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I numeri in azzurro tra parentesi quadre si riferiscono ai numeri di pagina presso la rivista in cui è stato pubblicato l’articolo: «Italianistica», a. XLV, n. 1, 2016, pp. 11-21. LA TRASPARENZA E L’ARTIFICIO. RIFLESSIONI SULLE LETTERE AMOROSE DEL ’500 MAIKO FAVARO ABSTRACT: L’autore analizza i rapporti tra ‘artificio’ letterario e ‘sincerità’ d’affetti presso la scrittura epistolare amorosa del Cinquecento, soffermandosi in particolare sulle opere di Giovanni Antonio Tagliente, Pietro Bembo, Girolamo Parabosco, Alvise Pasqualigo e Celia Romana. Speciale attenzione viene dedicata all’utilizzo della tradizione petrarchista, poiché quest’ultima – base fondamentale per la scrittura di lettere d’amore nel Rinascimento – costituisce un caso esemplare di come possa essere ambiguo e complesso il rapporto fra ‘originalità’ e ‘ripetizione’ (quando non addirittura ‘plagio’). The author analyzes the relationships between literary ‘artifice’ and ‘sincerity’ of feeling in the love letters of the 16th century, while dwelling on the works by Giovanni Antonio Tagliente, Pietro Bembo, Girolamo Parabosco, Alvise Pasqualigo and Celia Romana. Special attention is paid to the use of the Petrarchist tradition, because this one – the fundamental basis for love letter writing in the Renaissance – is an exemplary case of how ambiguous and problematic the relation between ‘originality’ and ‘repetition’ (or even ‘plagiarism’) can be. [11] Nel Rinascimento, una lettera d’amore vive spesso di pulsioni che non si armonizzano facilmente tra loro. Da una parte, c’è nell’amante l’intento di apparire il più sincero e trasparente possibile, in modo da convincere l’amata dell’autenticità dei propri sentimenti. Dall’altra parte, c’è in lui il desiderio di non rinunciare alle risorse messe a disposizione dalla retorica e dalla tradizione letteraria, per accrescere sia l’efficacia sia la bellezza della lettera. Si tratta però di un’arma a doppio taglio. L’amata può sì restare colpita dalla cultura e dalla raffinatezza della lettera, pensando inoltre che la profusione di tanta cura e di tanta dottrina sia indizio di vero amore. Ma c’è anche il rischio che diffidi di una troppo consumata maestria letteraria, preoccupata che sia in realtà un astuto mezzo per ingannarla. Stimolato da simili considerazioni, vorrei proporre qui di seguito alcune riflessioni sulla relazione fra ‘trasparenza’ e ‘artificio’, fra ‘immediatezza’ e ‘letterarietà’ nei principali libri di lettere amorose del Cinquecento.1 Pre- [12] sterò una speciale  Il presente articolo è frutto delle ricerche che ho condotto nel 2012/2013 presso l’Università di Trieste e l’Università di Friburgo (Svizzera), beneficiando di una borsa di ricerca S.H.A.R.M. (supervisori: Proff. Fabio Finotti e Uberto Motta). Nella trascrizione di passi da edizioni antiche, adopero i seguenti criteri: adeguo all’uso moderno l’impiego delle maiuscole, degli apostrofi, degli accenti, dei raddoppiamenti e degli scempiamenti; intervengo sulla punteggiatura quando troppo in contrasto con le norme attuali; raccordo preposizioni articolate, congiunzioni e avverbi composti; sostituisco j- e -ii- con -i-, -u- con -v-, -ph- con -f-, -ti- -tti- e -ci- con -zi- sulla base della prassi moderna; elimino le -h- etimologiche o pseudo-etimologiche; sciolgo le sigle e le abbreviazioni; sostituisco la congiunzione ‘et’ con ‘e’ o ‘ed’ a seconda dei casi. Adotto invece criteri più conservativi nel trascrivere i titoli delle opere antiche. 1 Sul ‘libro di lettere d’amore’ come fenomeno editoriale cinquecentesco, vedi l’ormai classico AMEDEO QUONDAM, Dal «formulario» al «formulario»: cento anni di libri di lettere, in Le «carte messaggiere». Retorica e modelli di comunicazione epistolare: per un indice dei libri di lettere del Cinquecento, a cura di Amedeo Quondam, Roma, Bulzoni, 1 attenzione all’impiego della tradizione petrarchista, poiché con essa – come ci hanno insegnato le ricerche di Amedeo Quondam – i libri cinquecenteschi di lettere amorose intrattengono un rapporto particolarmente stretto e interessante. Inoltre, il petrarchismo è un campo di studio privilegiato per il rapporto fra ‘originalità’ e ‘ripetizione’ (quando non addirittura ‘furto’, ‘plagio’):2 concetti che sono direttamente correlati al tema di questo intervento. Il rapporto tra ‘trasparenza’ e ‘artificio’ è ancora a-problematico nei ‘formulari di lettere’ dei primi decenni del Cinquecento, opere di fattura modesta e ancorate a un gusto tardoquattrocentesco, ma capaci di interessare un folto pubblico, come dimostra il numero delle loro ristampe.3 Così, Giovanni Antonio Tagliente sembra invitare ad impressionare l’amata tramite eloquenza ed eleganza di stile. Nel suo formulario, troviamo numerosi esempi di lettere inviate da uomini di differente età, condizione e provenienza geografica, con accluse le risposte delle loro amate. Notiamo che le donne, in vari casi, esprimono esplicitamente il proprio apprezzamento per l’abilità retorica e lo stile dei propri spasimanti, e sembrano trovare proprio in tali qualità una prova della sincerità del loro amore. Talvolta, esse si mostrano perfino in imbarazzo per via della propria inferiorità sul piano culturale. Ad esempio, Madonna Cesarina scrive a Messer Giacinto da Rimini: «Vi prego non abbiate a ridere di cotesto mio inculto e rozzo modo di scrivere. Confesso liberamente l’ingegno mio esser mal atto e simplicetto alle cose di amore. Ma pur parrebbemi aver il cuor cinto di ferro, se non amassi la soavità delle ornate lettere vostre, le quali più di tre volte furono da me lette e non senza mie abbondevolissime lagrime». 4 Eugenia, «donzella leggiadrissima», così risponde a Ilarione, «gentiluomo di Ferrara»: «Non già per scoprir virtù di saper scrivere piacemi di rispondere alla vostra elegante epistola, ma più tosto per ischifar qualche brutto nome d’ingratitudine presso la desterità del vostro pronto ingegno».5 Madonna Vincenza scrive a Messer Massimo, conte di Melfi e giudice: «Aperta ed eccellente dimostratrice del vostro amore verso di me conobbi la vostra ingegnosa pistola».6 1981, pp. 13-156: 96-120. Considero in questa sede i libri di lettere della tradizione ‘seria’, tralasciando (come già faceva Quondam) un’opera deliberatamente anti-petrarchista come i Pistolotti amorosi di ANTON FRANCESCO DONI (Venezia, Giolito, 1552). Non considero neppure le antologie di lettere, come quella celebre a cura di Francesco Sansovino (Delle lettere amorose di diversi huomini illustri, libri nove, Venezia, Rampazzetto, 1563). 