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I LIBRI DI
ARCHIVIO PENALE
NUOVA SERIE
2
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PRINCIPI DI DIRITTO PENALE NELLA GIURISDIZIONE EUROPEA
Gaetano Stea, avvocato e cultore di diritto penale nell’Università degli Studi del Salento, collabora
all’attività didattica della cattedra di diritto penale (parte generale). È stato docente in seminari e corsi
di specializzazione in materia penale ed è autore di una monograia sull’ultimo condono edilizio (2005)
e di diverse pubblicazioni, tra cui le più recenti, Ricettazione e commercio di opere d’autore illecitamente
riprodotte (2007), La difamazione a mezzo internet (2008), Diritto penale e processo tributario (2011), L’esegesi
giurisprudenziale della deinizione degli enti responsabili dell’illecito da reato (2013) e L’ofensività europea come
criterio di proporzione dell’opzione penale (2013).
GAETANO STEA
La ricostruzione dei principi di diritto penale è un’esigenza dettata dal doppio legame esistente
tra l’ordinamento domestico e quello europeo, che attraverso la cerniera aperta dell’art.117,
co. 1, Cost., sacriica il ruolo del legislatore domestico, esaltando però la funzione giudiziale,
che degli obblighi eurounitari è garante, anche in virtù della primazia del diritto europeo. In un
diritto penale dei diritti fondamentali prepositivi, la proporzione diviene il cardine su cui si innestano
e si misurano tutti i principi che regolano il sistema punitivo, come indice di bilanciamento
della reazione sanzionatoria che, in funzione solidaristica, non può che essere inalizzata alla
ricostruzione della frattura sociale che il comportamento criminale ha provocato. E così, facendo
leva sulla proporzione materiale indicata dall’art.52 della Carta di Nizza, l’opzione penale non
può essere «arbitraria», perché, non solo, deve essere diretta a preservare solo quei diritti e quelle
libertà che necessitano della tutela più severa, ma si deve dirigere solo verso quei comportamenti
che ofendono la sfera di libertà della vittima così come riconosciuta dall’ordinamento non
per il soddisfacimento dei propri egoistici bisogni, ma nell’interesse dell’intera collettività. In
questa prospettiva, il principio di colpevolezza, fondato sugli artt. 2, 25, co. 2, e 27, co. 1 e 3,
Cost., diventa centrale in una società democratica, perché solo in un tale contesto è possibile
rimproverare il cittadino responsabile della violazione della norma, non attraverso la minaccia
della pena (così abbandonando ogni inalizzazione preventiva, ma anche retributiva), ma con
l’invito a partecipare ad un percorso di risocializzazione. E qui si innesta il nuovo ruolo che deve
assumere la pena, che, con la sua inalizzazione rieducativa, potrà comprimere solo le libertà
ed i diritti dello status istituzionale di cittadino, poiché superare tale conine e, dunque, andare
ad incidere sul nòcciolo intimo delle libertà, non può avere alcun signiicato per il diritto penale
contemporaneo.
Gaetano Stea
I PRINCIPI DI DIRITTO PENALE
NELLA GIURISDIZIONE EUROPEA
i libri di
ArCHiViO PENAlE
NUOVA SERIE
2
i libri di
ArCHiViO PENAlE
NUOVA SERIE
Comitato scientiico
Alfredo Gaito
“Sapienza” Università di Roma
david brunelli
Università degli Studi di Perugia
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Università degli Studi di Perugia
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Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia
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Scuola Superiore Sant’Anna
di Studi Universitari e di Perfezionamento
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Università degli Studi di Padova
Giorgio Spangher
“Sapienza” Università di Roma
A partire dall’a.a. 2012-2013, ogni studio monograico pubblicato in questa Collana è
stato previamente sottoposto, con esito positivo, a peer review (secondo le regole della
revisione anonima) da parte di almeno due membri del Comitato scientiico.
Gaetano Stea
I PrInCIPI dI dIrItto Penale
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Alla dolce memoria di mia madre,
a Nadia, Letizia, Gabriele e papà
Indice
ringraziamenti
11
Presentazione
13
introduzione
15
Capitolo i
legalità
Sezione I. Competenza e sovranità
I.1. Prologo. Riserva di legge e fonti del diritto comunitario penale
20
I.2. La competenza penale dell’Unione Europea
22
I.3. La competenza penale tipica e la possibilità dell’Unione Europea di emanare
norme penali
23
I.4. La competenza penale europea atipica. Evoluzione giurisprudenziale dell’obbligo di tutela degli interessi comunitari. Gli obblighi di risultato e quelli di penalizzazione. La previsione nel Trattato di Lisbona di una competenza penale tipica
impropria e l’attuale possibilità di imporre obblighi di risultato adeguatamente
sanzionati
26
I.4.1. Classiicazione delle competenze penali dell’Unione Europea. Riepilogo
30
I.5. La sovranità in materia penale e l’Unione Europea come Staatenverbund
31
Sezione II. Democrazia
II.1. La questione della democraticità della norma penale
34
II.2. La veriica della democraticità della norma penale europea. Principio di legalità
nella Carta di Nizza e l’autonomia degli ordinamenti, nazionale ed europeo. La
competenza penale tipica è condivisa con ciascun Stato membro
38
II.3. Le tradizionali obiezioni sul deicit democratico dell’Unione Europea
42
II.4. La veriica della democraticità della norma penale europea attraverso l’analisi
del ruolo del Parlamento nazionale nel processo di formazione degli atti comunitari. Il Protocollo n. 2 sulla veriica del rispetto dei principi di sussidiarietà e
proporzionalità e la legge n. 234 del 2012. Prospettive de iure condendo
45
II.5. L’incidenza del difetto di democraticità della norma penale europea nel diritto
interno. La determinatezza della norma penale europea come limite o vincolo
dell’obbligo di trasposizione per il legislatore nazionale
51
II.6. Il sindacato della Corte di Giustizia dell’Unione Europea in relazione a direttive dettagliate. La Corte costituzionale ed il controllo sulla legge di ratiica del
Trattato di Lisbona e sulle norme derivate. L’incostituzionalità degli artt. 7 e 12
l. 234/2012 in relazione al principio di legalità-riserva di legge (democraticità)
55
Sezione III. Retroattività
III.1. La retroattività della legge favorevole dalla Dichiarazione universale dei diritti
dell’uomo alla Carta di Nizza. L’excursus dell’afermazione internazionale e la
giurisprudenza costituzionale sul principio di retroattività in mitius
60
III.2. Brevi rilessioni sulla limitazione al sindacato costituzionale (di ragionevolezza)
della norma abrogatrice non contraria ad una norma comunitaria
70
III.3. Note di analisi comparativa dei sistemi europei di civil law e common law in tema
di norme penali più favorevoli
73
III.4. La giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea sulla retroattività benigna ed il bilanciamento con il principio di prevalenza del diritto comunitario. La vicenda del falso in bilancio italiano
80
III.5. L’inderogabilità europea del principio della retroattività della lex mitior: il principio della certezza del diritto che promana dalla irmitas del giudicato e la sua
intangibilità relativa
86
Sezione IV. PRIMAUTÉ
IV.1. Il principio di legalità ed il diritto vivente: giurisprudenza come fonte del diritto
e l’arresto della Corte costituzionale
91
IV.2. Il conlitto tra norma europea e norma interna: il primato del diritto europeo e
l’europeizzazione dei controlimiti. I principi identitari e strutturali costituzionali come parametri dell’esclusivo sindacato di legittimità del diritto europeo da
parte della Corte di Lussemburgo. Dalla coordinazione di sistemi autonomi e
diversi al sistema sinergico unico e generale
102
IV.3. L’inapplicazione della norma statuale penale in conlitto con quella europea. Un
esempio di rilesso in bonam partem: clandestinità e direttiva rimpatri
107
IV.4. Le fonti europee interferenti con il diritto penale statuale
111
IV.5. La sistematica di Carlo Sotis. L’eurointegrazione riduttiva o in bonam partem
113
IV.5.1. (segue) L’interferenza ad efetti espansivi o in malam partem. I conlitti diadici
e l’interpretazione conforme: rinvio. I conlitti triadici e l’inadempimento sopravvenuto
118
IV.6. L’interpretazione conforme
120
IV.7. Epilogo. Il ruolo del giudice comune nell’applicazione della norma penale fra
democrazia e primautè europea. Ipotesi di democratizzazione dell’amministrazione della giustizia
125
Capitolo ii
Ofensività
1. Premessa. L’ofensività nel sistema penale europeo. La situazione italiana: la deriva del principio di necessaria lesività e l’irrefrenabile anticipazione della tutela
penale con la tipizzazione anche di illeciti di rischio. L’eicacia argomentativa o
dimostrativa dell’ofensività come parametro di controllo della politica criminale
135
2. La Corte costituzionale e la politica criminale sulla clandestinità: ofensività dimostrativa ed extrema ratio
140
3. Principio di precauzione vs principio di necessaria lesività. Il precauzionismo e
l’individuo potenzialmente colpevole
145
4. Il giudizio di proporzione nella Carta di Nizza come fondamento dell’ofensività
del reato europeo. La proporzione nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo e gli obblighi di tutela penale in chiave vittimo-centrica. Gli aspetti dell’ofensività (necessaria lesività e dannosità sociale) per individuare il fatto penalmente
rilevante
151
5. La giustiziabilità degli obblighi di tutela contenuti nella norma penale europea
da parte del Giudice costituzionale
155
6. Il sindacato di proporzionalità della Corte di Lussemburgo sulla norma penale
europea
160
6.1. (segue) L’eccezione democratica e la razionalità del diritto penale positivo. Il
giudizio di eguaglianza-proporzione come utile sindacato sull’opzione di politica criminale
162
7. Il principio di proporzione formale tra reato e sanzione previsto dall’art. 49, co.
3, della Carta di Nizza come criterio di coerenza intrasistemica del divieto penale
165
8. Il paternalismo in diritto penale. Il fondamento della legittimità del “punire”
ed il limite dell’opzione penale nell’ottica antipaternalistica di John Stuart Mill
169
8.1. (segue) L’impostazione di Joel Feirberg
170
8.2. Il paternalismo come esigenza solidaristica nella visione costituzionale in una
società democratica
173
9. La Corte di Strasburgo e l’eutanasia: il punto della giurisprudenza convenzionale sul “diritto di morire”
175
9.1. (segue) Riepilogo. Il diritto al suicidio dignitoso
178
9.2. Brevi annotazioni conclusive sul rapporto tra l’art. 8 Convenzione EDU e le
questioni autolesive previste nella legislazione domestica nell’alveo del sistema
eurounitario
179
10. Breve conclusione sul ruolo del principio di ofensività
182
Capitolo iii
Colpevolezza
1. Brevissime note introduttive. Capacità e libertà
185
2. Excursus sulle teorie tradizionali sulla colpevolezza come fondamento del diritto
penale
186
3. La colpevolezza nel sistema italiano. Gli arresti della giurisprudenza costituzionale e l’individuazione del principio di colpevolezza fondato sugli artt. 2, 25, co.
2, e 27, co. 1 e 3, Cost.
192
3.1. La colpevolezza come categoria dogmatica: la nozione unitaria di colpevolezza
derivante dalla funzione rieducativa della pena. “Punire per educare”
197
3.2. (segue) La struttura della colpevolezza unitaria: dominabilità, conoscibilità e libertà. Il presupposto dell’imputabilità ed i requisiti della tipicità e antigiuridicità
come criteri della rimproverabilità
203
4. Siamo davvero liberi? Neuroscienze e libero arbitrio
206
5. La colpevolezza nella giurisprudenza sovranazionale
6. I criteri di imputazione soggettiva nell’ottica europea
209
213
6.1. Sguardo comparativo sulle deinizioni normative di dolo e colpa
214
6.2. La terza forma dell’elemento soggettivo negli ordinamenti stranieri. L’esperienza
inglese: “recklessness”
219
6.3. (segue) L’esperienza francese: “mise en danger délibérée de la personne d’autrui”
222
6.4. (segue) L’esperienza spagnola: “maniiesto desprecio por la vida de los demás”
224
7. Annotazioni riepilogative e prospettive de iure condendo. La problematica del
dolo eventuale come terza forma di colpevolezza e la restrizione possibile
dell’elemento soggettivo ino alla colpa grave
227
Capitolo IV
Appunti su pena e giustizia post-contemporanea
1. I principi che regolano la sanzione penale europea ed il carattere anankastico
della pena “rieducativa”
237
2. La pena “rieducativa” e le misure alternative e sostitutive alla detenzione come
pene proporzionate nel diritto penale dei diritti
240
3. La funzione della pena inalizzata alla risocializzazione dialogica
242
4. La collocazione del momento comunicativo nel percorso di risocializzazione
ed il “progetto” individuato dal giudice della cognizione come linea-guida del
percorso rieducativo
244
5. Annotazioni sui sistemi di giustizia riparativa e l’impossibilità empirica di una
sostituzione integrale del sistema punitivo-rieducativo. La pena “rieducativa” tra
sanzione e progetto di risocializzazione
247
6. La giustizia riparativa nell’esperienza europea ed in quella italiana. La mediazione penale come tratto comune delle maggiori esperienze di giustizia riparativa
in Europa. Le consolidate esperienze anglosassone e francese e le nuove sperimentazioni nelle giovani codiicazioni
250
6.1. L’area scandinava
252
6.2. L’area centro-orientale
252
6.3. L’area anglosassone
253
6.4. L’area centro-meridionale
253
6.5. L’esperienza italiana
256
7. Note conclusive sul ruolo della vittima del sistema penale europeo e sul risarcimento come strumento riparativo in funzione solidaristica
260
Appendice postuma
267
bibliografia
XX
ringraziamenti
Per un operaio del diritto riuscire a concludere un lavoro di ricerca presuppone
la necessità di dover esprimere alcuni ringraziamenti, anche perché il necessario
tempo, ritagliato negli ormai ristretti spazi che la frenetica vita professionale consente, è stato sottratto a chi arricchisce quotidianamente la vita personale. Forse
è questa quella sottile malinconia che mi resta dopo aver concluso (o meglio, abbandonato) questo studio, soprattutto, quando ci si trova a rileggere pagine che
non esprimono al meglio la rilessione che torna in mente.
Ad ogni modo, se questa può essere intesa come un’avvertenza per il lettore,
non posso che rivolgere il mio più sentito “grazie” a Luigi Cornacchia, caro amico e premurosa guida nel mio percorso di approfondimento, a cui devo la curiosità che mi ha spinto ad avventurarmi nell’indagine qui proposta e l’opportunità
di coltivare una passione mai sopita.
Non posso non ringraziare, poi, il mio generoso amico e collega Pierpaolo
Schiattone, che, fra l’altro, è stato importante ausilio nella correzione delle bozze
e, soprattutto, ha “badato” al quotidiano.
Ringrazio, inine, il Prof. François Rousseau della Faculté de droit et des sciences politiques dell’Università di Nantes, per la cortesia dimostratami nel fornirmi
importanti indicazioni in tema di “mise en danger délibérée de la personne d’autrui”.
Lecce, dicembre 2013
G.S.
11
Presentazione
Il volume di Stea ofre una vasta panoramica di studio circa i mutamenti della
sovranità in materia penale a fronte dell’evoluzione giurisprudenziale europea,
con particolare riferimento al tema dei principi.
Lungi dal ridursi a una mera ripetizione di paradigmi già noti, l’ermeneutica
dei fondamenti dell’ordinamento giuridico vigente viene proposta direttamente
a contatto con la disciplina europea, per molti aspetti almeno prima facie refrattaria a un’assimilazione della tradizione dei principi: anzi il “metodo europeo”,
fenomeno ovviamente in continuo divenire e dall’andamento non certo lineare e
unidirezionale, fa emergere una singolare osmosi tra modelli costituzionalmente
orientati anche culturalmente assai eterogenei.
Pare pertanto legittimo parlare – e sia pur con l’avvertenza di un mutamento
lessicale dei concetti utilizzati – di un progressivo approccio “costituzionale”, nel
senso di orientato a principi fondamentali condivisi.
Basti pensare alla lettura del diritto penale in chiave personalistica secondo il
nullum crimen sine culpa (con la problematica emergente del suo signiicato dinamico di fronte alle scoperte indotte dalle neuroscienze) e al contempo all’esigenza, avvertita nella prassi applicativa sovranazionale, di contemperare tra loro le
poliedriche opzioni circa la criteriologia di imputazione soggettiva provenienti
dalle diverse esperienze giuridiche domestiche (paradigmatico il caso dell’eventuale “terza forma”).
O al substrato di necessaria lesività che l’esperienza prasseologica europea
sembra volere sempre più riconoscere alla tipicità/imputazione penale, nonché
di proporzione tra ofesa e risposta penale, al banco di prova del precauzionismo
e della dialettica paternalismo/antipaternalismo.
O, prima ancora e forse prima di tutto, all’ormai ineludibile intreccio tra
principio di legalità nel diritto vivente e democrazia – reale, non formale – nella
formazione e nell’interpretazione delle norme; e ai rilessi in termini di diicile
deinizione del ruolo del giudice comune nell’applicazione di queste ultime a
fronte della primautè europea.
Ma è proprio unicamente a livello sovranazionale che sembra potere prendere
davvero corpo il post-moderno (rectius post-contemperaneo?) progetto orientato
13
i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
a una reale implementazione di risocializzazione (dialogica) del reo, riparazione
della vittima e superamento comunicativo della lacerazione sociale indotta dal
reato: una estrolessione del sistema preventivo in una giustizia riparativa/conciliativa, una volta divenuta realtà nella societas maxima europea, potrebbe davvero
modiicare radicalmente la isionomia dei principi fondamentali e il loro rilievo
in termini di garanzia dei diritti umani di tutti i soggetti coinvolti nel conlitto.
Si tratta di una sperimentazione primariamente giurisprudenziale, non di
rado complessa, non sempre coerente, che però sembra voler superare quella dialettica dell’instabilità prasseologica che ha connotato in passato il diritto
sovranazionale europeo proprio con riguardo all’implementazione dei principi
fondamentali.
Certo, i nuovi equilibri rinvenibili nel diritto vivente della Corte Europea dei
Diritti dell’Uomo non possono certo dirsi scevri da perplessità: basti pensare alla
progressiva emersione e alle recenti soluzioni oferte al problema del suicidio assistito, che la giurisprudenza europea dimensiona, in chiave di pura autodeterminazione, sul mero proilo del rispetto della vita privata come diritto fondamentale dell’essere umano ex art. 8 CEDU; e quindi al suo diicile contemperamento
con il diverso signiicato del principio solidaristico che ispira l’ordinamento giuridico italiano.
Negli interstizi di un lavoro che intende afrontare “dall’alto” – ossia, dalla regione nobile dei principi – una evoluzione giuridica magmatica, per certi
aspetti imprevedibile e di diicile comprensione secondo le sole categorie tradizionali come appare quella europea, emergono rilessioni estremamente utili a
un ripensamento generale, anche rispetto al diritto interno, dei canoni di legalità,
ofensività, colpevolezza, funzione della pena.
La monograia di Stea apporta un contributo estremamente fecondo a un
dibattito ormai da tempo di rilievo globale e probabilmente dai percorsi ancora
in gran parte da esplorare: per intraprenderli, un’ottima cartina orientativa potrebbe essere desunta proprio dalle direttrici evidenziate – e discusse con grande
padronanza della materia – nell’opera in oggetto.
Luigi Cornacchia
Università del Salento
14
Introduzione
Un tempo, la giustizia penale in Europa era governata da una “specie” di diritto
comune e l’attività giurisdizionale consisteva, sostanzialmente, nell’ottenere la
confessione del reo (o presunto tale) attraverso strumenti di inaudita severità,
ed alla pena si riconosceva una funzione generalmente deterrente e di intimidazione, così da giustiicarne l’“esemplarità”. Ad un certo punto, a tale “barbarie”, reagì un nuovo spirito che pervase l’Europa che, maturando idee formatesi
nell’ambito dell’ampia e variegata scuola del diritto naturale moderno, considerò ragione di progresso la ristrutturazione del sistema delle fonti attraverso la
creazione di una legislazione chiara, concisa e semplice che vincolasse strettamente il giudice, così afermandosi convintamente il principio di legalità come
cardine essenziale della pace collettiva. Una volta individuata la fonte primaria
dell’ordinamento venne il momento di riconoscere la partecipazione democratica alla formazione della legge e, tempo dopo, la terribile esperienza europea dei
crimini umanitari impose l’intangibilità dei diritti e delle libertà fondamentali
come valori prepositivi ed indisponibili anche per il legislatore democratico. Poi,
venne il tempo dell’integrazione e della costruzione di un sistema comune europeo che, sotto la spinta dell’interpretazione evolutiva pretoria, divenne comunità
ed, oggi, è unione, nella prospettiva di un’armonizzazione dei sistemi nazionali.
Si è giunti così, nel cerchio della storia, ad una neo-restaurazione di una “specie”
diritto comune per l’intera area europea.
Da ciò, la ricostruzione1 dei principi di diritto penale è un’esigenza dettata dal
doppio legame esistente tra l’ordinamento domestico e quello europeo, certamente all’indomani dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona con le sue novità in materia di competenza penale eurounionista, ma già tramite l’art. 117, co.
1. Sgubbi, Principi costituzionali in materia penale e fonti sovranazionali, in Fondaroli (a cura di),
Principi costituzionali in materia penale e fonti sovranazionali, Padova, 2008, 3 ss., ove il chiaro Maestro
denuncia che, «nel momento attuale, le fonti sovranazionali contribuiscono in modo signiicativo
alla decostruzione dei principi costituzionali. Decostruzione nel senso anche di progressiva erosione
del contenuto di principi che pure restano scritti nella nostra Carta Fondamentale e a cui gli operatori del diritto fanno continuo riferimento».
15
i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
1, Cost., che vincola l’ordinamento interno agli obblighi eurounitari. Ad onor del
vero, il vincolo costituzionale sacriica il ruolo del legislatore domestico, come
testualmente imposto dalla norma appena richiamata («La potestà legislativa è
esercitata […] nel rispetto […] dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario»), ma esalta la funzione giudiziale, che degli obblighi eurounitari è garante,
anche in virtù della primazia del diritto europeo. Il sacriicio imposto alla riserva
di legge di cui all’art. 25, co. 2, Cost. va ad incidere sulla democraticità della norma
penale, come aspetto sostanziale della legalità, con la necessità di raggiungere
una maggiore coesione politica dell’Unione Europea e, comunque, di rendere
più partecipi i cittadini all’amministrazione della giustizia.
In un diritto penale dei diritti fondamentali prepositivi, la proporzione diviene il
cardine su cui si innestano e si misurano tutti i principi che regolano il sistema
punitivo, come indice di bilanciamento della reazione sanzionatoria che, in funzione solidaristica, non può che essere inalizzata alla ricostruzione della frattura
sociale che il comportamento criminale ha provocato. E così, facendo leva sulla
proporzione materiale indicata dall’art. 52 della Carta di Nizza, l’opzione penale
non può essere “arbitraria”, perché, non solo, deve essere diretta a preservare
solo quei diritti e quelle libertà che necessitano della tutela più severa, ma si deve
dirigere solo verso quei comportamenti che ofendono la sfera di libertà della vittima così come riconosciuta dall’ordinamento non per il soddisfacimento
dei propri egoistici bisogni, ma nell’interesse dell’intera collettività. Se, infatti, i
doveri giuridici, su cui si fonda la personalità del fatto di reato, sono inalizzati
al rispetto di interessi collettivi, pubblici od, in genere, di terzi, tale direzione
teleologica deve caratterizzare anche l’attribuzione (o riconoscimento) dei diritti
e delle libertà fondamentali, che, nell’ambito di una comunità, sono l’aspetto reciproco del dovere: il riconoscimento dei diritti e delle libertà non avrebbe alcun
senso ove non esistesse una comunità in cui si colloca l’individuo.
In questa prospettiva, il principio di colpevolezza, fondato sugli artt. 2, 25, co.
2, e 27, co. 1 e 3, Cost., diventa centrale in una società democratica, perché solo in
un tale contesto è possibile rimproverare il cittadino responsabile della violazione
della norma, non attraverso la minaccia della pena (così abbandonando ogni inalizzazione preventiva, ma anche retributiva), ma con l’invito a partecipare ad un
percorso di risocializzazione e, in quest’ottica, la tradizionale contrapposizione
tra visione reo-centrica e visione vittimo-centrica, trova una composizione, un
punto di equilibrio e di mediazione. Così allontanando il rischio di incentrare il
giudizio di colpevolezza sul solo autore del reato, dimenticando la vittima2.
E qui si innesta il nuovo ruolo che deve assumere la pena, che, con la sua
inalizzazione rieducativa, potrà comprimere solo le libertà ed i diritti dello sta-
2. Come ricorda, Parisi, Cultura dell’altro e diritto penale, Torino, 2010, 134 ss.
16
introduzione
tus istituzionale di cittadino, poiché superare tale conine e, dunque, andare ad
incidere sul nòcciolo intimo delle libertà, non può avere alcun signiicato per il
diritto penale contemporaneo.
Anche in tale contesto ha un ruolo egemone il principio di proporzione, questa volta come formulato dall’art. 49, co. 3, della Carta di Nizza, che si dispiega nell’ordinamento, rispetto alla pena, in diversi sotto-principi, quali quello di
umanità e quello di rieducazione, con l’efetto che la punizione e, dunque, l’inlizione della pena al reo, non è giustiicata dal male o torto subito dalla collettività,
in chiave retribuzionista, ma può comprendersi solo se costituisce l’equilibrata
misura della compressione della libertà personale del cittadino, in funzione del
tentativo risocializzante.
La pena “rieducativa” si contrappone così alla tradizionale pena “retributiva”
e mentre per quest’ultima assume un ruolo egemone la detenzione, poiché molto
duttile nella sua commisurazione proporzionata con la gravità del fatto, la prima
necessita di un catalogo di pene principali che sollecitino il reo ad intraprendere un dialogo risocializzante inalizzato a ricucire il tessuto collettivo strappato
dall’ofesa criminale. La pena detentiva è così, da un lato, anacronistica, laddove si
guardi all’ampiezza della sfera dei diritti e delle libertà riconosciuti al cittadino e,
dall’altro, è conseguentemente sproporzionata, nel senso che va a limitare tutti gli
aspetti della libertà personale e, dunque, insieme a quello isico, si aggiungono
quelli che aferiscono alle libertà relazionali. La necessità è, pertanto, quella di
individuare un catalogo di pene che riesca a coniugare la misura “temporale” con
quella “di genere”, onde rendere più agevole cogliere la giusta proporzione tra
fatto di reato, come violazione di libertà, e colpevolezza. La giusta proporzione
avrebbe, quindi, anche un efetto positivo nella risposta risocializzante del reo e
nel relativo procedimento di autoresponsabilizzazione, come, del resto, la predisposizione di strumenti riparativi da implementare nell’ordinamento domestico.
Tuttavia, la perdurante inerzia (ed incapacità politica) del legislatore, nel riuscire a sistematizzare gli indirizzi comunitari, in materia penale, esalta il ruolo
(supplente) del giudice comune, tanto da accentuare il sacriicio delle istanze di
democrazia nazionale sottese alla riserva di legge: la crisi contemporanea della
legalità penale nel sistema multilivello con il raforzato ruolo del giudice nazionale evidenzia così la crisi della democrazia rappresentativa, ancor di più ove si
osservi il deicit democratico del legislatore europeo, colmato dal ruolo propulsivo della Corte di Giustizia.
L’inluenza comunitaria e sovranazionale ha, comunque, già disegnato un
nuovo volto del reato e del sistema penale (e non solo), con cui è ormai giunto il
tempo di rapportarsi seriamente.
17
CAPITOLO I
legalità
sommario: sezione i. competenza e sovranità: I.1. Prologo. Riserva di legge e fonti del
diritto comunitario penale. - I.2. La competenza penale dell’Unione Europea. - I.3. La
competenza penale tipica e la possibilità dell’Unione Europea di emanare norme penali. - I.4. La competenza penale europea atipica. Evoluzione giurisprudenziale dell’obbligo
di tutela degli interessi comunitari. Gli obblighi di risultato e quelli di penalizzazione. La
previsione nel Trattato di Lisbona di una competenza penale tipica impropria e l’attuale
possibilità di imporre obblighi di risultato adeguatamente sanzionati. - I.4.1. Classiicazione delle competenze penali dell’Unione Europea. Riepilogo. - I.5. La sovranità in materia
penale e l’Unione Europea come Staatenverbund. sezione ii. democrazia: II.1. La questione
della democraticità della norma penale. - II.2. La veriica della democraticità della norma
penale europea. Principio di legalità nella Carta di Nizza e l’autonomia degli ordinamenti,
nazionale ed europeo. La competenza penale tipica è condivisa con ciascun Stato membro. - II.3. Le tradizionali obiezioni sul deicit democratico dell’Unione Europea. - II.4. La
veriica della democraticità della norma penale europea attraverso l’analisi del ruolo del
Parlamento nazionale nel processo di formazione degli atti comunitari. Il Protocollo n.
2 sulla veriica del rispetto dei principi di sussidiarietà e proporzionalità e la legge n. 234
del 2012. Prospettive de iure condendo. - II.5. L’incidenza del difetto di democraticità della
norma penale europea nel diritto interno. La determinatezza della norma penale europea
come limite o vincolo dell’obbligo di trasposizione per il legislatore nazionale. - II.6. Il
sindacato della Corte di Giustizia dell’Unione Europea in relazione a direttive dettagliate.
La Corte costituzionale ed il controllo sulla legge di ratiica del Trattato di Lisbona e sulle
norme derivate. L’incostituzionalità degli artt. 7 e 12 l. 234/2012 in relazione al principio
di legalità-riserva di legge (democraticità). sezione iii. retroattività: III.1. La retroattività della legge favorevole dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo alla Carta
di Nizza. L’excursus dell’afermazione internazionale e la giurisprudenza costituzionale
sul principio di retroattività in mitius. - III.2. Brevi rilessioni sulla limitazione al sindacato
costituzionale (di ragionevolezza) della norma abrogatrice non contraria ad una norma
comunitaria. - III.3. Note di analisi comparativa dei sistemi europei di civil law e common
law in tema di norme penali più favorevoli. - III.4. La giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea sulla retroattività benigna ed il bilanciamento con il principio di
prevalenza del diritto comunitario. La vicenda del falso in bilancio italiano. - III.5. L’inderogabilità europea del principio della retroattività della lex mitior: il principio della certezza
del diritto che promana dalla irmitas del giudicato e la sua intangibilità relativa. sezione iv.
primauté: IV.1. Il principio di legalità ed il diritto vivente: giurisprudenza come fonte del
diritto e l’arresto della Corte costituzionale. - IV.2. Il conlitto tra norma europea e norma interna: il primato del diritto europeo e l’europeizzazione dei controlimiti. I principi
identitari e strutturali costituzionali come parametri dell’esclusivo sindacato di legittimità
del diritto europeo da parte della Corte di Lussemburgo. Dalla coordinazione di sistemi
autonomi e diversi al sistema sinergico unico e generale. - IV.3. L’inapplicazione della norma statuale penale in conlitto con quella europea. Un esempio di rilesso in bonam partem:
clandestinità e direttiva rimpatri. - IV.4. Le fonti europee interferenti con il diritto penale
statuale. - IV.5. La sistematica di Carlo Sotis. L’eurointegrazione riduttiva o in bonam partem. - IV.5.1. (segue) L’interferenza ad efetti espansivi o in malam partem. I conlitti diadici
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i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
e l’interpretazione conforme: rinvio. I conlitti triadici e l’inadempimento sopravvenuto.
- IV.6. L’interpretazione conforme. - IV.7. Epilogo. Il ruolo del giudice comune nell’applicazione della norma penale fra democrazia e primautè europea. Ipotesi di democratizzazione
dell’amministrazione della giustizia
sezione I. Competenza e sovranità
I.1. Prologo. Riserva di lege e fonti del diritto comunitario penale. La tematica dei rapporti tra la riserva di legge penale nazionale e le fonti comunitarie è studiata da
tempo1, costituendo un punto di tensione dell’interrelazione tra sovranità, democrazia e ruolo dell’interpretazione giurisprudenziale, che ha costituito (ed ancora
costituisce) il motore trainante dell’integrazione e dell’armonizzazione europea.
L’opera esegetica della Corte di Giustizia, come si dirà, ha precisamente delineato
un’inluenza del diritto comunitario su quello penale statuale, poi, sfociata in ciò
che può già deinirsi come una competenza penale dell’Unione Europea.
All’evoluzione giurisprudenziale, infatti, nella formazione dei principi di diritto comunitario (pretorio) che inluiscono sul diritto nazionale, è seguito lo
sviluppo del diritto comunitario positivo, tanto che, di certo, la problematica qui
trattata si è arricchita dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona che, come
noto, abolendo la tradizionale divisione in pilastri, ha modiicato parzialmente
le fonti del diritto comunitario, estendendo a tutte le materie di competenza
europea la procedura legislativa ordinaria. Ma non facendo scemare del tutto
il denunciato deicit di democraticità dell’iter di formazione legislativa comunitario che ancora è opposto ad una paventata attribuzione di sovranità penale
dell’Unione Europea.
Per molti anni, in efetti, la perentoria afermazione del Trattato di Roma per
cui l’ordinamento comunitario non poteva avere alcuna competenza penale, è
stata assolutamente rispettata, anche perché la sovranità nazionale non poteva
ammettere la rinuncia all’esercizio sommo dell’imperium di emanare norme penali. Ma il tabù non poteva reggere all’evoluzione del protagonismo normativo
della Comunità (poi Unione), ino ad iniziare a coinvolgere la sfera della sovranità penale nazionale, consequenzialmente all’incontestabile esigenza di tutelare
adeguatamente interessi non più comuni ai singoli Stati membri, ma di rango sovranazionale poiché propri della Comunità. Interessi proporzionalmente accresciuti in relazione alla progressiva costruzione dell’Unione Europea, «andando a
comprendere, per esempio, la tutela del buon andamento dell’amministrazione
comunitaria e della corretta attività degli organi giurisdizionali comunitari, la tu-
1. Approfonditamente, Grandi, Riserva di lege e legalità penale europea, Milano, 2010, con ampi
riferimenti bibliograici.
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tela della concorrenza commerciale e della trasparenza societaria, la tutela della
moneta unica e la tutela dell’ambiente e, poi, la sicurezza, la regolamentazione
dell’immigrazione, ma anche la qualità dei prodotti alimentari»2.
La produzione comunitaria, nell’alveo del terzo pilastro ante Lisbona, è stata
ricca anche in materia di penale sostanziale, attraverso l’adozione di Convenzioni3 e di decisioni-quadro4, molte certamente volte all’armonizzazione delle
procedure di mutuo riconoscimento delle decisioni giudiziarie penali, ma, come
detto, incidenti anche sulla previsione comune di fatti di reato, puntualmente
deiniti. Norme convenzionali tutte bisognose di normativa interna di attuazione
e, comunque, espressione non di un potere sanzionatorio penale proprio, quale
attribuzione dell’Unione, ma di un potere inalizzato a favorire la cooperazione
tra le autorità giudiziarie5.
2. Fornasari, Riserva di lege e fonti comunitarie, in Fondaroli (a cura di), Principi costituzionali
in materia penale e fonti sovranazionali, Padova, 2008, 20, con rinvio a G. Grasso, Comunità europea e
diritto penale. I rapporti tra l’ordinamento comunitario e i sistemi degli stati membri, Milano, 1989, 41 ss.
3. A titolo meramente esempliicativo, si possono ricordare la Convenzione del 26 luglio 1995
per la protezione degli interessi inanziari della Unione Europea (c.d. Convenzione PIF) con i protocolli sulla corruzione, sul ruolo della Corte di Giustizia e sul riciclaggio, la Convenzione istitutiva
dell’Uicio Europeo di Polizia EUROPOL, anch’essa del 26 luglio 1995, la Convenzione relativa
alla lotta alla corruzione nella quale sono coinvolti funzionari delle Comunità Europee o degli Stati
Membri, del 26 maggio 1997, la Convenzione sulla mutua assistenza e cooperazione in materia
doganale (cd Napoli II) del 18 dicembre 1997 seguita poi dalla cd Napoli III e la Convenzione di
assistenza giudiziaria in materia penale tra gli Stati Membri del 29 maggio 2000.
4. A titolo esempliicativo si possono ricordare la decisione quadro sul mandato di arresto
europeo 2002/584/GAI, la decisione quadro 2001/500/GAI sulla identiicazione e conisca di proventi di reato, la decisione quadro 2003/577/GAI sulla esecuzione nella UE di ordini di blocco
dei beni, la decisione quadro 2005/212/GAI su conisca di beni, strumenti e proventi di reato, la
decisione quadro 2006/783/GAI sul mutuo riconoscimento delle decisioni in materia di conisca,
la decisione quadro 2002/465/GAI istituente le squadre investigative comuni.
5. Come ricorda Venegoni, Prime brevi note sulla proposta di direttiva della Commissione Europea
per la protezione degli interessi inanziari dell’Unione attraverso la lege penale COM/2012/363 (c.d. Direttiva PIF), in www.penalecontemporaneo.it, «un capitolo a sé nella storia del diritto penale europeo è
poi stato sempre rappresentato dal settore della tutela degli interessi inanziari della Unione. Questo settore era tradizionalmente trasversale al primo e al terzo pilastro perché la tutela del proprio
bilancio è sempre stata per la Unione sia una delle politiche proprie (e non poteva essere altrimenti), da tutelare quindi con strumenti interni comunitari di natura amministrativa (primo pilastro),
sia una materia che, potendo sfociare in condotte di rilevanza penale, doveva trovare tutela anche
a livello di normativa criminale, propria degli Stati Membri ma nel cui ambito la Unione poteva
emanare norme tendenti al ravvicinamento ed alla armonizzazione delle normative nazionali per
favorire i rapporti tra le autorità giudiziarie (terzo pilastro). La normativa penale della Unione,
quindi, era inalizzata soprattutto alla cooperazione giudiziaria tra le autorità nazionali. Anche in
questo settore, quindi, la UE non esercitava un potere legislativo in materia penale “autonomo”,
con la possibilità di prevedere fattispecie penale e sanzioni, indipendentemente dalla inalità di
armonizzazione dei reati ai ini della cooperazione giudiziaria. Tale concetto era, infatti, espresso
in maniera chiarissima nel testo dell’articolo che rappresentava la base legale per le iniziative legi-
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i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
Il Trattato di Lisbona ha poi attribuito alla competenza congiunta degli Stati
e dell’Unione Europea la materia della giustizia e degli afari interni (spazio di
libertà sicurezza e giustizia), ma ancora non garantendo alle decisioni europee il
crisma della democraticità tramite l’esclusiva garanzia parlamentare, che, come
bene è stato osservato, assicura anche la scelta dei beni giuridici da tutelare penalmente e delle modalità della tutela (aspetto sostanziale della riserva di legge)6.
Non si ritiene, come si dirà più avanti, suiciente, in tali sensi, il potere di veto
previsto dall’art. 83 TFUE (o c.d. freno di emergenza), esercitabile da ciascun Stato
membro per ottenere la sospensione dell’adozione di una direttiva che incida su
aspetti fondamentali del proprio ordinamento giudiziario penale, al ine di imprimere di tale essenziale carattere la norma penale europea.
Le fonti comunitarie che interessano la questione afrontata continuano ad
essere i regolamenti e le direttive (ma più queste ultime). I regolamenti hanno
eicacia diretta ed immediata in tutto il territorio europeo e non hanno alcun
bisogno di trasposizione interna. Le direttive, al contrario, non hanno eicacia
diretta, ma impongono obblighi e obiettivi agli Stati che sono, però, liberi di
raggiungerli con gli strumenti ritenuti più consoni dal diritto interno7. L’art. 83
TFUE attribuisce espressamente a tale ultima fonte europea l’esclusiva possibilità di prevedere norme di armonizzazione penale.
I.2. La competenza penale dell’Unione Europea. La competenza, nella terminologia
dell’architettura costituzionale, delinea gli ambiti (o materie) e la tipologia di
intervento riservata agli organi dotati di potestà (legislativa, esecutiva, giudiziaria, secondo la tradizionale ripartizione). Nel sistema del diritto comunitario, la
potestà legislativa è condivisa tra il Consiglio ed il Parlamento Europeo (art. 14
TUE), attraverso un iter di formazione della norma legislativa che vede l’iniziativa della Commissione e la decisione congiunta di Consiglio e Parlamento, in
base a quanto previsto dalla procedura legislativa ordinaria (art. 294 TFUE).
Gli ambiti di competenza degli organi comunitari sono regolati dai principi di
attribuzione, sussidiarietà e proporzionalità, come deiniti dall’art. 5 TUE ed, in
particolare, gli ambiti di attribuzione legislativa sono indicati in maniera specislative nel settore nel sistema pre-Lisbona, e cioè l’art. 280 del Trattato CE che, pur dichiarando la
necessità della adozione di misure deterrenti e dissuasive per la tutela delle inanze comunitarie,
speciicava però in maniera esplicita che le iniziative che la UE poteva intraprendere in questo campo non riguardavano comunque l’applicazione del diritto penale nazionale».
6. Fornasari, Riserva di lege e fonti comunitarie, cit., 17 ss.
7. Accanto alle direttive proprie, la giurisprudenza della Corte di Giustizia ha creato, in via
pretoria, le direttive self executing (improprie) che hanno eicacia diretta, una volta trascorso il
tempo per la loro trasposizione e che possono essere fatte valere dal cittadino contro lo Stato inadempiente. È superluo dover evidenziare che l’inadempimento statuale non può che avere efetti
risarcitori.
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ica e dettagliata (artt. 3 e 4 TFUE), pur ammettendosi l’intervento comunitario
anche su materie non attribuite, «soltanto se e in quanto gli obiettivi dell’azione
prevista non possono essere conseguiti in misura suiciente dagli Stati membri,
né a livello centrale né a livello regionale e locale, ma possono, a motivo della
portata o degli efetti dell’azione in questione, essere conseguiti meglio a livello
di Unione» (art. 5, n. 3, TUE), sotto il controllo dei Parlamenti nazionali.
In materia penale, possiamo distinguere una competenza penale europea tipica, fondata (o argomentata) su disposizioni positive, da quella atipica, ancorata
alla lettura pretoria dell’obbligo di leale cooperazione (o di fedeltà comunitaria)
di cui all’art. 4 TUE.
I.3. La competenza penale tipica e la possibilità dell’Unione Europea di emanare norme penali. La competenza penale tipica8 va considerata nell’alveo della materia
di spazio di libertà, sicurezza e giustizia, attribuito congiuntamente agli Stati
membri ed all’Unione Europea (art. 4 TFUE), nei limiti del «rispetto dei diritti
fondamentali e dei diversi ordinamenti e delle tradizioni giuridiche degli Stati
membri» (art. 67, § 1, TFUE)9.
L’art. 83, § 1, TFUE prevede che «il Parlamento europeo e il Consiglio, deliberando mediante direttive secondo la procedura legislativa ordinaria, possono
stabilire norme minime relative alla deinizione dei reati e delle sanzioni in sfere
di criminalità particolarmente grave che presentano una dimensione transnazionale derivante dal carattere o dalle implicazioni di tali reati o da una particolare necessità di combatterli su basi comuni». Tali sfere di criminalità sono
individuate dal capoverso ed, in particolare, esse sono: «terrorismo, tratta degli
esseri umani e sfruttamento sessuale delle donne e dei minori, traico illecito di
8. Bernardi, La competenza penale accessoria dell’Unione Europea: problemi e prospettive, in Dir.
pen. cont. - Riv. trim., 1, 2012, 43 ss., distingue la competenza penale europea (che, come si dirà,
deiniamo tipica propria e impropria) in autonoma, in relazione alla previsione di cui all’art. 83, §
1, TFUE, e accessoria, in ordine a quella disciplinata dall’art. 83, § 2, TFUE. Si tratta, comunque, di
una competenza indiretta, cfr. fra gli altri, Manes, Il giudice nel labirinto. Proili delle intersezioni tra
diritto penale e fonti sovranazionali, Roma, 2012, 15.
9. Tesauro, Diritto dell’Unione Europea, Padova, 2012, 99 per cui «i settori di competenza concorrente possono essere oggetto di attività legislativa sia da parte dell’Unione sia da parte degli
Stati. Nondimeno, l’esercizio della competenza statale, nell’art. 2 TFUE, è costruito in termini residuali rispetto a quello dell’Unione, giacché è espressamente afermato che la competenza statale
possa essere esercitata soltanto qualora le istituzioni non abbiano fatto uso della propria, oppure
qualora abbiano deciso di cessare di esercitare la propria. L’applicazione della norma in questione
è, comunque, in grado di determinare diversi scenari: gli Stati dispongono dell’intera competenza
normativa qualora l’Unione si astenga da qualsiasi forma di intervento o smetta di occuparsi del
settore in questione; sono chiamati, invece, ad adottare semplicemente norme di attuazione qualora l’Unione intervenga con una disciplina non autoapplicativa; inine, subiscono la completa espropriazione delle proprie prerogative normative qualora l’Unione detti una disciplina esaustiva».
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i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
stupefacenti, traico illecito di armi, riciclaggio di denaro, corruzione, contrafazione di mezzi di pagamento, criminalità informatica e criminalità organizzata».
Catalogo che può essere incrementato dal Consiglio con una decisione adottata
all’unanimità, previa approvazione del Parlamento europeo, purché le ulteriori
sfere di criminalità abbiano i caratteri di quelle già tipizzate.
Ed invero, il primo comma dell’art. 83, § 1, TFUE individua tali caratteri nei
seguenti:
a) particolare gravità;
b) transnazionalità che derivi (1) dal carattere o dalle implicazioni di tali reati,
ovvero (2) da una particolare necessità di combatterli su basi comuni.
La norma de qua, dunque, prevede l’ambito di competenza penale propria e
tipica dell’Unione Europea, in una forma mitigata, se si vuole, nel senso che non
essendo stabilito un catalogo comune ed armonizzato di pene, non è possibile
un’applicazione diretta della norma penale europea, tant’è vero che la disposizione citata prescrive l’adozione di una direttiva, che non può avere applicazione immediata e generalizzata, necessitando del recepimento da parte di ciascun
Stato membro. Pertanto, sarà impossibile poter individuare, in tale settore, delle
direttive self executing.
In altri termini, la previsione pattizia comunitaria ha deinito una competenza penale tipica dell’Unione, non solo, concorrente, ma anche condivisa con gli
Stati membri, da un lato, essendo necessario il recepimento della norma penale
europea attraverso un atto legislativo interno (di attuazione) e, dall’altro, prevedendo la possibilità di sospendere la procedura legislativa ordinaria, secondo
quanto prescritto dall’art. 83, § 3, TFUE, come si dirà più avanti.
Non va dimenticata la norma prevista nell’ambito della tutela degli interessi
inanziari dell’Unione Europea (art. 325 TFUE) che, diversamente dal precedente art. 280 TCE, dettato per la medesima materia, consente (rectius, non esclude)
la possibilità di adottare delle norme penali, non contenendo più l’inciso del precedente articolo pattizio secondo cui tali misure non avrebbero comunque interessato il diritto penale degli Stati membri, con l’efetto che anche in tale settore
l’Unione è dotata di una potestà normativa penale propria.
A diferenza della previsione di cui all’art. 83, § 1, TFUE, l’art. 325 TFUE
non limita lo strumento di produzione alla sola direttiva, con ciò ammettendo
o, meglio, non escludendo la possibilità di adozione di regolamenti in tale settore, quindi direttamente applicabili negli Stati membri, salvi i limiti imposti dal
diritto interno che ne renderebbero assolutamente impraticabile l’applicazione
efettiva10.
10. Venegoni, Prime brevi note sulla proposta di direttiva della Commissione Europea, cit., 3, osserva, a proposito della proposta della Commissione per la protezione degli interessi inanziari
europei, ma con argomenti estensibili ad ogni altro settore, che «una proposta di regolamento
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Tale possibilità è, comunque, da escludere per una ragione sistematica. L’art.
83 TFUE, come visto, regola la competenza penale europea, prescrivendo la
forma di produzione della relativa norma, tramite la direttiva. Tale disposizione formale della fonte di produzione assume carattere generale, non tanto, in
relazione alla competenza tipica propria, come appena deinita, laddove vi è
un’espressa attribuzione di materie aferenti alla frode inanziaria in genere, a cui
fa riferimento l’art. 325 TFUE (riciclaggio, corruzione e contrafazione dei mezzi
di pagamento), ma soprattutto in considerazione di quanto previsto dall’art. 83,
§ 2, TFUE, che, come si vedrà nel prossimo paragrafo, disciplina una competenza penale impropria ed accessoria ad ogni materia di intervento dell’Unione.
Per queste ragioni e, dunque, dal combinato disposto degli artt. 83 e 325 TFUE,
non appare possibile l’ipotesi di adozione di regolamenti penali per la tutela degli
interessi inanziari comunitari11.
avrebbe comportato dei problemi che ne avrebbero reso il cammino per l’approvazione ancora più
complicato di quello che ci si può aspettare in sede di prossime negoziazioni al Consiglio della UE e
al Parlamento Europeo. Oltre alle questioni di carattere “politico” sulla introduzione, per la prima
volta, di norme penali direttamente negli ordinamenti nazionali senza necessità di normativa di attuazione, l’adozione di un regolamento in diritto penale sostanziale pone, in linea generale, alcuni
problemi di carattere eminentemente pratico, forse non irrisolvibili, ma che meritano però delle
rilessioni. Una questione problematica potrebbe essere, per esempio, quella relativa alle sanzioni. Per essere immediatamente applicabile negli stati membri come regolamento, l’atto dovrebbe
contenere non tanto una indicazione di soglie sanzionatorie alle quali gli Stati membri dovrebbero
adattare le proprie normative nazionali, sempre con un certo margine di autonomia, quanto l’indicazione speciica e precisa del tipo di sanzione e della sua quantiicazione – seppure sempre entro
un limite minimo e massimo –, esattamente come avviene per le norme del codice penale interno.
Ciò potrebbe comportare anche dei problemi linguistici in sede di traduzione – e non trasposizione, trattandosi di norme che sarebbero direttamente applicabili – di tali disposizioni. L’adozione
di norme penali con regolamento è certamente un obiettivo ambizioso e rappresenterà un passo
fondamentale nel cammino di uniicazione europea, ma ad esso si arriverà probabilmente con
maggiore gradualità».
11. Alcuna competenza penale diretta può essere evidenziata dal combinato disposto degli
artt. 86, § 2, e 325, § 4, TFUE. L’art. 86, § 2, TFUE, del resto, non pare neanche che possa formare
la base normativa per la previsione di una competenza penale distinta, rispetto a quella generale
di cui all’art. 83 TFUE, in materia di interessi inanziari comunitari, trattandosi di una norma di
organizzazione della competenza di una futura procura europea, con la possibilità, fra l’altro, di
indicare i reati più gravi da devolvere alla competenza di tale magistratura inquisitoria sovraordinata. Da ciò, non appare possibile utilizzare tale norma per giustiicare la deinizione di reati con
regolamento. Lucidamente, Bernardi, La competenza penale accessoria dell’Unione Europea: problemi
e prospettive, cit., 61, nota 106, evidenzia che «il quesito se gli artt. 86, § 2 e 325, § 4 TFUE prevedano
l’attribuzione di una competenza penale diretta a carattere settoriale in capo all’Unione (e dunque
la possibilità, per quest’ultima, di adottare regolamenti a carattere penale) riceve in dottrina tre
diverse soluzioni: a) la prima soluzione è volta a negare tale competenza (cfr., per tutti, Palazzo, Corso di diritto penale, Torino, 2011, 131 ss.; amplius G. Grasso, Il Trattato di Lisbona e le nuove
competenze penali dell’Unione, in Studi in onore di Mario Romano, Napoli, 2011, 2347. L’A. riconosce
sì “una maggiore incisività della competenza prevista in questo articolo [325 TFUE] rispetto a
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i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
I.4. La competenza penale europea atipica. Evoluzione giurisprudenziale dell’obbligo di
tutela degli interessi comunitari. Gli obblighi di risultato e quelli di penalizzazione. La
previsione nel Trattato di Lisbona di una competenza penale tipica impropria e l’attuale
possibilità di imporre obblighi di risultato adeguatamente sanzionati. L’opera esegetica della giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha precisamente delineato un’inluenza del diritto comunitario su quello penale statuale,
poi, sfociata in ciò che abbiamo già deinito come una competenza penale (tipica e
propria) dell’Unione, fondata sulla previsione dell’art. 83, § 1, TFUE. Ma accanto a tale competenza è ancora oggi possibile delineare una competenza atipica
penale (o tipica impropria, come vedremo), così come elaborata dalla Corte di
Giustizia prima del Trattato di Lisbona.
È stata proprio la Corte di Lussemburgo, come accennato, a sancire progressivamente «il tramonto dell’idea originaria di un diritto penale impermeabile
al processo di integrazione europea, deinendo un assetto dei rapporti tra ordinamento comunitario e sistemi penali nazionali in cui l’opera di deinizione
di ciò che è penalmente rilevante vede sempre meno le autorità nazionali quali
attori esclusivi delle scelte di penalizzazione formalizzate all’interno di ciascun
ordinamento»12.
quella di cui all’art. 83”, ma ritiene che tale maggiore incisività discenda solo dall’eliminazione dei
vincoli relativi sia all’adozione di “regole minime” sia al presupposto della “indispensabilità”; non
discenda cioè − per usare le parole di Picotti, Il Corpus Juris 2000. Proili di diritto penale sostanziale
e prospettive di attuazione alla luce del progetto di Costituzione europea, in Picotti (a cura di), Il Corpus
Juris 2000. Nuova formulazione e prospettive di attuazione, Padova, 2004, 85, 86 − dalla sussistenza di
una “speciica ‘base giuridica’ per la creazione di un diritto penale europeo […] immediatamente
operativo”); b) la seconda soluzione è orientata ad ammettere tale competenza penale diretta (cfr.
Bernardi, Europeizzazione del diritto penale e progetto di Costituzione europea, in Dir. pen. proc., 2004, 8,
9; Manacorda, Los extrechos caminos de un derecho penal de la Union Europea. Problemas y perspectivas
de una competencia penal “directa” en el Proyecto de Tratado Constituciónal, in Criminalia, 2004, 208 ss.;
Picotti, Il Corpus Juris 2000. Proili di diritto penale sostanziale e prospettive d’attuazione alla luce del
progetto di Costituzione per l’Europa, cit., 85 ss.; Riondato, Dal mandato di arresto europeo al libro verde
sulle garanzie, alla Costituzione europea. Spunti sulle nuove vie di afermazione del diritto penale sostanziale europeo, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2004, 1128 ss.); c) la terza soluzione è tesa ad ammettere una
circoscritta competenza penale diretta dell’Unione solo per i precetti, con conseguente esclusione
che il regolamento penale possa indicare anche il tipo e l’entità delle sanzioni applicabili (cfr. Sotis,
Il Trattato di Lisbona e le competenze penali dell’Unione europea, in Cass. pen., 2010, 1164 ss.)». Va segnalato che non sono stati adottati regolamenti penali aventi come base giuridica gli artt. 86 e 325
TFUE, anzi cfr. Proposta di direttiva della Commissione Europea per la protezione degli interessi inanziari
dell’Unione attraverso la lege penale COM/2012/363 (c.d. Direttiva PIF); in dottrina, fra gli altri, G.
Grasso, Il Trattato di Lisbona e le nuove competenze penali dell’Unione, cit., 2326; Id., La Costituzione per
l’Europa e la formazione di un diritto penale dell’Unione europea, in Studi in onore di Giorgio Marinucci, I,
Milano, 2006, 375; da ultimo, Grandi, Riserva di lege e legalità penale europea, cit., 122 ss.
12. Sicurella, La tutela mediata degli interessi della costruzione europea: l’armonizzazione dei sistemi penali nazionali tra diritto comunitario e diritto dell’Unione Europea, in G. Grasso, Sicurella (a cura
di), Lezioni di diritto penale europeo, Milano, 2007, 247.
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La competenza penale atipica europea è stata deinita in via pretoria, dunque,
chiarendo che l’assenza di ogni autonomia sanzionatoria a livello comunitario non
signiica una rinuncia a tutelare in modo adeguato gli interessi devoluti alla costruzione comunitaria, imponendo, di contro, un sistema di tutela mediata dall’intervento dell’apparato sanzionatorio degli Stati membri13, necessario e obbligato dal
principio di leale cooperazione (o di fedeltà comunitaria) deinito ora dall’art. 4
TUE. In altri termini, l’interesse comunitario deve essere adeguatamente tutelato
da norme interne sanzionatorie, in difetto delle quali lo scopo indicato dalla norma
comunitaria viene meno. Si tratta, quindi, di un obbligo di risultato sottoposto al sindacato della Corte di Giustizia che veriica, nel corso della procedura di infrazione,
la concreta adeguatezza della soluzione sanzionatoria adottata dallo Stato membro.
Tale controllo è regolato dal duplice vincolo della predisposizione di condizioni sostanziali e processuali “analoghe” a quelle stabilite per le violazioni del
diritto interno «simili per natura ed importanza» (principio di assimilazione) e
che comunque conferiscano alla sanzione «un carattere di efettività, di proporzionalità e di capacità dissuasiva» (principio della sanzione adeguata)14.
Accanto agli obblighi di risultato, come appena deiniti, l’evoluzione giurisprudenziale comunitaria ha stigmatizzato la legittimità degli interventi normativi volti
«ad imporre agli Stati non più di garantire mezzi sanzionatori genericamente eicaci per raggiungere l’obiettivo di tutela, ma veri e propri obblighi di penalizzazione,
vincolanti gli Stati membri a qualiicare proprio come illeciti penali le infrazioni
di determinate disposizioni del diritto comunitario, talora condizionandone la discrezionalità anche in relazione alla scelta della tipologia o entità delle sanzioni che
devono essere previste»15. Tale impostazione poggia sulle stesse disposizioni del
Trattato che attribuiscono la competenza normativa europea in quel determinato settore, che necessita di un’articolazione sanzionatoria penale come strumento
di quella competenza. La legittimità degli obblighi comunitari di penalizzazione
è stata riconosciuta con speciico riguardo alla tutela dell’ambiente, ma con argomentazioni estensibili ad ogni settore normativo rientrante nelle attribuzioni
comunitarie, sempre se «ciò costituisca una misura indispensabile di lotta contro
danni (ambientali)» gravi, volta a garantire «la piena eicacia delle norme che [il
legislatore comunitario] emana in materia di tutela (dell’ambiente)»16.
13. Bernardi, L’europeizzazione del diritto e della scienza penale, Torino, 2004, 25 ss.
14. Da ultimo, Corte Giust. Un. Eur. Sez. V, 7 ottobre 2010, C-382/09; in precedenza, Corte
Giust. Com. Eur., 12 settembre 1996, C-58/96; Corte Giust. Com. Eur., 8 giugno 1994, C-383/94.
Va ricordato il famoso leading case in cui, per la prima volta, sono stati elaborati i principi de quibus
(sentenza del c.d. mais greco), cfr. Corte Giust. Com. Eur., 1 settembre 1999, C-68/88, Commissione/Grecia, punti 23 e 24; si veda pure, Corte Giust. Com. Eur., 2 ottobre 1991, C-7/90, punto 11.
15. Fornasari, Riserva di lege e fonti comunitarie, cit., 25.
16. Corte Giust. Com. Eur., Grande Sez., 23 ottobre 2007, C-440/05, in cui si richiama il precedente di Corte Giust. Com. Eur., Grande Sez., 13 settembre 2005, C-176/03 che testualmente
27
i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
Gli obblighi di penalizzazione, a diferenza di quelli di mero risultato con la
previsione di una sanzione adeguata, lasciano poco spazio all’autonomia statuale, poiché, come è stato osservato17, «l’opzione tra la sanzione penale e gli altri
tipi di sanzioni, garantita dagli obblighi di risultato, è al di fuori del margine nazionale di apprezzamento». Ma questo è un aspetto che dovrà essere approfondito nell’indagine, dopo aver delineato il sistema attualmente vigente18.
Fino all’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, quindi, grazie all’elaborazione giurisprudenziale, l’Unione poteva intervenire in materia penale,
imponendo agli Stati membri obblighi di risultato da sanzionare adeguatamente e obblighi di previsione di veri e propri illeciti penali a tutela di beni
comunitari19.
Attualmente, l’art. 83, § 2, TFUE contiene una disposizione che sembrerebbe
costituire la base positiva della competenza penale in ogni settore o ambito di
attribuzione dell’Unione Europea, alla stregua dell’elaborazione pretoria dell’obbligo di tutela penale di interessi comunitari, appena illustrato20.
aferma ai §§ 47 e 48, che «in via di principio, la legislazione penale, così come le norme di procedura penale, non rientrano nella competenza della Comunità […] quest’ultima constatazione non
può tuttavia impedire al legislatore comunitario, allorché l’applicazione di sanzioni penali efettive, proporzionate e dissuasive da parte delle competenti autorità nazionali costituisce una misura
indispensabile di lotta contro violazioni ambientali gravi, di adottare provvedimenti in relazione
al diritto penale degli Stati membri e che esso ritiene necessari a garantire la piena eicacia delle
norme che emana in materia di tutela dell’ambiente».
17. Sotis, Il diritto senza codice. Uno studio sul sistema penale vigente, Milano, 2007, 171.
18. Tra le prime indagini di approfondimento, Sotis, Obblighi comunitari di tutela e opzione penale: una dialettica perpetua?, in Riv. it. dir. proc. pen., 2002, 171 ss., seguite da un ampio dibattito,
Lanzi, Considerazioni sull’eventualità di un sindacato di ragionevolezza sulle scelte politico-criminali, in
IP, 2003, 895 ss.; Sicurella, Diritto penale e competenze dell’Unione europea. Linee guida di un sistema
integrato di tutela di beni giuridici di interesse comune, Milano, 2005, 200 ss.; Sotis, Il diritto senza codice,
cit., 246 ss.; Paonessa, Gli obblighi di tutela penale. La discrezionalità legislativa nella cornice dei vincoli
costituzionali e comunitari, Pisa, 2009, 193 ss.; Salcuni, Il canto del cigno degli obblighi comunitari/
costituzionali di tutela: il caso del falso in bilancio, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2005, 93 ss.; Fornasari,
Riserva di lege e fonti comunitarie, cit., 31 ss.; Siracusa, Il transito del diritto penale di fonte europea
dalla vecchia alla nuova Unione post-Lisbona, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2010, 779 ss.; Manacorda, Le
droit pénal e l’Union européenne: esquisse d’un systeme, in RSCDPC, 2000, 95 ss.; Mezzetti, La tutela
penale degli interessi inanziari dell’Unione europea. Sviluppi e discrasie nella legislazione penale degli Stati
membri, Padova, 1994.
19. Esempio classico di tale forma di potestà in materia penale pre-Lisbona è la direttiva
2008/99/CE in materia di inquinamento marittimo, che è proprio il frutto dei principi espressi
dalla sentenza della Corte di Giustizia nel caso C-176/03.
20. Ampiamente, al riguardo, Bernardi, La competenza penale accessoria dell’Unione Europea:
problemi e prospettive, cit., 45; Sotis, Il Trattato di Lisbona e le nuove competenze penali dell’Unione europea, in Cass. pen., 2010, 1150 ss.; Salcuni, L’europeizzazione del diritto penale: problemi e prospettive,
Milano, 2011, 144 ss.; Sicurella, Questioni di metodo nella costruzione di una teoria delle competenze
dell’Unione europea in materia penale, in Studi in onore di Mario Romano, Napoli, 2011, IV, 2596 ss.;
Hecker, Europäisches Strafrecht, Heidelberg, Dondrecht, London, New York, 2010.
28
legalità
«Allorché il ravvicinamento delle disposizioni legislative e regolamentari degli
Stati membri in materia penale – recita la norma – si rivela indispensabile per garantire l’attuazione eicace di una politica dell’Unione in un settore che è stato oggetto di misure di armonizzazione, norme minime relative alla deinizione dei reati
e delle sanzioni nel settore in questione possono essere stabilite tramite direttive». I
presupposti di tale competenza generale tipica (impropria)21 sono l’indispensabilità
della norma penale e la già intervenuta armonizzazione delle legislazioni particolari, comunque, sottoposta ai limiti previsti per quella tipica (propria).
A prescindere dal carattere internazionale della materia interessata (si richiede infatti l’intervenuta armonizzazione del settore di interesse comunitario),
patrocinato dal principio di sussidiarietà22, il presupposto dell’indispensabilità richiesto dall’art. 83, § 2, TFUE, sintetizza l’elaborazione giurisprudenziale dei
limiti agli obblighi di penalizzazione, richiedendo, inoltre, il rispetto del principio
di proporzionalità23, in base al quale l’azione comunitaria non deve andare «al di
là di quanto necessario per il raggiungimento degli obiettivi e, quindi, può realizzarsi solo in assenza di una adeguata normativa penale previgente negli Stati
membri»24. L’indispensabilità della norma penale europea (in materia di competenza tipica impropria) è ricavabile dall’applicazione del principio di sussidiarietà
(comune anche alla competenza penale tipica propria), nella combinazione dei
suoi corollari dell’eicacia e della necessità, con il principio di proporzionalità.
Poiché l’art. 83, § 2, TFUE, legittima, come visto, positivamente l’obbligo di
penalizzazione, frutto dell’elaborazione della giurisprudenza della Corte di Giustizia, la competenza penale atipica, delineata all’inizio del paragrafo, sarebbe
limitata oggi ai soli obblighi di risultato da raggiungere con sanzioni adeguate.
Ma ciò non può essere. Appare, infatti, anacronistico ritenere che, a fronte della
novella costituzionale europea con cui è stata recepita la pluriennale evoluzione
giurisprudenziale, nulla sia mutato e tutto sia rimasto come prima. In altri termini,
21. Deinita accessoria da Bernardi, La competenza penale accessoria dell’Unione europea, cit., 48.
Nello stesso senso, con esplicito richiamo, Manes, Il giudice nel labirinto, cit., 109, nota 306.
22. Codiicato dall’art. 5, § 3 TUE secondo cui: «In virtù del principio di sussidiarietà, nei settori che non sono di sua competenza esclusiva l’Unione interviene soltanto se e in quanto gli obiettivi
dell’azione prevista non possono essere conseguiti in misura suiciente dagli Stati membri, né a
livello centrale né a livello regionale e locale, ma possono, a motivo della portata o degli efetti
dell’azione in questione, essere conseguiti meglio a livello di Unione. Le istituzioni dell’Unione
applicano il principio di sussidiarietà conformemente al protocollo sull’applicazione dei principi
di sussidiarietà e di proporzionalità. I parlamenti nazionali vigilano sul rispetto del principio di
sussidiarietà secondo la procedura prevista in detto protocollo».
23. Codiicato dall’art. 5, § 4 TUE secondo cui: «In virtù del principio di proporzionalità, il
contenuto e la forma dell’azione dell’Unione si limitano a quanto necessario per il conseguimento
degli obiettivi dei trattati. Le istituzioni dell’Unione applicano il principio di proporzionalità conformemente al protocollo sull’applicazione dei principi di sussidiarietà e di proporzionalità».
24. Epidendio, Diritto comunitario e diritto penale interno, Milano, 2007, 30.
29
i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
la novella, prevedendo espressamente, come visto, una competenza penale tipica
(propria e impropria) dell’Unione Europea, che ha positivizzato gli obblighi di penalizzazione come ammessi dalla giurisprudenza comunitaria, ha voluto escludere
una competenza atipica che, invero, non avrebbe più alcun senso ove si consideri
che la sanzione penale come tutela adeguata dell’obiettivo comunitario può essere
già imposta dalla norma di indirizzo europeo, ai sensi dell’art. 83 TFUE.
I.4.1. Classiicazione delle competenze penali dell’Unione Europea. Riepilogo. La competenza penale dell’Unione Europea, regolata dal principio di sussidiarietà e proporzione, può essere così classiicata:
– tipica propria, per cui l’Unione può stabilire norme minime relative alla deinizione dei reati e delle sanzioni in materia di terrorismo, tratta degli esseri umani e sfruttamento sessuale delle donne e dei minori, traico illecito di stupefacenti, traico illecito di armi, riciclaggio di denaro, corruzione, contrafazione
di mezzi di pagamento, criminalità informatica e criminalità organizzata (art.
83, § 1, TFUE); tali materie possono essere incrementate senza la necessità della procedura di revisione del Trattato, ma dal Consiglio, previa deliberazione
del Parlamento europeo, con una decisione adottata all’unanimità;
– tipica impropria, per cui l’Unione può stabilire norme minime relative alla deinizione dei reati e delle sanzioni in ogni settore che è stato oggetto di armonizzazione, purché tale intervento risulti indispensabile per garantire l’attuazione eicace della stessa politica di armonizzazione (art. 83, § 2, TFUE).
Tale competenza (tipica propria e impropria), come detto, riguarda la materia di spazio di libertà, sicurezza e giustizia, attribuita congiuntamente agli Stati
membri ed all’Unione Europea (art. 4 TFUE), nei limiti del «rispetto dei diritti
fondamentali e dei diversi ordinamenti e delle tradizioni giuridiche degli Stati
membri» (art. 67, § 1, TFUE).
La stessa viene esercitata esclusivamente con direttive da adottare secondo
l’iter ordinario (art. 294 TFUE) e, dunque, è certamente indiretta, ovvero attraverso la procedura speciale nella sola ipotesi di competenza penale tipica impropria, qualora l’indispensabilità della norma penale intervenga in un settore
armonizzato con un iter legislativo speciale25.
25. Per esempio, nel campo della tutela ambientale (artt. 191-193 TFUE) è prevista sì la procedura legislativa ordinaria ex art. 192, § 1, ma anche, in speciici sottosettori (concernenti, tra l’altro,
l’assetto territoriale, le risorse idriche, la destinazione dei suoli), una procedura legislativa speciale,
previa consultazione del Parlamento europeo, ex art. 192, n. 2. Sempre ai sensi dell’art. 192, § 2
TFUE, nei suddetti sottosettori si applica tale procedura «fatto salvo l’art. 114», il quale prevede la
procedura legislativa ordinaria per le norme relative al ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri che hanno per oggetto l’instaurazione e
il funzionamento del mercato interno: cosicché, verosimilmente, se le misure di armonizzazione
che incidono sull’assetto territoriale, sulla gestione quantitativa dei succitati sottosettori hanno
30
legalità
È stata appuntata l’attenzione sulle modalità di ampliamento dei settori afidati alla competenza penale. Mentre per quella tipica propria la stessa norma
prevede un iter formale di incremento dei settori attribuiti alla politica criminale
comunitaria, oltre alla possibilità di un’interpretazione estensiva26, quella tipica
impropria, invece, non è vincolata al rispetto di un iter procedurale di incremento dei settori di intervento penale, ma è limitata solo dal criterio sostanziale insito nei principi di sussidiarietà e proporzionalità. Da ciò la concreta potenzialità
espansiva incontrollabile della competenza tipica impropria27.
I.5. La sovranità in materia penale e l’Unione Europea come Staatenverbund. Alla ine
dell’analisi del sistema delle competenze attribuite all’Unione, va afrontata la
questione della sovranità in materia penale che, comunque, non è condivisa tra
l’Unione e gli Stati membri, per una serie di incontestabili ragioni.
È necessario, prima d’ogni altro, valutare la natura dell’Unione Europea, certamente, di non agevole deinizione giacché eterogenee sono le fonti delle sue norme
che disciplinano i rapporti tra i singoli (cittadini dell’Unione e persone residenti), le
istituzioni comunitarie e gli Stati membri, vale a dire, tra i soggetti dell’ordinamento.
Sifatte norme hanno infatti una natura diversiicata, a tre dimensioni: a) internazionale, se si considerano i Trattati istitutivi delle Comunità europee e
un collegamento diretto con l’instaurazione o il funzionamento del mercato comune, la base giuridica sarà l’art. 114 TFUE (con conseguente adozione della procedura ordinaria); diversamente
la base giuridica sarà l’art. 192, co. 2, (con conseguente ricorso alla procedura speciale). Ulteriori
procedure legislative speciali caratterizzate da una mera consultazione del Parlamento sono poi
previste, in particolare, agli artt. 77, § 3, 81, § 3, 89, 113, 115, 126, § 14, co. 2, 127, § 6, 153, § 2,
co. 3, 183, § 4, 192, § 2, 194, § 3, 203, 218, § 6 lett. B, 219, § 1 TFUE e da talune di queste norme
(essenzialmente dall’art. 115) possono conseguire misure di armonizzazione extrapenale capaci di
giustiicare direttive penali di armonizzazione impropria.
26. Bernardi, La competenza penale accessoria dell’Unione Europea: problemi e prospettive, cit., 50.
27. Bernardi, op. e loc. cit., secondo cui, «nell’ambito della competenza penale accessoria solo
il rispetto del requisito sostanziale insito nei principi di sussidiarietà e proporzionalità (requisito
evocato nell’art. 83, § 2 TFUE, laddove si richiede che il ravvicinamento delle disposizioni nazionali
in materia penale risulti “indispensabile”) si oppone ad un generalizzato travaso di competenze
penali dagli Stati all’Unione in tutti i settori in cui quest’ultima dispone di una qualsivoglia competenza (concorrente o esclusiva). Per di più, il controllo preventivo dei Parlamenti interni in vista
del rispetto del principio di sussidiarietà − seppur prezioso e ricco di valenze democratiche − non
impedisce il varo di direttive d’armonizzazione penale ritenute non rispettose di tale principio. Nel
caso in cui almeno un quarto dei Parlamenti abbiano espresso parere negativo circa la conformità
del progetto di direttiva al suddetto principio è infatti previsto solo un aggravio delle relative procedure d’adozione, e non invece l’interruzione delle stesse, la quale avverrà esclusivamente in taluni
speciici casi. Quanto poi al controllo successivo da parte della Corte di giustizia ex art. 263 TFUE
e art. 8 Protocollo n. 2, non va ignorato che esso si è rivelato sinora assai poco pregnante, e che la
modesta incisività di tale controllo è stata ribadita nei primi mesi di vigenza del Trattato di Lisbona.
Appare dunque verosimile che esso anche in futuro si riveli scarsamente signiicativo e comunque
non idoneo a impedire un eventuale, generoso ricorso alla competenza penale accessoria».
31
i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
dell’Unione, e delle successive revisioni, in quanto accordi di diritto internazionale; b) comunitaria propriamente detta, in ordine agli atti legislativi adottati dalle istituzioni nel rispetto delle loro competenze; c) nazionale se si considera il
diritto interno degli Stati membri in esecuzione del diritto comunitario28.
È evidente, dunque, che tali speciicità conigurano un ordinamento sui generis, come tertium genus, rispetto a quelli internazionale e nazionale. Tale sistema
non è assimilabile all’ordinamento di un’organizzazione internazionale classica,
né alla struttura di una confederazione di Stati, e neppure ad alcun modello giuridico di Stato federale29. Il Bundesverfassungsgericht (Tribunale costituzionale federale tedesco), nella nota sentenza Lissabon30, avente ad oggetto il Trattato di
Lisbona e le leggi tedesche di ratiica, esecuzione ed accompagnamento, fra l’altro, ha deinito l’Unione come un’associazione di Stati sovrani (Staatenverbund)31.
28. Fragola, Nozioni di diritto dell’Unione Europea. L’ordinamento giuridico, il sistema istituzionale, la carta dei diritti, Milano, 2012, 7 ss.
29. Fragola, Nozioni di diritto dell’Unione Europea, cit., 7, secondo cui, signiicativamente,
«l’Unione è una struttura unica nel suo genere che concentra dosi sostanziali di sovranazionalità
e che evidenzia un soggetto a composizione mista di Stati, istituzioni e persone, la cui dialettica
politica e giuridico-normativa propone un complesso modello interistituzionale che si sostanzia
nel c.d. “metodo comunitario”. Il sistema politico-partecipativo costituito dal Parlamento europeo
rappresentativo degli interessi dei cittadini, le istituzioni più propriamente sovranazionali quali
la Commissione e, sul piano giurisdizionale, la Corte di giustizia, i governi degli Stati membri
che attraverso l’istituzione denominata Consiglio (nella composizione classica rappresentativo dei
Ministri) esprimono la loro forte posizione e gli Stati attraverso il Consiglio europeo (con il bilanciamento della presenza della Commissione), propongono, in un delicato equilibrio di pesi e
contrappesi, una nuova logica che non ha eguali nel panorama internazionale».
30. Per una completa analisi dell’importante “sentenza Lissabon” cfr. Anzon Demming, Principio democratico e controllo di costituzionalità sull’integrazione europea nella “sentenza Lissabon” del
Tribunale costituzionale federale tedesco, in DC, 2009, 133 ss. Per ora è suiciente rilevare che il Bundesverfassungsgericht, con la sentenza del 30 giugno 2009, ha veriicato la compatibilità del Trattato
di Lisbona, con la legge fondamentale (Grundgesetz, GG). Il giudizio del Tribunale costituzionale
federale ha dichiarato il Trattato europeo sostanzialmente conciliabile con i principi fondamentali
dell’ordinamento tedesco, tuttavia ha richiamato il Parlamento invitandolo a revisionare gli atti
adottati per la ratiica del Trattato nel rispetto dei principi contenuti negli artt. 23, co. 1, e 38, co. 1,
GG. Per gli aspetti propriamente penalistici, nella letteratura tedesca, cfr. Schunemann, Spät kommt
ihr, doch ihr kommt: Glosse eines Strafrechtlers zur Lissabon-Entscheidung des BverfG; Ambos, Rackow, Erste Überlegungen zu den Konsequenzen des Lissabon-Urteils des Bundesverfassungsgerichts für das Europäische Strafrecht; Heger, Perspektiven des Europäischen Strafrechts nach dem Vertrag von Lissabon; Braum,
Europäisches Strafrecht im Focus konligierender Verfassungsmodelle, tutti pubblicati in Zeitschrift für Internationale Strafrechtsdogmatik, 2009, 8, in www.zis-online.com; Zimmermann, Die Auslegung künftiger
EU-Strafrechtskompetenzen nach dem Lissabon-Urteil des Bundesverfassungsgerichts, in Jura, 2009, 11,
844 ss.; Schorkopf, Das Lissabon-Urteil des BVerfG. Die Vefassungsbeschwerde als geschärftes Instrument
der Verteidigung?, in Ambos (Hrsg.), Europäisches Strafrecht post-Lissabon, Göttinger Studien zu den
Kriminalwissenschaften Bd. 14, Göttingen, 2011, 111.
31. BVerfG, 30 giugno 2009, § 262, secondo cui l’Unione è un non-Stato, ma un ordinamento
derivato, fondato sul principio di attribuzione e costituito in un Verbund di Stati sovrani.
32
legalità
Tanto premesso, non si ritiene condivisibile l’opinione secondo cui «gli Stati
membri volontariamente hanno scelto con l’adesione ai trattati, di concedere periodicamente e (pressoché) deinitivamente ampie quote di sovranità, per trasferirle al
controllo delle istituzioni comunitarie, con la convinzione che tale (con)cessione è
necessaria per il buon funzionamento dell’intero sistema cui essi sono vincolati e
per la ulteriore consapevolezza della irreversibilità del processo di integrazione»32.
L’ordine di riparto delle competenze tra Unione Europea e Stati membri è regolato dal principio di attribuzione (art. 5, § 1, TUE), con l’efetto che gli Stati non
hanno ceduto quote di sovranità, ma hanno attribuito (appunto) ad un ente sovranazionale (associativo) la funzione di normare, attraverso iter decisionali cooperativi,
in settori ritenuti di interesse comune e transnazionale, come si evince dai principi
di sussidiarietà e proporzionalità che regolano l’intervento comunitario.
Il principio di attribuzione, invero, è stato raforzato con il Trattato di Lisbona
proprio tramite la sistematizzazione delle competenze.
Per la conservata sovranità di ciascuno Stato membro, osserva sempre il Tribunale costituzionale federale tedesco, depongono anche i meccanismi di protezione delle competenze degli Stati membri, contenuti nel Trattato, consistenti
nelle regole – ribadite in via generale e precisate dal Trattato – per l’esercizio
dei poteri dell’Unione, quali i principi di leale cooperazione e di sussidiarietà, il
rispetto dell’identità nazionale, il principio di proporzionalità33.
Il mantenimento del principio del Verbund e quindi della sovranità nazionale
è poi confermato nel Trattato dalla previsione espressa del diritto di recesso e
quindi dalla (implicita) reversibilità del processo di integrazione.
L’Unione Europea, inoltre, non ha un popolo, né un territorio, che non sia
l’insieme dei territori e dei popoli nazionali34.
Per la materia penale, inine, l’impossibilità (anche solo) di una condivisione
della sovranità nazionale, derivante dalle evidenziate competenze europee anche
in tale sensibile attività politica, per utilizzare le parole del Bundesverfassunsgericht, è
ancorata anche al «rispetto dei diritti fondamentali nonché dei diversi ordinamenti
giuridici e delle diverse tradizioni giuridiche degli Stati membri» (art. 67, § 1, TFUE),
che deve garantire un margine di apprezzamento da parte dello Stato membro nelle
scelte di criminalizzazione, inalizzato alla «coesistenza di diversi ordinamenti tramite un’esigenza di compatibilità secondo una logica di equivalenza (e non di uniformazione) determinata in sede europea, a cui le regole nazionali devono tendere
(standards normativi europei)»35.
32. Fragola, op. e loc. cit.
33. BVerfG, cit., § 304.
34. Signiicativo di tale evidenza è l’incipit del preambolo della Carta di Nizza, laddove si fa
espresso riferimento non al popolo europeo, ma ai popoli europei.
35. Epidendio, Diritto comunitario e diritto penale interno, cit., 37, 38.
33
i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
sezione II. democrazia
II.1. La questione della democraticità della norma penale europea. Va afrontata a questo punto la tradizionale obiezione della mancanza di democraticità della norma
penale europea, incentrata sui rapporti, in genere, tra diritto penale e democrazia, che, del resto, non è questione né nuova, né recentissima.
La dottrina prevalente argomenta il difetto di tale carattere della norma (penale) europea36 sulla base proprio dell’iter legislativo ordinario, come disciplinato
dall’art. 294 TFUE, che fa condividere la proposta legislativa della Commissione, alla comune volontà del Parlamento europeo e del Consiglio, coinvolgendo,
quindi, nella formazione della fonte primaria, organi che non hanno una diretta
investitura popolare (Commissione e Consiglio)37. Ancor di più per la competenza tipica impropria, almeno per quei settori che ammettono un iter normativo
speciale, con esclusione (o quasi) del Parlamento europeo.
La tesi appare ancora oggi convincente, non assumendo i connotati di un’opposizione preconcetta e meramente ideologico-illuministica, perché, così si argomenta, non tiene conto che ogni ordinamento nazionale europeo si ispira a
principi democratici, che sono le fondamenta dell’Unione Europea come enunciati solennemente nella Carta di Nizza38. Ma non solo. L’esigenza democratica
36. Invero, si sostiene che alcuna competenza penale possa ritenersi attribuita all’Unione Europea, mancando una norma precisa e chiara che tanto dichiari. Ma, come visto, tale drastica obiezione non può sostenersi all’indomani del Trattato di Lisbona. Fra i tanti, Paonessa, Gli obblighi di
tutela penale. La discrezionalità legislativa nella cornice dei vincoli costituzionali e comunitari, cit., 254 ss.;
Raspadori, Il deicit di rappresentatività del Parlamento europeo: limiti e soluzioni, in Studi sull’integrazione europea, 2009, 125 ss.; su tali tesi, criticamente, Grandi, Riserva di lege e legalità penale europea,
cit., 117 ss., con ulteriori riferimenti bibliograici. Per la letteratura tedesca, Meyer, Demokratieprinzip und Europäisches Strafrecht, Zürich-St. Gallen, 2009.
37. La rappresentatività democratica delle decisioni politico criminali assicurata dal Parlamento è la ratio della riserva di legge di cui all’art. 25, co. 2, Cost., secondo una storica pronuncia della
Consulta (Corte cost. n. 487 del 1989, Pres. Saja, Red. Dell’Andro) chiamata a pronunciarsi sulla
possibilità per le Regioni di adottare delle norme penali nei settori si competenza legislativa esclusiva o concorrente. Tale pronuncia è stata espressamente richiamata da Corte cost. n. 230 del 2012,
Pres. Quaranta, Red. Frigo, su cui ampiamente in prosieguo.
38. Bernardi, La competenza penale accessoria dell’Unione Europea: problemi e prospettive, cit., 58,
il quale osserva che, sebbene le due fondamentali norme europee concernenti il principio di legalità penale (vale a dire l’art. 49 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e l’art. 7
CEDU) nulla dicano al riguardo, è paciico che in ambito europeo tale principio contenga anche
il corollario della democraticità. Infatti, osserva l’A., «in base alla giurisprudenza della Corte di
giustizia il diritto primario dell’Unione non contiene solo principi di diritto scritto, ma anche i
principi di diritto non scritto ricavati, oltreché dalle convenzioni internazionali ratiicate dagli Stati
membri, dalle Costituzioni di questi ultimi. Come si sa, questa giurisprudenza pretoria è stata da
tempo recepita dai Trattati, cosicché in base all’art. 6, n. 3 TUE, “I diritti fondamentali, […] risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione
in quanto principi generali”. Orbene, precisato che per essere “comuni” tali tradizioni non devono
34
legalità
unionista è stata ravvisata39 anche nel riconoscimento della cittadinanza europea, in
aggiunta, senza sostituirla, a quella nazionale (art. 9 TUE), che costituisce la legittimazione democratica dell’Unione Europea con l’oferta ai suoi cittadini di uno
spazio di libertà, sicurezza e giustizia senza frontiere interne (art. 3, § 2, TUE),
nel rispetto dei diritti fondamentali (art. 67, § 1 TUE), garantendo a «ogni persona i cui diritti e le cui libertà garantite dal diritto dell’Unione siano stati violati il
diritto a un ricorso efettivo davanti a un giudice» (art. 47 della Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione Europea – c.d. Carta di Nizza40), tramite l’efettività dei
rimedi giurisdizionali assicurati dagli Stati membri (art. 19, § 1, TUE). Si tratta di
una legittimazione democratica dialogica, ove la cittadinanza europea costituisce
l’anello di connessione tra l’ordinamento sovranazionale e quelli domestici.
Per garantire la necessità di democraticità della norma penale, non è, dunque,
suiciente la sola garanzia del rispetto del relativo iter costituzionale di formazione, ma è necessario che la potestà legislativa appartenga, in via esclusiva o prevalente, ad un organo eletto democraticamente, capace di dare forte legittimazione politica alle scelte di tutela penale41, poiché l’ordinamento è democratico se
è retto (e rispetta) i principi di rappresentatività, partecipazione ed uguaglianza
che si concentrano ed esprimono nell’organo parlamentare.
«Fra gli atti normativi, la legge, con tutti i suoi difetti, continua a possedere
una qualità irrinunciabile nelle democrazie contemporanee: quella di scaturire
da un procedimento di formazione pubblico e trasparente, che si svolge in Parlamento, e potenzialmente al cospetto dell’opinione pubblica, e che coinvolge
l’intera rappresentanza politica, composta da maggioranza e minoranze»42.
In tale prospettiva, una parte della dottrina ha valorizzato l’aspetto sostanziale della riserva di legge, sottolineando l’importanza del controllo informato da
parte dei cittadini sulle opzioni legislative, attraverso cui, con metodo democratico, si forma la norma penale43.
necessariamente appartenere a tutti i Paesi membri, bastando che esse esprimano un orientamento
prevalente all’interno dell’Unione, è un dato di fatto che il principio di democraticità delle fonti
penali − tendente il più delle volte (ma non sempre) a coincidere col principio di riserva di legge −
presenti questa caratteristica e dunque rientri tra i principi generali dell’Unione. Appare pertanto
indiscutibile che le direttive in materia penale debbano caratterizzarsi per la loro democraticità».
Per più ampi sviluppi, cfr. Bernardi, All’indomani di Lisbona: note sul principio europeo di legalità
penale, in Quaderni costituzionali, 2009, 48 ss.; Id., “Riserva di lege” e fonti europee in materia penale,
Annali dell’Università di Ferrara - Scienze Giuridiche, vol. XX, 2006, 60 ss.; Grandi, Riserva di lege e
legalità penale europea, cit., 81 ss.
39. Manzella, L’unitarietà dell’ordinamento costituzionale europeo, in QC, 2012, 3, 9, 663.
40. Consiglio europeo di Nizza dell’11 dicembre 2000. D’ora in poi anche solo Carta.
41. Fiandaca, Legalità penale e democrazia, in Quad. Fiorentini, 2007, 1248.
42. Zanon, in Zanon, Biondi, Diritto costituzionale dell’ordine giudiziario, 2002, 5.
43. Canestrari, Cornacchia, De Simone, Manuale di diritto penale. Parte generale, Bologna,
2007, 111.
35
i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
Tale aspetto sostanziale della riserva di legge garantisce, dunque, la dialettica
politica sul contenuto della norma penale, assicurando il controllo delle minoranze parlamentari, attraverso il diritto di proporre delle modiiche all’iniziativa
governativa o della maggioranza, ovvero quella di far ascoltare la propria opinione, il proprio dissenso, la propria proposta alternativa.
Questo carattere presuppone, però, che l’istituzione che detiene il potere legislativo sia, a sua volta, formata democraticamente, nel senso che i suoi componenti abbiano un’investitura popolare. Sotto questo proilo, nell’alveo della
riserva di legge formale, come tradizionalmente deinita, si può ulteriormente
distinguere un aspetto della legalità procedurale, che garantisce il rispetto dell’iter
costituzionale di formazione della norma, ed un altro aspetto della legalità materiale (o democraticità), che assicura che la formazione della norma sia attribuita ad
un’istituzione «che rispecchia la volontà dell’intero popolo, e le cui scelte sono il
risultato della dialettica tra maggioranza e minoranza»44.
Il volto democratico dell’iter di formazione della legge penale, che implementa il principio di legalità-riserva di legge (formale), appare necessario
laddove si guardi alla ratio del controllo parlamentare nella formazione della
norma, individuata nell’esigenza di sottrarre all’esecutivo (ed all’apparato giudiziario) il potere di normare sulla libertà personale, intesa come habeas corpus,
cioè quale disponibilità del proprio essere corporeo al riparo da coercizioni che
44. Sul signiicato del principio di riserva di legge in materia penale nel quadro dello Stato democratico, v. già i fondamentali rilievi di Delitala, Cesare Beccaria e il problema penale, in Riv. it. dir.
proc. pen., 1964, 965 ss., ora in Delitala, Raccolta degli scritti, 1976, vol. II, 688, secondo cui «la sola
ragione che giustiichi la scelta del potere legislativo come unico detentore del potere normativo
in materia penale risiede nella rappresentatività di quel potere, nel suo essere espressione non di
una stretta oligarchia, ma dell’intero popolo, che attraverso i suoi rappresentanti si attende che
l’esercizio avvenga non arbitrariamente, ma per il suo bene e nel suo interesse». In senso pienamente adesivo a Delitala, v. inoltre Bricola, Legalità e crisi: l’art. 25 commi 2 e 3 della Costituzione rivisitato alla ine degli anni 70, in Quest. crim., 1980, 179 ss., ora in Bricola, Scritti di diritto penale, vol.
I, 1997, 1273 ss., secondo cui «il procedimento legislativo, pur con le sue inevitabili imperfezioni e
lentezze, è ancora […] il mezzo più idoneo a garantire […] il bene fondamentale della libertà personale del cittadino». Il principio di sussidiarietà, insieme a quello di proporzionalità tra strumenti
e obiettivi, illumina un proilo della riserva di legge penale ulteriore rispetto a quello negativo di
sottrazione della potestà normativa ad altri poteri statali. Un proilo positivo e sostanziale, che
issa direttive precise di politica criminale seguendo un’idea del diritto penale come sistema di
limiti sostanziali al legislatore, che la Costituzione avrebbe ripreso dall’illuminismo, dopo averne
superata la eccessiva e utopistica iducia nella legge. Su questi aspetti si veda Bricola, Politica
criminale e scienza del diritto penale, Bologna, 1997; Id., Rapporti tra dogmatica e politica criminale, in
Riv. it. dir. proc. pen., 1988; David, Globalizzazione, prevenzione del delitto e giustizia penale, Milano,
2001; Dolcini, Riforma della parte generale del codice e rifondazione del sistema sanzionatorio penale,
in Riv. it. dir. proc. pen., 2001, IV, 823; Donini, Per un codice penale di mille incriminazioni: progetto
di depenalizzazione in un quadro del “sistema”, in Dir. pen. proc., 2000, I, 1652; Ferrajoli, Sul diritto
penale minimo, in FI, 2000, V, 125.
36
legalità
ne impediscano o ne limitino il movimento o che alterino i naturali processi
psichici45.
Del resto, come è stato correttamente osservato46, oltre alla predetta matrice liberale, si aggiunge la necessità del controllo parlamentare nell’esclusiva produzione normativa penale, al ine di «assicurare, a garanzia della libertà dei cittadini, una
più forte legittimazione politica delle scelte punitive dello Stato». Tale deinizione
è certamente costretta nella concezione tradizionale del principio di legalità come
riserva di legge (formale) che garantisce «la coincidenza tra il contenuto delle scelte
di politica penale e la volontà popolare così come espressa dai rappresentati elettivi
del popolo»47. Possiamo deinire tale aspetto della democraticità come minimale48.
Accanto a tale concezione minimale della democraticità, infatti, se ne può argomentare una concezione evoluta ispirata ad un metodo qualiicato di formazione
della norma penale, inalizzato a far convergere il più possibile, in una visione
kelseniana49 l’opinione maggioritaria con quella minoritaria ed arginare la tendenza dell’esecutivo ad assumere l’iniziativa penale, non tanto (o non più) con la
decretazione d’urgenza, ma attraverso lo strumento della legge-delega.
La democraticità, che è quindi un carattere fondamentale della norma penale,
secondo la concezione evoluta, può essere garantita riafermando, da un punto di
vista istituzionale, la centralità dell’organo parlamentare nella produzione della
norma penale a maggioranza qualiicata. Si prende spunto dalla riforma della
disciplina degli istituti di clemenza parlamentare (amnistia ed indulto) e, prospettando una sorta di continuità logica tra momento genetico e momento estintivo
della norma penale, si ipotizza la necessità di un iter di formazione della legge
penale raforzato, così come l’art. 79 Cost. impone, per la concessione dell’amnistia e dell’indulto, una legge deliberata a maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna Camera50. Soluzione poco pragmatica, ma ontologicamente
45. Probabilmente, il riconoscimento delle libertà fondamentali, partendo da una garanzia
primordiale, riscontrabile nella Magna Charta del 1215, che all’art. 39 speciicava che «gli uomini
liberi non possono essere privati o imprigionati […]se non da un tribunale legale dei loro pari e
secondo le leggi del paese», è poi arrivato a una piena afermazione del concetto di libertà come
sicurezza all’interno dell’Habeas Corpus Act del 1679.
46. Marinucci, Dolcini, Manuale di diritto penale. Parte Generale, Milano, 2006, 31.
47. Fiandaca, Legalità penale e democrazia, cit., 1252, in cui l’A. afronta l’interessante questione
del modello di democrazia rappresentativa a vocazione ultramaggioritaria.
48. In questo senso, come visto, cfr. Corte cost. n. 487 del 1989.
49. Fiandaca, Crisi della riserva di lege e disagio della democrazia rappresentativa nell’età del protagonismo giurisdizionale, in Criminalia, 2011, 82.
50. E. Musco, L’illusione penalistica, Milano, 2004, 185. Un modello analogo di riserva di legge
raforzata, circoscritto però alle sole materie (non necessariamente a carattere penale) la cui disciplina incide restrittivamente sui diritti fondamentali, è già operante nell’ordinamento spagnolo:
cfr. Foffani, Codice penale e legislazione complementare: da un modello policentrico a un modello piramidale, in Donini, Modelli ed esperienze di riforma del diritto penale complementare, Milano, 2003, 304.
37
i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
eicace nel garantire, ad un tempo, attraverso l’esclusiva competenza legislativa
dell’organo parlamentare secondo un metodo di produzione ultramaggioritario,
la necessaria democraticità della norma penale.
Per concludere, la garanzia della riserva di legge concerne il procedimento
di formazione della norma penale e l’organo democraticamente eletto deputato – in via esclusiva o prevalente – ad operare le scelte di criminalizzazione51, in
stretta connessione, nel senso che la riserva di legge è rispettata solo se la norma
penale è posta dal Parlamento secondo l’iter costituzionale di formazione della
legge. In tal modo si imprime il carattere della necessaria democraticità (almeno
nella concezione minimale) alla legge penale.
II.2. La veriica della democraticità della norma penale europea. Principio di legalità
nella Carta di Nizza e l’autonomia degli ordinamenti, nazionale ed europeo. Il principio
di legalità, come noto, non si esaurisce nella riserva di legge, ma si completa con
le ulteriori dimensioni della tassatività e dell’irretroattività52. Nel nostro ordinamento, da un punto di vista di deinizione costituzionale (art. 25 Cost.), le dimensioni della riserva di legge e dell’irretroattività sono inscindibili, per cui non
è possibile ammettere una norma penale che non sia stata prodotta dall’organo
parlamentare attraverso il procedimento di formazione legislativa e valga anche
per il passato (ovvero sia retroattiva).
Tale inscindibilità delle diverse dimensioni del principio di legalità come deinito nel nostro ordinamento, appare prevista anche nell’ordinamento europeo,
secondo una lettura combinata delle previsioni pattizie. Ad ogni modo, prima
di afrontare l’argomento, va fatta una precisazione terminologica, che sarà meglio ragionata nel prosieguo dell’indagine: allorquando si fa riferimento a lege
o norma o disposizione si intende l’atto parlamentare; mentre quando, poi, si farà
riferimento al diritto, si intenderà la norma come applicata dalla giurisprudenza
(diritto vivente).
Fatta questa necessaria premessa terminologica, va esposta l’analisi ermeneutica delle disposizioni pattizie che concentrato le dimensioni della legalità in
materia penale.
Prima d’ogni altro, va osservato che l’art. 49, § 1, Carta (richiamato dall’art.
6 TUE), rubricato “Principi della legalità e della proporzionalità dei reati e delle
pene”, aferma: «Nessuno può essere condannato per un’azione o un’omissione
che, al momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto
interno o il diritto internazionale. Parimenti, non può essere inlitta una pena
più grave di quella applicabile al momento in cui il reato è stato commesso. Se,
51. Canestrari, Cornacchia, De Simone, Manuale di diritto penale, cit., 110.
52. Per una completa trattazione cfr. sempre Canestrari, Cornacchia, De Simone, Manuale
di diritto penale, cit., 99 ss.
38
legalità
successivamente alla commissione del reato, la legge prevede l’applicazione di
una pena più lieve, occorre applicare quest’ultima».
È di tutta evidenza che il principio di legalità, come consacrato nella Carta
di Nizza, riguarda solo la dimensione del divieto di retroattività («Nessuno può
essere condannato per un’azione o un’omissione che, al momento in cui è stata
commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o il diritto internazionale»), non garantendo o, meglio, non interessando gli altri aspetti del principio
in questione come inteso nel nostro ordinamento (riserva di legge e tassatività,
fra gli altri). La lacuna si spiega con la coesistenza nella tradizione giuridica europea di due distinti e diversi ordinamenti53, l’uno, di civil law, l’altro, di common
law54, con l’efetto che il principio di legalità europeo è costituito dal minimo comun denominatore tra gli opposti ordinamenti. Il nucleo minimo sostanziale del
principio in questione è la dimensione dell’irretroattività per cui il diritto fondamentale di ciascun cittadino alla previa conoscenza o conoscibilità dei fatti penalmente vietati è garantito dalla predeterminazione del divieto penale, a prescindere dalla sua fonte di produzione55. In verità, anche nei sistemi di common law è
stata avvertita l’opportunità che le scelte di politica criminale debbano competere
all’organo democraticamente eletto56, tant’è vero che gli statutory law, oggi, contengono la maggioranza delle fattispecie punitive di parte speciale, senza però
scalire l’assoluta primazìa dell’adjucative power, è ciò perché solo il diritto giudiziario deinisce tutti gli istituti e le regole di parte generale57.
Il sacriicio nel principio di legalità europeo della dimensione della riserva di
legge evidenzia che, in tal modo, «non è più in gioco il primato della legge e del
principio democratico ad essa soggiacente, bensì la libertà di autodeterminazione dell’individuo dinanzi ad un diritto che si realizza essenzialmente nel dictum
del giudice»58, così valorizzando soprattutto la matrice liberale, ma a discapito
della democraticità voluta (o perseguita) dalla riserva di legge59.
53. Fornasari, Conquiste e side della comparazione penalistica, in Studi in onore di G. Marinucci,
2006, 265 ss., ivi con ampi richiami; Vinciguerra, Diritto penale inglese comparato. I principi, II, 2002.
54. Gran Bretagna e Irlanda.
55. Per un excursus comparativo anche sui principi che regolano il sistema penale, cfr. Fornasari, Menghini, Percorsi europei di diritto penale, Padova, 2012.
56. Panfield, Criminal Law, IV, Oxford, 2004, 13 ss.
57. V. Valentini, Diritto penale intertemporale. Logiche continentali ed ermeneutica europea, Milano, 2012, 161, secondo cui il principio di irretroattività costituisce la prova del nove dell’estrema
diferenza tra il diritto penale continentale e quello anglosassone.
58. Palazzo, Legalità e determinatezza della lege penale, signiicato linguistico, interpretazione e
conoscibilità della regula juris, in DPSC, 1987, 55.
59. Sulla nozione di law di cui all’art. 7 CEDU nella giurisprudenza della Corte europea dei
diritti dell’uomo, cfr. Bernardi, Nessuna pena senza lege (art. 7), in Bartole, Conforti, Raimondi (a
cura di), Commentario alla Convenzione europea per la tutela dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, Padova, 2001, 259 ss.; Manes, sub art. 7. Nessuna pena senza lege, in Bartole, De Sena, V.
39
i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
Però, l’assenza della dimensione della riserva di legge nella legalità europea
come enunciata dall’art. 49, co. 1, Carta, non signiica che tale aspetto sia estraneo al sistema comunitario, né che, come già annunciato, la democraticità della
norma penale europea non appartenga all’assetto sovranazionale, in quanto, da
un lato, la riserva di legge è connaturata all’identità nazionale degli Stati continentali e, dall’altro, la necessaria democraticità del divieto penale si ricava dai
corollari (e non solo) del principio di uguaglianza dei cittadini europei.
Ed invero, il principio di legalità-riserva di legge (nazionale) non è estraneo
all’ordinamento comunitario, in quanto la Corte di Giustizia lo considera paciicamente un principio generale dell’ordinamento comunitario60, che costituisce il
riconosciuto limite della primazìa del diritto europeo rispetto alle norme penali
interne con esso in conlitto: il giudice nazionale è tenuto ad interpretare ed
applicare la norma interna secondo il dettato e la inalità della direttiva, con il limite, in materia penale, della necessaria esistenza di una legge interna che ponga
l’incriminazione. La riserva di legge, dunque, come principio generale dell’ordinamento comunitario.
Ma la riserva di legge, come detto, è carattere strutturale dell’identità nazionale degli Stati continentali («insita nella loro struttura fondamentale, politica e
costituzionale», con la lettera dell’art. 4, co. 2, TUE) e, come tale, posto come
limite delle attribuzioni comunitarie. La garanzia di rispetto dell’identità nazionale (e, dunque, della riserva di legge nazionale in materia penale), intesa come
deroga alla primautè europea, è sottoposta a precisi criteri indicati dalla Corte di
Giustizia, fra cui quello della centralizzazione del controllo da parte degli organi
europei61, non potendosi ammettere una deroga unilateralmente giustiicata dallo Stato nazionale. In altri termini, la norma europea (derivata) può essere sindacata unicamente innanzi alla Corte di Giustizia che avrà l’onere di veriicarne la
legittimità con il diritto unionista pattizio, anche in relazione ai quei principi che
Zagrebelsky (a cura di), Commentario alla Convenzione europea per la tutela dei diritti dell’uomo e delle
libertà fondamentali, Padova, 2012, 274 ss.; anche per un’attenta e ricca casistica giurisprudenziale,
cfr. Salcuni, Diritto penale europeo § 2 La convenzione europea dei diritti dell’uomo e i suoi rilessi sul sistema penale, in Cadoppi, Canestrari, Manna, Papa (a cura di), Trattato di diritto penale. Parte generale,
vol. I, Torino, 2012, 426 ss.
60. G. Grasso, La protezione dei diritti fondamentali nell’ordinamento comunitario e i suoi limiti rilessi
sui sistemi penali degli stati membri, in RIDU, 1991, 617 ss. In giurisprudenza, cfr. Corte Giust. Com.
Eur. 8 ottobre 1987, C-80/86 (Kolpinghuis Nijmegen), in Racc., 1987, 3986, punto 13; da ultimo, Corte
Giust. Com. Eur., 3 maggio 2005, C-387/02 (Berlusconi ed altri), su cui ampiamente infra § III.3.
61. Corte Giust. Un. Eur., Sez. II, 22 dicembre 2010, C-208/09, § 86, secondo cui «la nozione di
ordine pubblico, in quanto giustiicazione di una deroga ad una libertà fondamentale, deve essere
intesa in senso restrittivo, di guisa che la sua portata non può essere determinata unilateralmente
da ciascuno Stato membro senza il controllo delle istituzioni dell’Unione europea (v. sentenze 14
ottobre 2004, causa C-36/02, Omega, Racc. p. I-9609, punto 30, e 10 luglio 2008, causa C-33/07,
Jipa, Racc. p. I-5157, punto 23)».
40
legalità
caratterizzano l’identità costituzionale interna, che, proprio in virtù di quanto
previsto dagli artt. 4, § 2, 6 TUE e 67, § 1, TFUE (per la materia penale, ad esempio), sono elevati a parametri di controllo della legittimità degli atti europei. Da
ciò, è stato osservato62 che la struttura di ogni Stato godrebbe di una più intensa
ed eicace tutela rispetto a qualche anno addietro e, dunque, di una protezione
raforzata, potendo l’eventuale atto lesivo essere riguardato da una sentenza di
annullamento della Corte di Lussemburgo63.
Le novità introdotte dal Trattato di Lisbona non possono non superare la
consolidata deinizione dei legami tra il nostro ordinamento e quello comunitario64 secondo cui, «nei rapporti tra diritto comunitario e diritto interno i due
sistemi sono conigurati come autonomi e distinti, ancorché coordinati, secondo
la ripartizione di competenza stabilita e garantita dal Trattato (sentenze n. 168
del 1991, n. 170 del 1984 e n. 183 del 1973). Le norme derivanti dalla fonte comunitaria vengono a ricevere, ai sensi degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost.,
diretta applicazione nel territorio italiano, ma rimangono estranee al sistema delle fonti interne e, se munite di eicacia diretta, precludono al giudice nazionale
di applicare la normativa interna con esse ritenuta inconciliabile (ove occorra,
previo rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, ex art. 234 del Trattato CE)».
Infatti, l’Italia «ratiicando i Trattati comunitari, […] è entrata a far parte dell’ordinamento comunitario, e cioè di un ordinamento giuridico autonomo, integrato e coordinato con quello interno, ed ha contestualmente trasferito, in base
all’art. 11 Cost., l’esercizio di poteri anche normativi (statali, regionali o delle
Province autonome) nei settori deiniti dai Trattati medesimi». Ne consegue che
«le norme dell’ordinamento comunitario vincolano in vario modo il legislatore interno», ma resta il «solo limite dell’intangibilità dei principi fondamentali
dell’ordinamento costituzionale e dei diritti inviolabili dell’uomo garantiti dalla
Costituzione (ex multis, sentenze nn. 349, 348 e 284 del 2007; n. 170 del 1984)»65.
Il percorso di frenetica sistematizzazione delle fonti66, operato dalla Corte
costituzionale, ha evidenziato che la enunciata ed anche di recente ribadita coordinazione tra gli ordinamenti67 è divenuta sinergia con l’avvento di un sistema
generale, unico e complesso, di tutela dei diritti (e non solo), già annunciato dai
62. Randazzo, I controlimiti al primato del diritto comunitario: un futuro non diverso dal presente?,
in www.forumcostituzionale.it.
63. Per una più approfondita trattazione, cfr. infra § IV.2.
64. Da ultimo, cfr. Corte cost., n. 80 del 2011. In dottrina, Ruggeri, La Corte fa il punto sul
rilievo interno della CEDU e della Carta di Nizza-Strasburgo (a prima lettura di Corte cost. n. 80 del 2011),
in www.forumcostituzionale.it; Randazzo, Brevi note a margine della sentenza n. 80 del 2011 della Corte
costituzionale, in www.giurcost.org.
65. Corte cost., Ord., n. 103 del 2008.
66. Tega, I diritti in crisi. Tra Corti nazionali e Corte europea di Strasburgo, Milano, 2012, 69 ss.
67. In particolare, Corte cost. n. 170 del 1984.
41
i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
giudici comuni nazionali e stigmatizzato, recentemente, dalla stessa Corte costituzionale (n. 264 del 2012), a cui «non sfugge che la tutela dei diritti fondamentali
deve essere sistemica e non frazionata in una serie di norme non coordinate ed in
potenziale conlitto tra loro»68.
Il sistema sinergico europeo poggia sugli artt. 4 e 5 TUE, ma anche sull’art. 67
TFUE, per la materia penale (e non solo), essendo capace di garantire il rispetto
dei diritti fondamentali della persona umana e quelli strutturali ed identitari di
ciascun Stato membro, da sé, senza il controllo particolare di ciascun Tribunale
costituzionale interno. Il controllo sistemico dei diritti e, per ciò che in questa
sede interessa, delle identità nazionali ofre una più penetrante tutela degli stessi,
rispetto a quella che può essere garantita a livello particolare, anche al ine di
evitare un diverso grado di tutela per ciascun cittadino europeo e, simmetricamente, garantire l’uguaglianza fra i gli stessi. Uguaglianza, come visto, indice
di democrazia e riserva di legge nazionale in materia penale elevata a principio
e regola europea attraverso il rispetto delle identità nazionali (art. 4, § 2, TUE).
In conclusione, la disposizione penale europea deve garantire l’aspetto materiale
della democraticità insito nel principio di legalità-riserva di legge, come parametro
giustiziabile di legittimità della stessa ai trattati e, pertanto, l’indagine deve spostarsi sulle modalità che implementano tale carattere della legalità penale.
II.3. Le tradizionali obiezioni al deicit democratico dell’Unione Europea. Certamente
la disposizione penale europea (di regola) è prodotta all’esito della procedura legislativa ordinaria, così come deinita dall’art. 294 TFUE e prescritto dall’art. 83,
§ 1, TFUE. Secondo la lente del penalista italiano, tale iter conferisce alla legge
penale europea, come visto, il carattere della legalità formale sotto l’aspetto procedurale, ma non quello della legalità formale sotto l’aspetto materiale (ovvero, così
come si è deinito, la democraticità), poiché il ruolo del Parlamento europeo è vincolato alla volontà della Commissione (iniziativa) e del Consiglio (con cui condivide il potere legislativo)69. Né è suiciente la garanzia che il veto parlamentare
impedisca l’adozione della norma comunitaria, poiché è una limitazione estranea alla tradizione costituzionale in cui le prerogative parlamentari non possono
68. La Corte costituzionale si è interessata del rapporto con la giurisprudenza della Corte
EDU, che ha certamente delle caratteristiche decisamente distinte rispetto a quelle del rapporto
tra ordinamento europeo e ordinamento nazionale. In tale occasione, infatti, la Consulta ha evidenziato la diferenza di sindacato della Corte EDU (che ha ad oggetto il diritto), rispetto a quello
della stessa Corte costituzionale (che ha ad oggetto il sistema dei diritti e, dunque, l’obbligo di
bilanciarne le prospettive di tutela). Per un commento alla decisione in questione, cfr. Ruggeri, La
Consulta rimette abilmente a punto la strategia dei suoi rapporti con la Corte EDU e, indossando la maschera della consonanza, cela il volto di un sostanziale, perdurante dissenso nei riguardi della giurisprudenza
convenzionale, in www.consultaonline.it, Studi e commenti, 2012.
69. Giunta, Verso un equivalente funzionale della riserva di lege?, in Criminalia, 2011, 77.
42
legalità
essere sacriicate da scelte del potere esecutivo (Consiglio, in particolare). Non va
trascurato, comunque, che anche il Parlamento europeo non ha un’investitura
democratica secondo il tradizionale criterio di rappresentatività. L’organo parlamentare europeo non è eletto secondo il principio dell’eguaglianza del voto di
cittadini costituenti un unico popolo europeo, ma dai popoli degli Stati membri
secondo un criterio di contingentamento dei seggi70.
Tale aspetto è stato espressamente afrontato nella già citata sentenza Lissabon, con cui, sul punto, il Tribunale di Karlsruhe ha evidenziato che «solange die
europäische Zuständigkeitsordnung nach dem Prinzip der begrenzten Einzelermächtigung in kooperativ ausgestalteten Entscheidungsverfahren unter Wahrung der staatlichen Integrationsverantwortung besteht und solange eine ausgewogene Balance der Unionszuständigkeiten und der staatlichen Zuständigkeiten erhalten bleibt, kann und muss
die Demokratie der Europäischen Union nicht staatsanalog ausgestaltet sein»71.
L’Unione deve avere un grado di democrazia corrispondente allo stadio di
sviluppo dell’integrazione. «Fino a che l’ordine delle competenze dell’Unione
rimane un ordine governato dal potere di integrazione degli Stati ed è fondato
sul principio di attribuzione, è suiciente che le decisioni politiche siano aidate
a processi di decisione cooperativi e che rimanga un equilibrio tra competenze
dell’Unione e competenze degli Stati: il principio democratico non può né deve
tradursi, nell’Unione, in strutture simili a quelle degli Stati, ma può spingere a
introdurre nei processi di decisione forme ulteriori che assicurino trasparenza e
partecipazione dei cittadini e che accrescano lo standard di democrazia presente
nell’Unione»72.
In altri termini, per il tema d’analisi, il sistema europeo non ha un grado di
democrazia pari a quello necessario per uno Stato sovrano, ma, comunque, è
suiciente per la gestione degli afari comuni73.
Ancora, ad esempio, nella materia che ci occupa, la garanzia di democraticità
non è vinta neanche dalla possibilità per uno Stato membro di sospendere la
70. BVerfG, cit., § 271.
71. BVerfG, cit., § 272.
72. Così testualmente Anzon Demming, Principio democratico e controllo di costituzionalità
sull’integrazione europea nella “sentenza Lissabon” del Tribunale costituzionale federale tedesco, cit., 146.
