Circolo “Fabiano Grizzo” di Pordenone
ISBN 978-88-7562-175-9
a cura di Moreno Baccichet
Letture del paesaggio agrario del Friuli Occidentale
Moreno Baccichet, architetto professionista, è dottore di ricerca in Storia
dell’architettura e dell’urbanistica e si occupa di storia del territorio veneto-friulano.
Da alcuni anni insegna allo IUAV di Venezia, all’Università di Ferrara e di Udine.
Attivo ambientalista da un ventennio promuove esplorazioni partecipate sul tema del
paesaggio del Friuli Venezia Giulia con Legambiente FVG.
IL CIBO PRODUCE E TRASFORMA I PAESAGGI
Il cibo da sempre produce paesaggio: le diverse tradizioni alimentari si sedimentano
e trasformano i territori. L’evoluzione della società contemporanea e, soprattutto, del
rapporto tra città e campagna, porta a nuove trasformazioni sul paesaggio, indotte dagli
stili di vita, dai modelli comportamentali, dalle abitudini alimentari della popolazione.
Alcuni prodotti, che nel Friuli Occidentale consideriamo storici, sono stati inventati
poco più di un secolo fa e anche il concetto di recupero della tradizione a volte propone,
nel bene e nel male, cibi molti diversi da quelli originari. Le campagne producono
quello che le città chiedono e oggi che tutto il territorio è di fatto città, soprattutto in
contesti densamente abitati come quello pordenonese, la campagna esprime in termini
paesaggistici l’idea delle comunità inurbate.
L’economia e le mode alimentari inluenzano in maniera determinante l’evoluzione del
paesaggio, ma questi cambiamenti sono così lenti che a volte non si percepiscono.
Percorrere il territorio a piedi, tenendo conto di una lettura diacronica e storica
rispetto alla produzione del cibo nel territorio, come abbiamo fatto con la campagna di
Legambiente “Il cibo produce e trasforma il paesaggio”, permette di cogliere i mutamenti
in corso, innescando occasioni di dibattito e critica.
IL CIBO PRODUCE E
TRASFORMA I PAESAGGI
Letture del paesaggio agrario del Friuli Occidentale
a cura di Moreno Baccichet
IL CIBO PRODUCE E
TRASFORMA I PAESAGGI
Letture del paesaggio agrario del Friuli Occidentale
Il progetto è stato realizzato dal Circolo Legambiente “Fabiano Grizzo” di Pordenone,
grazie al contributo della Regione Friuli Venezia Giulia, ai sensi della LR 23/2012
luoghieterritori.wordpress.com
a cura di Moreno Baccichet
© 2016 Moreno Baccichet
e
Olmis
33010 Osoppo (UD) - Via Andervolti 23
olmis@olmis.it - www.olmis.it
Pordenone, 2016
fotograie ed elaborazioni graiche delle mappe a cura di Walter Coletto
graica e stampa: Rosso soc. coop - Gemona del Friuli (UD)
ISBN 978-88-7562-175-9
PREFAZIONE
Il Circolo Legambiente di Pordenone, dopo la ventennale esperienza della
campagna “Scarpe&Cervello”, ha elaborato, nell’ambito della nuova campagna “Luoghi&Territori”, il progetto “Il cibo produce e trasforma i paesaggi”,
che gode del contributo della Regione Friuli Venezia Giulia ai sensi della L.R.
23/2012.
La campagna di ricerca partecipata dedicata per il 2015/16 al rapporto tra
cibo e paesaggio, ha attivato un osservatorio sulle recenti trasformazioni
dei paesaggi agrari della provincia di Pordenone. Con le parole dell’animatore del progetto, Moreno Baccichet, la lettura del paesaggio agrario del
Friuli Occidentale è rivolta all’indagine di come le diverse tradizioni del
cibo si siano via via sedimentate e abbiano prodotto paesaggi diversi, a
partire dall’Ottocento a oggi.
La campagna si articola in uscite di esplorazione a piedi, con itinerari che
interconnettono le visite alle esperienze di nuova agricoltura presenti sul
territorio, durante le quali tutti i partecipanti sono sollecitati a osservare e
identiicare le interazioni tra cibo e paesaggio.
Ed è proprio durante questi momenti di osservazione e dibattito, che hanno
riguardato inevitabilmente anche più ampie rilessioni sulla nuova agricoltura e sugli scenari futuri del settore, che è nata l’idea di promuovere un
momento di discussione sul futuro dell’agricoltura e una piattaforma di
buone pratiche accessibile on line.
Un convegno dal titolo provocatorio “Ci sarà un’agricoltura nel Friuli Venezia Giulia nel 2021?” si è tenuto nel gennaio 2016 alla iera Agriest Land
di Udine: da una discussione delle prospettive future sono state evidenziate
debolezze e criticità (ma anche possibili vie d’uscita) e nuove progettualità raccontate da soggetti attivi di nuova agricoltura.
I materiali qui riportati costituiscono una sorta di work in progress del progetto “Il cibo produce e trasforma i paesaggi” che tempo dopo tempo si
arricchisce di nuove proposte di contenuti e nuovi approfondimenti. Una, in
corso di elaborazione, è costituita da una buona pratica di recupero dei terreni abbandonati nelle aree marginali che, attraverso lo strumento dell’associazione fondiaria nata in Piemonte da esperienze francesi e recentemente approdata nelle Valli del Natisone, può trovare applicazione anche
alla nostra collina abbandonata.
Renato Marcon
Presidente del Circolo Legambiente “Fabiano Grizzo” di Pordenone
5
INTRODUZIONE
di Moreno Baccichet
La campagna di ricerca partecipata, dedicata per il 2015/16 al rapporto tra
cibo e paesaggio, ha attivato un osservatorio sulle recenti trasformazioni
dei paesaggi agrari della provincia di Pordenone. La produzione di alimenti
per la popolazione, insieme alle attività di estrazione e trasformazione, ha
sempre inluenzato in modo diretto l’idea che l’uomo ha dell’aspetto formale del territorio. Sul suolo, nel tempo, si sono succedute numerose forme
economiche che hanno di volta in volta interpretato il sostrato geopedologico, a volte stravolgendo l’aspetto dei luoghi. Pensiamo per esempio alla
pianura arida posta a monte delle risorgive e disboscata nel Medioevo per
costruire un paesaggio di praterie conservato solo attraverso pochi brandelli di magredi tutelati per legge. Queste zone oggi sono quelle maggiormente infrastrutturate da un punto di vista agricolo, con un disegno colturale che vanta poco più di cinquant’anni. In modo del tutto opposto, i grandi
pascoli delle Prealpi Carniche, che tra Medioevo ed età moderna permettevano di vendere carne e lana in pianura, adesso stanno diventando delle
boscaglie infruttuose.
Durante le escursioni si osserva come le pratiche agricole trasformano il paesaggio
L’economia, assieme alle mode alimentari, inluenza in modo determinante
l’evoluzione del paesaggio. Questi cambiamenti sono così lenti che a volte
non riusciamo a percepirli ma percorrere il territorio a piedi ci ha permesso
di incontrare nuove occasioni di trasformazione e anche qualche occasione
di dibattito e critica.
Il cibo da sempre produce paesaggio, quindi le scelte di produzione e di
modelli di vita inluenzano moltissimo le trasformazioni colturali. Abbiamo
cercato di approcciare il problema attraverso una lettura diacronica delle
trasformazioni paesaggistiche, dimostrando che alcuni prodotti che consideriamo storici, in realtà sono stati inventati poco più di un secolo fa e che
7
Il paesaggio nella campagna di Budoia
anche il concetto di recupero della tradizione a volte propone, nel bene e
nel male, dei prodotti molti diversi da quelli originari.
Le campagne producono quello che le città chiedono e oggi che tutto il
territorio è di fatto città, soprattutto in contesti densamente abitati come
i nostri, la campagna esprime in termini paesaggistici l’idea delle comunità
inurbate.
Non è un caso che oggi la campagna bruci cibo per produrre energia da
sfruttare nelle fabbriche. È cibo che viene considerato solo come un prodotto che deve lentamente fermentare per produrre gas ed essere trasformato
in energia elettrica. In una società complessa come la nostra, il rapporto tra
cibo e territorio non può che essere complesso e anche in un ambito piccolo
come il Friuli Occidentale abbiamo voluto organizzare otto discussioni peripatetiche, su stradine e sentieri, per cogliere certezze e dubbi. Lungi da noi
l’intenzione di richiedere un passatista recupero della tradizione, il sistema
del villaggio medievale autosuficiente non è di certo proponibile, ci limitiamo, invece, a osservare quello che sta accadendo sul territorio per sollecitare azioni alla politica. Azioni che necessariamente devono muoversi su
due fronti paralleli: quello dei produttori e quello dei consumatori. Queste
sono due forze che continuamente interagiscono all’interno di un mercato
sempre più globale, mentre il territorio ha una dimensione locale e micropaesaggistica.
Solo la politica può riuscire a costruire un’idea di futuro che metta in relazione le forze capaci di trasformare l’ambiente delle campagne. Alla politica,
8
quindi, il compito di promuovere nuovi stili di vita e di consumo, come pure
di controllare e promuovere le trasformazioni isiche dei luoghi, in primis
attraverso il Programma di Sviluppo Rurale, che distribuisce sul territorio
gran parte delle risorse dell’Unione Europea.
Il paesaggio non nasce dal caso ed è governato da ideali. Come spiegarsi
altrimenti lo sviluppo di molte modalità di produrre cibo nei territori delle
frange urbane? Non si tratta di una risposta a uno storico sradicamento del
contemporaneo abitare?
Le società sentono sempre di più il signiicato etico di pratiche sociali di agricoltura e di collaborazione senza per questo rifarsi alle modalità di gestione
comunitaria delle risorse agricole in età medievale. Anzi il rapporto “local”
con le iliere di consumo responsabile e con l’autoproduzione si inserisce
perfettamente in un quadro di consapevolezza che riconosce come la questione dell’alimentazione sia un problema globale. Ancora una volta, per noi
che proveniamo dall’ambientalismo scientiico degli anni Settanta del secolo scorso, il rapporto con i temi del cibo e dell’alimentazione va vissuto alle
due scale: “pensare globalmente e agire localmente”. Ma questo pensiero
non può essere privo di un approfondimento che tenga conto di una lettura
diacronica e storica rispetto alla produzione del cibo nel nostro territorio.
Quasi tutte le cose che oggi consideriamo tradizione alimentare, per esempio il formaggio di latteria, dificilmente vantano una storia più vecchia di
un secolo. All’interno del disegno agrario bassomedievale, che ancora oggi
organizza i nostri territori, si sono affermate e poi sono scomparse molte
Un piccolo orto nella tavella di Tramonti
9
attività di produzione e trasformazione del cibo. Il disegno territoriale è rimasto lo stesso, mentre la cultura agricola si è continuamente trasformata.
È dificile descrivere cosa accadeva e si produceva in un determinato ambito del Friuli Occidentale, ma abbiamo cercato di leggere in gruppo, a piedi,
le trasformazioni degli ultimi duecento anni, quelli meglio documentati. Lo
abbiamo fatto anche incontrando chi oggi sta proponendo nuove tradizioni
prossime a venire, mettendo in gioco la propria capacità imprenditoriale e i
propri ideali personali.
Certamente, pur essendo un territorio di piccola dimensione, non siamo
riusciti a raccontare la storia di tutti, ma ci siamo limitati a una selezione
di casi collocati lungo itinerari che hanno la capacità di rendere esplicita e
comprensibile questa lettura diacronica del rapporto tra la produzione del
cibo e il paesaggio.
10
1 Una lettura diacronica
11
1.1 Leggere le trasformazioni del paesaggio
attraverso le strategie dell’alimentazione:
brevi note sull’allevamento
Con questo saggio introduttivo vogliamo
rendere conto di una indagine che ha interessato la prospettiva di ricerca osservando in modo particolare le trasformazioni
dell’allevamento in Friuli Occidentale. La
questione degli animali e del loro impatto
nella trasformazione del paesaggio ci veniva
posta soprattutto dai temi degli abbandoni di enormi superici un tempo destinate
al pascolo o alla produzione del foraggio. I
boschi di nuova formazione sono l’evidente conseguenza di pratiche di sfruttamento
delle risorse ambientali non più in uso. L’occasione di costruire, attraverso una iniziati-
In verde i pascoli dell’alta pianura pordenonese nella Kriegskarte del 1805
13
zioni produttive dettate dall’evoluzione del
gusto e del cibo non sembrava avessero toccato la Patria del Friuli.
Invece così non era. Molto si era fatto, per lo
più in modo spontaneo, ma poco si era concretizzato in qualcosa che non fosse l’esperimento di un ricco possidente. La capacità innovativa della costruzione, a scala regionale,
di un sistema della seta, non aveva avuto seguito in nessun altro settore dell’agricoltura.
Le grandi praterie pubbliche, ancora resistenti nell’iconograia, mostravano tutta l’incapacità veneziana di promuovere una rivoluzione
sociale oltre che colturale. Le grandi praterie
dimostravano ancora la persistenza del pascolo brado all’esterno della regione agraria
dedicata ai seminativi. All’interno dei terreni
pianiicati nel Medioevo, le chiusure, che rendevano impossibile il pascolo pubblico sulle
terre private, erano pochissime. Per lo più
le tradizioni storiche continuavano a essere
un’abitudine3. La dualità paesaggistica tra
praterie pubbliche e seminativi privati continuava ad essere caratterizzante del Friuli Occidentale e durante gli ultimi anni del governo
veneziano non si erano viste novità di sorta.
La presenza territoriale di una maglia itta di
insediamenti faceva sì che non fosse possibile dismettere terreni coltivati a favore di un
aumento degli spazi del pascolo come era accaduto in Inghilterra. Lì lo sviluppo industriale aveva fatto crescere la richiesta di lane e il
trasferimento di ex-agricoltori all’interno dei
moderni distretti della trasformazione. Ma il
Friuli era in ritardo rispetto al nord Europa e
si dovrà attendere il 1841 per veder insediarsi nel territorio industrie moderne, capaci di
assorbire la manodopera agricola in eccesso.
La ilatura di Torre, però, si limiterà alla sola
trasformazione dei beni che venivano condotti a Pordenone via acqua e poi via ferrovia.
Quindi non avrà alcun impatto sul paesaggio
esterno al recinto della fabbrica.
Antonio Zanon conosceva bene gli effetti dello sviluppo dell’allevamento inglese inalizza-
va pubblica di lettura territoriale, una sorta
di “tassello” per leggere le trasformazioni
paesaggistiche con una grande deinizione
di dettaglio, ci ha permesso di trasportare
la necessaria indagine documentaria anche
a una scala locale. Per questo motivo, l’indagine sul campione di Marsure (Aviano) si
colloca all’interno di un quadro complesso e
più ampio. Quadro nel quale emergono forti
le scelte delle comunità ancor più che l’adattamento delle attività umane all’ambiente1.
Non ci è stato possibile, nell’economia di
questo lavoro, esprimere le nostre osservazioni e ricerche anche sugli altri settori
dell’agricoltura del Friuli Occidentale, ma
proprio questa mancanza pone attenzione
a nuovi fronti della ricerca territoriale. Va
da sé che solo leggendo le trasformazioni
territoriali, isolando le costruzioni mitologiche tipiche di tanta retorica sulla ruralità
del passato e le narrazioni moralistiche di
certe letture sincroniche e orientate, si riusciranno a concepire gli spazi per una nuova
agricoltura2.
ALLEVAMENTO E COLTIVAZIONI
La restituzione graica del paesaggio d’antico
regime che ci viene dalla lettura della Kriegskarte non rende testimonianza del dibattito
che nel Settecento aveva coinvolto la classe
proprietaria friulana ancor prima della grande crisi politica. I villaggi sembravano rimasti
gli stessi del Medioevo e anche le trasformaLa ricerca a Marsure è sostanzialmente contemporanea alla scrittura di due importanti testi sulle pratiche
di allevamento in Friuli Occidentale. L’ampia ricognizione antropologica di Giosuè Chiaradia e il volumetto di
Alessandro Fadelli sulle malghe di Polcenigo. G. ChiArAdiA, L’universo dimenticato. Stalle, malghe, latterie, formaggio, carne nelle tradizioni popolari e nella gastronomia del
Friuli Occidentale, Udine, Forum, 2015; A. FAdelli, Storie
di malghe e di alpeggio nel comune di Polcenigo, Maniago,
Lis Aganis – Ecomuseo regionale delle Dolomiti Friulane, 2015.
1
Il disegno mostra l’insediamento di San Quirino diviso in sestieri, le regioni agrarie tipiche della pianiicazione medievale. In verde le praterie pubbliche erose dai coltivi privati, in chiaro, di età postmedievale
Era fondamentale fare «degli sperimenti, per
dimostrare, essere molto più vantaggioso il
nutrire gli animali nelle stalle, che lasciarli erranti devastar le Campagne»5.
to alla produzione di lane. Sapeva anche che in
Inghilterra questa grande trasformazione era
stata promossa per iniziativa della regina Elisabetta, ma il nostrano esperto di agricoltura
scherniva il lavoro pastorale rispetto a quello
della coltivazione. Allo stesso modo conosceva molto bene le vicende inglesi legate alla nascita delle chiusure dei campi. Zanon ne vedeva un carattere simile a quello delle pratiche
d’uso di pascolo sulle terre private allora diffuso in Friuli: «onde tutte queste Terre venivano abbandonate, per così dire, alla Natura,
calpestate e smunte nove mesi dell’anno dal
bestiame, ch’essendo affamato, ed affaticato,
e ritrovando poco alimento, veniva ad irritare
piuttosto che a saziare la fame. (…) Quest’uso,
o piuttosto abuso è nella più verde osservanza nella nostra Provincia»4.
Il pascolo invernale sui campi aperti veniva
letto come un elemento problematico e l’agronomo preigurava un paesaggio moderno che garantisse l’uso delle terre private ai
soli proprietari e non alle comunità. Per fare
questo bisognava riuscire a contrastare il
pascolo favorendo l’allevamento nelle stalle.
Contrariamente a quanto comunemente si
crede un tempo gli animali non venivano allevati con la pratica di lunghe transumanze.
Ogni villaggio era ricchissimo di una cospicua
popolazione di pecore, vacche, pollame dimensionata sulle diverse risorse ambientali
della comunità. Gli animali e gli uomini quotidianamente si spostavano per attingere a
queste risorse. 6
La transumanza di numerose greggi di pecore lungo le aree demaniali, come la conosciamo oggi, avrebbe innescato processi e tensioni con le comunità locali. Diversamente le
vicinie dei villaggi, per fare cassa, potevano
promuovere diversi afitti di pascoli pubblici
(poste) anche a pastori che venivano da molto distante.
Si può ben dire che più che cambiare la quantità degli animali sul territorio, sono cambiate
le strategie per dare a loro il cibo.
4
Vedi il recente ilm ilovegano Cowspiracy: The sustainability secret, 2014 di Kip Andersen e Keegan Kuhn.
2
3
G. Perusini, Vita di popolo in Friuli: patti agrari e consuetudini tradizionali, Firenze, Olschki, 1961
14
A. ZAnon, Dell’agricoltura, dell’arti, e del commercio in
quanto unite contribuiscono alla felicità degli Stati, Venezia 1763, I, 106
5
15
Idem, 107
CENSIMENTO DEGLI ANIMALI DEL 18686
CAVALLI CAVALLE MULI
MANIAGO
43
ANDREIS
1
ARBA
6
ASINI
TORI
4
71
1
567
1
5
1
257
7
BARCIS
7
1
CAVASSO NUOVO
10
CIMOLAIS
1
CLAUT
30
8
3
VACCHE GIOVENCHE
331
233
BUOI
TORELLI
E VITELLI
26
207
76
BUFALI PECORE
CAPRE
MAIALI
840
19
131
BRUGNERA
25
41
89
110
197
6
BUDOIA
9
3
75
251
28
CANEVA
26
25
73
148
2
POLCENIGO
8
25
SAN VITO T.
6
ARZENE
1
11
35
2
2
200
160
20
70
62
860
13
CASARSA
19
18
30
10
316
36
270
438
736
CHIONS
35
42
40
272
68
35
149
8
58
CORDOVADO
14
48
47
450
100
50
162
220
8
MORSANO
30
118
326
138
77
63
473
89
PRAVISDOMINI
11
157
467
1
212
SAN MARTINO
AVIANO
28
4
10
200
2
910
60
390
140
4370
290
380
AZZANO
DECIMO
20
58
6
60
3
109
180
566
115
1030
9
CORDENONS
34
28
3
40
1
577
82
144
97
562
2
FIUME
22
9
26
1
157
30
236
41
FONTANAFREDDA
1
47
43
2
744
8
212
MONTEREALE
8
7
144
2
544
84
PASIANO
63
121
20
2
327
PORCIA
17
34
39
4
PRATA
16
16
16
1
35
50
708
4
311
327
SACILE
2
95
159
81
53
152
100
65
238
17
19
64
1
ZOPPOLA
599
83
30
1
2
8
206
3
2
63
14
2
46
1
78
1
95
VALLENONCELLO
389
27
90
PORDENONE
22
2
46
31
21
S. QUIRINO
210
64
3
19
3
58
6
97
3
6
VIVARO
ROVEREDO
430
51
376
5
2
361
414
3
FRISANCO
1
380
1
16
12
1
31
6
3
30
18
1
TORELLI
E VITELLI
TORI
231
FANNA
8
BUOI
ASINI
1
ERTO
491
CAVALLI CAVALLE MULI
54
133
BUFALI PECORE
CAPRE
MAIALI
339
1
156
124
1319
67
118
300
530
767
18
182
354
172
930
51
145
618
203
1086
4
859
305
6
72
1
140
91
166
1
206
20
246
101
247
2
334
60
503
118
427
218
27
164
27
274
253
1
339
113
197
2
283
26
350
60
753
36
11
2
182
32
151
109
223
147
10
8
45
2
186
48
200
21
354
141
SESTO AL R.
35
99
126
416
68
685
141
676
5
299
467
VALVASONE
13
23
21
149
40
214
42
413
17
138
28
SPILIMBERGO
41
24
425
183
761
131
10
CASTELNOVO
8
254
310
137
CLAUZETTO
449
84
1496
37
177
FORGARIA
7
36
631
318
515
1
297
MEDUNO
13
11
388
50
436
154
170
230
PINZANO AL T.
20
6
3
120
130
181
86
294
215
S. GIORGIO
17
36
1
30
58
SEQUALS
16
13
102
TRAMONTI
DI SOPRA
7
3
84
354
2
1
VACCHE GIOVENCHE
3
1
458
50
63
68
332
12
1
28
6
110
10
105
5
60
TRAMONTI
DI SOTTO
7
4
97
1
448
34
387
129
1039
10
460
TRAVESIO
11
2
55
3
391
72
525
295
278
26
180
VITO D’ASIO
67
2
688
48
52
24
4
483
104
158
538
64
248
1
222
50
16
333
59
43
1
2
507
14
120
280
33
92
15
7
526
65
363
307
746
204
143
35
387
15
90
104
244
32
6
71
399
18
338
108
757
184
34
475
11
261
187
364
132
13
195
4
2
5
350
56
69
1006
1654
6
37
11
10
401
79
92
1115
727
20
2
1
8
252
52
76
152
1
17
2
24
363
85
68
1105
743
66
4
Il Censimento del bestiame della Provincia di Udine (31 dicembre 1868) sta in Statistica pastorale, «Bollettino della
Associazione Agraria Friulana», n.17-18, 25 settembre 1869, 515-551
6
16
262
1
16
102
2
17
38
Questo ha modiicato in modo determinante
il paesaggio. Per spiegarmi meglio, mi rifarò
all’esempio dei bovini. Nel 1768, prima delle riforme agrarie, erano 27.979, nel 1868
39.112 e nel censimento del 2010 ne sono
stati contati 30.978.
Apparentemente il numero è rimasto invariato, soprattutto se si considera che l’anagrafe
veneziana del 1768 è senz’altro sottostimata.
In realtà lo stesso numero di animali ha giustiicato paesaggi profondamente diversi.
Quelli produttivi del periodo storico. I bovini, ino alla prima metà dell’Ottocento erano
allevati più per la forza lavoro all’interno dei
terreni coltivati che per i prodotti caseari.
Gli animali erano ospitati in paese e venivano portati al pascolo nelle terre limitrofe. A
partire dagli anni Quaranta dell’Ottocento si
potenzierà invece l’attività casearia, promuovendo la cura delle vacche da latte allevate in
stalla e garantite da una capillare raccolta di
risorse foraggere.
Questo provocò una forte ricaduta su praterie più o meno inclinate. Il cambiamento
paesaggistico prodotto dalla privatizzazione
dei pascoli di versante era evidente e Paciico
Valussi testimoniò di aver constatato «come
sia stata fruttuosa la divisione dei terreni comunali, abbandonati prima al vago pascolo,
i quali erano ridotti si può dire nudo sasso.
Ora vi si scorge un buon prato, da cui si va segando una quantità suficiente di ieno»7. La
privatizzazione dei prati di versante era stata
portata a termine da quasi tutte le comunità
nella zona del Monte Cavallo e l’allevamento dei bovini si stava sviluppando a danno di
quello delle pecore:
scarsissimo prodotto di lana e di latte.
Ora il bestiame discende lorido, ricco
di pinguedine e di lana, fecondo in modo
che si è raddoppiato, specialmente il
cornuto.
L’impianto ideologico di Valussi è chiaro. La
razionalizzazione delle modalità di produzione poteva cambiare il rapporto con i luoghi
garantendo maggiori frutti e un paesaggio
migliore. La descrizione che Pietro Quaglia
fa delle trasformazioni dei pascoli alti è estremamente interessante. Per cominciare, l’ingegnere paesaggista deprecava il fatto che
in origine i diversi “masonil” per le pecore,
antesignani delle malghe, non avessero un
terreno di pertinenza per cui ogni afittuario
pascolava dove voleva: «vero comunismo,
dove tutti volevano raccogliere, nessuno seminare»8.
Prima della riforma nei pascoli alti venivano
allevate per l’estate 520 vacche, 3.659 pecore e 32 capre, ma i dati uficiali, diceva lo stesso Quaglia, erano inferiori al numero degli
animali realmente presenti in monte.
Nel 1846 la provincia di Udine afidò al Quaglia il compito di riorganizzare le malghe di
Polcenigo. Si deinirono così i comparti e furono costruite le diciassette nuove e moderne casere, riducendo gli animali a 419 vacche
e 1.932 pecore.
Gli ediici non furono realizzati perché arrivò
il Quarantotto, ma la divisione dei comparti
diede dei risultati immediati. Fu regolato oltre al pascolo anche l’utilizzo dei cedui che
non attaccati dalle capre permettevano di alimentare il fuoco delle malghe, ma garantivano anche un prodotto integrativo del pascolo
visto «che per 6 mesi dell’anno si conducono
al piano n. 50 slitte di fascinelle al giorno». L’economia della malga produceva dei prodotti
che erano immediatamente venduti ai commercianti all’ingrosso: «la sua consumazione
prima [Polcenigo] avea il bosco distrutto, i monti si sgretolavano, franavano
sotto il piede di tanto bestiame pascolante; il bestiame stesso stentato, macilente, sterile, il pecorino specialmente
periva quasi la metà ogni anno e dava
8
P. QuAGliA, Cenni intorno alle Malghe del Comune di Polcenigo nel distretto di Sacile, «Bollettino dell’Associazione Agraria Friulana», A.II, n.53-54, 7 novembre 1857,
215-216
P. VAlussi, Sistemazione di malghe montane, «Bollettino
dell’Associazione Agraria Friulana», A. II, n.53-54, 7 novembre 1857, 214-215
7
18
invece, gli allevamenti industriali continuano a garantire un paesaggio esteso di seminativi che producono insilati o granella per
gli animali. Queste diffuse coltivazioni sono
giustiicabili solo con la capacità di produrre
più carne per le tavole contemporanee attraverso la costruzione di un sistema di iliera
del cibo per gli allevamenti, che oggi sembra
entrare completamente in crisi. Oggi produciamo mais non per alimentare l’uomo, ma gli
animali. Un tempo gli animali erano alimentati
con quello che l’uomo non poteva mangiare.
è istantanea, perché speculatori si portano
sul monte, e quasi settimanalmente pagano
tali prodotti, che passano a Venezia e nelle
più vicine città, in modo che noi qui possiamo
dificilmente essere provveduti di tale butirro». Le malghe producevano così tre prodotti:
26.450 libbre trevisane di formaggio, 11.300
libbre di ricotta e 2.500 di burro. Va notato
che le piccole vacche di Polcenigo venivano
considerate «di razza pura indigena, di mediocre grandezza» e che il formaggio era prodotto da un latte misto.
Paciico Valussi ricordava come il processo di
riorganizzazione fondiaria non avesse coinvolto solo la parte montuosa:
Nella seconda metà dell’Ottocento si veriicò
un vero cambiamento alimentare che determinò la modiica dell’interesse verso i bovini.
Le nuove pratiche di allevamento portarono
a sviluppare il settore caseario. Quindi gli animali di genere femminile, che in precedenza
venivano sacriicati rispetto ai maschi, destinati ai lavori dei campi, divennero predominanti nelle stalle. La produzione casearia
diventò un importante elemento di integrazione della dieta e delle risorse di una famiglia
di contadini. L’indirizzo dei mercati che cercavano formaggi a lunga conservazione fece sì
che, poco alla volta, le pecore fossero sostituite da un numero minore di vacche allevate
in stalla. La retorica che chiedeva stalle più
grandi per concimare sempre meglio i coltivi
veniva sintetizzata nel detto: «le stalle piene
di armenti fanno ricolmo il granaio. Convien
quindi frenare, per quanto si può, questa mania di distruggere i prati ed animare invece e
premiare coloro che li estendono»10.
In realtà la privatizzazione delle vaste proprietà di beni comunali che si erano conservati ino al XIX secolo aveva provocato degli
scompensi. Molte terre originariamente pascolate erano state arate, ma la quantità dei
concimi non era aumentata di pari passo e
per questo dopo i primi abbondanti raccolti i
prodotti si erano ridotti sensibilmente.
divisi i beni comunali nella pianura, e
reso quasi necessario di tenere alla
stalla i bovini, questi si migliorarono ed
accrebbero, ed il numero delle pecore,
che si mantenevano sui pascoli comunali si andò diminuendo. Nessuno ne fu
per questo scontento; ed il paese se ne
avvantaggiò. Coll’accrescersi dei prati artiiciali forse un giorno si tornerà
ad accrescere il numero delle pecore
colla razza perfezionata e stazionaria
dello Zuccheri e sarà bene. Ma intanto
il presente stato di cose è certo preferibile all’anteriore. Diminuito il numero
delle pecore, queste non guastano più
le piantagioni de’ campi; ed i contadini,
avvezzati già a tenere alla stalla i bovini, capiranno, che vi si possono tenere
anche le pecore, e altri darà loro l’esempio9.
I buoi scompariranno deinitivamente con il
diffondersi delle macchine agricole alimentate a combustibili fossili. Come vedremo
più avanti per Marsure, questo comporterà
la privatizzazione di molte terre pubbliche e
l’introduzione della rotazione con la medica
per aumentare la produzione di ieno. Oggi,
10
Rapporto della Commissione della Società Agraria
friulana sulle risaje e fondi palustri del Friuli, «Bollettino
dell’Associazione Agraria Friulana», A. III, n. 28-29, 31
ottobre 1858, 102-106.
9
Idem, Le capre nostrane e quelle d’Angora. Al Sig. Andervolti a Spilimbergo, «Bollettino dell’Associazione Agraria
Friulana», A. IV, n. 9, 15 maggio 1859
19
La crisi dell’allevamento ovi-caprino incise
anche sui gusti dei prodotti caseari promuovendo i formaggi a lunga conservazione.
I formaggi teneri e in salamoia erano sempre
meno apprezzati e inirono per scomparire.
Se in origine le piccole manze venivano allevate per essere vendute e macellate ora la
produzione del latte diventava determinante e vedremo come cambierà la richiesta di
formaggi.
Il fatto che la privatizzazione delle terre più
aride avesse dimostrato alcuni limiti provocò
delle interessanti giustiicazioni sui limiti del
processo:
è conforme appunto alla ragione il
pensare, che gli Antichi de' Secoli più
lontani abbiano fatto sperienza di tutti
i campi, e che avendo preso a coltivare
i più fecondi, e lasciati senza coltura
i più sterili, questi col tempo rimasi
abbandonati, e senza padroni nelle
rivoluzioni delle guerre, o altre disgrazie
sieno diventati Beni Comunali. Tali
suppongo che fossero quelli del Friuli,
trattone quelli, che tanto sono per
l'ubertà loro felici, quando per l'aria
pessima sfortunati; dove i coltivatori
vanno ad accorciarsi la vita, per vivere
fra stenti minori.
Se chi comperò i Beni Comunali, gli
avesse lasciati, quali gli acquistò, e solo
quella coltivazione avesse loro data,
che a’ Prati conviensi (ricercando anche questi la loro coltura) avrebbero
primieramente se medesimi arricchiti,
ed i loro Coloni di armenti e di greggie
di ogni generazione; indi mercé l’abbondanza maggiore di concimi sparsi
ne’ campi vecchi avrebbero avute più
copiose messi, e lasciato avrebbero
questo perpetuo beneicio a’ loro posteri, a’ quali per mal intesa Economia
lasciarono dimagrati, e poco fruttiferi
i vecchi Terreni, ed i nuovi; e poveri di
armenti, e di greggi i Coloni: a tal che
da alcuni summi detto con asseveranza,
che avendo i loro Maggiori coll’acquisto
de’ Beni Comunali raddoppiato il numero de’ campi, hanno oggidì con dispendio maggiore, e con Capitali maggiori di
fabbriche necessarie, quella medesima
rendita, che aveano prima de’ nuovi acquisti.11
A partire dagli anni Cinquanta del Novecento, la situazione è del tutto cambiata. La
richiesta di una popolazione sempre meno
contadina ha alimentato stili di vita centrati
su una dieta proteica che aveva al centro la
carne. Carne a buon mercato. Prodotta da
grandi stabilimenti industriali, abbandonando le tradizionali tecniche di allevamento e
modiicando radicalmente la dieta alimentare degli animali con l’uso di granella, mangimi e insilati.
Si è trattato di un processo di frazionamento
della iliera della carne e del formaggio. Chi
allevava poteva rifornirsi di cibo sul mercato
anche senza produrlo all’interno della propria azienda e chi voleva poteva produrre
cibo animale senza essere legato a un proprio allevamento. La crisi delle latterie turnarie proponeva poi il tema di una trasformazione del latte completamente slegata
dai produttori del cibo e dalle grandi aziende lattiere. Il sistema di mercato, assumendo una scala territoriale, vedeva per la prima
volta le aziende di allevamento lontane dai
luoghi della produzione del cibo animale.
Spariva la tipologia agraria del pascolo, ma
soprattutto il tipo economico dell’agricoltore imprenditore che controllava tutta la
iliera del suo processo produttivo. Così
come nell’industria, si costruiva un sistema
di terzisti in concorrenza sul costo del prodotto semilavorato, più che sulla qualità dello stesso.
I pascoli e i prati artiiciali scomparivano perché le tecniche moderne e la massimizzazione del proitto imponevano di coltivare in
modo intensivo tutto il territorio e sempre.
11
A. ZAnon, Dell’agricoltura, dell’arti, e del commercio in
quanto unite contribuiscono alla felicità degli Stati, Venezia, 1763, T.II, p.276
20
La rotazione o il riposo erano banditi. Oggi
siamo alla ine di questo processo e non è un
caso se la crisi attuale spinge gli strumenti di
programmazione agraria, come il Programma di Sviluppo Rurale, verso il tentativo di
ricostruire iliere corte capaci di veder nascere un nuovo agricoltore imprenditore.
La crisi sta provocando degli strani fenomeni e nella nostra ricerca abbiamo documentato molti casi di ritorno a una economia
dell’erba che si esprime con modalità non
tradizionali.
È signiicativa la riduzione dei bovini nelle
stalle pordenonesi in dieci anni (2000-2010)
diminuiti del 46,5% a fronte di un consistente aumento della conversione degli arativi a
vigna, soprattutto nell’alta pianura.
Resiste, con pochissime unità di bestiame,
un minimo di agricoltura di alpeggio nelle malghe meglio servite dalla viabilità, ma
questa resistenza in realtà presenta delle
ombre. Falsi pascoli che giustiicano aziende
di pianura che ormai nemmeno portano gli
animali in quota. Pascoli monticati da animali giovani rinunciando alle pratiche di produzione dei prodotti caseari. Nonostante tutto, in provincia di Pordenone ci sono alcuni
esempi virtuosi che propongono il tema del
rinnovamento di queste pratiche colturali.12
La crisi della “fettina” sta mutando in modo
radicale i principi di produzione privilegiando iliere corte promosse in modo uficiale
(PPL) e nuove esperienze di allevamento
(bufali, highland, capre, pecore, struzzi,
oche). Molte stalle centrate all’interno di
proprietà consistenti sono state chiuse per
riconvertire i terreni verso una produzione non orientata all’allevamento di bovini e
suini. L’esperienza che abbiamo documentato dell’agriturismo Da Tina a San Giorgio è
esemplare.
Il processo di polarizzazione dei centri di
produzione della carne e del latte sembra
destinato a subire una crisi. Da questa si
salvano i piccoli e medi imprenditori agricoli
che decidono di costruire dei patti con i consumatori locali.
LA DIMENSIONE DEL POPOLAMENTO
ANIMALE IN FRIULI OCCIDENTALE
Il confronto tra le anagrai del 1768 e i dati
attuali in merito alla presenza di bovini nel
Friuli Occidentale è estremamente signiicativo per molti comuni della montagna, dove
queste razze sono praticamente scomparse.
Le aree alpine fornivano ieno, ma ora il costo di raccolta è troppo alto rispetto a quello
della produzione degli insilati in pianura.
L’affermazione della vacca nelle Prealpi Carniche è stata tardiva, a partire dalla seconda metà del Cinquecento, ma sembra che
sia già inita. Ad Andreis, Fanna, Frisanco,
Tramonti di Sopra, non ci sono più mucche
e negli altri comuni alpini i bovini sono scarsamente caratterizzanti, seppure permanga
una sbagliata percezione che la vacca era l’animale dominante in ambito alpino.
Invece, lungo la pedemontana si sono sviluppati grandi allevamenti che sfruttano i
seminativi costruiti su quelle che un tempo
erano le enormi praterie aride pubbliche.
Oggi queste terre, privatizzate nella seconda metà dell’Ottocento e attrezzate nella
seconda metà del Novecento con impianti di
irrigazione artiiciale sono in grado di fornire
una quantità rilevante di cibo per gli animali.
Il paesaggio dell’alta pianura pordenonese si
giustiica solo con l’espansione del mercato
della carne bovina e suina.
L’attuale crisi nella richiesta di carne bovina
da parte del mercato ha provocato un crollo dei prezzi degli alimenti animali. A questa
crisi si è risposto aumentando la multifunzionalità dell’agricoltura, introducendo negli
ultimi anni la pratica della produzione energetica da biogas anche con l’utilizzo di prodotti agricoli e non solo residui.
12
d. PAsut, s. doVier, s. BoVolentA, s. Venerus, Le malghe
della dorsale Cansiglio-Cavallo. Un progetto per la valorizzazione dell’attività alpicolturale, Gorizia, ERSA, 2006;
s. BoVolentA, d. PAsut, s. doVier, L’allevamento in montagna. Sistemi tradizionali e tendenze attuali, «Quaderno
Sozooalp», n.5, 2008, 22-29.
21
Molte grandi aziende agricole ormai calmierano il mercato producendo energia. Il paesaggio sembra rimanere quello della ine del
Novecento, ma in realtà su quei campi non si
produce più cibo.13
La localizzazione della produzione della carne bovina subirà nel ventennio a venire delle
grandi trasformazioni. Se oggi abbiamo pochi comuni fortemente attrezzati con grandi
stalle dedicate alla grande distribuzione, è
probabile che nel prossimo futuro aumenti-
no le aziende locali più piccole. Aziende dimensionate per costruire delle iliere corte
della carne e dei prodotti caseari, come l’azienda Battaglia a Carlino.141516
Quello che emerge comunque, dal confronto tra i censimenti, è che il numero di bovini
è sostanzialmente costante negli ultimi duecento anni, nonostante la popolazione sia
aumentata. Il carico territoriale dei bovini si
è invece modiicato in modo radicale in ter-
BOVINI
176813
BOVINI
1868
BOVINI
2010
1012
1131
19
BUDOIA
220
346
0
ARBA
CANEVA
373
384
244
272
334
13
CAVASSO NUOVO
411
477
113
MANIAGO
ANDREIS
BARCIS
CIMOLAIS
375
418
44
CLAUT
375
450
239
249
622
28
FANNA
452
508
0
496
600
0
623
604
8
ERTO
FRISANCO
VIVARO
PORDENONE
1013
957
4
AVIANO
1459
1500
4212
961
970
1167
715
900
517
AZZANO DECIMO
CORDENONS
FIUME
FONTANAFREDDA
500
464
707
355
1218
828
BOVINI
176813
POLCENIGO
SAN VITO T.
ARZENE
CASARSA
CHIONS
CORDOVADO
MORSANO
PRAVISDOMINI
SAN MARTINO
SESTO AL R.
1232
1529
1275
382
397
200
676
573
4
913
1015
1415
307
436
389
407
719
824
235
474
609
420
455
267
834
1344
1091
CASTELNOVO
1219
745
15
418
1120
288
46
SPILIMBERGO
TRAVESIO
CLAUZETTO
VITO D’ASIO
844
MEDUNO
PORCIA
1075
1028
507
PINZANO AL T.
712
517
1616
264
438
36
242
639
2320
1054
998
739
887
1283
370
533
1186
400
60
2752
284
1144
428
1312
BRUGNERA
599
962
445
1161
SACILE
505
1297
1310
820
ZOPPOLA
861
352
141
658
S. QUIRINO
625
663
PASIANO
ROVEREDO
BOVINI
2010
VALVASONE
MONTEREALE
PRATA
BOVINI
1868
15
16
22
516
22
337
1261
519
596
111
863
2320
952
934
893
487
475
0
TRAMONTI
DI SOTTO
6
572
6
TOTALE
30116
39122
30980
SEQUALS
14
15
680
TRAMONTI
DI SOPRA
Archivio di Stato di Venezia, Anagrai di tutto lo Stato
della Serenissima Repubbica di Venezia, Volume quinto,
1768.
1523
90616
S. GIORGIO
13
14
Rilevato con Castelnovo del Friuli
Rilevato con Clauzetto
Contiene anche i valori di Gradisca di Spilimbergo
mini di geograia. Se mezzo secolo fa il latte
veniva quasi totalmente lavorato nei luoghi
di produzione, oggi invece è sottoposto a
lunghi viaggi che lo portano in pochi e specializzati caseiici. La produzione delle latterie locali è ben poca cosa se paragonata con
quella del Novecento.
Diverso è invece è il popolamento delle pecore sul territorio provinciale. Come abbiamo visto, lo sviluppo contenuto dell’allevamento bovino ha di fatto provocato la crisi
di quello ovino sottraendo superici al pascolo brado. In montagna invece le pratiche
del pascolo hanno abbandonato i versanti
più ripidi provocando un progressivo rimboschimento. La disaffezione ai prodotti
caseari pecorini e la crisi nella richiesta della lana ha ridotto molto il signiicato di questa forma di allevamento. Nel 1768, in un
momento in cui l’allevamento delle pecore
era già in crisi, i capi censiti erano 37.848,
nel 1868 29.245 e nel 2010 solo 3.548.
Ancora oggi nell’ambiente scientiico alberga la convinzione che l’allevamento delle
pecore fosse poco diffuso in montagna:
«l’allevamento ovino rimase prerogativa
dei territori pianeggianti, in quanto la pecora consentiva di ottimizzare lo sfruttamento dei prati stabili dopo lo sfalcio»17. Le
indagini condotte sulla Val Meduna a partire dal Cinquecento dimostrano, invece,
come fosse molto più diffusa la pecora che i
bovini e come l’allevamento fosse per lo più
brado. Non abbiamo dati censuari di queste
pratiche, ma l’anagrafe veneziana del 1768
ci mostra un ambiente che stava già implementando l’allevamento dei bovini in valle.
La crisi della pecora è stata causata da processi legati al gusto e alla propaganda di
cibi prodotti con tecniche moderne. Come
si vedrà per Marsure, l’azione delle Cattedre ambulanti e dell’Associazione Agraria
Friulana iniranno per trasformare l’economia delle famiglie di contadini. Il crollo poi
dei prezzi della lana, nella seconda metà
dell’Ottocento, dettato da un mercato
sempre più globale, metterà in crisi un importante sottoprodotto dell’allevamento
ovino.
Verso la metà dell’Ottocento, all’ostracismo nei confronti dell’allevamento di pecore con la pratica della transumanza giornaliera, fu afiancato qualche esperimento di
allevamento in stabulazione issa degli ovini. A San Giovanni di Casarsa Paolo Giugno
Zuccheri tentò l’allevamento in stalla di una
trentina di pecore per lo più feltrine. Queste furono alimentate con ieno, crusca,
ma anche «foglia di pioppo fasci 350 che
dedotto il ricavo della legna, restano di costo cent.3 l’uno»18. Parte del latte prodotto
dal gregge degli Zuccheri fu utilizzato per
produrre formaggio pecorino «ad uso di
Villaorba», mentre un terzo di questo fu
aggiunto al latte vaccino per produrre formaggio19.
17
19
Oggi le pecore si concentrano lungo la fascia della pedemontana occidentale, ma
i motivi di un rinato interesse per questo
allevamento seguono modalità del tutto
nuove.
I due principali allevatori di Aviano, infatti,
ormai da molti anni applicano le modalità
della transumanza e tengono gli animali in
paese per un breve periodo. La mancanza
di praterie pubbliche li ha convinti a strutturare l’allevamento con lunghe direttrici
di transumanza che portano le due greggi,
che oggi contano più di un migliaio di capi,
ino al centro della Carnia.
L’aumento del numero di capi allevati a
partire dal 2010 a oggi dimostra come la
richiesta di ovini da parte del mercato stia
Non è di scarso interesse la documentazione di
questa pratica di raccolta della frasca di pioppo per
ottenere cibo per gli animali e fascine per le famiglie di
contadini.
18
s. losZACh, s. MeneGon, e. PAstore, s. BoVolentA, L’allevamento ovino e caprino sulla montagna del Friuli Venezia
Giulia, «Quaderno Sozzoalp», n.4, 2007, 51-62
P. G. ZuCCheri, Allevamento della pecora stazionaria,
«Bollettino dell’Associazione Agraria Friulana», A. III, n.
12-15, 6 giugno 1858, 49-52
23
MANIAGO
ANDREIS
ARBA
BARCIS
CAVASSO
NUOVO
CIMOLAIS
CLAUT
ERTO
FANNA
FRISANCO
VIVARO
PORDENONE
PECORE
1768
15
BRUGNERA
110
0
BUDOIA
315
251
0
358
148
80
86
90
0
43
159
0
237
62
0
183
438
0
105
149
0
2703
162
0
1206
473
5
VALLENONCELLO
164
105
0
AVIANO
4300
4370
2000
393
1030
7
FONTANAFREDDA
MONTEREALE
CANEVA
POLCENIGO
SAN VITO T.
ARZENE
CASARSA
CHIONS
CORDOVADO
PECORE
1868
PECORE
2010
93
339
0
920
1319
610
302
767
8
1067
930
4
1202
1086
25
281
305
0
854
247
0
244
427
47
262
274
0
MORSANO
566
753
8
93
223
0
SAN MARTINO
174
354
0
1161
676
9
235
413
0
735
761
130
618
538
0
PRAVISDOMINI
SESTO AL R.
VALVASONE
SPILIMBERGO
CASTELNOVO
TRAVESIO
20
460
562
0
55
131
0
719
310
0
VITO D’ASIO
1291
1496
300
MEDUNO
748
PINZANO AL T.
CLAUZETTO
152
0
333
0
1105
110
746
9
157
244
4
835
757
0
272
364
0
1763
1006
40
2507
21
552
515
0
PORCIA
827
170
0
623
294
7
894
30
0
1508
332
0
444
1039
0
1115
120
278
10
TRAMONTI
DI SOTTO
1972
187
93
339
0
TOTALE
37848
29245
3548
ROVEREDO
S. QUIRINO
ZOPPOLA
SACILE
BRUGNERA
S. GIORGIO DELLA
RICHINVELDA
SEQUALS
TRAMONTI
DI SOPRA
aumentando. Infatti va notato che la pratica della transumanza costringe ad abbandonare la pratica della produzione del latte
e dei prodotti caseari concentrando l’attività dell’azienda sulla produzione della carne.
Questo è un segno di grande novità rispetto al passato. 2021
La carne di pecora torna a essere nuovamente apprezzata sulle tavole attraverso
21
PECORE
1768
PASIANO
PRATA
20
23
840
475
0
FIUME
22
1970
467
CORDENONS
la riscoperta culturale di cibi tradizionali
come la peta e la pitina22, ma anche per il
fatto che lo sviluppo di macellerie islamiche
nella provincia sta aumentando la richiesta
di agnelli da macellare. Nuove tradizioni
alimentari stanno supportando una nuova
PECORE
2010
689
AZZANO
DECIMO
stagione di sviluppo dell’allevamento ovino.
Ma oltre alle nuove richieste delle popolazioni immigrate c’è anche una nuova richiesta locale di carne di qualità.
A Budoia si è recentemente costruito un
gregge di circa un migliaio di pecore della
speciale razza alpagota molto richiesta dal
circuito della ristorazione veneta dopo che
l’agnello dell’Alpago è diventato un presidio
di Slow-Food23. In questo caso l’allevamento
è a stabulazione issa e usufruisce delle ampie risorse foraggere provenienti dai campi
non irrigati della pedemontana. Campi che
negli ultimi anni non sono stati riconvertiti
al seminativo. In questo speciale caso, queste nuove forme di allevamento per la carne
permettono di conservare ed evolvere un
carattere tradizionale del paesaggio.
Una terza tendenza dell’allevamento ovino
in Friuli Occidentale è quella che ha visto
nascere recentemente alcuni microcaseiici
in montagna. Nelle pagine successive documentiamo le esperienze di Tramonti (fattoria Sottosopra, Borgo Titol), i pastori sardi
a Campone e a Clauzetto che si pongono
come alternativa alle tradizionali latterie
sociali costruendosi una distribuzione locale
e a chilometro zero, che prevede la gestione di greggi da un centinaio di capi. Greggi
destinate a non crescere troppo, ma capaci
di restaurare ambienti che erano già in fase
postcolturale.
È interessante notare come la pecora si stia
riappropriando di spazi che nell’Ottocento erano stati dedicati ai bovini. Non va poi
sottovalutata questa capacità di maggiore
adattamento dell’animale al pascolo in ambienti morfologicamente complessi e quindi
un ripristino di pratiche antiche. Di non poco
conto è anche, ancora una volta, il cambiamento dei gusti che ha portato molti citta-
PECORE
1868
Prodotti tipici della Val Tramontina: pitina, formai dal
Cit e erbetìnes, Tramonti di Sopra, Pro Loco, 2009; La
Pitina, prodotto culturale: ricettario. Origini e gusto di un
prodotto tradizionale antico reinterpretato dai ristoratori
del territorio, a cura di C. AViAni, Maniago, Lis Aganis.
Ecomuseo Regionale delle Dolomiti Friulane, 2013
Rilevato con Castelnovo
Rilevato con Clauzetto
24
dini ad abbandonare il formaggio bovino a
causa delle sempre più diffuse intolleranze
al latte vaccino.
In questo senso va letta anche l’evidente
espansione dell’allevamento della capra in
Friuli Occidentale. Il solito confronto con i
censimenti storici mette in evidenza come
storicamente le capre venissero usate per
sfruttare pascoli ripidi e magri delle zone
montuose in Valcellina, nella pedemontana calcarea e nell’erosissima Val Meduna.
Oggi invece la distribuzione geograica e le
strategie di allevamento sono del tutto cambiate. Per esempio a Tramonti, dove stava la
maggior concentrazione di capre, oggi non
ce ne sono più e nei luoghi dove sono ancora
presenti, come ad Aviano, non si nutrono più
dei pascoli magri e aridi, ma vengono allevate in stalla con foraggi che provengono dai
campi in piano.
Più ancora che per la pecora, con la capra
si assiste negli ultimi anni a un’espansione
dell’allevamento sostenuta da una richiesta
locale supportata da un cambiamento nel
gusto del cibo nella società contemporanea24. Soprattutto le esperienze di Cipolat
a Castello d’Aviano e di Fabee a Bagnarola
dimostrano come i nuovi prodotti siano il
frutto anche di una nuova e diversa ricerca
di cibo da parte dei consumatori. Eppure
nell’Ottocento la propaganda per smettere
l’allevamento della capra era stata fortissima. Le capre venivano descritte come se
fossero all’origine del dissesto idrogeologico della montagna. In un numero del 1850
de «L’Alchimista», Giambattista Lupieri metteva in guardia dall’attribuire solo alle capre
il cattivo stato dei boschi friulani25. Gli abusi
perpetrati dall’uomo erano la vera causa della crisi del sistema boschivo e le capre che
entravano in bosco erano spesso accompagnate da persone prive di scrupolo.
Vedi L’allevamento ovino nella montagna veneta: tradizione e innovazione, a cura di e. PAstore, Legnaro, Veneto
Agricoltura, 2007; Programma Bionet. Rete regionale per
la conservazione e caratterizzazione della biodiversità di
interesse agrario. Gruppo lavoro ovini, Legnaro, Veneto
Agricoltura, 2014
24
r. VAlusso, M. MorGAnte, e. PiAsentier, I formaggi
caprini del Friuli Venezia Giulia: la caciotta, «Notiziari
ERSA», n. 5, 2002, 29-32
25
G. luPieri, Sul degrado dei boschi nella Carnia attribuito
alle capre, «L’Alchimista», A. I, n. 42, 251-253
25
2728
MANIAGO
ANDREIS
ARBA
BARCIS
CAVASSO NUOVO
CIMOLAIS
CLAUT
ERTO
FANNA
FRISANCO
VIVARO
PORDENONE
VALLENONCELLO
CAPRE
1768
CAPRE
1868
CAPRE
2010
191
19
71
BUDOIA
CANEVA
358
197
0
0
0
0
632
491
0
0
0
0
356
311
0
355
860
0
297
736
70
0
8
94
298
220
3
3
0
5
0
1
0
0
5
0
AVIANO
196
290
70
AZZANO DECIMO
3
9
18
CORDENONS
FIUME
FONTANAFREDDA
MONTEREALE
PASIANO
PORCIA
PRATA
ROVEREDO
S. QUIRINO
ZOPPOLA
SACILE
BRUGNERA
0
0
0
72
0
2
0
0
37
1
POLCENIGO
SAN VITO T.
ARZENE
CASARSA
CHIONS
CORDOVADO
MORSANO
PRAVISDOMINI
SAN MARTINO
SESTO AL R.
