Tevere e pensare alla vita dei morti. Ora percepiva gli angeli in lontananza come ombre buie davanti al sole. Il fatto insolito era che gli angeli di pietra erano più reali di ciò che pensava. Questo era passato, come se non fosse mai esistito. Con i morti erano svanite le sofferenze, gli uomini avevano vissuto rassegnandosi alla propria vita. 120 XXXVII Il senso di oppressione al petto gli era scomparso e quando passarono davanti ad un negozio di articoli religiosi si ricordò che avevano dimenticato a Napoli il cappello da vedova di Anna. All’interno del negozio abiti talari, mitre vescovili e cappelli da prete erano appesi agli attaccapanni. Il proprietario uscì dal negozio senza dire una parola e con un dito indicò il cielo. Istintivamente Nagl alzò lo sguardo e vide passare sopra le case uno stormo di migliaia e migliaia di uccelli canori. L’uomo che era uscito dal negozio era secco, alto e curvo e dal braccio gli pendeva una veste sacerdotale a cui stava lavorando. Si sistemò gli occhiali e stette per qualche minuto con lo sguardo fisso in alto verso gli uccelli che, simili a sciami di locuste, volavano sopra la città. Quando Nagl distolse lo sguardo l’uomo secco alzò il dito. Non si sentiva il battito delle ali degli uccelli né tantomeno il loro verso, tanto volavano alti. Sparirono dietro le case, dove le nuvole cariche di pioggia erano più basse, e l’uomo con la veste talare salutò con un cenno del capo e si ritirò di nuovo all’interno del negozio. In Piazza Navona i bambini schiamazzavano tra le case color tè, verde oliva e marrone iodato e le fontane bianche. Una ragazza carina con un vestito giallo e un cappello a fiori sedeva all’aper121 to davanti ad un Caffè, tra persone che guardavano e camerieri che portavano con grande abilità vassoi carichi di caffè e di grappe. Sembrava primavera. Se ne stettero lì seduti finché non fece buio. Nagl provò la solita eccitazione quando Anna cominciò a bisbigliargli frasi oscene all’orecchio. Gli aveva raccontato di un amante che aveva preteso da lei che dicesse parole sconce. Mentre facevano l’amore, lui le aveva sillabato le parole e lei le aveva ripetute fino a non vergognarsene più. Aveva raccontato spesso a Nagl di lui e all’inizio questo lo aveva fatto soffrire, ma in seguito lui stesso aveva preteso, quando facevano l’amore, che gliene parlasse. Nagl taceva e rideva. Nella camera d’albergo fece sedere Anna con la schiena verso di sé e lasciò che si dondolasse su e giù sul suo cazzo. Vedeva le gambe di lei, giù fino alle scarpe vicine alle sue cosce. Il vestito le scivolò sul sedere, lui lo arrotolò in alto e glielo fissò alla cintura di stoffa. Le aprì la camicetta e tirò i capezzoli. Visti di lato i suoi seni apparivano bianchi e insolitamente deformati. Lei gli graffiò le cosce, si aggrappò alle sue ginocchia e si piegò in avanti per vedere il cazzo di lui che le spariva nella fica. Nagl la prese per i capelli, lentamente la scansò da sé, le si mise sopra e le spinse il cazzo in bocca. Quando si girava all’indietro, poteva vedere come lei si sfregasse il clitoride, davanti vedeva il suo cazzo entrarle e uscirle dalla bocca. Subito dopo lei venne e distese le gambe in aria, con una smorfia di dolore e gli occhi serrati. Sdraiati sul letto le loro lingue si leccarono. Le aveva infilato un dito nel culo e lei gettava la testa avanti e indietro. Poco dopo si sentì picchiare 122 alla parete. Nagl dovette tapparle la bocca, rimasero in ascolto, ma non ci fu che silenzio. Fece appoggiare la testa di Anna sulla sua spalla e si mise ad osservare il soffitto, mentre Anna gli si aggrappava con energica tenerezza. Mentre dormivano Anna gli si spinse contro, allora lui la svegliò e lei si girò su un fianco, per tornare subito dopo a stringerglisi teneramente addosso. Improvvisamente – non sapeva come e perché – iniziò a piangere. Il suo viso era stravolto e le lacrime gli correvano sulle guance. Piangeva silenziosamente, solo di quando in quando un sospiro gli sfuggiva dal petto. Ora provava una sensazione così forte di commiato. Pensò che non avrebbe più rivisto i bambini a scuola. Anche Anna lo avrebbe lasciato. Era come in treno, quando aveva avuto la sensazione di essere caduto fuori dal mondo. La terra nell’universo non dava alcuna consolazione. Solo la disperazione superata nel passato lo consolava. Sarebbe tornato a vivere e a dimenticare, qualche volta avrebbe ricordato, ma i ricordi non gli avrebbero fatto del male. 123 XXXVIII Al mattino Nagl fu svegliato da forti urla provenienti dalla strada. Mentre andava alla finestra gli venne in mente di aver pianto durante la notte e si lavò il viso. In mezzo alla strada stava accoccolata una giovane donna. Aveva in bocca un lembo del soprabito e gridava. Con le mani si era sollevata il vestito e si era tirata le mutande sul ventre in modo tale che sembrava fosse nuda e stesse facendo i suoi bisogni. I passanti non la degnavano di uno sguardo, solo le macchine rallentavano. Alcuni poliziotti attraversarono la strada correndo e portarono via la donna, caricandola su una jeep. Quando Nagl fece scendere la tenda, Anna era in piedi, accanto a lui. Il sole filtrava nella stanza attraverso le tende abbassate e, improvvisamente, Anna gli chiese se durante la notte avesse pianto. “Mi è sembrato che tu piangessi”, disse lei. “Ero stanca e già quasi addormentata, quando ho sentito un rumore, come se qualcuno piangesse. Ma ero troppo debole per riuscire a svegliarmi” “Devo aver sognato”, rispose Nagl. 124 XXXIX Si sentiva stanco, indifferente e si abbandonò completamente all’iniziativa di Anna. Passeggiarono nel parco di Villa Borghese. Prima attraversarono Piazza del Popolo con le sue sfingi accovacciate e le sue statue bianche, poi passarono davanti a leoni di pietra e ad alberi verdeggianti e arrivarono ad una piazza immersa nella luce chiara del mattino, orlata di pini e di palme. Bambini correvano sulla ghiaia e andavano sulla giostra, mentre i loro nonni, con cappelli ed occhiali, stavano al sole oppure vicino alle carrozzine messe al riparo sotto alberi fioriti di rosa. Dopo un po’ camminarono lungo un viale, fiancheggiato da alberi macchiati di grigio elefante, tra i quali erano collocati busti bianchi e panchine verdi. Su un leone di pietra sedevano dei bambini che gli infilavano le mani nelle fauci spalancate, nelle narici e nelle orecchie. Cavalli con cavalieri dallo sguardo annoiato li superarono cagando sulla strada. A mezzogiorno si sedettero nella veranda chiusa da vetrate del “Caffè Doney”, in mezzo a sedie blu vuote. Sulla tovaglia color pesca c’erano aperitivi con cubetti di ghiaccio. Nagl pensò che era inverno. Le verande che davano su Via Veneto erano vuote. Per la prima volta Nagl ebbe la sensazione di avere tempo. Si propose 125 di continuare a viaggiare. Non sapeva dove sarebbe andato. Pensò di andare in Sicilia, a Catania o a Messina. Poi gli venne l’idea di andare a Firenze o a Venezia. In fondo non aveva importanza dove andare. Sulle bancarelle fiorivano anemoni, gladioli, tulipani e rose. Anna si era fermata davanti ad un negozio di guanti e ne contemplava i modelli rossi, blu scuro, neri e bianchi, in pelle di camoscio o liscia con inserti decorativi. Nel vestibolo di una chiesetta, una suora vestita di nero e seduta su una panca cuciva una camicia da ospedale a righe. Dalle cappelle laterali la luce del sole filtrava su affreschi blu e dorati. Nagl accese una candela per i morti a cui aveva pensato. Molti di loro li aveva conosciuti. Una prozia dai capelli neri che alle serate folcloristiche cantava gli jodel. Una volta aveva cantato lo jodel alla radio e i fratelli avevano parlato di lei pieni di ammirazione. Nagl aveva visto una foto nella quale la si vedeva, con indosso il costume regionale, posare con un gruppo folcloristico: aveva intrecciato delle stelle alpine finte tra i capelli e sedeva vicino ad un suonatore di cetra che fissava l’apparecchio fotografico con un’espressione serissima. E un fratello, che fino al suo settantacinquesimo anno aveva soffiato il vetro, che parlava lentamente e che gli aveva lasciato in eredità una bicicletta. Aveva delle braccia potenti ed era un uomo serio, che cantava ai funerali. Quando parlava della morte di suo padre gli venivano le lacrime agli occhi. A causa della cateratta era diventato quasi completamente cieco, ma fino all’ultimo era stato costretto a lavorare nella 126 vetreria, occupandosi di faccende umili. Era morto di tubercolosi e il medico, come referto sul certificato di morte, aveva scritto ‘consunzione’. In quel periodo il nonno stesso stava rincorrendo il lavoro. Da Graz a Vösendorf, da Vösendorf a Meissen, da Meissen a Torgau, più lontano fino a Francoforte sull’Oder, Fürstenwalde e Berlino. Nelle locande lo spidocchiavano e gli controllavano il libretto di lavoro. Proseguì oltre, da Berlino a Dresda, da Dresda ad Aussig, da Aussig a Praga e Brünn e poi di nuovo a casa, a Grafenschlag-Ottenschlag e Mariazell. Nel 1910, poi, aveva preso la decisione di emigrare in America. Non riuscirono a trovare subito il modo di uscire dalla chiesa, perché l’entrata principale era sbarrata. Provarono con diverse porte, finché furono all’aperto nella luce del sole, su un gradino di pietra bianca, in mezzo a case dagli intonaci ocra o tabacco. Un dalmata sonnecchiava sdraiato davanti alla chiesa. Una donna stava in piedi accanto a lui e gli parlava, ma il cane non si muoveva. Anna voleva accarezzare il cane e attaccare bottone con la donna, ma Nagl non voleva fermarsi. Tornarono in albergo e passarono il resto del giorno dormendo. 127 XL Erano le sei quando Nagl si svegliò. Guardò dalla finestra, sotto di lui c’era via Cavour. La strada era chiusa e dalla stazione si snodava una dimostrazione diretta verso il centro. Anna volle andare in strada e scesero in ascensore insieme ad un cameriere terrorizzato che aveva appena portato il caffè in un ufficio. Nagl si guardò allo specchio, vide il suo viso non rasato, i capelli in disordine, il soprabito sudicio. In strada passava una folla di gente. Poliziotti muniti di manganelli, elmetti d’acciaio e scudi stavano imperturbabili tutt’intorno. Improvvisamente volò un sampietrino, rotolò tra le ruote di una camionetta della celere e lì si fermò. Come rispondendo a un segnale, i poliziotti si gettarono sui dimostranti, mentre da diverse parti volarono altri sampietrini e gas lacrimogeni si diffusero sulla carreggiata. I dimostranti si erano ritirati sul marciapiede, dietro gli alberi e nelle vie laterali, e Nagl credette che la manifestazione avrebbe cominciato a disperdersi, quando un’automobile prese fuoco e si udirono dei colpi. Nello stesso istante vide come una giovane donna veniva trasportata verso di loro. Era bionda, sui diciotto o diciannove anni. Aveva gli occhi sbarrati e del sangue scuro le riempiva la bocca. Non appena gli uomini che l’avevano trasportata la lasciarono cadere, le si allargò una pozza di sangue davanti 128 alla bocca. Uno dei giovani uomini gli rivolse la parola, Nagl non lo capì, ma alla fine comprese che voleva nascondersi. Presero l’ascensore per la pensione. Da lì guardarono sulla strada: la ragazza giaceva in un lago di sangue, un funzionario di polizia e un infermiere le si erano inginocchiati accanto. L’auto bruciava, uomini isolati correvano sulla carreggiata, lanciavano sampietrini e venivano bastonati con sfollagente di gomma. Dall’alto sembravano piccoli e senza paura. Lentamente ripiegarono, inseguiti dalla polizia. La giovane donna era ancora a terra, davanti alla casa. La pozza di sangue era nera, le sue braccia erano piegate in modo strano. Un poliziotto la coprì con della carta da pacchi che fermò con dei sampietrini. A Nagl era capitato una volta di vedere un uomo morire per strada. Era stato investito da un’auto, aveva fatto un bel volo ed era rimasto a terra con l’osso del collo spezzato. Era un uomo sulla sessantina, pelato e con gli occhiali. Gli occhiali giacevano rotti sul marciapiede. La sua testa era piccola, insanguinata e pendeva lontana dal corpo, come quella di un pollo morto, mentre del sangue nero le si allargava intorno. L’uomo nella stanza era alto e con i capelli scuri, aveva il viso pallido e sudava. Parlava un tedesco stentato. Lui e Nagl guardarono insieme la ragazza morta in strada. Dall’auto si alzava del fumo, la carreggiata era disseminata di sampietrini divelti. L’uomo spiò cosa facevano alla ragazza. “Improvvisamente si è afflosciata a terra”, disse. Subito dopo si rese conto che si trovava in un ambiente estraneo, e diede la mano a Nagl e a Anna. Disse che studiava zoologia e botanica, ma dal suo tono sembrava che questo non significasse nulla per lui. 129 XLI Nagl spiava ancora tra le tende, guardando la ragazza morta coperta con la carta: si ricordò della donna che la mattina, in strada, si era messa a urlare e degli uccelli che avevano volato sopra i tetti. L’America era stata il sogno del nonno, la fuga dall’autodistruzione, dall’assurdità di dover vivere giorno per giorno. L’America era diventata speranza di pace. Si era creato un’immagine della nuova vita in America, alla quale pensava sempre: lui, minuscolo, che camminava sotto il sole alto nel cielo immenso. Partì per raggiungere quest’immagine. In America ci sarebbe stato