73. Fiandaca, Crisi della riserva di lege e disagio della democrazia rappresentativa nell’età del protagonismo giurisdizionale, cit., 89, secondo cui «l’impressione che si trae è che la Corte tedesca abbia
(strumentalmente?) ecceduto nel inire col richiamare un modello idealtipico di democrazia à la
Habermass che, in verità, sta più nel cielo della ilosoia politica che nella concreta realtà delle
democrazie di oggi (inclusa quella tedesca). A parte la crisi dei partiti politici e della funzione
parlamentare, è il fenomeno di crescente personalizzazione, mediatizzazione e popolarizzazione
della comunicazione politica (politica pop!) che produce l’efetto di modiicare lo stesso concetto
di opinione pubblica, trasformandola da luogo di dibattito e di controllo sul potere in un insieme
anonimo di individui facilmente manipolabili dai leaders politici, dagli esperti di comunicazione e
dai media».
43
i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
procedura legislativa74, come previsto dall’art. 83, § 3, TFUE, in quanto, a ben
guardare, tale possibilità è rimessa ad un membro del Consiglio (composto da
rappresentati a livello ministeriale di ciascun governo – art. 16 TUE) e, poi, sciolta dal Consiglio europeo (composto dai Capi di Stato e di governo di ciascun
Stato membro – art. 15 TUE). Non è previsto un condizionante intervento o
controllo parlamentare nazionale75.
Né appare superata dalla previsione di adozione di direttive, come visto, e
non di regolamenti, che lascino libero lo Stato membro per quanto riguarda la
scelta della forma e dei mezzi per raggiungere il risultato indicato nella norma
di indirizzo.
A tal proposito, va appuntata l’attenzione sul contenuto di tali direttive, speciicamente indicato nell’art. 83, § 1, TFUE, nella previsione di «norme minime
relative alla deinizione dei reati e delle sanzioni», che, dunque, non indicano il
risultato da ragiungere, secondo la deinizione di cui all’art. 288 TFUE, ma individuano i mezzi inalizzati allo scopo preigurato. In prima battuta, lo Stato membro, pertanto, sarebbe tenuto a dare attuazione alla direttiva (in ossequio all’art.
4 TUE), adattando al proprio ordinamento la disposizione penale europea, che
individua il mezzo minimo di raggiungimento del risultato. Appare evidente l’incidenza di tale norma sulla libertà dell’iniziativa parlamentare nazionale che non
potrebbe derogare all’obbligo imposto dalla direttiva, limitandosi, eventualmente, a prevedere una sanzione penale più elevata (se possibile). Si è già osservato76
che la prima lettura dell’art. 83 TFUE (che, come detto, positivizza gli obblighi di
penalizzazione di fonte pretoria) sacriica eccessivamente il margine nazionale di
apprezzamento, non ammettendo l’opzione tra la sanzione penale e gli altri tipi
di sanzioni. Ma su tale argomento si tornerà avanti difusamente.
In conclusione, la disposizione penale europea è priva (ancora oggi) del carattere della democraticità come aspetto garantito dalla partecipazione dell’organo
parlamentare, poiché, come visto, il Parlamento europeo, in particolare, non ha
un’investitura democratica secondo il tradizionale criterio di rappresentatività77.
74. Contra Salcuni, Diritto penale europeo § 1 Il diritto penale europeo, in Cadoppi, Canestrari,
Manna, Papa (a cura di), Trattato di diritto penale. Parte generale, vol. I, Torino, 2012, 397 ss.
75. Tale aspetto sarà analizzato più in dettaglio più avanti allorquando sarà esaminata la legge
n. 234 del 24 dicembre 2012.
76. Sotis, Il diritto senza codice, cit., 171.
77. Fiandaca, Crisi della riserva di lege e disagio della democrazia rappresentativa nell’età del protagonismo giurisdizionale, cit., 92, si chiede «perché dovrebbe rimanere preferibile una deliberazione di
tipo democratico-parlamentare rispetto a una procedura di codecisione europea di norme penali?»
A ben guardare, acutamente osserva l’A., «il vero problema concerne, ancor prima che l’individuazione dell’organo o degli organi politico-istituzionali idealmente più adatti a deliberare, la qualità
della cultura politica e della cultura penale in atto prevalente nel ceto politico e, a un tempo, nelle
opinioni pubbliche dei paesi europei».
44
legalità
Tale appunto non esclude, sic et simpliciter, l’esigenza di democraticità della
norma penale europea, che può essere assicurata dalla partecipazione parlamentare nazionale alla formazione della norma stessa (c.d. fase ascendente). Ma anche
in quella di recepimento (c.d. fase discendente).
II.4. La veriica della democraticità della norma penale europea attraverso l’analisi del
ruolo del Parlamento nazionale nel processo di formazione degli atti comunitari. Il Protocollo n. 2 sulla veriica del rispetto dei principi di sussidiarietà e proporzionalità e la
lege n. 234 del 2012. Prospettive de iure condendo. Il deicit democratico europeo,
come visto, è misurato tradizionalmente con parametri costituzionali nazionali,
veriicando se le istituzioni comunitarie, interessate all’adozione di disposizioni
penali, abbiano libertà e legittimazione pari a quelle nazionali, investite dell’indirizzo di politica criminale. In questo modo, si pone una chiara equiparazione
tra Unione Europea e Stato membro e si giunge a dover afermare l’assenza di
democraticità della lege penale europea. Non appare, però, la chiave esegetica
più corretta o, meglio, più completa per il risultato auspicato (veriica di democraticità della norma) perché, come detto, l’Unione Europea è priva di un territorio, non ha un popolo, non è, dunque, un’entità statale (neanche federale), ma
costituisce un ordinamento derivato, con l’efetto che il modello di democrazia
adottato dall’Unione non deve essere pari a quello dovuto per uno Stato sovrano.
È chiara, in questo senso, la giurisprudenza del Tribunale di Karlsruhe.
Da ciò, appare, come detto, necessario veriicare la partecipazione dei parlamenti domestici all’iter di formazione della disposizione penale europea, come volta a supplire o colmare il deicit rappresentativo dell’organo parlamentare europeo.
Ed invero, la dottrina più attenta78 ha argomentato le ragioni di superamento
delle tradizionali obiezioni di deicit democratico comunitario, evidenziando il
ruolo che viene attribuito agli organi parlamentari nazionali nell’iter di formazione (soprattutto) della disposizione penale europea. E così vengono richiamate le
previsioni di cui agli artt. 5, 10 e 12, lett. c), TUE, ma anche gli artt. 69, 70 e 71
TFUE, che garantiscono l’informazione delle iniziative (anche) in materia penale
nei confronti dei parlamenti nazionali, al ine di favorire il controllo sull’attività
dei rispettivi membri del Consiglio (art. 10 TUE) nell’iter di produzione normativa e, comunque, la vigilanza sull’esercizio delle attribuzioni comunitarie nel
rispetto del principio di sussidiarietà e proporzionalità. Facendo, dunque, partecipare i parlamenti nazionali, certamente democraticamente eletti, all’iter di for-
78. Bernardi, La competenza penale accessoria dell’Unione Europea: problemi e prospettive, cit., 58,
anche se l’A. osserva che resta il fatto che «l’assenza del diritto di veto dei Parlamenti nazionali
riscontrabile nel procedimento legislativo unionista rende il controllo degli organi rappresentativi
nazionali non vincolante, con conseguente annacquamento dell’apporto di democraticità prodotto dalla fase ascendente del procedimento legislativo europeo».
45
i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
mazione della norma penale europea (c.d. fase ascendente), sarebbe così garantita
la democraticità della stessa79.
Il ragionamento non fa una grinza, ma è necessario veriicare, prima di trarre
delle conclusioni, il grado di partecipazione del Parlamento nazionale, nei settori
di normazione penale attribuiti alla competenza europea, nella scelta di politica
criminale determinata a livello comunitario.
Si è già detto che l’esercizio delle competenze dell’Unione è vincolato dall’applicazione dei principi di sussidiarietà e proporzionalità, la cui concreta regolazione si trova però nel Protocollo n. 2 (atto avente il medesimo valore giuridico
dei Trattati)80.
Il principio di sussidiarietà serve a stabilire quando, al di fuori dei settori di
esclusiva competenza dell’Unione, sussista una competenza esercitabile a livello
europeo, mentre il principio di proporzionalità guida la scelta dei mezzi di intervento, imponendo la scelta di quello meno invasivo delle competenze statali. Il
combinato rispetto di tali principi consente di contenere le azioni delle istituzioni
europee a tutela delle competenze statali e degli enti infrastatali.
Gli artt. 5 e 12 TUE e l’art. 69 TFUE prevedono che i Parlamenti nazionali
vigilino sul rispetto del principio di sussidiarietà, secondo le modalità previste
nel protocollo sopra richiamato. A tal ine, l’art. 4 del Protocollo n. 2 prevede che
le istituzioni europee informino con regolarità i Parlamenti nazionali in merito
alle loro attività, onde consentire di svolgere delle osservazioni sull’eventuale
mancato rispetto del principio di sussidiarietà da parte delle istituzioni europee.
Sugli atti legislativi (direttive e regolamenti), ciascuna Camera di ogni parlamento nazionale singolarmente considerata svolge una funzione di vigilanza preventiva circa il rispetto del principio di sussidiarietà. Ogni Camera, infatti, ricevuti i
progetti di atti legislativi, ha a disposizione otto settimane per analizzare questi
progetti e formulare pareri contenenti rilievi circa il rispetto del principio di sussidiarietà, il c.d. early warning: otto settimane nelle quali il progetto non può essere
iscritto all’ordine del giorno del Consiglio ai ini della sua adozione. Di questi
pareri le istituzioni europee tengono conto (innanzitutto la Commissione, che è
la prevalente titolare del diritto di iniziativa legislativa), ma qualora i rilievi siano
condivisi da un terzo dei parlamenti nazionali (un quarto, nel caso dello spazio
di libertà, sicurezza e giustizia) il progetto di atto deve essere riesaminato dalla
79. Manzella, Un Trattato necessitato, in Bassanini, Tiberi (a cura di), Le nuove istituzioni europee. Commento al Trattato di Lisbona, Bologna, 2008, 444; Morviducci, Il ruolo dei parlamenti nazionali, in DPCE, 2008, 86; Porchia, La sussidiarietà attraverso il riordino delle competenze? Il trattato di
riforma e la ripartizione delle competenze, in Studi sull’integrazione europea, 2010, 642 ss.
80. Non tutte le competenze incontrano, però, i medesimi limiti: e, infatti, mentre il principio
di proporzionalità riguarda tutte le competenze dell’Unione, dall’ambito di azione del principio di
sussidiarietà restano invece esclusi i settori di competenza esclusiva dell’Unione europea.
46
legalità
Commissione (o, se del caso, dalle altre istituzioni) e al termine di tale riesame la
decisione di modiicarlo, ritirarlo o mantenerlo deve essere motivata.
Entrato in vigore l’atto normativo, i parlamenti nazionali (o ciascuna Camera) possono chiedere ai loro governi in conformità con il rispettivo ordinamento
giuridico interno di ricorrere alla Corte di Giustizia sempre per violazione del
principio di sussidiarietà81.
A livello europeo, dunque, è certamente apprestato l’apparato normativo inalizzato a garantire la partecipazione dei parlamenti nazionali all’attività legislativa
dell’Unione Europea e superare il deicit democratico sotto tale proilo strutturale.
Il problema, pertanto, si sposta a livello nazionale, nel senso che è necessario
veriicare le modalità della vigilanza sull’attività legislativa europea efettivamente svolte da ciascun parlamento interno.
Va premesso che il Protocollo n. 2 prevede la trasmissione degli atti preparatori legislativi (in genere) a ciascuna Camera degli organi parlamentari interni,
solo perché i sistemi costituzionali di ogni Stato membro sono chiaramente distinti e, dunque, per alcuni l’organo parlamentare è monocamerale, per altri è
bicamerale (perfetto o imperfetto).
Nel campo di indagine che ci interessa, va appuntata l’attenzione (nuovamente)
sull’art. 83, § 3, TFUE, a cui si è fatto spesso richiamo nelle pagine precedenti, ove è
prevista la possibilità per uno Stato membro di sospendere la procedura legislativa
di adozione della direttiva in materia penale. Si è prima osservato che tale previsione non garantisce il carattere di democraticità della disposizione penale europea,
poiché la relativa possibilità è rimessa ad un membro del Consiglio (composto da
rappresentati a livello ministeriale di ciascun governo – art. 16 TUE) e, poi, sciolta
dal Consiglio Europeo (composto dai Capi di Stato e di governo di ciascun Stato
membro – art. 15 TUE). La soluzione appare suiciente ove si guardi al solo sistema europeo, come visto, ma non si è badato all’ipotesi di vigilanza e controllo
sull’operato del componente del Consiglio, da parte del Parlamento nazionale, garantita, come detto, dall’informativa prevista dal Protocollo n. 2.
L’analisi, dunque, si sposta dal Trattato, alla legge di ratiica dello stesso (legge
n. 130 del 2 agosto 2008) o, meglio, per ciò che riguarda il sistema italiano, alla legge
n. 234 del 24 dicembre 2012 “Norme generali sulla partecipazione dell’Italia alla
formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche dell’Unione Europea”.
Tale legge ha ridisegnato la disciplina della partecipazione del Parlamento,
delle Regioni e province autonome, degli enti locali, delle parti sociali e delle
categorie produttive al processo di formazione delle decisioni comunitarie e
dell’Unione Europea (c.d. fase ascendente), prevedendo espressamente tra le i-
81. Gianniti, Il ruolo dei parlamenti nazionali dopo il Trattato di Lisbona: un’opportunità o un problema?, in Astrid, 2010.
47
i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
nalità della legge la disciplina del processo di formazione della posizione italiana
nella fase di predisposizione degli atti comunitari e dell’Unione Europea, nel rispetto, fra l’altro, del principio di partecipazione democratica (art. 1).
Il ruolo parlamentare è garantito dalle disposizioni di cui agli artt. 3 ss., per
cui il Governo è tenuto alla trasmissione alle Camere dei progetti di atti comunitari e dell’Unione Europea, degli atti preordinati alla formulazione degli stessi,
e le loro modiicazioni, ivi compresi i documenti di consultazione, quali libri
verdi, libri bianchi e comunicazioni. La normativa stabilisce, inoltre, che essi
vengano comunicati dal Presidente del Consiglio dei ministri o dal Ministro per
le politiche comunitarie, contestualmente alla loro ricezione e che sia indicata
la data presumibile in cui verranno discussi o adottati dagli organi comunitari.
Gli atti e i progetti di atti in tal modo trasmessi vengono assegnati ai competenti organi parlamentari, che possono formulare osservazioni e adottare ogni
opportuno atto di indirizzo al Governo. La trasmissione non esaurisce però i
compiti dell’esecutivo, che deve altresì assicurare al Parlamento un’informazione
qualiicata e tempestiva sui progetti e sugli atti trasmessi, curandone il costante
aggiornamento; informare tempestivamente i competenti organi parlamentari
sulle proposte e sulle materie che risultano inserite all’ordine del giorno delle
riunioni del Consiglio dei ministri dell’Unione Europea; illustrare alle Camere
la posizione che intende assumere, in vista dello svolgimento delle riunioni del
Consiglio europeo (eventualmente riferendo ai competenti organi parlamentari
prima delle riunioni del Consiglio); riferire al Parlamento illustrando i temi di
maggiore interesse decisi o in discussione in ambito comunitario, informando gli
organi parlamentari competenti in ordine ai risultati delle riunioni dei Consigli
europei; fornire, su richiesta degli organi parlamentari competenti, una relazione
tecnica che dia conto dello stato dei negoziati, dell’impatto sull’ordinamento,
sull’organizzazione delle amministrazioni pubbliche e sull’attività dei cittadini e
delle imprese in relazione ai vari progetti di atti comunitari all’esame.
Attraverso questa importante attività informativa sulla produzione normativa comunitaria, i competenti organi parlamentari possono adottare appositi atti
di indirizzo per il Governo.
Tali procedimenti riguardano la presentazione e l’esame di mozioni, risoluzioni e ordini del giorno. Sono questi, secondo l’insegnamento tradizionale, i tre
strumenti di indirizzo, delineati dai regolamenti di Camera e Senato con procedure diverse a seconda che si tratti dell’Assemblea (mozioni; ordini del giorno;
risoluzioni d’Assemblea) o delle Commissioni (perlopiù risoluzioni; solo in caso
di sede legislativa, anche ordini del giorno)82.
82. Gli atti di indirizzo delle Commissioni permanenti sui progetti di atti dell’Unione Europea
rivolti al Governo, rese nell’ambito dell’ordinaria procedura prevista per l’esame in fase ascendente
(art. 144 Reg. Sen. e art. 127 Reg. Cam.) sono inviati alla Commissione Europea.
48
legalità
Di rilievo, rispetto all’indagine preposta, è la previsione di cui all’art. 12 l.
234/2012, che disciplina la partecipazione delle Camere per l’attivazione del c.d.
freno d’emergenza, secondo cui: «1. In relazione alle proposte legislative presentate ai sensi degli articoli 48, secondo comma, 82, paragrafo 3, e 83, paragrafo
3, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, colui che rappresenta
l’Italia nel Consiglio dell’Unione europea è tenuto a chiedere che la proposta
stessa sia sottoposta al Consiglio europeo, ove entrambe le Camere adottino
un atto di indirizzo in tal senso. 2. Nei casi previsti dall’articolo 31, paragrafo
2, del Trattato sull’Unione europea, colui che rappresenta l’Italia nel Consiglio
dell’Unione europea è tenuto ad opporsi ad una decisione per speciicati e vitali
motivi di politica nazionale ove entrambe le Camere adottino un atto di indirizzo
motivato in tal senso. 3. Per le inalità di cui ai commi 1 e 2 il Governo trasmette
tempestivamente alle Camere le proposte presentate ai sensi dell’articolo 31, paragrafo 2, del Trattato sull’Unione europea e degli articoli 48, secondo comma,
82, paragrafo 3, e 83, paragrafo 3, del Trattato sul funzionamento dell’Unione
europea. Decorso il termine di trenta giorni dalla predetta trasmissione, il Governo può esprimere un voto favorevole sulle proposte anche in mancanza della
pronuncia parlamentare».
Tale controllo parlamentare sulla formazione della norma penale europea è
suiciente ad imprimere il carattere di democraticità alla stessa e, dunque, a garantire già nella fase ascendente tale aspetto della legalità materiale?
Assolutamente no. Gli atti di indirizzo parlamentare non hanno alcuna eicacia legislativa, ma meramente politica e poi la formazione della volontà parlamentare è aidata al Parlamento e non al solo Senato o alla sola Camera: non è
previsto alcun coordinamento per l’adozione degli atti di indirizzo parlamentare,
non potendosi dunque escludere, in ipotesi, decisioni distinte, opposte o, comunque, diverse, da parte di ciascun ramo parlamentare.
La disciplina di cui all’art. 12 l. 234/2012, infatti, non appare conforme all’assetto costituzionale dell’esercizio del potere legislativo, in quanto è previsto che
l’attivazione della procedura di cui all’art. 83, § 3, TFUE (c.d. freno d’emergenza) consegua solo «ove entrambe le Camere adottino un atto di indirizzo in tal
senso», non, dunque, nell’ipotesi in cui anche solo una Camera sia contraria
all’adozione della disposizione penale europea. Tale impostazione contrasta
apertamente con il sistema di bicameralismo perfetto nell’esercizio del potere
legislativo.
Anche sotto questa chiave di lettura, pertanto, si deve concludere afermando
che la norma penale europea è priva del carattere democratico imposto dall’art.
25, co. 2, Cost., in quanto alla sua formazione non partecipa il Parlamento nazionale (pur potendo).
Per ovviare a tale evidente vizio, in prospettiva de iure condendo, è necessario
stabilire, per la materia penale coperta dalla riserva costituzionale di legge, che
49
i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
gli atti di indirizzo parlamentare sulle proposte di direttive ai sensi dell’art. 83
TFUE, previsti dagli artt. 7 e 12 l. 234/2012, siano adottati con legge, semmai
attribuendone l’esercizio, con apposita legge costituzionale, in sede legislativa
ad una Commissione bicamerale83. In tal modo, la norma penale europea acquisirebbe il carattere di democraticità già nella fase ascendente, poiché la lacuna di
rappresentatività dell’organo parlamentare europeo sarebbe colmata dall’efettiva partecipazione (almeno astratta) del Parlamento nazionale.
Tale, del resto, è stata la decisione del Bundesverfassungsgericht nella pronuncia
già più volte richiamata84.
A questo punto, è necessario veriicare, de iure condito, se la democraticità
della norma penale possa essere garantita nella fase di recepimento.
83. Il procedimento seguito nei vari Paesi dell’Unione per garantire questo dialogo con la Commissione europea si sta strutturando in modo diverso. Molti parlamenti si stanno orientando nel
senso di aidare questa funzione alle Commissioni specializzate negli afari comunitari (è quel che sta
avvenendo in Francia al Senato e in Irlanda), ma per altri sarà diicile scavalcare in questa materia le
competenze delle Commissioni di merito (così è per l’Assemblea Nazionale francese) e, nei casi più
rilevanti, delle stesse Aule (è quel che avviene nel Bundesrat tedesco e presso le due Camere olandesi,
che hanno aidato tuttavia il potere istruttorio ad un’apposita Commissione bicamerale).
84. Come già ricordato, il Tribunale di Karlsruhe ha dichiarato l’illegittimità della legge ordinaria di accompagnamento della ratiica del Trattato di Lisbona. Questa legge infatti, conclude il
Tribunale Costituzionale, «lede il diritto ex art. 38 LF in relazione con l’art. 23, co. 1, perché non
attribuisce al Bundestag e al Bundesrat nella necessaria misura i poteri di partecipazione ai procedimenti europei di modiica dei Trattati e di produzione degli atti normativi, idonei a garantire
che nell’applicazione delle clausole passerella, della clausola di lessibilità e dei c.d. freni di emergenza, essi esprimano il proprio avviso nel processo di decisione delle istituzioni europee. In casi
del genere, in cui è possibile uno sviluppo dinamico del Trattato (dynamische Vertragsentwicklung),
infatti, è necessario che i rappresentanti tedeschi in queste istituzioni agiscano sulla base di previe
espresse e puntuali manifestazioni di volontà delle assemblee legislative nazionali. La sentenza reca
una previsione molto analitica dei poteri che ritiene necessario attribuire al Parlamento tedesco (e
cioè al Bundestag e al Bundesrat quando agisce come organo di legislazione), in considerazione
dell’estensione della riserva di legge posta dall’art. 23, comma 1 LF. Per le revisioni sempliicate
(art. 48, comma 6, 42, comma 2, 25, comma 2, 218, co. 8, 223, comma 1 TUE-Lisbona, artt. 262
e 311 TFUE) è necessaria una Zustimmungsgesetz ex art. 23, co. 1, fr. 2 o eventualmente 3 (§§
306,309, 312, 412). Per la clausola passerella generale e per clausola-passerella speciale per diritto di
famiglia è necessaria una legge ex art. 23, co. 1, fr. 2 (§§ 315,319); mentre per le altre clausole passerella speciali, su aree suicientemente determinate: è suiciente una approvazione parlamentare
anche in forma non legislativa (§§ 319, 320,413-416). Per la clausola di lessibilità ex art. 352 TUE è
necessaria una legge (§§ 323-328,417). Quanto ai “freni di emergenza” la sentenza distingue diverse
ipotesi (§§ 418-419): quella della revisione ordinaria dei Trattati (quanto all’esclusione, ex art. 48,
2, della convocazione di una convenzione consultiva sugli emendamenti ai Trattati), per cui sono
suicienti apposite direttive parlamentari; quella della cooperazione giudiziaria in materia penale
(per es. deinizione dei reati di particolare gravità, ravvicinamento legislazioni penali, procura europea) è invece necessaria una legge ex 23, co. 1, fr. 2; inine per il freno di emergenza in tema di
politica di sicurezza sociale (libertà di movimento dei lavoratori) (§400) sono necessarie istruzioni
parlamentari».
50
legalità
II.5. L’incidenza del difetto di democraticità della norma penale europea nel diritto interno. L’esegesi del contenuto della norma penale europea. La lege penale europea
(propria o impropria) è una norma di indirizzo vincolato, poiché deinisce le
norme minime relative alla deinizione dei reati e delle sanzioni che devono essere
recepite nel diritto interno. Lo Stato inadempiente all’obbligo di recepimento o
di raggiungimento del risultato indicato nella direttiva in materia penale, attraverso la descrizione di una fattispecie criminale come tipizzata a livello europeo,
sarà sottoposto alla procedura di infrazione85. Il difetto del carattere della democraticità acquisito nella c.d. fase ascendente di produzione della norma penale
europea può essere colmato nella c.d. fase discendente (di recepimento), laddove
fosse garantito dalla direttiva penale un margine di apprezzamento nella scelta di
criminalizzazione da parte del Parlamento nazionale che costituisce un vincolo
di rispetto per il legislatore europeo, in virtù dell’europeizzazione delle identità
nazionali e delle funzioni essenziali degli Stati membri, come, indubbiamente, è
la riserva di legge in materia penale.
Il rispetto della riserva di legge e, dunque, anche del fondamentale signiicato
della stessa volto a caratterizzare di democraticità la scelta punitiva, è raforzato,
non solo, dalla previsione (già vista) dell’art. 4, § 2, TUE, ma anche dal principio di leale cooperazione che non ha una valenza meramente unilaterale (Stato
membro nei confronti dell’Unione), ma reciproca o bilaterale (Stato membro nei
confronti dell’Unione, e viceversa).
La garanzia di rispetto dell’identità nazionale-riserva di legge si evince già
dalla disposizione di cui all’art. 83 TFUE, che ha previsto una qualiicazione (minima) della deinizione delle norme e delle relative sanzioni, nonché la scelta
della fonte in quella necessariamente mediata (direttiva).
Il rispetto dei principi di leale cooperazione e dell’identità nazionale e la previsione pattizia che delinea la competenza penale impongono la partecipazione
anche nella fase discendente dei parlamenti nazionali e, dunque, vietano una
norma penale europea suicientemente dettagliata nella deinizione del reato e
della relativa sanzione, in modo che non resti altro al Parlamento nazionale che
recepire la fattispecie così com’è, senza alcuna discrezionalità o libertà di valutazione di merito.
Tale libertà, garante della democraticità della legge penale, potrebbe essere
assicurata da un’interpretazione strettamente letterale della previsione pattizia,
nel senso che il legislatore europeo, indicando le norme minime per la deinizione del
reato, non deinisce la fattispecie criminale, ma si limita (o dovrebbe limitarsi) a
85. Viganò, Recenti sviluppi in tema di rapporti tra diritto comunitario e diritto penale, in Dir. pen.
proc., 2005, 345, secondo cui si potrebbe opporre “in via teorica” un “riiuto di adempimento” in
base alla teoria dei controlimiti (di cui si dirà infra), ma senza speciicare peraltro come tale riiuto
possa essere esercitato; critico anche Edidendio, Diritto comunitario e diritto penale interno, cit., 40.
51
i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
precisare quegli elementi necessari del reato, inalizzati al raggiungimento di un
determinato risultato, riservando al legislatore nazionale la possibilità di deinire
compiutamente la fattispecie delittuosa, alla stregua della propria tradizione giuridica, anche in ordine al tipo ed alla misura della pena per esso stabilita.
Ma tale esegesi del vincolo contenutistico della norma penale europea, come
imposto dall’art. 83 TFUE, si scontrerebbe con il principio di legalità, nella sua dimensione della determinatezza, che, secondo la dottrina più accreditata, ove tali
norme minime non rispettassero i criteri descrittivi del contenuto precettivo di
ogni norma penale, non potrebbero svolgere la loro funzione di ravvicinamento
interstatuale delle discipline penali nazionali, ovvero non potrebbero supportare in modo suiciente l’attività ermeneutica dei giudici interni inalizzata all’interpretazione conforme al diritto unionista, o ancora, non potrebbero orientare
adeguatamente le pronunce della Corte di Giustizia rispetto ai ricorsi interpretativi e per inadempimento86.
Se tanto è vero, va osservato, però, che il rispetto di tale dimensione della
legalità materiale per la descrizione della norma minima penale europea, da parte del legislatore comunitario, sacriicherebbe eccessivamente (se non proprio
escludendolo) il margine di apprezzamento degli Stati membri, insito nella previsione formale della fonte di produzione di tali norme (direttiva). Non da meno,
ma forse in modo più risolutivo, va detto che il criterio di determinatezza, come
indicato anche dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia, è inalizzato, pur nel
rispetto del principio di certezza del diritto, a rendere prevedibile per i soggetti
di diritto «esattamente la portata degli obblighi che la norma impone loro e che
questi debbano poter conoscere senza ambiguità i propri diritti ed obblighi e re-
86. Bernardi, La competenza penale accessoria dell’Unione Europea: problemi e prospettive, cit., 61,
il quale richiama, a sostegno della necessaria determinatezza anche delle direttive in parola, la
giurisprudenza della Corte di Giustizia ed, in particolare, Corte Giust. Un. Eur., 3 maggio 2007,
causa C-303/05 (Advocaten voor de Wereld), §§ 49-50, secondo cui: «Va ricordato che il principio della
legalità dei reati e delle pene (nullum crimen, nulla poena sine lege), che fa parte dei principi generali
del diritto alla base delle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, è stato parimenti sancito da diversi trattati internazionali, in particolare dall’art. 7, n. 1, della Convenzione europea per
la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (v., in questo senso, segnatamente,
sentenze 12 dicembre 1996, cause riunite C-74/95 e C-129/95, X, Racc. p. I-6609, punto 25, e 28
giugno 2005, cause riunite C-189/02 P, C-202/02 P, da C-205/02 P a C-208/02 P e C-213/02 P,
Dansk Rørindustri e a./Commissione, Racc. p. I-5425, punti 215-219). Tale principio implica che
la legge deinisca chiaramente i reati e le pene che li reprimono. Questa condizione è soddisfatta
quando il soggetto di diritto può conoscere, in base al testo della disposizione rilevante e, nel caso,
con l’aiuto dell’interpretazione che ne sia stata fatta dai giudici, gli atti e le omissioni che chiamano in causa la sua responsabilità penale (v., in particolare, Corte eur. D.U., sentenza Coëme e a.
c. Belgio del 22 giugno 2000, Recueil des arrêts et décisions, 2000-VII, § 145)»; conf. Corte Giust.
Un. Eur., 3 giugno 2008, causa C-308/06 (Intertanko). Più recentemente, Corte Giust. Un. Eur., Gr.
Sez., 29 marzo 2011, causa C-352/09 P (ThyssenKrupp), §§ 80-81.
52
legalità
golarsi di conseguenza»87. Ora, appare evidente, dunque, che la determinatezza
della norma penale europea sarebbe un canone descrittivo necessario ove la stessa fosse direttamente obbligatoria per gli interessati, ovvero i cittadini (in senso
lato) e, pertanto, certamente nell’ipotesi di regolamenti penali. Ma tale criterio
non può ritenersi vincolante anche per la descrizione delle norme minime penali, contenute in una direttiva che, come noto, non può avere applicazione diretta,
ma si rivolge agli Stati membri, ai sensi dell’art. 288 TFUE.
Ciò non toglie, comunque, che il legislatore penale europeo debba chiaramente descrivere le ragioni per cui ritiene necessario (o indispensabile) imporre
un obbligo di penalizzazione, nel rispetto dei principi di sussidiarietà e proporzionalità e, dunque, la ratio, lo scopo o il risultato da raggiungere solo con una
disposizione penale, deinendo in più rispetto a quanto previsto dalla regola generale di cui all’art. 288 TFUE, come, del resto, evidenzia l’art. 83 TFUE, la norma penale minima (e relativa sanzione), ovvero i criteri corniciali entro cui contenere il margine di apprezzamento nazionale. Tale lettura più rigorosa dell’art.
83 TFUE appare confortata dalla necessaria coordinazione con l’art. 288 TFUE,
come detto, a cui l’indicazione della fonte di produzione della norma penale minima (direttiva, appunto) certamente rinvia, con l’efetto che il risultato da raggiungere deve essere certamente speciicato e ben descritto, in quanto contiene
l’obbligo a cui lo Stato membro deve adeguare la sua legislazione, attraverso (ed
in questo vi è la diferenza con il limite generale di cui all’art. 288 TFUE) la deinizione della norma penale (e non, dunque, con la descrizione del precetto), ovvero con l’indicazione del mezzo minimo (penale) per raggiungere quello scopo,
deinito nella sua cornice essenziale. In tal maniera, si rende impossibile un’eficacia diretta della direttiva penale e la trasposizione nell’ordinamento interno
deve necessariamente coinvolgere il legislatore nazionale, vincolato, questo sì, al
principio di tassatività-determinatezza.
Va svolta un’ulteriore rilessione.
La deinizione della norma penale minima conigura il limite minimo per la
tutela penale dello scopo preissato, ovvero è il margine massimo, oltre il quale il
legislatore nazionale non può spingersi?
Ad esempio, poniamo l’ipotesi che una direttiva penale contenga la previsione della necessaria punizione, per la tutela di un particolare interesse inanziario
dell’Unione, del ine del proitto derivante da un determinato comportamento
dichiarato, pertanto, illecito. Può il legislatore nazionale, nel trasporre la norma
penale, stabilire la punizione di quel comportamento nel solo caso in cui il reo
percepisca un lucro88, concettualmente più deinito rispetto al proitto?
87. Giurisprudenza richiamata nella nota precedente.
88. Ampiamente sulla diferenza tra proitto e lucro, Sgubbi, Delitti contro il patrimonio, in Canestrari, Gamberini, Insolera, N. Mazzacuva, Sgubbi, Stortoni, Tagliarini (a cura di), Diritto Penale.
53
i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
La questione va risolta considerando che la scelta di criminalizzazione adottata a livello europeo è necessariamente ispirata dai principi di sussidiarietà e
proporzionalità, come imposto dall’art. 5 TUE, ma anche dal principio di extrema
ratio del diritto penale, con l’efetto che la previsione punitiva costituisce necessariamente il grado più adeguato di tutela del bene giuridico europeo. Se fosse,
infatti, possibile per il legislatore nazionale, nella trasposizione della direttiva penale, descrivere una norma penale meno severa, evidentemente, il legislatore
europeo avrebbe errato in eccesso nella valutazione della misura punitiva tutoria
del bene giuridico prescelto e, dunque, la direttiva sarebbe contraria al canone
di rango sovraordinato della proporzionalità. Se fosse possibile per il legislatore
nazionale, descrivere una norma penale più severa, evidentemente, sarebbe il
legislatore nazionale ad errare, poiché la misura proporzionata di tutela penale
del bene giuridico è stata individuata a livello europeo, come quella suiciente
per raggiungere lo scopo tutorio. In tal maniera, appare evidente che la norma
penale minima europea, comunque, risulterebbe più che un limite minimo o
massimo, un vincolo o una condizione all’esercizio dell’obbligo di trasposizione
della stessa disposizione nell’ordinamento interno, da parte dello Stato. Ma ciò
non sarebbe coerente sul piano esegetico con quanto previsto dall’art. 83 TFUE
e, così, con l’espressa previsione della sola deinizione di norme minime da adottare con direttive: in altri termini, ove fosse possibile considerare la norma penale
minima, come un vincolo per il legislatore nazionale, la direttiva avrebbe ben
altro contenuto rispetto a quello previsto dall’art. 288 TFUE e, poi, risulterebbe
priva di applicazione l’espressa indicazione della fonte di produzione, oltre alla
limitazione della facoltà di descrivere la norma penale (aggettivo, minimo). Di
contro, al ine di dare contenuto e applicazione alle precise indicazioni dell’art.
83 TFUE, la norma penale minima non può che conigurare un limite minimo di
tutela penale da apprestare in favore del bene giuridico prescelto, ferma restando
la facoltà del legislatore nazionale, in armonia con il proprio ordinamento, di
apprestare un sistema tutorio penale più severo.
Va fatta però una puntualizzazione.
La risposta punitiva più severa del legislatore nazionale non signiica dare rilevanza penale ad altri elementi o fatti o comportamenti o soggetti per tutelare in
maniera più ampia il bene giuridico, che non siano già inclusi nella previsione europea che funge da cornice oltre la quale il legislatore interno non può spingersi.
In altri termini, la descrizione degli elementi costitutivi del reato contenuta nella
norma penale minima europea determina l’area di rilevanza penale (proporzionata) di comportamenti che ledono o pongono in pericolo un determinato bene
Lineamenti di parte speciale, Bologna, 2003; sia consentito il richiamo per ulteriore bibliograia, a
Stea, Ricettazione e commercio di opere d’autore illecitamente riprodotte. La consunzione nel conlitto apparente di norme in relazione strumentale, in Riv. pen., 2007, 5, 532 ss.
54
legalità
giuridico. Il legislatore interno non può ampliare (né restringere) quest’area di
rilevanza penale, ma, all’interno dell’area tracciata dalla norma europea, individuare elementi che meritano una risposta punitiva più severa89. Ad esempio,
se la norma europea prevede la punizione di un determinato comportamento
posto in essere per scopo di lucro, il legislatore nazionale non potrà punire quel
comportamento posto in essere per scopo di proitto, perché, in tal maniera,
amplierebbe l’area di rilevanza penale del comportamento dato, descritta dalla
norma europea. Ma potrebbe punire più severamente l’ipotesi in cui lo scopo
perseguito dall’agente sia diretto a realizzare un lucro di rilevante entità, poiché
si muoverebbe sempre all’interno di quell’area delineata dalla norma europea90.
Così sarebbe rispettato il margine di apprezzamento riservato al legislatore domestico, garantendo, nel rispetto della riserva di legge nazionale, la necessaria
democraticità della norma penale di ispirazione europea nella fase discendente
(o di recepimento).
Per rispondere, dunque, alla questione indicata più sopra, la norma penale
che punisca solo il ine di lucro, anziché quello di proitto, si porrebbe in contrasto con il limite comunitario. Diversamente, il legislatore nazionale potrebbe
prevedere il ine di lucro come circostanza aggravante del reato inalizzato al proitto, così apprestando una forma di tutela penale del bene giuridico più severa.
II.6. Il sindacato della Corte di Giustizia dell’Unione Europea in relazione a direttive
dettagliate. La Corte costituzionale ed il controllo sulla lege di ratiica del Trattato di
Lisbona e sulle norme derivate. L’incostituzionalità degli artt. 7 e 12 l. 234/2012 in relazione al principio di legalità-riserva di lege (democraticità). Ove la tecnica legislativa
europea fosse contraria alla lettura pattiziamente orientata, appena oferta nel
paragrafo che precede, dei limiti della competenza penale comunitaria, non rico-
89. In sintesi, con le parole di Luigi Cornacchia, il legislatore interno ha la possibilità di innalzare la severità della risposta sanzionatoria, ma nel solco di quanto tracciato dalla norma europea e
senza introdurre elementi tipici eterogenei. Analoga la posizione di Bernardi, La competenza penale
accessoria dell’Unione europea, cit., 33 ss., secondo cui «l’espressione “norme penali minime” sembra
circoscrivere la competenza penale dell’Unione europea alla descrizione degli elementi oggettivi
e soggettivi costituenti il “cuore” della infrazione penale (dunque alle scelte di fondo in merito ai
comportamenti vietati), nonché a talune scelte in ordine alle cc.dd. forme di manifestazione del
reato (circostanze, tentativo, concorso psicologico e materiale di persone nel reato), auspicando
che il legislatore europeo sappia coniugare determinatezza e lessibilità, al ine di consentire l’esercizio di un certo margine di discrezionalità (o di apprezzamento) nel recepimento della direttiva
penale, da parte del legislatore domestico». Per una interpretazione particolarmente restrittiva del
concetto di norme minime cfr. Silva Sànchez, Principio de legalidad y legislación penal europea:¿una
convergencia imposible?, in Arroyo Zapatero, Nieto Martìn, Munoz de Morales (a cura di), El derecho
penal de la Unión Europea: situación actual y perspectivas de futuro, Cuenca, 2007, 80 ss.
90. Sia consentito il rinvio a Stea, L’esegesi giurisprudenziale della deinizione degli enti responsabili
dell’illecito da reato, in La responsabilità amministrativa delle società e degli enti, 4, 2013, 166 ss.
55
i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
noscendo alcuna facoltà per gli Stati membri di mantenere in vigore o adottare
misure più stringenti inalizzate ad un’eicace tutela penale dell’ambito di volta
in volta interessato, la relativa direttiva (o norma in essa contenuta) sarebbe illegittima, poiché mancante del carattere della democraticità non acquisibile nella
fase discendente o di recepimento della norma di indirizzo comunitario, in violazione degli artt. 4 TUE e 67 TFUE.
La questione andrà afrontata dal punto di vista separatamente dell’ordinamento europeo e di quello interno.
Sotto il primo proilo, è indubbio che il difetto di democraticità della direttiva
dettagliata in materia penale possa essere denunciato innanzi alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, secondo la procedura di cui all’art. 263 TFUE (o in
via incidentale ex art. 271 TFUE)91. I parametri del sindacato della Corte europea
sono il rispetto dell’identità nazionale di cui all’art. 4, § 2, TUE (riserva di legge in
materia penale), in relazione anche al principio di leale cooperazione, raforzato,
nella materia penale, dal «rispetto dei diversi ordinamenti giuridici e delle diverse
tradizioni giuridiche degli Stati membri» (art. 67, co. 1, TFUE). La direttiva penale, dunque, che non rispettasse i limiti contenutistici volti a garantire un margine
di apprezzamento da parte dello Stato membro nelle scelte di criminalizzazione,
potrebbe essere annullata dalla Corte europea.
Rispetto all’ordinamento nazionale, la questione appare più complessa.
Le norme europee, come accennato, sono sottratte al sindacato diretto della
Corte costituzionale, che, comunque, si è riservata la possibilità di un sindacato
indiretto attraverso la legge di ratiica (nel caso che ci interessa) del Trattato di
Lisbona e delle norme interne adottate tramite tale Trattato.
Il Giudice delle Leggi, infatti, con costante giurisprudenza92, ha afermato
che «l’orientamento di apertura dell’ordinamento italiano nei confronti sia delle
norme del diritto internazionale generalmente riconosciute, sia delle norme
internazionali convenzionali incontra i limiti necessari a garantirne l’identità
e quindi, innanzitutto, i limiti derivanti dalla Costituzione». I limiti di identità
sono «i principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale ed i diritti inalienabili della persona» che costituiscono l’argine all’ingresso nell’ordinamento
interno sia delle norme internazionali generalmente riconosciute alle quali l’ordinamento giuridico italiano si conforma secondo l’art. 10, co. 1, Cost. (sentenza
n. 48 del 1979); sia delle norme contenute in trattati istitutivi di organizzazioni
internazionali aventi gli scopi indicati dall’art. 11 Cost. o derivanti da tali organizzazioni (sentenze nn. 183 del 1973; 176 del 1981; 170 del 1984; 232 del 1989
e 168 del 1991).
91. Tesauro, Diritto dell’Unione Europea, cit., 217 ss.
92. Corte cost. n. 73 del 2001.
56
legalità
La conformità della norma pattizia, dunque, è sottoposta a controllo di costituzionalità tramite il sindacato della legge di esecuzione del trattato (ad esempio,
sentenze nn. 183 del 1994; 446 del 1990; 20 del 1966) e, pertanto, è possibile «addivenire eventualmente alla dichiarazione d’incostituzionalità della legge di esecuzione, qualora essa immetta, e nella parte in cui immette, nell’ordinamento norme
incompatibili con la Costituzione» (sentenze nn. 128 del 1987; 210 del 1986).
Tale impostazione, che vede nell’art. 11 Cost. il sicuro fondamento del rapporto
tra diritto italiano e diritto comunitario, ha resistito anche alla riforma costituzionale che ha portato alla riformulazione dell’art. 117, co. 1, Cost. Come linearmente
indicato da Tesauro93, «l’art. 117, primo comma, nel sancire che la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché
dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali, ha portato ad una sempliicazione del quadro esistente, mettendo in chiaro in
primo luogo la copertura costituzionale, con la nuova norma, di tutti gli obblighi
internazionali, ivi compresi quelli derivanti da norme internazionali convenzionali. Si tratta di un riconoscimento esplicito del primato delle norme comunitarie,
riconoscimento che conferma quello sancito dalla giurisprudenza costituzionale
fondata sull’art. 11. Peraltro, ciò è rilevante soprattutto per il confronto con le norme comunitarie prive di efetto diretto, in quanto le norme interne conservano
la loro rilevanza e sono sottoposte allo scrutinio di costituzionalità: ieri rispetto
solo all’art. 11, oggi anche rispetto all’art. 117, primo comma. Nel confronto con
le norme dell’Unione provviste di efetto diretto, viceversa, la norma interna incompatibile resta soggetta alla disapplicazione da parte del giudice comune, non
essendoci alcuna questione di legittimità costituzionale, ma solo di competenza
dell’ordinamento comunitario in luogo di quello nazionale. Né risulta modiicato –
continua l’Illustre Giurista – il rapporto tra norme comunitarie e norme costituzionali, rispetto al quale il principio della prevalenza della norma dell’Unione incontra
il solo limite dei principi strutturali dell’assetto costituzionale, nonché dei diritti
fondamentali della persona, limite ino ad oggi rimasto sulla carta»94.
93. Tesauro, Relazioni tra Corte costituzionale e Corte di giustizia, relazione tenuta all’incontro
in Bruxelles, 25 maggio 2012.
94. Ad esempio, sulla necessità di mantenere l’art. 11 come fondamento del rapporto tra diritto interno e diritto dell’Unione europea, la Corte costituzionale, nella sentenza n. 227 del 2010,
ha afermato che «restano, infatti, ben fermi, anche successivamente alla riforma, oltre al vincolo
in capo al legislatore e alla relativa responsabilità internazionale dello Stato, tutte le conseguenze
che derivano dalle limitazioni di sovranità che solo l’art. 11 Cost. consente, sul piano sostanziale
e sul piano processuale, per l’amministrazione e per i giudici. In particolare, quanto ad eventuali
contrasti con la Costituzione, resta ferma la garanzia che, diversamente dalle norme internazionali
convenzionali, l’esercizio dei poteri normativi delegati all’Unione europea trova un limite esclusivamente nei principi fondamentali dell’assetto costituzionale e nella maggior tutela dei diritti
inalienabili della persona».
57
i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
Le fonti europee non assumono rango costituzionale per efetto dell’art. 117,
co. 1, Cost., trattandosi di norma interposta tra legge fondamentale e legge ordinaria, «soggetta a sua volta […] ad una veriica di compatibilità con le [disposizioni] della Costituzione»95.
Ora, tornando all’analisi sopra indicata, la democraticità della norma penale
europea, come appena deinita nel suo aspetto minimale, essendo una dimensione particolare della riserva di legge (corollario della legalità garantita dall’art.
25, co. 2, Cost.) costituisce un principio strutturale del nostro ordinamento costituzionale e, dunque, può essere utilizzata dalla Consulta per la dichiarazione
di incostituzionalità.
Non appare contraria a tale principio la previsione pattizia (art. 83 TFUE)
e, dunque, la legge di ratiica, poiché la democraticità è un carattere della legalità formale sotto l’aspetto materiale (riserva di legge sostanziale), mentre tale
previsione del Trattato delinea il procedimento di produzione della norma di
95. Corte cost. n. 349 del 2007, ma anche Corte cost. n. 311 del 2009, in materia di norme
internazionali pattizie ed, in particolare, della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, ove la
Corte, da un lato evidenzia come l’eventuale trasgressione degli obblighi internazionali di diritto
pattizio comporti una violazione indiretta dell’art. 117, co. 1, Cost., dal momento che con esso «si
è realizzato […] un rinvio mobile alla norma convenzionale di volta in volta conferente, la quale dà
vita e contenuto a quegli obblighi internazionali genericamente evocati e, con essi, al parametro»;
mentre, dall’altro speciica come tale “norma interposta” sia «soggetta a sua volta […] ad una veriica di compatibilità con le [disposizioni] della Costituzione». Dalla particolare struttura dell’art. 117,
co. 1, Cost. «simile a quella di altre norme costituzionali, che sviluppano la loro concreta operatività solo se poste in stretto collegamento con altre norme, di rango sub-costituzionale, destinate a
dare contenuti ad un parametro che si limita ad enunciare in via generale una qualità che le leggi in
esso richiamate devono possedere, ne consegue che le norme necessarie [allo] scopo [di integrare e
dare vita al parametro] sono di rango subordinato alla Costituzione, ma intermedio tra questa e la
legge ordinaria». E proprio per tale peculiare posizione nel sistema delle fonti, esse «non [possono
essere] immuni dal controllo di legittimità costituzionale». Si impone, infatti, l’esigenza assoluta ed
inderogabile che le norme che integrano il parametro di costituzionalità siano esse stesse conformi
a Costituzione «per evitare il paradosso che una norma legislativa venga dichiarata incostituzionale
in base ad un’altra norma sub-costituzionale, a sua volta in contrasto con la Costituzione». E tale
controllo non può «limitarsi alla possibile lesione dei princìpi e dei diritti fondamentali […] o dei
princìpi supremi […], ma [deve] estendersi ad ogni proilo di contrasto tra le “norme interposte”
e quelle costituzionali». Per ogni questione nascente da pretesi contrasti tra norme interposte e
norme legislative interne, sarà quindi necessario «veriicare congiuntamente la conformità a Costituzione di entrambe e precisamente la compatibilità della norma interposta con la Costituzione
e la legittimità della norma censurata rispetto alla stessa norma interposta». Nel caso in cui una
disposizione di diritto internazionale pattizio risultasse in contrasto con una di rango costituzionale, allora la Corte dichiarerà «l’inidoneità della stessa ad integrare il parametro, provvedendo,
nei modi rituali, ad espungerla dall’ordinamento giuridico italiano». Critico sulla considerazione
della norma convenzionale come disposizione sub-costituzionale, Cicconetti, Creazione indiretta
del diritto e norme interposte, in www.associazionecostituzionalisti.it, Sull’europeizzazione dei controlimiti, nonché sul nuovo rapporto tra i sistemi europeo e nazionale in una visione sinergica, unica
e generale, infra § IV.9.
58
legalità
indirizzo penale (aspetto procedurale). Quindi, la legge di ratiica e l’ordine di
esecuzione sono legittimi.
Potrebbe, di contro, essere incostituzionale la norma di recepimento di una
direttiva che deinendo il reato e la sanzione in maniera dettagliata, non consente al legislatore nazionale una certa libertà di valutazione della scelta di politica
criminale. La norma di recepimento sarebbe, infatti, sospetta di incostituzionalità
perché la scelta di criminalizzazione a livello europeo non ha rispettato il canone costituzionale fondamentale sancito dall’art. 25, co. 2, Cost., secondo cui solo
«attraverso l’intervento dell’organo rappresentativo di tutta la società unita per
contratto sociale, si è in grado di positivizzare i principi razionali ed immutabili di
giustizia penale»96. È necessario spiegarsi meglio. La norma di recepimento di una
direttiva penale dettagliata, seppur formalmente adottata dal legislatore nazionale, secondo l’iter costituzionale di adozione della legge ordinaria, sarebbe sospetta
di incostituzionalità per violazione del principio di legalità-riserva di legge (aspetto materiale della democraticità), in quanto l’obbligo di recepimento della direttiva
nell’ordinamento interno, combinato con l’estrema determinatezza della descrizione della norma “minima”, ha precluso al legislatore nazionale di poter apprezzare la scelta di politica criminale, così ledendo il canone della riserva di legge. Per
fare un paradosso, ma che rende immediato (come sempre) il vulnus lamentato,
sarebbe come se una proposta di legge fosse adottata saltando la fase referente o
quella redigente, senza, dunque, alcuna possibilità di modiica (emendamenti),
passando direttamente al voto [sic!]97. In questa prospettiva, addirittura, si potrebbe ipotizzare per la norma penale di recepimento della direttiva dettagliata anche
la violazione dell’art. 72 Cost.
L’eventuale incidente di costituzionalità di tale norma di recepimento dovrebbe estendersi anche al sindacato dell’art. 7 l. 234/2012 (ma anche dell’art. 12 l.
234/2012), nella parte in cui non prevede la necessità della legge per autorizzare
ogni iniziativa del Governo (rectius, del componente del Consiglio) nella formazione (fase ascendente) di direttive in materia penale ai sensi dell’art. 83 TFUE.
Nell’ipotesi in cui la direttiva comunitaria in materia penale consentisse un
margine di apprezzamento della scelta di criminalizzazione nella fase discendente, come dovrebbe essere stando alla lettera dell’art. 83 TFUE, interpretato
alla stregua di quanto prescritto dall’art. 288 TFUE, l’art. 7 l. 234/2012 non
96. Corte cost. n. 487 del 1989.
97. L’analogia con il discusso (ab)uso della questione di iducia è evidente. In tema, cfr. Manzella, Note sulla questione di iducia, in Studi Parl. e di Pol. Cost., 1969, 5-6, 39 ss.; Olivetti, La questione di iducia nel sistema Parlamentare Italiano, Milano, 1996; Lupo, Emendamenti, maxi-emendamenti
e questione di iducia nelle legislature del magioritario, in Gianfrancesco, Lupo (a cura di), Le regole
del diritto parlamentare nella dialettica tra magioranza e opposizione, Roma, 2007, 41 ss.; Piccirilli, I
paradossi della questione di iducia ai tempi del magioritario, in QC, 2008, 4, 789 ss.
59
i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
potrebbe mai essere valutato dalla Corte costituzionale per difetto di rilevanza
nel giudizio a quo.
Questa è una grave lacuna del nostro sistema nel rapporto di partecipazione
alle scelte di politica criminale in ampi settori della vita sociale regolati da norme
europee formate a distanza, senza alcun impegno democratico e che contribuisce
a raforzare quel sentimento anti europeista che oramai da tempo serpeggia nel
populismo demagogico. Nel nostro ordinamento così trovano (o, ottimisticamente, potrebbero trovare) ingresso norme che l’opinione pubblica nazionale vede
come imposte perché a quelle scelte non ha partecipato, perché quelle decisioni
nascono senza responsabilità democratica o politica, come garantita e voluta dalla
Costituzione. Anche se quotidianamente si assiste alla mortiicazione della democrazia rappresentativa, così come concepita dai nostri padri fondatori, quale principio volto a garantire la corrispondenza tra il contenuto delle scelte politiche e la
volontà popolare come espressa dai rappresentanti elettivi del popolo98, si è convinti che, proprio perché il diritto penale riguarda la libertà personale la relativa
restrizione non può che essere sacriicata solo con la più ampia partecipazione dei
cittadini alle deliberazioni di interesse generale. La prassi, la realtà, è certamente
diversa, ma non per questo il richiamo della Costituzione deve essere superato e
dimenticato o, se si vuole, svilito, ma anzi deve essere sostenuto e raforzato, per
fermare la deriva dei principi che sorreggono la collettività statuale99.
sezione III. retroattività
III.1. La retroattività della lege favorevole dalla Dichiarazione universale dei diritti
dell’uomo alla Carta di Nizza. L’excursus dell’afermazione internazionale e la giurisprudenza costituzionale sul principio di retroattività in mitius. Si è già detto che il
principio di legalità europeo, come consacrato nell’art. 49 Carta, è circoscritto
alla sola dimensione intertemporale delle legge penale, ma, rispetto alla previsione costituzionale nostrana, riguarda non solo la norma in malam partem100, ma
98. Fiandaca, Lege penale e democrazia, cit., 1252.
99. Fiandaca, Crisi della riserva di lege e disagio della democrazia rappresentativa nell’età del protagonismo giurisdizionale, cit., 85, il quale evidenzia «il disagio delle democrazie contemporanee,
come efetto di un insieme di cause quali: il declino della centralità del parlamento e la sua sempre
maggiore inettitudine a fungere da luogo istituzionale di esercizio di razionalità discorsiva; la perdita di capacità progettuale e di attitudine innovativa della politica; l’indebolimento dei partiti e le
derive populistiche delle maggioranze governative; la tendenza alla personalizzazione e alla mediatizzazione della politica; lo scadimento della qualità e del livello culturale e di professionalità del
personale politico, ecc.». Per un quadro di sintesi, Galli, Il disagio della democrazia, Torino, 2011.
100. Per l’inderogabilità del divieto di retroattività in malam partem, come indicato nella Convenzione EDU, in dottrina, fra i tanti, Balsamo, La dimensione garantistica del principio di irretroattività e la nuova interpretazione giurisprudenziale “imprevedibile”: una “nuova frontiera” del processo di
“europeizzazione” del diritto penale, in Cass. pen., 2007, 2202 ss.; Bernardi, Nessuna pena senza lege
60
legalità
anche quella più favorevole al reo. «Nessuno può essere condannato – recita l’art.
49, § 1, Carta – per un’azione o un’omissione che, al momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o il diritto internazionale.
Parimenti, non può essere inlitta una pena più grave di quella applicabile al momento in cui il reato è stato commesso. Se, successivamente alla commissione
del reato, la legge prevede l’applicazione di una pena più lieve, occorre applicare
quest’ultima».
Per comprendere l’importanza fondamentale della retroattività in mitius è
utile percorrere, con la dovuta sintesi, le tappe che hanno contrassegnato tale
principio a livello internazionale e, poi, europeo e, dunque, nazionale, in virtù di
quanto previsto dall’art. 117, co. 1, Cost.
Non può non iniziarsi l’excursus storico della retroattività della legge favorevole se non dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, contenente
i principi che regolano il rispetto dei diritti dell’uomo (appunto) e delle libertà fondamentali, adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948101. L’art. 11, co. 2, della Dichiarazione universale recita: «Nul ne sera
condamné pour des actions ou omissions qui, au moment où elles ont été commises, ne
constituaient pas un acte délictueux d’après le droit national ou international. De même,
il ne sera inligé aucune peine plus forte que celle qui était applicable au moment où
l’acte délictueux a été commis». Niente di nuovo ancora: la solenne Dichiarazione
si limita, dunque, a ribadire la dimensione della legalità-irretrottività della legge
penale sfavorevole102, nulla dicendo in ordine a quella della retroattività in mitius.
(art. 7), cit., 249 ss.; Dannecker, Das intertemporale Strafrecht, Tubingen, 1993, 152 ss.; Manes, I
rapporti tra diritto comunitario e diritto penale nello specchio della giurisprudenza della Corte di Giustizia:
approdi recenti e nuovi orizzonti, in Sgubbi, Manes (a cura di), L’interpretazione conforme al diritto comunitario in materia penale, Bologna, 2007, 9 ss.; Jacobs, White, The European Convention on human
rights, II, Oxford, 1996, 162. In giurisprudenza, ex multis, Corte eur. dir. uomo, 22 novembre 1995,
S.W. c. Regno Unito, § 34 «La garantie que consacre l’article 7 (art. 7), élément essentiel de la prééminence
du droit, occupe une place primordiale dans le système de protection de la Convention, comme l’atteste le
fait que l’article 15 (art. 15) n’y autorise aucune dérogation en temps de guerre ou autre danger public. Ainsi
qu’il découle de son objet et de son but, on doit l’interpréter et l’appliquer de manière à assurer une protection
efective contre les poursuites, les condamnations et sanctions arbitraries». Per la derogabilità del principio
di irretroattività alla stregua di quanto previsto dall’art. 7, co. 2, Convenzione EDU (c.d. clausola
di Norimberga), da ultimo, V. Valentini, Diritto penale intertemporale, cit., 108 ss., ove si richiama
ampia bibliograia internazionale a sostegno.
101. Assemblea Generale delle Nazioni Unite, risoluzione 217 A (III). Il testo fu approvato con
48 voti favorevoli, 8 astenuti e nessun voto contrario. Sul ruolo rivestito nell’ambito del diritto internazionale dalle Dichiarazioni di principi emanate dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite
cfr., Conforti, Diritto internazionale, Napoli, 2002, 60.
102. Sulla connotazione illuminista e giusnaturalista di taluni corollari della legalità, atti ad
esprimere le eterne idee di razionalità e giustizia, cfr. Bernardi, Sulle funzioni dei principi di diritto
penale, in Annali dell’Università di Ferrara-Scienze giuridiche, vol. VI, 1992, 73 ss.; Id., All’indomani di
Lisbona: note sul principio europeo di legalità penale, cit., 43 ss.
61
i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
Per l’evoluzione del principio di legalità, nella dimensione analizzata, è necessario guardare al Patto internazionale sui diritti civili e politici (d’ora in poi,
anche solo Patto) adottato a New York il 16 dicembre 1966 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite103. Esso stabilisce all’art. 15, co. 1: «Nul ne sera condamné
pour des actions ou omissions qui ne constituaient pas un acte délictueux d’après le droit
national ou international au moment où elles ont été commises. De même, il ne sera inligé aucune peine plus forte que celle qui était applicable au moment où l’infraction a été
commise. Si, postérieurement à cette infraction, la loi prévoit l’application d’une peine
plus légère, le délinquant doit en bénéicier». Con tale ultima espressione, il legislatore
internazionale ha posto la retroattività delle legge favorevole tra i principi fondamentali del diritto universale.
La questione esegetica della norma pattizia si è posta sui limiti della retroattività
benigna, ovvero se la stessa potesse estendersi oltre il giudicato. La positiva opzione si ricava dalla riserva interpretativa apportata dall’Italia in sede di autorizzazione
alla ratiica del Patto e contenuta nell’art. 4 l. 25 ottobre 1977 n. 881, secondo cui:
«L’ultima frase del paragrafo 1 dell’art. 15 del patto relativo ai diritti civili e politici
“Si postérieurement à cette infraction, la loi prevoit l’application d’une peine plus lègère, le
delinquant doit en bénéicier” deve essere interpretata come riferita esclusivamente alle
procedure ancora in corso. Conseguentemente, un individuo già condannato con
sentenza passata in giudicato non potrà beneiciare di una legge che, posteriormente
alla sentenza stessa, prevede l’applicazione di una pena più lieve», conformemente a
quanto previsto dall’art. 2, co. 4, c.p. Da ciò, dunque, l’indicazione contenuta nell’art.
15, co. 1, Patto ha un più ampio respiro, facendo rientrare nell’obbligo di applicazione retroattiva della legge favorevole, anche l’ipotesi delle situazioni già deinite104.
Il Patto non rientra tra le norme di diritto internazionale generalmente riconosciute, a cui fa riferimento l’art. 10 Cost. Ed invero, la Corte costituzionale, in
un primo tempo, aveva avuto modo di chiarire che, «per quanto all’origine vi sia
una deliberazione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, consegnata a un
testo che esprime un accordo internazionale che ha da tempo ricevuto numerose
adesioni e che è perciò eicace come trattato multilaterale, e sebbene i principi ivi
proclamati abbiano portata universale per la loro stessa intrinseca natura, l’adesione
a quel patto e la sua vigenza in Italia derivano pur sempre da un atto di volontà sovrana individuale dello Stato espresso in forma legislativa. E ciò – se non impedisce
103. Cassese, I diritti umani ogi, Roma-Bari, 2012, 44. Il Patto internazionale sui diritti civili e
politici, nonché il Protocollo facoltativo ad esso connesso (già ratiicato da 10 paesi, ossia il numero
minimo di ratiiche richieste per la sua entrata in vigore) sono entrati in vigore il 23 marzo 1976. In
Italia l’entrata in vigore è successiva, il 15 dicembre 1978.
104. L’importante deroga al principio di intangibilità del giudicato è, come noto, stata introdotta dal nuovo co. 3 dell’art. 2 c.p., secondo cui: «Se vi è stata condanna a pena detentiva e la
legge posteriore prevede esclusivamente la pena pecuniaria, la pena detentiva inlitta si converte
immediatamente nella corrispondente pena pecuniaria, ai sensi dell’articolo 135».
62
legalità
di attribuire a quelle norme grande importanza nella stessa interpretazione delle
corrispondenti, ma non sempre coincidenti, norme contenute nella Costituzione
– impedisce però di assumerle in quanto tali come parametri nel giudizio di costituzionalità delle leggi. Cosicché, una loro eventuale contraddizione da parte di norme
legislative interne non determinerebbe di per sé – cioè indipendentemente dalla
mediazione di una norma della Costituzione – un vizio d’incostituzionalità»105. La
questione di legittimità costituzionale dovrà allora essere sollevata non con riferimento al Patto, bensì con riferimento ad un parametro costituzionale.
A più riprese, come già visto106, la Corte ha potuto afermare, sia pur con riferimento alle norme della Convenzione EDU – ma con afermazioni che possono
essere estese a tutto il diritto internazionale pattizio (non comunitario)107 – che
il parametro costituzionale deve rinvenirsi nell’art. 117, co. 1, Cost., che, come
noto, statuisce che la potestà legislativa (statale e regionale) debba essere esercitata nel rispetto, oltre che della Costituzione e dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario, anche degli obblighi internazionali108.
Ora, la questione della legge più favorevole alla stregua del Patto è stata affrontata espressamente dalla Corte delle Leggi, su iniziativa della Corte di cassazione109, che ha sollevato l’incidente costituzionale proprio per un supposto
contrasto con l’art. 117 Cost., integrato, tra l’altro anche dall’art. 15 Patto, della
disciplina intertemporale della legge 5 dicembre 2005 n. 251 (art. 10, co. 3)110. La
105. Corte cost. n. 15 del 1996.
106. Cfr. § II.5 In particolare, Corte cost. nn. 348 e 349 del 2007 e, da ultimo, Corte cost. n. 28
del 2010.
107. Giupponi, Corte costituzionale, obblighi internazionali e “controlimiti allargati”: che tutto cambi
perché tutto rimanga uguale, in www.forumcostituzionale.it, secondo l’A. «l’apertura della Corte ad una
sub-costituzionalizzazione del diritto internazionale pattizio sarebbe incompatibile con la sistematica costituzionale».
108. Sull’impossibilità di disapplicare la norma interna in contrasto con quella internazionale
pattizia (non comunitaria), tra i tanti, Carlotto, I giudici comuni e gli obblighi internazionali dopo
le sentenze n. 348 e n. 349 del 2007 della Corte costituzionale: un’analisi sul seguito giurisprudenziale, in
www.associazionecostituzionalisti.it, 28 ss. Come già evidenziato in precedenza, tale impostazione è
stata ribadita anche da Corte cost. n. 80 del 2011. In dottrina, fra gli altri, Conti, La scala reale della
Corte costituzionale sul ruolo della CEDU nell’ordinamento interno, in CG, 9, 2011, 1243 ss.; Costanzo,
Mezzetti, Ruggeri, Lineamenti di diritto costituzionale dell’Unione europea, Torino, 2010; Mastroianni, L’ordinamento giuridico nazionale nei rapporti con le regole dell’Unione europea. La posizione della
Corte costituzionale italiana, in Rossi, Baroncini (a cura di), Rapporti tra ordinamenti e diritti dei singoli,
Studi degli allievi in onore di Paolo Mengozzi, Napoli, 2012, 59 ss.
109. Cass. pen., Sez. II, ord., 27 maggio 2010 n. 22357, in D&G, 2010, 296, con nota di Natalini, Lege ex Cirielli, atti alla Consulta: a rischio la norma che esclude i nuovi termini di prescrizione, se più
brevi, per i processi già pendenti in appello o alla Cassazione, 298.
110. Trattasi di una previsione che introduce una deroga al principio della legge penale più
favorevole, laddove stabilisce che il regime più favorevole della prescrizione non possa applicarsi ai
processi già pendenti in appello e in cassazione.
63
i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
Consulta (n. 393 del 2006)111, richiamando la giurisprudenza della Corte comunitaria ed accennando alla limitazione di applicabilità della retroattività benigna
di cui all’art. 15 Patto, contenuta nella riserva italiana, ha fatto leva interpretativa
sul «livello di rilevanza dell’interesse preservato dal principio di retroattività della
lex mitior – quale emerge dal grado di protezione accordatogli dal diritto interno,
oltre che dal diritto internazionale convenzionale e dal diritto comunitario, nel
senso che – così si legge nella successiva sentenza n. 394 del 2006 – il principio di
retroattività della norma più favorevole non ha alcun collegamento con la libertà
di autodeterminazione individuale, per l’ovvia ragione che, nel caso considerato,
la lex mitior sopravviene alla commissione del fatto, al quale l’autore si era liberamente autodeterminato sulla base del pregresso (e per lui meno favorevole) panorama normativo». Da ciò, non signiica che tale principio non abbia copertura
costituzionale (come, invece, quello di irretroattività della norma sfavorevole posto dall’art. 25, co. 2, Cost.): il suo alveo nella Carta fondamentale è da rinvenire
nell’eguaglianza di cui all’art. 3 Cost., «che impone, in linea di massima, di equiparare il trattamento sanzionatorio dei medesimi fatti, a prescindere dalla circostanza che essi siano stati commessi prima o dopo l’entrata in vigore della norma
che ha disposto l’abolitio criminis o la modiica mitigatrice». Comunque, con una
evidenziata diferenza, in quanto se è vero che «i fatti commessi prima e dopo
l’entrata in vigore della norma penale favorevole sono identici nella loro materialità», è anche vero, però, che non lo sono «sul piano della rimproverabilità. Altro,
infatti, è il porre in essere una condotta che in quel momento è penalmente lecita
o punita in modo mite; altro è porre in essere la stessa condotta in contrasto
con la norma che in quel momento la vieta o la punisce in modo più severo. Il
collegamento del principio della retroattività in mitius al principio di eguaglianza
– concludono i Giudici delle Leggi – ne segna, peraltro, anche il limite: nel senso
che, a diferenza del principio della irretroattività della norma penale sfavorevole − assolutamente inderogabile – detto principio deve ritenersi suscettibile di
deroghe legittime sul piano costituzionale, ove sorrette da giustiicazioni oggettivamente ragionevoli. Tali giustiicazioni vanno individuate nei beni giuridici
che il legislatore, interprete della coscienza sociale, reputa oggettivamente meritevoli di essere salvaguardati da determinate forme di aggressione col presidio
della pena». Si tratta, dunque, di un bilanciamento di interessi contrapposti: da
un lato, quello tutelato dal principio di retroattività in mitius (il mutamento della
valutazione del disvalore del fatto deve riverberarsi a vantaggio anche di coloro
che abbiano posto in essere il fatto in un momento anteriore) e, dall’altro, quello
tutelato, di volta in volta, dalla norma penale modiicatrice che deve essere di
111. Come già in Corte cost. n. 74 del 1980, n. 6 del 1978 e n. 215 del 2008. Per un’attenta analisi degli orientamenti costituzionali, cfr. Maiello, Il rango della retroattività della lex mitior nella recente
giurisprudenza comunitaria e costituzionale italiana, in Riv. it. dir. proc. pen., 2008, 1614 ss.
64
legalità
analogo rilievo. Da ciò, pertanto, «lo scrutinio di costituzionalità ex art. 3 Cost.,
sulla scelta di derogare alla retroattività di una norma penale più favorevole al
reo – si legge nella sentenza n. 393 del 2006 – deve superare un vaglio positivo
di ragionevolezza, non essendo a tal ine suiciente che la norma derogatoria
non sia manifestamente irragionevole». In deinitiva, soltanto nell’ipotesi in cui
l’interesse che giustiica l’irretroattività della lex mitior sia proporzionalmente più
intenso di quello sotteso alla retroattività benigna «può trovare giustiicazione la
deroga alla applicazione retroattiva della disposizione più favorevole al reo»112.
La Consulta, comunque, si interroga su quale possa essere il limite del sindacato costituzionale, una volta individuato il parametro di legittimità. Le scelte
di criminalizzazione del legislatore, con l’introduzione di norme più favorevoli,
possono essere sindacate poiché «l’efetto in malam partem (dovuto alla declaratoria di incostituzionalità della norma in mitius) non discende dall’introduzione
112. Pellizzone, Il fondamento costituzionale del principio di retroattività delle norme penali in
bonam partem: due decisioni dall’impostazione divergente, in Forum di Quaderni Costituzionali, 2006,
secondo cui «le sentenze richiamate nel testo hanno un’impostazione motivazionale divergente
in relazione al richiamo dell’art. 3 Cost.» ed, in particolare, l’A. evidenzia che «nella sent. n. 393 la
Corte ha semplicemente applicato uno schema di giudizio consolidato, consistente nel vaglio di
intrinseca ragionevolezza sulle deroghe al principio di retroattività; nella sent. n. 394, invece, ha effettuato per la prima volta un bilanciamento tra principio di retroattività in mitius e principio della
cessazione di eicacia delle norme incostituzionali e non ha potuto, perciò, sottrarsi dall’afrontare
il problema del rilievo costituzionale del principio di retroattività». Si ritiene, di contro, che tale
divergenza non sussista, in quanto il richiamo del principio di eguaglianza, seppur espresso nella
pronuncia n. 394, è efettuato, in entrambe le decisioni, in relazione al sindacato di ragionevolezza
(secondo l’impostazione di Morrone, Corte costituzionale e principio generale di ragionevolezza, in
La ragionevolezza nel diritto, Milano, 239-286, atti del convegno La ragionevolezza nel diritto, Roma,
Università La Sapienza, 2, 3, 4 ottobre 2006): nella sentenza n. 393 risolto con il giudizio di ragionevolezza-razionalità; nella sentenza n. 394 deinito con il giudizio intorno al ragionevole bilanciamento degli interessi. Per un approfondito e lucido commento della sentenza n. 394 del 2006 con
spunti problematici, Manes, Illegittime le “norme penali di favore” in materia di falsità nelle competizioni
elettorali, in Forum di Quaderni Costituzionali, 2006. Un’osservazione: le decisioni de quibus hanno in
comune la relazione dello stesso giudice costituzionale, Prof. Avv. Giovanni Maria Flick (professore
emerito di diritto penale), anche se solo la seconda (n. 394) è stata dal medesimo redatta, mentre,
per la prima (n. 393), il redattore è stato il Dr. Alfonso Quaranta (presidente di sezione del Consiglio di Stato). Di regola, infatti, il giudice relatore coincide con quello redattore, poiché le ipotesi
di sostituzione sono eccezionali e precisamente disciplinate dall’art. 17, co. 4, Norme Integrative,
secondo cui, in caso di “indisponibilità” del redattore o in presenza di “altro motivo”, la redazione
può essere aidata ad altro giudice o a più giudici. Nell’ostentata sostituzione (distinta da quella
latente, ovvero quando la nomina di un giudice redattore diverso dal relatore è solo desumibile dal
confronto fra la parte iniziale della decisione, che precede il ritenuto in fatto, e quella inale, relativa
alla sottoscrizione da parte del Presidente e di chi ha proceduto alla stesura della motivazione) del
giudice redattore vi è annidata un dissent di fatto del Prof. Flick? In dottrina su tale questione, inaugurata proprio nella sentenza n. 393 del 2006, Ruggeri, La Consulta e il dissent ostentato (nota minima
a Corte cost. n. 393/2006), in Id., “Itinerari” di una ricerca sul sistema delle fonti, X, Studi dell’anno 2006,
Torino, 2007, 553 ss.
65
i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
di nuove norme o dalla manipolazione di norme esistenti da parte della Corte, la
quale si limita a rimuovere la disposizione giuridica lesiva dei parametri costituzionali, ma rappresenta […] una conseguenza dell’automatica riespansione della
norma generale o comune, dettata dallo stesso legislatore, al caso già oggetto di
una incostituzionale disciplina derogatoria»113.
Con due importanti eccezioni. La pronuncia in commento, infatti, richiama
espressamente la decisione in materia di falso in bilancio (n. 161 del 2004), sottolineando «come occorra distinguere fra le previsioni normative che “delimitano”
l’area di intervento di una norma incriminatrice, concorrendo alla deinizione
della fattispecie di reato; e quelle che invece “sottraggono” una certa classe di
soggetti o di condotte all’ambito di applicazione di altra norma, maggiormente
comprensiva». Solo a queste ultime si attaglia, in efetti – ove l’anzidetta sottrazione si risolva nella conigurazione di un trattamento privilegiato – la qualiicazione di norme penali di favore; non invece alle prime, le quali si traducono
in dati normativi espressivi di «una valutazione legislativa in termini di “meritevolezza” ovvero di “bisogno” di pena, idonea a caratterizzare una precisa scelta politico-criminale»: scelta cui la Corte non potrebbe sovrapporre − «senza
esorbitare dai propri compiti ed invadere il campo riservato dall’art. 25, secondo
comma, Cost. al legislatore» – «una diversa strategia di criminalizzazione volta
ad ampliare», tramite ablazione degli elementi stessi, «l’area di operatività della
sanzione»114. E poi, la nozione di norma penale di favore è la risultante di un giudizio di relazione fra due o «più norme compresenti nell’ordinamento in un dato
momento: rimanendo escluso che detta qualiicazione possa esser fatta discendere dal rafronto tra una norma vigente ed una norma anteriore, sostituita dalla
prima con efetti di restringimento dell’area di rilevanza penale o di mitigazione
della risposta punitiva. In tal caso, difatti, la richiesta di sindacato in malam partem
mirerebbe non già a far riespandere la portata di una norma tuttora presente
nell’ordinamento, quanto piuttosto a ripristinare la norma abrogata, espressiva
di scelte di criminalizzazione non più attuali: operazione, questa, senz’altro preclusa alla Corte, in quanto chiaramente invasiva del monopolio del legislatore su
dette scelte».
Le due direttrici per individuare, dunque, la norma più favorevole oggetto
del sindacato di costituzionalità, che, in via eccezionale, ammettono l’intervento
della Consulta in malam partem, sono (1) le previsioni normative che sottraggono
una certa classe di soggetti o di condotte all’ambito di applicazione di altra norma, maggiormente comprensiva e che, comunque, (2) modiicano o derogano
113. Sulla creatività della declaratoria di illegittimità di norme incriminatrici che faccia riespandere automaticamente la norma generale, Belfiore, Giudice delle legi e diritto penale, Milano,
2005, 151.
114. Manes, Il giudice nel labirinto, cit., 99 ss.
66
legalità
ad una norma generale che resta vigente nell’ordinamento (rapporto di specialità sincronico).
È stata osservata la diicoltà esegetica, non solo, di distinguere le ipotesi
evidenziate, ma quella di escludere dal sindacato costituzionale le norme che
delimitano le condotte, tipizzandone la rilevanza penale, poiché, ad un tempo,
sottraggono una parte di condotte all’applicazione della norma posta: la scelta di
politica criminale da sindacare è identica, come nell’ipotesi di sovrapposizione di
norme, che fa leva sulla tecnica lex specialis derogat generali115.
Ad ogni modo, sul punto, non vi è uniformità di lettura. Secondo una parte della dottrina116, la Corte ha espressamente precisato che singoli elementi di
fattispecie che esprimono «scelte discrezionali “primarie” di politica criminale»
non possono essere ricondotti alla nozione di norme penali di favore, perché
una norma non può «essere smantellata pezzo per pezzo in sede di sindacato di
costituzionalità, trasformandola – con vaniicazione del principio espresso dal
citato precetto costituzionale [art. 25, co. 2, Cost.] – in quid alii rispetto alla igura
voluta dal legislatore»117.
Ancora è stato osservato che la sottrazione di sotto-fattispecie dal cono applicativo di una igura incriminatrice, comunque, comporta sempre la delimitazione
della sua struttura descrittivo-lessicale118.
Altri, invece, evidenziano che la sottrazione di sotto-fattispecie dal cono applicativo di una igura incriminatrice può avvenire attraverso la contrazione indiretta dell’area della rilevanza penale, con disposizioni esterne alla igura criminale,
con l’efetto che ove tali disposizioni esterne dovessero modiicarsi nel tempo
continuerebbero a porsi in un rapporto di coesistenza-sincronia con la (immutata)
disposizione incriminatrice e, pertanto, sarebbero sempre giustiziabili119.
L’ambito della deinizione di norme penali di favore giustiziabili è stata anche
delineata da un attento intervento della Corte di cassazione120, in cui, richiamando la pronuncia n. 161 del 2004 della Corte delle Leggi, viene recuperata una
distinzione tradizionale nella giurisprudenza costituzionale121 che stigmatizza
la norma selettiva dei fatti meritevoli di pena, assolutamente insindacabile in forza
dell’art. 25, co. 2, Cost., in quanto attiene ad una scelta discrezionale del legisla115. Manes, Illegittime le “norme penali di favore” in materia di falsità nelle competizioni elettorali,
cit., 3,4.
116. Manes, il giudice nel labirinto, cit., 105.
117. Corte cost. n. 161 del 2004, su cui, ampiamente, infra § III.3.
118. Di Giovine, Il sindacato di ragionevolezza della Corte costituzionale in un caso facile. A proposito della sentenza n. 394 del 2006, sui falsi elettorali, in Riv. it. dir. proc. pen., 2007, 100 ss.
119. V. Valentini, Diritto penale intertemporale, cit., 231.
120. Cass. Sez. V, 11 ottobre 2005 n. 38967.
121. Corte cost. nn. 49 del 2002, 183 del 2000, 508 del 2000, 411 del 1995, 25 del 1994, 167 del
1993 e 148 del 1983.
67
i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
tore di politica criminale, come avviene nell’ipotesi di introduzione di determinate soglie di punibilità, di condizioni di procedibilità, di abrogazione totale e
parziale di precedenti norme incriminatrici. Poi la necessaria compresenza della
norma più favorevole, rispetto a quella derogata generale, su cui si tornerà più
avanti, appare un requisito ulteriore di ammissibilità dell’intervento della Corte costituzionale in malam partem su una norma di favore, forse eccessivamente
rigido ed ingiustiicato, poiché, in prima battuta, diversamente, signiicherebbe
dover dare applicazione ad una norma comunque illegittima122, avallando una
scelta di politica criminale del legislatore (potenzialmente) non conforme alla
Costituzione.
Applicazione ontologica dell’orientamento giurisprudenziale appena delineato, è oferta dalla Corte costituzionale, con la declaratoria di illegittimità
dell’art. 183, co. 1, lett. n), d.lgs. 152/2006 nel testo antecedente alle modiche
introdotte dall’art. 2, co. 20, del decreto legislativo 16 gennaio 2008, n. 4123. La
Consulta ha afrontato espressamente la questione degli efetti della pronuncia
ablativa in malam partem su una disposizione più favorevole. Innanzitutto, il sindacato in malam partem deve essere ammesso per ragioni di coerenza sistematica
e per evitare un efetto paradossale: «se si stabilisse che il possibile efetto in malam partem della sentenza di questa Corte inibisce la veriica di conformità delle
norme legislative interne rispetto alle norme comunitarie – che sono cogenti e
sovraordinate alle leggi ordinarie nell’ordinamento italiano per il tramite degli
artt. 11 e 117, primo comma, Cost. – non si arriverebbe soltanto alla conclusione del carattere non autoapplicativo delle direttive comunitarie sui riiuti, ma si
toglierebbe a queste ultime ogni eicacia vincolante per il legislatore italiano,
come efetto del semplice susseguirsi di norme interne diverse, che diverrebbero
insindacabili a seguito della previsione, da parte del medesimo legislatore italiano, di sanzioni penali».
In secondo luogo, la nozione di riiuto di cui all’art. 183, co. 1, lett. n), d.lgs.
152/2006 si colloca perfettamente nella deinizione di norma penale di favore
delineata dalle sentenze nn. 161 del 2004, 393 e 394 del 2006, in quanto (a) la nozione legale di riiuto (non integratrice extrapenale) era compresente alle relative
incriminazioni di cui agli artt. 51, 51-bis, d.lgs. 22/2007, (b) sottraeva sottogruppi
122. Dello stesso tenore delle sentenze nn. 393 e 394 del 2006, cfr. Corte cost. nn. 72 e 215 del
2008, su cui ampiamente cfr. Poli, Il principio di retroattività della lege più favorevole nella giurisprudenza costituzionale ed europea, in www.associazionecostituzionalisti.it; Corte cost. 236 del 2011, in cui
la Corte richiama la previsione di cui all’art. 2, co. 5, c.p., in tema di leggi eccezionali o temporanee,
per afermare che, «a diferenza di quello di irretroattività della legge penale sfavorevole, il principio di retroattività della legge favorevole non può essere senza eccezioni».
123. Corte cost. n. 28 del 2010. In dottrina, Maugeri, La dichiarazione di incostituzionalità di una
norma per la violazione degli obblighi comunitari ex artt. 11 e 117 Cost.: si aprono nuove prospettive, in Riv.
it. dir. proc. pen., 2011, 1134 ss.
68
legalità
di condotte, quali il trattamento e/o gestione delle ceneri di pirite, dall’area applicativa dell’incriminazione, ofrendo (c) la relativa impunità124.
Dichiarata, dunque, l’illegittimità della norma sindacata per violazione degli
artt. 11 e 117, co. 1, Cost., in relazione alle direttive comunitarie in materia, non
auto-applicative, come interpretate dalla Corte di Giustizia, i Giudici delle Leggi
rimettono al giudice a quo la valutazione degli efetti delle sentenze di accoglimento «secondo i principi generali che reggono la successione nel tempo delle
leggi penali, conformemente al consolidato orientamento per cui le questioni
inerenti alla cosiddetta retroattività delle decisioni di accoglimento della Corte
costituzionale attengono all’interpretazione delle leggi e pertanto devono essere
risolte dai giudici comuni»125.
Riepilogando, alla stregua degli arresti della Corte costituzionale, il principio della lex mitior ha un fondamento costituzionale individuato nell’art. 3 Cost.
(sentenze nn. 393 e 394 del 2006), ma anche negli artt. 11 e 117, co. 1, Cost., in
relazione all’art. 49, § 1, Carta, in virtù del richiamo operato dall’art. 6 TUE (sentenza n. 28 del 2010). Costituisce comunque un limite relativo (e non assoluto)
alle scelte di criminalizzazione del legislatore nazionale, in quanto è necessario
veriicare se la deroga allo stesso è ragionevolmente giustiicata in relazione al
contro-interesse che la lex mitior intende tutelare. La norma più favorevole giustiziabile è solo quella che sottrae alcuni soggetti o alcune condotte dall’ambito di
rilevanza penale di altra norma che, comunque, non viene abrogata o sostituita
124. Così anche V. Valentini, Diritto penale intertemporale, cit., 231, nota 51. Sulla lesione della
riserva di legge approfondita dalla pronuncia n. 28 del 2010, ma già inferta da quella n. 394 del
2006, cfr. Abbadessa, F. Mazzacuva, Recenti sviluppi in tema di riserva di lege in materia penale e retroattività della lex mitior: a proposito della sentenza della Corte costituzionale sulle ceneri di pirite, in Ius17@
unibo.it, 2011, 3. Sul punto, ofre un’interessante e lucida posizione, Manes, Il giudice nel labirinto,
cit., secondo cui «la norma interna correttamente attuativa della norma di indirizzo europeo (penale), assumerebbe un “potere di resistenza” alle modiiche successive, sia di fronte ad eventuali
riforme depotenzianti la tutela richiesta a livello europeo, sia di fronte ad eventuali depenalizzazioni; ammettendo, dunque, che sulla materia vige una copertura comunitaria, che nell’ipotesi di inadempimento statale sopravvenuto consenta l’intervento della Corte costituzionale con il sindacato
ex artt. 11 e 117 Cost. Tanto sarebbe ammissibile poiché, con il primo recepimento, è venuto meno
il controlimite della riserva di legge». Per un’analisi approfondita, infra § IV.4.
125. Corte cost. nn. 148 del 1988, 22 del 1975 e 155 del 1973. Nella pronuncia in commento, la
Corte giustiica l’omessa valutazione degli efetti della decisione di accoglimento in malam partem
sul principio della lex mitior, poiché, «nel caso di specie, il giudice rimettente ha posto un problema
di conformità di una norma legislativa italiana ad una direttiva comunitaria, evocando i parametri
di cui agli artt. 11 e 117 Cost., senza denunciare, né nel dispositivo né nella motivazione dell’atto
introduttivo del presente giudizio, la violazione dell’art. 3 Cost. e del principio di ragionevolezza
intrinseca delle leggi». Critico sul rinvio alle disposizioni che regolano la successione di leggi penali
nel tempo, V. Valentini, Diritto penale intertemporale, cit., 231, nota 51; nello stesso senso, in relazione alla declaratoria di illegittimità dell’aggravante della clandestinità, Gambardella, Le conseguenze
della declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 61, n. 11-bis, c.p., in Cass. pen., 2011, 1350 ss.
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i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
dalla legge successiva (lex intermedia). Detto limite del sindacato costituzionale è
giustiicato dal rispetto del principio di legalità ed, in particolare, della dimensione della riserva di legge (nulla poena sine lege parlamentaria), impedendo «alla Corte sia di creare nuove fattispecie criminose o di estendere quelle esistenti a casi
non previsti; sia di incidere in peius sulla risposta punitiva o su aspetti comunque
inerenti alla punibilità» (n. 394 del 2006). Ad ogni modo, nell’ipotesi di annullamento di una norma penale più favorevole, così appena deinita, se contrastante
con una norma comunitaria, gli efetti della declaratoria sul processo e sulla posizione del reo andranno valutati dal giudice comune, alla stregua della disciplina
sulla successione di leggi penali nel tempo (n. 28 del 2010), ma anche in relazione
alla previsione di cui all’art. 5 c.p., sul piano degli efetti della preventiva conoscenza del divieto alla stregua della rimproverabilità penale (colpevolezza)126.
III.2. Brevi rilessioni sulle limitazioni al sindacato costituzionale (di ragionevolezza)
della norma abrogatrice o di depenalizzazione non contraria ad una norma comunitaria.
Le autolimitazioni al sindacato costituzionale della lex mitior non appaiono convincenti, con particolare riguardo alla necessaria compresenza delle norme interessate da un ipotetico intervento di abolizione del reato. Su tale aspetto, invero,
si deve registrare un contrasto (o forse un’evoluzione) nella stessa giurisprudenza costituzionale. Nella sentenza n. 394 del 2006, infatti, la Corte evidenzia che
rimane escluso che la qualiicazione di norma più favorevole «possa esser fatta
discendere dal rafronto tra una norma vigente ed una norma anteriore, sostituita dalla prima con efetti di restringimento dell’area di rilevanza penale o di
mitigazione della risposta punitiva, poiché la richiesta di sindacato in malam partem mirerebbe non già a far riespandere la portata di una norma tuttora presente
nell’ordinamento, quanto piuttosto a ripristinare la norma abrogata, espressiva
di scelte di criminalizzazione non più attuali»127. Nell’occasione, la Corte, a conforto della decisione, richiama alcuni precedenti, che, ad onor del vero, non si
attagliano al principio espresso nella pronuncia in esame (insindacabilità delle
norme abrogatrici): nella sentenza n. 330 del 1996, la Consulta osserva che le
questioni, relative alla previsione di un illecito penale, anziché amministrativo,
impongono «una pronuncia che esula dai poteri spettanti a questa Corte, giacché
il potere di creare fattispecie penali o di aggravare le pene è esclusivamente riservato al legislatore, in forza del principio di stretta legalità dei reati e delle pene,
sancito dall’art. 25, secondo comma, della Costituzione»128; nella sentenza n. 108
126. Sul tema, di recente ed approfonditamente, Scoletta, Metamorfosi della legalità. Favor
libertatis e sindacabilità in malam partem delle norme penali, Pavia, 2012, I-312.
127. Nello stesso senso, cfr. Corte cost. nn. 330 del 1996 e 108 del 1981.
128. I dubbi di legittimità costituzionale investivano gli artt. 3 e 6 del decreto-legge n. 79 del
1995, che, sostituendo il testo del terzo comma dell’art. 21 della legge n. 319 del 1976, ed aggiun-
70
legalità
del 1981, la Corte ribadisce che la stessa «non può pronunziare alcuna decisione,
dalla quale derivi la creazione – esclusivamente riservata al legislatore – di una
nuova fattispecie penale»129. E del tutto evidente che, in tali precedenti, i Giudici
delle Leggi hanno limitato il sindacato costituzionale all’ipotesi di creazione di
norme incriminatrici. Concettualmente distinta da quella di annullamento della
norma abrogatrice, che fa riespandere l’eicacia della norma abrogata.
A tale impostazione, come detto, si contrappone altro importante orientamento della Corte costituzionale130, secondo cui «l’abrogazione non tanto
estingue le norme, quanto piuttosto ne delimita la sfera materiale di eicacia,
e quindi l’applicabilità, ai fatti veriicatisi sino ad un certo momento del tempo:
che coincide, per solito e salvo sia diversamente disposto dalla nuova legge, con
l’entrata in vigore di quest’ultima. La declaratoria di illegittimità costituzionale,
invece, determinando la cessazione di eicacia delle norme che ne sono oggetto, impedisce, invece, dopo la pubblicazione della sentenza, che le norme stesse
siano comunque applicabili anche ad oggetti ai quali sarebbero state applicabili
alla stregua dei comuni principi sulla successione delle leggi nel tempo». In tali
sensi, efettivamente, la norma abrogata e quella abrogatrice comunque sono
compresenti nell’ordinamento e, dunque, anche tale ipotesi potrebbe essere posta al vaglio della Consulta, non potendo essere obiettata l’autolimitazione della
necessaria compresenza delle norme interessate. La norma abrogata, invero, non
è eliminata dall’ordinamento, ma ha perso eicacia precettiva131. Da ciò, tutte le
scelte di politica criminale del legislatore sono giustiziabili, in relazione al principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost.
L’autolimitazione sulle norme abrogatrici, poi, non è convincete in relazione
al principio di legalità, sia nella dimensione della riserva di legge, che in quella
della irretroattività della legge penale. La scelta politica di depenalizzazione o di
abrogazione di un determinato comportamento può essere illegittima, al pari
gendo ad esso un ultimo comma, conigurano come illecito amministrativo, sanzionato con pena
pecuniaria, l’apertura, l’efettuazione o il mantenimento di uno scarico non autorizzato o il superamento dei limiti di accettabilità da parte di scarichi provenienti da insediamenti civili o da pubbliche fognature, mentre rimane reato l’apertura, l’efettuazione o il mantenimento di uno scarico
non autorizzato o il superamento dei limiti tabellari, se proveniente da insediamenti produttivi.
La scelta del legislatore era contestata dalle ordinanze di rimessione, le quali assumevano, sostanzialmente, come necessaria la statuizione di sanzioni penali, e non solo amministrative, per le condotte considerate e ritenevano irragionevole il diferente trattamento, per esse, rispetto a quello
previsto per gli stessi comportamenti riferiti agli scarichi provenienti da insediamenti produttivi.
129. In materia di aborto.
130. Corte cost. nn. 49 del 1970, 321 del 1983, 387 del 1987, 826 del 1988, 124 del 1990, 167 del
1993, 194 del 1993, 25 del 1994 e 89 del 1996.
131. In materia di depenalizzazione, ravvisando la possibilità del vaglio costituzionale per manifesta irragionevolezza, pertanto ammissibile, cfr. Corte cost. nn. 313 del 1995, 58 del 1999, 144
del 2001, 110 del 2003, 364 del 2004 e 273 del 2010.
71
i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
dell’opposta decisione di criminalizzazione di una condotta ino a quel momento
certamente lecita. La declaratoria di incostituzionalità, nell’un caso, come nell’altro, non potrebbe stridere con il principio di legalità-riserva di legge, poiché la
decisione della Corte costituzionale si colloca all’esito del vaglio della potestà
legislativa, già esercitata, che deve essere conforme formalmente e sostanzialmente ai principi costituzionali. Il giudizio di ragionevolezza non si sostituisce
alla scelta di merito operata dal legislatore, ma pesa quella scelta nell’alveo costituzionale, individuando la coerenza intrasistemica che ha portato il legislatore
a depenalizzare o abrogare una determinata fattispecie criminale. Per fare un
paradosso, sarebbe diicile non ritenere incostituzionale l’abrogazione (o depenalizzazione) del delitto di omicidio, in relazione al rango fondamentale del diritto alla vita.
La declaratoria di incostituzionalità della legge abrogatrice o di depenalizzazione, poi, non violerebbe la dimensione della irretroattività della legge penale,
sancita dall’art. 25, co. 2, Cost., poiché, come suggerito dalla stessa Corte (da
ultimo, n. 28 del 2010), gli efetti della pronuncia devono essere valutati dal giudice comune alla stregua della disciplina temporale della legge penale, ma anche
in relazione alla previsione di cui all’art. 5 c.p. (a cui non fa cenno la Consulta) e,
dunque, la pronuncia in malam partem non potrebbe che avere efetti diversiicati
rispetto al tempus commissi delicti. E in particolare:
1. fatto veriicatosi durante la vigenza della norma abrogata: la declaratoria di incostituzionalità della norma abrogatrice determina l’ineicacia della stessa dal giorno della pubblicazione della pronuncia ai sensi degli artt. 136 Cost. e 30, co. 3,
l. 87/1953, provocando la riespansione dell’eicacia della norma abrogata e,
dunque, il giudice sarà tenuto ad applicare la norma abrogata, non ostando il
principio di cui all’art. 25, co. 2, Cost., in quanto, all’epoca della commissione
del fatto di reato, il reo conosceva il disvalore della condotta perpetrata;
2. fatto veriicatosi dopo l’entrata in vigore della norma abrogatrice: la declaratoria di
incostituzionalità della norma abrogatrice determina l’ineicacia della stessa
dal giorno della pubblicazione della pronuncia ai sensi degli artt. 136 Cost.
e 30, co. 3, l. 87/1953, provocando la riespansione dell’eicacia della norma
abrogata, ma il giudice dovrà mandare assolto l’imputato ostando il principio
di colpevolezza (art. 5 c.p., letto conformemente all’art. 27, co. 1 e 3, Cost.), in
quanto, all’epoca della commissione del fatto, lo stesso non costituiva reato in
virtù della novella di depenalizzazione o abrogazione e, dunque, il fatto non è
rimproverabile all’agente132;
3. fatto veriicatosi dopo la pronuncia di incostituzionalità della norma abrogatrice:
alcun dubbio sull’applicazione della norma abrogata.
132. Corte cost. n. 394 del 2006.
72
legalità
Non possono sorgere dubbi di giustiziabilità delle norme di modiica più favorevole della norma incriminatrice133. La declaratoria di incostituzionalità della
norma modiicatrice più favorevole non opera retroattivamente e, quindi, tale
norma si applica comunque ai fatti commessi prima della pronuncia134.
III.3. Note di analisi comparativa dei sistemi europei di civil law e common law in
tema di norme penali più favorevoli. Fino all’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, il principio di legalità della norma penale, con i suoi corollari, non era posto
da alcuna disposizione europea. La sua afermazione è frutto dell’elaborazione
esegetica della Corte di Giustizia135 ed, in particolare, la dimensione della retroattività della lex mitior è stata asseverata, come già visto, alla stregua «delle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri» e, come tale, andava già considerata
«come parte integrante dei principi generali del diritto comunitario che il giudice
nazionale deve osservare quando applica il diritto nazionale adottato per attuare
l’ordinamento comunitario».
L’afermazione della Corte di Lussemburgo, nella nota sentenza Berlusconi136,
apre l’indagine comparativa a livello europeo, che, dunque, nella prospettiva nazionale di un diritto penale conforme alle previsioni europee comuni, assume un
ruolo fondamentale per comprendere la direzione ed i limiti della lettura nostrana della retroattività benigna. In un sistema penale comune, come il Trattato di
Lisbona ha indicato, non sarebbe ammissibile un trattamento diseguale del reo
a seconda della sua nazionalità, qualora, ad esempio, una direttiva imponga una
modiica di una norma penale statuale in senso più favorevole.
Prima d’ogni altro, andrà efettuata la distinzione tra sistemi di civil law e sistemi
di common law. All’interno dei sistemi di diritto scritto andranno poi diferenziati
quelli ove la retroattività benigna è costituzionalizzata, da quelli che si limitano a
133. C. Pecorella, L’eicacia nel tempo della lege penale favorevole, Milano, 2008.
134. Per tutti, Pagliaro, Principi di diritto penale. Parte generale, VIII ed., Milano, 2003, 132; Marinucci, Dolcini, Manuale di diritto penale. Parte generale, IV ed., Milano, 2012, 85.
135. Sul principio europeo di legalità penale e sugli sviluppi giurisprudenziali e normativi in
merito, cfr. Bernardi, Riserva di lege e fonti europee in materia penale, cit., 23 ss.; Id., “Nullum crimen
nulla poena sine lege” between European Law and National Law, in Cherif Bassiouni, Militello, Satzger
(a cura di), European cooperation in penal matters: issues and perspectives, Padova, 2008, 87 ss.; Id.,
All’indomani di Lisbona, cit., 37 ss.; De Amicis, Il principio di legalità penale nella giurisprudenza delle
Corti Europee, in QE, 2009, 14.
136. Corte Giust. Com. Eur., 3 maggio 2005, C-387/02, C-391/02, C-403/02, §§ 68-69. In dottrina, fra gli altri, Insolera, Manes, La sentenza della Corte di giustizia sul “falso in bilancio”: un epilogo
deludente?, in Cass. pen., 9, 2005, 2768; Amadeo, La Corte di giustizia e il fantomatico efetto delle direttive
societarie in ambito penale, in Bin, Brunelli, Pugiotto, Veronesi (a cura di), Ai conini del “favor rei”,
Torino, 2005, 53 ss.; Bernardi, Brevi osservazioni in margine alla sentenza della Corte di giustizia sul falso in bilancio, in Bin, Brunelli, Pugiotto, Veronesi (a cura di), Ai conini del “favor rei”, Torino, 2005.
73
i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
prevederla nell’alveo delle regole ordinarie dell’ordinamento penale nazionale137.
I sistemi di civil law hanno certamente in comune la previsione della lex mitior,
anche se si distinguono in ordine alle diverse deroghe apportate al principio. In
Slovenia138, Estonia139 e Portogallo140, la retroattività in mitius è proclamata nella
carta costituzionale. Gli ordinamenti penali francese141, lussemburghese142 e belga143 ammettono la retroattività benigna con il solo limite del giudicato, anche
nell’ipotesi di abolitio criminis144.
Con particolare riferimento al sistema francese, va osservato che il principio in
parola è frutto dell’elaborazione esegetica del Conseil constitutionnel consacrata nella decisione n. 80-127 del 20 gennaio 1981, sulla scorta di quanto previsto dall’art. 8
della Déclaration des droits de l’homme et du citoyen del 1789, e segnatamente dal principio di necessità delle pene. Il Tribunale costituzionale francese, da ultimo, nella
decisione n. 2010-74 del 3 dicembre 2010, ha afermato che «le principe de nécessité
des peines implique que la loi pénale plus douce soit rendue immédiatement applicable aux
infractions commises avant son entrée en vigueur et n’ayant pas donné lieu à des condamnations passées en force de chose jugée»145. Va considerato che tale limitazione (sentenza
passata in giudicato) trova una lettura fortemente restrittiva da parte della Corte di
137. Dodaro, Principio di retroattività e “termini più brevi” di prescrizione dei reati, in GC, 2006,
4116; Fornasari, Menghini, Percorsi europei di diritto penale, cit., 21.
138. Art. 28, co. 2 Cost. «Dejanja, ki so kazniva, se ugotavljajo in kazni zanje izrekajo po zakonu,
ki je veljal ob storitvi dejanja, razen če je novi zakon za storilca milejši» (I reati vengono accertati e le
pene per essi pronunciate secondo la legge vigente allorché l’atto è stato commesso, salvo che una
nuova legge non sia più favorevole nei confronti di chi ha commesso l’atto).
139. Art. 23, § 2, Cost. «No one may be given a more severe sentence than the one which was applicable
at the time the ofence was committed. If, subsequent to the ofence being committed, a lighter sentence is
determined by law, this lighter sentence shall be applied».
140. Art. 29, co. 4 Cost. «Ninguém pode sofrer pena ou medida de segurança mais graves do que as
previstas no momento da correspondente conduta ou da veriicação dos respectivos pressupostos, aplicandose
retroactivamente as leis penais de conteúdo mais favorável ao arguido».
141. Art. 112-1 c.p. «Toutefois, les dispositions nouvelles s’appliquent aux infractions commises avant
leur entrée en vigueur et n’ayant pas donné lieu à une condamnation passée en force de chose jugée lorsqu’elles
sont moins sévères que les dispositions anciennes».
142. Art. 2 c.p. del Lussemburgo «Si la peine établie au temps du jugement difère de celle qui était
portée au temps de l’infraction, la peine la moins forte sera appliquée».
143. Art. 2, co. 2 c.p. belga «Si la peine établie au temps du jugement difère de celle qui était portée
au temps de l’infraction, la peine la moins forte sera appliquée».
144. Nello stesso senso anche l’ordinamento penale ungherese, cfr. Section 2, Ch. 1, «A crime
shall be adjudged in accordance with the law in force at the time of its perpetration. If, in accordance with
the new Criminal Code in force at the time of the judgment of an act, the act is no longer an act of crime or
it is to be adjudged more leniently, then the new law shall apply; otherwise, the new Criminal Code has no
retroactive force».
145. Il principio di necessità delle pene implica che la legge penale più favorevole sia resa immediatamente applicabile ai reati commessi prima della sua entrata in vigore per i quali non sia
intervenuta una sentenza di condanna passata in giudicato.
74
legalità
Cassazione francese, nel senso che è possibile applicare la nuova legge a fatti anteriori che siano già stati giudicati in prima istanza, ma che non siano ancora oggetto
di una sentenza di appello (addirittura) o di cassazione146, salvo che la nouvelle loi
plus douce sia vigente, eicace ed applicabile147. L’abolitio criminis determina, come
già detto, l’interruzione dell’espiazione della pena.
Nel sistema nostrano, bulgaro148 e portoghese149, la retroattività in mitius è
garantita senza limiti solo nel caso di abolizione del reato, ad eccezione dell’ipotesi di conversione della pena detentiva in pena pecuniaria (art. 2, co. 3, c.p.
italiano)150. Va osservato che la retroattività dell’abolitio criminis non si estende
all’accertamento con eicacia di giudicato del fatto storico, limitandosi a cancellare le conseguenze giuridico-penali. Il limite del giudicato, come discrimine
tra le ipotesi correttive della legge vigente al momento del fatto (abolizione e
mera modiica), è giustiicato dall’esigenza pratica di non riaprire i processi già
conclusi, secondo una scelta di politica criminale fondata sul principio di certezza
del diritto151.
146. Cass. Crim. 25 maggio 1994, n. 93-83.820, Boll. crim. 198.
147. Cass. Crim. 29 novembre 1992, n. 92-82.346, Boll. Crim. 393.
148. Art. 2, co. 2, c.p. bulgaro «If by the entry of the sentence into force diferent laws are issued, that
law shall be applied which is most favourable for the perpetrator».
149. Art. 2, co. 2 «Il fatto punibile secondo la legge in vigore al momento della sua commissione cessa di esserlo se una legge nuova lo elimina dal novero dei reati; in questo caso, se v’è
stata condanna, anche se passata in giudicato, ne cessano l’esecuzione e gli efetti penali» e co. 4
c.p. portoghese «Quando le disposizioni penali in vigore al momento della commissione del fatto
punibile siano diferenti da quelle stabilite in leggi successive, è sempre applicabile la disciplina che
si presenta in concreto più favorevole all’agente, salvo che quest’ultimo sia già stato condannato
con sentenza passata in giudicato» nella traduzione di Torre, Il codice penale portoghese, a cura di
Vinciguerra, Padova, 1997.
150. Un’articolata previsione in tal senso si rinviene nel Codice Penale della Repubblica di
Romania, cfr. art. 7 c.p. rumeno «(1) When, from the time when the conviction decision remains inal to
the complete execution of a penalty involving detention or of a ine a law has emerged providing the same
penalty, but with a smaller special maximum, the sanction applied, if it exceeds the special maximum provided in the new law for the ofence committed, shall be reduced to this maximum. (2) If, from the time when
a decision of life detention or severe detention remains inal to its execution, a law has emerged providing
a diferent penalty of detention for the same act, the penalty of life detention or severe detention shall be
replaced with the maximum of the penalty of detention provided in the new law for that ofence. (3) Should
the new law provide instead of the penalty of imprisonment only the penalty of the ine, the penalty applied
shall be replaced with ine, without exceeding the special maximum provided in the new law. Taking into
account the part of the imprisonment already executed, the execution of the ine may be removed wholly or in
part. (4) Complementary punishments, security and educative measures not executed and not provided in the
new law, shall no longer be executed, and those having a more favourable correspondent in the new law shall
be executed according to the contents and restrictions provided in this new law. (5) When a stipulation from
the new law refers to punishments applied inally, the penalty reduced or replaced according to paragraphs
(1)-(4) shall be taken into account for penalties executed prior to the entry into force of the new law».
151. Corte eur. dir. uomo, 28 giugno 2007, Perez Arias c. Spagna, secondo cui «intendere il principio di eguaglianza nell’applicazione della legge nel senso che ciò che risulta dalle decisioni poste-
75
i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
In Germania, il § 2, co. 3, StGB152 stabilisce l’obbligo per il giudice di applicare
retroattivamente la lex mitior entrata in vigore dopo la commissione del fatto ed
antecedentemente al passaggio in giudicato della sentenza. Anche nel sistema
tedesco, il principio in commento non ha rango costituzionale e, dunque, può
essere derogato dal legislatore ordinario153. È interessante evidenziare la distinzione tra unechte Rückwirkung (retroattività ittizia o, meglio, retrospettività) ed
echte Rückwirkung (retroattività reale), che, secondo il Bundesverfassungsgericht e
la prevalente dottrina, sono due categorie non assimilabili154: (1) la norma penale
ha efetto retroattivo quando si applica a fatti, transazioni o casi conclusi prima
della promulgazione della nuova legge, con la conseguenza che la novella altera
le conseguenze giuridiche di rapporti che già potevano dirsi deiniti; (2) di contro, la norma penale ha efetti retrospettivi quando la nuova legge si applica a
fatti o azioni che sono state iniziate nel passato, ma hanno dato luogo a rapporti
che non si sono ancora conclusi, al momento dell’entrata in vigore della novella.
Solo nella prima ipotesi, il Tribunale costituzionale federale ritiene che la relativa
norma sia illegittima, violando il legittimo aidamento (Vertrauensschutzprinzip)
come diritto individuale del cittadino garantito dallo Stato di diritto, mentre non
lo è mai la novella retrospettiva. Il § 2, co. 3, StGB, del resto, riguarda soltanto i
casi in cui il fatto non sia ancora stato giudicato in maniera deinitiva e, dunque, avendo ad oggetto solo le norme retrospettive. Sembrerebbe un’importante
deroga all’intangibilità del giudicato quanto si rinviene nel § 354-a StPO155, ove è
previsto che la modiica legislativa favorevole (che attenua la pena o che depenalizza la condotta) deve essere presa in considerazione anche laddove il giudizio
sia già passato parzialmente in giudicato, ad esempio, perché si è pronunciato
soltanto il verdetto di colpevolezza156, ma non è ancora stata determinata la sanzione, oppure non si è ancora deciso sulla sospensione condizionale della pena.
La modiica legislativa, dunque, può rilevare solo nei limiti della decisione anriori implica la revisione di tutte le decisioni deinitive anteriori che risultino contraddittorie con
quelle più recenti sarebbe contrario al principio di sicurezza giuridica». Per il nostro ordinamento,
al ine di giustiicare l’intangibilità del giudicato come valore preminente, cfr. Lavori preparatori del
codice penale e del codice di procedura penale, V, Progetto deinitivo, Relazione sul Libro I, 22.
152. § 2, co. 3, StGB, Wird das Gesetz, das bei Beendigung der Tat gilt, vor der Entscheidung geändert,
so ist das mildeste Gesetz anzuwendent, reperibile anche nella traduzione italiana di Bonadio, Il codice
penale tedesco, a cura di Vinciguerra, Padova, 2003.
153. BVerfG, ordinanza del 18 settembre 2008 - 2 BvR 1817/08.
154. BVerfGE 11, 139 del 31 maggio 1960; BVerfG, 3 ottobre 1973 - 1 BvL 30/71; BVerfG, 23
giugno 1993 - 1 BvR 133/89.
155. § 354-a StPO, Das Revisionsgericht hat auch dann nach § 354 zu verfahren, wenn es das Urteil
auf hebt, weil zur Zeit der Entscheidung des Revisionsgerichts ein anderes Gesetz gilt als zur Zeit des Erlasses
der angefochtenen Entscheidung.
156. BGH - 3 StR 35/64 - del 2 dicembre 1964, BGH - 4StR 386/70 - del 4 marzo 1971 (NJW
1971, 1189).
76
legalità
cora da rendere e, pertanto, non è corretto deinire tale previsione come deroga
all’intangibilità del giudicato, quando lo stesso ancora non si è formato.
Vi sono ordinamenti, poi, in cui l’eicacia della lex mitior si estende anche in
presenza di sentenza passata in giudicato157. In Spagna, infatti, la previsione codicistica è chiarissima nell’afermare la retroattività benigna anche nell’ipotesi di
giudicato, dando preminente rilievo, non solo, alla volontà popolare, ma anche
ai diritti individuali del reo, a discapito del principio della certezza del diritto158.
La centralità dell’individuo è evidenziata anche nell’ipotesi di dubbio sulla determinazione della legge più favorevole: il reo, infatti, è chiamato a contribuire alla
decisione indicando al giudice la legge sogettivamente più favorevole159. Secondo
il Tribunal Constitucional, il principio della retroattività della legge penale più
favorevole si giustiica alla luce dell’interpretazione a contrariis dell’art. 9, co. 3,
Constituciòn, nonché dell’art. 17, co. 1, Constituciòn, che sancisce il diritto fondamentale alla libertà personale160, anche se non ha una diretta garanzia costituzionale e, dunque, può essere derogato dal legislatore ordinario. Il Tribunal Constitucional161 ha negato al principio della retroattività in mitius lo status di diritto
fondamentale, onde escludere il recurso de amparo162.
157. Art. 2, co. 2 c.p. spagnolo «No obstante, tendrán efecto retroactivo aquellas leyes penales que
favorezcan al reo, aunque al entrar en vigor hubiera recaído sentencia irme y el sujeto estuviese cumpliendo
condena. En caso de duda sobre la determinación de la Ley más favorable, será oído el reo», traduzione di
Naronte, Il codice penale spagnolo, a cura di Vinciguerra, Padova, 1997 «Ciononostante retroagiscono le leggi penali che favoriscono il reo, anche se al momento della loro entrata in vigore è
già stata pronunciata sentenza irrevocabile ed il soggetto sta scontando la condanna. In caso di
dubbio sulla determinazione della legge più favorevole, viene ascoltato il reo». Per la Finlandia,
Section 2.2, Ch.3, Criminal Code, Temporal application, «However, if the law in force at the time of
conviction is diferent from the law in force at the time of the commission of the ofence, the new law applies
if its application leads to a more lenient result». Dello stesso tenore, anche l’art. 1, co. 2, c.p. olandese,
cfr. Kelk, Vinciguerra, Il codice penale olandese, Padova, 2002, 21 ss. Per la Norvegia, Section 3, I,
General Provisions.