2 Segnalo in particolare AMEDEO QUONDAM, Petrarchisti e gentiluomini. 2. Ladri di parolette: per non essere mai più Tebaldei, in Petrarca. Canoni, esemplarità, a cura di Valeria Finucci, Roma, Bulzoni, 2006, pp. 21-72. 3 Mi riferisco in particolare ai libri di Andrea Zenofonte da Gubbio e di Giovanni Antonio Tagliente: ANDREA ZENOFONTE, Formulario de littere de amore messine [sic] & responsiue […], Cesena, Girolamo Soncino, 1527; GIOVANNI ANTONIO TAGLIENTE, Opera amorosa, che insegna a componer lettere & a rispondere a persone damor ferite, o uer in amor uiuenti in thoscha lingua composta con piacer non poco & diletto di tutti gli amanti, laqual si chiama il Rifugio di Amanti, o uero componimento di parlamenti, Venezia, Bernardino Vitali, 1527. Un elenco del gran numero di edizioni di queste due opere si legge nell’utile repertorio di JEANNINE BASSO: Le genre epistolaire en langue italienne (1538-1622). Répertoire chronologique et analytique, 2 voll., Roma-Nancy, Bulzoni-Presses Universitaires de Nancy, 1990. Per un approfondimento critico, cfr. R AFFAELE MORABITO, Giovanni Antonio Tagliente e l’epistolografia cinquecentesca, «Studi e problemi di critica testuale», vol. XXXIII, 1986, pp. 37-53; IDEM, Lettere e letteratura: studi sull’epistolografia volgare italiana, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2001, pp. 114-118; MEREDITH K. RAY, Writing Gender in Women’s Letter Collections of the Italian Renaissance, Toronto-Buffalo-London, University of Toronto Press, 2009, pp. 171-172; IAN FREDERIK MOULTON, Antonio Tagliente’s Opera amorosa: Love and Letterwriting, in IDEM, Love in Print in the Sixteenth Century, New York, Palgrave Macmillan, 2014, pp. 105-144. Dello Zenofonte, misterioso autore nato a Gubbio (come dichiarato dai titoli delle edizioni), non sono note altre opere a stampa oltre al Flos amoris. Sul veneziano Tagliente (ca. 1465 – ca. 1530), abbiamo ben più informazioni: dopo aver insegnato in numerose località d’Italia «ogni varietà de litere» (come scrive lui stesso), fu attivo nella sua città a partire dal 1492 come sensale al fondaco dei tedeschi e maestro di calligrafia presso la cancelleria: incarico che certamente svolgeva ancora nel 1524. È noto soprattutto come calligrafo, ma fu autore di fortunatissime opere di divulgazione anche in vari altri ambiti pertinenti alla vita pratica: oltre ad insegnare a leggere e a far di conto, si occupò dell’arte del ricamo, delle nozioni utili per l’attività mercantile e dell’epistolografia. 4 TAGLIENTE, Rifugio d’amanti, cit., c. A2v. Qui, come negli esempi successivi, i corsivi sono miei. 5 Ivi, c. A7r. 6 Ivi, c. B8v. 2 [13] Ben più ambigua e affascinante è la dialettica fra spontaneità e letterarietà nelle epistole amorose del Bembo.7 Sono particolarmente interessanti le lettere giovanili a Maria Savorgnan. In esse, il modello petrarchesco, oltre ad essere chiamato spesso esplicitamente in causa per mezzo di citazioni,8 costituisce la base stessa della scrittura, a livello sia di motivi sia di lessico.9 Il letterato veneziano, però, sembra riscrivere il modello in senso ‘utopistico’: se Petrarca lamentava di non essere corrisposto da Madonna Laura, Bembo non si accontenta che Maria ricambi il suo affetto, ma vagheggia in maniera quasi parossistica un rapporto di reciprocità e di trasparenza assolute fra sé e l’amata. È infatti sintomatica l’ossessiva persistenza con cui nelle lettere a Maria ricorre la formula «di pari»;10 spicca inoltre l’immagine – di derivazione peraltro petrarchesca –11 del «cuore di cristallo»: topos che, per la sua rilevanza nell’opera bembiana, ha ricevuto attenzione specifica in un recente volume di Lina Bolzoni.12 Tale brama di perfetta trasparenza fra i due amanti ricorda per certi versi gli ideali di quell’eletta ‘Compagnia degli Amici’ cui prese parte il Bembo: fra le ‘leggi’ concordate dai membri, una prevede che «Nessun affetto, nessuna sua passione l’uno possa tenere all’altro occulta e celata; ma tutto ciò che essi averanno sempre nel cuore, in forma si manifesti e si palesi, che non meno tra essi le loro voglie e gli loro pensieri appaiano, che le fronti e le facce tra gli altri» (nelle postille di uno degli Amici, il Giustiniani, è prevista persino una sorta di confessione pubblica annuale, in cui ciascuno riferisca «i studii, i amori, i desiderii, tutti cosí con Compagni quasi come con se stesso ragionando»). 13 Al tempo stesso, però, questa reiterata richiesta di una comunicazione libera, ‘priva di filtri’ fra i due amanti è intimamente contraddetta dalla volontà, evidente nelle let- [14] tere bembiane, di costruire l’immagine di una relazione amorosa che sia per forza esemplare, degna di stare sullo stesso piano dei più illustri modelli letterari del passato e capace di assicurare eterna fama presso i posteri. Nella lettera del 3 aprile 1500, Bembo scrive alla Savorgnan: «Tutta questa mattina sono stato in lezione di casi amorosi a’ nostri somiglianti, i quali m’aveano posto una dolcezza nel cuore 7 Esse sono comprese nel quarto volume delle Lettere bembiane (princeps: Venezia, Scotto, 1552). Negli anni successivi, sono oggetto di varie ripubblicazioni, sia all’interno di edizioni complessive dell’epistolario bembiano, sia autonomamente, con titoli quali Lettere giovenili o Lettere amorose (per la bibliografia delle edizioni, cfr. BASSO, Le genre epistolaire en langue italienne, cit., vol. I, pp. 131-137). L’edizione di riferimento per le citazioni è PIETRO BEMBO, Lettere, a cura di Ernesto Travi, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1988. Per le lettere a Maria Savorgnan e a Lucrezia Borgia, esistono pure edizioni moderne autonome: MARIA SAVORGNAN, PIETRO BEMBO, Carteggio d’amore, 1500-1501, a cura e con introduzione di Carlo Dionisotti, Firenze, Le Monnier, 1950 (l’introduzione è stata poi ripubblicata in CARLO DIONISOTTI, Scritti sul Bembo, a cura di Claudio Vela, Torino, Einaudi, 2002); PIETRO BEMBO, LUCREZIA BORGIA, La grande fiamma: lettere 1503-1517, a cura e con introduzione di Giulia Raboni, Milano, Archinto, 2002. 8 Interessante è ad esempio questo passo, in cui viene sottolineata la congruenza fra quanto affermato da Petrarca e la concreta esperienza di vita: «Fu già tempo che io approvai in me quel verso: Vivace amor, che negli affanni cresce [TC III, v. 37]. Ora sono in altro termine, e tengo per fermo che sia vero, Che ben muor, chi morendo esce di doglia [R.v.f. 207, v. 91]. Ahi mia naturale semplicità, come sempre m’hai tu nociuto, dove più mi doveresti in favore e in ajuto essere stata!» (lettera del 21 luglio 1500). 