VALVASONE
SPILIMBERGO
CASTELNOVO
CLAUZETTO
0
0
MEDUNO
0
PINZANO AL T.
0
0
2
0
0
0
4
0
0
0
S. GIORGIO DELLA
RICHINVELDA
SEQUALS
TRAMONTI
DI SOPRA
0
26
0
TRAMONTI
DI SOTTO
0
1
0
TOTALE
4
10
CAPRE
2010
222
67
15
60
18
83
200
51
134
13
4
8
0
6
0
3
0
0
0
1
105
0
0
0
0
2
0
0
0
0
0
0
0
0
5
8
0
17
0
0
0
0
611
64
0
27
906
VITO D’ASIO
0
0
CAPRE
1868
TRAVESIO
13
0
CAPRE
1768
6
La legge del 1811 per la protezione dei boschi era stata provvidenziale, ma scaricare
ogni responsabilità per i danni sulle capre
poteva mettere in crisi una delle fonti di reddito della montagna friulana: «le capre non
possono togliersi alla stessa, senza aggravare immensamente la condizione del povero,
senza recare danno rimarchevole al paese,
ingiustizia ai censiti, oltraggio alla provvidenza»26.
1
59
28
349
0
743
204
32
28
26
29
Idem, Se le capre possano e debbano essere preservate
nella Carnia, «L’Alchimista Friulano», A. IV, n. 21, 1853,
163-165
ARBA
BARCIS
CAVASSO NUOVO
CIMOLAIS
CLAUT
FANNA
0
0
0
1230
1654
0
1501
727
0
7860
6881
943
Considerato con Castelnovo
Considerato con Clauzetto
2
3
25
890
11735
VALLENONCELLO
60
AVIANO
380
15294
AZZANO DECIMO
467
18
28
25
10
15491
137
600
MONTEREALE
177
PASIANO
PORCIA
S. QUIRINO
ZOPPOLA
SACILE
BRUGNERA
145
53
SAN VITO T.
859
2980
72
6450
CASARSA
253
MORSANO
58
89
ROVEREDO
22
20
CORDOVADO
212
PRATA
118
182
CHIONS
13
PORDENONE
FONTANAFREDDA
BUDOIA
ARZENE
6
MAIALI 2010
CANEVA
POLCENIGO
28
75
FIUME
120
5
12312
MAIALI 1868
6
8
CORDENONS
43
0
131
FRISANCO
VIVARO
0
0
MAIALI 2010
ERTO
0
B. MoresChi, Le capre nei rapporti con l’agricoltura,
«Bullettino dell’Associazione Agraria Friulana», S. V, V.
25, 1908, n. 8-10, 251-264
26
ANDREIS
68
Moreschi nella sua relazione del 1908 ricordava come: «della capra si vollero vedere in qui i
danni, esagerandoli; l’utile si disse trascurabile,
perché minimo. Della carne e del latte non si
volle tener conto. Ma l’ostacolo grave al suo
prosperare è uno solo: l’inimicizia dei forestali,
che ne invocarono senz’altro la distruzione»29.
27
MANIAGO
MAIALI 1868
PRAVISDOMINI
SAN MARTINO
SESTO AL R.
VALVASONE
SPILIMBERGO
CASTELNOVO
TRAVESIO
CLAUZETTO
339
764
113
262
2264
147
141
4709
299
2880
138
1210
195
12168
248
17
253
43
VITO D’ASIO
66
9004
MEDUNO
143
10
297
550
PINZANO AL T.
6
5
230
6124
184
13143
215
890
132
1
6
15
S. GIORGIO DELLA
RICHINVELDA
SEQUALS
58
TRAMONTI
DI SOPRA
102
54918
460
859
180
1818
TRAMONTI
DI SOTTO
20
10
156
244
TOTALE
7663
177807
un centinaio di capi innestando una inedita
transumanza verticale tra la sede invernale
del gregge a Coltura e la sede estiva a malga Fossa de Bena, un migliaio di metri più
in alto. Anche i prodotti sono molto diversi,
De Conti e Zannier a Pinzano producono
caciotte tradizionali mentre Cipolat e Fabee
tentano esperimenti produttivi che richiamano la tradizione casearia francese.
In ogni caso, capre e pecore sembrano destinate ad aumentare sul territorio soprattutto in relazione alla produzione casearia le
prime, e per la carne le seconde. La retorica
della lotta accesa alla ine dell’Ottocento da
Più o meno nello stesso periodo altri agrari
ammettevano l’utilità della capra solo per le
popolazioni più povere.30
Se è vero che le capre sono tornate a popolare la pedemontana, ci si accorge che i caratteri imprenditoriali delle diverse esperienze
imprenditoriali non sono omogenei. A chi
alleva gli animali in stalla si contrappone chi
come Giovanni De Conti a Polcenigo alleva
e. VoGlino, La questione delle capre, «Bullettino
dell’Associazione Agraria Friulana», a. 50, 1905, n.1012, 243-245
30
27
forestali e Associazione Agraria Friulana
sembra ormai archiviata. Ormai non ci sono
più gli antichi tabù su questo tipo di allevamento.
Per i suini le considerazioni sono del tutto
opposte. Mancano i dati dell’anagrafe veneziana del 1768 ma dai successivi censimenti ci sembra di poter cogliere altri elementi di interesse.
Nel 1868 i maiali erano distribuiti in modo
omogeneo nel territorio del Friuli Occidentale, a parte le zone di montagna dove il numero di capi si riduceva drasticamente: ad
Andreis e a Cimolais erano solo 6, a Barcis
2, a Erto nessuno. In Val Cellina solo a Claut
ne venivano censiti 13. In realtà pochissimi.
In tutta la Val Colvera erano solo 8 mentre
a Tramonti di Sopra erano solo 6 e nella villa
di Sotto e di Mezzo venti.
Era più facile allevare maiali dove c’erano
abbondanti sovrapproduzioni, mentre in
ambito alpino il maiale non poteva essere
alimentato con prodotti che potevano essere mangiati dalla popolazione locale.
La montagna non possedeva una tradizione
di allevamento e trasformazione dei suini e
le attuali “moderne tradizioni”, come quella di Sauris, sono del tutto inventate. Nel
1868 a Sauris c’erano solo 18 maiali distribuiti in 17 famiglie.
L’altro elemento di interesse è l’espansione
dell’allevamento suino in provincia anche
grazie alla ricca richiesta prodotta dai prosciuttiici di San Daniele. Altrimenti non si
giustiicherebbe l’enorme aumento di capi
passati dai 7.663 del 1768 ai 177.807 del
censimento del 2010.
Nella pianura la presenza dei maiali è passata da un disegno omogeneo e ben distribuito sul territorio a un disegno polifocale
che si regge su alcuni grandi allevamenti:
12.312 capi a Maniago, 11.735 a Vivaro,
15.294 ad Aviano, 12.168 capi a Spilimbergo, 15.491 a Fiume Veneto, 13.143 capi a
San Giorgio della Richinvelda, ino all’alta
concentrazione di capi negli allevamenti
negli ex magredi di San Quirino con 54.918
maiali.
LA PRODUZIONE CASEARIA
Alla metà dell’Ottocento le condizioni della
produzione casearia in provincia di Udine
erano disastrose: «Nella pianura la produzione di butirri può appena bastare ai bisogni delle famiglie proprietarie di bestiame.
Formaggi non se ne producono, e solo i caciuoli pecorini dei paesi fra Udine e Codroipo meritano di essere ricordati più per la
loro bontà, che per la quantità della produzione»31. Infatti, come abbiamo visto, i paesi
dell’alta pianura arida avevano un numero
consistente di ovini e la loro economia era
segnata dalla cronica mancanza di acque che
impediva qualsiasi riforma agraria.
La carenza dell’acqua impediva di ampliare
il numero degli animali allevati: «Attingono l’acqua con gran fatica da profondissimi
pozzi; e di questi molte ville ne sono prive,
trasportando, e conservando nelle botti
l’acqua per loro bevanda. Per abbeverare
gli animali, non hanno altre acque, fuorché
alcuni stagni, in cui raccolgono le acque piovane, la maggior parte della State guaste, e
corrotte»32.
Nell’Ottocento lo sviluppo di sistemi moderni di trasformazione delle risorse e di produzione era al centro dell’attenzione: «L’industria del caseiicio rimane fra di noi in uno
stato di stazionarietà mortiicante, e la stazionarietà nell’epoca nostra è regresso»33.
I prodotti caseari sono molto cambiati nel
tempo e molto spesso la retorica della tradizione tende a nascondere la loro modernità e novità. La produzione del formaggio
28
Formaggio di vacca duro
Formaggio di vacca molle
Formaggio di pecora duro
Formaggio di pecora molle
Si tratta di una critica durissima opposta alla
retorica contemporanea che ha costruito
un’aura atemporale di qualità attorno al formaggio di malga e al Montasio in particolare.
Nella seconda metà dell’Ottocento le malghe della Carnia, più facili da raggiungere,
erano monticate prevalentemente con bovini, ma sopravviveva l’abitudine di ricevere
«capre, pecore e montoni, destinati a utilizzare l’erba nei pascoli inaccessibili agli altri
animali»36. Questo voleva dire produrre un
formaggio di latte misto tanto che Magrini
si immaginava che «nelle maghe di Carnia,
sempre si preferirà, io credo, il formaggio
mezzo grasso, pecorino, da tavola».
L’attività di malga che si stava progressivamente trasformando, dava vita a esperienze
casearie del tutto nuove. Gli esperimenti di
monticazione prodotti dagli allevatori della
3.10-2.90
2.10-1.90
3.10-2.90
2.10-1.9034
Il formaggio duro prodotto in pianura era
abbastanza apprezzato, ma se dobbiamo
credere a Giovanni Marinelli, quello delle
malghe che si stavano riconvertendo nella
produzione del latte vaccino era di bassa
qualità:
32 A. ZAnon, Dell’agricoltura, dell’arti, e del commercio in
quanto unite contribuiscono alla felicità degli Stati, Venezia 1763, L, 150
Siccome poi tali proprietari son pochi
e la generalità invece prosegue nella coltura delle malghe con sistemi
preadamitici, rimettendosi a casari
ignoranti e superstiziosi, che curano
le vacche malate cogli esorcismi, e
contro le folgori e le streghe elevano
all’ingresso delle malghe alcune stanghe coi relativi amuleti, e dei quali,
ben s’intende non avendo mai visto
un termometro, i più intelligenti pro-
33 Statistica Pastorale. Annotazioni della Giunta di Statistica per la Provincia di Udine, «Bollettino della Associazione Agraria Friulana», n. 17-18, 25 settembre 1869,
516
34 Prezzi dei cereali e di altri generi di consumo, «Bullettino della associazione agraria friulana», S. III, V. III, n. 12,
22 marzo 1880, 96
31 Statistica Pastorale. Annotazioni della Giunta di Statistica per la Provincia di Udine, «Bollettino della Associazione Agraria Friulana», n.17-18, 25 settembre 1869,
516
vano col dito la temperatura del latte; così ne risulta che i nostri burri e i
nostri formaggi son pochissimo noti e
meno pagati. E difatti nessuno o solo
qualche rarissimo fabbricatore di latticini delle nostre montagne può far
viaggiare per alcune settimane il suo
burro, certo che non arriverà rancido
a sua destinazione; nessuno fra essi,
prendendo una forma di cacio, prima
di aprirla, sa dirvi se esso appartiene
a quel tipo e possiede quelle speciali
qualità, che, per la provenienza sua e
pel modo di fabbricazione, dovrebbero spettargli. (…) qualunque ne sieno
le cause, il prodotto dei nostri latticini
non è quello che dovrebbe essere, e
che la lattifera, nella montagna friulana, non è (generalmente) un’industria,
ma un empirismo.35
era una pratica famigliare e non si riusciva
a commercializzare i prodotti perché non
esistevano tecniche di stagionatura. Ancora
sul inire dell’età di antico regime i formaggi
non riuscivano a raggiungere i mercati più
lontani. La grande produzione tramontina
riusciva a essere un bene da scambiare con
prodotti, vino e biade, ma il formaggio pecorino nel XVII secolo doveva essere confezionato in salamoia in barile per poter essere
consumato a Venezia o nelle galee dirette
in Oriente. Per poterlo commercializzare
poi bisognava costruire una rete di vendita
e questo non era per nulla facile.
Nella seconda metà dell’Ottocento il formaggio di vacca stagionata cominciò ad affermarsi e le osservazioni sui prezzi al mercato di Udine dei formaggi ci informano che
tra quello di pecora e quello di vacca non
c’era una grande differenza di valore:
35
G. MArinelli, Le casere in Friuli secondo la loro altezza
sul livello del mare, «Bullettino della Associazione Agraria Friulana», S. III, vol. III, n. 20, 10 maggio 1880, 155.
36
A. MAGrini, Sull’opportunità o no di adottare nelle malghe i sistemi preferiti nelle latterie per la fabbricazione dei
latticini, «Bullettino della Associazione Agraria Friulana», V. II, n. 8, 30 aprile 1885, 130-134
29
cio. Nella predella, su cui posa lo stampo, avvi un canaletto incavato per cui
corre lo siero, se mai entro ancora ne
fosse imprigionato.
pieve d’Asio diedero vita a un famoso formaggio, quello asìno, sul quale esiste oggi una
mitologia poco confrontata con i dati storici.
Per fortuna nel numero venti de «L’Amico del
Contadino» del 1842, uscì un importante
saggio sull’asìno, che possiamo considerare il
primo tentativo di deinire i caratteri e le modalità di produzione di questo speciale formaggio. Sappiamo che questo formaggio era
rinomato presso le «mense agiate, maritandola alla frutta»37. Si trattava di un formaggio
prodotto durante la fase della monticazione
estiva promossa dai pastori della pieve di
Asio che «furono i primi a fabbricarlo, quando
nei mesi di giugno, luglio e agosto, conducono
il loro armento a pasturare sui monti». Erano
quindi operazioni che si svolgevano lontane
dal villaggio e a leggere sembra che non fossero nemmeno tanto facili:
Il processo era molto empirico e legato a così
tanti fattori,
che un fabbricatore bravo di fare il formaggio su di una montagna, sgarra in
un’altra, nonché nella medesima montagna in altra stagione. Asciugato e tratto
dallo stampo lo si asperge di sale; e presto passa alla fermentazione e in breve
è maturo, e per questo viene detto anche formaggio fresco. Ma perché abbia
il vero sapore, è necessario coglierlo
nel suo punto; e corre la stessa vicenda
delle cose belle; se è di fresca data, non
ha sapore, ed è insipido, e se stantio, ti
disgusta per quell’agrezza che ti punge
la lingua.
Non avvi certo indizio per conoscere
all’esterno il buono dal meno buono
formaggio asìno. Alle volte t’incanta al
bello aspetto, poiché morbido al tatto,
senza crepature, elevato ai ianchi, ma
poi tagliato lo trovi con mille magagne.
(…) Quello poi è il migliore, tagliato che
sia, che ha un colore che si avvicina
all’arancio, che ha i bucchi lontani dalla
crosta, rari, ampi e bislumghi, anzi che
molti, minuti ed ovati.
Tal cacio, poiché presto viene a maturità, non conta lunga vita; se già non lo
getti nelle salamoje; ma corre pericolo
di sfasciarsi, benché posto in sacchetti,
o di impregnarsi di un odore e di un sapore disgustosissimo, che noi chiamiamo scarpet.
Riesce eccellente tanto se è posto nelle salamoie come se lo conservi a secco, purché vinca la prova di un tanto
pericolo. Il formaggio fabbricato a fuoco nella montagna che chiamasi Pezzano viene tardi alla fermentazione,
e si conserva da una stagione all’altra,
dimodoché ha un posto nel proverbio,
Appena munto il latte, si versa in una
tinozza, o mastella, e col caldo naturale, mediante il presame, si rapprende.
Rappreso, con un bastone alla cui estremità avvi un piccolo disco o taglieretto
coniccato, che chiamano torlo, a poco a
poco lo dividono, e lo sminuzzano senza agitarlo. Perché poi la pasta acquisti
una consistenza, spargono sulla supericie acqua calda, che non sia passata
alla bollitura, ma che entro possa, senza
sentire molestia, reggere la mano. Indi
lo agitano, lo rimenano spesso e forte,
onde purgare la pasta dal siero, in a
tanto che strette quelle particelle che
nuotano sparpagliate, entro la mano
si uniscano, e reggano sulle dita senza
rompersi, e sgretolarsi. Ciò eseguito
lo lasciano calare a fondo, dove con la
mano sinistra ferma, e con la destra piegata in arco, si va a poco a poco unendo
la pasta, procurando di spogliarla dallo
siero, e poscia ammassata la levano di
colpo, e la gettano nello stampo, o talG. B. riZZolAtti, Sul formaggio Asìno, «L’Amico del
Contadino», A. I, n. 10, 1842, 59-160. Rizzolatti era arciprete di Clauzetto.
37
30
alla stagionatura e i più diffusi formaggi teneri in salamoia:
che chiama ottimi perché vecchi, i medici l’amicizia e il vino.
Ci sembra poi interessante riportare un’altra
raccomandazione del prete Rizzolatti: «per
avere il buon asìno, fa duopo che il latte non
sia solo di vacca, ma una porzione di capra, il
che gli dà un gusto delicato».
Quindi il formaggio asìno era ottenuto da latte crudo, aveva un aspetto morbido, per lo più
conservato in salamoia, ed era tagliato con il
latte di capra. Quello realizzato con il latte
caldo, invece, aveva la capacità di stagionare
e si chiamava “pezzano”. In malga, il formaggio
in salamoia non poteva fermarsi molto e quindi le portatrici dovevano provvedere a farlo
scendere verso il paese per immergerlo nella
salamoia che ogni famiglia custodiva gelosamente. Un altro documento rende evidente
questa tradizione e ci ricorda che il formaggio delle malghe veniva portato a valle «d’ordinario entro la seconda metà di settembre.
Se poi il formaggio vien fatto ad acqua, ossia
formaggio fresco (asìno), da riporsi nelle salamoje vien ritirato dalle maghe ogni quindici
giorni»38.
Se l’asìno era fatto per lo più con latte vaccino
nei comparti meno ripidi della pieve d’Asio e
della Carnia, nella maggior parte delle malghe che erano state costruite nelle Prealpi
Carniche a partire dalla ine del XVII secolo
si ospitavano pecore e si produceva pecorino
tenero o stagionato: «dai nostri monti Casoni
si estrae il migliore de’ formaggi che si consumano in provincia sotto il nome di pecorino;
dai nostri monti casoni si ricava il formaggio
fresco che si consuma durante l’estate in Provincia ed anco fuori; dai nostri monti casoni si
estrae il formaggio salato od asìno, e le delicate ricotte, ed una buona quantità di butirro
fresco»39.
Una descrizione praticamente coeva ci ricorda la bipartizione tra formaggi duri destinati
I prodotti che si ritraggono sono formaggio fatto a fuoco o ad acqua, butirro e ricotta. Formaggio fatto a fuoco
è quello che in commercio si conosce
col nome di formaggio da tola, e che
trasportato dalla montagna dopo
compiuta la monticazione, si conserva
benissimo un anno, due ed anche tre.
Formaggio ad acqua è quello gonio,
bucherato che si mangia fresco e si trasporta dalla montagna settimanalmente per smerciarlo tosto, oppure si mette
in conserva nelle salamoje, ove si tiene
cinque o sei mesi al più. (…) Più proitto ritraesi dal formaggio fatto a fuoco:
però vi sono certe montagne esposte a
maggior calore, in cui dificilmente riesce ed è d’uopo adottare la fabbricazione del formaggio ad acqua40.
Una descrizione successiva distingue i formaggi tradizionali di montagna:
vi si fabbricano tre sorta di formaggi,
cioè ad acqua, a fuoco e misto, ossia per
acqua e fuoco. Il primo conosciuto sotto
il nome di fresco o di asìno riesce molto grasso e delicato; non è serbevole,
è perciò messo in commercio appena
asciugato sulle piazze di Udine e di Venezia, e parte se ne esporta a Trieste. Il
secondo si conserva per uno o più anni
e si mette in commercio sotto il nome di
formaggio dolce o di Montasio; il terzo,
riesce di qualità inferiore, meno grasso,
ed è per la massima parte passato alla
salamoia e consumato in paese.41
40
Sistema di condotta dei pascoli montani nella Carnia,
«Bollettino della Associazione Agraria Friulana», n.46,
27 giugno 1857
38
l. MiColi tosCAno, L’industria dei latticini in Friuli, «Pagine Friulane», A. IX, n. 2, 16 aprile 1896, 17-21
41
Statistica Pastorale. Annotazioni della Giunta di Statistica per la Provincia di Udine, «Bollettino della Associazione Agraria Friulana», n.17-18, 25 settembre 1869, 516
Della pastorizia in Carnia, «Bollettino della Associazione Agraria Friulana», A. II, 17 agosto 1857, 192
39
31
Questa tripartizione del formaggio di area
alpina ci viene confermata anche da Tonizzo
nella sua descrizione delle malghe pordenonesi del 1903:
da latte, onde avere grosse forme di formaggio fabbricato con latte fresco, per un certo
numero di giorni, si cedono l’una l’altra a vicenda tutto il latte che mungono, tenendo
conto della misura, per poter poi restituirlo
agli altri allo stesso scopo. Negli altri paesi invece ognuno pensa per sé, e quindi le
forme del formaggio sono assai piccole, o
volendo unire il latte di due tre giorni, questo inacidisce o poco o troppo, e il formaggio che ne vien fuori è di pessima qualità»45.
Per alzare la qualità del formaggio era indispensabile modiicare le modalità di produzione e i primi esperimenti di caseiicazione
sociale vennero presto esaltati come una
soluzione. Nel 1885 l’Associazione Agraria
Friulana aveva iniziato a divulgare le prime
esperienze di latterie turnarie in Friuli con
il Congresso provinciale di latterie tenutosi a Udine: «Si voleva che la latteria sociale cooperativa fosse un vero magazzino di
risparmio alimentare, distribuendo ai vari
consociati una buona parte dei prodotti
della latteria»46.
Lo stesso anno sulla rivista si promuoveva
un quesito pubblico per studiare lo statuto
delle latterie sociali47.
Il successo di queste nuove modalità di produzione casearia fu in realtà relativamente
breve e già un quarto di secolo dopo l’azione di promozione e divulgazione c’era chi
segnalava che il proliferare in ogni borgata dell’istituto della latteria turnaria stava
provocando nuovi problemi: «In Friuli si
istituiscono troppe latterie. Intendo parlare, più che della montagna, che della zona
I formaggi, mancano di tipo costante e
bene spesso di pregi intrinseci.
Si possono dividere in :
1. Formaggio dolce (sutt).
2. Formaggio salato (salàt),
3. Formaggio da frutta (asin).42
All’inizio del Novecento, in molte casere si
produceva sia formaggio salato che duro, a
Casera Teglara «si fa metà formaggio montasio comune, e metà formaggio di salamoia;
nel luglio 1907 la produzione era di tre forme al giorno, cioè circa 20 chilogrammi»43.
Per garantire il commercio del salato in
montagna e nella pedemontana ci si era specializzati nel produrre barili, come a Travesio
dove nel tardo Ottocento c’erano i Tosatti
che avevano aperto anche «una speciale industria nella fabbrica di paste per minestra,
svariate e squisitissime (…). Clauzetto confeziona il formaggio asino, morbido, delicato, candido e spugnoso, gratissimo al palato
e che va ad adornare le mense signorili di
Udine, Venezia e Trieste»44.
Sulle riviste si discuteva di come rendere
eficiente la produzione del formaggio promuovendo forme di collaborazione: «Riguardo ai formaggi che si fabbricano dai privati, esiste nel comune di Pontebba un buon
uso, che negli altri paesi non è, e che sarebbe
utile introdurvi. Quelle famiglie le quali non
hanno che una, o due, o tre o quattro vacche
piana, dove in questi ultimi anni le latterie
sono sorte proprio come i funghi, e molte
volte più per rivalità paesana, per sentimenti di stretto campanilismo, che per precisa nozione»48.
ti50. Le iniziative per riconoscere il formaggio cotto in monte con la legna, prodotto in
caseiici che nulla avevano a che fare con
le più moderne strutture richieste da Asl
e Unione Europea, hanno permesso di codiicare uno standard che sembra contrapporsi al processo di evoluzione dei prodotti
che abbiamo in qui descritto51. Un nuovo
e diverso fenomeno prodotto da studi che
hanno un carattere scientiico molto spiccato è quello che preigura il recupero di
complessi malghivi in area alpina, non più
monticati con bovini, come spazi per iniziare nuove forme di allevamento con ovini e
caprini. Nel fare queste previsioni ci si dimentica però che la costruzione di quelle
praterie artiiciali era stata promossa proprio dall’espansione della pastorizia ovi-caprina a partire dal basso Medioevo52.
Oggi invece le malghe si sono ridotte in
modo evidente, provocando perdite paesaggistiche ormai irrecuperabili, mentre le
latterie turnarie si sono del tutto estinte.
Mentre per quest’ultime si è potuto fare
poco, trasformandone alcune in latteria cooperativa e/o sociale, per le malghe ci sono
state moltissime azioni per garantire un minimo di sopravvivenza di questa pratica. Si
può persino dire che l’impegno di Regione,
Provincia e Comuni per tutelare la continuità di questa pratica è stato maggiore al
proitto espresso da questa attività economica49. Del resto si è deciso che il formaggio di malga, seppure fosse un prodotto
della ine dell’Ottocento, contenesse in sé
dei valori di memoria che andavano tutela48
50
Vedi per esempio il lavoro appena prodotto da Ersa
e Assorifugi sui prodotti di malga, Filiera d’alta quota,
2015.
51
n. innoCente, C, CorrAdini, Caratteri distintivi dei formaggi di malga della Carnia e della Val Canale e Canal del
Ferro, «Notiziario Ersa», n. 1-2, 2002, 18-20
La pletora di latterie, «Il Paese», 12 maggio 1911
Alcune volte l’impegno ha portato a un fallimento
dell’iniziativa come nel caso di Malga Le Valli nell’altipiano del Cavallo, attrezzata per essere anche agriturismo e ormai chiusa da alcuni anni. Vedi: s. BoVolentA, V.
MArtellAni, C. FABro, P. susMel, L’alpeggio in Friuli Venezia
Giulia: due casi di studio, «Agribusiness Paesaggio & Ambiente», v. VI (2002), n. 3, 2003, 212-222
49
52
C, CorAn, d. PAsut, e. Presot, s. Zilli, Friuli Venezia
Giulia, in Il posto giusto. Un modelllo integrato per la valutazione dei pascoli alpini all’allevamento ovi-caprino e la
stima del carico animale potenziale, a cura di t. GuGGenBerGer, G. de ros, s. Venerus, hBlFA rAuMBerG-GuMPenstein, Irdning, 2007, 76-85
45
Risposta ad alcuni dei quesiti fatti dalla Associazione
Agraria circa alla coltivazione montana, «Bollettino della Associazione Agraria Friulana», A. II, n. 47, 16 luglio
1857
42
d. toniZZo, I Pascoli alpini dei distretti di Spilimbergo e
Maniago, in «Bollettino della Associazione Agraria Friulana», S. IV, V. XX, n. 4-6, 15 marzo 1903, 100-214.
G. sArtori, Le latterie del Friuli, «Bullettino dell’Associazione Agraria Friulana», S. 4, V. 15, n. 8-9, 7 giugno
1908, 151-160
46
43
Relazione della Commissione Giudicatrice del Concorso
pel miglioramento dei pascoli alpini nei distretti di Spilimbergo e Maniago (1904-1907), «Bullettino della Associazione Agraria Friulana», A. 53, S. V, V. 25, 1908, n.13-15,
423-450
44
47
l. Perissutti, Quesito I. Quale ritiensi migliore sistema
di contratto sociale per le Latterie, «Bullettino dell’Associazione Agraria Friulana», V. II, n. 9, 9 maggio 1885,
150-166
Industrie Friulane, «Il Friuli», 21 maggio 1889
32
33
1.2 Imparare da Marsure1:
un’indagine di ecologia storica lungo un transetto
della pedemontana pordenonese
PREMESSA
sformazioni d’uso del territorio che furono
introdotte verso la metà dell’Ottocento anche nella zona di Marsure. Valussi percorreva
i monti per coglierne i valori estetici e paesaggistici in linea con la retorica romantica, raccontando l’esperienza al cognato Francesco
Dall’Ongaro: «È un beneizio di cui godete
voi igli delle muse, di aggiungere le bellezze
dell’arte a quelle della natura, e di rendere
le une indimenticabili ai contemplatori delle altre», ma quei luoghi erano gli spazi della
produzione del cibo per gli abitanti della pedemontana, e quindi il luogo delle pratiche
aziendali delle diverse famiglie rurali.4
Chi visita i territori, anche quelli patri, spesso
li affronta proponendo una lettura sincronica
e fortemente inluenzata dal proprio portato
culturale. Per questo, quando nel 1857 Paciico Valussi2 decise di salire al Cansiglio a dorso
di mulo, percepì le montagne che bruscamente sorgono dai depositi ghiaiosi della pianura
come un elemento di selvaggia aridità. Un
territorio di macerie che dificilmente potevano rappresentare, per il giornalista friulano, l’esempio di un ambiente antropizzato e
coltivato con criteri che stavano cambiando
velocemente, per adeguarsi a una società
nuova, meno legata alle tradizioni del passato. Nella sua escursione, Valussi attraversava
un ambiente che stava mutando a causa delle
trasformazioni che contemporaneamente
subiva la società, anche attraverso l’azione
dei riformatori riuniti sotto l’egida dell’Associazione Agraria Friulana.3 Il pretesto della
sua escursione, tra l’altro svoltasi a Polcenigo,
ci è utile per raccontare, in premessa, le tra-
«Ma ti so dire, che nella parte occidentale del nostro
Friuli ho trovato, quel che ti parrà strano, di ricordare
anche la Perla nelle macerie; sebbene essa abbia nulla che
fare con questa regione. Per dir vero, la poesia ci entrava in questo caso assai per poco. Figurati, che trattavasi
d’una Perla bizzarra, che traeva calci all’aria fra le macerie de’ monti, i quali sopra Polcenigo fanno appoggio alla
magniica selva del Cansiglio, cui, per non ignorare molte
cose degne di vista, che trovansi nel nostro Paese, trassi
a visitare con alcuni amici, desiderosi anch’essi di conoscere di propria veduta le cose delle quali s’ode tuttodi
parlare. Ciò, che un tempo desideravo di fare per diletto,
ora lo devo per uficio; e questa estrema provincia della
penisola, che da qualche anno comincia a rendersi nota
a’ più lontani compatrioti, dovrò percorrere e studiare,
sicché a noi non si rendano i paesi discosti più famigliari
dei vicini, e conoscendo i progressi che l’industria agricola vi fa, si possano additare quelli che fare potrebbe. Dal
Monte Canino a Tremeacque, dal Passo della morte ad
Aquileia, dal Cansiglio a Marano ed alla Pineta alla foce
del Tagliamento, tutto dovrò grado grado visitare; dando,
per così dire, prima qualche scandaglio, poscia venendo
a studiare le particolarità. Dificile studio; eppure piacevolissimo, massimamente se si tratta della piccola Patria,
alla quale è dolce dedicare le proprie cure» (P. VAlussi, Dal
Friuli Occidentale, «L’Annotatore Friulano» V, 41, 8 ottobre 1857, 372-375: Lettera a Francesco Dall’Ongaro in
esilio a Bruxelles).
4
1
Il titolo di questo saggio prende spunto da Learning
from Las Vegas (Imparare da Las Vegas) di Robert Venturi,
Denise Scott Brown e Steven Izenour, un classico della
teoria dell’architettura, pubblicato nel 1972. Venturi,
Scott Brown e Izenour esplorarono da vicino una città
informe, dove ci si muoveva solo in auto, cresciuta a una
velocità mai vista prima nel bel mezzo del deserto.
Paciico Valussi (1813-1893) fu un importante giornalista alla metà dell’Ottocento. Rimando a r. tirelli,
Paciico Valussi, primo giornalista friulano 1813-1893,
Tricesimo 1993; t. sGuAZZero, Valussi Paciico, in Nuovo
Liruti. Dizionario Biograico dei Friulani. 3 L’età contemporanea, a cura di C. sCAlon, C. GriGGio, G. BerGAMini, 4
voll., Udine, 2011, IV, 3489-3501.
2
Questo legame è testimoniato dall’articolo che Valussi
pubblica nell’ottobre del 1856 sul Bollettino: P. VAlussi,
Escursione campestre, «Bollettino della Associazione Agraria Friulana», I, 27-28, 19 ottobre 1856, 105-108.
3
35
se famiglie può rendere conto di quella che
era stata la tradizione. Le vacche da latte
erano pochissime, e nell’Ottocento erano
di una razza grigia alpina diffusa in tutta la
pedemontana.5 Il latte vaccino era dificile
da trattare e trasformare con la tecnica della cagliatura a caldo prima della diffusione
dei caseiici moderni. Le vacche avevano invece il senso di garantire la capacità di produrre carne e animali da lavoro.6 Le manze
potevano essere uccise per produrre carne importante da vendere, mentre erano
senza dubbio considerati più importanti i
buoi che garantivano, con la loro forza, le
arature. Non a caso le vacche censite nel
1832 erano solo trentuno, mentre i buoi
erano novantanove. Le famiglie più ricche
avevano nella stalla una vacca per la riproduzione e quasi sempre due buoi per il tiro
dell’aratro. Non tutte le famiglie del paese
erano in grado di garantire il mantenimento di animali da tiro utili anche per muovere
i carri. Tre famiglie ne avevano solo uno e
dovevano farselo bastare. Giuseppe Zorat
ne aveva tre, mentre la famiglia di Angelo
Din, composta solo da sette persone, ne
aveva ben quattro. Angelo vantava anche
una delle greggi più importanti del villaggio,
composta da quarantasei pecore e cinque
capre.
Le famiglie del villaggio censite erano ottanta e per lo più avevano un numero basso
A differenza di oggi, le superici inclinate
del territorio dei villaggi della pedemontana
erano luoghi quotidianamente frequentati
dalla popolazione, che sfruttava la diversità
ecologica legata al gradiente altimetrico nel
tentativo di ottenere il massimo vantaggio
dai diversi caratteri ambientali. L’appassionata visita di Valussi, se fosse stata più attenta, avrebbe registrato come le pratiche
d’uso dell’agricoltura, proprio in quegli anni,
stavano cambiando radicalmente.
UNA SCARPATA PIENA DI PECORE
Un censimento della popolazione animale, probabilmente del 1832, ci permette di
ricostruire quello che era il carico di animali presenti nel villaggio di Marsure in un
momento relativamente stabile del popolamento, quando ancora si praticavano le
tradizionali forme d’uso del territorio come
in età di antico regime, prima delle riforme
fondiarie della ine degli anni Quaranta.
Sappiamo così che il cavallo era ritenuto
un animale assolutamente improduttivo,
apprezzato solo da quel ceto borghese che
non albergava a Marsure. Gli equini non
erano popolari, nemmeno nelle declinazioni dei muli (solo otto) né in quella degli asini
(tredici).
Gli animali da soma erano presenti solo in
sedici famiglie, e queste erano in prevalenza le più ricche e quelle senza dubbio
interessate a garantire i collegamenti con i
boschi più alti. Asini e muli potevano essere
utili quasi esclusivamente nelle attività di
trasporto tra le terre alte e la pedemontana, e quindi la loro presenza era funzionale
alle pratiche territoriali estensive più che
all’attività dei campi. Si trattava di animali da fatica, ma questa nella maggior parte
delle famiglie contadine era ripartita tra
gli umani, e a loro spettavano quasi interamente gli sforzi nel condurre le risorse
della montagna all’interno dell’orizzonte
del villaggio.
Anche la ripartizione dei bovini tra le diver-
«La razza bigia è di taglia media, lattifera, più che mediocre, buona lavoratrice, parca e resistente di forme
non belle, punto precoce nello sviluppo e dificile ad
essere ingrassata. La ragione principale del suo allevamento in questa plaga è puramente commerciale essendo i mercati locali abitualmente visitati da negozianti delle limitrofe province di Treviso e Venezia propensi
assai a questa razza bovina» (u. selAn, Lo stato attuale
delle stazioni friulane di monta taurina, «Bullettino della
Associazione Agraria Friulana» LII, 12-13, 1907, 338368: 354).
5
Malattie e infezioni potevano ridurre in modo consistente la forza lavoro presente in paese. Per questo i
bovini erano sempre attentamente accuditi. Vedi l’inizio
di epidemia nel 1880: Note agrarie ed economiche, «Bullettino della Associazione Agraria Friulana» s. III, vol. III,
13, 29 marzo 1880,103.
6
36
di individui.7 Solo dieci famiglie superavano
le dieci unità, ma queste detenevano un numero consistente di animali e si coniguravano come degli aggregati famigliari. Tutte
erano dotate di buoi.
Le pecore erano gli animali “grossi” più
diffusi, con la presenza di 1.135 individui,
mentre le capre erano solo 116, distribuite
tra ventiquattro famiglie. A loro spettava la
ricerca del cibo negli spazi più impervi del
Viene facile credere che queste fossero le
famiglie che contavano sulla maggior quantità di terreni posti in piano e arativi. Ben
trentadue famiglie erano prive di bovini e
quindi erano dedite a trattare i propri terreni coltivabili con la zappa. Quasi sempre
questi nuclei erano composti da 4-6 persone e in alcuni casi, cinque per l’esattezza, non potevano contare nemmeno sugli
ovini e vivevano in una profonda indigenza.
Possiamo dire che a Marsure le famiglie più
ricche si distinguevano per avere un nucleo
numeroso di individui che abitavano sotto
lo stesso tetto e avevano una consistente
dotazione di animali.
lungo versante montuoso. Il loro numero,
estremamente contenuto rispetto a quello delle pecore, merita però uno speciico appunto. Le pecore erano considerate
più preziose poiché fornivano anche una
pregevole lana, che era un sottoprodotto
molto considerato. Le capre, invece, erano
utilizzate di più per il latte e la carne e probabilmente il basso numero di esemplari
censiti lasciava fuori i capi che di lì a poco
sarebbero stati macellati.
Un ragionamento simile credo vada fatto
per i trentaquattro maiali censiti nelle corrispondenti famiglie.
Evidentemente il censimento si limitava
a individuare solo le scrofe tralasciando
i maiali che entro l’anno sarebbero stati
trasformati in insaccati. Vale però la pena
notare come i maiali fossero davvero pochi
poiché, a differenza dei ruminanti, si nutrivano di cibo che poteva essere mangiato
anche dall’uomo. La maggior parte delle famiglie, e soprattutto le più povere, non se
lo potevano permettere e si concentravano
Tutte le frazioni di Aviano sono censite con estrema
cura poiché il Comune era intenzionato a rivendicare il
diritto al pascolo sulle praterie della Forca in Comune
di Roveredo, e gestite da tempo come compascuo. Archivio storico comunale di Aviano (d’ora in poi, ASCAv),
249. Nel 1829 gli abitanti di Roveredo si erano recati
in gran numero con gli animali nella ‘campagna delle
forche’ posta in comune di Roveredo, ma pascolata da
quelli di Aviano.
7
37
capre 15%
vacche 6%
sull’allevamento degli ovini. Pecore e capre
garantivano alle famiglie meno abbienti latte e carne, utilizzando per lo più i pascoli
pubblici. Vecchi e bambini potevano essere
mandati al pascolo, mentre le persone più
vigorose potevano concentrarsi sui terreni
destinati alla produzione delle scorte per
l’inverno.
Gli animali minuti (polli, oche e conigli) furono censiti solo per gli esemplari da riproduzione, altrimenti non si comprenderebbe
come in un villaggio che contava 458 abitanti gli animali da cortile fossero solo 801.
In realtà il numero degli animali che nel paese vivevano delle magre risorse delle terre alte variava molto all’interno dell’anno, e
il censimento tende più a cogliere il senso
del popolamento animale e umano che individuare un valore certo e stabile della pressione degli animali sulle risorse.
Quando la terra donava più frutti, il patrimonio di animali cresceva ino a subire una
drastica riduzione in vista dell’inverno. Nella stagione più fredda si dovevano conservare solo gli animali necessari alla riproduzione per l’anno successivo.
L’analisi delle proprietà degli animali mostra anche molte differenze tra le diverse
famiglie, rendendo evidente come nell’Ottocento non ci fossero più all’interno dei
paesi le garanzie egualitarie tra i diversi
abitanti, tipiche invece del Medioevo. Nel
villaggio c’erano nuclei famigliari poverissimi, e quasi privi di animali, e altri dotati di
greggi importanti e produttive.
La famiglia di Giuseppe Lama poteva contare solo su sei pecore nonostante fosse composta da cinque persone, mentre
quella di Giuseppe Bufonel, composta da
quattro individui, poteva contare su due
buoi, una mucca per la riproduzione, venti
pecore, due capre, un maiale e molti animali da cortile. Le disparità erano sotto gli
occhi di tutti e il successo di questo o quel
capofamiglia era dettato dalla sua capacità
di gestire il patrimonio animale in relazione
agli abbondanti pascoli. Solo dieci famiglie
erano prive di ovini ed erano quasi tutte
indigenti, a parte tre che possedevano solo
bovini e quindi non erano interessate allo
sfruttamento delle grandi praterie inclinate.
Una seppur veloce indagine parallela sulla
percentuale degli animali in altre borgate
di Aviano, della dimensione simile a quella
di Marsure, chiariscono anche i termini di
diverse strategie di utilizzo del territorio. Si
può dire che la pecora era l’animale più diffuso, ma anche che presso alcune borgate
cominciava a rendersi evidente l’espansione dell’allevamento delle vacche per la produzione di latte.
Questo è più evidente a Castello, dove le
vacche erano, caso raro, superiori ai buoi
da lavoro e i maiali superavano, in percentuale, il numero delle capre. Evidentemente il riutilizzo del siero dopo la produzione
casearia permetteva di garantire l’alimentazione a un numero maggiore di maiali.
Mano a mano che ci si allontanava dal centro del comune (Pieve e Castello) i buoi
cominciavano ad essere più numerosi delle vacche e la presenza delle capre sempre
più evidente.
A Marsure le percentuali dimostrano chiaramente che veniva garantita solo una presenza legata alla riproduzione, mentre si
preferiva allevare i più prestanti buoi per il
tiro dell’aratro.
buoi 11%
cavalli 2%
suini 6%
Muli 0%
buoi 11%
cavalli 3%
suini 3%
asini 0%
buoi 12%
capre 2%
capre 15%
vacche 6%
5. Percentuali della popolazione animale a Giais, 613 abitanti.
pecore 73%
pecore 63%
5. Percentuali
della popolazione animale
a Giais, 613 a
abitanti.
5. Percentuali
della popolazione
animale
2. Percentuali
della
popolazione
animale
a
Giais,
613
abitanti.
2. Percentuali della popolazione animale a Pieve, 638 abitanti.
Pieve, 638 abitanti.
suini 2%
asini 1%
suini 1%
cavalli 0%
buoi 7%
asini 2%
suini 2%
buoi 7%
vacche 2%
buoi 9%
capre 8%
vacche 2%
asini 1%
vacche 6%
capre 20%
capre 8%
buoi 9%
cavalli 0%
vacche 6%
pecore 79%
3. Percentuali della popolazione animale a Marsure, 458 abitanti
6. Percentuali
suini 1%
asini 2%
capre 20%
pecore 62%
della popolazione animale a
6. Percentuali della popolazione animale a Costa, 374 abitanti.
Costa, 374 abitanti.
pecore 79%
3. Percentuali della popolazione animale a
Marsure, 458 abitanti.
Le capre, invece, diventavano una presenza
pecore 62%
importante nelle borgate di Marsure, di Costa e di Giais, che dovevano confrontarsi con
8 abitanti.
6. Percentuali
della popolazione
animale
a Costa, 374
ambiti più aridi
del versante
e della
dorsale.
Gli animali occupavano regioni agrarie diverse. Bovini e suini si limitavano ai settori più
bassi dell’insediamento. I sentieri non erano
transitabili nemmeno con le piccole vacche
della pedemontana e quello che oggi consideriamo un prodotto tipico, il formaggio di malga, allora non esisteva, come non esistevano
le casere intese come piccoli caseiici stagionali. La permanenza di buoi e vacche in paese,
per contro, garantiva abbondante letame per
3. Percentuali della popolazione animale a Marsure, 458 abitanti
buoi 17%
buoi 17%
vacche 13%
Muli 1%
Muli 1%
suini 4%
suini 4%
asini 1%
asini 1%
vacche 9%
vacche 9%
38
asini 1%
pecore 63%
capre 3%
1. Percentuali
della
animale
a409 abitanti.
1. Percentuali
della popolazione
popolazione animale a Castello
nel 1832,
Castello nel 1832, 409 abitanti.
suini 2%
vacche 8%
asini 2%
pecore 63%
cavalli 0%
pecore 68%
8
4. Percentuali della popolazione animale a Villotta, 467 abitanti.
I dati elaborati provengono dal censimento degli ani-
mali eseguito nella primavera del 1830 in occasione di
pecore 68%
4. Percentuali della popolazione animale a una riforma degli afitti dei beni comunali. Vedi: ASCAv,
Percentuali della popolazione animale a Villotta, 467 abitanti.
249.
Villotta, 4674.abitanti.
39
si rese scarso quello delle due ricordate stagioni, si dovette sminuire i lanuti;
e non si viene con ciò ad approittare
del pascolo dell’Alpe, se non in parte. E
sembra che questi sminuiranno ancora; perché inora, come succede in ogni
momento di transizione, si supplisce cogli abusi; abusi che dal tempo e dall’interesse privato verranno tolti in tutto o in
parte sensibile.9
orti e campi, ma per alimentare animali tanto
voraci bisognava garantire abbondanti scorte
di ieno falciando i settori più bassi della scarpata e i prati della pianura arida. Questi riuscivano a garantire solo uno sfalcio all’anno,
ma il terreno poteva essere poi utilizzato per
il pascolo autunnale. In ogni caso le abitazioni
necessitavano di stalle complesse, capaci di
contenere in spazi separati bovini, ovini, equini, suini e animali da cortile. Le case più ricche
erano dei veri e propri zoo all’interno degli
alti recinti di pertinenza. D’inverno le greggi
dovevano essere portate in paese e al massimo le si poteva far uscire al pascolo nei settori più bassi della campagna d’Aviano quando
non c’era la neve. A novembre si cominciava
a ridurre l’esigua popolazione di maiali e di
capre, in modo da conservare il maggior numero di scorte.
Sappiamo così che poco prima della visita
di Valussi, nella pedemontana i comuni avevano promosso una riforma agraria importante, che aveva permesso il frazionamento
delle terre pubbliche di versante e di pianura assegnandole alle famiglie residenti.
Solo le terre alte erano state conservate
per l’uso pubblico, mentre sul resto del territorio alla pratica del pascolo si sostituiva
quella dello sfalcio.
L’allevamento in stalla iniva per imporsi
rispetto a quello tradizionale del pascolo
medievale. In età positivista si trasformava
completamente l’economia del villaggio modiicando il sistema produttivo del settore
più importante dell’agricoltura pedemontana, quello dell’allevamento: «Tutti sanno, un
animale pascolante consuma o sciupa quattro volte più che alla mangiatoia».
Se ino a quel momento erano stati gli animali - gli ovini come abbiamo evidenziato a raggiungere le risorse foraggere, da quel
momento in poi la situazione cambiò radicalmente.
L’uomo doveva ascendere il monte e sfalciare le sue praterie private, portare a valle
il ieno e stivarlo in ienili enormi, dai quali poi avrebbe attinto per l’alimentazione
giornaliera delle vacche. La privatizzazione delle terre pubbliche avrebbe garantito l’aumento della produzione di ieno, ma
anche un’espansione delle terre arate al di
fuori dell’antico limite del villaggio.
Gli effetti della propaganda delle cattedre
DAI PASCOLI ALLE STALLE: NASCONO LE
PRIME LATTERIE SOCIALI E IL FORMAGGIO MONTASIO
Lo storico rapporto tra popolazione insediata e animali domestici cambiò radicalmente
proprio verso la metà del XIX secolo su tutta
la pedemontana. La rivoluzione dei gusti alimentari e delle modalità di allevamento che
favorivano la produzione del latte vaccino
trasformarono le stalle del paese:
[...] nel Distretto di Aviano (composto
dei tre Comuni di Aviano, Montereale,
San Quirino) si è quello dell’essersi gli
animali bovini forse raddoppiati in numero, triplicati in valore in un ventennio
[…]. La stessa ragione, dice il referente,
che produsse l’aumento degli animali bovini, produsse la diminuzione dei
lanuti, cioè essere passati gl’incolti in
mani private, e quindi sminuito il vago
pascolo, con che si accrebbe la massa
dei foraggi pegli animali da stalla, e si
tolse in gran parte il mezzo d’alimento
degli animali pascolanti nella primavera
e nell’autunno, perché il pascolo estivo
nell’alta Alpe sussiste tuttora: ma come
Cronaca dalla provincia del Friuli, «L’Annotatore Friulano» I, 9, 12 febbraio 1853, 34-35.
9
40
ambulanti10 di agricoltura cominciava a dare
dei risultati. L’abbandono della coltivazione di
sorgo e segala, a favore di una rotazione colturale che introduceva il frumento alternato
all’erba medica, dimostrava che gli storici
campi potevano essere molto più produttivi:
«Gli anni nei quali i campi restano senza prodotti di cereali, sono largamente compensati
dal maggiore prodotto degli anni successivi
allo svegramento11, dalla maggiore messe di
foraggi, e dalla conseguente maggiore possibilità di alimentare animali, e di averne quindi
una maggiore massa di letami».
Le nuove forme di allevamento venivano promosse dalle famiglie più agiate, le stesse che
avevano rapporti con l’Associazione Agraria
Friulana per la quale Valussi operava come
divulgatore. Gli stessi borghesi promuovevano la trasformazione delle forme dell’allevamento pedemontano anche attraverso le
iniziative dell’amministrazione comunale. Nel
1907 il Consiglio comunale acquistò un torello con l’evidente intenzione di promuovere
una sorta di monta pubblica e il consigliere,
«avv. Cristofori rilevava il confortante risveglio nell’industria armentizia e l’opera del Comune spiegata per assecondarla».12
Gli effetti si videro ben presto. Nel 191613 ad
Aviano i buoi da lavoro erano sempre molti,
328, ma le vacche da latte e da riproduzione
erano diventate 1.881, su un totale di 2.565
bovini presenti nel comune. Ormai i parametri della popolazione animale nella pedemontana si erano completamente invertiti, penalizzando ovini e caprini.
Questa politica di crescita della produzione
interna ai villaggi della pedemontana andava
di pari passo con l’espansione delle attività
legate all’emigrazione temporanea e questo
provocò un rapido aumento della popolazione, che si trovò sempre meno in equilibrio con le sue risorse. A partire dalla metà
dell’Ottocento, l’azione riformatrice dell’Associazione Agraria Friulana e una massiccia
campagna di informazione erano riuscite a
modiicare in modo radicale il rapporto tra
territorio e produzione agraria nella pedemontana. L’intenzione di eliminare i vincoli
imposti da un’organizzazione agraria di antico regime portò alla scomparsa di gran parte
del patrimonio pubblico dei pascoli in piano
e di quelli di versante più vicini al paese. La
promozione dell’allevamento di un animale che produceva moltissimo latte, come la
vacca, introdusse i temi di una stabulazione
in stalla, e quindi il problema di risorse foraggere famigliari che dovevano essere raccolte e concentrate nel paese.
È in questo periodo che nascono le immagini tradizionali delle donne con le gerle che
portano sulle spalle enormi carichi di ieno
da stivare nel ienile. È in questo periodo che
si consolida la tradizione delle slitte da ieno che permettevano di condurre in piano
quanto si era sfalciato nelle proprietà che le
famiglie avevano acquisito lungo il versante.
La privatizzazione delle praterie inclinate
tolse spazio e risorse a ovini e caprini, ormai
costretti a pascolare solo nei settori più alti
del territorio.
Il formaggio di vacca, in un primo periodo, si
diffuse all’interno delle cucine delle singole
famiglie, che integravano in questo modo la
loro dieta alimentare scarsamente proteica.
Il formaggio prodotto in questo primo periodo di autoproduzione e di autoconsumo
era tenero, a pasta molle, e non permetteva
di vendere o barattare la risorsa casearia in
cambio di altro cibo. La ricotta e una sorta
di formaggio salato dovevano essere consumati molto velocemente.
Nel frattempo, però, in Italia si sviluppò una
cultura del formaggio stagionato e prodotto
L’Associazione Agraria Friulana, per divulgare nelle
campagne le nuove tecniche agricole, pagava i giovani
neolaureati per andare a istruire i contadini, di solito la
domenica dopo la Messa. L’obiettivo era anche mettere
in relazione gli agricoltori tra loro e con il ceto borghese.
10
11
Lo svegramento consiste nel ribaltare le zolle.
Aviano Consiglio Comunale, «Il Paese» XII, 220, 12
settembre 1907.
12
Come ha contribuito inora la provincia di Udine all’alimentazione carnea dell’esercito, «Bollettino dell’Associazione Agraria Friulana» LXI, 1-12, 31 dicembre 1916,
23-55: 27.
13
41
da una serie di esperti casari ben istruiti. È in
questo periodo che, attraverso la promozione di forme associative dei produttori di latte,
si cominciò ad affermare un nuovo prodotto
caseario, elaborato all’interno di latterie ad
ampia base partecipativa di soci.
La prima latteria sociale in Friuli fu fondata il
19 settembre 1880 a Collina di Forni Avoltri.
Nel 1890 le latterie erano novanta, per raggiungere il tetto di 652 unità nel 1960. Queste istituzioni non cambiavano solo il regime
di produzione dei prodotti caseari, ma anche
la loro forma e il gusto. Lentamente, attraverso le latterie, e contrastando la produzione
famigliare, si costruiva una nuova tradizione
del formaggio, quello di latteria o Montasio. La latteria di Marsure, originariamente
turnaria, è relativamente recente e risale al
1922, con 150 soci, ma in realtà risponde alla
necessità delle famiglie produttrici di seguire
una pratica cooperativa e produttiva ormai
affermata in tutta la regione.
Nell’Ottocento l’allevamento dei bozzoli integrava sempre più questa economia legata alle
nuove forme dell’allevamento, ma si notava
come «il Distretto poi ila più seta, che non
produca bozzoli». Anche lo sviluppo dell’artigianato, però, non poteva essere suficiente
per giustiicare il successo della velocissima
espansione demograica che Marsure registrò in meno di un secolo. Il villaggio si trasformò non solo negli usi, ma anche nella forma
del costruito. Gli animali ormai uscivano poco
dai recinti e dalle loro stalle, mentre diventava sempre più evidente la continua ricerca di
foraggio, alla quale dovevano sottoporsi donne e giovani. Nei cortili crescevano gli ediici
dedicati agli animali e alle scorte alimentari.