del buon lavoro. Non pensava di diventare ricco, ma davanti alla gran quantità di lavoro non avrebbe percepito più nulla. Aveva lavorato, mangiato, dormito e, qualche volta, la domenica mattina, aveva ballato. Forse Nagl pensava così tanto a suo nonno proprio a causa del viaggio in America. Improvvisamente era partito. Aveva venduto tutto quello che possedeva per poter raggiungere in treno il porto di Brema. Qui aveva trovato di nuovo le navi e gli stranieri, come sul Bosforo. Non aveva neanche un soldo in tasca. In uno zaino teneva del tabacco, una camicia, mutande, un pettine, un coltello da tasca e una fotografia che lo ritraeva insieme ad un lavoratore girovago: il nonno se ne 130 stava seduto con il viso paffuto, ben rasato, il berretto e un fiore all’occhiello, l’altro portava un cappello floscio scuro e aveva una catena di monete d’argento intorno alla vita. Di notte si era nascosto nel deposito di carbone della “Martha Blumenfeld”, che salpava per l’America. Era rimasto acquattato nel buio soffocante e aveva aspettato. Doveva stare attento ad uscire dal deposito al momento giusto per non venire sepolto dal carbone scosso dal mare mosso. Se ne stava lì, minuscolo, tra le montagne di carbone. Ma la “Martha Blumenfeld” era salpata per Cardiff e il sole era tramontato nella prateria senza che il nonno lo avesse mai visto. Durante la notte Nagl sognò di essere bambino e di nuotare in mare. Il mare era immenso e senza fine. Provava una sensazione sempre più intensa di freddo, ma nuotava verso una grossa nave. Quanto più si avvicinava, tanto più si sentiva inquieto. La chiglia della nave pescava profondamente nel mare. Sotto la superficie dell’acqua era verde di alghe e sopra si ergeva così alta verso il cielo che rabbrividì. Anna si svegliò, accese la luce e Nagl, con gli occhi socchiusi, la vide accoccolata sul bidè che pisciava. Stava seduta sul bidè di porcellana, immersa nella luce gialla e sporca, con il suo corpo bianco, i peli neri del pube, i seni da ragazzina e i bei capelli lunghi e lui sentiva il rumore della piscia. Più tardi fece sogni disordinati e al mattino, confortato dalla luce del giorno, abbracciò Anna che gli si era stretta addosso e il cui corpo caldo e morbido aveva percepito già da un po’ di tempo. Non dissero nulla, solo si strinsero e si accarezzarono. 131 XLII Via Cavour era ripulita da sampietrini, volantini e striscioni. Là dove era stato il corpo della ragazza morta, vide della segatura. Il relitto dell’automobile bruciata era stato spostato sul margine, sull’asfalto era ancora visibile una grande macchia nera. Sentì le campane suonare, era domenica. Davanti alla basilica di San Pietro andavano a zonzo marinai, poliziotti e militari. L’interno della basilica era tranquillo, come se non fosse successo nulla. Gettarono lo sguardo in una cappella laterale, dove stavano seduti preti calvi che indossavano abiti talari bianchi e neri a punta e che cantavano, estranei al mondo. Un vegliardo si diresse verso di loro brancicando con un bastone da passeggio e tenendo in mano il cappello. Premeva contro di sé la mano con il bastone ed il cappello e tendeva a Nagl l’altra mano aperta. Non li guardava, si limitava a rimanere in piedi senza muoversi e senza parlare. Nagl gli diede dei soldi, il vegliardo lo guardò negli occhi e andò via con passo incerto. Nagl pensò al treno che correva, alla carrozza letto, all’uomo nello scompartimento. Aveva l’impressione che lo stesse seguendo dall’inizio del viaggio. Solamente fuori, all’aria aperta, riuscì a pensare a qualcosa d’altro. Le statue dei santi sugli apici non lo interessavano più. Le monache e i 132 preti lo disturbavano. Gli sembrava che nascondessero tutto. Soffiava un vento teso e faceva freddo. Da una finestra dei palazzi pontifici, molto lontano dagli uomini, apparve il papa. Uno stendardo rosso scuro si agitava sotto la finestra, venne scosso con forza dal vento e s’infilò tra le imposte della finestra. Il papa parlò con tono lamentoso di uomo vecchio e triste. Nella sua veste candida e con lo zucchetto bianco allargò le braccia e benedisse gli uomini sotto di lui, poi sparì, lento e pesante, nella sua stanza e un prete tirò con forza e a lungo lo stendardo, finché non riuscì a trascinarlo dentro la finestra. In un ristorante freddo e luminoso, che sembrava una gelateria, una giovane donna tagliava delle tagliatelle da fogli di impasto. Guardarono la donna e aspettarono di essere serviti. La donna batteva i fogli di impasto dello spessore di una tovaglia, vi spargeva sopra della farina e ricominciava a lavorarli. Il personale mangiava in silenzio e compassato a un tavolo laterale. Su una lunga lavagna Nagl vide segnati i piatti di carne, di pesce e di verdure. Gli fu portato il vino e bevve con tale avidità che nel versarlo lo sparse. La macchia sulla tovaglia, però, gli apparve bella: era di un rosso smorto, come una rossa macchia d’inchiostro su un quaderno di scuola. Quanto più Nagl beveva, tanto più diventava malinconico. Pensò alla partenza e cominciò a parlare di commiato. Improvvisamente Anna pianse. Lacrime le rigarono le guance, non disse nulla e non contrasse il viso. Aveva ordinato del gelato, anziché bere vino, e ora si rifiutava di finirlo. Lo prese Nagl e lo man133 giò, mentre Anna si coprì il volto con una mano. Di colpo lui s’infuriò e fece delle osservazioni sprezzanti, ma lei continuò a piangere finché lui ammutolì. Arrivò il cameriere e mise un piatto di spaghetti sul tavolo. Il cameriere fece come se non si fosse accorto di nulla, ma stavano seduti ad una parete proprio davanti ad uno specchio, nel quale potevano essere visti da tutti. Un bambino, al tavolo vicino, rise così forte che i clienti degli altri tavoli iniziarono a ridere insieme a lui. Lo si sentì continuare a ridere anche quando andò in bagno. Quando tornò al tavolo rovesciò una bottiglia e ricoprì la macchia di gassosa con una montagna di tovaglioli. Bevevano silenziosi e Anna rise per il bambino, poi si fece di nuovo seria. Anche il bambino si era fatto serio, dopo aver riso sguaiatamente. Ora gli avventori li guardavano apertamente. Nagl voleva parlare con Anna, ma lei lo minacciò di continuare a piangere se non la smetteva. Disse che non avrebbe potuto far altro che piangere se lui avesse ripreso a parlare. Nagl tacque e fu felice che nessuno lo osservasse con stupore. Il bambino allungò il dito indice e indicò Anna, e lei rise. Nagl rimase serio. Tutto a un tratto il riso di lei lo offese. Non era successo niente di straordinario, in fondo non era accaduto nulla, ma Nagl si sentì messo dalla parte del torto. Poi, improvvisamente, Anna gli accarezzò il viso, gli pizzicò le guance e, serena, canticchiò fra sé e sé. Lui sentiva che la sua gentilezza la confondeva e continuò. In albergo lei lo abbracciò, non appena ebbero chiuso la porta dietro di loro, ma Nagl era stanco e percepì questa fatica come una conferma. Lei gli si strinse addosso, ma lui si addormentò. 134 XLIII Solo la mattina presto, nella vasta sala a vetrate della stazione, Nagl decise di andare fino a Firenze. Mentre viaggiavano in treno, però, non fu più sicuro di dove sarebbero scesi. A Firenze? A Bologna? Cambiare per Milano? Oppure andare a Venezia? Guardò fuori dal finestrino. Sotto le nuvole cariche di pioggia si stendevano campi gialli, tutt’intorno brillavano diverse tonalità di verde: il verde dell’erba, quello dei cipressi, il verde turchese dei cespugli, il verde dei pini, quello degli uliveti e il verde del cielo riflesso dall’acqua piovana che si spandeva sui campi. Dietro un boschetto di cipressi scintillarono degli alberi fioriti di bianco. Dove i colli si ergevano un po’ più alti, erano ricoperti da lembi di nebbia ed apparivano tristi. Il pensiero tornò al nonno. Per due giorni aveva vagabondato senza un soldo per Cardiff e non aveva dormito, per paura che la polizia lo beccasse. Negli uffici di ingaggio marittimo era stato respinto, non aveva carta d’identità, passaporto, nessun documento. Finì per esibire il libretto di lavoro, con i timbri delle vetrerie di Dresda, Praga, Brünn e Berlino. Ma gli impiegati degli uffici avevano pensato che fossero nomi di navi piuttosto insoliti. C’era scritto Fürstenwald, Gloggnitz, c’erano nomi di ostelli, Mürzzuschlag e Bruck. Avevano control135 lato sugli elenchi. Nessuna delle navi sulle loro liste si chiamava così. Gli impiegati ci avevano pensato su. Alla fine gli avevano chiesto dei soldi. No, soldi non ne aveva. Avevano chiuso il registro e gli avevano detto di tornare quando avesse avuto dei soldi. Era tornato il giorno seguente. Gli avevano dato un ingaggio come carbonaio su una nave tedesca. Doveva spalare il carbone al fochista. La nave si chiamava “Anni”. Aveva navigato verso il Nord Africa, fino ad Algeri, Tunisi, Temnis. Sottocoperta era caldo e buio, ma sul ponte tirava vento freddo e la terra tutt’intorno era blu e di una vastità senza fine. Andava sul ponte e aveva la sensazione di nuotare su una liquida sfera blu. Quando scendeva a terra, in poche ore sperperava i soldi dell’ingaggio. Aveva navigato verso la Sicilia con un carico di legno e di carbone, e poi indietro con zolfo oppure arance di Gibilterra o della Valletta. Erano andati a Lisbona e a Cartagena, Barcellona e Valencia. Ora era fuochista e la nave, che era stata venduta ad una società armatrice norvegese, si chiamava “Skagerrak”. Voleva vedere il Bosforo, ma ciò che aveva visto erano città che gli si stendevano davanti agli occhi come un velo colorato, oppure l’immenso blu, quando saliva sul ponte. Talvolta aveva cercato d’immaginare in quale direzione fosse l’America. Poi non ci aveva più pensato. Spalava carbone nella caldaia. Non sapeva cosa gli succedeva. Voleva che andasse così? Succedeva a lui? Non aveva tempo di rifletterci. Nessuno glielo domandava. Lui stesso non se lo domandava. Quando era ritornato in Austria, aveva aderito al 136 Partito Socialdemocratico. Diceva che tutto era senza senso per un uomo solo. Il nonno sapeva di non essere una nullità. Ognuno doveva capirlo da solo di non essere una nullità. Lo sguardo di Nagl cadde su un compagno di viaggio il cui viso era ininterrottamente scosso da spasimi. Era un signore alto e ben vestito, con barbetta e occhi scuri, che stava leggendo un libro. Muoveva la bocca muta, si raschiava la gola, sussultava con le spalle e scrocchiava le dita premendole una ad una dietro l’orecchio. Quindi si tirava la barba, boccheggiava come un pesce fuor d’acqua, metteva da parte il libro e leggeva un giornale, metteva da parte il giornale e leggeva il libro. Di tanto in tanto si addormentava. A Firenze l’uomo scese, ma Nagl rimase seduto. Gli alberi erano spogli e le case della città si confondevano incerte dietro la nebbia gialla. Fuori era inverno. Erano rimasti soli nello scompartimento e Nagl appoggiò la testa nel grembo di Anna e guardò fuori dal treno in corsa. 137 XLIV Dopo la stazione di Mestre la ferrovia si gettò in mare. Gabbiani sedevano su pali di legno o strillavano sull’acqua, davanti a Venezia. Trasportarono le valigie giù dai gradini della stazione e salirono su uno dei vaporetti sovraffollati. Dall’acqua si innalzavano palazzi i cui colori, gialli o arancioni, rossi vinaccia e salmone, sembravano venire dal mare e che avevano balconi di pietra e pesanti imposte chiuse. Battelli li incrociavano e li superavano o si dondolavano tra pali blu e gialli o color tabacco o bianchi, sormontati da sfere dorate. Presero una stanza d’albergo che dava sul Ponte di Rialto. Uomini con cappelli gialli di tela incerata stavano dritti in piedi sulle chiatte. In strada, davanti al canale, rari passanti camminavano con ombrelli colorati. Nagl uscì all’aperto e passeggiò con Anna lungo l’acqua. Tutto gli appariva ignoto e non destinato a lui. 138 XLV L’albergo “Marconi & Milano”, col suo intonaco color crema e l’insegna a lettere d’oro, era chiuso. La metà inferiore delle finestre che davano sul marciapiede era oscurata da una tenda, e Nagl spiò attraverso i vetri. All’interno i mobili erano ricoperti di lenzuola di lino. Quanto più seguivano la strada lungo il canale, tanto più le case sembravano deserte. Anche le strade erano vuote. Gli balenò l’idea di introdursi in uno degli alberghi abbandonati insieme ad Anna e di fare l’amore con lei sui lenzuoli di lino bianco. Una barca nera scivolò sul canale, immersa nella pioggia. Sulla chiglia risaltava un globo terrestre dorato con due ali spiegate e dei leoni anch’essi color oro. Una ghirlanda di fiori rossi ornava la cabina che era chiusa da tende, così che non si scorgeva anima viva all’interno. Solo a prora stava ritto un uomo con indosso indumenti di tela cerata e che guidava la barca. Camminarono per vicoli angusti, tra case dall’intonaco sbrecciato dietro il quale, come una ferita, si potevano scorgere i mattoni. Sui terrazzi di pietra le piante verdi erano tutte avvolte in teloni di plastica trasparente. La pioggia si fece più forte man mano si avvicinavano alle Fondamenta Nuove. Dai canali laterali si riversava odore di salsedine e di alghe mar139 ce e davanti a loro camminava un’anziana signora che faticosamente si forzava di andare controvento. Una folata le strappò l’ombrello gettandolo nel canale e facendolo affondare lentamente nell’acqua