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Sa g g i
Diritti fo nd a me nta li
e g o ve rna nc e e c o no mic a e uro p e a
d i Ma rc o D’ Ag o stini *
Introduzione
L’evoluzione, da un lato, dei Trattati e, dall’altro, della giurispruden‐
za della Corte di giustizia, ha progressivamente sviluppato la centralità
dei diritti fondamentali nella vita dell’Unione europea. I Trattati hanno
progressivamente riconosciuto tra i principi da perseguire o i diritti da
tutelare la solidarietà, la coesione economica e sociale, la cittadinanza, i
diritti umani; da ultimo, il Trattato di Lisbona ha equiparato il valore
della Carta dei diritti fondamentali a quello dei Trattati. Tale processo ha
consentito un progressivo spostamento del baricentro dell’Unione dalle
finalità economiche originarie, derivanti dall’approccio funzionalista, a
una comunità politica finalizzata (anche) alla tutela di quei diritti, nella
consapevolezza di appartenere a un comune destino.
Già consigliere parlamentare, capo dell’Ufficio dei rapporti con le istituzioni
dell’Unione europea del Senato della Repubblica. Contributo sottoposto a doppio
referaggio (double blind peer review).
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Partendo da tale assunto il presente saggio, ripercorrendo le tappe che
hanno portato all’introduzione dell’euro, prima e, dopo, al Trattato sul
Fiscal Compact, si ripromette di approfondire la questione della coerenza
dell’impianto istituzionale che sorregge la politica monetaria comune con
quei principi e diritti fondamentali perseguiti o tutelati dall’Unione.
Tale verifica viene approfondita sotto il profilo giuridico, economico
e politico concludendo con un’esortazione alla revisione del Trattato sul
Fiscal Compact e, più in generale, ad una ridefinizione del quadro istitu‐
zionale che lega gli Stati che partecipano all’euro, pena, altrimenti, una
disintegrazione dell’euro e, forse, dell’Unione.
1. I diritti fondamentali nell’Unione europea
1.1. I diritti fondamentali nel sistema comunitario dai Trattati di Roma a
Maastricht e Amsterdam.
Il Trattato istitutivo della Comunità economica europea1 del 1957 non
aveva un preambolo o una sezione dedicata ai diritti fondamentali. Sebbene
A differenza del progetto di Trattato istitutivo della Comunità politica europea,
elaborato nel marzo del 1953 dall’Assemblea della Comunità europea del carbone e
dell’acciaio (CECA), costituitasi come Assemblea ad Hoc, dopo la cooptazione di alcuni
ulteriori componenti, su mandato dei Governi dei sei Stati fondatori della CECA i quali, il
27 maggio 1952, avevano firmato il Trattato istitutivo della Comunità europea di difesa, la
cui ratifica si arenò dopo la reiezione da parte del Parlamento francese nell’agosto del 1954.
Il progetto di Trattato istitutivo della Comunità politica europea, destinata ad assicurare
una supervisione politica sulla Comunità di difesa, sanciva all’art. 3 che le disposizioni
della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, firmata a Roma il 4 novembre 1950,
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l’articolo 2 richiamasse tra gli obiettivi lo «sviluppo armonioso delle attività
economiche nell’insieme della Comunità, un’espansione continua ed equi‐
librata, una stabilità accresciuta, un miglioramento sempre più rapido del
tenore di vita», non scaturivano da tali obiettivi, tuttavia, specifici diritti
bensì venivano garantiti nel sistema comunitario i diritti specificamente ri‐
conosciuti nei confronti degli individui in altri articoli del Trattato.
Tra questi si ricorda l’art. 7, sul divieto di discriminazione effettuata
in base alla nazionalità, l’art. 48, sul diritto di libera circolazione dei la‐
voratori, l’art. 52, sul diritto di stabilimento, e l’art. 119, sulla parità di
retribuzione tra uomini e donne. Altri articoli, poi, come l’art. 57, subor‐
dinavano il riconoscimento di ulteriori diritti, come l’esercizio delle pro‐
fessioni, a un processo di armonizzazione normativa attraverso stru‐
menti di diritto derivato, come le direttive.
La giurisprudenza della Corte di giustizia delle Comunità europee, al
riguardo, si è evoluta passando dalla dichiarazione di incompetenza a
giudicare in materia di diritti fondamentali desumibili dalle Costituzioni
degli Stati membri – ad esempio, con le sentenze del 4 febbraio 1959
(causa C‐1/58) e del 15 luglio 1960 (cause C‐36‐38/59 e 40/59) – fino al
riconoscimento della tutela dei diritti umani quale parte integrante dei
principi di cui la Corte garantisce l’osservanza, con la sentenza del 12
novembre 1969 (causa C‐29/69).
costituissero parte integrante dello Statuto della Comunità politica europea (Craig e de
Burca 2015, 380). Cfr. Ad Hoc Assembly instructed to work out a draft Treaty setting up
a European Political Community, Draft Treaty embodying the Statute of the European
Community, in http://aei.pitt.edu/991/1/political_union_draft_treaty_1.pdf (consultato il
19 giugno 2016).
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La Corte in qualche modo ha “anticipato” l’evoluzione dei Trattati in
materia di diritti fondamentali riconoscendo sempre più chiaramente –
si ricorda al riguardo, tra le altre, la sentenza del 28 ottobre 1975 (causa
C‐36/75) – che, nell’interpretazione del diritto comunitario, occorre tener
conto dei diritti fondamentali riconosciuti nelle Costituzioni degli Stati
membri e nei Trattati internazionali da questi sottoscritti, ivi inclusa la
Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950 nell’ambito
del Consiglio d’Europa.
Per quanto concerne le altre istituzioni della Comunità veniva a costitui‐
re una tappa importante la Dichiarazione comune sui diritti fondamentali
adottata dal Parlamento, dalla Commissione e dal Consiglio il 5 aprile 1977,
la quale sanciva il rispetto, da parte delle istituzioni, dei «diritti fondamen‐
tali, quali risultano in particolare dalle costituzioni degli Stati membri non‐
ché dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e
delle libertà fondamentali».
Trai vari documenti, dichiarazioni, comunicazioni e rapporti in mate‐
ria di diritti umani realizzati nell’ambito della Comunità europea negli
anni successivi, si segnala l’importanza della Carta dei diritti fondamenta‐
li dei lavoratori approvata in occasione del Consiglio europeo di Stra‐
sburgo del 9 dicembre 1989, che veniva a costituire un primo testo organi‐
co in materia di diritti fondamentali, sia pure circoscritto a un ambito par‐
ticolare, mentre parallelamente si sviluppava il dibattito sull’eventuale
adesione alla CEDU da parte della Comunità europea.
Successivamente, con il Trattato di Maastricht, firmato il 7 febbraio
1992, veniva fondata l’Unione europea, la quale riconosceva formalmen‐
te, all’articolo 6 (già articolo “F”), i diritti fondamentali quali sono garan‐
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titi dalla CEDU e quali risultano dalle tradizioni costituzionali comuni
degli Stati membri, in quanto principi generali del diritto comunitario.
Ovviamente, nel passaggio dalle Comunità originarie al quadro isti‐
tuzionale definito con il Trattato di Maastricht, basato sulla coesistenza
dell’Unione e della Comunità, venivano ulteriormente articolati anche i
diritti specificamente riconosciuti agli individui nell’ambito delle norme
dei Trattati. Tra queste, meritevoli di particolare sottolineatura quelle
inerenti all’istituzione della cittadinanza dell’Unione, disciplinata dalla
“Parte Seconda” del Trattato sulla Comunità europea, la quale veniva a
sostituirsi alla Comunità economica europea.
Degna di nota poi, in proposito, appare la ridefinizione, all’art. 2 del
Trattato istitutivo dell’Unione europea, degli obiettivi comuni, fra i quali
veniva anteposta la promozione di «un progresso economico e sociale equi‐
librato e sostenibile, segnatamente mediante la creazione di uno spazio sen‐
za frontiere interne, il rafforzamento della coesione economica e sociale e
l’instaurazione di un’unione economica e monetaria che comporti a termine
una moneta unica…».
Per quanto concerne i diritti fondamentali, il Trattato di Amsterdam,
firmato il 2 ottobre 1997, incideva in particolare con l’inserimento, tra gli
obiettivi dell’Unione, all’art. 2 del relativo Trattato, del perseguimento di un
«elevato livello di occupazione», obiettivo precisato anche tra i compiti di
cui all’art. 2 del Trattato sulla Comunità europea. Il nuovo obiettivo era as‐
sistito dall’introduzione di un apposito Titolo VI dedicato all’occupazione,
che prevedeva, tra l’altro, all’art. 109P, che «La Comunità contribuisce ad
un elevato livello di occupazione promuovendo la cooperazione tra gli Stati
membri nonché sostenendone e, se necessario, integrandone l’azione. Sono
in questo contesto rispettate le competenze degli Stati membri».
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La maggior attenzione per i diritti fondamentali che pervadeva l’Unione
europea con i nuovi accordi veniva evidenziata anche da una modifica del
citato art. F del Trattato sull’Unione che, al par. 1, precisava che «L’Unione
si fonda sui principi di libertà, democrazia, rispetto dei diritti dell’uomo e
delle libertà fondamentali, e dello stato di diritto, principi che sono comuni
agli Stati membri». Tale affermazione di principio veniva supportata
dall’introduzione del nuovo art. F.1 che disciplinava, con la partecipazione
del Parlamento europeo, la possibilità di sospendere i diritti di voto in seno
al Consiglio dei rappresentanti di uno Stato membro di cui fosse constatata
la violazione dei suddetti principi inerenti alle libertà fondamentali2.
Si tratta di una procedura che non è stata mai sviluppata fino alle sue estreme
conseguenze, la comminazione di sanzioni agli Stati membri ritenuti in difetto (Craig e
de Burca 2015, 381). Nel 2000, a seguito dell’ingresso nella coalizione di Governo del
partito liberaldemocratico di Jörg Haider, accusato di posizioni razziste, xenofobe e
antisemite, furono assunte posizioni molto critiche da parte di alcuni Stati sul piano
bilaterale nei confronti dell’Austria, fino a minacciare la sospensione delle relazioni
(gli Stati Uniti ed Israele richiamarono l’ambasciatore), ma non fu attivata la suddetta
procedura (Macchi 2000). Più di recente, il Parlamento europeo ha approvato
una risoluzione, il 10 giugno 2015, deplorando la mancanza di reazione da parte
del Consiglio ai più recenti sviluppi in Ungheria e sollecitando la Commissione
ad avviare un approfondito processo di monitoraggio riguardante la situazione
della democrazia, dello Stato di diritto e dei diritti fondamentali in tale Paese; cfr.
risoluzione del Parlamento europeo del 10 giugno 2015 sulla situazione in Ungheria,
http://www.europarl.europa.eu/sides/getDoc.do?type=TA&reference=P8‐TA‐2015‐
in
0227&language=IT (consultato il 19 giugno 2016). Ancor più recentemente, nel gennaio
2016 la Commissione ha deciso di avviare il dialogo strutturato nell’ambito del quadro
per lo Stato di diritto, inviando una lettera al governo polacco al fine di chiarire la
situazione nel Paese; cfr. risoluzione del Parlamento europeo del 13 aprile 2016 sulla
situazione in Polonia, in http://www.europarl.europa.eu/sides/getDoc.do?pubRef=‐
//EP//TEXT+TA+P8‐TA‐2016‐0123+0+DOC+XML+V0//IT (consultato il 19 giugno 2016).
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Occorre notare inoltre che il combinato disposto delle suddette norme
e di quelle sulla Corte di giustizia estendeva oggettivamente le compe‐
tenze di quest’ultima in materia di tutela dei diritti fondamentali.
1.2. La Carta di Nizza
Il formale riconoscimento dei diritti garantiti dalla CEDU nel diritto
comunitario operato con il Trattato di Maastricht non esauriva il dibatti‐
to sulla necessità dell’adozione di uno specifico “catalogo” dei diritti
fondamentali riconosciuti dall’Unione europea.
Il Consiglio europeo di Colonia, del 3 e 4 giugno 1999, decise in parti‐
colare che si procedesse alla redazione di una carta dei diritti fondamen‐
tali dell’Unione europea, affidando il compito ad un apposito organi‐
smo, composto dai delegati dei Capi di Stato e di Governo, dal Presiden‐
te della Commissione europea nonché dai delegati del Parlamento euro‐
peo e dei Parlamenti nazionali. L’esatta composizione e le modalità di
funzionamento di tale organismo, nuovo nel panorama delle istituzioni
europee, furono definiti nel Consiglio europeo di Tampere, del 15 e 16
ottobre 1999. I lavori di tale organismo, che assunse il nome di Conven‐
zione per la redazione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione
europea, si conclusero con la Conferenza intergovernativa di Nizza del
dicembre 2000 e la proclamazione della Carta il 7 dicembre 2000.
Tale atto, evidenziando nel preambolo la volontà dei popoli europei
di creare tra loro un’unione sempre più stretta e condividere un futuro
di pace fondato su valori comuni, rileva la necessità di rafforzare la tute‐
la dei diritti fondamentali rendendoli più visibili in una Carta. Essa riaf‐
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ferma che l’Unione si fonda sui valori indivisibili e universali di dignità
umana, libertà, uguaglianza e solidarietà, si basa sui principi di demo‐
crazia e dello stato di diritto e pone la persona al centro della sua azione
istituendo la cittadinanza dell’Unione e creando uno spazio di libertà,
sicurezza e giustizia.
La Carta riafferma inoltre, nel rispetto delle competenze e dei compiti
della Comunità e dell’Unione e del principio di sussidiarietà, i diritti de‐
rivanti in particolare dalle tradizioni costituzionali e dagli obblighi in‐
ternazionali comuni agli Stati membri, dal Trattato sull’Unione europea
e dai Trattati comunitari, dalla Convenzione europea per la salvaguardia
dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, dalle carte sociali adot‐
tate dalla Comunità e dal Consiglio d’Europa, nonché i diritti riconosciu‐
ti dalla giurisprudenza della Corte di giustizia delle Comunità europee e
da quella della Corte europea dei diritti dell’uomo. La Carta si articola in
sette capi rispettivamente dedicati alla dignità, alla libertà,
all’uguaglianza, alla solidarietà, alla cittadinanza, alla giustizia, nonché
alle disposizioni generali. Tra queste figura la precisazione (art. 51) che
le disposizioni della Carta si applicano alle istituzioni e agli organi
dell’Unione nel rispetto del principio di sussidiarietà, come pure agli
Stati membri, esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione,
pertanto, secondo le rispettive competenze.
Con il Consiglio europeo di Nizza si concluse altresì la Conferenza in‐
tergovernativa dedicata alla riforma dei Trattati che, pur introducendo
talune riforme istituzionali ritenute improrogabili alla vigilia
dell’adesione di numerosi nuovi Stati membri dell’Europa centrale e
orientale, non riuscì a raggiungere un consenso sullo status giuridico
della Carta dei diritti fondamentali, aspetto che venne rimesso ad una
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successiva tornata di riforme istituzionali, come indicato nella Dichiara‐
zione n. 23 allegata al Trattato medesimo.
1.3. L’inserimento della Carta di Nizza nel Trattato costituzionale e nel
Trattato di Lisbona
Sebbene la Corte di giustizia e la maggior parte della dottrina abbiano
riconosciuto fin dalla proclamazione del 7 dicembre 2000 il valore giuri‐
dico della Carta di Nizza, questa non è stata formalmente incorporata
nel diritto dell’Unione fino al Trattato recante una Costituzione per
l’Europa, firmato a Roma il 29 ottobre 2004. Il contenuto della Carta ve‐
niva così a costituire la Parte II del Trattato conferendogli, unitamente
alla Parte I, concernente le disposizioni sul funzionamento delle istitu‐
zioni, il nucleo delle norme di carattere ”costituzionale”, essendo dedi‐
cata la parte III alle politiche settoriali.
Come noto, tuttavia, il Trattato di Roma, elaborato da una Conven‐
zione costituita con modalità analoghe a quella che aveva redatto la Car‐
ta di Nizza, non è mai entrato in vigore dato l’esito negativo dei referen‐
dum tenutisi in Francia e nei Paesi Bassi, rispettivamente, il 29 maggio e
il 1° giugno 2005. La Carta dei diritti fondamentali è stata quindi oggetto
di una nuova proclamazione, il 12 dicembre 20073 – che ha apportato
solo modifiche inerenti ai profili interpretativi, venendo nel nuovo testo
Cfr. Carte dei diritti fondamentali dell’Unione europea, in Gazzetta ufficiale
dell’Unione europea C 303 del 14 dicembre 2007, in http://eur‐lex.europa.eu/legal‐
content/IT/TXT/PDF/?uri=OJ:C:2007:303:FULL&from=it (consultato il 27 giugno 2016).
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sottolineati, ai fini della sua interpretazione da parte dei giudici, i chia‐
rimenti elaborati dal Presidium della Convenzione – e le è stato ricono‐
sciuto lo stesso valore giuridico dei Trattati (sebbene non vi sia stata let‐
teralmente incorporata), ai sensi dell’articolo 6 del Trattato firmato a Li‐
sbona il 13 dicembre 2007 ed entrato in vigore il 1° gennaio 2009.
A seguito delle modifiche introdotte dal Trattato di Lisbona al Tratta‐
to sull’Unione europea (TUE) e al Trattato sulla Comunità europea, ri‐
denominato Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), si
precisa inoltre che, ai sensi dell’art. 2 del TUE, «L’Unione si fonda sui
valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia,
dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani,
compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze. Questi valori
sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal plurali‐
smo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla
solidarietà e dalla parità tra donne e uomini». Ai sensi dell’art. 3, par. 3,
del TUE, l’Unione «Si adopera per lo sviluppo sostenibile dell’Europa,
basato su una crescita economica equilibrata e sulla stabilità dei prezzi,
su un’economia sociale di mercato fortemente competitiva, che mira alla
piena occupazione e al progresso sociale, e su un elevato livello di tutela
e di miglioramento della qualità dell’ambiente […] L’Unione combatte
l’esclusione sociale e le discriminazioni e promuove la giustizia e la pro‐
tezione sociali, la parità tra donne e uomini, la solidarietà tra le genera‐
zioni e la tutela dei diritti del minore. Essa promuove la coesione eco‐
nomica, sociale e territoriale, e la solidarietà tra gli Stati membri».
Si segnala poi che il principio di solidarietà è richiamato in numerose
altre norme del Trattato e, in particolare, nel Protocollo n. 28, sulla coe‐
sione economica, sociale e territoriale, che ricorda tra l’altro, che «l’art. 3
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del Trattato sull’Unione europea prevede tra gli altri obiettivi quello di
promuovere la coesione economica, sociale e territoriale e la solidarietà
tra gli Stati membri e che tale coesione figura tra i settori di competenza
concorrente dell’Unione enunciati all’articolo 4, paragrafo 2, lettera c)
del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea».
Anche l’art. 122 del TFUE richiama il principio di solidarietà preve‐
dendo la concessione, a determinate condizioni, di un’assistenza finan‐
ziaria dell’Unione allo Stato membro interessato da gravi difficoltà a
causa di calamità naturali o di circostanze eccezionali che sfuggono al
suo controllo.
1.4. Profili generali della tutela dei diritti fondamentali nel quadro istituzio‐
nale dell’Unione
Tra le questioni preliminari da valutare in ordine al sistema di garanzie
dei diritti fondamentali scaturito dal Trattato di Lisbona figura l’incidenza
giuridica del riconoscimento nei confronti della Carta dei diritti fonda‐
mentali – con le citate modifiche apportate alla Carta di Nizza del 2000
dalla nuova proclamazione fatta a Strasburgo il 12 dicembre 2007 – dello
stesso valore giuridico dei Trattati, ai sensi dell’art. 6, par. 1, del TUE.
Come noto la Carta non costituisce una rottura con un ordinamento
preesistente che negava i diritti ivi proclamati, come una sorta di Bill of
Rights, bensì nasce con un intento ricognitivo, teso a conferire sistemati‐
cità ai diritti fondamentali già riconosciuti nell’ambito del cosiddetto
“acquis communautaire”. Tale intento viene esplicitato nel preambolo del‐
la Carta, laddove si precisa che «la presente Carta riafferma, […] i diritti
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derivanti in particolare dalle tradizioni costituzionali e dagli obblighi
internazionali comuni agli Stati membri, dalla Convenzione europea per
la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali, dalle
carte sociali adottate dall’Unione e dal Consiglio d’Europa, nonché dalla
giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea e da quella
della Corte europea dei diritti dell’uomo…».
Tuttavia, la stessa redazione della Carta determina un atto che va ol‐
tre il puro intento ricognitivo, laddove si inseriscono nel “catalogo” dei
diritti non ancora sedimentati nella giurisprudenza comunitaria, che per
alcuni aspetti vengono a costituire dei “nuovi diritti” in tale ambito, e ne
vengono esclusi altri, pur riconosciuti nelle tradizioni costituzionali de‐
gli Stati membri, la cui omissione sembra indicare una possibile minore
tutela. Come osservato dalla dottrina, ad esempio da Cartabia (2008, 92‐
96), tra i primi figurano i temi della ricerca medica e biologica sulla per‐
sona e dei diritti dei bambini, dei disabili e degli anziani; tra i secondi
figura l’assenza di riferimenti allo status delle formazioni sociali come le
confessioni religiose, i partiti, le associazioni, i sindacati o le minoranze
linguistiche. Si tutela il diritto degli individui ad aderirvi liberamente e a
non essere discriminati per il fatto di appartenervi ma le comunità in‐
termedie non appaiono titolari di diritti in quanto tali.
Tali omissioni non impediscono tuttavia la tutela di tali realtà perché
esse godono di garanzie previste nelle tradizioni costituzionali degli Stati
membri e nelle Convenzioni internazionali da questi sottoscritte, richia‐
mate sia nel citato preambolo della Carta, sia all’art. 6, par. 3, del TUE.
L’art. 53 della Carta stabilisce altresì che «Nessuna disposizione della pre‐
sente Carta deve essere interpretata come limitativa o lesiva dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali riconosciuti, nel rispettivo ambito
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di applicazione, dal diritto dell’Unione, dal diritto internazionale, dalle
convenzioni internazionali delle quali l’Unione o tutti gli Stati membri
sono parti, in particolare dalla Convenzione europea per la salvaguardia
dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali, e dalle costituzioni de‐
gli Stati membri». L’art. 17 del TFUE afferma poi che l’Unione rispetta lo
status riconosciuto dal diritto nazionale a Chiese e organizzazioni filosofi‐
che e non confessionali, formazioni non contemplate invece dalla Carta.
Le spiegazioni relative alla Carta dei diritti fondamentali elaborate
dal Presidium della Convenzione – sul cui valore giuridico la dottrina ha
sollevato numerosi dubbi ma di cui, ai sensi dell’art 6, paragrafo 1, del
TUE citato, si deve tenere debito conto in sede interpretativa – pongono,
in sede di illustrazione dell’art. 52, paragrafo 5,
«la distinzione fra «diritti» e «principi» sancita nella Carta. In base a tale
distinzione, i diritti soggettivi sono rispettati, mentre i principi sono osserva‐
ti (articolo 51, paragrafo 1). Ai principi può essere data attuazione tramite at‐
ti legislativi o esecutivi […]; di conseguenza, essi assumono rilevanza per il
giudice solo quando tali atti sono interpretati o sottoposti a controllo. Essi
non danno tuttavia adito a pretese dirette per azioni positive da parte delle
istituzioni dell’Unione o delle autorità degli Stati membri. Ciò è in linea sia
con la giurisprudenza della Corte di giustizia …».
Anche sulla tenuta, in prospettiva, di tale demarcazione tra “diritti” e
“principi” la dottrina (Cartabia, 2008, 104‐105) nutre molti dubbi e si do‐
vrà attendere l’evoluzione della giurisprudenza della Corte. Ferma re‐
stando la “tenuta” di tale distinzione, i diritti troverebbero una più mar‐
cata tutela in quanto la loro eventuale limitazione sarebbe giustificata
solo dal perseguimento di finalità di interesse generale dell’Unione e
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soggetta, ai sensi dell’art. 52 della Carta, al rispetto dei principi di pro‐
porzionalità e della riserva di legge, nonché dell’esigenza di non pregiu‐
dicare la stessa sostanza dei diritti interessati.
Un ulteriore profilo meritevole di approfondimento è costituito dalla
valutazione della “capacità dinamica” dei diritti e dei principi ricono‐
sciuti dalla Carta e dalla loro correlazione con le competenze
dell’Unione. Stando alla distinzione tra diritti e principi posta dalle citate
“Spiegazioni” del Presidium della Convenzione, se da un lato i primi ap‐
paiono garantiti da una più efficace tutela “passiva”, posti i citati vincoli
ad una loro eventuale limitazione, i principi risultano apparentemente
dotati di una maggiore forza propulsiva laddove l’art. 51, par. 1, della
Carta dispone che l’Unione e gli Stati membri «rispettano i diritti, osser‐
vano i principi e ne promuovono l’applicazione secondo le rispettive
competenze e nel rispetto dei limiti delle competenze conferite
all’Unione nei trattati». La suddetta norma – dato che, sia l’art. 51, par. 2,
della Carta, sia l’art. 6, par. 1, del TUE, escludono che dalla Carta possa‐
no derivare modifiche o estensioni delle competenze o dei compiti
dell’Unione – non sembra sufficiente a consentire di utilizzare i principi
riconosciuti dalla Carta quale base giuridica per l’adozione di azioni po‐
sitive inerenti allo svolgimento di una politica attiva dei diritti fonda‐
mentali.
Tuttavia il combinato disposto della suddetta norma e dell’art. 352 del
TFUE potrebbe costituire una sorta di “motore” dell’Unione, idoneo a le‐
gittimare in futuro, laddove vi fosse la volontà politica, l’adozione di nuo‐
ve misure e politiche attive di tutela dei diritti fondamentali. L’art. 352 del
TFUE prevede infatti che «Se un’azione dell’Unione appare necessaria, nel
quadro delle politiche definite dai trattati, per realizzare uno degli obietti‐
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vi di cui ai trattati senza che questi ultimi abbiano previsto i poteri di
azione richiesti a tal fine, il Consiglio, deliberando all’unanimità su pro‐
posta della Commissione e previa approvazione del Parlamento europeo,
adotta le disposizioni appropriate». Tale articolo, infatti, ha già costituito
la base giuridica, ad esempio, nella precedente formulazione (ex art. 308
del Trattato sulla Comunità europea), per l’istituzione dell’Agenzia
dell’Unione europea per i diritti fondamentali, prima della firma del Trat‐
tato di Lisbona, con il regolamento 168/2007/CE del 15 febbraio 2007.
Ancora più delicati appaiono i risvolti derivanti dal riconoscimento
nei confronti della Carta dei diritti fondamentali dello stesso valore giu‐
ridico dei Trattati nelle relazioni tra l’ordinamento dell’Unione europea
e l’ordinamento degli Stati membri. Sebbene il citato art. 51, paragrafo 1,
della Carta circoscriva la sfera di applicazione delle sue disposizioni a
istituzioni, organi e organismi dell’Unione e agli Stati membri «esclusi‐
vamente nell’attuazione del diritto dell’Unione», il crescente ricorso dei
giudici nazionali alla Corte di giustizia attraverso la questione di inter‐
pretazione pregiudiziale, di cui all’art. 267 del TFUE, è suscettibile di
restringere lo spazio delle Corti costituzionali nazionali (Caravita 2015,
22‐24). Data anche la propensione dei giudici europei, rilevata tra gli al‐
tri autori da Guizzi (2015, 268‐273), a non esercitare un sindacato sulla
sussistenza di condizioni di ricevibilità – ammettendo questi anche la
possibilità di pronunciarsi su principi non scritti e riconoscendo il prin‐
cipio che non possono essere oggetto di interpretazioni restrittive4 le di‐
4 Cfr. sentenze della Corte di giustizia del 15 luglio 1963, causa C‐25/62, in
http://curia.europa.eu/juris/showPdf.jsf?text=&docid=87101&pageIndex=0&doclang=IT&
mode=lst&dir=&occ=first&part=1&cid=111890 e del 13 novembre 1991, causa C‐303/90, in
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sposizioni dei Trattati concernenti la protezione giurisdizionale – c’è da
ritenere che la nozione di «atti degli Stati membri di attuazione del dirit‐
to dell’Unione» sia destinata a essere interpretata in termini sempre più
estensivi, con una conseguente estensione del sindacato della Corte di
giustizia con riferimento al rispetto dei diritti fondamentali anche sugli
atti di diritto interno degli Stati membri.
Suscettibile di ulteriori riflessi appare poi la questione della formale
adesione dell’Unione alla CEDU, prevista dall’art. 6, par. 2, del TUE ma
non ancora formalizzata, adesione che implicherebbe l’introduzione di
un livello, quale la Corte europea dei diritti dell’uomo, sovraordinato
alla Corte di giustizia in materia di tutela dei diritti fondamentali (Craig
e de Burca 2015, 380‐381). Superati in virtù di tale norma i rilievi espressi
dalla Corte di giustizia con il parere contrario sull’adesione 2/94 formu‐
lato il 28 marzo 1996, un nuovo parere contrario (2/2013)5 sul progetto di
adesione è stato espresso il 18 dicembre 2014 con riferimento alla non
conformità del progetto stesso con l’art. 6 del TUE e con il Protocollo n.
8. In proposito occorre rilevare che la Corte costituzionale, con la sen‐
tenza 349/2007, del 22 ottobre 2007, ha escluso che dalla qualificazione
dei diritti fondamentali garantiti dalla CEDU come principi generali del
diritto dell’Unione possa derivare, per tali diritti, un’efficacia diretta
http://curia.europa.eu/juris/showPdf.jsf?text=&docid=97521&pageIndex=0&doclang=IT
&mode=lst&dir=&occ=first&part=1&cid=112310 (link consultati il 19 giugno 2016).
5 Corte
di giustizia dell’Unione europea, Comunicato Stampa n. 180/14,
Lussemburgo, 18 dicembre 2014, Parere 2/13, La Corte si pronuncia sul progetto di accordo
sull’adesione dell’Unione europea alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali e individua alcuni problemi di compatibilità con il diritto
http://curia.europa.eu/jcms/upload/docs/application/pdf/2014‐
dell’Unione,
in
12/cp140180it.pdf (consultato il 19 giugno 2016).
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analoga a quella delle norme del diritto comunitario, in particolare la
possibilità che il giudice nazionale li applichi direttamente disapplican‐
do le norme interne confliggenti. Ove però l’adesione dell’Unione alla
CEDU venisse formalizzata gli Stati membri dovrebbero riconoscere alle
sue disposizioni, ove caratterizzate da sufficiente chiarezza, precisione e
incondizionatezza, un’efficacia analoga a quella delle direttive self‐
executing6, ai sensi dell’art. 216, par. 2, che prevede che «Gli accordi con‐
clusi dall’Unione vincolano le istituzioni dell’Unione e gli Stati membri».
Un altro problema che dovrà essere affrontato dalla giurisprudenza
ovvero in occasione di una prossima tornata di modifica dei Trattati è
quello del coordinamento tra le disposizioni di tutela dei diritti recate
dalla Carta e quelle recate dai Trattati medesimi. Il caso più emblematico
è quello dei diritti di cittadinanza, disciplinati sia dagli articoli da 39 a 46
della Carta, sai dagli articoli da 20 a 24 del TFUE, ma questioni analoghe
potrebbero porsi in ordine alla diversa portata normativa tra le altre di‐
sposizioni della Carta e principi e diritti introdotti dalle disposizioni di
applicazione generale di cui agli articoli da 7 al citato art. 17 del TFUE,
sulle Chiese e le associazioni filosofiche e non confessionali, e da altre
disposizioni dei Trattati.