158. La Sala penale del Tribunale supremo, con sentenza del 3 febbraio 2001 (ric. n. 16/1999),
ha così chiarito quale sia il limite alla retroattività delle norme favorevoli: «Non possono privarsi di
efetto le pene già scontate e travolgere ciò che è stato eseguito».
159. Fornasari, Menghini, Percorsi europei di diritto penale, cit., 26.
160. Per tutte, cfr. Trib. Const. 35/1981, dell’11 novembre, FJ 3; 150/1989, del 25 settembre,
FJ 5; 196/1991, del 17 ottobre, FJ 3; 95/1992, dell’11 giugno, FJ 3; 21/1993, del 18 gennaio, FJ 5;
43/1997, del 10 marzo, FJ 5; 174/2000, del 26 giugno, FJ 2; 20/2003, del 10 febbraio, FJ 4; 82/2006,
del 13 marzo, FJ 9 e 234/2007, del 5 novembre, FJ 3.
161. Ex multis, Trib. Const. 15/1981, del 7 maggio, FJ 7; 68/1982, del 22 novembre, FJ 3;
51/1985, del 10 aprile, FJ 7; 131/1986, del 29 ottobre, FJ 2; 22/1990, del 15 febbraio, FJ 7; 177/1994,
del 10 giugno, FJ 1; 99/2000, del 10 aprile, FFJJ 5 e 6; 75/2002, dell’8 aprile, FJ 4; 85/2006, del 27
marzo, FJ 4; 116/2007, d el 21 maggio, FJ 10; 21/2008, del 31 gennaio, FJ 5.
162. Il recurso de amparo è la possibilità riconosciuta a qualsiasi persona isica o giuridica (non
soltanto cittadini) portatrice di un interesse legittimo di presentare ricorso al Tribunal Constitucional
tramite l’amparo costituzionale al ine di lamentare una violazione dei diritti di cui agli articoli 14-
77
i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
Ad ogni modo, tale possibilità appare ormai paciicamente ammessa in via
indiretta, sia attraverso l’applicazione mediata delle norme internazionali che
prevedono l’applicazione retroattiva della lex mitior, ai sensi dell’art. 10, co. 2,
Constituciòn163, sia tramite il principio di proporzionalità: se non si applicasse la
legge posteriore più favorevole, si potrebbe invocare la violazione del relativo
diritto fondamentale (ad es., l’art. 17, co. 1, Constituciòn), per l’imposizione di una
pena più grave dallo stesso legislatore ritenuta eccessiva164.
In Danimarca, inine, stabilita la regola generale per cui la legge benigna si
applica retroattivamente, è prevista la possibilità per il giudice di continuare ad
applicare la legge abrogata, qualora il mutamento in favorem o la stessa abolizione siano dovuti a circostanze estranee al giudizio di responsabilità, con ciò dando
rilievo alla ratio del mutamento o abolizione, come una sorta di possibilità di bilanciare l’interesse portato dalla norma incriminatrice abolita o modiicata, con
quello sotteso alla lex mitior o abrogatrice e, dunque, far prevalere l’uno rispetto
all’altro165.
Negli ordinamenti continentali di civil law, si rinviene sostanziale concordanza nell’escludere la retroattività in presenza di fatti commessi sotto la vigenza di
leggi temporanee o eccezionali166.
I sistemi europei di common law non prevedono, in relazione allo statute law,
una regola generale che sancisca l’applicabilità della legge penale più favorevole a
30 della Costituzione, che trovi la propria origine in un’azione ovvero un’omissione dei pubblici
poteri. Per un’analisi comparata dei sistemi di ricorso diretto costituzionale, Gentili, Una prospettiva comparata sui sistemi europei di ricorso diretto al Giudice costituzionale: sugestioni e spunti per la
Corte costituzionale italiana, Revista de Estudios Jurídicos, 11, 2011 (Segunda Época), Universidad de
Jaén (España).
163. Huerta Tolcido, Artículo 25.1. El derecho a la legalidad penal, in Casas Baamonde, Rodriguez Pinero Bravo, Ferrer (a cura di), Comentarios a la Constitución Española: XXX Aniversario, Madrid, 2009, 734.
164. Llabrés Fuster, Artículo 2, in Gomez Tomillo (a cura di), Comentarios al Código Penal, Valladolid, 2010, 41, 42.
165. Kutchinsky, The Efect of Easy Availability of Pornography on the Incidence of Sex Crimes: The
Danish Experience, in Journal of Social Issues, 1973, 29, 3, 161-181.
166. Vinciguerra, Diritto penale italiano, vol. I, Concetto, fonti, validità, interpretazione, Padova,
2009, 323, secondo cui «eccezionali sono le leggi emanate per fronteggiare circostanze politiche,
economiche o sociali ritenute così gravi da giustiicare una normativa derogatoria del regime in
atto. La legge temporanea è tale perché la sua vigenza è ab initio limitata nel tempo, vuoi per
la determinazione di un termine inale, vuoi per la subordinazione della vigenza alla sussistenza
di determinate situazioni eccezionali che hanno motivato la sua approvazione. Solitamente la
legge temporanea è più severa della legge che sostituisce e della legge che successivamente la
sostituirà. Ainché non perda la sua eicacia preventiva, il codice penale la dota di ultrattività e
dovrà quindi essere applicata, anche se è stata abrogata ed anche se è entrata in vigore una legge
più favorevole, ai fatti commessi quando era in vigore». In questo senso, cfr. Lavori preparatori del
codice penale e del codice di procedura penale, V, Progetto deinitivo, Relazione sul Libro I, 23.
78
legalità
fatti che siano stati commessi prima della sua entrata in vigore167. Di regola, il reo
viene giudicato in base alla legge in vigore al momento del fatto. Il legislatore,
tuttavia, ha il potere discrezionale di autorizzare di volta in volta la retroattività
in mitior delle nuove norme.
In tali ordinamenti, come noto, la giurisprudenza è fonte del diritto e, dunque, è soggetta al principio di legalità, nella dimensione dell’irretroattività, che
proprio in tali sistemi ha avuto l’originaria consacrazione nella Magna Charta
Libertatum. Il potere pretorio di ius dicere è strettamente connesso al principio
della vincolatività del precedente (principio dello stare decisis) che opera inevitabilmente per mezzo della legal analogy, come noto, vietata nei sistemi di civil
law. Peraltro, nel contesto inglese, questo processo di applicazione analogica, operato attraverso la statutory construction (o interpretation), è in concreto
«un processo talmente circoscritto in termini di cambiamenti prodotti da essere raramente percettibile. A parte i grandi salti che indubbiamente avvengono,
[l’analogia] va di pari passo con l’evoluzione quotidiana del diritto penale […]
producendo così un aggiornamento di termini antichi […] in modo che gli
stessi possano applicarsi più adeguatamente alle nuove condizioni»168. Pur non
essendo previsto alcun divieto costituzionale di retroattività della norma penale, tale principio è comunque fortemente radicato nel sistema di common law e,
nell’ordinamento britannico, ormai è garantito (per iscritto) dallo Human Rights
Act 1998, con cui è stata incorporata la Convenzione europea dei diritti dell’uomo nell’ordinamento giuridico inglese. Ad ogni modo, lo ius dicere pretorio nei
sistemi di common law non può essere inteso come l’irreale ipotesi di un simile
potere da parte dei giudici di civil law: i giudici inglesi non pongono il diritto, ma
lo svelano169. La distinzione è illuminante.
Le pronunce giudiziali inglesi, come in tutti i sistemi di common law, non costituiscono diritto in sé, piuttosto prova (evidence) del diritto, che esiste in via
indipendente e che viene rivelato gradualmente, attraverso l’attività interpretativa di ciascuna curia170. In tale ottica, i cambiamenti giurisprudenziali assumono
la qualità di “rettiica” dell’interpretazione del diritto enunciata in precedenza,
scartata a favore di quella adottata nelle pronunce successive, con la conseguenza
(ittizia) che l’interpretazione successiva diventa l’unica possibile e valida, non
solo pro futuro, ma anche in senso retrospettivo. Inoltre, data la natura di fonte
del diritto della giurisprudenza, essa assume naturalmente eicacia anche erga
167. Pecorella, Lege intermedia: aspetti problematici e prospettive de lege ferenda, in Studi in onore
di Giorgio Marinucci, I, Milano, 2006, 622.
168. Hall, General Principles of Criminal Law, II, Indianapolis, 1960.
169. Per un’attenta esposizione in relazione ai principi intertemporali, V. Valentini, Diritto
penale intertemporale, cit. 159 ss.
170. Card, Cross, Jones, Criminal law, XVIII, Oxford, 2008.
79
i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
omnes, secondo i criteri applicabili al principio dello stare decisis. Da ciò, è chiaro
che i sistemi di common law non pongono alcuna problematica rispetto alla retroattività benigna della lex mitior, in quanto, quando un giudice di tale ordinamento pronuncia una sentenza che introduce una modiica nel diritto (overrulling),
l’efetto è pro futuro, ma anche necessariamente retroattivo, poiché la decisione
estrinseca il diritto quale è sempre stato. In conclusione, per gli ordinamenti
di common law, la retroattività in mitius è garantita dal sistema stesso, anche
con riguardo alle vicende già deinite, almeno rispetto alle conseguenze della
condanna. Il mutamento del diritto viene in rilievo, in particolare, nell’ipotesi
di impugnabilità oltre i termini di una sentenza di condanna ed in quella della
revisione della stessa171. Non va trascurata anche l’ipotesi del risarcimento per
ingiusta detenzione.
In conclusione, dopo questa breve analisi dei principali ordinamenti europei,
si può afermare, fatte salve particolari diferenze, che l’applicazione della lex
mitior è una regola che appartiene alle esperienze comuni, con il limite dell’intangibilità del giudicato (ad eccezione del caso spagnolo, danese e britannico).
III.4. La giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea sulla retroattività
benigna ed il bilanciamento con il principio di prevalenza del diritto comunitario. La vicenda del falso in bilancio italiano. Prima del Trattato di Lisbona, si è già detto che,
proprio dalle tradizioni nazionali europee, la Corte di Giustizia, dopo un lungo
percorso travagliato e con un atteggiamento tendenzialmente agnostico172, aveva asseverato la dimensione della retroattività della lex mitior «come parte integrante dei principi generali del diritto comunitario che il giudice nazionale deve
osservare quando applica il diritto nazionale adottato per attuare l’ordinamento
comunitario»173.
La Corte di Lussemburgo, comunque, dopo tale importante afermazione,
non pervenne ad alcuna ontologica applicazione.
171. Passetto, Inghilterra, in Passaglia (a cura di), Favor rei ed efetti dei mutamenti di giurisprudenza in materia penale, in Forum di Quaderni Costituzionali, 2012.
172. Armone, Il principio di retroattività della lege penale più favorevole come diritto fondamentale
nella giurisprudenza multilivello, in www.europeanrights.eu.
173. Nella giurisprudenza della Corte di Giustizia, da ultimo, Corte Giust. Un. Eur., 28 aprile
2011, C-61/11. Criticano il riferimento alle tradizioni costituzionali comuni, Davigo, I reati concernenti le false comunicazioni sociali. Tra prospettive comunitarie e legittimità costituzionale, in Draetta,
Parisi, Rinoldi (a cura di), Lo spazio di Libertà, Sicurezza e Giustizia dell’Unione europea. Principi fondamentali e tutela dei diritti, Napoli, 2007, 188; Foffani, La trasparenza dell’informazione societaria come
bene giuridico comunitario, in Bin, Brunelli, Pugiotto, Veronesi (a cura di), Ai conini del “favor rei”,
Torino, 2005, 186; Riondato, Falso in bilancio e Corte di giustizia: non è un rigetto, in ibid., 338; Cabiddu, L’orologio, la bilancia e la spada, in ibid., 132. Critici circa la scarsa profondità argomentativa dei
giudici lussemburghesi, cfr. Manacorda, “Oltre il falso in bilancio”: i controversi efetti in malam partem
del diritto comunitario sul diritto penale interno, in DUE, 2006, 253 ss.
80
legalità
È stata già richiamata, almeno per i risvolti interni, ma solo en passant, senza alcun approfondimento, la nota vicenda del falso in bilancio (o altrimenti conosciuta
come il caso Berlusconi), su cui, a questo punto, occorre appuntare l’attenzione.
La questione, come detto, aveva ad oggetto le nuove fattispecie di false comunicazioni sociali (artt. 2621-2622 c.c.) introdotte con il decreto legislativo n. 61
del 2002, impugnate dai giudici italiani174 in ordine alla compatibilità delle nuove
norme con le direttive sul diritto societario che impongono agli Stati membri (fra
l’altro) di prevedere sanzioni eicaci, proporzionate e dissuasive per gli illeciti di
falso in bilancio175.
In particolare, a seguito dell’entrata in vigore della riforma del diritto penale
societario, intervenuta successivamente ai fatti di causa, gli addebiti delle fattispecie delittuose di cui all’art. 2621 c.c. non potevano più essere perseguiti, poiché
ormai prescritti e, comunque, mancanti della condizione di procedibilità ormai
necessaria (querela), in virtù della novella legislativa. La questione di giustiziabilità
della norma penale modiicatrice più favorevole al reo, in contrasto con il diritto
comunitario, invero, era già stata afrontata dalla Corte di Giustizia176 e risolta in
favore della prevalenza del diritto comunitario. In tali precedenti, le obiezioni relative al consolidato principio giurisprudenziale177 per cui una direttiva, di per sé e
174. Corte d’Appello di Lecce, ordinanza 7 ottobre 2002, in Cass. pen., 2003, 640, con nota di
Aprile, Note a margine di una domanda di pronuncia pregiudiziale di interpretazione di norme comunitarie, rivolta dal giudice penale alla Corte di giustizia delle Comunità europee in relazione alla nuova disciplina delle false comunicazioni sociali di cui al d.lgs. n. 61 del 2002; Trib. Milano, Sez. I penale, ordinanza
26 ottobre 2002, in Guid. dir., 2002, 45, 93 ss.; Trib. Milano, Sez. IV penale, ordinanza 29 ottobre
2002, in ibid., 97 ss., entrambe con nota di Di Martino, Disciplina degli illeciti societari in bilico tra
legalità nazionale e legittimità comunitaria, in Guid. dir., 2002, 45, 85 ss.
175. Cfr., in particolare, direttiva del Consiglio 9 marzo 1968, 68/151/CEE (c.d. «prima direttiva sulle società», intesa a coordinare, per renderle equivalenti, le garanzie che sono richieste, negli
Stati membri, alle società a mente dell’art. 58, co. 2 TCE, per proteggere gli interessi dei soci e dei
terzi); direttiva del Consiglio 25 luglio 1978, 78/660/CEE (c.d. «quarta direttiva sulle società», basata sull’art. 54 § 3 lett. g), TCE ed intesa ad armonizzare le disposizioni nazionali relative alla stesura,
al contenuto, alla struttura e alla pubblicità dei conti annuali di taluni tipi di società); direttiva del
Consiglio 13 giugno 1983, 83/349/CEE (c.d. «settima direttiva sulle società», basata sull’art. 54, §
3, lett. g), TCE, e relativa ai conti consolidati).
176. Corte Giust. Com. Eur., 11 novembre 2004, C-457/02, FI, 2004 IV, 588, c.d. caso Niselli; precedentemente, Corte Giust. Com. Eur., 25 giugno 1997, cause riunite C-304/94, C-330/94, C-342/94
e C-224/95, c.d. caso Tombesi. In entrambe le ipotesi, la pregiudiziale comunitaria interpretativa aveva
ad oggetto la nozione di riiuto ai sensi della direttiva del Consiglio, 15 luglio 1975, 75/442/CEE (G.U.,
L 194, 47). Per un approfondimento, Epidendio, Diritto comunitario e diritto penale interno, cit., 296 ss.
177. Corte Giust. Com. Eur., 8 ottobre 1987, Kolpinghuis Nijmegen, C-80/86, in Racc., 3969,
§ 13; Corte Giust. Com. Eur., 11 giugno 1987, Pretore di Salò, C-14/86, in Racc., 2570, § 18-20;
Corte Giust. Com. Eur., 26 settembre 1996, Arcaro, C-168/95, in Racc., I-4705, § 37. In argomento,
anche per un’ampia bibliograia, Nunziante, Eiciacia diretta e opponibilità ai singoli delle direttive comunitarie: rilessi in materia penale, in RPE, 1989, 207 ss.; Riondato, Competenza penale della Comunità
europea. Problemi di attribuzione attraverso la giurisprudenza, Padova, 1996, 128.
81
i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
indipendentemente da una norma giuridica di uno Stato membro adottata per la
sua attuazione, non può determinare o aggravare la responsabilità penale di coloro
che agiscono in violazione delle sue disposizioni, erano state superate, agevolmente, considerando l’irrilevanza del principio di legalità delle pene, poiché «i fatti che
costituiscono oggetto delle cause a quibus potevano essere puniti in base al diritto
nazionale e che i decreti legge che li hanno sottratti all’applicazione delle sanzioni
risultanti dal D.P.R. n. 915/82 sono entrati in vigore soltanto successivamente»178.
Da ciò, l’applicazione diretta della norma comunitaria non avrebbe avuto l’efetto
di determinare la responsabilità penale già di per sé e indipendentemente da una
legge interna di uno Stato membro adottata per la sua attuazione.
In altri termini, una volta disapplicata la norma nazionale emanata successivamente al fatto di reato, la responsabilità del reo non sarebbe stata determinata dalla norma comunitaria, che non può trovare applicazione diretta, ma sulla
base di una disposizione penale nazionale vigente al momento del fatto, vale a
dire sulla disposizione incriminatrice circoscritta da quella successiva integratrice extrapenale disapplicata per contrasto con la norma comunitaria, ovvero per
efetto della disapplicazione della norma successiva abrogante che determina la
reviviscenza della disposizione vigente (e abrogata) all’epoca del fatto di reato.
Nel caso Berlusconi, la Corte di Giustizia si pone, invece, la questione della dimensione della retroattività della norma più favorevole al reo, ignorata nei precedenti appena esaminati179, ma con particolare attenzione ai rilessi sulla riserva di
178. Corte Giust. Com. Eur., 25 giugno 1997, cit., § 43; nello stesso senso, con speciico richiamo del precedente, Corte Giust. Com. Eur., 11 novembre 2004, cit., § 30.
179. Invero, anche nel caso Niselli, l’Avvocato Generale Kokott (peraltro identico anche per il
caso Berlusconi) aveva argomentato le ragioni per cui superare l’obiezione dell’applicazione della
legge più favorevole, cfr. Conclusioni, §§ 63-75, secondo cui: «63. Nella fattispecie, all’applicazione
diretta della direttiva potrebbe tuttavia ostare il principio in base al quale si deve applicare la legge
penale più mite quando questa sia entrata in vigore, dopo il compimento del reato, in sostituzione
della legge penale in vigore al momento del fatto. 64. Il principio dell’applicazione retroattiva della legge penale più mite, riconosciuto nella maggior parte degli ordinamenti giuridici degli Stati
membri della Comunità (non tuttavia, ad esempio, in Irlanda e nel Regno Unito), è stato recepito
anche nell’art. 49, n. 1, terza frase, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Inoltre
è stato accolto nel diritto comunitario derivato relativo alle sanzioni amministrative riguardanti
le irregolarità lesive degli interessi inanziari della Comunità. 65. Nella sentenza Allain la Corte
ha implicitamente riconosciuto tale principio, afermando che un comportamento che ha violato
in origine il diritto comunitario e che poteva pertanto essere punito in base al diritto nazionale,
può essere nuovamente valutato in attuazione dei principi procedurali nazionali (in special modo,
del principio dell’applicazione retroattiva della legge penale più mite), se la situazione di fatto
e di diritto è cambiata successivamente. 66. Ne consegue che questo principio non deve essere
considerato solo come un principio puramente nazionale, ma anche come un principio generale
del diritto comunitario, del quale il giudice del rinvio deve tenere conto nell’interpretazione della
legge nazionale di uno Stato membro adottata per l’attuazione della direttiva 75/442. 67. Anche
se il decreto legge n. 138/02 non è qualiicabile di per sé come disposizione sanzionatoria, porta
82
legalità
legge statale. Le argomentazioni dell’Avvocato Generale ricalcano le conclusioni
già espresse, sul punto, nel caso Niselli. Il principio dell’applicazione retroattiva
della legge penale più favorevole è internazionalmente riconosciuto e non va
assolutamente considerato un principio giuridico puramente nazionale. La ratio
del principio, secondo l’Avvocato Generale Kokott180, è che «un imputato non
deve venire condannato sulla base di un comportamento che, secondo il punto di
comunque ad una interpretazione più favorevole all’imputato della nozione di riiuto e pertanto
anche dei reati disciplinati nel decreto legislativo n. 22/97, che richiedono l’esistenza di riiuti. 68.
L’applicazione con eicacia retroattiva del decreto legge n. 138/02, come “legge penale più mite”,
ai fatti commessi prima della sua adozione potrebbe tuttavia essere esclusa ove esso violi il disposto
della direttiva 75/442. 69. La ragione dell’applicazione retroattiva della legge penale più mite è la
considerazione che un imputato non deve essere condannato per un comportamento che, secondo
il parere (mutato) del legislatore, non è più meritevole di pena al momento del procedimento. Le
valutazioni giuridiche mutate devono quindi andare a suo beneicio. In tal modo viene garantita la
coerenza dell’ordinamento giuridico. L’applicazione retroattiva della legge più mite tiene inoltre
conto del fatto che la inalità repressiva di prevenzione generale e speciale viene meno se il comportamento in questione non è più punibile. 70. Ciò dimostra che il principio si fonda comunque
su considerazioni di equità che non hanno una rilevanza paragonabile a quelle a fondamento del
principio della legalità della pena (il principio dello stato di diritto e il principio della certezza del
diritto). Per tale ragione, molti ordinamenti nazionali ammettono anche deroghe al principio, ad
esempio quando la responsabilità penale si fondi su una legge in vigore, in dal principio, solo sino
ad una certa data. 71. In un caso connesso alla normativa comunitaria si deve tuttavia tenere conto
dell’eventualità che le opinioni del legislatore nazionale, che stanno alla base della legge penale più
mite adottata successivamente, siano in contrasto con le valutazioni del legislatore comunitario
che disciplinano l’ambito in oggetto. Venendo al punto, si potrebbe afermare che una legge adottata successivamente non costituisce una legge penale più mite applicabile. 72. Non sembra esservi
alcun motivo per cui un soggetto debba beneiciare retroattivamente di una valutazione mutata
del legislatore nazionale che sia contraria alle prescrizioni di diritto comunitario che perdurino
invariate. Piuttosto, la coerenza dell’ordinamento giuridico impone, al contrario, che sia osservata
in modo prioritario la normativa comunitaria applicabile. Inoltre, se un comportamento rimane
punibile sotto il proilo del diritto comunitario, non viene meno nemmeno la inalità repressiva
di prevenzione generale e speciale. 73. Le allegazioni della corte nella sentenza Allain non sono
in contraddizione con l’interpretazione sostenuta in questa sede. A diferenza del caso di specie,
nella causa Allain il contesto normativo comunitario e le circostanze di fatto erano mutati a favore
dell’imputato in un momento successivo. Questa situazione non è rafrontabile con il fatto che una
disposizione favorevole all’imputato, ma incompatibile con il diritto comunitario, venga introdotta
a livello nazionale successivamente. 74. Al pari del principio della legalità della pena, il principio
dell’applicazione retroattiva della legge penale più mite non contrasta assolutamente con l’applicazione diretta della direttiva 75/442 nella causa principale. La presa in considerazione della direttiva
non porta inoltre all’istituzione di obblighi, ma produce efetti pregiudizievoli per l’imputato solo
indirettamente. Ciò non esime tuttavia il giudice nazionale dall’obbligo, derivante dall’art. 249,
terzo comma, CE e dall’art. 10 CE, di dare esecuzione alla direttiva 75/442. 75. In conclusione, si
deve pertanto dichiarare che il giudice del rinvio ha l’obbligo di fare osservare la direttiva 75/442,
nel senso di disapplicare una legge penale più mite emanata successivamente al reato, se tale legge
è incompatibile con la direttiva».
180. Conclusioni §§ 154-168.
83
i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
vista (modiicato) del legislatore, non è più penalmente rilevante al momento del
procedimento penale ed, inoltre, l’applicazione retroattiva della legge penale più
favorevole deriva dalla circostanza che gli scopi di prevenzione generale e speciale vengono meno quando il comportamento in questione non è più soggetto
a pena». Valido e riconosciuto il principio, è necessario appuntare l’attenzione
sulla regola di implementazione dello stesso, ovvero domandarsi se la legge più
favorevole possa essere quella contraria ad una norma comunitaria. Se tanto fosse possibile, secondo l’Avvocato Generale, il sacriicio del principio di prevalenza
del diritto comunitario sarebbe evidente a discapito dell’«applicazione efettiva e
unitaria in tutti gli Stati membri delle direttive sul diritto societario». Da ciò, la
legge penale più favorevole è solo quella applicabile, ovvero quella che non è contraria ad una norma comunitaria in virtù del principio di supremazia del diritto
comunitario. Le conseguenze di una tale impostazione sono evidenti: la legge
penale più favorevole al reo, ma contrastante con una norma comunitaria, va
disapplicata in favore della norma vigente all’epoca del fatto, anche se più severa,
senza che a ciò possa ostare la riserva di legge domestica.
La Corte di Giustizia, dopo aver enunciato, come già evidenziato, che la retroattività benigna è un principio certamente comunitario, in quanto fa parte delle
tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri181, ancora una volta, non afronta
la questione della retroattività benigna e del rapporto con la primazia del diritto
comunitario, ma liquida la vicenda afermando che «una direttiva non può avere
come efetto, di per sé e indipendentemente da una legge interna di uno Stato
membro adottata per la sua attuazione, di determinare o aggravare la responsabilità penale degli imputati»182. Con ciò riconoscendo il limite della riserva di
legge interna in materia penale.
Vanno svolte alcune osservazioni.
In primis, a ben guardare, la declaratoria di illegittimità comunitaria delle nuove norme sul falso in bilancio non avrebbe determinato, di per sé, la responsabilità
penale dell’imputato, scaturendo tale addebito dalla riespansione dell’originaria
eicacia della norma abrogata o modiicata dalla disposizione comunitariamente
illegittima, in virtù della disapplicazione della stessa183. I giudici europei, invero,
non sembra che abbiano fatto corretta applicazione del principio elaborato dalla
c.d. giurisprudenza Kolpinghuis Nijmegen184, in quanto tale principio non può co181. Corte Giust. Com. Eur., 3 maggio 2005, cit., § 68.
182. Corte Giust. Com. Eur., 3 maggio 2005, cit., § 78.
183. Bernardi, Brevi osservazioni a margine della sentenza della Corte di Giustizia sul falso in bilancio, cit., passim.
184. Corte Giust. Com. Eur. 8 ottobre 1987, cit. In argomento cfr., Nunziante, Eicacia diretta
e opponibilità ai singoli delle direttive comunitarie: rilessi in materia penale, cit.; Porchia, Gli efetti delle
direttive e l’interpretazione delle norme penali nazionali: il caso Procura c. X, cit.; Riondato, Competenza
penale della Comunità europea. Problemi di attribuzione attraverso la giurisprudenza, cit.
84
legalità
stituire un ostacolo alla reviviscienza, limitatamente ai fatti realizzati sotto la sua
vigenza, di una normativa penale nazionale più severa abrogata o modiicata da
successivi interventi normativi a carattere interno volti a prevedere una disciplina sanzionatoria delle false comunicazioni sociali comunitariamente inadeguata
per difetto.
In secundis, non è possibile considerare sullo stesso piano le decisioni della
Corte europea sui casi Niselli e Berlusconi, apparentemente antitetiche. Nel primo
caso, la nozione di riiuto, sin troppo generosa, era stata introdotta nella normativa nazionale senza alcuna modiica delle igure incriminatrici richiamanti, con
l’efetto che la nuova deinizione di riiuto andava ad incidere su un elemento
normativo delle fattispecie di riferimento, modiicando (restringendola) la relativa area di rilevanza penale. Nel caso Berlusconi, invece, il legislatore nazionale
aveva espunto dall’ordinamento la vecchia incriminazione, sostituendola con
un’altra strutturalmente diversa dalla prima185.
Le decisioni dei giudici europei si pongono, dunque, in linea con la lettura
dei giudici costituzionali, in relazione ai limiti posti dalla riserva di legge statale
in materia penale: è possibile il sindacato sulla norma che si innesta nell’area
delineata da una norma incriminatrice che non viene espunta dall’ordinamento
o modiicata; mentre tale sindacato è da escludere nell’ipotesi in cui la novella
legislativa va ad incidere sull’area di rilevanza penale come scelta di politica criminale (nel rispetto della riserva di legge).
Per concludere sulla vicenda del caso Berlusconi, la questione, dopo l’epilogo
europeo, venne deinitivamente archiviata dalla Corte costituzionale, che, con
ordinanza n. 70 del 2006, restituiva ai giudici rimettenti186 l’eccezione di illegittimità degli artt. 2621 e 2622 c.c., per una nuova valutazione della rilevanza della
questione dopo, non solo, l’intervento della Corte di Giustizia, ma soprattutto
dopo quello del legislatore con il decreto legislativo 28 dicembre 2005 n. 262 recante disposizioni per la tutela del risparmio e la disciplina dei mercati inanziari,
il cui art. 30 ha sostituito le norme impugnate prevedendo ulteriori soggetti attivi
del reato, una pena più elevata nel massimo per la fattispecie contravvenzionale,
una pena speciica e più severa (reclusione da due a sei anni) per i fatti delittuosi
commessi nell’ambito di società quotate che avessero cagionato un grave nocumento ai risparmiatori, sanzioni amministrative pecuniarie e interdittive per
illeciti non punibili come reato perché rimasti sotto alle soglie di rilevanza penale
185. Per una ricostruzione per via deduttiva delle vicende a confronto, infra § IV.4.1.
186. Nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 2621 e 2622 del codice civile, come
modiicati dal decreto legislativo 11 aprile 2002, n. 61 (Disciplina degli illeciti penali e amministrativi
riguardanti le società commerciali, a norma dell’articolo 11 della lege 3 ottobre 2001, n. 366), promossi con
ordinanze del 21 gennaio 2003, del 20 novembre 2002 e del 6 marzo 2003 dal Giudice dell’udienza
preliminare del Tribunale di Palermo e del 19 gennaio 2005 dalla Corte d’appello di Napoli.
85
i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
del fatto con possibile incidenza sull’applicabilità alle falsità in bilancio e scritture
contabili della disciplina generale della prescrizione stabilita in rapporto alle violazioni amministrative e con possibilità di interruzione del termine prescrittivo
nel corso del giudizio.
III.5. Il principio della retroattività della lex mitior e quello della certezza del diritto
che promana dalla irmitas del giudicato, e la sua intangibilità relativa. L’entrata in
vigore del Trattato di Lisbona rende giuridicamente vincolante, al pari dei trattati europei, la Carta di Nizza e, per quel che qui interessa, l’art. 49, § 1, Carta,
secondo cui: «Nessuno può essere condannato per una azione o un’omissione
che, al momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto
interno o il diritto internazionale. Parimenti, non può essere inlitta una pena più
grave di quella applicabile al momento in cui il reato è stato commesso», aggiungendo altresì che «Se, successivamente alla commissione del reato, la legge prevede l’applicazione di una pena più lieve, occorre applicare quest’ultima». Tale
ultima disposizione contiene il principio di retroattività benigna187, ricalcando la
previsione contenuta nell’art. 15 Patto, che apparentemente assume carattere
inderogabile188, al pari dalla irretroattività in malam partem.
La risoluzione del 22 maggio 2012 del Parlamento europeo, in tema di approccio unionista al diritto penale189, conforta tale impostazione esegetica, stabilendo che, fra gli altri, il principio di irretroattività della norma penale e quello
della lex mitior sono principi generali che regolano il diritto punitivo ed, in particolare, gli stessi non possono tollerare alcuna deroga, se non più vantaggiosa
per il reo. Questa perentoria afermazione evidenzia un indirizzo politico chiarissimo nel considerare il principio della retroattività benigna assolutamente inderogabile, pariicandolo all’indiscusso divieto di retroattività della legge penale
in malam partem.
Pertanto, la legge penale più favorevole va applicata senza alcuna eccezione,
apparentemente anche oltre il giudicato.
L’indagine va svolta ora in direzione della derogabilità (o meno) del principio
della lex mitior.
187. Sotis, Le regole dell’incoerenza. Pluralismo normativo e crisi postmoderna del diritto penale,
Roma, 2012, 109 ss., secondo cui la retroattività della lex mitior a livello europeo si colloca nell’alveo
del principio di proporzione ex art. 49, § 3, Carta e non in quello di legalità di al § 1 della medesima
disposizione.
188. In relazione alla giurisprudenza della Corte di Giustizia, sostengono la necessaria derogabilità del principio, Bin, Un ostacolo che la Corte non può agirare, in Bin, Brunelli, Pugiotto, Veronesi
(a cura di), Ai conini del “favor rei”, Torino, 2005, 110; Brunelli, Sui limiti del favor rei l’ultima parola
è della Corte costituzionale, cit., 128; Insolera, Una sentenza a più facce, in ibid., 228; Veronesi, La
sostenibile irretroattività della norma penale favorevole, in ibid., 359.
189. Rinvenibile su www.europarl.europa.eu.
86
legalità
La irmitas del giudicato, come noto, costituisce espressione implementata
del principio della sicurezza (o certezza) giuridica, che, nel nostro ordinamento,
trova un’esplicita deroga, con riferimento alla sola pena pecuniaria, nell’art. 2,
co. 3, c.p. Non nell’ipotesi di cui all’art. 2, co. 2, c.p., completata dall’art. 673
c.p.p., in quanto l’eicacia retroattiva dell’abolizione del reato (o della declaratoria di incostituzionalità) è contenuta nella cessazione degli efetti della condanna
e, dunque, la norma abrogante del crimine non si estende all’accertamento del
fatto storico e della sua attribuibilità al reo190. Non, come noto, nell’ipotesi di
legge modiicatrice più favorevole ai sensi dell’art. 2, co. 4, c.p.
È necessario accertare la latitudine del principio dell’intangibilità del giudicato penale a livello europeo, al ine di veriicare se la retroattività benigna (modiicatrice) incontra il limite dello stare decisis, come previsto dall’art. 2, co. 4, c.p.,
ovvero se tale disposizione debba ormai essere disapplicata in virtù di quanto
previsto dall’art. 49, § 1, Carta.
L’intangibilità del giudicato penale, innanzitutto, è assoluta in malam partem,
in combinato disposto con il principio del ne bis in idem ed, in matrice convenzionale, con quello dell’equo processo garantito dall’art. 6 Convenzione EDU, come
in più occasioni sancito dalla Corte di Strasburgo191.
Il diritto penale del passato aveva deinito una concezione del giudicato penale caratterizzata da staticità ed irremovibilità, al ine di assicurare la garanzia
della certezza dei rapporti giuridici192. Non è qui la sede per ripercorrere le tappe
di un’evoluzione che ha lentamente abbandonato la rigida visione della cosa giudicata penale, essendo suiciente osservare che, ad oggi, il principio dell’irrevocabilità della res iudicata deve necessariamente mettere in conto che si possano
stabilizzare condizioni di diseguaglianza tra situazioni identiche, conseguenze
di errori o valutazioni diferenti da parte dei giudici, non più rimediabili con gli
ordinari mezzi di impugnazione ordinaria e, talvolta, neanche attraverso i pro190. Per l’estensione della previsione di cui all’art. 2, co. 2, c.p., in combinato disposto con
l’art. 673 c.p.p., anche all’ipotesi di circostanza aggravante dichiarata incostituzionale, si segnala
Cass. pen. Sez. I, 27 ottobre 2011, n. 977 secondo cui «Gli artt. 136 Cost. e 30, commi terzo e
quarto, legge n. 87 del 1953 non consentono l’esecuzione della porzione di pena inlitta dal giudice
della cognizione in conseguenza dell’applicazione di una circostanza aggravante che sia stata successivamente dichiarata costituzionalmente illegittima. (La Suprema Corte ha precisato che spetta
al giudice dell’esecuzione il compito di individuare la porzione di pena corrispondente e di dichiararla non eseguibile, previa sua determinazione ove la sentenza del giudice della cognizione abbia
omesso di individuarla speciicamente, ovvero abbia proceduto al bilanciamento tra circostanze)»;
conf. Cass. pen. Sez. I, 24 febbraio 2012, n. 19361; contra Cass. pen. Sez. I, 19 gennaio 2012, n. 27640
che sottolinea che il precedente del 2011 costituisce una decisione isolata contraria al costante
orientamento della Suprema Corte.
191. Corte eur. dir. uomo, 28 ottobre 1999, Barbarescu c. Romania, § 62; Id. 28 maggio 2002,
Vanilia c. Romania, § 42.
192. Callari, La irmitas del giudicato. Essenza e limiti, Milano, 2009.
87
i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
cedimenti di revisione. È necessaria la veriica della perdurante legalità ed adeguatezza della decisione di merito, pur scongiurando il pericolo di un processo
continuo che, attraverso la moltiplicazione dei fenomeni erosivi delle situazioni
pregresse, attenui la stabilità di quella che va considerata e difesa come una garanzia precauzionale: la deinizione del procedimento e la correlata realizzazione
di un interesse dell’ordinamento. Il principio della certezza giudiziaria non è un
valore intangibile ed assoluto, ma bilanciabile con interessi di pari rango (costituzionale) e, dunque, relativo. È solo una questione di deinizione del giudicato:
il fatto storico, come accertato, è incontrovertibile (salve le ipotesi di revisione),
ma la valutazione giuridica dello stesso deve essere rimeditata, se cambiano gli
elementi di diritto su cui quel giudizio è stato reso. È stato correttamente scritto193 che, quando l’ingiustizia di una decisione va colta «non già mediante il riesame del materiale di giudizio, bensì mediante nuovi elementi di giudizio», non
si scorge pericolo alcuno per la sicurezza giuridica poiché «anzi, questa stessa
esigenza si capovolge e si proila… come urgenza di ristabilire la giustizia ofesa,
mentre la coscienza sia dei consociati sia degli stessi soggetti più direttamente
interessati… non saprebbe accettare di dare prevalenza al giudicato su nuovi elementi atti da soli o congiuntamente ai precedenti a dimostrare la ingiustizia della
sentenza irrevocabile»194.
Il limite del giudicato per la retroattività benigna trova conforto nella giurisprudenza della Corte EDU, che, nel noto caso Scoppola, ha afermato che «si
la loi pénale en vigueur au moment de la commission de l’infraction et les lois pénales
postérieures adoptées avant le prononcé d’un jugement déinitif sont diférentes, le juge
doit appliquer celle dont les dispositions sont les plus favorables au prévenu»195. Del resto, sul punto, la Corte di Strasburgo conferma la sua giurisprudenza in materia
di vincolatività del giudicato in ossequio al principio della certezza del diritto196.
La res iudicata, dunque, è insuperabile anche per il principio in questione.
Ad ogni modo, si può ipotizzare una soluzione diversa.
193. La Rocca, Adeguamento della pena per sopravvenuta illegittimità costituzionale dell’agravante:
poteri inediti del giudice dell’esecuzione, in Arch. pen., 2012, 2, nota a Cass. pen. Sez. I, 27 ottobre 2011,
n. 977.
194. Leone, Il mito del giudicato, in Riv. dir. proc pen., 1956, 168.
195. Corte eur. dir. uomo, 17 settembre 2009, Scoppola c. Italia, § 109. Il principio enunciato
dalla Corte, sulla base di quanto previsto dall’art. 7 Convenzione EDU, ricalca l’art. 24, § 2, Statuto
della Corte penale internazionale, secondo cui: «Si le droit applicable à une afaire est modiié avant le
jugement déinitif, c’est le droit le plus favorable à la personne faisant l’objet d’une enquête, de poursuites ou
d’une condamnation qui s’applique».
196. Si è già richiamata Corte eur. dir. uomo, 28 giugno 2007, Perez Arias c. Spagna, secondo
cui «intendere il principio di eguaglianza nell’applicazione della legge nel senso che ciò che risulta
dalle decisioni posteriori implica la revisione di tutte le decisioni deinitive anteriori che risultino
contraddittorie con quelle più recenti sarebbe contrario al principio di sicurezza giuridica».
88
legalità
La certezza del diritto, da un lato, e la libertà personale, dall’altro, sono i
valori da bilanciare nell’applicazione retroattiva della lex mitior: il punto di mediazione potrebbe essere la distinzione della res iudicata o, meglio, il carattere
dell’intangibilità ancorato al solo giudizio di colpevolezza, restandone esclusi gli
efetti penali, sempre modiicabili ove in senso più vantaggioso per il reo. In relazione al nostro ordinamento, dunque, andrebbe ampliata la previsione di cui
all’art. 2, co. 3, c.p., in conformità a quanto previsto dall’art. 6 TUE, in combinato disposto con l’art. 49, § 1, Carta, con l’efetto che la lex mitior che modiica,
non solo, la specie della pena (come oggi previsto dal citato art. 2, co. 3, c.p.), ma
anche la misura della stessa, in senso più favorevole al reo, andrebbe applicata
anche oltre il giudicato.
Depone in tal senso il continuo riferimento delle norme internazionali, ma
anche dell’art. 49 Carta, alla pena da applicare. È evidente che il riferimento al
momento applicativo farebbe indurre a ritenere non ancora intervenuta la condanna deinitiva e, dunque, la riferibilità del principio della retroattività benigna
alle sole modiiche intervenute prima del giudicato penale. Ma in linea con le
soluzioni già evidenziate, si potrebbe proporre un’esegesi diversa della previsione europea, considerando il momento applicativo esteso a quello esecutivo, alla
stregua della paciica applicabilità dei principi di personalità, proporzionalità e
rimproverabilità che investono la funzione della pena dal momento della sua
irrogazione a quello della sua esecuzione e, dunque, consentire, secondo le previsioni processuali statuali, l’intervento del giudice per l’applicazione della lex
mitior modiicatrice della pena197.
197. Sul punto, recentemente, Corte cost. n. 210 del 2013, pubblicata anche in www.archiviopenale.it, con nota redazionale. La questione: con ordinanza depositata il 10 settembre 2012 (commentata da Gaito, Santoriello, Giudizio abbreviato ed ergastolo: un rapporto ancora diicile, in Dir.
pen. proc., 2012, 1201 ss; Gambardella, Overruling favorevole della Corte europea e revoca del giudicato
di condanna: a proposito dei casi analoghi alla sentenza “Scoppola”, e Musio, Di nuovo alla Corte costituzionale il compito di tracciare il conine tra tutela dei diritti fondamentali e limite del giudicato nazionale,
in Cass. pen., 2012, 3981 ss.; Viganò, Figli di un Dio minore? Sulla sorte dei condannati all’ergastolo in
casi analoghi a quello deciso dalla Corte EDU in Scoppola c. Italia, in www.penalecontemporaneo.it), la
Corte di cassazione, sezioni unite penali, ha sollevato, in riferimento agli articoli 3 e 117, primo
comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’articolo 7 della Convenzione europea per
la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (d’ora in avanti: “CEDU”), irmata
a Roma il 4 novembre 1950, questioni di legittimità costituzionale degli articoli 7 e 8 del decretolegge 24 novembre 2000, n. 341 (Disposizioni urgenti per l’eicacia e l’eicienza dell’Amministrazione
della giustizia), convertito, con modiicazioni, dalla legge 19 gennaio 2001, n. 4, nella parte in cui
tali disposizioni interne operano retroattivamente e, più speciicamente, in relazione alla posizione
di coloro che, pur avendo formulato richiesta di giudizio abbreviato nella vigenza della sola legge
16 dicembre 1999, n. 479, sono stati giudicati successivamente, quando cioè, a far data dal pomeriggio del 24 novembre 2000 (pubblicazione della Gazzetta Uiciale, ai sensi dell’art. 2 del regio
decreto 7 giugno 1923, n. 1252, recante Passagio della Gazzetta Uiciale del Regno dalla dipendenza del
Ministero dell’interno a quella del Ministero della giustizia e degli afari di culto e norme per la compilazione
89
i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
e la pubblicazione di essa), era entrato in vigore il citato decreto-legge, con conseguente applicazione del più sfavorevole trattamento sanzionatorio previsto dal medesimo decreto. La Consulta, nell’interessantissima pronuncia, oltre a confermare la disciplina dei rapporti tra ordinamento
interno e ordinamento convenzionale, tracciato dalle sentt. 348 e 349 del 2007, in ordine al ruolo
del giudicato nella materia penale, aferma (Considerato in diritto § 7.3): «Spetta anzitutto al legislatore rilevare il conlitto veriicatosi tra l’ordinamento nazionale e il sistema della Convenzione
e rimuovere le disposizioni che lo hanno generato, privandole di efetti; se però il legislatore non
interviene, sorge il problema relativo alla eliminazione degli efetti già deinitivamente prodotti in
fattispecie uguali a quella in cui è stata riscontrata l’illegittimità convenzionale ma che non sono
state denunciate innanzi alla Corte EDU, diventando così inoppugnabili. Esiste infatti una radicale
diferenza tra coloro che, una volta esauriti i ricorsi interni, si sono rivolti al sistema di giustizia
della CEDU e coloro che, al contrario, non si sono avvalsi di tale facoltà, con la conseguenza che la
loro vicenda processuale, deinita ormai con la formazione del giudicato, non è più suscettibile del
rimedio convenzionale. Il valore del giudicato, attraverso il quale si esprimono preminenti ragioni
di certezza del diritto e di stabilità nell’assetto dei rapporti giuridici, del resto, non è estraneo alla
Convenzione, al punto che la stessa sentenza Scoppola vi ha ravvisato un limite all’espansione
della legge penale più favorevole, come questa Corte ha già avuto occasione di porre in evidenza
(sentenza n. 236 del 2011). Perciò è da ritenere che, in linea di principio, l’obbligo di adeguamento
alla Convenzione, nel signiicato attribuitole dalla Corte di Strasburgo, non concerne i casi, diversi
da quello oggetto della pronuncia, nei quali per l’ordinamento interno si è formato il giudicato,
e che le deroghe a tale limite vanno ricavate, non dalla CEDU, che non le esige, ma nell’ambito
dell’ordinamento nazionale. Quest’ultimo, difatti, conosce ipotesi di lessione dell’intangibilità del
giudicato, che la legge prevede nei casi in cui sul valore costituzionale ad esso intrinseco si debbano ritenere prevalenti opposti valori, ugualmente di dignità costituzionale, ai quali i il legislatore
intende assicurare un primato. Tra questi, non vi è dubbio che possa essere annoverata la tutela
della libertà personale, laddove essa venga ristretta sulla base di una norma incriminatrice successivamente abrogata oppure modiicata in favore del reo: “per il principio di eguaglianza, infatti, la
modiica mitigatrice della legge penale e, ancor di più, l’abolitio criminis, disposte dal legislatore in
dipendenza di una mutata valutazione del disvalore del fatto tipico, devono riverberarsi anche a
vantaggio di coloro che hanno posto in essere la condotta in un momento anteriore, salvo che, in
senso opposto, ricorra una suiciente ragione giustiicativa” (sentenza n. 236 del 2011). Il legislatore a fronte dell’abolitio criminis non ha ravvisato tale ragione giustiicativa e ha previsto la revoca
della sentenza (art. 673 cod. proc. pen.), disponendo che devono cessare l’esecuzione della condanna e gli efetti penali (art. 2, secondo comma, cod. pen.); analogamente ha stabilito che “Se vi è
stata condanna a pena detentiva e la legge posteriore prevede esclusivamente la pena pecuniaria, la
pena detentiva inlitta si converte immediatamente nella corrispondente pena pecuniaria, ai sensi
dell’articolo 135” (art. 2, terzo comma, cod. pen.). A questa Corte compete perciò di rilevare che,
nell’ambito del diritto penale sostanziale, è proprio l’ordinamento interno a reputare recessivo il
valore del giudicato, in presenza di alcune sopravvenienze relative alla punibilità e al trattamento
punitivo del condannato. Al giudice comune, e in particolar modo al giudice rimettente, quale
massimo organo di nomoilachia compete, invece, di determinare l’esatto campo di applicazione
in sede esecutiva di tali sopravvenienze, ovvero della dichiarazione di illegittimità costituzionale
della norma incriminatrice (art. 30, quarto comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87), e, nell’ipotesi
in cui tale determinazione rilevi ai ini della proposizione di una questione di legittimità costituzionale, spiegarne le ragioni in termini non implausibili. Nel caso in esame le sezioni unite rimettenti,
con motivazione che soddisfa tale ultimo requisito, hanno argomentato che, in base all’art. 30,
quarto comma, della legge n. 87 del 1953, il giudicato penale non impedisce al giudice di interveni-
90
legalità
sezione IV. Primauté
IV.1. Il principio di legalità ed il diritto vivente: giurisprudenza come fonte del diritto
nella lettura delle Corti europee e della Corte costituzionale. Brevi considerazioni sul
ruolo dei Tribunali costituzionali nell’epoca del pluralismo giuridico e l’idea in crisi di
sovranità. Si è visto che la retroattività in mitius è un principio inderogabile per
la giurisprudenza europea, certamente prima dell’intervento del giudicato deinitivo, nel senso che qualora intervenga una modiica della legge penale più
vantaggiosa per il reo, il giudice è tenuto ad applicarla.
È utile indagare sul rapporto tra questo principio ed il diritto vivente (nómos
émpsychos198), inteso come la legge (penale) applicata secondo l’interpretazione
giurisprudenziale e, dunque, sulla rilevanza del relativo mutamento esegetico in
ordine ai principi che regolano la successione nel tempo delle norme criminali.
Da un punto di vista storico, è opportuno ricordare, brevemente, che, ad eccezione dei sistemi di common law, la fonte del diritto di idea giusrazionalistica199
non può che essere la legge, mentre l’attività interpretativa giurisprudenziale è
vista, almeno in un primo tempo, con sospetto a causa del dispotismo dei tribunali
imperante nel XVI e XVII secolo200, dovuto alla disorganizzazione della vita forense sia perché vi era un eccessivo proliferare di opinioni dottrinali, sia perché
le vie processuali erano lente e complesse, sia perché la pluralità di giurisdizioni
dell’antico regime originava interminabili conlitti di competenza. Da ciò, sulla scia dell’insegnamento baconiano201, nascono progetti di riforma dell’ordinamento giudiziario e processuale che portano a vincolare l’attività interpretativa
giurisprudenziale subordinandola, rigidamente, al primato della legge (rectius,
re sul titolo esecutivo per modiicare la pena, quando la misura di questa è prevista da una norma
di cui è stata riconosciuta l’illegittimità convenzionale, e quando tale riconoscimento sorregge un
giudizio altamente probabile di illegittimità costituzionale della norma per violazione dell’art. 117,
primo comma, Cost. Nell’ambito dell’odierno incidente di legittimità costituzionale, tale rilievo è
suiciente per concludere che, con riferimento al procedimento di adeguamento dell’ordinamento interno alla CEDU, originato dalla pronuncia della Grande Camera della Corte EDU nel caso
Scoppola, il giudicato non costituisce un ostacolo insuperabile che, come invece accade di regola,
limiti gli efetti dell’obbligo conformativo ai soli casi ancora sub iudice. Nella prospettiva adottata
dalle sezioni unite rimettenti, non vi sono perciò ostacoli che si frappongano alla estensione degli
efetti della Convenzione in fattispecie uguali a quella relativa a Scoppola, sulle quali si sia già formato il giudicato».
198. È l’espressione aristotelica. Marco Tullio Cicerone (106-43 a.C.), De Legibus, III, 1, 2,
deinisce la legge come mutus magistratus.
199. Per un chiaro afresco sul periodo che precede il Settecento ed, in particolare, l’epoca
della Rivoluzione francese, cfr. L. Mazza, Lezioni di diritto penale. I. Il dibattito sulle scuole, Torino,
2000, 7 ss.
200. Hespanha, Introduzione alla storia del diritto europeo, Bologna, 2003, 210.
201. Bacone (Francis Bacon 1561-1626), On Judicature, in Essays, secondo cui i giudici dovrebbero ricordare che il loro uicio è ius dicere e non ius dare, interpretare e non fare la legge.
91
i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
del legislatore). Emblematico il référé législatif francese202 che obbligava i tribunali
a rimettere all’Assemblea Legislativa le questioni giuridiche di dubbia interpretazione. Passando da Beccaria e Bentham, il primato della legge sul diritto di
creazione giurisprudenziale è ormai un principio fondamentale appartenente a
tutte le tradizioni costituzionali europee (e non solo), anche a quelle di common
law, ove il principio di legalità è trasposto in quello di necessaria conoscibilità
preventiva del divieto penale.
Ora, è costante orientamento della Corte dei diritti umani che la nozione di
diritto (law), utilizzata nell’art. 7, § 1, Convenzione EDU, è comprensiva tanto
del diritto di produzione legislativa che del diritto di formazione giurisprudenziale203: è tale vale anche in rapporto agli ordinamenti di civil law, alla luce del
rilevante apporto che pure in essi la giurisprudenza fornisce all’individuazione
dell’esatta portata ed all’evoluzione del diritto penale204.
Il principio è stato, di recente, ribadito dalla Corte di Strasburgo sul rilevante
dibattito originato in Spagna dal mutamento giurisprudenziale sfavorevole del
Tribunal Supremo circa le modalità di applicazione dei beneici penitenziari a determinati soggetti pluricondannati per reati di matrice terroristica separatista. In
particolare, la Corte di Strasburgo si è pronunciata sul ricorso proposto da una
202. Legge 27 gennaio 1790 e Costituzione del 13 settembre 1791, cap. V, Del potere giudiziario, «21. Quando dopo due cassazioni il giudizio del terzo tribunale sarà impugnato con gli stessi
mezzi che per i due precedenti, la questione non potrà più esser discussa dinanzi al tribunale di
Cassazione senza esser stata sottoposta al Corpo legislativo, che emetterà un decreto dichiaratorio
della legge, al quale il tribunale di Cassazione dovrà conformarsi. 22. Ogni anno, il tribunale di Cassazione sarà tenuto ad inviare alla tribuna del Corpo legislativo una deputazione di otto dei suoi
membri, che presenteranno ad esso lo stato dei giudizi resi, accanto ad ognuno dei quali saranno
posti la sintesi della questione e la legge che avrà determinato la decisione…».
203. Corte eur. dir. uomo, Gr. Ch., 17 settembre 2009, cit., secondo (§ 99) cui «la notion de
“droit” (“law”) utilisée à l’article 7 correspond à celle de “loi” qui igure dans d’autres articles de la Convention; elle englobe le droit d’origine tant législative que jurisprudentielle et implique des conditions qualitatives, entre autres celles d’accessibilité et de prévisibilité». Evidenzia che tale impostazione è seguita
nella prospettiva funzionale di ricostruire il perimetro garantistico dell’art. 7 CEDU, assumendo,
dunque, il principio di legalità come regola di giudizio e non come regola sulle fonti, Manes, Il
giudice nel labirinto, cit., 23, in particolare, nota 59.
204. Corte eur. dir. uomo, Gr. Ch., 17 settembre 2009, cit., secondo cui (§ 101) «la fonction
de décision coniée aux juridictions sert précisément à dissiper les doutes qui pourraient subsister quant à
l’interprétation des normes (Kaf karis, précité, § 141). D’ailleurs, il est solidement établi dans la tradition
juridique des Etats parties à la Convention que la jurisprudence, en tant que source du droit, contribue nécessairement à l’évolution progressive du droit pénal (Kruslin c. France, 24 avril 1990, § 29, série A no 176-A).
On ne saurait interpréter l’article 7 de la Convention comme proscrivant la clariication graduelle des règles
de la responsabilité pénale par l’interprétation judiciaire d’une afaire à l’autre, à condition que le résultat
soit cohérent avec la substance de l’infraction et raisonnablement prévisible (Streletz, Kessler et Krenz c. Allemagne [GC], nos 34044/96, 35532/97 et 44801/98, § 50, CEDH 2001-II)». Nello stesso senso, di recente,
Corte eur. dir. uomo, Sez. V, 18 aprile 2013, Rohlena c. Repubblica Ceca, § 29, nonché Corte eur. dir.
Uomo, Gr. Ch., 21 ottobre 2013, Del Rio Prada c. Regno di Spagna, § 93, su cui si tornerà più avanti.
92
legalità
donna condannata per gravi reati a pene che, sommate, ammontavano a più di
tremila anni di reclusione, ridotti a trenta, limite massimo nell’ipotesi di cumulo
materiale in applicazione dell’art. 70 c.p. spagnolo 1973 (vigente all’epoca della
commissione dei reati). Individuato il “ine-pena” nel giorno 27 giugno 2017,
l’istituto penitenziario indicava conseguentemente nel 2 luglio 2008 la data efettiva di liberazione della ricorrente in applicazione della misura alternativa della
redención de penas por el trabajo. Tuttavia, l’Audiencia Nacional, a cui spettava la
determinazione deinitiva della pena da eseguire, issava il ine-pena alla data del
27 giugno 2017, in virtù di una nuova interpretazione della legge sull’esecuzione
della pena (secondo una soluzione denominata come doctrina Parot)205, per cui
la frazione di pena da scontare prima di accedere a tale beneicio deve essere
calcolata in base alla misura della sanzione individuata prima dell’applicazione
del limite dei trent’anni (e quindi, nel caso concreto, in base ai più di tremila
anni di reclusione conseguenti al cumulo materiale delle pene). In altri termini,
il Tribunal Supremo interpretava gli artt. 70 e 100 c.p. spagnolo 1973, alla stregua
di quanto previsto dall’art. 78 c.p. spagnolo 1995. Nel ricorso alla Corte europea,
dunque, è stata denunciata una violazione del principio di irretroattività in materia penale sancito dall’art. 7 Convenzione EDU, nonché la violazione del canone
della regolarità della detenzione previsto dall’art. 5 Convenzione EDU.
La questione era stata già esaminata dal Tribunal constitucional spagnolo che,
investito di diversi recursos de amparo, ha rigettato tutte le doglianze, ritenendo
inammissibile la sussunzione della vicenda nell’alveo dell’art. 7 Convezione EDU,
poiché, per costante orientamento della Corte di Strasburgo, l’esecuzione penale non rientrava nell’orbita applicativa della norma convenzionale europea206 e,
205. Tribunal Supremo 28 febbraio 2006 n. 197, che «el beneicio de la redención de penas por el
trabajo consagrado en el art. 100 CP 1973 ha de aplicarse no a ese máximo de cumplimiento, sino a cada una
de las penas impuestas en las diversas condenas, de modo que la forma de cumplimiento de la condena total
se producirá del siguiente modo: se principiará por el orden de la respectiva gravedad de las penas impuestas, aplicándose los beneicios y redenciones que procedan con respecto a una de las penas que se encuentre
cumpliendo. Una vez extinguida la primera, se dará comienzo a la siguiente, y así sucesivamente, hasta que
se alcancen las limitaciones impuestas en la regla segunda del art. 70 del Código penal de 1973. Llegados a
este estadio, se producirá la extinción de todas las penas comprendidas en la condena total resultante». Tale
decisione è contraria ad un consolidato orientamento dello stesso Tribunal Supremo 1985/1992,
506/1994, 529/1994, 1109/1997, 1458/2002, 1778/2002, 699/2003, 1223/2005.
206. Fra le tante, Tribunal constitutional, 29 marzo 2012 n. 69, Fundamentos jurídicos, § 4, secondo cui «no nos encontramos en el ámbito propio del derecho fundamental consagrado en art. 25.1 CE,
que es el de la interpretación y aplicación de los tipos penales, la subsunción de los hechos probados en los
mismos y la imposición de la pena en ellos prevista (por todas, SSTC 137/1997, de 21 de julio, FJ 7; 13/2003,
de 28 de enero, FJ 3; 229/2003, de 18 de diciembre, FJ 16; 163/2004, de 4 de octubre, FJ 7; 145/2005, de 6 de
junio, FJ 4; y 76/2007, de 16 de abril, FJ 4, entre otras muchas), sino en el de la ejecución de una pena privativa de libertad, cuestionándose el cómputo de la redención de penas por el trabajo, sin que de la interpretación
sometida a nuestro enjuiciamiento se derive ni el cumplimiento de una pena mayor que la prevista en los tipos
penales aplicados, ni la superación del máximo de cumplimiento legalmente previsto. En esa misma línea el
93
i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
comunque, il revirement giurisprudenziale in questione non violava il principio
di irretroattività della legge penale, poiché si tratta di «una nueva interpretación
de la misma que, ciertamente, acoge el criterio de cómputo consagrado expresamente en
el art. 78 CP 1995, pero argumentando que tal interpretación era posible a la vista del
tenor literal de los arts. 70.2 y 100 CP 1973» e, dunque, non vi è stata un’applicazione retroattiva del sopravvenuto art. 78 c.p. spagnolo 1995. Con ciò escludendo
l’equivalenza tra mutamento giurisprudenziale e novella legislativa in rapporto
al principio di irretroattività della legge penale (appunto).
Ora, la Corte europea207, dapprima, ha superato la questione della sussumibilità della violazione denunciata nell’alveo dell’art. 7 Convenzione EDU, evidenziando che, nel caso concreto, non si tratta di valutare la compatibilità convenzionale della modalità di esecuzione della pena inlitta alla ricorrente (che,
come tale, non rientrerebbe nella previsione convenzionale in questione), ma
di stimare la liceità convenzionale dell’interpretazione giurisprudenziale del Tribunal Supremo ai ini della efettiva determinazione della pena applicata. Risolta
in senso positivo la questione dell’applicabilità in astratto dell’art. 7 Convenzione EDU al caso di specie, dunque, la Corte non ha diicoltà nell’afermare che
il mutamento nell’interpretazione del Tribunal Supremo (equiparabile, come da
giurisprudenza costante in materia, ad una vera e propria novella legislativa) non
poteva essere previsto dal reo al momento della commissione dei reati e, pertanto, la Corte di Strasburgo ritiene insoddisfatta l’esigenza di prevedibilità delle
applicazioni giurisprudenziali che promana dalla disposizione convenzionale.
Tribunal Europeo de Derechos Humanos también viene airmando que las cuestiones relativas a la ejecución
de la pena y no a la propia pena, en la medida en que no impliquen que la pena impuesta sea más grave que
la prevista por la ley, no conciernen al derecho a la legalidad penal consagrado en el art. 7.1 del Convenio,
aunque sí pueden afectar al derecho a la libertad. En este sentido se pronuncia la STEDH de 10 de julio de
2003, Grava c. Italia, § 51, en un supuesto referido a la condonación de la pena citando, mutatis mutandis,
Hogben contra Reino Unido, núm. 11653/1985, decisión de la Comisión de 3 marzo 1986, Decisiones e
informes [DR] 46, págs. 231, 242, en materia de libertad condicional. Y más recientemente la STEDH de 15
de diciembre de 2009, Gurguchiani c. España, § 31, airma que “la Comisión al igual que el Tribunal han
establecido en su jurisprudencia una distinción entre una medida que constituye en esencia una pena y una
medida relativa a la ejecución o aplicación de la pena. En consecuencia, en tanto la naturaleza y el in de la
medida hacen referencia a la remisión de una pena o a un cambio en el sistema de libertad condicional, esta
medida no forma parte integrante de la pena en el sentido del art. 7”».
207. Sulla questione si è pronunciata, dapprima, Corte eur. dir. uomo, Sez. III, 10 luglio 2012,
Del Rio Prada c. Regno di Spagna, e successivamente, su richiesta del 22 ottobre 2012, del Governo
spagnolo, sulla questione si è pronunciata deinitivamente Corte eur. dir. uomo, Gr. Ch., 21 ottobre
2013, Del Rio Prada c. Regno di Spagna, cit., che ha confermato la violazione dell’art. 7 Convenzione
EDU, oltre quella dell’art. 5 § 1 Convenzione EDU. In attesa della decisione della Grande Sezione,
l’orientamento dei giudici supremi spagnoli non era stato modiicato, cfr. Tribunal Supremo, Sala
de lo Penal, 8 febbraio 2013 n. 101, con nota di F. Mazzacuva, Il Tribunal Supremo spagnolo sulle ricadute interne del caso Del Rio Prada in materia di irretroattività delle modiiche pegiorative del trattamento
penitenziario, in www.penalecontemporaneo.it.
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legalità
Per le stesse ragioni, la Corte EDU riscontra anche la violazione dei requisiti di
regolarità e legalità (voies légales) della privazione della libertà personale delineati
dall’art. 5 Convenzione EDU.
La problematica del rapporto tra principio di legalità e mutamento giurisprudenziale in materia penale è stata afrontata anche dalla Corte di Giustizia
dell’Unione Europea208, che ha ritenuto applicabile il principio di irretroattività
anche alla nuova interpretazione in senso sfavorevole di una norma sanzionatoria, ove la medesima interpretazione non risultasse ragionevolmente prevedibile
nel momento della commissione dell’illecito.
Il perno centrale dell’equiparazione europea tra novella legislativa e mutamento giurisprudenziale è la prevedibilità (ragionevole) della novità (sia essa pretoria o legislativa) in malam partem per il reo.
Anche la Corte costituzionale209 è stata interessata alla questione suddetta, su
iniziativa del Tribunale di Torino che ha sollevato il dubbio di legittimità dell’art.
673 c.p.p., nella parte in cui non prevede l’ipotesi di revoca della sentenza di condanna (o di decreto penale di condanna o di sentenza di applicazione della pena
su concorde richiesta delle parti) in caso di mutamento giurisprudenziale – intervenuto con decisione delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione – in base al
quale il fatto giudicato non è previsto dalla legge come reato210.
L’angolazione valutata dalla Corte italiana è diversa rispetto a quella guardata
dalle Corti europee, nei casi appena richiamati: la Corte romana si è, infatti, interessata del rapporto tra mutamento giurisprudenziale e retroattività benigna,
mentre le Corti di Strasburgo e di Lussemburgo, come visto, hanno valutato la
relazione tra il revirement pretorio e l’irretroattività in malam partem, incentrato
208. Corte Giust. Com. Eur., Sez. II, 8 febbraio 2007, C-3/06 P, Groupe Danone c. Commissione,
§§ 87-88, secondo cui «il principio di irretroattività delle norme penali è un principio comune a
tutti gli ordinamenti giuridici degli Stati membri e fa parte integrante dei principi generali del
diritto di cui il giudice comunitario deve garantire l’osservanza. In particolare, l’art. 7, n. 1, della
Convenzione europea di salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, stipulata
a Roma il 4 novembre 1950, che consacra in particolare il principio di previsione legale dei reati e
delle pene (nullum crimen, nulla poena sine lege), può opporsi all’applicazione retroattiva di una nuova interpretazione di una norma che descrive un’infrazione. Ciò avviene, in particolare, nel caso si
tratti di un’interpretazione giurisprudenziale il cui risultato non era ragionevolmente prevedibile
nel momento in cui l’infrazione è stata commessa, alla luce, in particolare, dell’interpretazione vigente a quell’epoca nella giurisprudenza relativa alla disposizione legale in questione; Corte Giust.
Com. Eur., Grande Sezione, 28 maggio 2005, cause riunite C-189/92 P e C-202/02 P, da C-205/02
P a C-208/02 P, C-213/02, Dansk Rørindustri A/S e a. c. Commissione».
209. Corte cost. n. 230 del 2012, pubblicata anche in www.penalecontemporaneo.it con nota di
Napoleoni, Mutamento di giurisprudenza e revoca del giudicato: altolà della Consulta a prospettive avanguardistiche di (supposto) adeguamento ai dicta della Corte di Strasburgo.
210. In giurisprudenza contra Cass. pen. Sez. I, 13 luglio 2006, n. 27858; Cass. pen. Sez. I, 11
luglio 2006, n. 27121.
95
i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
sulla necessaria conoscibilità preventiva del comportamento punibile, che, come
già visto, non è un aspetto che impegna il principio della retroattività in mitius.
Ora, la Consulta ha respinto il dubbio costituzionale del giudice remittente,
con una decisione ricca di spunti interessanti e di dotte argomentazioni giuridiche211, incentrando sì l’iter motivazionale sul rapporto tra principio di retroattività della lex mitior e giudicato, ma afrontando anche la questione sulla diferenza tra mutamento legislativo e mutamento giurisprudenziale, alla stregua della
particolarità nazionale del principio di legalità, rispetto alla deinizione europea
e, dunque, in relazione alla dimensione della riserva di legge parlamentare in
materia penale consacrata dall’art. 25, co. 2, Cost.
In relazione al primo aspetto, la Consulta ha evidenziato, conformemente
a quanto già indicato212, che il limite del giudicato per la retroattività benigna
trova conforto nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo, che, nel noto caso
Scoppola, ha afermato che «si la loi pénale en vigueur au moment de la commission
de l’infraction et les lois pénales postérieures adoptées avant le prononcé d’un jugement
déinitif sont diférentes, le juge doit appliquer celle dont les dispositions sont les plus
favorables au prévenu».
La Corte costituzionale passa, poi, a valutare la questione più signiicativa, rispetto al dubbio di costituzionalità sollevato, ma anche più problematica in relazione all’orientamento della giurisprudenza europea, che, come detto, considera
il mutamento legislativo equivalente a quello giurisprudenziale, certamente in
relazione al principio di irretroattività della legge penale, ma non così per quello
di retroattività della lex mitior.
L’eccezione rispetto a quest’ultimo principio ofre la sponda, in prima battuta, alla Corte per evidenziare l’insussistenza della norma convenzionale interposta da far valere nel sindacato di cui all’art. 117, co. 1, Cost., in quanto la Corte
europea si è sempre occupata del rapporto tra retroattività benigna e mutamento legislativo, non in relazione a quello giurisprudenziale213.
A prescindere da tanto, l’equivalenza tra mutamento legislativo e quello giurisprudenziale, secondo i Giudici delle Leggi, comunque, non è ammissibile per
il nostro ordinamento, stante le speciiche peculiarità del principio di legalità previsto dall’art. 25, co. 2, Cost., con particolare riferimento alla dimensione della
riserva di legge, sconosciuta all’art. 7 Convenzione EDU. La Corte delle Leggi,
211. Romoli, Prime annotazioni a Corte cost. n. 230 del 2012. La legalità penale: Strasburgo e il “vallo
italico”, in Arch. pen., 2013; Ruggeri, Penelope alla Consulta: tesse e sila la tela dei rapporti con la Corte
EDU, con signiicativi richiami ai tratti identiicativi dell’ordine interno e distintivi rispetto alla struttura
dell’ordine convenzionale (“a prima lettura” di Corte cost. n. 230 del 2012), in www.giurcost.org.
212. Infra § III.3.
213. Manes, Il giudice nel labirinto, cit., 33, evidenzia il falso sillogismo dell’incidente costituzionale.
96
legalità
inoltre, rivendica il maggior pregio dell’opzione politico-istituzionale alla base
del nostro assetto democratico tout court: in tale prospettiva, infatti, il principio
di riserva di legge «demanda il potere di normazione in materia penale – in quanto incidente sui diritti fondamentali dell’individuo, e segnatamente sulla libertà
personale – all’istituzione che costituisce la massima espressione della rappresentanza politica: vale a dire al Parlamento, eletto a sufragio universale dall’intera
collettività nazionale […], il quale esprime, altresì, le sue determinazioni all’esito
di un procedimento – quello legislativo – che implica un preventivo confronto
dialettico tra tutte le forze politiche, incluse quelle di minoranza, e, sia pure indirettamente, con la pubblica opinione».
Da ciò, il carattere democratico del principio di legalità previsto dall’art. 25,
co. 2, Cost. costituisce un’insormontabile causa ostativa (controlimite) all’equivalenza tra diritto scritto e diritto giurisprudenziale previsto dall’art. 7 Convenzione EDU, come interpretato dalla Corte di Strasburgo, così ribadendosi la posizione subordinata del diritto convenzionale europeo alla Costituzione.
Va fatta una necessaria distinzione.
L’interpretazione giurisprudenziale è sempre prevedibile, o almeno così
dovrebbe essere, alla stregua proprio del principio di legalità, sotto il proilo
delle dimensioni correlate della determinatezza e della tassatività. Nel senso
che l’esegesi di un testo legislativo non può andare mai oltre il signiicato letterale delle espressioni utilizzate dal legislatore, che, per principio, sono chiare
e precise (determinatezza) e, dunque, vincolanti nella lettura applicativa giurisprudenziale (tassatività). Da ciò, l’interpretazione giurisprudenziale non ha
(o, meglio, non dovrebbe) mai avere un carattere innovativo, come può essere
la formulazione di una norma penale, da parte del legislatore, ma il giudice
si limita a fornire una lettura di una norma necessariamente già esistente. Da
questa chiara evidenza è necessario constatare che non è possibile distinguere
il diritto, in quello legislativo ed in quello giurisprudenziale, ma le due componenti vanno coordinate in una res unica, che non è solo la legge, che non è solo
la giurisprudenza. Le Sezioni Unite penali214, a tal proposito, hanno signiicativamente precisato che «il processo di conoscenza di una norma presuppone, per
così dire, “una relazione di tipo concorrenziale” tra potere legislativo e potere
giudiziario, nel senso che il reale signiicato della norma, in un determinato
contesto socio-culturale, non emerge unicamente dalla mera analisi del dato
positivo, ma da un più complesso unicum, che coniughi tale dato con l’atteggiarsi della relativa prassi applicativa. Il giudice riveste un ruolo fondamentale
nella precisazione dell’esatta portata della norma, che, nella sua dinamica operativa, vive attraverso l’interpretazione che ne viene data. La struttura necessa-
214. Cass. pen. Sez. Unite (ud. 21 gennaio 2010) 13 maggio 2010, n. 18288.
97
i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
riamente generica della norma è integrata e riempita di contenuti dall’attività
“concretizzatrice” della giurisprudenza»215.
La necessaria conoscibilità o prevedibilità che pare assorbire il principio di legalità, nell’interpretazione europea, o se si vuole, in chiave domestica, quello di colpevolezza in relazione all’aidamento su un consolidato orientamento giurisprudenziale216, dunque, non riguarda la norma positiva, ma quella vivente, ovvero la
norma efettivamente applicata. Pertanto, il revirement giurisprudenziale non può
non incidere sull’applicazione del diritto penale, al pari della novella legislativa.
Non pare che tale lettura possa pregiudicare, come autorevolmente indicato
dalla Corte costituzionale, il carattere democratico della legalità previsto dall’art.
25, co. 2, Cost., ovvero l’assetto della separazione dei poteri statuali, poiché la
legge è pur sempre l’unica fonte del diritto.
Ora, possiamo trarre delle prime conclusioni.
Prima d’ogni altro, nulla quaestio sulla necessaria applicazione del revirement
giurisprudenziale in senso favorevole al reo, prima del giudicato, conformemente al ruolo nomoilattico delle Supreme Magistrature.
Il mutamento giurisprudenziale in senso favorevole al reo, invece, alla stregua di quanto indicato dall’art. 2, co. 4, c.p., in linea, come visto, con la lettura
interpretativa europea (artt. 7 Convenzione EDU e 49 Carta), trova un limite
insormontabile nel principio di intangibilità del giudicato. Ma su tale aspetto si
tornerà più avanti.
Il mutamento giurisprudenziale in malam partem, invece, deve portare a più
approfondite rilessioni.
Il revirement incide sulla prevedibilità della punizione, come indicato dalle
Corti europee (e non solo), al tempo della relativa commissione, nel senso che la
conoscibilità del divieto rende responsabile il cittadino. Però tale argomentazione sembra spostare la rilevanza del mutamento giurisprudenziale, dal piano della
legalità, a quello della personalità, nella sua concezione normo-costituzionale217
disegnata anche sulla storica sentenza della Corte romana n. 364 del 1988, con
particolare riferimento ai rapporti tra Stato e cittadino e l’inquadramento della
giustizia penale all’interno di un prisma di doveri costituzionali, gravanti sullo
Stato e sul cittadino, reciproci e istituzionali218.
215. Calamandrei, Elogio dei giudici scritto da un avvocato, IX Ristampa, Milano, 2012, 11, in cui
l’A. deinisce il giudice come «il diritto fatto uomo».
216. Canestrari, Cornacchia, De Simone, Manuale di diritto penale, cit., 626.
217. Canestrari, Cornacchia, De Simone, Manuale di diritto penale, cit., 192.
218. Canestrari, Cornacchia, De Simone, Manuale di diritto penale, cit., 192, secondo cui vi
sono, da un lato, i doveri dello Stato (principio di legalità in tutte le sue dimensioni), il cui rispetto
legittima la minaccia della pena. Dall’altro, i doveri del cittadino (doveri solidaristici e strumentali
di informazione, di acquisire conoscenza dei valori dell’ordinamento), volti a potersi orientare in
modo responsabile.
98
legalità
In quest’ottica, dunque, appare evidente la rilevanza del mutamento giurisprudenziale nell’applicazione della legge penale, in quanto la consolidata giurisprudenza che concretizza il precetto legislativo nell’alveo fenomenico, necessariamente orienta i comportamenti dei cittadini, guida le loro scelte, ammette o
esclude il rimprovero penale.
Del resto, secondo la topica giuridica o teoria dell’argomentazione219, costola
del consensualismo220, il giudice, per decidere il caso concreto, mette mano agli
argomenti disponibili (topoi), tra opinioni dottrinali, precedenti giurisprudenziali,
disposizioni legislative, per raggiungere una soluzione più condivisibile, non solo,
per le parti, ma soprattutto per l’opinione pubblica, in un contesto democratico
come indicato dalla stessa Corte costituzionale (n. 230 del 2012). La legge, dunque,
costituisce uno degli argomenti considerati dal giudice nel formulare la regola di
diritto da applicare al caso concreto. Senza giungere al limite propugnato da tale teoria della critica al normativismo, che troverebbe un insormontabile ostacolo (per
il nostro ordinamento) nelle previsioni fondamentali di cui agli artt. 25, co. 2, e 101
Cost., è indubbio che la legge, nella concreta punizione del comportamento del
cittadino, costituisce un argomento necessario e propedeutico al pronunciamento
di colpevolezza (o meno) del giudice, che, per giungere alla decisione, fa leva su
altri argomenti inalizzati alla condivisione della punizione o assoluzione221.
La motivazione del provvedimento giudiziale, il controllo di tale motivazione
da parte del giudice superiore, ino a quello di mera legittimità, il processo pubblico, sono sintomatici della necessità di consenso del giudizio di colpevolezza (o
di assoluzione). Necessità di consenso che esprime almeno uno dei caratteri della
democrazia. In questo senso, il diritto giudiziario, utilizzando nella formulazione
della regola da applicare al caso concreto il topoi legislativo, e ricercando il consenso nella decisione adottata, è democratico222.
219. Opere classiche di orientamento topico, cfr. Viehweg, Topik und Jerisprudenz, 1953; Esser,
Grundsatz und Norm in der rechtlichen Fortbildung des Privatrechts, 1956.
220. Il consensualismo ha avuto un impatto maggiore nella teoria della legittimazione politica
e giuridica, cfr. Habermass, Vorstudien und Erganzungen zueiner Theorie des kommunikativen Handelns, Frankfurt am Main, 1984, secondo cui il consenso ideale si raggiunge attraverso un ipotetico
dialogo di tutti con tutti, libero da dominio; Rawls, A theory of justice, Oxford, 1972, secondo cui
il consenso si raggiunge attraverso un’ipotetica negoziazione in condizioni di uguaglianza delle
opportunità.
221. Hespanha, Introduzione alla storia del diritto europeo, cit., 304-305, secondo cui «la topica
sembra rappresentare una prospettiva abbastanza adeguata per analizzare la funzione odierna del
giudicare, in cui il giudice dipende, per dovere d’uicio e per condizione professionale, dai criteri
di valutazione dello Stato espressi nella legge, ma non meno dall’inluenza e dal controllo dell’opinione pubblica, potenziati dai media. Da un lato egli è oggetto delle molteplici inluenze valutative
provenienti dalla società (da una società pluralista e comunicativa). Dall’altro, la sua visibilità mediatica lo assoggetta alle reazioni dell’opinione pubblica alle sue decisioni».
222. Su tale aspetto si tornerà più avanti dopo aver esaminato, in maniera più approfondita,
99
i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
Da ciò, non può non avere alcuna rilevanza il revirement giurisprudenziale in
malam partem. Certamente non è colpevole il cittadino che orienti i propri comportamenti conformemente al diritto vivente, ovvero all’interpretazione consolidata della legge penale nel momento storico in cui il fatto è stato commesso.
La nuova interpretazione giurisprudenziale, seppur facendo leva sulla stessa formulazione della legge, ha necessariamente preso in considerazione altri argomenti, nuovi o modiicati, secondo la connaturata evoluzione socio-culturale,
non conoscibili dal cittadino, all’epoca del fatto. Pertanto, l’overrulling non può
essere applicato nel caso concreto realizzato prima del nuovo orientamento giurisprudenziale.
A questo punto, si può giungere ad una rilessione riepilogativa.
Il mutamento giurisprudenziale, dunque, più che incidere sulla legalità, si
appunta sulla colpevolezza, che è il giudizio storico sul comportamento tenuto
dal reo, che nonostante la legge posta così come letta dalla giurisprudenza, si è
comunque determinato a violare il precetto (vivente) punitivo. Pertanto, il mutamento giurisprudenziale in malam partem, intervenuto dopo la commissione
del fatto, determina (anzi, impone) il proscioglimento del reo perché il fatto non
costituiva reato (assenza di colpevolezza). Ugualmente, il revirement giurisprudenziale in bonam partem, intervenuto sempre dopo la commissione del fatto, determina il proscioglimento del reo perché il fatto non costituisce reato.
Successivamente al giudicato, il mutamento giurisprudenziale, sia in malam,
che in bonam partem, non può determinare la revisione del processo (rectius, del
giudizio di colpevolezza). Agevolmente per il revirement in malam partem, stante
il principio del ne bis in idem (prioritariamente). Mentre per il mutamento benigno, non solo, in virtù del principio di intangibilità del giudicato di colpevolezza,
limite europeo anche al principio di reatroattività in mitius, ma soprattutto per la
necessità democratica per cui la cessazione degli efetti penali della condanna necessiti di una chiara espressione legislativa parlamentare, che stigmatizzi la modiica socio-culturale dell’attribuzione di un certo disvalore ad un determinato
comportamento (eventualmente già anticipato dalla giurisprudenza), argomentando dalla necessità dell’intervento parlamentare per i più ampi provvedimenti
di clemenza (amnistia ed indulto).
La legge parlamentare è, dunque, prologo del giudizio di colpevolezza e,
necessariamente, epilogo dello stesso, nel senso che non vi può essere alcuna
pronuncia giudiziale di condanna senza la legge penale (nullum iudicium sine lege)
ed, inversamente, non vi può essere alcuna pronuncia di cessazione degli efetti
penali di una condanna senza la legge che ammetta la revisione (in senso lato)
la legittimazione del giudice comune alla disapplicazione della norma interna in contrasto con
quella europea.
100
legalità
del giudizio di colpevolezza (non abolitio sine lege). Per il momento arrestiamo qui
ogni ulteriore rilessione, rimandandola a dopo aver analizzato i limiti imposti
all’interpretazione giurisprudenziale delle norme penali interne in relazione al
diritto europeo.
Altra rilessione riguarda il ruolo dei Tribunali costituzionali nazionali rispetto
all’impetuosa giurisprudenza europea, che spesso supera le letture interpretative oferte dai giudici domestici. Tale efetto, che come si vedrà, è recentemente
giunto al (prevedibile) epilogo223, è dovuto all’evidente circostanza che le Corti europee si collocano in una posizione estranea al circuito della divisione dei poteri,
così da non essere vincolate al limite derivante dal rispetto delle diverse funzioni
statuali tradizionali (legislativa, esecutiva e giudiziaria). Collocazione che, come
in più occasioni evidenziato, è riiutata dai Tribunali costituzionali nazionali, sulla
scorta della riconosciuta supremazia della discrezionalità (ragionevole) del legislatore democratico. Il difetto della riserva di democraticità del principio di legalità
europeo consente alla giurisprudenza europea (soprattutto, convenzionale) di ius
dare, come necessaria interprete dei cambiamenti socio-culturali, in mancanza di
un organo democratico che rappresenti le mutate (e mutevoli) esigenze della collettività. Efetto che si evidenzia anche a livello unionista europeo, come visto,
laddove il Trattato di Lisbona (per ciò che interessa l’indagine preposta, ma anche
in altri settori) ha positivizzato la giurisprudenza della Corte di Giustizia circa la
competenza penale mediata (obblighi di penalizzazione e obblighi di risultato). La
mancanza di un legislatore (convenzione europea) o la presenza di un legislatore
democraticamente debole ammette la supplenza della giurisprudenza nell’opera
di aggiornamento e/o evoluzione del diritto. Ed è qui la soferenza vissuta dai
Tribunali costituzionali nazionali, rispetto all’invadenza delle Corti europee: i Tribunali costituzionali, infatti, sono organi di controllo degli atti dei poteri statuali, a
cui sono istituzionalmente devoluti i poteri di amministrazione ed adeguamento
delle esigenze collettive, con l’efetto di abiurare la supplenza, non solo, dei Tribunali costituzionali, ma anche di un potere sull’altro224.
Tale problematica è ancora più vivida ove si consideri la tendenza del giudice
comune ad utilizzare la giurisprudenza europea come un argomento centrale
delle proprie decisioni, saltando il giudice costituzionale, con l’evidente efetto
che azzerando la distinzione tra giudice domestico comune e giudice europeo,
223. Infra § IV.2.
224. Il conlitto tra il potere giudiziario e quello politico (in genere), che è vissuto in Italia, è
iglio del deicit di interpretazione e rappresentazione delle esigenze collettive da parte del mondo politico. La supplenza dei giudici è frutto della crisi di rappresentatività politica e, dunque, di
debolezza del Parlamento. In dottrina, da ultimo, cfr. Tega, I diritti in crisi, cit., 28 ss., secondo cui
«l’internazionalizzazione del diritto costituzionale pare anche essere uno dei fattori di erosione
della separazione tra diritto legislativo e diritto giudiziario».
101
i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
in una prospettiva di pluralismo giuridico, si indebolisce l’idea di democrazia225,
poiché, come già detto, le Corti sovranazionali sono prive di legittimazione democratica, riconosciuta ai giudici nazionali dalla stessa comunità politica di relativa espressione ed appartenenza. Questo ruolo del giudice domestico pone in
seria crisi l’idea di sovranità nazionale e la stessa separazione dei poteri226, ancora
più evidente nell’ipotesi di incontrollato utilizzo della c.d. interpretazione conforme, su cui si dirà a breve.
IV.2. Il conlitto tra norma europea e norma interna: il primato del diritto europeo e
l’europeizzazione dei controlimiti. I principi identitari e strutturali costituzionali come
parametri dell’esclusivo sindacato di legittimità del diritto europeo da parte della Corte
di Lussemburgo. Dalla coordinazione di sistemi autonomi e diversi al sistema sinergico
unico e generale. Difusamente, nelle pagine che precedono, si è accennato al primato del diritto europeo su quello interno nazionale e, nell’ipotesi di conlitto, la
necessità di disapplicare la norma interna in favore di quella comunitaria. Dopo,
dunque, aver appuntato l’attenzione sulle ipotesi di conlitto (radicale), è ora il
momento di afrontare, seppur nei limiti del tema d’indagine, le ragioni della
necessaria supremazia comunitaria e la sua efettiva implementazione nell’ordinamento nazionale, attraverso la disapplicazione o inapplicazione della norma
interna in conlitto. Con sviluppi inaspettati.
Il diritto comunitario, in sé, tende al ravvicinamento e all’uniicazione dei diritti nazionali, al ine di consentirne la coesistenza tramite un’esigenza di compatibilità secondo una logica di equivalenza (e non di uniformazione) determinata
in sede europea, a cui le regole nazionali devono tendere (standards normativi
europei)227, non potendo, dunque, ammettere che esistano norme nazionali in
grado di resistere alla primauté comunitaria.
Tale riconosciuta caratteristica del diritto europeo è stata elaborata dalla Corte di Giustizia delle Comunità Europee, sin da quando la Comunità ha iniziato a
muovere i primi passi, sulla base di una necessità, che si può deinire, esistenziale
225. Tega, I diritti in crisi, cit., 38, con richiamo al dibattito sulla giuridiicazione nei sistemi di
common law.
226. Tega, I diritti in crisi, cit., 32, la quale evidenzia che «se la costruzione tradizionale di Stato, secondo il c.d. modello Westfalia, è basata sulla nozione di sovranità che si organizza attraverso
il criterio gerarchico in primis ponendo al centro e a chiusura del sistema una Corte costituzionale
o il Parlamento, al contrario, il sistema pluralista sembra fondarsi su una sorta di sovranità decentrata, dove i vari livelli di protezione dei diritti, tra loro disomogei data la diversità degli strumenti
apportati, sono ricondotti ad unum attraverso l’attività dei giudici (l’immagine è di Ost-van de
Kerchove, De la pyramide au réseau? Pour une théorie dialectique du droit, Bruxelles, 2002). In questa
prospettiva emergerebbe, attraverso la progressiva erosione dei dogmi della sovranità legislativa e
del controllo di costituzionalità una sorta di utopico cosmopolitismo giuridico».
227. Epidendio, Diritto comunitario e diritto penale interno, cit., 37, 38.
102
legalità
delle istituzioni comunitarie, ancorata all’esegesi della norma pattizia che regola
il sistema delle fonti normative europee (art. 288 TUE, già art. 249 TCE, già art.
189 TCE). Ed invero, i giudici europei228, nell’interpretazione di tale norma pattizia, hanno evidenziato che «cette disposition, qui n’est assortie d’aucune reserve, serait
sans portee si un etat pouvait unilateralement en annihiler les efets par un acte legislatif
opposable aux textes communautaires, in quanto le droit ne du traite ne pourrait don,
en raison de sa nature speciique originale, se voir judiciairement opposer un texte interne
quel qu’il soit, sans perdre son caractere communautaire ed sans que soit mise en cause la
la base juridique de la communaute elle-meme». Già in tale decisione emerge limpidamente che nessun tipo di atto nazionale, nemmeno di rango costituzionale, può
resistere al diritto comunitario. È un orientamento consolidato dei giudici europei a cui quelli costituzionali nazionali hanno resistito elaborando la c.d. teoria dei
controlimiti229, che, con acuta sintesi, è stata deinita come «il punto di cerniera e
di cesura allo stesso tempo tra i due ordinamenti»230, ovvero, rispettivamente, da
un lato, perché «volta a rivendicare la primazia dei principi supremi dell’ordine
costituzionale dello Stato, rendendoli impermeabili alla penetrazione comunitaria», dall’altro, perché la stessa «funge da inattiva valvola di sicurezza che, per il
solo fatto di essere presente, giustiica nel senso inverso una larga tolleranza delle
Costituzioni nazionali nei confronti della normativa dell’Unione, quand’anche
in conlitto con disposizioni superprimarie prive del carattere della supremazia,
e comunque non attinenti al nucleo essenziale dei diritti inviolabili dell’uomo».
228. Corte Giust. Com. Eur., 15 luglio 1964, C-6/64.
229. Su tale aspetto, la letteratura è molto ampia, Cartabia, Principi inviolabili ed integrazione
europea, Milano, 1995, 130 ss; Ruggeri, Trattato costituzionale, europeizzazione dei “controlimiti” e tecniche di risoluzione delle antinomie tra diritto comunitario e diritto interno (proili problematici), in www.
forumcostituzionale.it; Gambino, I diritti fondamentali dell’Unione europea fra “Trattati” (di Lisbona) e
Costituzione, in www.federalismi.it; Lupo, Pluralità delle fonti ed unitarietà dell’ordinamento, in Falletti,
Piccone (a cura di), Il nodo gordiano tra diritto nazionale e diritto europeo, Bari, 2012, 8; Villani, I “controlimiti” nei rapporti tra diritto comunitario e diritto italiano, Diritto comunitario e diritto interno, atti
del seminario svoltosi in Roma, Palazzo della Consulta, 20 aprile 2007, Milano 2008, 493; Tizzano,
Ancora sui rapporti tra Corti europee: principi comunitari e c.d. controlimiti costituzionali, in ibid., 479; Donati, Corte costituzionale, “controlimiti” e rinvio pregiudiziale ex art. 234 trattato CE, in ibid., 250; Onida,
Nuove prospettive per la giurisprudenza costituzionale in tema di applicazione del diritto comunitario, in
ibid., 66; Celotto, Groppi, Diritto UE e diritti nazionali: Primauté vs. controlimiti, in RIDPC, 2004, 1309;
Cardone, Diritti fondamentali (Tutela multilivello dei), in Enc. Dir. Ann. IV, 2011, 335 ss; Morbidelli,
Corte costituzionale e Corti europee: la tutela dei diritti (dal punto di vista della Corte del Lussemburgo), in
DPA, 2006, 332; Camerlengo, Contributo ad una teoria del diritto costituzionale cosmopolitico, Milano,
2007, 259 ss; Mangiameli, Unchangeable core elements of National constitutions and the processo of European integration. For the criticism to the theory of the “controlimiti” (counterlimits /Shranken-Shranken).
Elementi essenziali immutabili delle costituzioni nazionali e il processo di integrazione europe. Per una critica
alla teoria dei “controlimiti” (counterlimits /Shranken-Shranken), in Teoria del diritto e dello Stato, 2010, I,
68 ss.; Lamarque, Corte costituzionale e giudici nell’Italia repubblicana, Bari, 2012, 137 ss.
230. Bignami, I controlimiti nelle mani dei giudici comuni, in www.forumcostituzionale.it.
103
i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
È noto, comunque, che il controlimite non ha trovato alcuna applicazione
concreta, nonostante reiterate enunciazioni conformi ai precedenti sul piano teorico231, in quanto, in un contesto di progressiva apertura della Corte di Giustizia
alla tutela dei diritti dell’uomo, iltrata dalla ricezione delle tradizioni costituzionali
comuni degli Stati membri, l’ipotesi del controllo nazionale sull’atto comunitario
in termini di controlimite viene resa ulteriormente residuale dagli spazi di intervento preventivo con cui i giudici lussemburghesi, anche per mezzo del rinvio
pregiudiziale, possono disinnescare il potenziale conlitto, caso per caso232. L’abdicazione sostanziale del controllo di legittimità della norma europea in favore
della Corte lussemburghese è la ragione per cui si ritiene che proprio la teoria dei
controlimiti signiica il momento di cesura tra i due ordinamenti. E, dall’altro,
giustiica lo scetticismo maturato in dottrina su tale teoria, ino ad invocarne il
deinitivo superamento233 dovuto all’assorbimento dei controlimiti nel tessuto ordinamentale europeo, conseguente all’art. 4, § 2 TUE234, nella parte in cui vincola
l’Unione al rispetto delle identità nazionali degli Stati membri, insita nella loro
struttura fondamentale, politica e costituzionale. Identica funzione è stata riconosciuta anche alla clausola sul maggior livello di protezione dei diritti contenuta
nell’art. 53 Carta, che salvaguardia il più favorevole ambito applicativo delle libertà eventualmente vigente in seno, tra l’altro, alle Costituzioni degli Stati membri.
Si è parlato, dunque, di europeizzazione dei controlimiti235, nel senso che le previsioni fondamentali europee appena richiamate sottraggono ai tribunali costituzionali nazionali la tutela, non solo, dei diritti fondamentali dell’uomo, ma
anche dei principi inderogabili che caratterizzano l’identità nazionale, rispetto
alle norme europee, attribuendone la relativa tutela (ed individuazione) alla Corte di Giustizia. In altri termini, la norma europea (derivata) può essere sindacata unicamente innanzi alla Corte di Giustizia che avrà l’onere di veriicarne la
legittimità con il diritto unionista pattizio positivo, anche in relazione ai quei
principi che caratterizzano l’identità costituzionale interna, che, proprio in virtù di quanto previsto dagli artt. 4, § 2, 6 TUE e 67, co. 1, TFUE (per la materia
231. Sorrentino, Il diritto europeo nella giurisprudenza della Corte costituzionale: problemi e prospettive, in www.cortecostituzionale.it. Tra le pronunce della Corte, si vedano ad esempio, la sentenza
n. 169 del 1991 e l’ordinanza n. 454 del 2006.
232. Cartabia, La Corte costituzionale e il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia europea, in
Zanon (a cura di), Le Corti dell’integrazione europea e la Corte costituzionale italiana, Napoli, 2006, 99
ss., ed in particolare 120; Barbera, I (non ancora chiari) “vincoli” internazionali e comunitari nel primo
comma dell’art. 117 della Costituzione, in Diritto comunitario e diritto interno, Atti del Seminario, Roma,
Palazzo della Consulta, 20 aprile 2007, 107; Pace, La sentenza Granital, ventitré anni dopo, in ibid., 405
ss., ed in particolare 417; Caretti, Corte e rinvio pregiudiziale, in ibid., 142 ss.
233. Villani, I controlimiti nei rapporti tra diritto comunitario e diritto italiano, cit., 509 ss.
234. Ma anche gli artt. 6 TUE e 67, co. 1, TFUE.
235. Gambino, Identità costituzionali nazionali e primautè eurounitaria, in QC, 2012, XXXII, 9, 3.
104
legalità
penale, ad esempio), sono elevati a parametri di controllo della legittimità degli
atti europei. Da ciò, è stato osservato236 che la struttura di ogni Stato godrebbe
di una più intensa ed eicace tutela rispetto a qualche anno addietro e, dunque,
di una protezione raforzata, potendo l’eventuale atto lesivo essere riguardato da
una sentenza di annullamento della Corte di Lussemburgo.
La questione è stata afrontata expressis verbis dalla Corte di Giustizia in una
recente pronuncia237, almeno con riferimento alla tutela dei diritti.
Il Tribunal Constitucional spagnolo, con decisione del 9 giugno 2011, ha spiegato incidente pregiudiziale ai sensi dell’art. 267 TFUE, in relazione ad un procedimento in cui l’Audiencia Nacional aveva autorizzato la consegna di Stefano
Melloni alle autorità italiane ai ini dell’esecuzione di una sentenza di condanna
contumaciale inlittagli dal Tribunale di Ferrara. In particolare, la questione pregiudiziale verte sull’interpretazione, ed eventualmente sulla validità, dell’articolo 4-bis, § 1, della decisione-quadro 2002/584/GAI del Consiglio, del 13 giugno
2002, relativa al mandato d’arresto europeo e alle procedure di consegna tra Stati
membri, come modiicata dalla decisione-quadro 2009/299/GAI del Consiglio,
del 26 febbraio 2009 ed, in particolare, il Tribunal Constitucional invita la Corte a
valutare, se del caso, se uno Stato membro possa riiutarsi di eseguire un mandato
d’arresto europeo sulla base dell’art. 53 Carta a motivo della violazione dei diritti
fondamentali della persona in questione, garantiti dalla Costituzione nazionale.
I giudici costituzionali spagnoli hanno considerato l’interpretazione secondo
la quale l’art. 53 Carta autorizzerebbe in maniera generale uno Stato membro
ad applicare lo standard di protezione dei diritti fondamentali garantito dalla sua
Costituzione quando questo è più elevato di quello derivante dalla Carta e ad
opporlo all’applicazione di disposizioni di diritto dell’Unione. Una simile interpretazione permetterebbe, in particolare, a uno Stato membro di subordinare
l’esecuzione di un mandato d’arresto europeo emesso ai ini dell’esecuzione di
una decisione pronunciata in absentia a condizioni inalizzate ad evitare un’interpretazione limitativa dei diritti fondamentali riconosciuti dalla propria Costituzione o lesiva degli stessi, anche se l’applicazione di tali condizioni non fosse
autorizzata dall’articolo 4-bis, § 1, della decisione quadro 2002/584.
Le conclusioni rassegnate dall’Avvocato Generale (Bot) hanno, dapprima, evidenziato che se la clausola di salvaguardia del maggior livello di protezione del
diritto, prevista dall’art. 53 Carta, possa permettere l’applicazione del diritto nazionale a discapito della norma europea (come punto di equilibrio e standard di equivalenza), si arriverebbe al depotenziamento dell’art. 53 Carta in modo assoluto,
giacché esso viene ridotto a pleonastica garanzia circa la sopravvivenza delle liber-
236. Randazzo, I controlimiti al primato del diritto comunitario: un futuro non diverso dal presente?, cit.
237. Corte Giust. Un. Eur., Grande Sez., 26 febbraio 2013, C-399/11, Melloni c. Spagna.
105
i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
tà costituzionali nazionali, purché non ne venga alterato l’equilibrio comunitario
(punto 125). In secondo luogo, l’Avvocato Generale ha evidenziato la competenza
della Corte di Giustizia ad utilizzare le disposizioni fondanti l’identità costituzionale dello Stato membro per sindacare la norma europea (punti 140-142).
La Corte di Giustizia, in conformità a quanto sostenuto dall’Avvocato Generale, ha respinto l’impostazione del Tribunal spagnolo, poiché «lesiva del principio del primato del diritto dell’Unione, in quanto permetterebbe a uno Stato
membro di ostacolare l’applicazione di atti di diritto dell’Unione pienamente
conformi alla Carta, sulla base del rilievo che essi non rispetterebbero i diritti
fondamentali garantiti dalla Costituzione di tale Stato» e, seppur richiamando
la primautè comunitaria anche in relazione alle norme interne di rango costituzionale, si limita, però, ad afermare che se è vero che «l’articolo 53 della Carta
conferma che, quando un atto di diritto dell’Unione richiede misure nazionali di
attuazione, resta consentito alle autorità e ai giudici nazionali applicare gli standard nazionali di tutela dei diritti fondamentali», è anche vero, comunque, che
«tale applicazione non deve compromettere il livello di tutela previsto dalla Carta, come interpretata dalla Corte, né il primato, l’unità e l’efettività del diritto
dell’Unione». La lettura correttiva oferta dai giudici lussemburghesi dell’art. 53
Carta non è bilanciata dal principio della osservanza da parte dell’Unione stessa
dei principi di struttura degli ordinamenti di ciascun Stato membro e non solo
delle tradizioni costituzionali comuni (art. 4 TUE), ma appare evidente l’efetto
anche sul rapporto tra ordinamento comunitario ed ordinamento nazionale, che
si è già deinito, coordinato tra sistemi giuridici autonomi e diversi238.
A ben guardare, la coordinazione tra gli ordinamenti è divenuta sinergia con
l’avvento di un sistema generale, unico e complesso, di tutela dei diritti (e non
solo), già annunciato dai giudici comuni nazionali e stigmatizzato in una pronuncia della nostra Corte costituzionale (n. 264 del 2012), come già evidenziato.
Il sistema sinergico europeo poggia sugli artt. 4 e 6 TUE, ma anche sull’art. 67
TFUE, per la materia penale (e non solo), essendo capace di garantire il rispetto
dei diritti fondamentali della persona umana e quelli strutturali ed identitari di
ciascun Stato membro, da sé, senza il controllo particolare di ciascun Tribunale
costituzionale interno.
Il controllo sistemico dei diritti, che deve includere anche quello delle identità
nazionali, ofre una più penetrante tutela degli stessi, rispetto a quella che può
essere garantita a livello particolare, anche al ine di evitare un diverso grado di
tutela per ciascun cittadino europeo e, simmetricamente, garantire l’uguaglianza
fra i cittadini europei.
238. Sul punto, Avvocato Generale, in Conclusioni, punto 143, precisa che «la considerazione
degli elementi distintivi che caratterizzano gli ordinamenti giuridici nazionali fa parte dei principi
che devono guidare la costruzione di uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia».
106
legalità
La decisione della Corte di Giustizia che si commenta ha l’efetto immediato di
mettere ordine nel riparto sul sindacato di legittimità del diritto europeo: i Giudici
lussemburghesi hanno competenza esclusiva sul diritto europeo anche in relazione
alla compatibilità dello stesso con i principi che caratterizzano l’identità nazionale
di ciascun Stato membro, con l’efetto che alcuna norma comunitaria potrà essere sindacata innanzi alle Corti costituzionali nazionali, anche solo indirettamente,
con la veriica del rispetto dei controlimiti identitari e strutturali. I Tribunali costituzionali nazionali avranno competenza solo sul rispetto da parte delle norme interne della primautè delle norme europee non direttamente applicabili.
L’avocazione europea del controllo del rispetto comunitario delle identità
nazionali signiica il passo avviato dalla mera associazione tra Stati (Staatenverbund) alla stessa statalizzazione dell’Unione Europea, che garantisce così la tutela eurounionista alla diversità nazionale come aspetto che caratterizza la nuova
struttura unitaria. Un passo anticipato dai giudici centrali europei che pone non
pochi problemi rispetto all’assetto politico unionista che, come indicato anche
dal Bundesverfassungericht, nella più volte richiamata sentenza Lissabon, ha un grado di democrazia corrispondente allo stadio dell’integrazione, con l’efetto ovvio
che il passo anticipato dalla Corte europea verso la sinergia degli ordinamenti
pone non poche diicoltà sulla necessaria correlazione tra integrazione e livello
di democraticità delle istituzioni.
In altri termini, invero, si è già detto239 che il Parlamento europeo non ha
un’investitura democratica secondo il tradizionale criterio di rappresentatività,
poiché non è eletto secondo il principio dell’eguaglianza del voto di cittadini
costituenti un unico popolo europeo, ma dai popoli degli Stati membri secondo
un criterio di contingentamento dei seggi240. Da ciò, appare evidente che il principio della primautè comunitaria, ribadito dalla Corte di Giustizia nella pronuncia
in commento, anche sulle norme di rango costituzionale nazionale, portando
ad un controllo centralizzato della compatibilità delle norme europee derivate
rispetto anche ai principi strutturali e fondanti ciascun Stato membro, si spinge
ben oltre il livello di integrazione scritto nel Trattato di Lisbona, così evidenziandosi ancor di più il deicit democratico delle istituzioni comunitarie e la supremazia (supplente) della trainante giurisprudenza europea.
IV.3. L’inapplicazione della norma statuale penale in conlitto con quella europea. Un
esempio di rilesso in bonam partem: clandestinità e direttiva rimpatri. I giudici nazionali sono giudici europei, e, pertanto, garantiscono l’applicazione della norma europea in ciascun Stato membro e, nell’ipotesi di dubbio esegetico della
239. Cfr. infra, § II.2.
240. BVerfG,, cit., § 271.
107
i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
disposizione sovranazionale, sollevano la questione innanzi alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea (art. 267 TFUE), al ine di favorire l’interpretazione e,
dunque, applicazione uniforme del diritto comunitario.
Il rispetto della norma europea in conlitto con quella nazionale è assicurata
dall’inapplicazione di quella interna, purché la norma europea sia direttamente
applicabile o sia dotata di eicacia diretta241. Oltre alla diretta applicabilità, la norma europea non deve produrre efetti sfavorevoli per il reo (e, dunque, solo un
efetto in bonam partem), alla stregua della già evidenziata giurisprudenza Kolpinghuis Nijmegen (in base alla quale, come più volte ricordato, una direttiva non può,
di per sé sola, determinare o aggravare la responsabilità penale di chicchessia)242.
Un recente esempio di inapplicazione della norma penale per conlitto con
una direttiva europea, si è registrato nella vicenda del reato di cui all’art. 14, co.
5-ter e 5-quater, d.lgs. 286/1998, in cui la Corte di Giustizia243 ha statuito – in risposta ad un quesito pregiudiziale di interpretazione sottopostole dalla Corte
d’Appello di Trento244 – che «la direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio
16 dicembre 2008, 2008/115/CE, recante norme e procedure comuni applicabili
negli Stati membri al rimpatrio di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare, in particolare i suoi artt. 15 e 16, deve essere interpretata nel senso che
essa osta ad una normativa di uno Stato membro, come quella in discussione nel
procedimento principale, che preveda l’irrogazione della pena della reclusione al
cittadino di un paese terzo il cui soggiorno sia irregolare per la sola ragione che
questi, in violazione di un ordine di lasciare entro un determinato termine il territorio di tale Stato, permane in detto territorio senza giustiicato motivo. Una tale
pena – prosegue la Corte, facendo proprio un rilievo svolto sia dalla Commissione
241. Diversamente, il contrasto andrà sollevato innanzi alla Corte costituzionale ai sensi degli
artt. 11 e 117 Cost. e la norma europea non direttamente applicabile assumerà il ruolo di norma
interposta.
242. Cfr. infra, § III.3. Si è già osservato che, comunque, tale principio non può ritenersi applicabile anche in merito alla valutazione di compatibilità comunitaria di una norma penale più
favorevole, ma in contrasto con una direttiva direttamente applicabile, in quanto tale principio non
può costituire un ostacolo alla reviviscienza, limitatamente ai fatti realizzati sotto la sua vigenza, di
una normativa penale nazionale più severa abrogata o modiicata da successivi interventi normativi a carattere interno volti a prevedere una disciplina sanzionatoria comunitariamente inadeguata
per difetto o in aperto contrasto.
243. Corte Giust. Un. Eur., 28 aprile 2011, Hassen El Dridi, C-61/11 PPU.
244. La decisione trae origine dal caso di Hassen El Dridi, cittadino di un Paese terzo, detenuto in Italia in regime di custodia cautelare, nei confronti del quale è stata pronunciata in primo
grado dal Giudice monocratico di Trento la condanna ad un anno di reclusione, in applicazione
dell’art. 14, co. 5-ter, d.lgs. 286/1998. La disposizione, introdotta in Italia nel 2009, disciplina il caso
di illecito trattenimento nel territorio nazionale, senza giustiicato motivo, in violazione dell’ordine impartito dal Questore di lasciare lo Stato, prevedendo come pena la reclusione da uno a
quattro anni.
108
legalità
nelle proprie osservazioni sia dall’Avvocato Generale nelle conclusioni – rischierebbe addirittura di compromettere la realizzazione dell’obiettivo perseguito da
detta direttiva, inendo per ostacolare il conseguimento dell’obiettivo dell’allontanamento dello straniero, ritardando l’esecuzione del rimpatrio, cui lo Stato è
tenuto in forza della direttiva medesima» (§§ 58-59)245. In altri termini, secondo i
giudici lussemburghesi, gli Stati membri, al ine di dissuadere il soggiorno illegale
nel loro territorio, sono liberi di adottare misure anche penali, senza però pregiudicare la realizzazione degli obiettivi perseguiti dagli strumenti normativi europei, così da privare questi ultimi del loro efetto utile. La Corte ha utilizzato uno
strumento ermeneutico classico, la dottrina dell’efetto utile246, con il conseguente
allargamento della competenza europea, a fronte di una compressione delle competenze nazionali, ed in funzione espansiva alla tutela dei diritti247.
In conseguenza della declaratoria di incompatibilità comunitaria, i giudici comuni statali, dunque, non solo, hanno disapplicato la disposizione incriminatrice
in questione248, ma anche revocato249 le condanne già intervenute ai sensi dell’art.
673 c.p.p.250.
La stessa sorte ha subito la normativa francese in materia di immigrazione251.
245. Pugiotto, “Purché se ne vadano”. La tutela giurisdizionale (assente o carente) nei meccanismi
di allontanamento dello straniero, in www.associazionedeicostituzionalisti.it, annuario 2009. Lo Statuto
costituzionale del non cittadino, 2010, 333 ss.
246. L’efetto utile, quale fondamento ermeneutico dei rapporti tra Stato e Comunità, è stato
dapprima afermato con riferimento alle norme del Trattato, poi esteso ai regolamenti ed, inine,
seppur con notevoli problematiche, anche alle direttive. Dalla sistematica applicazione dell’efetto
utile è nato il più signiicativo istituto comunitario: l’eicacia diretta.
247. Cossiri, La repressione penale degli stranieri irregolari nella legislazione italiana all’esame delle
Corti costituzionale e di giustizia, in Quaderni costituzionali, 21 maggio 2011.
248. Trib. Bologna, 5 dicembre 2012; App. Palermo Sez. III, 26 ottobre 2012; Trib. Firenze Sez.
II, 4 ottobre 2012.
249. Cass. pen. Sez. I, 29 aprile 2011, n. 20130; Trib. Milano Sez. XI Ordinanza, 29 aprile 2011.
250. Per un approfondimento, Masera, Viganò, Addio Articolo 14, Considerazioni sulla sentenza
della Corte di giustizia Ue, 28 aprile 2011, El Dridi e sul suo impatto nell’ordinamento italiano, in www.
penalecontemporaneo.it; Id., Inottemperanza dello straniero all’ordine di allontanamento e diretta rimpatri
UE: scenari prossimi venturi per il giudice penale italiano, in Cass. pen., 2010, 1711 ss.
251. Corte Giust. Un. Eur., Grande Sez., 6 dicembre 2011, Achughbabian, C-329/11, si è pronunciata sul rinvio pregiudiziale con il quale la Corte d’appello di Parigi aveva sollevato la questione della compatibilità con la direttiva 2008/115/CE (c.d. direttiva rimpatri) dell’art. l. 621-1 del
Codice francese dell’ingresso e del soggiorno degli stranieri e del diritto d’asilo, ove è prevista la
pena di un anno di reclusione a carico dello straniero che sia entrato o soggiorni illegalmente in
Francia. La Corte, dopo avere dato conto della normativa comunitaria e francese rilevante per la
soluzione della questione, ribadisce il principio, già afermato nella sentenza El Dridi, per cui la
direttiva «non vieta che il diritto di uno Stato membro qualiichi il soggiorno irregolare alla stregua di un reato e preveda sanzioni penali per scoraggiare e reprimere la commissione di sifatta
infrazione (§ 28), fermo restando che Stati membri non possono applicare una normativa penale
tale da compromettere la realizzazione degli obiettivi perseguiti da tale direttiva e da privare così
109
i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
Ma non inisce qui.
Il legislatore italiano, con decreto-legge n. 89 del 23 giugno 2011, convertito nella legge n. 129 del 2 agosto 2011, ha modiicato in sanzione pecuniaria le
pene per i reati di cui agli artt. 14, co. 5-ter e 5-quater, d.lgs. 286/1998, alla stregua di quanto previsto dall’art. 10-bis d.lgs. 286/1998 (reato di clandestinità)252,
anch’esso punito con la sola pena pecuniaria. La ratio legislatoris è chiara: aggirare l’ostacolo dell’incompatibilità comunitaria. Ed in efetti, la Corte di Giustizia253, dapprima conferma la precedente giurisprudenza in materia di direttiva
rimpatri, evidenziando che l’art. 10-bis d.lgs. 286/1998 non rallenta, né ostacola
la procedura di rimpatrio dello straniero irregolare come disegnata dalla direttiva europea, come del resto evidenzia il co. 5 della norma in questione, il quale dispone che il giudice pronunci sentenza di non luogo a procedere allorché
durante il procedimento abbia notizia dell’avvenuta espulsione dello straniero.