con il manico rivolto verso l’alto, mentre la donna si appoggiava al parapetto di pietra, furente e disperata. Anna si rifugiò in una chiesa e Nagl la seguì. Il marmo candido all’interno della chiesa era decorato con intarsi vegetali, dando l’impressione che ombre di fiori rigogliosi trasparissero dal di fuori attraverso le pareti. Forse la morte era effettivamente un’itinerante sguardo retrospettivo sulle immagini della vita, un elevarsi al di sopra della terra, pensò Nagl. Forse ciò che aveva vissuto dall’istante in cui aveva girato le spalle al gendarme era stato il momento della morte. Una morte in cui vedeva ciò che avrebbe potuto essere: un conflitto tra le forze che ancora erano in lui e l’estinzione della coscienza. Si trovava in questa chiesa e pensava all’immagine votiva che aveva visto a Stübing, la nuvola azzurra nella quale si librava Maria. La religione era più semplice da comprendere rispetto alla vita. Trovava strano che la fede, e non la vita, costituisse un problema per gli uomini. La religione, dove tutto era colorato e splendente e definito, rappresentava per lui una difesa contro la pazzia. Poteva immaginarsi di essere morto e che la morte durasse così a lungo. La sua vita nuda e combattiva derideva la fede. La vita aveva bisogno della sua intelligenza per sopravvivere, e questa intelligenza scherniva tutto ciò che in lui agognava ad una consolazione. Ma nella condizione di una lunga morte, 140 quando era la vita ad apparirgli una morte, la religione gli sembrava essere qualcosa di assolutamente semplice e naturale. Si girò verso Anna, che teneva tra le braccia un gattino bagnato e lo accarezzava. Vicino alla chiesa si trovava una casa diroccata con le finestre senza vetri, davanti alla quale vagavano dei gatti che, quando si erano avvicinati, si erano rifugiati all’interno dell’edificio saltando attraverso le finestre. Uno era rimasto accovacciato sotto la pioggia, Anna doveva averlo raccolto e portato dentro la chiesa. Il gattino faceva capolino tra le maniche e miagolava. Da quando era partito col treno era successo qualcosa che certamente stava vivendo, ma di cui non era ancora diventato consapevole: vedeva continuamente se stesso. Talvolta si vedeva dall’alto, si vedeva correre, camminare, star fermo, si vedeva abbracciare Anna, in altri casi era come se potesse osservarsi da una distanza ravvicinata. Tutto ciò non lo disturbava. Vedeva la saliva che gli colava dalla bocca, si vedeva in piedi sull’orlo del Vesuvio a guardare nel cratere… E c’era dell’altro: la sensazione di avere già vissuto alcune situazioni, e questa convinzione, questa consapevolezza era riemersa per la prima volta a Napoli, nella strada del porto. Gli si presentava sempre davanti, e lui aveva continuato a scansarla, come per proteggersi. Con i suoi alunni era andato in chiesa in occasione di diverse feste religiose: alla festa del ringraziamento, alle prime comunioni – alle quali erano arrivate le bambine con la vestina bianca e i maschi con la giubba scura e con una candela in 141 mano – alla messa di Natale, quando i bambini stavano inginocchiati in chiesa e d’un tratto la presenza dei loro genitori glieli faceva sentire estranei, e a Pasqua, quando tutto rinverdiva e i bambini portavano in chiesa rami fioriti e soprattutto rami di salice. Tutto questo gli passò ora davanti agli occhi velocemente, come eventi in rapida successione. E come sul Vesuvio aveva sentito una struggente nostalgia per gli uomini, ora provò un’uguale nostalgia per la scuola. I bambini erano stati timidi e paurosi, non c’era stato nessun progresso, nessuna lenta conquista della loro fiducia. Un giorno i bambini erano comparsi davanti a casa sua chiedendogli un pezzo di cioccolata e gli era bastato dare ad intendere che non aveva tempo perché non si facessero più vedere per giorni. Uscirono di nuovo all’aria aperta. Il verde trasparente all’interno della chiesa aveva qualcosa di misterioso ed eccitante, ma per strada soffiava un vento gelido e la pioggia cadeva fitta. Anna teneva il gattino sotto il soprabito, solo la testa gli spuntava fuori. Il gattino era assolutamente tranquillo e si lasciava portare via, assaporando il tepore e la tenerezza. Anna se lo strinse al viso facendo attenzione che fosse ben protetto dall’ombrello e non si bagnasse. 142 XLVI Il mare si perdeva nella nebbia. Nagl vide i pali con lanterne di ferro che avvertivano della presenza di secche e, più avanti, i muri di pietra di San Michele sovrastati dai cipressi. Quando si fermarono all’attracco davanti al cimitero, Nagl fu colpito da come il motore rendesse lattiginosa l’acqua intorno al vaporetto. Davanti all’ingresso dondolava la barca nera che avevano visto sul Canal Grande. Sui fianchi si trovavano decorazioni di nappe e passamani dorati intagliati nel legno. Il gattino di Anna se ne stava tranquillo. Il mare lambiva gli scalini di pietra e la barca dondolava. Arrivò il pilota, salì a bordo e partì facendo una curva schiumosa, ma nello stesso istante accostò un’altra barca, un marinaio si chinò e, appoggiandosela sulla schiena, girò una cassa da morto che poi fu caricata su un carretto di metallo e ricoperta di fiori e di corone. Da un vaporetto giallo coi salvagenti rossi e bianchi scesero due bambini. Attraversarono il buio portone del cimitero. Sulle lastre di pietra erano caduti petali rossi strappati distrattamente e rami di alloro. Legati con del filo di ferro a supporti di legno c’erano garofani maculati di rosso e di rosa, simili a quelli di carta che il nonno portava sul bavero il 143 Primo maggio. Da bambino Nagl non aveva capito perché il nonno portasse dei garofani di carta. La nonna ne teneva interi mazzolini sul tavolo da cucina. Il giorno dopo sparivano in un cassetto della credenza dove venivano poste le cartoline illustrate e le poche lettere. Aveva davanti agli occhi la piccola cucina dell’appartamento della fabbrica, la credenza ingiallita, la vecchia radio nera su una mensola appesa al muro, la panca dove veniva ficcata la biancheria sporca. La nonna gli accarezzava i capelli ridendo. Era una donna bonaria e corpulenta che, ad ogni visita, gli metteva in mano una moneta d’alluminio da due scellini. Era stata, se la memoria non l’ingannava, la prima persona che aveva conosciuto e che era morta. Aveva provato un misto di gravità e di incredulità quando era venuto a saperlo. La cosa terribile era stato lo sgomento della madre e del nonno. Aveva visto la loro impotenza e l’aveva trasposta nella religione. L’idea di una vita dopo la morte era crollata tutta in una volta davanti alla disperazione della madre e del nonno. Nagl raccolse i garofani e seguì il funerale. Una donna gli rivolse la parola. Nagl capì solo che gli chiedeva dove aveva conosciuto il morto. Il becchino portava le corone e Nagl si limitò ad annuire con la testa. C’erano sei o sette congiunti, in abiti grigi e con impermeabili, che lo osservavano stupefatti. Anche il fatto che Anna avesse un gattino li stupiva. Smisero di seguire la bara, ma si fermarono davanti a uno stanzino dove erano riposte le fotografie dei morti staccate dalle lapidi. Nagl si chinò e vide i ritratti sbiaditi di uomini che una 144 volta erano stati vivi. Lo osservavano da quegli istanti di fissità nei quali avevano posato davanti all’obiettivo di un fotografo e avevano creduto di sentire la presunta infinità delle proprie vite. A Nagl tutti gli uomini apparivano ora inconsapevoli. Attraverso un cancello vide una parte del cimitero fitta di vegetazione e ricoperta di pini, palme e alberi d’alloro. Sui tronchi degli alberi si avviticchiavano alte le foglie d’edera, i merli saltavano sui sentieri coperti di ghiaia e cantavano tra gli alberi. In un padiglione di pietra erano riposte lapidi, lampade in ferro battuto e angeli di marmo. Eccoli lì di nuovo, con le loro vesti a pieghe, le stupende ali possenti, lo sguardo assente. Il locale era bianco e il gattino era saltato fuori dal soprabito di Anna e ora vagava tra gli angeli. Cercarono il funerale e, attraverso viali alberati, lo trovarono su un prato disseminato di croci. Il mare e il muro di mattoni delle Fondamenta Nuove gli apparvero improvvisamente da un cancello in ferro battuto, mentre si dirigevano verso l’uscita. Affrettarono il passo. Di nuovo si smarrirono nei vicoli di marmo, tra tombe inscatolate una sull’altra con fiori e fotografie di morti. Nagl sentì il petto oppresso da qualcosa che gli rendeva faticoso il respiro. Rivolse la parola a un vecchio, con gli occhiali e il basco, che teneva una cartelletta portadocumenti. Il vecchio aveva una voce roca, si voltò sotto la pioggia, si chinò. La cartelletta gli scivolò da sotto il braccio. Poi sparì. Anna teneva il gattino e lo accarezzava. I motoscafi sfrecciavano scoppiettando sull’acqua. 145 Persone si accalcavano sotto le pensiline dondolanti. Due donne anziane, con calze blu e capelli ondulati, fumavano sedute su una panchina. Passarono vaporetti sovraffollati; finalmente Nagl riuscì a salire su uno che si era fermato, tirandosi dietro Anna. 146 XLVII Avevano riportato il gattino davanti alla chiesa. Un gatto tutto grigio con delle macchie bianche stava disteso per terra e aveva vomitato. Ad una finestra del primo piano dei canarini cinguettavano e nel momento in cui Nagl pensò a Napoli, al suo mercato con la frutta, la carne e gli animali, la verdura, le persone e i fiori, ebbe improvvisamente la sensazione che tutto fosse giusto. In strada un cane cercò di montare il gatto. Il gatto lo lasciò fare, ma i bambini scacciarono il cane e il gatto vomitò di nuovo. Anna gli si inginocchiò davanti. Dopo un attimo lo accusò di essere insensibile. Nagl tacque. Gli sembrò che le sue sensazioni fossero diverse. I bambini erano l’unica cosa che movimentasse le sue giornate, ma la loro goffaggine, la loro paura e attitudine all’obbedienza, identici di generazione in generazione, lo avevano reso perplesso. Ne parlava spesso con gli altri insegnanti ed era stupefatto che questi trovassero del tutto normale il comportamento immutabilmente uguale dei bambini e che, al massimo, ci facessero delle battute che minimizzavano tutto. Non erano cattivi insegnanti. Alcuni gli piacevano molto, ma anche questi sembravano accettare come assolutamente naturale ciò che vivevano. A 147 lui mancava qualcosa. Aveva continuamente la sensazione che gli mancasse qualcosa. Ciò lo faceva sentire insoddisfatto e, poiché non riusciva a discuterne con nessuno, lo rendeva solo. Non ne parlava più. Non diceva nulla. Ma già da tempo considerava il suo lavoro come qualcosa di provvisorio, come se in un futuro non troppo lontano avesse dovuto dedicarsi a qualcosa di diverso. Questo lo aiutava, ma d’altra parte la sua vita scorreva identica, giorno dopo giorno, senza che nulla accadesse “Sei un uomo freddo”, disse Anna e scappò via. L’acqua del canale era verde, due uomini in piedi su una barca passarono remando. Grazie all’acqua tutto diventava estraneo, e questo lo tranquillizzò. Rientrò in albergo. Nelle vetrine dei negozi si specchiavano il Canal Grande, i battelli che passavano, i gabbiani appollaiati sui pali a strisce rosse e bianche, le pensiline blu smorte dai molti finestrini per i vaporetti, i gradini di legno che portavano agli approdi e le gondole deserte coperte da teloni, in mezzo alle quali galleggiavano arance sperdute e piccoli trucioli di legno bianco. La porta a vetri di un ristorante era appannata e aveva la maniglia d’ottone a forma d’uccello incrostata di verderame. Attraverso uno spiraglio Nagl vide un grande locale con un pianoforte e, in un angolo, delle bottiglie riposte. Il selciato davanti al ristorante era sconnesso e un uomo, con una pianta caricata sulla spalla, lo scansò maldestramente. “A casa è inverno”, pensò Nagl, “C’è la neve, qui c’è freddo e vuoto”. Dietro un portone ad arco notò un buio corri148 doio con manifesti sui quali erano riprodotti cavalli con criniere al vento. C’era odore di pesce. Entrò nel corridoio e aspettò finché l’oppressione che sentiva in gola non fu passata. La sua riservatezza veniva spesso scambiata per freddezza. Quando gli era capitato di amare una donna, aveva fatto finta di nulla se c’era qualcosa della sua compagna che non gli piaceva. Sebbene sentisse che dentro di sé soffriva, riusciva tuttavia a mostrare una benevola condiscendenza. Ma proprio per questo motivo non appariva cordiale, perché taceva, rideva, era cortese, ma nel profondo dell’animo pensava a qualcosa d’altro e si convinceva di desiderare comunque ciò che volevano anche gli altri. Non fingeva per uno scopo. Lo faceva senza alcun motivo. Talvolta gli veniva il sospetto che la maggioranza delle persone fosse tanto insoddisfatta quanto lui, solo gli sembrava più imperturbabile. Forse non si aspettava molto d’altro, mentre lui era sempre in attesa. E aveva troppo poca fiducia in se stesso. Spesso aveva dovuto constatare di avere avuto segretamente ragione. Aveva taciuto a proposito di qualcosa, però tollerandolo, e poi questo qualcosa si era avverato proprio come lo aveva immaginato. Nei contrasti d’opinioni a scuola, per esempio, spesso non aveva osato esprimere le sue idee; molto più tardi altri le avevano avute ed erano stati lodati per questo. Allora si era sentito superfluo. Cosa avrebbe