Infine, ma non da ultimo, occorre sottolineare gli effetti politico isti‐
tuzionali derivanti dall’equiparazione delle disposizioni della Carta dei
diritti fondamentali a quelle dei Trattati. Tale innovazione introdotta dal
Trattato di Lisbona ha contribuito a rafforzare, nonostante il fallimento
del precedente trattato costituzionale del 2004, la dimensione costituzio‐
Di cui alla sentenza della Corte di giustizia del 5 febbraio 1975, causa C‐87/75, in
http://curia.europa.eu/juris/showPdf.jsf?text=&docid=89070&pageIndex=0&doclang=it&
mode=lst&dir=&occ=first&part=1&cid=905334 (consultato il 19 giugno 2016).
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nale del processo di costruzione europea, riequilibrando il richiamo ai
diritti fondamentali la preponderanza che altrimenti avrebbero conser‐
vato le finalità di natura puramente economica, storicamente determina‐
ta dall’approccio funzionalista. Per usare le parole di Habermas (2001
21), «Thus far the Court has been primarily concerned with the implica‐
tions of the ‘four freedoms’ of market participation—free movement of
persons, goods, services and capital. The Charter goes beyond this lim‐
ited view, articulating a social vision of the European project».
Taluni autori, come Bin, Caretti e Pitruzzella (2015, 124‐136), sono per‐
tanto giunti a ipotizzare che l’inevitabile sviluppo del dialogo tra Corti
costituzionali nazionali, tradizionalmente chiamate a giudicare sui diritti
fondamentali, e Corte di giustizia dell’Unione europea, che, come dianzi
evidenziato, ha visto accresciute le sue competenze in materia, condurrà
alla nascita, in prospettiva, di un nuovo modello europeo di tutela dei di‐
ritti fondamentali caratterizzato da una «Sovranità condivisa». Si tratta di
quello che Bonfiglio (2016, 91‐112) definisce «un caso esemplare di costi‐
tuzionalismo meticcio, che costituisce […] il momento fondativo della cit‐
tadinanza europea», dove all’interazione tra l’ordinamento istituzionale
europeo e le tradizioni costituzionali degli Stati membri si aggiungono
fattori esterni come le crisi finanziarie internazionali e i processi migratori
e vengono posti in relazione la dignità umana e i diritti; si tratta di una
dignità e di diritti che non possono essere tutelati solamente in negativo –
attraverso, ad esempio, i divieti di comportamenti discriminatori – ma che
richiedono anche comportamenti proattivi per eliminare le disuguaglian‐
ze e promuovere la persona umana, valorizzando quel personalismo co‐
munitario che non è solamente parte della tradizione costituzionale italia‐
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na ma che travalica la comunità statale per trovare fondamento anche nel‐
lo spazio costituzionale europeo.
In tale prospettiva la Carta dei diritti fondamentali è dunque suscettibi‐
le di divenire allora una sorta di “motore” in grado di trasformare i Trat‐
tati in una “Costituzione” europea. Il rischio che il Protocollo n. 30 allega‐
to al Trattato di Lisbona, sull’applicazione della Carta al Regno Unito e
alla Polonia, potesse inficiare tale ruolo di “motore” della Carta (negando‐
le applicazione uniforme in tutta l’Unione) è stato peraltro scongiurato
dalla sentenza della Corte di giustizia7 che esclude che il citato Protocollo
comporti l’esclusione dell’applicazione della Carta ai due Stati suddetti.
Ma, ancorché il conferimento alla Carta dei diritti fondamentali dello
stesso valore dei Trattati abbia innescato un processo dinamico, come si
cercherà di evidenziare nei successivi paragrafi, tale processo è lungi
dall’essere completato. Si diffonde (talora con fatica) la consapevolezza
che le democrazie nazionali possano non essere più in grado, per via
delle dimensione transnazionale delle sfide, di garantire la realizzazione
degli obiettivi fissati nelle rispettive Costituzioni senza l’esercizio di
forme di sovranità condivisa a livello europeo. Ma il riconoscimento dei
principi e dei diritti fondamentali non basta per la creazione di un si‐
stema costituzionale europeo, ammesso che sia una prospettiva che gode
ancora di adeguato supporto da parte dei cittadini; sono infatti necessa‐
ri, oltre che regole giuridiche e valori comuni, «poteri e istituzioni in
grado di realizzarli» (Marrone, 2014, 8).
Cfr. sentenza 21 dicembre 2011, cause C-411/10 e C-493/10, in
http://curia.europa.eu/juris/document/document.jsf?text=&docid=117187&pageIndex=0&
doclang=it&mode=lst&dir=&occ=first&part=1&cid=1239151 (consultato il 19 giugno 2016).
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2. La governance economica europea dall’Atto Unico Europeo al
Trattato sul Fiscal Compact
2.1 Dall’Atto Unico Europeo al Trattato di Maastricht.
Alla luce delle considerazioni precedenti, si procede pertanto a
un’illustrazione degli strumenti di cui si è dotata l’Unione europea, con
particolare riferimento alla governance economica, descrivendone
l’evoluzione dall’Atto Unico Europeo al Trattato sul Fiscal Compact. Per
comprendere il senso del Trattato firmato a Maastricht il 7 febbraio 1992,
che ha previsto l’introduzione della moneta unica, appare infatti neces‐
sario soffermarsi su un breve riepilogo degli antefatti del Consiglio eu‐
ropeo tenutosi nell’omonima località olandese il 10 e 11 dicembre 1991.
I timidi risultati dell’Atto Unico Europeo (estensione del voto a mag‐
gioranza qualificata in seno al Consiglio, soprattutto per le politiche con‐
nesse al mercato unico, parziale ampliamento dei poteri del Parlamento
europeo, introduzione della cooperazione politica europea, quale primo
tentativo di delineare gli strumenti di una futura politica estera europea, e
introduzione di nuove politiche generalmente basate sui sistema di voto
all’unanimità), firmato a Lussemburgo il 17 e il 28 febbraio 1986 ‐ con la
delusione del Parlamento europeo, per il rigetto dello schema di trattato
costituzionale da questi elaborato nel 1984 su proposta di Altiero Spinelli,
nonché degli Stati membri maggiormente propensi per la costruzione di
un’Europa unita su base federale – avevano determinato una consapevo‐
lezza diffusa della necessità di una nuova tornata di riforme istituzionali.
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In particolare, non essendosi raggiunto il consenso, oltre che sulla co‐
stituzione di una vera Unione, sulla realizzazione di una politica mone‐
taria comune, per la forte opposizione britannica, tale politica – fino allo‐
ra basata su accordi di diritto internazionale “extracomunitari” inerenti
al sistema monetario europeo (SME) e all’ECU – restava sostanzialmente
esclusa dai Trattati.
L’allora Presidente della Commissione europea, Jacques Delors, che
molto si era battuto negli anni precedenti per il completamento del merca‐
to interno, presentò quindi, nel febbraio 1987, un programma di attuazio‐
ne dell’Atto Unico che, al fine di affrontare le possibili distorsioni econo‐
miche derivanti dal completamento del mercato interno, prefigurava una
profonda revisione del bilancio comunitario, con una riduzione della spe‐
sa destinata alla politica agricola, fino allora soverchiante, e un incremento
delle risorse complessive della CEE – passando progressivamente dall’1,4
per cento del gettito IVA al più cospicuo 1,2 per cento del PIL degli Stati
membri – con il fine di incrementare le risorse per le altre politiche e di
raddoppiare quelle destinate agli interventi strutturali.
La ferma opposizione del Primo Ministro britannico, Margaret That‐
cher, impedì fino all’avvio del semestre di Presidenza tedesco, dal 1°
gennaio 1988, di compiere progressi sulla riforma del bilancio proposta
da Delors. Le salde convinzioni in senso federalista del cancelliere Hel‐
mut Kohl e del suo Ministro degli esteri, Hans‐Dietrich Genscher, con‐
sentirono di pervenire a un accordo sulla revisione del bilancio nel Con‐
siglio europeo di Bruxelles, del febbraio 1988. Per avere un’idea dei vin‐
coli gravanti sul bilancio europeo si ricorda che, dopo la riforma, la “li‐
mitazione” imposta alla spesa agricola consisteva nel non dover supera‐
re i due terzi del bilancio complessivo!
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In un clima rasserenato dalla soluzione delle precedenti controversie
sul bilancio, il Consiglio europeo di Hannover, del giugno 1988, raggiun‐
geva il consenso sull’obiettivo della graduale realizzazione dell’unione
economica e monetaria – secondo la definizione già delineata nel rappor‐
to Werner del 19708 – che avrebbe dovuto basarsi, da un lato, sul com‐
pletamento del mercato interno, e, dall’altro, sull’avvio di un processo
volto a realizzare un’unica politica monetaria. A tal fine fu conferito a un
Comitato ad hoc il compito di elaborare specifiche proposte. Delors fu
nominato Presidente di tale Comitato di cui furono chiamati a far parte
anche i governatori delle banche centrali nazionali.
Il rapporto elaborato dal comitato fu presentato da Delors al Consiglio
europeo di Madrid del 26‐27 giugno 1989 che approvò nelle linee generali
la realizzazione progressiva dell’unione economica e monetaria (UEM), la
quale doveva situarsi nella prospettiva del completamento del mercato in‐
terno e nel contesto della coesione economica e sociale, nuovo obiettivo in‐
trodotto dall’Atto Unico. Il rapporto, in particolare, presupponeva un po‐
tenziamento delle risorse destinate alle esistenti politiche regionali e strut‐
turali e una più complessa armonizzazione delle politiche fiscali e di bilan‐
cio. A tal fine si proponeva un processo in tre tappe: il rafforzamento del
coordinamento della politica economica e monetaria nell’ambito del quadro
istituzionale vigente, fissando l’avvio di tale prima fase dal 1° luglio 1990;
8 Si ricorda che il Primo Ministro e Ministro delle finanze lussemburghese, Pierre
Werner, a seguito della Conferenza dei Capi di Stato e di Governo dell’Aia, del 1° e 2
dicembre 1969, fu chiamato a presiedere un gruppo di lavoro che presentò i propri
risultati alla riunione dell’8 e 9 giugno 1970 del Consiglio il quale, successivamente, il 22
marzo 1971, adottò una risoluzione concernente la realizzazione, per tappe, dell’unione
economica e monetaria nella Comunità.
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l’approvazione di un nuovo Trattato con l’avvio della fase transitoria; la
fissazione irrevocabile delle parità monetarie, il trasferimento dei necessari
poteri alle istituzioni comuni destinate a gestire la politica monetaria non‐
ché, infine, la sostituzione delle monete nazionali con una moneta unica.
Stante l’opposizione della Gran Bretagna, il Consiglio europeo di Stra‐
sburgo dell’8 e 9 dicembre 1989, giusto un mese dopo la caduta del muro
di Berlino, prese a maggioranza la decisione di convocare una Conferenza
intergovernativa (CIG) per le necessarie riforme dei Trattati, che si sareb‐
be dovuta riunire entro la fine del 1990, rilanciando contestualmente la
dimensione sociale del processo d’integrazione, particolarmente cara a
Delors e al Presidente francese François Mitterand, adottando la Carta
comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori. In proposito è
utile ricordare, ai fini delle ulteriori riflessioni sviluppate nel presente
saggio, la descrizione delle intenzioni di Delors ad opera di due autori
quali Olivi e Santaniello (2005, 160): «Secondo Delors non si trattava so‐
lamente di realizzare un’opera di ingegneria istituzionale, ma di fare in
modo che le istituzioni di una futura Federazione dei Dodici rispettassero
gli equilibri propri ad un federalismo umano e moderno che occorreva
difendere dalle degenerazioni».
La caduta del muro di Berlino, il 9 novembre 1989, ha innescato una
serie di processi che a loro volta hanno impresso una travolgente accele‐
razione, compatibilmente con i tempi delle conferenze intergovernative,
alla revisione dei Trattati.
Pochi giorni dopo, già il 28 novembre, Kohl presentava al Bundestag
un piano in dieci punti per la riunificazione tedesca, che, come rilevato da
D’Ottavio (2012, 416), avrebbe indignato gli alleati europei solo per il fatto
di essere stato elaborato senza preavviso, in quanto nei fatti ribadiva la
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necessità di non disgiungere il processo d’avvicinamento tra le due Ger‐
manie dal processo d’integrazione europea. Kohl era consapevole, da un
lato, di dover cogliere un’opportunità inaspettata e che apparteneva a una
missione storica della Germania federale e, dall’altro, del rischio del coa‐
gularsi su tale progetto dell’ostilità da parte di tutti gli interlocutori:
l’Unione sovietica, che vedeva sgretolarsi il Patto di Varsavia; gli Stati
Uniti, che temevano i possibili riflessi dell’unificazione tedesca sulla NA‐
TO (ove il prezzo fosse stato la neutralizzazione della Germania, sul mo‐
dello di quanto era avvenuto in Austria) e, soprattutto, i timori degli allea‐
ti europei che, col riproporsi di una superpotenza tedesca al centro
dell’Europa, vedevano ripresentarsi i fantasmi delle due guerre mondiali.
Nell’intervista rilasciata a Luis Doncel (2014) Kohl afferma che, nel
corso di una visita a Dresda, poche settimane dopo la caduta del muro, il
19 dicembre 1989, in occasione di un incontro con Hans Modrow, il pre‐
mier della DDR, si rese conto dalla folla oceanica che l’aveva accolto
all’arrivo in Germania orientale che il processo di unificazione tedesca
sarebbe stato più rapido di quanto chiunque si fosse aspettato.
Di fronte alla prospettiva della riunificazione tedesca Mitterand, per
cercare di ostacolarla, dando il senso della debolezza della coesione eu‐
ropea, il 6 dicembre si recò precipitosamente da Gorbačëv e poi
nell’ormai morente Repubblica Democratica Tedesca. Riporta D’Ottavio
(2012, 413‐414) che, in una colazione a Parigi con la Thatcher, il 20 gen‐
naio del 1990, emerse addirittura il timore che la nuova Germania potes‐
se divenire territorialmente più vasta di quella di Hitler. È nota, poi,
l’avversità manifestata, tra gli altri, da Andreotti, all’epoca Presidente
del Consiglio, circa la riunificazione tedesca.
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Al riguardo si consideri che l’unico organismo europeo competente
all’epoca in materia di difesa e sicurezza, l’Unione dell’Europa Occidentale
(UEO), era sorto, in origine, con la precisa funzione di controllo in funzione
antitedesca9; solo gradualmente aveva mutato fisionomia per divenire la
componente specializzata sui temi della sicurezza e della difesa nell’ambito
dell’architettura istituzionale europea, dopo il fallimento della Comunità
europea di difesa, nel 1954. Vi era dunque chiaramente il rischio di una pro‐
fonda frattura europea, se non di una regressione al clima d’inizio secolo.
Coscienti di tali difficoltà, Kohl e Genscher si preoccuparono di rassi‐
curare sia gli alleati americani, circa la permanenza della Germania nella
NATO, sia i partner europei, circa il perdurante impegno per il processo
d’integrazione europea. Nota è l’affermazione di Kohl di non voler ger‐
manizzare l’Europa, ma europeizzare la Germania e ancorarla all’Europa
affinché si potessero dissolvere le tante riserve sull’unificazione.
Il 18 marzo 1990 si tennero le prime elezioni libere in Germania orien‐
tale, che furono vinte dal Partito cristiano‐democratico di Lothar de
9 Al riguardo si ricorda che il Trattato firmato da Gran Bretagna e Francia a
Dunkerque, località evidentemente non casuale, il 4 marzo 1947, costituì un’intesa
chiaramente in chiave anti‐tedesca, come denotano i riferimenti dell’accordo medesimo
all’esigenza di premunirsi contro l’eventuale rinascita di una politica tedesca di
aggressione. Il Trattato di Dunkerque fu ampliato, sia sotto il profilo della composizione
sia dei contenuti, con il Trattato di Bruxelles, firmato il 17 marzo 1948, oltre che da Gran
Bretagna e Francia, da Belgio, Olanda e Lussemburgo ‐ divenendo un primo embrione di
quella cooperazione europea in materia di difesa che si evolverà nell’Unione dell’Europa
Occidentale (UEO) con la firma degli Accordi di Parigi del 23 ottobre 1954 e l’adesione di
Germania e Italia ‐ conservando, tuttavia, una fisionomia anti‐tedesca, recando, tra
l’altro, nel preambolo l’impegno delle Parti firmatarie «a prendere le misure ritenute
necessarie in caso di ripresa di una politica di aggressione da parte della Germania».
Tale preambolo fu poi modificato con i citati accordi di Parigi del 1954.
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Maizières, il quale formò un Governo di coalizione che si pronunciò in
favore dell’unificazione tedesca nonché della partecipazione all’Alleanza
Atlantica e alla CEE. Il 1° luglio entrò in vigore l’unione economica e mo‐
netaria, nel cui ambito Kohl impose, nonostante l’opposizione della Bun‐
desbank, la parità del marco con la Germania Est; il 16 luglio il cancelliere
tedesco acquisì il benestare di Gorbačëv sull’appartenenza della Germania
unita alla NATO, passo che risolse ogni problema con gli Stati Uniti; il 31
agosto fu firmato il Trattato di unificazione tra le due Germanie, il 12 set‐
tembre gli Stati vincitori della seconda guerra mondiale firmarono a Mo‐
sca il Trattato che riconosceva piena sovranità alla Germania riunificata,
ratificato il 20 settembre dai due Parlamenti tedeschi, e il 3 ottobre 1990
veniva infine celebrata con una festa nazionale la riunificazione tedesca.
Venuta meno la prospettiva d’impedire la riunificazione tedesca la
Francia di Mitterand optò per una rapida ripresa del processo di integra‐
zione politica ed economica dell’Europa, ottenendo delle garanzie
sull’impegno tedesco nello stesso senso da Kohl, con l’adozione di
un’iniziativa congiunta, alla vigilia del Consiglio europeo di Dublino
dell’aprile del 1990, volta a sollecitare una nuova CIG sull’unione politica.
Con il Consiglio europeo di Roma del 14 e 15 dicembre si aprirono
quindi formalmente, sotto la presidenza di turno italiana – i cui lavori fu‐
rono preparati dal Presidente del Consiglio, Giulio Andreotti, il Ministro
degli affari esteri, Gianni De Michelis, e il Ministro del tesoro, Guido Carli
– le due Conferenze intergovernative rispettivamente dedicate all’unione
politica, scaturita dal vertice di Dublino, e all’unione economica e moneta‐
ria, prefigurata nel citato rapporto Delors. Aresu (2011, 46‐47) segnala al
riguardo, richiamando le memorie del ministro Carli, come nell’adesione
italiana all’UEM abbia giocato anche la ricerca di un vincolo esterno che
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imponesse all’Italia un’apertura alle regole di mercato – e, quindi, anche
una conseguente modernizzazione dell’economia – che difficilmente un
Paese così impregnato di corporativismo avrebbe potuto autoimporsi, così
come, per Follini (2011, 58), la classe dirigente italiana, adusa a governare
attraverso il debito, avrebbe volontariamente assunto gli obblighi derivan‐
ti da vincoli esterni per imboccare decisamente il sentiero del rigore.
Per evidenziare il ruolo che allora ricoprì l’Italia nella definizione del
nuovo quadro istituzionale può essere utile ricordare che, oltre alla guida
esercitata a livello ministeriale dalle citate figure, sia per il prestigio di cui
godevano a livello europeo, sia per il ruolo che spettava all’Italia come
Presidenza di turno, si tenne un’importante e originale iniziativa parla‐
mentare. Pochi giorni prima del Consiglio europeo il Parlamento italiano
ospitò infatti, dal 27 al 30 novembre 1990, sulla base di un’iniziativa lan‐
ciata dal Presidente Mitterand il 25 ottobre 1989 e fatta propria dal Pala‐
mento europeo e da Camera e Senato, una Conferenza dei Parlamenti dei
12 Paesi membri della Comunità e del Parlamento europeo, cosiddette
“Assise europee”, sull’«Avvenire dell’Europa». Tale Conferenza, di cui è
rimasta traccia in uno degli allegati al Trattato di Maastricht, si chiuse con
l’adozione di una Dichiarazione con forte impronta federalista destinata,
come segnala Guizzi (2015, 38‐39), a costituire «una sorta di “contrappe‐
so” interparlamentare nei confronti delle iniziative intergovernative».
Sebbene il Trattato di Maastricht sia sovente evocato per l’istituzione
della moneta unica, ivi prevista, è opportuno tener conto della sua rilevanza
anche per i risultati conseguiti nell’ambito della Conferenza intergovernati‐
va sull’unione politica. In proposito si rileva, nell’ambito della cornice uni‐
taria costituita dalla creazione dell’Unione europea, l’introduzione, a fianco
del tradizionale pilastro comunitario, del pilastro relativo alla cooperazione
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negli affari interni e giudiziari e di quello dedicato alla politica estera e di
sicurezza comune (PESC). Lo sviluppo di quest’ultima fu favorita pure dal‐
la consapevolezza della debolezza europea di fronte alla guerra del Golfo
divampata con l’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq, il 2 agosto 1990,
nonché dalla necessità di impostare una strategia europea prima di fronte
allo sfaldarsi del Patto di Varsavia e, dopo, a seguito del fallito colpo di Sta‐
to del 19 agosto 1991, dell’Unione Sovietica.
Nel quadro delle trattative sull’unione politica occorreva trovare un
compromesso tra i fautori della linea, per così dire, “federalista”, che in
quel momento includeva la Germania riunificata e la Francia desiderosa
di vincolarla alla costruzione europea, i Paesi decisamente contrari a tale
prospettiva, come Gran Bretagna e Danimarca, e i Paesi europeisti ma più
cauti, in quanto attenti a non allentare i legami con gli Stati Uniti, come
Italia e Paesi Bassi. Il compromesso fu trovato nel titolo V del Trattato,
recante le disposizioni relative alla politica estera e di sicurezza comune
(PESC) e i protocolli collegati, prefigurando, tra l’altro, all’art. J.4, una
PESC comprendente «tutte le questioni relative alla sicurezza dell’Unione
europea, ivi compresa la definizione a termine di una politica di difesa
comune, che potrebbe successivamente condurre a una difesa comune».
In particolare veniva individuato nell’UEO, chiamato ad elaborare e a
porre in essere le decisioni e le azioni dell’Unione aventi implicazioni nel
settore della difesa, l’organismo di raccordo con la NATO. A tal fine la Di‐
chiarazione sull’UEO allegata al Trattato precisava che tale organizzazione
«si svilupperà come componente di difesa dell’Unione europea e come
strumento per rafforzare il pilastro europeo dell’Alleanza atlantica. A tal
fine essa formulerà una politica di difesa comune europea e vigilerà alla sua
concreta realizzazione attraverso l’ulteriore sviluppo del suo ruolo operati‐
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vo» mentre una seconda Dichiarazione degli Stati membri dell’UEO invita‐
va ad aderire a tale istituzione tutti gli altri Stati membri dell’Unione e a
parteciparvi come membri associati tutti gli altri Stati europei della NATO.
Anche il terzo pilastro, rappresentato dal Titolo VI del Trattato, recante
disposizioni relative alla cooperazione nei settori della giustizia e degli
affari interni, necessario corollario del principio già affermato della libera
circolazione delle persone, costituiva un grosso risultato politico amplian‐
do le competenze dell’Unione a materie quasi mai affrontate in preceden‐
za, quali la cooperazione di polizia (veniva prefigurato un Ufficio europeo
di polizia, EUROPOL) e nel campo del diritto civile e penale.
A proposito del pilastro comunitario, che includeva l’UEM, e di altri
aspetti istituzionali, si segnala l’introduzione del principio di sussidiarie‐
tà e della nozione di cittadinanza europea, nonché l’ampliamento dei
poteri del Parlamento europeo in materia legislativa, con la procedura di
codecisione, di bilancio e di investitura della Commissione.
2.2 Il quadro istituzionale definito dal Trattato Maastricht in materia di unio‐
ne economica e monetaria
Per quanto concerne più specificamente l’unione economica e monetaria,
il più elevato grado di integrazione, nonostante l’ostilità britannica e dane‐
se, era visto da molti Stati membri come un primo passo verso una inelut‐
tabile prospettiva federale, di cui la moneta unica avrebbe costituito solo
un’anticipazione, mentre la PESC e la cooperazione giudiziaria e negli affari
interni mantenevano un carattere più tradizionalmente intergovernativo.
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Da un punto di vista più strettamente economico, la Germania, a fronte
di Paesi più sensibili per la coesione sociale, riusciva ad affermare appa‐
rentemente un’impostazione più marcatamente monetarista ottenendo:
l’imposizione del divieto per l’istituenda Banca centrale europea (BCE) e
per gli istituti nazionali che partecipano al Sistema europeo di banche cen‐
trali (SEBC) di concedere scoperti di conto o altre facilitazioni creditizie
agli Stati membri o ad altri enti pubblici nonché di acquistare direttamen‐
te titoli di debito pubblici (art. 104); il divieto di forme di accesso privile‐
giato al credito per gli Stati membri o altri enti pubblici (art. 104 A);
l’esclusione che la Comunità si potesse far carico degli impegni assunti
dalle amministrazioni statali o da altri enti pubblici (art. 104 B); nonché,
soprattutto, l’individuazione, come obiettivo principale del SEBC, del man‐
tenimento della stabilità dei prezzi (art. 105) e, solo in via subordinata, il
sostegno delle più generali politiche economiche nella Comunità al fine di
contribuire alla realizzazione degli altri obiettivi di cui all’art. 2 del Tratta‐
to. Tra questi, si ricorda, figuravano anche «uno sviluppo armonioso ed
equilibrato delle attività economiche nell’insieme della Comunità, una
crescita sostenibile, non inflazionistica e che rispetti l’ambiente, un elevato
grado di convergenza dei risultati economici, un elevato livello di occupa‐
zione e di protezione sociale, il miglioramento del tenore e della qualità del‐
la vita, la coesione economica e sociale e la solidarietà tra gli Stati membri».
Per qualificare come monetarista, stricto iure, tale impostazione basta
guardare ad un Paese, quale gli Stati Uniti, non certo noto per la preferen‐
za per politiche di tipo dirigista, dove il Federal Reserve Act, alla Section
2A, contempla tra gli obiettivi dell’azione del Board of Governors (l’organo
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assimilabile alla nostra SEBC): «the goals of maximum employment, sta‐
ble prices, and moderate long‐term interest rates»10.
Per altro verso occorre valutare che solo una forte garanzia sulla crea‐
zione di un sistema monetario idoneo ad assicurare il controllo dei prezzi
avrebbe potuto indurre il popolo tedesco – fortemente condizionato, nella
sua coscienza collettiva, dalla correlazione percepita, a torto o a ragione,
tra l’iperinflazione che connotò il crepuscolo della Repubblica di Weimar
e l’ascesa di Hitler – a rinunciare al marco. In proposito occorre tuttavia
considerare che, senza una guida improntata ad una visione sinceramente
europeista come quella di Helmut Kohl, la Germania, una volta riunifica‐
ta, non avrebbe avuto difficoltà a creare un’area del marco nel centro
dell’Europa ben più vasta dello Zollverein del 1834, un’unione doganale
che gettò le premesse per l’affermazione dell’egemonia prussiana fra gli
Stati tedeschi nella prima metà del XIX secolo. Ove invece la creazione
della moneta unica fosse stata funzionale a un progetto egemonico, «mo‐
netizzare l’“europeizzazione” del marco», sarebbe stato logico, come rile‐
va D’Ottavio (2012, 415), un atteggiamento più cedevole nel quadro dei
negoziati sull’unione economica e monetaria, senza mantenere le stesse
rigorose condizioni poste prima della caduta del muro di Berlino.
In proposito si segnala che, secondo la teoria economica, un’area mo‐
netaria ottimale deve essere caratterizzata da: forti scambi commerciali;
mobilità dei fattori di produzione; mercati finanziari integrati; coordi‐
namento fiscale. Tali requisiti consentono di reagire ad eventuali shock
asimmetrici che danneggino un settore o territorio specifico dell’area
Cfr. Federal Reserve Act, Section 2A. Monetary policy objectives, in
http://www.federalreserve.gov/aboutthefed/section2a.htm (consultato il 19 giugno 2016).
10
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monetaria attraverso la mobilità dei fattori stessi ovvero meccanismi re‐
distributivi propri della politica fiscale. Evidentemente gli Stati membri
dell’UE non costituivano un’area valutaria ottimale (Tortola e Vai, 2015,
11) sia per la scarsa mobilità dei lavoratori – pur essendo ridotte le bar‐
riere normative permanevano differenze linguistiche, culturali, formati‐
ve e di altro genere – ma, soprattutto, all’epoca, come ora, era inesistente
una vera politica comune, nonché risultava limitato, rispetto a oggi, il
coordinamento delle politiche fiscali nazionali. Peraltro affermano com‐
prensibilmente Bin, Caretti e Pitruzzella (2015, 278‐279) che «i teorici
dell’area monetaria ottimale fanno riferimento, appunto, a condizioni
“ottimali”, mentre i politici devono operare secondo la logica del “possi‐
bile” e dell’“opportuno” in relazione alle condizioni storiche concrete».
Non appare poi inverosimile quanto affermano Baldwin e Wyplosz
(2015, 343) che la Germania pensava di avviare la moneta unica con un
nucleo di Stati molto più ristretto, di cui non dovevano far parte Paesi
meno omogenei dal punto di vista delle finanze pubbliche e della cultu‐
ra dei prezzi stabili: Grecia, Italia, Portogallo e Spagna; Paesi che, notano
gli stessi autori, guarda caso sono stati maggiormente investiti dalla crisi
del debito pubblico iniziata nel 2009.
Come dianzi premesso, inoltre, l’impostazione “monetarista” imposta
dalla Germania era parzialmente mitigata da un’ampia fase transitoria che,
si riteneva, avrebbe dovuto assicurare la convergenza prima dell’adozione
di una moneta comune tra Stati caratterizzati da oggettive distanze in ter‐
mini di produttività, di livelli di reddito e di salute delle finanze pubbliche.
Venivano inoltre potenziati gli strumenti strutturali, ritenuti atti ad as‐
secondare la convergenza durante la suddetta fase transitoria. In partico‐
lare, con abile mossa diplomatica, i tre Paesi di più recente adesione, Gre‐
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cia, Portogallo e Spagna, ottenevano l’istituzione di un nuovo strumento,
il Fondo di coesione (art. 130 D), che si aggiungeva ai Fondi strutturali
esistenti (Fondo regionale, Fondo agricolo e Fondo sociale), da istituirsi
entro il 1993 e destinato a finanziare progetti in materia di ambiente e in‐
frastrutture dei trasporti. A differenza del Fondo regionale, destinato alle
aree infrastatuali con un reddito inferiore alla media, il Fondo di coesione
veniva destinato ad assistere gli Stati membri con un reddito medio na‐
zionale inferiore al 90 per cento di quello medio comunitario, escludendo
pertanto l’Italia, che pur avendo regioni con reddito piuttosto basso, regi‐
stra un reddito medio nazionale superiore alla media europea.