Ad ogni modo, la Corte europea sottolinea che l’espulsione dello straniero irregolare può essere disposta anche dal giudice penale come sanzione sostitutiva
alla pena edittale, ma solo nelle ipotesi tassativamente indicate dall’art. 7, § 4,
Dir. 2008/115/CEE ed, in particolare, in caso di pericolo di fuga dello straniero
(§ 48). Altro limite correttivo alla norma penale nazionale imposto dai Giudici
europei riguarda la convertibilità della pena pecuniaria non eseguita254 in quella
della permanenza domiciliare. La Corte ribadisce che gli Stati membri sono tenuti ad eseguire con la massima celerità le decisioni di rimpatrio, se necessario
attraverso l’allontanamento coattivo degli stranieri non cooperanti. In linea di
principio, pertanto, l’esecuzione di una sanzione di conversione come la permanenza domiciliare255 risulta idonea a ostacolare l’esecuzione dell’allontanamento,
in particolare qualora la disciplina nazionale non preveda che l’esecuzione della
quest’ultima del suo efetto utile» (§ 33). Sulla base di questa premessa, la Corte ritiene che la possibilità di applicare una pena detentiva allo straniero nel corso della procedura di rimpatrio, in luogo
di applicare la misure coercitive previste dalla direttiva, che sono volte a superare gli ostacoli che
si frappongono all’esecuzione della decisione di rimpatrio, costituisca una violazione del principio
dell’efetto utile, comportando un ritardo nell’esecuzione del rimpatrio (§ 39).
252. Gatta, Il “reato di clandestinità” e la riformata disciplina penale dell’immigrazione, in Dir. pen.
proc., 2009, 1323 ss.
253. Corte Giust. Un. Eur., Sez. I, 6 dicembre 2012, Sagor, C-430/11.
254. Sull’inefettività della pena pecuniaria nell’ordinamento italiano, cfr. Dolcini, La pena
in Italia, ogi, tra diritto scritto e prassi applicativa, in Studi in onore di Giorgio Marinucci, vol. II, 1099;
Goisis, La pena pecuniaria. Un’indagine storica e comparata, Milano, 2008, 131.
255. Viganò, La Corte di giustizia UE su art. 10-bis t.u. Immigrazione e direttiva rimpatri, in www.
penalecontemporaneo.it, che, fra l’altro, evidenzia che, «sulla base del tasso di conversione stabilito
dall’art. 55 co. 6 d.lgs. 274/2000 – un giorno per ogni 25 euro di pena pecuniaria –, e tenendo conto
della misura minima dell’ammenda irrogabile per la contravvenzione in parola – 5.000 euro – la
permanenza domiciliare risulta necessariamente pari al massimo legale stabilito dallo stesso art. 55
co. 6, e cioè a 45 giorni, pari a 23 ine settimana».
110
legalità
permanenza domiciliare debba cessare a partire dal momento in cui sia possibile
realizzare l’allontanamento dello straniero (§ 45). Da ciò, appare evidente che il
reato di clandestinità non è incompatibile tout court con le disposizioni europee
di riferimento e, dunque, non andrà inapplicato256, anche se il Giudice di Pace
non potrà servirsi dell’art. 55 d.lgs. 274/2000 (conversione della pena pecuniaria
in permanenza domiciliare) e/o dell’art. 16 d.lgs. 286/1998 (espulsione come
sanzione sostitutiva), salve le ipotesi di cui all’art. 7, § 4, dir. 2008/115/CEE257.
IV.4. Le fonti europee non direttamente applicabili interferenti con il diritto penale statuale. Il conlitto tra la norma europea ad eicacia diretta e la norma penale, si è
visto, impone l’inapplicazione di quella nazionale.
Ad ogni modo, le norme comunitarie non direttamente applicabili258 possono
anche solo interferire con la norme penali interne attraverso (1) la tecnica della
assimilazione per cui le norme comunitarie espandono la portata punitiva della
norma penale nazionale e (2) quella della deinizione di elementi normativi della
disposizione penale interna259 o sua integrazione.
Ora, la tecnica della assimilazione consiste in un modello di normazione mediante rinvio, nel senso che le norme penali nazionali poste a tutela di dati interessi interni vengono estese dalla norma comunitaria a tutelare i corrispondenti
interessi comunitari. La combinazione della norma penale interna, con quella
europea, conigura una nuova fattispecie incriminatrice, con una struttura di
base identica a quella nazionale, ma con un oggetto di tutela allargato come voluto dalla norma comunitaria260. Così, esempliicando, l’agente sarà incriminato
per violazione della norma penale interna in combinato disposto con la legge di
ratiica ed esecuzione della norma comunitaria o quella derivata.
256. GdP Roma, 16 giugno 2011, Est. Chiassai; GdP Torino, 22 febbraio 2011, Est. Polotti di
Zumaglia; contra Cass. pen. Sez. I, 22 novembre 2011, n. 951, secondo cui: «La fattispecie contravvenzionale prevista dall’art. 10 bis del d.lgs. n. 286 del 1998, che punisce l’ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato, non viola la c.d. direttiva europea sui rimpatri (direttiva Commissione CEE 16 dicembre 2008, n. 2008/115/CE), non comportando alcun intralcio alla inalità primaria
perseguita dalla direttiva predetta di agevolare ed assecondare l’uscita dal territorio nazionale degli
stranieri extracomunitari privi di valido titolo di permanenza e non è in contrasto con l’art. 7, par.
1 della medesima, che, nel porre un termine compreso tra i 7 e 30 giorni per la partenza volontaria
del cittadino di paese terzo, non per questo trasforma da irregolare a regolare la permanenza dello
straniero nel territorio dello Stato».
257. Tanto è stato confermato anche da Corte Giust. Un. Eur., Sez. III, ord. 21 marzo 2013,
Mbaye, C-522/11.
258. A queste, comunque, devono assimilarsi, come si vedrà, le norme europee ad efetto
riduttivo del penalmente rilevante, come indicato da Sotis, Il diritto senza codice, cit., 230 ss., su cui
ampiamente infra § 10.1.
259. Vinciguerra, Diritto penale italiano, cit., 166.
260. Vinciguerra, Diritto penale italiano, cit., 167.
111
i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
Tale tecnica costituisce l’unico modello vigente di normativa penale diretta
dell’Unione Europea, a diferenza della competenza in materia penale riconosciuta dal Trattato che, come visto, è mediata o indiretta.
Viene utilizzata nella circoscritta area del segreto atomico261 e della giurisdizione comunitaria262.
Il modello della assimilazione è stato particolarmente criticato in dottrina
per violazione del principio di legalità, sotto il proilo della tassatività-determinatezza e, soprattutto, della riserva di legge. La determinatezza, come già detto,
costituisce un aspetto complementare del principio di legalità-tassatività263 ed impone al legislatore di costruire le fattispecie penali formulando in modo chiaro e
preciso gli elementi che le compongono.
Il rinvio da parte della norma comunitaria alla norma interna, soprattutto
laddove impone una soluzione interpretativa per l’individuazione della norma
penale applicabile all’ipotesi allargata, stride con tale aspetto della legalità sostanziale. Le ragioni di frizione con la dimensione della riserva di legge di cui all’art.
25, co. 2, Cost. appaiono evidenti. Comunque, l’espansione della rilevanza penale di un fatto attraverso la tecnica in esame può essere giustiicata, nell’alveo del
principio di legalità penale vigente nel nostro ordinamento, considerando che
il rinvio operato dalle norme dei trattati e dei protocolli è recepito attraverso la
legge di ratiica e l’ordine di esecuzione, così rispettandosi certamente la riserva
261. L’art. 194 Tratt. Euratom, dopo aver stabilito che i suoi funzionari, anche quando cessati
dai loro compiti, sono tenuti al segreto d’uicio nei confronti di qualsiasi persona non autorizzata,
aferma che «ogni Stato membro considera tutte le violazioni di tale obbligo come un attentato
ai suoi segreti protetti che, sia per il merito che per la competenza, sono soggetti alle disposizioni
della sua legislazione applicabile in materia di attentato alla sicurezza dello Stato ovvero di divulgazione del segreto professionale. Esso procede contro ogni autore di una violazione del genere
sottoposto alla sua giurisdizione, su istanza di qualsiasi Stato membro interessato o della Commissione». Con qualche incertezza, comunque, si considera che le norme penali interne che possono
tutelare l’interesse indicato nella norma comunitaria in questione sono gli artt. 261 (rivelazione di
segreti di stato), 262 (rivelazione di notizie di cui sia stata vietata la divulgazione), 326 (rivelazione
e utilizzazione di segreti di uicio) 622 (rivelazione di segreto professionale) e 623 (rivelazione di
segreti scientiici o industriali) c.p.
262. L’art. 30 dello Statuto della Corte di Giustizia dell’Unione Europea stabilisce che «ogni
Stato membro considera qualsiasi violazione dei giuramenti dei testimoni e dei periti alla stregua
del corrispondente reato commesso davanti a un tribunale nazionale giudicante in materia civile.
Su denuncia della Corte esso procede contro gli autori di tale reato davanti al giudice nazionale
competente». Le norme oggetto del rinvio sono certamente gli artt. 372 (falsa testimonianza) e 373
(falsa perizia o interpretazione) c.p.
263. Canestrari, Cornacchia, De Simone, Manuale di diritto penale, cit., 125 secondo cui «il
principio di determinatezza trova conforto nel tessuto di diverse disposizioni della Carta Fondamentale aventi ad oggetto il diritto di difesa, l’habeas corpus e le garanzie processuali dell’imputato
(artt. 13, co. 2, 24, co. 2 e 111 Cost.). La costituzionalizzazione del principio di determinatezza è
sotteso anche al principio del teleologismo rieducativo della pena di cui all’art. 27, co. 3, Cost.».
112
legalità
di legge in materia penale e cristallizzandosi il precetto penale con il sistema del
combinato disposto. La possibilità di un’assimilazione attraverso il regolamento,
che, come noto, ha diretta applicazione all’interno dell’ordinamento di ciascun
Stato membro, non si può ritenere un’ipotesi praticabile per le ragioni già evidenziate264, con l’efetto che un regolamento europeo che estenda la norma penale interna ad ipotesi in esso stabilite andrebbe annullato da parte della Corte di
Giustizia per violazione degli artt. 4, 6 TUE, 67 e 83 TFUE.
L’estensione della disposizione penale attraverso una direttiva, poi, troverebbe un limite nel principio giurisprudenziale per cui la direttiva, di per sé sola,
non può determinare o aggravare la responsabilità penale del cittadino, senza
una norma interna di recepimento, anche all’indomani dell’entrata in vigore del
Trattato di Lisbona, proprio perché, come visto, la competenza penale disegnata
dall’art. 83 TFUE è mediata essendo stato previsto il solo strumento della direttiva come legittima fonte del diritto penale europeo265.
L’interferenza della norma sovranazionale con quella interna, se non trova alcun ostacolo nell’ipotesi di efetti in bonam partem, diversamente deve registrarsi
nel caso di efetti pegiorativi della posizione del reo.
IV.5. La sistematica di Carlo Sotis. L’eurointegrazione ad efetti riduttivi e diretti. Secondo
l’attenta analisi di Carlo Sotis266, un ruolo primario, nella prospettiva dirimente le
problematiche dell’interferenza oggetto dell’indagine, è la distinzione, non solo,
tra efetti diretti ed indiretti della norma comunitaria, ma, anche, e forse soprattutto, proprio tra efetti riduttivi (o in bonam partem) ed espansivi (o in malam partem)
della stessa267, perché l’efetto in malam partem determina una presunzione relativa
264. Infra § I.3.
265. Sotis, Diritto comunitario e giudice penale, in CM, Rassegna Monotematica, 2008, 2, 27, osserva che «l’assimilazione conigura una tecnica di produzione normativa intrinsecamente analogica:
(a) una disposizione penale nazionale a tutela di determinati beni nazionali; (b) la regola di assimilazione che in posizione di norma superiore aferma l’identità di ratio tutelandi tra i beni tutelati
da quella disposizione e gli analoghi beni comunitari da essa non contemplati; (c) l’applicazione
di quella disposizione alla tutela dei beni comunitari allora costituirebbe proprio l’efetto tipico
dell’analogia. Il carattere intrinsecamente analogico dell’assimilazione comporta che la funzione
incriminatrice è esercitata proprio dalla disposizione contenente l’assimilazione. Questo comporta
che la questione della liceità dell’assimilazione – in termini simili a quanto avviene in prospettiva
esclusivamente nazionale con la distinzione tra fattispecie ad analogia esplicita e divieto di interpretazione analogica – si presenti al tempo stesso come (a) problema di tecnica di posizione di una
norma incriminatrice e (b) come criterio di applicazione delle norme incriminatrici poste. I due
proili sono intrecciati, ma è utile tenerli distinti».
266. Sotis, Il diritto senza codice, cit., 230 ss.
267. Sotis, Il diritto senza codice, cit., 230, utilizza le espressioni in questione in considerazione
degli efetti che la norma europea determina non per il reo (in bonam o in malam partem), ma sulla
norma interna (riduttivi o espansivi).
113
i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
di contrasto con il principio di legalità, che, dunque, impone all’interprete di valutare, di volta in volta, se efettivamente l’efetto interferente pregiudica.
Nell’ipotesi di norma comunitaria ad efetti riduttivi, la stessa sarebbe sempre
dotata di efetti diretti; diversamente, nel caso di norma ad efetti espansivi, la
stessa sarebbe certamente priva di efetti diretti. Da ciò, dunque, in caso di conlitto ad efetti riduttivi il giudice non deve mai rinviare alla Corte costituzionale,
mentre, nell’ipotesi di conlitti ad efetto espansivo invece deve rinviare alla Corte costituzionale.
Il contrasto della norma europea ad efetti riduttivi (e diretti) determina la
inapplicazione della disposizione interna (in ipotesi, anche solo un elemento di
fattispecie), senza però sostituirla e, dunque, la norma europea non diventa regola di giudizio, determinando solo, come detto, la non applicazione dell’intera norma, a cui consegue il proscioglimento dell’imputato, ai sensi dell’art. 129 c.p.p.,
immediato corollario attuativo dell’art. 27, co. 2, Cost., che costituisce la regola
(predeterminata) di giudizio, per la materia penale268. Secondo il Sotis, il parametro costituzionale appena richiamato serve a comprendere le ragioni che impongono la non applicazione dell’intera norma incriminatrice, pur se in contrasto
con un principio europeo (di per sé non chiaro e preciso), una volta concretizzato
dall’esegesi interpretativa della Corte di Giustizia, senza alcuna necessità dell’intervento del giudice costituzionale. Da ciò, la norma europea con efetti riduttivi
del penalmente rilevante ha una funzione meramente paralizzante, non anche di
disciplina, alla stregua della granitica giurisprudenza della Corte di Giustizia269 e,
dunque, tali norme hanno diretta eicacia270.
268. Sotis, Il diritto senza codice, cit., 234.
269. Corte Giust. Com. Eur., 5 febbraio 1963, C-26/62, Van Gend e Loos. In dottrina, le acute
osservazioni di Pocar, Diritto dell’Unione e della Comunità europea, IX ed., Milano, 2004, 291, secondo cui «l’efetto diretto della norma comunitaria non è una qualità intrinseca della norma stessa,
ma dipende dalla funzione che essa è chiamata a svolgere nel caso di specie, di volta in volta,
considerato».
270. Cass. pen., Sez. III, 16 maggio 2012 (ud. 8 febbraio 2012), n. 18767, Pres. De Maio, est.
Franco, imp. Ferraro, § 5, edita su www.penalecontemporaneo.it, con nota di Parodi, Viganò, Una
(problematica) sentenza della Cassazione in tema di raccolta abusiva di scommesse e di rapporti tra diritto
interno e diritto dell’Unione europea, in www.penalecontemporaneo.it, aferma che «la non applicazione
di una norma nazionale da parte del giudice è possibile soltanto allorché si sia in presenza di un
diretto contrasto tra una puntuale norma interna con un altrettanto puntuale precetto comunitario, che dovrebbe essere applicato al posto della norma interna incompatibile con esso. Situazione
questa che può veriicarsi, ad esempio, quando un principio generale posto dal Trattato CE sia
stato speciicato e concretizzato da una decisione della Corte di giustizia, assumendo così la norma
comunitaria carattere immediatamente precettivo, e dandosi pertanto luogo non ad un rapporto
di conformità-non conformità ma di applicabilità-non applicabilità, in quanto l’applicazione di una
norma esclude l’applicabilità dell’altra». Nel caso invece di una situazione di non conformità di una
norma nazionale con un principio generale del diritto comunitario, continua la Corte, il giudice
nazionale avrebbe anzitutto il dovere di tentare un’interpretazione conforme; laddove questa stra-
114
legalità
Una volta spiegata la diferenza tra regola e principio271, l’Autore svolge un’analitica classiicazione delle ipotesi di contrasto tra norma europea (regola o principio) ad efetti riduttivi e norma nazionale (regola o principio), che, in questa
sede, si cercherà di schematizzare, evidenziando, con lo stesso Sotis, che la classiicazione proposta non è la sola indicata dalla dottrina272, né rappresenta un
criterio alternativo agli altri individuati, ma, efettivamente, pare essere quello
più utile per la distinzione per tipo di azionabilità273. E così:
1. Contrasto tra norma nazionale e principio europeo: si tratta di un giudizio di bilanciamento tra gli interessi coinvolti ed, in particolare, di una valutazione
da si riveli impraticabile, egli sarebbe tenuto a sollevare questione pregiudiziale dinanzi alla Corte
di Giustizia, ovvero una questione di legittimità costituzionale della norma interna per violazione
dell’art. 117 co. 1 Cost. [così, Parodi, Viganò, op. cit.]: «non si tratterebbe, infatti, di “non applicare”
la norma italiana per applicare al suo posto la puntuale norma comunitaria incompatibile, bensì
in sostanza di, per così dire, “disapplicare” o “eliminare” la norma interna per la non conformità
con un principio generale dell’ordinamento comunitario, compito questo che però spetta esclusivamente alla Corte costituzionale, la cui sfera di attribuzioni verrebbe in pratica aggirata se si
ammettesse una sorta di controllo difuso di compatibilità comunitaria». Tali afermazioni della
Suprema Corte, seppur contrastanti con il granitico orientamento della Corte europea, ad ogni
modo, paiono ofrire un utile strumento per giungere ad una regola da applicare nell’ipotesi di
contrasto tra norma nazionale e principio europeo, non nel caso di norma incriminatrice, che andrà certamente inapplicata, ma in tutti gli altri casi. In queste ultime ipotesi il rinvio pregiudiziale
alla Corte di Giustizia, soluzione suggerita dalla Suprema Corte, potrebbe forse rappresentare una
valida alternativa, onde evitare che il singolo giudice sia chiamato a plasmare il principio UE in una
regola di dettaglio (così Zirulia S.).
271. Sotis, Il diritto senza codice, cit., 251, che richiamando la distinzione efettuata da Dworkin, Taking rights seriously. New impression with a reply to critics, Londra, 1977, 90 ss., trad. it., I diritti
presi sul serio, Bologna, 1982, 95, evidenzia che «le regole infatti sono norme già concretizzate di cui
vanno individuati i conini di applicazione secondo la logica del “o tutto o niente”. I principi invece
determinano sempre un giudizio di bilanciamento tra interessi coinvolti. Il gruppo più evidente e
importante di norme comunitarie interferenti in qualità di principio con le norme incriminatrici
nazionali è costituito dalle libertà fondamentali previste nel Trattato. I principi non si esauriscono
nelle sole libertà fondamentali europee, ma possono emergere senza coinvolgere una libertà fondamentale, segnatamente attraverso la lettura di norme di diritto comunitario primario e derivato
alla luce del principio di proporzione o del principio di non discriminazione. Questi metacriteri,
intervengono sistematicamente per valutare la compatibilità con le libertà comunitarie fondamentali della normativa (penale per quanto ci interessa) nazionale; ma essi, circolando in tutto l’ordinamento comunitario, possono intervenire e infatti intervengono per valutare la compatibilità anche
di altre norme comunitarie».
272. Fra i più signiicativi, Pedrazzi, L’inluenza della produzione giuridica della CEE sul diritto
penale italiano, ora in Pedrazzi, Diritto penale. Scritti, vol. 1, Milano, 2003, 462 ss.; G. Grasso, Comunità europee e diritto penale, Milano, 1989, 267 ss.; Mazzini, Prevalenza del diritto comunitario sul diritto
penale interno ed efetti nei confronti del reo, in DUE, 2000, 353; Riz, Diritto penale e diritto comunitario,
Padova, 1984, 206 ss; Epidendio, Diritto comunitario e diritto penale interno, cit. 238 ss. Per l’analisi
sintetica delle varie classiicazioni proposte, Sotis, Il diritto senza codice, cit., 263 ss., nonché nota
196, 285 ss.
273. Sotis, Il diritto senza codice, cit., 261.
115
i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
della limitazione nazionale al principio europeo, per cui, a determinate condizioni, è ammessa una deroga domestica allo stesso principio. L’intervento del
giudice europeo è caratterizzato dalla costante ricerca del punto di equilibrio
delle limitazioni nazionali alle libertà comunitarie, bilanciando i contrapposti interessi, ma anche veriicando necessità, proporzionalità ed adeguatezza
della soluzione derogatoria domestica. La competenza a dirimere tale contrasto spetta alla Corte di Giustizia che dovrà svolgere un c.d. pre-bilanciamento
in cui individuare il peso degli interessi in gioco, residuando, poi, al giudice
del rinvio di applicare quei pesi nel giudizio di bilanciamento vero e proprio
che solo lui potrebbe compiere, essendo l’unico competente a giudicare della validità della norma nazionale in conlitto con il principio comunitario274.
Emblematico della peculiare diicoltà di trovare un punto di equilibrio tra
competenza pregiudiziale della Corte lussemburghese e giudici nazionali è
stata la questione avente ad oggetto la compatibilità della normativa italiana
in materia di scommesse, e il relativo reato di raccolta di scommesse non
autorizzata (art. 4 l. 13 dicembre 1989 n. 401), con le libertà comunitarie di
stabilimento e di circolazione dei servizi, su cui i giudici di merito hanno a più
riprese rinviato pregiudizialmente la questione alla Corte di Giustizia275.
2. Contrasto tra norma nazionale e regola europea: la norma europea rappresenta
una regola di disciplina e, dunque, consente al giudice domestico di procedere
direttamente, non applicando la norma incriminatrice nazionale con essa in
contrasto. Il caso è semplice e l’intervento disapplicativo è lineare: si potrebbe
deinire come un contrasto diretto ad efetti disapplicativi immediati. Il più delle
volte, tuttavia, il diritto penale è posto in chiave di tutela di chiusura e sanzionatoria di singole discipline di settore. In questi casi, il contrasto tra norma
penale e norma europea si veriica nell’opposizione del precetto (contenuto
in una disciplina non penale) con la normativa comunitaria, con la conse274. Sotis, Il diritto senza codice, cit., 280.
275. Sotis, Diritto comunitario e giudice penale, cit., 20. Per un dettagliato aggiornamento della
vicenda prima dell’ultima pronuncia del Giudice europeo, cfr. Schiattone, Scommesse on line: normativa interna e libertà comunitarie in attesa della GUCE, in www.altalex.it; Galasso, Scommesse online:
libertà comunitarie ed esigenze nazionali di ordine pubblico, in www.altalex.it. L’ulteriore intervento
della Corte lussemburghese (Corte Giust. Un. Eur., Sez. IV, 16 febbraio 2012, C-72/10 e C-77/10,
Costa-Cifone, in www.penalecontemporaneo.it, con nota di Parodi, La Corte di giustizia UE dichiara,
una volta ancora, incompatibile con il diritto europeo la vigente disciplina italiana in materia di scommesse,
27 marzo 2012), ha confermato, fra l’altro, che «gli articoli 43 CE e 49 CE devono essere interpretati
nel senso che essi ostano a che vengano applicate sanzioni per l’esercizio di un’attività organizzata
di raccolta di scommesse senza concessione o senza autorizzazione di polizia nei confronti di persone legate ad un operatore che era stato escluso da una gara in violazione del diritto dell’Unione,
anche dopo la nuova gara destinata a rimediare a tale violazione, qualora quest’ultima gara e la
conseguente attribuzione di nuove concessioni non abbiano efettivamente rimediato all’illegittima esclusione di detto operatore dalla precedente gara».
116
legalità
guenza che tale incompatibilità si riverbera sulla previsione sanzionatoria a
copertura di quel precetto. Un esempio è costituito dalla vicenda del reato di
clandestinità ed il contrasto con la c.d. direttiva rimpatri276.
3. Sostituzione di regole europee integratrici (in senso neutro) ad efetto riduttivo:
premettendo che integrazione e sostituzione della norma integratrice sono fenomeni distinti ed in rapporto di genere a specie, il Sotis distingue l’ipotesi
dell’integrazione in senso neutro o ampio, da quella della sostituzione della norma integratrice o della norma extrapenale. Rispetto alla prima ipotesi, solo
le norme europee non integratrici del precetto non si pongono in contrasto
con la riserva di legge, consistendo in quelle norme richiamate dagli elementi normativi della fattispecie incriminatrice, con l’efetto che attribuire a tali
elementi il signiicato comunitario è perfettamente ammissibile, tanto nel caso
che la norma europea sia precedente, quanto in quello in cui sia successiva
alla norma incriminatrice domestica. Le norme comunitarie che integrano
il precetto, come in caso di norme deinitorie e di norme a rinvio esplicito, potranno essere validamente richiamate solo quando siano antecedenti alla disposizione penale, perché diversamente aggirerebbero il ruolo parlamentare
garantito dalla riserva di legge. Le ipotesi di sostituzione della norma integratrice sono quelle di più delicata soluzione, non tanto rispetto alla sostituzione
della norma comunitaria che modiica il signiicato da attribuire ad un elemento normativo della fattispecie domestica, quanto, piuttosto, in relazione
alla norme europee realmente integratrici. E qui il Sotis espone un’ulteriore distinzione tra successione di una norma comunitaria ad una nazionale e
quella tra norme europee, osservando, comunque, che gli efetti riduttivi o in
bonam partem, non svolgendo un esercizio della funzione incriminatrice, sono
sempre ammissibili, in virtù della primautè della norma comunitaria. Tutte le
ipotesi di efetti integratrici in malam partem sono, di contro, inammissibili277,
ad eccezione del caso di sostituzione della norma europea integratrice a contenuto tecnico, richiamata esplicitamente dalla norma incriminatrice nazionale (rinvio isso e non mobile)278, che non modiichi il criterio attraverso cui
esercitare la normazione tecnica, contenuto nella norma europea sostituita.
276. Su cui infra § IV.2.
277. Fra i tanti, con ampia indicazione bibliograica, Martufi, Eterointegrazione penale e norme
europee. Il caso della legislazione penale alimentare, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2012, 3, 700, osserva
che «consentire alla fattispecie di adeguarsi automaticamente alle prescrizioni europee di nuova
adozione signiicherebbe sottrarre al vaglio del legislatore nazionale la selezione delle condotte punibili, dato che per efetto dell’evoluzione normativa il precetto inirebbe per assumere dei proili
diversi da quelli originariamente contemplati dall’organo legislativo nazionale».
278. Per una approfondita analisi della giurisprudenza costituzionale in tema di norme penali
in bianco, cfr. Petitti (a cura di), Riserva di lege e norme penali in bianco, in www.cortecostituzionale.
it, Studi e ricerche, Documentazione, 7/2008.
117
i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
IV.5.1. (segue) L’interferenza ad efetti espansivi o in malam partem. I conlitti diadici
e l’interpretazione conforme: rinvio. I conlitti triadici e l’inadempimento sopravvenuto.
Rispetto all’interferenza della norma europea in pejus, il Sotis, innanzitutto, distingue l’ipotesi dei conlitti diadici (a due norme), con quella dei conlitti triadici
(a più norme).
La categoria degli efetti espansivi di una norma comunitaria su una norma
penale (conlitti diadici) si traduce in un’attribuzione di signiicato ad uno o più
elementi della fattispecie nazionale di per sé suscettibili di più interpretazioni e,
dunque, in un caso di interpretazione conforme del diritto interno a quello europeo.
Rinviando la relativa analisi al paragrafo successivo, in questa sede, sia consentito
evidenziare che il limite dell’interpretazione conforme ad efetti espansivi è certamente il divieto di analogia, che costituisce principio appartenente alle tradizioni
costituzionali comuni279, con l’efetto che l’interpretazione conforme nella materia
penale in malam partem è ammissibile nei limiti in cui, generalmente, è ammessa
l’interpretazione estensiva. Ma sul punto, come annunciato, si tornerà più avanti.
L’ipotesi di conlitti triadici, invece, secondo l’Autore, si rilette in un caso di
c.d. inadempimento sopravvenuto, in cui vi sono due norme nazionali: una prima,
conforme al diritto comunitario, ma sfavorevole; una seconda, contraria al diritto comunitario, ma favorevole. La conseguenza è che alla non applicazione
della norma nazionale favorevole, ma contraria al diritto comunitario, il fatto
verrebbe punito dall’altra norma nazionale, non certo dalla norma comunitaria.
Tale interferenza non entra in attrito con la riserva di legge, come nell’ipotesi
di conlitti diadici, ma con i principi di diritto penale intertemporale (divieto di
retroattività e obbligo di retroattività benigna)280 ed impone il rinvio della risoluzione alla Corte costituzionale.
Le ipotesi in commento sono state ampiamente analizzate in relazione alle
vicende del caso Berlusconi (falso in bilancio) e del caso Niselli (riiuti)281, con l’ef279. Corte Giust. Com. Eur., Sez. V, 7 gennaio 2004, C-58/02, Commissione c. Spagna, § 28,
in tema di conformità del diritto penale interno ad una direttiva comunitaria contenente un obbligo di penalizzazione, aferma che, «anche interpretando il diritto penale conformemente alla
direttiva, le lacune e le mancanze rilevate dalla Commissione non possono essere colmate senza
incorrere in violazioni dei principi di legalità e di certezza del diritto, i quali impediscono di punire
comportamenti che non siano chiaramente individuati ed espressamente qualiicati come infrazioni dal codice penale». Per un’analisi dell’enunciato, Sotis, Il diritto senza codice, cit., 291, 292.
280. Sotis, Diritto comunitario e giudice penale, cit., 28, invero, fa riferimento al solo divieto di
retroattività, ma con un evidente ripensamento rispetto a quanto indicato nel lavoro monograico,
Id., Il diritto senza codice, cit., 310, laddove l’A. evidenzia che «i conlitti triadici ad efetto espansivo
presuppongono una diformità al principio di legalità – sia nazionale che comunitario – segnatamente sub specie di presunzione di diformità alla riserva di legge». Anche se già l’A., seppur non
espressamente come nel successivo contributo, appunta l’attenzione sulle problematiche con il
sistema delle regole di diritto penale intertemporale.
281. Infra §§ III.1 e III.3.
118
legalità
fetto che, in questa sede, per evitare inutili ripetizioni, si presenta l’eicace ricostruzione per via deduttiva oferta dal Sotis.
Si è riferito che non è possibile considerare sullo stesso piano le decisioni della
Corte europea sui casi Niselli e Berlusconi, apparentemente antitetiche. Nel primo
caso, la nozione di riiuto, sin troppo generosa, era stata introdotta nella normativa nazionale senza alcuna modiica delle igure incriminatrici richiamanti, con
l’efetto che la nuova deinizione di riiuto andava ad incidere su un elemento
normativo delle fattispecie di riferimento, modiicando (restringendola) la relativa area di rilevanza penale. Nel caso Berlusconi, invece, il legislatore nazionale
aveva espunto dall’ordinamento la vecchia incriminazione, sostituendola con
un’altra strutturalmente diversa dalla prima. Le decisioni dei giudici europei si
pongono, dunque, in linea con la lettura dei giudici costituzionali, in relazione ai
limiti posti dalla riserva di legge statale in materia penale: è possibile il sindacato
sulla norma che si innesta nell’area delineata da una norma incriminatrice che
non viene espunta dall’ordinamento o modiicata; mentre tale sindacato è da
escludere nell’ipotesi in cui la novella legislativa va ad incidere sull’area di rilevanza penale come scelta di politica criminale (nel rispetto della riserva di legge).
Il Sotis agevola la veriica delle diferenze tra le vicende suddette, evidenziando quelli che sono gli aspetti comuni e quelli diversi. Innanzitutto, tali casi sono
uguali rispetto all’antinomia triadica, nel senso che vi è una norma comunitaria
obbligante (contenuta in una direttiva), una prima norma nazionale incriminatrice conforme all’obbligo comunitario ed, inine, una seconda norma nazionale
che, modiicando la prima norma incriminatrice, reca con sé il duplice efetto di
disattendere il vincolo comunitario e di restringere l’area penalmente rilevante282. Altro punto comune alle due vicende riguarda gli efetti della seconda norma nazionale che rende non punibili i fatti di causa. Di conseguenza, l’eventuale
accoglimento in entrambi i casi produce un obiettivo risultato in malam partem
nei confronti dell’imputato.
Le diferenze tra il caso Berlusconi e quello Niselli vengono selezionate dal Sotis rispetto alle caratteristiche (si può dire) proprie dell’antinomia triadica (l’Autore parla di peso speciico). Ed, invero, in relazione alla norma comunitaria, nel caso
Berlusconi, l’obbligo ivi previsto costituisce un principio comunitario (o standard
di adeguatezza), con l’efetto che, costituendo un giudizio di relazione e non di
disciplina, non può che ofrire un signiicato normativo dinamico e impreciso.
Nel caso Niselli, invece, l’obbligo espresso dalla norma comunitaria è una regola283, con l’efetto che l’interpretazione di una regola si può fare mantenendo sul282. Sotis, Diritto comunitario e giudice penale, cit., 28.
283. La nozione di riiuto ai sensi dell’art. 1, lett. a), co. 1, della direttiva 75/442, come modiicata dalla direttiva 91/156 e dalla decisione 96/350, comprende l’insieme dei residui di produzione
o di consumo che possono essere o sono riutilizzati in un ciclo di produzione o di consumo, vuoi
119
i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
lo sfondo la normativa nazionale e, poi, una regola ofre un signiicato normativo
più stabile e preciso di quanto possa ofrire uno standard di adeguatezza. Rispetto
alla prima norma nazionale, nel caso Berlusconi, la stessa non è in adempimento
diretto della direttiva comunitaria, poiché successive alla previsione nazionale.
Nel caso Niselli, invece, il delitto di traico illecito di riiuti previsto dall’art. 51
d.lgs. 22/1997 e la deinizione di riiuto contenuto nell’art. 6 dello stesso decreto sono espressamente in attuazione degli obblighi comunitari contenuti dalla
normativa europea in materia di riiuti. In ordine, inine, alla seconda norma nazionale e, dunque, in relazione alle diferenze per quanto riguarda il tipo di inadempimento, il Sotis osserva che, nel caso Berlusconi, la norma (incriminatrice)
in inadempimento del 2002 abroga e si sostituisce alla norma incriminatrice in
attuazione del 1942; di conseguenza la non applicazione della norma illegittima del 2002 e l’applicazione della norma del 1942 costituiscono due operazioni
concettualmente distinte (efetto di reviviscenza della norma originaria in caso
di non applicazione della normativa modiicatrice/abrogatrice successiva). Nel
caso Niselli, di contro, la norma (interpretativa) in inadempimento del 2002 rideinisce la norma incriminatrice in attuazione del 1997, senza tuttavia abrogarla;
di conseguenza, è paciico che la non applicazione della norma interpretativa
illegittima del 2002 comporti automaticamente l’applicazione della norma incriminatrice del 1997 (immediata riespansione della norma originaria in caso di non
applicazione della norma interpretativa successiva)284.
L’analisi delle diferenze, dunque, consente di individuare le diversità di giudizio tra i due casi presi in esame e, pertanto, la determinazione delle ipotesi giustiziabili, ovvero quelle in cui il parametro normativo europeo di riferimento costituisce una regola ed, in particolare, nei casi in cui la prima norma penale nazionale
sia in attuazione espressa e la seconda norma nazionale sia compresente285.
IV.6. L’interpretazione conforme. L’interferenza della normativa comunitaria può
aversi anche solo a livello interpretativo, con l’esegesi della norma interna in
maniera conforme a quella europea286, ovvero assegnando alla stessa (o ad un
suo elemento) il signiicato deinito dalla norma sovranazionale, alla stregua di
processi logici analoghi a quelli impiegati nell’interpretazione conforme alla Co-
in assenza di trattamento preventivo e senza arrecare danni all’ambiente, vuoi previo trattamento,
ma senza che occorra tuttavia un’operazione di recupero ai sensi dell’allegato II B di tale direttiva.
284. Così letteralmente, Sotis, Diritto comunitario e giudice penale, cit., 29.
285. Per una tabella sinottica, cfr. Sotis, Diritto comunitario e giudice penale, cit., 37 ss.
286. Da ultimo, con un afresco della funzione dell’interpretazione conforme eurounitaria nel
percorso di costituzionalizzazione dell’Unione Europea, cfr. Bernardi, Interpretazione conforme al
diritto UE e costituzionalizzazione dell’Unione Europea. Brevi rilessioni di un penalista, in Dir. pen. cont.
- Riv. trim., 2013, 3, 230 ss., con ampi richiami bibliograici.
120
legalità
stituzione287. Altra ipotesi più problematica è quella di un’esegesi conforme che
vada a manipolare la norma interna288, se non addirittura la disposizione289.
L’attività ermeneutica del giudice domestico, volta ad adeguare la norma interna, nella sua applicazione concreta, alla norma comunitaria di riferimento, in
adempimento dell’obbligo di fedeltà e leale cooperazione, alla stregua della giurisprudenza lussemburghese290 delinea una tecnica di armonizzazione indiretta
287. Sulle diferenze con l’interpretazione orientata a Costituzione, cfr. Gaeta, Dell’interpretazione conforme alla C.E.D.U.: ovvero, la ricombinazione genica del processo penale, in www.penalecontemporaneo.it; Mannella, Giudici comuni e applicazione della Costituzione, Roma, 2011, 135 ss., 161
ss.; in tema di interpretazione conforme, cfr. Campanelli, Interpretazione conforme alla CEDU e al
diritto comunitario: proporzionalità e adeguatezza in materia penale, in D’Amico, Randazzo (a cura di),
Interpretazione conforme e tecniche argomentative, Torino, 2009, 139 ss.; Di Giovine, L’interpretazione
nel diritto penale, Milano, 2006; Vogliotti, Dove passa il conine? Sul divieto di analogia in diritto penale,
Torino, 2011; Sotis, Le regole dell’incoerenza, cit., 43, con ampi richiami bibliograici.
288. Corte Giust. Un. Eur., Grande Sez., 16 giugno 2005, C-105/03, Pupino, in Cass. pen., 2005,
3167 ss., con nota di Manes, L’incidenza delle “decisioni-quadro” sull’interpretazione in materia penale:
proili di diritto sostanziale (ibid., 2006, 1150 ss.) e di Aprile, I rapporti tra diritto processuale penale
e diritto dell’Unione europea, dopo la sentenza della Corte di giustizia sul caso “Pupino” in materia di
incidente probatorio (ibid., 1174 ss.); in FI, 2006, 595 ss., con nota di Armone, La Corte di giustizia e il
terzo pilastro dell’Unione europea; in DPCE, 2005, 1988 ss., con nota di Favale, Possibile eicacia diretta
delle decisioni-quadro nell’ambito della politica di cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale;
sulla decisione, cfr. in dottrina, fra i tanti, Viganò, Il giudice penale e l’interpretazione conforme alle
norme sovranazionali, in Corso, Zanetti (a cura di), Studi in onore di Mario Pisani, 2010, II, 617 ss.;
Marchegiani, L’obbligo di interpretazione conforme alle decisioni quadro: considerazioni in margine alla
sentenza Pupino, in DUE, 2006, 563 ss.; Garditz, Gusy, Zur Wirkung europäischer Rahmenbeschlusse im
innerstaatlichen Recht, in GA, 2006, 225.
289. Sulla diferenza tra norma e disposizione, in materia penale, cfr. Donini, Europeismo giudiziario e scienza penale, Milano, 2011, 63 ss.
290. Da ultimo, Corte Giust. Un. Eur., Grande Sez., 5 ottobre 2004, C-397/01-C-403/01,
secondo cui (§§ 113-116), «nell’applicare il diritto interno, in particolare le disposizioni di una
normativa appositamente adottata al ine di attuare quanto prescritto da una direttiva, il giudice
nazionale deve interpretare il diritto nazionale per quanto possibile alla luce del testo e dello scopo della direttiva onde conseguire il risultato perseguito da quest’ultima e conformarsi pertanto
all’art. 249, terzo comma, CE (v. in questo senso, segnatamente, citate sentenze Von Colson et
Kamann, punto 26; Marleasing, punto 8, e Faccini Dori, punto 26; v. altresì sentenze 23 febbraio
1999, causa C-63/97, BMW, Racc. p. I-905, punto 22; 27 giugno 2000, cause riunite da C-240/98
a C-244/98, Océano Grupo Editorial e Salvat Editores, Racc. p. I-4941, punto 30, e 23 ottobre
2003, causa C-408/01, Adidas-Salomon e Adidas Benelux, Racc. p. I-12537, punto 21). L’esigenza
di un’interpretazione conforme del diritto nazionale è inerente al sistema del Trattato, in quanto
permette al giudice nazionale di assicurare, nel contesto delle sue competenze, la piena eicacia
delle norme comunitarie quando risolve la controversia ad esso sottoposta (v., in questo senso, sentenza 15 maggio 2003, causa C-160/01, Mau, Racc. p. I-4791, punto 34). Se è vero che il principio
di interpretazione conforme del diritto nazionale, così imposto dal diritto comunitario, riguarda in
primo luogo le norme interne introdotte per recepire la direttiva in questione, esso non si limita,
tuttavia, all’esegesi di tali norme, bensì esige che il giudice nazionale prenda in considerazione
tutto il diritto nazionale per valutare in quale misura possa essere applicato in modo tale da non
addivenire ad un risultato contrario a quello cui mira la direttiva (v., questo senso, sentenza Carbo-
121
i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
ma immediata (perché prescinde dall’intervento del legislatore)291. Tale tecnica
di armonizzazione si pone a metà strada tra la diretta applicazione della norma europea, con correlata inapplicazione di quella nazionale, e rinvio alla Corte
costituzionale, inalizzato all’annullamento della norma domestica in contrasto
con quella sovranazionale (non direttamente applicabile) che funge da norma
interposta secondo il parametro costituzionale di cui agli artt. 11 e 117 Cost.
Ora, l’interpretazione conforme in materia penale va contenuta nei conini delineati da alcuni limiti, ontologici e assiologici292. Il primo limite ontologico va
posto nella lettera della legge, ovvero che l’interprete deve rispettare l’univoco
tenore letterale o lessicale della disposizione, non potendosi ammettere un’attività ermeneutica che forzi il dato testuale con un esito interpretativo addirittura
contra legem, così trasformando, come acutamente osservato293, «l’interpretazione adeguatrice in normazione mascherata da parte del giudice comune, facendo in
realtà applicazione diretta della norma europea, aggirando il vaglio del giudice
costituzionale»294. Come già evidenziato, dunque, il limite ontologico dell’internari e a., cit., punti 49 e 50). A questo proposito, se il diritto nazionale, mediante l’applicazione di
metodi di interpretazione da esso riconosciuti, in determinate circostanze consente di interpretare
una norma dell’ordinamento giuridico interno in modo tale da evitare un conlitto con un’altra
norma di diritto interno o di ridurre a tale scopo la portata di quella norma applicandola solamente
nella misura compatibile con l’altra, il giudice ha l’obbligo di utilizzare gli stessi metodi al ine di
ottenere il risultato perseguito dalla direttiva».
291. Così letteralmente, Manes, Il giudice nel labirinto, cit., 70.
292. Viganò, Il giudice penale e l’interpretazione conforme, cit., 617 ss., 649 ss.; anche Manes,
Il giudice nel labirinto, cit., 56. In giurisprudenza, si segnala, da ultimo, Corte Giust. Un. Eur., 24
gennaio 2012, C-282/10, Maribel Dominguez, ove si ribadisce che «il principio di interpretazione
conforme esige inoltre che i giudici nazionali si adoperino al meglio nei limiti del loro potere,
prendendo in considerazione il diritto interno nel suo insieme ed applicando i metodi di interpretazione riconosciuti da quest’ultimo».
293. Manes, Il giudice nel labirinto, cit., 57.
294. Luciani, Le funzioni sistemiche della Corte costituzionale, ogi, e l’interpretazione conforme, in
www.federalismi.it; Manes, op. e loc. cit., nota 163, evidenzia, «come esempio di superamento del
limite ontologico imposto al giudice comune in tema di interpretazione conforme, la decisione della
Suprema Corte, Sez. III, 20 gennaio 2012, n. 4377, che – argomentando dal principio enunciato da
Corte cost. n. 265 del 2010 – ha ritenuto di poter correggere in via interpretativa la presunzione di
adeguatezza della custodia cautelare prevista, nel caso di specie, per il delitto di violenza sessuale
di gruppo (art. 609 octies c.p.), superando così – tuttavia – una chiara indicazione legislativa (art.
275 co. 3°, c.p.p.)», che, ad avviso dell’A., avrebbe dovuto essere sottoposta «al vaglio del giudice
delle leggi». Tali perplessità, ricorda l’A., «hanno trovato la condivisione della Corte costituzionale
nella sentenza n. 110 del 2012», la quale – confermando anche in relazione al reato di associazione
per delinquere inalizzata alla commissione dei reati di cui agli artt. 473 e 474 c.p. (contrafazione di
marchi o altri segni distintivi e importazione o detenzione a ini di commercio di cose recanti segni
contrafatti) in linea con le precedenti decisioni n. 265 del 2010, n. 164 del 2011, n. 231 del 2011 e
n. 331 del 2011 – ha rilevato tuttavia come «le parziali declaratorie di illegittimità della norma impugnata, aventi per esclusivo riferimento i reati oggetto delle precedenti pronunce di questa Corte,
non si possono estendere alle altre fattispecie criminose ivi disciplinate», precisando espressamente
122
legalità
pretazione conforme ad efetti espansivi è certamente il divieto di analogia, che costituisce principio appartenente alle tradizioni costituzionali comuni295, con l’effetto che l’interpretazione conforme nella materia penale in malam partem è ammissibile nei limiti in cui, generalmente, è ammessa l’interpretazione estensiva296.
I limiti assiologici dell’interpretazione conforme sono quelli più aferenti al sistema garantistico proprio della materia penale, con l’efetto che è costantemente afermata l’inammissibilità di un’esegesi in malam partem di una disposizione
domestica in contrasto con una norma sovranazionale e ciò, essenzialmente, da
un lato, perché gli Stati membri non hanno accettato alcuna limitazione di sovranità in materia penale, in quanto la relativa competenza europea è indiretta
e mediata, con l’efetto che l’inadempimento statale non può essere fatto valere
sul singolo cittadino e, dall’altro, perché la riserva di legge è garante della necessaria democraticità della norma penale, che, come evidenziato dal Tribunale di
Karlsruhe, non può essere assicurata dall’Unione Europea che ha un grado di
democrazia proporzionato al livello dell’integrazione politica297. E poi, è costantemente afermato, a livello europeo298, il principio per cui «una direttiva non
può avere come efetto, di per sé e indipendentemente da una legge interna di
uno Stato membro adottata per la sua attuazione, di determinare o aggravare la
responsabilità penale degli imputati», tradotto dalla Corte costituzionale, sottolineando come «l’eicacia diretta di una direttiva è ammessa solo se da essa derivi
un diritto riconosciuto al cittadino, azionabile nei confronti dello Stato inadempiente» e, parallelamente, evidenziando che «gli efetti diretti devono invece ritenersi esclusi se dall’applicazione della direttiva deriva una responsabilità penale».
Se tali principi sono valsi ad escludere (un tempo) che da una direttiva possa farsi
derivare l’efetto di neutralizzazione e di disapplicazione di una norma interna più favorevole299, oggi, non potrà non tenersi conto della c.d. europeizzazione
dei controlimiti e, dunque, della funzione armonizzante che ha assunto l’esegesi
giurisprudenziale, a discapito della riserva di legge nazionale in materia penale,
almeno nella sua illuministica formulazione.
che «la lettera della norma impugnata, il cui signiicato non può essere valicato neppure per mezzo
dell’interpretazione conforme, non consente in via interpretativa di conseguire l’efetto che solo
una pronuncia di illegittimità costituzionale può produrre». Sui i limiti ontologici dell’interpretazione conforme, cfr. anche Corte cost. n. 28 del 2010, § 4 Considerato in diritto; Corte cost. n. 196
del 2010; Corte cost. n. 227 del 2010.
295. Cfr. nota 269.
296. Canestrari, Cornacchia, De Simone, Manuale di diritto penale. Parte generale, cit., 134. Per
un’analisi delle criticità dell’interpretazione conforme in relazione ai limiti ontologici, cfr. Manes, Il
giudice nel labirinto, cit., 56 ss.
297. Sul punto ampiamente, infra §§ II.1 ss.
298. Infra § III.4.
299. Manes, Il giudice nel labirinto, cit., 59.
123
i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
Da ciò, è intuitiva l’importanza dei limiti all’interpretazione conforme comunitaria, ovvero alla discrezionalità (potere) del giudice comune di applicare
la norma domestica tenuto conto del diritto europeo (e sovranazionale), stigmatizzati dalla Corte lussemburghese300 nei «principi generali del diritto, che sono
parte del diritto comunitario, ed in particolare in quelli della certezza del diritto
e della irretroattività»301. L’interpretazione conforme in malam partem appare (an300. La più volte richiamata Corte Giust. Com. Eur., 8 ottobre 1987, C-80/86, Kolpighuis Nijmigen; Corte Giust. Com. Eur., 7 gennaio 2004, C-60/02, secondo cui: «L’obbligo di interpretazione
conforme del diritto nazionale, alla luce della lettera e dello scopo del diritto comunitario, onde
conseguire il risultato conseguito da quest’ultimo, non può, di per sé, indipendentemente da una
legge adottata da uno Stato membro, determinare o aggravare la responsabilità penale di un operatore che ha violato le prescrizioni di un regolamento comunitario. Infatti, il detto obbligo trova
i suoi limiti nei principi generali del diritto, che fanno parte integrante del diritto comunitario, e
segnatamente in quelli di certezza del diritto e di irretroattività. In particolare, il principio della
legalità delle pene, sancito dall’art. 7 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, e che è un
principio generale del diritto comunitario, comune alle tradizioni comuni agli Stati membri, vieta
di sanzionare penalmente un comportamento che non sia vietato da una norma nazionale, anche
nel caso in cui quest’ultima fosse contraria al diritto comunitario»; Corte Giust. Com. Eur., 16
giugno 2005, C-105/03, Pupino, §§ 44 e 45, secondo cui: «Occorre tuttavia rilevare che l’obbligo
per il giudice nazionale di far riferimento al contenuto di una decisione quadro quando interpreta
le norme pertinenti del suo diritto nazionale trova i suoi limiti nei principi generali del diritto, ed
in particolare in quelli di certezza del diritto e di non retroattività. Questi principi ostano in particolare a che il detto obbligo possa condurre a determinare o aggravare, sul fondamento di una
decisione quadro e indipendentemente da una legge adottata per l’attuazione di quest’ultima, la
responsabilità penale di coloro che agiscono in violazione delle sue disposizioni».
301. Tali limiti sono stati recentemente ribaditi da Corte Giust. Un. Eur., Sez. II, 28 giugno
2012, C-7/11, Caronna, §§ 51-56, in cui la Corte di Lussemburgo è stata investita di una questione
pregiudiziale ex art. 267 TFUE, con ordinanza dell’1 dicembre 2010, comunicata il 5 gennaio 2011,
dal Giudice delle indagini preliminari presso il Tribunale di Palermo. Il giudice nazionale era stato
chiamato a pronunciarsi in merito alla richiesta di archiviazione del Pubblico Ministero del locale
Tribunale avente ad oggetto la contestazione elevata dai Carabinieri al titolare di una farmacia,
di distribuzione di farmaci all’ingrosso senza autorizzazione e, dunque, in (apparente) violazione
dell’art. 147 d.lgs. 24 aprile 2006 n. 219, norma che, per l’appunto, reprime la distribuzione all’ingrosso dei medicinali, in mancanza di autorizzazione. Più segnatamente, il giudice nazionale, interrogava, con domanda di rinvio pregiudiziale, la Corte del Lussemburgo, perché valutasse se l’art.
77 della direttiva 2001/83/CE era da interpretarsi nel senso della esenzione dei farmacisti dall’obbligo di munirsi di tale autorizzazione e, più in generale, sulla corretta interpretazione da fornirsi
alla disciplina dell’autorizzazione medesima, come prevista dagli artt. 76-84 della direttiva, recepita
nell’ordinamento italiano con il d.lgs. 219/06. Il dubbio sull’applicabilità ai farmacisti della disciplina
in tema di autorizzazione alla distribuzione all’ingrosso dei medicinali scaturiva, nella ricostruzione
efettuata dal giudice remittente, dal considerando 36 della direttiva: in tale preambolo si pone in rilievo l’opportunità che i farmacisti siano dispensati dal richiedere alle Autorità nazionali la predetta
autorizzazione, a condizione che si muniscano di registri nei quali annotare le transazioni in entrata.
La Corte di Lussemburgo, dopo aver premesso che, allo stato, non sussiste un’armonizzazione a
livello comunitario delle discipline degli Stati membri in tema di commercio al pubblico di farmaci,
ha concluso per l’insussistenza di una deroga, in favore degli esercenti l’attività di vendita al dettaglio di farmaci, quanto alle prescrizioni previste dagli artt. 79-82 della direttiva. Disposizioni, queste
124
legalità
cora) assolutamente inammissibile, anche in relazione alle direttive penali di cui
all’art. 83 TFUE302.
IV.7. Epilogo. Il ruolo del giudice comune nell’applicazione della norma penale fra democrazia e primautè europea. Ipotesi di democratizzazione dell’amministrazione della
giustizia. Si può ricondurre all’illuminismo la propensione a coninare il potere giurisdizionale ad un ruolo ancillare rispetto alla supremazia del potere legislativo303, costituendo il primo un ramo della pubblica amministrazione, con
ultime, che si riferiscono all’utilizzo di locali ed installazioni idonee, di personale qualiicato, nonché
all’obbligo di peculiari oneri documentali. La Corte di Giustizia, poi, si preoccupa di ribadire (§§ 5156) che (§ 51) «occorre ricordare, come ha fatto giustamente la Commissione, che, benché i giudici
nazionali siano tenuti ad interpretare il diritto nazionale per quanto possibile alla luce del testo e della inalità di una direttiva al ine di conseguire il risultato da quest’ultima previsto e, quindi, di conformarsi all’articolo 288, terzo comma, TFUE, tale obbligo di interpretazione conforme è soggetto
ad alcuni limiti in materia penale. (§ 52) Infatti, come ha dichiarato la Corte, il principio d’interpretazione conforme trova i suoi limiti nei principi generali del diritto, che fanno parte integrante del
diritto dell’Unione, e, in particolare, in quelli di certezza del diritto e di irretroattività. Una direttiva
non può avere pertanto come efetto, di per sé e indipendentemente da una legge interna di uno
Stato membro adottata per la sua attuazione, di determinare o aggravare la responsabilità penale di
coloro che agiscono in violazione delle sue disposizioni (v., segnatamente, sentenza del 7 gennaio
2004, X, C-60/02, Racc. p. I-651, punto 61 e la giurisprudenza ivi citata). (§ 53) Nel caso di specie,
dalla decisione di rinvio emerge che la responsabilità penale del sig. Caronna trova il suo fondamento nella violazione descritta e disciplinata dall’articolo 147, paragrafo 4, del decreto 219/2006, letto
congiuntamente all’articolo 100, paragrai 1 e 1 bis, di detto decreto, mentre tale disposizione non
fa espresso riferimento ai farmacisti nonostante l’abolizione del divieto, nei riguardi di questi ultimi,
di esercitare l’attività di distribuzione all’ingrosso di medicinali. (§ 54) Tuttavia, non spetta alla Corte
ma esclusivamente al giudice nazionale pronunciarsi in merito all’interpretazione del diritto nazionale. (§ 55) Nell’ipotesi in cui il giudice del rinvio pervenga alla conclusione che il diritto nazionale
nella sua versione applicabile ai fatti di cui al procedimento principale, non imponeva ai farmacisti
un obbligo di munirsi di un’autorizzazione speciica per la distribuzione di medicinali all’ingrosso
e non conteneva alcuna espressa disposizione che prevedesse, con riferimento ai farmacisti, una responsabilità penale, il principio della legalità delle pene, quale consacrato dall’articolo 49, paragrafo
1, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, vieta di sanzionare penalmente un tale
comportamento, anche nel caso in cui la norma nazionale sia contraria al diritto dell’Unione (v., per
analogia, sentenza X, cit., punto 63). (§ 56) Pertanto, l’interpretazione della direttiva, come risulta ai
punti 41 e 50 della presente sentenza, non può, di per sé e indipendentemente da una legge adottata
da uno Stato membro, creare o aggravare la responsabilità penale di un farmacista che ha esercitato
l’attività di distribuzione all’ingrosso senza munirsi dell’autorizzazione ad essa correlata».
302. Manes, Il giudice nel labirinto, cit., 61.
303. Cavanna, Storia del diritto moderno in Europa. Le fonti ed il pensiero giuridico, Milano, 1982,
312, descrive il pensiero di Ludovico Antonio Muratori, tracciato nel libretto Dei difetti della giurisprudenza, pubblicato nel 1742, che stigmatizza la situazione giuridica del suo tempo, con una
giurisprudenza dottrinale e giudicante, amministratrice in realtà di ingiustizie. Muratori distingue
i difetti della giurisprudenza in intrinseci ed estrinseci. I difetti intrinseci sono ineliminabili ed essi
sono: (a) le norme giuridiche non possono essere mai essere chiare, tanto è vero che debbono
essere interpretate da sottili osservatori, con la conseguenza che il loro dettato è ancora più ade-
125
i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
giudici-funzionari ed un’organizzazione di tipo gerarchico, per gradi304, con loro
selezione attraverso il concorso pubblico ed assegnazione della sola funzione di
interpretare la legge, ovvero di sussumere il fatto concreto nella disposizione
posta dal legislatore democraticamente eletto.
Già con l’avvento della Costituzione repubblicana, il ruolo del giudice comune muta, in quanto è prevista una limitazione alle prerogative del legislatore di
porre norme regolanti i rapporti tra i cittadini ed tra i cittadini e lo Stato, attraverso i limiti sanciti dalla Costituzione, il cui rispetto è assicurato dal controllo
dei giudici comuni unitamente alla Corte costituzionale. Il costituzionalismo impone, dunque, una soggezione del legislatore alla Carta fondamentale ed impone, altresì, al giudice comune di interpretare la legge conformemente ai principi
costituzionali. Da ciò, già si incrina l’equilibrio illuministico della separazione dei
poteri, non tanto per il controllo di legittimità costituzionale a cui è sottoposto
il prodotto del legislatore, ma, in particolare, rispetto agli efetti che l’interpretazione costituzionalmente orientata ha sull’intangibilità dei contenuti della legge.
In materia penale, per ciò che ci interessa, il risultato dell’interpretazione
conforme va ad incidere sulla descrizione del fatto tipico, restringendone305 la
rilevanza penale, a discapito della volontà legislativa, ad onor del vero, non chiaramente delineata nella disposizione posta. I conini dell’ermeneutica sono così
superati, ino a coinvolgere quelli propri del potere normativo.
L’ermeneutica conforme al dettato costituzionale, a ben guardare, si sostanzia nella formulazione dal principio fondamentale, da parte del giudice comune,
di un limite (o, meglio, di una regola limitativa) alla legge e, successivamente, a
dare applicazione al combinato disposto della disposizione normativa con la regola limitativa di origine costituzionale, ma di formulazione giurisdizionale. La
partecipazione del giudice alla formulazione (e non solo all’applicazione) della
norma, appare, dunque, già evidente306.
guata; (b) ciascuna norma non può prevedere tutti i casi che la realtà concretamente presenta; (c)
gli uomini manifestano la propria volontà sempre in maniera diversa, con l’efetto che tale volontà
è sempre diicilmente interpretabile e, dunque, è origine di litigi; (d) il diritto vivente poggia
sull’opinione personale del giudice-uomo, inevitabilmente condizionata da passioni, sentimenti,
pregiudizi e debolezze. I difetti estrinseci possono essere eliminati, perché non dipendono dalla
natura del diritto, ma da comportamenti perfettibili degli operatori del diritto. Essi sono: (a) il
caos oceanico delle interpretazioni dottrinali e giudiziali che hanno sofocato il dettato legislativo,
addirittura, sostituendosi a quest’ultimo; (b) l’applicazione giudiziale del diritto è arbitraria, poiché
il giudice è libero nello scegliere a quale opinione interpretativa aderire. I difetti della giurisprudenza, descritti dal Muratori nella metà del XVIII secolo, mutatis mutandis, non sono molto diversi da
quelli che oggi si addebitano alla magistratura.
304. Romboli, Il ruolo del giudice in rapporto all’evoluzione del sistema delle fonti ed alla disciplina
dell’ordinamento giudiziario, in www.associazionecostituzionalisti.it.
305. Non essendo ammessa l’interpretazione in malam partem (ancora).
306. Per un’approfondita analisi del rapporto tra costituzionalismo e democrazia, cfr. Michel-
126
legalità
Il passo successivo mette in rilievo un ulteriore potenziamento del ruolo del
giudice comune e si registra proprio con l’afermarsi del sistema delle fonti di
diritto europeo e con esso con la legittimazione del giudice interno a non applicare la norma nazionale in contrasto con la norma europea. Qui il punto su cui
rilettere non è tanto l’ampliamento del potere normativo del giudice nazionale
attraverso il delicato esame valutativo dei rapporti interordinamentali307, quanto,
piuttosto, l’efetto simbolico della supremazia attribuita al potere giudiziario su
quello legislativo che giunge al culmine della disapplicazione della legge, così
ribaltando la funzione istituzionale del giudice interno che da semplice garante
dell’applicazione della legge, nell’ottica illuministica, diviene arteice della sua
inapplicazione308, nella prospettiva multilivello.
Ed è proprio la primautè del diritto europeo che accentua il sacriicio delle
istanze di democrazia nazionale sottese alla riserva di legge (in materia penale),
superando quel limite costituzionale all’operato del giudice interno collocato
nell’art. 101, co. 2, Cost., tramite la cerniera aperta di pari rango posta nell’art.
117, co. 1, Cost. Non da meno è la necessità di adeguamento interpretativo della
normativa nazionale ai principi ed alle disposizioni della Convenzione EDU309,
nei limiti, comunque, delle regole dell’ermeneutica giuridica, salvo, in caso di
conlitto insanabile, almeno a livello interpretativo, il ricorso all’intervento chirurgico310 della Corte costituzionale311. Ma l’applicazione diretta delle norme convenzionali è stata esclusa sia dalla Consulta312, che dalla Corte di Giustizia313.
man, Brennan and Democracy, Princeton, 1999, trad. it. a cura di Valentini, La democrazia e il potere
giudiziario. Il dilemma costituzionale e il giudice Brennan, Bari, 2004, con interessante introduzione di
Bongiovanni, Palombella, Frank I. Michelman e il signiicato della democrazia costituzionale, con ampi
richiami bibliograici sul costituzionalismo americano.
307. Gargani, Verso una democrazia giudiziaria? I poteri normativi del giudice tra principio di legalità e diritto europeo, in Criminalia, 2011, 111.
308. Gargani, Verso una democrazia giudiziaria?, cit., 111.
309. Tega, I diritti in crisi, cit., 176 ss., con ampi richiami bibliograici e giurisprudenziali.
310. Espressione di Manes, Il giudice nel labirinto, cit., 136.
311. Per un’approfondita analisi, Carlotto, I giudici comuni e gli obblighi internazionali dopo le
sentenze n. 348 e n. 349 del 2007 della Corte costituzionale, cit.; Ruggeri, Applicazioni e disapplicazioni
dirette della Cedu (lineamenti di un “modello” interamente composito), in www.forumcostituzionale.it. Per
lavori monograici, Conti, La convenzione europea dei diritti dell’uomo. Il ruolo del giudice, Roma, 2011.
312. Corte cost., n. 303 del 2011, Considerato in diritto, § 4.2.2 in cui si richiamano i precedenti
nn. 349 del 2007 e 80 del 2011 con nota di Bonomi, Brevi note sul rapporto fra l’obbligo di conformarsi alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo e l’art. 101, c. 2 Cost. (… prendendo spunto da un certo
mutamento di orientamento che sembra manifestarsi nella sentenza n. 303 del 2011 Corte cost.), in www.
consultaonline.it.
313. Corte Giust. Unione Eur., Grande Sezione, 24 aprile 2012, C-571/10, Kamberaj, §§ 5963, decidendo su una questione posta dal Tribunale di Bolzano in via pregiudiziale, «se, in caso
di conlitto tra una norma di diritto nazionale e la CEDU, il richiamo a quest’ultima efettuato
dall’articolo 6 TUE imponga al giudice nazionale di dare diretta attuazione alle disposizioni di tale
127
i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
La crisi contemporanea della legalità penale nel sistema multilivello con il
raforzato ruolo del giudice nazionale evidenzia così la crisi della democrazia
rappresentativa, ancor di più ove si osservi il deicit democratico del legislatore
europeo, colmato dal ruolo propulsivo della Corte di Giustizia. Da ciò, l’importanza del limite al potere di disapplicazione della legge interna solo nell’ipotesi
di norma europea (non convenzionale) con essa in contrasto, direttamente applicabile, altrimenti, il giudice comune, innanzi ad un principio comunitario od ad
una norma di indirizzo (non direttamente applicabili), determinerebbe da sé la
regola da sostituire a quella nazionale.
Si è già detto che il giudice, per decidere il caso concreto, mette mano agli
argomenti disponibili (topoi), tra opinioni dottrinali, precedenti giurisprudenziali, disposizioni legislative, per raggiungere una soluzione più condivisibile, non
solo, per le parti, ma soprattutto per l’opinione pubblica, in un contesto democratico come indicato dalla stessa Corte costituzionale (n. 230 del 2012). La legge,
dunque, costituisce uno degli argomenti considerati dal giudice nel formulare la
regola di diritto da applicare al caso concreto. La motivazione del provvedimento
giudiziale, il controllo di tale motivazione da parte del giudice superiore, ino a
quello di mera legittimità, il processo pubblico, sono sintomatici della necessità
di consenso del giudizio di colpevolezza (o di assoluzione). Necessità di consenso che esprime almeno uno dei caratteri della democrazia. In questo senso, il
diritto giudiziario, utilizzando nella formulazione della regola da applicare al caso
concreto il topoi legislativo, e ricercando il consenso nella decisione adottata, è
democratico. Qui si era fermata la rilessione svolta nelle pagine precedenti, che
ora va portata più avanti.
Può la motivazione sostituire la partecipazione popolare nelle scelte di criminalizzazione (giudiziaria)?
convenzione, nella fattispecie all’articolo 14 della medesima nonché all’articolo 1 del Protocollo
n. 12, disapplicando la norma di diritto nazionale in conlitto, senza dovere previamente sollevare
una questione di costituzionalità dinanzi alla Corte costituzionale». La Corte di Lussemburgo ha
evidenziato che, «ai sensi dell’articolo 6, paragrafo 3, TUE, i diritti fondamentali, così come garantiti dalla CEDU e quali risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, fanno
parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali. Tale disposizione del Trattato UE consacra la giurisprudenza costante della Corte secondo la quale i diritti fondamentali sono parte integrante dei principi generali del diritto dei quali la Corte garantisce l’osservanza (v., segnatamente,
sentenza del 29 settembre 2011, Elf Aquitaine/Commissione, C-521/09 P, non ancora pubblicata
nella Raccolta, punto 112). Tuttavia, l’articolo 6, paragrafo 3, TUE non disciplina il rapporto tra la
CEDU e gli ordinamenti giuridici degli Stati membri e nemmeno determina le conseguenze che
un giudice nazionale deve trarre nell’ipotesi di conlitto tra i diritti garantiti da tale convenzione ed
una norma di diritto nazionale. Si deve pertanto rispondere alla seconda questione dichiarando che
il rinvio operato dall’articolo 6, paragrafo 3, TUE alla CEDU non impone al giudice nazionale, in
caso di conlitto tra una norma di diritto nazionale e detta convenzione, di applicare direttamente
le disposizioni di quest’ultima, disapplicando la norma di diritto nazionale in contrasto con essa».
128
legalità
Il giudice oggi, come visto, non è più o, meglio, non può essere più il tecnico
della lege, il giudice-funzionario che applica quanto “scritto” nella norma posta dal
legislatore penale, anche perché il giudizio di responsabilità criminale comporta
valutazioni che vanno oltre la mera sussunzione del fatto concreto nella fattispecie astratta positiva.
Da un lato, vi sono norme (costituzionali ed europee) che pongono dei limiti
all’attività legislativa, legittimando il giudice comune ad ampliare o restringere
la rilevanza penale di un comportamento, disapplicando o interpretando conformemente alla norma europea, quella legislativa nazionale e così alterando
la voluntas legislatoris, se non proprio quella legis. Dall’altro, la dichiarazione di
responsabilità penale, come si diceva, implica giudizi di valore ispirati da principi
costituzionali che vincolano, non solo, il legislatore che pone il divieto penale,
ma anche (e soprattutto) il giudice che deve punire il comportamento vietato. E
qui entrano in campo, in particolare, colpevolezza e ofensività, che impongono,
nella loro applicazione concreta, scelte valoriali necessariamente condizionate
da cultura, opinioni, visione sociale e politica, personale e non laica (nel senso
estremo del termine) del giudice314.
È evidente, dunque, che, ponendo al di sopra del potere legislativo ordinario e
democratico, i diritti fondamentali della persona umana, scritti nelle carte fondamentali (nazionali ed, ancora di più, sovranazionali), elaborati e sviluppati dalla giurisprudenza, il giudice-funzionario post-illuministico è divenuto giudice-sovrano, legittimato a indicare dei limiti (dei veti) alla comunità democratica, alle sue scelte di
regolazione dei rapporti che devono essere poste, sempre e comunque, nell’alveo
dei principi costituzionali e sovranazionali come interpretati dalla giurisprudenza.
Spostando in avanti la rilessione testé svolta, è necessario chiedersi, a questo
punto, quale natura possa avere una tale democrazia giudiziaria, ovvero quella
ricercata nella motivazione della sentenza.
Non certo partecipativa o popolare, perché i giudici non sono eletti e non hanno legittimazione politica. A ben guardare, si tratta di una forma di democra-
314. Se il giudice dovesse omettere di svolgere tali giudizi valoriali sul fatto di reato, onde
rimanere nell’alveo istituzionale riconosciutogli, la decisione aggirerebbe quei principi fondanti
del diritto penale, frutto della giurisprudenza costituzionale. Se, invece, il giudice dovesse svolgere
quelle valutazioni valoriali del comportamento del reo, dettate dai principi garantistici suddetti, allora, come detto, dovrebbe necessariamente pescare non nel bagaglio tecnico-professionale
dell’ermeneutica giuridica, ma nell’esperienza culturale personale, intesa come acquis proprio del
giudice-uomo iltrato dalla personale capacità critica del fenomenico che lo circonda, a discapito
della certezza del diritto e dalla prevedibilità del giudizio. La caratteristica eccezionalità di ogni
persona umana non consentirebbe di pensare ad un corpo di giudici-robot, tutti con le medesime
idee, la medesima capacità di leggere gli accadimenti sempre diversi, nella stessa maniera, se non
dovendo trascurare alcuni aspetti che conformerebbero il fenomeno al fatto tipico. Una visione
utopica, sinceramente, non auspicabile.
129
i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
zia elitaria (o aristocratica315) costituita da giudici professionali, selezionati per
concorso pubblico, che attraverso l’ermeneutica armonizzante ed integrativa
delle norme del sistema europeo sinergico, stimano la portata e la misura delle
disposizioni penali e, dunque, la rilevanza criminale di determinati comportamenti, andando, in tal maniera, a regolare i rapporti dei cittadini, interferendo o,
meglio, sovrapponendosi alle scelte ed alle valutazioni che spettano al legislatore
eletto e, dunque, se si vuole, al popolo.
Sembrerebbe che proprio l’integrazione europea abbia scardinato l’equilibrio
istituzionale interno tra potere legislativo e potere giudiziario: non a caso il legislatore interno è tuttora deinito nazionale nei trattati comunitari, così ancorandolo all’identità statuale, mentre il giudice nazionale è denominato (già) europeo,
così collocandolo pienamente nel sistema interordinamentale316. E qui si evidenzia l’obiezione democratica – «cioè quella in base alla quale il giudice straniero non
ha legittimazione a prendere decisioni che abbiano portata generale nell’ordinamento nazionale poiché il parametro di giudizio che applica non origina da una
decisione democratica»317 – per cui il giudice (nazionale) europeo applica una
norma priva di legittimazione democratica (si ricordi la sentenza Lissabon del
Bundesverfassungericht), potenzialmente capace di rendere ineicace una norma
nazionale democraticamente posta318.
Il paradosso michelmaniano della democrazia costituzionale319 è, dunque, portato ino al massimo sacriicio della partecipazione dei cittadini alle scelte che
315. Giunta, Verso un’equivalente funzionale della riserva di lege?, cit., 77.
316. Nello stesso senso, Tega, I diritti in crisi, cit., 28 ss., secondo cui l’internazionalizzazione
del diritto costituzionale pare anche essere uno dei fattori di erosione della separazione tra diritto
legislativo e diritto giudiziario.
317. Così Tega, I diritti in crisi, cit., 41.
318. Si badi bene. Il ruolo nuovo del giudice comune, appena evidenziato, è perfettamente conforme all’assetto costituzionale, in virtù del combinato disposto degli artt. 1, co. 2, 11, 101, e 117, co.
1, Cost. La sovranità, recita l’art. 1, co. 2, Cost., appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti
della Costituzione. Il successivo art. 11 Cost., come noto, ammette la limitazione della sovranità popolare in un sistema internazionale come quello eurounionista. La giustizia, che è tradizionalmente
uno dei poteri statuali (sovrani), è esercitata in nome del popolo ed i giudici sono soggetti solo alla
legge, che, come noto, è la principale modalità di esercizio della sovranità legislativa. La legge, a
sua volta, oltre ad essere sottoposta alle limitazioni costituzionali (art. 134 Cost.), è oggi vincolata ai
limiti comunitari (e sovranazionali), alla stregua di quanto previsto dall’art. 117, co. 1, Cost. La legge
costituzionale prevista dall’art. 137, co. 1, Cost., oltre all’ipotesi di giudizio in via principale, relativo
ai conlitti tra i poteri dello Stato, tra lo Stato e le Regioni e tra le Regioni, prevede il giudizio in via
incidentale per il sindacato di costituzionalità delle leggi dello Stato e delle Regioni, mediato dalla
valutazione di non manifesta infondatezza del giudice comune. Il presidio giudiziario per la tutela
dei diritti e delle libertà costituzionali ed, oggi, anche in relazione ai vincoli unionisti, è fondamentale
per gli eventuali abusi del legislatore ordinario nazionale (rectius, della maggioranza parlamentare).
319. La diicile conciliazione di esigenze contrapposte quali quelle della sovranità e della limitazione del potere.
130
legalità
toccano le libertà ed i diritti. I diritti e le libertà, infatti, sono prepositivi rispetto
all’esercizio dell’attività legislativa, con l’efetto che il legislatore nazionale non
ha più la funzione illuministica di riconoscere tali diritti e libertà, ma quella di
rispettare diritti e libertà fondamentali già riconosciuti a livello sovranazionale o
costituzionale: la partecipazione democratica non è posta a garanzia del loro riconoscimento, ma della possibilità del relativo godimento. L’efettività di tale godimento è, a sua volta, sostenuta dalla tutela giudiziaria320. E così le tradizionali
prerogative parlamentari, in cui si concentra la partecipazione del popolo-sovrano
all’esercizio delle funzioni istituzionali, appaiono certamente sacriicate, rispetto
al ruolo assunto dal giudice eurodomestico.
Per quanto riguarda il limitato tema d’indagine e, quindi, la materia penale e
senza entrare nella querelle del deicit di legittimazione democratica sottesa ai produttori contemporanei di norme penali321, seppur è indubbio che l’interferenza
del diritto europeo su quello penale (diversamente rispetto agli altri ordinamenti) ha importanti limitazioni, ancorate al rispetto del principio di legalità, nella
sua dimensione della riserva di legge-democraticità, appare possibile, anche in
materia penale, porre dei contrappesi al ruolo assunto dal giudice-sovrano che non
vadano ad incidere sulla sua indipendenza, tradizionalmente riferita ai rapporti
con il potere esecutivo.
Se, dunque, il diritto giudiziario penale è di fondamentale importanza nello
svolgimento dei rapporti tra i cittadini, allora, il carattere della democraticità
della legge penale, voluta dall’art. 25, co. 2, Cost., andrebbe garantito anche (o
almeno) nella fase di applicazione del divieto, così ammettendo una maggiore
partecipazione dei cittadini all’amministrazione della giustizia, onde «ridurre la
distanza tra volontà del corpo sociale e le politiche criminali giudiziarie»322.
Escludendo l’ipotesi di elezione dei giudici o dei pubblici ministeri, una soluzione di democratizzazione dell’amministrazione della giustizia penale, potrebbe
essere quella dell’estensione applicativa della giuria popolare o, senza “riesumare”
tali istituti323, che imporrebbero una necessaria riforma costituzionale, si potreb-
320. Sul dibattito anglosassone in tema di stato giurisdizionale o giuridiicazione, cfr. Tega, I
diritti in crisi, cit., 38, nota 52.
321. Gargani, Verso una democrazia giudiziaria?, cit., 120.
322. Gargani, Verso una democrazia giudiziaria?, cit., 121.
323. L’istituto della giuria, introdotto in Francia nel 1790-1791, cominciò a difondersi in Europa, in particolare venne adottato e disciplinato in alcune costituzioni italiane tra la ine del XVIII
sec. e l’inizio del XIX sec. Nella Costituzione della Repubblica Cispadana del 1797 ad esempio, nella
parte dedicata alla giustizia correttiva e criminale, molteplici articoli si occupavano dell’istituzione
dei giurati. Era stato introdotto il sistema della doppia giuria: riguardo ai delitti che comportavano
una pena alittiva o infamante un primo corpo di giurati doveva ammettere o rigettare l’accusa,
un secondo corpo di giurati doveva pronunciarsi in veste di giudice del fatto. I giurati di giudizio,
che erano dodici e che erano stati “scelti” dalle parti mediante l’esercizio del diritto di ricusa,
131
i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
votavano a scrutinio segreto rispondendo alle questioni formulate dai giudici. Tale sistema fu introdotto, seppur con alcune diferenze, nelle Costituzioni della Repubblica Cisalpina del 1797 e del
1798, nonché in quella della Repubblica romana del 1798 ed in quella italiana del 1802. Napoleone,
incoronato nel 1805, Re d’Italia, abolì le giurie popolari ed escluse il popolo dall’amministrazione
della giustizia. Sull’argomento ampiamente cfr. Acquarone, Le costituzioni italiane, Milano, 1958,
66 ss. I tentativi di reintrodurre la giuria nei diversi stati preunitari furono diversi, ma tutti infruttuosi, stante la diidenza delle potenze straniere dominanti nell’aidare l’amministrazione della
giustizia al popolo occupato. Solo nel Regno sabaudo, dopo la promulgazione dello Statuto albertino, fu introdotta la giuria solo per i reati a mezzo stampa, ainché «nel modo di amministrare
la giustizia sui reati della stampa entri l’elemento essenziale dell’opinione pubblica saggiamente
rappresentata». Solo con il codice di procedura penale del 1859 venne reintrodotto l’istituto della
giuria, poi, esteso a tutte gli stati annessi, come garanzia di democrazia e partecipazione popolare
nell’amministrazione della giustizia del nuovo Regno d’Italia. Sul punto, cfr. Manfredini, Il giurato
italiano dopo il primo gennaio 1875. Commento alla lege 8 giugno 1874 e Regolamento 1 settembre 1874
per l’avvocato Giuseppe Manfredini, Padova, 1875; Gabelli, I giurati nel nuovo regno italiano secondo la
lege sull’ordinamento giudiziario e il codice di procedura penale, Milano, 1861; Delitala, Del giudizio
per giurati, Cagliari, 1862. Nel 1865 entra in vigore il nuovo codice di procedura penale, primo del
Regno d’Italia, e l’istituto della giuria popolare viene migliorato, con alcune modiiche volte a
garantire, più possibile, la “genuinità” del verdetto, evitando inluenze da parte del giudice togato
(presidente), ma, soprattutto, cercando di evitare inluenze politiche nella composizione delle liste
dei giurati. Per il vivo dibattito dell’epoca sulla composizione delle liste dei giurati, cfr. De Mauro,
Progetto di riforma sulla istituzione del giuri in Italia, Catania, 1872; Casorati, Giudizio per giurati, composizione delle liste, in Archivio giuridico, 1870, V, 155-171; Pizzamiglio, Dei giurati in Italia, Milano,
1872. Contrario al giudizio esclusivo della giuria, a cui doveva aiancarsi il verdetto dei giudici professionali, Pessina, Della istituzione dei giurati nei giudizi penali, in Opuscoli di diritto penale, Napoli,
1874. Va ricordato che la giuria era prevista solo per la Corte d’Assise che giudicava sui reati più
gravi, mentre non era prevista nei tribunali competenti a giudicare sui reati meno gravi e, generalmente, relativi alla proprietà. Il dibattito sull’istituto in parola non si è mai sopito e, tutto sommato,
ruotava intorno all’argomento sull’efettiva possibilità di separare il giudizio sul fatto, dal giudizio
sul diritto, nonché sull’aidabilità dei giurati. Dopo le riforme del 1874 e del 1914, la Corte d’Assise
era composta da un magistrato togato e da dieci giurati popolari. L’avvento del regime fascista
pose ine all’istituto della giuria popolare. Il 23 marzo 1931, con il r.d. numero 249, venne abolita
in Italia la giuria. I cittadini tuttavia non vennero totalmente esclusi dalle aule delle Corti d’Assise,
semplicemente ora erano chiamati ad amministrare la giustizia assieme alla magistratura togata,
gli uni e gli altri in un medesimo collegio che avrebbe dovuto risolvere tanto le questioni di fatto
quanto quelle di diritto ed inine applicare la pena. La nuova Corte d’Assise era composta di un
presidente di sezione di Corte d’Appello che doveva presiederla, di un consigliere di Corte d’Appello (o un Presidente di sezione del Tribunale) e di cinque assessori. Sull’argomento, cfr. Frezzati,
La lege sui giurati che muore e quella nuova 27 marzo 1931 numero 249 sulla riforma delle Corti d’Assise in
attività al 1 luglio 1931. Studio e considerazioni teorico pratiche sull’ordinamento col richiamo degli articoli
dei codici penali attinenti al decreto e tabella contenente il numero degli assessori assegnati a ciascun circolo
di Corte d’Assise del Regno e quella determinante la circoscrizione territoriale delle sezioni, Treviso, 1931.
Terminato il secondo conlitto mondiale e sconitto il duce, si sentiva l’impellente esigenza di riaffermare i principi di libertà e democrazia che il regime fascista aveva soppresso. Il principio della
sovranità popolare riemergeva dunque prepotentemente, riaprendo così un dibattito che in realtà
non era mai cessato del tutto, ovvero la discussione sul riordino delle Corti d’Assise. Il decreto
legislativo 560 del 1946 ripristinò la giuria, ma di fatto rimase lettera morta, perché le successive
132
legalità
bero introdurre dei collegi giudicanti misti con giudici professionali e giudici popolari (in maggioranza), così come già previsto per la Corte d’Assise, che, come
noto, ha competenza per i reati più gravi stabiliti dall’ordinamento nostrano.
Non si tratterebbe, dunque, di un’ipotesi sconosciuta all’ordinamento domestico. La preferenza per questa seconda opzione potrebbe essere giustiicata dalla
necessità imprescindibile, per lo stesso sviluppo del diritto, di mantenere l’obbligo di motivazione del giudizio di colpevolezza o innocenza, che, come noto,
sarebbe escluso per il verdetto della giuria popolare, limitato alla sola valutazione
del fatto.
Per quanto riguarda la magistratura inquirente, il delicato ruolo svolto per la
sicurezza pubblica ed il rispetto delle regole suggerirebbe di non intervenire con
riforme della fase di esercizio dell’azione penale, evitando o, meglio, vietando
solo la pubblicazione o divulgazione dei nomi dei singoli magistrati procedenti
(ma anche di quelli giudicanti), sia per ragioni di sicurezza personale, sia per
evitare antipatici protagonismi e facili strumentalizzazioni, che nuocciono alla
stessa legittimazione laica della magistratura324.
norme di attuazione non vennero mai nemmeno discusse. Solo dopo l’entrata in vigore della Costituzione, si è esclusa la possibilità di reintrodurre l’istituto della giuria, alla stregua dell’obbligo di
motivazione dei provvedimenti giurisdizionali come previsto dall’art. 111 Cost., inconciliabile con
il verdetto. Attualmente, la partecipazione popolare all’amministrazione della giustizia è garantita
dalla composizione mista della Corte d’Assise (due magistrati togati e otto giudici popolari) disciplinata dalla legge 16 marzo 1951 n. 287.
324. Ipotizzare delle realistiche riforme costituzionali in materia di giustizia penale e di bilanciamento dei poteri sovrani è arduo, stante l’accesa conlittualità politica ed istituzionale che caratterizza quest’ultimo decennio (almeno). Ad ogni modo, de iure condendo, si potrebbe auspicare il
ritorno all’art. 68 Cost., così come concepito dal legislatore costituente, giusto punto di equilibrio
e di separazione tra potere legislativo e potere giudiziario. Anche se forse ormai superato dal ruolo
europeo assunto dalla giurisprudenza. La riforma della legge costituzionale prevista dall’art. 137
Cost., ammettendo l’impugnazione diretta del cittadino delle leggi e degli altri atti aventi forza di
legge, statali e regionali, innanzi alla Corte costituzionale, così da scemare grandemente il sindacato preventivo esclusivo del giudice comune sugli atti del legislatore. Il doppio laccio dell’assetto
costituzionale interno al Trattato di Lisbona ed alle norme eurounitarie, voluto dall’art. 117, co. 1,
Cost., impone la democratizzazione del potere legislativo sovranazionale, escludendo il Consiglio
europeo dall’iter di formazione degli atti europei vincolanti per tutti gli Stati membri.
133
134
CAPITOLO II
ofensività
1. Premessa. L’ofensività nel sistema penale europeo. La situazione italiana: la deriva del
principio di necessaria lesività e l’irrefrenabile anticipazione della tutela penale con la tipizzazione anche di illeciti di rischio. L’eicacia argomentativa o dimostrativa dell’ofensività
come parametro di controllo della politica criminale. - 2. La Corte costituzionale e la politica criminale sulla clandestinità: ofensività dimostrativa ed extrema ratio. - 3. Principio
di precauzione vs principio di necessaria lesività. Il precauzionismo e l’individuo potenzialmente colpevole. - 4. Il giudizio di proporzione nella Carta di Nizza come fondamento
dell’ofensività del reato europeo. La proporzione nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo e gli obblighi di tutela penale in chiave vittimo-centrica. Gli aspetti dell’ofensività
(necessaria lesività e dannosità sociale) per individuare il fatto penalmente rilevante. - 5. La
giustiziabilità degli obblighi di tutela contenuti nella norma penale europea da parte del
Giudice costituzionale. - 6. Il sindacato di proporzionalità della Corte di Lussemburgo sulla
norma penale europea. - 6.1. (segue) L’eccezione democratica e la razionalità del diritto
penale positivo. Il giudizio di eguaglianza-proporzione come utile sindacato sull’opzione
di politica criminale. - 7. Il principio di proporzione formale tra reato e sanzione previsto
dall’art. 49, co. 3, della Carta di Nizza come criterio di coerenza intrasistemica del divieto
penale. - 8. Il paternalismo in diritto penale. Il fondamento della legittimità del “punire” ed
il limite dell’opzione penale nell’ottica antipaternalistica di John Stuart Mill. - 8.1. (segue)
L’impostazione di Joel Feirberg. - 8.2. Il paternalismo come esigenza solidaristica nella visione costituzionale in una società democratica. - 9. La Corte di Strasburgo e l’eutanasia: il
punto della giurisprudenza convenzionale sul “diritto di morire”. - 9.1. (segue) Riepilogo.
Il diritto al suicidio dignitoso. - 9.2. Brevi annotazioni conclusive sul rapporto tra l’art. 8
Convenzione EDU e le questioni autolesive previste nella legislazione domestica nell’alveo
del sistema eurounitario. - 10. Breve conclusione sul ruolo del principio di ofensività
1. Premessa. L’ofensività nel sistema penale europeo. La situazione italiana: la deriva
del principio di necessaria lesività e l’irrefrenabile anticipazione della tutela penale con la
tipizzazione anche di illeciti di rischio. L’eicacia argomentativa o dimostrativa dell’offensività come parametro di controllo della politica criminale. Nel nostro ordinamento, l’ofensività della condotta umana è un carattere fondamentale della responsabilità penale, ormai di rango costituzionale, nel senso che non è più limitata
a parametro di valutazione della sussistenza del fatto di reato, nel momento di
accertamento e di applicazione, ma anche come criterio di sindacabilità della
legittimità costituzionale delle norme penali, con alcuni limiti1.
1. Nella sterminata bibliograia ci si limita a segnalare, Bartoli, Il principio di ofensività in
concreto alla luce di alcuni casi giurisprudenziali, in Studium iuris, 2007, 419 ss.; Caterini, Reato impossibile ofensività. Un’indagine critica, Napoli, 2004; Donini, Il principio di ofensività. Dalla penalistica
italiana ai programmi europei, in www.penalecontempornaeo.it; Fiandaca, Nessun reato senza ofesa, in
135
i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
L’ofensività o necessaria lesività (unitamente al principio di materialità) issa
gli estremi contenutistici all’utilizzo della sanzione penale ed alla tipizzazione
delle fattispecie solo in relazione a fatti esteriori connotati da un disvalore sociale
particolarmente signiicativo, tale da poter giustiicare la risocializzazione del reo
solo con l’applicazione della sanzione alittiva (pena). Tale principio quindi individua come meritevoli di tutela penale soltanto interessi socialmente rilevanti
ed individuabili nella sola Costituzione2. La giurisprudenza costituzionale ha da
Fiandaca, Di Chiara, Una introduzione al sistema penale per una lettura costituzionalmente orientata,
Napoli, 2003, 203 ss.; Id., Ofensività e teoria del bene giuridico, in Stile (a cura di), Le discrasie tra
dottrina e giurisprudenza in diritto penale, Napoli, 1991, 67; Fiandaca, Musco, Diritto penale. Parte
generale, Bologna, 2009, 150 ss.; C. Fiore, Il contributo della giurisprudenza costituzionale all’evoluzione
del principio di ofensività, in Vassalli (a cura di), Diritto penale e Corte costituzionale, Napoli, 2006, 123
ss.; Fiorella, (voce) Reato in generale, in Enc. dir., XXXVIII, 1987, 793 ss.; Insolera, Reati artiiciali e
principio di ofensività: a proposito di un’ordinanza della Corte costituzionale sull’art. 1, co. 4, l. n. 516 del
1982, in Riv. it. dir. proc. pen., 1990, 726; Manes, Il principio di ofensività tra codiicazione e previsione costituzionale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2001, 147 ss.; Id., Il principio di ofensività nel diritto penale. Canone
di politica criminale, criterio ermeneutico, parametro di ragionevolezza, Torino, 2005, XVI-329; Manna,
I reati di pericolo astratto e presunto e i modelli di diritto penale, in Curi, Palombarini (a cura di), Diritto
penale minimo, Roma, 2002, 35 ss.; Masullo, Aspettando l’ofensività. Prove di scrittura del principio nelle proposte di riforma del codice penale, in Cass. pen., 2005, 1772; N. Mazzacuva, Diritto penale e riforma
costituzionale: tutela di beni giuridici costituzionali e principio di ofensività, in IP, 1998, 324; Merenda,
Ofensività e determinatezza nella deinizione delle soglie di punibilità. Le soglie di punibilità nelle false
comunicazioni sociali, Roma, 2007; Merli, Introduzione alla teoria generale del bene giuridico. Il problema, le fonti, le tecniche di tutela penale, Napoli, 2006; Palazzo, Ofensività e ragionevolezza nel controllo
di costituzionalità sul contenuto delle legi penali, in Riv. it. dir. proc. pen., 1998, 350 ss.; Paonessa, Gli
obblighi di tutela penale, cit.; Id., L’avanzamento del “diritto penale europeo” dopo il Trattato di Lisbona,
in La Giustizia Penale, 2010, 307 ss.; Pulitanò, Bene giuridico e giustizia costituzionale, in Stile (a cura
di), Bene giuridico e riforma della parte speciale, Napoli, 1985, 134 ss.; Valenti, Principi di materialità
e ofensività, in Insolera, N. Mazzacuva, Pavarini, Zanotti (a cura di), Introduzione al sistema penale,
XIV, Torino, 2012, 359 ss.
2. Nella lezione bricoliana (per cui si rinvia a Canestrari, Cornacchia, De Simone, Manuale
di diritto penale, cit., 204; Donini, L’eredità di Bricola e il costituzionalismo penale come metodo. Radici
nazionali e sviluppi sovranazionali, in www.penalecontemporaneo.it) la ratio di tale necessaria scelta viene illustrata con il seguente semplice ragionamento: dal momento che la pena rappresenta la sanzione più alittiva dell’ordinamento, in particolare quella detentiva, che pregiudica il bene primario costituzionalmente garantito della libertà (proclamata inviolabile dall’art. 13 Cost.), essa può
essere adottata dal legislatore soltanto rispetto a condotte che pregiudichino beni almeno di pari
grado, ossia beni costituzionalmente signiicativi, che trovino nella Costituzione riconoscimento,
esplicito o implicito. In altri termini, si tratta di un limite della libertà legislativa, ma non di un
obbligo. Per voci di dissenso, cfr. F. Mantovani, Il principio di ofensività del reato nella Costituzione, in
Studi Mortati, IV, Milano, 1977, 444 ss.; Pagliaro, Principi di diritto penale, cit., 234 ss.; più di recente,
Marinucci, Dolcini, Costituzione e politica dei beni giuridici, in Riv. it. dir. proc. pen., 1994, 345 ss.; De
Francesco, Programmi di tutela e ruolo dell’intervento penale, Torino, 2004, 47 ss. In particolare, Manna, Diritto penale e costituzione, in Cadoppi, Canestrari, Manna, Papa (a cura di), Trattato di diritto
penale. Parte generale, vol. I, Il diritto penale e la lege penale, Torino, 2012, 68 ss., critica l’utilizzo della
sola libertà personale come «bene giuridico “per lezione” sacriicato dal sistema penale», evidenzian-
136
offensività
tempo precisato che la necessaria lesività, astrattamente, costituisce un limite
all’attività del legislatore e, concretamente, determina un onere per il giudice
che, «nel momento applicativo, deve accertare, in concreto, se il comportamento
posto in essere lede efettivamente l’interesse tutelato dalla norma»3, al ine di
«impedire una arbitraria ed illegittima dilatazione della sfera dei fatti da ricondurre al modello legale»4.
Nella letteratura penalistica è evidenziato il consolidato orientamento della
Consulta per cui il sindacato sulle scelte contenutistiche del legislatore penale è limitato al relativo esercizio distorto o arbitrario, così da conliggere in modo manifesto con il canone della ragionevolezza5. Si sottolinea sempre che la Corte costituzionale, invero, non ha mai utilizzato direttamente il principio di necessaria lesività
come parametro autonomo per dichiarare l’illegittimità di una norma penale6, ma
solo come rilesso (appunto) del criterio della ragionevolezza. Tale criterio si fonda
sul principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost. ed, in stretta connessione con il
criterio di proporzione7, esige che la scelta legislativa rispetto al bene e rispetto alla
do che «il sistema penale e, in particolare, il processo penale, incida anche ed in primo luogo su altri
beni, pure di notevole valore, come ad esempio, la reputazione – tanto è vero che calza a pennello
la nota frase carneluttiana secondo cui “la prima pena è il processo” – come ha dimostrato il caso
paradgmatico del fenomeno che giornalisticamente va sotto il nome di “Tangentopoli”…». Nello
stesso senso, Grosso, Per un nuovo codice penale, in Dir. pen. proc., 1999, 1117 ss.; Id., Su alcuni problemi
generali del diritto penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2003, 18 ss.
3. Corte cost. n. 519 del 2000.
4. Corte cost. n. 263 del 2000; n. 30 del 2007; n. 333 del 1991 citata da Manes, Il principio
di ofensività nel diritto penale, cit., 293, nota 33, in cui i giudici costituzionali, per i reati di pericolo astratto, pur ammessi nel nostro ordinamento, hanno afermato che «è riservata al legislatore
l’individuazione […] delle condotte alle quali collegare una presunzione assoluta di pericolo […],
purché non sia irrazionale o arbitraria, ciò che si veriica allorquando non sia ricollegabile all’id
quod plerumque accidit». Si veda poi per un’aggiornata disamina della giurisprudenza costituzionale
sempre Manes, Principi costituzionali in materia penale (diritto penale sostanziale), Quaderno predisposto in occasione dell’incontro trilaterale delle Corti costituzionali italiana, spagnola e portoghese, Madrid, 13-15 ottobre 2011, in www.cortecostituzionale.it, in cui si richiamano anche Corte cost.
n. 1 del 1971; n. 71 del 1978; n. 139 del 1982; n. 126 del 1983; n. 62 del 1986; n. 133 del 1992; n. 360
del 1995; relativamente all’irragionevolezza della presunzione di adeguatezza della sola misura
cautelare custodiale per taluni reati cfr. Corte cost. n. 265 del 2010; n. 164 del 2011; n. 231 del 2011.
Per un’ampia rassegna, Neppi Modona, Il lungo cammino del principio di ofensività, in Studi in onore
di M. Gallo, Torino, 2004, 89 ss.; C. Fiore, Il contributo della giurisprudenza costituzionale all’evoluzione
del principio di ofensività, cit., 91 ss.
5. Corte cost., n. 262 del 2005; n. 250 del 2010; n. 447 del 1998.
6. É dibattuto se in Corte cost., n. 189 del 1987, i giudici costituzionali hanno implicitamente
utilizzato il principio di ofensività per la declaratoria di incostituzionalità del divieto di esposizione
di bandiere estere senza autorizzazione per assenza del bene giuridico tutelato. Afermativamente,
C. Fiore, Il contributo della giurisprudenza costituzionale all’evoluzione del principio di ofensività, cit.,
94. In senso contrario, Dodaro, Uguaglianza e diritto penale, Milano, 2012, 160.
7. Canestrari, Cornacchia, De Simone, Manuale di diritto penale, cit., 218. Sul principio di
proporzione, senza, però, uno speciico studio sulla funzione di limite al potere punitivo statuale,
137
i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
predisposizione di tutela penale sia «razionalmente argomentabile e controllabile»:
di fatto, si richiede una razionalità procedurale, quella che deriva dalla dialettica
democratica della discussione parlamentare8. Da ciò, l’impossibilità per la Consulta
di utilizzare la necessaria lesività come parametro per il sindacato di costituzionalità, proprio perché la Corte delle Leggi è estranea al circuito di legittimazione
democratica, tant’è vero che, in più occasioni, nel prezioso rispetto dell’art. 28 l.
1953, n. 87, ha afermato che le valutazioni da cui dipende la decisione di ricorrere
alla sanzione criminale «attengono a considerazioni generali (sulla funzione dello
Stato, sul sistema penale, sulle sanzioni penali) e particolari (sui danni sociali contingentemente provocati dalla stessa esistenza delle incriminazioni, dal concreto
svolgimento dei processi e dal modo d’applicazione delle sanzioni penali) che, per
loro natura, sono autenticamente ideologiche e politiche e, pertanto, non formalmente controllabili in questa sede»9. Sulla scorta di tale orientamento della giurisprudenza costituzionale, è stato osservato10 che la necessaria lesività, dunque, non
può avere una valenza dimostrativa11 (tanto da potere realmente costituire presupposto di declaratoria di illegittimità costituzionale quale principio suscettibile di
essere utilizzato dalla Corte costituzionale per caducare le norme in contrasto con
esso), ma meramente argomentativa (vale a dire, di indirizzo politico-culturale).
A prescindere, quindi, dalle autorevoli dichiarazioni ed afermazioni sul rango costituzionale del principio di necessaria lesività, è un fatto che la sua valenza meramente interpretativa ha dissolto la ragione giustiicativa che limita la tutela penale
– nell’alveo del principio di sussidiarietà ed in quello dell’extrema ratio – ai soli beni
giuridici costituzionalmente rilevanti, tanto che da più parti in dottrina si denuncia
un processo di smaterializzazione-spiritualizzazione del bene giuridico12. Fra gli
efetti di questa deriva, fra l’altro, vi è l’utilizzo sempre più frequente di tecniche di
anticipazione della tutela ino alla formulazione di illeciti di mero rischio, ispirati,
questi ultimi, al principio di precauzione13.
nella manualistica, fra gli altri, cfr. Manna, Corso di diritto penale, I, Torino, 2012, 121; Fiandaca,
Musco, Diritto penale, cit., 13 e 704.
8. Fiandaca, Nessun reato senza ofesa, cit., 124 ss.
9. Corte cost. n. 409 del 1989.
10. Canestrari, Cornacchia, De Simone, Manuale di diritto penale, cit., 220.
11. Sulla distinzione tra principi informativi o di indirizzo, dotati di mera eicacia argomentativa, e principi dotati di capacità dimostrativa, «tale da farli assurgere al rango di norme costituzionali cogenti nella costruzione di tutte le leggi ordinarie e suscettibili di essere applicati autonomamente (senza l’ausilio di altri principi) dalla Corte costituzionale per caducare le disposizioni
in contrasto con essi», cfr. Donini, (voce) Teoria del reato, in Dig. Pen., 1999, XIV, § 6; Id., Ragioni e
limiti della fondazione del diritto penale sulla Carta costituzionale. L’insegnamento dell’esperienza italiana,
Firenze, 2001, 29 ss.
12. Ampiamente cfr. Canestrari, Cornacchia, De Simone, Manuale di diritto penale, cit., 218 ss.
13. In tema di precauzione, si rinvia a Sunstein, Il diritto della paura. Oltre il principio di precauzione, Bologna, 2010, 10 ss.; Beck, La società del rischio. Verso una seconda modernità, Roma, 2007,
138
offensività
Nella prospettiva di ricerca, è necessario appuntare ora l’attenzione sui rilessi
della normativa europea sul ruolo imposto ai giudici costituzionali (e comuni)
nel controllo della politica criminale ed, in particolare, nella selezione degli interessi da tutelare, ovvero se sia ancora attuale l’afermazione per cui le scelte di
politica criminale, «per loro natura», sono «autenticamente ideologiche e politiche e, pertanto, non formalmente controllabili».
Per la veriica della problematica posta, appare opportuno esaminare ciò che
sembra proilarsi come una diversa valenza del principio in commento, in chiave
efettivamente dimostrativa, allorquando i giudici costituzionali hanno decretato
l’illegittimità costituzionale di una circostanza aggravante centrata su un semplice status soggettivo (lo status di soggetto illegalmente presente nel territorio
dello Stato, ai sensi dell’art. 61, n. 11-bis, c.p.). Seppur, come è stato osservato14, ciò risulta in linea con taluni precedenti che hanno dimostrato l’abiura di
presunzioni di pericolo irragionevolmente radicate su mere condizioni o qualità
soggettive, e poste a fondamento di peculiari discipline punitive, la Corte, nella
pronuncia sull’aggravante di clandestinità, evidenzia la necessità di un «vaglio
positivo di ragionevolezza» che la scelta legislativa deve superare per sottrarsi
alle censure di illegittimità. Ma non solo. Si tratta anche di veriicare se il siste9 ss., e più di recente Id., Conditio humana. Il rischio nell’età globale, Bari, 2008, 5 ss.; Jonas, Il principio responsabilità. Un’etica per la società globale, Torino, 1990, 12 ss.; Perini, Il concetto di rischio nel
diritto penale moderno, Milano, 2010, 174 ss.; Giunta, Il diritto penale e le sugestioni del principio di
precauzione, in Criminalia, 2006, 231; Forti, La “luce chiara della verità” e l’“ignoranza del pericolo”.
Rilessioni penalistiche sul principio di precauzione, in Scritti per Federico Stella, vol. I, Napoli, 2007,
573 ss.; Ruga Riva, Principio di precauzione e diritto penale. Genesi e contenuto della colpa in contesti di
incertezza scientiica, in Studi in onore di Giorgio Marinucci, vol. II, Milano, 2006, 1743 ss.; Consorte,
Spunti di rilessione sul principio di precauzione e sugli obblighi di tutela penale, in DP XXI sec., 2007, 269
ss.; Pulitanò, Gestione del rischio da esposizioni professionali, in Cass. pen., 2006, 786, 788; Piergallini, Il paradigma della colpa nell’età del rischio: prove di resistenza al tipo, in Riv. it. dir. proc. pen., 2005,
1695, 1696; Centonze, La normalità dei disastri tecnologici. Il problema del congedo dal diritto penale,
Milano, 2004; Attili, L’agente-modello “nell’era della complessità”: tramonto, eclissi o trasigurazione?,
in Riv. it. dir. proc. pen., 2006, 1276 ss.; Sereni, Causalità e responsabilità penale. Dai rischi d’impresa ai
crimini internazionali, Torino, 2008, 155 ss.; Corn, Principio di precauzione e diritto penale? Il principio
di precauzione nella disciplina giuridica dell’agricoltura biotecnologica, in Forum BioDiritto, 2008. Percorsi
a confronto, a cura di Casonato, Piciocchi, Veronesi, Padova, 2009, 433; Pongiluppi, Principio di precauzione e reati alimentari. Rilessioni sul rapporto “a distanza” tra disvalore d’azione e disvalore d’evento,
in Riv. dir. pen. eur., 2010, 225 ss.; Martini, Incertezza scientiica, rischio e prevenzione. Le declinazioni
penalistiche del principio di precauzione, in Responsabilità penale e rischio nelle attività mediche e d’impresa, Firenze, 2010, 579 ss. Nella manualistica, Fiandaca, Musco, Diritto penale. Parte generale, cit., 207
ss.; Manna, Corso di diritto penale, cit., 67 ss. Di recente, come lavori monograici, Consorte, Principio di precauzione e tutela penale. Un connubio problematico, Bologna, 2012; Castronuovo, Principio di
precauzione e diritto penale. Paradigmi dell’incertezza nella struttura del reato, Roma, 2012; Id., Principio
di precauzione e beni legali alla sicurezza, in www.penalecontemporaneo.it.
14. Manes, I recenti tracciati della giurisprudenza costituzionale in materia di ofensività e ragionevolezza, in Dir. pen. cont. - Riv. trim., 2011, 1, 99.
139
i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
ma sinergico europeo impone delle limitazioni prepositive e sovraordinate alle
scelte di politica criminale del legislatore nazionale, come di quello comunitario,
apprestando per il giudice della legittimità del diritto positivo uno strumentario
di controllo delle opzioni penali.
2. La Corte costituzionale e la politica criminale sulla clandestinità: ofensività dimostrativa ed extrema ratio. In materia di politiche dell’immigrazione, il legislatore
nazionale è libero di adottare misure anche penali, senza però pregiudicare la
realizzazione degli obiettivi perseguiti dagli strumenti normativi europei, così
da privare questi ultimi del loro efetto utile. La Corte lussemburghese, nella nota
pronuncia El Dridi15, ha utilizzato uno strumento ermeneutico classico, la dottrina dell’efetto utile16, con il conseguente allargamento della competenza europea, a fronte di una compressione delle competenze nazionali, ed in funzione
espansiva alla tutela dei diritti17.
Prima dell’intervento della Corte europea, adita dalla Corte d’appello di
Trento, la Corte costituzionale, come già anticipato, con la sentenza n. 249 del
2010, ha dichiarato costituzionalmente illegittima, in riferimento agli artt. 3 e 25,
co. 2, Cost., la previsione della circostanza aggravante comune per i fatti commessi dal colpevole «mentre si trova illegalmente sul territorio nazionale», rilevando l’incompatibilità della disposizione – che fa riferimento ad una condizione
personale ai sensi dell’art. 3, co. 1, Cost. – con i principi di ofensività del reato e
di personalità della responsabilità penale18.
La decisione parrebbe rivoluzionaria poiché si tratterebbe della prima pronuncia di illegittimità costituzionale per il tramite diretto del principio di ofensività. Ma non è, del tutto, così.
Ora, i giudici costituzionali sottolineano due basilari fondamenti costituzionali in tema di trattamento giuridico dello straniero, ovvero la titolarità, in
15. Corte Giust. Unione Eur., 28 aprile 2011, Hassen El Dridi, C-61/11 PPU. La decisione
trae origine dal caso di Hassen El Dridi, cittadino di un Paese terzo, detenuto in Italia in regime di
custodia cautelare, nei confronti del quale è stata pronunciata in primo grado dal Giudice monocratico di Trento la condanna ad un anno di reclusione, in applicazione dell’art. 14, co. 5-ter, d.lgs.
286 del 1998. La disposizione, introdotta in Italia nel 2009, disciplina il caso di illecito trattenimento
nel territorio nazionale, senza giustiicato motivo, in violazione dell’ordine impartito dal Questore
di lasciare lo Stato, prevedendo come pena la reclusione da uno a quattro anni.
16. L’efetto utile, quale fondamento ermeneutico dei rapporti tra Stato e Comunità, è stato
dapprima afermato con riferimento alle norme del Trattato, poi esteso ai regolamenti ed, inine,
seppur con notevoli problematiche, anche alle direttive. Dalla sistematica applicazione dell’efetto
utile è nato il più signiicativo istituto comunitario: l’eicacia diretta.
17. Cossiri, La repressione penale degli stranieri irregolari nella legislazione italiana all’esame delle
Corti costituzionale e di giustizia, cit.
18. Manna, Il diritto penale dell’immigrazione clandestina, tra simbolismo penale e colpa d’autore,
in Cass. pen., 2011, 446 ss.
140
offensività
capo ai non cittadini, dei diritti inviolabili, che spettano ai singoli «non in quanto
partecipi di una determinata comunità politica, ma in quanto esseri umani»19e
l’inammissibilità di trattamenti diversiicati e peggiorativi dei non cittadini sulla
base della sola condizione giuridica di stranieri, «specie nell’ambito del diritto
penale, che più direttamente è connesso alle libertà fondamentali della persona, salvaguardate dalla Costituzione con le garanzie contenute negli artt. 24 e
seguenti, che regolano la posizione dei singoli nei confronti del potere punitivo
dello Stato».
La Corte, in particolare, evidenzia il parallelismo illegittimo tra i trattamenti
penali più severi fondati su qualità personali dei soggetti che derivino dal precedente compimento di atti «del tutto estranei al fatto-reato» ed il rigoroso rispetto
dei diritti inviolabili della persona umana, con l’efetto che qualsiasi previsione
di una responsabilità penale d’autore sarebbe «in aperta violazione del principio
di ofensività»20. Ma non solo. Nella pronuncia in esame, poi, la Consulta individua l’altro carattere del principio di ofensività nostrano, ovvero quello della proporzione tra diritto fondamentale e bene giuridico tutelato penalmente,
nel senso che, «in presenza di un diritto inviolabile, il suo contenuto di valore
non può subire restrizioni o limitazioni da alcuno dei poteri costituiti se non
in ragione dell’inderogabile soddisfacimento di un interesse pubblico primario
costituzionalmente rilevante». Il richiamo alla teoria bricoliana del bene giuridico prepositivo e costituzionalmente previsto, per giustiicare l’uso del potere
punitivo statuale, appare evidente, anche se, a ben guardare, la Corte utilizza
tale parametro (nell’accezione di necessaria lesività) per dichiarare l’incostituzionalità dell’aggravante di clandestinità, in stretta correlazione con il principio di
materialità (altra accezione, se si vuole, di quello di ofensività)21.
Ed invero, i giudici costituzionali afermano che la disposizione censurata individua un tipo di autore – l’immigrato irregolare – illegittimamente assoggetta19. Corte cost., n. 105 del 2001.
20. Corte cost., n. 354 del 2002.
21. Si ha l’impressione che la Corte costituzionale utilizzi l’espressione ofensività per indicare accezioni del tutto eterogenee dal punto di vista concettuale. Nel testo, di contro, si preferisce
la distinzione operata da Canestrari, Cornacchia, De Simone, Manuale di diritto penale, cit., 201,
secondo cui, in prima battuta, il principio di ofensività sancisce che il fatto proprio e colpevole,
previsto dalla legge, per integrare gli estremi dell’illecito penale, deve essere inoltre un fatto ofensivo di beni essenziali per la convivenza civile. La genericità di tale assunto non è che il precipitato
della genericità della denominazione di ofesa, sotto la quale vengono fatte rientrare problematiche afatto eterogenee dal punto di vista concettuale. Per ragioni metodologiche è invece corretto
distinguere tre diversi principi che presiedono alla fondazione dell’illecito penale e che si trovano
reciprocamente in relazione di progressione ascendente: dal principio di materialità; al classico canone del neminem laedere rivisitato come principio di ofesa a terzi; al moderno e ben più pregnante
principio di necessaria lesività. In questa prospettiva, dunque, è evidente che la Corte costituzionale ha utilizzato il principio di materialità per sanzionare l’art. 61, co. 11-bis, c.p.
141
i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
to, sempre e comunque, ad un più severo trattamento, per efetto di uno stigma
che viene impresso sul soggetto e che ne caratterizza – con presunzione generale
ed assoluta – tutte le successive condotte penalmente illecite, come segnate da
un accentuato antagonismo verso la legalità. «Tale presunzione non trova giustiicazione nella violazione delle norme sul controllo dei lussi migratori, visto
che detta trasgressione non è univocamente sintomatica di una particolare pericolosità sociale. Ciò determina un contrasto – scrive la Corte – tra la disciplina
censurata e l’art. 25, co. 2, Cost., che pone il fatto alla base della responsabilità
penale e prescrive pertanto, in modo rigoroso, che un soggetto debba essere sanzionato per le condotte tenute e non per le sue qualità personali. Un principio,
quest’ultimo, che senz’altro è valevole anche in rapporto agli elementi accidentali del reato».
«La previsione considerata ferisce, in deinitiva, il principio di ofensività,
giacché non vale a conigurare la condotta illecita come più gravemente ofensiva con speciico riferimento al bene protetto, ma serve a connotare una generale
e presunta qualità negativa del suo autore».