dovuto dire? Gli passò davanti una barca con ceste per la frutta vuote. Nagl guardò l’ora su uno degli orologi di bronzo rotondi montati agli angoli delle strade. Nelle vicinanze dell’albergo imboccò un vicolo angu149 sto, nel quale le case erano collegate con delle gabbie di ferro munite di vetrate. I vetri erano sudici e bui e il vicolo appariva deprimente. Si guardò intorno, nessuno lo seguiva. Su una catasta di ceppi di legno neri una gatta tigrata stava accucciata sotto un gatto che la accarezzava con una zampa e la penetrava lentamente con il suo rigido membro rosa. Il sesso della gatta era dilatato, ma il gatto se la prendeva comoda, si ritirava lentamente, poi velocissimo era dentro di lei. La gatta miagolò, il gatto si scosse, ma un momento dopo la gatta era sparita soffiando e il gatto rimase indietro stupefatto. Quando Nagl proseguì vide un enorme, bellissimo gatto d’angora che faceva la posta tra la legna e sembrava aver visto tutto. Passò di fronte ad una trattoria, davanti alla quale, su una lavagna ricoperta da un telone di nylon trasparente, avevano scritto col gesso i piatti e i prezzi. In un negozio c’erano due manichini di velluto. Quando a Napoli era stato atterrato dai marinai, lo avevano messo a sedere su una sedia e anche lì aveva visto un manichino. Ora tutto era identico. Quando era ferito o si sentiva offeso diventava sensibile al minimo segnale. La disperazione e il dolore non erano solo disperazione e dolore. Contemporaneamente, e di nascosto, provava una sensazione di piacere, una forza segreta, e quanto più la disperazione durava, tanto più forte percepiva quel piacere e quella forza. Nella disperazione era capace di cose che altrimenti non avrebbe mai osato. Erano cose che gli corrispondevano. Era più coraggioso e più sincero. Il pudore lo abbandonava. Nella disperazione c’era una mortifica150 zione di sé che gli attraversava il corpo come uno brivido piacevole. Quante volte si era meravigliato che anche qualcun altro, autoaccusandosi, si fosse sentito colpevole e si disperasse. Ma la disperazione di un altro gli aveva sempre tolto la forza segreta e il piacere. Si era stufato velocemente di quella disperazione ed era andato su tutte le furie. Scese i gradini di pietra sull’altro lato del Ponte di Rialto e si trovò davanti all’albergo. Sapeva che avrebbe trovato Anna in camera, eppure salì le scale provando un’insolita emozione. Comprò una bottiglia di vino e scherzò col cameriere. Disse che voleva fare una sorpresa alla signora e si fece dare due bicchieri. 151 XLVIII Aprì la portafinestra del balcone, in modo da poter gettare un’occhiata al Canale. Si stese sul letto con la schiena rivolta verso Anna e bevve. Per un po’ stettero distesi uno vicino all’altro. Lui sapeva che lei aveva appoggiato il braccio sulla fronte, fissando il soffitto. Probabilmente lei provava le sue stesse sensazioni. Gli capitava sempre, quando litigava con Anna o si sentiva offeso, di sentire bisogno di tenerezze. Desiderava di venire liberato dalla sua piacevole tristezza. Per prima cosa avrebbe opposto resistenza, facendo un gesto infuriato, ma ciò che voleva era appunto che lei gli regalasse altra tenerezza, finché lui avrebbe cominciato ad accusare se stesso e ad avvertire quanto lei lo amava. Avrebbe voluto che anche lei avvertisse quanto lui l’amava. Improvvisamente Anna si infilò nuda sotto le coperte. Sull’anta dell’armadio era attaccato uno specchio. Erano distesi di lato rispetto allo specchio e Nagl poteva vedere il corpo di lei, come si curvava su di lui, come premeva sul suo cazzo, le sue natiche tese. I loro sguardi si incontrarono nello specchio. A Napoli aveva comprato un sigaro in un bell’astuccio colorato, lo tirò fuori dalla valigia, fece inginocchiare Anna davanti allo specchio e le 152 infilò l’involucro del sigaro nel culo, mentre Anna guardava nello specchio attraverso le gambe allargate e gemeva. Una volta aveva visitato una fiera annuale e subito era entrato nel tendone del varietà. Ubriachi avevano schiamazzato sulle panche di legno e avevano gridato incitamenti alle ragazze che si spogliavano sul palcoscenico. Mentre si sedeva sul bordo del letto e prendeva Anna in grembo le raccontò di come una donna bionda aveva sbottonato i pantaloni di pelle a un uomo che portava un cappello di pelo di camoscio e ne aveva tirato fuori un fallo di gomma. Era bianco e lungo e la donna se l’era infilato in bocca. L’uomo aveva riso davanti al pubblico, mentre la donna aveva succhiato e leccato il suo fallo di gomma. Poi si era messa in ginocchio e aveva finto di infilarselo dentro e, contemporaneamente, aveva mosso il bacino. Era stata una cosa miserabile e libidinosa al tempo stesso. La donna era nuda, aveva allargato le cosce, i seni le stavano penzoloni sulla scollatura e l’uomo con i pantaloni di pelle si era disteso tra le sue gambe. Tra le risate del pubblico le aveva alzato le gambe in aria e gliele aveva allargate fingendo di chiavarla. Poi si erano seduti su una poltrona pieghevole e Nagl aveva visto che l’uomo le aveva veramente infilato dentro il fallo di gomma. Sul pubblico era calato il silenzio. Dopo alcuni momenti la donna lo aveva tirato fuori e si era spruzzata in bocca il latte che conteneva. Il latte le era gocciolato sul mento e la donna aveva riso e allora anche il pubblico era esploso in una risata. Erano 153 contadini col costume stiriano e con mogli sparute dalle gote rosse, lavoratori ubriachi e giovani di quattordici e quindici anni che se ne erano rimasti lì seduti con la testa infuocata. Era quasi mezzogiorno e lo spettacolo era durato una mezz’oretta. Ragazze dal seno piatto inciampavano in veli logori al suono della musica. Donne grasse con parrucche troppo piccole dondolavano il seno, sporgendosi in avanti e allargando le natiche, mentre gli spettatori spruzzavano birra sul palcoscenico. Nagl non poteva dire che lo spettacolo lo avesse disgustato. In un modo tutto particolare ciò che aveva visto era reale e soprattutto non gli era estraneo. Era un miscuglio di sogno e vita che, nella sua miseria, si era rivelato anche commovente. La notte successiva aveva fatto l’amore con la moglie del gendarme pensando, contemporaneamente, al varietà e si era stupito di quanto quel pensiero lo avesse eccitato. Lo sguardo di Nagl cadde sul canale, ed ebbe il desiderio di ricordare tutta quella storia. Si vide nello specchio, tra le gambe di Anna che gli si erano strette intorno alla schiena, e si accorse di come la libidine lo annebbiava. 154 XLIX Anna era distesa nella vasca da bagno e Nagl beveva vino. Il nonno era andato di rado a visitare la tomba di sua moglie. La cosa peggiore, aveva detto, era essere abbandonato. Come fochista, e più tardi come operaio, aveva sempre percepito di essere una nullità, ma ora si era sentito come qualcuno che definitivamente e irrevocabilmente era stato abbandonato. Nagl pensò alla sensazione di abbandono che aveva provato in treno e si vide in piedi sull’orlo del cratere del Vesuvio: il vento gli tirava con forza il soprabito, neve e nebbia erano intorno a lui. 155 L Anna dormiva. Nagl si diresse verso Piazza San Marco stando sul castello di prora di un vaporetto. Non appena il vaporetto ebbe lasciato l’attracco, la luce del ponte superiore fu spenta e lui rimase seduto in un freddo oscuro. Una gondola incrociò il battello, Nagl vide solo l’ombra nera. La solitudine accrebbe il suo piacere di solitudine. Non ne aveva più paura. Conosceva il dolore di essere lasciato e sapeva quanto esso si fondava sulle menzogne. La sua professione si fondava sulle menzogne, i suoi rapporti con gli altri uomini… Menzogne, nient’altro che menzogne. Non gli era stato possibile vivere senza occultare. Il suo parlare non mostrava come era veramente, bensì come voleva essere. Forse ognuna delle frasi che diceva significava qualcosa di diverso da ciò che intendeva. Forse aveva accettato delle opinioni per le quali poteva parteggiare, senza che fossero davvero le sue. Forse la sua vera filosofia era la menzogna. Nella sua vita aveva proclamato più menzogne che verità. Il suo cervello versificava agli altri uomini un’immagine della sua vita che non aveva nulla a che fare con quella vera. Risparmiava gli altri con le menzogne, si evitava i conflitti, realizzava desideri, tutto ciò solo con le menzogne. Nagl guardò l’acqua scura. Si avvicinarono a un attracco, il bigliettaio infreddo156 lito, con il soprabito blu marina e i bottoni dorati, tirò da parte la grata di ferro e Nagl scese. “È strano che non sia naturale dire la verità”, pensò Nagl, “ma che a me capiti naturalmente di mentire”. Quando parlava, contemporaneamente gli capitava sempre di pensare se fosse effettivamente senza rischi dire la verità. Le tende dietro le arcate erano tirate, sul pavimento di pietra a disegni c’erano delle pozzanghere. Alcune sedie di vimini gialle con la scritta “Martini” sulla spalliera erano accatastate davanti al “Caffè Quadri”. Attraverso i vetri del Caffè vide, tra le statue di marmo e gli specchi, le sedie verde oliva imbottite rovesciate sui tavoli. Le arcate si perdevano nel buio. Una lampada dondolava sulla grande piazza, gettando una luce indecisa sulle pietre bagnate. Mentre Nagl contemplava l’orologio con il cielo e i segni zodiacali e i leoni davanti al firmamento blu dorato, mentre il suo sguardo correva lungo i motivi geometrici della pavimentazione e infine cadeva sul campanile che si ergeva scuro nella notte, mentre alzava lo sguardo sulle fiabesche torri decorate dalle forme orientaleggianti e i mosaici della basilica di San Marco, la mente viaggiava altrove. Solo il firmamento sulla torre dell’orologio, dietro i leoni dorati, lo distrasse. Il desiderio delle stelle, del cosmo, di vederlo, di abbracciarlo con lo sguardo e di perdersi in esso era in lui come un’immagine dell’aldilà. Pensò allora che nel cosmo c’erano migliaia di miliardi di stelle. Qualche volta aveva permesso ai bambini di osservare la luna con un telescopio notturno, par157 lando loro di questa quantità. Già le varietà sulla terra erano inimmaginabili – c’erano un milione di animali diversi e quattrocentomila tipi di piante. Acqua, aria e terra erano pervase di materia organizzata che assorbiva un’infinità di elementi trasformandoli, cresceva, si riproduceva e sviluppava sottospecie, uccideva e veniva uccisa per fare posto ed essere di nutrimento a nuovi germogli d’erba, ad ascaridi, balene, usignoli o coccodrilli. In forme permanentemente mutevoli, la vita era riuscita a conservarsi nonostante le trasformazioni apparentemente catastrofiche della terra durante quattro miliardi di anni. In treno con Anna aveva pensato alla fine del mondo, ora invece pensava alla vita e questa gli risultò altrettanto incomprensibile. Perché questi fatti inconcepibili, indecifrabili, erano solo nozioni ricavate da letture e come la consapevolezza della fine del mondo non gli permetteva di vivere diversamente, così neanche la conoscenza della molteplicità della vita lo confortava. Le gondole davanti a Piazza San Marco si sollevavano sull’acqua, e i gabbiani si cullavano sul mare come barchette di carta. 158 LI Il parapetto di ferro ricadde sbattendo sul vaporetto, che proseguì passando davanti ad alberghi abbandonati e chiusi, tutti resi ancora più cadenti dall’oscurità. Nello spazio illuminato all’interno del vaporetto sedeva solo un uomo con la custodia di un violino. A Nagl tornò di nuovo in mente suo nonno. Era rimasto disoccupato per cinque anni. Sebbene avesse percepito il lavoro come una costrizione, ne aveva nostalgia. Aveva passato così tanto tempo a ripetere le partite a scacchi di Aljechin, Murphy, Bodwinik, Capablanca ed Euwe, che alla fine ne conosceva le mosse a memoria. Aveva dato al suo Io una torre di vantaggio e sacrificato una pedina contro l’altro suo Io. Si era lambiccato il cervello su quali errori aveva fatto, perché aveva perso contro se stesso. Anche quando era arrivato il nazionalsocialismo, aveva continuato a giocare contro se stesso, sebbene fosse riconoscente per il lavoro. Per cinque anni, fino a quel momento, aveva sperimentato ogni giorno, ogni ora il suo essere una nullità. Ora avevano bisogno di lui. Continuava ad essere una nullità, ma poteva dimenticarsene. Aveva creduto nella vita e quella fede gli era bastata. 