Col senno di poi va riscontrato un eccessivo ottimismo, inoltre, sulla
previsione che stabilità dei prezzi e valuta comune avrebbero ulteriormente
contribuito alla convergenza dei Paesi con meno produttività. Tale aspetta‐
tiva era forse legittima in una fase di crescita globale, la quale andava pur‐
troppo a esaurirsi; la storia avrebbe dimostrato che, in presenza di una si‐
tuazione di recessione, le distanze si sarebbero gravemente accentuate.
Il Trattato contemplava dunque la realizzazione dell’unione econo‐
mica e monetaria in tre fasi. La prima, apertasi dal 1° luglio 1990, preve‐
deva il completamento della liberalizzazione dei movimenti di capitale e
l’avvio del processo di convergenza delle politiche economiche. La se‐
conda avrebbe dovuto aprirsi dal 1° gennaio 1994, data entro la quale
doveva essere creato l’Istituto monetario europeo (IME), progenitore
della BCE, destinato a preparare il passaggio alla terza fase attraverso il
rafforzamento del coordinamento tra le Banche centrali nazionali e delle
politiche monetarie, la sorveglianza sul funzionamento dello SME e
dell’ECU e la preparazione di norme, procedure e strumenti per attuare
la politica monetaria unica. La terza fase doveva essere avviata dal 1°
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gennaio 1997 e comunque entro il 1° gennaio 1999, con la trasformazione
dell’IME nella BCE e la costituzione del SEBC, composto dalla BCE e
dalle Banche centrali nazionali, in vista della sostituzione delle monete
nazionali, dopo un periodo di doppia circolazione, con la moneta unica.
Per passare alla terza fase ogni Paese partecipante avrebbe dovuto ri‐
spettare 5 parametri di convergenza: deficit non superiore al 3% del PIL;
debito non superiore al 60% del PIL; inflazione non superiore dell’1,5%
della media di quella dei tre Paesi più virtuosi; tassi d’interesse a lungo
termine non superiori del 2% della media di quelli dei tre paesi più vir‐
tuosi; appartenenza alla banda stretta del meccanismo di cambio dello
SME per almeno due anni. Due Protocolli allegati prevedevano rispetti‐
vamente che Gran Bretagna e Danimarca non avrebbero partecipato alla
terza fase salvo loro opzione in senso contrario.
Oltre ai vincoli e agli obiettivi anzidetti, le norme del Trattato di cui al
Titolo VI, sulla politica economica e monetaria, e ai correlati protocolli
erano volte ad assicurare l’indipendenza della BCE e del SEBC dai Go‐
verni, dalle istituzioni dell’Unione e da qualunque altra istituzione.
A fronte delle stringenti disposizioni sulla politica monetaria la poli‐
tica fiscale restava di competenza nazionale – con ciò contravvenendo
alla teoria sull’area valutaria ottimale – venendo prevista, dall’art. 99, la
sola armonizzazione delle imposte indirette «nella misura in cui detta
armonizzazione sia necessaria per assicurare l’instaurazione ed il fun‐
zionamento del mercato interno». Tale armonizzazione, per giunta, sa‐
rebbe stata disciplinata con disposizioni approvate all’unanimità, con la
mera consultazione del Parlamento europeo.
Il coordinamento delle politiche economiche di cui all’art. 103 si so‐
stanziava pertanto in un sistema di sorveglianza multilaterale basato
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sull’adozione di raccomandazioni del Consiglio, su iniziativa della
Commissione, a maggioranza qualificata, sia in ordine agli indirizzi di
massima da seguire, sia per richiamare gli Stati le cui politiche non fos‐
sero coerenti con quegli indirizzi. Ai sensi dell’articolo 104 C, inoltre, ad
uno Stato che non rispettasse i requisiti inerenti al deficit o al debito
pubblico poteva essere imposto un deposito infruttifero ovvero inflitta
un’ammenda con decisione presa dal Consiglio alla maggioranza di due
terzi, su raccomandazione della Commissione.
Ulteriori disposizioni sui parametri di riferimento e le procedure da se‐
guire venivano indicate nei due protocolli rispettivamente concernenti la
procedura per i disavanzi eccessivi e i criteri di convergenza di cui all’art.
109 J. Tali meccanismi non contemplavano alcun coinvolgimento del Par‐
lamento europeo nella fase decisionale ma un mero diritto d’informazione.
Il ruolo del Parlamento veniva tuttavia parzialmente recuperato in sede di
definizione della normativa quadro essendo previsto il suo parere confor‐
me per la modifica del Protocollo sullo Statuto del SEBC e della BCE (art. 41
del Protocollo medesimo), la sua consultazione per gli atti complementari
previsti dal medesimo statuto (art. 42 del protocollo), nonché per la modifi‐
ca del Protocollo sui disavanzi eccessivi (art. 104 C, paragrafo 14, del Tratta‐
to sulla Comunità europea) e del Protocollo sui criteri di convergenza (art. 6
del protocollo medesimo). Ai sensi dell’art. 109 J il Parlamento, inoltre, do‐
veva essere consultato anche sul passaggio alla terza fase dell’UEM.
2.3. Dal Trattato Amsterdam al Trattato Lisbona
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Il Trattato di Amsterdam, firmato il 2 ottobre 1997, ha introdotto si‐
gnificative innovazioni in materia di diritti fondamentali, come dianzi
riferito, ha rafforzato i poteri del Parlamento europeo e sviluppato le
norme relative alla PESC e alla cooperazione giudiziaria e negli affari
interni ma non ha inciso sulle norme relative all’UEM. Indirettamente si
può correlare all’UEM l’inserimento nel Trattato sull’Unione europea
del nuovo Titolo VI bis, recante disposizioni su una cooperazione raffor‐
zata. Come noto, la cooperazione rafforzata consente ad un gruppo che
rappresenti almeno la maggioranza degli Stati membri di costituire un
ambito di cooperazione più avanzato rispetto all’insieme dei Paesi che
aderiscono all’UE a condizione che agli Stati membri non partecipanti
sia sempre consentito di aderirvi in un secondo momento; in tal senso la
terza fase dell’UEM, sebbene disciplinata da disposizioni diverse da
quelle genericamente applicabili a tale istituto, costituisce uno dei primi
esempi, e forse il più significativo, di cooperazione rafforzata.
Al riguardo occorre tuttavia precisare che la firma del Trattato di
Amsterdam era stata preceduta dall’adozione del Patto di stabilità e cre‐
scita costituito dalla risoluzione sulla stabilità, adottata in occasione del
Consiglio europeo di Amsterdam il 17 giugno 1997, e da due regolamen‐
ti (1466/9711 e 1467/9712) adottati il 7 luglio 1997, rispettivamente concer‐
Regolamento (CE) n. 1466/97 del 7 luglio 1997 per il rafforzamento della sorve‐
glianza delle posizioni di bilancio nonché della sorveglianza e del coordinamento delle
politiche
economiche,
in
http://eur‐lex.europa.eu/legal‐
content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:31997R1466&from=IT (consultato l’8 giugno 2016).
12 Regolamento (CE) N. 1467/97 del 7 luglio 1997 per l’accelerazione e il chiarimento
delle modalità di attuazione della procedura per i disavanzi eccessivi, in http://eur‐
11
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nenti il rafforzamento della sorveglianza delle posizioni di bilancio, del‐
le politiche economiche (e del relativo coordinamento) e l’accelerazione
e il chiarimento delle modalità di attuazione della procedura per i disa‐
vanzi eccessivi. Tali atti precisavano le procedure applicabili alla sorve‐
glianza multilaterale e l’entità delle sanzioni in caso di disavanzo ecces‐
sivo, eliminando sostanzialmente i margini di flessibilità e di valutazio‐
ne politica previsti dalle norme originarie del Trattato. In occasione del
Consiglio europeo di Amsterdam era stata adottata anche una risoluzio‐
ne sull’istituzione di un meccanismo di cambio nella terza fase
dell’unione economica e monetaria, la quale, tuttavia, tecnicamente non
faceva parte del Patto si stabilità e crescita.
Nella stessa occasione la Francia, guidata dalla nuova maggioranza so‐
cialista dell’Assemblea Nazionale, al fine di compensare i controlli e le
sanzioni introdotti dal Trattato di Maastricht per assicurare la disciplina
di bilancio e testé rafforzati, si era adoperata per introdurre regole analo‐
ghe a quelle inerenti l’UEM per sviluppare una strategia comune contro la
disoccupazione, iniziativa che incontrò una forte ostilità della Germania,
dove le interminabili spese per l’integrazione dei Länder orientali e
l’antagonismo tra il cancelliere Kohl e il Ministro delle finanze bavarese
Weigel avevano raffreddato l’entusiasmo europeista dei tempi di Maastri‐
cht. Il compromesso frutto di tale iniziativa era stato l’introduzione del
nuovo Titolo VI bis della parte terza del Trattato sulla Comunità europea
in discussione, specificamente dedicato all’occupazione, e nell’adozione
ad Amsterdam di una risoluzione su crescita e occupazione, la quale non
lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=CONSLEG:1997R1467:20050727:IT:PDF
(consultato l’8 giugno 2016).
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veniva peraltro a costituire parte del patto su crescita e occupazione. La
risoluzione e il nuovo titolo introdotto nel Trattato facevano essenzial‐
mente perno sulle politiche dell’offerta, esortando lo scambio tra gli Stati
membri delle migliori prassi, evidenziando la connessione tra competitivi‐
tà e occupazione ed esortando gli Stati membri e le istituzioni comunita‐
rie, in particolare la Banca europea per gli investimenti (BEI), a sostenere
iniziative nel campo dell’innovazione tecnologica, delle piccole e medie
imprese, delle grandi reti, dell’istruzione e della formazione. Il nuovo tito‐
lo VI bis introduceva anche un meccanismo basato sull’adozione di orien‐
tamenti a livello europeo, di verifiche e di eventuali raccomandazioni ri‐
volte agli Stati per esaminare ogni anno la situazione dell’occupazione,
che somigliava molto alla sorveglianza multilaterale prevista nell’ambito
dell’UEM ma che si distingueva da quest’ultima per il fatto di non essere
correlato a un sistema sanzionatorio né a risorse significative.
Con la storica riunione del Consiglio a livello di Capi di Stato e di Go‐
verno, del 3 maggio 1998, fu stabilito che 11 Stati membri soddisfacevano i
criteri necessari per l’adozione dell’euro, a partire dal 1° gennaio 1999, data
dalla quale decorreva il periodo transitorio che si chiuse il 1° gennaio 2002.
Si è già detto dell’esito negativo del Trattato costituzionale firmato a
Roma nel 2004 per via dei referendum francese e olandese. Guizzi (2015,
655) ci ricorda, invece, che tra il 2004 e il 2005 fu proprio la Germania ad
adoperarsi per un’attenuazione delle regole stringenti del Patto di stabi‐
lità e crescita che essa aveva sostenuto nel 1997 e che ora rischiavano di
farle infliggere una sanzione per disavanzo eccessivo; si arrivò così, sulla
base della relazione su «Rafforzare la governance economica e chiarire
l’implementazione del Patto di Stabilità e di Crescita», presentata il 3
settembre 2004 dalla Commissione, alla modifica dei citati regolamenti
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1466/97 e 1467/97 con i regolamenti n. 1055/200513 e n. 1056/200514, del 27
giugno 2005. Le modificazioni ripristinavano un minimo di flessibilità
nella valutazione degli scostamenti delle politiche economiche degli Sta‐
ti membri, introducendo più articolati criteri di analisi degli effetti del
ciclo economico, di situazioni prossime alla recessione, di prolungati pe‐
riodi di bassa crescita ovvero di percorsi coerenti, sebbene estesi nel
tempo, di rientro nei parametri richiesti.
Nel Trattato di Lisbona non si riscontrano modifiche particolarmente
significative inerenti alla politica monetaria salvo l’introduzione, al Titolo
VII della Parte terza del TFUE, di disposizioni di coordinamento – come la
soppressione della disciplina della fase transitoria – e la formalizzazione
dell’eurogruppo riconoscendogli, tra l’altro, la facoltà di adottare misure
volte a rafforzare il coordinamento e la sorveglianza della disciplina di
bilancio (art. 136) e a garantire la posizione dell’euro nel sistema moneta‐
rio internazionale (art. 138), nonché prevedendo l’elezione del Presidente
dell’eurogruppo per un mandato di due anni e mezzo (Protocollo n. 14
sull’eurogruppo). Altre modifiche inerenti la politica monetaria riguarda‐
no il riconoscimento di un ruolo più incisivo alla Commissione nella sor‐
Regolamento (CE) n. 1055/2005 del 27 giugno 2005 che modifica il regolamento
(CE) n. 1466/97 per il rafforzamento della sorveglianza delle posizioni di bilancio nonché
della sorveglianza e del coordinamento delle politiche economiche, in
http://www.dt.tesoro.it/export/sites/sitodt/modules/documenti_en/analisi_progammazio
ne/documenti_programmatici/PdS_Regolamento_n._1055‐05.pdf (consultato l’8 giugno
2016).
14 Regolamento (CE) n. 1056/2005 del 27 giugno 2005 che modifica il regolamento
(CE) n. 1467/97 per l’accelerazione e il chiarimento delle modalità di attuazione della
procedura
per
i
disavanzi
eccessivi,
in
http://eur‐lex.europa.eu/legal‐
content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:32005R1056&from=IT (consultato l’8 giugno 2016).
13
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veglianza multilaterale, che può rivolgere avvertimenti o pareri agli Stati
membri senza dover più attendere preventivamente una votazione in tal
senso dal Consiglio (artt. 121, par. 4, e 126, par. 5). Si registra invece un
indebolimento dei poteri del Parlamento europeo, circa l’affidamento alla
BCE di compiti di vigilanza prudenziale, che prima era chiamato ad
esprimere un parere conforme e ora viene semplicemente consultato (art.
127, par. 6). Tale modifica è peraltro compensata dall’applicazione della
procedura legislativa ordinaria alle regole sulle modalità di svolgimento
della sorveglianza multilaterale ai fini del coordinamento delle politiche
economiche (art. 121, par. 6), laddove in precedenza il Consiglio poteva
respingere all’unanimità gli eventuali emendamenti del Parlamento.
2.4. Le crisi finanziarie e l’introduzione di strumenti straordinari per farvi
fronte
Quando l’euro fu lanciato, nel gennaio del 1999, l’inflazione nei Paesi
interessati era piuttosto bassa, anche per via degli sforzi intrapresi per
rispondere ai citati requisiti, e il tasso di crescita delle economie induce‐
va all’ottimismo, anche se vi erano economie nazionali che crescevano
più lentamente.
Con lo scoppio della bolla azionaria delle aziende della Information
Technology, la crisi dei prezzi petroliferi del 2000 (un rialzo del 45% dei
prezzi dovuto ad una riduzione dell’offerta dell’OPEC) e gli effetti de‐
pressivi sull’economia mondiale dell’attacco alle Torri Gemelle dell’11
settembre 2001, i tassi di crescita dell’area euro hanno iniziato a rallenta‐
re e gli Stati aderenti hanno dovuto porre in essere politiche nazionali
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anticicliche che li hanno portati a sforare in numerosi casi il limite al di‐
savanzo pubblico fissato da Maastricht del 3% del PIL. Peraltro i para‐
metri economici scelti a Maastricht e confermati al momento
dell’adozione del patto di stabilità e crescita (PSC) si basavano su previ‐
sioni di una crescita media del 3%, ben lontane dalla situazione che si
andava presentando nel nuovo secolo.
Di fronte a tali difficoltà si è acuito il confronto tra i Paesi che ritene‐
vano un basso indebitamento un presupposto del rilancio della crescita
e, quindi, premevano per un irrigidimento dei vincoli alla finanza pub‐
blica e quelli, invece, che ritenevano indispensabile una politica anticicli‐
ca per risollevare le rispettive economie e, dunque, richiedevano di au‐
mentare i margini di flessibilità nella gestione del PSC.
Un primo compromesso tra tali posizioni fu raggiunto con i citati in‐
terventi del 2005 che, rispetto agli automatismi imposti dai regolamenti
del 1997, ripristinavano uno spazio di valutazione politica più coerente
con lo spirito del Trattato di Maastricht. Tale compromesso non fu rag‐
giunto facilmente e in modo indolore. Gli automatismi previsti dai rego‐
lamenti del 1997 avevano infatti costretto la Commissione europea, nel
novembre 2003, a raccomandare l’apertura di una procedura per disa‐
vanzo eccessivo nei confronti di Francia e Germania, stante lo sforamen‐
to del limite massimo con un deficit, entrambe, di circa il 3,7% del PIL,
nonostante gli impegni in senso contrario dei Governi dei due Paesi. Il
Consiglio, a maggioranza qualificata, dato anche il peso politico dei due
“imputati”, decise di sospendere la procedura per disavanzo eccessivo,
che avrebbe condotto all’adozione di sanzioni contro i due più grandi
Stati membri. La Commissione, tuttavia, essendo legata al rispetto dei
regolamenti del 1997, che non lasciavano margini discrezionali, fece ri‐
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corso alla Corte di giustizia, la quale dichiarò l’illegittimità della deci‐
sione di sospensione del Consiglio15. Le sanzioni, tuttavia, non furono
inflitte perché, nel frattempo, i conti pubblici di Francia e Germania era‐
no migliorati ma tale vicenda, tuttavia, indusse la maggioranza degli
Stati membri a rivedere le regole applicative del Trattato di Maastricht
nel senso anzidetto di una maggiore flessibilità.
Ma la crisi dei c.d. subprime era destinata a mettere a dura prova il si‐
stema della moneta unica. La crisi, originatasi nel 200716 negli Stati Uniti
per le sofferenze bancarie legate all’insolvenza dei mutui e al possesso di
titoli “tossici” (il deprezzamento, cioè, dei loro portafogli per il fatto di
possedere titoli derivati dalla cartolarizzazione di mutui insoluti e pre‐
stiti a rischio), si è rapidamente propagata in Europa mentre l’impennata
del prezzo del petrolio negli stessi anni ‐ per via dell’aumento della do‐
manda mondiale in costanza dei livelli di offerta ‐ si è riflesso in modo
differenziato nei vari Paesi, in base alla loro dipendenza dalle importa‐
zioni di idrocarburi.
La crisi finanziaria, in Europa, si è trasferita all’economia reale de‐
terminando una fase di recessione con effetti più o meno gravi nei vari
Cfr. Sentenza della Corte di giustizia del 13 luglio 2004, causa C‐27/04, in
http://curia.europa.eu/juris/showPdf.jsf;jsessionid=9ea7d2dc30db64a1b95023324195a3fad
3b6a3c7acba.e34KaxiLc3qMb40Rch0SaxqTch90?text=&docid=49386&pageIndex=0&docla
ng=IT&mode=doc&dir=&occ=first&part=1&cid=52833 (consultato l’8 giugno 2016).
16 Tale crisi, a sua volta, trae origine dall’abrogazione, nel 1999, del Glass‐Steagall Act
– che, in risposta alla crisi del 1929, dal 1933 imponeva la separazione tra attività banca‐
ria commerciale e d’investimento – e dalla deregolamentazione del trading dei derivati e
dei Credit default swap (CDS) – tra l’altro, con il Commodity Futures Modernization Act
del 2000, che li sottraeva al controllo dell’autorità di vigilanza bancaria americana (SEC)
– e dal massiccio ricorso alla cartolarizzazione dei titoli obbligazionari.
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Paesi aderenti alla moneta unica, che hanno ulteriormente ampliato i
divari interni all’area dell’euro.
In primo luogo i Paesi con il debito più elevato, tra cui l’Italia, sovente
non hanno approfittato della riduzione dei tassi conseguente all’adozione
dell’euro per tagliare il debito stesso, cosicché, arrivata la crisi, hanno avu‐
to disponibili meno risorse per svolgere delle politiche anticicliche (politi‐
che sociali e rilancio degli investimenti). Ricordano Baldwin e Wyplosz
(2015, 415), ad esempio, che, all’epoca del trattato di Maastricht, l’Italia
spendeva per interessi circa il 12% del PIL. La riduzione dei tassi
d’interesse conseguente al processo di convergenza, prima, e
all’introduzione dell’euro, dopo il 2001, ha consentito una riduzione di tali
oneri dell’ordine del 60% ma tali risparmi, corrispondenti a circa il 7,5%
del PIL, non essendo stati utilizzati in questi anni per ridurre il debito, si
sono trasformati in nuova spesa pubblica, che ha infine determinato
un’ulteriore crescita del debito, che infatti ha raggiunto il 135,2% del PIL.
In secondo luogo, in presenza di una moneta comune, non sono possibili
svalutazioni competitive (peraltro limitate anche in regime di cambi fissi o
semi fissi, come nel sistema monetario europeo; l’Italia, infatti, dovette
uscirne per rientrarvi solo nel 1996, alla vigilia della decisione sugli Stati da
ammettere nell’euro) e il traino dell’economia, nel lungo termine e al netto
delle politiche anticicliche, si basa esclusivamente sulla competitività.
In terzo luogo l’enorme disponibilità di credito in Europa, prima del‐
la crisi, ha favorito l’indebitamento di famiglie e banche con la creazio‐
ne, in alcuni Paesi, di una bolla immobiliare che, una volta scoppiata, ha
prodotto conseguenze finanziarie e sociali negative aggiuntive, come la
crisi delle famiglie indebitate, dell’industria edilizia – che si caratterizza
per essere labour intensive – e degli istituti creditori.
61
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Sa g g i
In quarto luogo il boom creditizio ha alimentato un apparente benes‐
sere con una crescita temporanea delle entrate fiscali cui si è immedia‐
tamente adeguata la spesa pubblica, ma con effetti permanenti, determi‐
nandosi, all’atto della crisi e della contrazione di quelle maggiori entrate
fiscali temporanee, degli ulteriori fattori di squilibrio dei conti pubblici.
Uno degli effetti più marcati della crisi è stata la maggiore prudenza
degli investitori, che hanno iniziato a diffidare dei titoli pubblici emessi
dagli Stati con struttura finanziaria meno solida e, in particolare, con il
debito pubblico più elevato. Tale maggiore prudenza si è tradotta, in
termini finanziari, nella richiesta di interessi straordinariamente più ele‐
vati per l’acquisto dei titoli emessi da quei Paesi, con la conseguente cre‐
scita dello spread, del divario, cioè, tra gli interessi pagati agli Stati più
virtuosi e gli altri, e della frammentazione nel mercato del debito sovra‐
no. L’onere per il debito pagato dai Paesi finanziariamente più deboli è
divenuto tale da far temere un loro default, rischio che ha determinato
ulteriori effetti finanziari negativi innescati dalla speculazione finanzia‐
ria internazionale che scommetteva sul possibile crollo dell’euro.
Inoltre, la crisi internazionale dei derivati, unita al crollo dei prezzi
degli investimenti immobiliari in Europa e all’insolvenza da parte dei
debitori privati, ha portato a una crisi delle banche europee dovuta, da
un lato, al deterioramento del loro patrimonio – per via del possesso dei
citati titoli deteriorati e di immobili deprezzati – e, dall’altro,
dall’insolvenza di aziende e famiglie debitrici. L’intervento pubblico per
il loro salvataggio ha comportato una situazione di crescente disavanzo
e conseguente crescita del debito anche in Paesi che prima della crisi
avevano conti relativamente in ordine come la Spagna e l’Irlanda.
62
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Sa g g i
In Grecia, in particolare, nel 2007 si registrava un debito molto elevato,
pari al 105% del PIL, ma non molto dissimile da quello degli anni prece‐
denti. Ancora nel 2005, ci ricordano Baldwin e Wyplosz (2015, 308‐309), il
rating del debito greco era AA a fronte di un rating per la Germania di
AAA. Il graduale peggioramento del rating della Grecia portò ad una pro‐
gressiva crescita degli oneri per interessi pagati dal Governo greco man
mano che i tassi di interesse, fino al 2007 non dissimili da quelli tedeschi,
iniziarono a divaricarsi. I conti pubblici della Grecia peggioravano, dise‐
gnando una situazione reale e finanziaria ben più articolata, perché, a
fronte della crescita della spesa pubblica per interessi diminuivano le en‐
trate fiscali. Queste, a loro volta, diminuivano per gli effetti recessivi della
crisi globale sul PIL greco in settori strategici per la Grecia quali
l’industria del turismo e la cantieristica.
Nel 2008 si riscontrò una crescita del PIL inferiore alle attese e, nel
2009, si registrò uno sforamento della fatidica soglia del 3% del deficit in
rapporto al PIL, raggiungendo “improvvisamente” il deficit il livello del
12,5% in rapporto al PIL, a fronte del 3,7% stimato l’anno precedente; con‐
testualmente, la speculazione sul rischio di insolvenza portava il costo
della spesa per gli interessi a livelli senza precedenti, tali da far raggiun‐
gere a quello Stato un livello di debito in rapporto al PIL, nel 2010, pari al
140,2%. In realtà, il picco di deficit non era connesso solo alla crescita della
spesa pubblica in rapporto ad un rallentamento del PIL ma anche ad una
revisione del sistema statistico greco su pressione della Commissione eu‐
ropea17 e di Eurostat, l’organismo statistico dell’Unione europea, che ave‐
17
Cfr. European Commission, Report on Greek Government Deficit and Debt Statistics,
Brussels,
8
gennaio
2010:
il
document
63
può
essere
letto
all’indirizzo
a nno VI, n. 3, 2016
da ta di p ub b lic a zio ne : 11 o tto b re 2016
Sa g g i
va riscontrato delle anomalie nei dati forniti dalla Grecia per gli anni pre‐
cedenti. La revisione al rialzo dei deficit annunciati negli anni immedia‐
tamente precedenti aveva comportato, da una lato, un’esplosione del defi‐
cit e del debito della Grecia, che nel 2009 raggiunse il 127% del PIL, e,
dall’altro, una crisi di credibilità sui mercati finanziari internazionali.
Questi, temendo un’uscita della Grecia dall’euro o un suo fallimento, ini‐
ziarono a chiedere interessi esorbitanti (le agenzie specializzate avevano
infatti abbassato il rating ai livelli minimi) e si temeva che il Paese venisse
a trovarsi in condizioni di non poter onorare più il suo debito: nell’aprile
del 2010 lo spread tra interessi greci e tedeschi superò i 100018 punti base.
Occorre considerare ora che, nel quadro dei negoziati sulla riforma
dei Trattati, era generalmente prevalsa una posizione volta ad impedire
che degli squilibri finanziari di uno Stato dovessero farsene carico gli
altri quale condizione per l’introduzione della moneta unica. Tale impo‐
stazione sta alla base degli articoli 124 e 125 del TFUE, che vietano, ri‐
spettivamente, l’accesso privilegiato degli Stati membri o di altri enti
pubblici o delle imprese pubbliche alle istituzioni finanziarie e
l’assunzione a carico da parte dell’Unione del debito di enti statali o altri
enti pubblici. Tale rigida impostazione non aveva tuttavia considerato
una crisi grave come quella dianzi descritta, che rischiava di determina‐
re il fallimento di alcuni Stati con l’inevitabile propagarsi della crisi agli
altri partners. Per evitare il contagio delle altre economie derivante da un
http://ec.europa.eu/eurostat/documents/4187653/6404656/COM_2010_report_greek/c8523
cfa‐d3c1‐4954‐8ea1‐64bb11e59b3a (consultato l’8 giugno 2016).
18 Reuters, Greek/German bond yield spread more than 1,000 bps, Wed Apr 28, 2010, in
http://www.reuters.com/article/markets‐bonds‐greece‐idUSLDE63R0WU20100428 (con‐
sultato l’8 giugno 2016).
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Sa g g i
possibile fallimento della Grecia – contagio temuto, in particolare, dalla
Germania, come ricordano Bin, Caretti e Pitruzzella (2015, 294) – e ri‐
spettare, nel contempo, il Trattato di Amsterdam, dovettero essere defi‐
niti una serie di strumenti emergenziali anche al di fuori dei Trattati.
Il 2 maggio 2010 i Paesi dell’euro decisero, in collaborazione con il
Fondo Monetario Internazionale (FMI), un prestito salvataggio straordi‐
nario di 110 miliardi di euro (80 a carico degli Stati aderenti all’euro e 30
a carico del FMI) condizionato all’introduzione di misure di austerity,
riforme strutturali e un piano di privatizzazioni, che sarebbero stati mo‐
nitorati dalla cosiddetta Troika, composta dai rappresentanti della
Commissione europea, della BCE e del FMI.
Nell’ECOFIN (riunione dei Ministri degli affari economici e finanziari
dell’Unione) straordinario del 9 e 10 maggio successivi19, fu decisa la
creazione di un Meccanismo europeo di stabilizzazione finanziaria
(EFSM)20, ai sensi dell’art. 122, paragrafo 2, del Trattato, che contempla
un supporto finanziario in caso di gravi difficoltà per calamità naturali o
circostanze eccezionali che sfuggono al controllo dello Stato interessato.
Venivano disposti interventi che riguardavano, oltre alla Grecia, anche il
Portogallo e la Spagna ed eventuali altri Paesi in crisi e che prevedevano
dei prestiti straordinari ai governi interessati in cambio di impegni volti
Cfr. Press Release, Extraordinary Council meeting ‐ Economic and Financial Affairs,
Brussels,
9/10
May
2010;
il
comunicato
si
legge
all’indirizzo
http://www.consilium.europa.eu/uedocs/cms_data/docs/pressdata/en/ecofin/114324.pdf,
(consultato l’8 giugno 2016).
20 Istituito con regolamento (UE) N. 407/2010 dell’11 maggio 2010, in http://eur‐
lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=OJ:L:2010:118:0001:0004:IT:PDF, (consulta‐
to l’8 giugno 2016).
19
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Sa g g i
ad introdurre riforme strutturali e a risanare le finanze pubbliche, sul
modello di analoghi interventi che fino ad allora erano stati praticati dal
Fondo Monetario Internazionale (FMI) solo per Stati non euro. Consa‐
pevoli della drammaticità della situazione e dell’inadeguatezza delle
somme rese disponibili in base al Trattato, gli Stati aderenti all’euro de‐
cisero tuttavia di ricorrere anche ad uno strumento esterno al diritto
dell’Unione, avviando la creazione di uno “Strumento appositamente
costituito” (SPV special purpose vehicle), ovverosia il Fondo europeo per la
stabilità finanziaria (EFSF, dall’acronimo inglese), dotato di 440 miliardi
di euro garantiti sulla base delle quote di partecipazione alla BCE e costi‐
tuito, giuridicamente, come società anonima di diritto lussemburghese il
7 giugno 201021. Alle risorse dell’EFSF si auspicava si aggiungessero al‐
trettante risorse del FMI (in realtà furono circa 250 miliardi di euro quel‐
le rese disponibili dal Fondo monetario, per una disponibilità comples‐
siva per 750 miliardi di euro di crediti)22.
Cfr. Journal Officiel du Grand‐Duché de Luxembourg, C — N° 1189, 8 juin 2010, in
http://www.etat.lu/memorial/2010/C/Pdf/c1189086.pdf, (consultato l’8 giugno 2016).
