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ESSERE CHIAMATI DALLA SOFFERENZA. ETICA DELLA CURA APPASSIONATA E VOCAZIONE VULNERABILE laura canDiotto Università Ca’ Foscari di Venezia Una relazione di cura priva di questa peculiare qualità dell’amore non può che ricadere nel puro assistenzialismo, il quale contiene il rischio di suscitare prima o poi quelle “passioni tristiˮ, come il risentimento e il rancore verso l’altro, che sono destinate a ritorcersi contro il soggetto stesso, in quanto ne producono un sostanziale depotenziamento. Elena Pulcini, Cura di sé, cura dell’altro Introduzione La scelta di una professione è determinata da diversi fattori, a volte anche molto contingenti e, spesso in questi ultimi anni, dettata maggiormente dalla necessità di svolgere un lavoro che possa permettere il sostentamento economico più che dalla ricerca di una propria realizzazione professionale. Nell’ambito della medicina, però, ritengo che si possa ancora parlare, senza essere naïf, di una forma di vocazione per la cura, di un desiderio che spinge a continuare a svolgere la professione medica a fronte delle innumerevoli difficoltà che la minano alle fondamenta. Non sto parlando solo del lungo studio e apprendistato per ottenere prima il titolo e poi il posto di lavoro, mi riferisco specialmente alla quotidianità di chi è medico già da alcuni anni e che si trova a essere costantemente assediato da ritmi di lavoro dettati da burocrazie deumanizzanti, a essere “costretto” ad agire secondo la medicina difensiva e le necessità economiche dell’azienda e a essere invischiato in battaglie tra etiche contrastanti, solo per fare alcuni esempi. Tuttavia, come ho già accennato, una forma di vocazione per la propria professione permane e si determina in svariate pratiche di resistenza alle forze a essa contrapposte. Spesso però queste forme di resistenza si dimostrano dannose per il soggetto che le pratica, nei casi più estremi sfiorando addirittura il martirio o il messianesimo, e impotenti, quando la vocazione Le radici della scelta 40 cioè si riduce a essere un dolce ricordo del passato o quando viene nascosta in interiore homine, indossando all’esterno una maschera di “sano” distacco e professionalità. Ritengo quindi necessario prendersi cura della vocazione, in modo tale da permetterle di essere un sostegno per la professione e non un suo deterrente, promuovendola all’interno di un contesto che sappia riconoscere il valore trasformativo delle emozioni nei tempi di maggiore crisi. In questo contributo sostengo la tesi secondo la quale la vocazione per la professione medica si costituisce come una pratica di costante ascolto al richiamo della sofferenza in vista della costituzione di spazi per la cura. Tale ascolto acquisisce senso all’interno di un’etica della cura appassionata che sappia riconoscere alla vulnerabilità un valore centrale per la trasformazione. Nel primo paragrafo espongo dunque alcuni tratti di un’etica della cura appassionata per la professione medica; nel secondo analizzo il rapporto fra persona e ruoli nello svolgimento della professione, enfatizzando come sia ancora possibile raggiungere un certo livello di autenticità, senza per questo produrre un dualismo tra una presupposta essenza vera di sé e maschera sociale; nel terzo descrivo la vocazione vulnerabile come quel tipo particolare di ascolto della sofferenza che dovrebbe, a mio parere, essere sostenuto; in conclusione introduco una pratica di ascolto del desiderio che ha per obiettivo quello di prendersi cura della vocazione del medico. 1. La vocazione per la cura La professione medica è una professione di cura che ha il dovere di utilizzare le competenze scientifiche «per la tutela della vita e della salute psico-fisica, per il trattamento del dolore e per dare sollievo dalla sofferenza» (Codice di deontologia medica 2014, art. 3). Tale dovere è assunto dal medico come una scelta, le cui radici trovano sostentamento in un terreno vocazionale per la cura dell’umano. La vocazione, la quale etimologicamente significa “chiamata” e “invito”, indica un’inclinazione naturale nei confronti di un’arte o di una professione e nel nostro caso evidenzia quel particolare richiamo alla cura della sofferenza umana. Chi sceglie quindi di dare ascolto a questo richiamo deve essere dotato, per definizione, non solo di quelle capacità tecniche e scientifiche per curare la