9 Segnalo come particolarmente curiosa la lettera del 12 aprile 1500, con i suoi continui riferimenti a luoghi petrarcheschi, tanto da dare l’impressione di un centone: «Io pure ascolto, e non odo novella [R.v.f. 254, v. 1]. Né so che altro dirvi, se non che io vi raccomando la dolce influenza del mio Giove. Che se ella non vi fosse raccomandata, La mia favola brieve è già compiuta, E fornit’ho il mio tempo a mezzo gli anni [R.v.f. 254, vv. 13-14]. E se Iddio volesse, che a voi fosse tolto il potermi dire insin che: O me felice sopra gli altri amanti; Ma più quand’io dirò senza mentire, Donna mi priega, Perch’io voglio dire [R.v.f. 70, vv. 18-20], che mi diate risposta, che senza vostre lettere non è più bene di me. Io sto male a due modi. Pregate Dio, che per pietà di me vi prieghi. Vedete se anco io attendo bene quello, che io prometto. Promisivi di mai più. E così va, chi sopra ’l ver s’estima [R.v.f. 65, v. 8]». 10 Sulla continua ricorrenza di tale formula nelle lettere alla Savorgnan attirava l’attenzione già DIONISOTTI, Scritti sul Bembo, cit., p. 14. 11 Cfr. R.v.f. 37, vv. 57-64. 12 Cfr. LINA BOLZONI, Il cuore di cristallo. Ragionamenti d’amore, poesia e ritratto nel Rinascimento, Torino, Einaudi, 2010: sul topos del «cuore di cristallo» nelle lettere amorose bembiane, vedi in particolare pp. 122-128. 13 Cfr. ivi, pp. 89-92. Sulla ‘Compagnia degli Amici’, si veda anche ALESSANDRO BALLARIN, Giorgione e la Compagnia degli Amici: il ‘Doppio ritratto’ Ludovisi, in Storia dell’arte italiana, II, Dal Medioevo al Quattrocento, I, a cura di Federico Zeri, Torino, Einaudi, 1983, pp. 479-541. 3 tale, che poco ha che io presi la penna in mano per ragionar con voi». In un’altra occasione (10 giugno 1500), paragona il proprio stato a quello degli «Inglesi amanti» (probabilmente, Lancillotto e Ginevra) di cui ha discorso con Maria nel loro ultimo incontro.14 In tale prospettiva, si comprende come mai Bembo tenga tanto alla diffusione delle proprie giovanili lettere amorose, tanto che, giunto al termine della vita, è ben fermo nel proposito di farle pubblicare, nonostante motivi di convenienza sconsiglierebbero una scelta simile da parte di un cardinale. C’è nelle sue lettere un’ansia di esibire se stesso quale ‘perfetto amante’ fra il florido, sfavillante rigoglio di un’eloquenza ora suadente ora solenne, persino imperiosa, coerentemente con l’estroflessione ‘teatrale’ e dimostrativa ravvisata in altre sue opere, in primis gli Asolani.15 Non è del resto un caso che, in un noto passo della lettera 27 (del 31 maggio 1500), Bembo inviti Maria a conformarsi al modello di condotta fra ‘perfetti amanti’ esposto nel secondo libro degli Asolani.16 Bembo stesso veste i panni dei propri alter ego Perottino e Gismondo. Ed è significativo che ami adottare soprattutto la ‘maschera’ di quest’ultimo, il più propenso a guardare con distacco all’amore e perfino a ‘giocare’ con le sue convenzioni e i suoi luoghi comuni: tanto propenso che, nel passaggio dall’edizione del 1505 a quella del 1530, mentre mantiene i riferimenti all’Amore che «ditta dentro» nel libro di Lavinello, Bembo li elimina da quelli di Gismondo, probabilmente proprio perché sarebbero risultati potenzialmente in contrasto con la cifra disincantata e financo ludica, ‘manieristica’ del discorso gismondiano.17 È da tenere presente, poi, che i lettori cinquecenteschi erano portati ad annettere una particolare importanza proprio alla lettera in cui Bembo dichiara apertamente il progetto di fare della propria relazione con Maria un’‘opera d’arte’ di ideale perfezione, rinviando al secondo libro degli Asolani. Tale lettera, infatti, apre l’antologia di lettere amorose curata da Francesco Sansovino (1563),18 opera fondamentale per la ricezione secondo-cinquecentesca dell’epistolografia amorosa: nell’economia della raccolta, Bembo – in ragione del suo prestigio – fa la parte del leone, dato che gli è riservato l’intero primo libro. Al di là degli inviti alla spontaneità irriflessa contenuti nella medesima lettera («O quanto mi sarebbe dolce e caro, che a me fossero così aperti tutti i vostri pensieri, come io vorrei che a voi fossero tutti i miei; e così ora io potessi mirare nel vostro cuore, e voi nel mio come io nel mio e voi nel vostro tuttavia possiamo»), i lettori dovevano rimanere colpiti soprattutto dalla ben altrimenti controllata e studiatissima artificiosità retorica che contrassegna l’epistola, specie nel- [15] la sua parte finale,19 e dall’idea di dover improntare la propria relazione ai più alti e prestigiosi modelli, adeguandola così ad un ‘codice’. Nelle fortunatissime Lettere amorose di Girolamo Parabosco (1545-1554),20 le sottili tensioni e ambiguità che innervano le epistole del Bembo diventano vere e proprie discrasie, in «Più dolci pensieri sono meco stati poscia che io da voi mi diparti’, che non erano quelli degl’Inglesi amanti, de’ quali si ragionò tra noi». 15 Sulla ‘teatralità’ e sull’edonismo retorico del De Aetna e degli Asolani, cfr. FABIO FINOTTI, Retorica della diffrazione. Bembo, Aretino, Giulio Romano e Tasso: letteratura e scena cortigiana, Firenze, Olschki, 2004, in part. pp. 7-158. 16 «O quanto mi sarebbe dolce e caro, che a me fossero così aperti tutti i vostri pensieri, come io vorrei che a voi fossero tutti i miei; e così ora io potessi mirare nel vostro cuore, e voi nel mio come io nel mio e voi nel vostro tuttavia possiamo. Il che, insino a tanto che non sia, sappiate che il nostro amore non fia giunto dove egli ancora dee giugnere. […] vedete quello che due perfetti amanti, chiamati a ragionar de’ lor diletti, nel secondo degli Asolani ne parlano al proposito della nostra materia presente». 17 Su questo punto, rinvio al mio L’ospite preziosa. Presenze della lirica nei trattati d’amore del Cinquecento, Lucca, Maria Pacini Fazzi, 2012, pp. 85-86. 18 Cfr. Delle lettere amorose di diuersi huomini illustri, cit. 19 «Quantunque per me non manca, né mancherà giammai, che io non sia con voi tutto quello, che io meco medesimo sono, pure che a voi piaccia d’esser meco tutto quello, che voi con voi medesima sete, direi ed ancor meno, ma alla perfezione degli amori bisogna, che essi sien pari. Amatemi, non come dite, che io merito, che non si può il vostro amore meritare, ma come all’altezza del vostro raro animo è richiesto amar colui, il quale voi, la vostra mercé, degno del vostro amore avete giudicato». 