22 Il 24 giugno 2010 il vertice dei Capi di Stato e di Governo dell’area euro decise di
elevare le garanzie offerte all’ESFS a 780 miliardi di euro, con una sovracopertura del
165% dei prestiti erogabili pari a un tetto immutato di 440 miliardi di euro. Dopo
l’entrata in vigore dell’accordo sull’ESM, il 27 settembre 2012, l’ESFS e l’ESM hanno atti‐
vato programmi in parallelo fino al 30 giugno 2013 (con interventi, oltre che in Grecia, in
Irlanda, Portogallo, Spagna e Cipro), quando l’EFSF ha cessato di erogare nuovi prestiti,
restando operativo solo per l’amministrazione dei rimborsi dei prestiti già erogati. Cfr.
http://www.efsf.europa.eu/attachments/faq_en.pdf (consultato l’8 giugno 2016).
21
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Sa g g i
2.5. L’introduzione di vincoli più stringenti ai bilanci nazionali e di un mec‐
canismo permanente per la stabilità dell’eurozona, l’ESM
In una comunicazione del 12 maggio 201023 la Commissione europea
evidenziava come la crisi economica globale avesse posto una sfida ai
meccanismi allora vigenti per il coordinamento delle politiche economi‐
che rivelandone la debolezza. La Commissione preannunciava quindi la
presentazione di una serie di misure volte ad assicurare il rispetto delle
regole del Patto di stabilità e crescita, con particolare attenzione a una
più efficace applicazione dei criteri sul debito pubblico e all’introduzione
di correlati meccanismi di incentivi e sanzioni, nonché di proposte volte
alla creazione di un meccanismo permanente di risoluzione delle crisi.
Il suddetto documento, volto ad aprire un dibattito sulla modifica
delle regole del Patto di stabilità e crescita nel senso di una maggiore
rigidità, riducendo quegli elementi di flessibilità introdotti con la citata
riforma del 2005, veniva seguito, il 30 giugno 201024, da una nuova co‐
municazione con la quale la Commissione precisava il contenuto dei
progetti di atti normativi che si accingeva a presentare e che avrebbero
dato luogo al cosiddetto six pack.
Il pacchetto legislativo si componeva infatti di sei provvedimenti:
European Commission, Reinforcing economic policy coordination, Brussels, 12.5.2010,
http://ec.europa.eu/economy_finance/articles/euro/documents/2010‐05‐12‐
in
com(2010)250_final.pdf (consultato l’8 giugno 2016).
24 European Commission, Enhancing economic policy coordination for stability, growth
and jobs – Tools for stronger EU economic governance, 30.6.2010, in
http://ec.europa.eu/economy_finance/articles/euro/documents/com_2010_367_en.pdf
(consultato l’8 giugno 2016).
23
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a) il regolamento di modifica della normativa alla base della parte
preventiva del Patto di stabilità e crescita (regolamento
1466/97)25, che mira ad assicurare che gli Stati membri dell’UE
attuino politiche di bilancio prudenti nei periodi favorevoli al
fine di costituire le necessarie riserve per i periodi sfavorevoli,
introducendo il cosiddetto “semestre europeo” per il coordina‐
mento delle politiche economiche;
b) il regolamento di modifica della normativa alla base della parte
correttiva del Patto di stabilità e crescita (regolamento
1467/97)26, che prevede che l’andamento del debito venga trat‐
tato alla stessa stregua dell’andamento del disavanzo e che gli
Stati membri il cui debito supera il 60% del PIL adottino misu‐
re per ridurlo annualmente ad un ritmo di 1/20 della differenza
rispetto alla soglia del 60% nel corso degli ultimi tre anni;
Regolamento (UE) n. 1175/2011 del 16 novembre 2011 che modifica il regolamento
(CE) n. 1466/97 del Consiglio per il rafforzamento della sorveglianza delle posizioni di
bilancio nonché della sorveglianza e del coordinamento delle politiche economiche; il
http://eur‐lex.europa.eu/legal‐
regolamento
si
può
leggere
all’indirizzo
content/it/TXT/PDF/?uri=CELEX:32011R1175&qid=1427893472335&from=EN (consultato
l’8 giugno 2016).
26 Regolamento (UE) n. 1177/2011 dell’8 novembre 2011 che modifica il regolamento
(CE) n. 1467/97 per l’accelerazione e il chiarimento delle modalità di attuazione della
procedura per i disavanzi eccessivi; il regolamento si può leggere all’indirizzo http://eur‐
lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=OJ:L:2011:306:0033:0040:IT:PDF (consultato
l’8 giugno 2016).
25
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Sa g g i
c)il regolamento sull’effettiva applicazione della sorveglianza di
bilancio nell’area dell’euro27, che introduce una nuova serie di
sanzioni finanziarie a carico degli Stati membri dell’area
dell’euro, l’obbligo di costituire un deposito fruttifero quale
conseguenza di deviazioni significative da una politica di bi‐
lancio prudente, nonché un deposito non fruttifero, pari allo
0,2% del PIL, a seguito di una procedura per i disavanzi ecces‐
sivi, convertibile in un’ammenda in caso di non osservanza
della raccomandazione di correggere il disavanzo eccessivo.
Per assicurare il rispetto delle norme, viene altresì previsto un
ʺmeccanismo di voto al contrarioʺ per cui la sanzione proposta
dalla Commissione si considera adottata a meno che il Consi‐
glio non si opponga a maggioranza qualificata;
d) la nuova direttiva relativa ai requisiti minimi per i quadri di bi‐
lancio degli Stati membri28, ossia l’insieme di elementi che for‐
mano la base della governance di bilancio nazionale quali stati‐
stiche, norme e procedure di bilancio e rapporti finanziari con
le autonomie locali;
Regolamento (UE) n. 1173/2011 del 16 novembre 2011 relativo all’effettiva esecu‐
zione della sorveglianza di bilancio nella zona euro; il regolamento si legge all’indirizzo
http://eur‐lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=OJ:L:2011:306:0001:0007:IT:PDF
(consultato l’8 giugno 2016).
28 Direttiva 2011/85/UE dell’8 novembre 2011 relativa ai requisiti per i quadri di bi‐
lancio degli Stati membri; la direttiva si può leggere all’indirizzo http://eur‐
lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=OJ:L:2011:306:0041:0047:IT:PDF (consultato
l’8 giugno 2016).
27
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Sa g g i
e) il nuovo regolamento sulla prevenzione e la correzione degli
squilibri macroeconomici29, che prevede una valutazione dei
rischi derivanti dagli squilibri, effettuata a scadenze regolari e
basata su un quadro di riferimento composto da indicatori
economici, in relazione ai quali il Consiglio può adottare rac‐
comandazioni e avviare una procedura per gli squilibri ecces‐
sivi. La ripetuta mancata adozione di misure correttive espone
lo Stato membro dell’area dell’euro interessato a sanzioni;
f) il regolamento sulle misure per la correzione degli squilibri ma‐
croeconomici eccessivi nell’area dell’euro30, in base al quale, lo
Stato membro dell’area dell’euro che omette ripetutamente di
dare seguito alle raccomandazioni del Consiglio formulate nel
quadro della procedura per gli squilibri eccessivi è chiamato a
pagare un’ammenda annua, che può essere bloccata soltanto
con voto a maggioranza qualificata, pari allo 0,1% del suo PIL.
In parallelo con la discussione del six pack, si procedeva con la crea‐
zione di un meccanismo permanente di risoluzione delle crisi. Il Consi‐
glio europeo del 25 marzo 201131 decideva, tra l’altro, di modificare il
Regolamento (UE) n. 1176/2011 del 16 novembre 2011 sulla prevenzione e la corre‐
zione degli squilibri macroeconomici; il regolamento si può leggere all’indirizzo
http://eur‐lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=OJ:L:2011:306:0025:0032:IT:PDF
(consultato l’8 giugno 2016).
30 Regolamento (UE) n. 1174/2011 del 16 novembre 2011 sulle misure esecutive per la
correzione degli squilibri macroeconomici eccessivi nella zona euro, in http://eur‐
lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=OJ:L:2011:306:0008:0011:IT:PDF (consultato
l’8 giugno 2016).
31 Il Consiglio europeo del 24 e 25 marzo 2011 adottava un pacchetto globale di misu‐
re intese a rispondere alla crisi, preservare la stabilità finanziaria e porre le basi di una
29
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TFUE – ricorrendo alla procedura semplificata prevista dell’art. 48, par.
6, del Trattato sull’Unione europea, senza la convocazione di
un’apposita convenzione composta da rappresentanti dei Parlamenti
nazionali, dei Capi di Stato o di governo degli Stati membri, del Parla‐
mento europeo e della Commissione ovvero di una conferenza intergo‐
vernativa – inserendovi, all’art. 136, un nuovo paragrafo 3 teso a legitti‐
mare l’istituzione di «un meccanismo di stabilità da attivare ove indi‐
spensabile per salvaguardare la stabilità della zona euro».
La decisione 2011/199/UE32, recante la citata modifica del TFUE, veni‐
va sottoposta alla ratifica da parte degli Stati membri, la quale apriva la
crescita intelligente e sostenibile basata sull’inclusione sociale e tesa a creare occupazio‐
ne. Tra le suddette misure figuravano, oltre alla suddetta modifica del TFUE: dettagliate
indicazioni sull’attuazione del c.d. semestre europeo; l’impegno per l’attuazione della
strategia “Europa 2020”, definita nel Consiglio europeo del 20 marzo 2010, volta a rilan‐
ciare la crescita e l’occupazione; l’avvio, nel quadro di un rafforzamento della governance,
delle trattative con il Palamento europeo sul citato six pack; la definizione di strategie tese
a ripristinare lo stato di salute del settore bancario; la presa d’atto di quello che veniva
definito un salto di qualità nel coordinamento delle politiche economiche attraverso la
definizione del Patto euro plus, approvato dai Capi di Stato o di governo della zona euro
e a cui hanno aderito anche Bulgaria, Danimarca, Lettonia, Lituania, Polonia e Romania.
Il Patto euro plus veniva a basarsi sull’assunzione di impegni stringenti da parte dei Paesi
partecipanti per stimolare la competitività e l’occupazione, nonché rafforzare la sosteni‐
bilità delle finanze pubbliche e la stabilità finanziaria, anche attraverso il monitoraggio
del livello del debito privato di banche, famiglie e imprese non finanziarie. Cfr. Europe‐
an Council 24/25 March 2011 Conclusions, Brussels, 20 April 2011, in
http://www.consilium.europa.eu/uedocs/cms_data/docs/pressdata/en/ec/120296.pdf
(consultato l’8 giugno 2016).
32 Decisione del Consiglio Europeo del 25 marzo 2011 che modifica l’articolo 136 del
Trattato sul funzionamento dell’Unione europea relativamente a un meccanismo di sta‐
bilità per gli Stati membri la cui moneta è l’euro (2011/199/UE), in http://eur‐
71
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strada all’istituzione del nuovo meccanismo di salvaguardia della stabi‐
lità finanziaria, noto come ESM (European Stability Mechanism), con un
apposito accordo internazionale stipulato dai 17 Stati membri della zona
euro il 2 febbraio 201233.
L’ESM costituisce quindi un’organizzazione istituita con un atto di dirit‐
to internazionale, non essendone membri tutti gli Stati dell’UE, sebbene
aperta anche a tutti gli altri partner previa adesione all’eurozona, con sede a
Lussemburgo, destinata ad affiancare e poi sostituire l’EFSF e l’EFSM, nei
limiti della dotazione finanziaria di 500 miliardi originariamente prevista
per la somma dei due organismi, essendosi opposta la Germania a un suo
rifinanziamento34, garantita da uno stock di capitale di 700 miliardi versato
dagli Stati membri in proporzione alle quote di partecipazione alla BCE.
Come si evince dalla relazione illustrativa del Governo che accompa‐
gnava il relativo disegno di legge di ratifica, l’ESM rappresenta la compo‐
nente solidaristica della nuova architettura della governance dell’UE, de‐
stinata a essere attivata in situazioni di emergenza. Esso «potrà concedere
prestiti ai suoi membri, fornire assistenza finanziaria precauzionale, ac‐
quistare obbligazioni di Stati membri beneficiari sui mercati primari e se‐
condari ed accordare prestiti per la ricapitalizzazione delle istituzioni fi‐
lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=OJ:L:2011:091:0001:0002:IT:PDF (consultato
l’8 giugno 2016).
33
Treaty Establishing the European Stability Mechanism (ESM), in
http://europa.eu/rapid/press‐release_DOC‐12‐3_en.htm (consultato l’8 giugno 2016).
34 Cfr. la relazione di accompagnamento del disegno di legge di ratifica presentato
dal
Governo
al
Senato
il
3
aprile
2012,
A.S.
n.
3240,
in
http://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/00657325.pdf,
ma
vedi
anche
http://europa.eu/rapid/press‐release_DOC‐12‐3_en.htm (link consultati l’8 giugno 2016).
72
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nanziarie». A questo scopo, ai sensi dell’art. 3, è conferito all’ESM il potere
di raccogliere fondi con l’emissione di strumenti finanziari o intese con gli
Stati membri o terzi. Gli organi dirigenti dell’ESM sono il Consiglio dei
governatori e il Consiglio d’amministrazione, entrambi composti da rap‐
presentanti degli Stati membri, cui partecipano, in qualità di osservatori,
anche rappresentanti della Commissione europea e della BCE.
L’ESM, pur non essendo, stricto iure, un’istituzione dell’UE, affida alla
Commissione europea i negoziati con il Paese interessato sulle condizioni
– che includono le carenze da affrontare – cui sono subordinati gli stru‐
menti di assistenza finanziaria prescelti. I relativi protocolli d’intesa, ai
sensi dell’art. 13, sono conformi a qualsiasi atto legislativo dell’UE, sebbe‐
ne nella loro adozione non sia coinvolto il Parlamento europeo, ed even‐
tuali controversie non risolte dal Consiglio d’amministrazione rientrano
nella sfera di competenza dell’Unione europea. Si rileva che il Trattato
sull’ESM non contempla il Parlamento europeo e l’unica norma inerente
al controllo parlamentare è recata dall’art. 30, che prevede la trasmissione
della relazione annuale dei revisori dei conti ai Parlamenti nazionali.
2.6 Il Trattato sul Fiscal Compact e il two pack
Come evidenziato nella citata relazione governativa di accompagna‐
mento del disegno di legge di ratifica ed esecuzione del Trattato istituti‐
vo dell’ESM, se quest’ultimo rappresenta la componente solidaristica
della nuova architettura della governance dell’UE, il Trattato sulla stabili‐
tà, il coordinamento e la governance nell’Unione economica e monetaria
73
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(TSCG)35, cosiddetto Fiscal Compact, sottoscritto giusto un mese dopo, il 2
marzo 2012, «rappresenta la componente di disciplina, destinata ad assi‐
curare in ciascun Paese una gestione sostenibile delle finanze pubbliche
che eviti l’accumularsi di tensioni suscettibili di incidere negativamente
sulla stabilità finanziaria». In particolare, come precisato dal paragrafo 5
della premessa del Trattato sull’ESM, la ratifica del TSCG e l’avvenuta
trasposizione nell’ordinamento interno della regola del pareggio di bi‐
lancio, di cui all’art. 3, par. 2, del medesimo TSCG, costituiscono una
precondizione per accedere agli strumenti di assistenza finanziaria pre‐
visti dal Trattato sull’ESM.
Il TSCG è chiamato anche Fiscal Compact in quanto volto a costituire una
sorta di testo coordinato del citato six‐pack introducendovi tuttavia più forti
vincoli alle politiche di bilancio nazionali di quanto non già previsto. In
proposito si segnala in primo luogo la previsione, di cui al citato art. 3,
dell’inserimento negli ordinamenti nazionali dell’obbligo del pareggio di
bilancio: la mancata introduzione nell’ordinamento di tale obbligo può
comportare l’applicazione di una sanzione, ai sensi dell’art. 8, fino allo 0,1%
del PIL. Si precisa poi che l’obbligo di pareggio si intende rispettato in pre‐
senza di un disavanzo strutturale fino allo 0,5% del PIL – ben inferiore al
Treaty on Stability, Coordination and Governance in the Economic and Monetary
Union; il testo in inglese del trattato si può leggere all’indirizzo
http://webcache.googleusercontent.com/search?q=cache:fSRe4sE0TO4J:www.consilium.e
uropa.eu/european‐council/pdf/Treaty‐on‐Stability‐Coordination‐and‐Governance‐
TSCG/+&cd=1&hl=it&ct=clnk&gl=it Per il testo in italiano si rinvia al relativo disegno di
legge di ratifica, presentato dal Governo in Senato il 3 aprile 2012, A.S. n. 3239, in
http://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/00657324.pdf (link consultati l’8 giu‐
gno 2016).
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limite del 3% previsto dal Trattato di Maastricht ‐ ovvero di un percorso di
avvicinamento a tale obiettivo. Tale limite è elevato all’1% del PIL in pre‐
senza di un debito in rapporto al PIL significativamente inferiore al 60%.
Sono ammesse deviazioni temporanee dal suddetto percorso solo in pre‐
senza di circostanze eccezionali tassativamente definite. Si prevede altresì
l’impegno a definire meccanismi automatici di correzione in caso di devia‐
zioni significative rispetto agli obiettivi di medio termine.
L’art. 4 conferma poi l’impegno, già sancito dal six‐pack, alla riduzio‐
ne del debito eccedente il 60 per cento del PIL di un ventesimo su base
annuale, tenendo conto del periodo transitorio e dell’impatto del ciclo
economico. Al riguardo il rigore delle norme del Titolo III, che discipli‐
nano il dianzi descritto “Patto di bilancio” che all’art. 7, ad esempio,
prevedono l’impegno a sostenere le proposte e le raccomandazioni della
Commissione europea rivolte agli Stati che violino il criterio del disa‐
vanzo, salvo maggioranza qualificata in senso contrario (c.d. maggio‐
ranza inversa) appare in disarmonia con le norme del Titolo IV che,
agli articoli da 9 a 11, disciplina il coordinamento delle politiche econo‐
miche e convergenza, le quali richiamano genericamente la possibilità di
adottare misure (art. 9) volte a stimolare la competitività, promuovere
l’occupazione, contribuire ulteriormente alla sostenibilità delle finanze
pubbliche e rafforzare la stabilità finanziaria, ovvero di svolgere una va‐
lutazione comparativa delle migliori prassi (art. 11).
In secondo luogo si rileva che il TSCG, non avendo aderito Regno Uni‐
to e Repubblica Ceca, non ha potuto assumere la forma di una modifica
del Trattato di Lisbona. In quanto accordo “esterno” ai Trattati non costi‐
tuisce quindi, a rigore, diritto dell’UE e non è stato neanche pubblicato
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sulla Gazzetta ufficiale dell’Unione europea (GUCE)36. Le parti si sono
tuttavia impegnate, ai sensi dell’art. 2, ad applicarlo e a interpretarlo con‐
formemente ai Trattati su cui si fonda l’Unione europea. Esso, dal punto
di vista procedurale, si basa comunque su un ruolo attivo della Commis‐
sione europea mentre, a differenza del trattato sull’ESM, che riconosce la
competenza della Corte di giustizia per ogni controversia, richiama
espressamente la competenza della Corte di giustizia, ai sensi dell’art. 8,
limitatamente al solo adempimento dell’inserimento negli ordinamenti
nazionali dell’obbligo del pareggio di bilancio, sebbene il riferimento alla
conformità con i Trattati del citato art. 2 è suscettibile di comportare un
ampliamento del campo di intervento della Corte. Anche a questo propo‐
sito, l’esigenza di raggiungere un compromesso sembra essere prevalsa sul‐
la chiarezza delle norme, venendo rimessa dall’art. 16 l’incorporazione delle
norme del TSCG nell’ordinamento giuridico dell’Unione europea entro un
termine, che appare ordinatorio, di cinque anni dall’entrata in vigore.
Quanto alla governance della zona euro, cui è dedicato il Titolo V, si as‐
siste alla massima espressione dell’Europa intergovernativa, con la codifi‐
cazione del ruolo dei Vertici dei Capi di Stato e di Governo dell’eurozona
– di cui viene prevista, all’art. 12, l’elezione di un Presidente – mentre, per
quanto concerne il controllo parlamentare, si prevede, all’art. 13, unica‐
mente la costituzione di una Conferenza dei rappresentanti delle Com‐
missioni pertinenti del Parlamento europeo e dei Parlamenti nazionali cui,
però, non viene riconosciuto alcuno specifico potere.
Come si evince dalla nota in proposito sul sito dell’Unione europea: http://eur‐
lex.europa.eu/legal‐content/EN/TXT/?uri=URISERV%3A1403_3 (consultato l’8 giugno
2016).
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Il quadro sopra descritto della governance della zona euro, definito
con la componente cosiddetta “solidaristica”, costituita dal Trattato
sull’ESM, e dalla componente volta ad assicurare la disciplina delle poli‐
tiche di bilancio, costituita dal c.d. six pack e dal TSCG, è stato completa‐
to e disciplinato più in dettaglio con il cosiddetto “two pack”, il regola‐
mento (UE) n. 472/201337 e il regolamento (UE) n. 473/201338, entrambi
adottati il 21 maggio 2013.
Il regolamento (UE) n. 472/2013 è volto, in particolare, ad aumentare la
sorveglianza economica e di bilancio per i Paesi della zona euro che si
trovano, o rischiano di trovarsi, in situazioni di grave instabilità finanzia‐
ria. Tale sorveglianza può assumere la forma di “Sorveglianza rafforzata”,
in presenza di difficoltà di bilancio tali da comportare il rischio di effetti
negativi di ricaduta su altri Paesi della zona euro, di un “Programma di
aggiustamento macroeconomico”, nel caso dei Paesi che ricevono assistenza
finanziaria, e di “Sorveglianza post‐programma”, una volta erogata la totalità
dell’assistenza finanziaria. In relazione alle tre procedure di sorveglianza,
il regolamento (artt. 3, parr. 8 e 9; 7, parr. 4, 10 e 11; 14, parr. 3 e 5) prevede
obblighi di informazione del Parlamento europeo al quale è riconosciuta
Regolamento (UE) n. 472/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio del 21 mag‐
gio 2013, sul rafforzamento della sorveglianza economica e di bilancio degli Stati membri
nella zona euro che si trovano o rischiano di trovarsi in gravi difficoltà per quanto ri‐
guarda
la
loro
stabilità
finanziaria,
in
http://eur‐lex.europa.eu/legal‐
content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:32013R0472&from=EN (consultato l’8 giugno 2016).
38 Regolamento (UE) n. 473/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio del 21 mag‐
gio 2013, sulle disposizioni comuni per il monitoraggio e la valutazione dei documenti
programmatici di bilancio e per la correzione dei disavanzi eccessivi negli Stati membri
della zona euro; testo disponibile all’indirizzo http://eur‐lex.europa.eu/legal‐
content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:32013R0473&from=EN (consultato l’8 giugno 2016).
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la facoltà di invitare lo Stato interessato e la Commissione a uno scambio
di opinioni sulla procedura da questa attivata; analoga facoltà è ricono‐
sciuta al Parlamento nazionale dello Stato interessato.
È previsto inoltre, ai sensi dell’art. 18, l’avvio di un dialogo tra Parla‐
mento europeo, Commissione e Consiglio sull’applicazione del regola‐
mento medesimo. Salvo la possibilità di procedure riservate, il regola‐
mento contempla, nella premessa, l’accesso del pubblico agli atti istrut‐
tori e richiama esplicitamente il rispetto, all’art. 1, par. 4, del ruolo delle
parti sociali e della contrattazione come riconosciuti dall’art. 152 del
TFUE e dall’art. 28 della Carta dei diritti fondamentali.
Il regolamento (UE) n. 473/2013 si applica a tutti i Paesi della zona euro,
con disposizioni speciali per quelli che sono soggetti alla procedura per i
disavanzi eccessivi (PDE), col fine di migliorare la sorveglianza delle politi‐
che di bilancio attraverso strumenti quali la valutazione coordinata da parte
della Commissione europea, ogni anno in autunno, dei documenti pro‐
grammatici e dei progetti di bilancio nazionali nonché la sollecitazione della
creazione di organismi nazionali indipendenti con il compito di migliorare i
quadri di bilancio. Anche nel quadro di tale regolamento vengono ricono‐
sciuti il ruolo della contrattazione e delle parti sociali (art. 1, par. 2) e la fa‐
coltà del Parlamento europeo e dei Parlamenti nazionali39 di acquisire in‐
formazioni (artt. 7, par. 3; 11, par. 2; 15). Il regolamento (UE) n. 473/2013 è
stato integrato dal regolamento (UE) n. 877/201340 – adottato dalla Com‐
Per un esame analitico dell’impatto del two packs sul tema del coinvolgimento dei
parlamenti nazionali nel semestre europeo cfr. Maccabiani (2014) e Raimla (2016).
40 Regolamento delegato (UE) N. 877/2013 della Commissione del 27 giugno 2013, in
http://eur‐lex.europa.eu/legal‐content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:32013R0877&from=IT
(consultato il 20 giugno 2016).
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missione nell’esercizio della delega disposta dall’art. 10, par. 3, del prece‐
dente – che specifica i contenuti della relazione che i Paesi oggetto di una
procedura per disavanzo eccessivo sono tenuti a presentare all’UE.
2.7 Strumenti di vigilanza finanziaria, unione bancaria e interventi della BCE
Hodson e Puetter (2015, 367‐372) riscontrano tra i primi segnali della
crisi finanziaria internazionale nei mercati europei un comunicato stam‐
pa di BNP Paribas del 9 agosto 2007 che segnalava la sospensione del
trading su tre fondi d’investimento a causa del mercato dei subprime de‐
gli Stati Uniti. Il mercato degli immobili in USA era in crisi già dal 2006 e
nel febbraio 2007 era fallito un istituto americano specializzato nei sub‐
prime. La crisi è rapidamente dilagata nel settore creditizio e degli istituti
d’investimento americani ed europei con il fallimento della Northern
Rock in Gran Bretagna e, nel marzo 2008, di Lehman Brothers in USA e
la decisione del governo dell’EIRE, nel settembre 2008, di garantire le
banche irlandesi. Tale decisione destabilizzò il mercato finanziario bri‐
tannico perché, di fronte alla crisi, molti risparmiatori inglesi spostarono
i lori conti su banche irlandesi avviando una serie di movimenti a catena
in tutta Europa, mentre gli impegni assunti dalle autorità irlandesi
avrebbero rapidamente condotto in crisi le finanze pubbliche fino ad al‐
lora molto solide. La crisi del settore finanziario, che avrebbe potuto es‐
sere gestita meglio in presenza di un sistema europeo di garanzia dei
depositi bancari, combinata con altri fattori come gli squilibri commer‐
ciali globali e il declino di produttività di vari Paesi dell’area euro, si
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propagò rapidamente, come dianzi descritto, a livello macroeconomico
determinando una situazione di recessione nell’area dell’euro.
Nel dicembre 2008 il Consiglio europeo decise un pacchetto di misure
volte a ridurre la pressione fiscale e a rilanciare gli investimenti pubblici e
privati e, più in generale, la domanda con l’obiettivo di determinare un
incremento dell’1,5% del PIL. Ma i partners erano divisi sulla strategia da
perseguire, temendo alcuni che interventi troppo decisi avrebbero potuto
alimentare il cosiddetto “azzardo morale”, il timore, cioè, che misure eu‐
ropeo di sostegno all’economia potessero indurre Paesi che necessitavano
di interventi di risanamento delle finanze pubbliche e di crescita della
produttività fossero indotti a rinunciare ad improcrastinabili riforme
strutturali. La crisi greca con i conseguenti interventi di salvataggio pre‐
cedentemente descritti non fecero che rafforzare tali timori. Le incertezze,
tuttavia, sono costate care: secondo talune analisi, un più deciso interven‐
to di salvataggio della Grecia nel 2010 sarebbe costato da 30 a 50 miliardi
di euro (un intervento, cioè, in luogo dei semplici prestiti accordati, volto
a mutualizzare una quota del debito sovrano, un bail‐out peraltro vietato
dal citato art. 125 del TFUE, che pertanto avrebbe dovuto essere tempesti‐
vamente modificato); la scelta di non intervenire più incisivamente allora è
costata circa 1000 miliardi di crescita in meno per l’eurozona (ivi inclusi gli
Stati più virtuosi, come la Germania), 7 milioni di disoccupati e 1500 mi‐
liardi di interventi finanziari da parte della BCE (Bastasin, 2015, 470‐471).
A fronte delle incertezze dei governi europei si rilevarono più incisivi
gli interventi della BCE che, già nel 2007, aveva lanciato un programma di
prestiti “overnight” per 94 miliardi di euro per venire incontro alle esigen‐
ze di liquidità del settore creditizio. Più prudente a intervenire sui tassi
d’interesse – rispetto alla Federal Reserve, che, già dal settembre 2008, si era
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adoperata per una loro riduzione – tra novembre 2008 e maggio 2009 pilo‐
tò una riduzione dei tassi d’interesse dal 3,5 all’1,0%, che comunque si ri‐
levò insufficiente a prevenire una situazione di deflazione.
Nel maggio del 2010 la BCE lanciò allora il suo European Securities market
Programme (SMP), un programma di acquisto di titoli pubblici sui mercati
secondari (essendo vietato dal Trattato l’acquisto di titoli del debito sovrano
sui mercati primari, cioè direttamente dagli Stati partecipanti all’euro). Non
essendo sufficiente l’effetto di tale programma sui mercati e continuando le
speculazioni contro l’euro e il debito sovrano dei Paesi più vulnerabili, nel
luglio 2012 il Presidente della BCE, Mario Draghi, annunciò pubblicamente
che era pronto a fare «whatever it would take to save the euro»41. Tale annuncio
– che da solo fu sufficiente a indebolire la speculazione sull’euro, signifi‐
cando agli investitori la disponibilità della BCE a comportarsi, di fatto, in
modo simile ad un prestatore di ultima istanza, attraverso la creazione di
liquidità atta a finanziare gli Stati, sebbene l’art. 123 del TFUE vieti alla BCE
di garantire formalmente la solvibilità del debito pubblico emesso dai Paesi
dell’area euro – fu seguito, con la delibera del 6 settembre 201242, dal lancio
delle Outright Monetary Transaction (OMT, Operazioni definitive moneta‐
rie), un piano di acquisto illimitato di titoli di Stato nei mercati secondari a
Speech by Mario Draghi, President of the European Central Bank at the Global In‐
vestment
Conference
in
London,
26
July
2012,
in
https://www.ecb.europa.eu/press/key/date/2012/html/sp120726.en.html (consultato il 20
giugno 2016).
42 Cfr. European Central Bank, Technical features of Outright Monetary Transactions,
6
September
2012,
in
http://www.ecb.europa.eu/press/pr/date/2012/html/pr120906_1.en.html (consultato il 20
giugno 2016).
41
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condizione che si tratti di Paesi dell’area dell’euro che soggiacciono a piani
di aggiustamento, connotati da rigidi impegni a eseguire politiche di rifor‐
me strutturali e di consolidamento delle finanze pubbliche, nel quadro di
programmi precauzionali o di aiuti forniti dall’EFSF o dall’ESM, e solo fin‐
tanto che gli obiettivi definiti nei suddetti programmi non siano raggiunti.