sofferenza, ma anche di quelle capacità di riconoscimento e di ascolto di essa che sono proprie dell’umanità della persona. Nella configurazione auspicabile della vocazione per la professione medica è quindi la sofferenza dell’umano a chiamare ed è la persona che ha scelto di svolgere il ruolo del medico a rispondere. L. Candiotto - Essere chiamati dalla sofferenza 41 Ciò che permette di ascoltare il richiamo è quella particolare forma di intelligenza emotiva che è sensibile nei confronti della sofferenza. Per agire nei confronti di questa istanza il medico utilizza diverse competenze e, in maniera preponderante, gli strumenti del sapere tecnico-scientifico. La professione medica ha però alla base non solo le scoperte scientifiche della nostra cultura occidentale, ma anche quella capacità, del tutto umana e naturale, di ascoltare e riconoscere la sofferenza. La vocazione per la professione medica istituisce quindi un interessante legame semantico tra competenze tecnico-scientifiche e competenze sociali e relazionali proprie dell’umanità. Tale legame va costantemente ricordato non solo per permettere alla vocazione di essere presente nell’agire quotidiano del medico ma anche per evitare che la pratica di cura si riduca a solo uno dei due momenti e ne risulti, conseguentemente, depotenziata. La dimensione tecnicoscientifica e la dimensione umana sono state disgiunte dalla nostra cultura ma, in realtà, costituiscono un processo unico che permette all’uomo di riflettere, decidere, agire e quindi anche di curare. L’orizzonte di riferimento è quindi quello dell’interezza dell’essere umano, nel suo contesto di appartenenza e nella sua storia di vita (Candiotto 2014, 102-104). Il desiderio di cura si dovrebbe realizzare, secondo Elena Pulcini, come un’etica della cura appassionata (Pulcini 2013, 98), la quale è concreta, contingente e contestuale e riconosce nell’amore ciò che permette di tendere verso l’altro. Una pratica appassionata della professione medica è quindi, nei nostri termini, quella pratica capace di coniugare le competenze proprie della professione, descritte nell’articolo 3 del Codice di deontologia medica 2014,1 a una vocazione recettiva nei confronti della sofferenza dell’altro. La capacità dell’ascolto della sofferenza non è un ideale difficile da realizzare ma trova le proprie condizioni di esistenza in ciò che ci costituisce di per sé come umani e, più nello specifico, nell’empatico riconoscimento nei confronti dei nostri simili. Destrutturando la visione competitiva dell’homo homini lupus, è possibile riconoscere all’umano, su basi scientifiche, quella capacità di agire secondo il mutuo appoggio e la 1 «Al fine di tutelare la salute individuale e collettiva, il medico esercita attività basate sulle competenze, specifiche ed esclusive, previste negli obiettivi formativi degli Ordinamenti didattici dei Corsi di Laurea in Medicina e Chirurgia e Odontoiatria e Protesi dentaria, integrate e ampliate dallo sviluppo delle conoscenze in medicina, delle abilità tecniche e non tecniche connesse alla pratica professionale, delle innovazioni organizzative e gestionali in sanità, dell’insegnamento e della ricerca». 42 Le radici della scelta cooperazione.2 L’etica della cura appassionata realizza quindi ciò che propriamente è umano, al di là della spersonalizzazione data da un dualismo tra ragione e sentimento o tra soddisfacimento dei bisogni individuali e collettivi. L’ascolto delle emozioni dell’altro insito nel richiamo emozionale, e in particolare della sua sofferenza, restituisce quindi all’umano la sua piena umanità: le emozioni sono dunque ciò su cui si può contare come risorsa per la nostra realizzazione.3 In questa prospettiva le emozioni non sono quindi da intendersi come fenomeni meramente privati, ma come un elemento che è costitutivo della valenza relazionale dell’umano. Le emozioni non sono neppure solo delle risposte a degli stimoli, ma sono estese (Slaby 2014) in un contesto vissuto dal medico e dalla persona assistita, in uno spazio cioè che permette la relazione reale tra i due.4 Tale estensione non testimonia solo uno spazio di condivisione, ma esprime quella peculiare cognizione che emerge dalla relazione tra individui e ambiente (Clark e Chalmers 1998). [L’etica della cura] è intesa come attività o pratica e comprende una precisa comprensione dell’interdipendenza e dei dilemmi che si creano nelle situazioni