L’aumento della produttività comportava un
aumento del benessere e delle famiglie, con
la conseguenza di progressivi ampliamenti
delle abitazioni e la successiva divisione e
frammentazione delle proprietà.
Il processo di diffusa emigrazione colpiva per
lo più le famiglie degli agricoltori proprietari
che, vendendo i propri beni in paese, riuscivano a permettersi di pagare un viaggio in nave
e l’acquisto di ampie proprietà terriere nella
nuova patria. Tuttavia, non emigravano solo i
contadini ma anche la classe artigianale, che
nella pedemontana era piuttosto diffusa: tra
i venticinque che nel gennaio del 1881 partirono per l’America si contavano anche «un
fabbro-ferraio ed un muratore d’Aviano».14
FASCE PAESAGGISTICHE ED ELEMENTI
DELL’ARCHEOLOGIA DEL PAESAGGIO
La specialità di un territorio, quello della
comunità di Marsure, che si distribuiva trasversalmente alla linea del pedemonte, non
poteva che interpretare la specialità della
sequenza ecologica degli ambienti naturali.
Gli ambienti naturali erano inluenzati non
solo dal carattere geomorfologico del territorio, ma anche dal distribuirsi degli elementi naturali secondo i diversi gradienti
altimetrici. Inoltre, lungo le superici inclinate del territorio della comunità, altri due
fattori diventavano importanti per costruire
un ambiente antropizzato: la fatica e il tempo. Sfruttare le terre più alte era possibile
solo con grandi sforzi da parte degli abitanti
e degli animali, che per raggiungere le risorse erano costretti a trasferimenti che a volte
non si risolvevano solo all’interno dell’esperienza di una giornata.
Nei diversi areali di questo paesaggio per
fasce, oggi ci sono in atto processi diversi, inluenzati dai nuovi approcci alla mobilità. Per
esempio, la zona delle casere è molto più facile da raggiungere di quella del versante, che
si può invece percorrere solo a piedi. Questo
determina forme d’uso del territorio nuove
ma che conservano al loro interno i segni dei
paesaggi più antichi.
Per questo motivo ora cercherò di analizzarli
con una lettura che permetta di cogliere i paesaggi di antico regime confrontandoli con
quelli della modernità. Nel farlo descriverò
il territorio partendo dalle aree più lontane
rispetto al centro abitato, ino a scendere
Cronaca dell’emigrazione friulana, «Bullettino della Associazione Agraria Friulana» s. III, vol. IV, 7, 14 febbraio
1881, 54.
verso le campagne più basse in una sorta di
deriva altimetrica. Il racconto di queste unità
di paesaggio sarà centrato su una lettura diacronica degli usi territoriali dall’età moderna
a quella contemporanea. In questo modo mi
sarà più facile far percepire anche il signiicato del patrimonio di segni archeologici che
oggi popolano il territorio della comunità di
Marsure presa come esempio per leggere lo
sviluppo dello sfruttamento dell’agricoltura
lungo un transetto della pedemontana.
più dificile esprimere l’energia necessaria
per rendere produttivi i versanti più aridi e
meno esposti dei settori alti del territorio del
villaggio.
Le superici del territorio di Marsure, poste
all’estremo nordovest, precipitavano all’interno del bacino idrograico della Val Caltea e del
Cellina. Si trattava di un’area per lo più boscosa già in epoca storica. Un ambiente che, nella
sostanza, si è conservato nel suo contesto paesaggistico anche se non è da escludere che
prima delle leggi boschive della ine dell’Ottocento il manto boscoso fosse meno compatto,
e lasciasse spazio a chiarie soprattutto lungo
le direttrici che mettevano in collegamento i
pascoli del Tornidor e di Pian delle More con il
versante esposto alla pianura.
In Età moderna i boschi si concentravano
solo nei settori più alti ed esposti a monte
della montagna. Il legname non era un bene
prezioso, e in dal Medioevo il versante era
stato attrezzato aumentando le praterie artiiciali a danno delle coperture arboree.
Le terre alte e la ricchezza del bosco
La colonizzazione dei settori alti dei territori della scarpata calcarea pordenonese si è
sempre dovuta confrontare con la resilienza
dell’ambiente ecologico. Fin dal Medioevo la
costruzione delle praterie artiiciali esprimeva una capacità di controllo sulla determinata
intenzione della vegetazione di conquistare
ogni spazio aperto. Produrre e conservare
le praterie artiiciali non era per nulla semplice, e nei tratti più lontani dal villaggio era
14
42
Il bosco si apre in occasione dei prati che segnano la zona della sorgente del Tornidor
43
In periodo medievale la popolazione era poco
numerosa e la legna dei cedui, distribuiti nei
settori del versante meno adatti al pascolo o
coltivati all’interno delle praterie artiiciali,
era più che suficiente per garantire riscaldamento e paleria da lavoro a tutta la popolazione. Pensare di far arrivare legname al piano
dai boschi che si trovavano sul versante della
Val Caltea era del tutto impossibile, poiché
non c’erano strumenti che permettessero di
vincere la forza di gravità e far superare al
legname lo spartiacque che divideva il bacino
del Cellina da quello della Livenza.
Nel Medioevo il bosco era più rado e misto.
La faggeta che conosciamo oggi è stata selezionata, a partire dal Cinquecento, per la
produzione di borre di faggio che venivano
inviate a Venezia via Cellina-Brentella-Noncello-Livenza. Quello che osserviamo oggi è
un manufatto fortemente inluenzato dalle
logiche economiche del passato, ora avviato
verso una gestione forestale che privilegia la
coltivazione a fustaia rispetto a quella tradizionale del ceduo.
Ci viene dificile oggi capire come nel XVII
secolo difendere i residui del manto boschivo risultasse un’impresa impossibile, e
questo dava vita a un numero consistente di
proclami del Luogotenente veneziano e del
Comune per la difesa dei boschi. È questo
ciò che accadde nel 1677 quando ci si trovò
costretti a proibire:
[…] perché li fabri abitanti in esso luoco
fanno già stragge in essi boschi et non
si contentano di far carbone per sollo
loco di casa ma ne consumano grandissima quantità per far levare per uso di
mercantia, e ne vendono anco d’esso
carbone senza alcun retegno a pregiutio di quelli pochi utili che ne deve
canone la comunità per pagar le pubbliche gravezze.15
Ormai la trasformazione della legna in carbone era una pratica diffusa su tutta la
montagna, come quella di tagliare legna per
alimentare le fornaci da calce che iniva nei
cantieri della pianura. L’immagine che ci viene restituita in quegli anni è di un ambito ormai brulicante di interessi, grazie all’azione di
imprenditori alla ricerca di risorse forestali.
Molti «calpestano dete montagne con cavali
e mulli, facendo danni nelle erbe nell’andar a
tior li legnami e carbon nella montagna d’essi
di Barces sia per ciò a cadaun prohibito a far
tal strada ne per deti monti d’Aviano».16 Sappiamo quindi che la via della legna che dirigeva il prodotto verso Barcis creava dei problemi e impatti anche nelle praterie di Marsure
e Giais invase dagli animali dei boscaioli.
La pressione che la comunità di Barcis esercitava su questo comparto è testimoniata
da una lettera di Girolamo Loredan, Luogotenente del Friuli, che nel 1676 intervenne
per cassare gli abusi che gli abitanti di Barcis
avevano prodotto costruendo alcune casere
nel territorio di Aviano e presumibilmente
nell’area in cui il Comune della Val Cellina
toccava gli ambiti tradizionalmente coltivati
dai villaggi di Costa e Marsure: Loredan ordinava «al Comun e huomeni di Barces che
debbano demolir le casere da loro fatte sopra il conin della montagna d’Aviano, overo
astenersi di far dani sopra le montagne di
raggione di deta communità».17
a cadauno, tanto terriero, che forestiero, che non ardisca tagliar legnami di
sorte alcuna per uso di mercantia ne
per far fornaci, ne ricever poca ne molta quantità di dinaro da altri per far frate et tagli di legnami nei boschi concessi nel privileggio ad essi d’Aviano, ne li
legni tagliati o carboni fatti trasportare
dai deti Boschi […]. Restando del tutto
prohibito alli forastieri che non sonno
d’Aviano portarsi nelle dette montagne et boschi d’Aviano a pascolare, ne
tagliare legnami di sorte alcuna ne condurre animali d’alcuna sorte ne menuti
ne grossi sotto qual si voglia pretesto
ASCAv, Registro di delibere, 6 maggio 1677.
18
16
Ibidem.
19
17
Ivi, 29 maggio 1676.
20
15
44
Un altro proclama del luogotenente rimarcava che anche alcuni avianesi stavano contribuendo alla scomparsa delle superici forestate, tanto che ci si trovò a dover vietare
ai fabbri di Aviano di «tagliare nelli boschi
di deta Communità legni per far carbone
per uso di mercantia e del loro mestiere di
fabro che ad uso di mercantia ma sollo per
uso della propria loro famiglia».18
Non si poteva più ammettere che i fabbri
diventassero, di fatto, dei commercianti di
carbone a danno degli altri concittadini, che
non potevano più afittare i tagli boschivi in
cambio di danaro per le spese dell’amministrazione. Anche le attenzioni di Venezia per la conservazione di questa risorsa
erano cresciute: «non si conduce da monte
cavalli forestieri vaccaria, ma solo fedaria
[…] non si taglia legni in montagna senza
licenza della comunità se non per uso delli
habitanti».
Il conlitto tra i diritti di taglio delle risorse
forestali afittati a una borghesia forestiera
e i più antichi diritti di pascolo esercitati dagli abitanti alla metà del XVII secolo entrarono in aperto contrasto.
Sappiamo che nel 1675 i Manin avevano
coinvolto l’amministrazione di Aviano credendo di aver acquisito un uso esclusivo
della montagna con «l’afitto dello Monte
del tremolo».19
Il Comune di Aviano, invece, riteneva che la
cessione del taglio non imponesse un’inibizione al contestuale pascolo, e dichiarava di
fare riferimento «all’antichissima e sempre
praticata ragione in uso di fedaria sopra li
monti del Monte Cavalo nominato il Tremolo».20
Gli interessi dei grandi commercianti di
legname inivano poi per scontrarsi con
gli abusi che quotidianamente gli abitanti
facevano rubando legna o pascolando nei
boschi. Non a caso, nel 1678 il comune di
Aviano fu condannato a pagare una multa
per i danni inferti al bosco che era stato afidato a Francesco Fullini21.
Il bosco pascolato era il tipo ambientale più
diffuso, insieme a quello della prateria con
boschetti. Molto probabilmente già dal Medioevo il manto alberato non era più compatto come lo vediamo oggi.
Era ricco di chiarie e di varchi pascolati poiché in quell’epoca non esistevano norme per
la difesa della copertura arborea.
La veduta della sorgente del Tornidor rende conto molto bene dei corridoi sfrangiati
che costruivano i percorsi degli animali nella zona boscata. Ancora oggi questo luogo
ha un’importanza strategica per la zona,
visto che qui c’era una delle poche sorgenti
perenni dell’altipiano. La necessità di garantire l’acqua agli animali che frequentavano i
pascoli alti di Barcis, come a quelli presenti
La sorgente del Tornidor, attrezzata per l’abbeverata, si
trova proprio nel punto dove si consolidò nel tempo il
conine tra Aviano e Barcis, testimoniato da questa vecchia pietra incisa
nel Pian del Cavallo di Aviano, fece sì che la
materializzazione dei conini in epoca bassomedievale facesse diventare la sorgente
ai piedi del Cimon dei Furlani un segno coninario, e l’acqua una risorsa comune. In un
territorio calcareo le poche fonti afioranti e
Ivi, 30 novembre 1677.
Ivi, 29 ottobre 1675.
Ivi, 1 marzo 1677.
21
45
Ivi, 14 giugno 1678.
Il paesaggio boscato della Val Caltea un tempo era molto più ricco di brani di pascolo e corridoi della transumanza
Immagine di Piancavallo dalla Kriegskarte del 1805
Operazioni di contenimento dell’espansione del bosco sulle praterie di Pian Mazzega
46
i temi della ‘cattura’ dell’acqua piovana erano determinanti per le attività di pascolo su
tutto il versante alpino. Per questo motivo,
quando in età bassomedievale si consolidarono i conini tra le comunità locali, l’accesso
alle fonti idriche divenne un problema per
ogni piccolo villaggio.
Non possiamo non notare come la strada
che saliva per Costa Longa, attrezzata con
piccoli stagni per l’abbeverata (lame), divenne il naturale conine con il villaggio di Giais,
e che la mulattiera, poco sotto l’omonima
forcella, toccava una sorgente attiva quasi
tutto l’anno, posta in sostanza sul conine tra
le due comunità.
L’acqua non poteva essere spostata, a differenza dei cippi lapidei, ma, soprattutto,
doveva dissetare quante più greggi era possibile.
L’immagine di un sistema boscato poco compatto emerge chiarissima nella Kriegskarte
del 180522 permettendoci di notare come il
topografo austriaco avesse segnato il bosco
avianese della Val Caltea in modo molto diverso da quello che in età storica era stato
il bosco delle comunità di Giais e di Montereale. Lì il segno molto scuro indicava una
copertura arborea compatta, mentre nella
zona del Piancavallo il verde chiaro dei pascoli emergeva con maggiore chiarezza.
Dobbiamo pensare che questi territori erano
frequentati e attrezzati da greggi di pecore
che sostavano pochi giorni nei pascoli alti per
poi tornare a valle. Nei tempi antichi era impossibile pensare di accompagnare a queste
quote mandrie di vacche lungo sentieri tanto
impervi. Lo stesso accadeva per i pascoli alti
di Barcis, e il disegno sul versante del Monte
22
Kriegskarte 1798-1805. Il Ducato di Venezia nella carta di Anton von Zach, a cura di M. rossi, Treviso 2005.
47
Caulana di molti recinti per le pecore rimane
a testimoniare queste storiche pratiche di
sfruttamento delle risorse ambientali. In età
moderna, come abbiamo detto, il bosco divenne per la prima volta una risorsa. Il legname era molto ricercato dai mercanti veneziani
e le comunità cominciarono ad afittare i tagli
boschivi. Questa pratica divenne molto importante per reperire le risorse economiche
di cui avevano bisogno le amministrazioni locali della pedemontana, e per questo motivo
iniziarono i primi tentativi locali di normare
la protezione della risorsa forestale. Il bosco
rimaneva pubblico e doveva essere garantito
dalle attività di pascolo dei singoli cittadini.
Non c’erano vincoli imposti dalla Serenissima
ma solo considerazioni di opportunità economica delle amministrazioni locali. A partire
dal Cinquecento le maestranze legate agli
esboschi governati dai mercanti veneziani
avevano introdotto la tecnica della produzione di carbone di faggio, che era molto richiesto dalle fabbriche del vetro muranesi. Anche
il legname del ceduo più minuto, quello che
non poteva essere tagliato in ‘borre’ poteva
essere recuperato per costruire un prodotto
leggero e facilmente trasportabile a valle a
spalla d’uomo o di animali. Queste tecniche
di produzione del carbone per la prima volta
divennero anche un patrimonio delle comunità locali e dei contadini della pedemontana,
che scoprirono così la possibilità di sfruttare
i boschi a ceduo della zona alta per ottenere
un prodotto facilmente vendibile sui mercati
della pianura in cambio di granaglie.
L’instabilità politica del primo periodo di dominazione franco-austriaca aveva lasciato
molto spazio agli abitanti, che avevano approittato delle risorse boschive per produrre più carbone e aumentare le superici di pascolo sul monte. Nel gennaio del 1813 l’ispettore raccontava come «perlustrando i boschi
compresi nel dito Comunale Circondario mi
è accaduto con sorpresa di rilevare col fatto
molti abusi eseguiti ne tagli».23
23
L’ispettore forestale consigliava di inviare
una guardia per i sequestri del legname ormai condotto abusivamente in pianura, e che
sarebbe stato opportuno far scortare questo
funzionario da un drappello di soldati perché
temeva potessero scoppiare dei tumulti.
Nell’Ottocento la gestione dei boschi era lasciata per lo più in mano a privati, che afittavano il bene pubblico per il «taglio e carbonizzazione del bosco».24 Gli alberi erano tenuti
per lo più a ceduo e non a fustaia perché era
troppo dificile portare a valle travi da costruzione. La viabilità e una spiccata contropendenza impedivano di portare legname
di grande dimensione nella pedemontana,
mentre sarebbe stato più facile raggiungere le acque del Cellina lungo la Val Caltea; il
territorio arido impediva però di usufruire
dell’aiuto dei corsi d’acqua. Se trasportare la
legna a valle era troppo costoso, non lo era altrettanto trasformarla sul luogo in carbonella
e poi farla giungere a valle a dorso di mulo o
grazie alle portatrici.25 Il quel caso il contratto
non veniva fatto sulla volumetria del legname
che sarebbe stato tagliato, ma sul numero di
‘bisacche’, grandi bisacce, con le quali si sarebbe portato a valle il carbone.
alti del territorio con forme originali, diventando delle strutture di polloni pseudo
circolari espanse dall’originaria centralità
della pianta.
Questa forma speciale di domesticazione
dei vegetali era il frutto di tagli biennali
che facevano sì che il prato non soffrisse
della copertura solare dettata da una pianta alta e matura.
Di fatto il prato alberato aumentava la
produttività visto che anche la frasca poteva essere usata, in speciali occasioni, per
integrare il cibo delle pecore e delle capre.
Fino al Novecento possiamo credere che il bosco in
questi settori del monte fosse un semplice e rado ceduo
che permetteva anche il pascolo delle pecore
Il bosco riconquista il suo spazio
La riduzione del numero delle pecore promossa a partire dall’inizio del XIX secolo
in questo settore montuoso diede subito
i suoi frutti aumentando la capacità di rinnovamento delle zone boscate e portando a un aumento della massa forestale su
gran parte della scarpata. Questi progressi però non erano facilmente riscontrabili
nella zona dell’Avianese:
vita a forme di paesaggio che oggi non riconosciamo più, cioè ai pascoli alberati. I
pascoli attorno alle casere avevano anche
queste masse arboree che permettevano
ai pastori di ricavare legna per il focolare
della casera e per la cottura del latte. Questi ceppi, che erano posti nei pressi delle
casere, si sono sviluppati nei settori più
Alle pratiche di esbosco con la produzione
del carbone si opposero anche alcuni abitanti. Quando nel 1844 si mise mano a un nuovo
afitto del Bosco del Cimon, poco sopra Pian
delle More, il consigliere comunale Giovanni
Puppa ebbe il coraggio di dire che «il bosco
Cimon dovrebbe essere rispettato, e lasciato a taglio gratuito dei poveri, per non togliere a essi i mezzi di una risorsa, e di riparare ai
bisogni della legna da fuoco, in tanta penuria
massime in cui è il comune tutto».26
I cedui si prestavano bene a questa attività di trasformazione e potevano dar
Ivi, 378, 8/9, 20 settembre 1847, sugli afitti del Bosco del Cimon.
24
Vedi il contratto intercorso tra il Comune e Giovanni
Redoli Tezzat di Aviano per l’afitto del bosco del Cimon. Ivi, 8/3, 14 dicembre 1847.
25
ASCAv, 46, 8 gennaio 1813.
26
48
Ivi, 11 luglio 1844
La tavoletta dell’IGM del 1929 mostra come il bosco sfrangi e diventi rado in corrispondenza dei due grandi pianori
prativi di Pian di Mazzega e Casera Paronuzzi
49
ro.31 Gli esempi di queste stalle, rintracciate
in tutta la zona della dorsale del Monte Cavallo, fanno pensare a strutture relativamente recenti (XVII-XVIII secolo) e che all’inizio
del XIX furono soppiantate da nuove costruzioni realizzate con murature a paramento
verticale unite dalla calce e destinate al ricovero dei pastori. Per contro, le strutture più
antiche continuarono a essere utilizzate per il
ricovero degli animali. Quando De Gasperi32
visitò il Piancavallo per dare una sua lettura
degli insediamenti pastorali, questa trasformazione era già avvenuta:
Le casere che la carta (Quad. Aviano)
segna sul Pian del Cavallo sono nove:
Pian di Mazzega 1.184 metri; Paronuzzi,
1.242, Busa di Villotta 1.272, Capovilla
1.292, Stefano 1.300 circa, la Brusada
1.323, Michelin 1.325, Caseratte 1.339,
Valfredda 1.375, circa. L’altezza media
fra le due estreme è 1.279 m, fra tutte
1.293 m. L’orlo orientale dell’altopiano
forma una specie di larga dorsale corrente da nordest a sudovest, a supericie irregolare per l’enorme sviluppo di doline,
valli cieche ed altre forme carsiche. Bene
spesso le casere si trovano in qualcuna
di tali conche chiuse. Il limite superiore
naturale del bosco è visibile da questo
lato ove un intenso disboscamento l’ha
portato a 1.450 m. circa; sul versante
occidentale del Cavallo va a 1.750; sul
pendio orientale il bosco manca affatto.
Piccolo inghiottitoio utilizzato per smaltire i resti del
taglio.
Oggi il conine tra boschi e prateria artiiciale è più netto di un tempo.
un risveglio tanto più che la Pro montibus
conta fra di noi numerosi soci».28 Il fatto
che la prima associazione ambientalista
dedicata al tentativo di sensibilizzare l’opinione pubblica nei confronti del dissesto
idrogeologico avesse degli adepti nel territorio delle grandi praterie è estremamente
signiicativo.
Nel Medioevo l’espansione delle pratiche
d’uso del pascolo avevano ridotto gli spazi
del bosco in montagna come nella pianura
arida. Agli inizi del Novecento si cominciavano a vedere i primi segnali di un processo
inverso.
Eppure per sfruttare i settori più alti la pecora era ancora l’animale più adatto29.
I soli boschi di Caneva e Polcenigo
di proprietà comunale sono in via di
miglioramento in causa della regolarizzazione dei tagli fatti a cura di quei
municipi. L’imboscamento delle montagne da tanti anni raccomandato, ma
che non accenna di essere praticato,
sarebbe assai facile, ne importa dire di
quanta utilità. Una legge in proposito
tornerebbe necessaria.27
Mano a mano che, all’inizio del Novecento,
la riduzione di ovini e caprini sul versante
cominciava a rendersi evidente, la vegetazione boschiva sembrava rinvigorirsi. La
nuova attenzione che veniva prestata alle
risorse lignee e la presenza di un presidio
di polizia forestale anche sulla pedemontana stava cominciando a dare i suoi frutti: «I
boschi comunali ai piedi del Cavallo, in grazia del vietato pascolo caprino, oggi sono
quanto mai rigogliosi e densi. Speriamo in
Per il rimboschimento, «Giornale di Udine» XL, 277,
17 novembre 1908.
28
Ad Aviano c’era una delle casere più alte del Friuli,
quella di Val Grande, registrata nel 1880 a quota 1703;
ciò in un ambiente che in quegli anni d’inverno era ricco
di neve per metri e metri d’altezza. Cfr. G. MArinelli, Le
casere in Friuli secondo la loro altezza sul livello del mare.
II, «Bullettino della Associazione Agraria Friulana» 21,
1880, 161-164: 162. A questi livelli non era infrequente avere episodi di nevicate a giugno, e persino a luglio:
La neve sul Cavallo, «Il paese», 25 luglio 1913.
29
27
F. CAndiAni, Relazioni sullo stato dell’agricoltura friulana
relativamente all’anno 1870, «Bullettino della Associazione Agraria Friulana» 13, 15 luglio 1871, 417-423:
420.
50
La pecora non si distingue che per l’abbondanza e bontà del latte, essendo
piuttosto ruvida e tonda la sua lana,
mentre in Giais di Aviano lo stesso tipo
dà lana inissima, qualità dovuta al pascolo più elevato nell’atmosfera: per altro il formaggio non riesce così distinto
come quello di Polcenigo. La sua grandezza è delle mediocri.30
L’evoluzione delle poche strutture di servizio al pascolo rintracciate nei prati mostrano come prima delle casere che oggi conosciamo fossero stati costruiti in alta quota
altri ediici a servizio dei pastori e delle loro
greggi. Si trattava di ediici lunghi e stretti,
realizzati con murature portanti spesse di
pietre non squadrate e posate a secco. Per
questo motivo le murature erano molto
basse e servivano per ospitare una copertura con ripidi spioventi ancorata alle murature attraverso un cordolo di travature che
facevano da dormiente.
Gli spioventi venivano poi ricoperti con paglia e frasche e ogni anno la copertura veniva
rinnovata per garantire l’utilizzo del ricove-
La descrizione che fece delle casere ci è
estremamente utile e merita di essere riportata per intero perché la maggior parte
di questi ediici furono distrutti e riediicati
dopo la Prima Guerra Mondiale.
De Gasperi ricordava che le casere coperte con tetto
in paglia erano «costanti nell’orlo dell’altipiano del Cansiglio, nel Pian del Cavallo e nelle planine del Matajur». Cfr.
G.B. de GAsPeri, Studi sulle sedi e abitazioni umane. Le casere
del Friuli, «Bullettino dell’Associazione Agraria Friulana»
LXI, 1-12, 31 dicembre 1916, 125-237, 205.
31
30
P. QuAGliA, Cenni intorno alle Malghe del Comune di
Polcenigo nel Distretto di Sacile, «Bullettino della Associazione Agraria Friulana» II, 53-54, 7 novembre 1857,
215-216: 216.
32
51
Ivi.
mento dell’espansione naturale del bosco.
Ma anche i boschi al limitare delle praterie
sono cambiati e a ianco di alberi cresciuti
con un portamento a fustaia si scorgono le
più antiche ceppaie di ceduo. All’interno del
prato della malga si riscontrano ancora i re-
nelle quali un tramezzo orizzontale separa una specie di solaio ov’è tenuto il
ieno per i giorni piovosi. In questo sottotetto si entra da una porta-inestra,
aperta dal lato posteriore, che, grazie
al pendio della montagna, viene a trovarsi a livello del terreno.
Tanto nella casera del foc, che nelle
stalle, il tetto è sostenuto da una prima armatura di travi inclinate che si
appoggiano su una trave longitudinale
mediana e sui muri laterali. Sopra queste stanno dei correntini orizzontali a
distanza di 40-50 cm. Su essi poggia
direttamente la paglia, eccetto che al
di sopra del focolaio ove un tavolato
serve da difesa contro gli eventuali incendi.33
Una delle stalle di una casera dell’orlo del Cansiglio. La
costruzione è in muro a secco, il tetto di paglia (da G. B.
De Gasperi, 1916).
Oggi le superici destinate a prateria artiiciale pascolata sono molto ridotte e si possono notare alcuni dificili lavori di conteniCeppaia pseudo circolare generata per un progressivo allontanamento dei polloni dal centro.
Le casere dell’orlo orientale degli altipiani del Cansiglio e del Cavallo sono
caratterizzate dal tetto di paglia a
due spioventi che giungono in quasi
a terra. Le mura sono a secco, prive
di cemento; mancano inestre; unica
apertura la porta aperta sulla facciata
anteriore, un po’ lateralmente. Nell’angolo accanto la porta è la busa del fogo,
in tutto simile a quella delle casere del
Cansiglio. Anche qui la caldaia pende dal braccio sporgente dalla mussa.
Sopra al bus del fogo sta il graticcio
(gardizz) per affumicare le ricotte. Un
tramezzo di tavole, coperto di ieno,
messo orizzontalmente all’altezza del
vano del tetto, costituisce il giaciglio
dei pastori; vi si accede con una scala a
mano. Lungo le pareti e su un sostegno
isolato nel centro della casera, apposite assi servono a tenere il formaggio.
Le stalle sono separate dalla casera;
ogni malga ne possiede più d’una, ino
a quattro o cinque. Viste dall’esterno
sono affatto simili alle casere; all’interno hanno un unico locale, salvo alcune
Resti di ediici di servizio al pascolo costruiti con murature a secco e pietre poco lavorate, se non in occasione
dei principali fori. In primo piano un masso adattato per
diventare uno stipite di chiusura della porta.
52
Ediicio posto sotto versante utilizzato per il ricovero
degli animali.
Rilievo di casera (da G. B. De Gasperi,1916).
33
Fabbricato di servizio al pascolo colonizzato dalla vegetazione.
Ivi, 216-217
53
sti di storiche alberature che punteggiavano
il prato e che sono denunciate dalle interessanti ceppaie di ceduo, sviluppatesi probabilmente per qualche secolo da un nucleo
centrale ormai dissolto. La forma di queste
costruzioni arboree è pseudocircolare e
a volte raggiunge i due metri di diametro.
Questo pone il tema dell’antichità di questa
pratica di tagliare e fare frasca all’interno del
prato per dare da mangiare agli animali e allo
Il bosco si interrompe anche in occasione delle moderne viabilità che ormai lo tagliano.
stesso tempo costruire una riserva di fasciname per il focolare del pastore.
Erano anche diffuse forme paesaggistiche
oggi scomparse come quella del prato delle
chiarie nel bosco. Infatti, il manto forestale
era molto meno compatto, ma soprattutto
era pascolato dalle greggi e quindi sottoposto a un progressivo deperimento. Dagli
inizi del Novecento il bosco ha chiuso quasi
tutte le chiarie che lo caratterizzavano, raggiungendo una forma sempre più potente e
antagonista ai prati artiiciali delle malghe.
Un contrasto tra pieni e vuoti che assume
anche un valore coloristico molto forte nelle
diverse stagioni.
Il manto forestale si interrompe solo in occasione dell’attraversamento della strada
della val Caltea o in occasione dei corridoi
delle linee elettriche che alimentano Piancavallo e la sua rete impiantistica. Questi spazi
attraversati da infrastrutture si legano poi
agli effetti della costruzione di un paesag-
Poco distante dai ruderi della vecchia casera si trova il recinto (moltrin) per la mungitura realizzato con un basso
muro in pietra che probabilmente veniva rialzato con ramaglie secche.
Oggi il itto manto boscoso è interrotto non più dalle
aperte strade della transumanza ma dalle linee elettriche che garantisco i rifornimenti energetici agli impianti
e a Piancavallo.
La grande vasca di raccolta delle acque di Pian delle
More costruita come un serbatoio in cemento fuori
terra.
54
Rovina di una cabina di trasformazione.
55
La veduta di Costa Grande dai pascoli alti.
Un particolare della Kriegskarte del 1805
gio moderno invaso da opere di servizio alla
struttura turistica di Piancavallo. È proprio
in questi settori alti del territorio che si rintracciano cabine elettriche e bacini idrici che
dichiarano nella loro forma estetica il disegno di una modernità ormai slegata dall’economia dell’erba o a quella dell’albero.
La profonda valle che precipita su Marsure incide l’altipiano.
56
praterie che guardano la pianura. Molte persone sono attratte dalla soglia tra il versante
ripidissimo e il piano pascolato che segna
un’evidente discontinuità tra le morfologie
del massiccio.
Nel settore alto delle praterie artiiciali,
le erosioni sono dolci e gli avvallamenti
morbidi. L’acqua, così rara da dover essere
trattenuta dalle lame usate per abbeverare
uomini e animali, non è violenta e modella le
piccole incisioni carsiche quasi come fossimo in presenza di un suolo plastico.
Questo ambiente di erbe che dialoga con la
luce è usato in modo diverso da come lo era
qualche centinaio di anni fa, ma per comprendere questa modiicazione ambientale
quasi impercettibile è necessario rifarsi ad
alcuni documenti storici.
Oggi siamo abituati a considerare le casere una forma insediativa antica, ma in realtà sono una pratica d’uso relativamente
moderna. Anche da un punto di vista della
I pascoli alti e le casere
La colonizzazione del versante montuoso
posto sopra a Marsure fu condotta nel Medioevo con l’uso del fuoco per riuscire ad
aumentare le superici per il pascolo degli
animali, che in origine si muovevano quotidianamente dal villaggio alle terre alte. Il primo tratto di altipiano posto tra Pala Fontana
e Monte Caseratte era comodo e molto frequentato dal pascolo vagantivo allora in uso.
Oggi invece la percezione che abbiamo di
questo territorio è molto diversa, perché
gli usi sono di esclusiva pertinenza di chi gestisce le malghe, mentre si è sviluppata nel
tempo la frequentazione turistica di queste
57
Praterie artiiciali.
presenza degli animali nel tempo la popolazione degli alpeggi è cambiata. In età di
antico regime solo le greggi potevano raggiungere i settori più alti del territorio di
Marsure. La produzione di latte era marginale perché i prodotti caseari non erano
facilmente commerciabili al di fuori del villaggio. La produzione della lana e della carne aveva senza dubbio un maggiore valore
ed era spendibile in cambio di altre merci. I terreni pubblici non erano attrezzati
con ediici e gli uomini utilizzavano ripari
provvisori di frasche lungo tutta la regione
montuosa.
Ci è noto invece il frangente che portò alla
costruzione delle casere e dei comparti
malghivi nei settori alti del pascolo alpino.
Questo processo è comune a tutte le Prealpi Carniche e fu stimolato dalla necessità
delle comunità di provvedere a integrare
le inanze delle amministrazioni locali afittando ai privati importanti comparti del
pascolo. Mano a mano che le pratiche soli-
Il bordo dell’altipiano.
58
daristiche di queste popolazioni venivano
meno, diventava indispensabile comprare
servizi e pagare funzionari che garantissero quegli obblighi di gestione che nel Medioevo ricadevano sui capifamiglia.
Nel maggio del 1676, la comunità di Aviano
inviò alcuni periti a veriicare «il danno fatto
nelli boschi di questa Comunità per far legni
di mercantia»34.
La pressione sui boschi e sui pascoli alti era
palpabile. Era praticamente impossibile garantire nei settori più alti di Aviano un servizio di polizia e quindi le comunità chiesero al
governatore veneziano in Friuli il permesso
di attrezzare con delle casere i pascoli alti
che la comunità intendeva afittare. In questo modo tutto il settore dell’altipiano iniva
per essere inibito all’uso dei singoli cittadini,
mentre lo avrebbero frequentato solo i legittimi afittuari che non sempre apparteneva-
34
59
ASCAv, Registro di delibere, 24 maggio 1676.
Residui di casere del primo periodo di insediamento
con murature a paramento verticale senza uso di calce
I recinti ricordano le tradizioni legate alla raccolta delle
pecore per la mungitura
Dove si sono ridotte le pratiche del pascolo avanza e si compatta il bosco.
I muretti di questa foto non avevano funzioni di delimitazione della proprietà ma sono il frutto dello spietramento dei prati
no ad Aviano. Ci si aspettava così di ridurre
i conlitti innescati tra il pascolo brado e la
gestione dei comparti forestali. Il magistrato
veneziano concesse al Comune di «fabricar
casere sopra la monte apperta, ma sollo nelli
pascoli entro le cime afinche non restino danegiate l’erbe bandite ma conservate ad uso
di pascolo per beneicio degli abitanti»35. Il
luogotenente Girolamo Loredan si rendeva
conto che questa pratica avrebbe ristretto
gli spazi utilizzati dagli abitanti più poveri per
35
60
Ivi, 29 maggio 1676.
le loro greggi e impedì di costruire complessi
malghivi da afittare lungo le pendici del versante. Le casere pubbliche sarebbero state
costruite esclusivamente sull’altipiano che
già si conigurava come una montagna aperta, non solo perché esposta, ma anche perché
quasi completamente disboscata.
Il privilegio concesso dal luogotenente del
Friuli alla comunità di Aviano segna un radicale cambiamento nelle modalità d’uso del
territorio perché per la prima volta deinisce
il merito della costruzione dei comparti delle
malghe all’interno delle terre pubbliche. Per
la prima volta si comprende come la competenza di accordare queste nuove forme d’uso del territorio fosse dell’amministrazione
veneziana, che aveva il compito di salvaguardare le risorse per il pascolo vagantivo dei
singoli abitanti. A loro rimaneva l’uso dei pascoli pubblici in piano e soprattutto quelli di
versante. Nel 1676 si sostituiva il paesaggio
del pascolo brado con quello del pascolo pro-
lungato e attrezzato con stalle e casere, il paesaggio che ancora oggi riconosciamo come
un paesaggio tipico della zona del Cavallo.
Per più di un centinaio di anni la situazione
non cambiò. Un’ispezione fatta nel 1833
sulle casere del settore alto di Giais ci ricorda dell’uso che si faceva di questi spazi
«sulla montagna di Giais, denominata Val
Freda, ove ritrovasi tre casere». Le casere
facevano parte di quello che poi diventerà
il complesso malghivo di Casera Valfredda
di Giais. Nonostante ci fossero tre ediici,
l’afitto era stato accordato a Osvaldo De
Pol, che a sua volta aveva subafittato gli altri due settori. Osvaldo nel suo comparto di
concessione ospitava 152 pecore di tredici
diversi proprietari, mentre nel settore che
aveva come capo casera Pietro Ciligot, gli
ispettori di Aviano ne contarono ben 251,
provenienti da dieci diversi allevatori.
Va però precisato che ben cento pecore non
erano di Giais ma provenivano da diversi
61
Resti degli ovili del XVII secolo
Segni di recinti circolari sul vertice del colle
tanto che De Gasperi notò come i pascoli
fossero talmente frazionati da creare anche nel Monte Cavallo quell’ambiente del
villaggio estivo che somigliava alle planine
slave: «Nelle malghe dell’orlo orientale del
Cansiglio-Cavallo avviene pure che il pascolo sia frazionato in più di una afittanza
in modo che le casere si trovano a gruppi».37 Altre volte la singolarità della gestione degli animali e delle malghe della zona
del Monte Cavallo a volte era poco compresa anche dagli studiosi del periodo. Per
esempio il Candiani nel 1870 riferiva che
«saranno forse mille vacche che passano
dal piano al monte, e viceversa, a seconda delle stagioni, e duemila pecore, da cui
si trae poco formaggio, poco burro e poca
ed inferiore lana, non bastevoli al consumo
locale, non bene confezionati, ma però di
buona qualità. Sono ignorati affatto i pro-
proprietari di Bagnarola di Sesto al Reghena. Il terzo capo casera, Giobatta Pol Friz,
ne dichiarò invece 196, di dodici diversi
proprietari.
Nel comparto chiamato Capo furono trovate ben 646 pecore afidate a Pietro Basso
Fin, tra le quali 307 venivano da Maniago
Libero, 174 da Maniago e 91 da Sedrano e
Bagnarola. Pietro Basso, invece, ne aveva
altre 281 di undici diversi proprietari.
Il carico di animali su questo comparto di
montagna era davvero consistente. Sulla montagna di Giais, nell’estate del 1833
c’erano ben 1.526 pecore. Un numero
enorme, se si pensa che solo tre anni prima
nel villaggio di Giais ne erano state censite
816.36
Il risultato del frazionamento dei pascoli
non poteva non essere notato dai geograi,
che cominciavano a indagare la montagna,
36
37
G.B. de GAsPeri, Studi sulle sedi e abitazioni umane. Le
casere del Friuli, 229.
Ivi, 258.
62
Il massiccio del Cavallo, nel punto in cui le praterie sembrano unirsi al bosco con la igura paesaggistica del prato alberato
63
BOVINI
CAPRE
OVINI
MAIALI
VALFREDDA 1
10
60
260
4
VALFREDDA 2
15
0
400
4
CASERATE 1
19
0
600
4
CASERATE 2
10
0
450
5
gressi scientiici in questo ramo, e sembra
molto lontano il tempo in cui di essi si saprà
trarre proitto».38
In realtà quel migliaio di bovini ai piedi del
versante non si muovevano per raggiungere i settori alti del territorio di Aviano, ma le
singole famiglie si impegnavano a far scendere a valle le risorse foraggere. Era invece
credibile il riferimento alla scarsa capacità
di produrre buoni formaggi e di stagionarli
per la vendita in pianura. Il prodotto serviva soprattutto in famiglia, all’interno di
un’economia che era ancora di sussistenza.
Per contro, la transumanza di greggi che
dalla pianura a primavera inoltrata si muovevano verso la montagna, come abbiamo
notato per Giais, aveva una scala territoriale più ampia dell’Avianese e questo era
un rischio per le popolazioni di animali del
luogo perché era facile essere interessati
da malattie epidemiche. Il tradizionale pascolo che si innescava tra il settore abitato
e le risorse foraggere si muoveva su territori e tra ambienti ben conosciuti, ma nelle
casere l’arrivo di animali forestieri poteva
creare dei focolai di infezione. Per esempio
nel 1887 in alcuni alpeggi di Tramonti e di
Giais si era diffusa la scabbia delle pecore
e quando gli animali tornarono nei villaggi
il contagio divenne un pericolo fortissimo
Stalla e casera Valfredda, costruite negli anni Venti sul
bordo della scarpata di Marsure
38
39
anche per gli animali che non si erano avvicinati ai pascoli alti.39
La politica di riorganizzazione agricola impostata alla metà dell’Ottocento fece sentire i suoi effetti solo più tardi, trasformando
le abitudini produttive e quelle alimentari e
producendo delle enormi ripercussioni sul
paesaggio di questo settore della montagna. Sul inire del secolo, la situazione stava
cambiando. Nel villaggio erano aumentati i
bovini e le manze più giovani cominciavano
a essere dirette verso la montagna durante
l’estate, nonostante i sentieri dificili.
Nel 1896 alle casere di Valfredda e Caseratte di Marsure venivano attribuiti quattro
Le morfologie del monte vengono esaltate dalle praterie artiiciali
to, dopo di che questa produzione entrò in
crisi. Nel 1929, per il Censimento dell’agricoltura non abbiamo dati estrapolati relativi alla frazione di Marsure, ma i dati della
popolazione animale del Comune di Aviano
sono estremamente interessanti. Venivano
censiti 2.848 bovini, 372 equini, 266 suini,
1.328 ovini e solo 20 caprini.
Tra i bovini, 1.950 esemplari erano vacche
da latte, mentre i buoi erano solo 109, quindi non era cresciuto il numero degli animali
utilizzati per il lavoro, ma si era privilegiato
l’aumento delle vacche da latte riducendo
drasticamente pecore e capre.41
Con l’arrivo della strada a Piancavallo, le
malghe cominciarono a essere monticate
prevalentemente con bovini e il formaggio
di malga stagionato cominciò ad affermarsi
come un prodotto nuovo e diverso da quello
comparti pascolivi, al posto dei sei originari,
con un carico prevalente ancora di ovini.40
Sebbene i paradigmi dell’allevamento fossero completamente cambiati, le casere di
montagna si continuavano a monticare con
le pecore e questo testimonia la resistenza di queste pratiche di allevamento anche
nel periodo in cui ormai ai piedi del Monte
Cavallo cominciavano a nascere le latterie
turnarie per la lavorazione del latte di vacca.
Le casere che erano state ricostruite dopo la
Prima Guerra Mondiale sono molto diverse
dalle precedenti e sono state pensate per la
produzione e la conservazione del formaggio con la cottura del latte. Erano dei piccoli
caseiici, ma la quantità del latte trattato fu
importante solo ino alla metà del Novecen-
40
F. CAndiAni, Relazioni sullo stato dell’agricoltura friulana
relativamente all’anno 1870, «Bollettino della Associazione Agraria Friulana» 13, 15 luglio 1871, 410-423:
417.
t. ZAMBelli, Osservazioni sulle malattie epizootiche e
contagiose manifestatesi in Friuli nel 1888, «Bullettino
della Associazione Agraria Friulana» vol. VI, 5, 1889,
62-67: 64.
64
M. toMAdini, I pascoli del silenzio, Casere e caseranti nel
Piano del Cavallo (1850-1950), Pordenone 2011, 44.
Rimando al testo molto documentato da un punto di vista antropologico per tutto ciò che riguarda la moderna
evoluzione delle praterie alte nel Novecento.
41
Catasto agrario 1929-VIII, Compartimento del Veneto,
Provincia del Friuli (Udine), f. 26, Istituto centrale di Statistica del Regno d’Italia, Roma 1936, 84.
65
mandò uno dei suoi migliori periti, Gio Batta
Nascimbeni, a rilevare le molte isole di possessi privati che si trovavano all’interno della proprietà pubblica. Queste famiglie della
borghesia locale, pur avendo spesso attrezzato i prati con delle piccole stalle e ienili,
non avevano nessun documento che attestasse un legittimo possesso46. Quelle stalle
poste lungo il versante garantivano ad alcuni
clan una posizione di vantaggio rispetto agli
altri abitanti. Qui gli animali potevano sostare e pascolare a mezza costa e presso gli ediici diventava più facile raccogliere il ieno e
le frasche per poi condurle con calma a valle.
Questo problema sui recenti diritti o usurpi delle stalle private di mezza costa non fu
risolto dal Magistrato veneziano, tanto che
nel 1831 la questione fu ripresa in occasione di un nuovo catastico degli abusi prodotto questa volta dallo stesso Comune.
L’amministrazione comunale dichiarava
esplicitamente che questo nuovo strumento sarebbe servito per «conoscere quali e
quanti sono stati gli usurpi in qui commessi
dai singoli privati, onde procedere contro gli
usurpatori».47
Molto spesso si trattava di piccole particelle
limitrofe alle proprietà accertate dei singoli
privati, che però erano state ampliate accorpando terre pubbliche sulle quali il Comune
provvedeva ora a chiedere un afitto, più che
la restituzione del bene.
Altre volte, invece, l’abuso aveva le dimensioni di una vera e propria isola di interesse
privato all’interno del versante pubblico,
come nel caso di Pra de Plana attrezzato con
un ‘caserino’ da Antonio Cristofori. La maggior parte dei prati di fatto aveva casere e/o
caserini, ediici allungati come quelli delle
malghe pubbliche, posti sui bordi delle proprietà, nei tratti meno produttivi dei prati.
La distribuzione di queste isole di proprietà
privata all’interno della grande prateria in-
Le pendenze del versante segnano almeno tre aree lungo il versante dei prati
Particolare della Kriegskarte del 1805
che i caseiici in pianura producevano, utilizzando come alimentazione dei bovini prevalentemente foraggio secco. Contrariamente
a quello che si potrebbe credere, è soprattutto in questo frangente che l’allevamento
alpino entrerà in crisi qui come negli altri
settori della montagna friulana. Ai primi del
Novecento i comparti pascolivi monticati
della zona del Monte Cavallo erano quattordici, mentre un recente censimento ne
ha registrati undici, a causa di abbandoni e
accorpamenti.42 In sostanza, con una maggiore dimensione delle malghe, si è assistito a una riduzione delle superici pascolate,
con un’espansione progressiva di successioni secondarie sui prati meno produttivi. Il
censimento degli animali presenti in estate
negli alpeggi è indicativo del fatto che il carico delle malghe è di molto diminuito. Nel
2003, in tutto il complesso montuoso del
lato friulano del Cansiglio-Monte Cavallo,
comprendente Aviano, Caneva, Polcenigo,
Budoia, Barcis e Montereale, furono trovati
solo 360 bovini, 1910 ovini, 129 caprini, 36
equini, 11 maiali, 17 bufali e otto cervi.43 Di
fatto si trattava di una popolazione animale
inferiore a quella che era presente all’inizio
dell’Ottocento nei soli pascoli di Aviano.
42
43
Il versante montuoso:
l’erosione del bene pubblico
Come abbiamo visto, Girolamo Loredan,
accordando agli avianesi la possibilità di costruire casere nella zona alta del versante,
si era raccomandato di conservare libero e
pubblico il versante prativo della montagna.
In realtà, la grande prateria inclinata che da
sola era in grado di sfamare un gran numero di animali già a quell’epoca soffriva degli
attacchi che si facevano alle norme con-
s. doVier, s. BoVolentA, d. PAsut, s. Venerus, Le malghe
della dorsale Cansiglio-Cavallo. Un progetto per la valorizzazione dell’attività alpicolturale, Gorizia 2006, 53.
s. doVier, s. BoVolentA, d. PAsut, s. Venerus, Le attività
agro-pastorali nella dorsale Cansiglio-Cavallo: una risorsa
per il territorio, «SoZooAlp» 1, 2004, 102-118.
66
suetudinarie di tradizione medievale. Nel
1658 il perito pubblico Benvenuto Bardini
si era recato ad Aviano per coninare una
proprietà di trentacinque campi di terra che
il pordenonese Baldoin Tironi era riuscito
a farsi vendere dal Magistrato sopra Beni
Comunali di Venezia ritagliandoli «dal corpo
de un ben Comunalle in colline qual corpo
comincia al conin de giais et seguita sino a
dardagho».44 La grande prateria inclinata che
disegnava un lungo paesaggio di pascoli che
univa molte comunità cominciava a essere
intaccato dall’espansione delle terre private.
Non a caso, la stessa cosa accadde qualche
decennio dopo nei pressi del santuario della
Madonna di Costa dove i Cristofori acquistarono un prato posto tra la chiesa e il torrente
Ossena, nei pressi dell’ancona di S. Ivano «fabricata dalli Nob: Sig.ri Cristoffori».45
Alle vendite legittime di alcuni pezzetti di
prateria del versante si sommavano anche
alcuni abusi di singoli cittadini che di fatto
privatizzarono nel tempo alcuni dei tratti del
versante più ricchi di cotico erboso.
Nel 1775 il Magistrato Sopra Beni Comunali
Si trattava di un settore posto poco a monte della
chiesa di San Giorgio ad Aviano, ma era solo l’inizio di
una serie di erosioni della proprietà pubblica. Archivio
di Stato di Venezia (d’ora in poi, ASVe), Provveditori
sopra beni comunali, 119, Aviano, 7, 16 gennaio 1658.
44
Ivi, 17, 6 giugno 1705. L’anno dopo gli stessi Cristofori acquistano altri tre piccoli prati nei pressi della
chiesa. Cfr: Ivi, 18, 28 marzo 1706.
46
45
Ivi, 24, 31 maggio 1775.
ASCAv, Appartiene al Comune di Aviano, c.2, 10 luglio 1833, eseguito dal perito Gio Batta de Marco.
47
67
I resti di una lama lungo il sentiero di conine con la comunità di Giais.
Praterie e rimboschimenti naturali lungo le due spalle
del versante di Marsure.
Il crinale di Pala Fontana.
La valle del Torrente Fontana scende verso Marsure.
seguir debba l’alienazione dei Beni stessi mediante riparto a testa e con estrazione a sorte
fra i Comunisti abitanti compresi li Possidenti
sebbene altrove domiciliati, e verso il pagamento di annuo canone eniteutico».51
Nel 1845 l’ingegner Pietro Quaglia di Polcenigo pervenne alla deinizione dei frazionamenti del versante per individuare i lotti che
sarebbero stati ceduti ai privati.52 Il progetto
di privatizzazione del versante non andò in
porto ovunque nello stesso modo. Marsure
tentò di mantenere le tradizionali pratiche
d’uso. Mentre a Cortina di Sotto e a Costa nel
1849 si era pervenuti a una divisione dei prati di versante, a Cortina di Sopra e a Marsure
questo non era stato possibile: «la sfalciatura
seguirà il metodo antico, e contro il pagamento di L.1,20 per ogni falce e di c.60 per
ogni falcinola».53 Sui territori dove per anni si
era pascolato liberamente, si costruivano dei
conini solo apparentemente invisibili. Quelle
porzioni di prato vennero da quel momento
tagliate per condurre il foraggio alle stalle del
villaggio. I ianchi del torrente Fontana si riempirono più d’uomini che d’animali, mentre
rimanevano molto frequentate le due mulattiere delle dorsali che salivano all’altipiano e
Il sentiero sale lungo la costa sfruttando le linee di minor pendenza.
viduate tra la Brugnasa e la Gastaldia, i Redoli avevano ampi prati a uso privato a Pala
e Costa Lunga.
A Marsure gli usurpi erano relativi a un terreno di Costa Lunga tenuto da un numero
consistente di appartenenti a un aggregato
famigliare dei Tassan Toffola, mentre a Pra
di Bosignan, tra Giais e Marsure i Tassan Viol
avevano costruito alcune stallette sui pascoli
un tempo pubblici.
Anziché procedere a rendere di nuovo pubbliche le aree usurpate, il Comune, inluenzato dal dibattito degli agronomi friulani che
vedevano nelle proprietà comuni un vincolo
per la modernizzazione dell’agricoltura, pensò di procedere nella direzione opposta, prevedendo di frazionare i pascoli di monte assegnandoli ai singoli cittadini.
Il tentativo di rivedere completamente le forme d’uso del versante prativo divenne un atto
amministrativo il 19 giugno del 1843, quando
il consiglio comunale di Aviano deliberò «che
clinata pubblica non era però omogenea. A
monte di Marsure non risultano esserci state
le decine di piccole costruzioni che rintracciamo invece a monte delle principali borgate
di Aviano. La ricognizione tesa a ricostruire
il quadro delle superici di fatto privatizzate
sembra ricordare questo processo come una
pratica recente, come in località Crouz: «li
detti fratelli Cipolato hanno usurpato ino da
più anni il fondo comunale pascolivo».48
Anche i Capovilla avevano un ampio pezzo di
pascolo, posto lungo il versante sui bordi della Valle di Bornas, attrezzato con casera e caserino.49 I Paronuzzi tenevano in uso esclusivo un lungo prato attrezzato con ediici lungo
il sentiero della Gastaldia.50 Altre ampie aree
condotte da privati e dai Gabrieli erano indi48
Ivi, c.7.
49
Ivi, c.8.
50
Ivi, c.13.
68
ASCAv, 378, Le divisioni dei lotti erano state predisposte dall’ing. Pietro Quaglia. Sulla igura dell’ingegnere: G. FrAttolin, Quaglia Pietro, in Nuovo Liruti, cit.,
397-398.
51
Vedi la lettera dell’ingegnere che descrive le dificoltà avute nel rilievo dei luoghi: ASCAv, 349bis, 271/12, 1
settembre 1845.
52
53
69
Ivi, 378, carte sciolte.
I proili delle storiche praterie inclinate di Costa Grande.
Spietramenti lungo la dorsale di Costa Lunga.
lungo le quali era ancora possibile trovare dei
frammenti di prateria pubblica. Le cessioni eniteutiche delle porzioni dei pascoli di versante fecero esplodere una diffusa conlittualità
legata alle invasioni che il bestiame in transito
lungo il versante faceva nei prati ormai non più
pubblici e questo portò a sciogliere deinitivamente l’antico spirito solidaristico del villaggio.
Lo sfruttamento delle risorse vegetali si fece
ancor più forte provocando una crisi ecologica che veniva letta con precisione da chi come
Paciico Valussi, citato in apertura, percorreva
per piacere e non per lavoro quei luoghi: «Le
brulle vette rocciose che si protendono dal
Monte Cavallo al Cansiglio formano, colla loro
maestosa orridezza, uno strano ed imponente
contrasto colla scena di una impareggiabile
leggiadria rusticale che si spiega nel basso».54
Oggi gli ambienti ceduti ai privati alla metà
dell’Ottocento sono gli spazi della montagna di Marsure meno utilizzati. Se nei settori
alti del territorio, pascoli e boschi vengono
comunque gestiti e coltivati, il versante che
Loredan nel 1676 aveva voluto salvaguardare all’uso pubblico, oggi si sta trasformando
lentamente in un bosco. La dimensione delle singole proprietà è talmente piccola che
nessun privato può trovare convenienza
nel coltivarlo. Allo stesso tempo con l’attuale legislazione non è pensabile di proporre
modalità comunitarie di sfruttamento. Per
questo motivo il settore del versante della
montagna di Marsure è quello che subirà nel
prossimo futuro le maggiori trasformazioni.