In conclusione, dunque, il principio di ofensività, nella sua accezione concettuale della materialità22, non ammette alcuna scelta o modulazione sanzionatoria giustiicata su connotati d’autore sic et simpliciter, qualora tale diferenziazione soggettiva sia di per sé inespressiva – almeno secondo l’id quod plerumque accidit – di un maggior danno o di un maggior pericolo per il bene giuridico tutelato23, risultando altresì, in tali casi, tanto più irragionevolmente discriminatoria
alla luce del principio di eguaglianza24.
Nella successiva pronuncia25 sul reato di clandestinità di cui all’art. 10-bis,
d.lgs. 286 del 1998, impugnato per sospetta tensione con i principi di materialità
e necessaria lesività, la Corte costituzionale ha, prima d’ogni altro, ribadito che
«l’individuazione delle condotte punibili e la conigurazione del relativo trattamento sanzionatorio rientrano nella discrezionalità del legislatore: discrezionalità il cui esercizio può formare oggetto di sindacato, sul piano della legittimi-
22. Il fondamento costituzionale del principio di ofensività in genere è individuato sia
nell’art. 27, co. 3, Cost., sia nell’art. 25, co. 2, Cost. che, oltre al principio di materialità (e quindi
di non punibilità di puri atteggiamenti interiori o attinenti al forum conscientiae), vieterebbe anche
l’incriminazione di fatti inofensivi come meri indizi sintomatici di personalità deviante o indici
diagnostici della dimensione soggettiva. Cfr. Bricola, (voce) Teoria generale del reato, in Noviss. Dig.
It., XIV, Torino, 1973 82 ss.
23. Corte cost., n. 249 del 2010, Considerato in diritto, § 5, edita in Riv. it. dir. proc. pen., 2010,
1349 ss., con nota di Masera, Corte costituzionale e immigrazione: le ragioni di una scelta compromissionaria, 1385.
24. Manes, I recenti tracciati della giurisprudenza costituzionale in materia di ofensività e ragionevolezza, cit., 105.
25. Corte cost., n. 250 del 2010.
142
offensività
tà costituzionale, solo ove si traduca in scelte manifestamente irragionevoli o
arbitrarie»26. Tale discrezionalità del legislatore può essere esercitata già con la
selezione del bene giuridico da tutelare. Su tale aspetto ed in relazione alle censure oggetto del giudizio di costituzionalità, la Corte ha rigettato l’eccezione di
illegittimità che evidenziava il reato di clandestinità posto a tutela di un bene
giuridico privo di meritevolezza penale, e diretto a sanzionare «una mera disobbedienza», afermando che «il bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice
è, in realtà, agevolmente identiicabile nell’interesse dello Stato al controllo e
alla gestione dei lussi migratori, secondo un determinato assetto normativo:
interesse la cui assunzione ad oggetto di tutela penale non può considerarsi irrazionale ed arbitraria – trattandosi del resto, del bene giuridico “di categoria”, che
accomuna buona parte delle norme incriminatrici presenti nel testo unico del
1998 – e che risulta, altresì, ofendibile dalle condotte di ingresso e trattenimento
illegale dello straniero»27. In questa pronuncia, dunque, la Corte pare discostarsi
26. Corte cost., n. 250 del 2010, Considerato in diritto, § 5.
27. Corte cost., n. 250 del 2010, Considerato in diritto, § 6.3, ove, inoltre, i giudici costituzionali evidenziano che «l’ordinata gestione dei lussi migratori si presenta, in specie, come un bene
giuridico “strumentale”, attraverso la cui salvaguardia il legislatore attua una protezione in forma
avanzata del complesso di beni pubblici “inali”, di sicuro rilievo costituzionale, suscettivi di essere
compromessi da fenomeni di immigrazione incontrollata. Ciò, secondo una strategia di intervento analoga a quella che contrassegna vasti settori del diritto penale complementare, nei quali la
sanzione penale – specie contravvenzionale – accede alla violazione di discipline amministrative
aferenti a funzioni di regolazione e controllo su determinate attività, inalizzate a salvaguardare
in via preventiva i beni, specie sovraindividuali, esposti a pericolo dallo svolgimento indiscriminato delle attività stesse (basti pensare, ad esempio, al diritto penale urbanistico, dell’ambiente, dei
mercati inanziari, della sicurezza del lavoro). Caratteristica, questa, che, nel caso in esame, viene
peraltro a rilettersi nell’esiguo spessore della risposta punitiva preigurata dalla norma impugnata,
di tipo meramente pecuniario. È incontestabile, in efetti, che il potere di disciplinare l’immigrazione rappresenti un proilo essenziale della sovranità dello Stato, in quanto espressione del controllo
del territorio. Come questa Corte ha avuto modo di rimarcare, “lo Stato non può […] abdicare al
compito, ineludibile, di presidiare le proprie frontiere: le regole stabilite in funzione d’un ordinato
lusso migratorio e di un’adeguata accoglienza vanno dunque rispettate, e non eluse […], essendo
poste a difesa della collettività nazionale e, insieme, a tutela di coloro che le hanno osservate e
che potrebbero ricevere danno dalla tolleranza di situazioni illegali” (sentenza n. 353 del 1997). La
regolamentazione dell’ingresso e del soggiorno degli stranieri nel territorio dello Stato è, difatti,
“collegata alla ponderazione di svariati interessi pubblici, quali, ad esempio, la sicurezza e la sanità
pubblica, l’ordine pubblico, i vincoli di carattere internazionale e la politica nazionale in materia di
immigrazione” (sentenze n. 148 del 2008, n. 206 del 2006 e n. 62 del 1994): vincoli e politica che,
a loro volta, rappresentano il frutto di valutazioni aferenti alla “sostenibilità” socio-economica
del fenomeno. Il controllo giuridico dell’immigrazione – che allo Stato, dunque, indubbiamente
compete (sentenza n. 5 del 2004), a presidio di valori di rango costituzionale e per l’adempimento di obblighi internazionali – comporta, d’altro canto, necessariamente la conigurazione come
fatto illecito della violazione delle regole in cui quel controllo si esprime. Determinare quale sia la
risposta sanzionatoria più adeguata a tale illecito, e segnatamente stabilire se esso debba assumere
una connotazione penale, anziché meramente amministrativa (com’era anteriormente all’entrata
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i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
dalla teoria bricoliana, richiamata, come veriicato nell’immediato precedente28,
ofrendo legittimazione alla tecnica di seriazione dei beni giuridici29, e così riconoscendo espressamente al legislatore piena discrezionalità nel deinire il proilo
qualitativo (e, o il tasso di artiicialità) degli interessi ritenuti meritevoli di tutela30, utilizzando così l’argomento bricoliano del bene presupposto suscettivo di
tutela penale, in maniera però più ampia, tanto da distinguere beni giuridici strumentali da quelli inali di sicuro rilievo costituzionale, senza, però, individuare
alcun nesso di presupposizione necessaria tra gli uni e gli altri31.
Ma si tratta, a ben vedere, solo di una pseudo-libertà del legislatore ordinario
nella selezione del bene giuridico da tutelare penalmente. Ed infatti, se fosse
vero che il principio di necessaria lesività è indiferente alla selezione degli interessi da tutelare in sé considerati, allora, tali interessi non classiicabili potrebbero
sacriicare il diritto fondamentale alla libertà personale del reo, così ledendo il
principio secondo cui, in presenza di un diritto inviolabile della persona umana,
«il suo contenuto di valore non può subire restrizioni o limitazioni da alcuno dei
poteri costituiti se non in ragione dell’inderogabile soddisfacimento di un interesse pubblico primario costituzionalmente rilevante» (n. 249 del 2010). Allora,
bisogna andare oltre.
Tirando le ila del discorso e cercando di comporre in armonia la giurisprudenza costituzionale delle decisioni esaminate, si può afermare che il principio
di ofensività, nella sua accezione di necessaria lesività, ha fondamento costituzionale ed è parametro di sindacabilità delle leggi penali anche in relazione alla
scelta del bene giuridico da tutelare, nel senso che la libertà del legislatore ordinario nella selezione dell’interesse meritevole di tutela penale trova il solo limite della proporzione con il sacriicio della libertà personale. È un primo passo
dell’argomentazione che si svilupperà in seguito.
in vigore della legge n. 94 del 2009), rientra nell’ambito delle scelte discrezionali del legislatore, il
quale ben può modulare diversamente nel tempo – in rapporto alle mutevoli caratteristiche e dimensioni del fenomeno migratorio e alla diferente pregnanza delle esigenze ad esso connesse – la
qualità e il livello dell’intervento repressivo in materia».
28. Nella pronuncia n. 249 del 2010, la Corte aferma che, in presenza di un diritto inviolabile,
«il suo contenuto di valore non può subire restrizioni o limitazioni da alcuno dei poteri costituiti se
non in ragione dell’inderogabile soddisfacimento di un interesse pubblico primario costituzionalmente rilevante» (sentenze n. 366 del 1991 e n. 63 del 1994).
29. Fiorella, (voce) Reato in generale, cit., 814 ss. In materia ambientale, M. Musco, Il principio di ofensività nei reati ambientali, in www.dirittoambiente.com.
30. Manes, I recenti tracciati della giurisprudenza costituzionale in materia di ofensività e ragionevolezza, cit., 101.
31. Per la critica della selezione di beni strumentali, cfr. Canestrari, Cornacchia, De Simone, Manuale di diritto penale, cit., 219. Sulla distinzione tra beni strumentali e beni inali, Manna,
Introduzione al diritto penale dell’impresa, in Manna (a cura di), Corso di diritto penale dell’impresa,
Padova, 2010, 10 ss.
144
offensività
Ora limitiamoci a segnare un punto, afermando che, su questa linea, il controllo costituzionale si afaccia timidamente (ancora) al “balcone” della giustiziabilità dell’extrema ratio, via che porta al sindacato degli obblighi di tutela penale,
entrando così in un campo dove la ritrosìa del giudice costituzionale ad intervenire si fa più accentuata32, anche in ragione della perdurante assenza di un
aidabile strumentario concettuale, che, come si constaterà più avanti, andrebbe
individuato nelle norme sovranazionali in virtù dei vincoli imposti dall’art. 117,
co. 1, Cost.
Ad ogni modo, la denunciata smaterializzazione-spiritualizzazione del bene
giuridico appare più evidente con l’ingresso, anche nella materia penale, del precauzionismo. È opportuno appuntare, brevemente, l’attenzione su tale principio
al ine di veriicare l’attuale utilità di un’individuazione prepositiva e sovraordinata degli interessi meritevoli di tutela penale nell’evoluzione della norma penale
europea, in considerazione dell’importante collocazione della precauzione nel
sistema comunitario33.
3. Principio di precauzione vs principio di necessaria lesività. Il precauzionismo e l’individuo potenzialmente colpevole. Sul principio di precauzione si è concentrata l’attenzione della dottrina penalistica almeno dell’ultimo decennio34, in questa sede, va
detto, con la dovuta sintesi, che il precauzionismo viene tradizionalmente indivi-
32. Manes, I recenti tracciati della giurisprudenza costituzionale in materia di ofensività e ragionevolezza, cit., 102, nota 12, ove l’A. richiama Donini, Democrazia e scienza penale nell’Italia di ogi: un
rapporto possibile, in Riv. it. dir. proc. pen.,1083 ss., 1087 ss.; inoltre Id., Principi costituzionali e sistema
penale, in Ius17@unibo.it, 2009, 2, 417 ss., e già Id., Il volto attuale dell’illecito penale, Milano, 2004, 85
ss. ove si evidenzia l’importanza della motivazione delle leggi penali quale presupposto per costruire la giustiziabilità dell’extrema ratio, mediante il successivo controllo della Corte costituzionale, e
sottolineando più in generale la necessità di disporre di saperi empirici per rendere più penetranti
– inter alia – i sindacati di ofensività, ragionevolezza e sussidiarietà.
33. Per una lucida impostazione, cfr. Castronuovo, Principio di precauzione e beni legali alla
sicurezza, cit., in cui l’A. osserva che «l’intensa produzione normativa europea degli ultimi anni
appare dichiaratamente ispirata, in diversi contesti di “rischio” (ambientale, alimentare, lavorativo, da prodotto…), alla realizzazione di un “elevato livello di tutela”. Uno strumento o, forse, in un
certo senso, un sintomo di questa tendenza può essere identiicato, tra l’altro, nella progressiva
estensione dell’applicazione del principio di precauzione ad ambiti di tutela sempre più ampi e ulteriori rispetto al settore (originariamente esclusivo) della tutela ambientale. Come noto, sebbene
sul piano del diritto dei Trattati un riferimento esplicito al principio di precauzione sia rinvenibile
esclusivamente in materia di ambiente, nondimeno la sua portata odierna – soprattutto in seguito
alla giurisprudenza della Corte di Giustizia, ma poi con ampie conferme nel diritto “derivato” – è
divenuta molto più vasta, trovando applicazione nelle materie incidenti sulla tutela della salute
umana (oltre che delle piante e degli animali): pertanto, l’ambito di applicazione del principio di
precauzione può sicuramente riguardare, nel diritto europeo vigente, i diversi settori nei quali si
articola la tutela dei beni della salute e della sicurezza».
34. Cfr. bibliograia indicata nella nota 13.
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i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
duato nelle opere di Ulrich Beck e Hans Jonas, anche se il modello sociologico e
ilosoico di riferimento è indubbiamente più ampio e complesso. I sostenitori di
tale prospettiva sono, altresì, convinti che, in un’ottica post moderna di superamento dell’idea liberale del diritto penale contrapposto alla garanzia dell’habeas
corpus, oggi, il diritto penale si deve porre l’ulteriore obiettivo di preservare le
generazioni future, fondato sul generale dovere solidaristico di sicurezza.
È stato osservato35 che all’esasperazione di un’ottica liberale, antropocentrica
e interamente proiettata sul presente, si contrappone la teorizzazione di un generale (e generico) dovere solidaristico di sicurezza, teleologicamente orientato
dal lungimirante obiettivo di preservare le generazioni future.
Il fondamento del precauzionismo sta nella neutralizzazione del rischio di un
danno: qualora una valutazione scientiica rilevi la presenza di rischi connessi
allo svolgimento di certe attività, anche se, vista l’insuicienza o la contraddittorietà dei dati scientiici a disposizione, gli stessi non possono essere interamente
dimostrati, né può essere precisata con esattezza la loro portata, il principio di
precauzione impone nondimeno di adottare tutte le misure necessarie per azzerare o contenere la minaccia in questione, giungendo, se necessario, all’astensione dallo svolgimento dell’attività rischiosa36. La precauzione sta alla prevenzione, come il rischio sta al pericolo. È opinione suicientemente consolidata
quella per cui, mentre il principio di prevenzione verrebbe in considerazione solo
in presenza di rischi scientiicamente dimostrati, il presupposto applicativo del
principio di precauzione consisterebbe, come già precisato, nell’incertezza scientiica relativa agli efetti che una certa attività o un certo prodotto sono in grado
di cagionare37.
35. Massaro, Principio di precauzione e diritto penale: nihil novi sub sole?, in www.penalecontemporaneo.it.
36. Massaro, op. e loc. cit.
37. Tra gli altri Bruno, Il principio di precauzione tra diritto dell’Unione europea e WTO, in DGA,
2000, 571; Manfredi, Note sull’attuazione del principio di precauzione in diritto pubblico, in DP, 2004,
1086; Montini, Unione europea e ambiente, in Nespor, De Cesaris (a cura di), Codice dell’ambiente,
III, Milano, 2009, 67; Amirante, Diritto ambientale italiano e comparato. Principi, Napoli, 2003, 39;
Cordini, Diritto ambientale comparato, III, Padova, 2002, 187, 188; Cafagno, Principi e strumenti di
tutela dell’ambiente come sistema complesso, adattivo, comune, Torino, 2007, 263. La distinzione emerge
chiaramente dal Parere del Comitato economico e sociale sul tema Il ricorso al principio di precauzione (2000/C 268/04), secondo cui: «2.7. Ciò conduce alla problematica della decisione. Si ritorna
quindi all’interrogativo formulato nella comunicazione della Commissione: che cosa è un rischio
accettabile? Quando è possibile assumere un rischio? Il termine prescelto è ormai quello della precauzione. La precauzione si distingue dalla prevenzione. Per scegliere la prevenzione di fronte ad
un rischio, occorre poterlo misurare: la prevenzione è possibile solo quando il rischio è misurabile
e controllabile. 2.8. Per precauzione si intende l’atteggiamento che ci si aspetta da qualcuno al quale si dice che, oltre al rischio da controllare e misurare, deve correre un rischio che non può ancora
conoscere ma che potrebbe manifestarsi in futuro in una nuova fase di evoluzione della scienza. Il
rischio contemporaneo è contraddistinto da una dimensione particolare, ovvero dal fatto di essere
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offensività
A livello europeo, il principio di precauzione è previsto all’art. 191, n. 2, TFUE
secondo cui: «La politica dell’Unione in materia ambientale mira a un elevato
livello di tutela, tenendo conto della diversità delle situazioni nelle varie regioni della Comunità. Essa è fondata sui principi della precauzione e dell’azione
preventiva, sul principio della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni
causati all’ambiente, nonché sul principio “chi inquina paga”. Tuttavia, il principio di precauzione assume un rilievo molto più ampio nella giurisprudenza
comunitaria, che, come già ricordato in precedenza, si è resa protagonista della sua estensione a settori di tutela ulteriori rispetto all’ambiente, prima della
speciica traduzione del principio dal diritto comunitario convenzionale a quello
derivato»38. Un importante riferimento negli atti comunitari è poi costituito dalla
Comunicazione della Commissione sul principio di precauzione (Bruxelles, 2 febbraio
2000), specialmente laddove se ne ricorda l’attinenza rispetto all’articolazione di
una corretta analisi dei rischi, nelle sue tre fasi fondamentali (valutazione, gestione e comunicazione del rischio)39.
Anche nell’ordinamento italiano il principio de quo, come è noto, ha ottenuto
espliciti riconoscimenti normativi, specie per ciò che attiene alla tutela dell’ambiente, nel decreto legislativo n. 152 del 2006 (c.d. codice dell’ambiente)40, ma
anche in materia di inquinamento elettromagnetico (legge-quadro n. 36/2001)41,
di sicurezza alimentare e dei prodotti in genere.
Utilizzando il parametro della precauzione per la costruzione di una norma
penale si anticipa notevolmente la rilevanza criminale di un determinato comportamento, punito poiché sarebbe fonte di rischio per un bene di rilevante interesse collettivo (ambiente o salute umana). Le regole cautelari dettate dalla
precauzione, infatti, sono poi formalizzate o attratte mediante rinvio (anche
legato ad una straordinaria dilatazione del tempo. Si passa quindi da una problematica legata alla
sicurezza tecnica ad una problematica legata alla sicurezza etica».
38. A titolo esempliicativo, Corte Giust. Com. Eur., 5 maggio 1998, C-157/96 e C-180/96,
National Farmes Union; Trib. I ist. CE, 16 luglio 1998, T-199/96, Laboratoires pharmaceutiques Bergaderm SA; Corte Giust. Com. Eur., 9 settembre 2003, C-236/01, Monsanto Agricoltura Italia e altri, in
FI, 2004, IV, 245 ss., con nota di Barone, Organismi geneticamente modiicati (Ogm) e precauzione: il rischio alimentare tra diritto comunitario e diritto interno, ibid. Cfr., inoltre, Trib. I ist. CE, Sez. III, 11 settembre 2002, T-13/99, Pizer Health SA/Consiglio; Trib. I ist. CE, 21 ottobre 2003, T-392/02, Solvay.
39. Castronuovo, Principio di precauzione e beni legati alla sicurezza, cit.
40. Il riferimento è, in particolare, agli artt. 3-ter, 178, 179, co. 3 e 301.
41. In materia di protezione dalle esposizioni a campi elettrici, magnetici ed elettromagnetici, è opportuno il richiamo della inalità di cui all’art. 1, co. 1, lett. b), l. 36/2001, ovvero quella di
«promuovere la ricerca scientiica per la valutazione degli efetti a lungo termine e attivare misure
di cautela da adottare in applicazione del principio di precauzione di cui all’articolo 174, paragrafo
2, del trattato istitutivo dell’Unione Europea». Sui possibili danni derivanti dall’uso di telefoni mobili cfr. Zocchetti, Osservazioni di un epidemiologo su una sentenza della Corte d’Appello di Brescia in
sede civile, in www.penalecontemporaneo.it.
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i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
solo implicito) all’interno di norme penali, strutturate come fattispecie di mera
condotta inosservanti tali regole cautelari o precauzionali, secondo un modello
di illecito assimilabile a quello di mera disobbedienza42. Si ha, dunque, un arretramento della punibilità per fatti dolosi molto prima della soglia del tentativo
e di un’ofensività oggettivamente e socialmente univoca, avvicinando il reato
all’autore e la pena alla neutralizzazione della pericolosità. Ma a ben guardare, si
va ben oltre. Il comportamento punito è rischioso poiché si ignorano (questa è
la sostanza dell’incertezza), da un punto di vista scientiico, le conseguenze che
possano incidere su un bene giuridico fondamentale.
La conigurazione di illeciti di mero rischio disperde ogni collegamento con la
materialità e la necessaria lesività del fatto criminale che si arresta innanzi al pericolo astratto, poiché, andando oltre, ino al rischio (di un pericolo), forse possibile, ma non probabile (perché si ignorano le conseguenze del comportamento), si
punisce ciò che potrebbe non essere colpevole. Si sacriica la libertà personale di
un individuo senza conoscere le conseguenze del suo comportamento. Né varrebbe obiettare che la criminalizzazione di quel comportamento potenzialmente
pericoloso, ma anche potenzialmente innocuo, è giustiicata dalla rilevanza del
bene (inale) da tutelare, poiché si ha la netta sensazione di una smaterializzazione della condotta da punire, in contrasto con la necessaria materialità del fatto
da punire alla stregua di quanto indicato perentoriamente dall’art. 25, co. 2, Cost.
Non va trascurato, poi, il “potenziale” inutile sacriicio della libertà personale del
reo che stride con il principio fondamentale del nostro ordinamento che ripudia
l’idea di un individuo potenzialmente colpevole: questo, in concreto, signiicherebbe la previsione di un illecito penale di mero rischio, nonostante l’espressa
garanzia della presunzione di non colpevolezza.
La libertà personale, la materialità, la necessaria lesività e la presunzione di
non colpevolezza paiono in conlitto con norme penali precauzionali43.
42. Castronuovo, Principio di precauzione e beni legati alla sicurezza, cit., acutamente, osserva
che «tali precetti sono a “a struttura variabile” nel senso che potranno essere formalizzati non
soltanto secondo l’alternativa “secca” norme di divieto/norme d’obbligo, ma anche secondo varie
sotto-articolazioni, talora di natura mista, implicanti una peculiare disciplina del rischio incerto, ma
consentito solo a certe condizioni normative e procedurali: rispetto di limiti-soglia, o di procedure di autorizzazione, o di meccanismi di tipo ingiunzionale, o di norme strutturate sotto forma di obblighi
di fare (es. di comunicazione, di richiamo o di ritiro di prodotti), etc. In ogni caso, si tratta di opzioni normative che, quando fondate sul principio di precauzione, non sembrano comunque riconducibili alla consueta tecnica di normazione del pericolo astratto o presunto, la cui struttura teleologica
rimanda pur sempre alla disponibilità di leggi scientiiche o regole di esperienza “corroborate”».
43. Una delle teorie ilosoico-penalistiche più controverse è il diritto penale del nemico, promossa da Günther Jakobs, avente ad oggetto lo stravolgimento della predominanza della tutela
giuridica dell’individuo in quanto tale, qualora la vita dello Stato sia messa in pericolo da soggetti
non considerati come cittadini, ma regrediti alla condizione di “nemici”. Per una critica cfr. Zumpani, Critica del diritto penale del nemico e tutela dei diritti umani, in D&Q, 2010, 10.
148
offensività
Al più, il principio di precauzione può giustiicare delle misure cautelari che
impongano determinati comportamenti o vietino determinati atteggiamenti,
per il tempo strettamente necessario a veriicare l’efettiva pericolosità (sulla base
delle conoscenze scientiiche) degli stessi, e non la loro mera rischiosità44. Tali
illeciti di mera condotta diicilmente garantiscono la tutela del bene fondamentale, ma, più correttamente, hanno ad oggetto il raforzamento, attraverso la
sanzione penale, della funzione amministrativa di controllo. Tutela che potrebbe
essere eicacemente garantita dall’apparato sanzionatorio amministrativo.
L’ontologica problematicità del principio di precauzione con il diritto penale45, qui appena tracciata, da un lato, «enfatizza quel processo di lessione dei
principi e delle categorie classiche del diritto penale, come visto, a fronte delle
domande di tutela ingenerate dalle dimensioni e morfologie inedite dei rischi
contemporanei46, dall’altro, espande il diritto penale, in spregio anche del principio di extrema ratio, per imporre obblighi o divieti dotati di sanzione punitiva»47.
44. Corte Giust. Com. Eur., 16 novembre 2002, T-74/00; Corte Giust. Com. Eur., 5 maggio
1998, C-157/1996, in cui la Corte ha ritenuto legittimo, nell’ambito dell’emergenza generata dal
caso “mucca pazza”, il divieto provvisorio disposto dalla Commissione di esportare bovini, carni bovine e prodotti derivati dal territorio del Regno Unito, osservando, tra l’altro, che «quando
sussistono incertezze riguardo all’esistenza o alla portata di rischi per la salute delle persone, le
istituzioni possono adottare misure protettive senza dover attendere che siano esaurientemente
dimostrate la realtà e la gravità di tali rischi» (§ 63).
45. Canestrari, Cornacchia, De Simone, Manuale di diritto penale, cit., 434 ss., in cui si evidenzia che un tale principio in materia penale trova un ostacolo nei principi garantistici, ma anche
appare incompatibile, ad esempio, con l’accertamento della causalità, che, come noto, richiede un
giudizio nomologico in termini di certezza o di alta credibilità razionale circa il nesso tra condotta
ed evento.
46. Così Castronuovo, Principio di precauzione e beni legati alla sicurezza, cit., 9, in cui si richiama per l’analisi dottrinale al processo di lessibilizzazione delle categorie penalistiche, De Francesco, L’imputazione del reato e i tormenti del penalista, in Scritti Stella, I, Napoli, 2007, 513 ss.; Piergallini, Danno da prodotto e responsabilità penale, Milano, 2004, 33 ss. Per alcune osservazioni critiche e
per ulteriori riferimenti, Castronuovo, La colpa penale, Milano, 2009, 300 ss., 420 s., 422 ss., 612 ss.
47. Per un’analisi sull’utilizzo giurisprudenziale del principio di precauzione nel nostro ordinamento, cfr. Castronuovo, Principio di precauzione e beni legati alla sicurezza, cit., 42, che, alla ine
della sua indagine, osserva che «l’ipotesi di partenza – circa la capacità espansiva del principio di
precauzione – ha trovato conferma, ma l’esito complessivo appare forse più chiaroscurale rispetto
alle attese, lasciando intravvedere, tra le ombre, anche qualche chiarore. In un primo momento,
l’analisi legislativa ha mostrato come il principio di precauzione, attraverso il suo recepimento nel
diritto interno, sia perfettamente funzionale a un efetto espansivo del diritto penale. Su questo piano
(astratto) dell’analisi, si è altresì evidenziata una tendenza della legislazione informata al principio
di precauzione a riprodurre quella connotazione per lo più “simbolica” propria del diritto penale moderno, in funzione sia del carico sanzionatorio tutto sommato lieve, sia dei sogetti chiamati
a rispondere, ovvero soltanto le persone isiche: si è dunque sottolineata l’incongruenza, ai ini
dell’efettività della tutela, dell’assenza di una responsabilità degli enti collettivi per gli illeciti previsti
nelle materie ispirate alla precauzione. Anche l’analisi di impatto applicativo (e concreto) del principio
ha ribadito, nei suoi esiti complessivi, l’efetto espansivo sul diritto penale. Tale efetto – registrato
149
i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
Per rispondere all’interrogativo posto alla ine del paragrafo precedente, nonostante le ragionevoli critiche all’impostazione bricoliana48, non vi possono
essere dubbi sulla necessaria utilità di individuare un catalogo di beni giuridici
prepositivi e sovraordinati, inalizzato a guidare (e limitare) le scelte di politica
penale proprie del legislatore democratico e da fungere da parametro di valutazione delle stesse da parte della Corte costituzionale, nell’ambito di un giudizio
di bilanciamento degli interessi coinvolti, da un lato, quello della libertà personale del reo, dall’altro, quello di volta in volta leso, di pari rango.
Non si tratta di una questione di afezione ad un diritto penale costituzionalmente fondato, né di una cieca adesione ad una tesi utopica, ma di un necessario
ancoraggio del diritto penale ad una carta di valori superiori, ad un richiamo
alla moderazione nelle scelte di criminalizzazione perché la bussola incontrollata può portare alla regressione, ad un diritto penale autoreferenziato a colpi
di maggioranze parlamentari. Per tali ragioni, il principio di necessaria lesività
di indubbio rango costituzionale non può essere svilito a mero parametro di
interpretazione o mero sintomo di irragionevolezza della legge penale, ma deve
costituire criterio di sindacabilità della proporzione della politica criminale del
legislatore, nel senso di valutazione del corretto bilanciamento efettuato dalla
norma penale tra sacriicio della libertà personale imposto al reo e soddisfazione
come prevalente, ma non esclusivo – si estrinseca secondo diverse modalità, agendo su diferenti
elementi della fattispecie o, più in generale, su diversi momenti della ricostruzione della responsabilità penale. Talora – lo si è all’occorrenza evidenziato – il ricorso ad esso si rivela almeno in parte
improprio, non versandosi, in realtà, nel caso concreto, in una situazione cognitiva di indisponibilità di un’esplicazione nomologica corroborata, bensì di incertezza relativa a circostanze fattuali.
Tuttavia, anche tale utilizzo improprio rivela la tendenziale capacità espansiva del principio di precauzione: anzi, dimostra come – complice la sua ancora non del tutto risolta vaghezza sul piano
giuridico – la logica “conservativa” della quale esso è espressione, le sue buone ragioni di fondo, basate
su una Weltanschauung diicilmente non condivisibile nelle sue versioni “moderate”, ne facciano
una formula di sintesi, una breviloquenza evocativa – pure sul piano culturale – di un approccio di
tutela più intransigente anche in relazione a minacce gravi, verso beni davvero fondamentali, allo stato
predicabili soltanto come “non escludibili”. A questo punto, è possibile concludere che il principio
di precauzione occupa già un posto notevole tra gli elementi delle odierne politiche legislative e
criminali della “sicurezza”: la sua capacità di funzionare quale fattore espansivo del penale – sia nella
dimensione astratta della posizione delle norme, sia sul piano concreto della loro interpretazioneapplicazione – è, almeno in parte, anche espressione della più generale tendenza espansiva del diritto
comunitario sul diritto penale nazionale che la letteratura specializzata ha negli ultimi tempi messo in
luce». Come osserva l’A., tuttavia, «un elemento “in controtendenza” è stato rinvenuto nelle modalità argomentative attraverso le quali il principio di precauzione entra nelle motivazioni di quelle
(due) sentenze della suprema Corte – numericamente più esigue, ma nondimeno signiicative –
inquadrate nell’ultimo gruppo esaminato, là dove svolge una funzione di discrimine tra dimensione
punitivo-amministrativa e dimensione penale, giudicandosi esaurito il suo ruolo, in presenza di una
tutela di livello comunque elevato, sul piano sanzionatorio extrapenale».
48. Manna, Diritto penale e Costituzione, cit., 61 ss., in particolare, 80 ss.
150
offensività
del bene giuridico leso o posto in pericolo. I parametri concettuali vanno individuati a livello europeo.
4. Il giudizio di proporzione nella Carta di Nizza come fondamento dell’ofensività del reato europeo. La proporzione nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo e gli obblighi
di tutela penale in chiave vittimo-centrica. Necessaria lesività e dannosità sociale come
elementi che individuano il fatto penalmente rilevante. Il principio di ofensività a livello europeo49 può essere teorizzato sulla scorta del medesimo ragionamento su
cui si fonda la giustiicazione costituzionale nel sistema italiano (c.d. argumentum
libertatis). Dal momento che la pena rappresenta la sanzione più alittiva dell’ordinamento, in particolare quella detentiva, che pregiudica il bene fondamentale
della libertà personale, essa può essere adottata dal legislatore soltanto rispetto
a condotte che pregiudichino beni almeno di pari grado, ossia beni signiicativi,
che trovino in norme sovraordinate riconoscimento, esplicito o implicito.
La libertà personale è riconosciuta dall’art. 6 Carta, richiamata dall’art. 6
TUE, con l’efetto che la competenza penale europea, nei limiti di quanto attribuitole dal Trattato, dunque, non può prevedere la punibilità di comportamenti
che ledono (o mettono in pericolo) interessi estranei alla Carta di Nizza o alla
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, a cui l’Unione aderisce ai sensi dell’art. 6 TUE.
La Corte di Giustizia è custode della conformità delle norme europee alla
previsioni pattizie, secondo la procedura di annullamento disciplinata dall’art.
263 TFUE.
Ad ogni modo, seppur è vero che l’ofensività costituisce un prodotto della
dogmatica italiana, tale principio, nella sua più ampia accezione, appare non più
essere una categoria del solo diritto penale nostrano, ma appartiene alla cultura
europea, come risulta dai più recenti codici penali adottati da alcuni Paesi europei, con cui si è espressamente prevista la dannosità sociale del fatto come misura
della sua rilevanza penale50. L’ofensività (in questa accezione più ampia rispetto
49. Evidenzia l’assenza del riconoscimento esplicito di tale principio da parte della Corte di
Giustizia e, comunque, a livello europeo (ad eccezione di Spagna e Portogallo), da ultimo, Salcuni,
L’europeizzazione del diritto penale: problemi e prospettive, Milano, 2011, 430 ss.
50. Fornasari, Menghini, Percorsi europei di diritto penale, cit., 8 ss., in cui, dopo aver evidenziato la rilevanza dell’ofesa come indice di qualiicazione del fatto di reato nelle previsioni codicistiche di Polonia e Slovenia, con un distinguo sulla previsione di mera non punibilità nel codice di
procedura penale tedesco (Einstellung) e nel progetto Grosso di riforma del Codice Rocco, viene riportato l’art. 1 del codice penale croato del 1997 secondo cui (in lingua originale): «1. Kaznena djela i
kaznenopravne sankcije propisuju se samo za ona ponašanja kojima se tako ugrožavaju ili povrjeðuju osobne
slobode i prava èovjeka te druga prava i društvene vrijednosti zajamèene i zaštiæene Ustavom Republike
Hrvatske i meðunarodnim pravom da se njihova zaštita ne bi mogla ostvariti bez kaznenopravne prisile. 2.
Propisivanje pojedinih kaznenih djela te vrste i mjere kaznenopravnih sankcija za njihove poèinitelje temelji
151
i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
alla deinizione nostrana, comprendente quella del neminem laedere) è dunque
l’indice prepositivo di selezione penale di un fatto, come misura della proporzione della tutela penale del bene giuridico, così conigurandosi come un criterio
dimostrativo da limite alle scelte di politica criminale del legislatore51.
se na nužnosti kaznenopravne prisile i njezinoj primjerenosti jakosti i naravi opasnosti za osobne slobode i
prava èovjeka te druge društvene vrijednosti» (traduzione: «1. I reati e le sanzioni penali sono previsti
solo per gli atti che ledono o mettono in pericolo la libertà personale e i diritti umani e altri diritti
e valori sociali garantiti e protetti dalla Costituzione croata e dal diritto internazionale, la cui tutela
non potrebbe essere raggiunta senza la repressione penale. 2. La previsione di alcuni reati e il tipo e
l’entità delle sanzioni penali si basa sulla necessità della repressione penale e sulla sua adeguatezza
all’intensità e alla natura del pericolo per le libertà personali e per i diritti dell’uomo, nonché per
altri valori sociali»). Il primo comma dell’articolo suddetto è espressamente riprodotto nel nuovo
art. 1, del Codice croato del 7 novembre 2011.
51. Per la diferenza tra principio di ofensività e quello di esiguità, Manna, Corso di diritto penale, cit., 58, 59, che li distingue per due fondamentali ragioni: in primis, mentre l’ofensività reclama
la non rilevanza dei fatti inofensivi, con il principio di esiguità ci si intende riferire a fatti, invece, offensivi del bene giuridico, ma in modo così marginale, da non risultare bisognosi di pena. La seconda diferenza, «che rende a questo proposito più accettabile quest’ultimo principio – scrive l’A. –,
rispetto alle esigenze sottese alla legalità penale, consiste nella previsione di una pluralità di criteri
orientativi per il giudice, che attengono anche alla colpevolezza ed ai precedenti penali dell’imputato, nonché all’opinione espressa in proposito dalla persona ofesa, che al contrario non si rinvengono a proposito dell’ofensività, al contrario limitata all’aspetto relativo alla lesione e, o alla messa
in pericolo del bene giuridico». Da ciò, parrebbe evincersi che l’ofensività costituisce un principio
dimostrativo rivolto al legislatore che pone un divieto penale, mentre l’esiguità è un criterio ermeneutico rivolto, dunque, al giudice nel momento applicativo del divieto penale. Andrebbe chiarito,
comunque, se l’esiguità necessita di un’espressa previsione legislativa che autorizzi il giudice a valutare l’irrilevanza penale del fatto pur astrattamente ofensivo, come le ipotesi positivizzate di cui
agli artt. 27 d.P.R. 448 del 1988 e 34 d.lgs. 274 del 2000. Secondo la Corte costituzionale, come indicato da Manes, Principi costituzionali in materia penale (Diritto penale sostanziale), cit., «il compito di
uniformare la igura criminosa al principio di ofensività nella concretezza applicativa resta aidato
al giudice ordinario, nell’esercizio del proprio potere ermeneutico (ofensività “in concreto”)», di
modo che «esso rimanendo impegnato ad una lettura “teleologicamente orientata” degli elementi
di fattispecie, tanto più attenta quanto più le formule impiegate dal legislatore appaiano, in sé,
anodine o polisense – dovrà segnatamente evitare che l’area di operatività dell’incriminazione si
espanda a condotte prive di un’apprezzabile idoneità lesiva» (Corte cost., n. 225 del 2008). Da ciò,
è agevole dedurre che l’esiguità (ofensività in concreto, per utilizzare le parole della Consulta) non
necessita di alcuna previsione espressa del legislatore, essendo un criterio di interpretazione delle
norme penali per renderle conformi al principio costituzionale di ofensività (in astratto) e, dunque,
obbligatorio per il giudice a pena di inammissibilità di un’eventuale questione di costituzionalità.
Tale lettura oferta dalla giurisprudenza costituzionale parrebbe ammettere, nelle ipotesi di esiguità espressa (artt. 27 d.P.R. 448 del 1988 e 34 d.lgs. 274 del 2000), una distinzione tra inofensività
concreta del fatto e tenuità del fatto (rectius, irrilevanza penale del fatto, cfr. Relazione Progetto di
riforma del Codice penale del 15 luglio 1999, § Inofensività e irrilevanza del fatto; Manna, Risarcimento
del danno, ofensività ed irrilevanza penale del fatto: rapporti ed intersezioni, Critica del diritto, 2001, 381
ss.), con l’efetto che un fatto tenue potrebbe essere comunque concretamente ofensivo, e viceversa, un fatto non tenue potrebbe essere concretamente inofensivo. Ma la diicoltà di individuare
una distinzione esegetica sarebbe ardua, se non impossibile. Per tali ragioni, ma soprattutto per
152
offensività
Da ciò va appuntata l’attenzione su un’importante disposizione della Carta di
Nizza, utile a raforzare la convinzione della necessaria correlazione del sacriicio
della libertà personale del reo con la tutela di beni signiicativi di pari rango.
L’art. 52, § 1, Carta stabilisce: «Eventuali limitazioni all’esercizio dei diritti e
delle libertà riconosciuti dalla presente Carta devono essere previste dalla legge
e rispettare il contenuto essenziale di detti diritti e libertà. Nel rispetto del principio di proporzionalità, possono essere apportate limitazioni solo laddove siano
necessarie e rispondano efettivamente a inalità di interesse generale riconosciute dall’Unione o all’esigenza di proteggere i diritti e le libertà altrui».
La norma pattizia sovraordinata impone dunque una proporzione tra le limitazioni all’esercizio dei diritti e delle libertà fondamentali riconosciuti dalla Carta
e la tutela di interessi generali, che possa essere valutata come efettiva. L’avverbio efettivamente, oltre a raforzare il principio enunciato su un piano empirico,
ammette il sindacato sulla scelta del legislatore europeo, da parte dell’organo
giurisdizionale preposto alla salvaguardia del rispetto delle disposizioni sovraordinate (costituzionali), ainché si veriichi che le scelte punitive «rispondano
efettivamente a inalità di interesse generale riconosciute dall’Unione o all’esigenza di proteggere i diritti e le libertà altrui».
Tale giudizio di proporzione afonda le sue radici nella giurisprudenza della
Corte EDU ed, in particolare, nell’ambito della fondamentale valutazione della
«necessità in una società democratica», che costituisce uno dei tre requisiti (accanto alla previsione legale e allo scopo legittimo) stabiliti da diverse disposizioni
della Convenzione EDU ai ini di veriicare la legittimità dell’ingerenza pubblica
nell’esercizio di un diritto52. Il giudizio di proporzione, dunque, costituisce uno
dei momenti di maggiore penetrazione della Corte EDU nelle scelte di politica
criminale del legislatore nazionale, andando a sindacare le ragioni che possano
giustiicare la limitazione della libertà personale da parte della sanzione penale.
Invero, la libertà personale non va intesa nell’accezione minimale come libertà i-
ricercare punti certi nel sistema, la tentazione sarebbe quella di utilizzare la previsione di cui all’art.
34 d.lgs. 274 del 2000 come parametro ermeneutico di valutazione dell’ofensività in concreto per
tutto il sistema penale nostrano. Però osterebbe la natura processuale di tale disposizione. Forse
la soluzione migliore sarebbe quella più rigorosa: valutare l’irrilevanza del fatto solo nell’ipotesi di
esiguità espressa; l’ofensività in concreto come criterio di commisurazione della pena; l’ofensività
in astratto come criterio di sindacato costituzionale dell’opzione penale. Sulle ipotesi di esiguità
espressa, deinite clausole di irrilevanza, cfr. Lo Forte, Il principio di ofensività, in Capodoppi, Canestrari, Manna, Papa (a cura di), Trattato di diritto penale. Parte generale, vol. II, Il reato, Torino, 2013,
933 ss.; Cesari, Le clausole di irrilevanza del fatto nel sistema processuale penale, Torino, 2005, 12 ss. Per
la recente novità legislativa v. infra, Appendice postuma.
52. F. Mazzacuva, La Convezione europea dei diritti dell’uomo e i suoi rilessi sul sistema penale, in
Cadoppi, Canestrari, Manna, Papa (a cura di), Trattato di diritto penale. Parte generale, vol. I, Il diritto
penale e la lege penale, Torino, 2012, 459.
153
i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
sica e, dunque, il giudizio di proporzione, nella giurisprudenza della Corte EDU,
non si limita a valutare se la detenzione per la tutela di un determinato interesse collettivo è la reazione proporzionata per il richiesto sacriicio della libertà
personale, ma se la tutela penale in genere di un determinato bene giuridico è
proporzionata al sacriicio dei diritti e delle libertà fondamentali del reo. Su tale
aspetto si tornerà a breve.
È indubbio, pertanto, che la Corte EDU valuta la legislazione criminale nazionale secondo un criterio valoriale degli interessi coinvolti, inalizzato a stimare l’efettivo equilibrio della scelta di politica penale tra l’esigenza di tutela di un
determinato interesse ed il sacriicio imposto al reo. Tale sindacato sostanziale53
presuppone delle limitazioni costituzionali alle scelte di criminalizzazione che
si traducono, certamente, in divieti di incriminazione di diritti e libertà fondamentali54, ma anche in obblighi di tutela penale di determinati diritti primari55.
I giudici di Strasburgo, invero, sono andati oltre56, non solo, pretendendo delle
incriminazioni in astratto della violazione di determinati diritti fondamentali individuali, ma anche di concreta inlizione della pena all’autore del reato, per due
ragioni: la maggior eicacia dissuasiva dello strumento penale e le esigenze di
soddisfazione morale della vittima57.
I richiami alla funzione generalpreventiva (positiva, in particolare) della pena,
da un lato, per cui la tutela raforzata di taluni valori o beni giuridici garantisce la
paciica convivenza e indirizza l’orientamento culturale58, e quella della retribuzione, dall’altro, per cui il reato come fatto intrinsecamente disvaloriale impone di
essere sanzionato59, sono le coordinate teleologiche degli obblighi di tutela penale
di beni giuridici fondamentali, secondo la lettura della Corte di Strasburgo.
53. F. Mazzacuva, La convenzione europea dei diritti dell’uomo e i suoi rilessi nel sistema penale,
cit., 461.
54. In tema di equilibrio tra libertà di cronaca e tutela dell’onore, cfr. Corte eur. dir. uomo,
31 maggio 2011, Sabanovic vs. Montenegro e Serbia; in tema di accertamento della pericolosità delle
condotte di apologia di pur gravi reati, cfr. Corte eur. dir. uomo, 15 gennaio 2009, Orban e a. vs.
Francia; Corte eur. dir. uomo, 2 ottobre 2008, Aktan vs. Turchia; in tema di compatibilità tra diritto
alla vita privata e familiare e divieto di penalizzazione di rapporti omosessuali, cfr. Corte eur. dir.
uomo, 21 settembre 2010, Santos Couto vs. Portogallo; in tema di libertà di religione, cfr. Corte eur.
dir. uomo, Gr. Ch., 7 luglio 2011, Bayatyan vs. Armenia.
55. Bricola, (voce) Teoria generale del reato, cit., 832; critico cfr. Pulitanò, Obblighi costituzionali di tutela penale?, in Riv. it. dir. proc. pen., 1983, 522 ss. che negava l’ammissibilità di obblighi
costituzionali di tutela penale se non riallacciati al principio di uguaglianza.
56. Ampiamente Viganò, L’arbitrio del non punire. Sugli obblighi di tutela penale dei diritti fondamentali, in Studi in onore di Mario Romano, Napoli, 2011, 2657 ss.
57. In una visione vittimo-centrica del diritto penale.
58. Canestrari, Cornacchia, De Simone, Manuale di diritto penale, cit., 59.
59. Viganò, L’arbitrio del non punire. Sugli obblighi di tutela penale dei diritti fondamentali, cit.,
2685 ss.
154
offensività
Allora perché non ammettere un tale controllo da parte del giudice istituzionalmente competente al sindacato del diritto positivo dell’ordinamento a cui è
preposto?
Chiudendo il cerchio del ragionamento, si può afermare, quindi, che il giudizio di proporzione previsto dall’art. 52 Carta, attribuito alla cognizione della Corte
di Lussemburgo (art. 263 TFUE), alla stregua della lettura esegetica della Corte di
Strasburgo, esige che la norma penale europea venga posta per la tutela di diritti
fondamentali previsti dai Trattati (e dalla Carta di Nizza), nei limiti delle attribuzioni conferite all’Unione, non altrimenti tutelabili, attraverso la previsione di una sanzione efettivamente dissuasiva. Il coordinato intreccio di divieti di incriminazione
e di doveri di tutela penale di fondamentali diritti individuali delinea l’ambito del
diritto penale sovranazionale (di vocazione universale), nel rispetto del principio di
ofensività e di quello di extrema ratio delle scelte di criminalizzazione.
Rispetto all’impostazione bricoliana per cui i diritti e le libertà fondamentali
sono il catalogo necessario dei beni meritevoli di tutela penale, la lettura europea
dell’ofensività-proporzione va ben oltre, in quanto, in chiave retribuzionistica,
individua dei veri e propri doveri di tutela penale di determinati interessi: se,
nella lezione bricoliana, l’ofensività è il limite della punizione imposta al reo, nel
senso che in mancanza della lesione o messa in pericolo del bene, il fatto non ha
alcuna rilevanza penale (aspetto negativo dell’ofensività o necessaria lesività);
nell’ottica europea, l’ofensività diventa anche obbligo di tutela penale della vittima, nel senso che la lesione o messa in pericolo di un bene fondamentale impone la sanzione punitiva per il reo, nell’interesse della collettività e della vittima
(aspetto positivo dell’ofensività o neminem laedere o dannosità sociale)60. La necessaria lesività e la dannosità sociale sono i criteri di valutazione della rilevanza
penale del fatto, con l’efetto che non è possibile punire un comportamento che
non sia, ad un tempo, lesivo e dannoso (o pericoloso), per cui la pena deve curare
la lesione del bene giuridico e risarcire il danno soferto dalla vittima (anche solo
collettiva). Sono i due aspetti della stessa medaglia che contengono le scelte di
criminalizzazione del legislatore europeo61.
5. La giustiziabilità degli obblighi di tutela contenuti nella norma penale europea da parte del Giudice costituzionale. È noto che il contrasto tra norma nazionale e norma
europea non direttamente applicabile impone la dichiarazione di incostituziona-
60. Sul paternalismo infra § 8.
61. Tali caratteri del reato europeo sono stigmatizzati nell’incipit del Considerando n. 9 della
Direttiva 2012/29/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 25 ottobre 2012, che istituisce
norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato e che sostituisce la decisione
quadro 2001/220/GAI, secondo cui: «Un reato è non solo un torto alla società, ma anche una violazione dei diritti individuali delle vittime…».
155
i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
lità della prima per violazione degli artt. 11 e 117, co. 1, Cost., anche in malam
partem, laddove ci si trovi innanzi ad un conlitto triadico (o a tre norme)62, il
parametro normativo europeo di riferimento costituisce una regola ed, in particolare, nei casi in cui la prima norma penale nazionale sia in attuazione espressa
e la seconda norma nazionale sia compresente.
La problematica che qui si pone, invece, non riguarda un caso di inadempimento sopravvenuto all’obbligo comunitario di penalizzazione, né a quello di
inadempimento originario (ovvero di conlitto diadico), ma di inadempimento
assoluto o, meglio, di mancato intervento del legislatore nazionale in adempimento dell’obbligo comunitario.
Riprendendo l’analisi interrotta più sopra, può, dunque, la Corte costituzionale, nell’inerzia del legislatore ed in adempimento dell’obbligo di fedeltà comunitaria, ampliare l’area di un’incriminazione già esistente a fatti simili a quelli in
essa compresi, al ine di dare adempimento all’obbligo comunitario di penalizzazione? Prima d’ogni altro, è ormai indubbio63 che la Corte costituzionale sia
62. Secondo la nota sistematica di Sotis, Il diritto senza codice, cit., 230 ss.
63. I giudici costituzionali nostrani hanno riiutato, per molti decenni, l’opinione che la Corte possa essere inclusa fra gli organi giudiziari, ordinari o speciali che siano, tante sono, e profonde
le diferenze fra il compito aidato alla prima, senza precedenti nell’ordinamento italiano, e quelli
ben noti e storicamente consolidati propri degli organi giurisdizionali (Corte cost., ord. n. 13, del
1960), così chiudendo a qualsiasi ipotesi di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia come previsto
allora dall’art. 177 TCE (poi, art. 234 TCE ed, oggi, art. 267 TFUE). Tale atteggiamento di chiusura
è ribadito da Corte cost., ord. n. 536 del 1995, in cui si aferma che «il giudice comunitario non
può essere adito come pur ipotizzato in una precedente pronuncia (sentenza n. 168 del 1991) dalla
Corte costituzionale, la quale “esercita essenzialmente una funzione di controllo costituzionale,
di suprema garanzia della osservanza della Costituzione della Repubblica da parte degli organi
costituzionali dello Stato e di quelli delle Regioni” (sentenza n. 13 del 1960), con la conseguenza
che nella Corte costituzionale non è ravvisabile quella “giurisdizione nazionale” alla quale fa riferimento l’art. 177 del trattato istitutivo della Comunità Economica Europea, poiché la Corte non
può “essere inclusa fra gli organi giudiziari, ordinari o speciali che siano, tante sono, e profonde,
le diferenze tra il compito aidato alla prima, senza precedenti nell’ordinamento italiano, e quelli
ben noti e storicamente consolidati propri degli organi giurisdizionali” (sent. n. 13 del 1960)». Conf.
Corte cost., ord. n. 319 del 1996; ord., n. 109 del 1998. Nonostante l’ampia critica in dottrina (ex
multis, Raiti, La collaborazione giudiziaria nell’esperienza del rinvio pregiudiziale comunitario, Milano,
2003, 151 ss.), solo con Corte cost., ord. n. 103 del 2008 (annotata, fra gli altri, da Pesole, La Corte
costituzionale ricorre per la prima volta al rinvio pregiudiziale. Spunti di rilessione sull’ordinanza n. 103
del 2008, in www.federalismi.it; Spigno, La Corte costituzionale e la vexata questio sul rinvio pregiudiziale
alla Corte di Giustizia, in www.osservatoriodellefonti.it; Cartabia, La Corte costituzionale e la Corte di
giustizia: atto primo, in Giur. cost., 2008, 1292 ss.; Sorrentino, Svolta della Corte sul rinvio pregiudiziale:
le decisioni 102 e 103 del 2008, in Giur. cost., 2008, 1288 ss.) si aferma che «la Corte costituzionale,
pur nella sua peculiare posizione di supremo organo di garanzia costituzionale nell’ordinamento
interno, costituisce una giurisdizione nazionale ai sensi dell’art. 234, terzo paragrafo, del Trattato
CE e, in particolare, una giurisdizione di unica istanza (in quanto contro le sue decisioni – per il
disposto dell’art. 137, terzo comma, Cost. – non è ammessa alcuna impugnazione): essa, pertanto,
nei giudizi di legittimità costituzionale promossi in via principale è legittimata a proporre questio-
156
offensività
autorità nazionale sottoposta all’obbligo di garantire l’applicazione del diritto comunitario, in ossequio alla costante giurisprudenza europea ed in virtù di quanto
previsto dall’art. 117, co. 1, Cost. per cui, come più volte afermato, la norma
comunitaria funge da parametro interposto di sindacato della legittimità delle
leggi nazionali. Da ciò, la conseguenza riferita dell’obbligo anche per i giudici
costituzionali di assicurare la primazia del diritto comunitario64, anche per il tramite del rinvio pregiudiziale alla Corte lussemburghese.
Introducendo in sintesi, nei paragrai introduttivi, l’ofensività nel nostro ordinamento, si sono richiamati i principi di ragionevolezza e di proporzione, che
trovano il comune parametro costituzionale nell’art. 3 Cost. Il ilo dell’argomentazione sulla possibilità di sindacato costituzionale sulle opzioni di criminalizzazione non può dunque non percorrere tale traccia.
Ed invero, la giurisprudenza costituzionale si è confrontata con la problematica delle scelte punitive del legislatore, in relazione al principio di uguaglianza e
rispetto a norme penali che si assumono discriminatorie in difetto. È noto, però,
che su tale via è stata (auto)evidenziata l’incompetenza dei giudici costituzionali
a creare norme penali od ad estendere la rilevanza penale di determinati fatti già
selezionati dal legislatore, ad altri simili o analoghi65. L’inammissibilità di una
giurisprudenza creativa o sostitutiva è stata fatta derivare, in un primo tempo, da
una ragione meramente processuale, con riguardo al sindacato incidentale della
rilevanza della questione nel giudizio a quo, correlato al principio costituzionale intertemporale di irretroattività della norma penale più sfavorevole al reo66.
Successivamente, si è registrato un progressivo cambio di orientamento in senso
sostanziale: il sindacato di costituzionalità è inammissibile, si è detto, in virtù del
rispetto del principio di legalità, nella dimensione della riserva di legge, sancito
dall’art. 25, co. 2, Cost.67.
In questo quadro pessimistico l’argomentazione va comunque approfondita:
escludendo ipotesi estreme ed inverosimili, quale l’introduzione di una nuova
ne pregiudiziale davanti alla Corte di giustizia CE. I giudici costituzionali, dunque, escludono la
possibilità del rinvio pregiudiziale per i giudizi promossi in via incidentale, poiché, in tali giudizi,
non è l’unico giudice chiamato a pronunciarsi sulla controversia». Tale limitazione è stata, sic et
simpliciter, superata da Corte cost., ord. n. 207 del 2013, ove si aferma che la Corte abbia la natura
di «giurisdizione nazionale» ai sensi dell’art. 267, co. 3, del Trattato sul funzionamento dell’Unione
europea anche nei giudizi in via incidentale. Per un quadro comparativo, cfr. Passaglia (a cura
di), Corti costituzionali e rinvio pregiudiziale, in www.cortecostituzionale.it, Studi di diritto comparato,
Documentazione, 2010.
64. Salcuni, L’europeizzazione del diritto penale, cit., 337 ss.
65. Per un’ampia disamina, cfr. Dodaro, Uguaglianza e diritto penale. Uno studio sulla giurisprudenza costituzionale, cit., 329 ss.
66. L’ultima decisione che utilizza tale argomento processuale è Corte cost., n. 122 del 1977.
67. Da ultimo, Corte cost., n. 230 del 2012.
157
i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
fattispecie di reato nell’ordinamento interno ad opera della Corte costituzionale,
va afrontata la problematica, certamente più realistica, relativa al recepimento
di una norma penale europea adottata ai sensi dell’art. 83 TFUE per il tramite di
una pronuncia di incostituzionalità di una norma nazionale preesistente.
Si è già avuto modo di evidenziare68 che la norma europea costituisce un
limite minimo di tutela penale da apprestare in favore del bene giuridico prescelto, ferma restando la facoltà del legislatore nazionale, in armonia con il proprio
ordinamento, di allestire un sistema tutorio penale più severo. Con una ripetuta puntualizzazione: la risposta punitiva più severa del legislatore nazionale
non signiica dare rilevanza penale ad altri elementi o fatti o comportamenti o
soggetti per tutelare in maniera più ampia il bene giuridico, che non siano già
inclusi nella previsione europea che funge da cornice oltre la quale il legislatore
interno non può spingersi. In altri termini, la descrizione degli elementi costitutivi del reato contenuta nella norma penale minima europea determina l’area
di rilevanza penale (proporzionata) di comportamenti che ledono o pongono in
pericolo un determinato bene giuridico. Il legislatore interno non può ampliare
(né restringere) quest’area di rilevanza penale, ma, all’interno dell’area tracciata
dalla norma europea, individuare elementi che meritano una risposta punitiva
più severa. Così sarebbe rispettato il margine di apprezzamento riservato al legislatore domestico, garantendo, nel rispetto della riserva di legge nazionale, la
necessaria democraticità della norma penale di ispirazione europea nella fase
discendente (o di recepimento).
Ora, l’obbligo di recepimento della norma penale europea (art. 4 TUE), da un
lato, ed il contenuto minimo che circoscrive il margine di apprezzamento democratico nazionale, dall’altro, paiono due criteri suicientemente dettagliati per
consentire alla Corte costituzionale di intervenire sull’incriminazione impugnata
già esistente nell’ordinamento nazionale, al ine di estenderne l’area di rilevanza
penale ino a comprendere il fatto analogo descritto nella norma europea inadempiuta. Ed invero, la tradizionale eccezione di inammissibilità del sindacato
per il rispetto del principio di legalità non coglierebbe nel segno, laddove si osservi che la discrezionalità legislativa garantita dalla riserva di legge è già contenuta
dalla norma sovranazionale ed i giudici costituzionali si limiterebbero ad ampliare un’incriminazione preesistente ino a ricomprendere la tutela minima penale
per l’interesse selezionato a livello europeo69. Senza, dunque, intaccare la prero-
68. Sia consentito il richiamo a Stea, Gli enti responsabili dell’illecito da reato nella prospettiva
europea, in Riv. pen., 2013, 7, 735 ss.
69. Salcuni, L’europeizzazione del diritto penale, cit., 257, in tema di esegesi della previsione di
cui all’art. 25, co. 2, Cost., evidenzia la necessità di una rilettura dell’indubbia voluntas del costituente nel riservare alla legge statale la materia penale, alla luce del mutato assetto della legalità, non
più considerata nell’ottica squisitamente nazionale, bensì come legalità europea, cioè in combina-
158
offensività
gativa del legislatore (ovvero quella di rendere più severo l’intervento punitivo
sempre nell’area descritta dal legislatore comunitario, semmai con un intervento
postumo – forse sollecitato – dalla pronuncia additiva della Corte costituzionale).
Non parrebbe porsi, poi, alcun problema di inammissibilità per irrilevanza
della questione70. La Corte costituzionale, infatti, nella pronuncia in materia di
riiuti (n. 28 del 2010), ha evidenziato che il sindacato in malam partem deve essere
ammesso per ragioni di coerenza sistematica e per evitare un efetto paradossale:
«se si stabilisse che il possibile efetto in malam partem della sentenza di questa
Corte inibisce la veriica di conformità delle norme legislative interne rispetto
alle norme comunitarie – che sono cogenti e sovraordinate alle leggi ordinarie
nell’ordinamento italiano per il tramite degli artt. 11 e 117, co. 1, Cost. – non si
arriverebbe soltanto alla conclusione del carattere non autoapplicativo delle direttive comunitarie [di volta in volta considerate, n.d.r.], ma si toglierebbe a queste ultime ogni eicacia vincolante per il legislatore italiano». Ma vi è di più. Una
volta dichiarata l’illegittimità della norma sindacata per violazione degli artt. 11 e
117, co. 1, Cost., la valutazione degli efetti della sentenze di accoglimento secondo i principi generali che reggono la successione nel tempo delle leggi penali andrà rimessa al giudice a quo, conformemente al consolidato orientamento per cui
«le questioni inerenti alla cosiddetta retroattività delle decisioni di accoglimento
della Corte costituzionale attengono all’interpretazione delle leggi e pertanto
devono essere risolte dai giudici comuni»71.
Diversamente, appare diicile trovare argomenti più signiicativi per garantire la giustiziabilità anche degli obblighi convenzionali di tutela penale che non
superino il limite sancito dall’art. 25, co. 2, Cost. Un eventuale intervento creativo della Consulta in adempimento di un obbligo convenzionale di tutela penale
di un determinato interesse stimato nella lettura della Corte EDU andrebbe ad
incidere efettivamente sulla prerogativa democratica del legislatore interno72.
to disposto con l’art. 117, co. 1, Cost. Tale intuizione sollecita una deduzione. La lettura combinata
delle disposizioni costituzionali suddette sposterebbe, di fatto, la questione della necessaria democraticità della norma penale, che la riserva di legge garantisce, a livello eurounionista, stante la
sostanziale funzione notarile attribuita al legislatore nazionale nella fase di recepimento della direttiva penale, fatto salvo il limitato margine di apprezzamento già indicato. Nel senso che l’obbligo
costituzionale di adeguamento ai vincoli comunitari imposto al legislatore ordinario dall’art. 117,
co. 1, Cost., traduzione domestica dell’obbligo di fedeltà di cui all’art. 4 TUE, costringe la prerogativa del libero dibattito parlamentare che la riserva di legge tradizionalmente intende preservare.
70. Forse è una lettura un po’ forzata, ma, si sa, con l’ovvio si fa poca strada. Sull’impossibilità di intervento della Corte su un inadempimento tout court (deinito sopra assoluto), cfr. Manes,
Il giudice nel labirinto, cit., 122.
71. Corte cost., nn. 148 del 1988, 22 del 1975 e 155 del 1973.
72. Ampiamente e condivisibilmente Manes, Il giudice nel labirinto, cit., 123 ss.
159
i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
6. Il sindacato di proporzionalità della Corte di Lussemburgo sulla norma penale europea. La proporzione è un canone assiologico del ragionamento giuridico73, sia
utilitarista, che retribuzionista, che ne determina, a seconda dell’oggetto e del
metodo, il contenuto e la funzione74. Il diritto europeo stima la norma penale
con diversi pesi, in quanto tra Trattato e Carta, è possibile individuare distinti
canoni di proporzione75.
Nelle pagine che precedono si è fatto aperto riferimento al principio di offensività-proporzione, ancorato all’art. 52, § 1, Carta, come parametro di valutazione di tutela efettiva di beni giuridici fondamentali con l’uso della pena.
Sindacato istituzionalmente devoluto alla Corte di Giustizia ai sensi dell’art. 263
TFUE, poiché la norma penale europea deve essere posta per la tutela di diritti
fondamentali previsti dai Trattati (e dalla Carta di Nizza), nei limiti delle attribuzioni conferite all’Unione, non altrimenti tutelabili, attraverso la previsione di
una sanzione efettivamente dissuasiva.
Il principio di proporzione delineato dall’art. 52 Carta è elaborato sulla scorta
della giurisprudenza costante della Corte di Giustizia ed è un tipico canone di
73. Dodaro, Uguaglianza e diritto penale, cit., 89, nota 74, in cui si richiama il fondamento
storico della proporzione come parametro di valutazione della legittimità delle leggi, evocando le
prime applicazioni del XIX secolo nel diritto pubblico tedesco. Si richiama un’ampia bibliograia,
tra cui cfr. G. Grasso, Diritti fondamentali e pena nel diritto dell’Unione Europea, in Bernardi (a cura
di), Multiculturalismo, diritti umani, pena, Milano, 2006, 105 ss.
74. Sbriccoli, Storia del diritto penale e della giustizia, Milano, 2010 (nuova ed.), 148 ss.; Sotis,
I principi di necessità e proporzionalità della pena nel diritto dell’Unione europea dopo Lisbona, in Dir. pen.
cont. - Riv. trim., 2012, 1, 114, 115, evidenzia che, «nella prospettiva retributiva, l’idea della proporzione tra gravità del reato e gravità della pena (comminata o inlitta a seconda che sia un giudizio
in astratto o in concreto) trova varie diramazioni, ma in linea generale evoca un giudizio di razionalità formale (assimilabile sul piano del metodo al c.d. principio di uguaglianza). In questo modo
esso opera sulla base di uno o più reati di riferimento in cui si assume che la pena sia proporzionata (esempio classico di tertium comparationis è partire dalla pena per l’omicidio volontario come
parametro di riferimento della pena “giusta”). È un giudizio di proporzionalità in senso formale
quindi, come valutazione della coerenza interna nell’uso della pena. Nella prospettiva utilitaristica
invece il giudizio di proporzione evoca un giudizio di adeguatezza del mezzo al perseguimento
dello scopo (assimilabile agli altri standard di razionalità materiale come l’efettività, l’adeguatezza,
la ragionevolezza). Qui la prima essenziale caratteristica è sul piano del metodo. Questa volta la
proporzione evoca un parametro di razionalità materiale da svolgersi con la tecnica del bilanciamento, condotto facendo appello a saperi esterni, a valutazioni di impatto. Gli argomenti di tipo
formale sono marginali e il giudizio prescinde da criteri di coerenza interna (come il c.d. tertium
comparationis). Per dire se un determinato reato è sproporzionato non occorre insomma chiedersi
se è punito in modo coerente rispetto ad un altro che si assume come proporzionato. Occorre invece valutare se, sulla base di indici fattuali e assiologici, quella pena sia il mezzo ragionevole per il
raggiungimento di uno scopo che di per sé si assume come legittimo. Proporzionalità questa volta
in senso materiale, come valutazione dell’uso ragionevole della pena».
75. Sul punto si rinvia a Sotis, I principi di necessità e proporzionalità della pena nel diritto
dell’Unione europea dopo Lisbona, cit., 112 ss.
160
offensività
razionalità materiale di valutazione del rapporto di adeguatezza tra mezzi e scopi, utilizzato, tradizionalmente, in relazione, in particolare, al conlitto tra una
libertà comunitaria e una norma penale interna che frustra quella libertà, ma che
dovrebbe costituire, dopo Lisbona, il criterio di valutazione anche dell’incidenza
della norma penale europea su una libertà e, o diritto garantito dal Trattato e, o
dalla Carta76.
Ed invero, la norma suddetta indica i parametri di valutazione (rectius, di proporzionalità) della previsione di pena e, dunque, di limitazione della libertà personale del reo:
a) necessità della limitazione del diritto o della libertà (in breve: necessità della
pena);
b) efettiva inalità di interesse generale;
c) anche in alternativa rispetto a quanto sub b), efettiva esigenza di proteggere
i diritti e le libertà altrui.
I parametri di valutazione (necessità ed efettività) non sono alternativi, ma
devono essere veriicati contestualmente. Tali parametri, poi, sono raforzati dal
presupposto dell’indispensabilità richiesto dall’art. 83, § 2, TFUE, per l’adozione di direttive penali, che sintetizza l’elaborazione giurisprudenziale dei limiti
agli obblighi di penalizzazione, richiedendo, oltre al rispetto del principio di proporzionalità indicato dall’art. 5 TUE, in base al quale l’azione comunitaria non
deve andare al di là di quanto necessario per il raggiungimento degli obiettivi
e, quindi, può realizzarsi solo in assenza di una adeguata normativa penale previgente negli Stati membri77 anche il rispetto del principio di sussidiarietà, nella
combinazione dei suoi corollari dell’eicacia e della necessità, con il principio di
proporzionalità78.
In sintesi, il principio di ofensività-proporzione è canone di sindacato delle
scelte criminali efettuate a livello europeo, dapprima, rispetto alla valutazione di
indispensabilità dell’intervento europeo alla stregua della legislazione nazionale
di settore e, poi, in relazione al giudizio di proporzione materiale tra limitazione
della libertà personale del reo e bene giuridico tutelato penalmente. Ma vediamo
come.
76. Sotis, I principi di necessità e proporzionalità della pena nel diritto dell’Unione europea dopo
Lisbona, cit., 114, esclude la possibilità di estendere «il giudizio di proporzione tradizionalmente
efettuato sulla norma interna limitativa di una libertà comunitaria, al sindacato sulla norma europea, perché è un giudizio cucito addosso alla valutazione di proporzionalità delle norme penali nazionali restrittive di una libertà comunitaria, con la conseguenza che risulta di diicile esportabilità,
segnatamente al controllo degli atti del diritto derivato dell’Unione europea e alle norme penali
nazionali poste in attuazione degli obblighi europei di penalizzazione (in cui quindi il giudizio di
necessità di pena è già stato svolto a Bruxelles)».
77. Epidendio, Diritto comunitario e diritto penale interno, cit., 30.
78. Salcuni, L’europeizzazione del diritto penale, cit., 84.
161
i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
La necessità della pena è parametro marcatamente utilitaristico, traducendosi, non solo, nella valutazione della necessità dell’intervento penale per la tutela
dell’interesse selezionato (principio dell’extrema ratio), ma anche (e soprattutto)
in un giudizio di natura fattuale con cui si argomenta l’irrazionalità della scelta
del legislatore, non solo, sulla stima sanzionatoria (a cui fa riferimento la proporzionalità voluta dall’art. 49, § 3, Carta79), ma sull’an della stessa scelta punitiva.
Tale giudizio va efettuato alla stregua dell’iter logico del controllo (anch’esso
esterno) svolto dalla Corte EDU o, comunque, seguendo la tradizione del Bundesverfassungericht che declina il principio di proporzione (Verhältnismäßigkeit)80 in
diversi criteri che, fra l’altro, guardano alla idoneità, alla necessarietà ed alla adeguatezza della speciica opzione di criminalizzazione81. La necessità di pena, dunque, prevista dall’art. 52 Carta (nell’espressione della necessità della limitazione
imposta al diritto fondamentale), si traduce in uno strumento di controllo di
legittimità razionale della scelta punitiva del legislatore europeo. Tale controllo,
del resto, è agevolato e forse giustiicato (o imposto) dall’obbligo di motivazione
di tutti gli atti di diritto derivato comunitario.
La inalità di tutela di un interesse generale o di un diritto o libertà particolare
è l’ulteriore criterio di controllo della legittimità dell’opzione penale che, come
suggerisce l’avverbio utilizzato, deve essere efettiva e, dunque, suscettibile di essere messa in pericolo o danneggiata dalla condotta punita, ma anche veriicabile
in astratto, nel vaglio di legittimità della stessa norma, ed in concreto, all’atto di
applicazione della previsione punitiva. Tale criterio materiale di bilanciamento
degli interessi coinvolti, sotteso alla valutazione di ofensività-proporzione della
norma penale europea, accentua la deviazione del sindacato sulla norma penale
europea dal piano della necessaria lesività a quello della sussidiarietà e dell’extrema ratio della stessa scelta di politica criminale, entrando così in tensione con il
metodo democratico.
6.1. (segue) L’eccezione democratica e la razionalità del diritto penale positivo. Il giudizio di eguaglianza-proporzione come utile sindacato sull’opzione di politica criminale.
Nell’ambito dell’argomentazione sulla giustiziabilità, innanzi alla Corte costituzionale domestica, degli obblighi di penalizzazione dettati da una direttiva pena79. Su cui infra § II.1.
80. Indicato qui come di ofensività-proporzione, ma certamente diverso dall’ofensività utilizzata dalla Corte costituzionale nostrana. Nella letteratura tedesca, Hassemer, Der Grundsatz der
Verhältnismäßigkeit als Grenze strafrechtlicher Eingrife, in Id., Erscheinungsformen des modernen Rechts,
Frankfurt am Main, 2007, 191 ss.; Id., Perché punire è necessario, Bologna, 2012, 153 ss.; nella prospettiva italiana, cfr. Belfiore, Giudice delle legi e diritto penale. Il diverso contributo delle Corti costituzionali italiana e tedesca, cit., 278 ss.
81. Manes, Il giudice nel labirinto, cit., 145; Sotis, I principi di necessità e proporzionalità della
pena nel diritto dell’Unione europea dopo Lisbona, cit., 115 ss.
162
offensività
le (ex art. 83 TFUE), si è superata l’eccezione democratica, se si vuole, con un
escamotage o aggiramento, afermando che la discrezionalità legislativa garantita
dalla riserva di legge è già contenuta dalla norma comunitaria ed i giudici costituzionali si limiterebbero ad ampliare un’incriminazione preesistente ino a
ricomprendere la tutela minima penale per l’interesse selezionato a livello europeo. Senza, dunque, intaccare la prerogativa del legislatore (ovvero quella di
rendere più severo l’intervento punitivo sempre nell’area descritta dal legislatore
comunitario).
La rilessione va approfondita per superare la medesima eccezione che possa
essere opposta al vaglio di ofensività-proporzione della Corte di Giustizia sulla
norma penale europea82.
Va fatta una premessa. Il principio di legalità, come consacrato nella Carta
di Nizza, riguarda espressamente la sola dimensione del divieto di retroattività,
non garantendo o, meglio, non interessando gli altri aspetti del principio in questione come inteso nel nostro ordinamento (riserva di legge e tassatività, fra gli
altri). Però, l’assenza della dimensione della riserva di legge nella legalità europea
come enunciata dall’art. 49, § 1, Carta, non signiica che tale aspetto sia estraneo
al sistema comunitario, né che la democraticità della norma penale europea non
appartenga all’assetto sovranazionale, in quanto, da un lato, la riserva di legge è
connaturata all’identità nazionale degli Stati continentali e, dall’altro, la necessaria democraticità del divieto penale si ricava dai corollari (e non solo) del principio di uguaglianza dei cittadini europei. Ed invero, il principio di legalità-riserva
di legge (nazionale) non è estraneo all’ordinamento comunitario, in quanto la
82. Sulla democrazia delle istituzioni eurounioniste, nell’ampio dibattito, si segnala Bernardi,
La competenza penale accessoria dell’Unione Europea: problemi e prospettive, cit., 58, il quale osserva
che, «sebbene le due fondamentali norme europee concernenti il principio di legalità penale (vale
a dire l’art. 49 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e l’art. 7 CEDU) nulla dicano al riguardo, è paciico che in ambito europeo tale principio contenga anche il corollario della
democraticità». Infatti, osserva l’A., «in base alla giurisprudenza della Corte di giustizia il diritto
primario dell’Unione non contiene solo principi di diritto scritto, ma anche i principi di diritto non
scritto ricavati, oltreché dalle convenzioni internazionali ratiicate dagli Stati membri, dalle Costituzioni di questi ultimi. Come si sa, questa giurisprudenza pretoria è stata da tempo recepita dai
Trattati, cosicché in base all’art. 6, n. 3 TUE, “I diritti fondamentali, […] risultanti dalle tradizioni
costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi
generali”. Orbene, precisato che per essere “comuni” tali tradizioni non devono necessariamente
appartenere a tutti i Paesi membri, bastando che esse esprimano un orientamento prevalente all’interno dell’Unione, è un dato di fatto che il principio di democraticità delle fonti penali − tendente
il più delle volte (ma non sempre) a coincidere col principio di riserva di legge − presenti questa
caratteristica e dunque rientri tra i principi generali dell’Unione. Appare pertanto indiscutibile che
le direttive in materia penale debbano caratterizzarsi per la loro democraticità». Per più ampi sviluppi, cfr. Bernardi, All’indomani di Lisbona: note sul principio europeo di legalità penale, cit., 48 ss.; Id.,
“Riserva di lege” e fonti europee in materia penale, cit., 60 ss.; Grandi, Riserva di lege e legalità penale
europea, cit., 81 ss.
163
i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
Corte di Giustizia lo considera paciicamente un «principio generale dell’ordinamento comunitario»83, che costituisce il riconosciuto limite della primazìa del
diritto europeo rispetto alle norme penali interne con esso in conlitto.
Per tali ragioni, l’eccezione democratica, dunque, al controllo materiale da
parte della Corte di Giustizia sull’an della politica criminale comunitaria, è certamente rilevante anche nel contesto comunitario e merita il dovuto approfondimento.
Proviamo a prendere le mosse dall’argumentum libertatis posto a fondamento
della tesi realistica del bene giuridico in lettura costituzionale di Franco Bricola: il legislatore, nel porre il divieto penale, seleziona alcuni comportamenti del
cittadino, che altro non sono che modalità di esercizio delle libertà garantitegli,
ritenendoli meritevoli di pena in considerazione della loro dannosità o pericolosità per interessi di singoli o della collettività84. In questa maniera, tali comportamenti o modalità di esercizio di libertà individuali sono oggetto di un trattamento particolare e diferenziato85, con l’efetto che la scelta incriminatrice non
andrà valutata o giustiicata con il solo parametro dell’ofensività-proporzione,
ma va sindacata alla stregua del principio di uguaglianza, che ofre uno strumentario concettuale ben più solido86. Il collegamento, dunque, tra uguaglianza e
proporzione, come acutamente suggerito87, a cui si fa riferimento a proposito
della ragionevolezza, è la chiave di controllo della legittimità delle opzioni di
politica criminale che si rivelano non necessarie o non idonee, per la ragione che
comportano una limitazione priva di giustiicazione, di un diritto fondamentale,
ugualmente riconosciuto a tutti gli individui. Attraverso tale binomio è possibile
stimare la ragionevolezza di una scelta politica incidente su un diritto individuale
83. G. Grasso, La protezione dei diritti fondamentali nell’ordinamento comunitario e i suoi limiti
rilessi sui sistemi penali degli stati membri, cit., 617 ss. In giurisprudenza, cfr. Corte Giust. Com. Eur.
8 ottobre 1987, C-80/86 (Kolpinghuis Nijmegen), in Racc., 1987, 3986, punto 13; da ultimo, Corte
Giust. Com. Eur., 3 maggio 2005, C-387/02 (Berlusconi ed altri).
84. Pulitanò, Bene giuridico e giustizia costituzionale, cit., 187, secondo cui la formulazione di
tipi di illecito anche) penale signiica classiicare fatti omogenei dando rilievo ad alcuni elementi di
uguaglianza.
85. Dodaro, Uguaglianza e diritto penale, cit., 392.
86. Corte cost., n. 163 del 1993, Considerato in diritto, § 4, secondo cui «il principio di eguaglianza
pone al giudice di costituzionalità l’esigenza di veriicare che non sussista violazione di alcuno dei
seguenti criteri: a) la correttezza della classiicazione operata dal legislatore in relazione ai soggetti
considerati, tenuto conto della disciplina normativa apprestata; b) la previsione da parte dello stesso
legislatore di un trattamento giuridico omogeneo, ragionevolmente commisurato alle caratteristiche essenziali della classe (o delle classi) di persone cui quel trattamento è riferito; c) la proporzionalità del trattamento giuridico previsto rispetto alla classiicazione operata dal legislatore, tenendo
conto del ine obiettivo insito nella disciplina normativa considerata: proporzionalità che va esaminata in relazione agli efetti pratici prodotti o producibili nei concreti rapporti della vita».
87. Dodaro, Uguaglianza e diritto penale, cit., 394, 395.
164
offensività
di libertà anche rispetto alla misura del sacriicio imposto alla libertà medesima,
così rivalutando i principi materiali del diritto penale (necessaria lesività, extrema
ratio, colpevolezza) da meri criteri argomentativi o di logica, a veri e propri parametri di razionalità prepositivi e sovraordinati, giustiziabili nell’ambito e nei
limiti del sindacato sul rispetto dell’eguaglianza88. Il rispetto dell’eguaglianza fra i
cittadini, come noto, è il fondamento di qualsiasi società democratica.
Secondo questa lettura, pertanto, che richiama il principio di ragionevolezzaeguaglianza usualmente praticato dai giudici costituzionali domestici, ma arricchito dall’ofensività-proporzione di cui all’art. 52 Carta, la Corte di Giustizia
potrebbe sindacare la scelta di criminalizzazione del legislatore europeo al ine
di veriicare l’efettivo rispetto dell’eguaglianza come fondamento della democrazia. Si badi, non solo, in negativo, ovvero eliminando dall’ordinamento divieti
penali sproporzionati rispetto al sacriicio della libertà personale del soggetto
attivo (reo), ma anche in positivo, ovvero espandendo la forza incriminatrice di
norme già poste onde garantire la tutela di libertà e, o diritti dei soggetti passivi
del reato (vittime), alla stregua del controllo svolto dalla Corte EDU (non appena
anche l’Unione aderirà alla Convenzione).
7. Il principio di proporzione formale tra reato e sanzione previsto dall’art. 49, § 3, della Carta di Nizza come criterio di coerenza intrasistemica del divieto penale. La dosimetria proporzionata della pena89, relativa alla species ed al quantum, è imposta
dall’art. 49, § 3, Carta («L’intensità delle pene non deve essere sproporzionata
rispetto al reato»)90, secondo il principio di retribuzione, tessendo una stretta relazione tra la gravità del reato e le sanzioni inlitte91. Il sistema eurounionista non
88. Così Dodaro, op. e loc. cit.
89. Per un’analisi approfondita, Caterini, La proporzione nella dosimetria della pena da criterio
di legiferazione a canone ermeneutico, in Persona pena e processo, in Caterini, Amisano (a cura di), Scritti
in memoria di Tommaso Sorrentino, Napoli, 2012, 49, 79. Nella manualistica, ex multis, Manna, Corso
di diritto penale, cit., 715 ss.
90. Non va trascurato che la previsione della pena da parte del legislatore europeo costituisce
un’indicazione di indirizzo minima per il legislatore nazionale, con l’efetto che, ovviamente, andrà
tenuto conto che la proporzione richiesta alla norma penale europea è anch’essa minima, presupponendo un limite massimo discrezionalmente determinato dallo Stato membro, ma pur sempre
proporzionato alla gravità del reato, ma sindacabile solo dal giudice costituzionale nazionale.
91. L’introduzione della pena convenzionale ha posto il problema della proporzione tra questa
ed il fatto di reato. Su tale rapporto tutti i maggiori studiosi, sin dal periodo illuminista, si sono interrogati e confrontati. E così, con la dovuta e necessaria sintesi, si deve ricordare Montesquieu, Lo
spirito delle legi (1748), Libro VI, Cap. XVI, trad. italiana, a cura di Boito Serra, Milano, 1989, 240, il
quale dedicava un Capitolo alla giusta proporzione tra le pene e il delitto, afermando l’essenzialità
dell’armonia tra le pene e la loro proporzione con la gravità del reato era garanzia di libertà. Anche
Beccaria, Dei delitti e delle pene (1764), edizione a cura di Burgio, Milano, 1991, 44, il quale signiicativamente afermava, in chiave, se si vuole, utilitaristica, che se la geometria fosse adattabile alle ininite ed oscure combinazioni delle azioni umane, alla scala dei disordini sarebbe dovuta corrispondere
165
i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
possiede un catalogo di pene proprio, per la diversità degli ordinamenti particolari che lo compongono e dove concretamente il divieto penale va ad inserirsi.
Ad ogni modo, è logicamente desumibile una distinzione qualitativa (detentiva
o pecuniaria) e quantitativa della pena. La scelta qualitativa o quantitativa della pena andrà rapportata alla gravità del reato secondo una scala di valori delle ofese tutelate (per cui il bene della vita è certamente superiore a quello del
patrimonio)92, ma anche in relazione al grado di rimproverabilità dell’autore del
fatto, con l’efetto che la proporzione è criterio a cui si deve parametrare sia
l’astratta fase edittale riservata al legislatore (gravità del danno), sia quelle successive fasi di concreta inlizione giudiziale e di esecuzione della sanzione penale
(gravità della condotta).
È indiscutibile che tale proporzione è convenzionale, poiché non esiste alcun
canone ontologico che possa ragguagliare l’etereogenità di pena e reato, senza
utilizzare criteri valoriali, almeno con riferimento alla fase di determinazione
della cornice edittale, con la conseguenza che la relativa determinazione si traduce in una mera valutazione politica e diicilmente controllabile se non invadendo le prerogative del legislatore democratico.
Ma a ben guardare una coerenza può (o, forse, deve) essere ricercata anche in
un sistema convenzionale.
una scala delle pene. Approfonditamente, Zanuso, I “luidi” e “le bestie di servigio”. Utilitarismo ed
umanitarismo nella concezione penale di Cesare Beccaria, in Zanufo, Fuselli (a cura di), Ripensare la pena,
Padova, 2004, 111 ss. Poi, va ricordato Filangieri, La scienza della legislazione (1783), Parigi, 1853,
ristampa anastatica, Napoli, 2003, Libro III, Parte II, Capo XXV, 189, n. 19: «Se ogni delitto deve avere
la sua pena proporzionata all’inluenza che ha sull’ordine sociale il patto, che si viola, ed al grado
di malvagità che si mostra, nel violarlo; le leggi debbono dunque ben distinguere i delitti, per ben
distinguere le pene». Va, inine, ricordato il pensiero di Bentham, Traités de législation civile et pénal
(1802), Bruxelles, 1840, Tomo I, Cap. II, 157, che, a diferenza di Montesquieu e Beccaria, elaborò
le regole principali del principio deinite di arithmétique morale. Signiicativa è la IV Regola: «Plus un
délit est grand, plus on peut hasarder une peine sévère pour la chance de le prévenir. N’oublions pas qu’une
peine inligée est une dépense certaine pour acheter un avantage incertain. Appliquer de grands supplices à de
petits délits, c’est payer bien chèrement la chance de s’exempter d’un mal léger. La loi anglaise qui condamnait
au supplice du feu les femmes qui avaient distribué de la fausse monnaie, renversait entièrement cette règle de
proportion. La peine du feu, si on l’adopte, devrait au moins être réservée à des incendiaires homicides». Nella
letteratura più recente, a cui si rinvia, cfr. Ferrajoli, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale,
Bari, 2004, 395 ss.; Eusebi, La “nuova” retribuzione, in Riv. it. dir. proc. pen., 1983, XXVI, 914 ss.; Donini,
Il volto attuale dell’illecito penale, cit., 228; per un quadro storico della dottrina penalistica ino al ’900,
cfr. Sbriccoli, La penalistica civile. Teoria e ideologie del diritto penale nell’Italia unita, in Stato e cultura
giuridica in Italia dall’unità alla Repubblica, a cura di Schiavonea, Bari, 1990, 167 ss. Nella letteratura tedesca lo studio sulla proporzione nella cornice edittale è approfondito, ex multis, più recenti,
Götting, Gesetzliche Strafrahmen und Strafzumessungspraxis. Eine empirische Untersuchung anhand der
Strafverfolgungsstatistik für die Jahre 1987 bis 1991, Frankfurt, 1997; Schott, Gesetzliche Strafrahmen und
ihre tatrichterliche Handhabung, Baden Baden, 2004.
92. Critico sull’utilizzabilità della proporzione formale in parola, Sotis, I principi di necessità e
proporzionalità della pena nel diritto dell’Unione europea dopo Lisbona, cit., 116.
166
offensività
Il criterio assiologico di stima della cornice edittale, infatti, è individuabile
a posteriori, osservando il sistema penale in cui si colloca il nuovo intervento di
politica criminale e così trovando i parametri di comparazione in norme preesistenti alla novella. Pene e reati, infatti, sono posti su due piani distinti: se il nesso
pena-reato è meramente convenzionale e, dunque, diicilmente dotato di proporzionalità ontologica93, quello tra reati può essere informato ad una proporzionalità interna, frutto di una costruzione razionale e coerente dei rapporti tra
le diverse fattispecie. In altri termini, se è inverosimile valutare ontologicamente
la gravità del reato94, è certamente possibile individuare il criterio di proporzionalità razionale del sistema penale attraverso la comparazione delle fattispecie95:
se due diverse fattispecie sono sanzionate con la stessa pena, nell’apprezzamento
discrezionale del legislatore dovrebbero possedere medesimo disvalore. E qui si
può evidenziare l’incoerenza, ovvero può accadere che la scelta di politica penale
del legislatore entri in collisione con la necessaria proporzione: ad esempio96, due
reati che ofendono lo stesso bene giuridico con modalità analoghe, sanzionati
con pene diferenti; oppure due reati aventi ad oggetto sempre lo stesso interesse, ma con modalità distinte, le une palesemente e obiettivamente più gravi delle
altre, sanzionati, comunque, con la medesima pena o, addirittura, invertendo i
disvalori, il primo con una sanzione meno severa del secondo97.
93. v. Jhering, Lo scopo del diritto (1877-1883), trad. it. a cura di Losano, Torino, 1972, 346.
94. Anche se l’orientamento della Corte costituzionale è costante nell’afermare che il principio di proporzione della pena è fondato anche sull’art. 27, co. 3, Cost., in quanto la palese sproporzione del sacriicio della libertà personale provocata dalla previsione di una sanzione penale
manifestamente eccessiva rispetto al disvalore dell’illecito, vaniica il ine rieducativo della pena.
Ex multis Corte cost., n. 313 del 1995. I giudici costituzionali hanno precisato che le valutazioni in
merito alla proporzione astratta tra reato e pena aferiscano al potere discrezionale del legislatore,
le stesse possono essere comunque censurate, sotto il proilo della legittimità costituzionale, nel
momento in cui oltrepassino i limiti della ragionevolezza Fra le tante, Corte cost., n. 47 del 2010.
Ad ogni modo, tale afermazione è rimasta priva di concreta applicazione, poiché la Consulta non
è mai giunta ad una declaratoria di incostituzionalità della pena posta dal legislatore. Da ciò, è
necessario guardare alla proporzione della pena della nuova incriminazione in relazione al sistema
in cui si colloca.
95. Sul tema della ragionevolezza, fra i tanti, Di Giovine, Il sindacato di ragionevolezza della
corte costituzionale in un caso facile, cit., 100 ss.; Id., Sul c.d. principio di ragionevolezza nella giurisprudenza costituzionale in materia penale. A proposito del riiuto totale di prestare il servizio militare, in Riv.
it. dir. proc. pen., 1995, 159 ss.
96. Tali esempi sono indicati da Caterini, La proporzione nella dosimetria della pena da criterio
di legiferazione a canone ermeneutico, cit., 65.
97. Per la distinzione tra razionalità e ragionevolezza, G. Zagrebelsky, La giustizia costituzionale, Bologna, 1988, 147 ss., secondo cui «la razionalità è determinata dalla coerenza logica,
mentre la ragionevolezza, dall’adeguatezza ad un valore. Da ciò discende che la comparazione
dell’importanza di due beni giuridici in relazione alla misura delle pene predisposta a loro tutela,
non è un processo solamente razionale, ma anche ispirato ai canoni della ragionevolezza in quanto
involge valutazioni assiologiche di tipo ideologico-politico. Del resto, se dette ultime valutazioni
167
i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
In tali ipotesi di tecnica legislativa, dunque, si evidenziano delle incoerenze
sistematiche, appuntando il giudizio di proporzione non all’interno della singola
incriminazione, bensì in riferimento alla possibile disparità sanzionatoria tra fattispecie aini, con identica ratio incriminandi98. Per questa via, è evidente che il
principio di proporzione ha valenza solo negativa, nel senso che tale principio è
capace di individuare quale non è la giusta proporzione, ovvero di svelare le sproporzioni, alcune volte anche lampanti, nel sistema delle relazioni tra fattispecie99,
attraverso il metro dell’eguaglianza in connubio con l’ofensività.
Ora, la Corte di Giustizia ha la possibilità di sindacare la proporzione (minima) della pena indicata nella direttiva penale? Si crede di sì. Prima di Lisbona, tale
sindacato veniva rinviato al giudice nazionale onde veriicare l’efettivo adempimento dell’obbligo di penalizzazione comunitario. Oggi, è onere della Corte
lussemburghese quale unica giurisdizione sul diritto europeo derivato, poiché
è la stessa norma comunitaria, a diferenza di quanto accadeva ante Lisbona, ad
indicare una pena minima per il reato da recepire nell’ordinamento nazionale.
Seppur l’ordinamento penale europeo (di mero indirizzo) è giovane, non per
questo non è sistematizzato, ove si guardi anche all’esperienza delle decisioniquadro che poco diferiscono dalle direttive adottate ai sensi dell’art. 83 TFUE,
con l’efetto che è certamente possibile comparare la novella con le incriminazioni aini e, dunque, veriicarne la coerenza intrasistemica100.
sono cristallizzate nella gerarchia dei valori costituzionali, il criterio della ragionevolezza può essere utilizzato anche dall’interprete».
98. La Corte costituzionale, in più occasioni, ha sindacato la proporzione della pena con la
comparazione inter delicta. Si segnalano come decisioni di rigetto, Corte cost., n. 22 del 2007; Id.,
ord. n. 229 del 2006; Id., ord. n. 170 del 2006. Tra le pronunce di illegittimità delle norme denunciate per la sproporzione delle pene rispetto a fattispecie aini: Id., n. 394 del 2006; Id., n. 168 del
2005; Id., 327 del 2002.
99. Evidenzia la valenza negativa del principio di proporzione, Cattaneo, Pena, diritto e dignità umana, Torino, 1998, 104.
100. Corte Giust. Com. Eur., 21 settembre 1989, C-68/88, Commissione vs. Grecia, richiamata,
fra le tante, in Corte Giust. Com. Eur., 30 settembre 2003, C-167/01, Kamer van Koophandel en
Fabrieken voor Amsterdam, § 62, secondo cui «qualora una disposizione di diritto comunitario non
contenga alcuna disposizione speciica che preveda una sanzione in caso di trasgressione o faccia
rinvio, al riguardo, alle disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative nazionali, l’art. 10
CE impone agli Stati membri di adottare tutte le misure atte ad assicurare la portata e l’eicacia del
diritto comunitario. A tal ine, pur mantenendo la scelta delle sanzioni, essi devono segnatamente
vegliare a che le violazioni del diritto comunitario siano punite, sotto il proilo sostanziale e procedurale, in forme analoghe a quelle previste per le violazioni del diritto interno simili per natura e
importanza e che, in ogni caso, conferiscano alla sanzione stessa un carattere efettivo, proporzionale e dissuasivo». In dottrina, G. Grasso, L’incidenza del diritto comunitario sulla politica degli Stati
membri: nascita di una politica criminale europea?, in IP, 1993, 77 ss.; Fornasari, Riserva di lege e fonti
comunitarie, cit., 22; Sicurella, La tutela mediata degli interessi della costruzione europea, cit., 276 ss.
168
offensività
8. Il paternalismo in diritto penale. Il fondamento della legittimità del “punire” ed il limite
dell’opzione penale nell’ottica antipaternalistica di John Stuart Mill. Nel pagine che precedono, sono stati proposti i criteri di valutazione dell’opzione penale nella necessaria lesività e nella dannosità sociale. Ora, è necessario, a questo punto dell’indagine,
rilettere non solo, sul fondamento della legittimità autoritativa del “punire”, che
investe valutazioni sia di ordine giuridico, che politico, ma anche su chi debba essere considerato “vittima” o, meglio, se i comportamenti lesivi rivolti verso se stessi
meritano l’intervento tutorio penale. Si vuole introdurre la rilessione, dunque, nel
dibattito tra paternalisti e antipaternalisti ed, in particolare, sulla questione se e ino
a che punto una persona possa legittimamente disporre del proprio corpo, della
propria libertà o della propria vita, ino a che punto possa cagionare a se stessa (ciò
che molti considerano) un “danno”101. Ma andiamo con ordine.
Tradizionalmente, nell’alveo della spiegazione giusnaturalistica, si tende a
deinire la fonte della coazione legittima con il ricorso al modello contrattuale,
variamente declinato. Tale impostazione tradizione viene riiutata da John Stuart
Mill, uno dei maggiori ilosoi ed economisti di ine Ottocento102, poiché fuorviante: «la società non si fonda su un contratto, e sarebbe inutile inventarne uno
per dedurne degli obblighi sociali»103. La prospettiva adottata da Mill per issare
i limiti dell’azione della società sugli individui muove in senso opposto rispetto
a come si potrebbe supporre: è l’individuo, e non la società, ad accettare i limiti
alla propria libertà individuale, al ine di consentire alla società di esistere. Tali
limiti vengono riassunti nel principio del danno, l’harm principle, che consiste, «in
primo luogo, nel non danneggiare gli interessi reciproci, o meglio certi interessi
che, per esplicita disposizione di legge o per tacito accordo, dovrebbero essere
considerati diritti; e, secondo, nel sostenere la propria parte (da determinarsi in
base a principi equi) di fatiche e sacriici necessari per difendere la società o i suoi
membri da danni o molestie»104.
E qui si delinea una prima fondamentale distinzione nell’ottica solidaristica: i
diritti sono tutti interessi, ma non tutti gli interessi sono diritti. La legge od il tacito
101. Così, Maniaci, Contro il paternalismo giuridico, in Materiali per una storia della cultura giuridica, 2011, XLI, 1, 133.
102. Canestrari, Cornacchia, De Simone, Manuale di diritto penale, cit., 203, in cui si osserva
che «l’harm principle, oggetto di un imponente dibattito nei paesi anglosassoni, vieta di sacriicare la
libertà di un cittadino, secondo la lettura già di John Stuart Mill, laddove la sua condotta non abbia
prodotto un danno a qualcuno, e quindi di sanzionare penalmente meri doveri verso se stesso, di
automiglioramento morale o di cura della propria vita, salute e incolumità individuale». In questo
senso, cfr. Donini, Il volto attuale dell’illecito penale, cit., 99. Ampiamente sulla rilessione angloamericana sulla capacità del teoria del bene giuridico ad indirizzare le scelte di politica criminale, Lo
Forte, Il principio di ofensività, cit., 930, nota 39.
103. Mill, Sagio sulla libertà, trad. it. di Magistretti, Milano, 2009, 86.
104. Mill, Sagio sulla libertà, cit., 87.
169
i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
accordo dei consociati individua tra gli interessi, i diritti che sono meritevoli di
tutela e la cui violazione da parte di altri, nella concezione milliana, produce un
danno, che costituisce l’unico limite alla libertà individuale: «in presenza di un preciso danno, o di un preciso rischio di danno, per il pubblico o per un individuo, il
caso esula dalla sfera della libertà e rientra in quella della moralità o della legge»105.
Ad ogni modo, Mill ritiene che l’interesse principale che deve essere tutelato sia
la libertà personale, che costituisce la ragione per cui gli individui hanno accettato
di vivere in una comunità e che, pertanto, costituisce il termine essenziale di comparazione della legittimità delle leggi anche in relazione ai limiti dell’intervento
legislativo sulla regolazione dei comportamenti umani: si può proibire e punire
soltanto gli atti lesivi della libertà di altri. «La mia tesi è che le sole sanzioni cui un
individuo può essere legittimamente sottoposto per quella parte della sua condotta
e del suo carattere che lo riguarda esclusivamente e non tocca gli interessi di chi
abbia rapporti con lui, sono quelle strettamente inscindibili dal giudizio sfavorevole altrui. Gli atti che danneggiano altre persone vanno trattati in modo completamente diverso. Violare i diritti altrui, causare agli altri danni o perdite non giustiicati dai propri diritti, ingannarli con falsità e doppiezze, approittare ingiustamente
o ingenerosamente di loro, anche evitando egoisticamente di difenderli: sono tutte
azioni che meritano la riprovazione morale e, nei casi più gravi, il castigo»106.
In deinitiva, la tesi di Mill sulla punizione e sulla coazione legislativa può
essere riassunta, con le sue parole, in alcuni punti fondamentali. In primo luogo,
«l’individuo non deve rendere conto alla società delle proprie azioni nella misura
in cui esse non riguardano gli interessi di altri che di lui stesso»107. Poi, «l’individuo deve rendere conto delle azioni che possano pregiudicare gli interessi altrui,
e può essere sottoposto a punizioni sociali o legali se la società ritiene le une o
le altre necessarie per proteggersi»108. Ed inine, «la terza e più valida ragione
per limitare l’interferenza dello stato è la grande sciagura costituita da un’inutile
estensione del suo potere. Ciascuna funzione che viene ad aggiungersi a quelle
che il governo già svolge, amplia il suo campo di inluenza sulla speranza e sul
timore umani, e trasforma sempre più gli individui più attivi e ambiziosi in parassiti del governo, o di qualche partito che aspiri a diventarlo»109.
8.1. (segue) L’impostazione di Joel Feinberg. Il ilosofo americano Joel Feinberg dedica gran parte del suo trattato The Moral Limits of the Criminal Law allo sviluppo
delle tesi milliane sull’harm principle, mettendo in rilievo molti argomenti solo
105.
106.
107.
108.
109.
170
Mill, Sagio sulla libertà, cit., 101.
Mill, Sagio sulla libertà, cit., 97, 98.
Mill, Sagio sulla libertà, cit., 108.
Mill, Sagio sulla libertà, cit., 109.
Mill, Sagio sulla libertà, cit., 127.
offensività
tratteggiati dal primo, a partire dal concetto di “danno” intorno al quale, come
visto, ruota l’intera teoria del diritto penale antipaernalistica. In maniera molto
schematica, Feinberg identiica alcuni signiicati del termine danno: (1) danno in
un senso derivato o esteso, allorquando si vuole identiicare il bene danneggiato:
«i vandali che spaccano le inestre danneggiano la proprietà di qualcuno; l’incuria danneggia i giardini; la brina danneggia i germogli. È abbastanza chiaro che
questo sia un danno in senso traslato (transferred). Non ci sentiamo danneggiati
per le sorti delle inestre o dei pomodori, né questi sono oggetti della nostra
simpatia. Piuttosto, il nostro riferimento al loro “danno” è ellittico per il danno
fatto a coloro che hanno interessi nei palazzi e nei germogli, coloro che hanno
in un certo modo “investito” parte del loro benessere nel mantenimento o nello
sviluppo di qualche condizione di questi oggetti. Rompendo le inestre, i vandali
hanno fatto un danno diretto agli interessi del padrone della casa; hanno danneggiato le inestre soltanto in un senso derivato ed esteso»110; (2) danno come lesione
agli interessi, che è quello conseguente al danneggiamento del bene (danno derivato). Precisamente, si tratta di «danno concepito come ostacolo, accantonamento o sconitta di un interesse. Usato in questo senso, è ovvio che il termine
“interesse” non si riferisca a “denaro dovuto per un prestito” o “l’eccitazione
dell’attenzione o della curiosità”, forse i suoi signiicati più comuni. C’è, in ogni
caso, un senso familiare commerciale-legale della parola che può servire come
utile modello per capire l’accezione con cui essa è collegata al danno. Mi riferisco
al senso in cui una persona ha un interesse in una compagnia della quale possiede qualche azione. Se io ho un interesse, in questo senso, nella Apex Chemical
Company, ho una sorta di interesse (stake) nel suo benessere»111; (3) danno in senso
normativo, sarebbe il danno ingiusto o antigiuridico, tale solo se lede un diritto
(e, dunque, un interesse normativamente riconosciuto, secondo la tesi milliana)
ed appartenente ad altri. Come scrive Feinberg, «sebbene quasi tutti i danni in
questo senso specialmente ristretto (azioni ingiuste) siano anche danni nel senso
delle invasioni degli interessi, non tutte le invasioni degli interessi sono ingiuste,
dato che alcune azioni invadono gli interessi di un altro in maniera scusabile o
giustiicabile, o invadono interessi che gli altri non hanno il diritto che siano rispettati. Gli interessi di persone diverse sono costantemente e inevitabilmente in
conlitto, così ogni sistema giuridico determinato a “minimizzare il danno” deve
incorporare giudizi sull’importanza comparativa degli interessi di diverso tipo in
maniera che si possa dire “ingiustiicata” l’invasione dell’interesse di alta priorità
di una persona compiuta per proteggere l’interesse di bassa priorità di un’altra.
110. Feinberg, Harm to others, Oxford, 1984, 32. Si è presa in considerazione l’attenta analisi
di Tincani, L’harm principle. Il principio del danno, in Sciacca (a cura di), L’individuo nella crisi dei
diritti, Genova, 2009, 45 ss.
111. Feinberg, Harm to others, cit., 33.
171
i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
Le ingiustizie giuridiche, allora, sono invasioni di interessi che violano le scale
di priorità stabilite. Le invasioni che sono giustiicate dalle regole di priorità non
sono giuridicamente ingiuste, sebbene esse possano inliggere un danno in senso
non-normativo»112.
La lezione feinberghiana ruota intorno al concetto di autonomia personale
o sovranità assoluta su se stessi, non solo, come diritto fondamentale, ma al contempo come valore fondamentale, che vieta intromissioni esterne a prescindere
dall’oggettiva bontà, razionalità o convenienza della scelta113. «Il titolare del bene
giuridico ha il diritto morale di disporne: le modalità concrete – inclusa quella
manu aliena – sono rimesse integralmente alla sua scelta sovrana. Rientra pertanto nel modello dell’azione autolesiva tanto quella posta in essere dal titolare
del bene giuridico, quanto quella eseguita materialmente da altri: nel secondo
caso si tratterà di auto-lesione indiretta, e non di etero-lesione»114. In altri termini,
l’autolesione diretta (ovvero provocata dal titolare del diritto verso se stesso) e
quella indiretta (ovvero quella determinata da chi riceve il consenso dell’avente
diritto alla lesione del relativo bene) rientrano, secondo Feinberg, nella stessa
categoria morale attraverso il principio volenti non it iniuria115. Ad ogni modo,
l’intervento esterno in favore dell’interessato è legittimo solo quando manchi un
atto giuridicamente eicace di volontà, espressione di autonomia116. In quest’ottica, dunque, ciò che potrebbe apparire come una forma di paternalismo tenue
(soft), di contro, «si risolve in una coniugazione dell’Harm Principle: la legittimità
dell’intervento dipende essenzialmente dalla volontarietà reale della decisione
autolesionistica del titolare del bene»117.
112. Feinberg, Harm to others, cit., 35.
113. Feinberg, Harm to self, New York, 1986, 65.
114. Cornacchia, La vittima nel diritto penale contemporaneo tra paternalismo e legittimazione del
potere coercitivo, Roma, 2012, 71.
115. Cornacchia, La vittima nel diritto penale contemporaneo, cit., 72, in particolare, in nota 15,
sottolinea che negli stessi termini, nella dottrina tedesca, v. Hirsch, Neumann, “Indirekter Paternalismus” im Strafrecht - am Beispiel derTötung auf Verlangen Sollte selbstbeschädigendes Verhalten kriminalisiert werden?, in v. Hirsch, Neumann, Seelmann (a cura di), Paternalismus im Strafrecht. Die
Kriminalisierung von selbstschädigendem Verhalten (Studien zur Strafrechtstheorie und Strafrechtsethik,
Bd. 1), Baden-Baden (Nomos) 2010, in Rechtswissenschaft, 2011, 81; Jakobs, Tötung auf Verlangen, Euthanasie und Strafrechtsystem, in Bayerische Akademie der Wissenschaften, Philosophisch-Historische Klasse,
München, 1998, 14 ss.
116. Cadoppi, Liberalismo, paternalismo e diritto penale, in Fiandaca, Francolini (a cura di), Sulla legittimazione del diritto penale. Culture europeo-continentale e anglo-americana a confronto, Torino,
2008, 114 ss.; ma già Mill, Sagio sulla libertà, cit., 111, secondo il quale è ammissibile l’intromissione da parte dello Stato nella libertà di minori, persone temporaneamente o permanentemente
incapaci di intendere e volere, popoli non civilizzati, allo scopo di impedire che cagionino un danno a se stessi.
117. Cornacchia, La vittima nel diritto penale contemporaneo, cit., 74.
172
offensività
8.2. Il paternalismo come esigenza solidaristica nella visione costituzionale in una società democratica. Il dibattito sul paternalismo in diritto penale riguarda gli interventi statali coattivi che escludono alcune opzioni comportamentali dall’esercizio della libertà individuale, giustiicati dalla potenziale pregiudizialità per la
persona, da realizzare attraverso il ricorso alla pena. Il paternalismo giuridico è
stato deinito come quella «concezione etico-politica in base alla quale lo Stato,
o un soggetto autorizzato dallo Stato, può usare la (minaccia dell’uso della) forza, contro la volontà di un individuo adulto, anche qualora le sue scelte siano
razionali e libere da coazione altrui, al ine, esclusivo o principale, di tutelare
(quelli che vengono considerati) i suoi interessi, ovvero (ciò che viene qualiicato
come) il suo bene; in particolare al ine di evitare che questi, tramite un’azione o
un’omissione, cagioni, o rischi in modo signiicativo di cagionare, a se stesso (ciò
che viene considerato) un danno, ad esempio isico, psicoisico, economico»118.
Sono stati individuati due modelli normativi di paternalismo giuridico: l’uno,
deontologico, che «presuppone in capo a ciascun individuo l’esistenza di obblighi
giuridici verso se stesso, obblighi che vietano comportamenti auto-lesivi, e ravvisa quindi nell’intervento paternalistico lo strumento di prevenzione della loro
violazione»119. In tale ipotesi, l’intervento statale è giustiicato dalla titolarità del
bene che efettivamente non è dell’individuo, ma della stessa società che ha riconosciuto l’uso di quel diritto da parte del singolo, purché il relativo esercizio sia conforme all’interesse comune. Ed invero, non è sostenibile ammettere l’assoluta sovranità individuale, semmai con una lettura feinberghiana del concetto di “sovranità” contenuto nell’art. 1, co. 2, Cost., se non andando a collidere «con l’ispirazione
chiaramente personalistica del tessuto complessivo della Costituzione, radicata in
una concezione della dignità umana come realtà originaria e intrasferibile»120.
L’altro modello di paternalismo giuridico è stato deinito tutelare, in quanto
«riconosce speciali obblighi solidaristici, che impongono tanto ai singoli quanto
ai pubblici poteri di intervenire a salvaguardia delle persone quando non vogliano
o non possano tutelare da sé i propri beni fondamentali»121.
118. Maniaci, Contro il paternalismo giuridico, cit., 134.
119. Cornacchia, La vittima nel diritto penale contemporaneo, cit., 68, che rinvia, per una lettura neokantiana del “dovere giuridico intrapersonale” verso se stesso dedotto dall’imperativo
categorico (con particolare riferimento al sucidio), a Maatsch, Selbstverfügung als intrapersonaler
Rechtsplichtverstoß. Zum Strafunrecht einverständlicher Sterbehilfe, Berlin, 2001, 210 ss.
120. Cornacchia, La vittima nel diritto penale contemporaneo, cit., 69, il quale, fra l’altro, osserva
che «accogliere la concezione di cui qui si fa cenno comporterebbe che, se davvero la sovranità anche
sulla dimensione individuale “appartiene al popolo”, questo potrebbe assumere la decisione sovrana
di revocare la concessione fatta al cittadino. Invece l’idea del rispetto e del riconoscimento reciproco
della dignità di soggetti morali come principio delle relazioni umane non dipende dalla volontà collettiva, è logicamente antecedente e fondativo rispetto allo stesso principio democratico».
121. Cornacchia, La vittima nel diritto penale contemporaneo, cit., 69, a cui si rinvia per la scru-
173
i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
Questa breve premessa sul paternalismo (non essendo questa la sede per dare
conto dell’imponente dibattito sul tema), è utile ad introdurre una rilessione che
sarà utilizzata come cardine intorno al quale ruotano molte delle argomentazioni,
non solo già svolte nelle pagine che precedono, sul ruolo dell’ofensività come criterio di selezione delle scelte di politica criminale, ma anche in quelle che seguono,
in particolare sul fondamento della colpevolezza e sulla deinizione della pena.
Si è convinti che il paternalismo in diritto penale può essere riconosciuto
come uno dei pilastri dell’attuale assetto costituzionale solidaristico fondato
sull’art. 2 Cost., nel senso che la personalizzazione della responsabilità penale
(ricercata propriamente dalla colpevolezza), appare costruita sulla nozione di individuo voluta dall’art. 2 Cost., come “cittadino”, ovvero membro di una comunità che gli riconosce libertà e diritti nei limiti del rispetto di quelli riconosciuti
agli altri consociati. Se, dunque, è il “cittadino” l’attore (attivo o passivo) del reato appare così giustiicabile l’intervento paternalistico con la sanzione penale per
impedire (e, dunque, anche correggere) i comportamenti autolesivi del cittadino
poiché diretti ad ofendere un membro della comunità. In altri termini, l’“individuo”, da sé solo, è indiferente al sistema penale che invece è proteso verso il
“cittadino” (ovvero l’individuo come membro di una società) sia per garantirgli
il libero esercizio dei diritti e delle libertà riconosciutegli, attraverso la minaccia
della pena, sia per reintegrarlo nel tessuto sociale quando è perpetrato il reato o,
meglio, come si dirà in prosieguo, per riparare lo strappo del tessuto sociale provocato dal comportamento vietato (relazione agente-vittima). In tale prospettiva, l’intervento paternalistico volto ad evitare l’autolesione è diretto, non verso
l’individuo, ma alla salvaguardia dell’assetto sociale.
E qui si pone l’interrogativo del limite all’intervento coercitivo della società democratica onde evitare la degenerazione in sistemi totalitari, che nella tesi
milliana e feinberghiana è individuato nell’intangibilità della libertà individuale.
L’intervento tutorio sociale ino a quale punto può correggere la scelta del cittadino per scongiurarne l’autolesione?
La questione si pone in relazione ad individui capaci di intendere e di volere,
perché per i minori e per gli incapaci (permanentemente e temporaneamente) in
genere (cittadini vulnerabili), l’intervento paternalista è giustiicato già nell’impostazione libertaria con la mancanza di un’efettiva e libera volontà dell’individuo che compromette la coerenza della scelta autolesionista.