concrete per raggiungerla. (Gilligan 1982, 79, traduzione mia) Carol Gilligan evidenzia la necessità di raggiungere una visione postconvenzionale dell’etica della cura, che sia capace di superare la facile identificazione tra cura e sacrificio di sé per il bene degli altri. Tale possibilità a mio parere si può realizzare in ambito sanitario se il professionista abbandona una visione dualistica tra sé e la persona assistita, esperendo una dimensione relazionale che permetta il giusto equilibrio per il riconoscimento, tra vicinanza e distanza (Candiotto 2014, 100-102). Il medico può essere facilitato in questa operazione se sarà in grado di cogliere i legami presenti nel contesto dove opera, sviluppando una cooperazione con le altre figure professionali (Padoan 2014) ed essendo pronto a rispondere in modo contestuale e specifico ai dilemmi che si porranno nella pratica della professione. 2 3 4 Al di là delle interpretazioni dominanti, la stessa teoria darwiniana evidenzia la collaborazione, più che la competizione, dell’uomo con l’ambiente per l’adattamento e l’evoluzione della specie. Diversi zoologi, ecologisti ed etologi hanno dedicato la propria ricerca a dimostrare questa tesi: cfr. per una storia e una discussione del tema Dugatkin 2006. Sul carattere motivazionale e deliberativo delle emozioni nella razionalità pratica, cfr. Helm 2001. Per quanto riguarda il tema della reciprocità nella relazione, cfr. Turoldo 2011. L. Candiotto - Essere chiamati dalla sofferenza 43 Secondo Fiona Mackay (Mackay 2001, 130) è necessario trasformare il contesto nel quale gli individui si costituiscono, perseguendo un meccanismo decisionale che sia attento alla cura delle differenze più che ai bisogni universali che sono spesso spersonalizzanti. In tal senso questo cambiamento di paradigma non ha solo a che fare con una visione ontologica-epistemologica dello statuto relazionale del soggetto, né solo con una determinazione emotiva della dimensione della cura, ma anche con una configurazione politica. Tale riconoscimento, invece di indebolire tale proposta perché ritenuta troppo difficile da realizzare a causa della sua dipendenza dalla politica, permette a mio avviso di inserire la pratica medica, sorretta da un tipo di vocazione di cui stiamo descrivendo i tratti, in un’azione collettiva. In questo senso le attività che i medici possono proporre all’interno delle proprie equipe multi professionali e all’interno degli Ordini territoriali, assumono un profondo valore trasformativo al quale va dedicato il massimo impegno. Ciò che può sostenerli in questa pratica è proprio l’amore insito nell’etica della cura, il quale, a dispetto di una sua riduzione individualistica è, come sostiene Martha Nussbaum (Nussbaum 2014), una delle emozioni politiche più efficaci. 2. Autenticità, forme di vita e ruoli L’ascolto della sofferenza altrui è anche ascolto di sé. Il sé a cui si dà ascolto è difficilmente comprensibile oggi come un’essenza unica rintracciabile nel profondo di un’interiorità umana monadica. La cultura del Novecento ha cioè portato alla luce la molteplicità dell’io che si situa e si determina nelle molteplici forme e pratiche di vita. Le teorie dei ruoli (Plessner 1974, 27-66) hanno inoltre dimostrato come non sia più possibile porre in maniera dualistica il rapporto tra sé e ruolo ma come sia necessario cogliere una molteplicità originaria che si determina nel tempo e nelle azioni specifiche. Dove si trova quindi questo sé a cui dare ascolto? È ancora possibile riferirsi a una qualche forma di autenticità? Per rispondere a queste domande vorrei utilizzare un paradigma teatrale. Teatro di mimi dalle scene molteplici, fuggevoli e istantanee, dove i gesti, senza vedersi, si fanno segno [...]