Lentamente vedremo ricomparire, attraverso i processi della successione ecologica, la
grande foresta inclinata che gli abitanti avevano cominciato a distruggere già in epoca
preistorica. I diritti di proprietà degli storici
prati impediscono ai cittadini di formulare
nuove politiche d’uso per questo settore del
territorio, ma le dividenti catastali non sono
certo un problema per la natura, che comunque ha un suo progetto soprattutto lì dove
manca quello dell’uomo.
Pordenone, 11 dicembre 1876, «Il Nuovo Friuli» 66,
13 dicembre 1876. La salita programmata per l’inizio
di settembre da Giovanni Marinelli al Monte Cavallo si
sarebbe svolta lungo una direttrice ripida del sentiero
che partiva dalla valle di S. Tomè escludendo le salite
più lunghe e meno ripide del versante. Cfr.: G. MArinelli, Programma, «Il Nuovo Friuli» 200, 22 agosto 1877;
dieci anni dopo si sarebbe scelto un itinerario simile per
salire in vetta al Cavallo: Sulla vetta del Monte Cavallo,«Il
Friuli»180, 30 luglio 1887. Anche la salita del 1890
alla cima del Cavallo ripercorse l’ormai collaudata via
dell’Artugna di Budoia restituendo le consuete estatiche descrizioni degli orridi paesaggi rocciosi; Monte Cavallo, «Il Friuli» VIII, 11 settembre 1890, Sugli itinerari
di esplorazione ottocentesca del Monte Cavallo vedi M.
BACCiChet, I pascoli della scienza: l’alpinismo risorgimentale in Cansiglio, Cavallo e Alpago, 1867-1902, Sacile 1993.
54
Le ghiaie del magredo
Tra la scarpata montana e i terreni fertili del
villaggio si stendeva un territorio ampio di
ghiaie e depositi portati dall’erosione. Si trattava di un materasso ghiaioso che nascondeva
l’acqua ed era chiamato magredo perché
70
Particolare della Kriegskarte 1805
Particolare della seconda Kriegskarte, del 186955.
considerato una risorsa per la popolazione
del villaggio. Infatti, quando nel 1672 il Magistrato veneziano sopra i Beni Comunali
decise di venderlo ai privati, insorse pur di
mantenerne un uso collettivo. Alcune porzioni del magredo furono cedute ad alcuni
rappresentanti della borghesia locale come
gli abitanti lo utilizzavano esclusivamente
come magro pascolo. Questa sorta di cuscinetto tra le terre coltivate e le praterie
inclinate del versante veniva comunque
55
http://mapire.eu/en/
71
Rimboschimenti naturali nella zona dei frazionamenti ottocenteschi
Per sfruttare le stesse convenienze, molti
privati fecero richiesta al Magistrato sopra Beni Comunali per acquisire importanti porzioni di questo pascolo: Balduin
Turioni il 22 aprile del 1672 presentò un
disegno per acquistare 17 campi descritti
come ‘in collina’.57 Il perito Stefano Segato
l’anno dopo individuerà una porzione di 21
campi richiesti dal reverendo Antonio Lupini e individuati isicamente in «magredo
nelli pascoli sora la contrada di Marsure,
et in conformità di detto mandato avendo
fatto tirar le line con il versor atorno comun sud.to separati dali altri comunali».58
Una cinquantina d’anni dopo Nicolò Cigolotti di Montereale chiederà di acquistare
tre piccoli frammenti di residui di terra pubblica lungo il rio Fontana: «sterili gravosi di
nessuno utile, a quali beni vi è un rugo ove
Michiel del Turco e Marco Cristofori, ma il
perito Zuanne Gambara, recatosi a Marsure
in compagnia di Domenico Visentino «massaro della comunità» e di due consiglieri,
testimoniò il desiderio della Magistratura
veneziana di conservare il dominio della
frazione: «A quelli gli feci consapevole che
d.a prima estratione, detta il magredo, et
pascolo di Marsure per esser stata incisa e
tagliata torna di novo esser in Commune,
come prima, et tanto e quanto si non fosse
statta fatta».56 Questo ambiente arido aveva un’importanza strategica per gli abitanti
e le pratiche del villaggio perché permetteva di accedere liberamente alle piccole
sorgenti poste poco sotto il monte. Qui gli
animali potevano stanziare in sicurezza e
recarsi liberamente ai punti di abbeverata.
ASVe, Provveditori sopra beni comunali, 119, Aviano, dis. 2. Il dis.10 è molto simile e mostra come ci siano anche piccoli prati pubblici nei pressi del paese di
Marsure.
56
72
57
Ivi, dis.11.
58
Ivi, dis.12 e 13.
La profonda incisione del torrente Fontana nello strato di depositi e conglomerati
lungo la strada maestra.60 Già nel 1833 si era
giunti alla costruzione di alcune importanti
direttrici nuove. Una strada nuova e moderna che collegava Aviano con Pordenone, passando per l’ampia campagna arida, una strada
per Sacile e il tratto nuovo che metteva in
collegamento Marsure con Giais.61 Di fatto
si stava ricostituendo, anche se con tracciati
diversi, l’antica Strada Regia che nel X secolo
transitava nella pedemontana collegando l’Italia alla Germania.62 Nell’Ottocento, invece,
la strada diventava una struttura di supporto
alla pedemontana e alle valli alpine e aveva
quindi un valore locale.
corre l’acqua di Monte minacciante la totale
rovina d’essi beni e di esso Cigolotti contigui
che va procurando riparo con l’acquisto di
essi pezzetti di comunalle».59
L’ampio strato di ghiaie veniva periodicamente eroso da colatoi d’acqua provenienti da
monte. Se si controllavano le colate dei depositi e le acque di erosione, questo ambiente
era uno dei più stabili del territorio. Per contro, il superamento dei torrenti era problematico e per questo in periodo austriaco si decise di ristrutturare la strada pedemontana con
lo scopo di servire gli abitati posti al piede del
versante montuoso modiicando di poco l’originario assetto della viabilità che saliva dalla
Pieve. Poco alla volta però si faceva avanti la
necessità di promuovere una moderna strada
pedemontana che dovesse in qualche modo
strutturare un sistema di comunicazioni alternativo a quello che si stava consolidato
59
Cronaca dalla provincia del Friuli, «L’Annotatore Friulano» I, 9, 12 febbraio 1853.
60
61
ACAv, 258, fascicolo relativo al progetto del 1833.
Gli storici hanno riconosciuto che questa era una
delle tre principali direttrici che venivano percorse da
chi scendeva dalla Germania: P. PAsChini, Il patriarcato di
Wolfger di Ellenbrechtskirchen (1204-1218), «Memorie
Storiche Forogiuliesi» XI (1915), 20-39:34.
62
Ivi, dis. 21, 10 maggio 1728.
73
Conglomerati ghiaiosi afioranti nei settori alti del magredo
Il sentiero per Costa Lunga a un certo punto passa sopra ai depositi, per raggiungere la dorsale di salita
Le strade erano diventate ormai un affare di Stato perché servivano a controllare
militarmente il territorio e venivano per
lo più gestite dagli organismi provinciali,
mentre le strade e i sentieri che permettevano di muoversi all’interno dell’ambiente
del villaggio erano sottoposte al Consiglio
comunale.
Nell’Ottocento le organizzazioni di villaggio che da oltre un secolo davano segni di
non essere più in grado di gestire le manutenzioni, avevano perduto ogni prerogativa
di controllo sull’argomento.
Del resto ancora alla ine del Seicento dovevano essere continuamente ribaditi ai
vicini gli obblighi di manutenzione delle
strade che collegavano il centro del villaggio con le aree delle risorse ambientali e i
villaggi contermini.63
In modo non diverso, la dissoluzione delle
pratiche solidaristiche di villaggio metteva
in crisi anche altre situazioni e ambienti
che ino ad allora erano stati gestiti in solido dagli abitanti di Marsure, per esempio
quello del controllo delle acque che scendevano dai monti attraversando il magredo. Nel 1842 l’Amministrazione comunale
di Aviano chiese al perito Marco Zaffoni di
predisporre un progetto per contenere le
erosioni provocate dal torrente Fontana.
I tentativi di ripristinare e potenziare un riparo sul torrente a monte del villaggio rese
evidente come i rapporti di mutuo aiuto e di
organizzazione dei pioveghi, cioè le corvée,
del villaggio ormai si fossero allentati e non
esistesse uno spirito di comunità in grado
di garantire con il volontariato le opere
pubbliche necessarie alla borgata:
Il lavoro del riparo sopra Marsure va
avvanzandosi a lenti passi.
a) Perché tutti gl’invitati non intervengono, o intervengono la mattina
tardi, e partono la sera a buon’ora
b) O perché non vengono muniti de’
carri ed utensili necessari
c) O perché inalmente alcuni si rendono insubordinati.64
In modo non diverso, la gestione della linea di acqua che veniva intercettata dal rio
Fontana e condotta in paese iniziò a essere
afidata non più alle cure di tutti i popolari insieme, ma alle attenzioni di un manutentore incaricato di garantire l’eficienza
Vedi le delibere che sollecitavano le diverse frazioni
di Aviano: vedi il registro di delibere iniziato nel 1673
conservato in ASCAv, con i catastici.
63
64
74
ASCAv, 340, 22 febbraio 1836, Osvaldo Vedova.
Opere di difesa lungo il torrente Fontana, rovinate dalla piena agli inizi del XIX secolo. Lunghi iloni di ghiaia vengono rappresentati mentre invadono i prati del magredo (ASCAv).
e la pulizia dell’acquedotto.65 La cosidetta
fontana del fornello forma un oggetto il più
interessante per le superiori Contrade di
Marsure, benché in mancanza di ogni altra
acqua, servirà ai bisogni così degli uomini,
come degli animali.
Questa sorgente per altro è ben prossima a
tutto perdersi ne profondissimo Rugo detto di Fontana ivi contiguo, ove il Comune
prontamente non si presti a porvi le necessarie riparazioni.66
Nel 1833 si decise di modiicare il sistema
di adduzione che ino a quel momento era
consistito in una piccola canaletta d’acqua
che, intercettata la fonte, raggiungeva il
villaggio disperdendo gran parte dell’acqua
trasportata attraverso il magredo. Si decise
così di costruire un terrapieno artiiciale in
terra e legno di castagno per intercettare
la falda e costringere l’acqua dentro a un
condotto impermeabile: «Il canaletto poi in
ogni caso dovrebbe essere costruito di pietra viva in forma semicircolare colla base di
creta e terra rossa, onde l’acqua non iltri».67
Quando però c’erano problemi di siccità,
anche le sorgenti del magredo scomparivano e il paese era costretto a utilizzare
solo le acque della roggia: «Tanto Aviano
come i paesi a valle di esso da due mesi
bevono l’acqua della Roggia (Canale artiiciale derivante dal Torrente Cellina) che li
attraversa per tutta la loro lunghezza, che
può considerarsi la principale arteria di
raccolta di tutti gli scoli pubblici e privati.
Ivi, 21 maggio 1844. Il contratto di manutenzione
viene afidato ad Antonio Bressan. Vedi anche la lettera
di proteste degli abitanti di Marsure nei confronti della
precedente gestione del servizio di manutenzione. Cfr.
Ivi, 9 aprile 1844.
65
66
67
Ivi, 54/137, s.d.
75
Ivi, 54/121, 4 gennaio 1833.
Cumoli dello spietramento sul prato
La cava sul magredo
L’erba mette a risalto le morfologie degli antichi depositi
Il sentiero principale sul magredo con marginature in
sassi successive alla privatizzazione dei prati
Praterie aride delimitate da siepi e da depositi dello
spietramento
Colonizzazioni spontanee sui settori alti del magredo
Prati aridi sul leggero pendio che anticipa il paese
Praterie invase dalle successioni secondarie
76
77
Ceppaia di castagno posta nella golena del torrente
Fontana
Paesaggi a campi chiusi
Povera igiene!».68 L’atteggiamento igienista
teneva conto che la popolazione umana e
animale era aumentata a dismisura e che le
epidemie erano sempre più diffuse.69
Abitare ai piedi dei monti non rendeva la
comunità inattaccabile dalle malattie. Lo si
era constatato dal 6 giugno al 25 ottobre
del 1855, quando il colera aveva investito la
pedemontana e ad Aviano si erano registraAviano 18, «Il Friuli» XXII, 199, 19 agosto 1904. La
situazione dell’approvvigionamento idrico storico
della roggia peggiorò nel momento in cui all’inizio del
Novecento la costruzione della centrale idroelettrica
di Malnisio sembrò modiicare in modo determinante
l’approvvigionamento della roggia di Aviano. La crisi
del sistema medievale di rogge per la mancanza di acqua alla presa scatenò una rivolta popolare e si rese
necessaria una mediazione politica tra le richieste dei
cittadini insorti e gli interessi della Società Elettrica.
Cfr.:Dimostrazione di Montereale Cellina contro la Società
Italiana per l’utilizzazione delle forze idrauliche nel Veneto,
«Il Friuli» XXIV, 15, 17 gennaio 1906; Aviano, «Il Piccolo
Crociato» VII, 7, 18 febbraio 1906.
68
Praterie sopra al paese
Il torrente in un settore particolarmente inciso nel
materasso dei depositi
ti 389 casi di contagio trasformatisi poi in
158 decessi.70 Al suo apparire, la malattia si
era mostrata soprattutto nei centri piccoli e
grandi della pianura, ma poi inì per espandere la sua azione anche sui villaggi pedemontani e montani. Nel 190871 la frazione
di Marsure riuscirà ad avere delle assicurazioni dal comune per la realizzazione del
nuovo acquedotto che sarà distrutto meno
di un decennio dopo dagli austriaci durante
la ritirata. Il magredo era ormai stato privatizzato quasi per intero e nei settori più
stabili dal punto di vista geologico i nuovi
campi erano stati contornati da sistemi
di siepi, soprattutto a ovest della valle. Le
«Nell’autunno del 1908 il Comune afidò a un’impresa la costruzione dell’acquedotto per Marsure. Il
Consiglio, preventivamente, aveva deliberato che alla
spesa relativa si provvedesse con un mutuo di favore,
da contrarsi con la Cassa Depositi e Prestiti. Ma i lavori furono consegnati, senza che la pratica per il mutuo
fosse neppure iniziata. Nella primavera del 1909 i lavori furono collaudati, e ancora l’istanza per il mutuo non
era stata prodotta! Dimodoché si dovette far ricorso ad
un prestito cambiario provvisorio, senonchè tale provvisorietà non impedì che sei mesi dopo, cioè nella seduta consigliare del 12 dicembre scorso si deliberasse la
proroga di detto prestito provvisorio, senza che ancora
la pratica per il mutuo fosse neanche iniziata». Cfr.: Aviano, «Il Paese» XV,6, 7 febbraio 1910.
69
I prati dei magredi si scontrano contro la discesa dei rimboschimenti del versante
78
70
Prospetto dimostrante l’andamento della Cholerosi,
«L’Alchimista» VI, 44, 28 ottobre 1855, 352.
71
Aviano. Alcune note complementari sulla seduta consigliare del giorno 9 corrente, «Il Paese», 15 ottobre 1907.
79
Prati aridi si scontrano con la vegetazione che ha invaso le zone erose e depresse
Il villaggio oggi si espande su parte dei magredi che erano attraversati dall’incisione del torrente Fontana
opere di marginatura e di delimitazione ancora oggi sono molto contenute perché da
poco tempo questi terreni non si presentano come delle praterie aride. Parallelamente
alla crisi dell’agricoltura, in paese la zona del
magredo si è rivelata utile per l’espansione
diffusa dell’ampliamento di Marsure. Lungo le superici aride sono state costruite le
principali residenze nuove a partire dagli
anni Sessanta del Novecento. Contemporaneamente la crisi delle pratiche di sfalcio ha
provocato un progressivo rimboschimento
spontaneo che interpreta la dificoltà del
suolo con una vegetazione stentata, a volte
promossa con impianti artiiciali.
do, Costa, Marsure, Cortina di Sopra, Cortina di Sotto avevano ognuno un proprio organismo per il governo delle questioni che
riguardavano il villaggio e il suo territorio.
Giais, invece, era un Comune del tutto autonomo.72 Queste forme di organizzazione
delle borgate sopravvisse ino alla riforma
austro napoleonica, quando divenne importante consolidare la nuova amministrazione
comunale facendo scomparire i simboli delle amministrazioni di antico regime. Non è
un caso che le storiche logge delle diverse
vicinie siano state distrutte nella maggioranza dei casi o ricostruite sotto forma di
scuole o servizi comunali. In questo senso
va letta la scomparsa della loggia di Marsu-
che interpreta le linee di massima pendenza del versante.
Il villaggio e i campi coltivati
Il villaggio era il cuore di Marsure: mi preme
far notare la forma dell’insediamento, di età
medievale ma poroso, cellulare, dove ogni
famiglia in origine aveva una sorta di recinto che racchiudeva gli ediici, i cortili e gli
orti, ed era il centro dell’organizzazione del
maso, cioè l’unità abitativa e produttiva che
faceva riferimento a un capofamiglia. Il villaggio medievale era composto per unità minime aziendali chiamate masi, in modo non
diverso da altre zone della pedemontana.
Più a valle, il torrente Fontana, asciutto la
maggior parte dell’anno, sprofonda nel materasso delle ghiaie assumendo il carattere
fortemente artiicializzato di un condotto
La comunità di Aviano era composta da un
sistema di vicinie autonome e sottoposte
ciascuna a un soprintendente: il meriga. Nel
settore orientale della giurisdizione, Orne80
re o di quella di Giais, distrutta nel 1832.73
Tornando alla forma isica dell’abitato di
Marsure, mi preme far notare come questo
ambiente abbia subito molte trasformazioni nel tempo, trasformazioni dettate per lo
più da pratiche continue di ricostruzione del
patrimonio edilizio. Infatti, vorrei sollevare
il problema che il villaggio che noi osserviamo oggi e che percepiamo come storico è
stato costruito in età moderna sostituendo
poco alla volta le strutture medievali costruite per lo più in legno. È quindi il prodotto di tecniche recenti e legate alla cultura
di produrre muri con paramento verticale,
mentre ci è facile credere che in età medievale gli ediici fossero a un solo piano e con
ampi spioventi verticali in paglia.
Nel 1676 Zuanne Mazzega era meriga della regola
di Marsure. ASCAv, Registro di delibere, 14 novembre
1676.
72
73
81
ASCAv, 249, 2.
Il paese si colloca nel punto dove iniziano a rendersi disponibili le risorse idriche assorbite dalle formazioni di
calcare del monte
Così come è cambiata l’architettura, in parte
è cambiato anche il modo di organizzare gli
ediici costruendo sempre di più sui bordi
delle strade e quindi sui perimetri dei lotti,
deinendo poco alla volta la costruzione di
corridoi stradali quasi completamente ediicati sui bordi. In realtà gli ediici, come in
molti altri borghi del Friuli storico, non dialogavano con la strada. Molto spesso il solo
elemento che metteva in comunicazione il
lotto con la strada era un grande portone
agricolo dimensionato per entrare con i carri. Gli ediici di abitazione si rivolgevano alla
corte interna disdegnando la strada, che veniva usata solo come fonte di illuminazione
per le stanze o le stalle che si affacciavano
verso l’esterno.
L’idea che le incursioni turche abbiano di fatto sconvolto gli originali regimi di proprietà
interni ai singoli villaggi mi sembra poco
veritiera. Nel 1499 l’incursione dei turchi
nei territori della pedemontana provocò
un grande impatto psicologico e consisten-
ti danni isici alle comunità: «Oltra la ruina
e l’incendio de caxe, vigne et altri beni sono
sta tra morti et prexi più de 2000 cum grandissima desolation».74 Ma tutto questo non
cambiò il disegno dei campi e quello della
parte insediata, che fu di fatto ricostruita in
coerenza con le forme e i diritti di proprietà
originari.
Al di fuori delle isole insediate e abitate, c’erano i campi più fertili, quelli sui quali l’azione
di concimazione produceva i migliori effetti.
Questa corona di campi, disegnati insieme
all’abitato, originariamente costruiva un paesaggio a campi aperti che durante l’inverno
potevano essere usati da tutte le famiglie
per il pascolo alla ine della stagione agraria.
Il pascolo invernale garantiva la possibilità di
tenere tutti gli animali all’interno del villag74
A. de PelleGrini, Danni recati dai turchi nel 1499 a villaggi di San Martino e San Leonardo nel territorio di Aviano,
«Memorie Storiche Forogiuliesi» VIII (1912), 193-196.
82
La mappa del catasto austriaco rende evidente il confuso ambiente costruito del villaggio, frutto di successivi
frazionamenti dei nuclei famigliari originari
83
Gli spazi dell’agricoltura in parte sono stati utilizzati per
ampliare il borgo rurale con ediici a volte incongrui
Il paesaggio della tavella era composto da campi aperti intensamente coltivati e oggi per lo più trasformati in prato
stema di ampie proprietà che, poste tra i due
torrenti, erano meno aride dei settori più alti
della pianura di ghiaie, quelli disegnati in verde e tenuti a prateria o a pascolo.
Ancora oggi in questo settore si può scorgere
un terreno ben concimato e di colore scuro,
con un suolo poco invaso dalle ghiaie.
Oltre il Cavarezza, invece, c’erano le terre
pubbliche che per le comunità dell’Avianese
furono sempre una grande risorsa, soprattutto per le famiglie più povere, che contavano
sulla pratica del pascolo brado. Su queste
praterie aride si svolgevano pratiche comunitarie che ancora rimangono nella toponomastica: Prapiere, Pradaroda, Prese, Tavolet,
Pascoli, ecc.
Residui di piantate di vigna
lotta non vi è demarcazione materiale,
perché i due abitati coincidono Così
dicasi della frazione di Villotta con quella di Somprado, e di quest’ultima con il
capoluogo, Marsure, poi, può dirsi, che
oggi, sia proprio congiunta ad Aviano.76
Negli ultimi vent’anni sui bordi dei coltivi, quelli che
erano gli spazi del pascolo e delle praterie si stanno
trasformando in boschetti
Le morfologie dei depositi del leggero declivio furono interpretate dai frazionamenti del suolo in età
medievale
Nonostante l’insediamento fosse in gran parte saldato tra borgo e borgo nel XIX secolo,
rimanevano molto forti i tradizionali rapporti
di antagonismo tra le frazioni del Comune,
soprattutto a Marsure e Giais che sembravano essere particolarmente dinamiche.77
gio nelle stagioni più fredde, ma poco alla volta queste norme inirono per costare lunghi
conlitti che si cercarono di risolvere.
Soprattutto le mucche, che potevano pascolare solo nei settori più bassi del villaggio,
sembravano recare danni gravi nelle terre
pubbliche e a quelle dei privati: «Si trovano
alcuni vacari senza carità verso li poveri d’esso loco, che con le vache distruggono l’erbe
d’esse montagne nei luochi banditi, et riservati per far ieno per li poveri abitanti d’esso
luocho, sia prohibito a deti vachari di far detti
danni».
Già sul inire del XVII secolo ci si rendeva conto che a differenza «degli antichi usi» si dovevano «le capre bandire da dete tavelle, come
animali che inieriscono molto danno ma re-
stino quelle condotte nelle montagne».75 Si
proponeva di allontanare dai campi del paese
le capre che per la loro voracità avrebbero
intaccato le cortecce degli alberi da frutto e
delle viti, ma allo stesso modo le vacche venivano considerate dannose per i terreni del
magredo o per quelli della pianura.
Nell’Avianese il territorio produttivo si concentrava in una fascia allungata lungo il versante, al punto che la crescita demograica
portò i villaggi a saldarsi tra loro:
La pianura
A valle del villaggio, si trovava un’ampia pianura separata dal paese dall’incisione della
Roia Riduàn che poi andava ino al Cavarezza, il corso d’acqua che interpretava il punto
di incontro tra i depositi di monte e quelli prodotti dal trasporto solido del Cellina. Come
mostra bene la Kriegskarte, questa era la zona
più coltivata del paese ed era la sua riserva
produttiva. Un reticolo di strade campestri
pseudo ortogonali avevano disegnato un si-
È risaputo, che il Comune nostro è formato quasi da un unico paese, che si
stende lungo la linea pedemontana da
Castello a Marsure.
Tra le due frazioni di Castello e di Vil75
84
ASCAv, Registro di delibere, 6 maggio 1677.
76
Se il primo tratto di campagna ha avuto nel
tempo un aspetto abbastanza stabile da un
punto di vista paesaggistico, la campagna
arida e pubblica, invece, in tutto il pedemonte fu assoggettata a progressivi processi di
privatizzazione e di trasformazione. Lentamente i terreni posti a est del Cavarezza
iniranno per assumere caratteri paesaggistici simili a quelli posti a ovest.
Questo processo cominciò alla metà del
Seicento, con le vendite delle terre comunali e l’arrivo ad Aviano di imprenditori forestieri che, uniti alle famiglie più ricche del
paese, acquistarono comparti di pascolo
pubblici molto importanti come la Campagna detta Talponaria di 113 campi, quella
del Culisit, quella detta Tomba, quella della
Levada.78 Non diversamente, i pascoli disegnati nel 1648 da Benvenuto Bardini nella
Campagna grande coninando un lotto a
forma di L di 206 campi, furono acquistati
da Lodovico Manin.79
78
Aviano 17, «Il Paese» XV, 15, 18 gennaio 1910.
ASVe, Provveditori sopra beni comunali, 119, dis. 1.
Ivi, dis.3, 19 maggio 1648, dis.4 e 5. In questi acquisti
si lanciarono anche alcune famiglie locali. Interessante
disegno a tre colori che mostra l’intervento di tre famiglie borghesi nell’acquisto di terre pubbliche. Giovanni
Maria Policreti, Gio Batta Policreti, Michiel del Turco e
Baldivin Turioni. 24 gennaio 1665 per 167 campi divisi
per quattro. Ivi, dis. 9.
79
Nel 1877, per esempio, si iniziò a progettare un
servizio di prestiti agli agricoltori: «Non già in Aviano,
per ora, bensì in Marsure, importante frazione di quel
Comune, si lavora alacremente per la fondazione di una
Cassa Rurale Prestiti sistema Wollembay». In Provincia,
«Il Friuli» 146, 21 giugno 1887.
77
85
Particolare della Kriegskarte del 1805
Marsure vista dalla pianura sovrastata dai detriti del torrente Fontana
guenza il valore di vendita era stato sottostimato. Cogliendo l’occasione, la Magistratura
veneziana chiese ai Cristofori altri ducati a
integrazione del danaro versato.80
La stessa attenzione iscale fu posta per rideinire il prezzo di vendita della campagna
acquistata da Lodovico Manin che l’aveva
lasciata in uso «alla detta comunità a livello
francabile, in ragion de sette per cento», nel
1648. Non diversamente, Roncadin Spelladi aveva dato al Comune di Aviano a livello
francabile i suoi acquisti di Campi 205 anche
lui al 7% di interesse nel 1650. Queste pratiche rendono evidente come gli imprenditori
considerassero poco utile trasformare queste terre ghiaiose e prive di acqua attrezzandole per un’agricoltura intensiva, mentre, senza produrre nessun investimento,
potevano garantirsi una rendita annuale del
sette per cento sul capitale investito.
Il Cavarezza oggi è poco inciso e ittamente boscato
nelle sue rive
La chiesa vista dalla campagna
Nella campagna di Aviano il comune riuscì a
controllare questo processo di privatizzazioni intervenendo a valle delle vendite fatte
dalle Magistrature veneziane. Un fascicolo
di processi conservato all’Archivio di Stato di
Venezia fu istruito dalla Magistratura lagunare per veriicare se ci fosse stato un aggravio
per lo Stato a seguito della vendita di alcune
ampie campagne pascolive dell’Avianese. Il
12 febbraio del 1647 Sebastiano Cristofori
aveva acquistato 103 campi di terre pubbliche, circa cinquanta ettari di prateria. Aveva
poi deciso di afittare la porzione maggiore,
80 campi, allo stesso comune in cambio di una
86
rendita annua che l’amministrazione avrebbe
pagato per usufruire di terre che ino ad allora aveva usato come proprie. Il contratto tra i
privati e il comune fu fatto il giorno di Natale
del 1650. La Repubblica venne informata che
qualcosa da un punto di vista contabile non
funzionava e aprì un’indagine che accertò che
il prezzo di afitto era così alto che di conse-
80
87
Ivi, 302, Processi, Aviano 255.
Oggi la pianura, in gran parte irrigata con
opere artiiciali, è diventata il luogo principale per la produzione agricola. È qui che si
incontrano i campi coltivati intensivamente,
ma anche i principali allevamenti del paese,
che fanno capo alla latteria sociale. Mentre
attorno e dentro al paese l’agricoltura è andata via via deperendo, proprio sui territori
meno sfruttati nel passato si è costruito un
nuovo sistema economico centrato ancora
una volta sulla produzione del latte.
È signiicativo il fatto che Aviano si ponga al
primo posto in regione per il numero di animali bovini allevati, 4.212 capi ripartiti su 28
aziende. Se confrontiamo questo dato con
quello del 1832, il cambiamento delle modalità dell’agricoltura diventa immediatamente evidente. Allora in tutto il comune le
vacche erano solo 599, mentre i buoi erano
951. Questi ultimi sono scomparsi, sostituiti
dalle macchine agricole, mentre il numero
delle vacche da latte è stato moltiplicato per
più di sette volte. Per contro, le pecore, che
erano 6.684, oggi sono ridotte a circa 2.000,
ma sono per lo più ‘invisibili’ perché, a parte
alcuni momenti invernali, si muovono lungo
itinerari lunghi della transumanza, secondo
un principio che non era caratteristico di
Marsure. Come le pratiche dell’allevamento
in comune di Aviano siano completamente cambiate negli ultimi due secoli, si comprende dal confronto tra questi dati, sulla
presenza degli animali nel comune di Aviano
nel 1832 e quelli rilevati nel censimento del
2010.83 I bufalini non c’erano nel 1832, sono
492 nel 2010, gli equini passano da 147 a 43
nel giro di due secoli. I caprini da 652 a 70, i
suini da 252 a 15.294 e i conigli, non rilevati
nel 1832, diventano 24.460.
A differenza di quello che contemporaneamente accadeva in molti territori della bassa
veneta, gli acquisti di terre non portarono a
un radicale cambiamento d’uso del suolo e
del paesaggio. Le praterie sarebbero state
usate come al solito dagli abitanti dei villaggi, solo che questi avrebbero dovuto pagare
agli investitori una rata annuale che veniva
ripartita tra i diversi nuclei famigliari della
comunità. Queste superici salvate alle vendite a un prezzo molto caro, si univano ai pascoli pubblici che potevano essere gestititi
dai singoli paesi. Il 5 dicembre del 1661 una
ricognizione del Magistrato riconosceva che
a Marsure c’erano circa 273 campi di terra
pubblica gravati però da diversi usurpi.81
Progressivamente l’estinzione del debito nei
confronti dei privati fece nuovamente considerare le campagne aride un patrimonio storico delle comunità del pedemonte. Questo
salvaguardò gli antichi usi per più di un secolo, ma già alla metà dell’Ottocento l’unità di
questi grandi patrimoni pubblici veniva messa in discussione. Proprio mentre si provvedeva a vendere i pascoli del versante montuoso, la campagna delle Forcate nel 1849 fu
divisa in 57 lotti e afittata per dieci anni ai
singoli privati, che avevano la concessione di
sfalcio. Solo chi aveva abbastanza denaro per
poter acquisire risorse foraggere per la stalla
poteva ora recarsi su quei territori, mentre la
pressione dei più poveri sulle terre soggette
a pascolo pubblico aumentava.82 L’idea che il
pascolo era bandito sulla campagna veniva
ribadito in ogni singolo contratto di afitto:
«Il fondo non potrà essere ridotto che a coltivazione sfalciabile, ne per verun pretesto
potrà essere abbandonato al pascolo».
Poco alla volta, con provvedimenti progressivi, si arrivò alla privatizzazione anche di
queste terre pubbliche che furono delimitate con fossi secchi e ampie siepi cambiando
in modo radicale il paesaggio di questo settore del comune.
DATA
BOVINI
BUFALINI
EQUINI
OVINI
CAPRINI
SUINI
CONIGLI
1832
1550
0
147
6684
652
252
n.r.
2010
4212
492
43
2000
70
15294
24460
facendo uso di cibo che non proviene dalla
campagna udinese, ma con mangimi industriali. Mentre l’inversione di tendenza nel
rapporto tra bovini e ovini allevati di fatto
corrisponde ai processi colturali legati all’allevamento messi in campo alla metà dell’Ottocento, il iorire negli ultimi quarant’anni di
allevamenti industriali di maiali e conigli ha a
che fare con una più recente trasformazione del settore. Oggi cibo e prodotto inito
dei grandi allevamenti hanno una mobilità
del tutto diversa e si collocano all’interno
di un processo di produzione sempre meno
legato al territorio. Anche lo stesso mercato
del latte vaccino oggi ad Aviano ha una di-
mensione che supera i conini del comune.
Questa nuova rete di vendita del latte ha
due matrici diverse. C’è chi si appoggia alle
iliere lunghe della produzione casearia e
chi ha cercato di costruire iliere corte. Riconoscere queste due politiche aziendali sul
territorio è praticamente impossibile senza
un’indagine approfondita.
Le dimensioni delle aziende agricole e le norme urbanistiche hanno prodotto una serie di
grandi allevamenti ai piedi dei terrazzi ghiaiosi, lungo quell’asse pedemontano dove un
tempo non c’erano costruzioni. La deriva dei
bovini li ha portati più vicini alle zone agrico-
Il confronto tra gli animali tradizionalmente
allevati sul territorio presenta un aumento
incredibile per i suini e i conigli, anche se va
detto che questi animali sono allevati spesso
83
81
82
6° Censimento Generale dell’Agricoltura in Friuli Venezia Giulia, dati provvisori, Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia, Trieste, 2011.
Ivi, 256, Processi.
ASCAv, 378.
88
Oggi sopravvivono ancora alcune delle grandi siepi di tradizione ottocentesca
89
2 Proposte per una lettura territoriale
Opere di irrigazione
Allevamenti deputati alla produzione di latte
le deputate a produrre il cibo per gli animali.
Molte di queste aziende, oggi, preferiscono
essere esclusivamente produttrici di grandi
quantità di latte, da vendere alle grandi aziende di trasformazione della pianura padana,
che giornalmente ritirano il prodotto. Invece,
le tre aziende che gestiscono la latteria sociale di Marsure propongono una diversa lettura
del rapporto tra territorio e prodotto agricolo. In sostanza hanno adeguato la produzione
di latte sulla dimensione della produzione dei
campi in proprietà e in afitto. Il prodotto dei
campi viene impiegato nell’allevamento di
vacche da latte e il prodotto viene totalmente
conferito alla latteria sociale. Qui un numero
ridotto di dipendenti diretto dal casaro trasforma il latte in una grande quantità di prodotti caseari che in gran parte vengono venduti nel locale spaccio. Le rimanenze vengono
fornite a due diversi livelli di distribuzione sul
territorio, quello dei commercianti e quello di
piccoli e vicini negozi al minuto. Di fatto lungo
la pedemontana il successo dell’allevamento bovino dopo il 1850 ha avuto tre stagioni:
quella dell’autoproduzione domestica, quella
della produzione collettiva del villaggio con
la fondazione della latteria turnaria e quella
dell’invenzione di una iliera corta di produzione e vendita, oggi rappresentata dalla latteria sociale di Marsure.
90
91
2.1 Aviano e Budoia:
l’allevamento pedemontano tra tradizione
e modernità
sempre le attività di produzione del cibo si
legano alla tradizione, ma molto spesso sono
frutto di progettualità e di invenzione.
Negli ultimi anni, nella pedemontana sono
stati introdotti allevamenti di bufali che risultano essere tra i pochi presenti in regione, come pure è stata ripresa la produzione
di latticini provenienti dall’allevamento della
capra, sempre più richiesti. Si stanno inoltre
consolidando nuove forme di allevamento, anche con la ripresa di alcune tradizioni
come la transumanza regionale. Sono nate
nuove iliere produttive, che presumono un
più stretto rapporto con i consumatori e si
appoggiano anche all’uso di nuove forme
di informazione e produzione. L’allevamento in stalla è ancora molto presente, ma ha
cambiato le sue forme. Le aziende agricole
specializzate sono esterne agli abitati storici
e assumono forme architettoniche nuove,
come le pratiche di alimentazione animale.
Le latterie sono sostanzialmente mutate e
oggi risultano lontane dai modelli cooperativistici dell’inizio del secolo scorso.
La latteria di Budoia è diventata bar Bianco,
con prodotti caseari biologici che vengono
dal Cansiglio, contemporaneamente alcuni
produttori locali hanno iniziato a trasformare il latte e a commercializzarlo in proprio.
Tra tradizione e innovazione, cosa sta cambiando nella pedemontana pordenonese?
Queste nuove pratiche modiicheranno
nuovamente il paesaggio pedemontano?
Privilegeranno il tema dell’allevamento, sfavorendo l’ampliamento di un paesaggio vitivinicolo tipico, per esempio, della pedemontana veneta?
Alcune bufale dell’allevamento di Capovilla Michele a
Castello di Aviano
L’ingresso della latteria di Marsure, nella piazza del paese: da qui parte l’escursione di Legambiente
A metà dell’Ottocento nella pedemontana
pordenonese si produssero delle trasformazioni sociali ed economiche che determinarono la riduzione sensibile di ovini e caprini e
la nascita del moderno allevamento in stalla
delle vacche da latte. A seguito di questo,
nacquero le latterie sociali e turnarie che
oggi sembrano un elemento tradizionale. Il
caso di Aviano e Budoia dimostra come non
93
Il paesaggio della pedemontana pordenonese lungo la ferrovia Sacile-Gemona
Come si può facilmente notare dalla descrizione dell’impatto dell’allevamento tradizionale in un transetto della pedemontana,
l’attuale regime della presenza degli animali
nel paesaggio è tutto fuorché storico. L’assetto del sistema di allevamento nel villaggio di
antico regime entrò in crisi all’inizio dell’Ottocento e il dibattito economico e tecnico degli
agronomi dell’epoca disegnò nuovi sistemi di
produzione agraria entrati in crisi alla metà
del Novecento. Questo nuovo paesaggio
dell’agricoltura pedemontana è quindi il terzo
disegnato nello spazio di un millennio1.
L’itinerario, indicato in rosso, parte dal centro di Marsure e raggiunge Santa Lucia di Budoia
L’escursione segue, per un tratto, il percorso della ferrovia Sacile-Gemona, attualmente dismessa
L’ITINERARIO
o attraversando importanti centri storici
come Castello di Aviano e Santa Lucia. Notiamo che oggi il valore dei prodotti delle
aziende che operano in questo territorio e di
quelle transumanti, non stiano minimamente tenendo conto del grande valore economico che il paesaggio, uno dei più belli del
Friuli Occidentale, può fornire al prodotto. È
come vendere il dolcetto senza sfruttare la
grande potenza evocativa delle vigne delle
Langhe. Questo è un problema di comunicazione e di attribuzione di valore che attraver-
La passeggiata si sviluppa lungo strade campestri e strade asfaltate per un lungo tratto
della pedemontana, da Marsure a Budoia,
attraversando zone agricole ancora pure,
ma anche lambendo urbanizzazioni diffuse,
Per un approfondimento sulla storia di questo paesaggio agrario, si veda il capitolo 1.2 Imparare da Marsure: un’indagine di ecologia storica lungo un transetto della
pedemontana pordenonese
1
94
Particolare della Kriegskarte del 1805
95
sa tutta la società friulana nel suo rapporto
con il paesaggio. Dal centro di Marsure, dove
si trova la latteria, si scende sui bordi dei terrazzi ghiaiosi del paese, provocati dall’erosione del versante, per giungere nel punto dove
si incontrano con i depositi luvio-glaciali del
Cellina creando una speciale contropendenza dove nel Quattrocento i signori di Maniago realizzarono un’importante infrastruttura
acquea, la roggia di Aviano. Si risale sul bordo
di questa leggera increspatura che segna il
conine tra due antichi e moderni paesaggi.
Qui, seguendo la direttrice della moderna
ferrovia abbandonata, si percorre un itinerario che permette di esplorare visivamente la
montagna contro la quale si infrange il mare
di ghiaie. Questo percorso consente di cogliere l’impatto dei nuovi grandi allevamenti
di bovini sparsi nella campagna, contrapposti
alla moderna e compatta zona industriale di
Aviano.
Ci si muove lungo le colline avianesi, ino a
Castello, per risalire il rilievo attraversando
il centro storico e raggiungere poi il torrente
Artugna, che si attraversa in occasione del
ponte della strada pedemontana, entrando
in territorio di Budoia. Qui ci si muove ai
bordi dell’insediamento, per poi raggiungere il villaggio sgranato lungo un sistema di
piccole risorgenze a Santa Lucia.
loro prodotto alla latteria sono rimasti solo
tre, ma con un numero consistente di capi.
In modo non diverso l’offerta casearia si è
estesa anche con l’invenzione di prodotti e
ricette.
È interessante notare come l’attività di produzione del latte abbia costruito una serie
di grandi aziende agricole ai piedi dei terrazzi del paese, lungo l’asse pedemontano
dove un tempo non c’erano costruzioni. La
deriva dei bovini li ha portati più vicini alle
zone agricole deputate a produrre il cibo
per loro.
CONTATTI:
via Trieste 42
Marsure di Aviano
0434 656171
info@latteriamarsure.it
Una presenza/assenza: i pastori di Aviano
Un fenomeno dificile da percepire, per la
dificoltà di raggiungere le greggi avianesi,
è quello dell’aumento degli ovini in questo
settore della pedemontana. Le pecore si
muovono continuamente per il pascolo,
ma la loro presenza e la loro espansione si
è notata di più negli ultimi anni. Dal 1982
al 2010 le pecore in Friuli Venezia Giulia
sono passate da 4.189 a 10.890. Di queste,
più di duemila sono gestite da due pastori
di Aviano, Valentino Frison e Carlo Tassan,
che vantano due grandi greggi che si muovono su diversi settori alpini, tra il Piancavallo e la Carnia. I percorsi della transumanza hanno un carattere regionale e sono
molto diversi quindi dal movimento che gli
ovini facevano all’interno dell’orizzonte del
villaggio medievale ino alla metà dell’Ottocento. Si tratta di una nuova e moderna forma di allevamento ovino del tutto diversa
dalla tradizionale, sia per dimensione delle
greggi che per la forma aziendale. Questi
grandi greggi di pecore nomadi affrontano
itinerari antichi che portano animali e pastori dalla pedemontana ai pascoli alti del
Monte Cavallo, contribuendo nuovamen-
LE PRODUZIONI LOCALI DI CIBO
La Latteria sociale di Marsure
La prima latteria sociale in Friuli fu fondata il 19 settembre 1880 a Collina di Forni
Avoltri. Nel 1890 le latterie erano novanta
e hanno raggiunto il tetto di 652 unità nel
1960. Quella di Marsure, originariamente
turnaria, è relativamente recente e risale al
1922, con 150 soci. Prima di allora, ciascuno produceva in proprio, anche se non sappiamo che tipo di formaggio. La produzione
aveva uno scopo prevalentemente famigliare e integrava la ridotta dieta proteica delle
famiglie della pedemontana. L’allevamento
era diffuso in pratica in ogni casa, mentre
oggi i produttori di latte che afferiscono il
96
te a colonizzare zone altrimenti lasciate
alle successioni ecologiche. Hanno quindi,
nella loro assenza, un grande signiicato
ecologico e naturalistico. Il possibile futuro aumento di questi animali permetterà il
mantenimento delle antiche praterie artiiciali inclinate, ormai conservate bene solo
nel tratto di Aviano.
enormi spazi di diffusione nel momento in
cui si trasforma in impresa.
Nella pedemontana pordenonese non ci sono
mai stati allevamenti specializzati di capre.
Alcune famiglie, in età d’antico regime, possedevano qualche capra a ianco delle greggi di pecore per sfruttare i più aridi pascoli
pubblici del versante alpino, ma si trattava
sempre di pochi animali. Nell’Ottocento
una polemica scatenata dai forestali portò
alla drastica diminuzione delle capre, accusate di aggredire polloni e tronchi dei pochi boschi presenti sul versante. La crisi di
legname combustibile veniva attribuita alla
voracità di questo animale.
Oggi la situazione è del tutto opposta. La
capra è quasi scomparsa dagli allevamenti
famigliari, mentre il bosco in tutta la pedemontana ha un incontenibile vigore. L’allevamento di Castello di Aviano è quindi un
elemento di innovazione e di costruzione di
una nuova iliera produttiva centrata sulla
stabulazione issa degli animali.
Le sempre più diffuse intolleranze alimentari rendono i prodotti caprini (latte, caciotta, ricotta, caprino, stracchino, yogurt)
interessanti per il mercato.
L’azienda di Cipolat, come quella di Capramica a Pinzano al Tagliamento, mostra
un carattere innovativo perché trasforma
l’allevamento brado della capra in un allevamento in stabulazione issa. Potrebbe
forse iniziare una nuova stagione per l’allevamento di questo animale che negli ultimi
anni ha quasi dimezzato la sua presenza
in regione, passando dal 2000 al 2010 da
5.794 esemplari a solo 3.285.
Azienda agricola San Gregorio di Massimo
Cipolat
Quella di Massimo Cipolat è un’azienda giovane e innovativa per i prodotti che offre. È
nata nel 2009, con appena cinque capre e si
sta trasformando, con forme produttive di
sempre maggiore successo e iliere alimentari nuove, come quella del gelato, lontano
dal mercato di massa. L’esperienza di Cipolat
dimostra come questo tipo di attività abbia
L’ingresso all’azienda agricola San Gregorio a Castello
di Aviano
(video #5 della serie “Storie di nuova agricoltura” visualizzabile su Youtube: http://bit.
ly/22hx88Z)
CONTATTI:
Via 4 Novembre 25
Castello di Aviano
338 195 1729
mcipolat@tiscali.it
www.massimocipolat.it
Massimo Cipolat racconta la sua esperienza di imprenditore agricolo
97
nell’alta pianura pordenonese sta attirando
molto interesse anche dal punto di vista dei
ristoratori locali che stanno sperimentando
nuove contaminazioni con la tradizione alimentare.
Azienda agricola Capovilla Michele
a Castello di Aviano
Uno dei pochi iloni dell’allevamento in Friuli Venezia Giulia che sta crescendo, almeno
secondo il censimento del 2010, è quello dei
bufali. La grande richiesta di mozzarella di
bufala che ha tenuto alto il prezzo del prodotto ha permesso di avere dei compensi sul
latte prodotto superiori a quelli della vacca,
sottoposta a una durissima concorrenza con
i produttori del nord Europa.
Per questo motivo in regione sono nati alcuni allevamenti di bufale che hanno stimolato
la formazione di una iliera produttiva del
tutto nuova e ancora in fase di assestamento. Michele Capovilla è uno dei produttori
che hanno aderito a questa invenzione alimentare. Nel 1982 in tutta la regione i bufali erano solo dieci, mentre a trent’anni di
distanza sono 1.449. Nel 2000 erano 569
e questo testimonia la grande velocità di
espansione di questo mercato se solo pensiamo che nello stesso periodo i bovini sono
diminuiti dell’11,5%. Quello di Capovilla ad
Aviano è uno degli allevamenti più grandi
del Friuli Venezia Giulia, con più di seicento bufale e una produzione trasformata
giornalmente di 1.200 litri di latte di bufala
al giorno. Recentemente la crisi di Latterie
Friulane, che garantiva la trasformazione e
la commercializzazione di questo prodotto,
ha avuto ripercussioni sulla produzione e l’azienda ha cercato di rispondere costruendo
una nuova linea di trasformazione presso
(video #1 della serie “Storie di nuova agricoltura” visualizzabile su Youtube: http://bit.
ly/1Va1aGm)
La stalla dell’azienda agricola Capovilla Michele
il caseiicio Rodighiero di Valvasone e vendendo parte del proprio latte nel mercato
padano.
Capovilla ha reinventato anche il suo sistema aziendale, nel tentativo di offrire più
prodotti ai consumatori locali attraverso l’apertura, nel 2013, di uno spaccio dove si può
acquistare latte, yogurt, mozzarella e anche
carne di bufala. In questo senso ha tentato
anche alcuni esperimenti come quello di stagionare il prodotto realizzando polpette infarinate e affumicate sul modello della pitina
di pecora o la produzione di carne secca.
(video #3 della serie “Storie di nuova agricoltura” visualizzabile su Youtube: http://bit.
ly/1U53dMM)
CONTATTI:
Via Masarlada
Dardago
339 4181790 oppure 333 6729996
zafferanodardago@gmail.com
Il titolare dell’Agriturismo al Ranch racconta l’esperienza della sua azienda
CONTATTI:
Via Pedemontana Occidentale 40
Budoia
0434 653047
info@agriturismoalranch.it
www.agriturismoalranch.it
Lo Zafferano di Dardago
Da pochi anni nella pedemontana pordenonese è presente per la prima volta la
coltivazione del Crocus Savitus dal quale,
utilizzando i pistilli del iore, si ricava lo
zafferano. L’introduzione di questa coltura
L’incontro con Diego Zambon, titolare dell’impresa
agricola dello Zafferano di Dardago
CONTATTI:
Via Albaredo 51
Castello di Aviano
349 401 81 43
Agriturismo al Ranch
Questo informale agriturismo condivide con
Capovilla il tema dell’allevamento dei bufali.
La sola differenza è che qui vengono allevati
solo i maschi per la produzione della carne.
L’agriturismo si muove prevalentemente sui
temi dell’allevamento e del turismo equestre. Si allevano cavalli e bufali, ma si possono vedere anche i più insoliti yak, i lama e
degli strani maiali vietnamiti incrociati con il
cinghiale.
Le bufale dell’azienda di Capovilla Michele
98
Un appezzamento coltivato a zafferano a Dardago
99
dreazza, l’Ortogoloso. L’azienda agricola con
produzione, preparazione e raccolta di prodotti biologici garantisce miele, un piccola
produzione di uova, ortaggi, fragole e piante aromatiche attivando canali di vendita al
privato. L’azienda è anche fattoria didattica e
svolge attività con le scuole della zona.
L’Azienda agricola Andreazza coltiva 47 ettari di cui 2,5 a ortaggi. L’impresa ha iniziato
la conversione dei fondi a ortaggi al ine di
diventare un’azienda biologica e vende direttamente presso il proprio punto vendita
tutta la produzione.
Andreazza Massimo e De Re Salima
società agricola
Si tratta di un’importante azienda agricola
specializzata nell’allevamento di bovini. È
anche una delle sole quattro in Friuli Venezia Giulia che fanno la vendita diretta di
latte grazie a un distributore automatico. Si
tratta di una pratica speciale di distribuzione molto diffusa nelle cascine lombarde, ma
quasi sconosciuta nella nostra regione, dove
invece potrebbe diventare una pratica che
unisce produttori e consumatori in un patto
territoriale.
CONTATTI:
Via Pordenone 62
Budoia
0434 653322
CONTATTI:
Via Pordenone 62
Budoia
333 7125434
info@ortogoloso.it
www.ortogoloso.it
Ortogoloso fattoria didattica e sociale
A ianco dell’azienda di Massimo Andreazza
si trova l’azienda biologica di Roberto An-
Azienda Agricola Antonio Busetti
L’azienda è sorta nel 1985 per la frutticoltura, ma ultimamente sta cambiando e nei
nuovi locali dal 2012 si producono succo di
mela, vino e insaccati. In questi locali viene
svolta anche l’attività di ristorazione (su prenotazione).
CONTATTI:
Santa Lucia di Budoia
0434 653065 oppure 339 886 15 29
azienda.busetti@libero.it
www.aziendaagricolabusetti.altervista.org
Un momento della visita dall’Ortogoloso
100
2.2 La rinascita culturale di Tramonti
passa per il cibo?
Negli ultimi anni nell’alta Val Meduna si è
assistito a una riscoperta identitaria dei
luoghi anche attraverso una ricerca attenta su alcune tradizioni alimentari. La riscoperta della pitina e del formai del cìt sono
esemplari, così come la volontà dell’amministrazione della Villa di Sotto di aprire un
forno sociale che produca pane biologico.
Attorno all’istituzione del presidio Slow
food della pitina sembrano ora nascere delle spontanee iniziative di allevamento della
pecora in una zona in cui la storica tradizione dell’allevamento ovino aveva visto un
secco collasso dell’attività. La riscoperta di
un cibo è capace da sola di rilanciare anche
un paesaggio corrispondente? Mangiando
molta pitina aumentano le praterie artiiciali?
la crisi demograica ha reso più debole la
vallata, si sono osservati i primi segni di resilienza. La riscoperta di alcuni cibi tradizionali è diventata il collante tra nuovi e vecchi
abitatori, cosa impensabile solo quindici
anni fa. Il grande lavoro partito dalla Proloco di Tramonti di Sopra e dal suo ispiratore, Alido Rugo, ha preso mano a mano vita
attraverso un processo di valorizzazione e
di coinvolgimento di operatori. Se è vero
che il vecchio laboratorio di Mattia Trivelli1
è chiuso da alcuni anni, altri in valle hanno
ripreso in mano questa tradizione alimentare e molto si è fatto all’interno delle famiglie. Rispetto a trent’anni fa, la pitina in
valle è più diffusa e una serie di piccoli produttori la confezionano anche al di fuori del
disciplinare del consorzio.
UN PO’ DI STORIA DEL PAESAGGIO
AGRARIO: AGRICOLTURA E ALLEVAMENTO IN VALLATA
A partire dal Cinquecento, Tramonti subì
un’enorme espansione demograica e insediativa. Tutte le valli minori furono colonizzate costruendo sentieri, stalle e poi case
stabilmente abitate. In pratica, si veriicò
un aumento di animali e di uomini che è
l’esatto opposto di quello che è accaduto
negli ultimi settant’anni in vallata. Tramonti oggi ha raggiunto i valori di popolamenti
che c’erano nel Medioevo e lentamente ha
iniziato a subire un fenomeno di ricambio
sia generazionale che di nuove famiglie immigrate in valle. Proprio nel momento in cui
Il bosco oggi, nei dintorni di Tramonti di Sopra
Mattia Trivelli fu il macellaio che per primo in Val
Tramontina riprese la tradizione della pitina ai ini della
vendita, superando quindi la pratica della produzione in
casa per l’autoconsumo famigliare.