Le OMT, peraltro, hanno dato luogo a un ricorso presso la Bundesver‐
fassungsgericht, il Tribunale costituzionale tedesco43, la quale, con deci‐
sione del 14 gennaio 2014, ha proposto una domanda di pronuncia pre‐
giudiziale alla Corte di giustizia dell’UE, ai sensi dell’articolo 267 del
TFUE, avente ad oggetto la compatibilità delle OMT coi Trattati. La Cor‐
te di giustizia si è pronunciata in data 16 giugno 201544, dichiarando che
«Gli articoli 119 TFUE, 123, paragrafo 1, TFUE e 127, paragrafi 1 e 2,
TFUE, nonché gli articoli da 17 a 24 del Protocollo (n. 4) sullo Statuto del
Sistema europeo di banche centrali e della Banca centrale europea, de‐
vono essere interpretati nel senso che autorizzano il Sistema europeo di
banche centrali (SEBC) ad adottare un programma di acquisto di titoli di
Stato sui mercati secondari» come quello relativo alle OMT. In data 21
giungo 2016 la Bundesverfassungsgericht si è definitivamente pronunciata
sulla questione riconoscendo la legittimità delle OMT45.
Cfr. GFCC, Order of the Second Senate of 14 January 2014 ‐ 2 BvR 2728/13 ‐ paras.
(1‐24), http://www.bverfg.de/e/rs20140114_2bvr272813en.html (consultato il 20 giugno
2016).
44 Cfr. Sentenza della Corte (Grande Sezione) del 16 giugno 2015, causa C‐62/14, in
http://curia.europa.eu/juris/document/document.jsf?text=&docid=165057&pageIndex=0&d
oclang=it&mode=lst&dir=&occ=first&part=1&cid=1198145 (consultato il 20 giugno 2016).
45 Cfr. The Federal Constitutional Court, Constitutional Complaints and Organstreit
Proceedings Against the OMT Programme of the European Central Bank Unsuccessful,
Press
Release
No.
34/2016
of
21
June
2016,
in
43
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Parallelamente agli sviluppi della crisi finanziaria è cresciuta la consape‐
volezza dell’esigenza di una risposta a livello europeo, oltre che per quanto
concerne la politica economica e monetaria, quanto alle garanzie del siste‐
ma creditizio e finanziario, in modo da rafforzare la fiducia degli investitori
europei e internazionali nei confronti delle banche europee. L’intervento
dei singoli Stati nazionali in favore delle rispettive banche in crisi aveva in‐
fatti generato un peggioramento dei conti pubblici, con una crescita del ri‐
schio del debito sovrano, un conseguente aumento degli spread e un dete‐
rioramento dell’attivo delle banche che maggiormente si erano impegnate
per finanziare il debito pubblico. Al deterioramento dell’attivo delle banche
è conseguito un razionamento del credito, che a sua volta si è riflesso in una
contrazione degli investimenti, in una riduzione della crescita e, in definiti‐
va, in un ulteriore peggioramento della sostenibilità del debito pubblico.
Dati in particolare i limiti del processo di armonizzazione della vigi‐
lanza, basato su direttive europee non sempre recepite in modo omoge‐
neo da parte degli Stati membri, non è stata superata una situazione dif‐
ferenziata quanto alla vigilanza esercitata dalle varie autorità nazionali
che, come rilevato da Bin, Caretti e Pitruzzella (2015, 311‐315), ha favori‐
to una concorrenza tra le piazze finanziarie basata su operazioni alta‐
mente speculative a fronte di controlli inadeguati.
Tra il 2010 e il 2014 è stata quindi avviata la realizzazione dell’Unione
bancaria europea, partendo dall’istituzione, con una serie di regolamenti UE
del 201046, del Sistema europeo di vigilanza finanziaria (SEVIF), meccani‐
http://www.bundesverfassungsgericht.de/SharedDocs/Pressemitteilungen/EN/2016/bvg
16‐034.html (consultato il 21 giugno 2016).
46 Reg. (UE) n. 1092/2010, relativo alla vigilanza macroprudenziale del sistema finan‐
ziario nell’Unione europea e che istituisce il Comitato europeo per il rischio sistemico, in
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smo che si applica a tutti gli Stati dell’Unione e che assicura il coordina‐
mento della vigilanza sui settori bancario, finanziario e assicurativo at‐
traverso il raccordo tra le autorità di vigilanza nazionali, il Comitato eu‐
ropeo per il rischio sistemico (ERSB) e tre agenzie indipendenti (che as‐
solvono essenzialmente compiti consultivi e propositivi in tema di rego‐
lazione tecnica e buone prassi): l’European banking Authority, (EBA),
l’European Securities and Market Authority (ESMA) e l’European Insurance
and Occupational Pension Authority (EIOPA).
La disciplina applicabile all’insieme dell’Unione europea è stata
completata con il cosiddetto Pacchetto CRD IV, che consta di un regola‐
mento47 che disciplina i requisiti prudenziali delle banche e delle impre‐
http://eur‐lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=OJ:L:2010:331:0001:0011:IT:PDF;
Reg. (UE) n. 1093/2010, che istituisce l’Autorità europea di vigilanza (Autorità bancaria
europea), modifica la decisione n. 716/2009/CE e abroga la decisione 2009/78/CE della
http://eur‐lex.europa.eu/legal‐
Commissione,
in
content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:32010R1093&from=IT; Reg. (UE) n. 1094/2010, che isti‐
tuisce l’Autorità europea di vigilanza (Autorità europea delle assicurazioni e delle pen‐
sioni aziendali e professionali), modifica la decisione n. 716/2009/CE e abroga la decisio‐
http://eur‐
ne
2009/79/CE
della
Commissione,
in
lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=OJ:L:2010:331:0048:0083:IT:PDF e Reg.
(UE) n. 1095/2010, che istituisce l’Autorità europea di vigilanza (Autorità europea degli
strumenti finanziari e dei mercati), modifica la decisione n. 716/2009/CE e abroga la deci‐
sione
2009/77/CE
della
Commissione,
in
http://eur‐lex.europa.eu/legal‐
content/IT/TXT/PDF/?uri=OJ:L:2010:331:FULL&from=IT, tutti del 24 novembre 2010
(URL consultate il 20 giugno 2016).
47 Regolamento (UE) n. 575/2013, del 26 giugno 2013, relativo ai requisiti prudenziali
per gli enti creditizi e le imprese di investimento e che modifica il regolamento (UE) n.
648/2012,
in
http://eur‐lex.europa.eu/legal‐
content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:32013R0575&from=IT (consultato il 20 giugno 2016).
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se di investimento e di una direttiva48 volta ad armonizzare l’accesso
all’attività bancaria e la vigilanza prudenziale sui medesimi soggetti, la
direttiva sugli schemi di garanzia dei depositi49, che assicura i titolari di
depositi bancari fino ad un importo massimo di centomila euro a valere
di un Fondo finanziato da un prelievo sui depositi, nonché la direttiva
per la ristrutturazione e la risoluzione delle banche (BRRD)50, che vieta il
ripetersi di salvataggi bancari a spese dello Stato e dei contribuenti po‐
nendo i relativi costi a carico di azionisti e creditori.
Ben più stringente è il sistema di regole che si applica agli Stati
dell’eurozona e che costituisce l’Unione bancaria in senso stretto. Esso si
basa, in primo luogo, sul Meccanismo di supervisione unica (SSM)51,
Direttiva 36/2013/UE, del 26 giugno 2013, sull’accesso all’attività degli enti creditizi
e sulla vigilanza prudenziale sugli enti creditizi e sulle imprese di investimento, che mo‐
difica la direttiva 2002/87/CE e abroga le direttive 2006/48/CE e 2006/49/CE, in http://eur‐
lex.europa.eu/eli/dir/2013/36/2013‐07‐17/ita/pdfa1a (consultato il 20 giugno 2016).
49 Direttiva 49/2014/UE, del 16 aprile 2014, relativa ai sistemi di garanzia dei depositi,
in
http://eur‐lex.europa.eu/legal‐content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:02014L0049‐
20140702&from=EN (consultato il 20 giugno 2016).
50 Direttiva 59/2014/UE, del 15 maggio 2014, che istituisce un quadro di risanamento e
risoluzione degli enti creditizi e delle imprese di investimento e che modifica la direttiva
82/891/CEE del Consiglio, e le direttive 2001/24/CE, 2002/47/CE, 2004/25/CE, 2005/56/CE,
2007/36/CE, 2011/35/UE, 2012/30/UE e 2013/36/UE e i regolamenti (UE) n. 1093/2010 e (UE)
n. 648/2012, del Parlamento europeo e del Consiglio, in http://eur‐lex.europa.eu/legal‐
content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:32014L0059&from=IT (consultato il 20 giugno 2016).
51 Di cui ai regolamenti (UE) n. 1022/2013, del 22 ottobre 2013, recante modifica del
regolamento (UE) n. 1093/2010, che istituisce l’Autorità europea di vigilanza (Autorità
bancaria europea), per quanto riguarda l’attribuzione di compiti specifici alla Banca cen‐
trale europea ai sensi del regolamento del Consiglio (UE) n. 1024/2013, in http://eur‐
lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=OJ:L:2013:287:0005:0014:IT:PDF
e
n.
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nell’ambito del quale le funzioni di vigilanza sono ripartite tra la BCE e le
autorità nazionali. Alla prima spettano il coordinamento dell’intero siste‐
ma, il rilascio e la revoca dell’autorizzazione agli enti creditizi, il controllo
su acquisto e cessione di partecipazioni qualificate, nonché la vigilanza
sugli enti creditizi più rilevanti. Alle autorità nazionali rimangono i com‐
piti inerenti alla vigilanza sui restanti istituti, all’antiriciclaggio, alla tutela
dei consumatori, alla vigilanza sulle succursali di banche extraeuropee
con sede nei Paesi dell’euro e ai sistemi di pagamento.
In secondo luogo è stato istituito il Meccanismo di risoluzione unica
(SRM)52, volto a evitare che l’eventuale salvataggio di banche in crisi si ri‐
percuota sul debito sovrano dello Stato interessato propagando i suoi effetti
negativi nell’area euro. A tal fine il Comitato di risoluzione unico (SRB) ivi
previsto – composto da 6 membri permanenti, tra cui il Presidente, i rap‐
presentanti delle autorità nazionali, nonché, come osservatori, dai rappre‐
sentanti di BCE e Commissione – valuta se il rischio di fallimento di una
banca sia suscettibile di costituire una minaccia sistemica per l’eurozona; in
tal caso presenta uno schema di risoluzione alla Commissione che a sua
volta formula osservazioni sullo schema da sottoporre al Consiglio.
1024/2013, del 15 ottobre 2013, che attribuisce alla Banca centrale europea compiti speci‐
fici in merito alle politiche in materia di vigilanza prudenziale degli enti creditizi, in
http://eur‐lex.europa.eu/legal‐content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:32013R1024&from=IT
(link consultati il 20 giugno 2016).
52 Con il regolamento (UE) n. 806/2014, del 15 luglio 2014 che fissa norme e una pro‐
cedura uniformi per la risoluzione degli enti creditizi e di talune imprese di investimento
nel quadro del meccanismo di risoluzione unico e del Fondo di risoluzione unico e che
modifica il regolamento (UE) n. 1093/2010, in http://eur‐lex.europa.eu/legal‐
content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:32014R0806&from=IT (consultato il 20 giugno 2016).
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Lo schema di risoluzione definisce tra l’altro le modalità di intervento
del Fondo di risoluzione unico (SRF), il quale dovrebbe fornire le risorse
necessarie per consentire alla banca a rischio di fallimento di operare nel
corso del periodo di sua ristrutturazione. Il SRF è finanziato dai mecca‐
nismi nazionali di finanziamento per la risoluzione dell’area euro, che
gli Stati membri devono costituire, ex art. 100 della direttiva 59/2014/UE,
c.d. direttiva BRRD, a valere di risorse fornite dalle banche. L’obbligo di
trasferimento al Fondo dei contributi raccolti a livello nazionale non di‐
scende dal diritto dell’Unione bensì deriva dal relativo Accordo fatto a
Bruxelles il 21 maggio 2014 e rettificato il 22 aprile 201553.
Si segnala che tutti i suddetti testi normativi sono stati adottati, salvo il
citato Accordo del 21 maggio 2014, che non rientra nel diritto dell’Unione,
con il pieno coinvolgimento del Parlamento europeo attraverso la proce‐
dura di codecisione (attuale procedura legislativa ordinaria). In particola‐
re, si riscontra come il coinvolgimento del Parlamento nei procedimenti di
adozione dei suddetti atti comporti una particolare attenzione per i profili
della trasparenza e dell’accountability, rilevandosi, ad esempio, che il rego‐
lamento (UE) n. 806/2014, che disciplina il meccanismo di risoluzione uni‐
co e l’istituzione del Fondo di risoluzione unico, prevede, all’articolo 56,
l’approvazione del Parlamento europeo per la nomina del Presidente, del
Vice Presidente e dei membri permanenti del SRB mentre gli articoli 45 e
Cfr. il disegno di legge recante la ratifica ed esecuzione dell’Accordo sul trasferi‐
mento e la messa in comune dei contributi al fondo di risoluzione unico, con Allegati,
fatto a Bruxelles il 21 maggio 2014, con processo verbale di rettifica, fatto a Bruxelles il 22
aprile 2015, A.S. n. 2132, presentato in Senato il 13 novembre 2015, in
http://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/00947510.pdf (consultato il 20 giugno
2016).
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46 disciplinano in dettaglio le responsabilità – in termini di relazioni, in‐
tervento nelle audizioni e altre comunicazioni – del suddetto Comitato nei
confronti del Parlamento europeo e dei Parlamenti nazionali.
2.8 La disciplina del semestre di bilancio europeo, le procedure di controllo
dei conti nazionali da parte degli organismi dell’Unione europea e i vincoli che
ne derivano per i Parlamenti nazionali
L’Italia si è adeguata all’obbligo del pareggio di bilancio, di cui al ci‐
tato art. 3 del TSCG, con la legge costituzionale 20 aprile 2012, n. 154, re‐
cante appunto «Introduzione del principio del pareggio di bilancio nella
Carta costituzionale». In particolare, il principio del pareggio è contenu‐
to nel novellato art. 81 della Costituzione, il quale stabilisce, al primo
comma, che «Lo Stato assicura l’equilibrio tra le entrate e le spese del
proprio bilancio, tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli
del ciclo economico» e, al comma secondo, che «Il ricorso
all’indebitamento è consentito solo al fine di considerare gli effetti del
ciclo economico e, previa autorizzazione delle Camere adottata a mag‐
gioranza assoluta dei rispettivi componenti, al verificarsi di eventi ecce‐
zionali».
Al riguardo si rileva come la dottrina (Dickmann 2013, Governance
economica europea e misure nazionali per l’equilibrio dei bilanci pubblici, 85‐
99) abbia espresso delle osservazioni con riferimento alla non obbligato‐
rietà del recepimento dell’art. 3 del TSCG con norma costituzionale – che
54
Pubblicata nella GU n. 95 del 23 aprile 2012.
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infatti parla di garanzia del rispetto del pareggio di bilancio con disposi‐
zioni “preferibilmente” costituzionali – nonché sui possibili conflitti tra
la costituzionalizzazione dei vincoli all’indebitamento e il perseguimen‐
to dei principi fondamentali di cui agli articoli da 1 a 12 della Costitu‐
zione. Inoltre si è osservato che il recepimento di un obbligo derivante
dal diritto europeo, quale il divieto di indebitamento se non a certe con‐
dizioni, con norma costituzionale, potrebbe comportare, in caso di futu‐
ra evoluzione della normativa dell’Unione europea sulle suddette con‐
dizioni che vincolano l’indebitamento, a un possibile paradosso. Tale
paradosso sarebbe costituito dal dilemma tra la disapplicazione della
norma interna superata, ancorché di rango costituzionale, ovvero la ne‐
gazione della giurisprudenza sulla disapplicazione della norma interna
in contrasto con la normativa dell’Unione europea.
Il sesto comma dell’art. 81 modificato prevede poi che «Il contenuto
della legge di bilancio, le norme fondamentali e i criteri volti ad assicu‐
rare l’equilibrio tra le entrate e le spese dei bilanci e la sostenibilità del
debito del complesso delle pubbliche amministrazioni sono stabiliti con
legge approvata a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna
Camera, nel rispetto dei principi definiti con legge costituzionale». Le
conseguenti modifiche della legislazione sui principi della contabilità
pubblica sono state approvate con la legge 24 dicembre 2012, n. 24355.
La lettera f) dell’art. 5, c. 1, della citata legge costituzionale prevede
inoltre «l’istituzione presso le Camere, nel rispetto della relativa auto‐
nomia costituzionale, di un organismo indipendente al quale attribuire
compiti di analisi e verifica degli andamenti di finanza pubblica e di va‐
55
Pubblicata nella GU n. 12 del 15 gennaio 2013.
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lutazione dell’osservanza delle regole di bilancio»56, norma che ha anti‐
cipato l’entrata in vigore, dal 30 maggio 2013, del citato regolamento
(UE) n. 473/2013 che, all’art. 5, prevede che gli Stati membri dispongano
di tali organismi indipendenti.
Pur senza richiamare gli ulteriori maggiori vincoli che gravano sui
Paesi dell’eurozona oggetto di procedure per disavanzo eccessivo o di
assistenza finanziaria, ovvero caratterizzati da gravi squilibri, si riepilo‐
gano57 i vincoli temporali che derivano dalle disposizioni sul semestre
europeo (Stuchlik, 2016) e sul calendario comune di bilancio di cui, ri‐
spettivamente, all’art. 2 bis del regolamento (CE) 1466/97, come modifi‐
cato dal citato regolamento (CE) n. 1175/2011, e al regolamento (UE) n.
473/2013:
L’Ufficio parlamentare di bilancio (UPB), da non confondere con i Servizi del bilan‐
cio di Camera e Senato, è stato istituito dall’art. 16 della citata legge n. 243 del 2012 e le
sue funzioni, attività ed organizzazione sono disciplinati dal Capo VII della medesima
legge. In particolare, ai sensi dell’art. 18, c. 1, l’Ufficio, anche attraverso l’elaborazione di
proprie stime, effettua analisi, verifiche e valutazioni in merito a: a) le previsioni macroe‐
conomiche e di finanza pubblica; b) l’impatto macroeconomico dei provvedimenti legi‐
slativi di maggiore rilievo; c) gli andamenti di finanza pubblica, anche per sottosettore, e
l’osservanza delle regole di bilancio; d) la sostenibilità della finanza pubblica nel lungo
periodo; e) l’attivazione e l’utilizzo del meccanismo correttivo di cui all’articolo 8 e gli
scostamenti dagli obiettivi derivanti dal verificarsi degli eventi eccezionali di cui
all’articolo 6; f) ulteriori temi di economia e finanza pubblica rilevanti ai fini delle analisi,
delle verifiche e delle valutazioni di competenza. Cfr. http://www.upbilancio.it/chi‐
siamo/ (consultato l’8 giugno 2016).
57 Cfr. European Commission, Making it happen: the European Semester, in
http://ec.europa.eu/europe2020/making‐it‐happen/index_en.htm (consultato l’8 giugno
2016).
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a) a novembre, che segna l’inizio del cosiddetto semestre europeo, la
Commissione pubblica le previsioni economiche d’autunno,
nonché l’analisi annuale della crescita (AAC), che indica le
proposte per l’anno a venire con riferimento alle politiche eco‐
nomiche e di bilancio e alle riforme necessarie per assicurare
stabilità e crescita, e la relazione sul meccanismo di allerta
(RMA), che individua gli Stati membri per i quali occorre effet‐
tuare ulteriori approfondimenti per decidere se esistono squi‐
libri che richiedono un intervento politico; la Commissione
formula altresì le raccomandazioni per l’area dell’euro nonché
i pareri sui documenti programmatici di bilancio presentati
dagli Stati dell’eurozona (e in caso di gravi inosservanze del
Patto di stabilità e crescita chiede al Paese interessato di rive‐
dere il piano);
b) a dicembre si sviluppano le riunioni bilaterali della Commissione
con gli Stati membri mentre il Consiglio discute i pareri della
Commissione sui documenti di bilancio; gli Stati membri
dell’eurozona trasmettono nel frattempo i bilanci nazionali
adottati e il Consiglio, fra dicembre e gennaio, adotta le racco‐
mandazioni per l’area dell’euro e le conclusioni sull’AAC.
c) a febbraio la Commissione presenta le previsioni economiche
d’inverno e le relazioni per ciascun Paese dell’UE, analizzan‐
done la situazione economica e le politiche di bilancio e verifi‐
cando la presenza di squilibri;
d) a marzo il Consiglio europeo adotta le priorità economiche sulla
base dell’analisi annuale della crescita (AAC) presentata il no‐
vembre precedente dalla Commissione;
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e) ad aprile gli Stati membri devono presentare all’UE i programmi
nazionali di riforma (PNR), relativi alle politiche economiche e
alle misure intraprese per conseguire una crescita sostenibile e
inclusiva alla luce della strategia Europa 202058, nonché i pro‐
grammi di stabilità (per i Paesi euro) e convergenza (per gli al‐
tri Stati membri), concernenti le politiche di bilancio e i piani
predisposti per garantire finanze pubbliche solide in base alle
linee guida fissate dal Consiglio europeo; precedono e seguono
riunioni bilaterali con la Commissione tese ad acquisire chia‐
rimenti e indicazioni sui suddetti programmi; entro il 15 aprile,
e comunque non oltre il 30 aprile, i Paesi dell’eurozona presen‐
tano i programmi di bilancio a medio termine in conformità al
quadro di bilancio a medio termine;
f) a maggio la Commissione pubblica le Previsioni economiche di
primavera, nonché formula le proposte di raccomandazioni
specifiche per ciascun Paese (RSP), sulla base dei programmi
presentati, della loro conformità con la normativa europea e
La strategia “Europa 2020”, è stata adottata nel Consiglio europeo del 20 marzo
2010. Essa è volta a rilanciare la crescita e l’occupazione attraverso la definizione di una
serie di obiettivi quali: portare al 75% il tasso di occupazione delle donne e degli uomini
di età compresa tra 20 e 64 anni; elevare al 3% del PIL i livelli d’investimento pubblico e
privato per la ricerca e lo sviluppo; ridurre le emissioni di gas a effetto serra almeno del
20% rispetto ai livelli del 1990; portare al 20% la quota delle fonti di energia rinnovabili
nel consumo finale di energia e puntare a un miglioramento del 20% dell’efficienza
energetica; migliorare i livelli d’istruzione, in particolare mirando a ridurre i tassi di di‐
spersione scolastica; promuovere l’inclusione sociale in particolare attraverso la ridu‐
zione della povertà. Cfr. Conclusioni del Consiglio Europeo 25 e 26 marzo 2010, in
http://ec.europa.eu/europe2020/pdf/113591_it.pdf, (consultato l’8 giugno 2016).
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con le indicazioni formulate dalle istituzioni europee e dei con‐
tatti bilaterali; si apre il dialogo sulle RSP che coinvolge anche
riunioni con il Parlamento europeo;
g) tra giugno e luglio il Consiglio ECOFIN, e per la parte di compe‐
tenza il Consiglio Occupazione e affari sociali, discutono le
RSP e approvano le raccomandazioni finali per ciascun Paese,
tenuto anche conto degli orientamenti espressi dal Consiglio
europeo;
h) entro settembre i Paesi dell’eurozona devono presentare i rispet‐
tivi documenti programmatici di bilancio59 mentre il Parlamen‐
to europeo vota la risoluzione sul semestre europeo e le RSP; si
entra così nel pieno del semestre nazionale, nel corso del quale i
Paesi membri discutono, prima, i documenti programmatici e
pervengono, successivamente, all’adozione dei bilanci nazio‐
nali, nel rispetto delle indicazioni dell’UE.
In conclusione, si evidenzia come dalla complessa sequenza di scaden‐
ze dei vari meccanismi di sorveglianza – nel cui contesto si combinano gli
impegni derivanti dal TUE, dal TFUE, dai regolamenti e dalle altre norme
del diritto dell’Unione europea nonché dal trattato sull’ESM, in termini
Al riguardo si segnala che l’art. 7, c. 2, della legge 31 dicembre 2009, n. 196, la «Legge
di contabilità e finanza pubblica», come modificato dall’art. 2, c. 1, della legge 7 aprile 2011,
n. 39, recante «Modifiche alla legge 31 dicembre 2009, n. 196, conseguenti alle nuove regole
adottate dall’Unione europea in materia di coordinamento delle politiche economiche degli
Stati membri», dispone che il Documento di economia e finanza (DEF) e la Nota di aggior‐
namento del DEF siano rispettivamente presentati alle Camere entro il 10 aprile ovvero
entro il 20 settembre di ogni anno, per le conseguenti deliberazioni parlamentari.
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finanziari, e dal Trattato sul Fiscal Compact, o TSCG, in termini di politiche
di bilancio – vengano molto compressi i margini discrezionali per i Par‐
lamenti nazionali per le decisioni inerenti ai bilanci e alle politiche econo‐
miche, soprattutto per quegli Stati che aderiscono all’euro, fino a prefigu‐
rare un «possibile condizionamento del potere di emendamento» (Capuano e
Griglio, 2014, 230). Peraltro, tale cessione di sovranità, non si accompagna,
come invece è avvenuto nel processo che ha condotto alla realizzazione
del mercato unico, a un corrispondente accrescimento dei poteri del Par‐
lamento europeo, le cui prerogative si limitano a quello che appare un ge‐
nerico diritto d’informazione sulle decisioni degli altri organismi europei
(Commissione, Consiglio, Consigli europeo, organi dirigenti della BCE,
revisori dei conti dell’ESM, ecc.) ovvero ad un “dialogo” con i rappresen‐
tanti di tali istituzioni che, benché progressivamente più strutturato, non
sembra offrire un ruolo che vada oltre la possibilità di esercitare una sorta
di “moral suasion”.
3. La coerenza del Trattato sul Fiscal Compact e dell’architettura
della governance economica europea con i principi e i diritti fonda‐
mentali definiti nel quadro istituzionale dell’Unione europea
3.1 La coerenza giuridica della governance economica europea col quadro
istituzionale definito nell’ambito dell’Unione europea
Dopo aver verificato, in forma necessariamente sintetica e non esau‐
stiva, come l’evoluzione del quadro istituzionale globale dell’Unione
europea abbia progressivamente rafforzato la centralità, nella vita
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dell’Unione stessa, dei diritti fondamentali – i quali si sono aggiunti, ini‐
zialmente, per via giurisprudenziale, e, successivamente, attraverso il
diritto positivo dell’Unione, a quelle che erano originariamente le pre‐
ponderanti finalità economicistiche delle comunità europee – ci si è sof‐
fermati sulle tappe del parallelo sviluppo del quadro istituzionale in ma‐
teria di politica economica e monetaria negli ultimi decenni. Al riguardo,
occorre tener conto che anche gli istituti originari – quali, ad esempio, la
creazione di un unico mercato del carbone e dell’acciaio, l’unione doga‐
nale, la politica agricola e commerciale, le politiche strutturali e l’avvio
del mercato interno –concorrevano a delineare una politica economica
della realtà comunitaria, senza tuttavia vincolare, durante la lunga fase
che ha preceduto la realizzazione dell’unione economica e monetaria, le
politiche economiche e di bilancio come avviene oggi.
Si è quindi giunti alla trattazione del tema centrale del presente sag‐
gio: una verifica della coerenza, nell’ambito del suddetto quadro istitu‐
zionale, di obiettivi e strumenti rispettivamente correlati alla tutela dei
diritti fondamentali e alla gestione della politica monetaria e fiscale.
Al riguardo, per quanto attiene ai profili prettamente giuridici della
suddetta verifica – premesso che successivamente ci si soffermerà anche
su profili di ordine economico e politico – appare particolarmente signi‐
ficativa una riflessione sulla sentenza della Bundesverfassungsgericht del
12 settembre 201260 con la quale il Tribunale costituzionale tedesco, nel
respingere un ricorso sulla legittimità del Fiscal Compact, ha tuttavia fo‐
calizzato una serie di principi molto importanti. Esso, infatti, nel con‐
Sentenza del Secondo Senato del Tribunale costituzionale federale del 12 settem‐
bre 2012, 2 BvR 1390/12 et al., in http://www.bverfg.de/e/rs20120912_2bvr139012en.html
(consultato l’8 giugno 2016).
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fermare la propria competenza a giudicare sulla conformità del Fiscal
Compact con i diritti garantiti dalla Legge Fondamentale tedesca, ha evi‐
denziato come la decisione sulle entrate e le spese pubbliche costituisca
una componente fondamentale della capacità di uno Stato democratico
di plasmarsi democraticamente e come, conseguentemente, il Parlamen‐
to federale debba conservare il controllo sulle decisioni di bilancio fon‐
damentali anche in un sistema di integrazione europeo condiviso basato
su decisioni intergovernative61. Sotto questo profilo, gli impegni deri‐
vanti dal TSCG sono stati ritenuti non costituire una costrizione eccessi‐
va alla discrezionalità del Parlamento solo in quanto i vincoli imposti dal
suddetto Trattato, con riferimento all’obbligo del pareggio di bilancio,
coincidono sostanzialmente con quelli già previsti dalla Costituzione
tedesca e non sono irreversibili nel lungo termine, ove le circostanze sto‐
riche, politiche o economiche dovessero mutare, in quanto resta alla
Germania la facoltà di denunciare il Trattato medesimo – che non pre‐
vede una clausola di recesso come l’art. 50 del Trattato di Lisbona, ma
soggiace comunque alla Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, la
quale, all’art. 56, disciplina il diritto di recesso – su base consensuale o,
in caso di mutamento fondamentale delle circostanze rispetto al momen‐
to della conclusione del Trattato, in via unilaterale62.
È tuttavia interessante notare che il Tribunale costituzionale tedesco
prende in considerazione la questione della compatibilità dell’art. 7 del TSCG
con il diritto dell’Unione europea – laddove, con il cosiddetto meccanismo,
Cfr. paragrafi 106‐108 della suddetta sentenza del Tribunale costituzionale federale
del 12 settembre 2012.
62 Cfr. paragrafi 120, 124, 196‐198 e 215 della citata sentenza del Tribunale costituzio‐
nale federale del 12 settembre 2012.
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citato, della maggioranza inversa, si prevede l’impegno a sostenere le propo‐
ste e le raccomandazioni della Commissione europea rivolte agli Stati che
violino il criterio del disavanzo, salvo maggioranza qualificata in senso contrario
– limitandosi a rilevare che non rileva ai fini della causa in oggetto63.
Incidentalmente si segnala che nella medesima sentenza del 12 set‐
tembre 2012, il Tribunale costituzionale tedesco riconosce la legittimità
del Trattato istitutivo dell’ESM – sotto il profilo dell’esigenza di non sot‐
trarre al controllo del Parlamento importanti decisioni in materia di bi‐
lancio, quali la cospicua partecipazione finanziaria della Germania al
suddetto organismo – in virtù del combinato disposto del pieno coin‐
volgimento del Bundestag nella decisione sul finanziamento della quota
iniziale di competenza delle risorse dell’ESM, del controllo parlamentare
sul rappresentante della Germania negli organi direttivi dell’ESM stesso
e della previsione, nella legge64 sulla partecipazione finanziaria all’ESM
da parte della Germania – previsione peraltro mancante nella legge di
ratifica ed esecuzione italiana65 – dell’obbligo di consultare il Bundestag
prima di ogni eventuale rifinanziamento o accrescimento della dotazio‐
ne dell’ESM66.
Cfr. paragrafo 208 della sentenza del Tribunale costituzionale federale del 12 set‐
tembre 2012.
64 Cfr. Gesetz zur finanziellen Beteiligung am Europäischen Stabilitätsmechanismus –
Bundestag printed papers 17/9048, 17/10126.