20 Il Parabosco, piacentino, nacque probabilmente nel 1524. Sembra che a Venezia si sia trasferito intorno alla fine degli anni trenta. Nella città lagunare perfezionò sotto la guida del grande Adrian Willaert l’educazione musicale impartitagli dal padre organista. Grazie alla sua abilità di musicista e compositore, riuscì a stringere una fitta rete di relazioni con i più ragguardevoli intellettuali e nobiluomini di Venezia. Fu lodato anche dall’Aretino, dal Doni e dal Lando. Nel 1551 4 14 una contrapposizione fra ‘realtà effettuale’ e ‘letteratura’. Vanno osservate innanzitutto la profondità e la raffinatezza con cui Parabosco assorbe il modello petrarchesco. Si prenda ad esempio questo passo, dai toni marcatamente lirici: O occhi divini, come ha potuto consentire il cielo che a voi sia dato così cruda cagione di sparger tante e sì amare lagrime? O bel petto, anzi nido di tutti i saggi e alti pensieri, qual cruda stella ti condanna a tirar così ardenti sospiri? E tu, Amore, come sopporti che cruda mano strazii e consumi quelle dorate trecce, con cui solevi eternamente legare qualunque una sol volta era degno mirare?21 Sono notevoli in particolare i richiami intertestuali della seconda interrogativa: «O bel petto, anzi nido di tutti i saggi e alti pensieri, qual cruda stella ti condanna a tirar così ardenti sospiri?». Il sintagma «bel petto» ricorre tre volte nel Canzoniere.22 Più interessante il segmento seguente, «anzi nido di tutti i saggi e alti pensieri». Vi riconosciamo un ben preciso rimando a R.v.f. 318, vv. 9-10: «Quel vivo lauro ove solean far nido / li alti penseri, e i miei sospiri ardenti». Nel successivo «qual cruda stella ti condanna a tirar così ardenti sospiri?» riconosciamo invece una variatio del celebre passo di R.v.f. 70, vv. 32-36: «Già s’i’ trascorro il ciel di cerchio in cerchio, / nessun pianeta a pianger mi condanna. / Se mortal velo il mio veder appanna, / che colpa è de le stelle, / o de le cose belle?» (corsivi miei). Nel variare il passo, però, Parabosco lo contamina con un altro riferimento ai versi di R.v.f. 318 cui alludeva subito prima: in particolare, trae da R.v.f. 318, v. 10 il sintagma «sospiri ardenti», invertendo la posizione di sostantivo e attributo.23 [16] Nel Parabosco, il petrarchismo è uno strumento costantemente funzionale alla più entusiastica sublimazione della donna. Tuttavia, la coerenza del sistema da lui costruito è minata dall’interno. In una lettera, su invito di Madonna Medea Pavoni, egli spiega il proprio punto di vista sulla questione – assai fortunata nella trattatistica d’amore cinquecentesca, perlomeno da Leone Ebreo in poi – se ami di più l’uomo o la donna. Parabosco opta per l’uomo, fondandosi su varie ragioni. In base alla prima, «l’uomo generalmente esercita molto più le virtù dell’anima, che non fa la donna; onde, per tale esercizio, egli fa il giudizio più perfetto; per la qual cosa si dee credere ch’egli ami molto più, conoscendo anco più perfettamente quella bellezza, o di corpo o d’animo, che lo tira ad amare». 24 Anzi, le «virtù» che consentono di apprezzare la bellezza sono tanto sviluppate nell’uomo, che egli è portato a figurarsi tramite la ‘virtù immaginativa’ bellezze ancora più splendide di quelle che l’amata possiede effettivamente. Parabosco spiega: Ora, che sia il vero che ogni amante corra subito con la virtù immaginativa ad imprimersi nel pensiero divine eccellenzie nella cosa amata, domandate a chi si sia, che ami di core delle virtù della sua donna: voi divenne primo organista della cappella ducale di San Marco. Fra le sue opere letterarie, si ricordano soprattutto le raccolte di rime, i quattro libri di lettere amorose e i Diporti; scrisse anche varie composizioni drammatiche e lettere famigliari. Morì nel 1557 (cfr. DONATO PIROVANO, Nota biografica e Nota bibliografica, in GIROLAMO PARABOSCO, GHERARDO BORGOGNI, Diporti, a cura di Donato Pirovano, Roma, Salerno Editrice, 2005, pp. 34-54). Le sue Lettere amorose costituirono una pietra miliare per l’affermarsi del genere: furono il libro di epistole amorose di maggior successo fra la seconda metà del Cinquecento e i primi decenni del Seicento, con oltre una trentina di edizioni (fra parziali e integrali) negli anni tra il 1545 e il 1617 (cfr. BASSO, Le genre epistolaire en langue italienne, cit., vol. I, pp. 103-112; per un approfondimento critico, cfr. QUONDAM, Dal «formulario» al «formulario», cit., pp. 97-101). I quattro libri che compongono l’opera escono per la prima volta in anni e presso editori diversi (ma sempre a Venezia): il primo libro nel 1545 presso Giolito, il secondo nel 1548 presso Gherardo, il terzo nel 1553 presso Griffio, il quarto nel 1554 ancora presso Giolito. L’edizione da me adoperata è: GIROLAMO PARABOSCO, Quattro libri delle lettere amorose, a cura di Tommaso Porcacchi, Treviso, Evangelista Deuchino, 1599. 21 Ivi, p. 23. 22 Cfr. R.v.f. 37, v. 102: «e ’l bel giovenil petto»; 66, v. 29: «fia dinanzi a’ begli occhi quella nebbia / […] et nel bel petto l’indurato ghiaccio / che trâ del mio sì dolorosi vènti»; 172, vv. 1-4: «O Invidia […], / per qual sentier così tacita intrasti / in quel bel petto, et con qual’ arti il mute?». L’edizione di riferimento è: FRANCESCO PETRARCA, Canzoniere, ed. commentata a cura di Marco Santagata, nuova ed. aggiornata, Milano, Mondadori, 2004. 23 Un altro esempio interessante è la rielaborazione del modello di R.v.f. 206 (S’i’ ’l dissi mai, ch’i’ vegna in odio a quella) nel sonetto che Parabosco include in una lettera a p. 90 (Se mai fu vero, que’ begli occhi, ond’io). 24 PARABOSCO, Lettere amorose, cit., p. 17. 5 sentirete che di primo volo, come s’egli parlasse con mille testimoni, vi dirà, e senza alcun risguardo di fare ingiuria all’altre, che la sua donna è la più bella, la più gentile e la più virtuosa che si possa vedere; e sì gli offuscherà l’intelletto questa impressione, che egli confesserà ogni debito, e così gli parrà di non esser degno pure d’un solo sguardo di lei, benché ella fosse la più vile e la più laida del mondo. 