1
101
sulla crescita demograica, mettendo in crisi
il sistema delle risorse, condusse questa comunità e la sua valle alle soglie di un vero e
proprio disastro ecologico. Sottoposta a un
costante aumento demograico, la montagna
fu spogliata quasi per intero dei suoi boschi,
frane e smottamenti erano all’ordine del giorno, ogni luogo sfruttabile fu colonizzato con
insediamenti permanenti o temporanei. Anche i canali più isolati, che in un primo momento erano serviti come valvola di sfogo al processo di incremento demograico, iniziarono
a soffrire il sovrappopolamento. Il ricorso
all’emigrazione temporanea fu necessario per
garantire un’economia di sussistenza alle fasce sociali più umili, pur non riuscendo con la
stessa a porre rimedio ai maggiori squilibri rilevati nella gestione delle risorse della vallata.
Dalla seconda metà del XVII secolo, l’esplosione dell’insediamento permanente, al di fuori
delle ville originarie, provocò in Val Meduna
uno squilibrio nel rapporto popolazione-risorse a sfavore di queste ultime. Al contrario,
in Carnia il XVII si presentò come un secolo di
stabilità demograica3.
Per gli antropologi, una popolazione alpina
raggiunge il successo quando riesce ad adattare la propria consistenza all’entità delle risorse ambientali ad essa soggette. Da questo
punto di vista, la Val Meduna si è scontrata nel
tempo con un drammatico insuccesso, frutto
di un aumento costante, ma non correlato, dei
due parametri. Il principio omeostatico presuppone che a ogni variazione di un fattore,
l’equilibrio venga subito ripristinato attraverso un automatico registro degli altri fattori,
o mediante la restaurazione della situazione
originaria. A ogni aumento della popolazione deve quindi corrispondere un aumento di
risorse, ma se il territorio non è in grado di
ALLE SOGLIE DI UN DISASTRO
ECOLOGICO
In Val Meduna si sono susseguiti due opposti
sistemi di organizzazione geograica dell’insediamento rurale.
Il primo, quello medievale, prevedeva un evidente accentramento delle residenze all’interno dei tre centri abitati posti nel fondovalle. In seguito, a partire dalla seconda metà del
Seicento, s’impose un modello di insediamento sparso, segnato da un gran numero di piccole borgate e case isolate2.
Tra il XVII e XVIII secolo, un fenomeno di profonda antropizzazione coinvolse tutta l’area
di Tramonti. L’aver eluso il controllo politico
2
Il fatto che in poco meno di cinquecento anni sullo stesso territorio si siano sviluppate due diverse e
opposte strategie di insediamento, la dice lunga sulla
dificile applicazione di formule deterministiche a un
fenomeno, quello dell’insediamento, che non è il frutto
matematico della composizione di singoli fattori geograici. Sul inire degli anni Quaranta, Dino Gribaudi
segnalava i rischi di «una fallace impressione: quella
cioè di ritenere che clima, natura geologica del suolo,
morfologia, acque, vegetazione spontanea, ecc., si impongano direttamente, come esigenze primordiali, ed
incoercibili, agli orientamenti distributivi dell’abitato
rurale». In una sua poco conosciuta dispensa universitaria, lo studioso piemontese riconosceva che era
«facile perdere la iducia nell’azione determinante
dei fattori geograici». Il rapporto causale che legava i
fattori geograici alle forme dell’abitato e al paesaggio
rurale doveva essere dunque arricchito di «un insieme
di fatti complessi, che si sviluppano e mutano, anche
sotto l’impulso di moventi economici, storici, demograici, politici, etnograici, sociali, ecc.». Per ricostruire
il dibattito del periodo sull’antropologia alpina e recuperare a pieno il valore dello studio di Gribaudi vedi:
P.P. ViAZZo Comunità alpine. Ambiente, popolazione,
struttura sociale nelle Alpi dal XVI secolo ad oggi, Il Mulino 1990, 11-29; sulla geostoria vedi: M. QuAini, Per la
storia del paesaggio agrario in Liguria, 1973. Per contro
lavori, per altri versi apprezzabili, come quello di Alpago Novello sulla Carnia del 1973, quello di Chinellato
sulla Val di Resia del 1997 o quello di Battigelli sulla
Val Pesarina del 1986, nell’identiicare alcune ricorrenti immagini dell’insediamento, possono essere solo
di supporto per la deinizione delle strategie insediative ed economiche in montagna. Strategie che molto
spesso non si presentano come omogenee all’interno
della stessa area geograica.
La crisi della montagna friulana, e di questo
suo settore in particolare, negli ultimi decenni ha prodotto non pochi luoghi comuni.
Il più diffuso è quello che vede nello spopolamento e nell’abbandono della montagna una
forma di “degrado del paesaggio e dell’ambiente”.
soddisfare le nuove esigenze, l’espansione demograica rientrerà ai valori originari, oppure
quella popolazione dovrà importare risorse
dall’esterno aprendo sempre di più il suo sistema economico.
Ancora nell’Ottocento, il Bassi, descrivendo
l’attraversamento di passo Rest, notava come
a differenza «della rigogliosa vegetazione che
copre per la maggior parte i monti della Carnia, tutto è deserto e squallore nella valle del
Meduna. Ed invano si gira lo sguardo per trovare di posarlo su qualche ameno poggio tutto a prati, o a pascoli o a boschi, invano; tutto
è dirupi nudi, tutto è frana. L’ininita ingordigia
di quegli abitanti ha spogliato completamente quelle povere montagne, già ricche di boschi»4.
Il Bassi, nella sua guida alpinistica ai monti
friulani, contrappose il mito della verde Carnia all’immagine dei dirupi tramontini e, se è
vero che la struttura geologica delle due regioni montuose è profondamente diversa, è
pur vero che in Val Meduna, come in alcune
zone un tempo sottoposte alla giurisdizione
dei Savorgnan (Castelnovo e Clauzetto), l’uso
del territorio e le strategie di insediamento
avevano assunto connotati originali e tesi a
uno sfruttamento profondo del territorio.
Nel Novecento la Val Meduna, più che altre
zone della regione montuosa friulana, ha subito un forte regresso dei quadri antropogeograici5. Decine di abitati “fossili” costellano le
sue vallate ormai abbandonate all’evoluzione
post-colturale. I pochi nuclei ancora popolati sono diventati luoghi di residenza per una
popolazione per lo più anziana e poco interessata allo sfruttamento del territorio e alla trasformazione economica del paesaggio alpino.
UN’ECONOMIA BASATA
SULL’ALLEVAMENTO
Il borgo di Palcoda, oggi abbandonato
Durante il Medioevo gli animali per gran
parte dell’anno risiedevano all’interno delle
tre ville storiche e gli stavoli esterni ai paesi
erano rari.
I pochi censiti, più che caratterizzarsi come
una forma di insediamento di mezza quota
e di mezza stagione, erano stati costruiti per
attrezzare i pascoli più lontani, ma posti su
pianori a quote modeste: Barbeadis (547
m.), Palcoda (628 m.), Campone (436 m.) e
Clez (367 m.). Erano quindi punti di un sistema radiale di organizzazione delle risorse
ben diverso da quello che seguiva l’evolversi
dei limiti vegetazionali lungo uno schema altitudinale.
La ricerca di nuove risorse non produsse un
paesaggio di prati e stalle poste lungo i sentieri che portavano ai pascoli alti della Val
Meduna, ma si diluì lungo i canali secondari.
La distanza degli insediamenti temporanei
da quelli permanenti era quasi sempre percorribile in giornata lungo sentieri caratterizzati da scarsi dislivelli.
Durante questa prima fase di colonizzazione, furono trascurati i pascoli alti per rica-
Anche Giovanni Marinelli nel 1906 non mancò di annotare il «grande contrasto tra la itta vegetazione del
versante settentrionale e l’aspetto sterile e brullo dei
pendii tramontini».
4
In Val Pesarina, tra il 1602 e il 1758, non ci fu quasi
aumento degli aggregati famigliari. A quest’ultima data,
in tutta la vallata non si contavano più di 1.351 persone,
divise in nove insediamenti permanenti, mentre in Val
Meduna, solo tredici anni dopo, gli abitanti erano 3.599,
divisi in 504 famiglie, distribuite, oltre che nelle tre ville
originarie, in una sessantina di borgate e villaggi sorti
nel secolo precedente.
3
102
Le Prealpi Carniche tra il 1921 e il 1971 hanno subito il livello maggiore di emigrazione deinitiva di tutta l’area friulana. Nel periodo 1951-1971 Clauzetto e
Tramonti di Sotto sono stati i comuni friulani che hanno
subito il maggior regresso nella popolazione residente.
5
103
Palcoda è attualmente raggiungibile a piedi da Tramonti di Sotto
vare spazi per l’economia dell’allevamento
all’interno di limiti vegetazionali propri del
bosco. Non esistendo ancora un mercato
dei prodotti boschivi, la comunità di vallata rinunciò alle foreste nella prospettiva
di espandere un’attività più remunerativa,
quella dell’allevamento. I vasti disboscamenti medievali, ottenuti con l’uso del fuoco, dovettero creare qualche problema se
già nel XIV secolo si resero necessari i primi
provvedimenti per tutelare i boschi che si
trovavano più vicini alle zone colonizzate
dagli insediamenti temporanei.
Nel Quattrocento, il Vescovo di Concordia
si vide costretto a multare chiunque volesse «disbuscare, vel in prata aliquid reducere,
vel in proprios usus asserire, vel convertere
aliquam partem comugnae»6. Di tenore simile fu la sentenza di Lionello Chieregato del
20 agosto 1500 che, oltre a impedire i tagli
boschivi, vietò di costruire «stabuleria sine
expressa licentia nostra» sui monti che dividono Meduno da Tramonti7.
Se per gli insediamenti pastorali più antichi
ci mancano informazioni attestanti la loro
origine, per la maggior parte degli stavoli
di fondazione cinquecentesca abbiamo la
possibilità di ricostruire il clima economico
e politico che ne decretò la nascita.
Nel Cinquecento l’attività di disboscamento e costruzione di nuovi pascoli proseguiva alacremente seppure solo in pochi casi
le terre nuove fossero state attrezzate con
fabbricati. Solo le famiglie più dotate di liquidità potevano permettersi la costruzione degli ediici utili all’attività pastorale. Gli
Urbani, per esempio, nella Villa di Sopra
erano annoverati tra gli abbienti e potevano vantare tra i loro beni, sopra la Celestia,
ASUd,; Archivio Panigai, Comune di Tramonti, Lite con
il comune di Medun, 7. D’ora in poi nelle citazioni si utilizzerà Lite Meduno-Tramonti.
6
7
104
Ivi, 14
un prato «cum stabulo uno novo cooperto
scandulis, et posito in medio ipsius prati»8.
Stavolo e prati erano legati tra loro anche in
caso di vendita: «unum stabulum cum pratis
ei spectantibus».
Com’era logico attendersi, lo spoglio dei
documenti cinquecenteschi ha rilevato la
grande dinamicità dimostrata dalle famiglie
più ricche nel processo di costruzione dei
pascoli privati.
Una classe sociale di imprenditori stava
emergendo dall’omogeneo tessuto economico della vallata, con una strategia tesa a
possedere e afittare «stabulorum, et bonorum extra villam, et tabellam»9. Il redditizio
commercio delle tele di lana grigia di Tramonti poteva svilupparsi solo con l’espansione del pascolo e l’aumento di offerta di
materia prima. A tal ine le principali famiglie di investitori afittavano agli allevatori
animali10 e stavoli esterni al villaggio, spesso con un unico atto notarile11, prevedendo,
in alcuni casi, un canone in lana e panni12.
La lana alimentava un’attività tessile di carattere famigliare apprezzata sui mercati
Nel 1565 Domenico Cleva vendeva, per soli 5 ducati,
a Lorenzo Pecolle detto Fachin, un modesto stavolo in
Canal del Meduna, circondato da prati a loro volta inseriti nella comugna pubblica.
8
I Nevodini della Villa di Sotto possedevano due stavoli: «due sua stabula cum pratis ad illa pertinentibus, unum
in loco vocato Canale, Alterum in loco appellato Faidona».
ASPn, 3 febbraio 1579.
9
10
I Sina della Villa di Sotto, per esempio, afittavano ai
Varnarin «conducenti per se iure simplici afictus capras decem, et viginti oves nigri coloris, sanas, integras aetate, et nulla labe, morbo, aut, vitio maculatas». Ivi, 2 novembre 1575.
Alcuni momenti dell’escursione di Legambiente a Tramonti
Nel 1562 Michele Spelati afittava a Matteo Fracassi, per la «festo divi Danielis prox. venturo», una
mandria composta da trentadue pecore, un ariete, un
«agnum hornus» di un anno e tre capre. L’afitto avrebbe avuto durata di quattro anni comprendendo anche
gli «stabula sua existentia Intermontes, in locis dic. Metuna, et Barbeadis». Ivi, 10 aprile 1562.
di pianura, ma era anche un bene prezioso
per baratti da concludersi in valle. Le stoffe di panno grigio di Tramonti, in mancanza di liquidità di danaro, potevano servire
per fare acquisti importanti. Per esempio,
Pellegrino da Prato nell’acquistare la casa
di Giuseppe Maddalena, stimata del valore di sessanta ducati, ne versò undici sotto
forma di «pannos duos laneos, quos telas ipsi
vocant, exorsos, ut contextos lana ovina Inter-
11
Daniele Cozzi afittava a Nicola Cozzi un suo «faenile
cum ovilibus» a Casuncello e trenta pecore, impegnando
l’afittuario a costruire e mantenere il tetto del ienile, a
non trasportare altrove ieno e letame e a pagare l’afitto in panno e lana. Ivi, 5 dicembre 1570.
12
105
L’itinerario, indicato in rosso, da Tramonti di Sopra porta alla Villa di Sotto passando per Tramonti di Mezzo
monti lota, simplici, et pura».13 La colonizzazione degli allevatori era incentivata anche dai
guadagni ricavabili dalla vendita di un altro
prodotto, il formaggio, «casei salsi», che veniva venduto ad alcuni mercanti di pianura, in
particolare ai Cisternini e ai Monaco di Spilimbergo. Le famiglie tramontine più ricche,
in contatto con questi “grossisti”, si erano
organizzate costituendo vere e proprie mandrie che afittavano alle famiglie di allevatori
in cambio di formaggio salato14.
Gli allevatori pascolavano le greggi e fabbricavano i prodotti caseari, mentre le donne
erano attive nella preparazione della lana e
nella produzione del panno. L’attività dell’agricoltura era tenuta in scarsa considerazione e le derrate alimentari venivano garantite
dall’importazione di granaglie.
Grazie alla considerazione che godevano i
prodotti tramontini, gli allevatori potevano
permettersi uno scambio vantaggioso, cereali in cambio di panno e formaggio. Questo sistema economico aperto poteva però entrare
in crisi nei periodi di carestia, per l’alto costo
del frumento o a causa di qualche manovra
speculativa. In quell’occasione, gli allevatori
economicamente più deboli correvano il rischio di “fallire” perché il loro indebitamento
in prodotti alimentari superava il ricavato del
lavoro pastorale e artigianale. Per esempio,
nel 1576 Leonardo Colle, dopo essere stato
costretto a vendere le sue proprietà, «eius
bona dilapidarentur», non era ancora in grado
di onorare un debito contratto con Battista
Bellati, commerciante di Portobuffolè, «pro
equo pilei rubei»15.
Nella maggior parte dei casi l’approvvigionamento alimentare necessario alla valle veniva
garantito dall’azione di alcune famiglie intermediarie con i mercanti della pianura o di Venezia. Nel 1586, Giovanni Fritium di Flambro
garantiva i prodotti alimentari ai Mazzari, ai
Mincelli, ai Fracassi e ai Durat16. Nella maggioranza dei casi, però, erano gli imprenditori
spilimberghesi i più impegnati nell’assorbire
la produzione di panno di lana, formaggio e
pece, fornendo un controvalore in alimenti17.
I Monaco e i Cisternini, le famiglie notabili
delle tre ville di Tramonti e i commercianti di
Meduno18 sostennero la prima colonizzazione degli allevatori fornendo loro quei prodotti agricoli che non avevano più il tempo di
coltivare. In questo modo aprirono il mercato
veneziano ai prodotti tramontini19 già noti
Oltre ai cereali, i tramontini attingevano al porto luviale del Livenza anche per forniture di vino e di sorgo.
Ivi, 6 agosto 1577.
15
In un solo caso abbiamo scoperto che colui che forniva le granaglie ai ricchi Caterinussi era «Sansoni Piscaroli
haebrei de Vene.a pro bladis». Ivi, 15 marzo 1579.
Sappiamo che pochi anni prima Domenico Prato
era debitore nei confronti di Leonardo Caterinussi
«pro bladis extractis ex alma civitate Venetiam». Ivi, 2
novembre 1577.
16
Nel 1579 Giovanni Pietro Nevodini, debitore di
400 lire nei confronti di Bartolomeo Correri di Meduno, si impegnava a restituire la somma sotto forma di
«pannos, seu, ut ipsi vocant, telas decem grisij confectas ex
lana ovium intermontij» dilazionando le consegne ino al
1584. Ivi, 3 febbraio 1579.
Leonardo Colle trovandosi debitore di «magna pecunia»
nei confronti di Battista Monaco e disponendo solo dei
suoi prodotti saldava il borghese di Spilimbergo con
«pannos tres sine aliquo dolo, vel fraude orsos, et contextos
lana ovium Intermontij». Ivi, 2 novembre 1575.
13
Nel 1579 i Beacco si erano trovati a importare una
fornitura dei Monaco valutata in ventisette stara di grano delle quali undici dirette ai Moruzzi di Sghittosa. Ivi,
15 maggio 1579.
Due anni dopo Marco Adelardi di Spilimbergo, ma
residente a Venezia, vantava sugli stessi Domenico e
Pietro Moruzzi alcuni crediti da rimborsare presso il
suo negozio alla «insigne Pontiicis in calle della Bissa de
panno grisio, caseo, ac pice». Ivi, 31 luglio 1581
17
Nel 1570, per esempio, Leonardo Colle della Villa
di Sopra afittava a Lorenzo Peccole Facchin trentatré
pecore e undici capre. Per le prime avrebbe ricevuto un
compenso annuo di sei lire per pecora, mentre per ogni
capra il Facchin avrebbe dovuto a Leonardo sei libbre di
formaggio. L’atto ci fornisce inoltre anche la dimensione
del resto del gregge di Lorenzo Peccole: sessantasei pecore nere e ventidue capre. Ivi, 10 ottobre 1570.
14
Particolare della Kriegskarte del 1805
106
Anche alcune famiglie di Meduno ricevevano grano
da Venezia. Ivi, 12 novembre 1577.
18
Nel 1577, per esempio, Candiusso Romanelli della
Villa di Sopra doveva ventinove ducati a Daniele Peruzzana di Meduno per «blada extracta ex altra civitate
Venetiam». Ivi, 1 ottobre 1577.
19
107
per la modesta attività di vendita esercitata
da coloro che d’inverno abbandonavano la
vallata per cercare un lavoro temporaneo
nel porto veneziano.
Tra questi, alcuni, stabilitisi deinitivamente
nella capitale lagunare, iniziarono una propria attività di commercio con i paesi di origine, garantendo direttamente l’interesse
di certo patriziato veneziano per le risorse
della montagna friulana20.
Il successo dell’apertura del sistema economico della valle ai mercati della Repubblica veneziana consolidò le trasformazioni
territoriali iniziate in età basso-medievale.
I resoconti dei sopralluoghi condotti da
Francesco Rota in Val Meduna per la sua
“Statistica Agraria”, mostrano con estrema
chiarezza come nel XVIII secolo fosse stato
profondamente compromesso il rapporto
tra popolazione e risorse. L’agricoltura era
insuficiente e non era possibile ampliare la
produzione del frumento «al cui bando totale ne è contribuito una reiterata funesta
esperienza».
Durante il secolo precedente, in Val Meduna si era tentata l’introduzione della vite,
ma lo scarso soleggiamento della valle e il
rigido clima invernale avevano sconsigliato
questa delicata coltura. Tra le coltivazioni troneggiava il resistente sorgo turco e i
consueti ortaggi. Nei pochi terreni coltivati
non si compivano rotazioni, se non con la
canapa e con un avvicendamento ogni sei
anni. La possibilità di aumentare le coltivazioni era qui, come altrove, delusa da una
geograia tormentata delle regioni agrarie.
Solo sui terrazzi alluvionali si sarebbero potute introdurre tecniche moderne di aratura, ma gli insediamenti storici erano poco
popolati e non ci sarebbe stato interesse
nell’aumentare l’autoconsumo di prodotti
agricoli. Presso i piccoli borghi invece «non
Nel 1571 Giacomo Rivo, che ormai abitava a Venezia
e faceva da mediatore tra i due mercati, faceva sequestrare alcuni beni di tramontini colpevoli di non aver pagato la «bladorum» ricevuta da Marcantonio Gritti. Ivi,
25 giugno 1571.
sonovi Buoi, perché all’Aratro non è adatto
il terreno»21. La coltivazione si faceva con
«zappe, vanghe, e zapponi (...). Le produzioni agrarie sono peraltro scarse nel Paese,
che manca di Terreni seminati, ed anco di
Animali in riguardo alla popolazione»22.
I toni della descrizione prodotta dal Rota
non lasciano spazio a speranze; solo in sordina il tecnico si lasciò andare a un consiglio: «Aggiungo per li zappativi, che vorrei
introdotto l’uso de pomi di terra, che devono riuscire». Evidentemente la patata era
ancora sconosciuta all’interno della vallata,
ma lo scompenso creatosi tra la produzione agricola e le necessità alimentari degli
abitanti non poteva certo essere compensato da questa nuova coltura. Ma anche sul
fronte dell’attività pastorale, le cose non
andavano molto bene. Secondo il Rota i comuni della Carnia «ànno un’impareggiabile
fertilità di terreno in confronto di questa e
crescono senza dubbio d’un grado, e mezzo massime se si consideri la fertilità delle
loro montagne, dove si pasce un immenso
armento».
Per contro, in Val Meduna si rendeva necessaria persino l’importazione del ieno
perché le superici conservate per il falcio
vicino agli abitati erano insuficienti al mantenimento dell’accresciuto numero di bestiame. La particolare costituzione geologica della vallata impediva inoltre di sfruttare
gran parte del territorio, che rimaneva sterile: «trovo che li comunali pascolivi della
Comune sono oltre l’immaginazione estesi,
ma ve n’à gran parte, anzi delle migliaia di
campi, che sono quasi infruttiferi, ed inacessibili».
Alcuni pascoli alti anche pregevoli, non
erano collegati alle mulattiere che da ripidi
sentieri non adatti al transito dei bovini.
Tutto il prezioso comparto pastorale dei
monti Valcalda, Teglara, Sopareit e Sciara
fu reso agibile alle mandrie solo all’inizio di
questo secolo.
Queste dificoltà, dettate da una morfologia complessa oltre ogni immaginazione,
avevano consigliato un esteso utilizzo di
greggi all’interno della vallata. Francesco
Rota, come altri “periti” del periodo, vedeva nell’uso delle capre la sola possibilità di
incrementare le attività agricole all’interno
della vallata: «che se è un tratto di necessità, e di economia il tenerli lontani dal poco
boschivo, è una risorsa dall’altra parte di far
loro mangiare in luoghi impraticabili ciò che
nasce, e resta collà infruttuoso, e pasto soltanto alli selvatici Daini, e Caprioli»23.
Le osservazioni precise e drammatiche fornite dall’agrimensore andrebbero però approfondite al ine di rilevare eventuali differenze provocate dal sovrappopolamento
nella vallata. Infatti, se consideriamo i valori
censuari registrati nella vallata tra il 1770 e
il 1881, possiamo notare come all’interno
dello stesso bacino idrograico la diversa
condizione geograica del suolo occupato
dalle due comunità rurali fosse riuscita a far
assumere diverse connotazioni insediative
al dato del popolamento. Nella Villa di Sopra, per esempio, in poco più di un secolo,
l’aumento della popolazione era stato accompagnato da un costante aumento delle mandrie, possibile solo rendendo adatti
i pascoli esistenti ai bovini e ricavandone
di nuovi per i più adattabili ovini. I canali
posti sulla destra idrograica del Meduna
vantavano le asperità maggiori e, proprio
per questo motivo, solo a partire dall’Ottocento le comunità locali completarono la
loro capillare opera di colonizzazione. Nel
farlo furono seguiti esattamente i consigli
del Rota: in poco più di cento anni (17701881) le capre passarono da 1.230 a 2.127.
La loro voracità e la capacità di raggiungere
pascoli privi di viabilità di servizio permise
APTSot, Anaggrai Dello Statto Personale della Curazia
di Tramonti di Mezzo Primo Genaro Anno 1877
23
20
21
22
108
Ibid.
di aumentare le risorse vegetali sfruttabili
e di incrementare la produzione di latticini,
lana e, conseguentemente, le attività di artigianato domestico connesse. All’aumento
complessivo degli animali allevati, corrispondeva un aumento della popolazione
insediata, segno che almeno nella Villa di
Sopra l’economia pastorale era in espansione. I dati seguenti ci forniscono i termini
dimensionali del rapporto tra demograia e
livelli di allevamento in Val Meduna.
VILLA DI
SOPRA
1768
1807
1881
ABITANTI
1544
1521
1914
BOVINI
487
550
784
CAPRE
1230
1400
2127
PECORE
1763
1000
1354
VILLA DI
SOTTO
1768
1807
1881
ABITANTI
2055
2973
3016
BOVINI
6
700
1065
CAPRE
1501
1200
1596
PECORE
1972
1500
924
Nei territori della Villa di Sotto, invece, la
situazione era ben diversa. La pressione
antropica esercitata il secolo prima aveva
intaccato profondamente le risorse.
La facilità di colonizzare aree in in dei conti
accoglienti aveva consolidato una itta rete
di villaggi rurali che, continuando l’espansione demograica, avevano sfruttato tutto
lo sfruttabile. Nella Villa di Sotto, a partire
dal XIX secolo, i rapporto tra la popolazione
La tendenza a sviluppare l’allevamento delle capre in
Val Meduna un secolo dopo veniva fortemente criticato
per i problemi che aveva prodotto sul territorio boscato. Vedi: L’opera del Comitato forestale 1913, 9 e 14
109
afittate otto “montagne” a partire dalla vicina Teglara, allora proprietà di Meduno, per
arrivare a quella cadorina condotta da Gio
Batta Ferroli e compagni. Nove anni dopo la
situazione era ancor più drammatica perché
gli afitti coinvolgevano ben nove montagne
assorbendo un carico di 1.050 bovini27.
Nella seconda metà dell’Ottocento si fece il
possibile per rendere raggiungibili gli alpeggi
interni alla vallata, ma i tre comparti del Canal
Grande del Meduna, per esempio, non furono mai convenientemente attrezzati.
Se i bovini aumentavano, pecore e capre
non diminuivano ed erano le principali risorse proteiche degli abitanti. La carne che
potevano permettersi le famiglie era per lo
più quella di pecore e capre e quindi non è da
escludere che l’uso della pitina abbia attraversato le abitudini alimentari in vallata dal
Medioevo a oggi.
Il confronto con i censimento degli animali
del 1868 in vallata è estremamente signiicativo per dimostrare questa resistenza degli allevamenti storici anche nel momento in
cui si era affermata pienamente una nuova
tradizione casearia che si rifaceva al nome
del Montasio. Nella Villa di Sopra, più aspra
e ricca di rilievi, le pecore censite erano 910,
mentre le capre erano ancora 1.590, mentre
in quella di Tramonti di Sotto le prime erano
1.037 e le seconde 675. In pratica ben 521
famiglie, quindi quasi tutte, possedevano ovini e caprini.
Nella seconda metà dell’Ottocento cominciava ad affermarsi la presenza di vacche fecondate dai quindici tori presenti in vallata.
La presenza dei bovini era esplicitamente
dedicata alla produzione casearia perché in
tutta la valle non c’erano buoi, mentre le vacche erano 480 nella Villa di Sopra e 582 nella
Villa di Sotto. I suini, invece, erano pochissimi.
Solo ventiquattro famiglie, le più ricche, potevano vantarsi di averne qualcuno. Non a caso
questi si concentravano per lo più nella Villa
di Sotto, dove c’era una maggior concentra-
insediata e il numero di animali presenti evidenziò una crisi dell’attività pastorale24.
Tra il 1770 e il 1881 in questo comune le
pecore passarono da 1.972 a 924, mentre
le capre mantennero la stessa consistenza.
Questa osservazione ci fa capire che l’attività
legata alla transumanza invernale delle greggi era andata completamente in crisi nell’Ottocento. Per contro, Claut che aveva ancora
risorse sfruttabili in 111 anni aveva visto
quasi un raddoppio della popolazione, i bovini
erano quasi triplicati, mentre le capre erano
quasi cinque volte più numerose.
A partire dal XVIII secolo, l’aumento del numero di animali presenti all’interno della
vallata aveva accentuato i danni prodotti dal
massiccio sfruttamento delle risorse. I magri
boschi erano stati in gran parte rasi al suolo
per ampliare il pascolo o soddisfare le necessità di combustibile civile. I pascoli estivi
non erano in grado di accogliere il necessario
numero di animali costringendo le mandrie a
migrare verso i pascoli di Socchieve e di Enemonzo25.
Nel 1800 il parroco di Tramonti si trovava
a dover certiicare la consistenza di questo
nomadismo pastorale che coinvolgeva complessivamente nella vallata ben 770 bovini
e «oltre mille e più capre»26. Il fenomeno era
comunque più evidente nella Villa di Sotto,
dove il comune possedeva la sola malga della Rossa. Il ricorso alle malghe della Carnia si
rendeva indispensabile per allontanare durante l’estate il bestiame più prezioso e permettere un’ampia attività di sfalcio e raccolta
di ieno sui terreni privati. Quell’anno furono
Secondo Pascolini nel 1881 nelle Alpi Friulane, in
media, ogni mille persone si contavano 400 bovini.
(M. PAsColini, n. tessArin, Lavoro in montagna: boscaioli
e malghesi della regione alpina friulana, Franco Angeli
1985, 68).
24
25
ASVe, Catasto Austriaco. Atti preparatori. Nozioni generali territoriali. Gli estensori delle note per il catasto
non mancarono di segnalare che in quanto a pascoli «se
ne prendono a pigione nella Cargna per mesi quattro
nella stagione estiva, non essendo suficienti i proprj».
Ivi, p.134. Quell’anno i pastori tramontini avevano
afittato anche alcune “montagne” di Claut e di Sauris.
26
Stampa documenti della Comune di Tramonti, presso
ACVPn, 131
27
110
zione di borghesi, e comunque non superavano i ventisei esemplari. In altre vallate la loro
presenza era anche più scarsa. Per esempio
ad Andreis e a Barcis erano solo due e a Erto
nessuno. Il maiale veniva allevato con le eccedenze delle derrate alimentari e all’interno
della valle queste non c’erano e bisognava importare cibo dalla pianura28.
Gli equini erano relativamente pochi e solo
nella Villa di sotto c’era una consistente concentrazione di muli e asini per i trasporti.
In valle svernavano anche animali che provenivano dalla pianura e questo poteva provocare problemi sanitari. Nel 1887 alcune pecore
con la scabbia furono ospitate in un alpeggio
degli Zatti nella Villa di Sopra, «ove stavano
pascolando quasi un migliaio di pecorini», e
provocarono una piccola epidemia degli ovini
che ebbe ripercussioni anche nella pianura29.
La qualità degli animali più preziosi era scarsa e inutilmente si cercava di trovare animali
adatti ai suoli impervi della vallata e contemporaneamente molto produttivi: «Tramonti,
nonché i comuni della Valcellina, è popolata
da una miscela di varietà bovine, ricordanti il
tipo carnico, ma per le condizioni diverse di
ambiente e per i metodi speciali di allevamento differenziano fra loro nella colorazione del
mantello, nello sviluppo scheletrico, nella rusticità, nell’attitudine lattiera più o meno spiccata»30. Ai primi del Novecento la progressiva
trasformazioni verso un allevamento prevalentemente bovino si stava concretizzando
nel cambiamento della popolazione animale
presente in malga. A Tramonti di Sopra in media in malga venivano ospitate 53 vacche da
latte, 15 manze, 12 vitelli e 50 capre da latte.
Le pecore erano ormai scomparse. A Malga
Rest i 105 bovini erano afiancati da novanta
capre e quaranta pecore per intervenire sulle
zone più dificili del monte31.
Le teorie legate al rimboschimento della valle
riuscirono a ridurre sensibilmente il ricorso
all’allevamento delle pecore: «lungo il bacino
del Meduna si nota una certa contrarietà alla
coltura silvana; e si ritiene che la proibizione
dei pascoli caprini sia una delle cause di miseria per quelle popolazioni»32.
Per poter condurre le vacche sui pascoli pubblici, furono necessarie opere di adeguamento viario importanti come la strada che portava da Passo Rest all’omonima malga.
La situazione per gli altri alpeggi si risolse
solo agli inizi del Novecento: «un tempo la
malga Soparedo non era accessibile all’alpeggio che dagli ovini e dalle capre, mentre
ora vi salgono senza dificoltà gli animali bovini». Nonostante tutto, la tradizione in Val
Meduna resisteva anche sul fronte alimentare e a Malga Teglara si faceva «metà formaggio Montasio comune, e metà formaggio di salamoia», come voleva la tradizione
tramontina. Le condizioni delle malghe più
lontane dai paesi saranno sempre precarie,
come in canal Grande del Meduna: «infelicissime sono le condizioni dei fabbricati. Le
casere di Carpen e Roppa sono costruite da
semplici tronchi d’albero sovrapposti, quella
di Cuòl è fatta di tavole. Tutte sono anguste,
mal riparate, mancanti di fornello»33. Il censimento del bestiame del 1908 registrava un
28
Censimento del bestiame della Provincia di Udine
(31 dicembre 1868), in «Bullettino della Associazione
agraria Friulana», n.17-18, 25 settembre 1869, 524541
29
t. ZAMBelli, Cenni sull’epizoozia scabbiosa negli ovini
nei distretti di Spilimbergo, Maniago, Pordenone, e S. Vito,
in «Bullettino della Associazione Agraria Friulana»,
vol. V, n.6, 24 aprile 1888, 110-113; t. ZAMBelli, Osservazioni sulle malattie epizootiche e contagiose manifestatesi in Friuli nel 1888, in «Bullettino della Associazione
Agraria Friulana», vol. VI, n. 4, 21 marzo0 1889, 62-70
31
d. toniZZo, I pascoli alpini nei distretti di Spilimbergo e
Maniago, Udine, Associazione Agraria Friulana, 1903, 192
I rimboschimenti in provincia, in «Bullettino dell’Associazione Agraria Friulana», n. 9-11, 1907, 322
32
33
Relazione della Commissione Giudicatrice del Concorso
pel miglioramento dei pascoli alpini dei distretti di Spilimbergo e Maniago (1904-1907), in «Bullettino della Associazione Agraria Friulana», a.53, v.25, n.13-15, 1908,
331
30
Relazione al Ministro dell’agricoltura sull’organizzazione
e il funzionamento della Cattedra, in «Bullettino della Associazione Agraria Friulana», a. 49, v. 21, n.25-26, 1904,
419.
111
Tramonti di Sotto vista dall’alto
aumento della presenza di bovini in vallata.
Nella villa di Sopra erano 690 e in quella di
sotto 91334, mentre un censimento del 1911
testimonia come nelle valli del Meduna e del
Cellina ormai non si coltivassero più il sorgo
e segale, ma l’ormai imperante granturco.
lo si speziava e salava, in seguito veniva lavorato per ottenerne formelle grandi come
una ricotta che, una volta spolverate di farina, venivano poste ad affumicare vicino ai
camini o in appositi affumicatoi famigliari.
Il trattamento di conservazione durava per
due o tre giorni, con faggio e rami di ginepro.
Un tempo, la pitina veniva affumicata per
farla durare qualche settimana, poi veniva
cotta in padella, ma non stagionava molto.
La pitina oggi si mangia cruda a fettine, dopo
almeno trenta giorni di stagionatura, ma è
ottima anche cucinata. Può essere scottata
nell’aceto e servita con la polenta, rosolata
nel burro e cipolla e aggiunta nel minestrone
di patate, o ancora fatta al cao, cioè cotta nel
latte di vacca appena munto.
IL CIBO DI RIFERIMENTO
Come abbiamo dimostrato, molto si è perso
del tradizionale rapporto con il cibo in vallata. Soprattutto abbiamo perduto nel tempo
le qualità dei cereali e degli ortaggi coltivati
all’interno delle grandi tavelle degli orti. Alcuni cibi invece si sono conservati, a partire
dalla pitina.
La pitina è un agglomerato di carne macinata, un tempo tritata, composta originariamente solo da carne di pecora, capra o
animali selvatici. Una volta prodotto il trito
Il formaggio salato
Era un prodotto diffuso già nel Cinquecento, anche se era per lo più prodotto con latte di pecora e capra. Successivamente, con
l’aumento delle vacche in Val Meduna, si
pervenne alla produzione di un formaggio
34
Censimento del bestiame del 1908, in «Bullettino
dell’Associazione Agraria Friulana», a. 61, n.1-2, 1916, 29
112
dall’odore forte e dal sapore un po’ piccante. Il
formaggio può avere una stagionatura che va
dai due ai dodici mesi e con il latte viene creato
un impasto lavorato a mano. Viene poi conservato in bacinella per sei, sette ore e poi si ripassa per il tritacarne. Si consuma entro dieci
giorni dalla data di preparazione.
Questo prodotto deve il suo nome al cìt con
cui veniva indicato il “vaso di pietra” usato per
conservare l’impasto aromatizzato a base di
formaggio.
tenero, che doveva essere conservato in
salamoia. Si trattava di un prodotto molto
richiesto dalle cittadine mercantili e veniva
venduto anche a Venezia come cibo per i
marinai, perché in salamoia riusciva comunque a conservarsi nelle stive delle navi. In
seguito, i nuovi gusti alimentari introdussero
le nuove tecniche di caseiicazione per ottenere prodotti stagionabili e facili da vendere
in pianura, ma la tradizione del formaggio in
salamoia non inì mai per scomparire e ancora molte valligiane sono specializzate nel trasformare questo prodotto.
La salamoia – in gergo “salina” – viene conservata, in mastelli di larice, in appositi locali
della casa e dei caseiici a temperature non
superiori ai 14°C al momento dell’immersione delle forme e per i quaranta giorni successivi all’inizio del procedimento. La salamoia è
derivata da un composto – detto “madre” –
costituito da una miscela di acqua, sale, panna
d’afioramento e latte, in percentuali variabili
in relazione all’originale momento della sua
formazione.
La salamoia deve essere integrata, con l’aggiunta delle medesime sostanze che la costituiscono, con frequenza mensile. A seguito
delle integrazioni, l’amalgama deve essere
energicamente rimescolata. La massa liquida
della salamoia viene agitata almeno ogni due
giorni con un mestolo-bastone, per assicurare
l’ossigenazione e mantenere l’omogeneità anche supericiale del composto. Le forme sono
mantenute in salamoia per un periodo non inferiore ai sessanta giorni, computati dall’inizio
della lavorazione del latte, e non superiore ai
centoventi giorni.
Il pistùm
Nella vallata, nelle tavelle era molto diffusa
la coltivazione della rapa, la cui cottura richiedeva tempi prolungati. Il bulbo era un
prodotto certo, che una volta maturo sarebbe stato lessato e condito o con cui veniva
prodotta la classica brovada, mentre con
le foglie (viscja), le quali però giungevano a
giusta maturazione solo dopo essere state
investite dalla prima brinata dell’anno, venivano raccolte, cotte, triturate inemente e
lavorate per ottenere il pistùm.
Questo piatto si serviva accompagnato con
la polenta, con la caratteristica pitina, con la
salsiccia o con il formaggio salato.
L’ITINERARIO
L’escursione parte dal centro di Tramonti
di Sopra: da qui ci si dirige verso la tavella,
una delle zone più ricche e produttive della Villa di Sopra. Per anni questa superficie
è stata utilizzata per smaltire il liquame
di un allevamento poco distante. Oggi si
stanno tentando delle attività di pascolo e
sembra ancora lontana l’ipotesi di un riutilizzo per le coltivazioni tradizionali. Nel
2003 è stato scoperto il “castello” di Tramonti, una struttura fortificata in terra e
legno, probabilmente del XI secolo.
Per un piccolo tratto il percorso segue il
sentiero delle fornaci di calce, che si snoda
poco fuori del paese, toccando una serie
di case isolate. La produzione della calce
si affermò solo nel XVII secolo e divenne
Il formai del cìt
Simile al carnico formai frant, il formai del cìt è il
più recente dei prodotti tipici della Val Meduna. È realizzato con gli sfridi della stagionatura
del formaggio. Un tempo i resti e le porzioni di
formaggio mal stagionate venivano recuperate in casera o presso l’abitazione del produttore, costruendo un agglomerato di formaggio
che veniva conservato a stagionare sotto latte. Si presenta come un formaggio spalmabile,
113
go Titol produce una pitina certiicata dal
presidio Slow Food.
Si possono inoltre visitare due borghi speciali della vallata: Livignana e Vuar. A Livignona nel Settecento il notaio Masutti
costruì la sua residenza, come una sorta di
villa alpina oggi completamente diroccata.
Sempre nello stesso periodo, una famiglia di
commercianti nel piccolo e isolato borgo di
Vuar costruì una delle più belle residenze a
loggia della valle.
(video #9 della serie “Storie di nuova agricoltura” visualizzabile su Youtube: http://
bit.ly/25KUpPX)
CONTATTI:
Località Titol 1
Tramonti di Sopra
tel: 0427 869061 oppure 335 822 28 76
info@borgotitol.it
www.borgotitol.com
LE PRODUZIONI LOCALI DI CIBO
Azienda agricola Agriturismo Borgo Titol
Azienda agricola Ferroli Giovanni
A Pradileva recentemente sono sorte due
nuove attività che hanno riportato l’allevamento delle pecore in Valle: una è l’azienda
Ferroli con il vecchio capannone di allevamento che oggi è stato recuperato come
ovile.
La zona di Pradileva a Tramonti di Sotto
una fonte integrativa del reddito degli abitanti. Sorsero molte fornaci nei pressi delle
abitazioni, perché il calcare era ovunque e
il solo problema era trovare combustibile a
suficienza per il forno e seguire la cottura
delle pietre.
Da qui si arriva a Borgo Titol: il complesso
edilizio solo una decina di anni fa era completamente in crisi, parte degli ediici era
crollata, i pascoli erano stati invasi dalla
vegetazione spontanea e sembrava che un
regresso del paesaggio fosse il destino ineluttabile per questo settore della piana luvioglaciale di Tramonti. Invece l’arrivo di un
imprenditore dalla pianura friulana ha profondamente modiicato i rapporti, instaurando una nuova colonizzazione di questa
balconata sul Canal Grande del Meduna.
Da qui si ritorna nella borgata di Chiavaljr,
dove un’abitazione conserva ancora la tradizione della salamoia per la conservazione
del formaggio, come accadeva nel Seicento,
quando le cucine erano un importante centro di trasformazione del cibo.
Ci si dirige verso Comugnis, alla tavella della
Villa di Mezzo, per comprendere la posizione
del piccolo villaggio protetto da San Antonio.
Da qui si sale per un piccolo sentiero da cui è
possibile percepire il luogo e l’abbandono di
una borgata sorta su un pascolo, pubblico
ino al 1600 e poi colonizzato da una famiglia di allevatori.
La casa degli allevatori, come quella di
Borgo Titol, era un recinto con annessi e
abitazione che si affacciavano su un ampio
cortile interno.
Ci si sposta a Pradileva, nella tavella della
Villa di Sotto, dove le pecore stanno ridiventando negli ultimi anni l’animale più
presente. Si raggiunge poi il cuore della
Villa di Sotto, il terzo villaggio di fondazione medievale, per visitare l’esperienza del
forno sociale, nata nel 2013, che afianca
alla produzione e distribuzione del pane,
servizi di assistenza e prossimità rivolti
alla popolazione che vive nelle zone decentrate. Da una decina d’anni mancava nella
vallata un fornaio e un servizio di distribuzione primario. Nella ex latteria turnaria
di Tramonti di Sotto è stato recentemente
costruito un mini caseiicio gestito dalla
fattoria sociale Sottosopra, dotato di un
piccolo spaccio. Qui si produce ogni giorno
una piccola quantità di formaggio di pecora, tre forme e dodici ricotte, che riprendono una storica tradizione alimentare che,
come abbiamo visto, era stata combattuta
nell’Ottocento.
114
CONTATTI:
Via Pradileva 10
Tramonti di Sotto (PN)
tel: 0427 869168 oppure 3356970008
pradileva@tiscali.it
www.pradileva.it
La preparazione della ricotta a Borgo Titol
Da pochi anni a Tramonti di Sopra, chiuso lo
storico laboratorio di carni che fu del mitico
Mattia Trivelli, un nuovo centro di produzione di prodotti tradizionali si è affermato
presso l’agriturismo Borgo Titol. I nuovi abitanti di Borgo Titol hanno reintrodotto l’allevamento di pecore e di mucche per riprendere in proprio la tradizione dei formaggi
della valle: ricotta, pecorino, formaggio fresco e stagionato e formai del cìt.
Non manca nemmeno la pitina, fatta in un
moderno affumicatoio.
Oltre ai bovini e alle pecore, a Borgo Titol è
stato introdotto anche l’allevamento dei suini, con cui la famiglia produce anche insaccati che non sono un elemento tradizionale
in vallata.
A Borgo Titol la pitina viene, secondo le indicazioni del consorzio dei produttori, «ingentilita da una parte di grasso di suino che
smorza il sapore intenso e un po’ selvatico
della carne di capriolo, capra o pecora». Bor-
Società agricola
e fattoria didattica Sottosopra
La fattoria didattica sorta pochi anni fa è stata il motore di altre e innovative esperienze di
riconquista e interpretazione della tradizione
alimentare, come la nascita del forno sociale.
La sede è in località Comesta, eccentrica al
villaggio e posta all’inizio della corta valle del
Tarcenò. L’azienda realizza iniziative concrete
di esperienze didattiche legate all’allevamento del gregge di pecore, delle api e alla coltivazione dell’orto. Il laboratorio e lo spaccio sono
all’interno della vecchia latteria turnaria.
(video #2 della serie “Storie di nuova agricoltura” visualizzabile su Youtube: http://
bit.ly/1MSbGQX)
115
zione della valle, da qualche anno produce
la pitina in proprio per i suoi clienti.
CONTATTI:
Località Comesta 2/a
Tramonti di Sotto (PN)
cell: 333 406 83 90 oppure 340 119 97 75
info@sottosoprafvg.it
www.sottosoprafvg.it
2.3 Nuovi progetti pastorali
a Clauzetto e sul Monte di Asio
CONTATTI:
Locanda Al Lago
Via Redona 2
Tramonti di Sopra (PN)
tel: 0427 86145
locandalago@redona.it
www.locandalago.it
Michele Crozzoli e la sua pitina
Nella trattoria di Redona, Michele Crozzoli,
convinto di interpretare al meglio la tradi-
L’altopiano ricco d’acqua di Pradis a partire
dal Seicento fu ittamente insediato con decine di borghi di piccola dimensione, legati
per lo più all’allevamento di pecore e capre.
Questa presenza fu in qualche modo organizzata anche in relazione alla produzione di
prodotti facilmente vendibili in pianura. Qui,
come a Tramonti, si sviluppò una produzione storica e organizzata di formaggi teneri
conservati nella salamoia. Questa tradizione
sopravvive nelle due diverse forme di formaggio salato, quella proveniente da un formaggio tipo stracchino e quella che prevede
la salamoia, per un formaggio tenero tipo
latteria. La produzione veniva svolta dalle
diverse famiglie all’interno delle proprie cucine con procedimenti molto empirici.
Tra la ine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento sorsero le prime latterie sociali, che
producevano un nuovo formaggio del tipo
Montasio. Questo cambiò in modo radicale
il rapporto con le risorse, riducendo il pascolo brado e privilegiando l’allevamento in
stalla di vacche che venivano alimentate con
foraggio. La crisi di questa economia dopo
la Seconda Guerra Mondiale portò a un collasso del sistema economico dell’altipiano.
Negli anni Ottanta e Novanta furono tentate delle iniziative di modernizzazione (l’allevamento di ungolati selvatici sul monte Pala,
coltivazioni intensive di patate, l’acqua Pradis), senza riuscire a invertire la crisi delle
produzioni alpine. Oggi su questi altipiani la
ripresa dell’allevamento e di una nuova forma di attività casearia si percepisce come un
elemento di continuità rispetto alla recente
tradizione.
116
Lo studio delle mappe, per la preparazione dell’itinerario di Legambiente, tra storia e territorio
Il gruppo prima della partenza per l’escursione, a
Valeriano
UN PO’ DI STORIA DEL PAESAGGIO
AGRARIO: AGRICOLTURA E ALLEVAMENTO IN VALLATA
Anche a Clauzetto, come a Tramonti, a partire dal XVII secolo ci fu un’importante diaspora insediativa che portò molte famiglie
del paese ad abitare piccole borgate esterne al villaggio medievale. La zona di Pradis
117
vanno letti gli sforzi per togliere Clauzetto
dall’isolamento dotando il capoluogo di una
strada carrozzabile: una «strada da Clauzetto per Castelonovo, costruzione costosissima, di gran lunga superiore alle forze di quei
comuni, e tuttavia assai necessaria, giacché
Clauzetto al pari di Vito d’Asio, manca tutt’ora di strade carrozzabili, che le congiungano
al centro distrettuale»1.
Se in età d’antico regime Clauzetto non viveva la sensazione di essere un luogo periferico, la costruzione di questa strada e di quella
diretta a Pielungo furono mitizzate come
una sorta di soluzione ai problemi di arretramento sociale ed economico della montagna
pordenonese.
Nella Statistica pastorale pubblicata nel
1869, la zona del formaggio asìno era tenuta in particolare considerazione e si può
notare come la presenza di ovini e caprini in
paese fosse già poco rilevante. A Clauzetto
furono individuati 392 animali distribuiti
in 69 famiglie, contro i 2.660 di Tramon-
era stata colonizzata già nel Medioevo con
la costruzione di quel paesaggio di praterie
artiiciali richiamato dal toponimo. Le zone
utilizzate per il pascolo pubblico videro prima la costruzione di un diffuso sistema di
piccole stalle private su modesti lotti ceduti
dal comune e in seguito la deinitiva trasformazione di questi ediici in case d’abitazione
vere e proprie, caratterizzate anche dalla
messa a coltura dei terreni più fertili. Negli
ultimi anni, questo paesaggio si è profondamente alterato lasciando sempre più spazio
a formazioni boschive spontanee. Le attività
umane legate all’agricoltura sono quasi del
tutto scomparse. Oggi invece qualcosa sembra riprendere il senso di una storica tradizione, quella dell’allevamento. Alcuni nuovi
piccoli allevamenti sono sorti in valle e la
riapertura della latteria di Orton a Pradis di
Sopra lascia ben sperare per una conservazione dei paesaggi dell’economia dell’erba.
LA MONTAGNA DIVENTA PERIFERIA
scoli alla transumanza di pecore (1.105) e
alle capre (743). Nel nuovo paesaggio densamente abitato di Pradis, le greggi avrebbero prodotto solo conlitti. Non a caso a
Clauzetto le vacche da latte erano 222 e i
bovini complessivamente 289, concentrati
nelle mani di sole 32 famiglie. Si trattava di
poche famiglie che avevano molti animali,
esattamente il contrario di quello che accadeva nel contermine villaggio di Vito d’Asio,
L’itinerario, indicato in rosso, parte dalle Grotte di Pradis
La latteria di Pradis di Sopra ha riaperto di recente
Oggi si possono vedere di nuovo pecore al pascolo a Pradis
Fino all’Unità d’Italia, la mancanza di strade
di grande trafico non aveva mai posto l’altipiano di Clauzetto in una condizione di crisi.
Anzi, prima della costruzione delle strade
austronapoleoniche tra il 1805 e il 1815, la
montagna, pur essendo un grande rilievo,
era più facilmente transitabile della pianura
perché non soggetta ad alluvioni o a terreni
molli e paludosi. Ora invece, affacciandosi
la modernità, sembrò lontana dai centri del
potere e del commercio. In questo senso
ti di Sopra e i 1.842 di Tramonti di Sotto.
Evidentemente la pastorizia aveva un impianto più legato alla raccolta del foraggio
e all’allevamento in stalla. Solo Vito d’Asio
faceva eccezione perché le dimensioni del
Canale dell’Arzino garantivano ampi paDiscorso pronunciato dal Comm. Avv. Eugenio
Fasciotti, prefetto della Provincia di Udine, nell’aprire
la sessione ordinaria del Consiglio Provinciale, Udine,
1870
1
118
Particolare della Kriegskarte del 1805
119
dove ben 157 famiglie si dividevano un patrimonio di 520 bovini, dei quali 363 vacche da latte. Anche sugli equini il rapporto
tra i due insediamenti era molto diverso, a
Vito d’Asio venivano contati 24 muli, mentre a Clauzetto solo 16. Per quanto riguarda i maiali, si può notare che una maggiore
disponibilità di cibo permetteva di allevare
molti capi in più rispetto a quelli prodotti in
Val Meduna. I suini a Clauzetto erano 43,
distribuiti nei cortili di 36 famiglie, mentre
a Vito d’Asio erano 66 per 55 famiglie2.
Agli inizi del Novecento l’interesse per l’allevamento si esprimeva in un’attenzione particolare per le casere e i caseiici moderni,
ma Clauzetto e Vito d’Asio non erano certo
ricchi di malghe pubbliche. Il primo vantava
Malga Polpazza, sul monte Pala, con un carico di animali sproporzionato per le risorse
foraggere. Nel 1903, per circa 85 giorni, il
pascolo avrebbe ospitato 78 vacche da latte,
25 vitelli o manze, una capra e un maiale per
recuperare produttivamente il siero del latte. Sullo stesso monte, la malga dei Cecconi
detta Pala riusciva a garantire il pascolo a
140 bovini. Le pecore ormai erano del tutto
assenti da questi settori della montagna pordenonese. Il cambiamento nel consumo del
formaggio aveva ormai modiicato in modo
radicale i meccanismi di produzione. Era
comunque ben chiaro come lo spartiacque
culturale nell’approccio all’allevamento dei
bovini e alla produzione del formaggio dividesse i settori di Meduna e Arzino da quelli
della Valcellina: «come per le forme d’uso
dei pascoli alpini, pei sistemi colturali e per
la tecnica del caseiicio, così differiscono le
zone alpestri dei due distretti di Spilimbergo
e Maniago per le varietà d’animali bovini»3.
Questi non avevano un carattere di purezza
della razza per manto e dimostravano come
tale forma di allevamento fosse ancora poco
codiicata anche a livello genetico. In alcuni casi le cronache ricordano come la razza
«Carnico-Bruneck si trova predominante
a Pinzano, Forgaria, Vito d’Asio, Clauzetto,
Castelnovo e Frisanco»4.