65 Legge del 23 luglio 2012, n. 116, pubblicata sulla GU n. 175 del 28 luglio 2012
(suppl. ord.).
66 Cfr. paragrafi 132, 136‐138, 183 e 185 della citata sentenza del Tribunale costituzio‐
nale federale del 12 settembre 2012.
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A conferma del carattere controverso delle norme recate dal Fiscal
Compact si segnala che anche il Consiglio costituzionale francese67 è stato
chiamato a pronunciarsi sulla compatibilità di tale accordo con la Costi‐
tuzione francese e, tra gli altri, con gli articoli 3, che sancisce che la so‐
vranità appartiene al popolo che la esercita attraverso i suoi rappresen‐
tanti o mediante referendum, e 24, 47 e 47‐I, che sanciscono che il Parla‐
mento vota le leggi, comprese quelle inerenti le finanze pubbliche e il fi‐
nanziamento della sicurezza sociale. Al riguardo si rileva che, ancorché la
sentenza del 9 agosto 2012 abbia riconosciuto la compatibilità del TSCG
con le norme costituzionali francesi, tale conformità viene argomentata
essenzialmente, ai sensi del paragrafo 30 della sentenza, con riferimento al
fatto che l’art. 3, par. 2, del TSCG non obbliga necessariamente gli Stati
membri a inserire il pareggio di bilancio in Costituzione (scelta peraltro
compiuta da vari Paesi, tra cui l’Italia), bensì, riferendosi all’adozione di
misure «vincolanti e permanenti – preferibilmente costituzionali», consen‐
te, in pratica, di percorrere processi diversi da una revisione costituziona‐
le, opzione scelta dalla Francia che ha inserito il pareggio di bilancio in
una legge organica prevista dall’art. 34 della Costituzione.
La Corte di giustizia dell’Unione europea, sebbene sia già più volte
intervenuta sulla politica monetaria68, non è stata ancora chiamata a
esprimersi con riferimento al Fiscal Compact. Quanto alle altre istituzioni
Cfr. Conseil Constitutionnel, Décision n. 2012‐653 DC du 9 aout 2012.
Cfr. sentenza del 27 novembre 2012, causa C‐370/12, Pringle, sulla compatibilità col
diritto dell’UE dell’ESM e della decisione del Consiglio europeo del 25 marzo 2011 che
modifica l’articolo 136 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, nonché la
sentenza 16 giugno 2015, causa C‐62/14, sul piano di allentamento monetario (OMT)
della BCE.
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dell’Unione europea, si riscontra, tuttavia, che già il 18 gennaio 2012 il
Parlamento europeo69 aveva approvato una risoluzione molto critica sul
progetto di Trattato concernente il Fiscal Compact, rilevando la non con‐
formità dell’accordo con il diritto dell’Unione, in particolare, per quanto
riguarda i parametri del Patto di stabilità e crescita, e segnalando che
«qualora le parti contraenti intendano darsi obiettivi che si discostano
dal diritto dell’UE, ciò dovrà avvenire secondo le procedure giuridiche
applicabili dell’UE e senza dar luogo all’adozione di due pesi e due mi‐
sure», nonché sollecitando che «la responsabilità democratica deve esse‐
re garantita rafforzando il coinvolgimento del Parlamento europeo e dei
parlamenti nazionali, ai rispettivi livelli, in tutti gli aspetti del coordi‐
namento e della governance europei in ambito economico».
Dai suddetti elementi emerge in primo luogo la possibilità che in fu‐
turo, in assenza di una revisione –peraltro prevista dallo stesso art. del
16 del TSCG ai fini della sua incorporazione nell’ordinamento dell’UE –
la Corte di giustizia possa essere chiamata a pronunciarsi sulla compati‐
bilità di tale Trattato con il Trattato di Lisbona, con riferimento, ad
esempio, alla modifica dei parametri di deficit in rapporto al PIL previsti
dal Trattato di Maastricht (e non modificati dai Trattati UE successivi)
nei termini del 3%, laddove il Fiscal Compact stabilisce un limite, sia pure
con alcune deroghe, dello 0,5%, nonché con riguardo alla modifica delle
procedure di voto con l’introduzione della c.d. “maggioranza inversa”,
69
Cfr. Risoluzione del Parlamento europeo del 18 gennaio 2012 sulle conclusioni del
Consiglio europeo dell’8 e 9 dicembre 2011 su un progetto di accordo internazionale per
un’Unione
di
stabilità
fiscale,
in
http://www.europarl.europa.eu/sides/getDoc.do?pubRef=‐//EP//TEXT+TA+P7‐TA‐2012‐
0002+0+DOC+XML+V0//IT (consultato il 19 giugno 2016).
99
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la maggioranza qualificata, cioè, necessaria per rigettare le proposte del‐
la Commissione anziché per approvarle, ovvero, infine, con riferimento
alla conformità tra l’obbligo dell’introduzione del pareggio di bilancio,
imposto dal TSCG, e l’art. 4, par. 2, del TUE che sancisce il rispetto della
struttura costituzionale degli Stati membri (Manzella 2014, 15).
Più in generale, come si potrà mancare di approfondire la legittimità
di un meccanismo che costituisce il più importante trasferimento di so‐
vranità all’UE dal Trattato di Maastricht (Smismans 2015, 349) senza un
vero coinvolgimento decisionale né del Parlamento europeo, né dei Par‐
lamenti nazionali? Tale esigenza di approfondimento risalta in particola‐
re con riferimento all’art. 10, par. 1, del TUE, che prevede che «Il funzio‐
namento dell’Unione si fonda sulla democrazia rappresentativa» e
all’art. 6, par. 3, ai sensi del quale «I diritti fondamentali, garantiti dalla
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle
libertà fondamentali e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni
agli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi
generali», nonché in considerazione del fatto che, tra tali tradizioni costi‐
tuzionali – come si è visto nel caso della Germania e della Francia, ma
che vale anche per gli altri Stati membri – figura il principio che la de‐
mocrazia rappresentativa si fonda, tra l’altro, sulla capacità dei Parla‐
menti di incidere sostanzialmente sulle decisioni di bilancio.
Si pone inoltre la questione se la Corte di giustizia sia competente a
giudicare la conformità degli atti adottati nel quadro del TSCG e di altri
strumenti “extracomunitari” della governance economica, come l’ESM,
con la Carta dei diritti fondamentali e le sue disposizioni in materia so‐
ciale: non solamente gli articoli 30 e 31 concernenti, rispettivamente, il
divieto di licenziamenti ingiustificati e le condizioni di lavoro, ma anche
100
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i diritti ben più articolati sanciti dalle carte sociali adottate dall’Unione e
dal Consiglio d’Europa, richiamate nel Preambolo della Carta dei diritti
fondamentali stessa. Ai sensi dell’art. 2 del TSCG, che obbliga le parti ad
applicare il Trattato sul Fiscal Compact stesso «conformemente ai trattati
su cui si fonda l’Unione europea» e «nella misura in cui è compatibile
con i trattati su cui si fonda l’Unione europea e con il diritto dell’Unione
europea», apparentemente non dovrebbero sussistere dubbi al riguardo.
Si pone tuttavia il problema della prevalenza di tali norme ovvero di
quelle di cui all’articolo 8, che sembrano viceversa circoscrivere le com‐
petenze della Corte di giustizia, quanto al Trattato TSCG, unicamente al
rispetto dell’inserimento dell’obbligo del pareggio di bilancio negli or‐
dinamenti nazionali (Hodson 2015, 187). Ma se così fosse, sarebbe com‐
patibile l’art. 8 con l’ordinamento UE?
Più complessa appare poi la definizione delle competenze della Corte
con riferimento alle decisioni adottate nel quadro dell’ESM. L’art. 37
dell’ESM sembra circoscrivere le competenze della Corte alle controver‐
sie tra gli Stati membri sull’applicazione del Trattato stesso. Considerato
che l’adesione al TSCG costituisce una condizione per essere ammessi
alle forme di assistenza finanziaria concesse dall’ESM, eventuali atti che
subordinassero l’erogazione di un prestito ESM a dei provvedimenti di
licenziamento sarebbero sindacabili dalla Corte di giustizia su istanza di
un attore diverso dagli Stati membri (Barnard 2013)?
Superati poi eventuali profili di procedibilità – e accantonando, per
ipotesi, la questione dell’accesso degli individui alla tutela giurisdiziona‐
le in questo ambito – nel merito si pongono complessi problemi di bilan‐
ciamento tra interessi e diritti contrapposti che mostrano chiaramente la
stretta connessione tra i profili giuridici e quelli economici e politici (af‐
101
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frontati nei paragrafi successivi). In assenza di meccanismi politici ed
economici europei di intervento con funzioni di compensazione degli
effetti della politica monetaria, infatti, si renderà necessario individuare i
parametri sulla base dei quali la Corte possa giudicare un’eventuale (ma
non immaginaria) controversia tra gli Stati debitori, che ritenessero i
vincoli loro imposti in contrasto con i diritti sociali fondamentali che essi
sono tenuti costituzionalmente ad assicurare, e gli Stati creditori, che ac‐
cusassero i primi di azzardo morale, di aver adottato, cioè, politiche ec‐
cessivamente lassiste o rischiose a fronte del rigore applicato dagli altri
(Craig e de Burca 2015, 741). Considerato poi che l’ESM è in grado di
gestire risorse pari a quasi quattro volte il bilancio dell’UE, occorrerà
valutare anche se sia conforme ai principi fondamentali comuni che il
sistema di voto ivi applicato si basi sulle quote di partecipazione finan‐
ziaria, quasi a significare che la governance economica costituisce for‐
malmente un governo dei creditori (Bastasin, 2015, 468).
In secondo luogo non si può escludere che altre Corti costituzionali
nazionali intervengano sulla materia, con esiti diversi da quelli delle
Corti tedesca e francese, sindacando un meccanismo che, paradossal‐
mente, marginalizza i Parlamenti proprio nella materia che è più inti‐
mamente legata alla loro origine e alla nascita delle democrazie rappre‐
sentative. Come rilevato nella citata decisione del Consiglio costituzio‐
nale francese, la Dichiarazione del 1897, all’art. 14, proclama infatti che
«Tutti i cittadini hanno il diritto di constatare, da loro stessi o mediante i loro
rappresentanti, la necessità del contributo pubblico, di approvarlo liberamente,
di controllarne l’impiego e di determinarne la quantità, la ripartizione, la riscos‐
sione e la durata».
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Al riguardo si ricorda, ad esempio, che la stessa Corte costituzionale
nella sentenza n. 183/7370, aveva già avvertito come la legge di esecuzio‐
ne del Trattato possa andar soggetta al suo sindacato, con riferimento ai
principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale italiano e ai diritti
inalienabili della persona umana (c.d. dottrina dei controlimiti). Come
rilevato da Dickmann (2013, Corte costituzionale e controlimiti al diritto in‐
ternazionale, 5), «la Corte ritiene la propria ricostruzione implicita nel nuovo
testo dell’art. 117 Cost., dove si distinguono i vincoli derivanti
dall’ordinamento comunitario da quelli derivanti dagli obblighi internazionali.
Solo i primi secondo la Corte comportano cessione di sovranità, “anche in rife‐
rimento al potere legislativo, nelle materie oggetto dei Trattati medesimi, con il
solo limite dell’intangibilità dei principi e dei diritti fondamentali garantiti dalla
Costituzione”». E’ lecito pertanto ipotizzare che la Corte costituzionale sia
chiamata a sindacare la conformità della legge di ratifica del TSCG71 con
i principi e i diritti fondamentali previsti dall’ordinamento costituziona‐
le italiano? Rilevano in proposito Bin, Caretti e Pitruzzella (2015, 245‐
246), richiamando anch’essi la dottrina dei controlimiti e le sentenze
183/1973 e 170/198472 della Corte costituzionale, la possibilità di impu‐
gnazione dell’ordine di esecuzione di un Trattato nella parte in cui con‐
70
Sentenza
del 18 dicembre 1973, n. 183.
71
Legge 23 luglio 2012, n. 114, pubblicata sulla GU n. 175 del 28 luglio 2012 (suppl.
ord.).
72
Sentenza
del 5 giugno 1984, n. 170.
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sente l’immissione nell’ordinamento italiano di norme europee in con‐
trasto con i principi e diritti fondamentali.
Come rilevato da vari autori, aver rinunciato ad affrontare la crisi
dell’euro con il metodo comunitario, che comunque avrebbe garantito la
codecisione del Parlamento europeo e il controllo della Corte di giusti‐
zia, «ha comportato una evidente limitazione del principio di democra‐
zia» (Donati 2014, 10). La disconnessione tra politica monetaria e politica
economico‐sociale viene inoltre a «incidere sulla stessa fisionomia iden‐
titaria dello Stato costituzionale» (Manzella 2014 3,4 e 15).
3.2 La coerenza sotto il profilo economico del Trattato sul Fiscal
Compact e della governance economica con i principi e i diritti fonda‐
mentali che presiedono al quadro istituzionale dell’Unione europea
Da quanto dianzi illustrato si evince la stretta connessione tra il tema
del rapporto tra diritti fondamentali e governance e quello degli effetti
economici e sociali della governance stessa. Secondo la teoria dell’area
valutaria ottimale, enunciata per la prima volta dal Premio Nobel Robert
Mundell (1961, 657–665), posto che un regime di cambi fluttuanti assicu‐
ra una maggiore flessibilità in presenza di shock simmetrici, un’unione
monetaria, per avere successo, dev’essere caratterizzata da requisiti qua‐
li: un mercato del lavoro integrato, tale che i lavoratori siano effettiva‐
mente liberi di muoversi da un’area all’altra del territorio cui si applica
la valuta comune in modo che il flusso dei lavoratori rimasti disoccupati
verso le zone caratterizzate da una maggiore crescita porti ad un riequi‐
librio dei tassi di disoccupazione; una perfetta mobilità dei capitali e
flessibilità di prezzi e salari, di modo che la naturale tendenza delle forze
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di mercato spinga ad un riequilibrio tra domanda e offerta nelle varie
aree del territorio con la moneta unica; la presenza di un ciclo economico
omogeneo nelle varie aree della regione con la moneta unica, in modo
che le politiche monetarie condotte dalla banca centrale per contenere i
prezzi producano effetti omogenei; la presenza di un meccanismo redi‐
stributivo idoneo ad intervenire in favore di aree territoriali e/o settori
eventualmente danneggiati da shock asimmetrici.
L’eventualità di shock asimmetrici, pertanto, è tanto più probabile
quanto più divergano le economie degli Stati che partecipano all’unione
monetaria: per tale motivo l’introduzione della moneta unica è stata pre‐
ceduta da una complessa fase, dianzi descritta, volta ad assicurare la
convergenza della situazione macroeconomica e delle condizioni della
finanza pubblica dei Paesi interessati a partecipare all’euro. L’adozione
dell’euro, tuttavia, ha costituito anche un processo politico, volto tra
l’altro ad evitare, come diceva l’ex cancelliere tedesco Kohl, di germa‐
nizzare l’Europa e a favorire l’europeizzazione della Germania, anco‐
randola all’Europa affinché si potessero dissolvere le tante riserve sulla
sua unificazione, in un momento in cui il marco tedesco stava divenen‐
do, di fatto, la valuta di riferimento dell’Europa centrale e orientale. I
fattori politici, quindi, non hanno consentito di attendere un maggiore
grado di convergenza tra le economie dei Paesi interessati. Parallelamen‐
te, una parte della teoria economica ha incoraggiato un andamento spe‐
dito nella creazione dell’euro sostenendo che la convergenza delle eco‐
nomie dei Paesi partecipanti non è necessariamente un requisito bensì
può essere un effetto della realizzazione di un’unione monetaria (Ver‐
dun 2015, 302).
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Tuttavia non si può non registrare che con l’ingresso nell’euro hanno
subito un peggioramento delle partite correnti proprio gli Stati che ave‐
vano anche il debito più elevato: Italia, Spagna, Grecia, Irlanda e Porto‐
gallo. La competitività, a sua volta, dipende da una serie di fattori tra cui
il costo del lavoro per unità di prodotto (CLUP), la dotazione di infra‐
strutture, la bassa corruzione, l’efficienza della Pubblica amministrazio‐
ne, il sistema di istruzione e formazione, l’innovazione tecnologica. Rile‐
va al riguardo l’ex Governatore della Banca d’Italia, Antonio Fazio
(2016b), che tra il 2005 e il 2014 in Italia il CLUP è cresciuto del 21,3%
contro il 12,4% del resto d’Europa dell’euro, gli investimenti produttivi
si sono ridotti del 27% contro la crescita dell’8,1% nel resto dell’area eu‐
ro, le esportazioni sono cresciute del 14,6% contro il 34,8% registrato dai
partner e il PIL si è ridotto del 5,5% contro la crescita del 7,8% della me‐
dia degli altri Stati membri.
Più in generale, si riscontra un generale aumento delle divaricazioni
nell’area dell’euro tra il 2007 e il 2013. In questo periodo il PIL si è ridot‐
to in Grecia, Italia, Irlanda, Portogallo e Spagna, rispettivamente, del 23,
dell’8,6, del 7, del 7,1 e del 6 per cento, mentre in Germania, tra il 2008 e
il 2013, è aumentato del 4%; tra il 2007 e il 2013 la disoccupazione è cre‐
sciuta del 27% in Grecia e Spagna, del 17% in Portogallo, del 13,3% in
Irlanda e del 12,2% in Italia mentre, tra il 2008 e il 2013, è scesa del 5,5%
in Germania (Bin, Caretti e Pitruzzella 2015, 322). Craig e de Burca (2015,
381‐382), citando il rapporto della Caritas del 2014 sui costi umani della
crisi europea, sottolineano l’impatto negativo di tale crisi e delle correla‐
te misure di austerità sui diritti di quei settori della popolazione europea
più vulnerabili. Nel contesto della centralità acquisita dalle vicende fi‐
nanziarie (crisi internazionale, politica monetaria, vigilanza sulle finanze
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pubbliche degli Stati membri, tentativi di completare l’unione bancaria),
altri autori evidenziano una sorta di tendenza recessiva delle politiche
europee per il welfare (Leibfried 2015, 289) e l’occupazione, dove il ruolo
guida sembra passare dal policy making alla Corte di giustizia (Rhodes
2015, 305‐317).
Tali effetti possono essere riconducibili anche all’effettiva insussisten‐
za, nell’area euro, di taluni dei requisiti necessari – evidentemente non
solamente dal punto di vista teorico – per un’area valutaria ottimale: la
libertà di circolazione dei lavoratori nell’area euro è stata sancita dai
Trattati ma permangono barriere invisibili quali le differenze linguisti‐
che, formative, professionali, previdenziali che non consentono un im‐
mediato trasferimento dei lavoratori verso aree dove l’economia è in
crescita, come invece avverrebbe più rapidamente all’interno delle re‐
gioni di una stessa Nazione. Inoltre, se sicuramente è massima nell’area
euro la mobilità dei capitali finanziari (non esistono restrizioni normati‐
ve né i costi transazionali che intervengono per il cambio di valuta) di‐
verso è per i capitali non finanziari, macchinari e impianti industriali,
che non si muovono con la stessa velocità e se, in caso di crisi in una re‐
gione, è relativamente facile dismetterli, non altrettanto veloce è trasfe‐
rirli e ripristinarli in uno Stato diverso caratterizzato da un’economia in
crescita (anche perché oggi, in caso di delocalizzazione, è forte per
un’industria la tentazione di trasferirsi fuori dall’area euro). Inoltre, gra‐
zie anche alle conquiste sindacali e al riconoscimento dei diritti fonda‐
mentali, oggi salari e condizioni di lavoro non sono perfettamente elasti‐
ci rispetto alle leggi della domanda e dell’offerta e, quindi, in forza dei
contratti collettivi e delle normative sociali che garantiscono salari mi‐
nimi e orari massimi, in caso di crisi in un settore o in una zona dell’euro
107
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non si può ipotizzare un’immediata riduzione dei salari nominali, tale
da far ripartire l’economia attraverso un incremento di produttività (né è
possibile, per via della moneta unica, puntare su una svalutazione per
aumentare la competitività delle proprie merci). In assenza di altri stru‐
menti strutturali o redistributivi, occorre quindi attendere il lento pro‐
cesso di aggiustamento derivante dalla progressiva riduzione del potere
d’acquisto, un’erosione, cioè, dei salari reali legata ad un aumento dei
prezzi, riduzione che peraltro non si verifica in presenza di deflazione.
Occorre altresì considerare che i cicli economici possono essere
asimmetrici tra i vari Stati dell’eurozona e, quindi, come evidenziano
bene Baldwin e Wyplosz (2015, 359‐361), autori che peraltro non sono
ostili all’euro, una medesima politica monetaria gestita dalla Banca cen‐
trale può rivelarsi vantaggiosa per un’area e dannosa per l’altra. In pre‐
senza di shock asimmetrici – come, ad esempio, nel caso di due Paesi ap‐
partenenti all’unione monetaria, in uno dei quali si verificasse una cadu‐
ta della domanda restando l’altro caratterizzato da una situazione di
bassa disoccupazione e buoni livelli di crescita – una svalutazione del
cambio rispetto alle altre valute internazionali, infatti, rilancerebbe le
esportazioni del Paese in crisi ma genererebbe inflazione nel Paese già in
pieno boom. Resta inoltre da valutare la possibilità di shock simmetrici
con effetti asimmetrici, quali, ad esempio, un’impennata dei prezzi dei
prodotti energetici, che si rifletterebbe in un beneficio per i Paesi produt‐
tori di gas e petrolio (come la Norvegia, che, forse non a caso, non parte‐
cipa né all’euro né all’UE, il Regno Unito, che non partecipa all’euro – e,
forse, non a caso, ha votato per la c.d. Brexit – e i Paesi Bassi) e un effetto
negativo per tutti gli altri dell’eurozona.
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Si giunge così all’individuazione del maggiore limite dell’eurosistema
rispetto ai requisiti teorici e pratici necessari per un’area valutaria otti‐
male: la mancanza di un vero strumento fiscale idoneo a far fronte a
shock asimmetrici, geografici o settoriali, con adeguati interventi struttu‐
rali, redistributivi o di sostegno sociale. Possono essere ritenuti funzio‐
nali a tale scopo il mero coordinamento delle politiche economiche na‐
zionali, i fondi strutturali, i prestiti della BEI o la clausola di solidarietà
di cui all’art. 122 del TFUE?
Quanto a quest’ultimo articolo – che al paragrafo 2 prevede che «Qua‐
lora uno Stato membro si trovi in difficoltà o sia seriamente minacciato da gravi
difficoltà a causa di calamità naturali o di circostanze eccezionali che sfuggono
al suo controllo, il Consiglio, su proposta della Commissione, può concedere a
determinate condizioni un’assistenza finanziaria dell’Unione allo Stato membro
interessato» – nel caso della crisi greca chiaramente non ha funzionato,
tanto che si sono resi necessari strumenti straordinari, non previsti dai
Trattati, quali l’EFSF e l’ESM.
Quanto agli altri strumenti citati, la crescita dei divari sopra descritti,
chiaramente ne denota l’inadeguatezza. Gli strumenti “comunitari” risul‐
tano a tale riguardo palesemente insufficienti – basti pensare ai limiti del
bilancio dell’Unione, pari a circa l’1% del PIL europeo – in quanto i Trat‐
tati prevedono che le politiche fiscali restano di competenza nazionale,
ma il mero coordinamento delle politiche nazionali, come si è visto, non
è idoneo ad assicurare la crescita, l’occupazione e la coesione economica
e sociale, che pure costituiscono obiettivi dell’Unione. Anzi, i vincoli73
Uno studio del Fondo monetario internazionale ha proposto, al fine di conferire
maggiore efficacia al coordinamento delle politiche fiscali, una semplificazione dei vin‐
73
109
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posti alle politiche di bilancio nazionali dal Patto di stabilità e crescita e
dal Fiscal Compact, chiaramente impongono delle politiche pro‐cicliche,
come dimostrato da Baldwin e Wyplosz (2015, 439‐440), che hanno de‐
terminato una crescita del differenziale tra prodotto effettivo e potenzia‐
le (output gap).
In altri termini, i vincoli imposti ai deficit nazionali – peraltro raffor‐
zati dal Fiscal Compact che, come dianzi descritto, ha ridotto allo 0,5% in
rapporto al PIL il limite massimo per i deficit dei bilanci pubblici nazio‐
nali rispetto al più ampio margine del 3% già previsto dal Trattato di
Maastricht – hanno determinato, nei Paesi già caratterizzati dalla caduta
della domanda, una situazione di recessione che, unita alla deflazione,
non ha fatto altro che peggiorare ulteriormente l’indebitamento. Una
situazione simile si verificò in Germania (Fazio 2016a) allorché, sconfitta
nel 1924 l’iperinflazione, l’imperativo posto sulla stabilità condusse ad
una politica deflazionistica talmente prolungata che i disoccupati au‐
mentarono, tra il 1928 e il 1932, da 800mila a 6 milioni (secondo talune
fonti 8 milioni), creando le premesse economiche e sociali per l’avvento
di Hitler.
Il dato di fatto è che, sebbene l’Unione europea ponga in atto delle poli‐
tiche per favorire l’occupazione e la coesione economica e sociale, a fronte
delle misure di sorveglianza macroeconomica preventiva e successiva, che
danno luogo a raccomandazioni rivolte a tutti gli Stati dell’Unione, con
blandi meccanismi sanzionatori e senza strumenti fiscali europei di soste‐
coli previsti nel quadro della governance fiscale europea, rinunciando, tra l’altro, al para‐
metro del deficit in rapporto al PIL sostituendolo eventualmente con regole più stringen‐
di sul rispetto del parametro del debito in rapporto al PIL e sulla crescita della spesa
pubblica. Cfr. Andrle, Bluedorn e altri (2015).
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gno, esiste un ben più rigido e coercitivo meccanismo sanzionatorio corre‐
lato al rispetto dei vincoli di bilancio che si applica per i soli Paesi
dell’eurozona e che impedisce loro di porre in atto delle efficaci politiche
anticicliche. Peraltro, proprio nell’ambito della sorveglianza macroeco‐
nomica, si riscontra un’ulteriore asimmetria data dall’incapacità degli or‐
ganismi europei, Commissione e Consiglio, di sanzionare in qualche mo‐
do i surplus eccessivi delle partite correnti di Germania e Paesi Bassi, che
pure costituiscono degli squilibri macroeconomici che pongono a repen‐
taglio la tenuta dell’euro (Bastasin 2015, 468). In un sistema aperto e con
cambi flessibili, infatti, il surplus commerciale di un Paese determina un
rafforzamento del cambio della sua valuta che tende a scoraggiare le
esportazioni a vantaggio del Paese con deficit commerciale, la cui moneta
si svaluterà, disincentivando le importazioni, che divengono più care, e
favorendo le esportazioni, avviando un processo che tende quindi in mo‐
do naturale verso il punto di riequilibrio. Nell’area euro, invece, il surplus
commerciale di un Paese rafforza la valuta comune sfavorendo le esporta‐
zioni dei Paesi che sono già in deficit commerciale, le cui esportazioni re‐
steranno sfavorite fino all’intervento di decisioni di politica economica
(investimenti nella ricerca, nell’innovazione tecnologica e nelle infrastrut‐
ture,
riforme
strutturali
nei
campi
della
formazione,
dell’ammodernamento della PA e del mercato del lavoro) che ne rilancino
la competitività. Nei Paesi maggiormente in difficoltà dell’area euro, tut‐
tavia, i Fondi strutturali europei esistenti non hanno la forza sufficiente
per imprimere una svolta all’economia; nuovi strumenti non vengono
adottati in quanto si ritiene che la politica economica sia di competenza
nazionale; nei bilanci nazionali non vi sono risorse sufficienti per rilancia‐
re gli investimenti; infine, le riforme raccomandate dalla Commissione
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europea hanno spesso un effetto depressivo sulla domanda interna, in
quanto essenzialmente volte a tagliare la spesa pubblica per ridurre
l’indebitamento. Tende così a cristallizzarsi una frattura (Nomikos, 2012)
tra creditori e debitori permanenti (Marsh, 2016, 41).
Tornando ai principi, bisogna allora chiedersi se il quadro offerto dagli
strumenti vincolanti posti in essere unicamente per l’obiettivo della stabi‐
lità dal Patto di stabilità e crescita e, in particolare, dal Fiscal Compact, sia
coerente con l’architettura istituzionale definita dal Trattato di Lisbona,
che invece proclama nel preambolo l’attaccamento «ai diritti sociali fon‐
damentali quali definiti nella Carta sociale europea firmata a Torino il 18
ottobre 1961 e nella Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei
lavoratori del 1989»; di voler conseguire il rafforzamento e la convergenza
delle economie degli Stati membri e promuovere il progresso economico e
sociale dei loro popoli; che all’art. 3, par. 3, del TUE dichiara di adoperarsi
«per lo sviluppo sostenibile dell’Europa, basato su una crescita economica
equilibrata e sulla stabilità dei prezzi, su un’economia sociale di mercato
fortemente competitiva, che mira alla piena occupazione e al progresso
sociale», di combattere l’esclusione sociale e le discriminazioni e di pro‐
muovere la giustizia e la protezione sociale, nonché la coesione economi‐
ca, sociale e territoriale, e la solidarietà tra gli Stati membri.
In altri termini, sono compatibili le clausole del Fiscal Compact – che
peraltro dispone, all’art. 2, par. 2, citato, che il relativo Trattato si applica
nella misura in cui è compatibile con i Trattati su cui si fonda l’Unione
europea e con il diritto dell’Unione europea – con disposizioni quali:
l’art. 6, par. 1, del TUE, che riconosce i diritti, le libertà e i principi sanciti
nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e le attribuisce
lo stesso valore giuridico dei trattati; il protocollo n. 28 sulla coesione
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economica, sociale e territoriale; l’art. 9 del TFUE che prevede che «Nella
definizione e nell’attuazione delle sue politiche e azioni, l’Unione tiene
conto delle esigenze connesse con la promozione di un elevato livello di
occupazione, la garanzia di un’adeguata protezione sociale, la lotta con‐
tro l’esclusione sociale e un elevato livello di istruzione, formazione e
tutela della salute umana»; l’art. 145 del TFUE, che sancisce che «Gli Sta‐
ti membri e l’Unione, in base al presente titolo, si adoperano per svilup‐
pare una strategia coordinata a favore dell’occupazione, e in particolare
a favore della promozione di una forza lavoro competente, qualificata,
adattabile e di mercati del lavoro in grado di rispondere ai mutamenti
economici, al fine di realizzare gli obiettivi di cui all’articolo 3 del tratta‐
to sull’Unione europea»; l’art. 151 del TFUE, che fissa come obiettivi
dell’Unione e degli Stati membri «la promozione dell’occupazione, il
miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, che consenta la loro
parificazione nel progresso, una protezione sociale adeguata, il dialogo
sociale, lo sviluppo delle risorse umane atto a consentire un livello occu‐
pazionale elevato e duraturo e la lotta contro l’emarginazione»; infine, la
Dichiarazione n. 49 allegata al Trattato che ricorda, tra l’altro, che «gli
Stati membri della Comunità […] RITENGONO che le istituzioni della
Comunità debbano considerare, ai fini dell’applicazione del trattato, lo
sforzo che l’economia italiana dovrà sostenere nei prossimi anni, e
l’opportunità di evitare che insorgano pericolose tensioni, in particolare
per quanto riguarda la bilancia dei pagamenti o il livello
dell’occupazione, tensioni che potrebbero compromettere l’applicazione
del trattato in Italia; RICONOSCONO in particolare che, in caso di ap‐
plicazione degli articoli 109 H e 109 I, si dovrà aver cura che le misure
richieste al governo italiano salvaguardino il compimento del suo pro‐
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gramma di espansione economica e di miglioramento del tenore di vita
della popolazione»?