159 LII Durante la notte Nagl abbracciò Anna. La baciò teneramente, senza svegliarla. Era buio. La finestra sul balcone era mezza chiusa, solo di tanto in tanto sentiva ronzare un vaporetto. La bocca di Anna sapeva di sonno. Nagl si appoggiò sul braccio e cominciò ad amarla. Lei sospirò sommessamente, rimase tranquilla e lasciò che succedesse tubando di piacere. Non si svegliò, però, e anche Nagl sentì di nuovo di essere stanco. I suoi movimenti divennero sempre più lenti finché non si addormentò. Il rimbombo dei vaporetti, il rumore delle barche a motore e le voci umane furono le prime cose che sentì la mattina dopo. Gli edifici si intravedevano nella luce lattiginosa, mentre i tetti erano distesi in una nebbia incerta. Si accucciò più profondamente sotto le coperte e osservò Anna. Uno dei suoi occhi era socchiuso e si muoveva. La sfiorò, ma lei dormiva veramente. Aveva sempre cercato l’amore. Lo aveva sempre sperimentato come qualcosa che lo cambiava, che lo assaliva con esuberante felicità e allo stesso tempo lo lasciava disperato. Era così sicuro, quando amava, che si riteneva capace di tutto, allo stesso tempo però era il più ridicolo degli uomini e soffriva. Credeva di dover 160 raggiungere un modello che potesse piacere all’amante. Anna lo aveva reso dipendente e autonomo allo stesso tempo. Grazie al fatto che lei lo aveva tradito, era diventato più onesto. Mentre era ancora insieme ad Anna, aveva sempre cercato una donna che lo aiutasse a dimenticarla. Non lasciava che le cose andassero troppo oltre, però cercava di capire con quale donna avrebbe potuto continuare a vivere dopo Anna. Aveva fatto l’amore con altre donne ed era tornato da Anna pieno di cattiva coscienza e di disagio, e lei non aveva fatto niente di diverso da lui. Sarebbe tornato il tempo in cui avrebbero cercato un sostituto l’uno per l’altra. All’inizio di un amore si sentiva sempre spensierato. In realtà voleva solamente abbracciare una certa donna e diventarne l’amante. Ciò che era stato prima di lui non lo preoccupava. Quando ne sentiva parlare, lo metteva da parte. Se però la relazione durava più a lungo, allora il passato dell’amante iniziava a diventare qualcosa di tormentoso, che rendeva incerto il presente e a causa del quale cominciava a sentire nuovi desideri fisici. Talvolta l’amore era stato così stanco e indifferente che aveva ininterrottamente la sensazione di perdere qualcosa. Si innamorava di un’altra donna perché non sopportava le occasioni perdute. Questo lo sorprendeva: proprio nel momento in cui iniziava ad amare veramente una donna riusciva anche ad avere la migliore propensione per le relazioni d’amore. Invece quando era infelice, si comportava in modo goffo e maldestro. 161 Osservò Anna e si meravigliò dei propri pensieri. Probabilmente lei ne aveva di simili quando parlava con lui o quando non erano insieme. Non glielo disse mai subito che le piaceva un altro uomo. Solo in seguito, passato molto tempo, faceva degli accenni prudenti. Aveva imparato a proteggersi da lui e a nascondersi. Anche lui non si comportava diversamente. Questa consapevolezza, tuttavia, non gli era più d’ostacolo nell’amare Anna. L’amava in un modo nuovo. Si sentiva ancora più attratto da lei: non si fidava, ma ne conosceva anche le qualità, delle quali non si era accorto prima. Lei era più coraggiosa di lui, e più onesta. Lui continuava a rappresentare il proprio passato come se le fosse sempre rimasto fedele. Si illudeva di poterle in futuro estorcere la fedeltà, mentre se ammetteva di non essersi comportato in modo diverso da lei, temeva che Anna non avrebbe provato più alcun senso di colpa e che si sarebbe precipitosamente impegolata in una nuova storia. Lei si fidava di lui perché lui affermava di non aver avuto nessun’altra donna oltre a lei. Lei doveva guardarsi dalla sfiducia che lui giustamente nutriva. Ma lui sentiva anche di dipendere da lei. Non la voleva perdere. Se fosse stato necessario, avrebbe fatto di tutto per tenersela accanto. Gli piacevano la sua allegria, il suo calore e la sua passione. Gli piaceva che lei si sentisse offesa e che fosse gelosa. E in fondo gli piaceva che fosse imprevedibile e gli piaceva anche aver imparato, tramite lei, che l’innocenza non esisteva. Per lui l’amore era ora tutto un imbrogliare e un ingannare e se amava doveva ammetterlo a se stesso, anche se non lo avrebbe mai fatto. 162 LIII Gironzolarono tra le bancarelle del mercato e comprarono delle arance. La nebbia era fitta, non sapevano dove si trovavano. A Nagl vennero in mente il mercato di Napoli e la nebbia sul Vesuvio. Un pescivendolo estrasse da una tazza un’anguilla grigia, ancora viva e con il ventre bianco, che gli si attorcigliò intorno alla mano. Le staccò la testa con un coltello. L’anguilla, però, si agitò con tale forza che l’uomo la mancò e tagliò solo una parte della testa e fu costretto a colpirla ancora una volta. Anna voleva andarsene, ma Nagl continuava ad osservare come il commerciante, servendosi di un pezzo di ferro, inchiodava la coda della anguilla ad un’asse e le apriva la pancia, mentre le pinne caudali si piegavano verso l’alto, come asportava la colonna vertebrale e come l’anguilla, ormai senza colonna vertebrale, si contorceva sull’asse insanguinato. Una vecchia veneziana coi capelli bianchi e le mani rugose se la fece avvolgere nella carta, nella quale l’anguilla si distese appiccicaticcia. La donna aveva il naso lungo e l’astuccio per gli occhiali, dal quale ne estrasse un paio che le servirono per sottoporre la merce ad un’attenta perizia, per poi ripiegarli e infilarseli di nuovo e infine metterli via definitivamente. L’astuccio era così logoro che Nagl riuscì a vedere lo strato di alluminio 163 affiorare da sotto il tessuto. Un altro commerciante staccò la testa a un grosso e brutto pesce color salmone e lo divise in due per la lunghezza, poi si interruppe e guardò Nagl, ritto davanti a lui, con aria interrogativa. 164 LIV Sedevano infreddoliti nel vaporetto. Il respiro di Anna, a causa del freddo, scivolava sibilando tra i denti. A Murano Navagero andarono in una vetreria e Nagl ebbe di nuovo la vaga sensazione di separarsi da qualcosa. Quando si era immaginato la vita del nonno, dopo la sua morte, nei suoi pensieri lo aveva visto in mare aperto: era in piedi sul ponte della “Skagerrak” e gli girava la schiena. Il vento gli scompigliava i capelli e lui stava lì, tranquillo, a guardare il mare. Con quest’immagine Nagl si diceva che il nonno era fortunato. Si era lasciato la terra alle spalle e davanti a sé aveva l’infinità. Lei l’aveva accolto e lui, immobile, incredulo e colmo di riconoscenza era davanti a lei, e in lui era la pace. Nagl si accorse di non essersi mai congedato dal nonno. Era rimasto incredulo di fronte alla sua morte. Talvolta, quando lo aveva abbracciato, aveva sentito i peli della sua barba sfregare sul suo viso e aveva pensato che era vecchio e che di lì a poco sarebbe morto. Oppure gli aveva tenuto la mano, percependo il calore del suo corpo, lo aveva guardato negli occhi infiammati e aveva pensato che un giorno, quando fosse morto, si sarebbe ricordato di quello sguardo. Con lui aveva parlato molto e aveva fatto molto, nella consapevolezza che presto il presente sarebbe stato 165 solo un ricordo. Talvolta questo pensiero era diventato così forte, che Nagl aveva dovuto cambiare discorso di proposito. Poi, di nuovo e a lungo, era rimasto ad ascoltarlo, quando gli raccontava di problemi di digestione, insonnia, insufficienza respiratoria, agitazione, difficoltà di articolare le parole e spossatezza. Non aveva voluto morire. Sembrava non aver mai messo in dubbio la vita, pensò Nagl. In fondo era grato per tutto quello che aveva trovato e per tutto quello che gli era stato risparmiato. Aveva accettato come ovvio il dover pagare un prezzo per la vita. Questo prezzo era stato la sofferenza. Non disse mai di aver sofferto molto, solo in situazioni particolari raccontava del dolore. Il dolore era stato sempre intrecciato con l’esistenza. Nella sua vita non aveva cercato l’esperienza del dolore. Aveva preso coscienza del dolore quando era diventato immenso. Quanto più invecchiava, tanto più si era fatto inquieto al pensiero che il tempo passava. Non sapeva come fosse successo di essere diventato improvvisamente così vecchio. Si ricordava di tutto con precisione, come se fosse successo dieci o al massimo venti anni prima. Poi Nagl scoprì che suo nonno aspettava qualcosa. Non sapeva cosa. Sentiva solo che doveva arrivare ancora qualcosa. Anche Nagl credeva di essere sempre nella segreta attesa di qualcosa, qualcosa verso cui indirizzare la vita. E mentre entrava in un capannone, Nagl pensò alle volte in cui ci si era intontito per mettere in testa a genitori e bambini che esisteva per ogni uomo una aspettativa definitiva, sulla quale doveva vivere. Mentre il pensiero 166 del nonno, ritto sul ponte della “Skagerrak” in mezzo al vasto mare blu, si perdeva nella nebbia insieme al vaporetto, vide in un capannone alcuni lavoratori con i volti illuminati dai vetri splendenti. Nei forni ardeva il fuoco, gli uomini se ne stavano seduti tranquilli, giravano il vetro, lo tagliavano, di quando in quando il ferro cigolava e l’aeratore ronzava. Si affrettavano a produrre i loro pezzi di vetro colorati e contorti, come se il mondo fosse in trepida attesa di pinguini di vetro. Suo nonno aveva prodotto bottiglie, bottiglie da trentacinque litri, con la pipa di ferro: le sue guance erano gonfie e tese, i polmoni e le vene del corpo avevano minacciato di scoppiargli. Durante la seconda Guerra Mondiale, poi, il nonno era stato assegnato alle macchine. Aveva controllato gli indicatori e i termometri e verificato la miscela chimica. Con il programma “Potere attraverso la Gioia” i nazionalsocialisti lo avevano spedito ogni domenica, insieme alla sorella, nei villaggi di provincia, dove lui aveva suonato la chitarra e sua sorella aveva cantato il motivo popolare “Erzherzog-Johann-Jodler”. Si era esibito con il comico Panzenbeck e gli aveva dato le battute. Il giorno dopo aveva sbrigato di nuovo i soliti lavori e le domeniche successive aveva suonato le solite canzoni e dato le solite battute. In fin dei conti però, i racconti del nonno erano fatti solo di piccoli incidenti, e Nagl una volta aveva pensato che gli incidenti fossero stati la sua vita reale. 167 LV In una trattoria tutta rivestita di legno scuro, sul quale era incollata una tappezzeria che si stava staccando, una donna anziana intingeva del pane bianco nel vino del suo bicchiere. La donna ammiccò amichevolmente a Nagl e imitò il verso di un uccello, poi prese il piatto con le lische di pesce e il limone spremuto e si intrattenne con dei giocatori di carte. Dimenticò di avere il piatto in mano e stette a guardarli. Anna raccontò che il giorno precedente, prima di addormentarsi, aveva cominciato a temere che Nagl volesse ammazzarla con il coltello a scatto che aveva comprato a Roma. Si era immaginata di essere morta e di non sentire più ciò che le avveniva intorno, sebbene ne fosse perfettamente conscia. Nagl, che non voleva rispondere, guardò i capannoni industriali e il mare attraverso le tendine gialle, sporche e mezzo trasparenti. Le si sedette a fianco e le appoggiò un braccio intorno alle spalle. 168 LVI Davanti a Fondamenta Nuove salì sul vaporetto una donna in lacrime con un ombrello blu pavone a strisce color lampone. Sull’acqua Nagl vide i piccoli anelli delle gocce di pioggia. Le imposte e le porte degli edifici erano chiuse. Nessuno camminava per strada. Mentre percepiva tutto questo con tranquillità, Nagl fu improvvisamente certo che la morte non l’avrebbe spento completamente. Non aveva mai provato questa certezza. Da bambino aveva una comprensione così scarsa sia della vita che dell’assenza di vita. Tutto ciò che lo torturava sulla terra, tutto ciò che lo faceva soffrire, si sarebbe dissolto. Non sapeva in che modo, ma ora era convinto che sarebbe successo. In Piazza San Marco i passeri saltellavano tra i piccioni, le gondole dondolavano vuote e, mentre prendevano un altro vaporetto, a Nagl ciò che vedeva apparì incantato. L’idea della sua immortalità gli eccitò i pensieri. Erano seduti sul castello di prora e faceva freddo. Un piroscafo imponente, dipinto di rosso e nero e ancorato davanti a San Marco, emerse dalla nebbia. La gigantesca pala del timone si innalzava fuori dall’acqua. Il vaporetto passò rombando di fronte a un parco con statue, pini e cipressi, poi virò e si diresse verso il mare aperto. 169 LVII Ora Anna si era seduta al coperto e Nagl era solo nel freddo, sul ponte di prora. Una goccia gli pendeva dal naso. Gli sembrava di passare attraverso qualcosa di nuovo nel suo io più profondo. Appena si allontanarono dall’attracco, la pioggia crepitò su di loro. Si ripararono sotto una tettoia di vetro, sotto la quale rilucevano verdognole delle sedie da giardino accatastate e dei tavolini rotondi. Lì accanto c’era un negozio con le vetrine verniciate di bianco. Sulla porta d’ingresso era incollata della carta che si staccava. Non voleva più tornare a vivere in uno Stato che provvedeva a lui e che in cambio pretendeva che facesse un lavoro che con lui non aveva nulla a che fare. Gli uomini avevano nostalgia del lavoro non perché lo amavano, bensì perché altrimenti erano emarginati e non sopportavano questa condizione, pensò Nagl. Si fidò di ciò che gli sarebbe successo. Suo nonno, quando era fuochista, aveva desiderato ardentemente un nuovo Stato nel quale non si sarebbe più sentito solo una nullità, ma la realtà aveva fatto di questa sua speranza ciò che fa di tutti i desideri. Non era tanto l’imperfezione di tutto ciò che disgustava Nagl, quanto la mancanza di vie di scampo che ne derivava. Dietro le cabine, sull’altro lato della strada, sentirono il rumore ritmato del mare. 170 Scesero verso le onde che si srotolavano coronate di spuma e nelle quali si immergeva un muro di calcestruzzo sormontato da una rete di recinzione metallica. Cielo e mare si toccavano in una linea sottile. Un bambino con un impermeabile giallo pedalava sul lungomare. Smontò, si tirò su i jeans mentre la bicicletta rimaneva appoggiata ad una panchina di pietra, poi riprese a pedalare. Dal lato del mare c’era il bar della spiaggia con le pareti, la terrazza e le inferriate di legno traforato, e dietro si innalzavano, nudi e solitari nel cielo, i pennoni delle bandiere. A Nagl sembrava di poter comprendere ogni cosa. Non aveva potuto succedergli nulla a scuola, ma in cambio gli era rimasta solo la routine quotidiana, la materia d’insegnamento con la quale aveva dovuto confrontarsi e che aveva dovuto insegnare ai bambini. Parallelamente a questa, aveva condotto una vita assolutamente segreta, aveva amato la donna di un altro uomo, si era ubriacato fino al punto di crollare sul letto in uno stato di totale incoscienza, per poi alzarsi puntuale il giorno dopo e seguire il lavoro. Non poteva lasciar trasparire nulla. Nagl non provava nessun particolare desiderio per la sua vita segreta, la considerava solo una compensazione per la vita che conduceva pubblicamente. Un merlo dal becco giallo si posò su un cancello di legno bianco dietro il quale si estendeva un palmeto. Nagl pensò al gendarme. Proprio lui, Nagl, l’artefice del dolore del gendarme, era anche stato il suo unico confidente, colui davanti al quale questi non aveva potuto nascondere i propri sentimenti. Baciò il volto gelato di Anna, sentì la sua bocca calda e fu pieno di ricordi. 