25 Il passo è interessante perché demistifica dall’interno le lodi iperboliche che così frequentemente si leggono non solo nelle lettere e nelle liriche degli amanti in generale, ma anche in quelle del Parabosco stesso. L’autore, di fatto, invita a considerare con scetticismo le parole di qualunque uomo innamorato, poiché la passione è in grado di offuscare l’intelletto di quest’ultimo tanto da fargli credere di non meritare neppure un solo, fuggevole sguardo dell’amata, «benché ella fosse la più vile e la più laida del mondo». Il petrarchismo è componente essenziale e preponderante anche delle Lettere amorose che si scambiano il nobile veneziano Alvise Pasqualigo e una – non meglio precisata – Madonna Vittoria, protagonisti di una relazione adulterina (Vittoria era infatti sposata).26 L’opera venne pubblicata in una prima versione in due libri già nel 1563 grazie alle cure di Francesco Sansovino (Venezia, Rampazzetto), ma la versione definitiva in quattro libri risale al 1567 (Venezia, Sansovino).27 In questa sede, interessa osservare innanzi- [17] tutto che le lettere lasciano più volte trasparire un certo divertito distacco nel manipolare la tradizione petrarchista.28 Soprattutto Alvise ama giocare con l’artificiosità dei più vulgati topoi lirici, come ad esempio nel passaggio qui sotto riportato, in cui sfrutta e assembla insieme le topiche opposizioni tra acqua delle ‘lacrime’ e fuoco della ‘fiamma’, nonché tra ‘sonno’ e ‘veglia’, tramite la metafora dello scambio delle anime tra amanti: Dal caldo, che dite ch’io mi guardi, vi rispondo di non poter a niun modo farlo: perché la continova fiamma che porto nel petto ha disseccato l’umore che talor, cadendomi degli occhi, faceva la fiamma minore. Dal non dormire non posso medesimamente ripararmi: percioché, da che ’l vostro cuore se ne venne nel mio petto, il mio spirito corse a voi e, sì come egli, somigliando a me, vi tiene sonnacchiosa, così il vostro cuore, somigliando a voi, mi tiene vigilante. Se adunque volete ch’io v’obbedisca, porgete tanto di umore alla fiamma, che ella si smorzi, e comandate al vostro cuore che con sì pungenti lime non mi roda il petto […]29 25 Ivi, p. 18. Alvise Pasqualigo (1536-1576) appartenne ad una famiglia veneziana di antica nobiltà. Attese a compiti militari e politico-amministrativi e partecipò alla battaglia di Lepanto. Nel 1565 si trovava «in reggimento» a Zara, e lì fece rappresentare la sua commedia pastorale Gl’intricati. Fra le sue opere, oltre alle Lettere amorose, si ricordano la commedia Il fedele (Venezia, Bolognino Zaltieri, 1576), la pastorale Gl’intricati (Venezia, Francesco Ziletti, 1581) e le Rime (Venezia, Giovanni Battista Ciotti, 1605). Per approfondimenti sulla sua biografia, cfr. IDA CAIAZZA, Alvise Pasqualigo e il suo romanzo epistolare, le Lettere amorose, dalla «relazione» alla «corrispondenza», «Italianistica», vol. XLIII, 1, 2014, pp. 77-106: 78-80 e la bibliografia ivi citata. 27 Alle Lettere amorose (pubblicate inizialmente anonime) arrise un notevole successo di mercato: si veda l’elenco delle edizioni in BASSO, Le genre epistolaire en langue italienne, cit., vol. I, pp. 223-227. I miei riferimenti saranno tratti dalla seguente edizione: ALVISE PASQUALIGO, Lettere amorose […], Venezia, Domenico Farri, 1581. Su quest’opera, cfr.: QUONDAM, Dal «formulario» al «formulario», cit., in part. pp. 101-111; GIORGIO BÁRBERI SQUAROTTI, Prodromi della narrativa manierista: dal Bandello al Pasqualigo, in Cultura e società nel Rinascimento tra riforme e manierismi, a cura di Vittore Branca e Carlo Ossola, Firenze, Olschki, 1984, pp. 351-384; MORABITO, Lettere e letteratura, cit., pp. 117120; ROBERTO RISSO, «Abbracciate col pensiero in vece mia questa poca anima che viene a voi chiusa in questa carta». Le «Lettere di due amanti» di Luigi Pasqualigo, in IDEM, «Troppo dolce cosa da leggere …». Il romanzo epistolare italiano fra Cinque e Seicento, Torino, Facoltà di Lettere e Filosofia, Fondo di studi Parini-Chirio – Università degli Studi di Torino, 2013, pp. 49-94; CAIAZZA, Alvise Pasqualigo e il suo romanzo epistolare, cit. 28 Sul riutilizzo della tradizione letteraria come ‘gioco’, si veda LINA BOLZONI, Tra parole e immagini: per una tipologia cinquecentesca del lettore creativo, in EADEM, Il lettore creativo: percorsi cinquecenteschi fra memoria, gioco, scrittura, Napoli, Guida, 2012, pp. 27-58. 29 PASQUALIGO, Lettere amorose, cit., p. 56. 6 26 L’ironia di Alvise giunge a colpire Vittoria stessa.30 Egli, infatti, prende sottilmente in giro la sua corrispondente, rea di “petrarcheggiare” in maniera forse troppo vistosa e insistita. Vittoria, accortasi degli intenti parodici dell’amante, non manca di adontarsene. Tutto sembra cominciare con questa lettera della donna: Deh, può egli essere che, se voi amaste me quanto io amo voi, non si trovassero mille vie al nostro esser insieme più sovente che noi non siamo? Può essere che, se voi foste ferito in quella guisa che son io, non vi stringesse pietà di me più di quel che ora vi stringe? Può essere che vi soffra ’l cuore di veder sì spesso negli occhi miei la male impiegata anima chiedervi tacendo mercé, e la sua fiamma mostravi e ’l suo picciol desio? Se voi tant’ora vegliate meco la notte quanto io fo con voi, penso che la mattina vi troviate tutto debole e sbattuto: e per il vero è gran cosa che per lo continovo ogni notte quattro o cinque ore io stenti ad addormentarmi, sempre di voi, delle vostre parole e d’ogni vostro atto grande, minimo, dolce e amaro ripensando; ma voi sete tanto crudele, che non mi crederete cosa alcuna fin a tanto che non vedrete chiuder queste misere ossa in poca fossa. […]31 Alvise replica: Deh, può egli essere che, se voi amaste me nella maniera ch’io amo voi, che voi non credeste che io fossi ferito in quella guisa che voi sete? E che non vi stringesse quella pietà di me che mi stringe di voi? Può essere che vi soffra il cuore di veder sì spesso negli occhi miei il cuor mio, il quale, tra- [18] lucendo per tutte le sue parti, vi dà segno del suo ardente desio e ve ne chiede tacendo mercé? Può esser, dico, che non vogliate credergli, che solo della vostra vita egli ha di mestieri? […]32 Vittoria però, come accennato, non accoglie di buon grado la risposta di Alvise, e gli scrive a sua volta: Conosco, per l’ultima lettera che m’avete scritto, che voi vi burlate di me e delle mie lettere, scrivendomi con le mie proprie parole soggetto contrario. Il che non voglio credere che sia stato per farmi conoscere il vostro intelletto maggiore di quello ch’io lo conosco (che è senza fine grande), ma crederò bene che l’abbiate scritto acciò ch’io conosca la mia ignoranza: ché invero ignoranza fu il scrivervi e concetti e parole d’altrui. Conosco (sì com’è invero) ch’è troppo grande il furto, ma scusimi appo voi il desiderio c’ho di rappresentarvi dinnanzi agli occhi materia che sia dolce alla lingua e dilettevole all’udito. Vi priego non abbiate a male queste cose ch’io ragiono con voi, percioché esse vengono dalla sincerità dell’animo mio, al quale dovete solamente aver risguardo, come a parte più nobile de’ mortali.33 30 Sarebbe naturalmente interessante capire in che misura le lettere di Vittoria rispecchiano quanto scritto effettivamente dalla donna e quanto siano invece frutto di rimaneggiamento esterno, se non addirittura di invenzione pura e semplice da parte del Pasqualigo. A tal proposito, è interessante quanto evidenziato già da BASSO (Le genre epistolaire en langue italienne, vol. I, pp. 225-226) riguardo alle prime tredici lettere del quarto libro delle Lettere amorose e alla nota introduttiva ad esse premessa in alcune edizioni. Nell’edizione del 1567 (Venezia, Sansovino), infatti, il quarto libro si apre con questa nota: «Lettori, avertite che queste XIII lettere della donna sono scorrettissime, senza ortografia, e messe ad arte a questo modo per mostrare quanto l’autore sa in ogni maniera di stile fingere et per imitar il natural proprio della donna». Nell’edizione del 1570 (Venezia, Regazzola e Cavalcalupo), invece, Basso osserva che la nota (come d’altronde anche le tredici lettere seguenti) possiede delle sintomatiche differenze rispetto alla prima versione, poiché recita: «Non vi parerà strano, Lettori, se leggerete le tredici seguenti lettere della Donna dissimili dalle altre, percioché sono state messe così ad arte, per voler dimostrare il natural scrivere di essa». La studiosa commenta: «Le texte des lettres elles-mêmes dut être corrigé: on estima sans doute que la version précédente en caricaturant à outrance l’inculture de la femme nuisait à la vraisemblance». Basso offre un esempio di questa differenza nel testo delle tredici lettere mettendo a confronto un passo dalle edizioni del 1564 e del 1567 con la versione corrispondente nell’edizione del 1573 (Venezia, Bertano), che riproduce quella del 1570 (alla quale la Basso non ha avuto direttamente accesso). Sulla seconda versione della nota richiama l’attenzione anche RISSO («Troppo dolce cosa da leggere …», cit., pp. 73, 88). 31 PASQUALIGO, Lettere amorose, cit., p. 133. 32 Ivi, p. 134. 33 Ivi, p. 137. 7 Vittoria vuol dare l’impressione di poter conciliare artificio e sincerità, ripresa di «concetti e parole d’altrui» e spontaneità.34 Minimizza di fatto la portata del suo «troppo grande […] furto», ascrivendolo al desiderio di offrire all’amante «materia che sia dolce alla lingua e dilettevole all’udito» (argomentazione che ricorda un celebre passaggio degli Asolani).35 Pertanto, Vittoria riduce l’artificio al livello esteriore della veste stilistica con cui ha ammantato i propri sincerissimi sentimenti. Con studiata umiltà, sfrutta la retorica della semplice femminella “sanza lettere”, per giustificare il «furto» con il premuroso intento di inviare ad Alvise lettere che siano piacevoli a leggersi anche da un punto di vista linguistico-formale: cosa che le sarebbe stata impossibile affidandosi solo alle proprie misere risorse. Ciò non inficia tuttavia – ella assicura – la schietta genuinità dei pensieri e dei sentimenti da lei espressi: un concetto che Vittoria ribadisce e puntella infine, scrivendo: «Vi priego non abbiate a male queste cose ch’io ragiono con voi, percioché esse vengono dalla sincerità dell’animo mio, al quale dovete solamente aver risguardo, come a parte più nobile de’ mortali». Con posa di gusto elegiaco, da sfortunata e indifesa eroina ovidiana,36 ella addebita semmai all’amato una sapienza proclive all’inganno verso la donna che con tanta immediatezza e tanto candore ha posto in lui ogni speranza e ogni fiducia. Già nel passo sopra trascritto, Vittoria insinua velenosamente il sospetto che Alvise le scriva per far sfoggio d’intelligenza e di cultura, piuttosto che mosso dalla forza dell’affetto. È un sospetto che, lungi dall’essere bandito, risulta vieppiù rafforzato nel momento stesso in cui la donna – ironicamente – lo nega («Il che non voglio credere che sia stato per farmi conoscere il vostro intelletto maggiore di quello ch’io lo conosco (che è senza fine grande) [...]»). L’accusa trova più ampio sviluppo in un’altra lettera, in cui Vittoria prorompe in domande concitate: [19] Ma di voi, signor crudele, che debbo io dire? Se, potendo così agevolmente riparar ad ogni mia miseria, ne siete vago a maraviglia? Come vi soffre il cuore di veder colei (che tante volte avete detto esser vostro cuore, vostra vita e vostra anima, senza la cui grazia non potreste vivere) in tanti angosciosi martiri e non darle aiuto? Potendo dargliele, massimamente senza vostro discommodo? Ma io conosco bene che il mio tormento è di vostra voglia, e ciò è cagione che men grave io lo senta, se però è possibile di sentir maggior dolore di quello ch’io sento.37 Vittoria rinfaccia amaramente ad Alvise gli enfatici topoi cui tante volte è ricorso per assicurarla del proprio amore fervente («[…] colei (che tante volte avete detto esser vostro cuore, vostra vita e vostra anima, senza la cui grazia non potreste vivere)»). Alla prova dei fatti, essi si sono rivelati null’altro che flatus vocis, meri scheletri sonori con cui carpire proditoriamente la fiducia di lei, povera donna ignara di astuzie e di inganni. Poco oltre, acquista la massima evidenza la contrapposizione tra l’amato menzognero e Vittoria stessa, che dantescamente scrive ciò che Amore le «ditta dentro» (ancora una volta, protesta di immediata spontaneità ed eloquente rimando alla tradizione coesistono nelle parole della donna): Crederò bene che molte cose mi scriviate contrarie all’animo vostro per prendervi piacere dell’ingannarmi con parole, ma io misera scrivo bene quel tanto che mi detta Amore, e che è vero; che Dio volesse, che il Si veda l’analisi di un altro interessante caso coevo di «retorica della verità» da parte femminile in FABIO FINOTTI, Il teatro cortigiano di Veronica Franco. Le «Terze Rime», in Studi di Letteratura Italiana per Vitilio Masiello, a cura di Pasquale Guaragnella e Marco Santagata, Bari, Laterza, 2006, pp. 519-533: 526-528. 35 Cfr. le parole di Gismondo in PIETRO BEMBO, Gli Asolani (1530) I vii, rr. 12-20 (cito dall’ed. critica a cura di Giorgio Dilemmi, Firenze, Accademia della Crusca, 1991): «[…] de’ miei compagni sì mi maraviglio io forte, i quali doverebbono, se bene altramente credessero che fosse il vero, scherzando almeno favoleggiar contra lui [Amore], a·ffine che alcuna cosa di così bella materia si ragionasse hoggi tra noi […]» (corsivo mio). Anche in questo caso sono esaltate come prioritarie le ragioni del fornire «materia che sia dolce alla lingua e dilettevole all’udito». 