Il successo dell’allevamento bovino tra la
ine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento
ci è confermato dal censimento fatto dal Catasto Agrario del 1929, che mostra come a
Clauzetto i bovini fossero ormai 817, i muli
si erano ridotti a 12 unità, mentre i suini
erano aumentati, raggiungendo il numero
di 94, le pecore erano 626 e le capre 156.
Questo censimento degli animali permette
di cogliere l’apice del popolamento umano
e animale a Clauzetto. Proprio nel momento
in cui si fondavano nuovi meccanismi di produzione del cibo (come la latteria di Pradis)
la pressione dell’uomo sulle risorse alpine
aveva raggiunto i livelli maggiori. Le attività
di sfruttamento del suolo ormai occupavano
ogni angolo della vallata, persino i più impervi e dificili.
All’apice della dispersione insediativa, gli
abitanti esterni alla villa medievale di Clauzetto erano superiori a quelli risiedenti nel
villaggio. La polverizzazione della presenza
umana aveva garantito nel capoluogo meno
di un terzo degli abitanti del comune al censimento del 1921 (3.115). A Pradis di Sopra venivano contati 749 abitanti, a Pradis
di Sotto 931 e a Celante, sui versanti argillosi della zona bassa del comune, venivano
censiti 442 individui. A Clauzetto invece se
ne contavano 993. Altrettanto dispersa era
la popolazione di Vito d’Asio, che si sgranava lungo il Canale dell’Arzino. Se cerchiamo di ricostruire le forme di sfruttamento
del suolo a Clauzetto quasi un secolo fa,
scopriamo che il carattere principale era
quello del pascolo. Le terre coltivate non
superavano i 22 ettari, mentre le praterie e
i pascoli ne contavano 1.736. Per rendersi
t. ZAMBelli, Statistica Pastorale, in «Bullettino della
Associazione Agraria Friulana», n.17-18, 1869, 515557
2
Le forme per il formaggio di latteria all’interno del caseiicio
Un secolo fa il paesaggio era dominato da praterie e
pascoli
L’acqua Pradis
Era l’inizio degli anni Novanta quando fu
proposta un’attività del tutto nuova sull’altipiano di Pradis. Fino ad allora i rilievi
della Val d’Arzino erano stati famosi per le
proprietà curative delle acque di Anduins,
mentre vicino a Gerchia un imprenditore
cominciò un’azione per costruire uno stabilimento di imbottigliamento di un’acqua
minerale particolarmente priva di sali minerali. L’acqua, che era sempre stata un elemento importante nel paesaggio della Val
d’Arzino e del Cosa, diventava un bene di
consumo. L’impianto fu costruito a Gerchia
in un punto particolare delle pendici del
monte Taiet, lungo un’erosione della frattura periadriatica.
conto di come il paesaggio fosse completamente diverso da quello attuale basti pensare a come i boschi si limitassero a coprire
duecento ettari nei settori più periferici del
comune, mentre ben 595 ettari non erano
coltivati e 309 risultavano essere del tutto
improduttivi.
Oggi l’aspetto dei territori è del tutto diverso. I coltivi sono praticamente scomparsi e
con loro molte delle varietà tradizionali di
cereali e ortaggi tipici della valle. Il patrimonio biologico degli alberi da frutto è stato
quasi completamente disperso e le praterie
si sono nella maggior parte dei casi trasformate in boscaglie incolte. L’esplorazione del
territorio consente di osservare la radicale
trasformazione paesaggistica e colturale
prodottasi durante gli anni dello spopolamento.
Il formaggio salato e formai del cìt5
Il formaggio salato era diffuso già nel Cinquecento, anche se era prevalentemente
prodotto con latte di pecora e capra. Successivamente, con l’aumento delle vacche,
si pervenne alla produzione di un formaggio
tenero che doveva essere conservato in salamoia. Il formai del cìt, simile al carnico formai frant, è il più recente dei prodotti tipici.
Il cibo di riferimento
Il formaggio di latteria
Il formaggio a pasta dura della tradizione
del Montasio è un formaggio relativamente
4
3
u. sellAn, Lo stato attuale delle stazioni friulane di
monta taurina, in «Bullettino della Associazione Agraria
Friulana», a.52, n.12-13, 1907, 351
d. toniZZo, I pascoli alpini dei distretti di Spilimbergo
e Maniago, in «Bollettino della Associazione Agraria
Friulana», vol. XX, n.4-6, 1903, 152
120
Per una descrizione approfondita di questi prodotti si
veda il capitolo 2.2 sulla Val Tramontina.
5
Il caseiicio dentro la Latteria di Pradis di Sopra
121
chia, si passa a ianco di un riparo sotto roccia,
la grotta dei cacciatori di Marmotte, che migliaia di anni fa era utilizzata dai cacciatori per
scuoiare le loro prede, in questo caso marmotte, che evidentemente vivevano all’interno di un paesaggio di praterie naturali.
Qui si trova lo stabilimento di imbottigliamento dell’acqua di Pradis, che sfrutta una
piccola sorgente alla base di una montagna
un tempo intensamente pascolata. Oggi il
carattere selvaggio del Monte Taiet garantisce la purezza di quest’acqua prelevata direttamente alla sorgente e diretta alla pianura
attraverso un sistema stradale poco adatto ai
carichi pesanti.
Si prosegue verso il cimitero di guerra a Pradis. Qui si contrapposero, nel novembre del
1917, proprio sulla sella di Pradis, le truppe
italiane in ritirata dopo Caporetto e le avanguardie tedesche posizionate sul vertice
della salita. Il paesaggio agrario oggi è profondamente mutato e l’estesa faggeta rende
dificile immaginare la scena dello scontro.
Lungo il percorso, si può visitare il suggestivo
cimitero costruito come una fortezza militare, con torrini angolari, che ospita sia i soldati
italiani, nel registro inferiore, sia i tedeschi, in
quello superiore.
Nella frazione di Orton ci sono due interessanti realtà produttive: la latteria di Pradis e
l’allevamento di pecore sarde gestito dal pastore Ignazio.
recente nel panorama della produzione casearia dell’altipiano. Cominciò a consolidarsi nella pratica solo dopo che fu costruita la
latteria turnaria, ancora oggi perfettamente
conservata. Per produrre questo formaggio
ci volevano le conoscenze tecniche di un
casaro e una strumentazione di caldaie eficiente e ben conservata a Pradis.
Il formaggio pecorino
Da circa cinque anni anche a Clauzetto è ripreso l’allevamento brado delle pecore, grazie a un pastore sardo, Ignazio. La sua esperienza è estremamente interessante perché,
recuperando un capannone abbandonato e
attrezzandolo con un mini caseiicio a Clauzetto si è ripresa la produzione di formaggio
pecorino che in epoca antica era senza dubbio la più popolare. La frugalità degli animali
e le dimensioni ridotte dell’investimento
permettono di garantire una ripresa del pascolo sulle aree abbandonate. Una sorta di
nuova colonizzazione pastorale, almeno per
alcuni piccoli settori di Pradis.
L’ITINERARIO
L’escursione inizia a Pradis di Sotto, dalle
Grotte Verdi. Nella preistoria il paesaggio dei
luoghi era completamente diverso da oggi e il
clima più freddo garantiva in questo settore
un ambiente vegetazionale e faunistico che
oggi è tipico dell’alta montagna. Vicino a Ger-
diventata un punto di riferimento per rintracciare gusti della tradizione casearia, ma
anche invenzioni come il formai del cìt con
pepe e ginepro.
La possibilità di conferire il latte alla piccola latteria ha prodotto delle ricadute locali
estremamente interessanti. Stanno aumentando il numero di capi e quello degli allevatori, così come si cominciano a vedere delle
positive ricadute sul paesaggio, attraverso le
pratiche di sfalcio e di pascolo che oggi sono
più estese che in passato. Questo dimostra
il consolidarsi di una spontanea iliera corta.
L’esterno dello stabilimento dell’acqua Pradis
La Latteria di Pradis di Sopra
(video #6 della serie “Storie di nuova agricoltura” visualizzabile su Youtube: http://bit.
ly/1oBPYFe)
CONTATTI
Via Pradis di Sopra 79
Clauzetto PN
cell: 333 931 47 85 (Narciso Trevisanut) oppure 366 393 20 45 Federico Segatto
latteriapradis@alice.it
Il formaggio conservato nella Latteria di Pradis di Sopra
Il pastore Ignazio
LE PRODUZIONI LOCALI DI CIBO
Il cimitero di guerra a Pradis, dove sono sepolti caduti
italiani e tedeschi della Prima Guerra Mondiale
122
Dalus Srl, lo stabilimento
dell’acqua Pradis
Uno dei due stabilimenti di imbottigliamento dell’acqua in provincia di Pordenone è
quello presente a Pradis e sfrutta una piccola sorgente alla base di una montagna un
tempo intensamente pascolata.
La riapertura della Latteria a Pradis consente anche la
sopravvivenza di piccoli allevamenti bovini nella zona
CONTATTI
Via della Sorgente 7
Clauzetto (PN)
tel: 0427 80375
www.pradis.com
Da meno di un decennio, la latteria di Pradis
ha riaperto i battenti assorbendo nuovamente la piccola produzione di latte dell’altipiano e attirando a sé alcuni altri produttori
locali. In poco tempo la nuova gestione è
Il pastore Ignazio prepara anche la ricotta nel suo piccolo caseiicio
Nella frazione di Orton, un lustro fa, un pastore sardo con l’aiuto dell’amministrazione comunale ha recuperato un capannone
abbandonato per costruire una moderna
attività di allevamento della pecora e trasformazione del latte, producendo un ottimo formaggio pecorino. Grazie al rinato al123
levamento ovino, si conservano alcuni spazi
prativi opponendosi all’avanzata del bosco.
2.4 Il Sanvitese, una terra di acque
(video #7 della serie “Storie di nuova agricoltura” visualizzabile su Youtube: http://bit.
ly/1S25UhS)
CONTATTI
cell: 340 880 93 51
La conservazione e la protezione di una risorsa importante come l’acqua ha prodotto
un importante progetto di forestazione attorno alle prese dell’acquedotto di Torrate.
In pochi anni, quest’ambiente sta cambiando il suo carattere paesaggistico da area di
agricoltura intensiva a selva planiziale, verso un paesaggio tradizionale. La pianura sta
subendo delle trasformazioni nel paesaggio
agrario del tutto opposte a quelle che aveva
subito una cinquantina di anni fa. Se allora
l’espansione del paesaggio del mais e di una
cultura dell’agricoltura gestita dalla iliera
produttiva dei mangimiici e degli allevamenti industriali aveva comportato un’avanzata dei seminativi, oggi vediamo un netto
arresto di questi paesaggi. Nella zona umida
di Torrate, i paesaggi dei boschi e delle risorgive erano entrati in crisi a causa di progressive demolizioni e in seguito alla costruzione
di un paesaggio di boniiche. Se qualche decennio fa l’esperienza di ricostruire un brandello di quel paesaggio era sembrata una coerente risposta ai danni dello scempio, oggi
assistiamo a un progressivo nuovo inittirsi
del paesaggio dei boschi attorno al medievale transito di Torrate. Il bosco umido che si
espande grazie a nuovi impianti e ad abbandoni agricoli ci sembra un’importante cifra
del cambiamento dei paradigmi dell’agricoltura in questa zona. Nel resto del territorio,
quello meridionale, caratterizzato ancora da
parcellizzazioni antiche, il paesaggio sembra
conservarsi nonostante siano evidenti le
espansioni dei vigneti industrializzati e qualche nuova esperienza di reinterpretazione
dell’agricoltura di pianura.
La visita di Legambiente da Ignazio
124
UN PO’ DI STORIA DEL PAESAGGIO
AGRARIO
Un momento di confronto durante l’escursione
La mappa austriaca, la Kriegskarte dell’inizio
dell’Ottocento mostra in modo chiaro quello
che era il paesaggio di antico regime dell’area
di Torrate: un ambiente umido, sottolineato
dagli azzurri e dai verdi intensi. Gli abitati di
Bagnarola, Visignano e Ramuscello erano circondati da aree umide evidenziate in verde.
Un ambiente naturale con il quale in dall’inizio l’uomo si dovette confrontare per colonizzare le ampie superici boscate. L’acqua
poteva però essere una risorsa, anche in
funzione del fatto che, essendo di risorgiva,
aveva temperatura e portata costanti tutto
l’anno. Non è un caso che il processo di erosione delle terre pubbliche nella seconda
metà del Seicento portò alla costruzione di
un’azienda agricola centrata sull’acqua. La
famiglia Curti, dopo il 1664, acquista alcune terre comunali di Savorgnano, una zona
caratterizzata da una potente presenza
d’acqua, per costruire un’originale risaia cen125
trata su un sistema di strade che solcavano
la campagna costruendo un tridente. Al
centro di tale composizione agricola sorse
Braida Curti, l’azienda agricola che faceva
riferimento alla pileria di Sesto al Reghena.
Questa, nell’espansione del riso in pianura
è senza dubbio una delle aziende poste più
a monte della pianura friulana. L’azienda
permetteva di caricare i recinti usando in
modo sapiente le diverse quote dei canali
di risorgiva e interpretando le micromorfologie.
Questi luoghi oggi sono pressoché abbandonati. Il sistema delle rogge è molto itto
e non sempre è possibile trovare dei varchi
per superare le acque. Complesso è anche
vedere le aree di due interessanti stagni
posti poco sotto le Torrate. I laghi Bric e
Bianco sono una proprietà cinta e dificilmente accessibile. Nonostante qui si pratichino attività di tiro al piattello, i valori naturalistici del luogo sono indubitabili, anche
se le forme acquee hanno un impianto seccamente antropico. L’economia dell’acqua
e del riso nel Novecento fu sostituita da
quella dell’erba, come lasciano intendere
le ampie stalle abbandonate a Braida Curti.
Certo è che in epoca recente le aree lontane dai villaggi sono state colonizzate dalle
coltivazioni a macchina.
Oggi la campagna presenta ancora il carattere del particellato storico anche se il paesaggio non ha più un aspetto policolturale.
Dopo la stagione del seminativo industriale, il territorio si sta inittendo di un disegno
di vigne industriali e ilari di alberi da frutto.
Sempre di più il cambiamento lento e quasi impercettibile ci accompagna verso un
nuovo paesaggio agrario.
La moderna costruzione di una villa di famiglia all’interno di ambiti coltivati, seguendo
la moda delle ville venete, portò all’abbandono della residenzialità del castello e al
lento decadimento del recinto murato che
nel 1820 fu quasi completamente demolito, perché usato come cava di prestito
per la costruzione di ediici utili all’azienda
agricola. Ciononostante, quello di Torrate
è un castello che ricostruisce un’immagine
dell’insediamento antico altrove perduta.
I resti del recinto e del fossato, la chiesa
medievale di San Giuliano e le poche case
distribuite in modo irregolare richiamano i
temi della dualità tra fortezza e villaggio. Il
borgo ancora oggi è proprietà della storica
famiglia Sbrojavacca, che da alcuni decenni
sta cercando un dificile recupero del borgo.
Il bosco delle fonti oggi è in fase di progressiva evoluzione e di colonizzazione da parte
della fauna e della lora locale che qui trovano di nuovo rifugio.
La torre dell’Acquedotto del Basso Livenza
Il borgo di Torrate a San Vito al Tagliamento
Una riserva biogenetica: il boscat
Una centralina idroelettrica
140mila abitanti. La torre piezometrica
emerge nel proilo storico della vegetazione del bosco di Torrate contrapponendosi
al landmark della torre medievale. L’ambito
dei pozzi è all’interno di una grande proprietà del Consorzio che per difendere i
ventidue pozzi dalle ricadute negative che
potrebbe dare la tradizionale coltivazione
a seminativi.
Nel 2003 l’Acquedotto ha acquistato tutti i
terreni vicini ai pozzi inibendo così i possibili inquinamenti derivati da pesticidi o concimi. Sono state piantate diverse migliaia di
alberi sugli ottanta ettari che avvolgono i
pozzi di presa e ormai l’ambiente comincia
ad autoregolarsi, aumentando la crescita
spontanea del bosco umido. Un impianto
idroelettrico da 20 KW integra con energia
rinnovabile il fabbisogno di potenza elettrica richiesta dalle pompe di sollevamento
delle acque.
L’acquedotto
Le iniziative per sfruttare l’acqua sorgiva
delle Torrate iniziarono nel 1912 ma solo
nel 1955 fu costituito il Consorzio Acquedotto del Basso Livenza, con sede ad Annone Veneto. Oggi questa fonte rifornisce
un vasto territorio tra le province di Venezia, Pordenone e Treviso, servendo circa
126
L’insediamento medievale di Torrate
Per questo piccolo borgo transitava la vecchia strada che da Motta di Livenza conduceva a San Vito e al guado del Tagliamento.
San Vito nacque come una terra patriarcale,
attrezzata come abitanza per il commercio
e il controllo del guado. La strada però iniva
in questo tratto per inoltrarsi in un territorio di boschi e paludi dificile da attraversare. Lungo l’unica lingua di terreno semi
asciutto si consolidò il transito commerciale
e quindi la necessità di controllare i luoghi
anche attraverso la costruzione di un castello feudale. Il maniero appartenne sempre alla famiglia dei Signori di Sbrojavacca,
vassalli del Patriarca di Aquileia e degli abati
di Sesto. La dimensione della fortiicazione
richiama alla mente un ambiente abitato di
grande dimensione, costruito in età bassomedievale con mattoni, ma possiamo immaginarci attorno e dentro al recinto murato
anche una grande quantità di ediici in legno
adibiti agli usi più disparati. La presenza di
enormi risorse boschive a un prezzo bassissimo permetteva di garantire una tradizione di edilizia in legno oggi ormai sostituita
da quella più resistente, ma comunque ormai in crisi, delle case agricole in muratura.
Il boscat, al conine tra i comuni di San Vito al Tagliamento e Chions
Gli anni Settanta hanno visto in questa zona
il massimo dell’espansione dell’agricoltura industriale nei confronti del paesaggio tradizionale dei boschi e delle praterie umide. Il solo
residuo originale del bosco antico per molti
decenni è rimasto il boscat, che con la nostra
camminata sioreremo. Oggi il proilo di questa struttura boscata comincia a confondersi
con quello potente e rigoglioso delle fonti, ma
senza dubbio in questo settore tradizionale
si conserva la tradizionale memoria biologica
del paesaggio antico.
127
Una dopo l’altra le olle di risorgiva venivano
riempite e spianate per arare anche lo spazio
delle acque. A questa barbarie si contrappo-
carono di salvare lo storico sito del cimitero
ebraico e di ricostruire, per salvaguardarlo,
un brano del paesaggio delle zone umide.
Un pioppeto nei pressi del boscat
L’itinerario, indicato in rosso, inizia nei pressi del bosco delle Torrate
Il Sanvitese è una terra ricca di acque
Il taglio delle siepi ripariali
Il boscat si trova nel comune di San Vito al
Tagliamento, al conine con quello di Chions,
e misura solo sette ettari. Al suo interno, oltre alla quercia gentile e al carpino bianco,
troviamo altri alberi e arbusti come l’acero
campestre, il frassino a foglia stretta, l’olmo
campestre, il ciliegio selvatico, il biancospino, il prugnolo e il nocciolo e molti altri. A
parte la copertura del bosco, l’ambiente è
molto importante per la presenza di un sottobosco che conserva piante di grande valore, che potranno insediarsi spontaneamente
anche all’interno del parco delle fonti: il bucaneve, il giglio martagone e il giglio giallo e
alcune specie di orchidee selvatiche. Il bosco è riconosciuto come un Sito di Interesse
Comunitario (SIC) e le dinamiche in corso
nell’area sembrano poter garantire oltre alla
conservazione anche il potenziamento dei
valori naturalistici in gioco.
Il cimitero degli ebrei
Visitare il cimitero degli ebrei di San Vito
equivale a incontrare uno dei migliori episodi di risposta ambientale alla crisi del paesaggio agricolo degli anni Settanta del secolo scorso.
Quando ormai era chiaro che il paesaggio
agrario storico stava collassando e che il sistema dell’agricoltura intensiva stava sempliicando l’ambiente, alcuni illuminati ambientalisti coordinati da Paolo De Rocco cer128
Particolare della Kriegskarte del 1805
129
Luca Allaria, titolare dell’azienda, racconta la sua esperienza
Il laghetto artiiciale nel cimitero degli ebrei
con il consumatore e un prodotto alternativo a quello della produzione casearia tradizionale. La capra ritorna in questi territori
dopo che per più di un secolo si era stimolato l’allevamento delle vacche all’interno di
aziende famigliari centrate su una attività
policolturale. Qui invece il caprino la fa da
padrone, anche se la dimensione della produzione è contenuta e locale, centrata sulla
vendita a chilometro zero. Si tratta di una
delle poche nuove esperienze di costruzione di una iliera completa all’interno dell’orizzonte della stessa azienda
Visita alla quercia secolare
L’ingresso al cimitero degli ebrei
Chions, dove sta rinascendo un paesaggio
di selva planiziale. Si visita poi un ambiente,
quello del cimitero degli ebrei, costruito alcune decine di anni fa con l’intento di restauro
paesaggistico delle olle di risorgiva. Si tratta
di un community garden gestito dai volontari
dell’associazione del Cimitero degli ebrei e
del Bosco della Man di Ferro, e soggetto a un
suo speciale processo evolutivo.
Da qui si siora la settecentesca azienda agricola di Braida Curti, un tempo al centro di un
sistema di prati umidi e di risaie oggi scomparse. Si attraversa poi un tratto di campagna ancora ben conservata, per raggiungere
Ramuscello, patria della moderna agricoltura
friulana da quando Gherardo Freschi iniziò a
stampare uno dei giornali di agricoltura più
importanti d’Italia: l’Amico del Contadino, nel
1842. L’escursione termina proprio di fronte
alla villa di Gherardo Freschi di Ramuscello,
che fu la fucina di un movimento di rinnovamento dell’agricoltura italiana.
La visita del gruppo di Legambiente nel cimitero degli
ebrei, un quadrilatero circondato da una siepe
se l’intelligenza di un progetto che partiva
dal recupero di uno spazio simbolico, il sedime del cimitero degli ebrei abbandonato e
distrutto alla ine del Settecento, ma che era
ancora riconoscibile in un prato circondato
da una spessa siepe di noccioli, ciliegi e olmi
con al centro un grande ciliegio. All’esterno
di questo campo si trova il sistema di risorgive della roggia Vignela.
Il progetto ha portato alla costruzione di un
boschetto contornante un’ampia area umida interna che negli intenti di De Rocco e di
WWF e LIPU voleva essere zona di protezione anche per gli uccelli di passo.
L’ITINERARIO
Il percorso parte dalle prese dell’acquedotto “Acque del basso Livenza” di Torrate di
130
LE PRODUZIONI LOCALI DI CIBO
Azienda agricola Fabee
(video #8 della serie “Storie di nuova agricoltura” visualizzabile su Youtube: http://bit.
ly/207iZq8)
CONTATTI
Via Fontane 8 (località Bagnarola)
Sesto al Reghena (PN)
tel: 0434 688609 oppure 335 356 352
luca.allaria@alice.it
Il caseiicio Venchiaredo SPA
Potremmo dire che questa esperienza casearia è molto diversa da quella tradizionale e
presenta aspetti di unicità nel panorama del
Friuli Occidentale. Il caseiicio nato con l’omonima cooperativa nel 1968 non era molto
diverso da altre latterie che concentravano
la loro produzione sul formaggio stagionato
tipo Montasio. Successivamente si decise di
La visita presso l’azienda durante l’escursione di Legambiente
Anche a Sesto al Reghena sono nate nuove
esperienze di agricoltura che promuovono
iliere corte locali. L’azienda agricola Fabee
alleva capre e dispone di un suo piccolo caseiicio e di uno spaccio aziendale. In questo
modo viene garantito un rapporto stretto
131
specializzare l’azienda nella produzione di
formaggi a pasta molle, per lo più stracchino
e crescenza, ampliando l’area di conferimento del latte. Il successo di questa strategia e
un rapporto stretto con la grande distribuzione ha sviluppato dei valori di produzione
incredibili: trenta milioni di litri di latte lavorato, con la produzione di 5,5 milioni di chili
di stracchino e un fatturato al 2014 di 42 milioni di euro. Parte di questo prodotto viene
venduto all’estero ma fornisce una ricaduta
positiva sulle aziende locali. Anche se que-
ste modalità di produzione tendono a consolidare le forme della produzione agricola e
degli allevamenti industriali è pur vero che il
Venchiaredo è un’esperienza unica e importante in Friuli Venezia Giulia.
CONTATTI
Via Ippolito Nievo 31 (Frazione Ramuscello)
Sesto al Reghena (PN)
tel: 0434 690339 fax: 0434 690936
info@venchiaredo.com
www.venchiaredo.eu
2.5 Pinzano e Castelnovo:
complessità ecologiche e colturali
tra pianura e collina
Pinzano al Tagliamento e Castelnovo del
Friuli: quest’area, pur relativamente piccola,
ha la speciicità di essere un unicum all’interno dei sistemi insediativi friulani. Il carattere
delle colline di argilla e conglomerati alternati con il tempo ha creato un paesaggio, soprattutto a Castelnovo, in cui le attività colturali si sono dovute adattare a un ambiente
geologico fragile. Al contrario, gli insediamenti di Valeriano e Pinzano, ponendosi ai
piedi delle colline, si sono organizzati come i
villaggi dell’alta pianura, disegnando un particellare medievale itto e diviso per regioni
agrarie, comunque pianiicato.
UN PO’ DI STORIA DEL PAESAGGIO
AGRARIO
Pinzano e Valeriano sfruttavano le colline
per organizzare un sistema di prati attrezzati con coltivazioni di frutta e piccole stalle
raggiungibili anche dai bovini di piccola ta-
Il paesaggio da Pinzano verso Valeriano
132
133
La valle del Tagliamento
zare del bosco e delle superici selvatiche
negli ultimi anni ha prodotto un progressivo
miglioramento dello stato dei versanti collinari, ma dobbiamo immaginarci l’impatto
che provocava l’opposta operazione, quella
della colonizzazione medievale.
Disboscare un versante imponeva immediatamente l’urgenza di controllare i fenomeni dovuti al dilavamento se non già quelli
delle frane e degli smottamenti. Su questi
versanti, anche solo l’azione di zappare il
suolo poteva modiicare a tal punto l’azione
dell’acqua piovana da provocare distacchi e
scivolamenti.
L’erosione e l’instabilità geologica costrinse
gli abitanti di Castelnovo a privilegiare un
insediamento di vertice attrezzando i diversi dossi con frazionamenti proprietari che
seguivano le massime pendenze e sconsigliando allo stesso tempo qualsiasi forma di
terrazzamento che non fosse fatto sulle più
solide arenarie. In modo non diverso, il senso dei luoghi sviluppato dagli abitatori pro-
glia. Le valli, fortemente incise dagli afluenti
del Cosa e del Pontaiba, erano spazi di insediamenti temporanei ino a che non nacquero in periodo post medievale gli abitati di
Manazzons, Colle, Cosabeorchia, ecc. Questi ultimi interpretavano la specialità dei settori più lontani dai villaggi di impianto basso
medievale e organizzati per regioni agrarie.
Nelle nuove borgate l’adesione dell’insediamento alle caratteristiche peculiari del
rilievo e alla sua geologia è rilevante, mostra
una capacità minore di astrazione scientiica e una maggiore conoscenza dei luoghi. A
Castelnovo, invece, in dall’epoca medievale
si dovette fare i conti con la necessità di costruire delle aziende agricole in settori geologicamente instabili.
Insediamenti su terre instabili
È impossibile comprendere le forme dell’abitare a Castelnovo se non si hanno ben chiare le modalità e i pericoli di questa erosione,
che oggi ci sembra meno pericolosa. L’avan134
dusse un itto reticolo viario che percorreva
per lo più i vertici dei dossi argillosi sui quali
sorsero le varie borgate del paese. La cima
dei dossi era senza dubbio il punto più stabile, mentre gli abitati posti lungo il versante si
rintracciano soprattutto in occasione di afioramenti di arenarie e quindi sui settori “duri”
del territorio.
Questa speciicità della struttura territoriale
di Castelnovo del Friuli ha portato a uno speciale assetto del popolamento, tanto diffuso
e policentrico da non presentare una vera gerarchia di luoghi e funzioni, se solo escludiamo il castello. Persino l’organizzazione degli
organi dell’originario consiglio di comunità
furono modellati sui “brichi di volta” come
una sorta di disaggregato dell’originaria vicinia, la comunità medievale di vicinato, o di
dimensione frazionale.
Durante le prime fasi della colonizzazione
basso medievale le case erano per lo più costituite da una sola ampia stanza, coperta con
un tetto a spioventi rivestito in paglia. Questo
tipo di copertura era ancora molto diffuso
all’inizio dell’Ottocento, ma ci è facile credere
che in un tempo antico anche tutte le strutture e i tamponamenti delle residenze fossero
per lo più costruite in legno.
Non solo questo materiale era diffuso ma, soprattutto, tutti lo sapevano utilizzare. Gli ediici tradizionali che oggi conosciamo, ediicati
con murature in pietra e avancorpo porticato
in legno, appartengono a una tradizione tarda e alla riconquista delle tecniche legate alla
calce e all’arte muraria.
In età medievale è probabile che solo il castello, e nemmeno per intero, fosse stato ediicato in pietra squadrata posata con competenza da parte di maestranze che seguivano le
grandi commesse signorili. I contadini locali,
invece, impararono a riconoscere per tentativi ed errori i luoghi più stabili dei loro terreni,
i luoghi sui quali solo a partire dal XVI secolo
sorsero quelle abitazioni in muratura e legno
che oggi consideriamo tradizionali.
L’impressione che si ha nella lettura degli atti
di compravendita di terreni ed ediici è quella
di un ambiente agricolo molto articolato dal
punto di vista spaziale e caratterizzato da una
policoltura che vedeva negli alberi da frutto
la maggiore risorsa produttiva. La fragilità
geologica dei versanti argillosi rendeva necessario difendere il suolo con una copertura
erbacea continua, qualora i terreni fossero in
pendenza. Per di più la presenza di alberi produttivi permetteva di mitigare la forza della
pioggia e garantiva una maggiore stabilità del
suolo irrobustito dall’apparato radicale delle
piante. In sostanza, il prato alberato era l’elemento distintivo del paesaggio agrario di Castelnovo sia che si trattasse di insediamenti
temporanei che permanenti.
Per comprendere meglio la complessità arborea delle proprietà userò come esempio il
censimento delle piante riconosciute da un
perito nel bearzo, ovvero l’orto cinto, di Gio
Batta di Bertolo, in località Forchia, nel 1776:
«arbori con vide da frutto n. 141, simili piccole senza frutto n. 50, viti vedove da frutto
n. 13, peraro grande da frutto con vite n. 1,
simile incalmato da anni tre circa n. 1, simili
senza incalmo n. 2 mellari grandi da frutto n.
1 gioveni da frutto ordenari n. 5, altri di poco
frutto n. 1, incalmati da anni due circa n. 2 e
senza incalmo n. 9. Nogaretto di poco frutto
n. 1, morari di frutto grandi n. 1, e di primo
frutto n. 1, talponi con cima e viti a capellaro
n. 2, talponi con cima piccoli nel basso di detto
bearzo n. 3, salici domestici di poco frutto n.
14, simili piccolini senza frutto n. 26, igaretto
n. 2, persegari n. 2»1.
La vigna sorretta da pali, estesa e in rinnovamento, era il cuore di quella azienda agricola
ma la presenza di un numero consistente di
alberi da frutto mostra con evidenza come
queste piante fossero un determinante integratore alimentare per le famiglie di agricoltori. Un discorso a parte meritano i pioppi (talponi) che qui vengono ricordati per la
“cima” e per essere posti nelle zone più basse
del lotto. Evidentemente si trattava di piante
che annualmente venivano capitozzate per
fornire della foglia alle pecore, tanto che in
1
135
ASPn, 12 dicembre 1776
zato con delle piccole stalle che garantivano
la stabulazione invernale degli animali che restituivano alla terra l’indispensabile letame.
In questo senso vanno interpretati i piccoli
ediici che i notai censivano nelle proprietà:
«un pezzo di bearzo con un sedime costrutto
di muro discoperto piantado di vidi et arbori
(…) una stanza costrutta di muro, coperta di
paglia in loco d.to Paludea».
All’interno dei singoli bearzi, solo in occasione di tratti caratterizzati da scarsa pendenza
si poteva provare a zappare, rompendo la
continuità del prato. I Magrino, per esempio,
vantavano «un pezzetto di terra vocato la ciccola, osia peccolitto bearzivo con zappativo in
alto, e con altro zappativo nel piano», mentre
lungo il versante il prato rallentava l’acqua e
l’erosione. Nei pressi, dove le incisioni e i pericoli di smottamento si facevano più concreti,
la famiglia manteneva una «terra boschiva»,
forse a ceduo, caratterizzata da un «castegnaro grande».
Sporadiche informazioni ci ricordano che i
bearzi coltivati dovevano essere difesi da recinti alcune volte «vivi».
Erano decisamente minori i recinti costruiti
in muratura: «sassi sulla strada in alto, che
servono per chiusura, carghe da uomo n. 12
ed alquanti sterpetti nudi d’Aunaro nel Basso». Solo in particolari condizioni di stabilità
del versante i muri di recinzione non sarebbero franati a valle, rendendo inutile il lavoro
per la marginatura.
Oggi gran parte dei segni della colonizzazione antica sono occultati dal bosco ma, a ben
guardare qualcosa ancora si riconosce del
vecchio sistema abitativo.
La foto catastale mostra con eficacia il rapporto che
intercorreva tra i compluvi evidenziati dai corsi d’acqua in azzurro e le strade sul vertice del colle, dove si
concentravano gli ediici.
un caso evidentemente tanto anomalo da diventare oggetto di osservazione, l’albero era
maritato con la vite. Diverso ancora è il ragionamento che possiamo fare sulla consistente
quantità di salici registrata dal perito e che
non si può giustiicare solo con la necessità
di garantirsi suficiente materiale per legare
le viti.
Non è da escludere che il salice fosse usato
allora, come anche oggi, negli interventi di
bioingegneria, per consolidare margini erosi
da rivoli e acque, sfruttando il suo straordinario apparato radicale.
L’elemento determinate di questo paesaggio
era la coltivazione della vite maritata con pali
e distribuita lungo i versanti assolati. Il suolo
così fragile ma fertile permetteva di avere
uno sfruttamento intensivo e un’attività molto remunerativa, nonostante i piccoli lotti e la
progressiva tendenza al loro frazionamento.
Ogni prato alberato e vigna produceva ieno
per il periodo invernale e spesso era attrez-
IL CIBO DI RIFERIMENTO
La cipolla rosa della Val Cosa
La cipolla della Val del Cosa è stata sottoposta a un’importante azione di valorizzazione,
coronata dal fatto che è diventata un presidio Slow Food. Si tratta di una variante locale
ormai coltivata in modo massiccio da alcuni
agricoltori che provvedono anche alla tra136
sformazione del prodotto conservandolo in
vaso. La cipolla rosa, in in dei conti non particolarmente dificile da coltivare, ha ancora
ampissima possibilità di ricolonizzare gli spazi
abbandonati dell’agricoltura, garantendo un
reddito suficiente.
Tartufo
Il prezioso tartufo non è un prodotto tipico di questa zona, ma come sta accadendo
anche altrove lungo la pedemontana, alcuni
appassionati stanno cercando di introdurlo
nel territorio nelle boscaglie incolte, dove
però il cinghiale la fa ancora da padrone.
Cavolo broccolo di Castelnovo
Il cavolo broccolo è una brassicacea a ciclo
biennale alta circa 70 cm. Della pianta si mangiano le foglie più giovani, dopo la lessatura.
La semina viene effettuata in giugno/luglio,
mentre il trapianto avviene tra ine luglio e i
primi giorni di agosto; la raccolta inizia generalmente a ine novembre, inizi di dicembre,
dopo i primi geli, e può protrarsi ino ai primi
mesi dell’anno successivo.
Miele
Senza dubbio l’apicoltura un tempo era maggiormente praticata nel territorio delle colline prative e ricche di ioriture campestri.
Oggi l’attività è residuale ma una ripresa del
paesaggio coltivato, anche in sinergia con
l’espansione di vigne e frutteti, potrebbe
portare a consolidare le esperienze presenti
sul territorio.
Ortaggi
Gli orti tra Pinzano e Castelnovo sono ancora
una banca di specie e varianti orticole poco
indagate e valorizzate. Solo negli ultimi anni,
grazie all’associazione Le Rivendicules, si è
acceso un rilettore di attenzioni per la biodiversità degli orti.
Vini autoctoni
Frutta
Le colline di Pinzano e Castelnovo erano famosissime per la frutta che quotidianamente
riuscivano a far arrivare sui mercati tradizionali delle cittadine della pianura (Spilimbergo
e San Daniele in primis).
Il bosco ha invaso molti degli spazi della frutticoltura, ma come vedremo recentemente a
Costabeorchia si è registrato un tentativo di
ricolonizzare i versanti stabili e assolati con le
coltivazioni delle mele e non mancano gli olivi.
Una delle vigne di Emilio Bulfon
Dopo un quarto di secolo di sperimentazioni, la zona di Pinzano e Castelnovo è
diventata un concentrato di alternativa
alla produzione di vini pedecollinari tradizionali.
Vitigni antichi come l’ucelùt, il picolìt neri,
il scjaglìn, il forgiarìn, il cjanoros, e altri non
riconosciuti, che non possono essere commercializzati con il loro nome, sono oggi
coltivati e vinificati con modalità moderne.
Questa straordinaria esperienza di ricerca e di reinterpretazione della tradizione
rischia oggi più di ieri il confronto con la
diffusione del prosecco.
Castagne
I versanti a nord delle colline, e anche qualche
area particolarmente stabile a sud, un tempo
erano coltivate a prato alberato con castagni.
Questi ultimi permettevano di integrare la
magra produzione dei farinacei con la farina
di castagne. Oggi molti castagneti si sono inselvatichiti e la produzione non è governata,
ma avrebbe una buona possibilità di riprendersi.
137
pavimentata, si raggiunge la località daur
la Mont e, tramite un sentiero, il borgo di
Oltrerugo. Da qui si arriva a Vigna, sovrastata dal Castello dove ora sorge la chiesa
di San Nicolò.
L’ITINERARIO
LE PRODUZIONI LOCALI DI CIBO
Salumi Ceconi
Mauro Ceconi cinque anni fa ha deciso di
riconvertire la sua azienda costruendo una
piccola iliera corta centrata sulla produzione di salumi tradizionali. In sostanza ha
deciso di allevare all’aperto un numero consistente di animali e di macellarne circa due
al mese vendendo il prodotto nello spaccio
costruito a ianco dell’abitazione. Il prodotto
ha una distribuzione per lo più locale e l’azienda agricola produce il cibo per la propria
attività senza essere strozzata dal mercato
delle granaglie.
Il gruppo durante l’escursione di Legambiente
L’itinerario, indicato in rosso, parte dal centro di Valeriano per raggiungere Vigna
CONTATTI
Via Roma 105 - Valeriano
Pinzano al Tagliamento
tel. 0432 950703
oppure 338 548 19 56
mauro.ceconi@gmail.com
Una pergola di vite lungo la pista ciclabile Maniago-Pinzano
Particolare della Kriegskarte del 1805
continuano in parte a produrre il formaggio salato, maturato in salamoia. Va però
registrato il fatto che pochi anni fa è stato
realizzato a Pinzano uno dei nuovi allevamenti di capre presenti in regione, che ha
sfruttato la possibilità di gestire una iliera
corta producendo in proprio un formaggio
di pura capra grazie a un microcaseiicio.
Formaggi della Val Cosa
A Pinzano e a Castelnovo si allevavano prevalentemente bovini, mentre alle pecore
erano lasciati i prati aridi del Tagliamento.
Si produceva quindi un formaggio fresco
per lo più misto.
Oggi gli animali allevati sono pochissimi e il
latte viene conferito alle vicine latterie, che
138
Agriturismo Antica Dimora
e fattoria didattica Il Girasole
È un’azienda agrituristica a conduzione familiare con indirizzo multifunzionale. Segue il metodo di produzione biologico: parte dei terreni aziendali ricadono
in Area SIC Natura 2000 - sito di interesse comunitario greto del Tagliamento.
L’agriturismo è nel centro storico di Valeriano, in una tipica casa friulana dei secoli passati con corte interna. Gli alloggi dell’agriturismo sono stati ristrutturati nel rispetto
delle caratteristiche architettoniche locali
ed arredati con mobili d’epoca ottocentesca.
La fattoria propone le proprie attività didattiche, culturali e ludiche a scuole, gruppi,
famiglie ed enti pubblici per progetti di riabilitazione rivolti ad adulti o minori con disagio
La partenza è dal centro di Valeriano. Si
percorre la via principale, via Roma, in direzione di Pinzano, imboccando per un
tratto la pista ciclabile, ino alla chiesetta
della Santissima Trinità. Dopo aver percorso un breve margine dei rilievi che sovrastano l’area golenale del Tagliamento,
ci si dirige verso l’abitato di Pinzano, percorrendo la via principale verso ovest (via
XX settembre) e ci si addentra, prima della
zona artigianale, nel sentiero che penetra
nelle vallecole delle colline mioceniche
retrostanti l’abitato di Pinzano. Giunti alla
località Samontan ci si dirige verso Molimes e poi Costabeorchia, splendido balcone sull’alta pianura. Da qui, aggirando il
colle di Molimes, percorrendo la viabilità
139
psichico o isico lieve o a persone emarginate a rischio di solitudine.
CONTATTI
Via Roma 87 - Valeriano
Pinzano al Tagliamento
agriturismo@ValerianoAnticaDimora.it
tel: 0432 950782 oppure 333 385 75 66
www.valerianoanticadimora.it
www.fattoriadidatticailgirasole.it
Azienda agricola Candon Isolina
L’azienda agricola dei Candon si caratterizza per aver investito la propria convinzione
imprenditoriale nella produzione di cipolla
rosa della Val del Cosa.
La cantina di Emilio Bulfon
particolari. Oggi l’azienda ha differenziato
la sua produzione con marmellate, la coltivazione della cipolla e l’ospitalità. Nonostante
le dificoltà di espansione dei vitigni in aree
a forte frazionamento, le superici coltivate
stanno aumentando come pure il prodotto e
la vendita all’estero. Siamo quindi in presenza di un prodotto glocal.
CONTATTI
Via C.Battisti 23 - Valeriano
Pinzano al Tagliamento (PN)
tel: 0432 950190 cell: 348 152 66 73
I vini di Emilio Bulfon
CONTATTI
Via Roma 4 - Valeriano
Pinzano al Tagliamento (PN)
tel: 0432 950 061
fax: 0432 950 921
bulfon@bulfon.it
www.bulfon.it
L’azienda agricola Capramica
La visita presso la cantina di Emilio Bulfon a Valeriano
I Bulfon sono stati tra i primi a tentare l’esperienza di riscoprire alcuni vitigni autoctoni nel momento in cui negli anni Ottanta
ci si stava indirizzando verso una sempre più
massiccia diffusione dei classici cabernet,
tocai, ecc. La riscoperta di uve tradizionali
si è mossa parallelamente alla consapevole
condivisione di tecniche di produzione moderne, che hanno portato a risultati molto
L’allevamento di capre di Capramica
140
Capramica è un’azienda che da pochi anni si
è inserita nel complesso ambiente produttivo di Pinzano al Tagliamento, introducendo
un elemento di assoluta novità, l’allevamento delle capre. Nell’anagrafe del 1767 fatta
dalla Repubblica Veneziana a Pinzano non
c’era nemmeno una capra, mentre ora è
senza dubbio l’animale domestico di grande
taglia più numeroso. L’azienda ha introdotto un ciclo produttivo corto che si chiude
all’interno del proprio spaccio ed è un altro
interessante esperimento di questa nuova
stagione di allevatori stanziali. Tra i prodotti
rintracciamo caciotte fresche e stagionate al
naturale/alle erbe/affumicate; pasta fresca
spalmabile naturale/alle erbe; tomino; ricotta al naturale/affumicata e yogurt.
cell: 347 454 58 46
tartufai@gmail.com
www.tartufai.net
Il Borgo delle mele
CONTATTI
Via Roma 26
Pinzano al Tagliamento (PN)
tel: 0432 950 443
fax: 0432 950443
cell: 338 546 34 00
web@capramica.it
www.unpostoatavola.it/pinzano-al-tagliamento/capramica.html
La visita al frutteto di Borgo delle mele, a Costabeorchia
A Costabeorchia Christian Siega e sua moglie Serena hanno creato un’azienda innovativa partendo dal recupero della tradizionale frutticoltura delle colline e proponendo
invece una trasformazione del prodotto del
tutto innovativa. A ianco delle tradizionali
marmellate di mele antiche, l’azienda produce anche composte con mele e cipolla
della Val Cosa, succhi di frutta e frutta disidratata. La produzione si sta espandendo
e si confronta con un ambiente in cui la boscaglia diventa sempre più invadente.
La tartufaia di Pinzano: Azienda agricola
Tartufai
Da qualche anno l’azienda Tartufai di San
Daniele del Friuli ha introdotto il tartufo a
Pinzano, mentre un secondo esperimento è
attivo poco a sud del paese a cura di un altro
imprenditore non originario del villaggio. Si
tratta di un’esperienza nuova, che pone
all’attenzione un prodotto, il tartufo, con un
grande valore aggiunto, che può essere coltivato anche su piccole porzioni di terreno in
parte alberate ad arte. In un territorio come
quello di Pinzano, dove si sono perse molte
superici coltivate, la produzione del tartufo
friulano potrebbe assumere un valore più
rilevante.
(video #4 della serie “Storie di nuova agricoltura” visualizzabile su Youtube: http://
bit.ly/207gS5A)
CONTATTI
Località Costa Beorchia 19/a
Pinzano al Tagliamento (PN)
cell: 339 429 98 67
info@borgodellemele.it
www.borgodellemele.it
Le Rivendicules
Quella dell’associazione Le Rivendicules
è una delle eperienze più interessanti di
CONTATTI
Via Sopracastello, 84
San Daniele del Friuli (UD)
141
riscoperta e promozione attiva delle pratiche di coltivazione e alimentazione tradizionali. È una sorta di osservatorio sulla
pratica orticola in quel territorio particolare che è Castelnovo. L’idea è di valorizzare
le colture e le specie locali promuovendo la
conservazione dei semi tipici e la loro diffusione negli orti. L’aver dato attenzione agli
orti, con la loro complessità biologica, ha
tolto dall’anonimato una serie di pratiche
che un domani potrebbero essere riprese e
ampliate anche al di là dell’incredibile successo della cipolla della Val del Cosa. L’annuale escursione Ator par Orts è una delle
iniziative più intelligenti proposte in provincia nell’ultimo lustro.
info@cipollarosadellavalcosa.it
www.cipollarosadellavalcosa.it
2.6 Le paludi del Sile:
Panigai e Azzanello
Il formaggio salato e i vini della trattoria
Vigna
Sotto al maniero di Castelnovo, nella tradizionale trattoria Vigna si possono assaggiare alcuni prodotti particolari, come il frico
di formaggio (senza patate) con le noci, il
formaggio salato con la salamoia di casa, la
cipolla rosa, la zuppa con gli ortaggi dell’orto, l’ottimo piculit neri della casa. Un’occasione di incontrare i cibi delle colline del
Friuli Occidentale.
La bassa del Friuli Occidentale è caratterizzata da una diffusa industrializzazione contemporanea ma da sempre nei settori della
pianura umida si trovano paesaggi piuttosto
omogenei e contrapposti: quelli dei terrazzi ben drenati e coltivati in modo intensivo
e quelli delle aree umide e basse, tenuti a
prato stabile. In questo ambiente c’erano tre
piccoli feudi: Panigai, Frattina e Salvarolo.
Queste zone di antico disegno, caratterizzate da uno storico insediamento diffuso,
hanno visto consolidarsi alcuni centri con
carattere anche industriale (Chions e Pramaggiore) e un sistema di agricoltura intensiva legata alla vigna nei territori più asciutti.
CONTATTI
Trattoria Vigna
Borgo Vigna 3
Castelnovo del Friuli (PN)
tel: 0427-90182
colledani.mirella@tiscali.it
CONTATTI
c/o Giannino Cozzi
Località Vigna 29
Castelnovo del Friuli (PN)
cell: 340 582 01 33
La lettura del territorio avviene anche attraverso il
confronto con le mappe storiche
Il Sile che nasce nella zona di Casarsa, da non confondere con quello che passa per Treviso
142
143
Le ampie golene del Fiume e del Sile si contrappongono alle piane strutturate dall’agricoltura del vino di Pravisdomini e Pramaggiore. In questi ambienti ricchi di contrasto
si sta cercando di costruire esperienze
evolutive legate a un senso sociale dell’agri-
coltura. Questa è una delle zone meno conosciute della provincia di Pordenone. Una
zona umida, come mostra l’immagine della
Kriegskarte del 1805. Un ambito depresso,
occupato da un piccolo corso d’acqua, il Sile,
da non confondere con quello più famoso,
L’itinerario ad anello, indicato in rosso, inizia e termina a Panigai
Un canale che porta al Sile, a Panigai
che attraversa Treviso. Il Sile che nasce nella zona di Casarsa ha un alveo dotato di una
straordinaria golena che ogni tanto si riempie dell’acqua delle piene, per la dificoltà di
conluire nel iume Fiume e nella Livenza.
La fragilità idrograica è uno dei pochi motivi
per cui questa zona della bassa pordenonese ottiene le attenzioni della cronaca. In realtà quest’ambito di territorio presenta due
interessanti casi di nuova agricoltura, con la
presenza di due aziende che sono anche fattorie didattiche. Due esperienze importanti,
per quello che ci interessa, ma che si sommano ai temi dello sviluppo dell’agricoltura
prossima a venire, che qui non potrà avere
che delle trasformazioni paesaggistiche positive. Un altro motivo importante per non
mancare questa esplorazione di “luoghi
ignoti” è senza dubbio la visita al bellissimo
borgo di Panigai, l’antica sede castellana
Particolare della Kriegskarte del 1805
144
dell’omonima famiglia che su questi territori, coltivati per lo più a prato, aveva costruito
in dal Medioevo un’azienda per la produzione di animali da carne. Il castello ancora
oggi, sopra un dosso sul sistema delle acque,
sembra guardare le basse e brumose golene
del Sile.
UN PO’ DI STORIA DEL PAESAGGIO
AGRARIO
Come mostra bene la Kriegskarte, le aree
coltivate di Panigai erano poste sopra i dossi
segnati dalle depressioni della palude alberata. Nei terreni asciutti si coltivavano la vite
e i cereali mentre le aree basse garantivano
diversi tagli all’anno di foraggio. Non a caso
nell’anagrafe veneziana del 1766 tra Chions
e Panigai venivano registrati 439 vacche
145
contro le 115 pecore. Evidentemente i latticini erano a preponderante base vaccina
e molte delle vacche erano allevate per la
produzione della carne da indirizzare verso
i mercati veneziani. I signori Panigai erano
molto legati economicamente alla Serenissima e uno di loro fu anche un importante
armatore navale.
Non c’è quindi da stupirsi se, anziché trovare
sul dosso argilloso un vetusto maniero friulano, si incontra invece un palazzo veneziano in forma di villa. Il palazzo non ha il senso
degli impianti campestri e si è adattato alla
dimensione di un settore del vecchio recinto
murato, proponendosi come un palazzo in
linea delle rive dei canali veneziani. Solo che
qui non ci sono altri palazzi a stringerlo sui
lati e il canale non è lagunare ma è il placido Sile poco più in basso. Il palazzo guarda
dall’alto una piana un tempo prativa, oggi
invasa dai pioppeti, ma le morfologie sono
ancora facilmente riconoscibili. La riforma
delle strutture dei signori di Panigai corrisponde alla ine del Settecento e a un perio-
Un ponte sul Sile
do particolarmente felice per la famiglia, che
incaricò dell’opera l’architetto scenografo
Pietro Checchia, famoso per essere stato il
progettista dei teatri di San Beneto e San
Luca, l’attuale Goldoni, a Venezia. L’ediicio
progettato era più alto e massivo, assolutamente sproporzionato per il luogo e il
palazzo attuale è il frutto di una riduzione
che garantisce meglio l’inserimento della
dimora di Girolamo di Panigai nel piccolo
Particolare della carta del 1868
borgo. L’ingresso principale al pianterreno, decorato da un portale a bugnato, ha in
corrispondenza, al piano nobile, una trifora
con poggiolo balaustrato. Oggi il palazzo è
ancora una delle più belle residenze nobiliari del Friuli Occidentale.
La carta del 1868 mostra chiaramente
come l’ambiente non fosse mutato dalla
lettura cartograica precedente. Il Sile viene descritto come un iume a scarsissima
pendenza e quindi ricco di meandri e tutto
l’ambito golenale viene colorato in verde
per evidenziare le golene che annualmente venivano invase dalle piene. Solo alcune
strade scendevano da Azzanello nelle terre
basse per colonizzare il terrazzo argilloso
che oggi si trova sulla sinistra idrograica
del Sile. Infatti, la grande trasformazione
di questi territori corrispose con la realizzazione di un canale artiiciale che isolò,
grazie alla realizzazione di una grande strada argine, tutta la vastissima area golenale
che toccava Mure di Meduna, nel frattem-
La chiesa di Azzanello
146
po annessa al Veneto. Il Consorzio idraulico del Fiume Sile di Pravisdomini era stato
istituito nel 1879, ma ci vollero decenni per
completare il programma. Queste opere
idrauliche ridussero gli spazi d’espansione
del iume e resero più alte le piene. Le opere realizzate negli anni Trenta volevano aumentare le superici coltivabili realizzando,
dopo la conluenza con il Fiume, il canale
Malgher. In realtà i terreni sono comunque
molto umidi e le opere di privatizzazione
della golena non hanno garantito grandi
introiti agli abitanti di Barco e di Azzanello. Barco era un insediamento rivierasco
e l’argine cercò di difenderlo dalle piene,
Azzanello invece era sorto su un dosso alto
come quello di Panigai e viveva una certa
sicurezza idraulica.
In alcune speciali situazioni, la piana golenale diventa una sorta di grande lago ed è
un vero spettacolo della natura, se si considera che sono acque non irruente perché
147
di diventano speciali, soprattutto se si ha la
fortuna di cogliere l’umidità e le nebbie di
stagione, che danno un aspetto romantico
alle antiche paludi, insieme alla brina che
rende il paesaggio del Sile uno spazio fatato.
Il percorso inizia nel centro di Panigai, frazione di Pravisdomini. Si osservino il borgo castellano e le stalle abbandonate, che
ricordano la vecchia tradizione agricola,
quella dell’allevamento non brado delle boarie dei signori di Panigai.
Si scende poi verso la golena del iume: dal
parcheggio e dal ponte sotto il castello si
può cercare di comprenderla e di immaginare la sua storia, mentre oggi è invasa da
pioppi, che riducono la percezione delle
distanze dai ripiani alti di Azzanello. Si raggiunge Barco, per salire sopra l’argine che
difende il terrazzo insediato.