171 LVIII Quando rientrarono in albergo i loro impermeabili erano completamente fradici . Si fecero portare una bottiglia di grappa dal cameriere e si svestirono. La grappa era forte e meravigliosa. Non avevano ancora mangiato nulla per cena, ma la stanza era calda. Si infilarono sotto le coperte e fecero l’amore. Da fuori gli arrivò il rumore della pioggia. Anna lasciò scorrere l’acqua bollente nella vasca da bagno. Le calze e la biancheria intima erano appese sui portasciugamani e sui braccioli delle poltrone. Anna era seduta sull’orlo della vasca. Mentre sbadigliava, si accarezzava assorta le belle gambe bianche. Lo baciò e, poiché entrambi tenevano gli occhi aperti, si guardarono a vicenda nelle enormi pupille scure. Si sedettero nella vasca e lui la toccò con tenerezza tra le gambe. La saponetta era bagnata. Nagl gliela fece scomparire nella fica e le premette contro il ventre, in modo che scivolasse di nuovo fuori. Vuotarono la bottiglia. Anna cominciò a masturbarlo fino a farglielo diventare duro, poi ci si sedette sopra e lo scopò nell’acqua sciabordante. Era scomodo, ma avevano una tale voglia di amarsi che si muovevano sempre più velocemente. I capelli le ricaddero sul viso e le 172 mani si strinsero con tale forza intorno al rubinetto dell’acqua che Nagl vide le nocche farsi bianche. Le chiese di girarsi e di mettersi in ginocchio davanti a lui. Erano per metà fuori dall’acqua. Nagl sentì che stava sudando, gli si annebbiò la vista e respirò a fatica, allora spinse il sedere di lei sott’acqua perché voleva che entrambi ne fossero sommersi quando veniva. Vedeva la pelle bagnata della schiena di lei davanti a sé, lei si girò con tale destrezza che il suo membro le rimase dentro e lui sentì i testicoli fluttuare nell’acqua. Quando il suo cazzo le scivolò fuori, corsero bagnati in camera, avvolti solo negli asciugamani e Anna gli si sedette sul viso. Lui si era spinto un cuscino sotto la testa e dal basso osservava come lei si sfregava il clitoride, i suoi seni che si drizzavano verso i capezzoli, il suo viso da bambina, estasiato e concentrato. Lei si toccava e lui la leccava infilandole dentro la lingua, ma ora lei era ubriaca e improvvisamente si lasciò cadere da un lato. Nagl era stanco e gli venne in mente la bottiglia di grappa vuota nella stanza da bagno, si alzò, immerse la bottiglia nell’acqua calda e gliela spinse tra le cosce. Lentamente muoveva il collo della bottiglia dentro e fuori. La bottiglia di grappa aveva il collo allargato e Nagl si eccitò nel vedere come la penetrava e come le sue labbra si dilatavano sempre di più e poi, tese e aderenti, si richiudevano sul collo della bottiglia. Erano entrambi ubriachi e Nagl andava su e giù coll’asciugamano intorno ai fianchi e parlava di morte e di separazione. Chiese ad Anna se dormisse. Lei rispose che non dormiva e si 173 addormentò. Nagl continuò a parlare, gettò due compresse di Alka-Seltzer nel bicchiere per sciacquarsi i denti e aspettò finché non si fossero sciolte nell’acqua. Le aveva viste bianche e grosse nel palmo della sua mano, quando le aveva rovesciate dal tubetto di vetro blu, e ora vuotava il bicchiere mezzo pieno d’acqua con le compresse disciolte. 174 LIX La mattina Anna lo baciò fino a quando lui non aprì gli occhi. Gli faceva male la testa, si sentiva male, aveva le vertigini ed era assetato. Ordinò una bottiglia di acqua minerale e la vuotò, mentre giaceva spossato sul letto. Anna gli mostrò il viso gonfio e non rasato riflesso nel suo specchietto di tartaruga, e Nagl rimase sdraiato stiracchiandosi. Poi sentì che Anna gli stava leccando il cazzo. Lo leccava senza toccarlo con le mani e Nagl si accorse di come il suo volto cambiava quando tirava fuori la lingua o quando prendeva il cazzo in bocca. Attraverso lo specchio Nagl poté vedere l’interno delle sue cosce e la testa di lei. Anna tornò ad infilarsi sotto le lenzuola accanto a lui, Nagl le infilò un dito nel culo e Anna si masturbò. Quando lei venne, Nagl si alzò, si mise a gambe larghe sopra di lei e le venne sul viso, sugli occhi chiusi e nella bocca spalancata. Per un lungo momento rimasero distesi immobili uno accanto all’altro. Poi Anna si lavò, aprì la finestra del balcone e Nagl vide il sole brillare. Lei si sedette sul letto girandogli la schiena, giocò con le dita dei piedi e cominciò a stendere lo smalto. Osservò come si prendeva un piede con la mano, con l’altra intingeva il pennellino nella bottiglietta di smalto e lo passava sulle unghie. Dopo un po’ lei gli chiese quando 175 sarebbero tornati. Nagl disse che non lo sapeva; non pensava a ciò che sarebbe successo nei giorni seguenti. Improvvisamente Anna scoppiò in lacrime. Si chiuse in bagno, pianse e uscì truccata e vestita. Nel frattempo anche Nagl si era alzato e vestito. Dopo un attimo cominciò a parlare di vulcani e del ghiacciaio Torfajökull in Islanda. Disse che c’erano città, lassù, nere di cenere. Potenti nuvole di fumo salivano verso il cielo. Aveva letto qualcosa in proposito. Forse era meglio ritornare nell’inverno. Anna pianse e disse che già dal giorno prima si era accomiatata da lui. Rimanergli accanto non lo avrebbe fatto tornare in sé. Lui le descrisse come in Islanda il sole sorgeva sulle distese di neve, del modo in cui il ghiaccio si tingeva di colori e di come dal mare si potevano osservare i ghiacciai. Le descrisse le eruzioni vulcaniche, così come le aveva lette nei libri, ma Anna piangeva, preparò la valigia e la fece portare nel foyer. Allora Nagl tacque. Portò la valigia sul vaporetto e durante il tragitto la tenne sulle ginocchia. Salirono i gradini davanti alla stazione e a Nagl faceva male la mano per la valigia che teneva. Il treno era pronto a partire e Nagl seguì Anna nello scompartimento vuoto. Poi uscì di nuovo. “Se parti domani rimango”, disse Anna e lo abbracciò. Abbassò il finestrino e si sporse fuori. Lui voleva dire che sarebbe tornato, ma il treno si mise in moto. Vide Anna fargli un cenno e rimase fermo finché non vide più nulla. 176 LX In albergo il portiere gli chiese se desiderava cambiare la sua camera con una singola, ma Nagl disse che la signora sarebbe tornata. Ah, la signora torna, disse il portiere. Nagl chiese dove poteva trovare una banca, dove poi cambiò tutti i traveller’s chèque. I vicoli angusti erano talmente rischiarati dal sole, che le lastre di pietra umida abbagliavano e la luce splendeva tra i capelli degli uomini. All’ombra, però, faceva freddo. Sentiva la mancanza di Anna. L’acqua nei canali era verde foglia, ma là dove scorreva verso il sole riluceva argentata. Una donna puliva la vetrina di un negozio con rumori striduli. Nagl rivolgeva ora la sua attenzione unicamente all’esterno. Prese un vaporetto e arrivò fino all’Accademia. I passeggeri, ritti in piedi sui traghetti troppo stretti, attraversavano il canale. Nagl aveva freddo. Guardò davanti a sé e alla curva dell’Accademia l’acqua era così chiara che poté fissarla solo con gli occhi socchiusi. Sentì improvvisamente, fisicamente, che Anna non era accanto a lui e un groppo gli salì in gola. Camminò lentamente per l’Accademia, passando davanti alle pale d’altare dorate di Lorenzo Veneziano e di Nicola di Pietro, si smar177 rì e improvvisamente si ritrovò davanti all’entrata. In fondo gli andava bene. Una donna in cappotto di pelliccia e con un bambino si fermò, tirò su i pantaloni alla zuava, aprì la lampo degli stivali col tacco alto, sistemò meglio qualcosa e poi infilò di nuovo il piede dentro. Nagl stette ad osservarla. Quella scena ebbe qualcosa di intimo per lui. Pensò a come aveva fatto l’amore con Anna e si sentì così abbandonato che desiderò la compagnia di un qualunque essere umano. Dopo un po’ arrivò al mare, alle Zattere al Ponte Lungo, dove erano alla fonda tre grossi piroscafi. Lo prese l’urgenza di passeggiare sulla banchina, fiancheggiata da alberi spogli, e di leggere i nomi della navi. Un piroscafo bianco e marrone si chiamava “Appia”. Gomene enormi portavano a ganci di ferro. Su un’insegna appesa fuori da una casa Nagl lesse che c’erano camere da affittare. Suonò e un uomo calvo gli mostrò un vano buio dalle cui finestre era visibile il piroscafo “Appia”. Pagò l’affitto per una settimana e si sedette in un caffè, sotto un telone verde. Pensò ad Anna, al suo continuo allontanarsi da lui e per distrarsi guardò verso la finestra della camera e verso le navi, sulle cime delle quali sedevano in fila i gabbiani. Bevve del vino e sentì la testa farglisi pesante. Lo colpì un bambino che indossava una cuffia di carta gialla crespata e che sembrava una calta palustre. La madre spingeva una carrozzina nera con le ruote alte. Alcune case delle Zattere avevano le porte e le persiane chiuse e ricordarono a Nagl l’inverno e l’Islanda, ma l’Islanda ora era legata alla partenza di Anna e lui smise di pensarci. Con un vaporetto raggiunse 178 Piazza San Marco. Qualcosa dentro di lui gli diceva che ciò che faceva era senza speranza. Su una delle panchine di pietra ai lati della piazza sedeva un ragazzo, una donna era in piedi tra le sue gambe e gli accarezzava i capelli. Nagl pensò a come sarebbe stato bello essere accarezzato da una donna sconosciuta, e contemporaneamente, nella sua immaginazione, la donna sconosciuta indossava lo stesso soprabito di velluto di Anna. Sentì il battere delle ali e il tubare dei piccioni in stormo e passò davanti al Campanile, dirigendosi verso il “Caffè Quadri”. Tra le arcate dei portici erano appese delle tende enormi, che gli toglievano la vista sui negozi. Vicino ad un apparecchio fotografico montato su un treppiedi, un fotografo contava gli spiccioli. Nagl disse che voleva una fotografia. Il fotografo prese da un sacchetto di carta del becchime per i piccioni e glielo gettò davanti i piedi. Subito fu circondato da piccioni svolazzanti che gli si sedettero in testa, sulle spalle e sulle braccia e che gli sciamarono intorno ai piedi. “Senza piccioni”, disse Nagl. Il fotografo uscì da sotto il suo panno nero e cacciò i piccioni. Nagl fece la faccia seria. Dopo aver pagato il fotografo gli diede una biglietto da visita. Nagl vi scrisse sopra l’indirizzo di Anna, la fotografia doveva essere spedita alla signora. “Naturalmente” dichiarò il fotografo. Su una delle imponenti tende color guscio d’uovo si leggeva, scritto in caratteri neri, “Glove”. Il “Caffè Quadri” aveva aperto. Si affrettò a ritornare in albergo e si fece dare il conto da un portiere attonito. La signora non sarebbe più ritornata, disse. Prese la sua valigia e andò alle Zattere al Ponte Lungo. 179 LXI Non appena si lasciò l’albergo dietro le spalle si sentì sollevato. Nell’accecante luce di mezzogiorno i colori delle case sbiadivano come gusci di gamberi lasciati ad asciugare sotto il sole. Percorse un tratto in vaporetto e dall’acqua le case sembravano ancora più smorte. Solo su un palazzo brillavano un mosaico d’oro con figure e delle finestre ad arco coperte da tendaggi bianchi. Su una delle vetrate stava scritto in caratteri d’oro il nome del proprietario: Salviati. Le vetrine erano vuote e foderate in lino. Salviati era un famoso produttore di vetri, e ora, con la valigia sulle ginocchia, sul vaporetto che procedeva nella chiara luce del mezzogiorno, Nagl tornò col pensiero al nonno. La chiesa di Santa Maria della Salute riluceva di un biancore assoluto. Si accorse di aver saltato la sua fermata, ma rimase seduto tranquillamente. Dava la schiena alla direzione di marcia e guardava le statue bianche che spuntavano dal Canal Grande, davanti all’albergo “Bauer Grunwald”. Tutto sembrava smorto ed esangue, gli stessi pali variopinti smarrivano i loro colori nella lontananza. Di fronte a lui sedeva una donna che indossava guanti di lana bianchi e che teneva un insetto lanuginoso. Nagl si sporse in avanti e vide che era un grillo. 