. (Foucault 1997, 74) Tradizionalmente il teatro viene inteso come spazio della rappresentazione, dove cioè si presenta un doppio della realtà. Michel Foucault, commentando la proposta filosofica di Gilles Deleuze e avendo come riferi- 44 Le radici della scelta mento Friedrich Nietzsche, evidenzia come l’evento della verità si realizzi nell’azione (l’evento è verbo e non attributo), nei continui gesti del soggetto, e come esso produca un effetto di verità. La performance del ruolo non sarebbe quindi in questo senso qualcosa di falso rispetto a una realtà autentica che si riferisce a qualcosa di interiore, l’evento non sarebbe qualcosa che accade a un soggetto, ma sarebbe la diretta espressione, sempre contestuale e dinamica, della molteplicità che noi siamo. Da questa posizione postmoderna non vorrei trarre la conclusione che ciò che è autentico non è la profondità dell’io ma la superficie in divenire dell’evento: vorrei invece evidenziare la centralità dell’essere nell’azione come espressione di ciò che possiamo definire “io” e nell’azione autentica riconoscere quell’azione nella quale ci sia una piena realizzazione di ciò che si sta facendo, incarnato in uno stile di vita. In termini aristotelici potremmo anche riassumere questo concetto come il fiorire delle potenzialità nell’azione, espressione divenuta celebre dall’attualizzazione di questa visione proposta da Martha Nussbaum e Amartya Sen all’interno del Capabilities Approach (Nussbaum e Sen 1993). Rimanendo però ancora nell’ambito teatrale per riflettere attorno al tema dello statuto della persona e del ruolo sociale, vorrei riferirmi a un’altra nozione, anch’essa centrale per il Novecento, quella cioè della maschera. In latino la parola “persona” significa appunto maschera, derivando la sua origine da una rappresentazione di Phersu in una tomba etrusca, come uomo mascherato che danza. In greco la parola prosopon significa ciò che si presenta concretamente di fronte agli occhi (Cusinato 2014b, 202-204). Notiamo quindi un’originaria ambivalenza insita nella parola persona, nell’indicare cioè al contempo la maschera sociale e l’autenticità di chi ci sta di fronte. Tale ambivalenza mi sembra essere estremamente fertile se intesa secondo il paradigma contemporaneo che ho descritto nel capoverso precedente, nel senso che ciò che si manifesta di fronte ai nostri occhi è una maschera, un ruolo in azione (Phersu che danza) incarnato e contestuale e per ciò stesso non qualcosa di falso, ma espressione della concretezza stessa della persona. Tale concretezza non è unica e precedentemente determinata, ma si configura in sempre nuove forme di vita a seconda dei tempi e dei contesti. Questi elementi filosofici mi sembrano importanti per liberarsi dall’idea che tra vocazione del medico, la quale come abbiamo visto precedentemente testimonia l’umanità di chi sceglie di svolgere tale professione, e ruolo professionale, spesso inteso come svolgimento tecnico di una competenza, ci sia una dicotomia insanabile. Tramite il paradigma ermeneutico che sto proponendo, invece, il medico si può riconoscere nei diversi ruoli L. Candiotto - Essere chiamati dalla sofferenza 45 che svolge senza però al contempo semplicemente identificarsi con essi. La realizzazione della costituzione relazionale del sé permette quindi di comprendere quanto i ruoli siano l’espressione stessa della multisfaccettatura del sé e della sua creazione continua nell’eccedenza rispetto a un’identificazione monadica. I ruoli si scelgono, non vengono semplicemente agiti nell’evento. La scelta attua e concretizza l’autenticità (Ortega y Gasset 1935). Da un punto di vista educativo, Riccardo Massa (Massa 1997) ha evidenziato come la scelta specifica di una performance produca un determinato effetto nell’interlocutore. In questo senso, una competenza del medico dovrebbe essere anche quella di sapere, a seconda dei contesti, quale “ruolo” rivestire, senza per questo cogliere questa “teatralità” della professione come qualcosa di inautentico. Il ruolo assunto dal medico deve però essere riconosciuto anche dal paziente. Secondo Ervin Goffmann (Goffmann 1956) la vita sociale può essere intesa nei termini della rappresentazione teatrale: l’individuo nel contesto relazionale cerca di controllare le impressioni che gli altri ricevono dalla situazione nella quale agisce.5 In questi termini l’agire è condizionato da come si vuole apparire e dal ruolo nel quale si vuole essere riconosciuti. Da questo punto di vista, quindi, il ruolo che il medico sceglie di assumere attraverso una performance, dipende anche dal potere che il contesto di appartenenza gli riconosce. L’autenticità dei ruoli non è quindi qualcosa di per sé acquisito, ma qualcosa che va continuamente guadagnato, anche a rischio di frustrazioni, qualora non fosse riconosciuto. La relazione non è solo qualcosa di “positivo” che permette il riconoscimento interpersonale; è anche una “fatica” di cui farsi carico costantemente e inevitabilmente. Se un particolare ruolo “funziona”, nel senso di efficace e soddisfacente riconoscimento nei contesti di appartenenza, esso rischia inoltre di indurre la persona a una sua fissazione, producendo così una sclerosi del ruolo. In questo caso richiamare la creatività come fonte per un medico che sappia essere anche artista (Leoni 2014) è di estrema importanza perché permette alla persona, se ci ricordiamo quanto poco fa ho richiamato in merito all’etimologia del termine, di “danzare”, ovvero di essere elastico e disponibile nella richiesta di trasformazione contestuale dei ruoli. 