3.3. I profili politici del rapporto tra la governance economica e il processo
di costruzione istituzionale europea
Dopo aver esaminato alcuni profili giuridici ed economici del rappor‐
to tra il Fiscal Compact e la governance economica, da un lato, e i principi e
i diritti fondamentali che presiedono al quadro istituzionale dell’Unione
europea, dall’altro, occorre soffermarsi su alcuni profili politici.
L’affermazione «se non si passa a mettere in comune alcune scelte
l’Europa è destinata a una disintegrazione politica ed economica» non pro‐
viene dal leader di uno dei Paesi in maggiori difficoltà nell’eurozona bensì
dal Presidente della Commissione affari esteri del Bundestag, Norbert Rött‐
gen (2016), appartenente allo stesso partito della cancelliera Merkel e già
Ministro dell’ambiente. Röttgen (2012), in particolare, evidenzia l’esigenza,
da un lato, di completare l’euro realizzando una vera politica economica e
fiscale comune e, dall’altro, di assicurare che i cittadini siano posti in condi‐
zione di poter votare sulle politiche europee in quanto il conferimento di
sovranità senza legittimazione democratica è inconcepibile.
Perché si parla di disintegrazione? Perché, come spiega Verdun (2015,
306), l’unione economica e monetaria sopravvivrà solo se avrà il suppor‐
to dei cittadini. Ma tale supporto oggi non è molto forte, come si evince
non solamente nei Paesi caratterizzati da problematiche specifiche, come
la Grecia, dove il fronte del no ha vinto con circa il 65% nel referendum
svoltosi nel 2015 sulle condizioni poste dall’Europa, percepite come
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un’umiliazione, o in Gran Bretagna, dove il tradizionale euroscetticismo
ha condotto, nel referendum del 23 giugno 2016, alla vittoria del Brexit,
ancorché tale Paese godesse già di notevoli deroghe, non partecipando
né all’euro né agli accordi di Schengen.
Ciò che forse può risultare ancora più preoccupante è il declino glo‐
bale del consenso nei confronti delle istituzioni europee e del processo di
integrazione, che pervade anche Paesi membri che sono stati toccati me‐
no dalla crisi o caratterizzatisi in passato come alfieri dell’europeismo.
Secondo Eurobarometro (Guerra e McLaren 2015, 354), tra il 1995 e il
2014 l’ottimismo sulla costruzione europea è sceso del 3%, collocandosi
sul filo di lana del 56% dei cittadini, mentre il pessimismo è salito
dell’8% raggiungendo il 38%. In un Paese tradizionalmente europeista
come l’Italia è sceso del 21%, attestandosi al 48%.
I dati statistici sono peraltro confortati dalle fortune dei partiti in qual‐
che modo euroscettici; l’insieme dei partiti antieuro – insieme peraltro
molto articolato, che include formazioni di estrema destra e di estrema
sinistra ma anche di ispirazione moderata – è in crescita ovunque in Eu‐
ropa, nelle elezioni locali, nazionali ed europee e talora rasenta la metà
dell’elettorato anche se spesso non raggiunge un consenso sufficiente per
andare al Governo, come invece è successo in Grecia con Syriza. L’Europa
sembra non essere più vista come fonte di prosperità e opportunità bensì
causa di amara austerità (Wallace, Pollack e Young, 2015, 488).
Se la forza delle spinte emergenziali di carattere economico ha consenti‐
to, sia pure al prezzo di perdere qualche partner per strada, di raggiungere
tante intese, che proprio per la mancanza di unanimità sono state definite
con le regole del diritto internazionale – come gli accordi sull’ESM, sul Fi‐
scal Compact e sull’Unione bancaria – anziché come modifiche o integra‐
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zioni ai Trattati, è mai possibile continuare ad affermare che non sussistono
le condizioni per un’ulteriore revisione del quadro istituzionale complessi‐
vo, che tenda a favorire una maggiore coerenza tra i principi e i diritti fon‐
damentali nominalmente riconosciuti dal Trattato di Lisbona e quei mecca‐
nismi economici e finanziari che sono ormai divenuti la parte pregnante
della vita dell’Unione, ancorché disciplinati da norme che, a rigore, non ap‐
partengono al diritto dell’UE (ESM, Fiscal Compact, Unione bancaria)?
In quale direzione si deve andare per ridare la percezione che
l’Unione europea tuteli meglio il benessere dei cittadini europei rispetto
a uno “splendido isolamento”? Come possono essere modificate le rego‐
le del semestre europeo, quelle del Fiscal Compact, e, più in generale, le
norme che disciplinano i vincoli di bilancio affinché possa essere supera‐
ta la sensazione che tali vincoli – sia pure necessari per assicurare il fun‐
zionamento dell’unione monetaria e contenere la speculazione interna‐
zionale contro i debiti sovrani – senza una qualche revisione impedisco‐
no agli Stati nazionali di tutelare il benessere dei loro cittadini?
Ovviamente occorre ribadire che parte delle responsabilità di tale situa‐
zione di sfiducia nei confronti dell’Europa risiede nella difficoltà dei gover‐
ni nazionali – e, conseguentemente, dei media, tesi più ad evidenziare
l’inefficacia delle istituzioni europee che a offrire un’analisi critica indipen‐
dente delle responsabilità nazionali nella gestione e nella mancata preven‐
zione di taluni fattori di crisi (Picard, 2015, 237‐241) – nell’assumersi la pro‐
pria quota di responsabilità. Come dianzi rilevato, infatti, fermo restando
che i vincoli imposti dal Patto di stabilità (e crescita) possono aver impedito
in taluni casi la posa in atto di adeguate politiche anticongiunturali, non si
può omettere una riflessione sull’inappropriata utilizzazione degli ingenti
risparmi ingenerati negli anni immediatamente successivi all’introduzione
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dell’euro, in ragione del consistente abbattimento dei tassi di interesse gra‐
vanti sul debito dei Paesi maggiormente esposti e della conseguente ridu‐
zione dell’onere per il debito in rapporto al PIL. Inoltre, occorre considerare
che, nel lungo periodo, la scarsa crescita deriva dalla bassa competitività, la
quale, a sua volta, è legata alla bassa produttività che sicuramente avrebbe
richiesto riforme strutturali (come investimenti tecnologici, potenziamento
delle infrastrutture, lotta alla corruzione, ammodernamento della Pubblica
amministrazione) più incisive di quelle realizzate. Anche da tali omissioni è
derivata l’attribuzione all’Europa, da parte dell’opinione pubblica, di tutte
le difficoltà economiche del presente.
Ancora più difficile appare, in questo quadro politico e informativo,
spiegare all’opinione pubblica la distinzione tra l’uscita dall’euro, e i suoi
possibili effetti nefasti, e la correzione delle distorsioni determinate
dall’attuale impostazione della governance economica europea e dal Fiscal
Compact. Tra le distorsioni meritevoli di correzione, pena la disintegrazio‐
ne dell’euro, si ricorda la presenza di strumenti asimmetrici, che privile‐
giano la stabilità rispetto a principi a essa formalmente equiordinati nei
Trattati – ma sostanzialmente subordinati nell’azione dell’Unione – quali
la solidarietà, la crescita, la coesione economica e sociale e l’occupazione;
più in dettaglio, si evidenziano l’assenza di strumenti di politica economi‐
ca per interventi anticiclici e redistributivi e l’inadeguato coinvolgimento
dei Parlamenti nazionali e del Parlamento europeo e, più in generale, dei
cittadini, nelle decisioni inerenti la governance economica europea. La cre‐
dibilità dell’Unione, poi, è ulteriormente minata, oltre che dall’incapacità
strutturale della sua politica economica e monetaria di combattere la crisi,
dagli effetti collaterali della crisi sulle altre politiche: come la crescente
riluttanza ad affrontare congiuntamente le politiche di asilo e immigra‐
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zione, significata anche dai sempre più frequenti casi di sospensione par‐
ziale degli accordi di Schengen sulla semplificazione dei controlli alle
frontiere interne; la rimessa in discussione della politica sugli aiuti di Sta‐
to; una crescente riluttanza a rafforzare gli standard di protezione ambien‐
tale; la riduzione dell’attenzione e delle risorse per la politica di coesione
economica, sociale e territoriale, per la cooperazione internazionale, per la
politica estera e di sicurezza e per la politica agricola (Wallace, Pollack e
Young 2015, 486‐487).
3.4. Integrazione, riforma o superamento del Fiscal Compact e dell’attuale
governance europea?
Non possono che essere letti come dei correttivi della governance eco‐
nomica quegli strumenti straordinari apparsi dopo le ultime elezioni del
Parlamento europeo e la nomina del nuovo Presidente della Commis‐
sione, Claude Juncker, quali il Piano di investimenti per l’Europa, lancia‐
to dalla Commissione stessa nel 2014, e il Quantitative Easing della BCE,
che hanno sostanzialmente integrato gli strumenti ordinari della politica
economica e monetaria dell’Unione.
Il Piano di investimenti per l’Europa, noto anche come “Piano Junc‐
ker”, mira a mobilitare almeno 315 miliardi di euro di investimenti pub‐
blici e privati nell’arco di tre anni al fine di incentivare gli investimenti,
aumentare la competitività e sostenere la crescita economica a lungo ter‐
mine nell’UE. Il piano è stato proposto dalla Commissione europea con la
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comunicazione presentata il 26 novembre 201474. Esso mira a conseguire
tre obiettivi strategici correlati: invertire la tendenza al calo degli investi‐
menti – pari al 15%, in media, dal 200775 – e contribuire al rilancio della
creazione di posti di lavoro e della ripresa economica, senza gravare sulle
finanze pubbliche; compiere un passo decisivo verso il soddisfacimento
dei bisogni a lungo termine dell’economia europea migliorandone la
competitività; rafforzare la dimensione europea del capitale umano, della
capacità produttiva, delle conoscenze e delle infrastrutture fisiche, con
particolare attenzione alle interconnessioni vitali per il mercato unico. A
tal fine veniva prevista la creazione di un nuovo Fondo europeo per gli
investimenti strategici (FEIS), dotato 21 miliardi di euro iniziali (16 a cari‐
co della Commissione e 5 della BEI) destinati a fornire la garanzia per i
progetti più rischiosi e suscettibili così, secondo le stime della Commis‐
sione, di generare un effetto moltiplicatore di circa 15 volte grazie
all’attrazione di investitori privati e di mobilitare, pertanto, risorse per 315
miliardi di euro, di cui circa un quarto destinati al finanziamento di PMI e
imprese a media capitalizzazione e il resto al finanziamento di investi‐
menti strategici a lungo termine in settori quali le infrastrutture, l’energia,
la ricerca e l’innovazione, la banda larga e l’istruzione.
Altre misure indicate nel Piano di investimenti per l’Europa riguar‐
dano un alleggerimento dei vincoli agli aiuti di Stato per gli investimenti
Cfr. Commissione europea, Un piano di investimenti per l’Europa, 26 novembre 2014, in
http://eur‐lex.europa.eu/legal‐content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:52014DC0903&from=EN
(consultato il 19 giugno 2016).
75 Con un picco in Italia (‐25%), Portogallo (‐36%), Spagna (‐38%), Irlanda (‐39%) e
Grecia (‐64%), cfr. Comunicazione della Commissione europea, Un piano di investimenti
per l’Europa, cit., p. 4.
74
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realizzati grazie alle risorse del suddetto Fondo, un migliore coordina‐
mento dei Fondi strutturali e degli altri fondi europei – per i quali risul‐
tano disponibili, secondo la suddetta comunicazione della Commissione,
450 miliardi di euro tra il 2014 e il 2020, destinati a raggiungere 630 mi‐
liardi di euro con i cofinanziamenti nazionali – nonché strumenti tecnici,
quali forme di assistenza e consulenza offerte dalle istituzioni europee
per migliorare la selezione dei progetti più validi, una semplificazione
della regolamentazione e l’adozione di norme volte a migliorare
l’accesso ai mercati dei capitali.
La proposta lanciata dalla Commissione è stata approvata dal Consi‐
glio europeo nella riunione del 18 dicembre 201476 e il 25 giugno 2015 è
stato approvato il regolamento (UE)77, relativo FEIS, al polo europeo di
consulenza sugli investimenti e al portale dei progetti di investimento eu‐
ropei, mentre una comunicazione della Commissione europea del 13 gen‐
naio 2015, sull’applicazione delle clausole di flessibilità del Patto di stabili‐
tà e crescita agli investimenti78, aveva precisato che i contributi nazionali
Cfr. Conclusioni del Consiglio europeo, Bruxelles, 18 dicembre 2014, in
http://data.consilium.europa.eu/doc/document/ST‐237‐2014‐INIT/it/pdf (consultato il 19
giugno 2016).
77
Cfr. Regolamento (UE) 2015/1017 del 25 giugno 2015, in http://eur‐
lex.europa.eu/legal‐content/it/TXT/PDF/?uri=CELEX:32015R1017&from=EN (consultato
il 19 giugno 2016).
78 Cfr. Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, alla
Banca centrale europea, al Comitato economico e sociale europeo, al Comitato delle re‐
gioni e alla Banca europea per gli investimenti, Sfruttare al meglio la flessibilità consentita
dalle norme vigenti del patto di stabilità e crescita, Strasburgo, 13.1.2015, in http://eur‐
lex.europa.eu/legal‐content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:52015DC0012&from=IT (consultato
il 19 giugno 2016).
76
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al FEIS non rilevano ai fini delle procedure per disavanzo e/o debito ec‐
cessivo, nonché precisava che ai cofinanziamenti nazionali di progetti fi‐
nanziati dal suddetto Fondo possono essere applicate deroghe solamente
a determinate condizioni, tra cui una crescita del PIL al di sotto del suo
potenziale e una deviazione dagli obiettivi di medio termine comunque
contenuta entro il deficit complessivo del 3% in rapporto al PIL.
Rileva Basso (2016) come, a circa un anno dal lancio del nuovo Fondo,
l’Italia risulti «in testa alla classifica dei Paesi beneficiari stilata dalla
Commissione Ue, con 1,7 miliardi di investimenti attivati attraverso 29
progetti, tra accordi di finanziamento a Pmi […] e piani di infrastrutture
(1,4 miliardi). Le aspettative sono per 12 miliardi di risorse messe in mo‐
to con l’“effetto leva” e per la creazione di oltre 3.200 nuovi posti di la‐
voro». Il punto è se tutto questo sia sufficiente, oltre che sicuramente uti‐
le, per far ripartire la crescita e l’occupazione e sviluppare la fiducia nei
confronti dell’Unione europea. Evidentemente l’intervento del nuovo
Fondo non risulta o, almeno, non viene percepito come adeguato per far
ripartire l’economia europea e per una ripresa della fiducia – come si
evince peraltro dall’esito del referendum sulla “Brexit” svoltosi il 23 giu‐
gno 2016 – perché, tra l’altro, non si sono ancora visti i 315 miliardi di
euro di investimenti ulteriori mobilitati dai 21 miliardi di effettiva dota‐
zione iniziale del Fondo e perché non saranno i 3.200 nuovi posti di la‐
voro di cui si stima la creazione in Italia a incidere sulla disoccupazione,
che resta ferma all’11,6 per cento79.
Come si evince dalla comunicazione dell’ISTAT in data maggio 2016, «la stima dei
disoccupati ad aprile sale dell’1,7% (+50 mila), tornando al livello di febbraio. L’aumento
è attribuibile alle donne (+4,2%), mentre si registra un lieve calo per gli uomini (‐0,4%). Il
79
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Ben più consistenti sono state invece le risorse mobilitate dalla BCE,
dato il persistere di condizioni di stagnazione, volte a iniettare liquidità
netta nel circuito economico, e non più sterilizzata80, come nel caso del
programma relativo alle OMT citate. È stato infatti varato, con l’annuncio
dato dal Presidente della BCE, Mario Draghi il 22 gennaio 201581, un pro‐
gramma ampliato di acquisto di attività, cosiddetto Quantitative Easing
(QE). Il QE consiste in acquisti sul mercato secondario delle obbligazioni
emesse da amministrazioni centrali dei Paesi dell’area dell’euro, agenzie
situate nell’area dell’euro e istituzioni europee. Secondo le intenzioni gli
acquisti mensili dovevano ammontare, nell’insieme, a 60 miliardi di euro
e dovevano proseguire fino a settembre 2016 per l’assolvimento del man‐
dato della stabilità dei prezzi, allo scopo di far fronte ai rischi derivanti da
un periodo troppo prolungato di bassa inflazione, rendendo meno costoso
l’accesso al finanziamento da parte di imprese e famiglie. Ciò – afferma la
stessa BCE – «sostiene tendenzialmente gli investimenti e i consumi e contri‐
buisce, in ultima analisi, a un ritorno dei tassi di inflazione verso il 2%». Gli ac‐
quisti di titoli del debito pubblico sarebbero avvenuti sul mercato secon‐
dario in conformità con l’art. 123, par. 1, che vieta l’acquisto diretto presso
tasso di disoccupazione è pari all’11,7%, in aumento di 0,1 punti percentuali su marzo».
In http://www.istat.it/it/archivio/186689 (consultato il 19 giugno 2016).
80 Si ricorda che il programma OMT, sopra descritto, prevedeva, a determinate con‐
dizioni, l’acquisto da parte della BCE di titoli pubblici “sterilizzando” la liquidità così
immessa nel sistema economico attraverso adeguate operazioni finanziarie compensati‐
ve, volte a mantenere la base monetaria invariata.
81 Cfr. BCE, Comunicato Stampa, La BCE annuncia un programma ampliato di acquisto di
attività, 22 gennaio 2015; il testo del comunicato si può leggere all’indirizzo
https://www.ecb.europa.eu/press/pr/date/2015/html/pr150122_1.it.html (consultato il 19
giugno 2016).
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enti pubblici europei o nazionali di titoli di debito da parte della Banca
centrale europea o delle Banche centrali nazionali.
Il 3 dicembre 201582 il Consiglio direttivo della BCE ha deciso un pro‐
lungamento del programma straordinario di acquisto di attività fino a
marzo 2017 e oltre, se necessario, estendendolo anche all’acquisto di tito‐
li del debito pubblico di enti locali e regionali. Lo stesso Board, il 10
marzo 201683, ha deciso, peraltro a maggioranza, di ampliare gli acquisti
mensili nel quadro del programma di acquisto di attività portandoli dai
correnti 60 miliardi a 80 miliardi di euro. Secondo le intenzioni, tali ac‐
quisti saranno condotti sino alla fine di marzo 2017, o anche oltre se ne‐
cessario, e in ogni caso finché non si riscontrerà un aggiustamento dure‐
vole dell’evoluzione dei prezzi, coerente con l’obiettivo di conseguire
tassi di inflazione inferiori ma prossimi al 2% nel medio termine.
Nonostante gli interventi a sostegno degli investimenti disposti col
Piano Juncker e gli interventi straordinari di politica monetaria disposti
dalla BCE con il QE, già l’Euro Summit del 24 ottobre 2014 aveva esami‐
nato la situazione economica e occupazionale nella zona euro conve‐
nendo che, per assicurare il corretto funzionamento dell’Unione econo‐
mica e monetaria, fosse essenziale un coordinamento più stretto delle
Cfr. Mario Draghi, President of the ECB, Vítor Constâncio, Vice‐President of the
ECB, Introductory statement to the press conference, Frankfurt am Main, 3 December 2015, in
https://www.ecb.europa.eu/press/pressconf/2015/html/is151203.en.html (consultato il 19
giugno 2016).
83 Cfr. Mario Draghi, President of the ECB, Vítor Constâncio, Vice‐President of the
ECB, Introductory statement to the press conference, Frankfurt am Main, 10 March 2016, in
https://www.ecb.europa.eu/press/pressconf/2016/html/is160310.en.html (consultato il 19
giugno 2016). Nella trascrizione del dibattito coi giornalisti presenti alla conferenza
stampa si evince che la decisione è stata adottata a maggioranza e non all’unanimità.
82
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politiche economiche nella zona euro. Più esplicitamente, a conclusione
della riunione preparatoria del Vertice svoltasi il 13 ottobre precedente,
il Presidente dell’eurogruppo, Jeroen Dijsselbloem, aveva dichiarato84
«There was broad consensus among Ministers that the current situation
is, however, not satisfactory and requires strong policy actions from
Governments, notably a credible mix of structural reforms, fiscal policy
and investments by Member States». L’Euro Summit, a tale riguardo, ha
chiesto di proseguire, in stretta collaborazione con la Commissione, i
lavori intesi a sviluppare meccanismi concreti per un coordinamento,
una convergenza e una solidarietà più stringenti tra le politiche econo‐
miche e ha invitato il Presidente della Commissione, in stretta collabora‐
zione con il Presidente del Vertice euro, il Presidente dell’Eurogruppo e
il Presidente della Banca centrale europea, a predisporre le prossime mi‐
sure volte a migliorare la governance economica nella zona euro.
Ai lavori del suddetto gruppo è stato associato anche il Presidente del
Parlamento europeo e il 22 giugno 2015 è stato così presentato il cosiddetto
Rapporto dei cinque Presidenti su “Completare l’Unione economica e monetaria
dell’Europa”85. Tale documento si basa sulla relazione “Verso un’autentica
Unione economica e monetaria” (la cosiddetta “relazione dei quattro presi‐
Cfr. Remarks by Jeroen Dijsselbloem at the press conference following the Eu‐
rogroup
meeting
of
13
October
2014,
in
http://www.consilium.europa.eu/it/meetings/eurogroup/2014/10/13/ (consultato il 19
giugno 2016).
85 Cfr. European Commission, Completing Europe’s Economic and Monetary Union, Report
by: Jean‐Claude Juncker in close cooperation with Donald Tusk, Jeroen Dijsselbloem, Mar‐
io Draghi and Martin Schulz, 22 June 2015, in http://ec.europa.eu/priorities/sites/beta‐
political/files/5‐presidents‐report_en.pdf (consultato il 19 giugno 2016).
84
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denti”)86 e sul “Piano per un’Unione economica e monetaria autentica e ap‐
profondita” della Commissione87, entrambi del 2012. Esso si ripropone il
conseguimento di progressi su quattro fronti con riferimento, rispettiva‐
mente: all’unione economica, dove riscontra l’esigenza di concentrarsi su
convergenza, prosperità e coesione sociale; all’unione finanziaria, per la
quale occorre completare l’unione bancaria e varare l’unione dei mercati dei
capitali; all’unione di bilancio, in relazione alla quale si auspica di riuscire a
garantire politiche di bilancio solide e integrate; al controllo democratico, in
ordine al quale si ravvisa l’esigenza di rafforzare la legittimità e il quadro
istituzionale rivedendo la costruzione politica dell’UEM.
La relazione dei cinque Presidenti si ripropone inoltre di perseguire i
suddetti obiettivi in due fasi. La prima, da completare entro il 30 giugno
2017, dovrebbe riguardare le misure adottabili con il quadro istituzionale
vigente: la creazione di un sistema di autorità per la competitività
nell’eurozona, maggiore concentrazione su occupazione, performance sociale
e squilibri macroeconomici; più coordinamento delle politiche economiche
nazionali nel quadro del semestre europeo; completamento dell’unione
bancaria con il finanziamento del meccanismo di risoluzione unico, la crea‐
Herman Van Rompuy, President of the European Council In close collaboration
with: José Manuel Barroso, President of the European Commission Jean‐Claude Juncker,
President of the Eurogroup Mario Draghi, President of the European Central Bank, To‐
wards a genuine Economic and Monetary Union, 5 December 2012, in
http://www.consilium.europa.eu/uedocs/cms_Data/docs/pressdata/en/ec/134069.pdf
(consultato il 19 giugno 2016).
87 Communication from the Commission, A blueprint for a deep and genuine economic
and monetary union. Launching a European Debate, Brussels, 30.11.2012; il testo in inglese
può
essere
letto
all’indirizzo
http://ec.europa.eu/archives/commission_2010‐
2014/president/news/archives/2012/11/pdf/blueprint_en.pdf (consultato il 19 giugno 2016).
86
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zione di un sistema comune di garanzia dei depositi, il varo del mercato
unico dei capitali e il potenziamento del Comitato per il rischio sistemico; la
creazione di un Comitato consultivo europeo per le finanze pubbliche che
dovrebbe assicurare il raccordo con i Fiscal Council nazionali e assistere la
Commissione nella valutazione dei bilanci nazionali; un’intensificazione del
coinvolgimento, della consultazione e della cooperazione con il Parlamento
europeo e i Parlamenti nazionali. Nella prima fase dovrebbe inoltre essere
rafforzata la rappresentanza esterna unica dell’eurozona e dovrebbe essere
avviata l’integrazione delle norme del Fiscal Compact, del Fondo di risolu‐
zione unico e del Patto Euro Plus nel diritto dell’UE.
Nella seconda fase, da completare entro il 2025, dovrebbero essere raf‐
forzati i vincoli del processo di convergenza, si dovrebbe creare una fun‐
zione di stabilizzazione macroeconomica per l’area euro, si dovrebbe inte‐
grare l’ESM nel diritto dell’UE ed istituire una tesoreria unica della zona
euro anche per rafforzare il controllo democratico nel quadro dell’UEM88.
In attuazione delle indicazioni enunciate nella Relazione dei cinque
Presidenti, la Commissione europea, tra luglio e ottobre del 2015, ha
presentato un “pacchetto di misure”, riepilogato nella comunicazione
Sulle tappe verso il completamento dell’Unione economica e monetaria89, del 21
ottobre 2015, che comprende l’istituzione di un Comitato consultivo in‐
Per una valutazione analitica dell’impatto delle proposte dei cinque Presidenti sul
semestre europeo cfr. Zuleeg (2015).
89 Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio e alla Ban‐
ca centrale europea sulle tappe verso il completamento dell’Unione economica e moneta‐
ria,
Bruxelles,
21
ottobre
2015,
in
http://eur‐lex.europa.eu/legal‐
content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:52015DC0600&from=EN (consultato il 19 giugno 2016).
88
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dipendente europeo per le finanze pubbliche90, che, ai sensi dell’art. 1,
collabora con i consigli nazionali per le finanze pubbliche previsti dalla
citata direttiva 2011/85/UE, un progetto di Raccomandazione del Consi‐
glio sull’istituzione di comitati nazionali per la competitività nella zona
euro91, una proposta di decisione del Consiglio che stabilisce talune mi‐
sure volte alla progressiva introduzione di una rappresentanza unificata
della zona euro nel Fondo monetario internazionale92, nonché una co‐
municazione recante una tabella di marcia verso una rappresentanza
esterna più coerente della zona euro nei consessi internazionali93. Il pac‐
chetto contempla inoltre un approccio rinnovato al semestre europeo,
Decisione (UE) 2015/1937 della Commissione del 21 ottobre 2015 che istituisce un
Comitato consultivo indipendente europeo per le finanze pubbliche, in http://eur‐
lex.europa.eu/legal‐content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:32015D1937&from=EN (consultato
il 19 giugno 2016).
91
Commissione europea, Raccomandazione di Raccomandazione del Consiglio
sull’istituzione di comitati nazionali per la competitività nella zona euro, Bruxelles, 21 ottobre
2015; il testo in inglese si legge all’indirizzo http://eur‐lex.europa.eu/legal‐
content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:52015DC0601&from=EN (consultato il 19 giugno 2016).
Non si tratta di un errore: il documento si intitola effettivamente «Raccomandazione di
Raccomandazione» (N.d.R.).
92 Commissione europea, proposta di decisione del Consiglio che stabilisce talune misure
volte alla progressiva introduzione di una rappresentanza unificata della zona euro nel Fondo
monetario internazionale, Bruxelles, 21 ottobre 2015, in http://eur‐lex.europa.eu/legal‐
content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:52015PC0603&from=EN (consultato il 19 giugno 2016).
93 Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio e alla Ban‐
ca centrale europea, Una tabella di marcia verso una rappresentanza esterna più coerente della
zona euro nei consessi internazionali, Bruxelles, 21 ottobre 2015, in http://eur‐
lex.europa.eu/legal‐content/IT/TXT/PDF /?uri=CELEX:52015DC0602&from=EN (consul‐
tato il 19 giugno 2016).
90
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Sa g g i
che prevede, tra l’altro, il rafforzamento del dialogo democratico e
l’ulteriore miglioramento della governance economica, e specifica le tappe
verso il completamento dell’Unione bancaria, tra cui in particolare un
sistema europeo di garanzia dei depositi e misure volte a ridurre ulte‐
riormente il rischio nel sistema bancario.
Sulle modifiche alla governance economica e il completamento della
unione economica e monetaria è intervenuto più volte il Parlamento euro‐
peo (PE) sottolineando, in generale, l’esigenza di incorporare i meccanismi
già creati, come l’ESM e l’ESFS, e quelli prefigurati – quali il ventilato mec‐
canismo finanziario di supporto alle politiche di convergenza – nel quadro
del diritto dell’UE. Ciò non solo al fine di assicurare una maggiore coerenza
istituzionale della governance europea ma anche al fine più specifico di ga‐
rantirne una maggiore legittimità democratica, essendo assicurato nella
cornice dell’Unione europea un effettivo coinvolgimento del Parlamento
europeo attraverso le forme di controllo degli organi esecutivi previste dai
Trattati e, soprattutto, mediante l’applicazione della codecisione, la cosid‐
detta procedura legislativa ordinaria di cui agli articoli 289 e 294 del TFUE.
Più in dettaglio, il PE, nella risoluzione del 12 giugno 201394, esprime‐
va preoccupazione per il fatto che la questione della responsabilità de‐
mocratica all’interno dell’UEM non fosse stata finora adeguatamente
affrontata, ribadiva di ritenere inaccettabile l’introduzione di ulteriori
meccanismi intergovernativi nell’ambito dell’UEM e sottolineava
l’esigenza di assicurare un pieno controllo del Parlamento al momento
Cfr. Risoluzione del Parlamento europeo del 12 giugno 2013 sul rafforzamento del‐
la democrazia europea nell’ambito dell’Unione economica e monetaria (UEM), in
http://www.europarl.europa.eu/sides/getDoc.do?type=TA&reference=P7‐TA‐2013‐
0269&language=IT (consultato il 19 giugno 2016).
94
128
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Sa g g i
dell’introduzione di nuove competenze o istituzioni correlate all’UEM.
La risoluzione del 12 dicembre 201395 rilevava che, per essere efficace,
legittima e democratica, la governance dell’UEM deve essere basata sul
quadro istituzionale e giuridico dell’Unione, sollecitava un aumento del‐
le competenze dell’Unione nel campo della politica economica con un
rafforzamento delle sue capacità di bilancio e creando una vera capacità
fiscale autonoma dell’UEM, evidenziava l’esigenza di un equilibrio tra
politica economica e politica occupazionale, sottolineava come la proce‐
dura della cooperazione rafforzata, con un pieno coinvolgimento del
Parlamento, fosse preferibile a quella finora perseguita di accordi inter‐
nazionali esterni alla cornice del diritto dell’UE e chiedeva un pieno
coinvolgimento del PE nell’approvazione della nomina del Presidente e
degli altri componenti del Comitato esecutivo della BCE.