36 Sull’‘ovidianesimo’ delle Lettere amorose, cfr. GINETTA AUZZAS, La narrativa nella prima metà del Cinquecento, in Storia della cultura veneta, III, Dal primo Quattrocento al Concilio di Trento, II, a cura di Girolamo Arnaldi e Manlio Pastore Stocchi, Vicenza, Neri Pozza, 1980, pp. 99-138: 135; RISSO, «Troppo dolce cosa da leggere …», cit., pp. 51, 85, 91. 37 PASQUALIGO, Lettere amorose, cit., p. 174; corsivo mio. 8 34 contrario fosse in mio servigio. So ben io come tosto voialtri smorzate le fiamme amorose, conseguito ch’avete il vostro intento, e parimente so quanto in noi donne cresce, dopo l’effetto, l’affetto.38 Analogo lamento per gli inganni che i perfidi uomini tendono alle ingenue e sincere donne campeggia nelle Lettere amorose (1562) della misteriosa Celia Romana.39 In questo caso, a differenza dell’opera appena esaminata, sono assenti le epistole della contro- [20] parte maschile. Tuttavia, è sufficiente questo passaggio da una delle prime lettere di Celia ad attrarre la nostra attenzione: […] tutti gli uomini, con ogni astuzia, cercano sempre d’ingannare le misere donne, e con dolci e lusinghevoli parole, e con lettere non scritte di cuore, ma ricavate or da questo ora da quel libro, danno loro a credere quello che essi vogliono.40 Anche qui, come nel carteggio fra Alvise e Vittoria, è centrale il nesso problematico tra ‘furto’ «or da questo or da quel libro» e sincerità del sentimento espresso nelle lettere. Del resto, in epoca di petrarchismo trionfante, questa preoccupazione si fa tanto sentita da diventare pressoché luogo comune. Rimanendo nello stesso anno in cui vengono pubblicate le Lettere di Celia (il 1562), si può ricordare un eloquente passaggio dal dialogo D’amore del noto poligrafo piacentino Lodovico Domenichi.41 In esso, i personaggi femminili lamentano che sin troppe donne sono state ingannate da sedicenti amanti, i quali giuravano insistentemente di amarle alla follia: non facevano che piangere e pregarle, salvo poi dimostrare di non provare autentico amore. Tali scaltri uomini hanno l’abitudine di profittare spavaldamente delle risorse loro offerte da Ovidio – che ebbe la sfacciataggine di mettere per iscritto le regole utili ad ingannare le povere donne – nonché appunto dalla tradizione lirica, con il suo ormai vieto repertorio di lodi iperboliche e di incredibili ‘miracoli d’amore’. Una delle interlocutrici, Silvia Boiarda, deplora infatti: E come credete voi di trovare le donne sì cieche degli occhi dell’intelletto, benché un poco vane e boriose per sentir porre in cielo la lor bellezza, che possano indurvi a prestarvi fede, quando nel descrivere le vostre Ivi, p. 176; corsivo mio. Si noti anche l’elegante artificiosità della paronomasia conclusiva ‘effetto’-‘affetto’, posta in grande risalto dall’ordo verborum e, a livello superiore, dalla posizione nella campata logico-sintattica qui enucleata. 39 Due sono le edizioni dell’opera pubblicate nel 1562, rispettivamente a Venezia ([Francesco Rampazzetto]: appresso Antonio de gli Antonii) e a Milano ([fratelli da Meda]: appresso Giovann’Antonio de gli Antonii). Basso (Le genre epistolaire en langue italienne, vol. I, p. 208) scrive: «Ces deux éditions de 1562 sont totalement différentes, mais leur contenu est identique». Riguardo all’identità dell’autrice, VIRGINIA COX (Women’s Writing in Italy, 1400-1650, Baltimore, Johns Hopkins University Press, 2008, p. 317 n. 5) osserva che Celia potrebbe essere un personaggio fittizio. Per parte mia, faccio notare che utili elementi di riflessione al riguardo si possono ricavare dallo studio delle copie dell’opera a noi pervenute. Nelle due edizioni del 1562, è presente un’epistola dedicatoria (senza luogo né data) che l’anonimo «amante» indirizza alla «Signora Lisa», spiegando di aver operato una selezione tra le «ben mille lettere scrittemi [da Celia] nello spazio di dodici anni (come che quindici siano, che cominciò il mio amore)» (sessantuno delle sessantotto lettere raccolte sono infatti datate, coprendo un periodo che va dall’11 febbraio 1549 (quinta lettera) al 30 dicembre 1560 (ultima lettera)). Obiettivi dell’anonimo amante sono mettere in guardia contro gli «amorosi impacci» e dar testimonianza dell’«ingegno» e dell’«acutezza» di Celia, lamentando che «non fu costei, da suoi teneri anni, nelle buone scienze ammaestrata». Ma questo è del resto problema assai frequente per le donne: «ad esse l’ingegno non manca, ma lo studio sì delle buone arti e delli buoni costumi». Dopo la dedica, una nota avvisa che, all’interno delle lettere, Celia è talvolta chiamata Zima, «per poterla copertamente nominare […] essendo ella altresì la più ornata e più pulita gentildonna di Roma». BASSO (Le genre epistolaire en langue italienne, cit., vol. I, p. 208) osserva che, in una nota manoscritta dell’esemplare da lei consultato dell’edizione 1563 (Venezia: Francesco Lorenzi da Turino), viene suggerita l’identificazione di Celia con la gentildonna romana Margherita Petronii. Segnalo anche la presenza di un sonetto a nome di Celia Romana nel Tempio della divina signora donna Geronima Colonna d’Aragona (Padova, Lorenzo Pasquati, 1568, c. 31v). Le Lettere di Celia godettero di un notevole successo, raggiungendo il numero di dodici edizioni tra il 1562 e il 1628 (per la bibliografia delle edizioni, cfr. BASSO, Le genre epistolaire en langue italienne, cit., vol. I, pp. 207-210). I miei riferimenti sono tratti dalla seguente ed.: CELIA ROMANA, Lettere amorose […], Treviso, Fabrizio Zanetti, 1600. 40 Ivi, c. 4v; corsivo mio. 41 Cfr. LUDOVICO DOMENICHI, D’amore, in IDEM, Dialoghi, Venezia, Gabriel Giolito de’ Ferrari, 1562. Per la biobibliografia del Domenichi, vedi ANGELA PISCINI, Domenichi, Ludovico, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. XL, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1991, pp. 595-600. 