5 Tali rappresentazioni sono delle eco delle emozioni che permettono un coglimento immediato del ruolo. Cfr. la citazione di George Santayana utilizzata da Goffmann come epigrafe: «Le maschere sono espressioni prese ad ostaggio, ammirabili eco di emozioni, immediatamente fedeli, discrete e superlative». (Goffmann 1956, traduzione mia) Le radici della scelta 46 L’immagine della danza è presente anche nel testo già citato di Foucault (Foucault 1997, 57) ed è centrale per la proposta filosofica di Nietzsche e mi sembra possa esprimere per noi la leggerezza che va ricercata nella composizione di armonie (Candiotto 2014), ovvero nell’articolazione dei ruoli che siamo chiamati a svolgere nella professione. La creatività della “danza” va agita in correlazione con ciò che, citando Maria Zambrano, potremmo definire la responsabilità della scelta come esercizio silenzioso. Nel rispondere (da cui deriva la parola responsabilità) alla vocazione, il professionista ha bisogno quindi anche di spazi silenziosi dove prendersi cura di sé, per “far riposare” la propria sensibilità rispetto alle continue e urgenti chiamate della sofferenza. 3. Vocazione vulnerabile Le emozioni svolgono un ruolo fondamentale nel riconoscimento di quella che, con tutti i distinguo che abbiamo operato nel paragrafo precedente, possiamo ancora chiamare “autenticità”. Vi è cioè la convinzione che nell’esperire una determinata emozione non si possa mentire, essendo essa un’espressione della propria soggettività. A tal riguardo la medicina narrativa ha più volte richiamato la connotazione esperienziale, intima e soggettiva della sofferenza ed è prassi ormai ordinaria richiedere al paziente un giudizio del dolore percepito che possa essere messo in relazione con una diagnosi strumentale e oggettiva. L’ascolto della sofferenza dell’altro, che, in base a quanto sto qui esponendo, riveste un ruolo centrale nella definizione della vocazione per la professione medica, può essere inteso anche come una chance per riconoscere la propria umanità. L’umanità postmoderna ha cioè l’occasione, come sostengono ad esempio Elena Pulcini (Pulcini 2009, 21) e Marina Calloni (Calloni 2006, 119-137), di riconoscere la propria vulnerabilità6 grazie alla “forza dell’evento”. Tali analisi che solitamente vengono condotte in merito al dramma causato da particolari eventi storici – un esempio tipico è quello dell’olocausto o della caduta delle Torri Gemelle (Butler 2004; Butler 2005) – sono a mio parere fertili anche per comprendere l’attingimento della cognizione della precarietà dell’esistenza attraverso l’esperienza quotidiana della sofferenza propria e altrui nella malattia. La vocazione si connota così come vulnerabile, non nel senso di una debolezza 6 Per quanto riguarda la relazione fra vulnerabilità, femminismo e psicanalisi, cfr. Tommasi 2014, 407-431. L. Candiotto - Essere chiamati dalla sofferenza 47 motivazionale, ma come dimensione di ascolto della ferita. Tale riconoscimento non va però inteso in senso passivo ma come un’occasione per mettere in atto un processo di cura (Diotima 2005). Il riconoscimento della vulnerabilità è cioè qui inteso come quell’elemento che permette all’individuo di rafforzarsi – invece che di indebolirsi – e di attivarsi in vista di un auspicabile processo di guarigione. Il riconoscimento della vulnerabilità innesca cioè un processo di trasformazione che permette di trovare, all’interno della stessa condizione negativa, la chiave per agire un altrimenti. La vocazione vulnerabile, quindi, non richiede di essere più deboli ma di attingere la forza dalla consapevolezza della sofferenza e dalla resilienza. La vocazione vulnerabile si coniuga all’etica della cura anche per il significato stesso della passione come patire (Curi 2013). Il patire può essere inteso proficuamente per quanto stiamo esponendo come un sentire il percorso attraverso il negativo. L’esperienza