Nella risoluzione del 24 giugno 201596, votata da un Parlamento in cui,
nel frattempo, erano cambiati gli equilibri a seguito delle elezioni del 2014,
risultavano usati toni meno critici nei confronti della governance europea
di quanto non avvenisse nella precedente legislatura, riconoscendo espli‐
citamente che il Patto di stabilità e crescita «permette agli Stati membri di
attuare all’occorrenza una politica anticiclica e lascia loro un margine di
Risoluzione del Parlamento europeo del 12 dicembre 2013 sui problemi costituzio‐
nali
di
una
governance
a
più
livelli
nell’Unione
europea,
in
http://www.europarl.europa.eu/sides/getDoc.do?pubRef=‐//EP//TEXT+TA+P7‐TA‐2013‐
0598+0+DOC+XML+V0//IT#def_1_10 (consultato il 19 giugno 2016).
96 Risoluzione del Parlamento europeo del 24 giugno 2015 sulla verifica del quadro di
governance economica: bilancio e sfide; il testo si può leggere all’indirizzo
http://www.europarl.europa.eu/sides/getDoc.do?pubRef=‐//EP//NONSGML+TA+P8‐TA‐
2015‐0238+0+DOC+PDF+V0//IT (consultato il 19 giugno 2016).
95
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manovra sufficiente in termini di bilancio affinché gli stabilizzatori auto‐
matici funzionino a dovere nel caso della creazione di nuove istituzioni»,
rilevando tuttavia l’importanza di procedure semplici e trasparenti in ma‐
teria di governance economica, nonché che «la complessità dell’attuale
quadro e le carenze in materia di attuazione e titolarità vanno a discapito
della sua efficacia e dell’accettazione da parte dei parlamenti nazionali,
delle autorità locali, delle parti sociali e dei cittadini degli Stati membri».
Il PE, tuttavia, oltre a un’esigenza di semplificazione del quadro
normativo applicabile alla governance economica, rilevava la necessità di
«rafforzare la legittimità a livello europeo adottando orientamenti sulla
convergenza recanti priorità mirate per l’anno a venire, nel quadro di
una procedura di codecisione che dovrebbe essere introdotta in occasio‐
ne della prossima modifica del trattato», nonché ribadiva l’esigenza di
integrare i Trattati sull’ESM e sul Fiscal Compact nel quadro comunitario,
sottoponendoli quindi alle competenze del Parlamento, ritenendo la sti‐
pula di accordi extra UE una vera e propria regressione nel processo di
integrazione europea.
La “tregua” nei toni usati dal PE nei confronti della governance euro‐
pea con la risoluzione di giugno veniva rotta, in qualche modo, dai toni
molto più forti utilizzati nella risoluzione del 17 dicembre 201597, nella
quale si «deplora» che il citato pacchetto di misure presentato dalla
Commissione in attuazione della Relazione dei cinque Presidenti «non
lasci abbastanza spazio per il controllo parlamentare e il dibattito a livel‐
Risoluzione del Parlamento europeo del 17 dicembre 2015 sul completamento
dell’Unione economica e monetaria dell’Europa; il testo si può leggere all’indirizzo
http://www.europarl.europa.eu/sides/getDoc.do?pubRef=‐//EP//NONSGML+TA+P8‐TA‐
2015‐0469+0+DOC+PDF+V0//IT (consultato il 19 giugno 2016).
97
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lo europeo che sono necessari per garantire la responsabilità democrati‐
ca delle decisioni adottate nel quadro dell’UEM e, di conseguenza, per
garantire la titolarità dei cittadini in merito alla governance della zona
euro» e sollecita la definizione di un accordo interistituzionale in materia
di governance economica europea che garantisca, nel quadro dei Trattati,
che la struttura del Semestre europeo preveda un idoneo e periodico
controllo parlamentare del processo, soprattutto per quanto riguarda le
raccomandazioni relative alla zona euro. La risoluzione deplora inoltre
che la Commissione abbia scelto di non ricorrere alla procedura legisla‐
tiva ordinaria per le decisioni riguardanti i comitati nazionali per la
competitività e sottolinea che il Comitato europeo per le finanze pubbli‐
che, in quanto comitato consultivo della Commissione, dovrebbe ri‐
spondere al Parlamento.
Taluni autori, ancora più esplicitamente del PE, ravvisano nel documen‐
to dei cinque Presidenti un’occasione mancata (Saccomanni, 2015) perché
non affronta la questione centrale dell’istituzione di una politica fiscale an‐
ticiclica per l’eurozona mentre si continua a parlare di “rafforzamento della
cooperazione” che costituisce un mero monitoraggio della conformità delle
politiche di bilancio nazionali con le regole del Fiscal Compact. Inoltre, si
rinvia a un lungo termine non meglio definito la creazione di uno strumen‐
to di stabilizzazione macroeconomica, cosicché un maggior grado di con‐
vergenza tra gli Stati membri, anziché essere assecondato, diverrà una pre‐
condizione rispetto al suddetto meccanismo. Si accenna poi a un possibile
uso del FEIS in funzione anticiclica ma non si affronta la questione di un
potenziamento delle risorse proprie dell’Unione a tal fine, né emerge la
possibilità di indirizzare la procedura sugli squilibri macroeconomici per
fini diversi dal monitoraggio delle riforme strutturali e dei piani di riduzio‐
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ne del debito, quale la correzione degli squilibri della bilancia dei pagamen‐
ti.
Gli analisti, peraltro, su tali osservazioni non sono unanimi; taluni altri,
infatti, prendendo atto della difficoltà di procedere ad una revisione dei
Trattati, ritengono soddisfacente il controllo parlamentare esercitato attra‐
verso la Conferenza interparlamentare di cui all’art. 13 del TSCG e gli attua‐
li poteri del Parlamento europeo, eventualmente da rafforzare attraverso
meri accordi interistituzionali (Tosato 2016), accordi che, tuttavia, non sem‐
bra possano andare oltre un miglioramento dello scambio di informazioni,
senza incidere significativamente sulle competenze decisionali. Si tratta
evidentemente di un approccio pragmatico ben distante da chi, al contrario,
sottolinea l’esigenza di una revisione profonda della governance, superando
il dualismo tra una politica monetaria fortemente accentrata a livello euro‐
peo e una politica fiscale che resta formalmente di competenza nazionale
bensì giungendo alla definizione di un modello sociale europeo (Picchi
2014, 82).
Un comunicato molto critico del Consiglio italiano del Movimento
europeo, del 23 giugno 201598, sulla Relazione dei cinque Presidenti, ol‐
Consiglio Italiano del Movimento Europeo, Nota preliminare del Movimento europeo
in Italia sulla Relazione “Completare l’unione economica e monetaria dell’Unione europea”
all’ODG del Consiglio europeo del 25 giugno 2015, 23 giugno 2015, in
http://www.movimentoeuropeo.eu/images/Nota_preliminare_CIME_sulla_relazione_de
i_5_Presidenti.pdf (consultato il 19 giugno 2016). Si ricorda che il Consiglio Italiano del
Movimento Europeo (CIME) è espressione di partiti, sindacati e associazioni impegnati
in Italia e in Europa per il conseguimento dell’unità europea, intesa secondo il messaggio
di Ventotene che ispirò la resistenza e quale federazione fra tutti gli Stati Europei a regi‐
me democratico che possano e vogliano aderirvi in piena parità di diritti e di doveri. Cfr.
http://www.movimentoeuropeo.eu/ (consultato il 19 giugno 2016).
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tre a criticare le caratteristiche dello strumento di stabilizzazione ivi con‐
templato (in quanto interverrebbe solo dopo aver ottenuto un conside‐
revole grado di convergenza economica e sarebbe comunque slegato da
un bilancio comune di cui invece necessiterebbe l’eurozona), evidenzia
la genericità dei riferimenti al controllo democratico non essendo state
avanzate proposte specifiche sul rafforzamento dei poteri del Parlamen‐
to europeo e dei Parlamenti nazionali, come la codecisione, ad esempio,
sui grandi orientamenti di politica economica.
Non sembrano far fronte completamente ai suddetti rilievi neanche le
proposte avanzate dal Governo italiano, quale contributo99 alla discus‐
sione sul documento dei cinque Presidenti. Esse, infatti, pur entrando
più nel dettaglio di quanto non faccia la Relazione dei cinque Presidenti
nel merito del funzionamento dell’istituendo meccanismo di stabilizza‐
zione e con funzioni anticicliche, che si propone di finanziare con risorse
proprie, e pur prefigurando altri strumenti volti a rafforzare la percezio‐
ne di un’Europa più attenta ai bisogni dei cittadini, come l’istituzione di
un regime comune di sicurezza sociale contro la disoccupazione e
l’introduzione di bond europei100, si limitano a evocare il tema della su‐
pervisione parlamentare sulle decisioni di politica economica senza pre‐
cisare tuttavia come dovrebbero essere rafforzati, nel concreto, i poteri
parlamentari.
Contributions from the Sherpas of the Member States to the Five Presidents’ Report
https://ec.europa.eu/priorities/sites/beta‐
–
Italy
2,
May
2015,
in
political/files/italy_contribution_2_en.pdf (consultato il 19 giugno 2016).
100 Contributions from the Sherpas of the Member States to the Five Presidents’ Re‐
https://ec.europa.eu/priorities/sites/beta‐
port
–
Italy
1,
May
2015,
in
political/files/italy_contribution_1_en.pdf (consultato il 19 giugno 2016).
99
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A fronte della timidezza delle proposte di riforma del Fiscal Compact e
della governance economica europea, tendono a rafforzarsi forme di sfi‐
ducia – se non anche di risentimento – da parte dell’opinione pubblica
nei confronti dell’euro e dell’UE, come dimostra anche l’esito del referen‐
dum sull’uscita del Regno Unito svoltosi il 23 giugno 2016.
In questo clima prosperano ipotesi più radicali rispetto a quella di
una revisione del Fiscal Compact o dell’attuale quadro istituzionale della
governance, quale l’uscita dall’euro (Barra Caracciolo 2013, 280) o
dall’Unione europea.
Tra le prime figura la proposta di Giuseppe Guarino (2014, 94,115) di
creare una valuta dei Paesi mediterranei dell’Unione europea101 ovvero
quella di creare due euro, uno del Nord e l’altro del Sud Europa (Garne‐
ro e Marcolin, 2011, 30) mentre, secondo il giornale britannico The Tele‐
graph (Akkoc, 2016), in un ipotetico referendum per una “Brexit italiana”
più del 50 per cento degli Italiani voterebbero per l’uscita dall’UE e al‐
cune forze politiche si preparano a raccogliere le firme per una legge
d’iniziativa popolare volta a modificare l’art. 75 della Costituzione al
fine di rendere possibile in Italia un referendum analogo a quello inglese
(Solimene, 2016).
Cui si aggiungono le proposte per la creazione di forme di coordinamento tra i
Paesi mediterranei dell’UE, come la convocazione di una Conferenza delle Commissioni
parlamentari per gli affari europei dei Paesi mediterranei, che si è tenuta a Nicosia nel
gennaio del 2014 (Esposito 2014, 177), in vista delle consuete riunioni annuali della Con‐
ferenza degli organismi specializzati negli affari comunitari dei Parlamenti dell’UE (CO‐
SAC), l’organismo nato fin dal 1989 e che ha anticipato il modello per la Conferenza in‐
terparlamentare prevista dall’art. 13 del Trattato sul Fiscal Compact. Cfr.
http://www.cosac.eu/about/ (consultato il 19 giugno 2016).
101
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Ma occorre tener conto che, a parte i profili politici, istituzionali e in‐
ternazionali, in termini economici l’abbandono dell’euro potrebbe non
essere un toccasana per l’Italia. Come rilevato da alcuni studiosi di eco‐
nomia, infatti, la partecipazione ad un’area valutaria comporta una serie
di tangibili vantaggi: determina in ogni caso una riduzione dei costi di
rischio e transazione per esportatori, importatori e investitori (l’esigenza,
cioè, di acquistare delle costose garanzie finanziarie, per tutelare le loro
transazioni dalle oscillazioni del cambio, che poi si riflettono sui prezzi
dei beni esportati o importati nonché sul costo dell’operazione di cam‐
bio102); la valuta comune, inoltre, consente un immediato confronto tra i
prodotti offerti da fornitori diversi, tanto più oggi che prende piede l’e‐
commerce, che si riflette in una maggiore concorrenza e un calmieramento
dei prezzi per i consumatori; la moneta comune favorisce, infine, un in‐
cremento dei commerci interni nell’area valutaria comune con un conse‐
guente effetto positivo sulla crescita (Baldwin e Wyplosz 2015, 352‐356).
Viceversa, un’uscita dall’euro motivata dalla presunta esigenza di recu‐
perare competitività attraverso la svalutazione della nuova moneta locale,
rischierebbe di comportare un default del debito, con un possibile cospicuo
innalzamento dei tassi di interesse sui futuri titoli del debito pubblico (Gar‐
nero e Marcolin 2011, 31), nonché una crescita del prezzo delle materie pri‐
me con un conseguente effetto inflazionistico, con un’erosione del potere
d’acquisto e, quindi, un sostanziale impoverimento di cittadini a reddito
fisso, impiegati, operai, salariati in generale e pensionati.
Uno studio ha dimostrato che l’equivalente di 100 euro cambiato, prima
dell’introduzione della moneta unica, in una serie di operazioni immediatamente succes‐
sive, in tutte le valute dell’eurozona, si sarebbe immediatamente trasformato in 50 euro
senza aver acquistato nulla (Baldwin e Wyplosz 2015, 352).
102
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La conseguente fuga all’estero di capitali volta ad evitare i rischi del de‐
prezzamento del cambio genererebbe poi un innalzamento dei tassi
d’interesse che aggraverebbe sia l’indebitamento103 che il debito pubblico e
scoraggerebbe gli investimenti; le famiglie e gli imprenditori già indebitati
in euro per i mutui accesi sulle abitazioni, che potrebbero svalutarsi fino al
50% (Caracciolo e Maronta 2011, 61), e sugli impianti industriali, si trove‐
rebbero a dover pagare un debito in euro con un reddito espresso nella va‐
luta locale svalutata, rischiando di perdere la casa o di incorrere nel falli‐
mento e la situazione di insolvenza sarebbe suscettibile di scatenare una
nuova ondata di crisi finanziarie, che alla fine verrebbero pagate dai ri‐
sparmiatori o dai contribuenti; alla vigilia dell’uscita dall’euro, inoltre, si
scatenerebbe una corsa agli sportelli per ritirare i depositi in euro, come av‐
venuto in Grecia, con conseguenti crisi bancarie o blocco dei risparmi.
Come avviene spesso in Paesi con una valuta debole – basta muoversi
per turismo per verificare che in molti paesi extracomunitari la valuta co‐
munemente utilizzata nelle transazioni è l’euro o il dollaro – si verifiche‐
rebbe altresì una doppia circolazione, con gli stipendi pubblici e le pen‐
sioni espressi in valuta locale e i prezzi locali espressi comunque in euro,
con la conseguente vanificazione dei benefici attesi dalla svalutazione del‐
la moneta locale. A ciò si aggiunge, infine, che tra il 2008 e il 2012 si è regi‐
strata una contrazione del PIL anche in Paesi che non adottano l’euro,
come il Regno Unito (Bin, Caretti e Pitruzzella 2015, 292‐293).
Si ricorda che, prima delle decisioni sull’introduzione dell’euro, all’epoca dei ne‐
goziati sul Trattato di Maastricht, il costo del debito, cioè gli interessi pagati dalla pub‐
blica amministrazione per i titoli del debito pubblico, avevano raggiunto un volume an‐
nuo pari a circa il 12,5% del PIL (Baldwin e Wyplosz 2015, 415).
103
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4. Conclusioni
Rispetto ai limiti della governance economica europea e del Fiscal
Compact dianzi descritti – con riferimento non solamente ai principi e
diritti fondamentali riconosciuti dal quadro istituzionale dell’Unione ma
anche alla situazione economica e politica dell’Europa – le proposte dei
cinque Presidenti, come rilevato da alcuni osservatori, costituiscono
un’occasione mancata. Non vengono prefigurati strumenti anticongiun‐
turali e tanto meno una politica fiscale comune; si mantiene e si rafforza,
di fatto, il carattere intergovernativo della politica economica; si ipotizza
la creazione di un ministro del tesoro dell’area euro che tuttavia non è
un vero ministro delle finanze quanto piuttosto un super controllore dei
bilanci nazionali; aumentano i meccanismi di monitoraggio e controllo
sulle decisioni di bilancio nazionali e conseguentemente si riducono i
poteri di controllo su tali decisioni dei Parlamenti nazionali senza accre‐
scere i poteri di decisione e controllo del Parlamento europeo.
Sussiste pertanto il rischio che l’attuazione della proposta dei cinque
Presidenti riduca ulteriormente i margini di sovranità economica dei
Paesi che partecipano all’euro senza integrare sostanzialmente le loro
economie e incrementando il risentimento dei cittadini. Permane la ten‐
denza a un incremento dei divari tra gli Stati dell’eurozona, emerge una
sempre minore democraticità delle decisioni in materia economica e
aumenta la conseguente disaffezione dei cittadini dal progetto europeo,
con la minaccia di una crisi irreversibile. Tali fosche prospettive non
sembrano esagerate a fronte dell’esito del referendum nel Regno Unito
dello scorso 23 giugno, non tanto per l’uscita di tale importante Paese
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dall’Unione europea – che comunque comporterà una fase di incertezza
istituzionale ed economica – quanto piuttosto per i possibili effetti imita‐
tivi in altri Paesi membri.
Come si è visto, per altro verso, l’uscita dall’euro o dall’Unione euro‐
pea non sembrano sbocchi auspicabili: oltre alle possibili ricadute eco‐
nomiche negative già descritte sotto il profilo della legittimità democra‐
tica, occorre tener conto del risultato di alcuni studi (Smismans 2015,
350) secondo i quali da una disgregazione o una riduzione delle compe‐
tenze dell’UE non necessariamente scaturirebbe una riappropriazione di
poteri da parte degli Stati nazionali, quanto piuttosto si rischierebbe una
loro diluizione in una ancor meno democratica governance globale, gui‐
data dagli imponderabili effetti del mix dei poteri delle istituzioni inter‐
nazionali, dove il controllo parlamentare è ancora più rarefatto, e delle
grandi corporation industriali e finanziarie multinazionali. La tutela dei
diritti fondamentali, dunque, non è assicurata da quello che alcuni auto‐
ri definiscono un «ritorno a primitive forme di protezionismo» (Bonfi‐
glio, 2016, 80‐81), bensì dal progressivo superamento delle attuali forme
di governance burocratica per approdare ad un più efficace raccordo tra
cittadini europei e strumenti comuni di Governo.
È innegabile che l’introduzione dei correttivi necessari alla governance
economica e al Fiscal Compact – creazione di un vero Ministro del tesoro
europeo che possa avvalersi di risorse UE per svolgere un’effettiva poli‐
tica fiscale europea (anticongiunturale o redistributiva); coinvolgimento
effettivo di un organismo parlamentare (Fabbrini 2011, 99) nelle decisio‐
138
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ni che riguardano la politica economica104 – richiede una comune visione
dell’Europa verso la quale si intende andare, prospettiva che secondo
molti non è ancora realizzabile. Ma forse è venuto anche il momento di
chiedersi se una tale decisione sia ancora procrastinabile prima della di‐
sintegrazione dell’euro.
Le soluzioni tecniche non mancano (Rubio, 2015). Per quanto riguar‐
da la creazione di un meccanismo di stabilizzazione, volto a far fronte
agli shock asimmetrici e a sostenere le politiche anticongiunturali, sono
stati ipotizzati105, tra l’altro, un idoneo potenziamento del FEIS nonché
un incremento del bilancio comunitario attraverso l’individuazione di
nuove risorse proprie, quali una tassa su alcuni tipi di transazioni inter‐
nazionali106 ovvero l’emissione di eurobond.
Habermas (2012, 347) sintetizza efficacemente il concetto: «Thus the logic of this
development would also imply that national citizens who have to accept the redistribu‐
tion of burdens across national borders would also want to exercise democratic influence
in their role as European citizens over what their heads of government negotiate or agree
upon in a legal grey area».
105 Manzella (2014, 10) ipotizza la configurazione di cinque Fondi specializzati a cari‐
co di un istituendo bilancio dell’eurozona aggiungendo all’ESM, già esistente, quattro
nuovi fondi rispettivamente dedicati al sostegno per le riforme strutturali, alla stabiliz‐
zazione ciclica come meccanismo di assorbimento degli shock strutturali, alla lotta contro
la disoccupazione e al sostegno, subordinato a specifiche condizioni, alle politiche na‐
zionali per la riduzione del debito eccessivo.
106 Al riguardo si segnala il travagliato percorso di una direttiva volta alla mera ar‐
monizzazione delle disposizioni nazionali su tali transazioni, ben lungi, dunque,
dall’introduzione di una nuova entrata per l’UE. Data l’opposizione di vari stati membri,
e, in particolare, del Regno Unito, si è giunti alla definizione di una cooperazione raffor‐
zata in materia, con la decisione del Consiglio del 22 gennaio 2013 (cfr. http://eur‐
lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=OJ:L:2013:022:0011:0012:IT:PDF, consultato
104
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Le suddette considerazioni afferiscono alla cosiddetta output legitima‐
cy, la legittimazione che deriva dall’efficacia delle decisioni assunte
(Craig e de Burca 2015, 56‐57). Il principio di sussidiarietà, che costitui‐
sce uno dei fondamenti dell’Unione, presuppone che talune decisioni
debbano essere assunte a livello europeo per affrontare più efficacemen‐
te dei problemi che altrimenti non potrebbero essere risolti a livello na‐
zionale. La questione è che la crisi economica e finanziaria ha indebolito
agli occhi dei cittadini la legittimità del sistema decisionale della gover‐
nance, in quanto ha aggiunto al problema della mancanza di trasparenza
e partecipazione, che in realtà preesisteva, il problema dell’incapacità di
risolvere le crisi stesse.
Per quanto concerne il controllo parlamentare – la cosiddetta Input le‐
gitimacy, ovverosia la legittimazione che trae fondamento dal grado di
coinvolgimento degli elettori, in conformità col principio, che ci ricorda
Fasone (2014a, 164), “No taxation without parliamentary representation” – si
possono ipotizzare: la creazione di un Parlamento dell’area euro, con
il 19 giugno 2016), contestata dal Regno Unito che ha presentato un ricorso alla Corte di
giustizia, respinto con la sentenza del 30 aprile 2015 (causa C‐209/13, cfr.
http://curia.europa.eu/juris/document/document.jsf?text=&docid=151529&pageIndex=0&
doclang=it&mode=lst&dir=&occ=first&part=1&cid=1210795, consultato il 19 giugno
2016). In attuazione della decisione sulla cooperazione rafforzata la Commissione euro‐
pea ha presentato una prima proposta di direttiva il 14 febbraio 2013 (cfr. http://eur‐
lex.europa.eu/legal‐content/EN/TXT/?uri=COM:2013:0071:FIN, consultato il 19 giugno
2016) ed una nuova proposta il 28 gennaio 2016 (cfr. http://eur‐lex.europa.eu/legal‐
content/IT/TXT/HTML/?uri=CELEX:52016PC0026&from=EN, consultato il 19 giugno
2016), il cui iter è ancora in corso. Cfr. anche Adam e Tizzano 2014, 646)
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un’Assemblea ad hoc107, composta degli eurodeputati dei Paesi euro,
eventualmente con una rappresentanza dei Parlamenti nazionali, con
una modifica dell’articolo 13108 del TSCG; ovvero il conferimento al Par‐
lamento europeo, nella sua composizione integrale109, del controllo de‐
mocratico (nel senso di un potere decisionale su scelte quali le racco‐
mandazioni rivolte agli Stati membri e l’utilizzo del costituendo mecca‐
nismo finanziario anticongiunturale) mediante l’integrazione del Fiscal
Compact nel diritto dell’UE e stabilendo l’applicazione della procedura
legislativa ordinaria per tutte le decisioni più rilevanti.
Viceversa, un semplice rafforzamento dei poteri di coordinamento
dei bilanci nazionali, come sembra configurarsi con la Relazione dei cin‐
que Presidenti, ovvero la sola introduzione di un bilancio dell’area euro
volta a superare l’asimmetria esistente tra gli strumenti di politica mone‐
taria e quelli politica economica, fiscale e sociale, senza un contestuale
superamento del deficit di democrazia, rischierebbe solo di accentuare
quella generale crisi di fiducia tra Stati creditori e debitori (Bastasin,
Si ricorda, al riguardo, l’art. IX del Trattato di Bruxelles modificato, istitutivo
dell’unione dell’Europa Occidentale (UEO), che prevedeva l’istituzione di un’Assemblea
parlamentare composta dei rappresentanti degli Stati membri già componenti
dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa. Cfr. The Brussels Treaty signed on
17 March 1948, amended by the Paris Agreements signed on 23 October 1954, in
http://www.weu.int/Treaty.htm, (consultato il 19 giugno 2016).
108 Sulla nascita sofferta, il funzionamento e le proposte alternative alla Conferenza
interparlamentare istituita dall’art. 13 del Trattato sul Fiscal Compact cfr. Esposito (2014,
166‐169). Sulle carenze della Conferenza cfr. Fromage (2016).
109 Sull’ostilità manifestata negli ultimi anni dal Parlamento europeo circa una diffe‐
renziazione dei poteri riconosciuti ai suoi componenti su base dell’appartenenza nazio‐
nale cfr. Fasone (2014b).
107
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2015, 466‐467), tra Paesi che si ritengono virtuosi e Paesi che si sentono
penalizzati, nonché, più in generale, tra cittadini e istituzioni europee.
Al riguardo appaiono utili le riflessioni di Craig e de Burca (2015, 151‐
161) i quali hanno enucleato un’analitica pluralità di elementi che contri‐
buiscono a definire il problema della legittimità democratica dell’Unione:
l’impossibilità per gli elettori di scegliere il Governo europeo attraverso il
voto, sebbene, come descritto da Garcia e Priestley (2015), il sistema dello
Spitzenkandidaten inaugurato con le elezioni europee del 2014 con la no‐
mina in qualità di Presidente della Commissione europea, nella persona
di Jean‐Claude Juncker, del candidato del partito europeo vincente, ove
formalizzato anche per le elezioni future, sarebbe suscettibile di riavvici‐
nare gli elettori europei alle istituzioni dell’Unione, contribuendo alla
creazione di quel demos di cui si lamenta la mancanza; la riduzione del
potere di controllo dei Parlamenti nazionali derivante dal trasferimento di
decisioni a organismi comunitari o intergovernativi cui non corrisponde
simmetricamente un accrescimento dei poteri del Parlamento europeo sia
per la mancanza, talora, delle relative competenze, sia per il frequente di‐
sinteresse degli elettori per le decisioni dell’Assemblea di Strasburgo, sia
per l’assenza di un vero sistema di partiti a livello europeo; la delega di
decisioni ad organismi tecnici, la cosiddetta comitologia, le cui dinamiche,
talora, sfuggono sia ai Parlamenti sia ai Governi; la percezione che il tra‐
sferimento di competenze dal livello nazionale a Bruxelles costituisca un
allontanamento delle sedi decisionali dai cittadini; la complessità delle
procedure e, talora, la riservatezza delle stesse che si ripercuote in un sen‐
so di mancanza di trasparenza; la percezione che la liberalizzazione dei
mercati abbia alterato l’equilibrio tra le forze sociali, rafforzando la capaci‐
tà dei grandi interessi economici di incidere sulle decisioni a discapito del‐
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le forze più rappresentative dei lavoratori; la percezione che il trasferi‐
mento di competenze verso l’Unione riduca le tutele giurisdizionali, ordi‐
narie e costituzionali, a livello nazionale.
Uno dei punti principali da approfondire è quindi se il mero coinvol‐
gimento e coordinamento interparlamentare a livello europeo già in atto
sia sufficiente a rafforzare la democrazia nel sistema multilivello dell’UE
(Fossum 2016, 11). Se la moltiplicazione di sedi di cooperazione interpar‐
lamentare, come la Conferenza interparlamentare istituita dall’art. 13 del
TSCG, sicuramente arricchisce l’esperienza dei parlamentari stessi e
l’opportunità di scambiare informazioni e best practices (Esposito 2014,
169), per altro verso, agli occhi degli elettori, dell’opinione pubblica e dei
media è forse necessario tornare ad offrire una più chiara opportunità di
comprendere la ripartizione delle responsabilità attraverso una più deci‐
sa evoluzione da una governance a un governo europeo, in cui, fissate con
un atto di tipo costituzionale le regole – che, come sostiene Habermas,
non devono pregiudicare il contenuto delle varie politiche alternative
che potrebbero essere dispiegate (2001, 12) – possano emergere in modo
più trasparente le opzioni in discussione e, se del caso, gli schieramenti
in campo, nei quali devono poter avere un ruolo le forze politiche rap‐
presentate dai parlamentari.
Solo in questo modo potrà emergere quel demos che non necessaria‐
mente deve preesistere alla formazione dell’apparato autoritativo statua‐
le (Caravita, 2015, 3), ma può costruirsi progressivamente e parallela‐
mente all’edificazione di un ordine costituzionale, che nel caso
dell’Unione europea è dato dall’interazione tra i vari livelli di governo
nazionale ed europeo e anche locale. Si tratta di assicurare una raziona‐
lizzazione di quella che Fabbrini (2015, 257‐288) definisce una “Com‐
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pound Union”, dove interagiscono la dimensione intergovernativa e quel‐
la sopranazionale, attraverso una più efficace ripartizione delle compe‐
tenze tra il livello nazionale e quello sopranazionale, mediante un accor‐
do di tipo costituzionale che assicuri un recupero di quella legittimità
democratica che Smismans (2015, 340) definisce come capacità di coin‐
volgere i cittadini nelle decisioni e nel contempo offrire chiaramente loro
la percezione che tali decisioni sono assunte nel loro stesso interesse.
Forse si potrà superare, in questo modo, quella crisi di fiducia che è alla
base di tutte le altre crisi che affliggono l’Europa (Eichengreen, 2015, x)
per riscoprire quel senso di solidarietà che può scaturire solo dalla con‐
sapevolezza di appartenere ad un destino comune (Marsh, 2016, 128‐
129).
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a nno VI, n. 3, 2016
da ta di p ub b lic a zio ne : 11 o tto b re 2016
Sa g g i
Ab stra c t
Fundamental Rights and European Economic Governance
The Court of Justice and the EU Treaties have gradually recognized
among the principles to be pursued or the rights to be protected solidari‐
ty, economic and social cohesion, citizenship, human rights and, most
recently, the Lisbon Treaty has equated the value of the Charter of Fun‐
damental Rights to that of Treaties. This process has allowed a gradual
shift of the centre of gravity of the Union from the original economic
purpose, arising functionalist approach, to a political community per‐
spective, designed also to protect those rights. Starting from this as‐
sumption the present essay, retracing the steps that led to the introduc‐
tion of the euro, the Fiscal Compact and the framework of EU economic
governance, looks into the issue of the compliance of this euro system
with those principles and fundamental rights reaffirmed by the Union.
This law economic and political verification is concluded with an exhor‐
tation to the revision of the EU economic governance, in the awareness
of belonging to a common destiny, otherwise being the risk of a disinte‐
gration of the euro and perhaps the EU.
Keywords: Fiscal compact; EU economic governance; Lisbon Treaty;
risk of a disintegration of the euro area.
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