Qui l’argine è una sorta di collina e permette di dominare il paesaggio delle basse,
affascinanti se brumose e imbiancate da
brina e galaverna. Si percorre la sinistra
sono di risorgiva e il fenomeno si presenta
nei momenti di mancato delusso del canale
Malgher a causa delle maree che inluenzano i rilasci della Livenza.
Queste terre umide, ino a pochi anni fa,
erano ancora coltivate con seminativi, ma
sempre di più si notano casi di abbandono
dei coltivi che conducono a una messa a
riposo dei terreni o verso un paesaggio di
boschetti umidi che doveva essere tipico
prima della colonizzazione basso medievale. In queste aree il ricorso alle misure
ambientali del nuovo Programma di Sviluppo Rurale potrebbero essere molto interessanti e potrebbero rivelarsi utili per
disegnare nuovi paesaggi compatibili con il
regime delle acque.
L’ITINERARIO
Si consiglia di partire per quest’esplorazione d’inverno, quando questi ambienti umi-
travvede in lontananza la conluenza con il
iume Fiume. Si entra così in paese e, lungo
le strade dello sviluppo edilizio del piccolo
borgo agricolo, si raggiungono due aziende, il Salice Ridente e la Cooperativa ARCA.
Lasciando Azzanello sempre lungo strade
asfaltate si entra nel territorio di Azzano
X per poi raggiungere di nuovo i bordi del
Sile e il ponte a monte della grande golena.
Da qui si torna a Panigai.
La passeggiata lungo l’argine durante l’escursione di
Legambiente
LE PRODUZIONI LOCALI DI CIBO
Il Salice Ridente, Azzanello
Quest’azienda agricola di 35 ettari è coltivata a cereali, viti, frutticole, animali di bassa corte e maiali allo stato brado. È anche
un agriturismo con cucina e offre l’ospitalità di cinque camere. Come fattoria didattica offre interessanti percorsi didattici per
le scolaresche e non solo.
A sinistra, il presidente di Legambiente Pordenone
Renato Marcon, a destra il professor Mario Gregori
del iume per raggiungere la strada che
collega Barco con Azzanello. Sopra la strada argine si può percepire la depressione
della vecchia grande ansa del iume, che in
occasione delle piene viene chiusa da robuste paratie. Il paleoalveo del Sile svolge
ancora alcune funzioni idrauliche, garantendo il delusso delle acque nei periodi di
magra. La strada oggi è un conine secco
dal punto di vista del paesaggio. Mentre
le coltivazioni tra l’argine e il iume hanno
dovuto continuare a fare i conti con le piene, i terreni posti sulla sinistra della strada
sono stati colonizzati con le colture intensive della zona, anche se la vigna non si è
diffusa molto.
Lungo la strada si raggiunge il ponte sul
Sile, straordinario belvedere. Da qui si in-
In lontananza, la chiesetta di Santa Rosalia, ad Azzano
148
L’orto del Salice Ridente
CONTATTI
Via Santa Maria 4 - Azzanello
Pasiano di Pordenone (PN)
tel: 0434 604233
cell: 331 816 23 66
info@ilsaliceridente.com
www.ilsaliceridente.com
149
2.7 I nuovi paesaggi dell’agricoltura industrializzata
a San Giorgio della Richinvelda
Cooperativa ARCA - Fattoria sociale,
Azzanello
L’allevamento di polli della Cooperativa ARCA
La visita ad ARCA durante la passeggiata di Legambiente
ARCA è una fattoria multifunzionale specializzata nell’allevamento di animali da cortile
per la produzione di carne e uova e l’allevamento di animali da compagnia per la pet
therapy dedicata a minori, anziani e soggetti
svantaggiati.
L’azienda si muove sul fronte del sociale
caratterizzandosi per iniziative particolari
come quelle dell’afitto di orti che vengono
coltivati con tecniche biologiche. ARCA fa
parte del distretto rurale di economia solidale patrocinato dalla Provincia di Pordenone.
CONTATTI
Via Santa Maria 17 - Azzanello
33087 Pasiano di Pordenone (PN)
tel. 0434 422001 cell. 348 976 33 68
info@arca.coop
www.arca.coop
Le barbatelle nella campagna di San Giorgio
I paesaggi dell’alta pianura pordenonese
vanno considerati tra i più modernizzati dell’intera regione Friuli Venezia Giulia.
L’arrivo dell’acqua dopo gli anni Trenta, ma
soprattutto i nuovi sistemi di irrigazione, ha
permesso di costruire un ambiente ricco di
nuovi disegni di modernità e di imprenditorialità. Le antiche praterie hanno lasciato
il posto a vigne e coltivazioni di pregio, attività impensabili solo mezzo secolo fa. Questo percorso interessa i territori inluenzati
dalla continua crescita dei vivai di Rauscedo
150
e le campagne della Richinvelda, ormai colonizzate da vitigni forestieri, come il prosecco.
UN PO’ DI STORIA DEL PAESAGGIO
AGRARIO
Il territorio di San Giorgio della Richinvelda
è conosciuto oggi in tutto il mondo per la
nuova tradizione della vivaistica viticola, ma
anche in passato fu un centro di importante
sperimentazione agricola e sociale. Soprat151
I ilari di un vigneto a San Giorgio
Villa Pecile a San Giorgio della Richinvelda
enumerazione, raccomandando caldamente ai contadini di questa regione di
seminare nei loro campi in secondo raccolto dietro frumento dei foraggi, sieno
essi Moha, Saraceni o Maiz, i quali sono,
a conti fatti, immensamente più rimuneratori dei cinquantini, che formano
un raccolto costoso ed incerto.2
glioramento agricolo in questa regione»1. Le
parole di Domenico Pecile aprivano le porte
alla grande trasformazione paesaggistica e
territoriale che, con l’irrigazione artiiciale,
avrebbe trasformato l’alta pianura pordenonese trasigurando i vecchi pascoli in aziende
agricole moderne.
In questo paesaggio agrario è sempre più diffuso il vigneto industriale
tutto a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, l’arrivo della famiglia Pecile pose
questo territorio all’attenzione regionale,
per alcuni esperimenti di innovazione colturale che un luogo così arido e legato alle
tradizioni dell’agricoltura antica non era
in grado di produrre da solo. Il paesaggio
di antico regime era talmente arido che la
maggior parte del territorio era conservata
a uso di pascolo pubblico. La carenza di acqua da sempre metteva in crisi la capacità
dei contadini. Le frange tra le vecchie terre
coltivate e i pascoli pubblici sono ancora
visibili, nonostante il paesaggio sia stato
normalizzato.
Negli ultimi quindici anni la zona di San Giorgio si è molto trasformata con la copertura
a vigna, progressiva e apparentemente inarrestabile, delle superici che alcune decine
di anni fa erano state attrezzate per produrre mais. Il passaggio, da una produzione
di mais e soia dedicata all’allevamento, si sta
trasformando in un’enorme vigna industria-
le costruendo nuovi paesaggi in un ambito
molto particolare. Un brano di territorio poroso.
Le terre aride e prative furono un’importante fonte di reddito per le famiglie dell’alta
pianura ino a che le forme di gestione comunitaria della terra non furono messe in
discussione a partire dalla seconda metà del
Settecento. Poco alla volta, le grandi praterie magredili assunsero un valore negativo
nella retorica della stampa dell’epoca. Contrariamente al periodo medievale, il magredo divenne un simbolo di ineficienza e di
disagio economico: «Dalla Richinvelda ino
ai piedi dei colli di Sequals si estendono, per
centinaia di chilometri quadrati, vaste praterie di natura magrissima, le quali danno di
regola un miserabile prodotto in ieno. Qui
le campagne, anche relativamente fertili,
per la gran parte non producono medica, e
danno poco prodotto di trifoglio; la scarsezza quindi e la poco buona qualità dei foraggi
si oppongono direttamente a un rapido mi152
L’intenzione allora era quella di trasformare le
aziende agricole verso una maggiore eficienza nella produzione della carne e per fare questo bisognava promuovere un uso diverso del
territorio. Gli animali dovevano rimanere in
stalla, mentre le grandi campagne sarebbero
state privatizzate e coltivate per produrre più
foraggio. Ricordava Domenico Pecile:
Questa trasformazione colturale dal prato
stabile a quello artiiciale seminato a erbe
produsse un’enorme trasformazione sociale
e produttiva. Territori dotati di poco suolo potevano cominciare a produrre grandi
quantità di cibo per i bovini grazie all’utilizzo
di concimi non naturali:
...dal momento che io mi trovai nella
necessità di occuparmi di agricoltura in
questi siti, portai tutta la mia attenzione
nel cercare nuove piante da foraggio di
cui la coltura fosse rimuneratrice. Numerose furono le esperienze fatte in
quest’azienda e numerosi pure gli insuccessi. Alcune però delle prove fatte
riescirono bene, ed anzi mi lusingo di
esser giunto a trovare alcune piante, la
cui coltura potrà recare reali vantaggi
a questi siti (…). Mi permetterò soltanto di chiudere questa lunga e noiosa
Abbiamo anche sentito come dopo alcuni anni che il prof. Pecile usa i concimi
chimici, il consumo di tali materie andò
così aumentando, da consigliare la ditta co. L. Manin a stabilire uno speciale
rappresentante a San Giorgio della Richinvelda. Colà, ci si raccontava, la formola di concime adottata dal professor
Pecile, ha acquistato tal credito che non
di rado numerosi carri dei contadini seguono quelli del proprietario quando
va a fare le sue provviste di concime:
questo perché quei buoni villici voglio-
1
2
d. PeCile, Riassunto di alcune esperienze di colture di
foraggi, «Bullettino della Associazione Agraria Friulana»,
s. III, V. VI, n. 29, 16 luglio 1883, 228
d. PeCile, Riassunto di alcune esperienze di colture
di foraggi, in «Bullettino della Associazione Agraria
Friulana», s. III, vol. VI, n. 29, 16 luglio 1883, 228-230
153
conosciuto sul fronte del vino, nonostante
già allora i vini di San Giorgio non mancassero di vincere alcuni dei primi concorsi in
provincia, come nel 1896 con il cordenossa-refosco di Rauscedo prodotto dall’azienda Bisutti.
San Giorgio fu anche uno dei luoghi dove si
rispose alle malattie delle uve introducendo
il “vino rosso Bordeaux Carpenet” premiato
nel 1883 insieme ai tradizionali “vino Aurava
bianco” e “vino Aurava nero” che erano fatti
con uvaggi di viti autoctone.
I Pecile, nella loro azienda agricola, sperimentavano tecniche di coltivazione che venivano poi pubblicizzate nelle riviste specialistiche e copiate dai contadini locali:
te coordinate in modo cooperativo avevano
privilegiato gli incroci con la razza Simmental
importata direttamente dalla Svizzera4.
L’istituzione di un servizio cooperativo per la
fecondazione delle armente e il miglioramento della razza andavano attribuiti all’arrivo
dei Pecile, che a San Giorgio fondarono una
delle aziende agricole più moderne del Friuli.
Nel necrologio del capostipite si ricordava:
Nel giorno che il senatore Gabriele Luigi Pecile ne divenne uno dei più forti
proprietari, si decisero le sorti di questa Comune. Egli vi portò i primi aratri
perfezionati, le prime piante, le prime
sementi selezionate; fu egli che iniziò il
miglioramento del bestiame, che fece le
prime esperienze colturali. Prese parte
all’amministrazione comunale portandovi quello spirito di pratica modernità
che informava le opere Sue, e rimase a
quel posto ino a che non venne sostituito dal iglio prof. Domenico, il quale,
non dissimile dal padre, lavorò e lavora
indefessamente per il miglioramento di
quel territorio.
Oggi San Giorgio si è trasformata: prosperano la vite ed il gelso, i prati stabili
diminuiscono per dar luogo alla coltura intensiva dei cereali dei foraggi; il
bestiame bovino migliora, sono sorte
e sorgono le Cooperative. Egli iniziò
tutto questo: oggi raccolgono i frutti di
quanta Egli ha seminato!5
L’itinerario, indicato in rosso, inizia in piazza a Domanins e termina presso l’Agriturismo Tina
Particolare della Kriegskarte del 1805
Parallelamente, un’attenta selezione dei bovini poteva portare dei beneici alle aziende
e alle comunità. La propaganda legata all’allevamento degli animali diede profondi frutti,
se si considera che nel 1908 a San Giorgio
della Richinvelda venivano censiti 303 manzi,
un toro, 924 vacche e ben 245 buoi. Le mon-
no assicurarsi che sì dia a loro la stessa
materia concimante che viene venduta
al proprietario.3
3
L’uso dei concimi chimici si diffonde anche fra i contadini,
in «Bullettino dell’Associazione Agraria Friulana», s. IV,
V. IV, n. 13, 14 giugno 1887, 214
154
Da qualche anno ho introdotto nell’Azienda di San Giorgio un nuovo modello di falci da mietere, che, a mio avviso,
potranno, più facilmente della falce
Americana, diventare di uso comune
anche fra i contadini, e ciò sia per il lievissimo loro costo, che per la facilità e
comodità con cui possono essere adoperate. Esse destano già l’ammirazione
di questi paesani i quali dal nuovo strumento si vedono intieramente risparmiata la faticosissima operazione della
mietitura colla falciuola (sèsule).6
Il paesaggio di allora stava lentamente cambiando, cancellava le praterie e rendeva più
complesso il disegno dei campi attraverso un
disegno policolturale, segnato anche dalla
rotazione agraria che oggi non possiamo più
vedere:
I Pecile furono il motore trainante di tutte
le attività cooperativistiche dei villaggi contermini e questa “nuova tradizione” non si è
ancora spenta e si alimenta nelle cooperative
vivaistiche e vinicole locali. Certo, rispetto
alla ine dell’Ottocento, il paese è forse più
Rotazione agraria praticata nelle diverse qualità di terreni. Granoturco, frumento, medicai e trifoglini: 40 00 prato
artiiciale - 30 00 granoturco - 20 00
frumento - 2 00 avena - 3 00 segale - 5
00 colture varie (fagiuoli, sorgorosso,
Come ha contribuito inora la Provincia di Udine
all’alimentazione carnea dell’esercito, in «Bullettino
della Associazione Agraria Friulana», a. 64, n. 1-12, 31
dicembre 1916, 23-55
4
d. PeCile, Falci per mietere cereali, in «Bullettino della
Asssociazione Agraria Friulana», s. III, vol. VI, n. 29, 16
luglio 1883, 230-231
6
Necrologio per la morte di Gabriele Luigi Pecile, «Il
Friuli», 2 dicembre 1902
5
155
patate, barbabietole da zucchero e da
foraggio, verze, rape, lino).
NB. Ora gli aratori sono divisi in due
qualità: in aratori con gelsi e aratori arborati-vitati. Nella colonna 3.a vennero
aggiunti Ea 67 e tolti nel mod. B nei pascoli, zerbi e ghiaia cespugliata e ripartili tra le due qualità ora esistenti7.
I territori al pascolo erano sostanzialmente
banditi e il ricordo delle pratiche di allevamento di tradizione medievale erano abbandonate. Venivano invece attivate forme
di assistenza di tradizione liberale come la
locanda sanitaria, che era una cucina per i
meno abbienti8.
Il prato con il cippo del 1895
L’ITINERARIO
Il percorso parte dalla frazione di Domanins.
Qui si può visitare una delle aziende più interessanti della zona, quella dei Tondat, che
da alcuni anni hanno ripreso a produrre un
uvaggio che si fa forza su due storici vitigni
della zona, il Cordenossa e la Palomba. Da
qui si percorre una stradina campestre che
siora il giardino della villa Spiimbergo-Spanio e che un tempo faceva da conine tra i
terreni coltivati e la prateria. Oggi la strada
innerva un paesaggio di campi coltivati e attrezzati con opere di irrigazione moderne.
Da qui si raggiunge la frazione di Rauscedo,
in vista dei due importanti stabilimenti dei
vivai e della cantina vinicola. Qui si trova un
luogo importantissimo da un punto di vista
storico e da quello culturale. Nei pressi della chiesetta campestre di San Nicolò, che
un tempo segnava il conine meridionale di
quella grande prateria che saliva in quasi a
Sequals, alcuni signori friulani legati al partito tedesco attraccarono la carovana che ac-
La chiesetta di San Nicolò, tra Rauscedo e San Giorgio
della Richinvelda
compagnava il Signore del Friuli, il francese
Bertrando di St. Geniès, nel 1350.
Ferito a morte, il Patriarca di Aquileia morì
qui e questo prato divenne un luogo della
memoria popolare. Ecco perché una sorta
di tabù di matrice storica fece sì che il prato
limitrofo alla chiesa non sia mai stato coltivato. Oggi questo è uno dei pochi brandelli
dell’originario e medievale mantello prativo
che copriva gran parte dell’alta pianura. In
pratica, è il testimone di un paesaggio ormai
scomparso: conserva un valore ambientale
e paesaggistico straordinari.
In uno storico numero di Pagine Friulane,
questa interessante nota ricorda l’erezione
del monumento dedicato a Bertrando nel
1895:
d. PeCile, La statistica agraria in Friuli, in «Bullettino
dell’Associazione Agraria Friulana», a. 52, n.6-8, 30
aprile 1907, 223-248
7
8
Locanda sanitaria di San Giorgio della Richinvelda e San
Martino al Tagliamento, «Il Friuli», 17 maggio 1897
156
Ci si dirige poi verso Pozzo, costeggiando la
ferrovia novecentesca oggi abbandonata, ai
bordi di un’area rivierasca del Tagliamento
caratterizzata dai segni di una lottizzazione
agraria medievale centrata sul castello di
Cosa. La fortiicazione medievale, nel Settecento, fu adattata alle forme di palazzo e
divenne un centro di produzione agricola.
A Provesano, transitando per il centro, si
visita la chiesa parrocchiale, con l’importante affresco che decora l’abside dipinto nel
1496 da Gianfrancesco da Tolmezzo. Nella
chiesa ci sono altre opere coeve lapidee del
Pilacorte. L’interesse non è inalizzato solo
a una lettura artistica dell’ediicio religioso:
sul fondale dell’affresco è rafigurato il paesaggio quattrocentesco che Gianfrancesco
da Tolmezzo riconosceva alla pedemontana del Friuli. Da Provesano si attraversa la
grande prateria medievale trasformata oggi
in una moderna centuriazione agricola. Questo territorio è uno degli ambienti che sta
subendo in questi anni le più straordinarie
trasformazioni. Pensato per la produzione
di cereali, negli ultimi dieci anni sta cambiando con un progressivo aumento dei terreni
coltivati a vigna. Si tratta però di vigne moderne, disegnate per una raccolta dell’uva a
macchina. Vigne che con il loro disegno geometrico rendono ancora più rigida la composizione dei campi. Quello che per mezzo secolo è stato un paesaggio del mais, oggi si sta
lentamente strutturando per trasformarsi in
quello del prosecco, visto che l’espansione di
queste uve anche sulla pianura pordenone-
Desideroso di visitare il sito ove avvenne la tragica ine del patriarca Bertrando, per leggere de visu l’iscrizione
ricordante quel fatto, oggi mi recai alla
Richinvelda, e là trovai demolito il vecchio cippo in muratura e un operaio intento a completare un pilastro in Portland. In uno specchietto di questo osservai ricollocati i tre frammenti della
vecchia lapide (*) e, nell’opposta faccia,
murata la seguente iscrizione scolpita
su marmo di Carrara, il tutto eseguito mi si disse - per cura del segretario vescovile D. Carlo Riva. È un lavoro che
ricorderà più decorosamente e con
esattezza cronologica, quella pagina di
storia patria9.
La chiesetta campestre divenne un luogo di
pellegrinaggio e di fede e fu ampliata con un
nuovo presbiterio che accoglie importanti
affreschi e uno straordinario altare lapideo
del Pilacorte realizzato nel 1497 in stile rinascimentale.
Da qui ci si dirige verso San Giorgio attraversando quel settore di prateria che nella
seconda metà del’Ottocento divenne uno
degli ambienti di espansione dell’azienda
agricola dei Pecile e che oggi invece assume il carattere di una coltivazione intensiva.
Lungo una storica strada campestre si raggiunge il villaggio di San Giorgio che vediamo nell’immagine in una rappresentazione
catastale di epoca austriaca.
Nel piccolo paesino caratterizzato da una
stretta strada canale, non erano ancora visibili due fatti urbani importanti.
La costruzione di Villa Pecile e la ricostruzione con diverso orientamento della chiesa
parrocchiale. Questi due cantieri, promossi
dalla famiglia borghese, oggi caratterizzano
il centro del villaggio esprimendo un’architettura segnata dallo storicismo della ine
del XIX secolo.
l. BilliAni, Nuova iscrizione alla Richinvelda, «Pagine
Friulane», a. VIII, n. 8, 13 ottobre 1895
9
Mappa catastale di epoca austriaca
157
se sta promuovendo una ristrutturazione
delle aziende agricole.
Si attraversa questa pianura, apparentemente omogenea, per raggiungere l’agriturismo Tina.
2.8 Le malghe di Caneva e Polcenigo:
una recente tradizione
LE PRODUZIONI LOCALI DI CIBO
Società agricola Tondat Stefano
Ci sembra importante visitare questa azienda agricola che oltre a curare la iliera del
vino in proprio ha tentato negli ultimi anni di
riproporre un vino tradizionale della zona di
San Giorgio, il vin di Uchì che è realizzato mescolando un quarto di palomba, un quarto di
cordenossa e due quarti di refosco gentile.
Sono molte le dificoltà nel riproporre un
vino storico in un territorio ormai lanciato
alla rincorsa del successo del prosecco.
Fausto e Barbara Lenarduzzi, titolari dell’Agriturismo
Tina
ha intrapreso un interessante percorso di
ristrutturazione aziendale diventando una
fattoria didattica e sociale e investendo sulla
iliera del’oca. L’agriturismo è aperto sabato
e domenica.
CONTATTI
Via S. Martino 10
San Giorgio Della Richinvelda (PN)
tel. 0427 94315
www.tondat.it
(video #12 della serie “Storie di nuova agricoltura” visualizzabile su Youtube: http://bit.
ly/1WceZVb)
Complice la facile geograia delle terre alte
di Caneva e Polcenigo, servite dal 1877 da
una importante strada diretta al Cansiglio,
le malghe dell’altipiano hanno avuto una
continuità d’uso dal XVII secolo ino a oggi.
Alcuni anni fa, la crisi di questa attività fu
contrastata con un progetto di valorizzazione del formaggio di malga e una generale
ristrutturazione delle casere pubbliche. Nel
complesso delle diverse esperienze produttive legate al settore caseario, oggi ci sono
esperienze tradizionali e altre più moderne,
come quella di una fattoria didattica estiva
(Fossa di Sarone).
UN PO’ DI STORIA DEL PAESAGGIO
AGRARIO
Un ambiente e una dinamica insediativa così
particolari hanno prodotto un conlittuale
rapporto tra superici boscate e praterie artiiciali. Fin dal Neolitico si sono conquistati
gli spazi per l’economia dell’erba, riducendo
quelli del bosco. Questa progressiva opera-
CONTATTI
Via Casa Pascutto 1 - Rauscedo
San Giorgio della Richinvelda (PN)
tel. 0427 94121 oppure 347 643 34 46
info@agriturismotina.it
www.agriturismotina.it
Agriturismo Tina
Un’azienda di venti ettari nel’alta pianura
era troppo piccola per la maidicoltura quindi un decennio fa la famiglia proprietaria
I resti di un antico recinto in pietra dove si tenevano gli animali
158
159
Il percorso inizia alla Casera Busa di Sarone, località dove termina l’escursione dopo un percorso ad anello. Non
ci sono dificoltà, perché gran parte del percorso è su strade campestri poco traficate, è previsto solo un breve
tratto fuori sentiero in bosco.
zione di salita dei pascoli verso monte è testimoniata anche da due importanti toponimi che caratterizzavano due praterie e oggi
sono attribuiti alle casere del XVIII secolo:
Brusada e Cercenedo. La prima registra in
modo esplicito l’opera di disboscamento
attraverso l’incendio per aprire radure per
gli animali, mentre il termine “cercenedo” ci
rimanda alla pratica di far morire alberi e arbusti in piedi asportando anelli di corteccia.
Le aree secche venivano poi incendiate più
volte. Questa operazione di espansione dei
pascoli ai danni del bosco inì nel momento
in cui il bosco divenne una risorsa, quindi in
età veneziana. I boschi comunali venivano
afittati ai carbonai, che producevano combustibile per la Serenissima e in quell’occasione cominciarono a essere presi i primi
provvedimenti per impedire il pascolo in bosco e la progressiva scomparsa della risorsa
legnosa.
Fino a una cinquantina di anni fa, i boschi
erano molto diversi da come li vediamo oggi:
innanzitutto non c’erano molti grandi alberi
maturi. Il bosco era coltivato a ceduo e tagliato a zero con una certa frequenza, a rotazione. Ancora oggi si incontrano nel bosco
ripiani orizzontali costruiti dai boscaioli per
realizzare le pire per la combustione e i resti dei ricoveri dei boscaioli. Quasi alla ine
dell’itinerario proposto da Legambiente, è
possibile osservarne un esempio.
Se guardiamo qualche foto storica dell’altipiano, il contrasto tra le superici boscate
La casera Sponda alta
e i deserti rocciosi dei pascoli attrezzati ci
raccontano del progressivo e straordinario
sfruttamento prodotto dal carico di animali
un tempo presente.
Oggi la situazione è del tutto diversa. I boschi comunali sono stati indirizzati verso
una coltivazione a fustaia e i prati hanno
subito una riduzione di carico al punto che
le aree meno produttive si stanno rimboschendo. Dopo secoli, siamo in presenza
di un processo opposto a quello antico. La
diminuzione delle superici pascolate sta
riducendo progressivamente le praterie a
favore della boscaglia. Le malghe sono state
rimpicciolite e molto spesso tale dimensione
ridotta le rende poco produttive.
Eppure qualcuno si ostina ad allevare in
quota, proponendo sia prodotti innovativi sia tradizionali. Per esempio, il fatto che
a Fossa di Bena dal 2010 ci sia la presenza
di un gregge di un centinaio di capre camosciate, pone il tema di un prodotto completamente nuovo per queste zone (il formaggio caprino) e l’esperienza di nuove forme di
allevamento che si oppongono all’avanzata
del bosco.
Il formaggio di malga,
una tradizione recente
Contrariamente all’adagio che descrive
come tradizionali i prodotti della monticazione alpina, i formaggi che conosciamo oggi,
in realtà, vantano una storia brevissima, di
meno di un secolo. Nell’orizzonte antropologico della pedemontana, il formaggio si
Lungo il percorso, si nota come il bosco abbia riconquistato il suo spazio
Particolare della Kriegskarte del 1805
160
161
divideva in due tipologie, quello delle latterie sociali del pedemonte prodotto da casari
istruiti e quello prodotto d’estate nelle malghe, in modo approssimativo, dai pastori. Il
primo era il frutto di un latte ottenuto prevalentemente da ieno, mentre il secondo dal
pascolo su erba fresca. I due prodotti erano molto diversi tra loro, seppure la forma
sembrasse uguale. Quello che vale la pena
di precisare è che questa memoria diffusa
si riferisce a un periodo molto recente. Le
latterie cominciarono a sorgere nella pedemontana all’inizio del Novecento e persino
l’istituzione delle malghe non è antichissima.
Come abbiamo dimostrato per la zona di
Aviano, i comparti chiusi e stabiliti del pascolo vengono prescritti dallo Stato veneziano alla ine del XVII secolo, quando diventa
importante deinire gli spazi da mettere a
disposizione della produzione di carbone
CANEVA
1768
CANEVA
18682
POLCENIGO
1768
POLCENIGO
1868
le comunità locali, che aumentarono sempre
più la loro dimensione, innescando la prima
fase di emigrazione regionale. Non a caso
uno dei primi articoli sull’emigrazione ricordava chi se ne era andato dal distretto di Sacile1. Nel 1878 erano emigrate 34 famiglie,
16 erano di Caneva e dieci di Polcenigo. Tra
quelle di Caneva migravano alcuni artigiani:
un falegname, un muratore, due carbonai.
Non si trattava di emigrazione per povertà.
Le persone partivano per cercare fortuna: a
Caneva, «delle sue sedici famiglie emigrate,
tre soltanto ne aveva che stentavano colle
dificoltà della vita. Alle altre tredici non bastava di potersene onestamente difendere».
Nella tabella riportiamo i dati di due storici
censimenti degli animali, a Caneva e a Polcenigo, uno realizzato all’epoca della Repubblica di Venezia, l’altro pochi anni dopo l’Unità
d’Italia. 234
ABITANTI
CAVALLI
MULI
ASINI
TORI
VACCHE
GIOVENCHE
BUOI
TORELLI
E VITELLI
PECORE
CAPRE
MAIALI
1140
2
6
24
-
352
-
-
-
301
60
-
51513
51
46
27
2
389
78
300
530
767
18
182
1899
24
-
35
-
962
-
-
-
1067
200
-
47294
22
8
63
2
599
19
354
172
930
51
145
I dati tendono a dimostrare che, a fronte di un
consistente aumento della popolazione, non
c’era stato un corrispondente aumento degli
animali, perché non era possibile aumentare
la produzione per la loro alimentazione.
da legna e quelli dell’allevamento. Per di più,
ino a quel momento la transumanza non
era organizzata e gli animali che potevano
raggiungere praterie prive di ricoveri erano
solo le pecore e le capre.
Possiamo facilmente credere che ino alla
ine del Seicento la ripida scarpata fosse
percorsa solo dai lanuti, mentre le vacche
rimanevano in paese. Qui la produzione del
formaggio non era organizzata in modo cooperativo e ogni famiglia trattava il suo latte in
cucina. Ciò signiica che non c’erano volumi
tali da permettere la produzione di formaggio in forma e la diffusa presenza di caprini
e ovini ci fa credere che, invece, il formaggio
prodotto fosse molle e misto, da conservare
in salamoia e inadatto alla stagionatura.
Fu un periodo particolarmente dificile per
1
l. MorGAnte, Sulla emigrazione nell’America meridionale
dalla provincia di Udine – Dati statistici, «Bullettino
della Associazione Agraria Friulana», S.III, V.I, n.14, 30
settembre 1878, 181-184; P., Cronaca dell’emigrazione,
«Bullettino della Associazione Agraria Friulana», S.III,
V.II, n.38, 22 dicembre 1879, 301-302
2
t. ZAMBelli, Censimento del bestiame della Provincia
di Udine (31 dicembre 1868), «Bollettino della Società
Agraria Friulana», n.17-18, 25 settembre 1869, 525557
3
4
162
Il dato è riferito al censimento del 1871
Il dato è riferito al censimento del 1871
I pascoli della casera Sponda alta, con un piccolo specchio d’acqua per l’abbeveramento
Le paludi di Caneva e Polcenigo erano state
attrezzate per produrre foraggio, da secoli i
versanti erano colonizzati con stalle e casere. Il bosco era quasi scomparso per aumentare le superici a prato, ma tutto questo
non era suficiente e non c’erano altri spazi
da colonizzare. Molti bovini erano in realtà
buoi e garantivano la forza per il lavoro sui
campi. Le famiglie più povere usavano anche
le vacche per le arature.
Pecore e capre erano tra gli animali più diffusi, mentre nell’ultimo secolo hanno subito
una radicale riduzione. A partire dall’Ottocento anche i bovini, più piccoli e agili rispetto alle razze attuali, cominciarono a raggiungere l’altipiano ormai attrezzato con le
casere.
Diventava sempre più importante allontanare dalle stalle gli animali più voraci, per
ricostruire le scorte foraggere. La razza diffusa ai piedi dell’altipiano era la grigio alpina,
come ricorda uno studio dell’inizio del No-
vecento: «Caneva: razza alpina, esclusivamente». Non era poi molto diverso il caso di
Polcenigo: «razza alpina. Fino a pochi anni fa,
funzionò nel comune un toro Simmenthal (di
proprietà di L. Zaro), importato dalla Svizzera. Lo si accoppiava con le vacche locali, ma il
meticciamento cadde presto in disfavore»5.
Questa trasformazione comportò anche
un’opera di attrezzatura delle malghe. Si
dovettero costruire stalle diverse, adatte ai
bovini che dovevano essere ospitati in stalli
paralleli, e casere che erano dei veri caseiici,
perché l’aumento del latte richiedeva caldaie più ampie.
Quello che era il paesaggio e l’attrezzatura
di una malga prima della Prima guerra mondiale è ben descritto nel primo saggio organico sulle casere del Friuli.
5
u. sellAn, Lo stato attuale delle stazioni friulane di monta
taurina, «Bullettino dell’Associazione Agraria Friulana»,
A.52, n.12-13, 30 giugno 1907, 338-368
163
Busa Figariol, 1250 m
Bachèt, 1267 m
Busa Bernardi, 1275 m
Grizzo, 1280 m
Giais, 1281 m
Malnisio, 1326 m
Masonìl Vecchio, 1334 m
Tarsia, 1337 m
Ceresera, 1375 m circa
Col delle Paise, 1380 m
Campo, 1425 m
dietro Castellat, 1435-1473 m
del Mur, 1500 m
della Valle, 1550m
L’altezza media fra le due casere estreme (787-1550) è 1168 metri; fra tutte
quelle elencate 1228 metri.
(...)
I resti dell’antico ricovero Cercenedo
477 metri; gli stavoli vanno ino a circa
800 metri. È dificile dalla carta discernere gli stavoli dalle casere, perché
anche i primi son chiamati impropriamente, in questa regione, col nome di
casere: comunque credo che il seguente elenco sia suficientemente esatto:
Paluzza, 787 m
Pian delle Case, 909 m
Pizzocco, 1003 m
Fossa di Bena, 1041 m,
Brusada, 1050 m,
Foradòr, 1065 m
Gastaldia, 1075 m
Val di Lama, 1089-1110 m
Zervera, 1100 m
Fossa Sarone, 1115 m
Cercenè, 1145 m
Boz, 1150 m
Sauc, 1155 m
Bravìn, 1160 m circa
Sponda alta, 1212 m
Una ricognizione nella zona del Cansiglio
nel 1916
L’indagine di Giovanni Battista De Gasperi
sulle casere del Friuli ci dà un quadro speciale dell’area oggetto del nostro studio:
L’orlo orientale dell’altopiano forma
una specie di larga dorsale corrente
da nord-est a sud-ovest, a supericie
irregolare, per l’enorme sviluppo di
doline, valli cieche e altre forme carsiche. Bene, spesso le casere si trovano
in qualcuna di tali conche chiuse. Il limite superiore naturale del bosco non
è visibile da questo lato ove un intenso
disboscamento l’ha portato a 1450 m.
circa; sul versante occidentale del Cavallo va a 1750; sul pendio orientale
il bosco manca, affatto. Sulle scarpate
dell’altopiano guardante la pianura
friulana, le abitazioni permanenti più
alte sono al paese di Mezzomonte, a
164
glia, forma il letto (la tàbia) dei pastori. Nel
caserìn, su apposite assi isse alle pareti, si
conserva il cacio. Fra la busa del fogo e il caserìn i due muri opposti della casera sono
perforati da due serie di pertugi a feritoia,
accostati gli uni agli altri, presso ai quali, su
appositi sostegni, si mettono le scodelle del
latte che va scremato.
La opportuna disposizione di tali fori
(bòcole = bocchette) sostituisce abbastanza ingegnosamente, se non del tutto bene,
il caserìn del làt, delle Prealpi Clautane. L’armatura interna del tetto (cuèrt) è formata
da travi annerite dal fumo, assai robuste,
quali si conviene al sistema di copertura in
uso, che rende il tetto assai pesante. Oltre
che dalle bòcole la casera è arieggiata da
piccole inestre senza imposte. Manca al
solito un camino, per cui il fumo esce dalla
porta.
Accanto alla casera, ed a ridosso di questa,
è la stala (stala de le vache), fabbricato più
piccolo con tetto a due spioventi coperto da rozze scandole non inchiodate. Uno
dei lati maggiori ha tre o quattro aperture d’ingresso, chiudibili con una imposta
di assi sconnesse, mobile. L’interno, corrispondentemente agli ingressi, è diviso in
tre o quattro riparti da pochi pali ritti che
reggono alcune traverse. Davanti alla stalla
le deiezioni sono sparse sul prato (masonìl)
senza regola.
Le casere dei piani del Cansiglio e di Valmanera
Per alcuni particolari costruttivi che si conservano senza eccezione in tutte le casere
dei ripiani erbosi del bosco del Cansiglio,
esse vanno riunite in un tipo unico. I fabbricati sono essenzialmente due: la camera
e la stala. La casera è in muratura, coperta
di lastre di pietra embricate, più di rado di
assicelle inchiodate; solo alcune, di recente
rimodernate, di tegole (copi). L’interno è diviso in due ambienti; talora ve n’ha un terzo, con ingresso proprio, adibito a ricovero
dei maiali (la stala dei porzei). Dalla porta
della casera si entra nella prima stanza, che
serve ad uso di cucina, per il deposito e la
lavorazione del latte e come dormitorio per
i pastori.
Accanto all’ingresso è la busa del fogo (buca
del fuoco), fossa rettangolare, lunga quattro metri, profonda uno, con panche (banche) isse all’ingiro da tre lati. A qualche metro sopra la busa è saldato un largo tramezzo orizzontale a graticcio (rizza) sul quale si
pongono ad affumicare le ricotte.
Nella parte più interna della casera un tramezzo di muro che non arriva al tetto, divide dalla cucina il caserìn, piccolo locale
coperto da un tavolato che, con poca pa-
Le casere dell’orlo orientale degli altipiani
del Cansiglio e del Cavallo
Sono caratterizzate dal tetto di paglia a
due spioventi che giungono in quasi a terra. Le mura sono a secco, prive di cemento;
mancano inestre; unica apertura la porta
aperta sulla facciata anteriore, un po’ lateralmente. Nell’angolo accanto la porta è la
busa del fogo, in tutto simile a quella delle
casere del Cansiglio. Anche qui la caldaia
pende dal braccio sporgente dalla mussa.
Sopra al bus del fogo sta il graticcio (gardizz)
per affumicare le ricotte. Un tramezzo di
tavole, coperto di ieno, messo orizzontalmente all’altezza del vano del tetto, costi165
tuisce il giaciglio dei pastori; vi si accede
con una scala a mano. Lungo le pareti e su
un sostegno isolato nel centro della casera,
apposite assi servono a tenere il formaggio. Le stalle sono separate dalla casera;
ogni malga ne possiede più d’una, ino a
quattro o cinque.
Viste dall’esterno sono affatto simili alle
casere; all’interno hanno un unico locale,
salvo alcune nelle quali un tramezzo orizzontale separa una specie di solaio ov’è tenuto il ieno per i giorni piovosi. In questo
sottotetto si entra da una porta-inestra,
aperta dal lato posteriore, che, grazie al
pendio della montagna, viene a trovarsi a
livello del terreno. Tanto nella casera del
foc, che nelle stalle, il tetto è sostenuto da
una prima armatura di travi inclinate che
si appoggiano su una trave longitudinale
mediana e sui muri laterali. Sopra queste
stanno dei correntini orizzontali a distanza
di 40-50 cm.
Su essi poggia direttamente la paglia, eccetto che al di sopra del focolaio ove un tavolato serve da difesa contro gli eventuali
incendi.
La casera La Fossa descritta dal Marinelli
(Monte Cavallo) è divisa in due ambienti,
separati da un tramezzo di frasche; un primo, ove si trova il focolare viene detto casellin del fogo; un secondo serve per il deposito del latte e formaggio e vien detto casellin del latt. In questa casera v’è quindi già la
tendenza a distinguere i due ambienti che
troviamo nella casera carnica, cosa che non
è nella Casera Sciosi sopra descritta come
tipo di quelle dell’orlo Cansiglio-Cavallo.6
Questa lunga descrizione coglie l’ambiente in formazione delle maghe e del tipo
edilizio delle casere con modalità d’uso del
tutto simili a quelle che abbiamo descritto
per la zona avianese: nelle malghe dell’orlo orientale del Cansigio-Cavallo avviene
pure che il pascolo sia frazionato in più di
collegava Coltura di Polcenigo passando
per la chiesa di San Michele e il Boscadello, con il Cansiglio, l’altra è invece la strada
pavimentata che un imprenditore del legno
costruì nella prima metà dell’Ottocento per
trasportare a valle il legname.
Casera Costa Cervera è pure posta in una
dolina e qui le sorelle Celant fanno un prodotto molto legato alla tradizione del primo
Novecento.
Da qui si prende un breve tratto del sentiero
CAI che ci permette di raggiungere la parallela strada sterrata che riconduce in territorio di Caneva, all’interno di un paesaggio che
da mezzo secolo si sta lentamente riconvertendo in bosco. Qui la maggior parte delle
casere è stata abbandonata e le piante indirizzate verso una fustaia di faggio. Si cammina quindi all’interno di un grande manufatto
modellato dall’uomo.
Lungo a stradina bianca si raggiunge malga
Sponda Alta, sempre meno pascolata e destinata a chiudersi progressivamente se non ci
saranno processi contrari di utilizzo. Da qui
si scende verso la Crosetta per raggiungere
casera Cercenedo. Questo pascolo di Caneva è proprietà del Comune di Cordignano
e, oltre a offrire un’emozionante visione su
Vittorio Veneto, presenta alcune pratiche di
recupero della produzione casearia, anche
se ancora timide.
Da casera Cercenedo si rientra verso Fossa
di Sarone attraverso un tratto del sentiero
L’ITINERARIO
Vitellini di casera Cercenedo
una afittanza, così che le casere si trovano
a gruppi. In pratica, l’ambiente economico
e produttivo era lo stesso, come pure le
modalità di uso del suolo.
La malga era quindi un aggregato di piccole costruzioni con tetti a ripidi spioventi in
paglia che alla ine costruivano quasi il paesaggio di un piccolo villaggio che iniziava a
essere abitato alla ine di maggio, in anticipo rispetto alle strutture delle valli interne
delle Prealpi.
La forma dei comparti di pascolo, e soprattutto quella delle architetture che compongono le attuali casere, vanno riferite a
una generale opera di riorganizzazione dei
pascoli comunali portata a termine dopo il
primo Dopoguerra. Come per le casere che
hanno subito meno trasformazioni e restauri (vedi Sponda Alta), il tipo edilizio fu
totalmente riformato costruendo un unico
ediicio che afiancava la casera costruita su
due piani con l’uso di murature a paramento verticale con l’uso di malta di calce, con
l’ampia stalla da vacche. Entrambi i corpi di
fabbrica inirono per avere un tetto a due
falde con una pendenza non spiccata perché i comuni fecero arrivare in quota le prime forniture di coppi.
6
G. B. de GAsPeri, Studi sulle sedi e abitazioni umane. Le
casere del Friuli, «Bullettino dell’Associazione Agraria
Friulana», A.61, n.1-12, 31 dicembre 1916, 125-237
166
L’escursione inizia dal parcheggio lungo
la strada dorsale del Cansiglio, di fronte a
Casera Fossa di Sarone. Il percorso si muove quasi esclusivamente su strada sterrata
e in qualche tratto anche pavimentata. Si
percorrono così i territori che ino all’inizio
dell’Ottocento erano stati caratterizzati da
ampie praterie e che verso la metà del secolo scorso sono stati interessati da estese
piantagioni artiiciali di bosco. Non è dificile
scorgere questi boschi di nuova formazione,
perché molto spesso la forestale, in considerazione dei suoli inariditi dal pascolo, propose piantagioni di abete rosso in un’area
che invece ha una vocazione naturale per
la faggeta. In altri casi il bosco si è sviluppato a seguito dell’abbandono delle pratiche
del pascolo sulle aree più rocciose. Questo
vuol dire che il bosco è cresciuto riducendo
il pascolo ai prati con maggiore ricopertura
di suolo, quindi ai settori più fertili degli originari comparti. Tale processo, durato quasi
un secolo, ci restituisce oggi un ambiente
pastorale frammentato e concentrato soprattutto nelle principali “fosse”, cioè in aree
caratterizzate da doline protette dal vento
e dal dilavamento. Come abbiamo spiegato
prima, questo paesaggio è il frutto di una
lenta trasformazione e i resti delle storiche
strutture edilizie del XVIII secolo si vedono
ancora sui prati rimasti o all’interno dei boschetti di nuova formazione.
Appena lasciata la prima “fossa”, si raggiunge la seconda dolina, quella detta di Bena.
Qui il gestore ha introdotto la capra, in un
territorio che storicamente era stato delle
pecore e poi delle vacche. Anche in questo
caso si nota come gli ediici novecenteschi
siano stati posti sul fondo della dolina, dove
si poteva raccogliere l’acqua in ampi bacini
impermeabilizzati artiicialmente.
Da Fossa di Bena si sale verso la casera di
Costa Cervera, intercettando un importante belvedere sulla pianura in occasione
dell’arrivo di due importanti strade dal piano. Una era la storica e medievale strada che
La casera Cercenedo è gestita da Gian Antonio Favret
di Polcenigo
167
lisa Celant, con la sua sorella. La loro famiglia
gestisce questo pascolo da generazioni e la
proposta alimentare della famiglia è quanto
di più tradizionale ci possa essere. Formaggio di vacca, ricotte fresche e affumicate.
CONTATTI
Caneva, località Crosetta
tel: 0438 19 10 006 oppure 335 703 13 08
Casera Fossa di Sarone
Luca Pancotto e la moglie Sonia gestiscono
un agriturismo a Fratta di Caneva e a giugno
trasferiscono la loro attività in monte, avendo afittato una malga dal comune. Questo
è il solo esempio in regione di fattoria didattica in malga e l’esperienza pionieristica sta
mostrando un certo interesse. I Pancotto
hanno modernizzato il loro caseiicio.
CONTATTI
tel: 0434 74 89 14
oppure 340 79 61 329
Casera Cervera, nel Comune di Polcenigo, è condotta dalla giovane Annalisa Celant
storico, per poi raggiungere l’agriturismo attraverso il bosco. Qui è possibile rintracciare
piazzole carbonili in mezzo alla fustaia, che
testimoniano come nel tempo sia cambiata
la potenza della componente vegetale.
questo prodotto non ha, lo deinisce: «formaggio tradizionale delle malghe friulane, la
cui attività è nota in dai tempi de Patriarcato di Aquileia (XI-XV secolo)».
Casera Cercenedo
Casera Cercenedo ha una storia particolare
perché storicamente è stata un comparto
pascolivo di Caneva, mentre oggi è proprietà
del limitrofo Comune veneto di Cordignano.
Il toponimo richiama le pratiche del disboscamento per ottenere praterie artiiciali
a danno del bosco e questa località è citata
per la prima volta alla ine del Duecento.
Da pochi anni, la malga Cercenedo è gestita da Gian Antonio Favret di Polcenigo, che
pascola una ridotta quantità di bovini, tra
questi alcuni da latte. Il comparto si sta lentamente rimboschendo e la prateria è in fase
di regressione. La casera, da un lustro, è stata ampliata con una sala ristorante.
CONTATTI
Agriturismo Cortivo Pancotto
Via Damiano Chiesa 6
Fratta di Caneva
tel: 0434797145 oppure 0434 175 00 70
info@cortivopancotto.it
www.cortivopancotto.it
(video #17 della serie “Storie di nuova agricoltura” visualizzabile su Youtube: http://bit.
ly/23btWfC)
Casera Fossa de Bena
Dal 2010 la casera ospita un gregge di capre che per il resto dell’anno è a Polcenigo.
L’azienda agricola di Giovanni De Conti ha
introdotto quindi una pratica innovativa
sull’altipiano, proponendo un nuovo cibo e
vincendo non pochi dubbi e problemi. L’azienda vende i suoi prodotti anche in loco.
LA PRODUZIONE LOCALE DI CIBO
il “formai de malga”
L’ex Comunità montana ha fatto iscrivere
una speciale e moderna forma di formaggio
nella lista
dei “Prodotti agro-alimentari tradizionali” (D.M. 350/99), con la denominazione
“formai de malga”, nel tentativo di tutelarne
l’unicità. In questo modo si sono potute garantire le modalità tipiche di una produzione
molto diversa da quella del caseiicio classico. Di fatto, il latte si lavora ancora nel grande paiolo e viene cucinato a fuoco di legna.
Persino l’Ersa, nell’evocare un passato che
CONTATTI
tel: 338 90 99 266
Casera Costa Cervera
Anche Casera Cervera è posta in Comune di
Polcenigo ed è condotta dalla giovane Anna168
169
3 Problemi e prospettive di politica
dell’agricoltura
171
3.1 Pagine nuove per una perdente
di Mario Gregori
E il piatto è perso: le attività produttive si
localizzano altrove.
Tutto qui. Amen.
La nostra agricoltura sta perdendo in termini
di processi, di prodotti e di soggetti. I processi produttivi sono quelli tipici dell’azienda cerealicolo-zootecnica friulana. Il prezzo
dei cereali - ma anche quello del mais e della
soia - dipendono dagli andamenti delle borse
nelle grandi piazze: Chicago, ad esempio. Ma
anche dal sudore del contadino rumeno o del
bracciante dello Yunnan cinese, che portano
avanti la loro battaglia di più poveri contro
meno poveri, nella speranza di un futuro migliore. Altrettanto vale per il latte: prezzi al
L’AGRICOLTURA REGIONALE È UNA
PERDENTE
È una perdente al gioco della globalizzazione. Non per demerito suo - o almeno, soprattutto non per questo - ma semplicemente perché ha in mano le carte sbagliate. Nella
partita in corso contano due assi di briscola
molto diversi: grandi dimensioni e bassi costi. Al tavolo siedono imprese grandi, ma anche piccoli agricoltori di altri paesi. Le prime
possono avvantaggiarsi delle economie di
scala, i secondi della loro miseria. Rispetto
a tali competitor, la nostra agricoltura ha dimensioni troppo piccole e costi troppo alti.
Un campo di mais d’inverno
173
produttore troppo bassi per “starci dentro”.
E chi ne soffre maggiormente sono proprio
gli allevatori locali che ci hanno creduto di
più: hanno investito e, per questo, si sono indebitati. Ora i “conti non tornano”: le rate del
mutuo restano insolute, gli interessi si accumulano e il futuro delle aziende è cupo.
L’agricoltura regionale sta perdendo anche
sul fronte dei prodotti.
I “tipici”, il iore all’occhiello, non hanno gambe. Il Montasio, l’ambasciatore dei formaggi
locali, è prodotto, ormai, soprattutto da una
multinazionale che ha il cuore e il cervello
altrove e che -giustamente nella sua logica pare chiedersi perché debba impelagarsi nel
produrre con un costoso latte locale, sempre a rischio di una qualche contaminazione
batterica. Meglio un buon latte in polvere
prodotto in qualche angolo del mondo e
processato industrialmente: igienicamente
sicuro, facile da stoccare e a buon prezzo.
Con buona pace degli allevatori, che, ormai,
sono due o tre per paese, come gli idraulici.
Non ha gambe locali il San Daniele: va gestito nella logica di portafoglio-prodotti delle
industrie salumiere detentrici dei principali marchi del prosciutto locale. Né troppa
luce, né troppa ombra. E, soprattutto, cosce
a buon prezzo. Il maiale, da un certo punto
di vista, è molto più fortunato dei magrebini
o dei liberiani: dopo quaranta giorni che ha
passato il conine è italiano a tutti gli effetti.
Cominciano ad andare in affanno anche
segmenti della produzione vinicola: aziende
troppo piccole, o impreparate, per affrontare l’evoluzione della distribuzione in cui cresce il peso dei mercati lontani a discapito di
quelli vicini, contano le dimensioni e compaiono nuovi e solidi concorrenti (trasportare
un container di vino da un qualsiasi porto del
mondo a un qualsiasi altro costa una decina
di centesimi al litro), non ce la fanno. E diventano sub-fornitori di semilavorato (ovvero
vino sfuso) di grandi gruppi.
È perdente la platea dei prodotti minori.
Mele, asparagi, brovada, altri formaggi e vari
tipi di carne sono sottoposti a regimi di certiicazione: costosi, laboriosi ma, purtroppo,
commercialmente irrilevanti.
Così l’agricoltura locale sta diventando una
produttrice di commodities, di materie prime di base, sempre esposte al vento della
luttuazione dei prezzi e della pressione dei
costi.
Sta perdendo anche sul fronte dei soggetti.
Ha perso il suo ruolo di centralità sociale:
non ha più la forza di mandare decine di deputati al Parlamento e ne paga le conseguenze politiche. Si chiude la pagina del «si cumbine», dell’assessore all’agricoltura che si presenta all’assemblea dei soci della cooperativa
e, dopo essersi fatto pregare un po’ - tanto
perché i partecipanti non si dimentichino del
fatto alle prossime elezioni - promette il contributo che pareggia i conti in perdita (e sana,
talvolta, tanti errori manageriali).
I contadini contano poco di più degli idraulici
e come questi vanno trattati. I inanziamenti per il settore primario vanno spalmati, in
quest’epoca di ristrettezze dei bilanci pubblici, quanto più possibile su altri soggetti,
individuando i destinatari non nel “mondo
agricolo”, ma nello sfumato “mondo rurale”.
D’altra parte, è una decisione dificilmente
criticabile da un punto di vista politico: non
è possibile che il 40% del bilancio europeo
(quant’è la quota destinata al settore primario) vada al 4% della popolazione (quanti
sono gli agricoltori europei).
L’agricoltura regionale ha perso anche la
capacità progettuale: quel poco di rappresentanza che non si è schiacciata nel ruolo
di intermediario rispetto alla pubblica amministrazione nella gestione di procedure
burocratiche sempre più farraginose riesce
a esprimere non progetti, ma prove di forza
mediatiche, tanto brillanti quanto efimere.
È soffocata da una burocrazia ingestibile e
insopportabile, anche per i dipendenti pubblici che la gestiscono. Una persona, dopo
aver acquistato 3 (tre) galline ovaiole da tenere in cortile, si è vista consegnare dal contadino l’apposito “documento di trasporto di
animali”. Il contadino gli ha anche suggerito
di tornare a casa per strade secondarie, non
essendo un “trasportatore di animali autorizzato”.
Ma, soprattutto, ha perso la capacità di produrre innovazione.
Gli agricoltori si guardano intorno con occhi
confusi, nella speranza di trovare qualcosa di
diverso.
Sono stanchi, affaticati e delusi: hanno bisogno di sognare un futuro, ma non lo vedono.
Come gran parte di noi: dal Papa e dal Presidente della Repubblica in giù diciamo che
quello che vediamo (il mondo come va, in
questi anni) non ci piace. Eppure restiamo
immobili, passivi ed esangui, non accettando
niente e subendo tutto.
E proprio all’agricoltura afidiamo un ruolo
di utopia: prodotti della nostra terra, coltivazioni eco-compatibili, agricoltura sociale,
tutela del territorio e patti fra cittadini sono i
frammenti di aspirazioni che vorremmo concretizzare in campagna.
Magari è giusto così: da qualche parte bisogna pur cominciare.