quotidiana della sofferenza come cammino non deve però essere percepita come una fuga, se intesa come abito non deve essere vissuta come un rifiuto (Tarca 2014) o un’espiazione, bensì come il riconoscimento del limite come fenomeno naturale della vita umana, incontrovertibile e imprescindibile, come spazio da ascoltare, abitare e di cui è necessario prendersi cura. Anche se oggi il termine “paziente” sta entrando in disuso, mi piace qui richiamarlo per evidenziare quanto l’utilizzo dell’espressione “etica della cura appassionata” sia estremamente pertinente per il nostro ambito, dal momento che sottolinea proficuamente anche un altro aspetto: l’etica della cura è appassionata se è spinta dal desiderio ma anche se è in grado di ascoltare chi patisce, ovvero il paziente. Per essere tale, l’etica della cura appassionata deve dunque essere vocazionale, ovvero disponibile all’ascolto della sofferenza. 4. Conclusione: una pratica di ascolto del desiderio L’etica appassionata e la vocazione vulnerabile sono pratiche da esercitare, alle quali cioè si perviene con un costante esercizio e lavoro su di sé. Le pratiche filosofiche per la medicina (Candiotto e Tarca 2014) sono un valido strumento per raggiungere questo scopo. In particolare vorrei qui riferirmi a una pratica di gruppo che deriva dal teatro immagine di Augusto Boal (Boal 2005). Finalità del teatro immagine è quello di mettere in scena, attraverso la “scultura” del proprio corpo e del corpo altrui, statue fisse o dinamiche che siano in grado di esprimere, attraverso un linguaggio non verbale, le dinamiche relazionali. 48 Le radici della scelta Il legame tra quanto ho esposto qui da un punto di vista teorico e quello che mi accingo a introdurre da un punto di vista pratico-formativo non è estrinseco. Ritengo infatti che l’espressione del corpo in azione nella plasticità del teatro permetta di incarnare perfettamente quanto richiesto dall’etica appassionata e dalla vocazione vulnerabile. Il soggetto che viene infatti chiamato a rappresentare una determinata “statua” potrà cioè esperire con più facilità, nella particolare postura del proprio corpo, la dimensione emotiva e cognitiva che sono in atto nell’azione. La cura del desiderio sarà quindi una cura della plasticità delle emozioni nel costruire un’etica appassionata (Cusinato 2014a). Come ho evidenziato nel secondo paragrafo, il teatro è inoltre una chiara espressione dell’ambivalenza del ruolo che si gioca tra autenticità e maschera e può quindi fungere da training per l’esperienza di questo stato nella quotidianità professionale. Inoltre, uno degli obiettivi perseguiti da Boal, era quello di permettere alle persone, attraverso la pratica teatrale, di “demeccanizzarsi”, di liberarsi, nei migliori dei casi, dai ruoli stigmatizzati e determinati da stereotipi culturali, per esercitare un’espressione di sé che rappresenti ruoli scelti e non semplicemente assunti in maniera acritica e condizionata. In questo senso, quanto da me richiamato in merito alla necessità di un connubio tra creatività ed esercizio silenzioso per quanto riguarda il meccanismo di una scelta responsabile, trova nella pratica di Boal una diretta applicazione, con il vantaggio di poter sperimentare tale scelta all’interno di un setting concreto e contestuale, quello cioè teatrale, che possa preparare al suo esercizio nella vita quotidiana. Una pratica di teatro immagine, intesa quindi da questo particolare punto di vista filosofico che enfatizza il valore trasformativo del desiderio, proporrà alcuni strumenti per riconoscere le maschere sociali, per sottoporle a una verifica rispetto alla loro efficacia per la professione e, eventualmente, per cercare una trasformazione che permetta di riconoscersi autenticamente nei propri ruoli. Concludo con l’auspicio che l’etica della cura appassionata e la vocazione vulnerabile possano rafforzare la pratica della professione medica, permettendo così un ascolto della sofferenza che non depotenzi coloro i quali hanno assunto questo importante ruolo nella società: i medici. L. Candiotto - Essere chiamati dalla sofferenza 49 Bibliografia Benasayag, Miguel e Schmit, Gérard. 2013. Les passions tristes: Souffrance psychique et crise sociale. Paris: La Découverte. Trad. it. di E. Missana 2005. L’epoca delle passioni tristi. Milano: Feltrinelli. Boal, Augusto. 2005. 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