Giustiicare l’intervento paternalista del diritto penale anche contro la libertà
individuale del cittadino libero e capace di intendere e volere, signiica dover
selezionare alcuni beni giuridici assolutamente indisponibili nell’interesse comu-
polosa analisi di tutti gli aspetti del paternalismo. Si veda anche Id., Placing Care. Spunti in tema di
paternalismo penale, in Criminalia, 2011, 6, 239 ss.
174
offensività
ne. Primo fra tutti, il diritto alla vita riconosciuto dall’art. 2 Convenzione EDU.
Non si sceglie di nascere, non si dovrebbe scegliere di morire. Dal punto di vista
della visione solidaristica qui tracciata, «ciò che rende pubblicamente illecito un
comportamento è la sua connotazione intrinseca di denegazione dello status di
membro della civitas alla vittima, anche consenziente e del tutto a prescindere
dalle conseguenze lesive che ne possano derivare»122. Il dibattito è molto ampio
e complesso e qui non è possibile darne compiuto apprezzamento123. Sarà suficiente sofermarsi, in linea con l’indagine proposta, sulla giurisprudenza della
Corte di Strasburgo in tema di eutanasia attiva, al ine di comprendere gli sviluppi sulla legislazione penale di stampo paternalistico tuttora vigente nel nostro
ordinamento. In altri termini, l’interrogativo è quello di veriicare, innanzitutto,
la compatibilità convenzionale dell’indisponibilità della vita e dell’integrità isica
nell’ordinamento interno (art. 579 c.p. e 5 c.c.) ed, in caso di accertata resistenza,
valutarne la centralità in tema di scelte di ine-vita.
9. La Corte di Strasburbo e l’eutanasia: il punto della giurisprudenza convenzionale sul
“diritto di morire”. I giudici di Strasburgo sono stati investiti delle questioni di
ine vita in diverse occasioni, afrontando, in particolare, il problema del suicidio
assistito, vale a dire della scelta di una persona di porre ine alla propria vita,
richiedendo assistenza medica attraverso la somministrazione di una sostanza
letale. Il parametro convenzionale di valutazione della questione posta è stato
individuato nell’art. 8 Convenzione EDU, che consacra tra i diritti fondamentali
dell’essere umano, quello relativo al rispetto della vita privata.
In una prima pronuncia124, la Corte EDU, infatti, esclude la possibilità di dedurre dalla previsione convenzionale dell’art. 2 Convenzione EDU, che tutela il diritto
alla vita, anche l’obbligo di riconoscere al cittadino il diritto a morire. E in particolare, la Corte aferma che, in tale disposizione della Convenzione EDU, «il n’a aucun rapport avec les questions concernant la qualité de la vie ou ce qu’une personne choisit
de faire de sa vie», poiché «l’article 2 ne saurait, sans distorsion de langage, être interprété
comme conférant un droit diamétralement opposé, à savoir un droit à mourir; il ne saurait
davantage créer un droit à l’autodétermination en ce sens qu’il donnerait à tout individu le
droit de choisir la mort plutôt que la vie»125. Il diritto all’autodeterminazione, secondo
la Corte EDU, rientra nella previsione di cui all’art. 8 Convenzione EDU, come
detto, la cui nozione di “vie privée” è molto ampia e non può essere declinata in
122. Cornacchia, La vittima nel diritto penale contemporaneo, cit., 85.
123. Fra i tanti, Manna, sub artt. 579-580. Omicidio del consenziente ed istigazione o aiuto al suicidio: l’eutanasia, in Manna (a cura di), Reati contro la persona, I, Reati contro la vita, l’incolumità individuale e l’onore, Torino, 2007, 40 ss.
124. Corte eur. dir. uomo, Sez. IV, 29 aprile 2002, Pretty vs. Regno Unito.
125. Corte eur. dir. uomo, Sez. IV, 29 aprile 2002, cit., § 39.
175
i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
un numero chiuso e tassativo di ipotesi, rientrandovi «l’intégrité physique et morale
de la personne» o solo «des aspects de l’identité physique et sociale d’un individu», come,
per esempio, «l’identiication sexuelle, le nom, l’orientation sexuelle et la vie sexuelle
relèvent de la sphère personnelle» o, ancora, «le droit au développement personnel et le
droit d’établir et entretenir des rapports avec d’autres êtres humains et le monde extérieur». Nella previsione dell’art. 8 Convenzione EDU, dunque, non può non essere
compreso anche il diritto all’autodeterminazione. Ad ogni modo, nell’occasione,
i giudici europei escludono la violazione convenzionale da parte del Regno Unito,
considerando «l’ingérence incriminée […] justiiée comme “nécessaire, dans une société
démocratique”, à la protection des droits d’autrui», in ossequio alle condizioni derogatorie prescritte dall’art. 8, § 2, Convenzione EDU. Nella decisione in commento,
i giudici europei sottolineano, infatti, che «il ne paraît pas arbitraire à la Cour que
la législation relète l’importance du droit à la vie en interdisant le suicide assisté tout en
prévoyant un régime d’application et d’appréciation par la justice qui permet de prendre
en compte dans chaque cas concret tant l’intérêt public à entamer des poursuites que les
exigences justes et adéquates de la rétribution et de la dissuasion»126.
Su tale orientamento, si innesta un’ulteriore decisione127, in cui alla Corte fu
sollecitata la rilessione sulla possibilità che dall’art. 8 Convenzione EDU discenda
il diritto a un suicidio dignitoso: ad essere denunciata era la legislazione svizzera in
materia, che è una tra le più libertarie in Europa128. La Corte, in maniera più espli-
126. Corte eur. dir. uomo, Sez. IV, 29 aprile 2002, cit., § 77.
127. Corte eur. dir. uomo, Sez. I, 20 gennaio 2011, Haas vs. Svizzera.
128. Crivelli, Gross c. Svizzera: la Corte di Strasburgo chiede alla Svizzera nuove e più precise norme in
tema di suicidio assistito, in www.associazionecostituzionalisti.it, la quale descrive la legislazione svizzera
in materia di suicidio assistito, evidenziando che «in Svizzera il codice penale sanziona in dal 1937
l’omicidio su richiesta della vittima (art. 114 c.p.) mentre l’assistenza al suicidio viene perseguita solo
se compiuta per “ini egoistici” (art. 115 c.p.): tale ultima disposizione ha favorito il sorgere di organizzazioni di “assistenza al suicidio” che assicurano un supporto medico logistico alla scelta di porre
ine alla propria vita, provvedendo al ricovero ospedaliero o all’assistenza domiciliare e fornendo la
somministrazione di un farmaco letale, il pentobarbitale sodico. Nonostante un intenso dibattito a
livello politico e sociale e diverse proposte di riforma, la norma penale sul suicidio assistito non è stata
aiancata da altre disposizioni di legge volte a precisare gli obblighi gravanti sulle organizzazioni di
assistenza al suicidio, anche al ine di prevenire possibili abusi. Il quadro normativo risulta invece integrato a livello sublegislativo, dalle direttive eticomediche che nel novembre 2005 si è data l’Accademia
svizzera delle Scienze mediche in tema di “Assistenza dei pazienti terminali”. L’art. 4.1 delle citate linee guida indirizza il comportamento dei medici nelle ipotesi di assistenza al suicidio consentita dalla
legge, e dispone che qualora il medico – che ha sempre il diritto di riiutare tale forma di assistenza
– decida di prestarla, deve veriicare l’esistenza di alcune condizioni: accertare che “la malattia di cui
sofre il paziente legittimi la supposizione del suo decesso imminente”; accertare che trattamenti
alternativi siano stati proposti e, se accettati dal paziente, adottati; accertare la capacità di intendere e
di volere del malato; assicurarsi che la condotta inale, e cioè l’assunzione del farmaco, sia compiuta
autonomamente ed esclusivamente dal malato, ovvero, che “l’ultimo gesto del processo che porta
alla morte sia in ogni caso compiuto dal paziente stesso”».
176
offensività
cita rispetto alla pronuncia del 2002, evidenzia che «le droit d’un individu de décider
de quelle manière et à quel moment sa vie doit prendre in, à condition qu’il soit en mesure
de former librement sa volonté à ce propos et d’agir en conséquence, est l’un des aspects du
droit au respect de sa vie privée au sens de l’article 8 de la Convention»129. A questo punto,
la Corte evidenzia la diferenza della questione oggetto del ricorso de quo rispetto
al precedente del 2002, osservando «le requérant allègue non seulement que sa vie est
diicile et douloureuse, mais également que, s’il n’obtient pas la substance litigieuse, l’acte
de suicide lui-même serait privé de dignité», aggiungendo, inoltre, che «et toujours à la
diférence de l’afaire Pretty, le requérant ne peut pas véritablement être considéré comme
une personne inirme, dans la mesure où il ne se trouve pas au stade terminal d’une maladie
dégénérative incurable qui l’empêcherait de se donner lui-même la mort»130. Ora, dopo aver
individuato l’oggetto della questione nella veriica di un obbligo positivo per la Svizzera di prevedere nella sua legislazione l’ipotesi di suicidio assistito per un soggetto
non malato, onde consentire allo stesso «un suicide dans la dignité», la Corte aferma
che, in tale prospettiva d’esame, andrà compiuto un bilanciamento degli interessi in
gioco «dans le cadre duquel l’Etat jouit de son côté d’une certaine marge d’appréciation».
I giudice europei, dunque, stimano l’interesse da bilanciare con la previsione
denunciata dell’art. 8, con quello di cui all’art. 2, «qui impose aux autorités le devoir de protéger les personnes vulnérables même contre des agissements par lesquels elles
menacent leur propre vie» ed «oblige les autorités nationales à empêcher un individu de
mettre in à ses jours si sa décision n’a pas été prise librement et en toute connaissance
de cause»131. Qui la Corte utilizza una lettura evolutiva della Convenzione EDU
attraverso il parametro “comparativo”, afermando che «les recherches efectuées
par la Cour lui permettent de conclure que l’on est loin d’un consensus au sein des Etats
membres du Conseil de l’Europe quant au droit d’un individu de décider de quelle manière
et à quel moment sa vie doit prendre in», concludendo, comunque, che «la grande
majorité des Etats membres semblent donner plus de poids à la protection de la vie de
l’individu qu’à son droit d’y mettre in»132. Dopo aver analizzato la legislazione svizzera che, come già ricordato, è la più libertaria in questa materia, la Corte EDU
respinge il ricorso, statuendo che «les Etats aient une obligation positive d’adopter des
mesures permettant de faciliter la commission d’un suicide dans la dignité»133.
Successivamente, la Corte è tornata a pronunciarsi in materia di suicidio assistito134 sul ricorso del coniuge di una paziente tetraplegica e totalmente dipen-
129. Corte eur. dir. uomo, Sez. I, 20 gennaio 2011, cit., § 51.
130. Corte eur. dir. uomo, Sez. I, 20 gennaio 2011, cit., § 52.
131. Corte eur. dir. uomo, Sez. I, 20 gennaio 2011, cit., § 54.
132. Corte eur. dir. uomo, Sez. I, 20 gennaio 2011, cit., § 55.
133. Corte eur. dir. uomo, Sez. I, 20 gennaio 2011, cit., § 61.
134. Corte eur. dir. uomo, Sez. V, 12 luglio 2012, Koch vs. Germania, con nota di Parodi, Una
cauta pronuncia della Corte europea in tema di eutanasia attiva, in www.penalecontemporaneo.it.
177
i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
dente dall’ausilio di un respiratore, ma comunque non terminale (ed anzi con
una aspettativa di vita di una quindicina di anni), che aveva chiesto all’autorità amministrativa tedesca la somministrazione di farmaci idonei a procurarsi la
morte senza sofrire. Il ricorrente aveva invano impugnato il provvedimento amministrativo di rigetto avanti alle istanze giurisdizionali tedesche sino a giungere
alla Corte costituzionale, la quale aveva però giudicato inammissibile il ricorso
per difetto di legittimazione attiva del ricorrente, vertendosi in materia di diritti
personalissimi. Nelle more, la moglie si era recata in Svizzera, dove era stata
aiutata a morire in una clinica privata.
La Corte europea, dopo avere confermato il principio secondo cui «le fait d’empêcher par la loi la requérante d’exercer son choix d’éviter ce qui, à ses yeux, constituera
une in de vie indigne et pénible représente une atteinte au droit de l’intéressée au respect
de sa vie privée, au sens de l’article 8 § 1 de la Convention», restando peraltro aperta la
possibilità che tale interferenza possa ritenersi giustiicata rispetto alle necessità
di tutela di uno dei controinteressi menzionati nell’art. 8, § 2, Convenzione EDU.
Nel caso di specie, la Corte ha concluso per l’accoglimento del ricorso, poiché la
giurisdizione nazionale non aveva esaminato nel merito l’istanza avanzata.
Più recentemente135, la Corte di Strasburgo è stata investita della questione relativa alla legittimità della richiesta di un soggetto sano di poter ottenere assistenza al suicidio libero e volontario. I giudici europei iniziano il loro ragionamento
richiamando la giurisprudenza consolidata. Ora, se è vero che il diritto di morire
è un aspetto del diritto al rispetto della vita privata e che tale aspetto può essere
limitato dallo Stato per una delle esigenze previste dall’art. 8, § 2, Convenzione
EDU, è anche vero, però, che tali limitazioni devono essere previste dagli Stati in
modo chiaro e comprensibile, al ine di consentire agli individui di comprendere
agevolmente se tale diritto sia loro attribuito concretamente, e non in forma
meramente illusoria136.
9.1. (segue) Riepilogo. Il diritto al suicidio dignitoso. Si può afermare, dunque, che il
diritto al rispetto della vita privata, previsto dall’art. 8 Convenzione EDU, riguarda anche la libertà di scelta di evitare «une in de vie indigne et pénible», secondo la
personale visione della propria esistenza.
Ad ogni modo, tale libertà non costituisce un obbligo positivo di tutela, ma è
da bilanciare con le esigenze prescritte espressamente dal capoverso della norma
convenzionale in questione, rientrando nel margine di apprezzamento di ciascun
Stato dare maggiore rilievo alla tutela della vita anche nelle ipotesi auto-agressive. A tal proposito, la Corte espressamente utilizza l’argomento comparativo per
135. Corte eur. dir. uomo, Sez. II, 14 maggio 2013, Gross vs. Svizzera.
136. La decisione non è deinitiva, in quanto la Svizzera ha fatto richiesta di riesame innanzi
alla Grande Camera. L’udienza innanzi alla Grande Camera è issata per il 2 aprile 2014.
178
offensività
evidenziare il fondamento del margine d’apprezzamento statale137, sottolineando che, nella maggioranza delle esperienze nazionali degli Stati membri del Consiglio d’Europa, «toutes les formes d’assistance au suicide font l’objet d’une interdiction
stricte et sont érigées en infractions pénales».
Nel caso in cui, però, lo Stato scelga di riconoscere tale libertà, allora, deve
indicare, in maniera chiara e comprensibile, tutte le ipotesi in cui l’individuo può
fasi assistere nel porre ine alla vita.
9.2. Brevi annotazioni conclusive sul rapporto tra l’art. 8 Convenzione EDU e le questioni autolesive previste nella legislazione domestica nell’alveo del sistema eurounitario.
L’ordinamento domestico rispetta la libertà di autodeterminazione dell’individuo, purché la scelta non comporti il contributo materiale o morale di nessun
altro individuo. Tanto si evince dalle previsioni delittuose di cui all’art. 579 c.p.
(omicidio del consenziente) o all’art. 580 c.p. (istigazione o aiuto al suicidio), ma
anche nei casi di riiuto delle cure laddove il consenso del paziente è centrale
anche nei trattamenti sanitari obbligatori stabiliti dalla legge n. 180 del 1978 che
impone «iniziative volte ad assicurare il consenso e la partecipazione da parte di
chi è obbligato».
Il suicidio è lecito se determinato liberamente e consapevolmente dall’individuo, come dire, nella solitudine di se stesso. Diversamente, la società ed ogni
membro della stessa non può aiutare, in alcuna maniera, nessun cittadino alla
determinazione di ine-vita, come evidenziato anche dagli obblighi solidaristici
fondati sull’art. 2 Cost. e garantiti dalle previsioni di cui agli artt. 54 e 593 c.p.
L’interrogativo posto nelle pagine che precedono riguarda la compatibilità
convenzionale di tali previsioni penalistiche con il diritto al suicidio assistito riconosciuto sotto la previsione dell’art. 8, § 1, Convenzione EDU.
L’incompatibilità è manifesta: da un lato, l’individuo ha diritto ad essere assistito dallo Stato nella libera e consapevole scelta di porre ine alla sua vita; dall’altro,
l’ordinamento italiano esclude qualsiasi agevolazione o assistenza di terzi al suicidio, come atto contrario ai principi (positivi) di solidarietà sanciti dall’art. 2 Cost.
137. In particolare, Corte eur. dir. uomo, Sez. V, 19 luglio 2012, cit., § 26, aferma: «Des recherches en droit comparé menées relativement à 42 Etats membres du Conseil de l’Europe montrent que,
dans 36 pays (Albanie, Andorre, Autriche, Azerbaïdjan, Bosnie-Herzégovine, Bulgarie, Croatie, Chypre,
République tchèque, Danemark, Estonie, France, Géorgie, Grèce, Hongrie, Irlande, Lettonie, Lituanie, l’exRépublique yougoslave de Macédoine, Malte, Moldova, Monaco, Monténégro, Norvège, Pologne, Portugal,
Roumanie, Royaume-Uni, Russie, Saint Marin, Espagne, Serbie, Slovaquie, Slovénie, Turquie et Ukraine),
toutes les formes d’assistance au suicide font l’objet d’une interdiction stricte et sont érigées en infractions
pénales. En Suède et en Estonie, l’assistance au suicide ne constitue pas une infraction pénale; toutefois, les
médecins estoniens n’ont pas le droit de prescrire un médicament en vue de faciliter le suicide. A l’inverse,
seuls quatre Etats (Suisse, Belgique, Pays-Bas et Luxembourg) autorisent leurs médecins à prescrire des doses
létales de médicament, dans les limites de garanties particulières».
179
i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
Ad ogni modo, per come visto, tale diritto al suicidio dignitoso può essere derogato nelle ipotesi previste dall’art. 8, § 2, Convenzione EDU, secondo cui: «Non può
esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che
tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere
economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui».
Da ciò, l’ingerenza statale nella vita privata dell’individuo è ammessa se (1)
è prevista dalla legge, (2) ispirata alla salvaguardia della sicurezza nazionale, del
benessere economico del paese, della difesa dell’ordine e della prevenzione dei
reati, della protezione della salute o della morale, o della protezione dei diritti e
delle libertà altrui ed, inine, (3) «nécessaire, dans une société démocratique». Secondo la giurisprudenza della Corte EDU, la deinizione di “nécessité” implica che
l’ingerenza statale corrisponda ad un bisogno sociale proporzionato all’obiettivo
da perseguire138. Tra gli obiettivi da perseguire, previsti dall’art. 8, § 2, Convenzione EDU, che possano interessare il diritto al suicidio dignitoso, possono indicarsi l’ordine pubblico e la protezione della morale. Ma non è suiciente individuare gli obiettivi perseguiti che (astrattamente) giustiicano l’ingerenza statale,
essendo, altresì, essenziale rappresentare la necessità dell’ingerenza nella scelta
di ine-vita per la società democratica.
La tutela della vita è stata riconosciuta fondamentale dalla stessa Corte di
Strasburgo, ma solo in relazione agli individui vulnerabili, obbligando «les autorités nationales à empêcher un individu de mettre in à ses jours si sa décision n’a pas
été prise librement et en toute connaissance de cause»139. Non, quindi, nei confronti di
un individuo libero e capace di intendere e volere, che possa consapevolmente
autodeterminarsi ed esprimere un valido consenso.
La giurisprudenza di Strasburgo, come visto, si arresta dinanzi all’argomento
comparativo: nella stragrande maggioranza degli Stati membri del Consiglio
d’Europa «toutes les formes d’assistance au suicide font l’objet d’une interdiction stricte
et sont érigées en infractions pénales» e, pertanto, «les Etats parties à la Convention sont
loin d’avoir atteint un consensus à cet égard, ce qui implique de reconnaître à l’Etat défendeur une marge d’appréciation considérable dans ce contexte»140.
Da ciò, non potrebbe ravvisarsi alcuna violazione convenzionale da parte della normativa interna, poiché l’ingerenza statale nella libertà di scelta di ine-vita
ha un margine d’apprezzamento molto ampio.
Ma supponendo una rigorosa lettura dei limiti all’ingerenza statale previsti
dall’art. 8, § 2, Convenzione EDU, diicilmente la previsione delittuosa di cui
138. Corte eur. dir. uomo, Sez. IV, 29 aprile 2002, cit,, § 60.
139. Corte eur. dir. uomo, Sez. I, 20 gennaio 2011, cit., § 54.
140. Corte eur. dir. uomo, Sez. V, 12 luglio 2012, cit., § 70.
180
offensività
all’art. 579 c.p. potrebbe essere salvata, potendosi ravvisare la violazione dell’art.
117, co. 1, Cost., in relazione all’art. 8, § 1, Convenzione EDU. Ed invero, stando alla giurisprudenza della Corte europea, «les Etats aient une obligation positive d’adopter des mesures permettant de faciliter la commission d’un suicide dans la
dignité»141, purché non si tratti di «personnes vulnérables» e, dunque, la scelta sia stata manifestata liberamente e consapevolmente. Posto che l’individuo ha diritto
ad un suicidio dignitoso, ovvero che non sia traumatico o doloroso isicamente
e psicologicamente, allora, è dovere dello Stato ammettere l’assistenza medica
alla consapevole decisione di porre ine alla vita, con l’efetto che l’art. 579 c.p.
andrebbe emendato prevedendo l’esclusione della punibilità del medico che dia
assistenza al suicidio del consenziente.
Anche in tale ipotesi si giungerebbe a rendere lecito il comportamento del
medico, come dai più giustiicato facendo leva sull’art. 51 c.p., e quindi considerando l’atteggiamento omissivo dello stesso come conseguenza del riiuto del
paziente di continuare un determinato trattamento terapeutico (c.d. eutanasia
passiva)142.
Ancora più evidente l’incompatibilità europea dell’art. 579 c.p., ove si guardi
alla Carta di Nizza che, come noto, rispetto alla Convenzione EDU, gode dell’eficacia della primazia del diritto europeo in forza del richiamo operato dall’art. 6
TUE, con tutte le conseguenze di vincolatività imposte dall’art. 117, co. 1, Cost.
e la possibilità di diretta applicazione in luogo della normativa interna143.
141. Corte eur. dir. uomo, Sez. I, 20 gennaio 2011, cit., § 61.
142. Sulla problematica della responsabilità del medico che abbia interrotto od omesso l’esecuzione di un trattamento di sostegno vitale a fronte di un espresso riiuto del paziente adulto e
capace di intendere e volere, in dottrina, cfr. Barni, Sull’alterna fortuna della nozione di eutanasia, in
Riv. it. med. leg., 1985, 421 ss.; Calcagni, Mei, L’eutanasia tra volontà, diritto a morire e assistenza al morente, Zacchia, 1994, 243 ss.; Cassano, Catullo, Eutanasia, giudici e diritto penale, in Cass. pen., 2003,
1369 ss.; Eusebi, Il diritto penale di fronte alla malattia, in Fioravanti (a cura di), La tutela penale della
persona, Milano, 2001, 119 ss.; Giunta, L’eutanasia. Diritto di vivere, diritto di morire, in Riv. it. dir. pen.
proc., 1997, 74 ss.; Magnini, Stato vegetativo permanente e interruzione dell’alimentazione artiiciale::
proili penalistici, Cass. Pen., 2006, 2006, 1985 ss.; Monticelli, Eutanasia, diritto penale e principio di
legalità, in IP, 1998, 463 ss.; Seminara, Rilessioni in tema di suicidio e di eutanasia, in Riv. it. dir. pen.
proc., 1995, 670 ss.; Id., Le sentenze sul caso Englaro e sul caso Welby: una prima lettura, in Dir. pen. proc.,
2007, 1561 ss.; Todini, Rilessioni in tema di diritto a morire con dignità e di aiuto a morire, in GP, 2000,
193 ss.; Vallini, Riiuto di cure salvavita e responsabilità del medico: sugestioni e conferme dalla più recente giurisprudenza, in Dir. pen. proc., 2008, 68 ss.; Viganò, Esiste un diritto ad essere lasciati morire in pace?
Considerazioni in margine al caso Welby, in Dir. pen. proc., 2007, 5 ss.; Id., Decisioni mediche di ine vita
e attivismo giudiziale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2008, 1594 ss.; Id., Rilessioni sul caso di Eluana Englaro,
in Dir. pen. proc., 2008, 1035 ss.; Id., L’interruzione dell’alimentazione e dell’idratazione artiiciali nei
confronti di pazienti in stato vegetativo permanente, in www.forumcostituzionale.it.
143. Ferma restando la distinzione, a tal ine, tra principi e regole, e dando solo a queste ultime l’eicacia di diretta applicazione, attivando così l’onere di inapplicazione, da parte del giudice
comune, della norma interna con essa in contrasto.
181
i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
L’art. 7 Carta riproduce la previsione convenzionale sul diritto al rispetto della
vita privata, su cui si innesta, come visto, la libertà di autodeterminazione, che va
interpretata nella stessa misura stimata dalla Corte di Strasburgo, come espressamente previsto dall’art. 52, § 3, Carta. L’art. 7 Carta, però, non richiama le
limitazioni all’ingerenza statale su tale libertà dettati dall’art. 8, § 2, Convenzione
EDU. Tale omissione, ad ogni modo, appare colmata dall’art. 52, co. 1, Carta,
nella parte in cui stabilisce che «possono essere apportate limitazioni solo laddove siano necessarie e rispondano efettivamente a inalità di interesse generale
riconosciute dall’Unione o dall’esigenza di proteggere i diritti e le libertà altrui».
Per tal via, l’ingerenza statale nei diritti e nelle libertà riconosciute dalla Carta è
meno ampia, rispetto alla lettura convenzionale, in quanto, non solo, la inalità
perseguita dall’autorità statale deve essere “necessaria”, al pari dell’indicazione
convenzionale, ma deve essere “riconosciuta” di interesse generale dall’Unione,
e non dal singolo Stato membro.
Apparendo, pertanto, una limitazione all’ingerenza statale più debole al livello
eurounitario e, conseguentemente, un raforzamento della libertà all’autodeterminazione sotto il proilo del diritto all’assistenza per un suicidio dignitoso, l’art.
579 c.p. si espone sempre più alla declaratoria di illegittimità costituzionale per
violazione degli artt. 11 e 117, co. 1, Cost, in relazione agli artt. 6 TUE, 7 e 52 Carta.
Eppure tali soluzioni non convincono in una visione sociale dell’ordinamento
tutto.
Gli obblighi solidaristici in una società democratica impongono alla comunità
di dare assistenza all’individuo che abbia manifestato l’intenzione di porre ine
alla sua vita, trattandosi dell’estrema volontà dell’individuo, anche al ine di veriicare se il malessere personale che una tale scelta necessariamente manifesta
possa essere attribuito ad un difetto solidaristico e, dunque, ad un’inerzia sociale
che può (e deve) essere rimediata. Non è possibile scindere la dignità, come carattere proprio dell’humanitas, dalla vita corporale o biologica e, quindi, la vita andrebbe considerata indisponibile anche nell’interesse comune, in quanto il bene
della vita viene tutelato dall’ordinamento, non solo, nell’interesse dell’individuo,
ma anche della collettività: «la vita del singolo assume un valore sociale in considerazione dei doveri che lo stesso ha nei confronti dello Stato e della famiglia»144.
È una visione che sarà approfondita nelle prossime pagine.
10. Conclusioni sul ruolo del principio di ofensività. L’ofensività non è estranea
all’ordinamento europeo e, per il tramite del principio di proporzione, materiale e formale, diviene criterio di sindacato delle scelte di politica criminale del
144. Valsecchi, in Dolcini, Marinucci (a cura di), Codice penale commentato, Milano, 2011, II,
III ed., art. 575, 5161.
182
offensività
legislatore sovranazionale, da parte della Corte lussemburghese. Non pare essere sacriicato il principio di democraticità delle opzioni di carattere penale, allorquando la giustiicazione del controllo penetrante del giudice costituzionale
(o para-costituzionale, come quello europeo) sulle modalità di esercizio della
potestà legislativa, si rinviene nella tutela dei diritti e delle libertà fondamentali
garantite in via prepositiva e sovraordinata, all’indomani dell’esperienza traumatizzante del secondo conlitto mondiale e della conseguente necessità di veriicare costantemente la democrazia maggioritaria, ainché non degeneri in sopraffazione della minoranza.
Gli obblighi di tutela penale, negativi e positivi, giustiziabili, come veriicato,
attraverso l’ofensività-proporzione, pongono al centro del sistema la libertà personale, nella sua più ampia accezione, ino a giungere al concetto di dignità, del
reo e della vittima. In questa prospettiva di un diritto penale dei diritti fondamentali,
è diicile rendere coerente e, dunque, proporzionata, la pena alla gravità del reato, ovvero alla gravità che il comportamento vietato ha inferto al diritto o alla
libertà della vittima. In altri termini, il disvalore del fatto di reato (ad eccezione
di quelli più gravi) può essere misurato meglio non con la graduazione della
pena detentiva, che, quindi, va ad incidere sulla libertà isica del reo, ma solo con
la limitazione proporzionata di un altro aspetto della libertà personale del reo,
che non sia quello isico, quale, ad esempio, l’uso di un veicolo per poter circolare, l’obbligo di prestare attività di volontariato, l’interdizione o la sospensione
dall’esercizio dell’attività lavorativa, etc. Per il nostro sistema, si tratterebbe di
considerare le pene accessorie o alcune amministrative (si pensa a quelle relative al Codice della Strada), come pene principali, rivalutando, altresì, l’efettività
della pena pecuniaria145. In questa prospettiva, dando cioè concretezza alla pena
inlitta, la certezza del diritto penale e la sua eicacia preventiva certamente ne
gioverebbero.
Ma andrebbe anche sviluppato il sistema di giustizia riparativa.
145. Per un’analisi sul grave stato di inefettività in cui versa la pena pecuniaria, ma anche per
una rifondazione della pena pecuniaria in prospettiva comparatisca con i sistemi spagnolo e tedesco, in particolare, Goisis, L’efettività (rectius inefettività) della pena pecuniaria in Italia, ogi, in www.
penalecontemporaneo.it; Id., La pena pecuniaria. Un’indagine storica e comparata, cit., 8 ss.
183
CAPITOLO III
Colpevolezza
1. Brevissime note introduttive. Capacità e libertà. - 2. Excursus sulle teorie tradizionali
sulla colpevolezza come fondamento del diritto penale. - 3. La colpevolezza nel sistema
italiano. Gli arresti della giurisprudenza costituzionale e l’individuazione del principio di
colpevolezza fondato sugli artt. 2, 25, co. 2, e 27, co. 1 e 3, Cost. - 3.1. La colpevolezza
come categoria dogmatica: la nozione unitaria di colpevolezza derivante dalla funzione
rieducativa della pena. “Punire per educare”. - 3.2. (segue) La struttura della colpevolezza
unitaria: dominabilità, conoscibilità e libertà. Il presupposto dell’imputabilità ed i requisiti
della tipicità e antigiuridicità come criteri della rimproverabilità. - 4. Siamo davvero liberi?
Neuroscienze e libero arbitrio. - 5. La colpevolezza nella giurisprudenza sovranazionale. - 6. I criteri di imputazione soggettiva nell’ottica europea. - 6.1. Sguardo comparativo
sulle deinizioni normative di dolo e colpa. - 6.2. La terza forma dell’elemento soggettivo
negli ordinamenti stranieri. L’esperienza inglese: “recklessness”. - 6.3. (segue) L’esperienza
francese: “mise en danger délibérée de la personne d’autrui”. - 6.4. (segue) L’esperienza spagnola: “maniiesto desprecio por la vida de los demás”. - 7. Annotazioni riepilogative e prospettive
de iure condendo. La problematica del dolo eventuale come terza forma di colpevolezza e la
restrizione possibile dell’elemento soggettivo ino alla colpa grave
1. Brevissime note introduttive. Capacità e libertà. La libertà personale è il perno
intorno a cui ruota il diritto penale. La pena incide sulla libertà del reo. Il reato
ha ad oggetto una libertà (o solo un aspetto della stessa) della vittima o della collettività. Il reo ha (de)liberatamente violato il divieto penale. L’opzione di violare
il precetto penale, dunque, presuppone la libertà del reo di volere assumere un
comportamento antigiuridico.
La costrizione lato sensu di un comportamento lo rende insigniicante per il
diritto penale e ne abbiamo contezza con le previsioni di cui agli artt. 45 e 46
c.p.1, ma anche, in una concezione più ampia, nelle disposizioni di cui agli artt.
48 (in cui l’inganno determina un’errata percezione del fatto da parte del suo autore, portandolo a svolgere un certo comportamento – e così, in qualche modo,
costringendolo)2 e 54 (in cui si fa espresso riferimento ad una condotta necessaria
determinata da una particolare situazione) c.p. Da ciò, possiamo ricavare, con
profonda generalizzazione, che, per il nostro sistema codicistico, già come impo1. Da considerare come ipotesi tipizzate di esclusione della colpevolezza per mancata coscienza o volontà dell’azione, Marinucci, Il reato come “azione”. Critica di un dogma, Milano, 1971,
199 ss.
2. Sull’argomento, di recente, Risicato, L’errore di fatto, di diritto, su lege extrapenale e su
lege penale, in Cadoppi, Canestrari, Manna, Papa, Trattato di diritto penale. Parte generale, II, Il reato,
Torino, 2013, 628 ss.
185
i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
stato dal legislatore del ’30, la punizione di una condotta tipica presuppone la libera autodeterminazione del reo, che non sia stato costretto da alcunché. In altri
termini, l’agente deve essere libero di volere e, dunque, deve possedere, secondo
la nota espressione agostiniana, il libero arbitrio, secondo alcuni3 già positivizzato
nella capacità di volere di cui all’art. 85 c.p.4.
Ad ogni modo, si crede che la capacità e la libertà sono due concetti distinguibili: si può avere l’«attitudine a controllare i propri impulsi ed a determinarsi in
conformità al proprio giudizio»5, ma non essere liberi di adempiere in concreto al proprio intendimento, con la conseguenza che l’autore del fatto non può
essere considerato colpevole6. L’esclusione della colpevolezza può ammettersi
solo nelle ipotesi di alterazione del processo motivazionale dell’autore, andando
a comprimere la personale libertà di autodeterminarsi. Con ciò non si vuole dire
che la libertà di autodeterminarsi coincida con il concetto colpevolezza.
2. Excursus sulle teorie tradizionali sulla colpevolezza come fondamento del diritto penale. La colpevolezza è tradizionalmente intesa come un concetto poliedrico7,
terminologicamente distinta a seconda che essa funga da elemento costitutivo
del reato (Straf begründungsschuld) che si pone accanto alla tipicità e all’antigiuridicità, oppure da criterio di commisurazione della pena (Strafzumessungsschuld).
«La colpevolezza è altresì quel luogo ideale della teoria del reato deputato a raccogliere i criteri di imputazione soggettiva»8, a sua volta, di regola considerata,
nella sua concezione psicologica, come mero parametro valutativo della relazione soggettiva fatto-autore, tanto da abbracciare paciicamente, il dolo e la colpa.
Comunque si è sempre discusso se vi rientrassero ulteriori elementi e di quale
natura gli stessi fossero.
Il ruolo centrale nel sistema penale assunto dalla colpevolezza ruota intorno
al rapporto tra le teorie della pena, da un lato, e le regole della responsabilità, dall’altro, con la conseguenza che seguire la sua evoluzione negli ultimi cin-
3. Su colpevolezza e libero arbitrio, Bettiol, Colpevolezza giuridica e colpevolezza morale, in
Riv. it. dir. proc. pen., 1980, 1007 ss.
4. Per la possibilità di distinguere gli aspetti dell’imputabilità, Introna, Se e come siano da
modiicare le vigenti norme sull’imputabilità, in Riv. it. med. leg., 1999, 716. Di contrario avviso, Marini,
voce Imputabilità, in Dig. Pen., VI, Padova, 1992, 253; Collica, Prospettive di riforma dell’imputabilità
nel “Progetto Grosso”, in Riv. it. dir. proc. pen., 2002, 880.
5. Canestrari, Cornacchia, De Simone, Manuale di diritto penale, cit., 602.
6. Evidenzia che la colpevolezza è un concetto estraneo al Codice Rocco, Salcuni, La colpevolezza e le cause che la escludono o la diminuiscono, Cap. IV, in Cadoppi, Canestrari, Manna, Papa,
Trattato di diritto penale. Parte generale, II, Il reato, Torino, 2013, 465, in particolare nota 14.
7. In tal senso, Zaffaroni, Colpevolezza e vulnerabilità, in Riv. it. dir. proc. pen., 2003, 340.
8. Così, testualmente, Giunta, Principi e dogmatica della colpevolezza nel diritto penale d’ogi,
in Riv. it. dir. proc. pen., 2002, 123.
186
colpevolezza
quant’anni non può prescindere dalla relazione con le discussioni sulla funzione
della pena e con la dogmatica penale. In altri termini, la colpevolezza, che costituisce il segno distintivo dell’illecito penale9, si riempie di signiicato concettuale
in relazione a quale funzione si intende attribuire alla pena.
Per tracciare, dunque, sinteticamente, l’evoluzione del concetto in parola,
non si potrà non ricorrere a delle sempliicazioni, onde ricondurre poi la discussione sulla concezione più moderna della colpevolezza, proponendone una lettura coerente con l’abbandono dell’idea retribuzionista della pena, propugnando
un adattamento sulla funzione rieducativa della stessa.
I decenni a cavallo tra il XIX e il XX secolo furono caratterizzati, com’è noto,
dal cosiddetto dibattito tra scuole: la scuola “classica”, da un lato, vincolata ai
princìpi sulla retribuzione e la prevenzione generale, e quella “positiva”, dall’altro,
rivolta verso il primato della prevenzione speciale. Tale relazione sottolineava,
come accennato, con le parole di Franz von Liszt, «la dipendenza assoluta del
potere punitivo dal principio dello scopo»10. Ma questa relazione, nel secondo dopoguerra, apparve screditata in conseguenza della degenerazione del diritto avvenuta con i regimi nazifascisti, così propugnandosi l’idea «di vincolarsi a dei valori
e rinunciare ad ogni ragione funzionale»11 e sviluppando lo stretto legame tra la
pena e il principio di colpevolezza in funzione di un nuovo diritto penale rispettoso della dignità dell’uomo, abbandonando, dunque, l’idea kelseniana del diritto
penale. Da ciò, la colpevolezza del diritto penale, come punto di riferimento della
pena, doveva essere un’efettiva possibilità di rimprovero, nel senso che l’agente
colpevole non solo avrebbe dovuto, ma anche potuto comportarsi diversamente.
In questo contesto, apparve, dunque, necessario afrontare la questione del
libero arbitrio, già ampiamente discussa nella controversia tra le scuole, e tuttavia
si riteneva di aver risolto il problema afermando che «colpevolezza e responsabilità […] non sono soltanto concetti elaborati speculativamente, bensì anche
realtà delle relazioni interpersonali che è possibile provare empiricamente»12.
Sono emblematiche le parole stigmatizzate in una iper-richiamata pronuncia del
Bundesgerichtshof del 1952, secondo cui: «La pena presuppone la colpevolezza. La
colpevolezza è la “rimproverabilità” [Vorwerf barkheit]. Il motivo essenziale del
giudizio di colpevolezza risiede nel fatto che l’uomo è predisposto all’autodeterminazione libera, responsabile e morale, ed è pertanto in grado di decidersi per
il diritto e contro l’illecito»13.
9. Donini, Europeismo giudiziario e scienza penale, cit., 155 ss.
10. v. Liszt, Strafrechtliche Aufsätze und Vorträge, I, Berlin, 1905, 161.
11. Jescheck, Das Menschenbild unserer Zeit und die Strafrechtsreform, Tübingen, 1957, 9.
12. Noll, Die ethische Begründung der Strafe, Tübingen, 1962, 14, nota 26.
13. Entscheidungen des deutschen Bundesgerichtshofes in Strafsachen, II, 194, 200; in senso conforme Jescheck, Das Menschenbild, cit., 20 ss.
187
i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
L’analisi storica della problematica sul contenuto del concetto di colpevolezza,
necessariamente sintetizzata in queste pagine14, non può che iniziare dall’esame
della concezione psicologica: frutto dell’idea illuministica del reato e della visione
retributiva della pena, la colpevolezza psicologica, basata sull’uguaglianza formale tra i cittadini, ruotava intorno al danno sociale prodotto dal comportamento
vietato, con la conseguenza che l’individualizzazione della responsabilità si limitava a coincidere con il solo nesso psicologico che collegava il fatto al suo autore,
proprio per escludere ipotesi di risposta punitiva diseguale (in senso formale). Tale
concezione è disegnata, almeno in principio, sul solo criterio d’imputazione soggettiva del dolo, che è volontà e previsione dell’evento, restando esclusa (almeno)
la colpa incosciente, che, come noto, è priva di volontà e previsione15 e, dunque, la
colpevolezza psicologica si afermava come colpevolezza del volere16.
Lo sforzo dottrinale di trovare un concetto unitario di colpevolezza, comune
a dolo e colpa, ha portato all’elaborazione della concezione normativa della colpevolezza17, che riducendo l’importanza degli elementi psicologici, ha appuntato
l’attenzione sul signiicato del movente psicologico dal punto di vista dei suoi
contenuti di valore, individuando la nota normativa comune a dolo e colpa, che,
in deinitiva, costituisce il criterio su cui si fonda la qualiicazione di valore che si
sovrappone al sostrato psicologico. Tale nota normativa comune viene individuata sui concetti di antidoverosità e di riprovevolezza o rimproverabilità (Vorwerf-
14. Per il relativo approfondimento si rinvia, per la sola manualistica, De Francesco, Diritto
penale, I, I fondamenti, Torino, 2008, 338 ss.
15. Agli inizi del ’900, Kohlrausch, Irrtum und Schuldbegrif, 1903; Id., Die Schuld (Reform des
Strafgesetzbuch), 1910, 137.
16. Galliner, Die Bedeutung des Erfolgs bei den Schuldformen des geltenden Strafgesetzbuch, 1910.
17. Per interessanti osservazioni sull’efettiva elaborazione storica della concezione normativa, cfr. Mereu, Culpa=colpevolezza, Bologna, 1972; Scarano, La non esigibilità nel diritto penale,
Napoli, 1948, 11 ss.; Petrocelli, La colpevolezza, Padova, 1962, III ed., 4; Id., La concezione normativa
della colpevolezza, in RIDP, 1948, 21 ss.; Padovani, Appunti sull’evoluzione del concetto di colpevolezza,
in Riv. it. dir. proc. pen., 1973, 554, 555; Zaffaroni, Colpevolezza e vulnerabilità, cit., 342, nota 14;
Ronco, Cenni storici sulla colpevolezza “fondante” e sulla colpevolezza “graduante”, in IP, 2011, 7 ss., secondo cui «l’insegnamento della classica dottrina italiana mai ha abbandonato il principio della colpevolezza, vuoi in chiave “fondante”, vuoi anche in chiave “graduante” la imputazione giuridica, in
funzione dell’ontologica diversa appartenenza dell’azione al soggetto». In particolare, Scarano, La
non esigibilità nel diritto penale, cit., 12 ss., evidenzia che i classici [Gallus Aloys Kleischrod, Giovanni
Carmignani e Francesco Carrara, citato anche da Ronco, Cenni storici sulla colpevolezza “fondante”
e sulla colpevolezza “graduante”, cit., 21, 22, unitamente ad Alberto De Simoni, giurista lombardo
(1740-1822)] avrebbero introdotto un elemento normativo nel concetto di colpevolezza allorché
parlavano di imputazione politica del fatto. Della stessa opinione, con riferimento al pensiero di
Francesco Carrara, Delogu, “Vivo e morto” nell’opera di Francesco Carrara, in Francesco Carrara nel
primo centenario della morte, Atti del Convegno internazionale Lucca-Pisa 2-5 giugno 1988, Milano, 1991,
91 ss., spec. 96, 97. Contra, Padovani, Appunti sull’evoluzione del concetto di colpevolezza, in Riv. it. dir.
proc. pen., 1973, 565, nota 49.
188
colpevolezza
barkeit), assestandosi deinitivamente su quest’ultimo, che, nel corso degli anni,
è stato sempre più oggettivizzato, facendo, dunque, della «colpevolezza un locus
squisitamente normativo e valutativo»18. In breve: la colpevolezza consiste in un
giudizio di rimprovero mosso dall’ordinamento all’indirizzo del reo per il fatto
commesso19. Ma l’individuazione del contenuto concettuale della qualiicazione
di rimproverabilità non è unanime, variando tra una «concezione formale che
legge il rimprovero nel non aver osservato la norma violata»20 ad «una visione
sostanziale che ravvisa l’oggetto del rimprovero nelle caratteristiche personologiche del reo»21, ma mutuando anche rispetto alle diverse funzioni della pena22: è
18. Salcuni, La colpevolezza e le cause che la escludono o la diminuiscono, in Cadoppi, Canestrari,
Manna, Papa, Trattato di diritto penale. Parte generale, II, Il reato, Torino, 2013, 471.
19. La letteratura sul tema è amplissima. Senza alcuna pretesa di completezza, nella dottrina tedesca, Frank., Über den Auf bau des Schuldbegrifs, in GieBener-Fs, 1907, 519 ss.; Goldschmidt,
Normativer Schuldbegrif, in Festgabe fur R. Frank, I, Tubingen, 1930, 428 ss.; Id., Der Notstandm ein
Schuldproblem. Mit Rucksicht auf die Strafgestzentwurfe Deutschlands, Osterreichs und der Schwiez, in
Osterreichische Zeitschrift fur Strafrecht, 1913, 130 ss.; Welzel, Personlichkeit und Schuld, in Zeitschrift
fur Strofrecht, 1941, 428 ss.; Id., La posizione dommatica della dottrina inalistica dell’azione, in Riv. it. dir.
proc. pen., 1951, 9 ss.; Id., Il nuovo volto del sistema penale, cit., 1952, 48 ss.; Gallas, Plichtenkollision als
Schuldausschließungsgrund, in Festschrift fur E. Mezger, Monaco-Berlino, 1954, 311 ss.; Id., Zum gegenwärtigen Stand der Lehre vom Verbrechen, in Beitrage zur Verbrechenslehre, 1968, in Zeitschrift für die gesamte Strafrechtswissenschaft, trad. it. di Sigismondi, Sullo stato attuale della dottrina del reato, in Scuola
pos., 1963, 48 ss.; Muller-Dietz, Grenzen des Schuld Gedankens im Strafrecht, Karlsruhe, 1967, 59 ss;
Neufelder, Schuldbegrif und Verfassung, in GA, 1974, 294 ss.; Brukharrdt, Das Zweckmoment im
Schuldbegrif, in GA, 1986, 203, 204, 226; Hirsch, Das Schuldprinzip und seine Funktion im Strafrecht,
in Zeitschrift fur die gesamte Strafrechtswissenschaft, 1994, 746 ss.; Koriath, Grundlagen strafrechtlicher
Zurechnung, Berlin, 1994, 538 ss.; Eckert, Schuld, Veranwortung, Unrechtsbewußtsein: Bemerkungen
zum personalen konzept strasfrechtlicher Sozialkontrolle, Monchenglanbach, 1999, 19 ss.
20. Per la c.d. teoria formale della colpevolezza normativa, Caruso, La discrezionalità penale.
Tra tipicità classiicatoria e tipologia ordinale, Padova, 2009, 271 ss.
21. Salcuni, La colpevolezza e le cause che la escludono o la diminuiscono, cit., 471, richiama anche le diverse concezioni di rimproverabilità proposte, in particolare, nella dottrina tedesca: «per
Mezger inisca col coincidere con la colpa per la condotta di vita [Mezger, Die Straftat als Ganze,
in ZSTW, 1937, 675]; per Welzel nella mancanza di controllo dell’Io sulla vita interiore [Welzel,
Das deutsche Strafrecht. Eine systematische Darstellung, Berlin, 11 Aul., 1969, 136]; per la scuola di Kiel
con la malvagità per non essersi adeguati e formati una personalità psichica diversa [Bockelmann,
Studien zum Täterstrafrech, Berlin, 1940. Per un’impostazione critica, cfr. tra i più recenti, Marinucci, Sogettivismo ed ogettivismo nel diritto penale. Uno schizzo dogmatico e politico criminale, in Studi in
onore di Franco Coppi, II, Torino, 2011, 1133 ss.; Id., Giuseppe Bettiol e la crisi del diritto penale negli anni
Trenta, in Riv. it. dir. proc. pen., 2008, 929 ss.; Seminara, Sul metodo tecnico-giuridico e sull’evoluzione
della penalistica italiana nella prima metà del XX secolo, in Studi in onore di Mario Romano, I, Napoli, 575
ss., e spec. 597 ss.]». Per un’analisi particolare e storica, cfr. Mazza, Il problema della colpevolezza nel
pensiero di Giuseppe Magiore, Siena, 1994, passim.
22. Musotto, Colpevolezza, dolo e colpa. Prima parte. La dottrina della colpevolezza, Palermo, 1939,
31 ss. L’analisi dell’impostazione di Giovanni Musotto è ampiamente analizzata da Pagliaro, Il contributo di Giovanni Musotto alle dottrine generali del reato, in Studi in onore di Giovanni Musotto, I, Palermo,
1979, 5 ss. Sul concetto di colpevolezza completamente al servizio della prevenzione e, dunque, sulla
189
i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
così «una visione retributiva della pena imporrebbe un rimprovero personale ed
individualizzante, una concezione della pena in termini di prevenzione generale
inquadrerebbe il rimprovero in base ad un agente astratto, una visione specialpreventiva si concentrerebbe sulla rimozione (sulla possibilità di) delle cause di
disturbo»23. L’oggettivizzazione della colpevolezza psicologica e la soggettivizzazione della concezione normativa, portati all’estremo, hanno condotto ad uno
svuotamento24 della colpevolezza, come anche l’eccessiva normativizzazione di
dolo e colpa25, facendo perdere ogni nesso con l’individuo26. Attualmente per-
visione della colpevolezza funzionale, v. Liszt, Strafrechtliche Aufsätze und Vorträge, Berlin, II, 1905, 219
ss.; Roxin, “Schuld” und “Verantwortlichkeit” als strafrechtliche Systemkategorien, in Festschrift für Henkel,
Berlin-New-York, 1974, 171 ss., 180 ss.; Id., Sul problema del diritto penale della colpevolezza, in Riv. it. dir.
proc. pen., 1984, 16 ss. Per una lucida impostazione della colpevolezza funzionale, sempre dalla letteratura tedesca, Jakobs, Schuld und Prävention, Tübingen, 1976, 8, 11 ss., 14 ss.; Id., Strafrecht, Allgemeiner
Teil, Berlin-New York, 1991, II ed., 17, 21 ss.; Id., La funzione del dolo, della colpa e della colpevolezza
nel diritto penale, in Studi sulla colpevolezza, Torino, 1990, 40 ss., sulla scorta di Niklas Luhmann, l’A.
parte dal presupposto che «il conlitto con le nostre aspettative rappresentato da un comportamento
deviante debba in qualche modo venire elaborato, e a questo scopo servirebbe tra l’altro – se non si
vuole rinunciare alla norma – la strategia di rendere l’agente responsabile del suo comportamento,
cioè di dichiararlo colpevole. Questo avviene nella misura in cui non si riesca o non sembri opportuno disinnescare il contrasto in un altro modo, ad esempio trattando l’agente come un malato di mente. Raforzare la validità della norma, stabilizzarla, è deinita prevenzione generale positiva, e solo a
questo scopo deve servire il giudizio di colpevolezza rispetto al comportamento contrario alle norme, soltanto questo scopo deve costituire il contenuto del concetto di colpevolezza: «l’oggetto della
valutazione è ormai solo una costruzione». Per un’attenta esposizione delle obiezioni alla concezione
funzionale della colpevolezza, Stratenwerth, Il concetto di colpevolezza nella scienza penalistica tedesca,
in Materiali per una storia della cultura giuridica, 1998, XXVIII, 1, 6, 223 ss. Critici sulle tesi funzionaliste
della colpevolezza, ma anche sulla teoria jakobsiana della prevenzione generale integratrice (secondo
cui la pena sarebbe la negazione della negazione e perciò l’afermazione del diritto e dello Stato), nella
letteratura italiana, Baratta, La teoria della prevenzione integrazione. Una nuova fondazione della pena
nella teoria sistemica, in Dei delitti e delle pene, 1984, 5 ss., Bartoli, Colpevolezza: tra paternalismo e prevenzione, Torino, 2005, 42; Veneziani, Motivi e colpevolezza, Torino, 2000, 215 ss.; Fiandaca, Considerazioni
sulla colpevolezza, in Riv. it. dir. proc. pen., 1987, 846 ss.; Venafro, Scusanti, Torino, 2002, 91 ss., 107 ss.
23. Salcuni, La colpevolezza e le cause che la escludono o la diminuiscono, cit., 472.
24. Ferrajoli, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, IX ed., Roma-Bari, 2008, 501; contra, Padovani, Teoria della colpevolezza e scopi della pena, in Riv. it. dir. proc. pen., 1987, 801 ss.
25. De Vero, Disvalore d’azione e imputazione dell’evento in un’agiornata costruzione separata dei
tipi criminosi, in Studi in onore di Giorgio Marinucci, II, Milano, 2006, 1487 ss. Sulla normativizzazione
del dolo eventuale ed i rapporti con la colpevolezza, Canestrari, Dolo eventuale e colpa cosciente,
Milano, 1999, 279; di recente, Astorina, Verità e problemi di imputazione del dolo eventuale tra rischio,
tipicità e colpevolezza, in Riv. it. dir. proc. pen., 2012, 924 ss.; Raffaele, La seconda vita del dopo eventuale
tra rischio, tipicità e colpevolezza, in Riv. it. dir. proc. pen., 2012, 1077 ss. Per un’impostazione critica,
Manna, È davvero irrisolvibile il mistero del dolo eventuale?, in www.archiviopenale.it; Id., Corso di diritto
penale, cit., 346; Id., Colpa cosciente e dolo eventuale: l’indistinto conine ed il principio di stretta legalità,
in Studi in onore di Franco Coppi, I, cit., 201 ss.
26. Sull’incompatibilità tra colpevolezza e reati di evento, cfr. Eusebi, Prefazione, in Lüderssen, Il declino del diritto penale, Milano, 2005, XV; Id., La prevenzione dell’evento non voluto. Elementi di
190
colpevolezza
mane una concezione intermedia della colpevolezza27, che, dunque, ha caratteri
della visione psicologica, come la necessità del nesso psichico tra fatto ed autore,
in cui si innesta la possibilità di muovere un “rimprovero” per l’atteggiamento
antidoveroso dell’agente28 da un punto di vista giuridico-sociale, fondato sul «poter agire diversamente»29, ovvero, secondo una diversa impostazione, per non
essersi motivato secondo le norme30.
Per concludere il breve excursus nel dibattito sulla colpevolezza, va appuntata,
con la dovuta sintesi, l’attenzione sul concetto sociale di colpevolezza.
L’impossibilità di poter dimostrare empiricamente la capacità di autodeterminarsi altrimenti dell’autore concreto nel momento e nella situazione in cui
è stato consumato il comportamento criminoso, ha evidenziato l’assoluta diicoltà, secondo le impostazioni tradizionali della colpevolezza, di individualizzazione del giudizio di rimproverabilità, poiché tale giudizio «non può più essere
conigurato afermando che questo agente avrebbe potuto agire diversamente,
ma solo che un altro nella sua situazione “avrebbe potuto resistere alla tentazione
del reato”: “criterio per la valutazione della colpevolezza” […] può “essere soltanto una
una rivisitazione dogmatica dell’illecito colposo e del dolo eventuale, in Studi in onore di Mario Romano, II,
cit., 963 ss.; M. Mantovani, Diritto penale del caso e prospettive de lege ferenda, in ibid., 1061.
27. Bettiol, Diritto penale, cit., 322 ss.; Pulitanò, Appunti sul principio di colpevolezza come
fondamento della pena: convergenze e discrasie tra dottrina e giurisprudenza, in Le discrasie tra dottrina e
giurisprudenza in diritto penale, Napoli, 1991, 88; Bartoli, Colpevolezza, cit., 51, anche se pone dolo
e colpa nel fatto. Sulla teoria inalistica dell’azione, C. Fiore, Ciò che è vivo e ciò che è morto nella dottrina inalistica dell’azione. Il caso italiano, in Riv. it. dir. proc. pen., 2005, 295 ss. Sul pensiero di Bettiol,
Pagliaro, Teleologismo e inalismo nel pensiero di Giuseppe Bettiol, in Id. (a cura di), Il diritto penale fra
norma e società, IV, Milano, 2009, 642 ss.; Riondato, Un diritto penale detto ragionevole. Raccontando
Giuseppe Bettiol, Padova, 2005, 134; Ronco, L’attualità di Giuseppe Bettiol nel 100° anniversario della
nascita e nel 25° anniversario della morte, in Criminalia, 2007, 147 ss.
28. Salcuni, La colpevolezza e le cause che la escludono o la diminuiscono, cit., 473, nota 69, ricorda che nella deinizione di Donini «si tratterebbe dell’atteggiamento antidoveroso della volontà,
valutato nelle sue qualità e diferenze psicologiche, alla luce della normalità delle condizioni personali e sociali che hanno determinato o condizionato la motivazione del soggetto nella realizzazione del fatto tipico».
29. Ross, Colpa, responsabilità e pena, Milano, 1972, 257 ss.; Hart, Responsabilità e pena, Milano,
1981, 55-79. Sulla distinzione del rimprovero a secondo della natura del reato (naturale o artiiciale), Vallini, Antiche e nuove tensioni tra colpevolezza e diritto penale artiiciale, Torino, 2003, 6 ss., 10 ss.
30. Roxin, Sulla fondazione politico-criminale del sistema del diritto penale, in Moccia (a cura di),
Politica criminale e sistema del diritto penale. Sagi di teoria del reato, Napoli, 1998, 197 ss., il quale
identiica la colpevolezza nella motivitabilità mediante norme. Nella letteratura tedesca, Stratenwerth, Die Zukunft des strafrechtlichen Schuldprinzips, Heidelber-Karlrhue, 1977, 22 ss.; Achenbach,
Individuelle Zurechnung, Verantwortlichkeit, Schuld, in Grundfragen des modernen Strarechtsystems, hrg.
Schunemann, Berlin-New York, 1984, 140 ss.; Amelung, Zur Kritik des Kriminalpolitischen Strafrechtssystems von Roxin, in ibid., 97 ss. In senso critico, Padovani, Teoria, cit., 819. Illustra la posizione
di Roxin, di recente, Salcuni, La colpevolezza e le cause che la escludono o la diminuiscono, cit., 478;
Venafro, Scusanti, Torino, 2002, 135 ss. Ampiamente, Caruso, La discrezionalità penale, cit., 282 ss.
191
i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
capacità media”»31. L’agente concreto, quindi, avrebbe potuto agire altrimenti se
«alla luce della nostra esperienza riferita a casi analoghi, un altro al suo posto, con
l’impiego dell’energia volitiva che a lui può essere mancata, avrebbe potuto agire
altrimenti nelle concrete circostanze»32. L’uomo provvisto di una capacità media
di autodeterminazione33, pur sempre modellato sulla falsariga delle caratteristiche individuali dell’agente concreto, costituisce il “termine di paragone” utile a
dimostrare che anche «l’agente concreto, al momento del fatto, fosse in grado
di agire diversamente (e cioè in modo conforme alla pretesa di comportamento
della norma incriminatrice)». In altri termini, la libertà di poter agire conformemente alla norma costituisce una presunzione iuris tantum, con la conseguenza
che il concetto di colpevolezza si ricava sostanzialmente in negativo34, nel senso
che «la possibilità di agire diversamente si presume, nel singolo individuo, in presenza di condizioni psichiche normali (maturità e sanità mentale) e in assenza di
fattori che possano in qualche modo pregiudicare la normalità della motivazione
che sorregge la sua condotta»35.
3. La colpevolezza nel sistema italiano. Gli arresti della giurisprudenza costituzionale e
l’individuazione del principio di colpevolezza fondato sugli artt. 2, 25, co. 2, e 27, co. 1
e 3, Cost. Il volto della colpevolezza nostrana non può che essere disegnato sulla
giurisprudenza costituzionale, che ha evidenziato la necessità di ediicare tale
concetto sulla scorta del principio di cui all’art. 27, co. 1, Cost. – secondo cui «la
responsabilità penale è personale» – in lettura combinata con il co. 3 della stessa
disposizione, ed assicurando un aggancio ulteriore nell’art. 2 Cost. Ma andiamo
con ordine.
L’accezione minimale della personalità (divieto di responsabilità per fatto altrui) è stata progressivamente abbandonata dalla Corte costituzionale36, che è
approdata alla lettura evolutiva dell’art. 27 Cost., con la fondamentale decisione
n. 364 del 198837: argomentando dalla inalità rieducativa della pena (art. 27, co.
31. Jescheck, Weigend, Lehrbuch des Strafrechts, Allgemeiner Teil, Berlin, 1996, V ed., 427 ss.;
Stratenwerth, Il concetto di colpevolezza nella scienza penalistica tedesca, cit., 226.
32. Jescheck, Weigend, Lehrbuch des Strafrechts, Allgemeiner Teil, cit., 441; nella letteratura italiana, Canestrari, Cornacchia, De Simone, Manuale di diritto penale, cit., 584; Palazzo, Corso di
diritto penale, cit., 16; Romano, Commentario, cit., 328.
33. Canestrari, Cornacchia, De Simone, op. e loc. cit.
34. Hirsch, Das Schuldprinzip und seine Funktion im Strafrecht, in Zeitschrift für die gesamte Strafrechtswissenschaft, 1994, 106, 750.
35. Canestrari, Cornacchia, De Simone, op. e loc. cit., in cui si evidenzia che «tale tipo di
autore è quello che di solito compare sulla scena del processo penale, dove le questioni relative alla
colpevolezza vengono sollevate, in realtà, soltanto molto raramente».
36. Corte cost. n. 3 del 1956; Id. n. 107 del 1957; Id. n. 22 del 1973; Id. n. 209 del 1983.
37. Sulla sentenza n. 364 del 1988, nell’ampia bibliograia, senza presunzione di completezza,
Pulitanò, Una sentenza storica che restaura il principio di colpevolezza, in Riv. it. dir. proc. pen., 1988,
192
colpevolezza
3, Cost.), la Consulta ha afermato che “per fatto proprio” non deve essere inteso
«il fatto collegato al soggetto, all’azione dell’autore, dal mero nesso di causalità
materiale […] ma anche, e soprattutto, dal momento subiettivo, il quale deve
investire – almeno nella forma della colpa – gli elementi più signiicativi della
fattispecie tipica».
Tale pronuncia ha ricostruito il concetto di colpevolezza in termini contrattualistici, ponendo, da un lato, i doveri costituzionali dello Stato attinenti alla
formulazione, struttura e contenuti delle norme penali e, dall’altro, i corrispondenti doveri informativi del cittadino. In particolare, il dovere statale, fondato
sugli artt. 73, co. 3, e 25, co. 2, Cost., è quello di introdurre fattispecie penali «non
numerose, eccessive rispetto ai ini di tutela, chiaramente formulate, dirette alla
I, 686 ss.; Fiandaca, Principio di colpevolezza ed ignoranza scusabile della lege penale: “prima lettura”
della sentenza n. 364/88, in FI, 1988, I, 385 ss.; Padovani, L’ignoranza inevitabile sulla lege penale e la
declaratoria d’incostituzionalità parziale dell’art. 5 cod. pen., in LP, 1988, 449 ss.; Ronco, Ignoranza della
lege (dir. pen.), in Enciclopedia Giuridica Treccani, XV, Roma, 1989, 8 ss.; Stortoni, L’introduzione nel
sistema penale dell’errore scusabile di diritto: signiicati e prospettive, in Riv. it. dir. proc. pen., 1988, 83
ss.; Romano, Commento all’art. 5 cod. pen., in Commentario sistematico del codice penale, I, Art. 1-84,
III ed., Milano, 2004, 103, parla di vera e propria «modernizzazione del nostro sistema penale»;
Alessandri, Commento all’art. 27, co. 1° Cost., in Branca, Pizzorusso (a cura di), Commentario della
Costituzione, Artt. 27-28, Rapporti civili, Bologna, 1991; Belfiore, Brevi note sul problema della scusabilità dell’“ignorantia legis”, in FI 1995, II, 154 ss.; Id., Contributo alla teoria dell’errore in diritto penale,
Torino, 1997; Belli, Ignoranza scusabile della lege penale, in Studium iuris, 2003, 2, 253 ss.; Binda,
in Dolcini, Marinucci (a cura di), Codice penale commentato, Milano, 2006, I, II ed., art. 5, 121 ss.;
Cadoppi, Orientamenti giurisprudenziali in tema di “ignorantia legis”, in FI, 1991, II, 415 ss.; Id., La
nuova conigurazione dell’art. 5 c.p. ed i reati omissivi propri, in Stile (a cura di), Responsabilità ogettiva
e giudizio di colpevolezza, Bologna, 1989; Calabria, Delitti naturali, delitti artiiciali ed ignoranza della
lege penale, in IP, 1991, 35 ss.; Callegari, Errore sul precetto, in Studium iuris, 2006, 5, 608 ss.; Carcano, L’adempimento dell’onere informativo necessario per rendere scusabile l’errore sulla lege penale, in
Cass. pen., 2008, 6, 2407 ss.; Corbetta, Ignoranza della lege penale: quando è scusabile, in Dir. pen. proc.,
2002, 6, 718; D’Amico, Art. 5, in Bifulco, Celotto, Olivetti (a cura di), Commentario alla Costituzione,
I, Artt. 1-54, Torino, 2006; Di Salvo, Art. 5, in Lattanzi, Lupo (a cura di), Codice Penale. Rassegna di
giurisprudenza e di dottrina, I, La lege penale e le pene. Il reato, Libro I, Artt. 1-84, Aggiornamento 20002004, Milano, 2005; Flora, Commento all’art. 5, in Crespi, Forti, Zuccalà (a cura di), Commentario
breve al codice penale. Complemento giurisprudenziale, IX ed., Padova, 2008, 53 ss.; Id., voce Errore,
in Digesto delle Discipline Penalistiche, IV, IV ed., Torino, 1990, 255 ss.; Giunta, Commento all’art. 5,
in Padovani (a cura di), Codice penale, IV ed., Milano, 2007, 56 ss.; F. Mantovani, Ignorantia legis
scusabile e inescusabile, in Riv. it. dir. proc. pen. 1990, I, 379 ss.; Mucciarelli, Errore e dubbio dopo la
sentenza della Corte costituzionale 364/1988, in Riv. it. dir. proc. pen., 1996, 223 ss.; Palazzo, Ignoranza
della lege penale, in Digesto delle Discipline Penalistiche, VI, IV ed., Torino, 1992, 122 ss.; Tassinari,
Note a margine del principio di scusabilità/inevitabilità dell’ignoranza della lege penale a venti anni dalla
sua introduzione ad opera della Corte costituzionale, in De Francesco, Piemontese, Venafro (a cura di),
La prova dei fatti psichici, Torino, 2010; Uccella, L’ignoranza inevitabile in diritto penale: note minime
sulle prime applicazioni della Corte di Cassazione, in Cass. pen., 1993, 1721 ss.; Vassalli, L’inevitabilità
dell’ignoranza della lege penale come causa generale di esclusione della colpevolezza (nota a C. Cost., 24
marzo 1988 n. 364), in Gcost, 1988, 3 ss.
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i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
tutela di valori almeno di “rilievo costituzionale” e tali da essere percepite anche
in funzione di norme “extrapenali di civiltà”, efettivamente vigenti nell’ambiente sociale nel quale le norme penali sono destinate ad operare». Dall’altro, quello
del cittadino di adempiere a «strumentali, speciici doveri di conoscenza», ma
subordinati all’adempimento dei correlativi obblighi statali, come corollario (per
rimanere in tema negoziale) del principio inadimplendi non est adimplendum (se si
vuole), cosicché nell’ipotesi di ignoranza (o di errore) inevitabile sulla legge penale38, non è possibile afermare la responsabilità penale del cittadino (incolpevole). L’importanza della conoscibilità del divieto viene evidenziato dalla Corte
costituzionale con l’afermazione per cui «far sorgere l’obbligo giuridico di non
commettere il fatto penalmente sanzionato senza alcun riferimento alla consapevolezza dell’agente, considerare violato lo stesso obbligo senza dare alcun rilievo
alla conoscenza od ignoranza della legge penale e dell’illiceità del fatto, sottoporre il soggetto agente alla sanzione più grave senza alcuna prova della sua consapevole ribellione od indiferenza all’ordinamento tutto, equivale a scardinare
fondamentali garanzie che lo Stato democratico ofre al cittadino ed a strumentalizzare la persona umana, facendola retrocedere dalla posizione prioritaria che
essa occupa e deve occupare nella scala dei valori costituzionalmente tutelati».
Poco tempo dopo, la Corte costituzionale39, tornando sull’argomento, deinisce il nuovo volto del reato in prospettiva costituzionale, sottolineando che
«perché l’art. 27, primo comma, Cost., sia pienamente rispettato e la responsabilità penale sia autenticamente personale, è indispensabile che tutti e ciascuno degli elementi che concorrono a contrassegnare il disvalore della fattispecie siano
soggettivamente collegati all’agente (siano cioè investiti dal dolo o dalla colpa) ed
è altresì indispensabile che tutti e ciascuno dei predetti elementi siano allo stesso
agente rimproverabili e cioè anche soggettivamente disapprovati».
Recentemente, i giudici costituzionali40, confermando l’impianto argomentativo delle pronunce del 1988, hanno riconosciuto il carattere assiomatico e delimitativo al principio di colpevolezza, come tale insuscettibile di essere sacriicato
dal legislatore ordinario in nome della tutela penale di eventuali controinteressi,
ancorché di rango costituzionale. Aianco ai principi di legalità e di irretroattività della legge penale, dunque, la Corte costituzionale ha posto quello di colpevolezza, che «mira […] a garantire ai consociati libere scelte d’azione, sulla base
di una valutazione anticipata (“calcolabilità”) delle conseguenze giuridico-penali
della propria condotta; “calcolabilità” che verrebbe meno ove all’agente fossero addossati accadimenti estranei alla sua sfera di consapevole dominio, perché
38. Soprattutto se il legislatore non è stato chiaro nella formulazione del divieto penale o la
giurisprudenza ha assunto un determinato orientamento applicativo, salvo, poi, mutare indirizzo.
39. Corte cost. n. 1085 del 1988.
40. Corte cost. n. 322 del 2007.
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colpevolezza
non solo non voluti né concretamente rappresentati, ma neppure prevedibili ed
evitabili. In pari tempo, il principio di colpevolezza svolge un ruolo “fondante”
rispetto alla funzione rieducativa della pena (art. 27, terzo comma, Cost.): non
avrebbe senso, infatti, “rieducare” chi non ha bisogno di essere “rieducato”, non
versando almeno in colpa rispetto al fatto commesso. D’altronde, la inalità rieducativa della pena non potrebbe essere obliterata dal legislatore a vantaggio di
altre e diverse funzioni della pena, che siano astrattamente perseguibili, almeno
in parte, a prescindere dalla “rimproverabilità” dell’autore. Punire in difetto di
colpevolezza, al ine di dissuadere i consociati dal porre in essere le condotte
vietate (prevenzione generale “negativa”) o di “neutralizzare” il reo (prevenzione
speciale “negativa”), implicherebbe, infatti, una strumentalizzazione dell’essere
umano per contingenti obiettivi di politica criminale, contrastante con il principio personalistico afermato dall’art. 2 Cost.».
La Corte costituzionale, dunque, con quest’ultimo importante arresto41, parrebbe tracciare una nuova visione del principio di colpevolezza, che si evidenzia
non tanto in relazione all’espresso ripudio delle tesi funzionaliste negative (di feuerbachiana memoria42), già incompatibili con gli ordinamenti liberaldemocratici43, ma, dopo il richiamo alla necessità del nesso psichico tra fatto ed autore (concezione psicologica), ha avvinto il giudizio di rimproverabilità, nella prospettiva
normativa, sull’individuo come riconosciuto dall’art. 2 Cost.44. Il richiamo del principio personalistico nella lettura costituzionale della colpevolezza, oferta dall’ultimo arresto della Corte costituzionale, merita il dovuto approfondimento, anche
al ine di evidenziarne le nuove peculiarità in prospettiva europea, come si dirà.
41. Risicato, L’errore sull’età tra error facti ed error iuris: una deciione “timida” o “storica” della
Corte costituzionale?, in Dir. pen. proc., 2007, 1465 ss.
42. Feuerbach, Revision der Grundesaetze und Grundbegrif des positiven peinlichen Rechts, Erfurt, 1799, I.
43. Hassemer, Perché punire, cit., 105, aferma che l’idea di intimidazione «allontana il cittadino dalla posizione del legislatore» dal momento che la pena grava su tutti e non solo su chi si è
determinato a violare la norma penale.
44. L’importanza della colpevolezza è sottolineata da De Simone, Persone giuridiche e responsabilità da reato. Proili storici, dogmatici e comparatistici, Pisa, 2012, 226, secondo cui è possibile individuare un ulteriore e più forte aggancio normativo della colpevolezza «nell’art. 3, commi 1 e
2, cost.: nel primo, quando parla di (pari) dignità sociale di tutti i cittadini; nel secondo, quando fa
riferimento al pieno sviluppo della persona umana. A tal proposito, si potrebbe fare un ragionamento di questo tipo: se compito della Repubblica – e cioè dello Stato – è quello di rimuovere gli
ostacoli che […] impediscono il pieno sviluppo della persona umana, sarebbe assurdo che proprio
lo Stato fosse lasciato arbitro di creare ostacoli di ordine giuridico. E tale sarebbe, senza dubbio,
una responsabilità penale che faccia a meno della colpevolezza». Invero, tale parametro era stato
già richiamato dalla Corte costituzionale (n. 364 del 1988), che ritenne che l’art. 27, co. 1, Cost.
andasse interpretato non solo in combinato disposto con l’art. 27, co. 3, Cost., ma anche con una
serie di disposizioni costituzionali, tra le quali, per l’appunto, l’art. 3, co. 1 e 2, Cost. Tanto viene ricordato sempre da De Simone, op. loc. cit., in part. nota 591. Nello stesso senso, Binda, Art. 5, cit., 97.
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i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
Nell’ordinamento nostrano, come è noto, il sistema dei diritti fondamentali
trova fondamento proprio nell’art. 2 Cost., secondo cui «la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità», ma la ratio di questa disposizione
può essere individuata solo se si considera il clima storico-culturale in cui è stata
elaborata, frutto del compromesso tra le ispirazioni di pensiero dell’epoca (cattolica, liberale e socialista)45 ed, in particolare, se si appunta l’attenzione sulla
deinizione di individuo ivi descritto che ruota intorno a quei principi che poi
furono recepiti nella formulazione della disposizione costituzionale in parola
e riguardanti: «a) il riconoscimento dell’anteriorità della persona rispetto allo
Stato; b) il riconoscimento della socialità della persona, destinata a completarsi
e a perfezionarsi mediante una reciproca solidarietà economica e spirituale; c)
l’afermazione dei diritti fondamentali della persona e dei diritti delle comunità
anteriormente ad ogni concessione da parte dello Stato»46. L’art. 2 Cost., dunque,
viene ad assumere un ruolo centrale ed, in un certo senso, caratterizzante (o assiomatico) dell’ordinamento repubblicano, superando la concezione statocentrica
dell’individuo come cittadino in senso unilaterale, ovvero nel solo «rapporto con
lo Stato»47, viene riconosciuto il primato della persona sempre come cittadino,
ma in prospettiva dialogica o contrattualistica, per utilizzare l’impostazione oferta
dalla Corte costituzionale.
45. Calamandrei, Cenni introduttivi sulla Costituente e i suoi lavori, in Calamandrei, Levi (a cura
di), Commentario sistematico alla Costituzione italiana, Firenze, 1950, CXXVIII, in cui si ricorda che
«come l’Assemblea da cui fu approvata, così anche la Costituzione fu necessariamente ispirata da
quella politica di coalizione dei tre partiti cosiddetti ‘di massa’, che nel periodo della Costituente
fu la base del Governo De Gasperi: fu, cioè, anch’essa, ‘tripartita’»; Id., La Costituzione e le legi per
attuarla, in Cappelletti (a cura di), Opere giuridiche, III, Napoli, 1968, 511 ss., in particolare 514.
46. Va osservato che tale ultimo aspetto, anche in ossequio a quanto si legge nei lavori preparatori della Costituzione (La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori della Assemblea costituente,
a cura della Camera dei deputati - Segretariato generale, Roma, 1971, VI, 322 ss., sul resoconto
della Prima Sottocommissione), relativo ai diritti delle formazioni sociali, lo si ritiene per tradizione ricompreso nell’art. 2 Cost., proprio alla luce dei lavori preparatori, anche se la formulazione
adottata alla ine non vi farebbe espressamente menzione, dal momento che – secondo questa – le
formazioni sociali avrebbero rilievo solo in quanto luogo ove si svolge la personalità dell’uomo, per
cui dovrebbe derivarsi: a) che il riconoscimento di diritti alla formazione dovrebbe essere sempre
strumentale rispetto a quello efettuato nei confronti del singolo; b) che il conlitto tra pretese della
formazione e diritti dell’individuo può avere un esito diverso a seconda della natura della formazione medesima. Infatti, qualora, l’adesione a questa sia il frutto di una libera scelta del singolo, questo
può recedere e non può chiedere, in nome del proprio diritto, una tutela che modiichi o delimiti
la natura e l’azione della formazione sociale; se, invece, l’appartenenza alla formazione è giuridicamente obbligatoria la tutela del diritto del singolo individuo può comportare, quanto meno, la delimitazione delle pretese della formazione. Così Mangiameli, Il contributo dell’esperienza costituzionale
italiana alla dommatica europea della tutela dei diritti fondamentali, in www.giurcost.org.
47. Espressione di Crisafulli, Individuo e società nella Costituzione italiana, in Riv. dir. lav., 1954, 75.
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colpevolezza
Ad ogni modo, non si crede possibile considerare legati i due aspetti della personalità, l’una, individualista e, l’altra, sociale, tradizionalmente considerati nell’art.
2 Cost., nel senso che non appare corretto ritenere che tale disposizione voglia
riconoscere al singolo diritti e libertà fondamentali «per l’appagamento egoistico
dei suoi bisogni e desideri individuali»48, apparendo, diversamente, più utile assicurare al cittadino quei diritti fondamentali in funzione solidaristica, poiché funzionali
(appunto), non per il soddisfacimento dei propri egoistici bisogni, ma nell’interesse
dell’intera comunità. Se i doveri giuridici hanno un’evidente inalizzazione verso
il rispetto di interessi collettivi, pubblici od, in genere, di terzi, tale direzione teleologica, si crede, va a caratterizzare anche l’attribuzione (o riconoscimento) dei
diritti e delle libertà fondamentali, che, nell’ambito di una comunità, sono l’aspetto
reciproco del dovere: il riconoscimento dei diritti e delle libertà non avrebbe alcun
senso ove non esistesse una comunità in cui si colloca l’individuo. In altri termini,
il riconoscimento dei diritti e delle libertà fondamentali a ciascun individuo va a
segnare il limite dei diritti e delle libertà per gli altri individui, andando a riempire
di contenuto i doveri di rispetto reciproco tra i membri della stessa comunità. In
questa prospettiva, il principio di colpevolezza, fondato sugli artt. 2, 25, co. 2, e 27,
co. 1 e 3, Cost., diventa centrale in una società democratica, perché solo in un tale
contesto è possibile rimproverare il cittadino responsabile della violazione della norma, non attraverso la minaccia della pena (così abbandonando ogni inalizzazione
preventiva, ma anche retributiva49), ma con l’invito a partecipare ad un percorso
di risocializzazione ed, in quest’ottica, la tradizionale contrapposizione tra visione reo-centrica e visione vittimo-centrica, trova una composizione, un punto di
equilibrio e di mediazione. Così allontanando il rischio di incentrare il giudizio di
colpevolezza sul solo autore del reato, dimenticando la vittima50.
3.1. La colpevolezza come categoria dogmatica: la nozione unitaria di colpevolezza derivante dalla funzione rieducativa della pena. “Punire per educare”. Il rimprovero di
colpevolezza è correlato alla funzione della pena, con l’efetto che l’oggetto del
relativo giudizio va colto nel teleologismo punitivo.
Se, come si dirà approfonditamente51, la inalizzazione della pena è quella di
selezionare un dialogo risocializzante con il reo-cittadino, individuale e personale,
48. Esposito, La libertà di manifestazione del pensiero nell’ordinamento italiano, Milano, 1958, 8.
49. Per una critica all’idea retribuzionista della pena cfr. Eusebi, La “nuova” retribuzione, in
Riv. it. dir. proc. pen., 1983, 914 ss.; Id., Cristianesimo e retribuzione penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1987,
275 ss.; Id. (a cura di), La funzione della pena: il commiato da Kant e da Hegel, Milano, 1989, 173 ss.;
Id., Dibattiti sulle teorie della pena e mediazione, in Riv. it. dir. proc. pen., 1997, 811 ss.; Id., Le istanze del
pensiero cristiano e il dibattito sulla riforma del sistema penale nello stato laico, in Acerbi, Eusebi (a cura
di), Colpa e pena? La teologia di fronte alla questione criminale, Milano, 1998, 207.
50. Come ricorda, Parisi, Cultura dell’altro e diritto penale, Torino, 2010, 134 ss.
51. Cfr. infra Cap. IV, § 2.
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i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
cercando così di riportarlo all’interno del contesto sociale, con la partecipazione
della vittima, il rimprovero di colpevolezza che gli si può muovere non può che
riguardare l’aver tenuto un comportamento socialmente incompatibile, vuoi perché
ha violato il divieto penale, vuoi perché ha leso l’interesse collettivo o individuale
della vittima, vuoi perché ha esercitato la libertà riconosciutagli dall’ordinamento, «al di fuori dei limiti da esso segnati»52. L’individualizzazione ricercata dalla colpevolezza, dunque, è sagomata sulla nozione di individuo voluta dall’art. 2 Cost.,
come “cittadino”, ovvero membro di una comunità che gli riconosce libertà e
diritti nei limiti del rispetto di quelli riconosciuti agli altri consociati.
In tal maniera parrebbe escludersi lo sdoppiamento della colpevolezza, come
categoria dogmatica, in fondante e graduante, a seconda se abbia ad oggetto l’an
od il quantum della pena53. Ed invero, tale necessaria convergenza tra i due aspetti
della colpevolezza pare evincersi dalla stessa giurisprudenza costituzionale che,
fondando la Schuld sull’art. 27 Cost., ha sottolineato lo stretto legame che deve
esistere tra colpevolezza del reo e prevedibilità della pena54.
La lettura unitaria del concetto di colpevolezza può essere strutturata sulla
nozione normo-costituzionale del principio di personalità, per cui «non è legittimo ediicare alcun rimprovero penale in capo a chi rispetto al fatto oggetto di
imputazione non sia competente»55. In particolare, si è distinto il principio di per52. Così Cornacchia, La moderna hostis iudicatio, cit., 112. In questo senso, parlando di abuso
della libertà di agire, cfr. Caruso, La discrezionalità penale, cit., 329.
53. Prosdocimi, Proili penali del postfatto, Milano, 1982, 237, secondo cui «quanto alla colpevolezza, ad una nozione essenzialmente psicologica della colpevolezza, valida ai ini dell’imputazione del fatto, appare corrispondere in sede di commisurazione della pena una nozione normativa
della colpevolezza medesima: la prima non è graduabile (o per meglio dire, la sua graduazione
non ha alcun pratico signiicato: ciò che rileva è la sua presenza o la sua assenza), la seconda contribuisce a determinare l’entità del contrasto tra il fatto concreto e l’ordinamento, e la conseguente
riprovevolezza dell’autore». Nello stesso senso, ma con riferimento ai motivi a delinquere, cfr.
Veneziani, Motivi e colpevolezza, Torino, 2000, 190.
54. Pulitanò, Responsabilità ogettiva e politica criminale, in Responsabilità ogettiva e giudizio di
colpevolezza, Napoli, 1989, 71 ss.
55. Canestrari, Cornacchia, De Simone, Manuale di diritto penale, cit., 195 ss., argomentano
la concezione normo-costituzionale del principio di cui all’art. 27, co. 1, Cost., fondandolo sul concetto di cittadino responsabile e competente ed, in particolare, «la sfera di responsabilità coincide
[…] con la competenza, ossia con quella “misura” che segna l’ambito di autonomia del cittadino
“riconosciuto” dall’ordinamento nello status, [ovvero] l’insieme delle posizioni (dalle mere libertà
negative, ai diritti garantiti in positivo, agli obblighi, facoltà, potestà) giuridicamente riconosciute
al soggetto di diritto dall’ordinamento. È status quello generale di cittadino, concretizzato poi sulla
falsariga delle suddivisioni derivanti dalle compartimentazioni e specializzazioni della particolare
attività presa in considerazione: la competenza del medico cardiologo è sensibilmente diversa da
quella del medico generico; quella del meccanico da quella dell’elettrauto. Il riconoscimento di
status generali è funzionale all’autonomia delle reciproche competenze: ciascun soggetto di diritto
deve rispettare la sfera altrui, ossia, deve organizzare la propria sfera di attività in modo da non pregiudicare quella degli altri. […] Inoltre, sono status quelli speciali, riconosciuti in via istituzionale a
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colpevolezza
sonalità in due diversi livelli: l’uno, che descrive il nesso di attribuibilità del fatto
al cittadino «chiamato a rispondere soltanto di quei fatti rispetto ai quali aveva un
dovere giuridico, ossia derivanti dalla scorretta gestione della sua sfera di competenza»; l’altro, che rappresenta i fatti dei quali il cittadino può rispondere, ovvero
«soltanto di quei fatti rispetto ai quali [lo stesso] aveva un potere di controllo, essendo da lui prevedibili ed evitabili»56. Nella decisione n. 322 del 2007, del resto, la
Corte costituzionale evidenzia la giuridica impossibilità di poter attribuire al cittadino «accadimenti estranei alla sua sfera di consapevole dominio». “Colpevole”
e “personale”, come noto, sono concetti sovrapponibili: il rimprovero non può
che essere rivolto ad un cittadino nella cui competenza ricadeva il fatto vietato.
In altri termini, l’argomentazione che spiega l’attribuzione del fatto al soggetto
attraverso il nesso normo-costituzionale, già di per sé, seleziona il cittadino (potenzialmente) colpevole57.
determinati soggetti, in vista della tutela di beni fondamentali della società. Dallo status discendono, tra gli altri, doveri giuridici: in particolare, doveri di corretta gestione della propria sfera di attività in funzione del rispetto di quella altrui. La competenza del soggetto dipende dalla violazione
di tale dovere giuridico: solo per quelle lesioni che derivano dalla trasgressione del dovere giuridico
è competente. […] Alla violazione del dovere giuridico deve essere riconducibile la lesione che integra il fatto di reato, non invece gli elementi che ne stanno fuori, dato che l’art. 27 si riferisce solo
all’illecito penale. […] Il rimprovero derivante dalla norma penale non è mai rivolto a “chiunque”,
ma – proprio per il principio di responsabilità individuale di cui all’art. 27, co. 1 Cost. – sempre
a un soggetto individuato dal dovere giuridico derivante dallo status riconosciuto dalla norma
stessa, che proprio attraverso tale riconoscimento lo costituisce soggetto di diritto: in una parola,
a un soggetto “competente”. Solo chi è competente rispetto alla sfera di rischio da cui origina la
lesione può essere chiamato a risponderne penalmente, per la ragione – non di avere “causato” la
conseguenza lesiva, né di avere disobbedito a un ordine dello Stato, ma – di non avere osservato i
doveri giuridici derivanti dal proprio status correlati alla sfera di rischio stessa. […] Si è suggerito di
qualiicare questo dovere giuridico – ancora extrapenale, ma che viene a caratterizzare l’antigiuridicità dell’illecito penale – con il termine “oicium iuris”: di matrice stoica, utilizzato da Cicerone,
sta a caratterizzare, secondo il richiamo di Emilio Betti, “il complesso dei doveri che incombono (e
dei correlativi poteri che spettano), in posizioni diferenziate, a quanti siano investiti di un compito
di protezione e di responsabilità nell’interesse di singoli o della società intera organizzata nella
res publica”. Il termine sembra appropriato a identiicare entrambe le tipologie di doveri giuridici
trattati – quelli “generali” e quelli “speciali” – ben potendo ricomprendere infatti anche quel livello
minimo di solidarietà che ciascuna società assume e garantisce in via istituzionale […] In questi
termini, la responsabilità è personale, se e in quanto ciascuno risponda solamente delle violazioni di quei
doveri giuridici che attengono allo status (generale o speciale) a lui riconosciuto dalla Costituzione: i doveri
giuridici costituiscono dunque limite, ma, prima ancora, fondamento della responsabilità. Quindi, a
fondamento della responsabilità va posta la competenza derivante da quei doveri giuridici che attengono allo status riconosciuto dall’ordinamento: “nullum crimen sine peculiari oicio”, ossia, nessuna responsabilità senza un dovere giuridico “proprio”. Questa la cifra del principio di responsabilità
personale nel signiicato di responsabilità per fatto consacrato dall’art. 27, co. 1 Cost.».
56. Canestrari, Cornacchia, De Simone, Manuale di diritto penale, cit., 200.
57. E’, infatti, necessario accertare, come si dirà, oltre alla conoscibilità del precetto, anche la
libertà di scelta, onde giungere al giudizio di efettiva colpevolezza del cittadino.
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i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
Conforto a tale lettura della colpevolezza si può trovare, poi, nella deinizione
della inalità rieducativa della pena elaborata dalla Corte costituzionale, che, in
una storica pronuncia58 (richiamata anche nell’arresto del 2007), in cui si discosta
dall’orientamento tradizionale59, aferma che il principio contenuto nell’art. 27,
co. 3, Cost. «lungi dal rappresentare una mera generica tendenza riferita al solo
trattamento, indica invece proprio una delle qualità essenziali e generali che caratterizzano la pena nel suo contenuto ontologico e l’accompagnano da quando
nasce, nell’astratta previsione normativa, ino a quando in concreto si estingue»,
secondo una prospettiva per cui “tendere” esprime solo «la presa d’atto della divaricazione che nella prassi può veriicarsi tra quella inalità e l’adesione di fatto
del destinatario al processo di rieducazione». Conclusivamente afermando che
«il precetto di cui al terzo comma dell’art. 27 della Costituzione vale tanto per il
legislatore quanto per i giudici della cognizione, oltre che per quelli dell’esecuzione e della sorveglianza, nonché per le stesse autorità penitenziarie», in quanto «se la inalità rieducativa venisse limitata alla sola fase esecutiva, rischierebbe
grave compromissione ogniqualvolta specie e durata della sanzione non fossero
calibrate (né in sede normativa né in quella applicativa) alle necessità rieducative
del soggetto»60.
Se, quindi, questa è la ratio della punizione (“perché punire”: si punisce per
rieducare), la necessità personalistica ed individualizzante del rimprovero penale
non può prescindere dall’indagare sulle ragioni che hanno portato il reo ad assumere il comportamento antisociale. Ed invero, se, come sostenuto nelle pagine
precedenti, la inalizzazione della pena è quella di selezionare un dialogo risocializzante con il reo-cittadino, individuale e personale, cercando così di riportarlo
all’interno del contesto sociale, con la partecipazione della vittima, questo percorso di ricerca della corretta via comunicativa con il reo (ma anche con la vit-
58. Corte cost. n. 313 del 1990 che segue l’impostazione dell’importante precedente n. 364
del 1988 e, di recente, confermata da Id., n. 322 del 2007.
59. Sulla c.d. concezione polifunzionale della pena, Corte cost. n. 12 del 1966; n. 22 del 1971;
n. 167 del 1973; n. 264 del 1974, in cui la Consulta, fra l’altro, aferma, in un giudizio di compatibilità costituzionale della pena dell’ergastolo con l’art. 27, co. 3, Cost.: «funzione (e ine) della pena – si
è afermato – non è certo il solo riadattamento dei delinquenti, purtroppo non sempre conseguibile. A prescindere sia dalle teorie retributive, secondo cui la pena è dovuta per il male commesso,
sia dalle dottrine positiviste, secondo cui esisterebbero criminali sempre pericolosi e assolutamente incorreggibili, non vi è dubbio che dissuasione, prevenzione, difesa sociale, stiano, non meno
della sperata emenda, alla radice della pena»; da ciò, i giudici costituzionali poterono concludere
che l’art. 27 Cost. «non ha proscritto la pena dell’ergastolo […] quando essa sembri al legislatore
ordinario, nell’esercizio del suo potere discrezionale, indispensabile strumento di intimidazione
per individui insensibili a comminatorie meno gravi, o mezzo per isolare a tempo indeterminato
criminali che abbiano dimostrato la pericolosità e l’eferatezza della loro indole».
60. Per un’attenta analisi della distinzione tra colpevolezza fondante e colpevolezza graduante, Caruso, La discrezionalità penale, cit., 294.
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colpevolezza
tima), impone di comprendere le ragioni intime che lo hanno portato a deviare
e così violare il divieto penale. Ed in coerenza con l’idea per cui il rimprovero al
reo consiste nell’aver tenuto un comportamento socialmente incompatibile, tali
ragioni sono sottese all’abuso della sua sfera di libertà, avendo egli agito oltre i
limiti dalla stessa segnati: «al diritto penale non interessa che il “volere” sia inibito dalla coscienza, ma solo che dal naturale appetito e dall’insopprimibile lìbito
non scaturiscano azioni disgregatrici delle ordinate relazioni giuridiche pretese
dall’ordinamento»61.
In questa prospettiva, dunque, la colpevolezza, come categoria dogmatica,
non può che aferire alla teoria del reo e non del reato62, in quanto il giudizio di
rimproverabilità ha ad oggetto il reo-in relazione-al-fatto e non il contrario, ovvero
il fatto-in-relazione-al-reo.
Gli efetti di tale collocazione dogmatica e sistematica della colpevolezza
sottraggono al rimprovero penale, certamente, gli elementi psichici (dolo e colpa), appartenendo al fatto tipico, almeno come suoi requisiti, poiché ad esso,
viceversa, necessariamente presupposti63. Non si punisce (rectius, non si vuole
rieducare) perché il reo ha agito con dolo o con colpa, ma perché ha scelto di
abusare della libertà riconosciutagli, assumendo un comportamento socialmente incompatibile.
Ed invero, in mancanza di un fatto tipico ed antigiuridico è superlua l’indagine sulla colpevolezza del responsabile del fatto stesso. Tale visione appare
più chiara laddove si consideri il noto esempio di Frank: «Il cassiere di una ditta
commerciale ed un portavalori compiono, indipendentemente, l’uno dall’altro,
un’appropriazione indebita. L’uno ha una buona posizione, non ha famiglia, ma
61. Caruso, La discrezionalità penale, cit., 330.
62. La colpevolezza viene espressamente collocata nella teoria del reo nei giovani codici penali di Croazia (Capitolo IV) ed in quello della Bosnia-Erzigovina, laddove, recentemente, vi è
stata la correzione dell’espressione (traduzione inglese) di “criminal responsability” con “culpability”
(Capitolo II).
63. Nello stesso senso, C. Fiore, Diritto penale, I, cit., 391, che evidenzia che l’elemento soggettivo del fatto è un requisito essenziale per il conigurarsi della colpevolezza, ma non facendo
parte del suo contenuto. «L’accertamento del dolo o della colpa dell’autore costituisce una condizione imprescindibile della sua “rimproverabilità”, ma dolo o colpa non costituiscono il criterio del
rimprovero, bensì soltanto un suo necessario presupposto». Nella letteratura tedesca, Hirsch, Das
Schuldprinzip und seine Funktion im Stafrecht, cit., 746 ss. Diversamente, Canestrari, Cornacchia,
De Simone, Manuale di parte generale, cit., 588, secondo cui il dolo e la colpa sono requisiti del fatto
tipico, ma «hanno, al contempo, una dimensione di colpevolezza, che si aggiunge a quella fattuale»
ed, in particolare, «per il dolo, la consapevolezza della dimensione ofensiva del fatto ovvero […]
la coscienza attuale dell’illiceità del fatto stesso. […] La dimensione di colpevolezza della colpa si
identiica invece con la sua misura soggettiva, e cioè con l’esigibilità dell’osservanza della regola
cautelare alla quale bisognava attenersi nella situazione concreta, valutata alla luce delle caratteristiche personali dell’autore del fatto».
201
i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
svaghi costosi. L’altro viene modestamente retribuito, ha una moglie malata e
molti igli in tenera età. Per quanto ognuno dei due sappia di appropriarsi illecitamente di denaro altrui, e quindi, in relazione al dolo non sussista alcuna
diferenza, pur tuttavia ognuno dirà: il cassiere è colpevole in modo più grave del
portavalori»64. Se, dunque, alla colpevolezza è estraneo ogni elemento del fatto
tipico, come criterio di rimproverabilità, è così superata la diicoltà di trovare
delle argomentazioni utili a vincere le obiezioni di compatibilità della colpa con
il principio di colpevolezza65.
Ma se è vero che dolo o colpa, come condotta ed evento, ofesa e motivi, non
sono requisiti della colpevolezza, ma suoi presupposti, non per questo questi
possono essere ignorati nel giudizio di colpevolezza: gli elementi del fatto (oggettivo e soggettivo) rilevano ai ini della corrispondenza al tipo (tipicità), ma
anche per delineare l’illiceità oggettiva del fatto (antigiuridicità), classiicando,
dunque, il fatto come tipico ed illecito. Senza, però, alcuna capacità di graduazione. È stato evidenziato, invero, che «le “oscillazioni” da cui l’illiceità può essere
caratterizzata nel caso concreto trovano il loro fondamento nei diversi “contenuti di disvalore” assunti dall’evento, o dalla condotta, o dalle ‘circostanze modali,
ovvero da più fattori fra questi insieme»66. Con ciò volendo sottolineare che la
sussunzione di un fatto concreto nella fattispecie astratta ha un efetto livellante, necessitando di un’ulteriore valutazione di disvalore che vada a distinguere
ogni fatto concreto in relazione alle conseguenze sanzionatorie. È un’esigenza
di individualizzazione del fatto in virtù (se si vuole) di quanto previsto dall’art. 3
Cost. E tale diferenziazione si può cogliere solo quando si passa alla fase di quantiicazione della pena o, secondo la inalizzazione dialogica della stessa, alla fase
di selezione del percorso espiatorio più adeguato alla risocializzazione del reo,
senza dimenticare la vittima. In questa fase, gli elementi del reato già valutati ai
ini della tipicità (ed antigiuridicità) vanno necessariamente riconsiderati, come
“criteri”, per selezionare la misura o la specie della pena più idonea ad accompagnare il reo nel percorso di risocializzazione.
È necessario, a questo punto, un riepilogo. Il principio di colpevolezza costituisce l’essenziale momento di raccordo tra il fatto ed il reo-cittadino, poiché
solo un fatto che rientra nella sfera di competenza del cittadino è colpevole secondo la lettura dell’art. 27, co. 1 e 3, Cost., evidenziando la necessità di attivare
un percorso o dialogo risocializzante con il reo. Tale principio è implementato
64. Frank, Uber den Auf bau des Schuldbegrifs, cit., 523.
65. In dottrina, Donini, voce Teoria, cit., 259 ss.; Palazzo, Corso di diritto penale, III ed., Torino, 2008, 204, 214 ss., 355; Canestrari, Cornacchia, De Simone, Manuale di diritto penale, cit., 275
ss.; C. Fiore, S. Fiore, Diritto penale. Parte generale, Torino, III ed., 2008, 155; Neppi Modona, Guida
al codice penale, II ed., Milano, 2008, 165.
66. Paliero, “Minima non curat praetor”. Ipertroia del diritto penale, Padova, 1985, 703.
202
colpevolezza
nell’ordinamento attraverso il giudizio di rimproverabilità, che ha ad oggetto sia
l’an che il quantum della pena. Sotto il primo proilo, il giudizio di colpevolezza
(o rimproverabilità) riguarda la libertà di scelta, con particolare riguardo alle ragioni che hanno portato il reo ad abusare della libertà riconosciutagli dall’ordinamento. La libertà di scelta («coscienza e volontà») del cittadino è un concetto
necessariamente relativo67, che, pertanto, impone la personalizzazione dell’opzione personale con la valutazione dell’efettiva possibilità, da parte del cittadino,
di controllare (o dominare) la situazione concreta e, dunque, potersi liberamente determinare. In breve: gli si rimprovera di aver abusato della propria libertà
assumendo un comportamento socialmente incompatibile che avrebbe potuto
evitare. Sotto il secondo proilo (quantum), il giudizio di colpevolezza signiica il
momento di «personalizzazione del fatto tipico ed antigiuridico», attraverso la
commisurazione della pena utilizzando gli elementi (oggettivi e soggettivi) del
fatto come criteri di selezione del dialogo rieducativo68.
3.2. (segue) La struttura della colpevolezza unitaria: dominabilità, conoscibilità e libertà. Il presupposto dell’imputabilità ed i requisiti della tipicità e antigiuridicità come
criteri della rimproverabilità. I requisiti della colpevolezza “unitaria” possono identiicarsi nella dominabilità del fatto perché rientra nella sfera di competenza del
cittadino e, dunque, è dallo stesso controllabile; nella conoscibilità del precetto;
nella libertà della scelta di assumere il comportamento antisociale (= antigiuridico) pur potendo agire diversamente. L’imputabilità69 ne costituisce un neces67. Absolutus signiica sciolto, privo di legami. La persona umana è un essere sociale, che ha
necessità di interagire con i suoi simili e con l’ambiente che lo circonda: l’uomo è in relazione con
il mondo. La libertà di scelta, dunque, è necessariamente relativa, non assoluta, poiché costituisce
il prodotto della reazione tra i fattori endogeni, propri dell’individuo, assolutamente (questi sì)
dell’agente, con quelli esogeni interagenti propri della comunità (aspetti socio-culturali).
68. Caruso, La discrezionalità penale, cit., 318, in particolare, nota 205.
69. Nell’ampia bibliograia, senza alcuna completezza, oltre la manualistica, cfr. Bertolino,
Empiria e normatività nel giudizio di imputabilità per infermità di mente, in LP, 2006; Id., Le incertezze
della scienza e le certezze del diritto a confronto sul tema della infermità mentale, in Riv. it. dir. proc. pen.,
2006; Id., Fughe in avanti e spinte regressive in tema di imputabilità penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2001;
Id., Il nuovo volto dell’imputabilità penale. Dal modello positivistico del controllo sociale a quello funzionalgarantista, in IP, 1998; Id., L’imputabilità e il vizio di mente nel sistema penale, Milano, 1990; Id., Proili
vecchi e nuovi dell’imputabilità penale e della sua crisi, in Riv. it. dir. proc. pen., 1988; Bricola, Finzione di
imputabilità ed elemento sogettivo nell’art. 92 co. 1 c.p., in Riv. it. dir. proc. pen., 1961, 239; Id., Fatto del
non imputabile e pericolosità, Milano, 1960; Caraccioli, Il momento di rilevanza dell’imputabilità negli
ordinamenti italiano e tedesco con riguardo ai reati istantanei, in Riv. it. dir. proc. pen., 1971; Centonze,
L’imputabilità, il vizio di mente e i disturbi di personalità, in Riv. it. dir. proc. pen., I, 2005; Ceretti,
Merzagora (a cura di), Questioni sulla imputabilità, Padova, 1994; Cerquetti, L’imputabilità nella
sistematica del diritto penale, Perugia, 1979; Ciappi, Traverso, Disegno di lege di riforma del codice
penale: note critiche a margine della nuova disciplina sull’imputabilità, in Riv. it. med. leg., 1997; Collica,
La crisi del concetto di autore non imputabile “pericoloso”, in www.penalecontemporaneo.it; Id., Il giudizi
203
i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
sario presupposto, piuttosto che un ulteriore requisito: l’assenza della capacità
di volere preclude l’indagine se il soggetto sia stato libero di autodeterminarsi,
pur avendone l’attitudine. Solo la libera scelta di assumere un comportamento
antisociale in relazione ad un fatto controllabile, infatti, rende il reo colpevole,
ovviamente, se tale scelta va a delineare un abuso della propria sfera di libertà.
L’intensità od il grado del nesso psichico costituisce un criterio del rimprovero
colpevole.
L’abuso della libertà di scelta è certamente il requisito più caratterizzante il
giudizio di colpevolezza ed è quello potenzialmente più problematico, astrattamente, delineando una “clausola aperta” che, in teoria, imporrebbe la valutazione di ogni aspetto del processo motivazionale del reo: se la colpevolezza è ciò di
quanto più personalistico il diritto penale è in grado di esprimere70 appare ovvio
di imputabilità tra complessità fenomenica ed esigenze di rigore scientiico, in Riv. it. dir. proc. pen., 2008;
Id., Prospettive di riforma dell’imputabilità nel “Progetto Grosso”, in Riv. it. dir. proc. pen., 2002; Crespi,
(voce) Imputabilità, in Enc. Dir., XX, 1970; Crespi, Forti, Zuccalà, Commentario breve al codice penale,
Padova, 2009; De Marsico, Premeditazione e vizio totale di mente, in Arch. pen., 1958, I; De Matteis,
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GM, 1995; Rotondo, Rilessioni su responsabilità personale e imputabilità nel sistema penale dello stato
sociale di diritto, in Riv. it. dir. proc. pen., 1997; V. Zagrebelsky, Paciero, Codice penale annotato con la
giurisprudenza, Torino, 1999.
70. Canestrari, Cornacchia, De Simone, Manuale di diritto penale, cit., 585.
204
colpevolezza
che il relativo giudizio andrebbe stimato su tutti i fattori che hanno determinato la scelta, con il rischio, neuropsicologico e sociologico71, di poter giustiicare
tutto, evidenziando che, in quella situazione, l’agente non ha scelto o non era
libero. Ma tale assunto non può essere condiviso.
Non ogni aspetto del processo motivazionale, infatti, può essere preso in considerazione nel giudizio di colpevolezza, ma solo quelli tipici e nominati, poiché
71. Nella bibliograia, senza alcuna pretesa di completezza, cfr. Brusco, Scienza e processo
penale: brevi appunti sulla valutazione della prova scientiica, in Riv. it. med. leg., 2012; Id., La valutazione
della prova scientiica, in Dir. pen. proc. - Speciale: la prova scientiica nel processo penale, 2008; Canepa,
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205
i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
il rimprovero è inalizzato alla risocializzazione del cittadino e, dunque, al ripristino della validità della norma come sicurezza del rispetto delle regole sociali. Se
la sfera di competenza del cittadino è costituita da libertà, diritti, doveri e obblighi e se il fatto è ad esso attribuito perché non ha adempiuto al dovere giuridico
(ovvero alla corretta gestione della sua sfera di competenza come attribuitagli
dall’ordinamento) e se il ine del punire è quello di risocializzare il reo, è evidente
che, non solo, i criteri di rimproverabilità devono essere tipici, come è tipico il
divieto penale, ma anche le ipotesi di esclusione della colpevolezza non possono
che essere tipizzate. Con ciò non si vuol dire che la libertà di scelta è relativa: ne
è relativa solo la valutazione di abuso della stessa. La tipizzazione dei criteri del
giudizio di rimproverabilità è, del resto, una conseguenza della società democratica, in funzione garantistica, non solo, del colpevole, ma anche della vittima.
E se non fossimo liberi di scegliere assolutamente?
4. Siamo davvero liberi? Neuroscienze e libero arbitrio. Ma siamo veramente liberi?
Quanto inluiscono i fattori endogeni ed esogeni sull’iter volitivo del comportamento criminale? Tali fattori escludono il libero arbitrio?
Per alcune impostazioni neuroscientiiche72, il libero arbitrio non esiste perché la volontà è il prodotto di reazioni chimiche neurali, nel senso che il nostro
pensiero conscio viene costantemente scavalcato da ciò che il cervello meccanicamente fa, cosicché ogni azione umana si può ritenere di fatto involontaria. Se
fosse dimostrata la verità del determinismo psicologico, non solo, si minerebbe
alla radice il fondamento di orientamento culturale (almeno) del diritto penale,
ma verrebbe meno l’etica, l’idea divina, «la mente sarebbe un mero epifenomeno
del cervello, e nulla più. L’intelligenza una ipotesi costruita ex post, la ragione una
dimensione metaisica e lo spirito un inganno degli spiritualisti»73.
Non è questa la sede per afrontare un tema così complesso, poiché la questione del libero arbitrio resta un vero enigma su cui, da secoli, dibattono ilosoi, teologi e scienziati, senza mai raggiungere risultati condivisi74. Ad ogni
72. Boncinelli, Che ine ha fatto l’io?, Milano, 2010; nella letteratura neuroscientiica, cfr. Libet, Mind Time. The Temporal Factor in Consciousness, Harvard, 2004; Id., Relections on the Interaction
of the Mind and Brain, in Progress in Neurobiology, 2006, 78, 322-326.
73. Pilutti, Le neuroscienze ed il libero arbitrio. Il determinismo causale, in Sul Filo di Soia, 17
giugno 2013.
74. De Caro, Lavazza, Sartori, La frontiera mobile della libertà, in Id. (a cura di), Siamo davvero
liberi? Le neuroscienze e il mistero del libero arbitrio, Torino, 2010, IX; Haynes, Posso prevedere quello che
farai, in ibid., 5-20, il quale evidenzia che «gli studi neuroscientiici contemporanei, poi, hanno evidenziato che, analizzando l’attività di una regione del lobo frontale (area 10 di Brodmann), già oggi
siamo in grado di predire un comportamento alcuni secondi prima che lo stesso soggetto agente
acquisisca la consapevolezza della propria determinazione». Ma in realtà tale questione non si può
considerare afatto risolta. Ed invero, Tempia, op. cit., 100 ss., aferma che «una serie di esperimenti
206
colpevolezza
modo, in estrema sintesi, si sente la necessità, forse per spirito di conservazione
e volontà di esistenza dell’essere umano, di evidenziare che l’esperimento di Libet
certamente mette in rilievo che le capacità di decisione consapevole sono escluse dalle catene causali che producono i comportamenti. Ma quali decisioni? In
efetti, gli esperimenti neuroscientiici in questione riguardano tutti determinazioni rapide e ripetitive75, per le quali era stato detto ai soggetti di non pianiicare l’azione, ma di aspettare l’insorgere di un forte stimolo a compierla. L’attività neurale precoce misurata, dunque, corrispondeva molto semplicemente a
stimoli elementari che precedevano la consapevolezza conscia. D’altra parte, è
esperienza di tutti che l’attenzione conscia non è sempre presente: ad esempio,
quando si guida l’auto lungo un percorso conosciuto e solitamente praticato,
non solo si agisce con gesti di guida automatizzati, ma, alla ine del viaggio, se
si fa mente locale sui movimenti fatti, sui colori dei semafori trovati, sulle accelerazioni e le decelerazioni, sulle auto incrociate o sorpassate, non si ricorda
quasi nulla. L’attenzione inconscia presiede alle azioni routinarie del quotidiano.
Se, infatti, fossimo costretti a rilettere consapevolmente su ogni nostra azione,
saremmo perenni principianti alla guida, incapaci di parlare, scrivere, ballare,
suonare uno strumento.
Diversamente, l’attenzione conscia, relativamente lenta e laboriosa, è richiesta quando si apprende una qualsiasi nuova attività o, comunque, più impegnativa rispetto all’esperienza maturata. Se vado in bicicletta su un percorso
accidentato sconosciuto, l’attenzione conscia mi porterà a scegliere una velocità
ed una direzione che mi eviti di rovinare a terra, ma non presidierà l’equilibrio
necessario a saper pedalare. Fosse così semplice la questione del libero arbitrio,
da identiicare con l’attenzione conscia, sarebbe risolta.
eseguiti su diverse aree cerebrali ha infatti dimostrato che il tempo mentale di cui abbiamo coscienza non corrisponde fedelmente al tempo cronometrico, ma viene sovente deformato in modo
da creare una rappresentazione mentale della realtà il più possibile coerente». In altre parole, si
osserva «una distorsione della percezione del tempo nelle vicinanze dei movimenti volontari», che
può giungere al punto di invalidare l’interpretazione della successione temporale di causa-efetto.
Perciò, a tutt’oggi non si può afermare che vi sia una qualche prova sperimentale conclusiva a
favore del riduzionismo materialista: rimane quindi aperto il problema «se l’uomo possa decidere
in maniera non determinata dagli antecedenti isici del proprio cervello». A ben vedere, l’idea che
un nesso di causalità possa essere svelato da un’analisi della successione temporale degli eventi
neurali risente di una concezione strettamente meccanicistica del cervello (visto all’incirca come
un orologio, solo più complesso) – si basa, cioè, su un presupposto più o meno arbitrario, non fondato su ineccepibili dimostrazioni scientiiche. Eppure, la isica del XX secolo ci ha insegnato che la
realtà materiale non è riducibile nella sua essenza a fenomeni meccanici (magari con una spruzzatina di fenomeni elettromagnetici per spiegare la chimica). Pertanto – conclude l’A. – «inché non
conosceremo la reale natura degli eventi mentali, e la loro relazione con le leggi della isica della
materia, non sarà possibile negare né confermare scientiicamente un ruolo causale della mente».
75. Nahmias, Is Neuroscience the Death of Free Will?, in The New York Times, 13 novembre 2011.
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i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
Per il diritto penale che, come detto, ruota intorno al libero arbitrio o libertà
di scelta, il problema dell’incidenza del neurodeterminismo, con efetti di dissoluzione, può essere superato cambiando il “punto di vista”. Le investigazioni
scientiiche considerano l’individuo da una “prospettiva in terza persona”, così
evidenziando che la libertà di agire e di scegliere è «una percezione fallace dei
processi causali che determinano il comportamento»76. Se, invece, si considera
l’individuo da una «prospettiva fenomenologica o in prima persona» è certo che
lo stesso si percepisce come libero di agire e di scegliere. Partendo da questa
diversa prospettiva e considerando che la società non è altro che un insieme di individui che, proprio perché membri di una comunità sociale (appunto), vengono
deiniti cittadini, si può svolgere un ragionamento del genere: se, dunque, ogni
cittadino di tale comunità si percepisce libero di agire, è logico e coerente con
l’idea di colpevolezza unitaria già prospetta che il rimprovero di invito alla risocializzazione non può che presupporre tale libertà di scelta, poiché appartenente
fenomenologicamente ad ogni cittadino. Per rendere più evidente tale visione, è
opportuno valutarla nell’ipotesi di fatto criminoso intenzionale: la volontarietà
dell’azione non è qualcosa che un agente ha, bensì qualcosa che un osservatore
gli attribuisce. «Ma – cosa fondamentale – come nel caso dell’intenzionalità, anche nel caso dell’azione volontaria ogni individuo applica questo “atteggiamento” non solo agli altri individui, ma anche a sé stesso. Conseguentemente, ogni
individuo si percepisce come libero e responsabile delle proprie azioni»77.