180 Si sedette in un ristorante e appoggiò la valigia su una sedia accanto a sé. Sentiva la mancanza di Anna. Il cameriere che arrivò voleva portare la valigia al guardaroba, ma Nagl glielo proibì. Aveva bevuto ed ebbe la sensazione di emanare un’aura di mistero. Poteva essere un rappresentante di rasoi. La valigia tutta piena di modelli di rasoi con manici in avorio, plastica nera, corno e di manici in legno levigato. Aveva anche pennelli da barba della fattura più raffinata, fatti con peli di tasso e code di bufalo nella valigia, ah ah ah… Oppure era zeppa di banconote, risultato di una rapina a mano armata… Fissò la valigia piena di biancheria sporca e si chiese perché se la portava dietro. Che se ne faceva della biancheria sporca e delle camicie? Ma avrebbe fatto una cattiva impressione se fosse andato ad abitare nella sua nuova stanza senza valigia. Non sarebbe sembrato bello non avere proprio nulla con sé. Guardò l’acqua color mercurio. Gli venne in mente che era inverno e volse gli occhi trasognati verso il fumo oleoso che usciva dal tetto di un vaporetto, mentre questo attraccava all’approdo dall’altra parte del canale. Poi fissò di nuovo la tovaglia e pensò ad Anna. Lei era a casa e quando ci pensò credette di averla persa definitivamente. Se la immaginò che sedeva nello scompartimento ferroviario deserto e dormiva. Forse avrebbe chiacchierato con un compagno di viaggio, dimenticandosi di Nagl. L’idea lo ferì, ma sentì che era giusto se le cose stavano andando così. Quando, dopo un po’ di tempo, guardò di nuovo fuori, si accorse che era buio e che i colori delle case erano tornati a diventare più intensi. Nuvole basse 181 passavano sopra il canale e gli ricordavano il funerale del veterinario, ma ora non aveva nulla in contrario a ricordarsene. D’un tratto i palazzi assunsero colori rosso uovo e foglia di tè, e attraverso il vetro del caffè di fronte vide le tovaglie a quadretti blu e bianchi. Il canale era deserto, salvo che per i vaporetti, e cadevano strisce argentate di pioggia. Nagl sedeva dietro la vetrina, davanti alla porta d’ingresso stavano delle persone che guardavano la pioggia battente. Un temporale invernale brontolava lontano e ogni tanto qualcuno passava di corsa davanti al ristorante. Poco dopo aveva smesso di piovere e il cielo era diventato color ghiaccio, con nuvole gialle e azzurrine verso cui Nagl rivolse lo sguardo. Ai margini dei tetti, coperti da strani comignoli che si allargavano verso l’alto, il cielo era tinto di un tenero giallo e di blu, come se fosse sera, ma era appena suonato mezzogiorno. Un uomo portava in braccio un bambino con un foulard in testa che lo faceva sembrare una gabbia per uccelli coperta da un panno. Nagl pagò e uscì nell’aria gelida di gennaio. Un uomo in tuta da lavoro gli veniva incontro con un’imponente mazzo di rose, vicino a lui correva un cane randagio che leccò Nagl su una scarpa. Nagl ne fu commosso, non sapeva perché, e si girò verso il cane che trottava via annusando. Davanti a un bar sporco c’era una donna incinta che si teneva una mano sulla pancia per sentire i movimenti del suo bambino. Appena si accorse che Nagl la osservava smise imbarazzata e sparì dentro il bar. Attraversò la casa buia e stretta. L’uomo calvo gli aprì e lo condusse alla stanza nella quale, 182 sopra un camino, stava appeso uno specchio con una cornice di gesso verniciata d’argento. Nagl depose la valigia, entrò nella camera a fianco e aprì la finestra che dava sull’“Appia”. Quando l’uomo se ne fu andato, si sdraiò su un sofà appoggiandosi ad un sudicio rotolo per la testa e così poté vedere il cielo, il comignolo e un pezzo del parapetto della nave. Si addormentò per un attimo e si risvegliò una mezz’oretta più tardi. Nella tasca della giacca sentì il coltello a scatto, lo tirò fuori e per un po’ di tempo lo fece scattare e lo richiuse. Forse sarebbe volato fino a Istanbul. Poi pensò che la cosa migliore sarebbe stata andare in qualche posto dove non ci fosse nulla da sperare. Lasciò la valigia nella stanza accanto e scese di nuovo in strada. 183 LXII Si lasciò portare alla stazione da un gondoliere. Un vecchio muto con la lingua penzoloni lo aiutò a salire sulla barca che il gondoliere stava rivestendo con cuscini di pelle blu. L’interno della gondola era verde e c’erano due poltrone belle ed ampie con spalliera e braccioli e due panchine. Il vecchio muto, non appena ebbe aiutato Nagl a salire a bordo, gli mise davanti il suo berretto aperto e il gondoliere aspettò finché Nagl non ci ebbe buttato dentro i soldi. Si inoltrarono in canali secondari puzzolenti, tra barconi della nettezza urbana e chiatte da carico che giravano gli angoli con cautela. Poi scivolarono sotto un ponte ombroso e da una finestra aperta gli giunse il cinguettio e il trillo di canarini. Nagl pensò alla lingua da uccellino di Anna, al suo volto infantile, alla loro vicinanza e, mentre soffriva, si sforzò di osservare tutto ciò che lo circondava. Un portalettere depositò delle buste in una cesta che era stata calata da una casa e che una donna tirò su. In un tranquillo canale verde passarono davanti ad una scuola dalla quale risuonava il frastuono dell’intervallo. Svoltarono nel Canal Grande, Nagl sedeva basso sull’acqua e il suo sguardo si alzò su un palazzo dalle finestre a sesto acuto e dai balconi di pietra. Due donne anziane stavano dietro il mer184 cato coperto, uno scialle nero sulla testa, bastoni da passeggio neri, cappotti, calze e scarpe, altrettanto neri, addosso. La gondola gli passò davanti così vicino, che Nagl vide come una delle due apriva il guscio di un mollusco e se lo cacciava nella bocca sdentata. Davanti all’hotel “Principe” e alle sue fiammeggianti bandiere rossonere il gondoliere dovette fermarsi a prendere un po’ di fiato. Le tende dell’hotel erano abbassate e le alte porte chiuse. Un polipo morto dagli occhi d’oro giaceva sulla scala di legno, all’attracco davanti alla stazione. Nagl aveva pagato e scavalcò l’animale. Girovagò per la stazione, prese informazioni su un treno per Istanbul, andò al binario dal quale era partita Anna e poi si affrettò a lasciare la stazione di nuovo. Vagò nel labirinto dei vicoli angusti, arrivò ad una bottega minuscola e guardò una vecchia che riparava ombrelli: erano disposti su scaffali che arrivavano fino al soffitto e la donna stava lavorando a un esemplare vecchio con un delicato motivo composto da piccolissime rose rosse su sfondo nero; sotto aveva un altro ombrello blu scuro a puntini bianchi. Era da dieci giorni che non si radeva e i suoi capelli erano decisamente grassi, non lavati e incollati a ciocche. In un bar bevve un bicchiere di vino rosso e mangiò due seppioline fredde col limone. Un italiano coi baffetti gli chiese se era inglese. Pagò un bicchiere di vino a Nagl, che lasciò il bar imbarazzato dopo averlo vuotato velocemente. Si ritrovò davanti ad una farmacia che aveva le vetrine a disegni arabescati, sopra le 185 quali era appesa una testa maschile coronata da rami d’alloro verde. Era una bella farmacia, con un’insegna in ferro battuto ornata di svolazzi sulla quale era scritto il nome del proprietario. Da una finestra con vasi di fiori sentì una voce femminile cantare delle arie musicali. Andò nella direzione nella quale presumeva si trovasse il canale, passò davanti a un macellaio e raggiunse l’attracco della chiesa di San Simone. Mentre aspettava il vaporetto contemplò la marea di gabbiani nella luce gialla e la fluida luminescenza sulle onde. Dal vaporetto, quando questo discese il canale, guardò verso i dorati sprazzi di sole tra le nuvole. Si sforzò di osservare il cielo. Forse, pensò l’insegnante, questa era la sensazione più bella che avrebbe dovuto raccontare ai suoi scolari: la libertà era una condizione nella quale non provavano più alcuna paura. Una donna che indossava un cappotto di pelliccia e grandi occhiali da sole gli sedeva davanti: decise di seguirla. Viaggiavano tra i palazzi con muri sui quali era colato il colore verde delle imposte, e Nagl fissava la nuca della donna. Quello sguardo, pensava, doveva sentirlo. Voleva che si voltasse, in modo da vederle il viso, e pensava anche che avrebbe mosso la testa, se solo il suo sguardo sulla nuca fosse stato risoluto a sufficienza, ma il vaporetto proseguiva il suo viaggio e la donna non si girava verso di lui. Nagl si ripromise mentalmente che le avrebbe rivolto la parola, non importava nulla l’aspetto di lei e cosa potesse succedere. Il traghetto attraversò il canale davanti al mercato del pesce e della frutta, e là dove la mattina presto c’era il mercato del pesce erano 186 sistemate delle carriole. Il Ponte di Rialto comparì pezzo per pezzo come un muro bianco dietro la curva. Gli passarono sotto. Davanti all’attracco dell’Accademia tremolavano sull’acqua migliaia di puntini di luce dorata, il sole della sera faceva splendere di color giallo miele le finestre dei palazzi vicini e di verde quelle più lontane. La donna scese alla stazione successiva, e Nagl vide per la prima volta il suo viso. Non era più giovane. I capelli erano tinti di biondo e curati, le mani svelavano i suoi cinquant’anni. Nagl la seguì in una birreria, nella quale venne salutata dall’uomo dietro al bancone. Doveva rivolgerle la parola, ma non trovava il coraggio e, quando nessuno li osservava, la fissava negli occhi. Di tanto intanto lei gli gettava uno sguardo, ma si girava di scatto non appena i loro occhi si incontravano. La birreria si riempì a poco a poco di persone, e poiché la donna veniva presa sempre meno in considerazione dal barista, Nagl si fece più coraggioso. La donna era una svedese che a Venezia era stata sposata con un attore. Ma suo marito l’aveva lasciata e i suoi figli vivevano separati da lei. Nagl la invitò a cena, ma lei rifiutò. “Allora un bicchiere di vino?”, chiese Nagl. Si, un bicchiere di vino lo avrebbe bevuto insieme a lui. Rise, e Nagl notò che aveva bevuto troppo. Lei gli raccontò della sua vita, parlando freneticamente e seguendo il flusso spontaneo dei suoi pensieri. Gli chiese che professione avesse. Nagl rispose che era un ricercatore artico. Le raccontò dei vulcani in Islanda e della pioggia di cenere e dei ghiacciai. Poi la donna volle sapere quanto sarebbe rimasto ancora a 187 Venezia, e Nagl disse che sarebbe partito il giorno seguente…Il giorno seguente, di già? Si, il giorno seguente. Era un peccato. Dove abitava? Alle Zattere di Ponte Lungo. Ah. Aveva affittato lì una stanza. Poteva invitarla? Comprò una bottiglia di Merlot e prese una barca per andare al Canale della Giudecca. Sulla barca non si parlarono, sebbene Nagl si sforzasse di trovare un argomento di conversazione che distraesse la donna. Le chiese come si chiamava, e lei disse Luisa. Da quando viveva a Venezia, suo marito l’aveva chiamata così. Risalirono il Canale della Giudecca. Spalancò la porta della camera e la condusse nella stanza buia con il camino, lo specchio e la valigia. “Ah, ha già fatto i bagagli”, disse la donna. Si sedette e gettò uno sguardo alla nave fuori dalla finestra e al mare notturno. “Scrive libri?”, chiese. Si tolse il cappotto di pelliccia. Nagl si stese sul sofà e si appoggiò col busto alla parete. Disse che scriveva libri sui vulcani e sulle piante dell’artico. Ricominciò a parlarne, aprì la bottiglia, ma non trovò bicchieri. Le chiese scusa per la mancanza di bicchieri, ma la donna rise e gli disse di spegnere la luce. Nagl lo fece e la donna disse: “Non posso. Lei è così giovane”. “Domani se ne pentirà”, aggiunse dopo una pausa. “Non riaccenda la luce”. Andò verso il letto, si spogliò e scivolò sotto le coperte, Nagl fece cadere i pantaloni e la seguì. Il suo seno era grosso e sodo e la fica era calda e bagnata, ma non volle che la baciasse. Si mise a sedere respirando a fatica, mentre Nagl l’abbracciava. Riusciva a contrarre meravigliosamente la 188 sua fica e poi tornava a rilassarla, i suoi glutei erano morbidi e delicati e i seni, che Nagl palpeggiava, duri. Gli chiese se sarebbe tornato. Nagl rispose di sì. Per il suo ritorno sarebbe stata snella come una ragazzina. Sarebbe andata a nuotare e non avrebbe bevuto alcolici. Si sedette sul suo cazzo e si dondolò su e giù, finché venne e anche Nagl venne e, sdraiandosi su un lato, si addormentò. Si svegliò che la donna stava vestendosi nella semioscurità. Subito vide che la testa le era diventata piccola, perché i capelli si erano schiacciati. Le sue ciglia artificiali si staccavano dalle palpebre e con la bocca faceva un rumore come quando dei denti falsi vengono premuti contro le gengive. Nagl si ricordò che non si era lasciata baciare. Fissò lo sguardo sul soffitto e la sentì che rovistava nella borsetta. Dopo un momento lei gli si avvicinò profumata e truccata. Gli aveva lasciato il suo indirizzo sul comodino, nel caso ritornasse. Lo pregò anche di chiudere a chiave dopo la sua uscita, spalancò la porta di casa, lasciò la chiave vicino alla porta d’ingresso e sparì. Nagl guardò fuori dalla finestra, ma la donna non era più in vista. Lesse il suo nome: Luisa Zanoletti. Abitava in Calle delle Veste. Si rimise a letto, ma non riuscì a dormire. Non gli importava nulla di essere solo. Ora poteva pensare ad Anna senza che gli facesse male. Fuori c’era la grossa nave. Ma sopra l’oscurità, sopra la notte c’erano gli spazi, gli spazi infiniti. Guardò l’ombra nera dell’“Appia” davanti alla sua finestra e si immaginò di uscire con lei sul mare. 189 LXIII Quando si svegliò, la mattina dopo, l’“Appia” era sparita dalla sua finestra. Era una stupenda giornata di sole al sud. Gli tornò in mente un suo viaggio con Anna al Grossglockner2. Pensò di telefonarle, ma non voleva raccontarle bugie. Il mare era verdazzurro. Sulla banchina camminavano due poliziotti con indosso gli impermeabili e i fucili a tracolla, la canna verso il basso. Mentre si vestiva, Nagl si ricordò della ragazza di Roma, distesa morta davanti al suo albergo. E pensò all’uomo che gli era entrato in camera, al gendarme e a Luisa. Era una bella donna sfiorita, e Nagl si chiese cosa facesse durante il giorno. Scese in strada e decise di spingersi nelle vicinanze della sua abitazione. Delle navi, coperte da sbiaditi teloni da pioggia marrone chiaro, dondolavano nel canale. Andò fino a Rio della Fava. Gradini scendevano da umide case di mattoni nell’acqua. Sul Ponte dei Barcaroli vide una donna con un cappello blu e un cappotto in pelle di coniglio che suonava ad una casa. La porta fu aperta e la donna entrò. Sopra l’acqua si sporgeva un balcone di ferro, sotto il quale Nagl lesse che in quella casa aveva abitato Mozart da bambino. Nagl contemplò la casa e una __________ 2 Montagna più alta dell’Austria (3797 m. s.l.m.) appartenente al Gruppo del Glockner. 