9 38 passioni amorose fingete quelle tante meraviglie di fuochi, di fiumi, di ghiacci, di morire, di rinascere e tanti altri miracoli ordinati degli innamorati?42 In questo contesto, l’autrice sembra voler offrire un modello alternativo alle ‘menzogne’ nutrite di letteratura dei suoi “colleghi” uomini. Per questo, senza approdare allo smagato antipetrarchismo di un Doni,43 Celia scrive nondimeno le sue lettere in uno stile deliberatamente apetrarchista, come ben notato da Quondam con dovizia di esempi.44 [21] Le Lettere di Celia sono quindi una testimonianza eloquente delle difficoltà nel rendere credibile l’‘artificio’ letterario (specie quello di marca petrarchista) come espressione di ‘sincerità’ d’affetti presso la scrittura epistolare amorosa del Cinquecento. Già in Bembo, come abbiamo visto, il rapporto fra i due concetti era problematico, poiché il letterato veneziano faceva della sua storia d’amore con Maria Savorgnan un’opera d’arte, fra – da una parte – mito della trasparenza assoluta e della comunicazione spontanea, immediata, e – dall’altra parte – estroflessione teatrale ed edonistico virtuosismo retorico. In Parabosco, le iperboliche esaltazioni delle donne amate, così frequenti nella sua scrittura di chiaro stampo petrarchista, sono destituite di credibilità da quanto l’autore stesso afferma, riflettendo sugli abbagli di quella «virtù immaginativa» tanto sviluppata nel sesso maschile. Nelle lettere del Pasqualigo, il ricorso al codice petrarchista, che diventa spesso oggetto di elegante divertissement manieristico, suscita interrogativi e recriminazioni da parte di Madonna Vittoria in merito all’autenticità dei sentimenti espressi. Madonna Vittoria stessa, d’altra parte, si sente obbligata a render conto del suo contrabbandare «e concetti e parole d’altrui», difendendo il suo «troppo grande […] furto» con le ragioni squisitamente edonistiche del porgere «materia che sia dolce alla lingua e dilettevole all’udito». Infine, in Celia Romana (non a caso, una donna), la polemica verso le deplorevoli DOMENICHI, D’amore, cit., pp. 22-23; corsivi miei. Nei Pistolotti amorosi di ANTON FRANCESCO DONI (Venezia, Giolito, 1552), opera sui generis che racchiude materiale assai eterogeneo (l’autore stesso lo pone in evidenza, intitolando l’indice Inventario delle masserizie d’amore), l’antipetrarchismo appare evidente sin dal controcanto con cui le caustiche notazioni dell’indice presentano la materia contenuta nell’opera. Ad esempio, per la lettera alla c. 2r, la didascalia recita: «Sciocchezze che dicon gli amanti per acquistarsi la grazia dell’amata»; e per la lettera a c. 9: «Quel che dicevano quegli antichi innamorati delle donne, quando eron ristucchi delle cose d’amore» (cfr. c. *v r). Proprio per il suo accanito, ‘progettuale’ intento parodico nei confronti del petrarchismo, l’opera del Doni si differenzia da quelle qui prese in esame e richiede una trattazione a parte: GIANLUCA GENOVESE, nel suo articolo Alla libraria del Calderone: Testo e paratesto nel “Pistolotti amorosi” di Anton Francesco Doni («Filologia e critica», vol. XXXI, 2, 2006, pp. 200-230), ha scritto che Doni, «sghignazzerebbe alquanto nel leggere […] una definizione involontariamente antifrastica come quella che […] fa [dei Pistolotti amorosi] un “prontuario di lettere d’amore per gentildonne”» (il riferimento è a Enciclopedia della Letteratura Garzanti, Milano, Garzanti, 1997, p. 288). Per approfondimenti su quest’opera, oltre all’articolo di Genovese, cfr. DONATELLA RIPOSIO, La parodia epistolare: Anton Francesco Doni, in Lo specchio che deforma: le immagini della parodia, a cura di Giorgio Bárberi Squarotti, Torino, Tirrenia, 1988, pp. 155-171; CARLO ALBERTO GIROTTO, Una riscrittura accademica (Gelli-Doni), «Studi rinascimentali», vol. III, 2005, pp. 45-63; FRANCESCA CERRI, I ‘Pistolotti amorosi’: studio per un’edizione critica, in «Una soma di libri». L’edizione delle opere di Anton Francesco Doni, Atti del seminario (Pisa, Palazzo Alla Giornata, 14 ottobre 2002), presentazioni di Michele Ciliberto e Gabriella Albanese, Firenze, Olschki, 2008, pp. 121-154. 44 Cfr. QUONDAM, Dal «formulario» al «formulario», cit., pp. 111-112. Per esemplificare come Celia esprima la sua concezione fondamentalmente ‘allegra’ dell’amore, basti pensare all’uso di colorite espressioni come «mettere la caccara a questi meschini facendo loro credere che le gatte volino» (c. 15r). Fra le formule colloquiali e proverbiali: «resto con un palmo di naso» (c. 34r), «faceste come le ortolane di Genova» (c. 40r), «buone parole e tristi fatti ingannano i savi» (c. 58r), «Se Africa pianse, Italia non rise» (c. 60v), «il resto del mondo non istimo io una pistacchio» (c. 76v). Non mancano, poi, gli epiteti poco lusinghieri rivolti ad altre donne: «bagasce» (c. 57v), «putta sanese» (c. 65v), «sgualdrina» (ibidem), «femmina così puzzolente» (c. 66r). Per comunicare affettuosità e conferire un tono ‘quotidiano’ alla sua scrittura, Celia fa ampio uso di vezzeggiativi, diminuitivi, superlativi ed espedienti analoghi, quali «cuorino soavissimo» (c. 14v), «cosuzze» (c. 25v), «animo grande grande» (c. 15v) … Curiosi sono i richiami associativi e metaforici con cui gioca l’autrice: anziché definire l’amante come «dolce nemico» (secondo il tipico codice petrarchista), a volte Celia rimaneggia il topos chiamandolo «Turco dolce» (cfr. ad esempio c. 17v). Altrove, si rivolge a lui come «toso dolcissimo, inzuccherato, saporito e bello» (c. 23r: dove è notevole, fra l’altro, il dialettale «toso»); analogamente, lo definisce «dolce mia vita saporita» (c. 33r) e gli bacia «la dolcissima e inzuccheratissima bocca» (c. 38v). Quando poi vuole assumere un tono melodrammatico, Celia non si fa scrupolo di parodiare il Dante più sublimemente tragico, domandando enfatica: «tu terra, come non ti apri e mi sorbisci?» (c. 30r). 10 42 43 abitudini dei corteggiatori, tanto astuti quanto bugiardi nel saccheggiare la tradizione letteraria per i propri poco onorevoli fini, favorisce l’adozione di una scrittura deliberatamente e provocatoriamente a-petrarchista. Occorrerà attendere un nuovo secolo, una nuova temperie perché un autore di sesso maschile risponda indirettamente, con un proprio libro di lettere amorose, all’accusa mossa da Celia. Sarà infatti nella Venezia libertina del primo Seicento che l’Accademico Incognito Girolamo Brusoni, con le sue Lettere amorose,45 ostenterà una poetica della schiettezza ad ogni costo, senza astenersi dalla rudezza e da punte di misoginia, incurante di commettere «errore nella politica amorosa» così facendo.46 E lo farà operando una sovversione del modello petrarchesco, degradato a esempio di «amore fanciullesco» e rimpiazzato da una concezione dell’amore totalmente opposta, nella quale l’amante si sente in posizione di forza rispetto all’amata e accetta la propria incostanza senza sentimenti di colpa, anzi la elegge a propria cifra distintiva.47 Cfr. GIROLAMO BRUSONI, Delle lettere amorose […] libri quattro, Venezia, Oddoni, 1642. Cfr. ivi, p. 9: «So che faccio errore nella politica amorosa in iscrivervi queste cose, ma insomma la mia penna non seppe giammai formar caratteri differenti dalla schiettezza del mio cuore». 47 All’analisi delle Lettere amorose del Brusoni sarà appositamente dedicato un mio prossimo contributo. 11 45 46