La scienza, nelle diverse discipline in cui si articola, come strumento dell’uomo per indagare e conoscere le ragioni più segrete di ciò che gli appare e di
trovare una spiegazione razionale ad ogni aspetto del vivente (e non solo), ha
tentato più volte di fornire un chiarimento convincente sul modo in cui gli individui assumono delle decisioni e si comportano di conseguenza, senza però
riuscire a superare quella latente necessità del “domandare ilosoico”, come
traccia dell’intimo dualismo spirituale e materiale che caratterizza l’individuo.
La prospettiva delle neuroscienze di svelare il funzionamento del cervello e delle
sue interazioni con la mente, con il corpo e con il mondo esterno, come detto, si
innesta perfettamente nella discussione millenaria intorno al libero arbitrio. Ma
non basta.
Biologismo, evoluzionismo e ora neuroscienze puntano alla spiegazione
dell’individuo, deinendone le strutture prime ed il modo di esprimersi nel reale
con «la convinzione, esplicita o implicita, che esista una prospettiva fondamentale in grado di farci capire perché le persone fanno quello che fanno»78. L’evidenza di non riuscire a comprendere e, dunque, spiegare l’essere umano «come
76. Caruana, Due problemi sull’utilizzo delle neuroscienze in giurisprudenza, cit., 342.
77. Caruana, op. e loc. ult. cit.
78. Duprè, Natura umana. Perché la scienza non basta, Roma-Bari, 2007, 200.
208
colpevolezza
soggetto spirituale ed etico [geistig-sittlichen Wesen]»79 ha spostato il campo d’indagine delle neuroscienze ino ad avere contatti con quello umanistico, con l’effetto che i termini libero arbitrio, coscienza, azione, soggettività, emozioni etc.
sono gli argomenti del ragionamento neuroetico80 per cercare di trovare una
nuova via per spiegare l’uomo.
5. La colpevolezza nella giurisprudenza sovranazionale. La lettura del principio di
colpevolezza da parte della Corte costituzionale, soprattutto nell’ultimo arresto
richiamato, ha un chiaro, anche se non espresso, orientamento sovranazionale,
aprendo cioè alla deinizione della colpevolezza oferta, non solo, dal Bundesverfassungsgericht, ma anche dalla Corte di Strasburgo.
In Germania, invero, esiste una consolidata giurisprudenza del Tribunale di
Karlsruhe che fonda la colpevolezza, da un lato, sul Rechtsstaatsprinzip (art. 20,
co. 3, GG81) e, dall’altro, sulla dignità e sull’autoresponsabilità della persona umana (artt. 1, co. 1, e 2, co. 1, GG)82. Nella già richiamata sentenza Lissabon83, la
Corte tedesca aferma che «il diritto penale si regge sul principio di colpevolezza.
Questo principio presuppone una responsabilità autonoma [Eigenverantwortung]
79. BverfG 30 giugno 2009, cit. su cui ampiamente infra Cap. I, § II.1 ss.
80. Per un’ampia bibliograia, Lavazza, Che cos’e la neuroetica?, in Lavazza, Sartori (a cura di),
Neuroetica. Scienze del cervello, ilosoia e libero arbitrio, Bologna, 2011.
81. L’art. 20, co. 1 GG proclama: «La Repubblica Federale di Germania è uno Stato federale,
democratico e sociale» e prosegue poi con «Ogni potere dello Stato emana dal popolo. È esercitato
dal popolo con elezioni e votazioni e per mezzo di appositi organi della legislazione, del potere
esecutivo e della giurisdizione».
82. L’art. 1 GG recita: «(1) La dignità dell’uomo è intangibile. Rispettarla e difenderla è dovere di ogni potere dello Stato. (2) Il popolo tedesco si riconosce pertanto nei diritti inviolabili e
inalienabili dell’uomo come fondamento di ogni comunità umana, della pace e della giustizia nel
mondo. (3) I diritti fondamentali previsti negli articoli seguenti vincolano il potere legislativo, il
potere esecutivo e quello giurisdizionale come diritto immediatamente eicace». Nella dottrina
tedesca, ex multis, Lagodny, Strafrecht vor den Scranken der Grundrechte, Tubingen, 1996, 386; Stachelin, Strafgesetzgebung im Verfassungsstaat, Berlin, 1998, 243 ss.; Wolff, Der Grundsatz “nulla pena
sine culpa” als Verfassungsrechtssatz, in AoR 1999, 124, 76 ss.
83. BverfG 30 giugno 2009, per cui si rinvia infra Cap. I, nota 28, § 364 «Die Zuständigkeiten der
Europäischen Union im Bereich der Strafrechtsplege müssen zudem in einer Weise ausgelegt werden, die den
Anforderungen des Schuldprinzips genügt. Das Strafrecht beruht auf dem Schuldgrundsatz. Dieser setzt die
Eigenverantwortung des Menschen voraus, der sein Handeln selbst bestimmt und sich kraft seiner Willensfreiheit zwischen Recht und Unrecht entscheiden kann. Dem Schutz der Menschenwürde liegt die Vorstellung
vom Menschen als einem geistig-sittlichen Wesen zugrunde, das darauf angelegt ist, in Freiheit sich selbst
zu bestimmen und sich zu entfalten (vgl. BVerfGE 45, 187 <227>). Auf dem Gebiet der Strafrechtsplege bestimmt Art. 1 Abs. 1 GG die Aufassung vom Wesen der Strafe und das Verhältnis von Schuld und Sühne (vgl.
BVerfGE 95, 96 <140>). Der Grundsatz, dass jede Strafe Schuld voraussetzt, hat seine Grundlage damit in
der Menschenwürdegarantie des Art. 1 Abs. 1 GG (vgl. BVerfGE 57, 250 <275>; 80, 367 <378>; 90, 145
<173>). Das Schuldprinzip gehört zu der wegen Art. 79 Abs. 3 GG unverfügbaren Verfassungsidentität, die
auch vor Eingrifen durch die supranational ausgeübte öfentliche Gewalt geschützt ist».
209
i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
dell’uomo, che determina autonomamente il proprio agire e che, in virtù della
libertà di volizione [Willenfreiheit], può scegliere tra il lecito e l’illecito. La tutela della dignità umana si fonda su un’idea dell’uomo come soggetto spirituale
ed etico [geistig-sittlichen Wesen], destinato ad autodeterminarsi e a svilupparsi in
libertà», aggiungendo, in modo signiicativo, che «il principio che ogni pena presuppone una colpevolezza ha quindi la propria base nella garanzia della dignità
umana dell’art. 1 comma 1 legge fondamentale»84. È evidente nella lettura della
colpevolezza tedesca, l’accentuazione dell’aspetto personalistico, rispetto al ruolo
sociale dell’individuo, seppur recuperato con il richiamo tradizionale al Rechtsstaatsprinzip, anche se in forma meno pregnante rispetto al riconoscimento della
colpevolezza intorno alla deinizione di “cittadino” ricavabile dall’art. 2 Cost. Vi
è una marcata accentuazione del fondamento del rimprovero penale sull’autoresponsabilità della persona umana ed, in particolare, sul “libero arbitrio” e, dunque, sull’individuo come essere spirituale-morale e non membro di una società. In
tal maniera, vi è uno scollamento tra l’imposizione del divieto penale, evidentemente inalizzato alla tutela di un interesse sociale preminente, rispetto all’applicazione della pena al reo o all’accertamento della sua colpevolezza, laddove pare
dimenticarsi la inalizzazione sociale del divieto violato dal reo, per concentrarsi
solo sull’individuo “come è in se stesso”, e non “come è nel contesto sociale a
cui appartiene”. Con tanto si vuole solo sostenere che l’“individuo” è indiferente al diritto penale, mentre assume rilevanza e centralità il “cittadino”, ovvero
l’individuo come membro di una comunità: la teoria dell’ofensività, del resto,
ofre un’importante sostegno a tale visione, allorquando giustiica l’intervento
punitivo solo a tutela di beni giuridici di interesse costituzionale85. Tutto ciò che
appartiene alla sfera spirituale dell’individuo è irrilevante per il diritto penale o,
meglio, per l’accertamento della colpevolezza penale, come, del resto, evidenziato dalla tipicità delle cause di giustiicazione o dall’esclusione degli stati emotivi
(art. 90 c.p.) dalle cause di limitazione della capacità di intendere e di volere, o
84. Traduzione svolta su incarico dell’Uicio studi della Corte costituzionale dal Prof. Jörg
Luther, Dipartimento di Politiche Pubbliche e Scelte collettive POLIS, Università del Piemonte
orientale.
85. In quest’ottica, appare evidente che tutti gli interessi meritevoli di tutela penale, accedendo alla tesi bricoliana, avendo rilevanza costituzionale, non sono mai individuali, ma sociali, nel
senso che l’opzione penale non è selezionata nell’interesse del singolo, ma solo della collettività.
L’oggetto materiale del reato, efettivamente, è spesso personale: ad esempio, nel furto, l’appropriazione dell’autovettura di Tizio, certamente va ledere il patrimonio di Tizio, ma l’interesse tutelato dalla norma astratta non è questo, ma quello di garantire che il trasferimento dei beni avvenga
nelle forme previste dalla legge civile, che può essere assicurato con lo strumento penale. Ancora,
l’uccisione di Caio, certamente lede il diritto supremo alla vita dello stesso, ma l’interesse tutelato
dal divieto penale è quello di tutelare la comunità, nel senso che la previsione delle punizione del
colpevole del delitto di omicidio assicura la conservazione della struttura collettiva dall’aggressione di un suo membro (cittadino).
210
colpevolezza
ancora dalle previsioni sull’aberratio ictus. La funzione del diritto penale è quella
culturale e di controllo sulle regole del vivere sociale.
Anche la Corte europea dei diritti dell’uomo ha elaborato, nell’esegesi evolutiva della Convezione EDU, il principio di colpevolezza come conseguenza implicita del principio di legalità (art. 7 Convenzione EDU). Ed invero, la Corte di
Strasburgo, in una nota pronuncia86, ha, per la prima volta, stabilito che, nonostante l’art. 7 Convenzione EDU non menzioni espressamente il nesso psicologico tra l’elemento materiale del reato ed il reo, «la logique de la peine et de la punition ainsi que la notion de “guilty” (dans la version anglaise) et la notion correspondante
de “personne coupable” (dans la version française) vont dans le sens d’une interprétation
de l’article 7 qui exige, pour punir, un lien de nature intellectuelle (conscience et volonté)
permettant de déceler un élément de responsabilité dans la conduite de l’auteur matériel
de l’infraction. A défaut, la peine ne serait pas justiiée. Il serait par ailleurs incohérent,
d’une part, d’exiger une base légale accessible et prévisible et, d’autre part, de permettre
qu’on considère une personne comme “coupable” et la “punir” alors qu’elle n’était pas en
mesure de connaître la loi pénale, en raison d’une erreur invincible ne pouvant en rien être
imputée à celui ou celle qui en est victime».
Il legame psicologico tra autore e fatto, come indicato dai giudici di Strasburgo, speciicato con «conscience et volonté», non ha certamente un’indicazione pregnante e chiara, ove si considerino, in particolare, le diferenze deinitorie, anche
importanti, tra tutti i criteri di imputazione soggettiva, potendosi, ad ogni modo,
individuare almeno nella colpa (incosciente) che costituisce il minimo e più debole nesso di natura soggettiva che possa conigurarsi tra un fatto ed il suo autore.
Ad ogni modo, tale indicazione della Corte EDU non pare che possa assumere, almeno ancora, il carattere generalizzante del principio «nullum crimen, nulla
poena sine culpa»87, in quanto, in una recente pronuncia88, i giudici euroumanitari appaiono discostarsi dal principio espresso nella decisione del 2009, poiché,
dapprima, afermano che «il ne peut y avoir de peine sans l’établissement d’une responsabilité personnelle», poi, dichiarano che «l’article 7 de la Convention ne requiert
pas expressément de “lien psychologique” ou “intellectuel” ou “moral” entre l’élément
matériel de l’infraction et la personne qui en est considérée l’auteur»89, andando così a
86. Corte eur. dir. uomo, Sez. II, 20 gennaio 2009, Sud Fondi Srl c. Italia, in particolare §§
116,117; su tale pronuncia, F. Mazzacuva, Un “hard case” davanti alla Corte europea: argomenti e
principi nella sentenza di Punta Perotti, in Dir. pen. proc., 2009, 1540 ss.
87. Manes, Il giudice nel labirinto, cit., 143, in particolare nota 409.
88. Corte eur. dir. uomo, 29 ottobre 2013, Varvara c. Italia, con nota di F. Mazzacuva, La conisca disposta in assenza di condanna viola l’art. 7 CEDU, in www.penalecontemporaneo.it.
89. Nella pronuncia si fa richiamo espresso al precedente, Corte eur. dir. Uomo, 21 marzo
2006, Valico Srl c. Italia, in cui, dopo aver precisato che «il appartient en premier lieu aux autorités nationales de décider du type d’amendes qu’il convient d’appliquer. Les décisions en ce domaine impliquent une
appréciation de problèmes politiques, économiques et sociaux que la Convention laisse à la compétence des
211
i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
modiicare l’importante precedente, concludendo, con un’operazione di “taglia
e cuci”, che «la logique de la “peine” et de la “punition”, et la notion de “guilty” (dans
la version anglaise) et la correspondante notion de “personne coupable” (dans la version
française), militent pour une interprétation de l’article 7 qui exige, pour punir, une déclaration de responsabilité par les juridictions nationales, qui puisse permettre d’imputer
l’infraction et d’inliger la peine à son auteur. A défaut de quoi, la punition n’aurait pas
de sens (Sud Fondi et autres, précité, § 116). Il serait en efet incohérent d’exiger, d’une
part, une base légale accessible et prévisible et de permettre, d’autre part, une punition
quand, comme en l’espèce, la personne concernée n’a pas été condamné».
Per evidenziare la diferenza tra le due decisioni della Corte di Strasburgo, in
cui, nell’ultima pronuncia impropriamente si richiama quella del 2009, va osservato che, dopo l’espressione «la logique de la “peine” et de la “punition”, et la notion
de “guilty” (dans la version anglaise) et la correspondante notion de “personne coupable”
(dans la version française), militent pour une interprétation de l’article 7 qui exige, pour
punir…», identica in ambedue le decisioni, in quella del 2009 (Sud Fondi vs. Italia),
la Corte aferma: «un lien de nature intellectuelle (conscience et volonté) permettant de
déceler un élément de responsabilité dans la conduite de l’auteur matériel de l’infraction»;
mentre in quella del 2013 (Varvara vs. Italia), tale conclusione è sostituita da «une
déclaration de responsabilité par les juridictions nationales, qui puisse permettre d’imputer l’infraction et d’inliger la peine à son auteur». In altri termini, nel primo caso, la
Corte EDU ritiene necessario per applicare una pena al cittadino un legame psicologico tra lo stesso ed il fatto addebitatogli, mentre, nel secondo caso, i giudici
sovranazionali ritengono suiciente per applicare la sanzione penale all’autore
del fatto la sola dichiarazione di responsabilità, secondo l’ordinamento interno,
che consenta di imputare quel comportamento, anche solo materialmente (se
previsto nell’ordinamento), al soggetto90.
Etats parties», i giudici sovranazionali afermano: «Il est vrai que l’amende en question a été inligée à la
société requérante pour des raisons objectives sans qu’il ait été nécessaire d’établir l’existence d’une intention
délictueuse ou d’une négligence de sa part. Toutefois, l’absence d’éléments subjectifs ne prive pas nécessairement une infraction de son caractère pénal; de fait, les législations des Etats contractants ofrent des exemples
d’infractions pénales fondées uniquement sur des éléments objectifs».
90. Certamente, dal punto di vista dei rilessi sul nostro ordinamento, le decisioni in questione
escludono ogni possibilità di applicare la conisca urbanistica (di cui è riconosciuta – e ribadita – la
natura penale) al cittadino che non sia dichiarato colpevole a seguito di una pronuncia di condanna
del giudice nazionale. Così, con un colpo di spugna, abiurando il consolidato orientamento della
Suprema Corte di cassazione in subiecta materia. Sul punto, ex multis, Cass. pen. Sez. III, 6 ottobre
2010, n. 5857 (rv. 249516); Cass. pen. Sez. III, 9 luglio 2009, n. 36844 (rv. 244923); Cass. pen. Sez. III,
11 aprile 2007, n. 35219. In senso diforme, nella giurisprudenza di merito, App. Palermo Sez. I, 11
aprile 2012, secondo cui: «La conisca contemplata dall’art. 44, comma secondo, d.P.R. n. 380 del
2001 (T.U. edilizia) costituisce una sanzione amministrativa emessa dal Giudice penale in via di supplenza. Anche con riferimento alle sanzioni amministrative, pertanto, esulano dalla materia criteri
di responsabilità oggettiva, in quanto richiesto, quale requisito essenziale di legalità per la loro ap-
212
colpevolezza
È evidente il passo indietro in tema di riconoscimento universale del principio
di colpevolezza91.
6. I criteri di imputazione sogettiva nel volto europeo del diritto penale. Il nesso intellettuale tra autore e fatto è un requisito strutturale del fatto tipico. Nel nostro
ordinamento92, i criteri di imputazione soggettiva sono espressamente deiniti
nell’art. 43 c.p. e, di regola, i delitti sono dolosi (art. 42 c.p.)93, salvo che vi sia
espressa previsione della fattispecie colposa94, mentre le contravvenzioni posso-
plicazione, la esistenza di una condotta che risponda ai necessari requisiti soggettivi della coscienza
e volontà dell’agente e sia caratterizzata quanto meno dall’elemento psicologico della colpa. Una
lettura costituzionalmente orientata del menzionato articolo induce, pertanto, necessariamente ad
escludere dall’ambito di operatività della norma la possibilità di coniscare beni appartenenti a soggetti estranei alla commissione del reato e dei quali sia accertata la buona fede». L’arresto della Corte
di Strasburgo appare contrario anche al recente orientamento di Cass. pen. Sez. III, 4 febbraio 2013,
n. 17066 (rv. 255112), secondo cui: «La conisca dei terreni può essere disposta anche in presenza di
una causa estintiva del reato (nella specie, della prescrizione), purché sia accertata la sussistenza della
lottizzazione abusiva sotto il proilo oggettivo e soggettivo, nell’ambito di un giudizio che assicuri
il contraddittorio e la più ampia partecipazione degli interessati, e che veriichi l’esistenza di proili
quantomeno di colpa sotto l’aspetto dell’imprudenza, della negligenza e del difetto di vigilanza dei
soggetti nei confronti dei quali la misura viene ad incidere. (Fattispecie nella quale è stata ritenuta
legittima la conisca dei terreni nonostante la prescrizione del reato, all’esito dell’accertamento della
rimproverabilità della condotta degli imputati e della illegittimità della concessione edilizia rilasciata in zona di inediicabilità assoluta)». Sul tema, in dottrina, fra i tanti, Panzarasa, Conisca senza
condanna?, in Riv. it. dir. proc. pen., 2010, 1672 ss.; Maiello, Conisca, CEDU e Diritto dell’Unione, tra
questioni risolte ed altre ancora aperte, in Dir. pen. cont. - Riv. trim., 2012, 3-4, 41 ss., in particolare 49 ss.
91. Per una complessa analisi comparativa tra principi costituzionali e principi convenzionali,
con speciico riguardo al nullum crimen, Di Giovine, Il principio di legalità tra diritto nazionale e diritto
convenzionale, in Studi in onore di Mario Romano, vol. IV, 2197 ss.
92. Per l’analisi approfondita dei criteri d’imputazione nel nostro ordinamento, di recente,
Canestrari, La struttura sogettiva della fattispecie, in Cadoppi, Canestrari, Manna, Papa (a cura di),
Trattato di diritto penale. Parte generale, II, Il reato, Torino, 2013, 89 ss.
93. Nell’ampia bibliograia, Gallo, Il dolo. Ogetto e accertamento, in Studi urb., 1951-1952; Id.,
(voce) Dolo (dir. pen.), in EdD, XIII, 1964, Milano, 1964, 750 ss.; Pecoraro Albani, Il dolo, Napoli,
1955; Bricola, Dolus in re ipsa, Milano, 1960; Donini, Il delitto contravvenzionale. Culpa iuris e ogetto
del dolo nei reati a condotta neutra, Milano, 1993; Eusebi, Il dolo come volontà, Brescia, 1993; De Simone, L’elemento sogettivo del reato: il dolo, in Giur. Sist. Dir. Pen. Bricola-Zagrebelsky. Codice penale. Parte
generale, II ed., Torino, 1996, 395 ss.; Prosdocimi, Il reato doloso, in Dig. Pen., XI, Torino, 1996, 235
ss.; Canestrari, Dolo eventuale e colpa cosciente: ai conini tra dolo e colpa nella struttura delle tipologie
delittuose, Milano, 1999, 70 ss.; Id. La deinizione legale del dolo: il problema del dolus eventualis, in Riv.
it. dir. proc. pen., 2001, 906 ss.; Pedrazzi, Tramonto del dolo?, in Riv. it. dir. proc. pen., 2000, 1265 ss.;
Masucci, Fatto e valore nella deinizione del dolo, Torino, 2004; Id., Reato doloso, in Dig. Pen., Agg. IV,
Torino, 2008; Id., Rilessioni sulla volontà del fatto di reato, requisito del dolo, alla luce delle neuroscienze
e di recente dottrina, in Vinciguerra, Dassano (a cura di), Scritti in onore di Giuliano Marini, 2010, 163
ss.; Demuro, Il dolo, II, L’accertamento, Milano, 2010.
94. Nella sterminata bibliograia, tra i più recenti, Forti, Sulla deinizione della colpa nel progetto di riforma del codice penale, in De Maglie, Seminara (a cura di), La riforma del codice penale. La parte
213
i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
no essere indiferentemente dolose o colpose, a meno che non vi siano incompatibilità di natura logica tra singole fattispecie contravvenzionali ed il dolo o la
colpa. Non va trascurata, poi, la problematica sull’individuazione della linea di
conine tra dolo eventuale e colpa con previsione95.
Non essendo possibile, in questa sede, esaminare approfonditamente le diverse concezioni dogmatiche relative all’élément moral, l’indagine comparativa sarà
appuntata, da un lato, sulla scelta legislativa di prevedere una deinizione normativa di dolo o colpa, onde contenere l’esegesi applicativa e, dall’altro, sull’individuazione di una soglia minima di rilevanza penale del nesso intellettivo, alla
stregua dell’indirizzo legislativo eurounionista.
Il Parlamento europeo, infatti, ha fornito un’importante indicazione di indirizzo, riconoscendo la centralità nel diritto penale, fra gli altri, del principio di
colpevolezza che impone «pene soltanto per atti commessi intenzionalmente oppure,
in circostanze eccezionali, per atti che implichino grave negligenza»96. È evidente che
l’indicazione europea, adagiandosi sulla concezione psicologica della colpevolezza, restringe notevolmente l’area di rilevanza penale del nesso psicologico alle
sole ipotesi di dolo e di colpa grave, lasciando, comunque, aperta la problematica
della “linea di conine” tra dolo e colpa ed, in particolare, tra le forme borderline
di dolo eventuale e colpa cosciente, come, del resto, all’interno della colpa, risulta sempre diicile poter distinguere la colpa lieve da quella grave, che, come
visto, per la massima istituzione democratica europea, costituisce il limite della
rilevanza penale di un comportamento.
6.1. Sguardo comparativo sulle deinizioni normative di dolo e colpa. L’atteggiamento
più difuso negli ordinamenti stranieri è quello relativo all’assenza di una deinizione normativa dei criteri d’imputazione soggettiva97, mentre essa si ritrova nella
generale, Milano, 2002, 67 ss.; Veneziani, Regole cautelari “proprie” ed “improprie” nella prospettiva
delle fattispecie colpose causalmente orientate, Padova, 2003; Cornacchia, Concorso di colpe e principio
di responsabilità penale per fatto proprio, Torino, 2004; Bonafede, L’accertamento della colpa speciica,
Padova, 2005; Castronuovo, Le deinizioni di reato colposo, in Riv. it. dir. proc. pen., 2002, 495 ss.; Id.,
La colpa penale, Milano, 2009; Canepa, L’imputazione sogettiva della colpa. Il reato colposo come punto
cruciale del rapporto tra illecito e colpevolezza, Torino, 2011; Grotto, Principio di colpevolezza, rimproverabilità sogettiva e colpa speciica, Torino, 2012; Canestrari, La doppia misura della colpa nella struttura del reato colposo, in IP, 2012, 21 ss. Nella manualistica, fra gli altri, Canestrari, Cornacchia,
De Simone, Manuale di diritto penale, cit., 407 ss.; Cadoppi, Veneziani, Elementi di diritto penale. Parte
generale, V ed., Padova, 2012, 302 ss.; Manna, Corso di diritto penale, cit., 203 ss.
95. Sul punto, si rinvia, anche per i richiami bibliograici più recenti, alle chiare pagine di
Manna, Colpa cosciente e dolo eventuale: l’indistinto conine e la crisi del principio di stretta legalità, in
Studi in onore di Franco Coppi, Torino, 2012, 201 ss.
96. Risoluzione del 22 maggio 2012 del Parlamento europeo su un approccio dell’UE in materia di diritto penale (2010/2310(INI)), Considerando J e punto n. 4.
97. Fornasari, Menghini, Percorsi europei di diritto penale, cit., 72.
214
colpevolezza
legislazione penale portoghese98, bosniaca99, croata100, inlandese101, ungherese102
ed in quella slovena103, solo per citarne alcune. Anche il legislatore austriaco104 deinisce il dolo nelle sue forme di manifestazione più classiche, partendo da quella
più ampia e meno intensa (dolo eventuale), da intendere, dunque, come quella
98. Artigo 14 c.p.: «(1) Age com dolo quem, representando um facto que preenche um tipo de crime,
actuar com intenção de o realizar. (2) Age ainda com dolo quem representar a realização de um facto que preenche um tipo de crime como consequência necessária da sua conduta. (3) Quando a realização de um facto
que preenche um tipo de crime for representada como consequência possível da conduta, há dolo se o agente
actuar conformando-se com aquela realização». Traduzione in inglese: art. 14 c.l., Intent: «1. Whoever,
representing an act that constitutes a type of crime, carries it on, with the purpose of accomplishing it, acts
with intent. 2. A person still acts with intent when he represents the accomplishment of an act that constitutes a type of crime as a necessary consequence of his conduct. 3. When the accomplishment of an act that
constitutes a type of crime is represented as a possible consequence of the conduct, there is intent if the agent
acts accepting that accomplishment».
99. Art. 15 criminal law (english version): «(1) A criminal ofence may be committed with speciic
or general (direct or indirect) intent. (2) The ofender acts with speciic (direct) intent when an ofender was
aware of his deed and desired its commission. (3) The ofender acts with general (indirect) intent when an
ofender was aware that a prohibited consequence might have resulted from his action or omission to act but
nevertheless consented to its occurrence».
100. Clanak 44 kazneni zakon: «(1) Kazneno djelo može se pociniti s izravnom ili neizravnom
namjerom. (2) Pocinitelj postupa s izravnom namjerom kad je svjestan svog djela i hoce njegovo pocinjenje.
(3) Pocinitelj postupa s neizravnom namjerom kad je svjestan da može pociniti djelo pa na to pristaje».
Traduzione in inglese: art. 44 c.c., Intent: «(1) A criminal ofense may be committed with direct (dolus
directus) or indirect intent (dolus eventualis). (2) The perpetrator acts with direct intent when he is aware of
his conduct and desires its perpetration. (3) The perpetrator acts with indirect intent when he is aware that
he might commit an ofense and accedes to it».
101. Ch. 3, Section 6 criminal code (english version): «A perpetrator has intentionally caused the
consequence described in the statutory deinition if the causing of the consequence was the perpetrator’s
purpose or he or she had considered the consequence as a certain or quite probable result of his or her actions.
A consequence has also been intentionally caused if the perpetrator has considered it as certainly connected
with the consequence that he or she has aimed for».
102. § 13 általános rész: «Szándékosan követi el a bűncselekményt, aki magatartásának következményeit kívánja, vagy e következményekbe belenyugszik». Traduzione in inglese: § 13 c.l.: «An act of
crime is perpetrated intentionally by the person who wishes the consequences of his conduct or acquiesces to
these consequences».
103. Člen 25 kazenski zakonik: «Kaznivo dejanje je storjeno z naklepom, če se je storilec zavedal
svojega dejanja in ga je hotel storiti ali če se je zavedal, da lahko zaradi njegovega ravnanja nastane prepovedana posledica, pa je privolil, da taka posledica nastane». Traduzione in inglese: art. 25 c.c., Intent:
«A criminal ofence shall be committed with an intent if the perpetrator was aware of his act and wanted to
perform it, or was aware that an unlawful consequence might result from his conduct but he nevertheless let
such consequence to occur».
104. § 5 StGB - Vorsatz: «(1) Vorsätzlich handelt, wer einen Sachverhalt verwirklichen will, der einem
gesetzlichen Tatbild entspricht; dazu genügt es, daß der Täter diese Verwirklichung ernstlich für möglich hält
und sich mit ihr abindet. (2) Der Täter handelt absichtlich, wenn es ihm darauf ankommt, den Umstand
oder Erfolg zu verwirklichen, für den das Gesetz absichtliches Handeln voraussetzt. (3) Der Täter handelt
wissentlich, wenn er den Umstand oder Erfolg, für den das Gesetz Wissentlichkeit voraussetzt, nicht bloß für
möglich hält, sondern sein Vorliegen oder Eintreten für gewiß hält».
215
i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
generale (e minima), che deve assistere il comportamento criminale del cittadino,
salvo, poi, delineare, nei successivi paragrai, il dolo intenzionale e quello diretto.
Gli ordinamenti che non prevedono alcuna deinizione del dolo, come quello
tedesco, ad ogni modo, ricavano la relativa nozione positiva, da quella negativa
contenuta nella disciplina dell’errore sul fatto (§ 16 StGB) per cui «Wer bei Begehung der Tat einen Umstand nicht kennt, der zum gesetzlichen Tatbestand gehört, handelt nicht vorsätzlich»105, salvo che il fatto non venga punito a titolo di colpa. Da
ciò, utilizzando un argomento noto anche alla dogmatica nostrana, il dolo sussiste allorché il reo si sia rappresentato o voluto tutti gli elementi del fatto tipico.
Va ora appuntata l’attenzione sulla nozione di colpa. Generalmente, tutti
gli ordinamenti che hanno la deinizione normativa di dolo, evidenziano anche
quella di colpa, regolarmente delineata sulla previsione nostrana di colpa incosciente, nel senso di procedere, come per la deinizione del dolo, dall’ipotesi
meno intensa, a quella massima. Ed invero, nel codice portoghese, all’art. 15, si
aferma: «Age com negligência quem, por não proceder com o cuidado a que, segundo
as circunstâncias, está obrigado e de que é capaz: (a) Representar como possível a realização de um facto que preenche um tipo de crime mas actuar sem se conformar com
essa realização; ou (b) Não chegar sequer a representar a possibilidade de realização do
facto»106. Nella prima parte della norma, quindi, il legislatore portoghese deinisce la “colpa con previsione” (o cosciente), che, come noto, costituisce la massima ipotesi di forma di colpa prevista anche dall’ordinamento domestico, salvo,
poi, delineare l’ipotesi meno pregnante (colpa senza previsione). Tale impostazione è seguita dal codice croato (art. 45)107, come quello bosniaco (art. 16)108,
105. Per la traduzione in italiano, cfr. Vinciguerra (a cura di), Il codice penale tedesco, Padova,
2003, 47 ss., in particolare 61, per la traduzione del § 16.
106. Fornasari, Menghini, Percorsi europei di diritto penale, cit., 77, traducono: «Agisce con
colpa colui che, non procedendo con l’attenzione cui, secondo le circostanze, è obbligato e di cui
è capace: (a) si rappresenta come possibile la realizzazione di un fatto che integra una fattispecie di
reato, ma agisce senza rassegnarsi a questa realizzazione; (b) non arriva nemmeno a rappresentarsi
la possibilità di realizzazione del fatto».
107. Clanak 45 kazneni zakon: «(1) Kazneno djelo može se pociniti sa svjesnim ili nesvjesnim nehajem. (2) Pocinitelj postupa sa svjesnim nehajem kad je svjestan da može pociniti djelo, ali lakomisleno smatra
da se to nece dogoditi ili da ce to moci sprijeciti. (3) Pocinitelj postupa sa nesvjesnim nehajem kad nije svjestan da može pociniti djelo, iako je prema okolnostima i prema svojim osobnim svojstvima bio dužan i mogao
biti svjestan te mogucnosti». Traduzione in inglese: art. 45, negligence: «(1) A criminal ofense may be
committed by advertent or inadvertent negligence. (2) The perpetrator acts with advertent negligence when he
is aware that he might commit an ofense but carelessly assumes that it will not occur, or that he will be able
to prevent it from occurring. (3) The perpetrator acts with inadvertent negligence when he is unaware that he
might commit an ofense, although under the circumstances and according to his personal characteristics he
should and could have been aware of such a possibility».
108. Art. 16 criminal law (english version): «(1) A criminal ofence may be committed by advertent or
inadvertent negligence. (2) The ofender acts with advertent negligence when he was aware that a prohibited
consequence might have occurred as a result of his action or omission to act, but carelessly assumed that it
216
colpevolezza
georgiano (art. 10)109 – in cui la colpa cosciente è deinita “presumption”, rispetto
a quella incosciente detta “negligence” – e sloveno (art. 26), preoccupandosi, in
tutti gli ordinamenti, di delineare la linea di demarcazione e distinzione tra il
dolo e la colpa, ad eccezione del codice penale polacco110, laddove la nozione di
colpa si ricava in negativo dall’assenza del dolo111.
È interessante segnalare la previsione di colpa nel sistema inlandese, laddove il
concetto di negligence è deinito in senso solidaristico, come il “duty to take care” (ovvero, letteralmente, il “dovere di prendersi cura” o, meglio il “dovere di attenzione
o di diligenza”), che signiica, nei sistemi di common law, uno dei requisiti fondamentali della negligence, non come uno stato mentale caratterizzante ogni forma di
torts, ma come una vera e propria condotta autonoma. Nella prospettiva esaminata, tale caratterizzazione della negligence inlandese costituisce la concretizzazione
normativa della fenomenologia attuale dei fatti colposi, che si presentano come il
risultato dell’interazione tra più soggetti, «così che l’estensione dello stesso dovere
oggettivo di diligenza di ciascuno risulta spesso modellato (ma anche modellabile
soltanto) con riferimento reciproco a quello di altri soggetti che si trovino ad interagire con il primo»112. Un’impostazione che giustiica l’esonero da responsabilità
del cittadino per le inosservanze di doveri di diligenza da parte di concittadini con
i quali interagisce, in virtù di quell’aidamento o aspettativa sociale per cui tutti i
consociati siano attenti nel rispettare il “duty to take care” relativo alla propria sfera
di competenza113. È interessante, poi, osservare che la norma inlandese indica gli
elementi da valutare ai ini della qualiica della gravità della negligence, ed in particolare, signiicandoli «nelle ragioni sottese al dovere di diligenza, nell’importanwould not occur or that he would be able to avert it. (3) The ofender acts with inadvertent negligence when he
was unaware of the possibility that a prohibited consequence might have occurred, although, under the circumstances and according to his personal characteristics, he should and could have been aware of such possibility».
109. Art. 10 criminal law (english version): «1. The action shall be deemed to be crime of negligence if
it is perpetrated through presumption or negligence. 2. The action shall be perpetrated through presumption if
the person was aware of the action forbidden under the norms of foreseeing, foresaw the possibility for the illegal
consequence but had unfounded hope that he/she would avoid this consequence. 3. The action is committed
through negligence if the person was aware of the action forbidden under the norms of foreseeing, did not foresee
the possibility for the illegal consequence though he/she was obliged to and could foresee it. 4. The action committed by negligence shall be deemed to be ofence only in case it is referred to in the relevant article of this Code».
110. Art. 9, § 2, Kodeks karny: «Czyn zabroniony popełniony jest nieumyślnie, jeżeli sprawca nie
maja˛c zamiaru jego popełnienia, popełnia go jednak na skutek niezachowania ostrożności wymaganej w
danych okolicznościach, mimo że możliwość popełnienia tego czynu przewidywał albo mógł przewidzieć».
111. Fornasari, Menghini, Percorsi europei di diritto penale, cit., 78.
112. Canestrari, La struttura sogettiva della fattispecie, cit., 154.
113. Nel nostro ordinamento si parla di c.d. principio dell’aidamento. In bibliograia, si segnalano, oltre alla classica manualistica, M. Mantovani, Il principio di aidamento nella teoria del reato colposo,
Milano, 1997; Id., Alcune puntualizzazioni sul principio di aidamento, in Riv. it. dir. proc. pen., 1997, 1043
ss.; Cornacchia, Concorso di colpe e responsabilità per fatto altrui, cit., 483 ss.; Bisacci, Il principio di aidamento quale formula sintetica del giudizio negativo in ordine alla prevedibilità, in IP, 2009, 194 ss.
217
i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
za degli interessi in pericolo, nella probabilità della violazione, nell’intenzionalità
dell’assunzione del rischio e nelle altre circostanze relative al fatto»114.
Va segnalato il caso del codice francese che distingue la faute pénale a seconda
si tratti di “délit d’imprudence” o di una “contravention”: la “faute d’imprudence”,
che non ha una deinizione generale nel nuovo Code pénal, si ricava dagli artt.
221-6, 222-19 e R. 625-2 e consiste in una «maldresse, imprudence, inattention, négligence ou manquement à une obligation de prudence ou de sécurité imposée par la loi ou
le règlement». La “faute contraventionelle”, invece, non richiede un’imprudenza o
una negligenza da parte del reo, ma sussiste per il solo fatto della violazione della prescrizione legale o regolamentare, così facendo dubitare della necessità del
nesso psicologico tra fatto ed autore per tali tipi di contravvenzioni. La dottrina
più attenta francese115, invero, ha sottolineato l’importanza del principio nulla
poena sin culpa per ogni infrazione penale: le cause di giustiicazione, si è detto,
non si limitano solo alle previsioni delittuose ed a quelle criminali, ma vanno
estese anche a quelle contravvenzionali, sulla scorta di quanto stabilito dall’art.
121-3, co. 5, c.p. («Il n’y a point de contravention en cas de force majeure»), con l’efetto
che «les dispositions sur les causes d’irresponsabilités ne sont pas limitées aux crimes et
aux délits, mai font en meme temps disparaitre la contravention»116. In altri termini, la
distinzione tra le forme di faute previste nella legislazione francese si evidenzia
solo dal punto di vista della prova, nel senso che la “faute contraventionelle” non
deve essere dimostrata dalla pubblica accusa, ma costituisce una vera e propria
“presunzione”: «du moment que le fait matériel est établi, la faute contraventionelle
existe; en prouvant le fait, on prouve par là meme la faute»117.
È interessante, inine, la nozione di negligence che si trova nel codice penale
estone118, almeno secondo la traduzione uiciale in lingua inglese, per cui il crite-
114. Ch.3, Section 7: «(1) The conduct of a person is negligent if he or she violates the duty to take
care called for in the circumstances and required of him or her, even though he or she could have complied
with it (negligence). (2) Whether or not negligence is to be deemed gross (gross negligence) is decided on
the basis of an overall assessment. In the assessment, the signiicance of the duty to take care, the importance
of the interests endangered and the probability of the violation, the deliberateness of the taking of the risk
and other circumstances connected with the act and the perpetrator are taken into account. (3) An act which
is deemed to have occurred more through accident than through negligence is not punishable».
115. Ex multis, nella letteratura francese, Légal, La responsabilité sans faute et le délits matériels,
in La chambre criminelle et sa jurisprudence: recueil d’études en hommage à la mémoire de Maurice Patin
[1895-1962], Président de la Chambre criminelle de la Cour de cassation, Paris, 1965, 129 ss.; Dalmasso, Le
délits d’imprudence, Colloque de Droit e commerce, 2001, in Rj com., 2001, 18 ss.; Ponseille, La faute
caractérisée en droit pénal, in RSC, 2003, 18 ss.; Verhaegen, L’élément fautif en matière de contravention
aux réglements, in RCS, 1988, 289 ss.
116. Bouloc, Droit pénal general, Paris, 2013, 256.
117. Bouloc, Droit pénal general, cit., 261.
118. § 18 Karistusseadustik, Tahtlus: «(1) Tahtlus on kavatsetus, otsene ja kaudne tahtlus. (2) Isik
paneb teo toime kavatsetult, kui ta seab eesmärgiks süüteokoosseisule vastava asjaolu teostamise ja teab,
218
colpevolezza
rio colposo va distinto in “recklessness” e in “carelessness”, a seconda che l’agente
preveda le conseguenze del suo comportamento contrario al divieto penale, ma
è convinto, per negligenza o irresponsabilità, di riuscire ad evitare tali conseguenze (recklessness); oppure ignori le conseguenze del suo comportamento contrario al divieto penale, che comunque avrebbe dovuto prevedere ove fosse stato
attento e coscienzioso (carelessness).
Tale distinzione introduce l’argomento relativo ad una terza forma dell’elemento soggettivo.
6.2. La terza forma dell’elemento sogettivo negli ordinamenti stranieri. L’esperienza inglese: “recklessness”. La recklessness, che è una denominazione intraducibile in italiano (forse potrebbe essere intesa come “spregiudicatezza” o “sconsideratezza”119),
nel codice estone, è considerata una forma della colpa, mentre, nella tradizione
inglese, a cui si deve l’elaborazione, si colloca in una posizione intermedia tra il
dolo intenzionale e la colpa senza previsione120, accostandosi, secondo la nostra
grammatica criminale, al dolo eventuale, per la nozione più antica, ma anche alla
colpa cosciente, alla stregua dell’evoluzione esegetica dell’esperienza giurisprudenziale anglosassone più recente121.
Tale forma della mens rea ha ad oggetto l’assunzione di un rischio, inteso
come sinonimo di «probabilità o possibilità di un’ofesa penalmente rilevante»122,
ma non è paciico l’oggetto della relativa consapevolezza, dividendosi tra «coloro
secondo i quali il soggetto è reckless solo se è consapevole di assumere un rischio
et see saabub, või vähemalt peab seda võimalikuks. Isik paneb teo toime kavatsetult ka siis, kui ta kujutab
endale ette, et süüteokoosseisule vastav asjaolu on eesmärgi saavutamise hädavajalik tingimus. (3) Isik paneb
teo toime otsese tahtlusega, kui ta teab, et teostab süüteokoosseisule vastava asjaolu, ja tahab või vähemalt
möönab seda. (4) Isik paneb teo toime kaudse tahtlusega, kui ta peab võimalikuks süüteokoosseisule vastava
asjaolu saabumist ja möönab seda». Traduzione in inglese: § 18, Negligence: «(1) Negligence is recklessness or carelessness. (2) A person is deemed to have committed an act through recklessness if the person
foresees the occurrence of circumstances which constitute the necessary elements of an ofence but, due to
inattentiveness or irresponsibility, seeks to avoid the occurrence of such circumstances. (3) A person is deemed
to have committed an act through carelessness if the person is unaware of the occurrence of a circumstance
which constitutes a necessary element of an ofence but should have foreseen the occurrence of the circumstance in the case of attentive and conscientious performance».
119. Curi, Tertium datur, Milano, 2003, 47 ss.
120. Curi, Tertium datur, cit., 240 ss., deinisce la recklessness come un’endiadi tra dolo eventuale e colpa cosciente. Diversamente, Vinciguerra, Diritto penale inglese comparato, cit., 297, secondo
cui «nella gerarchia degli states of mind, descrittivi delle varie forme in cui si può manifestare la volontà colpevole, la recklessness si trova, dunque, ad un livello intermedio fra l’intention e l’inadvertent
negligence, cioè la colpa inconsapevole, che […] viene considerata esterna alla mens rea, per tradizione da lungo tempo accreditata nel sistema penale inglese». Si veda ancora, Fornasari, Menghini,
Percorsi europei di diritto penale, cit., 84.
121. Fornasari, Menghini, Percorsi europei di diritto penale, cit., 82.
122. Vinciguerra, Diritto penale inglese comparato, cit., 299.
219
i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
ingiustiicato (soggettivisti) e coloro i quali sostengono che egli è reckless se il
rischio assunto è tale che qualsiasi soggetto ragionevole ne sarebbe stato consapevole (oggettivisti)»123.
La recklessness soggettiva è stata per la prima volta teorizzata dal Kenny124
«come forma di colpevolezza caratteristica del soggetto che, avendo previsto la
possibilità di produzione di una conseguenza dannosa tramite la tenuta di una
determinata condotta, abbia ugualmente persistito in detta condotta, con assunzione consapevole del rischio delle relative conseguenze»125. Ad ogni modo, la
recklessness soggettiva, poi, va distinta a seconda dell’ofesa o degli elementi della
condotta, nel senso che «una persona è reckless riguardo all’ofesa conseguenza
della propria condotta quando ne prevede il probabile o possibile veriicarsi, ma
non la desidera né la prevede come praticamente certa, e noncurante di ciò agisce»; oppure «la recklessness rispetto agli elementi rilevanti della condotta signiica
la consapevolezza della loro probabile o possibile esistenza, senza conoscere o
sperare che lo siano e noncurante della quale il reo agisce egualmente»126. Tale
ultima concezione soggettiva della recklessness divenne precedente vincolante
con il leading case Cunnigham127. La recklessness soggettiva, dunque, copre un’area
compresa, con i termini nella nostra grammatica, tra il dolo diretto, in relazione
alla probabilità dell’ofesa, e del dolo eventuale, per la possibilità della stessa, con
la conseguenza che è recklessness l’ipotesi in cui l’ofesa non è prevista come una
conseguenza certa della condotta, ma solo possibile o anche probabile, oltre a
quelle ove tale ofesa, seppur non prevista, è prevedibile da un uomo attento e
123. Law (the) Commission (n. 143), Criminal law, Codiication of the criminal law. A report to the
Law Commission, 1985, 20.
124. Kenny, Outlines of criminal law, 1902, cit. da Allen, Textbook on criminal law, cit., 65.
125. Curi, Tertium datur, cit., 73.
126. Così, Vinciguerra, Diritto penale inglese comparato, cit., 299. Nella letteratura inglese,
Smith, Hogan, Criminal law, V ed., 1983, 52.
127. Un soggetto aveva strappato dal muro della cantina di una casa disabitata un contatore
del gas al ine di prelevare il denaro che si trovava ivi nascosto; tale azione aveva comportato una
fuga di gas, il quale era stato inalato dalla vittima (suocera) stanziata nella abitazione adiacente,
creando una situazione di pericolo di vita. In primo grado, l’imputato era stato condannato per
aver agito maliciously, ma la Corte d’Appello giudica lo stesso imputato non colpevole, in quanto
egli aveva agito non essendo a conoscenza del fatto (o non avendo rilettuto sul fatto) che il gas
avrebbe potuto essere inalato da qualcuno: non era possibile, dunque, individuare una deliberata
e consapevole assunzione di rischio. Per un’approfondita analisi del caso Cunnigham, cfr. Curi,
Tertium datur, cit., 76; Vinciguerra, Diritto penale inglese comparato, cit., 299 ss., per cui «la cosiddetta Cunningham recklessness esige […] che nel caso concreto l’agente abbia previsto il rischio del
veriicarsi dell’evento lesivo come conseguenza della propria condotta e, ciononostante, l’abbia
intrapresa. La prova della colpevolezza in casi simili è aidata spesso ad una complicata analisi
sull’atteggiamento interiore del reo per arrivare a stabilire se il rischio è stato compreso ed ignorato o se, invece, di tale rischio non vi è stato consapevolezza (ed in quest’ultimo caso non ci potrà
essere prova di colpevolezza basata sulla recklessness)».
220
colpevolezza
coscienzioso128. La recklessness oggettiva, invece, è stata formulata in due decisioni129 della House of Lords, rispettivamente in materia di incendio (caso Caldwell) e
di omicidio dovuto a guida pericolosa d’un autoveicolo (caso Laurence), con cui
venne afermata un’estensione della rilevanza penale della recklessness alle ipotesi
in cui il soggetto avesse assunto un rischio evidente («obvious risk»), da valutare
in base al parametro della «persona mediamente ragionevole» («reasonable man»).
L’applicazione giurisprudenziale negli anni seguenti ha confermato l’interpretazione oggettiva, eventualmente aprendo alla valutazione di stati d’animo ipotetici a contenuto positivo130 («se ci avesse pensato, al reo sarebbe stato evidente il
pericolo») o negativo131 («anche se ci avesse pensato, al reo il pericolo non sarebbe
stato evidente»)132, anche se così si sottolinea un ittizio o meramente ipotetico
accertamento della mens rea133.
L’impostazione oggettiva della recklessness ha prestato il ianco a diverse critiche: anzitutto, come appena evidenziato, la circostanza di non considerare necessaria l’efettiva previsione del rischio determina una forma di imputazione
soggettiva che si pone fuori dalla categoria della mens rea; in secondo luogo, dal
momento che la valutazione dell’«obvious risk» viene prospettata con riguardo al
parametro oggettivo del «reasonable man», la recklessness oggettiva tende a conferire rilevanza penale anche alla condotta del soggetto che avesse agito in una
situazione di limitata capacità di intendere e volere, senza valutazione dell’efettiva possibilità di percezione del rischio da parte dell’agente concreto134; ed inine, parrebbe crearsi un vulnus per il caso in cui l’agente riconosca il rischio, ma
conidi nella non realizzazione dell’ofesa, con l’efetto che la Caldwell recklessness
includerebbe l’ipotesi del soggetto che agisca senza efettuazione di alcuna valutazione, ed escluderebbe le ipotesi di erronea valutazione del rischio.
A tali censure, la giurisprudenza inglese ha tentato di rispondere in via interpretativa135, così, di volta in volta, allargando le maglie dell’oggettivismo, co128. Se l’elemento soggettivo prescritto per un reato è, dunque, l’intention, il reckless va assolto. Cfr. caso Moloney [1985] 1 All E.R. 1025, ampiamente esaminato da Vinciguerra, Diritto penale
inglese comparato, cit., 300 ss.
129. Nella letteratura inglese, Syrota, Recklessness and Calwell, in CLR, 1981, 658 ss.; Cowley,
The retreat from Morgan, in CLR, 1982, 198 ss.; Ashall, Manslaughter. The impact of Calwell, in CLR,
1984, 467 ss. Nella letteratura italiana, Curi, L’istituto della reckleness nel sistema penale inglese, in
Riv. it. dir. proc. pen., 1998, 975 ss.; Id., Tertium datur, cit., 74 ss.; Vinciguerra, Diritto penale inglese
comparato, cit., 304 ss.
130. R. v. Pig [1982] CLR 446.
131. Elliot [1983] 2 All E.R. 1005.
132. Così, Vinciguerra, Diritto penale inglese comparato, cit., 309.
133. Nello stesso senso, Vinciguerra, op. e loc. cit.
134. Curi, Tertium datur, cit., 83; Vinciguerra, Diritto penale inglese comparato, cit., 312.
135. R. v. Coles [1995] 1 Cr. App. R. 157; Stephen (Malcom R.) [1984] 79 Cr. App. R. 334; Hardie [1985] 1 W.L.R. 64; D.P.P. v. “K” [1990] CLR 321; R. v. Reid [1992] 3 All E.R. 6733 H.L.
221
i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
minciando ad accettare che possano prospettarsi situazioni oggettive e situazioni
soggettive estranee alla sfera di controllo dell’agente e tali da giustiicare «l’omessa considerazione del rischio e la conseguente esclusione della recklessness»136.
Volendo trarre delle conclusioni con riguardo all’inquadramento dogmatico della recklessness, ipotizzando analogie con le categorie del dolo e della colpa, si può evidenziare che, in tale forma dell’imputazione soggettiva, ricadono
situazioni corrispondenti al «dolo diretto (rappresentazione della probabilità
dell’ofesa), di dolo eventuale (rappresentazione della possibilità dell’ofesa) e di
colpa incosciente grave (non rappresentarsi un’ofesa ovvia per qualsiasi persona ragionevole), mentre ne resta fuori la situazione che qualiichiamo di colpa
cosciente – caratterizzata, com’è noto, dalla rappresentazione della possibilità
dell’ofesa accompagnata dal convincimento che essa non si veriicherà – e di
colpa incosciente non grave»137. È ovvio che le situazioni di colpa cosciente e
colpa incosciente lieve rientrano nell’ambito della negligence138. Attualmente, la
recklessness oggettiva riguarda solo i reati contro il patrimonio139.
6.3. (segue) L’esperienza francese: “mise en danger délibérée de la personne d’autrui”. Anche nell’ambito dell’ordinamento francese è rilevabile una terza forma
di imputazione soggettiva, sostanzialmente simile alla recklessness soggettiva140,
che si pone tra il dolo e la colpa: la mise en danger délibérée de la personne d’autrui,
prevista dall’art. 121-3, co. 2, Code pénal secondo cui: «Toutefois, lorsque la loi le
prévoit, il y a délit en cas de mise en danger délibérée de la personne d’autrui». Si tratta,
dunque, di un’imputazione eccezionale, alla stregua di quella colposa ed, invero,
è prevista:
1. come circostanza aggravante per i delitti di omicidio colposo (art. 221-6, co.
2, Code pénal, poi, speciicata nell’art. 221-6-1, co. 2, n. 1, Code pénal);
2. con riguardo alle aggressioni involontarie all’integrità isica, qualora si provochi un’incapacità totale al lavoro superiore ai tre mesi (art. 222-19, co. 2, Code
pénal, speciicata nell’art. 222-19-1, co. 2, n. 1, Code pénal), ovvero un’incapacità inferiore o uguale ai tre mesi (art. 222-20, co. 2, Code pénal);
3. con riferimento alla fattispecie denominata “des risques causés à autrui” (art.
223-1 Code pénal).
In tutte tali ipotesi, l’elemento soggettivo del fatto tipico richiede che l’agente
136. Vinciguerra, Diritto penale inglese comparato, cit., 312, ove, in nota 113, si richiama la letteratura inglese, Field, Lynn, Capacity, recklessness and the House of Lords, in CLR, 1993, 127 ss.; Elliot,
Endangering life by destroying or damaging property, in CLR, 1997, 383 ss.
137. Così Vinciguerra, Diritto penale inglese comparato, cit., 314.
138. Ampiamente, Vinciguerra, Diritto penale inglese comparato, cit., 317 ss.
139. Law (the) Commission (n. 143), Criminal law. Codiication of the criminal law. A report to the
Law Commission, cit.
140. Vinciguerra, Diritto penale inglese comparato, cit., 303.
222
colpevolezza
abbia commesso una «violation manifestement délibérée» di una «obligation particulière de sécurité ou de prudence» che sia imposta «par la loi ou le règlement». Il requisito della manifesta volontarietà della violazione va a speciicare la previsione
di cui all’art. 121-3, co. 2, Code pénal, laddove già l’espressione «délibérée» sottolinea la necessità di una componente volitiva efettiva, lucida e pesata, tanto
da escludere, ai ini dell’integrazione della forma di imputazione in parola, le
mere disattenzioni141. Il requisito della «violation manifestement délibérée», poi, deve
avere ad oggetto un obbligo di «sécurité» o di «prudence» previsto «par la loi ou le
règlement»: in altri termini, l’obbligo violato non deve riguardare un mero dovere
generale di prudenza o diligenza, come informatore e di indirizzo del comportamento da tenere sul luogo del lavoro o alla guida di un’autovettura (a titolo
esempliicativo), ma deve riguardare la violazione di una disposizione di legge
o di regolamento che indica delle regole oggettive, immediatamente percepibili
e chiaramente applicabili, al ine di imporre un modello di condotta suicientemente circostanziato142.
Relativamente alla collocazione dogmatica della mise en danger, la stessa non è
univoca: le posizioni dottrinali, infatti, oscillano fra il considerarla una categoria
aine al dolo eventuale143, ovvero una categoria più simile alla colpa grave, che
non ad una forma attenuata di dolo144. La giurisprudenza francese ha evitato che
tale forma intermedia d’imputazione soggettiva potesse essere «source d’arbitraire», afermando che «la faute constitutive de la mise en danger est caractérisée par la
violation manifestement délibérée du risque particulier causé par son manquement»145.
141. Curi, Tertium datur, cit., 141.
142. Caron, Risque causés à autrui, in JurisClasseur, 11, 2004, §§ 7 ss. Nella letteratura francese,
cfr. Malabat, Le délit de mise en danger, la lettre et l’esprit, in JCP G, 2000, I, 208; Mayaud, Des risques
causés à autrui, applications et implications ou la naissance d’une jurisprudence, in Rev. sc. crim., 1995,
575; Id., Du caractère non intentionnel de la mise en danger délibérée de la personne d’autrui, in Rev. sc.
crim., 1996, 651; Id., De la nature particulière de l’obligation violée dans la mise en danger, in Rev. sc. crim.,
1997, 106; Id. Du lien de causalité dans le délit de risques causés à autrui, in Rev. sc. crim., 1999, 581; Id.,
Le délit de risques causés à autrui, infraction complexe, in Rev. sc. crim., 2001, 575; Id., L’identiication de
l’obligation de sécurité, in Rev. sc. crim., 2002, 104; Pralus, Le délit de risques causés à autrui dans ses rapports avec les infractions voisines, in JCP G, 1995, I, 3830; Simola, L’article 223-1 du Code pénal ou quand
autrui vous met en danger, in Gaz. pal., 2000, 1, doctr. 576; Roets, Rélexions sur les possibles implications
du principe de précaution en droit pénal, in Rev. sc. crim., 2007, 251.
143. Bouloc, Droit pénal général, cit., 253.
144. Nella letteratura francese, Accomando, Guéry, Le délit de risque causé à autrui ou de la
malncontre à l’art. 223-1 nouv.C. Pén., in RSC, 1994, 68 ss.; Defrance, La mise en danger imputable à
un conducteur de véhicule, in Jurispr. auto, 1998, 268 ss.; Puech, De la mise en danger d’autrui, D. 1994,
Chorn, 153 ss.; d’Hauteville, La gradation des fautes, in Rélexions sur le nouveau Code pénal, Pédone,
1995, 40 ss. Nella letteratura italiana, Curi, op. ult. cit., 124 ss.; Fornasari, Menghini, Percorsi europei
di diritto penale, cit., 85.
145. C. Crim. 16 febbraio 1999, in Bull. crim., 24: Id., 9 marzo 1999, in Bull. crim., 34; Id., 16
ottobre 2007, in Bull. crim., 246; Id., 29 giugno 2010, in Bull. crim., 120.
223
i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
In altri termini, la mise en danger assomma «in sé le caratteristiche del dolo eventuale e della colpa cosciente, sdrammatizzando una distinzione che, in molti casi
dubbi, sembra presentare irrisolvibili margini di ambiguità»146. Tale forma d’imputazione, à la française, non è intenzionale, ma è volontaria147. «L’infraction n’est
pas intentionnelle, parce que son auteur ne veut pas de la mort ou des blessures visés au
titre des risques encourus. S’il a la volonté de la commettre, c’est seulement par référence
à la violation de l’obligation de sécurité, mais sans doubler pareille volonté d’une détermination semblable dans le sens de la réalisation efective des dommages redoutés»148. Nel
senso che il comportamento punito ha una base volontaria, ma senza l’intenzione od il desiderio di raggiungere il risultato previsto. Tale è, dunque, la realtà che
consacra il Code Pénal nel criterio d’imputazione della «mise en danger»: la volontaria indiferenza ai valori sociali tutelati dall’ordinamento.
6.4. (segue) L’esperienza spagnola: “maniiesto desprecio por la vida de los demás”.
Nell’esperienza spagnola, come detto, non è prevista una nozione normativa di
dolo e colpa, con l’efetto che la relativa determinazione e delimitazione dei rispettivi contenuti, è rimessa all’elaborazione giurisprudenziale149.
Anche in Spagna è dibattuta la linea di conine tra dolo eventuale e colpa cosciente, dando luogo a due tesi contrapposte, l’una, della c.d. teoria del consentimento e, l’altra, della c.d. teoria della probabilidad, come, del resto, emerso anche
nel nostrano dibattito scientiico, in cui, da un lato, si valorizza una distinzione
fra dolo eventuale e colpa cosciente basata sul proilo volitivo, dal momento che
il consenso alla realizzazione del possibile evento dovrebbe conigurare, appunto, una presa di posizione della volontà150; dall’altro, si evidenzia, trascurando
totalmente il proilo volitivo, unicamente la componente intellettiva151.
146. Così Fornasari, Menghini, Percorsi europei di diritto penale, cit., 85.
147. Salvage Ph., Droit pénal général, VII ed., Grenoble, 2010, 50, evidenzia che «la volonté c’est
la faculté de se déterminer à l’action», mente «l’intention c’est la volonté orientée vers un but, ici vers l’accomplissement d’un acte interdit par la loi». La volontà, dunque, è un requisito dell’intenzione o,
meglio, una sua condizione necessaria, ma non suiciente.
148. Mayaud, Risques causés à autrui, Répertoire de droit pénal et de procédure pénale, 2007
§§ 76 ss.
149. Curi, Tertium datur, cit., 163.
150. Nella manualistica, Antolisei, Manuale di diritto penale. Parte generale, XVI ed., Milano,
2003, 354 ss.; Fiandaca, E. Musco, Diritto penale, cit., 369; F. Mantovani, Diritto penale, cit., 312;
Padovani, Diritto penale, cit., 206; Manna, Corso di diritto penale, cit., 346 ss.; Canestrari, Cornacchia, De Simone, Manuale di diritto penale, cit., 394 ss. Per un dettagliato quadro delle teorie volitive,
Canestrari, Dolo eventuale e colpa cosciente. Ai conini tra dolo e colpa nella struttura delle tipologie delittuose, cit., 33 ss.; Cerquetti, Il dolo, cit., 180 ss.
151. Senza nessuna pretesa di completezza, nella dottrina italiana, Pulitanò, I conini del dolo.
Una rilessione sulla moralità del diritto penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2013, 1, 22 ss.; Viganò, Il dolo
eventuale nella giurisprudenza recente, in Il libro dell’anno del diritto 2013, Roma, 2013, 118 ss.; Id.,
224
colpevolezza
Ora, non essendo questa la sede per approfondire il dibattito sulla distinzione tra dolo eventuale e colpa cosciente152, qui appena evidenziato al solo ine di
sottolineare che l’esperienza spagnola non si discosta da quella italiana anche in
ordine alle indicazioni legislative sulla bipartizione tradizionale dei criteri d’imputazione soggettiva tra dolo e colpa (a cui nel nostro ordinamento si aggiunge
la preterintenzione, ma solo come criterio misto), va osservato che, proprio su
tali considerazioni, la previsione codicistica spagnola di cui all’art. 381 Còdigo
penal non pare conigurare un terzo criterio di imputazione soggettiva, ma semmai una mera speciicazione, da parte del legislatore, della forma del dolo o della
colpa, nella sua intensità o misura, che giustiica la previsione sanzionatoria più
severa. Ferma restando la diicoltà dogmatica di collocazione di tale speciicazione nell’alveo di uno o dell’altro dei tradizionali criteri d’imputazione. In altri
termini, non pare trattarsi di una deinizione di “parte generale”.
“Fuga spericolata” in autostrada e incidente con esito letale: un’ipotesi di dolo eventuale?, in CM, 2005, 1,
73 ss.; Camaioni, Evanescenza del dolo eventuale, incapienza della colpa cosciente e divergenza tra voluto
e realizzato, in Riv. it. dir. proc. pen., 2012, 2, 508 ss.; Canestrari, La distinzione tra dolo eventuale e
colpa cosciente nei contesti a rischio base “consentito”, in www.penalecontemporaneo.it; Id., La deinizione
legale del dolo: il problema del dolus eventualis, in Riv. it. dir. proc. pen., 2001, 3, 906 ss.; Id., Dolo eventuale e colpa cosciente. Ai conini tra dolo e colpa nella struttura delle tipologie delittuose, cit., passim; De
Francesco, L’enigma del dolo eventuale, in Cass. pen., 2012, 5, 1974 ss.; Id., L’imputazione sogettiva del
campo della sicurezza sul lavoro: tra personalismo e raforzamento della tutela, in LP, 2012, 2, 555 ss.; Id.,
Dolo eventuale, dolo di pericolo, colpa cosciente e “colpa grave” alla luce dei diversi modelli di incriminazione, in Cass. pen., 2009, 12, 5013 ss.; Id., Una categoria di frontiera: il dolo eventuale tra scienza, prassi
giudiziaria e politica delle riforme, in Dir. pen. proc., 2009, 11, 1317 ss.; Fiandaca, Sfrecciare col “rosso”
e provocare un incidente mortale: omicidio con dolo eventuale?, in FI, 2009, 7-8, 414 ss.; Pierdonati, Dolo
e accertamento nelle fattispecie penali c.d. “pregnanti”, Napoli, 2012; Bartoli, La sentenza sul rogo della
Thyssenkrupp: tra prassi consolidata e proili d’innovazione, in LP, 2012, 2, 529 ss.; Id., Il dolo eventuale
sbarca anche nell’attività d’impresa, in Dir. pen. proc., 2012, 6, 703 ss.; Id., Brevi considerazioni in tema
di prova del dolo eventuale, in Dir. pen. proc. - Speciale dolo e colpa negli incidenti stradali, 2011, 29 ss.;
Forte, Gli incerti conini del dolo e della colpa: un caso problematico in tema di circolazione stradale, in
La Corte d’Assise, 2011, 1, 291 ss.; Id., Morte come conseguenza di contagio da HIV: proili sogettivi, in
FI, 2001, II, 290 ss.; Id., Dolo eventuale tra divieto di interpretazione analogica ed incostituzionalità, in
Riv. it. dir. proc. pen., 2000, 2, 820 ss.; Id., Ai conini tra dolo e colpa: dolo eventuale o colpa cosciente?, in
Riv. it. dir. proc. pen., 1999, 1, 228 ss.; De Vero, Dolo eventuale, colpa cosciente e costruzione “separata”
dei tipi criminosi, in Studi in onore di Mario Romano, Milano, 2011, II, 883 ss.; Eusebi, La prevenzione
dell’evento non voluto. Elementi per una rivisitazione dogmatica dell’illecito colposo e del dolo eventuale, in
Studi in onore di Mario Romano, Milano, 2011, II, 963 ss.; Id., Appunti sul conine fra dolo e colpa nella
teoria del reato, in Riv. it. dir. proc. pen., 2000, 3, 1053 ss.; Iacoviello, Processo di parti e prova del dolo,
in Criminalia, 2010, 5, 463 ss.; Cerquetti, La rappresentazione e la volontà dell’evento nel dolo, Torino,
2004; Veneziani, Motivi e colpevolezza, Torino, 2000; Pedrazzi, Tramonto del dolo?, in Riv. it. dir. proc.
pen., 2000, 4, 1265 ss.; Prosdocimi, Dolus eventualis. Il dolo eventuale nella struttura delle fattispecie
penali, Milano, 1993; Hassemer, Caratteristiche del dolo, in IP, 1991, 3, 481 ss. Per un excursus sulle
teorie del dolo eventuale, con interessanti spunti critici parametrati sul principio di stretta legalità,
cfr. Manna, Colpa cosciente e dolo eventuale, cit., 216 ss.
152. Su cui, con la necessaria sintesi, infra § 7.
225
i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
Tale speciicazione dell’elemento soggettivo, che, come afermato, evidenzia
solo una diversa forma di dolo o colpa, è prevista nell’ambito della disciplina dei
reati derivanti dalla circolazione stradale ed, in particolare, colui che conduce «un
vehículo a motor o un ciclomotor a velocidad superior en sesenta kilómetros por hora en
vía urbana o en ochenta kilómetros por hora en vía interurbana a la permitida reglamentariamente» oppure sotto l’inluenza «de drogas tóxicas, estupefacientes, sustancias
psicotrópicas o de bebidas alcohólicas» (art. 379 c.p.), che, secondo la previsione di
cui all’art. 380 c.p. vanno considerate condotte di guida «con temeridad maniiesta
y pusiere en concreto peligro la vida o la integridad de las personas», sarà punito più
severamente se mette in atto tali condotte «con maniiesto desprecio por la vida de los
demás». In breve: l’art. 381 c.p. punisce chi, con manifesto disprezzo per la vita altrui, conduce un veicolo o un ciclomotore con evidente imprudenza, mettendo in
pericolo la vita o l’integrità delle persone, ovvero «a velocità superiore a 60 km/h
su strada urbana o a 80 km/h su strada extraurbana», e quella «con un tasso alcolico espirato nell’aria superiore a 0,60 milligrammi/litro o con un tasso alcolico
nel sangue superiore a 1,2 grammi/litro». Si tratta di un reato di pericolo astratto.
Il termine “desprecio” ha un’evidente connotazione soggettiva, avvicinandosi,
almeno terminologicamente (ove si possa tradurre così) alla recklessness inglese,
e sta ad indicare che la condotta di guida abbia determinato un pericolo “general” per la sicurezza collettiva. L’intervento del legislatore del 2007 ha ampliato
la rilevanza penale di tale caratterizzazione soggettiva della condotta, laddove
ha modiicato con l’espressione “manifestio desprecio”, quella prevista dalla previgente disposizione di cui all’art. 384 c.p., di “consciente desprecio”153, che, facendo
153. Nella sentenza dell’Audiencia Provincial Castéllon, 18 maggio 2010 n. 182, con riferimento alla previsione antivigente dell’art. 384 c.p., si legge: «Los elementos del tipo de delito deinido en el
artículo 384, párrafo primero, nos dice la STS, Sala 2.a, Núm. 1209/2009, de 4 Dic. [Rec. 10335/2005] son
los siguientes: 1) Conducción de un vehículo a motor entre los cuales se encuentran los llamados ciclomotores.
Se trata de un delito de los conocidos como de propia mano, esto es, de aquellos de los cuales solo pueden ser
autores propiamente dichos quienes realizan una determinada acción corporal o personal, sin perjuicio de
que puedan existir partícipes en sentido amplio a título de inductores, cooperadores necesarios o cómplices
(no coautores ni autores mediatos), lo mismo que ocurre con los conocidos como delitos especiales propios (por
ejemplo, los delitos genuinos de los funcionarios públicos, como la prevaricación). El autor en sentido estricto
ha de ser quien conduzca un vehículo a motor o un ciclomotor. 2) Hay que conducir el vehículo con temeridad
maniiesta, es decir, la temeridad ha de estar acreditada. Temeridad signiica imprudencia en grado extremo,
pero también osadía, atrevimiento, audacia, irrelexión, términos compatibles con el llamado dolo eventual.
Es lo contrario a la prudencia o la sensatez. 3) Tiene que ponerse en concreto peligro la vida o la integridad
de las personas. Se trata de un delito de peligro concreto, esto es, de una infracción en la que ha de acreditarse
que existieron personas respecto de las cuales hubo un riesgo para su integridad física, incluso para su vida;
personas concretas aunque pudieran no encontrarse identiicadas. 4) El último elemento se encuentra en el
texto del propio párrafo primero del art. 384, que conigura un elemento subjetivo del tipo, además de dolo,
cuando nos dice que ha de obrarse “con consciente desprecio por la vida de los demás”. Se requiere que el
comportamiento del conductor del vehículo haya originado un peligro general, esto es, un peligro que aunque
ha de ser concreto en los términos expuestos, ha de afectar a la seguridad colectiva».
226
colpevolezza
riferimento, dunque, alla consapevolezza del “disprezzo” imponeva un’indagine
sull’efettiva accettazione di tale connotazione negativa per la vita altrui, da parte
dell’agente, come probabilità del veriicarsi dell’ofesa (dolo diretto). Oggi, invece, tale “disprezzo” deve essere solo evidente (“manifestio”), con ciò potendosi
ipotizzare la suicienza dell’accettazione da parte dell’agente anche solo possibile dell’ofesa alla collettività, richiedendo, pur sempre, la relativa prova. In altri
termini, la modiica del 2007 sembrerebbe, da un lato, aver ampliato la rilevanza
penale della condotta aggravata di cui all’art. 381 c.p., anche a situazioni di mera
accettazione della possibilità del veriicarsi di un pericolo per la sicurezza collettiva (dolo eventuale) e, dall’altro, evidenziato comunque la necessità della prova
di tale aspetto soggettivo, non potendo presumersi nella sola temerarietà delle
condotte di guida qualiicate154.
7. Annotazioni riepilogative e prospettive de iure condendo. La problematica del dolo
eventuale come terza forma di colpevolezza e la restrizione possibile dell’elemento sogettivo ino alla colpa grave. Il principio “nullum crimen sine culpa” appartiene alle tradizioni di tutti gli ordinamenti europei ed il suo valore sovranazionale è stato già
tracciato dalla Corte di Strasburgo, anche se, ad oggi, non ha assunto il carattere
della generalità, alla luce della successiva e recente lettura dell’art. 7 Convenzione EDU, che ammetterebbe anche una forma di responsabilità penale priva del
nesso psichico tra autore e fatto.
Tale nesso non assorbe il signiicato evolutivo della colpevolezza, ma ne va a
costituire solo un rilesso, in quanto la colpevolezza è personalità della responsabilità penale ediicata sul cittadino come membro di una comunità che gli garantisce dei diritti e delle libertà, ma che pretende dallo stesso il dovere giuridico
di controllare ogni rischio che rientra nella sua sfera di dominabilità, meglio deinita di competenza. In tale maniera, la colpevolezza è criterio di attribuibilità
del fatto al suo autore, ovvero a quel cittadino competente alla gestione di quella
determinata situazione (dominabilità, appunto) perché, pur essendo stato posto in grado di conoscere i limiti entro cui poter esercitare i suoi diritti e le sue
libertà (conoscibilità), si è autodeterminato a violare il divieto penale (libertà).
Il giudizio di rimproverabilità al cittadino, efettuato utilizzando i requisiti del
fatto tipico, come criteri di valutazione, alla stregua di quelli indicati dall’art. 133
c.p., deve essere diretto a selezionare un dialogo rieducativo con il reo, che non
escluda la vittima del reato.
A livello europeo, si è evidenziata l’iniziativa del Parlamento volta ad indicare
un indirizzo comune per il futuro del diritto penale che, come detto, valorizzi
154. Fra i tanti nella dottrina spagnola, Ramòn Garcìa, La nueva polìtica criminal de la seguridad
vial. Relexiones a propósito de la LO 15/2007, de 30 de noviembre, y del Proyecto de Reforma del Código
Penal, in Revista Electrónica de Ciencia Penal y Criminología, 2007, 9-11.
227
i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
il principio di colpevolezza e limiti la rilevanza penale di alcuni comportamenti
solo se imputabili a titolo di dolo o, in casi eccezionali, di colpa grave.
La maggior parte degli ordinamenti nazionali ruota intorno alla bipartizione dell’elemento soggettivo tra dolo e colpa, anche se le più recenti esperienze
tendono a fornire una nozione normativa di colpa più ristretta rispetto a quella
nostrana, andando ad escludere almeno la colpa generica lieve, mentre rispetto
al dolo si è osservata l’attenzione degli ordinamenti più giovani a deinire positivamente anche la problematica igura del dolo eventuale, come quella minima
e generale che deve avere ad oggetto il fatto tipico, senza dimenticare quelle più
intense (dolo intenzionale e dolo diretto). Poi, si sono analizzate le forme intermedie tra dolo e colpa previste negli ordinamenti inglese (“recklessness”), francese
(“mise en danger délibérée de la personne d’autrui”) ed, inine, spagnolo (“maniiesto
desprecio por la vida de los demás”), osservando che, in relazione a tale ultima esperienza, la previsione solo nella parte speciale non consente, a diferenza degli
ordinamenti inglese e francese, di ammetterne la relativa generalizzazione e,
dunque, considerarla, anch’essa, come una forma autonoma di criterio d’imputazione soggettiva.
A tal proposito, in questa sede conclusiva, merita un approfondimento l’ipotesi di introdurre anche nel nostro ordinamento una terza forma della colpevolezza, intermedia tra dolo e colpa, espressiva di una rimproverabilità per volontaria assunzione di rischio, e conglobante in sé gli elementi propri delle attuali
categorie del dolo eventuale e della colpa cosciente. Appuntando, inine, la rilessione sull’indirizzo soggettivo eurounionista della colpa grave come limite
colpevole all’opzione penale ed una possibile (o probabile) implementazione nel
nostro ordinamento.
Innanzitutto, l’esigenza di una tale prospettiva muove dall’osservazione della casistica giurisprudenziale in tema di applicazione del dolo eventuale o della
colpa cosciente155, che, di regola, propende per la sussunzione più severa nella
prima fase processuale, laddove la ricerca del consenso anche della decisione giudiziale è più inluenzata dall’opinione pubblica, salvo essere, poi, ribaltata nella
fase d’appello, ripiegando sull’ipotesi della colpa cosciente, che trova conferma
in cassazione156. Questa considerazione fenomenologica evidenzia altresì che,
nella prima fase del processo, in cui trova, di regola, sfogo l’ipotesi volontaria
della responsabilità penale, la funzione essenzialmente retributiva e preventiva
(generale) della pena ofre soddisfazione e garanzia di ripristino della sensazione
di sicurezza sociale per la vittima e la collettività, ma esprime anche l’opposta
155. Per un’approfondita ed attenta analisi della casistica giurisprudenziale, di recente, Aimi,
Dolo eventuale e colpa cosciente al banco di prova della casistica. Analisi e critica della giurisprudenza in
materia, in Dir. pen. cont. - Riv. trim., 2013, 3, 301 ss.
156. Manna, Dolo eventuale e colpa cosciente, cit., 220.
228
colpevolezza
percezione di ingiustizia e sproporzione per il reo. Nella fase di appello, tali sentimenti si ribaltano, poiché la soluzione colposa (seppur di grado massimo) che
fa degradare il fatto nell’ipotesi punitiva meno severa, è avversata dalla vittima
e considerata, invece, afermazione di garanzia della giustizia penale da parte
dell’imputato. Il discremen, dunque, è la diferenza nella risposta punitiva, a seconda si sussuma il fatto concreto nella previsione dolosa o in quella colposa, in
relazione a situazioni che hanno ad oggetto la vita umana o, comunque, l’integrità psico-isica dell’individuo, in cui il reo ha agito con grave supericialità. Si
pensi, a titolo esempliicativo, agli incidenti provocati dalla grave violazione delle
norme che regolano la circolazione stradale (guida in stato di ebbrezza o sotto
l’inluenza di sostanze stupefacenti, velocità eccessiva all’interno di un centro
urbano, passaggio con il semaforo rosso, etc.)157. Ancora, il contagio del partner
sano da parte del corriere HIV che, consapevole del suo stato, pratica comunque
un rapporto sessuale non protetto158. Più recentemente, l’infortunio mortale sul
lavoro per gravi comportamenti omissivi nella predisposizione delle cautele antinfortunistiche159.
157. Nella giurisprudenza di merito, per l’ipotesi del dolo eventuale, tra le numerose, Trib.
Trani 31 gennaio 2008; Trib. Napoli, Sez. IX, 12 gennaio 2011; Trib. Torino, Sez. II, 26 settembre
2011; Ass. App. Milano, Sez. I, 12 marzo 2012. Nella giurisprudenza di legittimità, per l’ipotesi di
colpa cosciente, Cass. Pen., Sez. IV, 25 marzo 2009, n. 13083; Cass. Pen., Sez. IV, 27 dicembre 2010,
n. 45395; Cass. Pen., Sez. IV, 9 ottobre 2012, n. 39898.
158. Per l’applicazione del dolo eventuale, Trib. Cremona, 14 ottobre 1999; Trib. Bologna, Sez.
I, 13 aprile 2006; Trib. Savona, 6 dicembre 2007; Cass. Pen., Sez. V, 1 dicembre 2008, n. 44712; Cass.
Pen., Sez. V, 26 marzo 2009, n. 13388; Cass. Pen., Sez. V, 3 ottobre 2012, n. 38388. Per l’opzione
della colpa con previsione, Ass. App. Brescia, 26 settembre 2000; Cass. Pen., Sez. I, 3 agosto 2001, n.
30425. In dottrina, Aimi, Dolo eventuale e colpa cosciente, cit., 313, osserva che «la colpa cosciente sia
stata riconosciuta – ad esito dei tre gradi di giudizio – nel solo caso in cui, a seguito del contagio, si
era veriicata la morte del partner dell’imputato e, dunque, all’imputato era contestato il delitto di
omicidio volontario, anziché il meno grave delitto di lesioni personali».
159. Ass. Torino, Sez. II, 14 novembre 2011, n. 31095. Ad esito del secondo grado di giudizio,
la Corte di Assise di Appello di Torino ha invece afermato la sussistenza della mera colpa cosciente, cfr. Ass. App. Torino, Sez. I, 23 maggio 2013, n. 6, con nota di Zirulia, ThyssenKrupp: confermate
in appello le condanne, ma il dolo eventuale non rege), in www.penalecontemporaneo.it. Tali pronunce
sono state ampiamente commentate, cfr. Bacchini, Le motivazioni della “sentenza Thyssen”. I principali spunti di rilessione per una nuova interpretazione applicativa e punitiva della normativa in materia
di sicurezza sul lavoro, in www.hyperedizioni.com; Bartoli, Il dolo eventuale sbarca anche nell’attività
d’impresa, in Dir. pen. proc., 2012, 702 ss.; Bellina, Infortuni sul lavoro: la giurisprudenza penale alla
“svolta” del dolo eventuale?, in Il lavoro nella giurisprudenza, 2012, 152 ss.; Marra, La prevenzione degli
infortuni sul lavoro e il caso Thyssenkrupp. I limiti penalistici delle decisioni rischiose nella prospettiva delle
regole per un lavoro sicuro, in I working papers di Olympus, 2012, 8, 1 ss.; Pascucci, L’individuazione
delle posizioni di garanzia nelle società di capitali dopo la sentenza “ThyssenKrupp”: dialoghi con la giurisprudenza, in I working papers di Olympus, 2012, 10, 1 ss.; Piva, “Tesi” e “antitesi” sul dolo eventuale
nel caso ThyssenKrupp, in Dir. pen. cont. - Riv. trim., 2013, 2, 204 ss.; Raffaele, La seconda vita del dolo
eventuale tra rischio, tipicità e colpevolezza. Rilessioni a margine del caso Thyssen, in Riv. it. dir. proc. pen.,
229
i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
Non volendo essere questa la sede per afrontare la problematica della deinizione del dolo eventuale, è suiciente limitarsi ad evidenziare, per quanto
interessa lo sviluppo delle rilessioni, che, nella lettura giurisprudenziale domestica maggioritaria160, non senza un’incoerenza dei criteri per la sussunzione del
fatto concreto nella fattispecie astratta conformemente letta161, è suiciente, ma
necessaria, ad integrare la forma del dolo eventuale «la sola previsione [rappresentazione, n.d.r.] dell’evento come possibile da parte dell’agente»162, che degrada in
colpa cosciente «esclusivamente qualora l’agente abbia raggiunto la convinzione
che l’evento non si sarebbe veriicato»163. Tale lettura ermeneutica pare discostarsi
dalla littera legis e, dunque, entra in aperto conlitto con il principio di legalità164,
laddove si osservi che il criterio della volontà, requisito indefettibile del dolo, e
quello dell’accettazione del rischio, non paiono avere una sostanziale identità
concettuale165: «non ci si può non rendere conto come il criterio dell’accettazione
sia sì un criterio analogo a quello della volontà, ma ontologicamente e sostanzialmente diverso, di cui ha in comune, non a caso, soltanto l’identità di ratio legis,
tanto da dar luogo ad una inammissibile forma di analogia c.d. esterna»166. Alle
stesse conclusioni, del resto, si giunge appuntando l’attenzione non sulla nozione
2012, 1077 ss.; De Francesco, L’enigma del dolo eventuale, in Cass. pen., 2012, 1974 ss.; Viganò, Il dolo
eventuale nella giurisprudenza recente, in Libro dell’anno del diritto 2013 Treccani, reperibile su www.
treccani.it. Da ultimo, di Biase, Thyssenkrupp: verso la resa dei conti tra due opposte concezioni di dolo
eventuale?, in www.penalecontemporaneo.it.
160. La igura del dolo eventuale è di creazione pretoria, Manna, Colpa cosciente e dolo eventuale, cit., 206.
161. Segnalata da Aimi, Dolo eventuale e colpa cosciente al banco di prova della casistica, cit., 322.
162. Aimi, op. e loc. ult. cit.
163. Aimi, op. e loc. ult. cit., in cui l’A. segnala l’esistenza anche di una «corrente giurisprudenziale minoritaria, che àncora il dolo eventuale non tanto alla (sola) avvenuta rappresentazione
dell’evento come possibile, quanto all’efettuazione, da parte dell’imputato, di un vero e proprio
bilanciamento tra l’interesse perseguito e il bene giuridico eventualmente leso, conclusosi con la
scelta di sacriicare quest’ultimo sull’altare degli interessi dell’agente, e che condanna a titolo di colpa
cosciente qualora l’efettuazione di questa “opzione” non sia dimostrata o non appaia credibile».
164. Prosdocimi, Dolus eventualis, cit., 28 ss.; Forte, Ai conini tra dolo e colpa, cit., 254; Manna,
Colpa cosciente e dolo eventuale, cit., 207 ss.; Aimi, Dolo eventuale e colpa cosciente al banco di prova della
casistica, cit., 327.
165. Sulla normale rilevanza del dubbio per integrare la forma del dolo eventuale, fra i tanti,
Canestrari, La struttura sogettiva della fattispecie, cit., 95, con ampi richiami giurisprudenziali.
166. Manna, Colpa cosciente e dolo eventuale, cit., 209, in cui il chiaro Maestro, dopo aver illustrato la tesi che distingue l’analogia interna, che riguarderebbe l’attività interpretativa del giudice
nei limiti della littera legis, da quella esterna, che supera tali limiti imposti dall’art. 14 disp. prel.
c.c., osserva che la sostituzione del criterio della volontà, con quello dell’accettazione del rischio
costituisce un’inammissibile forma di analogia esterna. Nello stesso senso, Cerquetti, La rappresentazione e la volontà dell’evento nel dolo, Torino, 2004, 306 ss.; Fiandaca, Appunti sul “pluralismo” dei
modelli e delle categorie del diritto penale contemporaneo, in La Corte d’Assise, 2011, 59 ss.; da ultimo,
Aimi, Dolo eventuale e colpa cosciente al banco di prova della casistica, cit., 325 ss.
230
colpevolezza
codicistica di dolo, ma su quella di colpa cosciente, come noto, unica aggravante
comune dei delitti colposi, che, all’art. 61, co. 1, n. 3, c.p., viene deinita come
quella condotta perpetrata «nonostante la previsione dell’evento», con la logica
evidenza «che detta previsione deve sussistere al momento della condotta, e non deve
essere stata sostituita da una non-previsione o contro-previsione, come quella
implicita nella rimozione del dubbio», secondo la deinizione maggioritaria della colpa cosciente per diferenziarla dal dolo eventuale167, proprio in quanto la
preposizione «“nonostante” sottolinea eicacemente il permanere di un fattoreostacolo che dovrebbe frapporsi alla condotta»168. Anzi, nelle esperienze europee
più giovani, del resto, il legislatore si è preoccupato espressamente di precisare
che il dolo può essere diretto o indiretto (eventuale), fornendo una nozione di
ciascuna ipotesi, in cui, sostanzialmente, si ha dolo eventuale allorquando l’agente è in dubbio e, comunque, accetta il rischio di commettere il fatto delittuoso
previsto169, a cui corrisponde la normatizzazione della colpa cosciente (advertent
negligence) consistente nella contro-previsione che il fatto non si sarebbe veriicato per supericialità o per le ritenute capacità dello stesso agente170.
Ma permane il problema, da un lato, della proporzione tra il fatto di reato e
la risposta punitiva e, dall’altro, della concreta distinzione tra dolo e colpa, con
riguardo agli aspetti processuali di prova del nesso psichico.
L’introduzione di una terza forma di criterio soggettivo, intermedio tra dolo
e colpa, alla stregua della recklessness anglosassone o della mise en danger delibérée
de la personne d’autrui francese, sostenuta da una parte della dottrina171, certamente consentirebbe di parametrare la risposta punitiva dello Stato all’efettiva
supericialità della condotta posta in essere dall’agente, con la previsione speciica dei fatti di reato puniti ove integrati da tale terza forma (come oggi accade
167. Per l’impostazione tradizionale, Antolisei, Manuale di diritto penale, cit., 353; Contento,
Corso di diritto penale. Volume secondo, III ed., Bari, 2004, 122; M. Romano, Commentario, cit., 443
Padovani, Diritto penale, IX ed., Milano, 2008, 202,203; F. Mantovani, Diritto penale, cit., 367.
168. Prosdocimi, Dolus eventualis, cit., 28. Così anche Forte, Ai conini tra dolo e colpa, cit., 254.
Contra, Gallo, (voce) Dolo, cit., 792 nt. 118. Nella manualistica critica nei confronti dell’elaborazione tradizionale della tesi dell’accettazione del rischio, cfr. Manna, Corso di diritto penale, cit., 325 ss.;
C. Fiore, S. Fiore, Diritto penale, cit., 257 ss.; Fiandaca, Musco, Diritto penale, cit., 367 ss.; Cadoppi,
Veneziani, Elementi di diritto penale. Parte generale, IV ed., Padova, 2010, 295 ss.; Pulitanò, Diritto
penale, IV ed., Torino, 2011, 314 ss.; Palazzo, Corso di diritto penale, cit., 317 ss.; Marinucci, Dolcini,
Manuale di diritto penale, cit., 299 ss. Un’impostazione singolare ove si rinuncia a distinguere dolo
eventuale e colpa cosciente sul piano strettamente psicologico, De Vero, Corso di diritto penale I,
cit., 492 ss.
169. In questo senso, a titolo esempliicativo, art. 44, co. 3, c.p. croato, art. 15, co. 3, c.p. bosniaco, art. 16, co. 4, c.p. estone.
170. Sempre a titolo esempliicativo, art. 45, co. 2, c.p. croato, art. 16, co. 2, c.p. bosniaco.
171. Curi, Tertium datur, cit.; Manna, Alla ricerca di una terza forma, tra dolo e colpa, in Cadoppi
(a cura di), Verso un codice penale modello per l’Europa. Ofensività e colpevolezza, Padova, 2002, 239 ss.
231
i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
per il delitti colposi). In un sistema solidaristico, infatti, come quello voluto dalla
Carta repubblicana e fondato sul principio personalistico di cui all’art. 2 Cost.,
come già descritto, non può essere tollerata una gestione supericiale (intesa come
gravemente negligente) della propria sfera di competenza, che, di conseguenza,
comporta l’efettiva e concreta messa in pericolo delle altrui libertà, se non proprio dell’essere umano, con l’efetto che, per tal via, parrebbe giustiicata una
risposta più severa dello Stato nei confronti del reckless (per la dirla à la anglosassone). Anche dal punto di vista della colpevolezza, il rimprovero risocializzante
avrebbe più eicacia, laddove l’agente possa, comunque, considerare proporzionata la reazione penale all’efettivo apporto psicologico alla condotta posta in
essere e, poi, la vittima consideri equa la pena ai ini del ripristino della sicurezza
collettiva. Se, dunque, è condivisibile l’esigenza di introdurre una terza forma
di criterio soggettivo, inalizzato ad individuare una serie di reati puniti anche a
titolo “intermedio”, che non sia dolo, ma neanche mera colpa, resterebbe, comunque, da deinire la nozione di tale ulteriore forma, in maniera tale da distinguerla nettamente dalle altre due. Si potrebbe pensare alla positivizzazione del
dolo eventuale, sostituendo all’aspetto volitivo (puro) indicato dall’art. 43 c.p.,
quello dell’accettazione del veriicarsi dell’evento, accompagnato dall’indicazione speciica dei fatti puniti anche con una tale forma meno intensa di dolo, quali
tutti i reati contro la vita o l’integrità psico-isica della persona, come, del resto,
suggeriscono le esperienze inglese, francese e spagnola.
Eppure non si è convinti che tanto sarebbe suiciente a risolvere l’intollerabile incertezza del diritto172, in quanto il problema dell’applicazione della forma
intermedia tra dolo e colpa non è la deinizione positiva: di tanto, si ha contezza
nell’esame della casistica giurisprudenziale, che, di regola, premette una deinizione comune del dolo eventuale (e della colpa cosciente), salvo poi optare per
l’uno, anziché per l’altra, e viceversa. La questione, in efetti, si pone in ordine
ai criteri per l’individuazione della forma psichica che ha assistito la condotta
dell’agente: in altri termini, si tratta di individuare gli indici dai quali desumere la
forma dell’elemento psicologico, che, come noto, sfugge alla prova diretta «trattandosi di una valutazione avente ad oggetto una fenomenologia prettamente
interiore e soggettiva»173. Dovendosi abiurare le presunzioni che farebbero scivolare nel fenomeno degenerativo del dolus in re ipsa, è paciica l’impossibilità
(per contrasto con il principio di colpevolezza) per il legislatore di indicare alcuni
172. di Biase, Thyssenkrupp: verso la resa dei conti tra due opposte concezioni di dolo eventuale?, cit.,
6 del dattiloscritto.
173. Così Canestrari, La struttura sogettiva della fattispecie, cit., 124. Sull’argomento, fra i più
recenti, Astorina, Spunti per una lettura internazionalistica del dolo e dell’imputabilità, in Riv. it. dir.
proc. pen., 2010, 1849 ss.; S. Fiore, Il dolo, in De Francesco, Piemontese, Venafro (a cura di), La prova
dei fatti psichici, Torino, 2010, 53 ss.
232
colpevolezza
comportamenti come indici rilevatori di un determinato atteggiamento psichico
che comporterebbero un’ulteriore illegittima «prassi di svuotamento del contenuto
psicologico o di normativizzazione del dolo, sul cui sfondo, l’esito positivo del giudizio di colpevolezza passa attraverso il ricorso a sempliicazioni probatorie o
all’allargamento “abusivo” del concetto di dolo»174.
Da ciò, sarebbe più agevole considerare l’accettazione del rischio come
un’ipotesi di colpa grave: «se, infatti, l’agente prevede come possibile il veriicarsi di un determinato evento e agisce lo stesso, accettandone il rischio, ciò non
può che signiicare che ha violato una fondamentale regola cautelare, che non
poteva non imporgli, date le premesse, di rimanere inerte o, comunque, di agire
diversamente»175. In tal maniera, sarebbe possibile per il legislatore selezionare alcune regole cautelari la cui violazione determinerebbe una reazione punitiva più
severa, così issando la c.d. misura ogettiva della colpa, ferma restando la necessità
di indagare, di volta in volta, «se l’agente reale, che ha agito in concreto, era in
grado (secondo il suo personale potere di agire) di impersonare il tipo ideale di
agente collocato nella situazione concreta»176 (c.d. misura sogettiva della colpa)177.
Inoltre, il legislatore potrebbe individuare i criteri oggettivi di gravità della condotta colposa, senza con ciò intaccare la misura personalistica della colpa, che
rimarrebbe sempre da accertare in concreto. Si tratta, in altri termini, di tipizzare
delle ipotesi che assumono particolare rilevanza penale, quando la misura della
divergenza tra la condotta tenuta dall’agente ed il modello di comportamento a
contenuto preventivo prescritto dalla regola cautelare doverosa per il soggetto è
di grado oggettivamente elevato. Si pensi, ad esempio, all’ipotesi di guida in stato
di ebbrezza o sotto l’efetto di sostanze stupefacenti, o ancora, sempre nell’ambito dei reati conseguenti ad incidenti stradali, l’ipotesi di attraversamento del
semaforo rosso o il viaggiare, in un centro urbano, ad una velocità superiore
di molto al limite imposto. Si tratterebbe di introdurre nel nostro ordinamento
ipotesi simili a quelle previste dal legislatore spagnolo, emendando, però, la dei-
174. Canestrari, La struttura sogettiva della fattispecie, cit., 125, in cui, comunque, è interessante segnalare la deinizione di dolo eventuale suggerita, in una prospettiva de lege ferenda: «Si ha
dolo eventuale allorquando l’agente si sia rappresentata concretamente la realizzazione del fatto
tipico come conseguenza probabile della propria condotta e ne accetta la veriicazione. Il rischio di
realizzazione del fatto tipico deve essere non consentito e di natura tale che la sua assunzione non
può neppure essere presa in considerazione da una persona coscienziosa ed avveduta del circolo di
rapporti cui appartiene l’agente, posta nella situazione in cui si trovava il soggetto concreto ed in
possesso delle sue conoscenze e capacità».
175. Manna, Colpa cosciente e dolo eventuale, cit., 209. Nello stesso senso, Eusebi, Appunti sul
conine tra dolo e colpa nella teoria del reato, in Riv. it. dir. proc. pen., 2000, 1089 ss.; Forte, Ai conini tra
dolo e colpa: dolo eventuale e colpa cosciente?, cit., 279 ss.; Pagliaro, Principi di diritto penale, cit., 280.
176. Canestrari, La struttura sogettiva della fattispecie, cit., 166.
177. Ampiamente, Canestrari, Cornacchia, De Simone, Manuale di diritto penale, cit., 445.
233
i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
nizione di dolo contenuta nell’art. 43 c.p. e, dunque, restringendone la nozione
alle sole ipotesi di dolo intenzionale e dolo diretto.
In questa direzione, dando attuazione all’indirizzo europeo che vuole restringere l’area del penalmente rilevante, si potrebbero escludere dalla punibilità tutti
quei comportamenti con un nesso psicologico quasi-oggettivo (colpa incosciente
lieve), così da elevare il grado della colpa da criterio di commisurazione della
pena, a quello di selezione del penalmente rilevante, alla stregua di quanto effettuato dall’art. 3, co. 1, l. 189/2012, nell’ambito della responsabilità penale medica178 (anche se solo con riguardo alle ipotesi di imperizia). Per tal via, i criteri
di graduazione della colpa e, quindi, di distinzione tra colpa lieve e colpa grave
individuati, tradizionalmente, (a) nella misura della divergenza tra la condotta
efettivamente tenuta e quella che era da attendersi sulla base della norma cautelare cui ci si doveva attenere; (b) nella previdibilità in concreto della realizzazione dell’evento e della relativa concreta evitabilità della sua realizzazione; (c)
dal punto di vista soggettivo, nella misura del rimprovero personale sulla base
delle speciiche condizioni dell’agente; (d) nella motivazione della condotta; (e)
nella consapevolezza o meno di tenere una condotta pericolosa e, quindi, dalla
previsione dell’evento179, andrebbero normativamente deiniti per ragioni di determinatezza del divieto penale.
Va, inine, posta una brevissima rilessione sul dibattito intorno all’introduzione nell’ordinamento nostrano del c.d. omicidio stradale. Le proposte legislative
avanzate, nella legislatura in corso180, non risolverebbero la problematica, espressamente perseguita, relativa alla certezza della risposta punitiva, in quanto non
178. Per l’analisi della novità legislativa, da ultimo, Brusco, Linee guida, protocolli e regole deontologiche. Le modiiche introdotte dal c.d. decreto Balduzzi, in www.penalecontemporaneo.it. In giurisprudenza, Cass. pen. Sez. IV, 29 gennaio 2013, n. 16237, in Dir. pen. proc., 2013, 6, 692 ss., con nota di Risicato; tale pronuncia è stata annotata anche da Roiati, Il ruolo del sapere scientiico e l’individuazione
della colpa lieve nel cono d’ombra della prescrizione, in www.penalecontemporaneo.it; Pulitanò, Responsabilità medica: letture e valutazioni divergenti del novum legislativo, in www.penalecontemporaneo.it;
Amato, Per le sentenze deinitive di condanna dei sanitari esclusa una applicazione automatica della norma,
in Guid. dir., 2013, 20, 82 ss. La decisione in questione, scritta con la dotta penna del Cons. Blaiotta,
ofre un’importante e completo excursus sulla storia della responsabilità medica (cfr. §§ 5,6), passando dalla diretta applicazione dell’art. 2236 c.c., al campo penale, alla sua abiura ed, inine, al relativo
recupero come criterio d’esperienza: «la colpa del terapeuta ed in genere dell’esercente una professione di elevata qualiicazione va parametrata alla diicoltà tecnico-scientiica dell’intervento
richiestogli ed al contesto in cui esso si è svolto». Va segnalata la rimessione alle Sezioni Unite del
ricorso avverso la sentenza della Corte d’assise d’appello di Torino nel noto caso Thyssenkrupp, che
dovrà segnare, fra l’altro, la linea di conine tra dolo eventuale e colpa cosciente, la cui relazione
è stata aidata al Cons. Blaiotta. La lucidità dell’impostazione e l’argomentazione giuridica della
decisione saranno indubbiamente manualistiche.
179. Cass. pen. Sez. IV, 29 gennaio 2013, cit., § 13.
180. XVII Legislatura, in ordine di presentazione, C.361; C.562; C.959; S.859; C.1430; C.1475;
C.1646; C.1677.
234
colpevolezza
viene trovata soluzione alla questione di distinzione tra fatto doloso e quello colposo in materia di incidenti stradali. Ed invero, la maggior parte delle proposte di
legge presentate, tendono ad introdurre nell’ordinamento la fattispecie di omicidio
stradale, limitandosi a descrivere la condotta dell’agente (di regola, guida in stato
di ebbrezza o sotto l’inluenza di sostanze stupefacenti) e collocando la nuova
disposizione subito dopo il delitto di omicidio (art. 575 c.p.), così richiamandone la relativa caratterizzazione del nesso psichico (dolo). Draconiane le ipotesi
di revoca sine die dell’abilitazione alla guida. In tal maniera, l’obiettivo ricercato
è paradossalmente ribaltato e risulta addirittura illogico: la risposta punitiva sarebbe inferiore rispetto a quella prevista dall’art. 575 c.p.! Dall’altro, non è risolta
la vertenza sulla distinzione tra dolo eventuale e colpa cosciente che porterebbe
all’inevitabile persistenza della situazione di incertezza attualmente vissuta.
Salvo quanto già indicato relativamente all’introduzione di fattispecie assistite dalla colpa grave, l’efetto ricercato potrebbe ragionevolmente raggiungersi
anche con l’anticipazione della tutela penale, delineando delle fattispecie di pericolo (astratto e concreto), di nuovo facendo riferimento all’esperienza spagnola
(artt. 379 ss. c.p. spagnolo), salvo descrivere come circostanze aggravanti ad effetto speciale le ipotesi di veriicazione dell’evento (omicidio o lesioni personali).
In tal maniera, delineando l’evento come circostanza della condotta e non come
elemento costitutivo del reato, la relativa imputazione andrebbe efettuata secondo i criteri meno pregnanti di cui all’art. 59, co. 2, c.p., che, certamente, non
riguardano la volontà dell’agente, «non solo perché non è necessario un dato psichico consistente nella rappresentazione attuale, similmente al dolo ed alla colpa
con previsione, ma soprattutto perché è estranea a tale criterio di imputazione
tanto l’intenzionalità quanto la violazione di una regola precauzionale»181.
181. Così Preziosi, Le circostanze del reato, in Cadoppi, Canestrari, Manna, Papa (a cura di),
Trattato di diritto penale. Parte generale, II, Il reato, Torino, 2013, 830.
235
CAPITOLO IV
appunti su pena e giustizia post-contemporanea
1. I principi che regolano la sanzione penale europea ed il carattere anankastico della pena
“rieducativa”. - 2. La pena “rieducativa” e le misure alternative e sostitutive alla detenzione
come pene proporzionate nel diritto penale dei diritti. - 3. La funzione della pena inalizzata
alla risocializzazione dialogica. - 4. La collocazione del momento comunicativo nel percorso di risocializzazione ed il “progetto” individuato dal giudice della cognizione come
linea-guida del percorso rieducativo. - 5. Annotazioni sui sistemi di giustizia riparativa e
l’impossibilità empirica di una sostituzione integrale del sistema punitivo-rieducativo. La
pena “rieducativa” tra sanzione e progetto di risocializzazione. - 6. La giustizia riparativa
nell’esperienza europea ed in quella italiana. La mediazione penale come tratto comune
delle maggiori esperienze di giustizia riparativa in Europa. Le consolidate esperienze anglosassone e francese e le nuove sperimentazioni nelle giovani codiicazioni. - 6.1. L’area
scandinava. - 6.2. L’area centro-orientale. - 6.3. L’area anglosassone. - 6.4. L’area centro-meridionale. - 6.5. L’esperienza italiana. - 7. Note conclusive sul ruolo della vittima del sistema
penale europeo e sul risarcimento come strumento riparativo in funzione solidaristica.
1. I principi che regolano la sanzione penale europea ed il carattere anankastico della
pena “rieducativa”. Le linee di principio che deiniscono il volto della pena europea
si ricavano dagli artt. 2, co. 2, 4 e 49, co. 1 e 3, della Carta di Nizza, nonché dagli
artt. 3, 4, § 2 e 3, lett. a), e 7, § 1, Convenzione EDU e, dunque, oltre al principio
di legalità, anche nella sua dimensione di divieto di retroattività in malam partem,
vanno indicati i principi di umanità e proporzione, con il divieto della tortura,
della pena di morte, del lavoro forzato e di ogni trattamento penitenziario «inumano e degradante», che, a ben guardare, costituisce il limite estremo della stessa
proporzione tra pena e fatto di reato. Su tale limite va appuntata l’attenzione.
La lettura giurisprudenziale sovranazionale dell’art. 3 Convenzione EDU1 e,
1. Su cui ampiamente Colella, La giurisprudenza di Strasburgo 2008-2010: il divieto di tortura e
trattamento inumani o degradanti (art. 3 CEDU), in Dir. pen. cont. - Riv. trim., 2011, 1, 221 ss. ed, in particolare, 223, in cui l’A., relativamente alla deinizione di trattamenti inumani e degradanti di cui
all’art. 3 Convenzione EDU, evidenzia che «l’elaborazione dottrinale distingue fra le tre categorie
sottolineando come: (a) nell’ipotesi di pene/trattamenti degradanti vengano in rilievo essenzialmente elementi di natura emotiva (in particolare, l’umiliazione della vittima); (b) la nozione di pene/
trattamenti inumani copra le condotte che si caratterizzano per una soferenza isica o psicologica di
particolare intensita (che non deve necessariamente essere sorretta dall’intenzione degli autori della
stessa); (c) i tratti distintivi della tortura siano la rilevante gravita (costituendo la stessa una forma
particolarmente grave di trattamento inumano) e lo scopo speciico di ottenere informazioni, di
estorcere una confessione, di inliggere una punizione, di intimidire o di esercitare una pressione
su qualcuno (sulla falsariga di quanto richiesto expressis verbis dall’art. 1 della Convenzione ONU
237
i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
dunque, del divieto di pene inumane e degradanti va ricavata dall’ampia casistica delle decisioni della Corte di Strasburgo, potendo, dunque, derivare il relativo contrasto tanto dalle condizioni della detenzione2, quanto dalla sottopo-
contro la tortura). Il diritto vivente di Strasburgo consente, tuttavia, di attribuire ai suddetti criteri
una validità solo tendenziale, posto che, da un lato, il conine fra trattamenti inumani e trattamenti
degradanti si mostra nell’applicazione pratica alquanto incerto, e sono assai frequenti le pronunce in cui la Corte utilizza l’espressione “trattamento inumano e degradante” quasi si trattasse di
un’endiadi; dall’altro, non sempre i misbehaviour che raggiungono la soglia di gravità necessaria per
essere qualiicati come altrettante ipotesi di tortura sono assistiti dallo scopo speciico ora menzionato: l’analisi della giurisprudenza di Strasburgo consente, piuttosto, di evidenziare un rapporto di
proporzionalità inversa fra la gravita della condotta e lo scopo speciico perseguito dall’agente».
2. Colella, La giurisprudenza di Strasburgo 2008-2010, cit., 237, rileva che «le pronunce rese dalla
Corte in materia possono idealmente suddividersi in due gruppi: (a) quelle in cui i giudici di Strasburgo hanno riscontrato la violazione a fronte di situazioni di carattere obiettivo (quali ad es. il sovraffollamento, le precarie condizioni igieniche, la mancanza di areazione, ecc.); (b) quelle in cui, invece,
la violazione dell’art. 3 Cedu e stata afermata in ragione della problematica compatibilità del regime di
detenzione “comune” con le condizioni di salute del ricorrente, afetto da gravi disturbi isici o psichici».
Per la giurisprudenza, Corte eur. dir. uomo, 11 giugno 2009, S.D. c. Grecia; Id., 22 luglio 2010, A.A.
c. Grecia; Id., 26 novembre 2009, Tabesh c. Grecia; Corte eur. dir. Uomo, Gr, Ch., 21 gennaio 2011,
M.S.S. c. Grecia e Belgio con nota di Beduschi, Immigrazione e diritto di asilo: un’importante pronuncia
della Corte di Strasburgo mette in discussione le politiche dell’Unione Europea, in www.penalecontemporaneo.
it. Relativamente al problema del sovrafollamento carcerario come condizione di obiettiva violazione dell’art. 3 Convenzione EDU, si segnalano Corte eur. dir. uomo, 14 febbraio 2008, Dorokhov
c. Russia; Id., 16 luglio 2009, Sulejmanovic c. Italia; Id., 15 ottobre 2009, Buzhinayev c. Russia; Id., 22
ottobre 2009, Orchowski c. Polonia; Id., 22 ottobre 2009, Norbert Sikorski c. Polonia; Id., 14 gennaio
2010, Melnikov c. Russia; Id., 2 febbraio 2010, Mariana Marinescu c. Romania; Id., 16 marzo 2010, Jiga c.
Romania; Id., 1 giugno 2010, Răcăreanu c. Romania; Id., 10 giugno 2010, Mukhutdinov c. Russia; Id., 23
settembre 2010, Aleksandr Leonidovich Ivanov c. Russia; Id., 2 novembre 2010, Grozavu c. Romania; Id.,
4 novembre 2010, Arefyev c. Russia; Id., 25 novembre 2010, Roman Karasev c. Russia; Id., 30 novembre
2010, I. D. c. Moldavia. Di recente, Corte eur. dir. uomo, 2 luglio 2013, Feher c. Ungheria; Id., 4 luglio
2013, Rzakhanov c. Azerbaijan; Id., 30 luglio 2013, Toma Barbu c. Romania; Id., 1 agosto 2013, Horshill
c. Grecia; Id., 9 luglio 2013, Ciobanu c. Romania e Italia. In relazione al problema del sovrafollamento
carcerario italiano, cfr., da ultimo, Corte cost. n. 279 del 2013 che ha dichiarato l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 147 o.p., sollevata da Trib. Sorv. Venezia, 18 febbraio 2013, nonché da Trib. Sorv. Milano, 18 marzo 2013, riconoscendo che «che il sovrafollamento carcerario può nella realtà assumere dimensioni e caratteristiche tali da tradursi in trattamenti contrari
al senso di umanità e da rendere al tempo stesso impraticabili i rimedi “interni” di cui si è parlato.
In questi casi occorre un rimedio estremo, il quale, quando non sia altrimenti possibile mediante le
ordinarie misure dell’ordinamento penitenziario, permetta una fuoriuscita del detenuto dal circuito
carcerario, eventualmente correlata all’applicazione nei suoi confronti di misure sanzionatorie e di
controllo non carcerarie», ma, tuttavia, respingendole «per la pluralità di soluzioni normative che
potrebbero essere adottate; pluralità che fa escludere l’asserito carattere “a rime obbligate” dell’intervento additivo sull’art. 147 cod. pen. Oltre al mero rinvio dell’esecuzione della pena, sono, infatti,
ipotizzabili altri tipi di rimedi “preventivi”, come, ad esempio, quelli modellati sulle misure previste
dagli artt. 47 e seguenti dell’ordinamento penitenziario, ad alcune delle quali si è fatto riferimento
nel dibattito seguito alla sentenza Torreggiani; misure che per ovviare alla situazione di invivibilità
derivante dal sovrafollamento carcerario potrebbero essere adottate dal giudice anche in mancanza
238
appunti su pena e giustizia POST-CONTEMPORANEA
sizione a particolari regimi carcerari3 o dalla durata della pena (come nel caso
dell’ergastolo)4, il cui ilo conduttore può essere indicato nel giusto bilanciamento tra esigenze di sicurezza sociale e dignità umana del detenuto, nel senso che
l’alizione connaturata alla pena non deve superare il limite dell’incidenza sui diritti fondamentali dell’uomo, che, da un lato, costituiscono il nòcciolo essenziale
dell’individuo e, dall’altro, sono, in un certo senso, indiferenti all’ordinamento
penale che ha riguardo nei confronti dell’individuo come membro della comunità (“cittadino”). In altri termini, la pena, con la sua inalizzazione rieducativa,
può comprimere solo le libertà ed i diritti della sfera sociale dell’individuo, ovvero del suo status istituzionale di cittadino, poiché superare tale conine e, dunque,
incidere sul nòcciolo intimo delle libertà, non può avere alcun signiicato per il
diritto penale contemporaneo.
Da tale considerazione, discendono almeno due rilessioni.
Dapprima, appare chiaro che il principio di proporzione indicato dall’art. 49,
§ 3, Carta si dispiega nell’ordinamento, rispetto alla pena, in diversi sotto-principi
delle condizioni oggi tipicamente previste. In particolare potrebbe ipotizzarsi un ampio ricorso alla
detenzione domiciliare, sempre che le condizioni personali lo consentano, o anche ad altre misure di carattere sanzionatorio e di controllo diverse da quelle attualmente previste, da considerare
forme alternative di esecuzione della pena. È da ritenere infatti che lo stesso condannato potrebbe
preferire misure del genere e non avere interesse a un rinvio come quello prospettato dai rimettenti,
che potrebbe lasciare a lungo aperta la sua vicenda esecutiva» ed, inine, ammonendo il legislatore
nazionale, afermando «come non sarebbe tollerabile l’eccessivo protrarsi dell’inerzia legislativa in
ordine al grave problema individuato nella presente pronuncia».