190 donna con gli occhiali ne uscì, rimanendo in piedi sulla porta e aspettando di sapere cosa volesse Nagl. Nagl non voleva nulla e la donna richiuse lentamente la porta. Arrivò in Calle delle Veste, si fermò, ma poi se ne ritornò velocemente in Piazza San Marco, dove si sedette davanti al “Caffè Quadri” e ordinò una grappa che bevve in un lampo. I piccioni tubavano e, al sole, Nagl fu preso dalla sonnolenza. Dietro le cortine di tela sollevate vedeva negozi con portoni in marmo e due apparecchi fotografici montati su cavalletti di legno e con panni neri. Un cane dormiva su uno dei lunghi tavoli di legno che sembravano bancarelle del mercato vuote… Pagò ed entrò nel Palazzo del Doge con una schiera di turisti. Ma sentiva una strana sensazione di vuoto. Passava davanti a tutto senza fare la minima attenzione, davanti alla portantina nera con le decorazioni d’oro, al soffitto a cassettoni pure dorato, ai nomi scarabocchiati nella fuliggine del vecchio camino, alle carte da parati di seta giallo oro e alle sedie antiche. Solo una volta, proprio all’inizio, si fermò davanti ai due globi terrestri marroni, grandi quanto una persona e incorniciati nel legno decorato, ma non aveva nessuna voglia di pensare, si limitò a sovrastare le sfere di legno e a contemplarle. Poi si spinse oltre, davanti a tavoli neri, intarsiati con motivi di uccelli colorati, fiori, grappoli, foglie e animali, davanti ai quadri neri come il catrame di Hieronymus Bosch, ai cassettoni con lavori d’intarsio in legno di rosa e madreperla, ai soffitti di travi a vista con ghirlande di fiori, alle logore poltrone di velluto rosso cardinale con foglie ornamentali d’oro, ai trasparenti vetri a ton191 di piombati, alle pareti di legno indorate o color tabacco, ai Tintoretto e ai Veronese sui soffitti, al grande spioncino su una porta, agli orologi da parete verdi, blu e oro, ai giganteschi candelieri dorati fissati alle pareti, alle panche con i sedili divisi e con i braccioli, ai saloni odorosi di legno vecchio, per arrivare infine ad un balcone fuori dal quale vide il mare luccicante, San Giorgio Maggiore e la Giudecca. Era una vista bella e ampia, come se un uomo avesse costruito quel balcone per raccogliere tutte le forze e da lì spiccare il volo nell’universo. Pensò ai due grandi globi terrestri e alla nave alle Zattere e al viaggio in ferrovia. Quando, poco dopo, strisciò nelle carceri – basse celle blindate con inferriate doppie – vide sotto la grata la pietra tirata a lucido come avorio sulla quale erano incisi i nomi e i volti dei prigionieri: Pirico Camillo e Francesco Sforsa. Quando vide gli anelli di ferro alle pareti e lesse le date, sentì di nuovo solitudine e abbandono. Nella stanza del tesoro della basilica di San Marco splendevano i mosaici incorniciati d’oro. Sotto la cupola dorata del duomo risplendeva la luce del giorno, come a confortarlo. Nagl, frastornato, si inerpicò per tortuosi corridoi di pietra arrivando alto sulle teste degli uomini e vide brillare, sotto un tetto di vetro, i mosaici che sovrastavano i portali. Uscì su un balcone dal quale vide i piccioni correre come formiche sugli ornamenti del pavimento di pietra di Piazza San Marco e gli uomini minuscoli come lillipuziani. 192 LXIV In Calle delle Veste trovò la casa e la targhetta col nome, ma non suonò. Di fronte alla casa c’era una latteria nella quale Nagl vide una signora anziana con le calze che le erano scivolate sul polpaccio. In una mano portava la retina per la spesa, nell’altra teneva un fazzoletto. Mentre aspettava nel piccolo negozio affollato, si faceva aria con il fazzoletto davanti al naso. Nagl pensò di suonare, poi vagabondò fino al Ponte di Rialto, trovò un bar e bevve una grappa. Il gestore del bar non era molto loquace, versò silenziosamente un bicchiere a Nagl e si mise a fare i conti su dei pezzetti di carta. Poiché credeva di essere debitore di una conversazione accese la radio. Nagl sentì come diventava ubriaco. Ora il cielo sopra Piazza San Marco era rosso porpora, l’acqua quasi nera. Nagl uscì al freddo ed era felice. Il sole era un disco rosso dorato che tramontava velocemente dietro i palazzi. Il color porpora alle spalle delle case si perdeva nel mare, portandosi dietro un fiume di rosse nuvole filamentose. Là dove Nagl intuiva il campanile, piccola e luminosa risplendeva nella luce calante del sole la figura di un angelo d’oro, mentre il cielo diventava violetto e, più discosto dalle case, trascolorava nel verde. L’angelo splendeva di un chiarore sovrannaturale, mentre il cielo 193 diventava blu chiaro e lentamente passava all’oscurità della notte. Dal vaporetto Nagl vide l’ultimo spicchio di cielo di un viola intenso che sempre più veniva coperto dal nero della notte. Ma l’angelo illuminato splendeva ancora più luminoso e chiaro. Si dirigevano verso di lui, e Nagl pensò: “Finalmente è come nella vita e non come in un sogno”. 194 LXV Scese davanti al Ponte dell’Accademia. Cosa aveva raccontato a Luisa? I ghiacciai che mandavano bagliori sul mare, le montagne di ghiaccio, i deserti di neve. Nella sua camera c’era la valigia. Tempeste di neve infuriavano là dove il sole tramontava. Ciò nonostante gli sembrò che quel gelo lo stesse aspettando. Risalì lungo le Zattere. Un vecchio circondato da gatti sedeva su una panchina di pietra. I gatti gli si strusciavano ai piedi, si affilavano le unghie sul suo bastone da passeggio e gli si avvicinavano da dietro, passandogli dalle braccia al grembo. Nagl si fermò e lo guardò. L’uomo aveva un pacchetto avvolto in carta da giornale. Sembrava aspettare qualcosa, guardò l’orologio, si alzò, si sporse in avanti. Erano gatti sporchi e randagi, che gli stavano intorno, infilavano la testa sotto il suo bastone da passeggio, gli si strofinavano addosso. Da un vicolo laterale uscì una donna con dei sacchetti di plastica. Stese la carta di giornale e diede da mangiare ai gatti dei resti di pesce. Il vecchio consegnò con cura il suo pacchetto alla donna, rimanendo in piedi e chinato in avanti, appoggiato sul suo bastone munito di 195 un tappo di gomma sul fondo, e osservando soddisfatto come i gatti divoravano i suoi avanzi. Anche la donna ora taceva. Sospirò e ripiegò la carta. Come il vecchio vide che tutti i gatti mangiavano, lentamente si ritirò, curvo e solo nell’oscurità nella quale giacevano le grosse navi. Nagl lo seguì, ma l’uomo passò davanti a casa sua. Nagl si stese sul letto e aspettò. Pensò al fatto che il ghiaccio dell’Artico si chiama ‘ghiaccio eterno’. Il ghiaccio era blu. Pensò all’arcipelago delle Spitzbergen. Le Spitzbergen erano l’unico luogo che gli venisse in mente. Come divenne chiaro, Nagl raggiunse Mestre. Non riusciva più a vedere l’angelo in cielo. Da Mestre prese un pullman per l’aeroporto Marco Polo e comprò un biglietto per Fairbanks, Alaska. 196 Gerhard Roth - Narrativa e saggistica*: Die Autobiographie des Albert Einstein, 1972 Künstel, 1972 Der Wille zur Krankheit, 1973. Der große Horizont. Roman, 1974 Ein neuer Morgen. Roman, 1976 Winterreise. Roman, 1978. Die Archive des Schweigens, 1980-1991. Quest’opera è composta di sette volumi diversi, usciti nell’arco di undici anni: 1. In tiefen Österreich. Bild/Textband, 1990. 2. Der stille Ozean. Roman, 1980. 3. Landläufiger Tod. Roman, 1984. 4. Am Abgrund. Roman, 1986. 5. Der Untersuchungsrichter: die Geschichte eines Entwurfs. Roman, 1988. 6. Die Geschichte der Dunkelheit. Ein Bericht, 1991. 7. Eine Reise in das Innere von Wien. Essays, 1991. Die schönen Bilder beim Trabrennen. Roman, 1982 Über Bienen, 1989 Das doppelköpfige Österreich. Essays, Polemiken, Interviews, 1995. Der See. Roman, 1995. Gelibte Susanne. Erlebnisse mit ein Siamkatze, 1998. Der Berg. Roman, 2000. __________ * Per una bibliografia analitica dell’opera di G. Roth e della critica rothiana si rimanda a S. Ryan, Gerhard Roth: eine Bibliographie, Dunedin (New Zeeland), Department of German – University of Otago, 1995. 198 Gerhard Roth - Opere teatrali: Lichtenberg, regia di Peter Fitzi, 1973. Sehnsucht, regia di Wolfgang Bauer,1977. Dämmerung, regia di Fritz Zecha, 1978. Erinnerungen an die Menschheit, regia di Emil Breisach, 1985. Fremd in Wien, Wien, Schloßtheater Schönbrunn, 1993. Films tratti da opere di Gerhard Roth o sceneggiature originali dell’autore: Der große Orizont, film per la TV, sceneggiatura basata sull’omonimo romanzo di G. Roth, regia di P. Lehner e G. Roth, ORF, 1976. Der stille Ozean, sceneggiatura basata sull’omonimo romanzo di G. Roth, regia di F. X. Schwarzenberg, ORFZDF, 1983. Landläufiger Tod, film per la TV in due parti, sceneggiatura basata sull’omonimo romanzo di G. Roth, regia di M. Schottenberg, ORF-WDR, 1991. Das Geheimnis, sceneggiatura originale di G. Roth, regia di M. Schottenberg, ORF-ZDF, 1994. Geschäfte, film per la TV, sceneggiatura originale di Gerhard Roth, regia di Michael Schottenberg, ORF-ZDF, 1994. Eine Reise in das Innere von Wien, documentario TV, sceneggiatura basata sul testo omonimo di G. Roth, regia di J. Schütte, ORF, 1995. Schnellschuß, film per la TV, sceneggiatura originale di G. Roth, regia di Th. Roth, ORF, 1995. 199 Studi critici su Gerhard Roth: BATL Marianne, Gerhard Roth, Wien – Graz, Droschl, 1995. ENSBERGER Peter, Gerhard Roth, Tübingen, Stauffenberg, 1994. FISCHER Günther, Gerhard Roth, München, Text + Ktitik, 1995. GRUBER, Erika, Zur Naturauffassung Gerhard Roths, Wien, Diplomarbeit, 1995. RYAN Simon, Gerhard Roth: eine Bibliographie, Dunedin (New Zeeland), Department of German – University of Otago, 1995. Studi critici su Winterreise: DREWITZ Ingeborg, Gerhard Roth: Winterreise, in “Neue Deutsche Hefte”, Heft 2, n° 158, 1978, pp. 365366. MELZER Gerhard, ‘Dieselben Dinge täglich bringen langsam um’. Die Reisemodelle in Peter Handkes ‘Der kurze Brief zum langen Abschied’ und Gerhard Roths ‘Winterreise’, in AA.VV., Die andere Welt. Aspekte der österreichischen Literatur des 19. Und 20. Jahrhunderts. Festschrift für Hellmuth Himmel zum 60. Geburstag, Bern und München, Francke Verlag, 1979, pp. 373-393. SEBALD W. G., Der Mann mit dem Mantel. Gerhard Roths Winterreise, in Die Beschreibungs des Ünglucks. Zur Österreichischen Literatur von Stifter bis Handke, Salzburg und Wien, Residenz Verlag, 1985, pp. 149-164. SEBALD W. G., Literatur. Pornographie? Zu Winterreise Roths, in “Merkur”, n° 38, 1984, pp. 18-45. 200 Finito di stampare nel mese di agosto dell’anno 2001 dalla Press R3 di Almenno San Bartolomeo per conto della Lubrina Editore di Bergamo Gerhard Roth Sguardi, 1 Lo scrittore austriaco Gerhard Roth (Graz 1942) è noto soprattutto per aver scritto dal 1972 ad oggi numerosi romanzi, racconti, saggi e opere teatrali. Di particolare rilievo è il ciclo romanzesco intitolato Archivi del silenzio composto in sette volumi nell’arco di undici anni 1980-1991. Viaggio d’inverno, pubblicato nel 1978, ha ricevuto da subito importanti riconoscimenti . in copertina: Sandro Luporini, il bacio, 2000 (particolare) olio su tela, cm 50 x 60 Il presente volume è stato tradotto dal tedesco da Luca Bani con il contributo della Comunità Europea nell’ambito del programma “Cultura 2000”. Cultura 2000 ISBN 88 7766 238 7 Lire 28.000 - Euro 14,46 - iva inclusa Lubrina Editore Viaggio d’inverno Il delirio interiore del maestro Nagl sfocia nel desiderio irrefrenabile di lasciarsi alle spalle la vita quotidiana, nell’impulso a partire e a viaggiare per cercare di dare finalmente un equilibrio e un senso alla propria esistenza, dopo tanti anni di vita inconsapevole e trascinata. Napoli, Roma e Venezia sono le mete di questo lungo vagabondare, che se da un lato ripropone parodisticamente le tappe fondamentali del Grand Tour Sette-Ottocentesco, dall’altro descrive l’esperienza di un personaggio confuso e sconcertato di fronte alla frantumazione della realtà contemporanea e alla perdita della dimensione epica e totalizzante della vita. Con questo romanzo Gerhard Roth entra di diritto nella più alta tradizione letteraria austriaca, ripercorrendo il sentiero già tracciato da autori come Joseph Roth e Robert Musil.