Ma se lo vogliamo, lo dobbiamo volere con
forza. E accettare di incamminarci in un
mondo di cambiamento incerto, sostenendolo, sforzarci di concretizzarlo: trasformare desideri in proposte fattibili richiede concentrazione e sforzo. Dobbiamo richiederlo
con vigore. La politica deve tornare a occupare gli spazi in cui il mercato ha fallito; non
abbiamo bisogno di “abili comunicatori” e di
Twitter, ma di Roosevelt e New Deal.
Il Piano di Sviluppo Rurale che sta partendo
sarà, molto probabilmente, l’ultimo grande
piano agricolo: le risorse europee vanno
ridistribuite anche a favore di altri soggetti
sociali. Ora è il momento.
Le realtà imprenditoriali conosciute nell’ambito del progetto di Legambiente “Il cibo
produce e trasforma i paesaggi”1 sono alcuni
“frammenti di aspirazioni” concretizzati. Uomini e donne che hanno scelto di rischiare
del proprio (magari tutto) per cercare nuove
soluzioni di vita. Grande stima e grande rispetto vada loro. Nella speranza che questo
coraggio sia contagioso, per provare a scrivere nuove pagine dell’agricoltura regionale.
1 A questo link le videointerviste che raccontano
alcune di queste esperienze: http://bit.ly/1ZgK3RU
L’escursione a San Giorgio della Richinvelda, alla scoperta dell’agricoltura industrializzata
174
175
3.2 Il cambiamento possibile:
l’agricoltura come spazio di convivenza e di relazione
di Lucia Piani
e a quali obiettivi perseguire. Se questo è
vero, ripensare al sistema richiede un ripensamento anche dell’agricoltura, all’interno
di un panorama in evoluzione, in cui questa
gioca un ruolo sempre più importante. Il settore agricolo nel tempo è stato considerato
come anti-ciclico2, perché proprio per le sue
caratteristiche riesce ad assorbire e attutire
gli shock economici andando in controtendenza rispetto al ciclo economico generale.
L’agricoltura cresce meno quando l’economia
tira e soffre meno nelle fasi di recessione.
Ma c’è un elemento che contraddistingue
questa crisi rispetto alle precedenti a partire
dal settore primario: il cambiamento climatico, effetto di uno sfruttamento eccessivo
delle risorse, in molti casi non più disponibili3. L’agricoltura infatti, se da un lato impatta sul sistema ambientale, dall’altro più di
ogni altro settore è soggetto agli effetti del
surriscaldamento globale. Sempre di più,
in futuro, si dovranno cercare strategie di
adattamento per affrontare la sida dell’insicurezza alimentare.
Un altro aspetto rilevante per l’agricoltura
è la perdita di biodiversità che, come sosteneva la FAO nel 2010, avrà un notevole
impatto sulla capacità dell’umanità di nutrire i nove miliardi di persone che abiteranno
Al centro Lucia Piani, autrice di questo testo, durante
l’escursione lungo la pedemontana pordenonese
La mia rilessione scaturisce anche dalle
molte discussioni che ci sono state durante le camminate fatte con Legambiente alla
scoperta dei diversi e bellissimi territori e
alla conoscenza delle realtà produttive della
regione Friuli Venezia Giulia.
Da dove partire? Innanzitutto dalla situazione attuale, che tutti ben conosciamo, con
un’economia in crisi, un tasso di disoccupazione soprattutto giovanile molto alto, che
si rilette sulle tensioni sociali, ma anche da
una situazione che mostra evidenti gli effetti dei cambiamenti climatici (affrontati nel
summit di Parigi dal 30 novembre al 12 dicembre 2015)1.
Quella che viviamo si rivela una crisi di sistema, che quindi richiede di pensare collettivamente a quali politiche mettere in atto
2
F. de FiliPPis, d. roMAno, Crisi economia e agricoltura,
Quaderni del Gruppo 2013, Edizioni Tellus 2010.
L’articolo è scaricabile qui: http://bit.ly/1SHBUVF
L'8 agosto 2016 è stato l’Earth overshoot Day, il giorno
in cui la domanda annuale di risorse dell’umanità supera
ciò che la Terra può produrre. Per approfondire: www.
overshootday.org
3
Il sito uficiale della 21a Conferenza delle parti della
Convenzione Onu sui cambiamenti climatici: www.
cop21.gouv.fr
1
177
che che si fanno sul territorio, dalla politica
sul paesaggio che in questo periodo si sta
predisponendo in Regione attraverso il Piano Paesaggistico. Coinvolge anche le politiche dei trasporti, quelle sul cibo, sull’alimentazione, sulla salute, le politiche sull’acqua,
le politiche sul consumo di suolo, sul clima,
sulla coesione sociale e sull’immigrazione,
ino ai nuovi riassetti istituzionali. Dalle
il pianeta nell’anno 2050, con i più poveri a
essere i più colpiti. La FAO stima che tra il
1900 ed il 2000 si sia perso il 75% della diversità delle colture4.
Ma l’agricoltura ha un ruolo importante anche in relazione al fatto che le scelte in questo settore vanno a disegnare i territori di
vita delle comunità e i paesaggi più di ogni
altra attività economica.
La campagna dell’alta pianura friulana
Gelsi nell’alta pianura friulana
Di fronte a queste side ci si deve interrogare su quale debba essere il ruolo dell’agricoltura e quale sia il progetto di territorio, “il
progetto di regione”, che si vuole realizzare.
Questa è la vera questione: quale scenario
si vuole attuare attraverso una pianiicazione che sia sostenibile da un punto di vista
ambientale, sociale ed economico e che sia
coerente con le politiche portate avanti sul
territorio regionale, facendosi carico delle
emergenze a livello globale.
In questo contesto, il Piano di Sviluppo Rurale è uno strumento indispensabile ma senza un progetto entro il quale far conluire le
azioni dei singoli, le iliere, le istituzioni, la
ricerca, le pratiche compatibili che vengono poste in essere, potrà non avere gli esiti
sperati.
L’agricoltura infatti interseca tutte le politi-
scelte e dalla coerenza con tutte queste politiche si deve partire per rilettere sul ruolo
dell’agricoltura a livello regionale e su quale
agricoltura vogliamo dopo il 2020 (perché
sicuramente agricoltura ci sarà ino a che ci
sarà l’uomo).
Pensando ad esempio al rapporto tra agricoltura e paesaggio, è interessante richiamare alcuni obiettivi strategici5 della proposta di Piano Paesaggistico della Regione
Friuli Venezia Giulia che riguardano il territorio regionale: il valore della comunità e il
legame tra territorio e comunità, ma anche
la diversità e il mantenimento dei diversi
paesaggi e della biodiversità e inine l’importanza delle connessioni sia da un punto di vista ambientale che sociale. Questi temi sono
strettamente legati alle scelte che si faranno
nel settore agricolo rispetto alle colture e al
rapporto con il territorio.
A questo link maggiori informazioni sul secondo
Rapporto sullo Stato delle Risorse itogenetiche
mondiali per l’alimentazione e l’agricoltura della FAO:
http://bit.ly/1SpUbIq
4
I quaderni del Piano Paesaggistico regionale del Friuli
Venezia Giulia sono scaricabili a questo link: http://bit.
ly/23ZnLvx.
5
178
È evidente come nell’ultimo secolo il legame di dipendenza tra uomo e territorio si
sia allentato con la globalizzazione e come
l’agricoltore sia diventato un produttore
di “merce”, che entra nei mercati inanziari
piuttosto che in quelli del cibo che nutre.
E allora ci si deve chiedere se il futuro per
l’agricoltura regionale debba essere la competizione sui mercati internazionali, oppure
se sia necessario ripensare al tema della
rilocalizzazione delle produzioni e della
riterritorializzazione, verso una diversa
economia, valorizzando molti aspetti della
nostra agricoltura che ancora permangono.
Questi temi sono oggetto di dibattito anche
a livello internazionale (a settembre 2015 si
è tenuta a Roma la seconda conferenza internazionale sull’agricoltura urbana6).
Ma che cosa vuol dire tutto questo? Signiica ripensare al territorio come luogo della
vita e delle relazioni, considerare l’economia come spazio di convivenza e di relazione. Pochi dati sull’agricoltura regionale ci
mostrano come a fronte di una popolazione di 1.236.103 abitanti, in Friuli Venezia
Giulia in base al 6° Censimento dell’Agricoltura realizzato dall’Istat nel 2010, ci sono
22.316 aziende7, con una contrazione del
33% rispetto al censimento precedente.
La consistenza è di 1,8 aziende ogni 100 abitanti, un dato che in un certo senso rappresenta il ruolo delle aziende agricole come
potenziale fulcro delle relazioni di comunità. La supericie agricola utilizzata, SAU, è di
218.443 ettari, che signiica 1.764 m2 per
abitante, volendo portare il ragionamento sulla sovranità alimentare e/o sovranità
energetica. Il 28% della supericie regionale
(7.845 km2) è SAU, un dato che sottolinea
come l’agricoltura sia in relazione importante con il territorio e con il paesaggio.
Anche la lettura che offre il nuovo PSR ci offre spunti interessanti di rilessione quando
Un campo di frumento per la produzione del Pan di
Muçane
riporta il dato sulla dimensione aziendale e
mostra un panorama che «è costituito per
lo più da micro-aziende condotte da piccoli
proprietari di terreni che si dedicano all’agricoltura con modalità “part-time” ma che
in qualche modo mantengono un legame
con il territorio. Il 74,3% della SAU regionale è dedicato alla coltivazione di seminativi,
il 13,8% a prati e pascoli, l’11,7% alle legnose agrarie e per lo 0,2% alle orticole»8.
Con questo panorama c’è la necessità di
ripensare al ruolo dell’agricoltura in Friuli
Venezia Giulia, anche alla luce delle possibilità che il PSR offre, cercando di capire
se e ino a che punto è possibile ricondurre
una parte delle produzioni verso un sistema
che, oltre a privilegiare i prodotti locali legati a una tradizione alimentare, si basi su
nuove relazioni tra cittadini: consumatori e
produttori. Al centro di questa proposta si
pone il tema della costituzione di iliere locali, che anche il nuovo PSR fa proprio.
E allora è interessante riprendere i ragionamenti che si stanno proponendo, anche nella nostra regione, nella costruzione di pezzi
di economia solidale attraverso una proposta di legge sull’economia solidale, un tema
sul quale già altre Regioni hanno legiferato
(ad esempio l’Emilia Romagna e la Provincia
autonoma di Trento).
Per maggiori informazioni:
www.agricultureinanurbanizingsociety.com.
6
7
Dal PSR 2014-2020, disponibile qui: http://bit.
ly/1qQ04DZ
8
www.istat.it/it/censimento-agricoltura
179
della solidarietà invece che della competizione. L’idea di distretto deve poter realizzare due condizioni essenziali: in primo luogo
raggiungere al massimo grado possibile la
sovranità alimentare ed energetica e, in secondo luogo, consentire forme avanzate di
autogoverno della comunità distrettuale, riducendo al minimo la necessità di ricorrere
alla delega.
In regione si stanno sperimentando percorsi
alternativi, vere e proprie sperimentazioni
di innovazione sociale, attraverso la sottoscrizione di patti tra cittadini (produttori e
consumatori) sulla base di un atto reciproco
di iducia: il patto della Farina dell’alto Isontino, il patto del Pan e de la Farine dal Friuli di
Mieç10 il patto del Pan e de la Farine di Muçane.
Sono tutte iliere locali che si basano su un
accordo tra cittadini, che assieme deiniscono le responsabilità e il prezzo dei prodotti e
che coinvolgono gli agricoltori nell’impegno
a coltivare prodotti di qualità, i trasformatori nelle pratiche di trasformazione e inine i
consumatori, che si assumono parte del rischio d’impresa diventando coproduttori.
Il Forum dei Beni Comuni e dell’Economia
Solidale9 ha formulato una proposta di legge
regionale sull’economia solidale con l’obiettivo di avviare comunità auto-sostenibili,
attrezzandole ad essere resilienti, consapevoli che la semplice e spontanea formazione
e aggregazione di buone pratiche dal basso
non basta, anche perché i tempi sono chiaramente incompatibili con la sostenibilità
ambientale e sociale. Si legge nella relazione
che accompagna la proposta di legge: «Serve
un ruolo attivo di sostegno delle pubbliche
istituzioni, per dotare il movimento dell’economia solidale di appositi strumenti, istituzioni che lo sorreggano nella sua crescita. E
la prima istituzione a cui si è pensato, presa
a “prestito” dalla Rete italiana dell’economia
solidale e ormai adottata in altre analoghe
proposte di legge regionale, viene deinita
“Distretto di Economia Solidale”».
Il Distretto di Economia Solidale, secondo
questa proposta, corrisponde a un territorio (formato da più comuni) in cui riscoprire
il vincolo essenziale fra la comunità e il suo
spazio di insediamento, di vita, sotto il segno
9
4 Buone pratiche
10
Sull’esperienza del Pan e farine dal Friûl di mieç si veda
l’intervista a Massimo Moretuzzo al capitolo 4.1.
www.forumbenicomunifvg.org
180
181
4.1 Pan e farine dal Friûl di mieç:
un patto verso l’economia solidale
intervista a Massimo Moretuzzo1
a cura di Elisa Cozzarini
A Sedegliano, il 5 novembre 2015, alcuni
soggetti economici coinvolti nella iliera del
pane, diversi cittadini e le amministrazioni
comunali di Basiliano, Flaibano, Mereto di
Tomba e Sedegliano, hanno siglato un patto, intitolato Pan e farine dal Friûl di mieç, per
l’avvio di una iliera locale, sostenibile e solidale, della farina di frumento e dei prodotti
da essa derivati. È il primo passo verso la
costituzione di un distretto di economia solidale del Medio Friuli.
Il documento non è un accordo economico,
ma un impegno fra le parti, un patto di solidarietà, appunto.
può che essere limitata e, per fare la differenza, è necessario aumentare la supericie
coltivata. L’idea di allargarsi ad altri territori
è il primo elemento che ha dato il via al patto
del Pan e farine dal Friûl di mieç, tra Mereto,
Basiliano, Flaibano e Sedegliano.
Il secondo elemento sono i nuovi bandi del
Piano di Sviluppo Rurale (PSR), che offrono agli Enti locali l’opportunità di costruire
progetti di sviluppo agricolo, a cui stiamo già
lavorando, con l’obiettivo di far nascere un distretto di economia solidale, a partire dall’agricoltura. Abbiamo cominciato all’inizio del
2015 con la iliera dei cereali, anche prendendo spunto da altre esperienze italiane, come
Spiga & Madia in Brianza, o quella di Dolegna
del Collio con il Molino di Trussio. Siamo partiti dagli stessi presupposti: una produzione
biologica, o comunque basata sulla conoscenza e sulla relazione, che si sostituiscono
alla certiicazione, la iducia, la iliera e la costruzione partecipata del prezzo.
È stata costituita un’unica Commissione
agricoltura intercomunale e per prima cosa
abbiamo coinvolto le aziende agricole, a partire da quelle più vicine e sensibili ai valori
dell’economia solidale. Anche il coinvolgimento della piccola distribuzione locale è
stato fondamentale, perché le piccole botteghe nei paesi fungono da centri di aggregazione per la comunità.
Sindaco, ci spiega come nasce il Pan e farine
dal Friûl di mieç?
C’era la volontà di condividere un progetto
di sviluppo territoriale sui principi dell’economia solidale. Si partiva dall’esperienza
della farina di San Marco, una frazione di
Mereto di Tomba, dove il comitato dei frazionisti coltiva cinque ettari di terreno a
frumento biologico e lo trasforma in farina e
pane, in collaborazione con il Molino Zoratto, con il paniicio Job di Mereto e coinvolgendo la piccola distribuzione locale. È un
progetto di iliera corta, nato da un percorso partecipato e realizzato in una proprietà
collettiva. Ha dato luogo, tra le altre iniziative, alla Sagra di San Marco, che ha vinto il
premio Sagre virtuose di Legambiente FVG.
Coltivando pochi ettari di terreno, però, la
produzione della farina di San Marco non
1
Come funziona il patto?
Gli agricoltori coinvolti producono il grano,
i mulini presenti sul territorio lo trasformano in farina, i paniicatori realizzano e
distribuiscono il pane, i cittadini possono
Sindaco di Mereto di Tomba (UD)
183
del futuro e una forte sensibilità culturale e
ambientale. Le elezioni comunali del 2014
hanno portato a un rinnovamento anche
generazionale degli amministratori locali.
Lavoriamo bene, ci siamo trovati in sintonia
a immaginare un futuro diverso per il Medio
Friuli.
Ciò porta anche innovazione e conoscenza
nelle nostre campagne.
I campi della proprietà frazionale di San Marco
acquistare il pane o la farina dagli esercizi
commerciali aderenti. Il prezzo viene concordato da tutti soggetti della iliera, dagli
agricoltori ai cittadini, mettendo in conto
i costi di produzione, di molitura, di stoccaggio, i costi di lavorazione e della piccola
distribuzione, per ottenere un prezzo che
sia equo per tutti. L’obiettivo comune è
remunerare il lavoro di chi coltiva e di chi
trasforma, ma anche incontrare le necessità e le disponibilità dei consumatori, offrendo un prodotto buono per tutti. Esiste
quindi la volontà di costruire un progetto
di solidarietà sociale, per chi produce e per
chi acquista e consuma, un progetto di valorizzazione delle risorse, gestito in modo
partecipato e a salvaguardia della dignità
del lavoro, della vita sociale della comunità
e dell’ambiente.
Quello stabilito dal patto per il 2016 è più
del doppio rispetto al prezzo di mercato: va
dai quaranta ai cinquanta euro al quintale,
contro i diciotto, venti euro del mercato.
A oggi hanno aderito una quindicina di
aziende agricole, che hanno messo a disposizione un totale di circa quaranta ettari di
terreno. Gli agricoltori si impegnano a produrre seguendo determinate regole, nel rispetto dell’ambiente.
Non tutte le aziende aderenti sono certiicate bio, ma conta il marchio del territorio,
che porta con sé la relazione di iducia tra
chi acquista e chi produce. Il prodotto viene
poi conferito a una rete d’impresa, un nuovo soggetto giuridico creato ad hoc, a cui
aderiscono tutte le imprese irmatarie.
C’è molto interesse da parte dei cittadini e
l’esperienza di San Marco insegna che un’iniziativa di questo tipo attirerà anche persone da fuori, ristoratori e negozianti che
richiederanno il prodotto.
Al patto stanno partecipando anche l’Università di Udine e l’Associazione italiana
agricoltura biologica (AIAB), che forniscono supervisione e consulenza tecnica sui
processi produttivi.
184
Perché avete scelto di coltivare il frumento
e fare il pane?
Il pane ha una valenza simbolica importante, è legato alla religione ma anche alla vita
quotidiana. Eppure oggi noi importiamo farina dall’Ucraina o dal Canada, aumentano
le intolleranze alimentari. Ci sembra assurdo aver dimenticato come si coltiva il frumento e come si fa il pane, anche perché è
relativamente semplice, come dimostrano le
esperienze in corso. Questo progetto interviene anche per contrastare la monocoltura
del mais e della soia, che impera nelle nostre campagne. Pone le basi per una nuova
agricoltura, più rispettosa dell’ambiente e,
anche se non impone alle aziende aderenti
la certiicazione biologica, può servire a favorire le realtà che hanno comunque avviato
la conversione a biologico, che prevede tra
l’altro la rotazione delle colture.
L’agricoltura convenzionale ormai non è più
redditizia: per questo le aziende iniziano a
manifestare curiosità e interesse per proposte come la nostra, anche perché vedono
i risultati dell’esperienza del comitato frazionisti di San Marco. Tuttavia, in generale,
il mondo agricolo è poco pronto all’innovazione. Manca una cultura agricola, abbiamo
perso la capacità di comprendere e rispettare i tempi e modi di produzione della terra.
Cosa intende quando sottolinea l’importanza dell’identità locale?
Non penso a un’identità immutabile, chiusa
ed escludente. È l’identità che parte dalla
nostra storia e dalla nostra lingua e si lega al
paesaggio e al territorio del Friuli, rispettandolo. Un’identità non di tipo conservatore,
ma innovativa, aperta, che lega lingua, cultura, storia, paesaggio, ambiente, per la tutela
trasversale della biodiversità locale. Grazie
anche ai fondi del PSR, quest’idea di identità
locale dovrebbe trovare una sintesi, unendo
cultura, sociale e agricoltura, per un paesaggio dell’economia solidale, anche con un’offerta turistica alternativa. Si potrebbe per
esempio avviare il ripristino delle antiche
vie rurali che portavano da Udine al Tagliamento, recuperando parti del territorio che
sono state distrutte dai riordini fondiari, con
la ripiantumazione di siepi e ilari, il ripristino
dei fossati. L’auspicio è individuare nel PSR
possibilità di inanziamento in questo senso.
Può farci un esempio concreto di come l’economia solidale può avere un effetto positivo per una piccola comunità come quella
di Mereto?
A novembre e dicembre 2015, con i fondi a
disposizione dall’assesto di bilancio, come
amministrazione abbiamo messo a disposizione delle famiglie buoni spesa ino a un
massimo di 250 euro (per i redditi più bassi),
da spendere nei piccoli esercizi commerciali
del territorio.
È stato coinvolto circa il 10% delle famiglie,
quelle con Isee ino a trentamila euro. Il nostro obiettivo era, certo, dare un aiuto ai
cittadini, ma anche contrastare il monopolio
della grande distribuzione e permettere alle
piccole botteghe di paese di sopravvivere.
Qual è la valenza sociale del progetto?
Ci aspettiamo un impatto importante. Vogliamo dimostrare che l’economia solidale
non è un settore di nicchia, ma può diventare, soprattutto in un momento di crisi
come quello che stiamo vivendo, un veicolo
di cambiamento importante. Puntiamo a far
crescere nuove progettualità, verso la costruzione di un modello di sviluppo sostenibile, legato al territorio e alle identità locali,
antagonista al modello dominante, basato
sulla crescita senza limiti.
Il progetto non parte dal mondo agricolo, ma
da un gruppo di sindaci con una certa visione
185
Così i soldi sono rimasti sul territorio e hanno creato un beneicio diffuso.
Se sarà possibile, verrà replicata, magari
anche incentivando l’acquisto non solo nelle botteghe del luogo, ma anche di prodotti
con un marchio territoriale.
sul coinvolgimento dei cittadini, ed è questa
la parte più faticosa, che richiede un grande
impegno dell’Ente locale. Tutti i meccanismi
partecipativi costano fatica, ma la dimensione relazionale è cruciale per la buona riuscita del progetto, va ricostruito il senso di
comunità che si è perso.
Molte rilessioni interessanti in questo senso si trovano negli scritti di Adriano Olivetti.
A Mereto sto cercando di mettere in pratica
ciò in cui credo, anche come rappresentante del Forum per i beni comuni e l’economia
solidale del Friuli Venezia Giulia. Ma sarebbe importante, per innescare meccanismi
di economia solidale, avere le risorse per
coinvolgere igure cruciali nella fase di avvio, quali gli animatori di comunità. Il Forum,
a livello regionale ha presentato una proposta di legge sui distretti solidali, che da oltre
due anni attende di essere discussa dal Consiglio regionale. Purtroppo c’è ancora poco
interesse per queste forme di economia, da
parte di chi occupa i posti di comando...
Il PSR incentiverà le iliere locali: che differenza c’è con la costruzione di distretti di
economia solidale?
L’economia solidale può avere un impatto
solo se agisce su scala ampia e con il coinvolgimento della comunità: da qui nasce l’idea
dei distretti di economia solidale, che nella
nostra regione dovrebbero coincidere con
gli Ambiti socio-sanitari. A livello italiano ci
sono alcune esperienze, ma i distretti non
sono ancora realtà consolidate. Un buon
esempio è quello della Rete di Economia Etica e Solidale (RES) delle Marche2.
Il distretto è un sistema di economia locale
che si basa sulle iliere corte, ma soprattutto
2
http://web.resmarche.it/resmarche/index.html
4.2 Gli orti urbani a Pordenone,
un collante per la città
di Marco Pasutto1
vata dai dati satellitari, ha calcolato che in un
raggio di venti chilometri dal centro città gli
orti non professionali, nel mondo, occupano
una supericie pari ai 28 Stati dell’ Unione
Europea e hanno un ruolo ancor maggiore
all’interno dei centri urbani, assumendo il
ruolo di veri e propri spazi sociali, palestre
di civismo, dove piccole comunità di cittadini
interagiscono, diffondendo velocemente la
cultura delle buone pratiche ambientali, della buona alimentazione e del senso e della
lotta contro gli sprechi alimentari.
In Friuli Venezia Giulia, da un’indagine
dell’IRTEF, istituto di ricerca con sede a Udine, emerge un tessuto non professionale
agricolo di oltre 1.400 ettari coltivati a orti,
con più di 250mila famiglie coinvolte. La tendenza è alla crescita e sta esplodendo sempre di più anche nelle zone più urbanizzate.
A Pordenone città, la progettazione e la creazione di orti urbani è iniziata da diversi anni
e sta svolgendo un ruolo importante nella
In questi ultimi anni è scoppiato e si sta sviluppando, nelle città di tutto il mondo, il fenomeno degli orti urbani. Stanno prendendo
piede declinandosi in forme sempre diverse,
andando oltre a quella che è la mera produzione, attivando forme di collaborazione
sempre nuove, complesse e diversiicate.
Gli orti urbani, aumentando costantemente
di numero, nelle varie modalità, vanno ben
oltre il loro valore simbolico, dal momento
che ottengono anche la funzione reale di
recupero di spazi urbani, che altrimenti andrebbero destinati magari alla speculazione
edilizia o all’abbandono, e quindi, di fatto, si
conigurano come autentici strumenti di politica urbanistica.
Inoltre, incrementando le aree verdi, migliorano e preservano la qualità dell’ambiente,
creando un piccolo polmone verde che va
a mitigare l’inquinamento. In aggiunta propongono anche un senso paesaggistico attraverso le attività agricole, recuperando
aree talvolta impensabili. In più, possono
svolgere anche una caratteristica funzione estetica con colori e forme insolite per
un ambiente che apparentemente poco si
presterebbe. In un quadro generale in cui il
consumo di suolo sta diventando un fattore
di attenzione preminente, gli orti urbani si
collocano al posto giusto al momento giusto.
Per capire la portata della tendenza globale, una recente stima della rivista scientiica
online Environmental Research Letters, ricaMarco Pasutto è l’ideatore dell’orto “Le Coccinelle” di
Vallenoncello, gestito dall’Associazione Micromondo di
Famiglie.
1
186
Marco Pasutto nell’orto sociale “Le Coccinelle”
187
pubblica, sia quelli promossi da privati, si
collocano omogeneamente nelle varie zone
della città: nel quartiere di Rorai Grande, in
Comina (presso l’opera Villaggio del Fanciullo), a Villanova, a Torre, a Vallenoncello (con
l’Associazione Micromondo di Famiglie e “Le
cuiere di San Giuseppe” della Cooperativa
Sociale Abitamondo), a Borgomeduna, nel
parco di Villa Carinzia in viale Martelli e in
via Brusaiera, con il laboratorio di permacoltura urbana “Oltre il giardino”, lanciato da
“Il ballo della scrivania”.
Ma chi sono e cosa coltivano questo esercito di coltivatori?
Sempre dallo studio dell’IRTEF, si evince che
sono pensionati (45%), casalinghe (14%),
impiegati (12%), operai (10%), lavoratori autonomi, commercianti e imprenditori (8%),
insegnanti (4%).
Le nazionalità presenti sono un mix tra italiani e cittadini provenienti da tutto il mondo: questo fa intuire l’importanza di questi
spazi, che diventano luoghi di incontro e occasioni di integrazione basati sul fare pratico
e sulle relazioni.
Gli orti urbani consentono la produzione di
ortofrutta tipica e di stagione, permettendo
ai residenti di cibarsi in modo sano e genuino attraverso una “iliera a metro zero”, coltivando prodotti (pomodori, zucchine, cetrioli
ecc.) tipici locali e non, ma anche trovando
l’occasione di sperimentare ortaggi magari
scambiati con altri orticoltori del vicino spazio, e talvolta provenienti da posti lontani:
così facendo gli ortaggi assumono il ruolo di
veri e propri beni relazionali.
Questi spazi strutturati spesso creano la
possibilità di far nascere un susseguirsi di
progetti sociali, dando vita a nuove iniziative. È il caso di “Hortus Naonis”, un progetto
partito dalla collaborazione della Cooperativa Noncello, con l’Azienda Sanitaria n. 6 e
il Comune di Pordenone. Nel 2013 è stata
avviata l’iniziativa “Adotta una piantina”, con
l’obiettivo di riempire le borse alimentari destinate ai bisognosi, e sono stati tutti gli orti
sociali e collettivi di Pordenone. Questo progetto è di fatto continuato, modiicandosi
Lavorare all’orto sociale è anche un’occasione di incontro e aggregazione
vita di molti cittadini. Una delle prime esperienze è stata quella avviata dalla Provincia,
nel parco di Villa Carinzia, nel 2000: “Il giardino delle sorprese”, un progetto inalizzato
all’inserimento dei disabili in un contesto di
apertura alla città e alle scuole, usando lo
strumento dell’ortoterapia, in collaborazione con l’Azienda Sanitaria n. 6.
In seguito, nel 2009, l’Assessorato alle Politiche Sociali del Comune di Pordenone ha avviato i primi orti sociali in alcune zone della
città. Dopo un bando di assegnazione, il 25
aprile 2010, le prime famiglie hanno ottenuto uno spazio per coltivare un orto e iniziare il proprio lavoro. Partendo da circa 150
famiglie, il numero delle persone coinvolte
negli orti, divisi in lotti di diverse metrature,
ha superato ben presto le 200 unità. Sono
stati interessati non solo cittadini, ma anche
associazioni che si sono dedicate al tema
agricolo, ingrandendo così ulteriormente la
platea degli interessati.
Va segnalato che, parallelamente nel tempo,
si sono creati in città diversi momenti formativi e divulgativi sulle tecniche di coltivazione dell’orto, ma soprattutto si sono moltiplicate le occasioni per sensibilizzare i cittadini
alla coltivazione con metodi e tecniche che
escludono pesticidi o concimi chimici, contribuendo così a formare sempre di più persone consapevoli verso la ricerca di prodotti
naturali e di alto valore. Oggi a Pordenone
gli orti sociali, sia quelli nati per iniziativa
188
buon samaritano”, coordinato dal pastore
Miglio, insieme a un gruppo di “aspiranti contadini” ha fornito prodotti per oltre trecento
borse alimentari al mese, incrementando il
circuito positivo di solidarietà. Oltre alla solidarietà, gli orti urbani di Pordenone hanno
portato anche bellezza e cultura-ecologista.
È il caso dell’orto solidale “Le Coccinelle” di
Vallenoncello, che nel settembre 2014, con
un percorso orticolo innovativo, ideato in
collaborazione con l’associazione Biodiversamente di Francesca Del Santo ed Emiliano
Buffo, ha vinto il premio internazionale “Alla
ricerca della Biodiversità”2, per aver coinvolto ben 273 bambini delle scuole elementari
e medie di Pordenone.
Inine, a pochi passi dal centro, in via Brusaiera, è di scena da ine 2014 il laboratorio urbano “Il ballo della scrivania” che cura
un’area del posto costruendo piccoli orti con
la tecnica della permacoltura e ha l’obiettivo
più ampio di riprogettare lo spazio urbano
nell’ottica della sostenibilità, del riciclo e della rigenerazione degli spazi urbani.
Tutte queste esperienze, sperimentali e
consolidate, ci permettono di capire l’importanza della riscoperta di una parte della
nostra natura storica agricola e la capacità di
inglobare in chiave moderna una inestra di
campagna del passato all’interno della città
futura.
L’orto “Le Coccinelle” di Vallenoncello è anche uno
spazio di sperimentazione
nei modi e negli anni, ino a oggi. Ha dato un
contributo importante anche l’Associazione
Micromondo di Famiglie e si è arrivati a donare nel 2015 due tonnellate di ortofrutta
per le borse alimentari distribuite dalla Caritas di Pordenone. Analogamente, dall’altro
lato della città, in Comina, l’orto collettivo “Il
Il premio è stato assegnato nell’ambito del progetto
SIIT, con capoila l’Università di Treste: www.siit.eu
2
189
4.3 L’ Associazione fondiaria:
uno strumento per la rinascita della montagna
intervista a Luca Postregna1
a cura di Renato Marcon
La prima Associazione fondiaria delle Alpi
orientali nasce in Friuli Venezia Giulia, nella
Valle dell’Erbezzo, la più sud-orientale delle
Valli del Natisone, in provincia di Udine.
La ricerca di soluzioni, elaborate in occasione della campagna elettorale, per superare
la polverizzazione fondiaria che condiziona
fortemente ogni possibile iniziativa valligiana si è incontrata con le esperienze piemontesi delle prime associazioni fondiarie
costituite nel 2012 nel Cuneese e nell’Alessandrino, che a loro volta si rifacevano alle
esperienze francesi dell’Association foncière
pastorale, in base alla legge del 1972 sulla
valorizzazione pastorale3.
L’Associazione fondiaria, che in Italia manca
di un supporto legislativo, è uno strumento
di contrasto alla marginalità delle aree montane e collinari.
Consente, con l’accorpamento della frammentazione fondiaria, il possibile recupero
dei terreni abbandonati attraverso la costituzione di un’associazione volontaria fra
i proprietari dei terreni appartenenti a un
ambito geograico omogeneo.
La inalità è quella di consentire un accorpamento funzionale alle iniziative di recupero
dell’utilizzo delle aree prative ai ini agro
pastorali, contribuendo in tal modo alla preservazione e in gran parte alla riconquista
del tradizionale paesaggio delle Valli del Natisone.
L’Associazione, che non ha ini di lucro e non
usucapisce i beni conferiti per statuto, contribuisce a conservare le singole proprietà,
incrementare i valori fondiari dell’insieme
delle aree coinvolte e consente di generare
esternalità positive per l’intera comunità.
I soci fondatori dell’ASFO il 19 maggio 2015
La costituzione dell’Associazione fondiaria
trova origine dal laboratorio di idee creato
da un gruppo di giovani impegnati a individuare buone pratiche da perseguire per lo
sviluppo sostenibile di un’area decisamente
marginale quale quella delle Valli del Natisone. Il gruppo, inizialmente aggregato da
una lunga battaglia per la difesa dei prati di
Tribil inferiore che ha “catturato” anche un
frequentatore assiduo delle Valli quale il
curatore della presente intervista2, si è successivamente cimentato, con successo, alle
elezioni del Comune di Stregna nel 2014.
1
Sindaco di Stregna (Ud).
Renato Marcon, sanvitese, è stato eletto consigliere
comunale di Stregna nel 2014.
3
Loi n° 72-12 du 3 janvier 1972 relative à la mise en
valeur pastorale
2
191
L’ASFO tra le frazioni di Stregna e Postregna
Il contatto con il prof. Andrea Cavallero
dell’Università di Torino, che dell’Associazione fondiaria è colto divulgatore e animatore, presente nelle Valli all’incontro
promosso dal Comune di Stregna nel marzo del 2015, con la partecipazione anche
dell’Assessore regionale Santoro, è stato
un momento fondamentale nella decisione
di costituire l’Associazione fondiaria della
Valle dell’Erbezzo (ASFO).
L’ASFO Valle dell’Erbezzo è stata formalmente costituita nel maggio del 2015.
L’Associazione fondiaria Valle dell’Erbezzo
è composta da settanta soci, incluso il Comune di Stregna, che è stato tra i soci fondatori. Ad oggi sono state conferite oltre
320 particelle catastali, equivalenti a 42
ettari di terreni localizzati principalmente
nei pressi delle frazioni di Stregna, Oblizza
e Tribil Superiore.
Abbiamo chiesto al giovane Sindaco di
Stregna, Luca Postregna, di fare il punto
su quest’esperienza.
L’ASFO a Oblizza
L’ASFO a Tribil Superiore
192
Sindaco, quali sono state le maggiori dificoltà incontrate per la costituzione dell’Associazione fondiaria?
La fase di avvio non è stata complicata. Siamo stati introdotti all’argomento nel 2013
da Gabrile Iussig, forestale, già allievo del
prof. Cavallero dell’Università di Torino, durante una passeggiata nei castagneti della
frazione di Dughe, accompagnati anche dal
prof. Livio Poldini.
L’argomento è stato dunque ripreso all’inizio
del mandato elettivo sfruttando in questo
modo la visibilità che avevamo raccolto. È
stato suficiente utilizzare il materiale delle
precedenti esperienze piemontesi e adattarlo alla nostra realtà territoriale.
Qual è stata la risposta della popolazione
locale?
Molto buona: fin da subito siamo riusciti
a coinvolgere quelli che sono diventati i
soci fondatori. Percepite le potenzialità
dello strumento, si sono motivati a con-
193
forestale. Successivamente procederemo
con la redazione di un piano pascolivo delle
aree, in modo da ottimizzare al più presto il
loro valore fondiario.
tattare i proprietari dei fondi. Grazie a un
inanziamento regionale per il recupero dei
terreni incolti e abbandonati, è stato possibile iniziare il confronto con i cittadini che,
una volta rassicurati del mantenimento della
proprietà, della facilità di contribuire e allo
stesso tempo abbandonare l’iniziativa, hanno colto l’obiettivo che ci siamo posti, cioè
restituirci quel paesaggio che è ampiamente
legato alla memoria dei più anziani.
È stato possibile utilizzare un sostegno
pubblico a supporto dell’ASFO?
Finora in Italia c’è un vuoto normativo
sull’argomento.
Sul fronte piemontese però il prof. Cavallero
sta lavorando a iniziative di legge sia regionali che nazionali. Sono certo che la Regione
Friuli Venezia Giulia stia seguendo con interesse la nostra sperimentazione.
Più direttamente, il sostegno dell’amministrazione comunale di Stregna ha certamente aiutato a gestire i rapporti con gli enti
pubblici e privati sovracomunali, come ad
esempio per i dati cartograici e catastali.
Come funziona nel concreto la gestione
delle aree conferite all’ASFO?
L’eficacia risiede nella sua semplicità: i soci
conferiscono la gestione dei fondi all’Associazione, che a sua volta programma interventi di recupero e quindi cede le superici ai
potenziali operatori, in particolare pascolivi.
Il tutto è regolato da comuni contratti agrari, garantendo in questo modo la tutela per
tutte le parti.
za di ampie superici prative, in particolare in
prossimità delle frazioni di Tribil Superiore e
Tribil Inferiore. La regolarità degli sfalci e l’asportazione della biomassa ha caratterizzato queste aree per l’elevata biodiversità, ino
a 70 specie per ettaro.
Il loro valore naturalistico e agricolo credo possa essere sfruttato anche economicamente, integrato con l’attività pascoliva
regolata da buoni piani di gestione. Credo
sarà questa la direzione che suggeriremo di
intraprendere in futuro.
Quali sono le prospettive future dell’ASFO
Valle dell’Erbezzo?
In questi mesi l’attività dell’Associazione si
sta concentrando nelle adiacenze dell’ediicato delle frazioni, su terreni particolarmente impervi e incespugliati. Altro aspetto
che approfondiremo prossimamente sarà
quello selvicolturale: in questo caso sono da
affrontare alcuni aspetti legati al particolare
valore economico della biomassa, ma ci sono
buone prospettive. Inoltre, il territorio di
Stregna si caratterizza anche per la presen-
Può l’ASFO favorire il ritorno del lavoro
nelle aree marginali e contrastare l’abbandono del territorio collinare e montano?
La legislazione regionale in passato ha già
provato ad affrontare il problema del frazionamento e della multiproprietà, ad esempio con i piani d’insediamento produttivo
agricoli o di razionalizzazione fondiaria, con
scarsissimi risultati. Quell’approccio suggeriva ai Comuni di intervenire sui diritti di
proprietà, ma non si è andati molto lontano. Questo è invece uno strumento che sta
avendo un buon riscontro in Piemonte e
Lombardia, oltre che ovviamente in Francia,
dove si è già affermato. D’altro canto le attività agricole in zone rurali come la nostra
sono dificili, basti pensare all’abbattimento
dei prezzi del foraggio delle nostre Valli, seppur di elevatissima qualità.
L’alternativa che stiamo cercando di costruire è quella pascoliva; anche qui però un po’ ci
scontriamo con il fatto che la tradizione non
è diffusa sul territorio. È innegabile comunque che stiamo ponendo basi interessanti
per un ripristino agricolo del nostro territorio, affrontando il problema della parcelizzazione, e stimolando l’interesse di potenziali
agricoltori.
Quali sono le principali dificoltà ino ad
ora incontrate nella gestione dell’ASFO?
Tra gli aspetti che abbiamo affrontato nel
primo anno di lavoro, i più rilevanti sono la
predisposizione dello statuto e dei moduli di
adesione. Stiamo perfezionando una bozza
dei contratti d’afitto tra l’Associazione e gli
operatori, che possono essere terzi, ma anche i soci stessi, ai quali comunque è garantito un utilizzo personale e parziale dei fondi
concessi all’ASFO.
Quali supporti tecnici sono necessari per la
corretta gestione?
Anche se non è propriamente un supporto
tecnico, abbiamo avuto innanzitutto una
fruttuosa collaborazione con l’uficio legale
della Coldiretti di Udine, che ci ha assistito
nella predisposizione dei moduli di adesione
e dei contratti d’afitto.
Si tratta del conferimento di un bene, e il
supporto dell’associazione degli agricoltori
è stato prezioso.
A breve partiremo con i primi interventi
di recupero sui fondi dell’ASFO, la cui programmazione è organizzata da un tecnico
194
195
4.4 Storie di nuova agricoltura nella provincia
di Pordenone
di Elisa Cozzarini
Il progetto mette in evidenza le potenzialità
del nostro paese, così legato alla produzione
di cibo. È importante non solo localmente,
ma soprattutto perché lascia intuire che, allargando lo sguardo all’intero Friuli Venezia
Giulia e all’Italia, ci sarebbe davvero una miriade di storie positive da valorizzare. Tante
piccole esperienze che, messe assieme, hanno un potenziale rivoluzionario.
Lo spunto della campagna di Legambiente
deriva da una rilessione sul tema di Expo
2015, con una lettura particolare della produzione di cibo: come le diverse tradizioni
del cibo si sono via via sedimentate sul territorio? Che paesaggi hanno prodotto, sugli
stessi luoghi, a partire dall’Ottocento ino a
oggi? L’evoluzione della società contemporanea e, soprattutto, del rapporto tra città e
campagna, può portare anche ad avere delle
trasformazioni sul paesaggio, indotte dagli
stili di vita, dai modelli comportamentali,
dalle abitudini alimentari della popolazione.
La ricerca è partita dall’analisi delle cartograie, dei testi dell’Associazione agraria
friulana e delle riviste che si interessavano
di agricoltura nei diversi periodi storici, per
ricostruire quello che è stato in passato il
rapporto dell’uomo con le produzioni locali.
Alcuni cibi sono completamente scomparsi
dalla provincia di Pordenone e, assieme a
loro, anche interi paesaggi sono stati cancellati, ad esempio quello delle risaie.
L’obiettivo del circolo di Legambiente è
anche lanciare un messaggio alla politica:
il futuro dell’agricoltura non deve essere
considerato solo in termini burocratici, per
ottenere i inanziamenti che l’Ue mette a di-
Da questa immagine
con uno smartphone
si può accedere direttamente alle videointerviste “Storie di
nuova agricoltura”
Nuove soluzioni alla crisi, sostenibili e innovative, possono nascere in aree marginali e
nel settore primario. Lo dimostrano le moltissime esperienze virtuose di agricoltura e
allevamento sorte in provincia di Pordenone
negli ultimi anni. Il Circolo Legambiente “Fabiano Grizzo” ne ha incontrate alcune, lungo
le esplorazioni partecipate del progetto “Il
cibo produce e trasforma i paesaggi”. Sono
tante piccole aziende che, in equilibrio tra
tradizione e innovazione, fondano nuove
economie attraverso un ritorno rivisitato alla terra, con un’attenzione particolare
all’ambiente, al paesaggio e al sociale.
Una capra presso l’azienda Fabee di Sesto al Reghena
197
L’allevamento di bufale di Michele Capovilla a Castello
di Aviano
sposizione attraverso la PAC, serve invece
una politica territoriale autonoma, speciica
dei diversi territori. Le nuove pratiche infatti
producono trasformazioni con un impatto
forte, basti pensare al boom nella produzione del prosecco nella pianura friulana,
che non ha nulla a che fare con la tradizione e dipende dal mercato estero. Le realtà
imprenditoriali che Legambiente ha deciso
di raccontare con delle videointerviste liberamente fruibili sul web (http://bit.ly/1ZgK3RU) trasformano il paesaggio in base a
principi coerenti con la tradizione e con la
nostra visione di un futuro sostenibile. Sono
state privilegiate esperienze di costruzione
di iliere corte, di agricoltura sociale, di recupero di prodotti tradizionali, reinterpretati
in modo moderno, oppure di nuove produzioni che permettono di inquinare meno,
avvicinandosi a una gestione più ecologica
dello spazio agricolo.
Nella pedemontana pordenonese, di recente si è cominciato a coltivare lo zafferano
(http://bit.ly/1SAhfA9), scoprendo che ci
sono tutte le condizioni per un prodotto di
qualità. A Dardago, la frazione del comune
di Budoia dove opera l’azienda agricola di
Diego Zambon, è nata anche la festa dello
zafferano ed è sorta una cooperativa con
l’obiettivo di allargare le coltivazioni ad altre terre. In questa zona sono attive anche
l’azienda agricola di Michele Capovilla, per
l’allevamento dei bufali (http://bit.ly/1UIhIGs), e la “San Gregorio”, di Massimo Cipolat,
che da insegnante ha deciso di cambiare vita
198
e allevare le capre, producendo formaggio,
gelato, yogurt (http://bit.ly/207eNXj).
Tra le montagne della Val Tramontina,
Amanda Ciri ha fondato l’azienda Sottosopra (http://bit.ly/1MSbGQX), lasciando Venezia, e si dedica a un gregge di pecore. Il
suo caseiicio è nella vecchia latteria, messa
a disposizione dall’amministrazione comunale di Tramonti di Sotto: così Amanda tiene
aperto e vivo un luogo caro alla comunità e
allo stesso tempo lo utilizza per il suo lavoro.
A Tramonti di Sopra, invece, ha deciso di vivere Xiaolei Xue, originaria di Shanghai, che
ha imparato a fare i formaggi della tradizione locale con le sue mani. A volte, in agriturismo, prepara anche i ravioli cinesi. (http://
bit.ly/25KUpPX)
La riscoperta delle mele antiche è al centro
del lavoro di Christian Siega e sua moglie
Serena, che producono succo biologico dagli
antichi frutteti di Costabeorchia, un piccolo borgo che guarda sul iume Tagliamento
(http://bit.ly/207gS5A).
A Pradis di Sopra, dopo alcuni anni di chiusura, ha riaperto la latteria, grazie all’iniziativa
di un allevatore locale, Narciso Trevisanut
e di un casaro, Federico Segatto. Quest’attività consente la sopravvivenza di alcuni piccoli allevamenti montani (http://bit.
ly/1oBPYFe). A pochi metri di distanza dalla
latteria, vive il pastore Ignazio, trasferitosi
nelle montagne friulane dalla Sardegna. Alleva le pecore e produce il pecorino (http://
bit.ly/1S25UhS).
In pianura, a Sesto al Reghena, quasi al conine con il Veneto, hanno fondato la loro
azienda Luca Allaria e sua moglie, lasciando Torino per cambiare vita. Oggi allevano
le capre e producono formaggi, fondendo
tradizione piemontese e tipicità friulane
(http://bit.ly/207iZq8). Nella periferia di
Pordenone Marco Pasutto, insegnante e
laureato in Agraria, ha scelto di avviare un
progetto di sperimentazione agricola con
valenza sociale: l’orto le Coccinelle (http://
bit.ly/1XgUjtz). A Zoppola l’azienda agricola
Ecoqua ha riconvertito a biologico 19 ettari di terreno, dove la biodiversità aumenta
(http://bit.ly/1ROcxir).
Tradizionale in questa zona del Nordest italiano è anche l’acquacoltura, grazie alle acque purissime della zona delle risorgive. Qui
si allevano le trote per nuovi prodotti per le
mense scolastiche a chilometro zero (http://
bit.ly/1XgUTYr).
Nel Comune di San Giorgio della Richinvelda, conosciuto per la monocoltura delle
barbatelle, le giovani viti vendute in tutto
La raccolta dello zafferano a Dardago
La malga Fossa di Sarone è gestita dalla famiglia Pancotto
il mondo, l’azienda agricola Tina ha puntato invece sulla diversiicazione, con l’allevamento dell’oca, l’agriturismo, il frutteto,
l’orto sinergico, la fattoria didattica e l’impegno nel sociale (http://bit.ly/1WceZVb).
L’innovazione, a Travesio, potrebbe partire
dalla coltivazione dell’orzo per il malto, facendo rivivere la tradizione dei birriici che
qui esistevano nel periodo austroungarico
(http://bit.ly/23h2NEH). Una forte valenza
sociale ha l’azienda “La contrada dell’oca”, di
Fanna, impegnata anche nella valorizzazione della lingua friulana e di altre lingue minoritarie (http://bit.ly/1oBTmjE).
Il microclima mediterraneo di Caneva permette la coltivazione della vite, in particolare la varietà autoctona del verdiso, degli
ulivi per l’olio e del igo moro (http://bit.
ly/1TBWbhr). Sempre in questo comune,
opera l’unica malga con fattoria didattica,
gestita da Sonia e Luca Pancotto, che hanno realizzato il loro sogno: fare i contadini
(http://bit.ly/23btWfC).
199
NOTE BIOGRAFICHE DEGLI AUTORI
Moreno Baccichet è architetto professionista. È dottore di ricerca in Storia
dell’architettura e dell’urbanistica e si occupa di storia del territorio veneto-friulano. Da alcuni anni insegna presso l’ateneo veneziano di architettura, a Ferrara e all’Università di Udine, tenendo corsi sulla storia e sulla
pianiicazione del territorio. Svolge attività di volontariato con Legambiente
FVG relativamente ai temi dell’urbanistica partecipata e della tutela del paesaggio.
Elisa Cozzarini, giornalista e scrittrice. Collabora tra l’altro con La Nuova
ecologia. Nel 2014 ha vinto il premio “Simona Cigana” del Circolo della
stampa di Pordenone per il giornalismo d’inchiesta con una serie di video
realizzati nell’ambito del progetto “Fortezza FVG” di Legambiente regionale sul recupero dei beni militari dismessi in Friuli Venezia Giulia.
Mario Gregori è professore ordinario di economia agro-alimentare all’Università di Udine. È stato consulente di diverse amministrazioni, organizzazioni e consorzi sui temi dello sviluppo rurale. Per scelta ha sempre seguito
da vicino l’evoluzione dell’agricoltura regionale predisponendo e partecipando a numerosi progetti.
Renato Marcon, architetto, è Presidente del Circolo Legambiente “Fabiano Grizzo” di Pordenone. Dopo una pluridecennale esperienza professionale nei settori della pianiicazione territoriale e dell’analisi e valutazione
ambientale, non più in attività, si occupa in particolare della ricerca di buone
pratiche per la gestione sostenibile del territorio.
Marco Pasutto, laureato in Scienze e Tecnologie Agrarie e Biotecnologie, è
insegnante di materie agrarie e fondatore degli orti sociali biologici e solidali “Le Coccinelle” a Pordenone.
Lucia Piani è ricercatrice presso l’Università di Udine e docente di Valutazione Ambientale e Processi di Decisione presso il corso di laurea magistrale in
Scienze e Tecnologie per l’Ambiente e il Territorio. È coinvolta in studi sull’economia solidale, sul governo del territorio, sullo sviluppo di aree a bassa densità insediativa, sull’agricoltura in aree montane, su agricoltura e ambiente.
201
RINGRAZIAMENTI
Si ringraziano i Comuni, gli Enti (inclusa la Regione che ha inanziato il progetto), le associazioni, i comitati, le aziende agricole coinvolte e tutte le persone che hanno contribuito in vario modo alla realizzazione del progetto
Cibo&Paesaggio.
Un ringraziamento particolare va ai volontari direttamente coinvolti,
ma anche ai soci e partecipanti alle escursioni che ne hanno supportato la
logistica e alimentato il dibattito, che è stato stimolo alla realizzazione di
tutte le iniziative nell’ambito del progetto.
Un ringraziamento speciale va a Franca, Manuela, Lorenzo, Manuela, Lucia,
Mario, Bepo... e a tanti altri e inine a Moreno per l’instancabile impegno
profuso.
203
INDICE
Prefazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag.
5
Introduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag.
7
1 Una lettura diacronica (Moreno Baccichet) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag.
1.1 Leggere le trasformazioni del paesaggio attraverso le strategie
dell’alimentazione: brevi note sull’allevamento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag.
1.2 Imparare da Marsure: un’indagine di ecologia storica
lungo un transetto della pedemontana pordenonese . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag.
11
2 Proposte per una lettura territoriale (Moreno Baccichet) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag.
2.1 Aviano e Budoia: l’allevamento pedemontano
tra tradizione e modernità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag.
2.2 La rinascita culturale di Tramonti passa per il cibo? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag.
2.3 Nuovi progetti pastorali a Clauzetto e sul Monte di Asio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag.
2.4 Il Sanvitese, una terra di acque . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag.
2.5 Pinzano e Castelnovo: complessità ecologiche
e colturali tra pianura e collina . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag.
2.6 Le paludi del Sile: Panigai e Azzanello . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag.
2.7 I nuovi paesaggi dell’agricoltura industrializzata
a San Giorgio della Richinvelda . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag.
2.8 Le malghe di Caneva e Polcenigo: una recente tradizione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag.
13
35
91
93
101
117
125
133
143
151
159
con mappe a cura di Walter Coletto
3 Problemi e prospettive di politica dell’agricoltura . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 171
3.1 Pagine nuove per una perdente (Mario Gregori) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 173
3.2 Il cambiamento possibile: l’agricoltura come spazio
di convivenza e di relazione (Lucia Piani) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 177
4 Buone pratiche. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag.
4.1 Agricoltura: progetto sociale e patti territoriali
- Pan e farine dal Friûl di mieç (intervista a Massimo Moretuzzo ) . . . . . . . . . . . . . . . . pag.
4.2 Gli orti urbani a Pordenone, un collante per la città (Marco Pasutto) . . . . . . . . . . pag.
4.3 L’Associazione fondiaria:
uno strumento per la rinascita della montagna (intervista a Luca Postregna) . . pag.
4.4 Storie di nuova agricoltura nella provincia di Pordenone (Elisa Cozzarini) . . . . pag.
181
183
187
191
197
Note biograiche degli autori . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 201
Ringraziamenti. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 203
Finito di stampare
nel mese di settembre 2016
presso Rosso soc. coop.
Gemona del Friuli (UD)