3. Sul regime dell’art. 41-bis o.p., cfr. in dottrina, Nicosia, Il 41-bis e una forma di tortura o
di trattamento crudele, inumano o degradante?, in Riv. it. dir. proc. pen., 2009, 1240 ss.; Della Bella,
Il regime detentivo speciale di cui all’art. 41-bis ord. penit., in Corbetta, Della Bella, Gatta (a cura di),
Sistema penale e “sicurezza pubblica”: le riforme del 2009, Milano, 2009, 447 ss. Nella giurisprudenza sovranazionale, Corte eur. dir. uomo, 9 gennaio 2001, Natoli c. Italia; Id., 27 novembre 2007, Asciutto
c. Italia; Id., 27 marzo 2008, Guidi c. Italia; Id., 17 luglio 2008, De Pace c. Italia; Id., 20 gennaio 2009,
Zara c. Italia; Id., 1 dicembre 2009, Dell’Anna c. Italia; Id., 1 dicembre 2009, Stolder c. Italia.
4. Corte eur. dir. uomo,12 febbraio 2008, Kaf karis c. Cipro; Id., 2 settembre 2010, Iorgov c.
Bulgaria. Di recente, Corte eur. dir. uomo, Gr. Ch., 9 luglio 2013, Vinter e a. c. Regno Unito, che
modiicando la posizione della sezione semplice (su cui cfr. contra Viganò, Ergastolo senza speranza
di liberazione condizionale e art. 3 CEDU: (poche) luci e (molte) ombre in due recenti sentenze della Corte
di Strasburgo, in www.penalecontemporaneo.it), la Corte europea, censurando la disciplina della liberazione anticipata vigente nel Regno Unito, ofre importanti precisazioni in ordine al problema
della compatibilità dell’ergastolo con il divieto di trattamenti inumani e degradanti. Se, infatti,
nella giurisprudenza di Strasburgo era già stato afermato che la pena perpetua può considerarsi
legittima solo se aiancata da regole che la rendano riducibile in concreto – consentendo, appunto,
la liberazione anticipata del condannato –, nella sentenza in parola la Corte europea precisa che tali
regole devono ofrire concrete prospettive di scarcerazione dopo un periodo minimo di detenzione
prestabilito e predeterminare in maniera chiara tempi e modalità della revisione, così da permettere al condannato di comprendere le condizioni della sua liberazione (sul punto, cfr. Viganò, Ergastolo senza possibilità di liberazione condizionale nel Regno Unito e articolo 3 CEDU: la Grande Camera
della Corte EDU ribalta la sentenza della Quarta Camera, in www.penalecontemporaneo.it).
239
i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
quali quello di umanità e quello di rieducazione, al primo, come detto, strettamente avvinto, con l’efetto che la punizione e, dunque, l’inlizione della pena al
reo non è giustiicata dal male o torto subito dalla collettività, in chiave retribuzionista, ma può comprendersi solo se costituisce l’equilibrata misura della compressione della libertà personale del cittadino, in funzione del tentativo risocializzante. In breve: la pena non proporzionata costituisce di per sé un trattamento
disumano e degradante perché pregiudica il ine rieducativo.
In secondo luogo, la pena retributiva, nella cultura contemporanea, ha serie
diicoltà di efettiva giustiicazione perché «punire è inumano e ineicace»5 e la
relativa ratio va ancorata alla sua inalizzazione, con l’efetto che la pena è proporzionata se diretta alla risocializzazione, in quanto va ad incidere sulle libertà
del cittadino riconosciutegli dall’ordinamento proprio per garantire e regolare
le relazioni sociali. In altri termini, se la comminazione della pena deve essere
misurata tra la lesione inferta dal reo e quella subita dallo stesso (proporzione) e
se tale equilibrio deve essere motivato dal recupero sociale dello stesso reo, senza
dimenticare la vittima, allora, è chiaro che la pena si giustiica solo nella misura in cui riesce ad incidere sulla sfera di libertà del cittadino per consentirne il
reingresso in società. In breve: la pena non rieducativa è degradante e disumana
perché non proporzionata.
Le due rilessioni, pertanto, sono come facce della stessa medaglia. In questa
prospettiva, dunque, l’aspetto ontico della sanzione penale (umanità) e quello deontico della stessa (rieducazione), così come tradizionalmente intesi, si fondono,
divenendo un vero e proprio carattere anankastico della pena contemporanea.
Nel nostro ordinamento, tale carattere della pena si evidenzia già nella collocazione sistematica di entrambi gli aspetti della proporzione (art. 27, co. 3,
Cost.), come, del resto, esplicitamente indicato dalla Corte costituzionale per cui
l’esecuzione della pena deve essere caratterizzata dalla «salvaguardia, congiuntamente, del diritto a non subire trattamenti disumani e della inalità rieducativa
della pena, perché il contesto “non dissociabile” nel quale vanno collocati i due
princìpi delineati dal terzo comma dell’art. 27 Cost. esclude l’ammissibilità di
interventi che, allo scopo di porre rimedio a una lesione del primo, determinino
una compromissione della seconda»6.
2. La pena “rieducativa” e le misure alternative e sostitutive alla detenzione come pene proporzionate nel diritto penale dei diritti. La pena “rieducativa” si contrappone così
alla tradizionale pena “retributiva” e mentre per quest’ultima assume un ruolo
egemone la detenzione, poiché molto duttile nella sua commisurazione proporzio-
5. Lüderssen, Il declino del diritto penale, cit., 149.
6. Corte cost. n. 279 del 2013, Considerato in diritto, § 7.1, cpv.
240
appunti su pena e giustizia POST-CONTEMPORANEA
nata con la gravità del fatto, di cui costituisce l’analogo negativo7, la prima necessita
di un catalogo di pene principali che sollecitino il reo ad intraprendere un dialogo risocializzante: «vuoi rendendo la sanzione direttamente espressiva del valore
dei beni ofesi in concreto (e solo a contrariis del disvalore dell’illecito), attraverso
prescrizioni, per esempio riparative, le quali orientino al recupero di sensibilità
solidaristiche; vuoi ricollegando la segnalazione della presa di distanze dal reato a
un percorso riabilitativo che abbia riguardo alle condizioni personali dell’agente
(si pensi all’istituto della messa alla prova nel sistema minorile); vuoi, inine, promuovendo la compartecipazione dello stesso agente di reato, una volta accertati
i fatti e la colpevolezza, nel riconoscimento in rapporto con la vittima (o con
soggetti esponenziali degli interessi ofesi) del disvalore di quanto accaduto, anche
attraverso la proposta, da parte dell’agente medesimo, di speciiche prestazioni
orientate alla composizione del conlitto (si pensi alle esperienze di mediazione
penale o a determinate modalità di deinizione anticipata del processo davanti al
giudice di pace)»8. Solo così la pena da mera inlizione di una soferenza personale
per il reo9, passa alla riparazione della frattura istituzionale rappresentata dal reato. Per tal via, si era già suggerita la rivalutazione delle pene accessorie (prescrittive ed interdittive), in quanto la duttilità propria della pena detentiva si ottiene non
tanto (o, meglio, non solo) nella misura “temporale” (anni, mesi e giorni), ma badando a quella “di genere”, avendo ad oggetto solo uno o più aspetti della libertà
personale. In altri termini, la pena detentiva è, da un lato, anacronistica, laddove
si guardi all’ampiezza della sfera dei diritti e delle libertà riconosciuti al cittadino
e, dall’altro, è conseguentemente sproporzionata, nel senso che va a limitare tutti
gli aspetti della libertà personale e, dunque, insieme a quello isico, si aggiungono
quelli che aferiscono alle libertà di circolazione e comunicazione (libertà relazionali). Andando, invece, ad individuare un catalogo di pene che riesca a coniugare
la misura temporale con quella di genere, è certamente più agevole cogliere la
giusta proporzione tra il fatto di reato e la sanzione (e, dunque, la colpevolezza),
poiché la pena andrà a limitare uno o più aspetti della libertà personale per un
certo tempo, ma non necessariamente la libertà isica, che, in tale prospettiva,
andrebbe prevista per i crimini più gravi. La giusta proporzione avrebbe anche un
efetto positivo nella risposta risocializzante del reo e nel relativo procedimento di
autoresponsabilizzazione. Un ruolo determinante potrebbero assumere le misure
alternative e quelle sostitutive alla detenzione già previste nel sistema nostrano,
come anche alcune pene accessorie o sanzioni amministrative interdittive.
7. Eusebi, Proili della inalità conciliativa nel diritto penale, in Studi in onore di Giorgio Marinucci,
II, Milano, 2006, 1109 ss.
8. Eusebi, Proili della inalità conciliativa nel diritto penale, cit., 1114.
9. Antolisei, Manuale di Diritto penale, cit., 3, secondo cui «la pena è una soferenza che lo
Stato inligge alla persona che ha violato un bene giuridico».
241
i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
3. La funzione della pena inalizzata alla risocializzazione dialogica. Il diritto punitivo
europeo, come visto, ai suoi albori, imponeva l’intervento statale con il proprio
apparato sanzionatorio per la tutela di determinati interessi comunitari (ciò che
si sono deiniti obblighi di risultato e, più eicacemente, dopo, obblighi di penalizzazione): l’Unione delineava il precetto per la tutela dell’interesse comune, ciascun
Stato membro stabiliva la sanzione proporzionata, efettiva e dissuasiva, utilizzando il proprio catalogo di pene. L’entrata in vigore del Trattato di Lisbona ha
previsto una competenza penale tipica (propria e impropria) dell’Unione per cui
è possibile l’adozione di direttive penali che deiniscano, non solo, il precetto, ma
indichino anche il minimo della pena per esso dovuta. Da ciò, è evidente che il diritto penale europeo non si limita più solo alla descrizione del precetto, ma stima
anche (almeno in parte) la relativa pena (fatto salvo il margine di apprezzamento
per ciascuno Stato membro). Va ora svolta una rilessione sulla pena europea e
relativa funzione.
Il diritto è qualiicato come penale perché la violazione del precetto impone
l’applicazione di una pena. Questa è un’ovvietà. La sanzione per essere penale, a
sua volta, deve essere alittiva, nel senso che deve essere capace di porre un onere
sulla libertà personale dell’individuo, e dissuasiva, poiché è inalizzata ad evitare
il perpetrarsi di comportamenti identici o analoghi rispetto a quelli, di volta in
volta, puniti, ed a soddisfare moralmente la vittima. L’alittività e la dissuasività
devono tendere alla rieducazione del condannato, come previsto dall’art. 27, co.
3, Cost. ed, in quest’ottica, la contrapposizione tra visione reo-centrica e visione
vittimo-centrica, trova una composizione, un punto di equilibrio e di mediazione.
La tendenza risocializzante della pena nostrana non è espressamente prevista
a livello europeo, ma l’equilibrio evidenziato tra gli interessi coinvolti tramite la
sintesi della pena inlitta al reo, come detto, può essere argomentato positivamente dalla necessaria proporzione tra sanzione e reato richiesta dall’art. 49, §
3, Carta («Le pene inlitte non devono essere sproporzionate rispetto al reato»),
che, come noto, costituisce il principio generale di cui la tendenza rieducativa è
corollario. Per queste ragioni, si può afermare che la pena europea deve tendere
alla risocializzazione del reo in attuazione del principio generale di proporzionalità enunciato dall’art. 49, § 3, Carta (nonché nel rispetto della dignità umana
consacrato nell’art. 1 Carta10).
La tendenza rieducativa della pena assume un ruolo egemone ed escludente
ogni altra inalizzazione, principalmente quella retributiva11, ove si guardi alla
10. Vinciguerra, Diritto penale italiano, cit., 33, secondo cui le pene non devono presentare
contenuti tali da rendere il condannato insensibile a spinte interiori verso il riadattamento sociale,
come sarebbero le sanzioni che mortiicassero la sua dignità umana.
11. Per una critica all’idea retribuzionista della pena cfr. Eusebi, La “nuova” retribuzione, cit.,
914 ss.; Id., Cristianesimo e retribuzione penale, cit., 275 ss.; Id. (a cura di), La funzione della pena: il
242
appunti su pena e giustizia POST-CONTEMPORANEA
necessaria mediazione che la pena sintetizza nell’ottica di una risocializzazione
dialogica, come momento di incontro conciliativo tra reo e vittima (e collettività). In altri termini, il reo, compiendo il reato, non solo, assume un comportamento ostile alla regole comuni e, dunque, alla vigenza della norma12, esercitando la libertà riconosciutagli dall’ordinamento, «al di fuori dei limiti da esso
segnati»13, ma lede anche un interesse fondamentale proprio della vittima (in
genere); l’espiazione della pena, come percorso di formazione valoriale, costituisce il tramite per il reingresso nella comunità sociale del reo; la comunità sociale
accoglie il reo ricollocandolo all’interno della collettività, una volta, dunque, che,
con l’espiazione della pena, il reo ha compreso l’importanza dei valori lesi dal
comportamento punito e così riequilibrato il pregiudizio alla vigenza della norma. Ma la ricomposizione della frattura istituzionale tra reo-cittadino e società
non è suiciente al ripristino integrale della vigenza della norma, come punto di
riferimento della cittadinanza in un’ottica di ricostituzione della iducia nella sicurezza collettiva14, ove il percorso di formazione valoriale in cui consiste l’espiacommiato da Kant e da Hegel, cit., 173 ss.; Id., Dibattiti sulle teorie della pena e mediazione, cit., 811 ss.;
Id., Le istanze del pensiero cristiano e il dibattito sulla riforma del sistema penale nello stato laico, cit., 207.
12. Nella lettura di Günther Jakobs, il diritto penale del nemico (Feindstrafrecht) – come evidenzia Cornacchia, La moderna hostis iudicatio tra norma e stato di eccezione, cit., già Id., La moderna
hostis iudicatio entre norma y estado de excepción, Centro de Estudios Constitucionales, 94, Madrid, 2008,
71, 110 – rappresenta la conseguenza di una precisa considerazione del ruolo che assume l’efettività nella validazione delle norme dell’ordinamento: una norma vigente, corretta dal punto di
vista formale e materiale, che tuttavia non sia stabilizzata nella realtà sociale in modo tale da poter
essere confermata controfattualmente in caso di sua violazione – attraverso la deinizione del comportamento deviante del soggetto che viola la norma, e non l’aspettativa normativa, come motivo
del conlitto – è diritto astratto, puro feticcio, ino a quando non vi sia un minimo di efettività.
Mentre, dunque, per il diritto penale del nemico, la pena è pura privazione dello ius civis, dello status di cittadino, per il diritto penale del cittadino (Bürgerstrafrecht), di contro, la pena è sì alizione,
ma in funzione di garanzia della vigenza della norma. Nella bibliograia si segnala, naturalmente,
Jakobs, Derecho penal del ciudadano y derecho penal del enemigo, in Derecho penal del enemigo, a cura di
Jakobs, Cancio Melià, Madrid, 2003, 41 ss.; Id., Bürgerstrafrecht und Feindstrafrecht, in Höchstrichterliche Rechtsprechung Strafrecht, 2004, 88 ss., Id., Diritto penale del nemico, in Donini, Papa (a cura di),
Diritto penale del nemico. Un dibattito internazionale, Milano, 2007, 5, fra gli ultimi; nella letteratura
italiana, Donini, Il diritto penale di fronte al nemico, in Cass. pen., 2006, 772; Id., Diritto penale di lotta
v. diritto penale del nemico, in Gamberini, Orlandi (a cura di), Delitto politico e diritto penale del nemico.
Nuovo revisionismo penale, Bologna, 2007, 131; Resta, Nemici e criminali. Le logiche del controllo, in IP,
2006, 1, 181 ss.; Bartoli, Lotta al terrorismo internazionale. Tra diritto penale del nemico, jus in bello del
criminale e annientamento del nemico assoluto, Torino, 2008, 10; Palazzo, Contrasto al terrorismo, diritto
penale del nemico e diritti fondamentali, in Quot. Giur., 2006, 2, 667 ss.; Insolera, Terrorismo internazionale tra delitto politico e diritto penale del nemico, in Dir. pen. proc., 2006, 895 ss.; Kostoris, Processo
penale, delitto politico e diritto penale del nemico, cit., 293; Zumpani, Critica del diritto penale del nemico
e tutela dei diritti umani, cit., 526 ss.
13. Così Cornacchia, La moderna hostis iudicatio, cit., 112.
14. Manna, La vittima del reato: à la recherche di un diicile modello dialogico nel sistema penale, in
Studi in onore di Giorgio Marinucci, cit., 981.
243
i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
zione, ignorasse la posizione della vittima-cittadino15. Da ciò, la necessaria comunicazione tra reo e vittima è il fondamento del riadattamento sociale: se non
si compone anche la frattura interpersonale reo-vittima in maniera condivisa tra
gli attori del reato, non solo, non si potrà mai deinire un efettivo reingresso del
reo nel tessuto collettivo e, dunque, riequilibrare il pregiudizio alla vigenza della
norma, intenso anche nel signiicato di ripristino del senso di sicurezza sociale,
ma, poi, si giungerebbe ad escludere la vittima che non riuscirà a comprendere
la nuova oferta di ospitalità della comunità per il suo aggressore16. Il percorso
rieducativo, dunque, imposto dalla pena svolge una doppia funzione: per il reo,
è responsabilizzazione, ma anche comprensione del danno provocato con il suo illegittimo comportamento e conferma della validità della norma; per la vittima,
è soddisfazione morale del male subito, ma anche comprensione della soferenza
conseguente all’aggressione patita e, dunque, capacità di superare l’umano istinto vendicativo, con aidamento nell’attitudine del sistema penale a garantire la
sicurezza sociale17.
Così la comunicazione è il necessario presupposto della risocializzazione del
reo e carattere principale di un nuovo sistema penale di tutela dei diritti e delle
libertà fondamentali della vittima18.
4. La collocazione del momento comunicativo nel percorso di risocializzazione ed il “progetto” individuato dal giudice della cognizione come linee-guida del percorso rieducativo.
Il percorso di risocializzazione è formato da fasi e momenti, come si desume
15. Manna, La vittima del reato: à la recherche di un diicile modello dialogico nel sistema penale,
cit., 966, evidenzia la necessità di un sistema sanzionatorio meno alittivo e stigmatizzante, ma
tuttavia idoneo al reinserimento sociale, tanto del reo, quanto della vittima.
16. Signiicativamente, Manna, La vittima del reato: à la recherche di un diicile modello dialogico
nel sistema penale, cit., 986, aferma, in particolare, che «un sistema sanzionatorio dialogico rende
possibile ipotizzare un catalogo di pene meno stigmatizzati di quelle tradizionali, che assolvano ad
ineludibili inalità di risocializzazione del reo come della vittima, consentendo così a tali soggetti,
ma anche alla società interna, di superare la lacerazione ingenerata dal reato, in virtù di un dialogo
costruttivo e di una rinnovata iducia in un sistema penale che, nel pieno rispetto delle garanzie
individuali del reo, sappia anche ascoltare e soddisfare le esigenze della vittima».
17. Una pena dialogica, che si trasformerebbe, più che altro, in un percorso di riconciliazione,
aferma un riconoscimento più signiicativo del diritto ofeso rispetto all’impostazione retributiva,
proprio grazie alla cooperazione necessaria del reo, cfr. Eusebi, La riforma del sistema sanzionatorio
penale: una priorità elusa? Sul rapporto tra riforma penale e rifondazione della politica criminale, in Picciotti, Spangher (a cura di), Verso una giustizia penale conciliativa, Milano, 2002, 49 ss. Nello stesso senso,
Manna, La vittima del reato: à la recherche di un diicile modello dialogico nel sistema penale, cit., 982.
18. Riondino, Giustizia riparativa e mediazione nel diritto penale canonico, Città del Vaticano,
2011, secondo cui «il ine ultimo dell’intervento penale dovrebbe […] consistere nel promuovere
un atto di responsabilità che non derivi da una semplice costrizione esterna, ma da un serio e profondo percorso di incontro e di reciproca conoscenza, che permetta all’autore del reato la revisione
dei suoi stili di comportamento e l’autoresponsabilizzazione».
244
appunti su pena e giustizia POST-CONTEMPORANEA
dalla lettura della giurisprudenza costituzionale19 per cui il principio contenuto
nell’art. 27, co. 3, Cost. «lungi dal rappresentare una mera generica tendenza
riferita al solo trattamento, indica invece proprio una delle qualità essenziali e
generali che caratterizzano la pena nel suo contenuto ontologico e l’accompagnano da quando nasce, nell’astratta previsione normativa, ino a quando in concreto si estingue», secondo una prospettiva per cui “tendere” esprime solo «la
presa d’atto della divaricazione che nella prassi può veriicarsi tra quella inalità
e l’adesione di fatto del destinatario al processo di rieducazione». Conclusivamente afermando che «il precetto di cui al terzo comma dell’art. 27 della Costituzione vale tanto per il legislatore quanto per i giudici della cognizione, oltre
che per quelli dell’esecuzione e della sorveglianza, nonché per le stesse autorità
penitenziarie», in quanto «se la inalità rieducativa venisse limitata alla sola fase
esecutiva, rischierebbe grave compromissione ogniqualvolta specie e durata della sanzione non fossero calibrate (né in sede normativa né in quella applicativa)
alle necessità rieducative del soggetto».
Da ciò, il percorso di risocializzazione va segnato nel momento generatore
(allorquando il legislatore individua la pena astrattamente proporzionata alla fattispecie posta - fase legislativa), in quello determinativo (allorquando il giudice individua la pena da applicare al reo, tenuto conto di tutti i requisiti del giudizio di
colpevolezza e, segnatamente, dei criteri indicati dall’art. 133 c.p. - fase cognitiva)
ed, inine, in quello comunicativo, su cui va appuntata l’attenzione. A prescindere,
dunque, dalla prima fase, che ha ad oggetto una rieducazione in astratto, come
astratta implementazione del principio di proporzione, il percorso di risocializzazione in concreto riguarda i momenti determinativo e comunicativo.
Rispetto al momento determinativo, si tratta di individuare un sistema sanzionatorio utile al «recupero di quei legami solidaristici che il reato ha infranto»20,
attraverso l’abbandono dell’egemonia della pena detentiva, come già evidenziato, da sostituire con pene prescrittive ed interdittive più consoni ad un diritto
penale forgiato sui diritti del cittadino, che si vadano ad inserire in un “progetto” che guidi il percorso di risocializzazione volto «a favorire il riappropriarsi,
da parte di chi subisca la condanna, delle regole trasgredite e, altresì, la sua responsabilizzazione rispetto ai danni o ai pericoli prodotti»21. La pena detentiva,
dunque, intesa come prescrizione sulla libertà personale (isica) dovrebbe essere
utilizzata solo in ipotesi di estrema gravità dell’ofesa perpetrata e di efettivo ed
19. Corte cost. n. 313 del 1990 che segue l’impostazione dell’importante precedente n. 364
del 1988 e, poi, confermata da Corte cost. n. 322 del 2007.
20. Eusebi, Proili della inalità conciliativa nel diritto penale, cit., 1111.
21. Eusebi, Ripensare le modalità della risposta ai reati. Traendo spunto da CEDU 19 giugno 2009,
Sulejmanovic c. Italie, in Cass. pen., 2009, 12, 4938 ss.; Id., Dibattiti sulle teorie della pena e mediazione,
in Riv. it. dir. proc. pen., 1997, 830 ss.
245
i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
attuale pericolo per la comunità. Tale momento determinativo potrebbe anche
essere assente, nel senso che, collocandosi nella fase cognitiva ed, in particolare,
nella parte inale del processo pubblico, si potrebbe prevedere una sospensione
dell’iter di accertamento pubblico della colpevolezza del reo, anticipando il momento comunicativo in cui si collocano le iniziative di autoresponsabilizzazione
del reo, anche con la «messa in opera, da parte del soggetto agente di condotte
riparative adeguate, in una prospettiva di carattere riconciliativo»22. Dovrebbe,
comunque, avere un ruolo fondamentale la pena ablativa che tolga al reo il proitto dell’illecito, come quella pecuniaria23.
Il momento comunicativo, se non anticipato nella fase cognitiva, come visto,
va collocato nella fase esecutiva come forma caratterizzante il progetto determinato dal giudice della cognizione, all’esito del processo pubblico, poiché è necessario individuare il colpevole, come interlocutore necessario, che, prima del
giudizio, è presunto innocente. Una volta indicato il progetto relativo al percorso
di risocializzazione e, quindi, il reo abbia riconosciuto la propria responsabilità
o quest’ultima sia stata accertata nelle forme del processo pubblico, il giudice
dell’esecuzione dovrà valutare l’ammissione spontanea del reo ad un sistema
di giustizia riparativa24, inalizzata ad anticipare il pieno recupero, da parte del
colpevole, del libero esercizio dei diritti limitati dalle sanzioni determinate dal
progetto di recupero. La mediazione o altro strumento dialogico proprio del-
22. Eusebi, Ripensare le modalità della risposta ai reati, cit., 4958.
23. Sull’ineittività della pena, Goisis, L’efettività (rectius inefettività) della pena pecuniaria in
Italia, ogi, cit.
24. Il modello della giustizia riparativa e la mediazione penale si pongono come risorsa
emergente nell’amministrazione della giustizia penale a livello internazionale. Sull’argomento
cfr. Romano, Il conlitto e la mediazione, Rassegna penitenziaria e criminologica, 2012, 1, 47 ss.;
senza pretesa di completezza, cfr. Ciappi, Coluccia, Giustizia Criminale. Retribuzione, riabilitazione
e riparazione: modelli e strategie di intervento penale a confronto, Milano, 1997; De Francesco, Venafro, Meritevolezza di pena e logiche delattive, Torino, 2002; De Leo, Psicologia della responsabilità,
Bari, 1996; De Leo, Patrizi, Psicologia giuridica, Bologna, 2002; De Leo, Volpini, La veriica di alcuni
principali obiettivi nella mediazione penale minorile, in Rassegna Italiana di Criminologia, 2, 279-287,
Gatti, Marugo, La vittima e la giustizia riparativa, in Marginalità e Società, 1994, 27, 12-32; Gulotta,
Elementi di psicologia giuridica e di diritto psicologico, Milano, 2002; Morineau, Lo spirito della mediazione, Milano, 2003, Morrone, Mediazione e riparazione del danno nella competenza penale del giudice
di pace, in Rassegna penitenziaria e criminologica, 2000, 1-3, 55-68; Pisapia (a cura di), Prassi e teoria
della mediazione, Padova, 2000; Savona, Ciappi, Travaini, Prevenzione e mediazione tra esperienze passate e progetti futuri: una proposta di mediazione integrata, Relazione al seminario organizzato dalla
Provincia Autonoma di Trento sul tema “Il protocollo d’intesa nel sistema penitenziario: una opportunità o una provocazione?”, Trento, 1999; Scaparro (a cura di), Il coragio di mediare. Contesti,
teorie e pratiche di risoluzioni alternative delle controversie, Milano, 2001; Scardaccione, Nuovi modelli
di giustizia: giustizia riparativa e mediazione penale, in Rassegna penitenziaria e criminologica, 1997, 1-2,
9 ss.; Scardaccione, Baldry, Scali, La mediazione penale. Ipotesi di intervento nella giustizia minorile,
Milano, 1998; Vianello, Diritto e mediazione. Per conoscere la complessità, Milano, 2004.
246
appunti su pena e giustizia POST-CONTEMPORANEA
la giustizia riparativa, in tale maniera, può comportare l’estinzione della pena
applicata al reo, poiché, come evidenziato da Duf25, il processo comunicativo,
proprio della mediazione, non solo, ha carattere retributivo, nella misura in cui
è orientato a produrre nel reo la soferenza di cui è meritevole, anche se detta
soferenza si risolve nel senso del rimorso, nell’apprestamento di riparazioni e
nella “pena naturale” della sottoposizione allo sguardo pubblico, specialmente
a quello delle vittime; ma, inoltre, tale processo ha carattere preventivo, rivolto
al futuro, dissuasivo per il reo dalla commissione di ulteriori reati, ma anche inclusivo ed educativo26. Se il momento comunicativo avrà esito positivo, allora, il
giudice dell’esecuzione interverrà sul “progetto”, sospendendone l’adempimento, consentendo al reo di reinserirsi nel tessuto sociale. Se l’esito di tale processo
sarà negativo, il giudice dell’esecuzione, alla ine del percorso di risocializzazione
come delineato nel “progetto” indicato dal giudice della cognizione, dovrà valutare la pericolosità sociale del reo, applicando la misura di sicurezza più idonea,
che consisterà in un’estensione del progetto di risocializzazione oltre la misura
temporale della pena determinata dal giudice della cognizione27.
5. Annotazioni sui sistemi di giustizia riparativa e l’impossibilità empirica di una sostituzione integrale del sistema punitivo-rieducativo. La pena “rieducativa” tra sanzione e progetto
di risocializzazione. L’idea dell’intervento del paradigma riparativo nella giurisdizione penale si colloca nell’ampio alveo di un movimento ideologico mosso da alcune
istanze, molto spesso anche diicili da conciliare tra loro, che vanno dall’insoddisfazione nei confronti del sistema penale28 alle ricerche antropologiche29, dalla rivaluta25. Duff, Punishment, Communication and Community, Oxford, 2001, 96 ss.
26. Cornacchia, Funzione della pena nello Statuto della Corte penale internazionale, Milano,
2009, 197, in cui il chiaro A. (ibid., 233 ss.) analizza, con approfondite argomentazioni, i sistemi di
giustizia riparativa nel sistema del diritto penale internazionale.
27. Cornacchia, La vittima nel diritto penale contemporaneo. Tra paternalismo e legittimazione del
potere coercitivo, cit., 137, evidenzia l’opportunità di un procedimento riconciliativo deformalizzato,
al ine di favorire la partecipazione della vittima.
28. Zehr, Toews (a cura di), Critical Issues in Restorative Justice, Monsey, NY, 2004; Zehr, Mika,
Fundamental Concepts of Restorative Justice, in Contemporary Justice Review: Issues in Criminal, Social,
and Restorative Justice, 1998, 1, 1, 47-56; Zehr, The Little Book of Restorative Justice, Intercourse, PA,
2002; Id., Retributive Justice, Restorative Justice. New Perspectives on Crime and Justice, 4, Akron, PA,
Mennonite Central Committee Oice of Criminal Justice, September, 1985; Id., Changing Lenses. A
New Focus for Crime and Justice, Scottsdale, 1990; Vianello, Per uno studio socio-giuridico della mediazione penale, in Sociologia del diritto, Milano, 1999, XXVI, 2.
29. Weitekamp, Research on Victim-Ofender Mediation. Finding and Needs for the Future, in European Forum for Victim-Ofender Mediation and Restorative Justice (a cura di), Victim-Ofender
Mediation in Europe. Making Restorative Justice Work, Leuven, 2000; Braithwaite, Restorative Justice
and Responsive Regulation, Oxford, 2002; Wright, Restorative Justice: for whose beneit?, in European
Forum for Victim-Ofender Mediation and Restorative Justice (a cura di), Victim-Ofender Mediation
in Europe. Making Restorative Justice Work, Leuven, 2000, il quale prende in esame le pratiche ripara-
247
i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
zione del ruolo della vittima30 alla critica abolizionista31, dalla religione32 alla restitutive esistenti nelle comunità Kpelle della Liberia, degli Zapotec in Messico, dei Tiv in Nigeria e le
tradizioni coreane e Barotse.
30. É un fatto che la vittima è rimasta per molto tempo estranea agli interessi della dottrina
penalistica italiana, la quale ha sempre concentrato la sua ricerca sulla igura del delinquente. Infatti, sia la Scuola Classica che quella Positiva hanno trascurato la igura del soggetto passivo del
reato. Nelle teorizzazioni della Scuola Classica non c’è posto per la vittima del reato, poiché essa
parte dal presupposto che il reato è un’ofesa nei confronti dello Stato, mentre in quelle della Scuola Positiva, l’assenza di qualsiasi riferimento alla vittime è dovuta alla centralità dell’indagine sulla
personalità del delinquente, inalizzata al recupero del reo. La crescita dell’interesse per la vittima
è legata alla difusione dei movimenti in favore delle vittime (in particolare quello femminista), i
quali sono stati molto fermi nel denunciare l’assoluto disinteresse sia sociale, sia giudiziario per il
soggetto passivo del reato, soprattutto nei confronti delle vittime di reati sessuali. Sullo studio del
ruolo della vittima nel reato esiste una vastissima bibliograia: cfr., per esempio, Saponaro, Vittimologia. Origini, concetti, tematiche, Milano, 2004; Portigliatti Barbos, Vittimologia, in Dig. Disc. Pen.,
Torino, 1999, 314 ss.; Cario, Victimologie, De l’efraction du lien intersubjectif à la restauration sociale,
Paris, 2000; Karmen, Crime Victimes. An introduction to Victimology, Wadsworth, 2004.
31. Solitamente, all’interno dei movimenti abolizionisti, si individuano due correnti: (1)
l’abolizionismo radicale, che propone una profonda trasformazione del modo di concepire la pena
e che individua nel sistema penale le cause stesse della criminalità, e per questo motivo ne chiede
l’eliminazione (Christie, Abolire le pene? Il paradosso del sistema penale, Torino, 1985) e (2) l’abolizionismo istituzionale, che pur non intendendo rinunciare al sistema di giustizia penale, richiede però
l’abolizione di tutte le istituzioni totali. A proposito di quest’ultimo orientamento Eusebi (La pena
“in crisi”: il recente dibattito sulla funzione della pena, Brescia, 1990) osserva che, «ove non intenda
negare aprioristicamente almeno un certo grado di autonomia del fenomeno criminale rispetto ai
meccanismi ascrittivi del sistema punitivo, l’altro orientamento disponibile all’abolizionismo [quello istituzionale] per escludere la legittimità del ricorso al diritto penale è quello di disconoscerne,
in qualsiasi caso, l’utilità preventiva: la pena assumerebbe, come si è sostenuto, un mero carattere
declamatorio e rituale, del tutto incidente, se non nei termini di un incremento della soferenza,
sulla difusione della criminalità». Probabilmente, da quest’ultimo orientamento prese ispirazione
il modello riparativo, come afermato da Ciappi, Coluccia, Giustizia criminale. Retribuzione, riabilitazione e riparazione: modelli e strategie di intervento penale a confronto, Milano, 1997, 110, secondo
cui «fa propria l’esigenza di sopperire ai difetti del modello retributivo, basato unicamente sulla
sanzione come risposta statale al fenomeno della criminalità, e di quello riabilitativo, che spesso
confonde le reali esigenze della prevenzione con quelle della repressione, le ragioni della scienza
con le ragioni del potere e dimostratosi ineicace».
32. I principi come la riconciliazione, la riparazione e la guarigione sono evidenti nelle religioni e soprattutto in quella cristiana. Braithwaite, Principles of Restorative Justice, in v-Hirsch (a
cura di), Restorative Justice and Criminal Justice: Competing or Reconcilable Paradigm?, Oxford, 2003)
ha afermato che la giustizia biblica è una giustizia riparativa, in quanto la lex talion è un’interpretazione molto sempliicata. Bianchi, Justice as sanctuary: toward a new system of crime control,
Bloomington, 1994, 29, in maniera più severa, osserva che «qui siamo di fronte ad un marchiano
errore intenzionale nella traduzione dei testi biblici» e spiega che in quasi tutti i passaggi della
bibbia nella traduzione inglese, quando troviamo la parole retribuzione, nel testo ebraico le radici e le lettere dei termini corrispondenti, sono sh-l-m, (meglio conosciute come shalom), che
signiica pace. Quindi quei termini non devono assolutamente intendersi come “retribuzione”,
speciicamente proibita dalla Bibbia. “Occhio per occhio”, allora più che essere un richiamo alla
retribuzione, deve essere inteso come il limite posto a non chiedere mai un valore più alto di ciò
248
appunti su pena e giustizia POST-CONTEMPORANEA
tion33. Di tale modo di fare giustizia, va evidenziato che vi sono diverse forme o
tipologie: da quella integrata con il sistema retributivo, come sopra ipotizzato, a
quelle più drastiche e di rottura con il sistema tradizionale, che auspicano che la
giustizia riparativa sia alternativa a quella punitiva (retributiva), ovvero sostituisca il sistema della punizione e del castigo, restituendo la soluzione del conlitto
alla composizione tra reo e vittima, in favore del quale lo Stato, detentore del
monopolio di punire, abdichi, salvo che il reo riiuti di cooperare o la procedura
fallisca per altra ragione34. Poi, inine, vi è la proposta che guarda alla giustizia
riparativa come complementare a quella tradizionale.
Ma è davvero possibile ipotizzare la sostituzione del sistema tradizionale con
uno riparativo?
È certamente prematuro fare un’ipotesi di implementazione di un tale sistema, poiché è necessario uno sviluppo sul piano prasseologico; tuttavia, si è indotti ad un tentativo, almeno a livello teorico, al ine di veriicarne l’impostazione
astratta che dovrebbe fungere da supporto ontologico nell’ipotesi empirica. Tale
tentativo viene qui appena tracciato.
In prima battuta, tenuto conto dell’obbligo costituzionale dell’azione penale,
che rende impossibile (o altamente diicile) soppiantare la giustizia tradizionale,
che è stato danneggiato. A supporto di questa spiegazione, Zehr, Justice, Restorative Justice. New
Perspectives on Crime and Justice, 4, Akron, PA, Mennonite Central Committee Oice of Criminal Justice, September, 1985, spiega che «la lex talion era intesa come mezzo per portare la pace
attraverso la compensazione, mirata al mantenimento dell’equilibrio tra i gruppi». Lo stesso A.
aferma che «quando gli elementi costitutivi delle società erano le tribù o le famiglie, e questo
è il caso riferibile al contesto del Vecchio Testamento, era possibile concepire la “ristorazione”
dell’uguaglianza sociale tramite il sacriicio di un membro di una tribù come compensazione
per la perdita di una vittima di un’altra tribù». Secondo Zehr, l’idea di Shalom, ristorazione, non
retribuzione quindi, era centrale nel concetto di giustizia nel Vecchio Testamento, dove «la ristorazione e la restituzione andavano oltre la punizione, dato che il tema principale era il ritorno
delle buone relazioni tra i gruppi».
33. Se le istanze dei victims’ movements invocavano un ampliamento del ricorso a forme di risarcimento a favore della vittima, l’approccio incarnato dalla restitution, vuole fare del risarcimento
il ine stesso della risposta punitiva al reato, facendogli perdere quella che nel diritto penale attuale
è la sua “funzione ancillare” rispetto alla pena, sostituendola completamente a questa. Tramontano, Percorsi di giustizia: verso una nuova modalità di risoluzione dei conlitti, in Rassegna Penitenziaria
e Criminologica, 2010, 2, richiamando i contributi di Van Ness e Strong, ha evidenziato i principali
argomenti su cui si fonda la proposta del movimento per la restitution: (a) la vittima è il soggetto
autenticamente colpito dal reato; (b) sono necessarie forme di pena meno intrusive, e comunque
alternative al carcere; (c) richiedere all’autore di reato di risarcire la vittima può avere un efetto
riabilitativo; (d) la restitution è relativamente facile da ottenere e garantire (ad esempio attraverso
azioni esecutive); (e) un adeguato risarcimento, reso in modo pronto e visibile, riduce istanze “vendicative” da parte di vittime e società civile.
34. Per una sintesi dell’oggetto dell’abolizionismo, cfr. Eusebi, Quale ogetto dell’abolizionismo
penale? Appunti nel solco di una visione alternativa della giustizia, in Studi sulla questione criminale, 2,
Roma, 2011, 81 ss.
249
i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
escludendo i crimini di una certa gravità e quelli contro interessi impersonali,
si potrebbe prevedere una giustizia riparativa sostitutiva di quella giurisdizionale penale in taluni settori e taluni reati laddove l’interesse privato condiziona
l’esercizio del diritto di punire statuale: si pensa all’ampio ambito dei reati a querela o istanza della persona ofesa, in cui la volontà della vittima già oggi incide
sull’inizio e prosecuzione dell’azione punitiva pubblica. Se a tale giustizia punitiva si sostituisce quella riparativa, l’interesse privato può essere ugualmente (o
meglio) garantito, poiché il processo riparativo dialogico, nell’impostazione dufiana, conserva tutte le funzioni proprie del diritto punitivo (alittive, dissuasive,
retributive, rieducative), ma garantendo alla vittima un ruolo sostanziale nella
responsabilizzazione del reo, che, nell’attuale sistema dei reati ad istanza privata,
è limitato alla sola condizione processuale.
Ad ogni modo, appare più opportuno concentrarsi non sul sistema, al ine di
veriicarne un’impossibile (o quantomeno diicile) sostituzione, anche solo per
alcuni settori delle previsioni criminali, ma sulla pena o, meglio, su quell’aspetto
della stessa che si è deinito “progetto” volto a segnare il percorso di risocializzazione dialogica, anche nell’ipotesi (non remota) in cui la vittima non voglia partecipare al programma di risocializzazione del reo o non riesca a superare il torto
subito e l’istinto vendicativo, mentre il reo abbia dato prova di comprensione del
danno conseguente al suo comportamento criminale e, dunque, di pentimento
e responsabilizzazione.
Riepilogando, la pena rieducativa è costituita da una sanzione proporzionata
alla colpevolezza del reo attraverso una misura temporale e di genere, che vada
cioè a neutralizzare uno o più aspetti della libertà personale del reo in ossequio
alla gravità del fatto, ino a quella isica che include tutti gli altri aspetti della vita
di relazione, secondo tempi determinati dal giudice della cognizione nei limiti
della cornice edittale. A tale sanzione deve essere aiancato un progetto di risocializzazione, secondo protocolli prestabili e personabilizzabili dal giudice, che
stabiliscano, se si vuole, le tappe del cammino di espiazione della sanzione, favorendo
il momento comunicativo con recupero della centralità della vittima e l’utilizzo
di strumenti riparativi. La pena rieducativa è, in deinitiva, «sanzione e progetto
di risocializzazione».
A questo punto, è opportuno identiicare gli strumenti riparativi che potrebbero essere utilizzati per la risocializzazione del reo, durante la fase esecutiva
della pena (rectius, del suo momento comunicativo), guardando alle esperienze
già implementate nella tradizione europea, ma anche in quella italiana.
6. La giustizia riparativa nella tradizione europea ed in quella italiana. La mediazione
penale come tratto comune delle magiori esperienze di giustizia riparativa in Europa.
Le consolidate esperienze anglosassone e francese e le nuove sperimentazioni nelle giovani
codiicazioni. Le forme di giustizia riparativa che si incentrano sull’incontro tra
250
appunti su pena e giustizia POST-CONTEMPORANEA
la vittima e l’autore, come la mediazione35, sono comuni a molti paesi europei e
vengono utilizzate, prevalentemente, nella fase precedente l’esercizio dell’azione
penale. Paesi come Austria, Norvegia e Gran Bretagna sono tra i primi in Europa
ad aver adottato dei programmi di giustizia riparativa.
L’indirizzo europeo allo sviluppo di tale forma di giustizia penale si rinviene,
certamente, nella raccomandazione relativa alla “Mediazione in materia penale”,
che invita gli Stati membri a tenere presente i principi generali in tema di mediazione, indicando le regole che devono disciplinare l’attività degli organi della
giustizia penale in relazione alla stessa, gli standards da rispettare per tale attività,
le indicazioni sulla qualiica dei mediatori e sulla loro formazione, il trattamento
dei casi individuali agli esiti della mediazione, le attività di ricerca e valutazione
che gli Stati membri dovrebbero promuovere sulla materia36.
Se vero che la mediazione costituisce uno degli strumenti della giustizia riparativa più utilizzato nel panorama europeo, è necessario menzionare anche solo
i meri esiti riparativi, deiniti, in particolare, dall’art. 3 della Risoluzione 2002/15
del Consiglio Economico e Sociale delle Nazioni Unite, avente ad oggetto i
«Principi base sull’uso dei programmi di giustizia riparativa in materia penale»,
come «responses and programmes such as reparation, restitution and community service, aimed at meeting the individual and collective needs and responsibilities of the parties
and achieving the reintegration of the victim and the ofender».
Nella Conferenza internazionale tenutasi a Greifswald (Germania) in data
4 e 5 maggio 2012, che si inserisce nel quadro del progetto Restorative Justice in
Penal Matters in Europe inanziato dalla Commissione Europea, nell’ambito del
programma Giustizia penale 2007-2013, si è avuta la possibilità di rappresentare
lo stato dell’arte della giustizia riparativa nelle esperienze nazionali europee,
utile per un’analisi comparativa, al ine di tracciare un’eventuale percorso comune37.
35. Peters, Victim-Ofender Mediation: Reality and Challenges, in Victim-Ofender Mediation in
Europe. Making Restorative Justice Work, European Forum for Victim-Ofender Mediation and Restorative Justice, Leuven, 2000, 11, secondo cui «Quasi ovunque in Europa la victim-ofender mediation
è considerata il modo migliore per raggiungere gli obiettivi della giustizia riparativa. Spesso non
si fa distinzione: la victim-ofender mediation è la giustizia riparativa e la giustizia riparativa rimane
limitata all’utilizzo della victim-ofender mediation».
36. Raccomandazione Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa n. R(99)19 adottata il
15 settembre 1999, § 4: «La médiation en matière pénale devrait être possible à toutes les phases de la
procédure de justice pénale».
37. Si farà riferimento all’importante resoconto delle relazioni svolte durante la Conferenza
da Flor, Mattevi, Giustizia riparativa e mediazione in materie penali in Europa, in www.penalecontemporaneo.it, ma anche allo studio comparato di Austria, Francia e Italia del Progetto MEDIARE,
Mutual exchange of data and information about restorative justice, Programma comunitario Grotius
II Penale, 2004.
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i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
6.1. L’area scandinava. Norvegia e Finlandia hanno sperimentato il processo mediativo già nei primi anni ottanta, giungendo solo nel primo caso ad un tempestivo riconoscimento legislativo, mentre la Danimarca ha dato vita a sperimentazioni solo a partire dal 1994, posticipando ino al 2010 ogni intervento
normativo.
Nell’esperienza danese, in particolare, l’attivazione della mediazione è devoluta alla polizia, senza che sia richiesto un previo esplicito riconoscimento di
responsabilità da parte del reo, salvo dover evidenziare che i maggiori problemi
pratici nell’applicazione dell’istituto si incontrano a causa dell’opposizione delle
vittime, che si riiutano frequentemente di sedersi al tavolo mediativo oppure,
una volta sedute, se ne allontanano con una certa facilità.
Per la Svezia, le esperienze di mediazione sono in progressiva crescita, soprattutto in ambito minorile, sempre a partire dalla ine degli anni ottanta, per
giungere, nel 2002, ad una disciplina, ancora non completa, che detta alcune
linee generali, capaci tuttavia di supportare uno sviluppo omogeneo dell’istituto
su tutto il territorio nazionale.
In Finlandia, la giustizia riparativa ha raggiunto un livello altissimo di applicazione, con un importante successo delattivo, ma anche conciliativo, ove si pensi
che la maggior parte degli esperimenti si conclude con un accordo risarcitorio,
o solo con semplici scuse. La mediazione viene attivata in fase di indagini dal
pubblico ministero o dalla polizia, che – quando ritengono che il caso sia adatto
alla procedura (sono normalmente esclusi i reati violenti) – informano le parti di
questa facoltà. Se l’esito è positivo si aprono due soluzioni, sul versante procedimentale: (a) se il reato è procedibile a querela, questa viene ritirata, impedendo la
prosecuzione del giudizio; (b) se, invece, il reato è procedibile d’uicio, il pubblico ministero può archiviare o chiedere al giudice che dell’accordo si tenga conto
ai ini dell’attenuazione della pena.
6.2. L’area centro-orientale. Per l’area centro-orientale europea, si osserva una notevole disomogeneità di sviluppo della giustizia riparativa, dovuta, in particolare,
ai ritardi nella sua implementazione.
In Bulgaria, le pratiche riparative – intendendo con queste essenzialmente
la mediazione penale – sono ampiamente conosciute ed apprezzate in ambito
scientiico come strumenti integrativi della giustizia tradizionale, ma senza un
particolare successo empirico, nonostante il Bulgarian Mediation Act del 2004,
con il quale la mediazione è stata introdotta in ambito civile e familiare, ha riconosciuto la possibilità di inserire nell’ordinamento anche una disciplina delle
pratiche mediative nel rapporto tra autore e vittima del reato, senza tuttavia far
seguito alcuna concreta iniziativa attuativa del legislatore in materia penale ed il
nuovo codice di procedura penale del 2005, entrato in vigore l’anno successivo,
ha del tutto omesso di disciplinare l’istituto.
252
appunti su pena e giustizia POST-CONTEMPORANEA
Per la Bosnia-Erzegovina e la Croazia, l’implementazione di sistemi di giustizia riparativa è resa diicoltoso dal principio di obbligatorietà dell’azione penale,
anche se la mediazione penale rappresenta una misura di diversion molto importante nella fase pre-processuale (attraverso una sorta di sospensione condizionata della procedibilità), gestita prevalentemente da organismi non governativi e da
altri professionisti esterni all’organizzazione giudiziaria.
L’esperienza ungherese è relativamente breve, in quanto, solo dall’inizio del
2007, è stata introdotta nel codice di procedura penale una disciplina speciica
della mediazione, che può essere avviata, in particolare, in fase pre-processuale,
su istanza della persona sottoposta alle indagini o della vittima, e con il loro
consenso, nei procedimenti penali riguardanti reati contro la persona, contro la
sicurezza dei trasporti o contro il patrimonio per i quali è prevista una pena non
superiore a cinque anni di reclusione. Va segnalata la nozione di vittima in questo
contesto che è molto ampia, comprendendo anche le persone giuridiche, ma la
prospettiva futura è quella di pensare ad un’applicazione della mediazione addirittura ad ipotesi in cui la vittima non sia identiicata, con l’efetto che tale istituto assumerebbe una speciica funzione di riparazione della frattura istituzionale
che il reato a perpetrato nella collettività (rectius, ordinamento). L’accesso alla
mediazione presuppone l’ammissione di responsabilità del reo, ovvero una vera
e propria confessione dei fatti commessi. L’esito positivo della mediazione può
condurre all’archiviazione del procedimento. In ogni caso, comunque, l’esito anche negativo non può essere utilizzato contro la persona sottoposta alle indagini.
In generale, inine, le dichiarazioni rilasciate dalle parti nell’ambito del procedimento di mediazione non possono assumere valore probatorio.
È interessante, poi, l’esperienza della Lettonia, dove la mediazione in materia
penale si è imposta nella pratica grazie soprattutto all’operato delle organizzazioni non governative e dello State Probation Service, un istituto pubblico, dipendente
dal Ministero della Giustizia, che si occupa della risocializzazione dei condannati,
in particolare a lavori di pubblica utilità (grandemente impiegati nel sistema penale). L’attenzione al tema della giustizia riparativa ha suscitato diverse proposte di
riforma, tra le quali si deve menzionare quella rivolta ad inserire tra i più tradizionali ini della pena anche la riparazione, deinita più precisamente come restoration
of justice.
Per la Polonia, l’introduzione della mediazione nei codici penale e di procedura penale del 1997 ha assunto un signiicato politico di rinnovamento e rottura
con il passato e, comunque, ha, in qualche misura, avuto un discreto successo
nella pratica, anche per la fase esecutiva della pena38.
38. Art. 320 c.p.c. polish: Ǥ 1. If it is relevant in connection with a respective motion to the court,
the state prosecutor may, on his own initiative, or with the consent of parties, refer the case to a trustworthy
institution or person in order to conduct a mediation procedure between the suspect and the injured. § 2.
253
i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
La mediazione penale nell’ordinamento sloveno, introdotta nel 1999, ha riscosso un notevole successo soprattutto nella fase delle indagini preliminari, potendo portare all’archiviazione del procedimento in ipotesi di esito positivo.
6.3. L’area anglosassone. Le esperienze dell’Inghilterra e del Galles sono le più interessanti, anche perché gli strumenti della giustizia riparativa (come i reparation
orders) sono ampiamente impiegati, in ipotesi di reati lievi ed imputati non recidivi, in ambito minorile, anche grazie al Crime and Disorder Act del 1998, mentre
– per quanto riguarda gli adulti – sono ancora del tutto privi di supporto normativo ed hanno cominciato solo timidamente ad apparire, sempre per reati di lieve
entità, dal 2003, attraverso il conditional caution, un ammonimento condizionato,
anche a pratiche riparative, che può formulare il pubblico ministero. La vittima viene direttamente coinvolta nella deinizione della riparazione, quando, in
particolare, per la natura della stessa, si impone come necessario od opportuno
il suo consenso. Qualora, invece, l’ammonimento segua lo svolgimento di un
processo riparativo, le condizioni possono rilettere l’esito dello stesso, attivato
autonomamente dalle parti. Abbastanza frequente – anche se non difusa omogeneamente sul territorio – è, infatti, la mediazione sperimentata, unitamente
ad alcuni schemi di conferencing, all’esterno del sistema uiciale di giustizia penale e gestita prevalentemente da associazioni di volontari che lavorano in stretto
contatto con il governo locale, la polizia ed il servizio sociale. Le modalità e gli
efetti della collaborazione tra gli enti variano profondamente e sono in gran
parte rimessi alla discrezionalità del pubblico ministero e della polizia. Il processo penale per il resto rimane intrinsecamente retributivo nella pratica, anche se
in sentenza il giudice deve ordinare al condannato di risarcire la vittima per ogni
ofesa, perdita o danno subito come conseguenza del reato o motivare qualora
si astenga dall’ordine.
6.4. L’area centro-meridionale. In Austria, la giustizia riparativa, dapprima, sperimentato in alcuni centri sin dagli anni ottanta, successivamente è stata normativamente introdotta, prima in ambito minorile (1988) e, successivamente, nel
codice di procedura penale (1999), al ine di consentire la deprocessualizzazione
in un ordinamento altrimenti vincolato al principio di obbligatorietà dell’azione
penale. Le condizioni stabilite dalla legge per accedere alla diversion sono le se-
Having conducted the mediation proceedings, a trustworthy institution or person shall prepare a report on
its course and results, which the state prosecutor shall take into account when deciding on submission to the
court of the respective motion referred to in § 1. § 3. The Minister of Justice shall set forth, by ordinance,
conditions to be met by institutions and persons authorized to conduct mediation, the scope and terms of
giving them access to the case iles, as well as the principles and procedures for preparing reports on the course
and results of the mediation proceedings».
254
appunti su pena e giustizia POST-CONTEMPORANEA
guenti: l’indagato deve avere un’alta probabilità di condanna; l’indagato deve essere consapevole di aver fatto qualcosa di sbagliato (ma non è necessaria la piena
confessione); l’indagato non deve aver commesso un reato che richiede l’applicazione di misure di prevenzione generale. Questa condizione si veriica nel caso
in cui l’indagato che chiede di ricorrere alla mediazione sia già stato condannato
per altri reati, nell’anno precedente (la durata del periodo può variare); la vittima
ed i suoi interessi devono essere tenuti in adeguata considerazione. In Austria, le
forme di diversion costituiscono un’alternativa alla sanzione penale tradizionale.
In generale, il Pubblico Ministero utilizza la mediazione penale (Außergerichtlicher Tatausgleich) come forma di archiviazione. Tuttavia la mediazione penale
può essere utilizzata anche come semplice circostanza attenuante, ovvero come
condizione per la concessione della messa alla prova o del rilascio sulla parola.
L’ordinamento belga conosce ampiamente tutte le forme della giustizia riparativa, in tutte le sue forme. La mediazione penale può dirsi indirettamente
riconosciuta dal legislatore belga con la legge del 1994, che ha introdotto il nuovo art. 216-ter c.p.p., per i reati per cui il pubblico ministero ritiene che si possa
applicare la pena non superiore a due anni di reclusione. Il pubblico ministero,
dunque, convoca l’indagato, invitandolo a indennizzare o riparare il danno causato dalla condotta vietata. Il pubblico ministero, se del caso, può convocare,
altresì, la vittima, al ine di organizzare una mediazione. A diferenza di quasi
tutti gli altri paesi europei, dove la giustizia minorile ha rappresentato il terreno
privilegiato di sperimentazione delle pratiche riparative, in Belgio, questa si è
difusa soprattutto nella giustizia ordinaria. L’esito positivo dell’invito conciliativo determina «l’extinction de l’action publique». Una diversa forma di mediazione,
invece, è stata introdotta – dopo una compiuta sperimentazione – solo nel 2005,
per i reati più gravi, con l’obiettivo di far evolvere l’applicazione dello strumento,
sottraendolo ad una spiccata funzionalizzazione diversiva. L’esito positivo del
processo mediativo può essere considerato dal giudice esclusivamente in sede di
commisurazione della pena.
L’ordinamento spagnolo non conosce l’istituto della mediazione penale, certamente nell’ambito della giustizia ordinaria, mentre, a partire dal 2000, ha fatto
capolino nella giustizia minorile. Ad ogni modo, vi sono degli istituti che possono essere ricondotti alla giustizia riparativa. Innanzitutto, è previsto un tentativo
di conciliazione preliminare obbligatorio, in ipotesi di procedimenti per difamazione ed ingiuria. Poi, il codice penale riconosce alcuni beneici, in termini
soprattutto di attenuazione della pena o di sua sospensione, qualora siano state
poste in essere condotte riparative. I reati procedibili a querela rappresentano il
vero terreno di possibile sperimentazione della mediazione e, così, sfruttando i
piccoli spazi lasciati dal sistema alla giustizia riparativa, in alcune realtà locali, su
iniziativa dell’amministrazione, sono sorti dei servizi di mediazione, che operano sperimentalmente a favore di alcune Corti.
255
i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
Inine, la Francia ha un’antica tradizione di giustizia riparativa che risale ai tempi della Rivoluzione francese, quando fu istituita la igura dello jude de paix39. L’ordinamento penale francese utilizza misure di riparazione, tra cui la mediazione, già a
partire dagli anni settanta-ottanta. La scelta di sperimentare forme di giustizia riparativa è dovuta, da un lato, al fallimento dell’apparato giudiziario e, dall’altro, alla
perdita della tradizionale capacità di gestire i conlitti da parte dei gruppi più vulnerabili sul piano socio economico. L’emergere negli anni Ottanta di un forte domanda di sicurezza sociale, collegata all’incremento dell’urbanizzazione, al degrado
connesso delle periferie e delle grandi città, a una società sempre più multietnica,
porta alla creazione delle Maison de justice et du droit, le strutture che gestiscono la
mediazione penale. Tali strutture possiedono diverse caratteristiche, poiché rappresentano un luogo terzo rispetto all’aula giudiziaria, pur essendo create su impulso del Procuratore della Repubblica; svolgono una funzione di supporto ai servizi e alle associazioni che agiscono sul territorio a tutela del cittadino e a sostegno
delle situazioni di disagio (le associazioni di aiuto alle vittime, le associazioni per
la mediazione, i servizi sociali territoriali etc.). L’accesso alla mediazione penale è,
comunque, agevolato dalla mancanza del principio dell’obbligatorietà dell’azione
penale, con l’efetto che le parti non devono obbligatoriamente ricorrere all’autorità giudiziaria per attivare il procedimento di mediazione. La mediazione si attua
per reati ed infrazioni che prevedono pene inferiori ad un mese e che sono quasi
sempre causate da conlitti in ambito familiare, lavorativo, di vicinato, tra persone,
quindi che si conoscevano già prima del reato e che saranno costrette a rincontrarsi. Tale strumento riparativo è normalmente avviato all’interno dell’ordinaria
procedura penale, sia dal pubblico ministero, che dalle parti, ma non è sottoposto
al controllo giudiziario. La conduzione della mediazione è aidata o alle Maisons de
justice ed du droit, che dipendono direttamente dalla Procura (mediazione non delegata o retenue), o alle associazioni per le vittime40, che stipulano un apposito accordo con la Procura della Repubblica competente (mediazione delegata o delegue).
6.5. L’esperienza italiana. Si è già accennato alla diicoltà costituzionale che incontra nel nostro sistema l’ipotesi di una sostituzione della giustizia tradizionale
con quella riparativa o, meglio, con lo strumento della mediazione. È venuto ora
il momento di approfondire la relativa problematica.
Tale istituto parrebbe contrastare con il principio di obbligatorietà dell’azione
penale, previsto dall’art. 112 Cost., poiché, si dice, la conciliazione tra le parti
39. Un esperimento, quello del Giudice di pace, rivelatosi fallimentare a causa di un apparato
di giustizia troppo burocratizzato. Nel 1958 lo jude de paix viene abolito e sostituito dalla igura del
conciliateur, che mantiene competenze riparative/conciliative soprattutto in ambito civile.
40. Le principali associazioni sul territorio francese sono: Istitut National d’aude aux victimes et
de la Mediacion (Inavem); Comité de Laison des Association de contrôle judiciarie (Clcj).
256
appunti su pena e giustizia POST-CONTEMPORANEA
non fa venire meno il disvalore del comportamento vietato che non può coincidere (sempre) con l’interesse particolare della vittima. Fatta eccezione, dunque,
per i reati perseguibili a querela della persona ofesa ed in relazione a solo quelli
per cui la stessa è rimettibile, è evidente che l’intervenuta conciliazione tra autore del fatto e vittima implicherebbe il certo arresto del procedimento penale.
La questione, dunque, si pone in relazione ai reati procedibili ex oicio, per
cui l’iniziativa pubblica obbligatoria è regolata dal criterio dell’idoneità degli elementi indiziari per sostenere l’accusa in giudizio, prevista dall’art. 125 disp. att.
c.p.p., con l’efetto che l’archiviazione non può essere richiesta sulla base di scelte conciliative, che non possono incidere sulla prova del fatto commesso. Non
paiono sostenibili le soluzioni proposte relativamente ad un’applicazione «non
rigorosa del principio di obbligatorietà»41 che, argomentando dalla giurisprudenza costituzionale42, fanno leva sull’ofensività in concreto ex post, poiché «la
riparazione del danno riduce il disvalore sociale della condotta, diminuendo –
qualora non riesca, addirittura, ad azzerarle – le conseguenze pregiudizievoli»43,
optandosi meglio su soluzioni di mediazione processuale che vadano a sostituire
la pena senza escludere il processo e, dunque, facendo salvo il principio di cui
all’art. 112 Cost.
Ora, in ordine agli strumenti riparativi vigenti nel nostro ordinamento, va
evidenziato che la mediazione è stata introdotta nella prassi, conformemente alla
tradizione europea, innanzitutto nel sistema minorile, in forza del disposto degli
artt. 9 e 27 D.P.R. 448/1988 per la fase delle indagini preliminari, ed in virtù degli
artt. 27 e 28 D.P.R. 448/1988, per le fasi successive44.
41. Patanè, Ambiti di attuazione di una giustizia conciliativa alternativa a quella penale: la mediazione, in Giostra, Illuminati (a cura di), Il giudice di pace nella giurisdizione penale, Torino, 2001, 27.
42. Corte cost. n. 88 del 1991, secondo cui «la regola che l’art. 125 del d.lgs. 28 luglio 1989,
n. 271 (art. 125 disp. att. c.p.p.) (norma di attuazione del nuovo codice di procedura penale) detta
per il pubblico ministero, quando deve decidere se iniziare o meno un’azione penale, consiste in
una valutazione degli elementi acquisiti non più nella chiave dell’esito inale del processo, (come
già previsto nel testo dell’art. 115 del progetto preliminare) bensì nella chiave della loro attitudine
a giustiicare il rinvio a giudizio nel senso, cioè, che la valutazione degli elementi di prova acquisiti durante le indagini preliminari diventa funzionale non alla condanna bensì alla sostenibilità
dell’accusa. Così come formulata, la norma è, in deinitiva, la traduzione in chiave accusatoria del
principio di non superluità del processo, in quanto il dire che gli elementi acquisiti non sono idonei a sostenere l’accusa equivale a dire che, sulla base di essi, l’accusa è insostenibile e che, quindi,
la notizia di reato, è, sul piano processuale, infondata. L’impossibilità di sostenere la prospettazione
accusatoria deve essere quindi chiara e non equivoca, coerentemente all’univocità dell’infondatezza (“manifesta”) che connota la formula usata nell’art. 2, direttiva 50, della legge di delega 16
febbraio 1987, n. 81».
43. Tigano, Giustizia riparativa e mediazione penale, in Aleo, Barone (a cura di), Quaderni del
dipartimento di studi politici 2/2007, Milano, 2007, 38.
44. Senza intenzione di completezza, in dottrina, si rinvia a Cesari, Sub art. 27 d.P.R. 448/1988,
in Giostra (a cura di), Il processo penale minorile, Milano, 2009; Id., Sub artt. 28-29 d.P.R. 448/1988,
257
i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
Per quanto riguarda, invece, la giustizia ordinaria, il legislatore italiano ha
introdotto lo strumento della mediazione nel sotto-sistema della giurisdizione
penale di pace, in ossequio a quanto previsto dall’art. 29 d.lgs. 274/2000, che può
essere disposta dal giudice onorario in presenza di reati procedibili a querela di
parte, in sede di udienza di comparizione, avvalendosi di centri e strutture pubbliche o private presenti sul territorio, qualora tale attività possa favorire la conciliazione tra autore del reato e vittima e, dunque, con una chiara inalizzazione
delattiva volta alla caducazione dell’azione penale per volontà della vittima (rimessione della querela)45.
Al pari di quanto previsto dal sistema minorile, l’istituto della particolare tenuità del fatto è previsto come causa di improcedibilità dell’azione penale dall’art.
34 d.lgs. 274/200046 e va formulata nella coesistenza di quattro parametri, di cui
due inerenti al fatto di reato (l’esiguità del danno o del pericolo ed il grado della
colpevolezza) e due inerenti all’agente (l’occasionalità della condotta e le esigenze
di vita), oltre all’assenza di un requisito negativo: la carenza di interesse della persona ofesa alla prosecuzione del procedimento. Tale interesse negativo non può
essere «generico ed imprecisabile»47, ma andrebbe correlato alle previsioni di cui
agli artt. 29 e 35 d.lgs. 274/2000, nel senso che la vittima può opporsi alla declaratoria di improcedibilità per tenuità del fatto nell’ipotesi in cui non si sia conciliata
con l’autore del reato o non abbia ottenuto alcun risarcimento. La scelta del le-
ibid.; Colamussi, La sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto: punti controversi della
disciplina e prospettiva di riforma, in Cass. pen., 1996, 1669 ss.; Di Nuovo, Grasso, Diritto e procedura
penale minorile, Milano, 2005; Giannino, Il processo penale minorile, Padova, 1997; Palomba, Il sistema
del processo penale minorile, Milano, 2002, 508 ss.; Larizza, Le “nuove” risposte istituzionali alla criminalità minorile, in Presutti, Palermo Fabris (a cura di), Diritto e procedura penale minorile, Milano,
2002, 249 ss.; Pansini, Udienza preliminare, in ibid., 496 ss.; Sfrappini, Sub art. 27 D.P.R. n. 448/1988,
in Giostra (a cura di), Il processo penale minorile, Commento al D.P.R. 448/1988, Milano, 2009; Musacchio, Manuale di diritto minorile. Proili dottrinali e giurisprudenziali, Padova, 2007; Iasevoli, Diritto
all’educazione e processo penale minorile, Napoli, 2012.
45. In dottrina, Sotis, La mediazione nel sistema penale del giudice di pace, in Mannozzi (a cura di),
Mediazione e diritto penale, dalla punizione del reo alla composizione con la vittima, Milano, 2004, 47 ss.
46. Nella letteratura, senza pretese di completezza, Bartoli, L’irrilevanza penale del fatto. Alla
ricerca di strumenti di depenalizzazione in concreto contro la ipertroia c.d. “verticale” del diritto penale,
in Riv. it. dir. proc. pen., 2000, 1473 ss.; Caprioli, Melillo, Ruggieri, Santalucia, Sulla possibilità di
introdurre nel processo penale ordinario l’istituto della particolare tenuità del fatto, in Cass. pen., 2006,
3496 ss.; Cerqua, Improcedibilità per particolare tenuità del fatto, in Gpace, 2003, 4, 326 ss.; Diotallevi,
L’irrilevanza penale del fatto nelle prospettive di riforma del sistema penale, in Cass. pen., 1998, 2806 ss.;
Vinciguerra, Appunti sull’inofensività, la tenuità dell’ofesa e la tenuità del reato in Italia nel secondo
novecento, in Studi in onore di Giorgio Marinucci, 2006, 2077 ss.; Salcuni, Esiguità e reati di pericolo
astratto: intorno all’applicabilità dell’art. 34 d.lgs. n. 274 del 2000, in Cass. pen., 2007, 2901 ss.; Sgubbi,
L’irrilevanza del fatto quale strumento di selezione dei fatti punibili, in Picotti, Spangher (a cura di), Verso
una giustizia penale “conciliativa”, Milano, 2002, 159 ss.
47. Bartoli, Le deinizioni alternative del procedimento, in Dir. pen. proc., 2001, 180.
258
appunti su pena e giustizia POST-CONTEMPORANEA
gislatore non è condivisibile, ove si guardi poi alla notevole diferenza tra quanto
previsto per la fase delle indagini preliminari, in cui il decreto di archiviazione
per tenuità del fatto può essere adottato anche nell’ipotesi di opposizione della
persona ofesa, e quanto stabilito per la fase dibattimentale, ove tale opposizione
costituisce un vero e proprio veto alla declaratoria di improcedibilità, che, ovviamente, ne inicia la stessa potenzialità delattiva, ma anche riparativa. Ed invero,
tale opposizione della vittima deve mirare solo a sollecitare il reo ad assumere un
atteggiamento conciliante e di comprensione nei confronti della vittima, al ine di
evitare comportamenti di indiferenza nei confronti dell’ofesa perpetrata48.
La condotta riparatoria, già prevista, fra l’altro, nel sistema della responsabilità da reato degli enti collettivi e nell’ipotesi di cui all’art. 341-bis c.p.49, assume
una particolare importanza nel microsistema di pace, in quanto l’art. 35 d.lgs.
274/2000 disciplina una deinizione alternativa del procedimento con inalità
delattive ed esigenze di ricomposizione tra autore e vittima, che determina,
nell’ipotesi afermativa, l’estinzione del reato50 o, secondo una parte della dottrina, nonostante il tenore letterale della disposizione, tale condotta conigura una
causa sopravvenuta di non punibilità51.
Allo stesso modo, un ruolo importante è stato assunto dal lavoro di pubblica utilità, sanzione riparatoria in senso ampio, da poco introdotta come sanzione sostitutiva della pena detentiva o pecuniaria, anche per la guida in stato di
ebbrezza. Originariamente previsto solo dall’art. 73, co. 5-bis d.P.R. 309/1990,
consiste nella prestazione di un’attività non retribuita a favore della collettività
48. Tale norma è stata oggetto di censure di illegittimità proprio in ordine al requisito negativo della non-opposizione della vittima, ma la Corte costituzionale le ha dichiarate tutte inammissibili senza entrare nel merito delle censure. Cfr. Corte cost. n. 34 del 2003; Id. n. 63 del 2007.
49. Nel nostro ordinamento vi sono diverse disposizioni di legge che da condotte riparatorie
o risarcitorie fanno discendere degli efetti in ordine al trattamento sanzionatorio: e così, rispetto
alla commisurazione della pena si guardi agli artt. 62, co. 1, n. 6 e 133, co. 2, n. 3, c.p.; ancora in
merito all’esecuzione della pena, l’art. 47, co. 7, o.p.; o inine, in ordine all’an dell’esecuzione, gli
artt. 165, co. 1, e 176, co. 4, c.p.
50. In dottrina, fra i tanti, Bernardi, Aspetti penali sostanziali. 2. Giudice di pace e reati nella
legislazione speciale, in Dir. pen. proc., 2011, 172 ss.; Cerqua, La rilevanza delle condotte riparatorie
dell’imputato con riferimento ai reati di pericolo, in Gpace, 2009, 79 ss.; Eusebi, Strumenti di deinizione
anticipata del processo e sanzioni relative alla competenza penale del giudice di pace: il ruolo del principio conciliativo, in Picotti, Spangher (a cura di), Competenza penale del giudice di pace e “nuove” pene
non detentive, Milano, 2003, 55 ss; Flora, Risarcimento del danno e conciliazione: presupposti e ini di
una composizione non punitiva dei conlitti, in Picotti, Spangher (a cura di), Verso una giustizia penale
conciliativa, Milano, 2002, 149 ss.; Galatini, La disciplina processuale delle deinizioni alternative del
procedimento innanzi al giudice di pace, in ibid., 217 ss.; Giunta, Un primo bilancio applicativo della
giurisdizione penale di pace, in Gpace, 2006, 80 ss.; Lunghini, La competenza penale del giudice di pace:
l’estinzione del reato conseguente a condotte riparatorie, in Gpace, 2001, 2, 240 ss.
51. Ex multis, Guerra, L’estinzione del reato conseguente a condotte riparatorie, in Scalfati (a cura
di), Il giudice di pace. Un nuovo modello di giustizia penale, Milano, 2001, 506.
259
i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
da svolgere presso lo Stato, le regioni, le province, i comuni o presso enti e organizzazioni di assistenza sociale o volontariato52. Gli artt. 186 co. 9-bis, e 187, co.
8-bis C.d.S., così come modiicati, prevedono che la pena detentiva e pecuniaria
per la guida in stato di ebbrezza può essere sostituita, se non vi è opposizione da
parte dell’imputato, con quella del lavoro di pubblica utilità di cui all’articolo 54
d.lgs. 274/2000, secondo le modalità ivi previste e consistente nella prestazione
di un’attività non retribuita a favore della collettività da svolgere, in via prioritaria, nel campo della sicurezza e dell’educazione stradale presso lo Stato, le regioni, le province, i comuni o presso enti o organizzazioni di assistenza sociale e di
volontariato, o presso i centri specializzati di lotta alle dipendenze53. La sanzione
viene disposta dal giudice solo su richiesta dell’imputato54, in armonia con quanto previsto dall’art. 4 Convenzione EDU55.
7. Note conclusive sul ruolo della vittima nel sistema penale europeo ed il risarcimento come strumento riparativo in funzione solidaristica. La giustizia riparativa e, in
particolare, il ruolo della vittima nell’accertamento del reato (e non solo) sono
evidenziati nella recente direttiva 2012/29/UE del 25 ottobre 2012, preceduta da
52. La prestazione di lavoro, ai sensi del decreto ministeriale 26 marzo 2001, viene svolta a
favore di persone afette da HIV, portatori di handicap, malati, anziani, minori, ex detenuti o extracomunitari; nel settore della protezione civile, nella tutela del patrimonio pubblico e ambientale o
in altre attività pertinenti alla speciica professionalità del condannato.
53. La pena in questione è applicata all’imputato per i reati previsti dall’art. 73, co. 5, d.P.R.
309/1990 (produzione, traico e detenzione illecita di sostanze stupefacenti di lieve entità), nonché
nell’ipotesi generale di cui all’art. 105 l. 689/1981, quando non può essere concesso il beneicio
della sospensione condizionale della pena; viene comminata in alternativa alla pena detentiva e
alla pena pecuniaria, con le modalità previste dall’art. 54 del decreto legislativo 28 agosto 2000 n.
274. La legge 9 agosto 2013, n. 94 ne ha potenziato il ricorso per i tossicodipendenti introducendo il
co. 5-ter che prevede che la misura possa applicarsi anche per un reato diverso da quelli previsti dal
co. 5, purché commesso per una sola volta, da persona tossicodipendente o da assuntore abituale
di sostanze stupefacenti o psicotrope e in relazione alla propria condizione di dipendenza o di assuntore abituale, per il quale il giudice inligga una pena non superiore ad un anno di detenzione.
54. Ma anche del difensore munito di procura speciale, Cass. pen. Sez. III, 3 febbraio 2010,
n. 16849.
55. Nel senso di una necessaria collaborazione del reo per scopi di risocializzazione, Aprile,
La competenza penale del giudice di pace, Milano, 2007, 292; V. Zagrebelsky, Solo un piccolo catalogo di
reati supera la portata stretta della delega, in D&G, 2000, 31, 6. Si ritiene che qualora il condannato
chieda di poter svolgere il lavoro di pubblica utilità, il giudice sia tenuto ad applicare tale pena, in
luogo della permanenza domiciliare, che per un verso presenta più marcati caratteri di alittività,
andando ad incidere sulla libertà personale del reo in maniera più estesa a diversi aspetti della stessa, e, dall’altro, la stessa è sprovvista di positive attitudini risocializzanti. «Assecondare la richiesta
del condannato che dimostra “un’autentica volontà di risocializzazione” corrisponde tra l’altro alla
logica della mediazione cui è ispirato il sottosistema del giudice di pace». Cfr. Leoncini, Le sanzioni,
in Dir. pen. proc., 2001, 198; Manozzi, La giustizia senza spada, Milano, 2003, 314 ss.
260
appunti su pena e giustizia POST-CONTEMPORANEA
un’ampia elaborazione normativa a livello europeo ed internazionale56, adottata
in ossequio a quanto previsto dall’art. 82, § 2, TFUE che attribuisce alla competenza eurounionista i diritti delle vittime della criminalità57. In tale prospettiva,
la direttiva contempla diversi strumenti riparativi oltre alla mediazione penale,
contenendo una deinizione di giustizia riparativa come qualsiasi procedimento
che permette alla vittima e all’autore del reato di partecipare attivamente, previo consenso libero ed informato, alla risoluzione delle questioni risultanti dal
reato con l’aiuto di un terzo imparziale. L’indirizzo tracciato dalla disposizione
europea è quello di individuare le condizioni perché le vittime possano giovarsi
di servizi di giustizia riparativa (tra i quali comprende la mediazione, il dialogo
esteso ai gruppi parentali e i consigli commisurativi), apprestando garanzie volte
ad evitare la vittimizzazione secondaria e ripetuta, e l’intimidazione58.
La giustizia riparativa e il precauzionismo59, ma la stessa predisposizione di una
tutela penale della prevenzione, volta ad evitare vittime, come l’indirizzo della giurisprudenza convenzionale sull’elaborazione degli obblighi positivi di penalizzazione60, sono un carattere innovativo del diritto penale contemporaneo, rispetto a quello tradizionale che ruotava intorno al solo autore del reato ed alla punizione di comportamenti, di regola, dannosi61. Oggi, il percorso di avocazione della tutela dei diritti ofesi, da parte del sistema penale, è giunto ad un punto di (necessaria) inversione:
56. Giuffrida, Verso la giustizia riparativa, in Mediares, 3, 2004 elenca tutta l’ampia normativa
di indirizzo europeo in subiecta materia, succedutesi sino alla direttiva appena menzionata.
57. Per un generale inquadramento delle fonti internazionali ed europee in materia di tutela
della vittima, senza alcuna intenzione di completezza, Aimonetto, La valorizzazione del ruolo della
vittima in sede internazionale, in Giur. it., 2005, 1327 ss.; Armone, La protezione delle vittime dei reati
nella prospettiva dell’Unione europea, in Diritto penale europeo e ordinamento italiano, Milano, 2006, 99
ss.; Id., La protezione delle vittime dei reati nello spazio giudiziario europeo: prospettive e paradossi all’indomani del Trattato di Lisbona, in FI, 2011, 204 ss.; Del Tufo, La tutela della vittima in una prospettiva
europea, in Dir. pen. proc., 1999, 889 ss.; Id., Linee di politica criminale europea e internazionale a protezione della vittima, in QG, 2003, 705 ss; Id., La vittima di fronte al reato nell’orizzonte europeo, in Fiandaca,
Visconti (a cura di), Punire Mediare Riconciliare. Dalla giustizia penale internazionale all’elaborazione
dei conlitti individuali, Torino, 2009, 107 ss.; Gamberini, Les politiques supranationales européennes ou
l’âme ambiguë de l’harmonisations, in Giudicelli-Delage, Lazerges (a cura di), La victime sur la scène
pénale en Europe, Paris, 2008, 159 ss.; Lanthiez, La clariication des fondaments européens des droits des
victimes, in ibid., 145 ss.; Sanz-Dìez de Ulzurrun Lluch, La posición de la víctima en el derecho comparado y en la normativa de la Union europea, in González González (a cura di), Panorama actual y i
perspectivas de la victimología: la victimología y el sistema penal, Madrid, 2007, 137 ss.
58. Conigliaro, La nuova direttiva europea a tutela delle vittime da reato. Una prima lettura della
direttiva 2012/29/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, in www.penalecontemporaneo.it, 6 del dattiloscritto.
59. Tanto è acutamente evidenziato da V. Valentini, Diritto penale intertemporale, cit., 9.
60. Fra i tanti, sul punto, Bestagno, Diritti umani e impunità. Obblighi positivi degli Stati in materia penale, Milano, 2003, 149 ss.
61. Venafro, Brevi cenni introduttivi sull’evoluzione della tutela della vittima nel nostro sistema penale, in Venafro, Piemontese (a cura di), Ruolo e tutela della vittima in diritto penale, Torino, 2004, 12.
261
i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
dall’avocazione statale della tutela della vittima che aveva portato alla sua completa
marginalizzazione e spersonalizzazione62, infatti, si è passati ad un indirizzo opposto
caratterizzato dal re-ingresso della vittima nell’iter di responsabilizzazione del reo e,
come visto, di sua risocializzazione, come una sorta di restituzione della gestione
del conlitto nelle mani dell’ofeso. È un’evidenza che «connota in maniera netta
il diritto penale moderno in contrapposizione al passato: le necessità delle vittime
divengono “visibili” e assurgono in qualche modo a funzione della stessa giustizia
penale»63. A ben guardare, comunque, il re-ingresso della vittima nella gestione del
conlitto attraverso gli strumenti riparativi ha il ine di giovare, non solo, alla stessa
vittima, escludendo la relativa marginalizzazione o vittimizzazione secondaria, ma
anche al reo, che vede così favorirsi il percorso di risocializzazione64.
Ma l’attenzione dell’ordinamento tutto proteso verso la vittima, appare evidenziata anche dall’attribuzione al risarcimento del danno soferto di una sorta
di funzione pubblica, così come, un tempo, propugnato dalla scuola positiva, che
per prima ha posto interesse sul terzo protagonista della giustizia penale65, individuando nel risarcimento del danno (appunto) l’unico rimedio attraverso il quale
lo Stato possa attuare una tutela immediata a favore dell’ofeso66. In tal maniera,
il pregiudizio subito dal singolo è ristorato dalla comunità che non ha saputo
o potuto evitare la commissione del reato. Lo strumento risarcitorio, pertanto,
assume un evidente connotato riparativo, poiché inalizzato a restituire alla vittima, per scopo solidaristico, il pregiudizio patito e, comunque, reinserendo la
vittima in una posizione di tutela e di riguardo da parte dell’ordinamento. Così,
certamente, si favorisce la partecipazione della persona ofesa al percorso di risocializzazione dell’autore del reato, ma, ugualmente, non si discrimina il reo
in condizioni economiche disagiate, che, diversamente, vedrebbe venir meno la
possibilità di un positivo reingresso in società, non avendo l’occasione (incolpevole) di soddisfare la vittima dal punto di vista restitutorio, a diferenza di quanto
potrebbe fare il reo in condizioni economiche vantaggiose67. La previsione, dun62. Bovino, Problemas de derecho procesal penal contemporàneo, Buenos Aires, 1998, 71 ss.; Hassemer, Persona, mundo y responsabilidad. Bases para una teorìa de la imputaciòn en el Derecho penal,
Bogotà, 1999, 110 ss.
63. Cornacchia, La vittima nel diritto penale contemporaneo. Tra paternalismo e legittimazione del
potere coercitivo, Roma, 2012, 37.
64. Per la normativa italiana riparativa, già evidenziata infra § 5.5, si rinvia a Mannozzi, Mediazione e diritto penale. Dalla punizione del reo alla composizione della vittima, Milano, 2004.
65. Ex multis, Ferri, Principi di diritto criminale, Torino, 1928, 581.
66. Garofalo, Riparazione alle vittime del delitto, Torino, 1887; Ferri, Il diritto di punire come
funzione sociale, in Arch. psich., II, 1882, 76 ss.; Id., Relazione sul Progetto preliminare di codice penale
italiano per i delitti (1921), in Appendice ai Principi di diritto criminale, Torino, 1928, 732.
67. La questione relativa alle condizioni economiche del reo per poter usufruire di determinati
beneici è stata sollevata innanzi alla Corte costituzionale in relazione all’art. 3 Cost. e con riferimento all’art. 165 c.p., nella parte in cui attribuendo al giudice la facoltà di concedere la sospensione
262
appunti su pena e giustizia POST-CONTEMPORANEA
que, del risarcimento riparativo anticipato dallo Stato, in favore della vittima del
reato, sarebbe (quasi) imposta dal combinato disposto degli artt. 2 e 3 Cost., nel
senso che tale strumento avrebbe una inalità solidaristica in favore della vittima
e di eliminazione delle diferenze economiche in favore del reo, allo scopo di
favorirne la rieducazione ai sensi dell’art. 27, co. 3, Cost.
Anche se tale forma di riparazione pubblica non era sconosciuta già negli stati
italiani preunitari68, inizia a difondersi in maniera consistente nei paesi anglosassoni a partire dagli anni sessanta del secolo scorso, approdando anche in Italia69.
Un impulso notevole viene fornito dalle fonti di indirizzo comunitario, ma anche
internazionale. Ed invero, la Risoluzione n. 40/34, “Dichiarazione dei principi fondamentali di giustizia per le vittime del crimine e dell’abuso di potere”, approvata il 29
condizionale della pena subordinatamente all’efettiva riparazione del danno comporterebbe una
discriminazione a carico di quel condannato il quale, a causa delle sue condizioni economiche, non
fosse in grado di prestare il dovuto risarcimento. La Corte cost. n. 49 del 1975 ha dichiarato tale
questione infondata, afermando, fra l’altro, che «la facoltà del giudice di imporre la condizione in
esame, risponde ad una apprezzabile esigenza di politica legislativa penale, in quanto costituisce
uno strumento diretto, da un lato, a tutelare, con l’interesse della persona ofesa, quello, pubblico,
alla eliminazione delle conseguenze dannose degli illeciti penali e, dall’altro lato, a garantire che il
comportamento del reo, successivamente alla condanna, si adegui concretamente a quel processo di
ravvedimento, la cui realizzazione, come si evince dall’art. 164 cod. pen., costituisce lo scopo precipuo dell’istituto stesso della sospensione condizionale della pena, ed è indubbiamente testimoniato,
fra l’altro, dalla circostanza, di per sé rivelatrice, dell’efettuato risarcimento del danno. Ed è appena
il caso di osservare che tutto ciò costituisce ragionevole giustiicazione della fattispecie normativa
in esame. D’altra parte, è da porre in evidenza che lo stesso art. 165, la cui legittimità è qui in esame,
riconosce al giudice il potere di subordinare o meno all’adempimento dell’obbligo del risarcimento
del danno la sospensione condizionale della pena: ciò come efetto di una valutazione, motivata ma
discrezionale, della capacità economica del condannato e della concreta sua possibilità di sopportare
l’onere del risarcimento pecuniario. E tale valutazione può intervenire, secondo giurisprudenza della Corte di cassazione, sia nel momento del giudizio di condanna, sia anche nel momento successivo
di incapacità che sopravvenga entro il termine issato per l’adempimento della condizione. Questi
principi forniscono chiaramente al giudice un mezzo idoneo per evitare che si realizzi in concreto
un trattamento di sfavore a carico del reo, in funzione delle sue condizioni economiche, ed escludono, pertanto, anche sotto questo proilo, la violazione dell’invocato principio di eguaglianza». In
altri termini, la subordinazione al risarcimento è imposta dal giudice a seguito di una valutazione
della capacità economica del condannato di sopportare l’onere. Nella giurisprudenza di legittimità,
in questo senso, cfr. Cass. pen. Sez. II, 15 febbraio 2013, n. 22342; Cass. pen. Sez. V, 3 novembre 2010,
n. 4527. Contra, Cass. pen. Sez. III, 25 giugno 2013, n. 38345; Cass. pen., 19 novembre 2003, n. 48534.
68. Nel settecento, il Granduca Leopoldo di Toscana aveva istituito la Cassa per il risarcimento dei danni a favore delle vittime che non potevano beneiciare del risarcimento diretto del reo
perché fuggito o in stato di insolvibilità. Del pari, analoga Cassa era prevista nel codice penale del
Regno delle Due Sicilie del 1819.
69. Per una dettagliata ricostruzione storica della riparazione pubblica alle vittime del reato,
cfr. Casaroli, La riparazione pubblica alle vittime del reato fra solidarietà sociale e politica criminale, in
IP, 1990, 277 ss.; Amodio, Solidarietà e difesa sociale nella riparazione alle vittime del delitto, in Vittime
del delitto e solidarietà sociale, Milano, 1975, 41 ss.
263
i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
novembre 1985 dall’Assemblea generale della Nazioni Unite, con cui si raccomanda
agli Stati l’adozione di misure volte al riconoscimento e all’efettività dei diritti delle
vittime, riconosce, come diritto fondamentale della vittima, il diritto al risarcimento
del danno (artt. 8-13), da farsi valere in primo luogo nei confronti del reo e, qualora
il danno non possa essere pienamente risarcito dal colpevole o da altre fonti, viene
previsto che siano gli Stati a doversi impegnare per fornire l’indennizzo alle vittime.
Per quanto riguarda, invece, il diritto europeo70, dopo la Risoluzione n. (77) 27,
adottata dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa il 28 settembre del 1977,
sul “risarcimento alle vittime di reati violenti”, con cui vengono stabilite le direttrici fondamentali in materia di risarcimento alle vittime e si raccomandano gli Stati
membri di prevedere un sistema di indennizzo statale per le vittime di reati intenzionali violenti, qualora l’indennizzo non possa essere assicurato ad altro titolo, e
la Convenzione Europea sul “risarcimento alle vittime dei reati violenti”, emanata
dal Consiglio d’Europa il 24 novembre 198371, ed alcune risoluzioni del Parlamento
europeo72, è stata adottata la decisione-quadro n. 2001/220/GAI del 15 marzo 2001,
relativa alla posizione della vittima nel procedimento penale73, poi, sostituita dalla
direttiva del Consiglio 2004/80/CE “sull’indennizzo delle vittime di reato”, del 29
aprile 2004, la quale – al ine di dare concreta attuazione ad uno spazio di libertà,
sicurezza e giustizia e di salvaguardare la libera circolazione dei cittadini all’interno
dell’Unione Europea – contiene una serie di prescrizioni agli Stati membri, ainché
sia garantito un indennizzo equo ed adeguato per il risarcimento statale delle vittime dei reati intenzionali violenti e sia agevolato l’accesso al risarcimento statale in
caso di reati commessi in uno Stato membro, diverso dallo Stato di residenza della
vittima (situazioni transfrontaliere), mediante una cooperazione raforzata tra le autorità degli Stati. A tale direttiva, il nostro ordinamento74 ha dato (rectius, ha iniziato
a dare) attuazione con il decreto legislativo 6 novembre 2007, n. 204, recante “Attuazione della direttiva 2004/80/CE relativa all’indennizzo delle vittime di reato”. Tale
70. Per un quadro generale sul diritto europeo in materia di vittime, cfr. Del Tufo, La tutela
della vittima in una prospettiva europea, in Dir. pen. proc., 1999, 889 ss.; Id., La vittima di fronte al reato
nell’orizzonte europeo, in Fiandaca, Visconti (a cura di), Punire Mediare Riconciliare. Dalla giustizia
penale internazionale all’elaborazione dei conlitti individuali, Torino, 2009, 107 ss.
71. Casaroli, La Convenzione europea sul risarcimento alle vittime dei reati violenti: verso la riscoperta della vittima del reato, in Riv. it. dir. proc. pen., 1986, 563.
72. Risoluzione PE 13 marzo 1981 in GUCE n. C 077 del 6 aprile 1981 p. 0077; Risoluzione
PE 12 settembre 1989 in GUCE n. C 256 del 9 ottobre 1989 p. 0032.
73. Per una dettagliata analisi cfr., fra i tanti, Del Tufo, La vittima di fronte al reato nell’orizzonte europeo, cit., 110 ss.
74. In relazione all’attuazione delle prescrizioni contenute nella direttiva in questione, l’Italia
è risultata inadempiente. Infatti, il nostro Paese, non avendo provveduto ad attuare la direttiva
entro il termine perentorio stabilito dalla Commissione europea (1 gennaio 2006), è stato destinatario di un procedimento per inadempimento, conclusosi con la condanna da parte della Corte di
Giustizia, cfr. Corte Giust. Com. Eur., Sez. V, 29 novembre 2007, Commissione c. Italia.
264
appunti su pena e giustizia POST-CONTEMPORANEA
direttiva è, parzialmente, inadempiuta, in quanto, nel nostro ordinamento, non è
previsto il diritto all’indennizzo per le vittime di tutti i reati intenzionali e violenti,
come prescritto dalla disposizione di indirizzo europeo, ma solo per alcuni75. Non
solo, lo Stato italiano è stato condannato dal giudice domestico al risarcimento dei
danni subiti dalla vittima di un reato intenzionale e violento per inadempimento
della direttiva in questione76, ma, recentemente, la Commissione europea77 ha inviato, ai sensi dell’art. 258 TFUE, un parere motivato all’Italia per la cattiva attuazione
di tale direttiva, in quanto «l’Italia non dispone di alcun sistema generale di indennizzo per tali reati: la sua legislazione prevede soltanto l’indennizzo delle vittime di
alcuni reati intenzionali violenti, quali il terrorismo o la criminalità organizzata, ma
non di altri» e, per l’efetto, «alcune vittime di reati intenzionali violenti potrebbero
non avere accesso all’indennizzo cui avrebbero diritto»78.
75. Legge 13 agosto 1980, n. 466, artt. 3 e 4, recante norme in ordine a speciali elargizioni a favore di categorie di dipendenti pubblici e di cittadini vittime del dovere o di azioni terroristiche; legge
20 ottobre 1990, n. 302, artt. 1,3, 4 e 5, recante norme a favore delle vittime del terrorismo e della
criminalità organizzata; decreto legge 31 dicembre 1991, n. 419 – convertito dalla legge 18 febbraio
1992, n. 172 – art. 1, di istituzione del Fondo di sostegno per le vittime di richieste estorsive; legge 8
agosto 1995, n. 340, articolo 1 – nel quale sono richiamati gli artt. 4 e 5 della legge n. 302/1990 – recante norme per l’estensione dei beneici di cui agli articoli 4 e 5 della legge n. 302/1990, ai familiari
delle vittime del disastro aereo di Ustica; legge 7 marzo 1996, n. 108, artt. 14 e 15 recante disposizioni
in materia di usura; legge 31 marzo 1998, n. 70 art. 1 – nel quale sono richiamati gli artt. 1 e 4 della
legge n. 302/1990 – recante beneici per le vittime della cosiddetta “Banda della Uno bianca”; legge
23 novembre 1998, n. 407, art. 2, recante nuove norme in favore delle vittime del terrorismo e della
criminalità; legge 23 febbraio 1999, n. 44 artt. 3, 6, 7 e 8 recante norme in materia di elargizioni a
favore dei soggetti danneggiati da attività estorsiva; D.P.R. 28 luglio 1999, n. 510, art. 1, regolamento
recante nuove norme in favore delle vittime del terrorismo e della criminalità organizzata; legge 22
dicembre 1999, n. 512, art. 4, recante istituzione del Fondo di rotazione per la solidarietà alle vittime
dei reati di tipo maioso; decreto legge 4 febbraio 2003, n. 13 – convertito con modiicazioni dalla
legge n. 56/2003 – recante disposizioni urgenti in favore delle vittime del terrorismo e della criminalità organizzata; decreto legge 28 novembre 2003, n. 337 – convertito con modiicazioni dalla l. n.
369/2003 – art. 1, recante disposizioni urgenti in favore delle vittime militari e civili di attentati terroristici all’estero; legge 3 agosto 2004, n. 206, art. 1, recante nuove norme in favore delle vittime del
terrorismo e delle stragi di tale matrice; legge 23 dicembre 2005, n. 266, inanziaria 2006, che all’art.
1 co. 563, 564 e 565, detta disposizioni per la corresponsione di provvidenza alle vittime del dovere, ai
soggetti equiparati ed ai loro familiari; legge 20 febbraio 2006, n. 91 norme in favore dei familiari dei
superstiti degli aviatori italiani vittime dell’eccidio avvenuto a Kindu l’11 novembre 1961.
76. Trib. Torino, 3 maggio 2010, n. 3145, in Guida dir., 2010, 28, 16 ss.; poi, confermata da
App. Torino, Sez. III, 23 gennaio 2012, n. 106, in www.altalex.it. Sul diritto all’indennità per mancato
adempimento di una direttiva non self-exetuting, nella giurisprudenza di legittimità, ex multis, Cass.
civ. Sez. Unite, 17 aprile 2009, n. 9147.
77. In data 17 ottobre 2013, parere n. 2011/4147.
78. Direttiva 2011/36/UE del Parlamento UE e del Consiglio del 5 aprile 2011 concernente la
prevenzione e la repressione della tratta di esseri umani e la protezione delle vittime, e che sostituisce la decisione quadro del Consiglio 2002/629/GAI, in particolare, art. 17, prevede espressamente
il risarcimento pubblico per la vittima. Recentemente recepita con d.lgs. 4 marzo 2014, n. 24.
265
appendice postuma
1. La «tenuità dell’ofesa» come clausola generale di irrilevanza. - 2. La sospensione del
processo con messa alla prova. - 3. Gli obblighi europei di penalizzazione e la reviviscenza
di norme abrogate.
1. La «tenuità dell’ofesa» come clausola generale di irrilevanza. Il 2 aprile 2014, la
Camera ha approvato, in via deinitiva, la proposta di legge n. 331-927-B, recante
“Deleghe al Governo in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del
sistema sanzionatorio. Disposizioni in materia di sospensione del procedimento
con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili”.
La legge è suddivisa in tre capi: il primo capo ha ad oggetto due deleghe al
Governo, in materia di pene detentive non carcerarie e di depenalizzazione; il
secondo capo introduce l’istituto della sospensione del processo con messa alla
prova ed, inine, il terzo capo disciplina la sospensione del procedimento nei confronti degli irreperibili, di natura meramente processuale.
In questa sede, si intende appuntare la rilessione sulla tenuità dell’ofesa e
sulla sospensione del processo con messa alla prova.
In primis, dunque, di notevole interesse è la previsione di cui all’art. 1, co. 1,
lett. m), con cui è prevista l’introduzione, nella legislazione ordinaria, della causa
di non punibilità per i reati sanzionati con la sola pena pecuniaria o con pene
detentive non superiori nel massimo a cinque anni, quando risulti la particolare
tenuità dell’ofesa e non la abitualità del comportamento. Il legislatore delegante ha fatto chiaro richiamo alle previsioni già vigenti nell’ordinamento (artt. 34
d.lgs. 274/2000 e 27 D.P.R. 448/1988), con alcune sostanziali diferenze: dapprima, la tenuità è riferita alla sola ofesa e non al fatto, così facendo riferimento ad
uno solo dei parametri di tenuità indicati dall’art. 34 d.lgs. 274/2000 («esiguità
del danno o del pericolo»), ma, in particolare, oggettivizzando la valutazione del
giudice così escludendo la stima della colpevolezza o di tutto ciò che a questa
si possa ascrivere, ad eccezione della condizione negativa della «non abitualità
del comportamento» che, prima facie, sembra distinguersi dall’«occasionalità del
comportamento» indicata dall’art. 27 D.P.R. 448/1988. Mentre quest’ultima è
stata letta in giurisprudenza come «la mancanza di reiterazione di condotte penalmente rilevanti»1, utilizzando il termine «non abitualità» parrebbe che il legislatore delegato abbia voluto indicare come criterio di valutazione dell’esiguità
quello psicologico, piuttosto che quello cronologico-quantitativo, se si vuole, per
1. Ex multis, Cass. pen. Sez. II, 13 luglio 2010, n. 32692.
267
i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
cui la condotta «deve essere valutata in relazione alla capacità a delinquere del
reo»2, così imponendo al giudice una stima globale sulla personalità del reo ed
ammettendo la possibilità che il comportamento da valutare non sia necessariamente unico, né coincidente con lo stato di incensuratezza dell’imputato e,
quindi, «la veriica della natura delle condotte pregresse e, di conseguenza, della
ripetitività dei medesimi comportamenti illeciti». Lascia perplessi la compatibilità della previsione delegata con la direttiva 2012/39/UE in ordine alla posizione
processuale della vittima nel processo penale, ma si è convinti che il legislatore
delegato, sul punto, porrà rimedio, imponendo l’obbligo di sentire previamente
la persona ofesa, alla stregua di quanto previsto dall’art. 34 d.lgs. 274/2000, ma
in forma esplicitamente meno ostativa, ovvero evitando di soggettivizzare, dal
lato passivo, il giudizio di esiguità sulla base dell’opinione della persona ofesa
non altrimenti valutabile da parte del giudice. Tanto in linea con la visione sociale della giustizia penale per cui non potrebbe ammettersi la tutela o valorizzazione di una posizione soggettiva, sia anche quella della persona ofesa, incompatibile con l’interesse collettivo3.
La natura, inine, dell’istituto appare «sostanziale» e non processuale, deponendo, in tal senso, oltre il tenore letterale del criterio di delega («escludere la
punibilità di condotte…»), anche il riferimento appunto all’ofesa come criterio
oggettivo di stima della tenuità. L’introduzione nella grammatica penale di una
sorta di «clausola generale di irrilevanza» va a colmare l’imbarazzo di una parte della giurisprudenza nell’applicazione in concreto del principio di ofensività,
che, come visto, è stato coninato alla sola fase della commisurazione della pena
nel rispetto del principio di stretta legalità di cui all’art. 25, co. 2, Cost.
2. La sospensione del processo con messa alla prova. L’istituto della sospensione del
procedimento con messa alla prova, sino ad ora previsto nel solo sistema minorile dall’art. 28 D.P.R. 448/1988, è collocato dalla novella ai nuovi artt. 168-bis
2. Bartoli, Le deinizioni alternative del procedimento, in Dir. Pen. Proc., 2001, 178; Di Chiara,
Esiguità penale e trattamento processuale della “particolare tenuità del fatto”: frontiere e limiti di un laboratorio di deprocessualizzazione, in Scalfati (a cura di), Il giudice di pace. Un nuovo modello di giustizia
penale, Padova, 2001, 350.
3. Per intendere la facoltà di opposizione della persona ofesa sulla dimostrazione dell’insussistenza dei requisiti sostanziali di tenuità del fatto, mai su un sentimento, cfr. Brunelli, Gli esiti non
sanzionatori del procedimento innanzi al giudice di pace: la tutela della persona ofesa tra spinte mediatrici
ed esigenze delattive, in Fornasari, Marinelli (a cura di), La competenza civile e penale del giudice di
pace, bilancio e prospettive, Padova, 2007, 122; Eusebi, Strumenti di deinizione anticipata del processo e
sanzioni relative alla competenza penale del giudice di pace: il ruolo del principio conciliativo, in Picotti,
Spangher (a cura di), Competenza penale del giudice di pace e “nuove” pene non detentive, Milano, 2003,
67; Sgubbi, L’irrilevanza del fatto quale strumento di selezione dei fatti punibili, in Picotti, Spangher (a
cura di), Verso una giustizia penale “conciliativa”, Milano, 2002, 166.
268
appendice postuma
ss. c.p. e, dunque, subito dopo la disciplina della sospensione condizionale della
pena. A diferenza della previsione minorile, per ovvie ragioni, l’istituto riguarda
solo i reati puniti con la sola pena edittale pecuniaria o con la pena edittale detentiva non superiore nel massimo a quattro anni, sola, congiunta o alternativa
alla pena pecuniaria, nonché per i delitti indicati dall’art. 550, co. 2, c.p.p.4. La
messa alla prova comporta la prestazione di condotte volte all’eliminazione delle
conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato, nonché, ove possibile, il
risarcimento del danno dallo stesso cagionato, nonché l’aidamento dell’imputato al servizio sociale, per lo svolgimento di un programma che può implicare,
tra l’altro, attività di volontariato di rilievo sociale, ovvero l’osservanza di prescrizioni relative ai rapporti con il servizio sociale o con una struttura sanitaria, alla
dimora, alla libertà di movimento, al divieto di frequentare determinati locali. A
tali condizioni, poi, si aggiunge quella dell’obbligatoria prestazione di lavoro di
pubblica utilità. La sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato non può essere concessa più di una volta e, comunque, non si applica
nelle ipotesi di abitualità al crimine come prevista dagli artt. 102-105 e 108 c.p.
Durante il periodo di sospensione del procedimento con messa alla prova il corso della prescrizione del reato è sospeso, ma per il solo beneiciario in deroga
a quanto previsto dall’art. 161, co. 1, c.p. L’esito positivo della prova estingue
il reato, ma non le eventuali sanzioni amministrative accessorie. Il beneicio è
revocato nelle ipotesi tassative di cui all’art. 168-quater c.p.5.
Alcune brevi osservazioni.
Prima d’ogni altro, la sospensione del procedimento con messa alla prova
comporta l’inesistenza di ipotesi di proscioglimento da dichiarare immediatamente ai sensi dell’art. 129 c.p.p., come si desume dall’art. 464-quater c.p.p. e,
poi, il beneicio può essere richiesto anche dall’indagato nella fase delle indagini
preliminari ai sensi dell’art. 464-ter c.p.p.
4. E, dunque, violenza o minaccia a un pubblico uiciale prevista dall’articolo 336 del codice
penale; resistenza a un pubblico uiciale prevista dall’articolo 337 del codice penale; oltraggio a
un magistrato in udienza aggravato a norma dell’articolo 343, secondo comma, del codice penale;
violazione di sigilli aggravata a norma dell’articolo 349, secondo comma, del codice penale; rissa aggravata a norma dell’articolo 588, secondo comma, del codice penale, con esclusione delle ipotesi in
cui nella rissa taluno sia rimasto ucciso o abbia riportato lesioni gravi o gravissime; furto aggravato
a norma dell’articolo 625 del codice penale; ricettazione prevista dall’articolo 648 del codice penale.
5. La natura sostanziale della novella avrebbe suggerito una disposizione transitoria, al ine di
consentire la possibilità di poter usufruire di tale importante causa di estinzione del reato anche nei
procedimenti in cui sia stato superato il termine ultimo per poterne usufruire, con l’efetto che tale
omissione legislativa comporterebbe un vizio di costituzionalità per violazione degli artt. 3, 10, 11,
117, co. 1, Cost., in combinato disposto con gli artt. 49, § 3, Carta e 7 Convenzione EDU, oppure,
in maniera più pragmatica (come suggerito dal Dr. Michele Toriello, giudice presso il Tribunale
penale di Lecce), si potrebbe ipotizzare un’interpretazione conforme che, consenta agli imputati,
di poter richiedere tale beneicio nella prima udienza utile dopo l’entrata in vigore della novella.
269
i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
La probation domestica consiste in un programma di trattamento stilato d’intesa con l’uicio dell’esecuzione penale esterna, contenente un dettagliato progetto che coinvolge anche la famiglia del beneiciario e la vittima, con ipotesi di
condotte riparatorie e conciliative, oltre al lavoro di pubblica utilità che costituisce il perno intorno al quale ruota l’istituto in parola. Il giudice è tenuto a valutare l’idoneità di tale programma di trattamento, con i criteri di cui all’art. 133 c.p.,
come stabilito dall’art. 464-quater, co. 3, c.p.p., stimando, altresì, una favorevole
prognosi per cui il reo si asterrà dal compiere attività criminali.
Da tale breve analisi esegetica, si può ragionevolmente dedurre che il programma di trattamento è visto dal legislatore, oltre come un chiaro beneicio
per il reo, anche come sostitutivo della pena edittale, almeno sotto il proilo di
necessità di veloce eliminazione del disvalore del fatto, tant’è vero che, non solo,
il giudizio di «idoneità» e quello di «commisurazione» hanno in comune i medesimi criteri (quelli di cui all’art. 133 c.p.), ma, in particolare, l’esito negativo della
prova impone la riduzione della pena da espiare detraendo il periodo di prova
eseguito, alla stregua di quanto stabilito dall’art. 657-bis c.p.p. Ad ogni modo, dal
punto di vista quantitativo o di durata del periodo della messa alla prova, appare
esserci un’assoluta autonomia tra «pena» e «programma», non solo perché il legislatore non ha indicato alcun criterio di conversione, se non nell’ipotesi di esito
negativo e di condanna del reo.
Né può farsi riferimento alla previsione di cui all’art. 54 d.lgs. 274/2000, sia
perché l’art. 168-bis, co. 3, c.p. contiene una deinizione autonoma di lavoro
di pubblica utilità, solo in parte sovrapponibile a quella di cui all’art. 54 d.lgs.
274/2000, sia perché i criteri di conversione indicati da tale disposizione si limiterebbero a considerare il solo periodo di lavoro di pubblica utilità, come sostitutivo integralmente della pena, mentre il programma di trattamento, oggetto della
valutazione di idoneità di cui all’art. 464-quater, co. 3, c.p.p., non include solo
tale prestazione, ma anche obblighi riparatori e conciliativi, che, dunque, devono
rientrare nel giudizio di idoneità giudiziale. Si potrebbe afermare che, mentre
la commisurazione della pena ha ad oggetto una valutazione del comportamento del reo, l’idoneità del programma riguarda un giudizio «sul cittadino che ha
commesso il fatto».
Comunque, anche per evitare iniquità, è indubbio che il giudice potrà certamente utilizzare come parametro di valutazione i criteri di conversione di cui
all’art. 54 d.lgs. 274/2000, salvo poi aumentare o diminuire il periodo di lavoro
(con il limite dei dieci giorni almeno) in base alle ulteriori prescrizioni, oneri ed
obblighi a cui si è sottoposto il prevenuto ed in considerazione del termine di
relativo adempimento imposto ai sensi dell’art. 464-quinquies, co. 1, c.p.p.
In ogni caso, il periodo di sospensione e, dunque, la durata del programma di
trattamento non può superare due anni quando di procede per reati per i quali
è prevista una pena detentiva, sola, congiunta o alternativa alla pena pecuniaria,
270
appendice postuma
ovvero un anno quando si procede per reati puniti con la sola pena pecuniaria
(art. 464-quater, co. 5, c.p.p.). Tanto si giustiica, considerando che, da un lato,
il beneiciario/richiedente è un soggetto non abituato al crimine e, comunque,
non pericoloso socialmente e, dall’altro, il programma di trattamento è inalizzato ad eliminare il disvalore della violazione del divieto penale attraverso condotte
riparatorie e conciliative tramite un percorso di comprensione dell’ofesa e di
responsabilizzazione del beneiciario, non di espiazione e risocializzazione come
funzioni proprie della pena. Da ciò, la necessità di distinguere anche sul piano
temporale, il «programma di trattamento» e la pena (ipotetica).
Il legislatore, poi, ha previsto il contraddittorio con la persona ofesa, a cui è
garantito il diritto di interloquire sulla richiesta del reo, anche se si segnalano alcuni punti critici della novella con la previsione di indirizzo comunitaria sulla tutela delle vittime nel processo penale (direttiva 2012/29/UE), come, ad esempio,
l’esclusione della vittima nelle determinazioni correttive in corso di trattamento
(art. 464-quinquies, co. 3, c.p.p.) o l’impossibilità di autonoma impugnazione nel
merito della concessione del beneicio (art. 464-quater, co. 7, c.p.p.).
Appare di notevole interesse, inine, la necessità di acquisire notizie sulle condizioni di vita familiare e personale del reo, come previsto dall’art. 141-ter, co.
3, d.lgs. 271/1989, nonché le ulteriori informazioni su tali aspetti che il giudice
può ritenere necessario acquisire ai ini della concessione del beneicio, ai sensi
dell’art. 464-bis, co. 5, c.p.p., che, invero, sarebbero utili già alla commisurazione
della pena in funzione rieducativa, come auspicato.
3. Gli obblighi europei di penalizzazione e la reviviscenza di norme abrogate. La Corte
costituzionale (n. 32 del 2014) ha dichiarato l’incostituzionalità degli artt. 4-bis e
4-vicies ter, del decreto legge 30 dicembre 2005, n. 272 “Misure urgenti per garantire la sicurezza ed i inanziamenti per le prossime Olimpiadi invernali, nonché la
funzionalità dell’Amministrazione dell’interno. Disposizioni per favorire il recupero di tossicodipendenti recidivi e modiiche al testo unico delle leggi in materia
di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al decreto del Presidente
della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309”, con cui era stata modiicata la disciplina
penale in materia di stupefacenti ed, in particolare, modiicando l’art. 73 D.P.R.
309/1990 è stata prevista una medesima cornice edittale per le violazioni concernenti tutte le sostanze stupefacenti, uniicando il trattamento sanzionatorio che,
in precedenza, era diferenziato a seconda che i reati avessero per oggetto le sostanze stupefacenti o psicotrope incluse nelle tabelle II e IV (cosiddette “droghe
leggere”) ovvero quelle incluse nelle tabelle I e III (cosiddette “droghe pesanti”).
Per efetto di tali modiiche le sanzioni per i reati concernenti le cosiddette “droghe leggere” e, in particolare, i derivati dalla cannabis, precedentemente stabilite
nell’intervallo edittale della pena della reclusione da due a sei anni e della multa
271
i principi di diritto penale nella giurisdizione europea
da euro 5.164 ad euro 77.468, sono state elevate, prevedendosi la pena della reclusione da sei a venti anni e della multa da euro 26.000 ad euro 260.000.
Ai ini dell’indagine, è utile segnalare, in questa sede, che l’intervento della
Corte costituzionale ha determinato la reviviscenza delle previsioni abrogate,
non solo, per ragioni di carattere procedurale, poiché non si sarebbe veriicato
l’efetto abrogante imposto dalle disposizioni incostituzionali, ma, in particolare,
il mancato ripristino delle norme abrogate esporrebbe l’Italia all’inadempimento
comunitario, atteso che «la materia del traico illecito degli stupefacenti è oggetto di obblighi di penalizzazione, in virtù di normative dell’Unione europea. Più
precisamente la decisione quadro n. 2004/757/GAI del 2004 issa norme minime
relative agli elementi costitutivi dei reati e alle sanzioni applicabili in materia
di traico illecito di stupefacenti, richiedendo che in tutti gli Stati membri siano punite alcune condotte intenzionali, allorché non autorizzate, fatto salvo il
consumo personale, quale deinito dalle rispettive legislazioni nazionali. Pertanto, se non si determinasse la ripresa dell’applicazione delle norme sanzionatorie
contenute nel D.P.R. n. 309 del 1990, resterebbero non punite alcune tipologie
di condotte per le quali sussiste un obbligo sovranazionale di penalizzazione. Il
che determinerebbe una violazione del diritto dell’Unione europea, che l’Italia è
tenuta a rispettare in virtù degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost.»6.
6. Corte cost., n. 32 del 2014, Considerato in diritto, § 5. Per la critica all’autolimitazione sul sindacato costituzionale in relazione al norme favorevoli abrogatrici, ampiamente, infra, Cap. I, § III.2.
272
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