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euro 00,00 I LIBRI DI ARCHIVIO PENALE NUOVA SERIE 2 2 PRINCIPI DI DIRITTO PENALE NELLA GIURISDIZIONE EUROPEA Gaetano Stea, avvocato e cultore di diritto penale nell’Università degli Studi del Salento, collabora all’attività didattica della cattedra di diritto penale (parte generale). È stato docente in seminari e corsi di specializzazione in materia penale ed è autore di una monograia sull’ultimo condono edilizio (2005) e di diverse pubblicazioni, tra cui le più recenti, Ricettazione e commercio di opere d’autore illecitamente riprodotte (2007), La difamazione a mezzo internet (2008), Diritto penale e processo tributario (2011), L’esegesi giurisprudenziale della deinizione degli enti responsabili dell’illecito da reato (2013) e L’ofensività europea come criterio di proporzione dell’opzione penale (2013). GAETANO STEA La ricostruzione dei principi di diritto penale è un’esigenza dettata dal doppio legame esistente tra l’ordinamento domestico e quello europeo, che attraverso la cerniera aperta dell’art.117, co. 1, Cost., sacriica il ruolo del legislatore domestico, esaltando però la funzione giudiziale, che degli obblighi eurounitari è garante, anche in virtù della primazia del diritto europeo. In un diritto penale dei diritti fondamentali prepositivi, la proporzione diviene il cardine su cui si innestano e si misurano tutti i principi che regolano il sistema punitivo, come indice di bilanciamento della reazione sanzionatoria che, in funzione solidaristica, non può che essere inalizzata alla ricostruzione della frattura sociale che il comportamento criminale ha provocato. E così, facendo leva sulla proporzione materiale indicata dall’art.52 della Carta di Nizza, l’opzione penale non può essere «arbitraria», perché, non solo, deve essere diretta a preservare solo quei diritti e quelle libertà che necessitano della tutela più severa, ma si deve dirigere solo verso quei comportamenti che ofendono la sfera di libertà della vittima così come riconosciuta dall’ordinamento non per il soddisfacimento dei propri egoistici bisogni, ma nell’interesse dell’intera collettività. In questa prospettiva, il principio di colpevolezza, fondato sugli artt. 2, 25, co. 2, e 27, co. 1 e 3, Cost., diventa centrale in una società democratica, perché solo in un tale contesto è possibile rimproverare il cittadino responsabile della violazione della norma, non attraverso la minaccia della pena (così abbandonando ogni inalizzazione preventiva, ma anche retributiva), ma con l’invito a partecipare ad un percorso di risocializzazione. E qui si innesta il nuovo ruolo che deve assumere la pena, che, con la sua inalizzazione rieducativa, potrà comprimere solo le libertà ed i diritti dello status istituzionale di cittadino, poiché superare tale conine e, dunque, andare ad incidere sul nòcciolo intimo delle libertà, non può avere alcun signiicato per il diritto penale contemporaneo. Gaetano Stea I PRINCIPI DI DIRITTO PENALE NELLA GIURISDIZIONE EUROPEA i libri di ArCHiViO PENAlE NUOVA SERIE 2 i libri di ArCHiViO PENAlE NUOVA SERIE Comitato scientiico Alfredo Gaito “Sapienza” Università di Roma david brunelli Università degli Studi di Perugia Carlo Fiorio Università degli Studi di Perugia Giulio Garuti Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia Adelmo Manna Università degli Studi di Foggia Oliviero Mazza Università degli Studi di Milano-Bicocca Tullio Padovani Scuola Superiore Sant’Anna di Studi Universitari e di Perfezionamento Mauro ronco Università degli Studi di Padova Giorgio Spangher “Sapienza” Università di Roma A partire dall’a.a. 2012-2013, ogni studio monograico pubblicato in questa Collana è stato previamente sottoposto, con esito positivo, a peer review (secondo le regole della revisione anonima) da parte di almeno due membri del Comitato scientiico. Gaetano Stea I PrInCIPI dI dIrItto Penale nella gIurIsdIzIone euroPea CIP CIP a cura del Sistema bibliotecario dell’Università di Pisa © Copyright 2014 by Pisa University Press srl Società con socio unico Università di Pisa Capitale Sociale Euro 20.000,00 i.v. - Partita IVA 02047370503 Sede legale: Lungarno Pacinotti 43/44 - 56126, Pisa Tel. + 39 050 2212056 Fax + 39 050 2212945 e-mail: press@unipi.it www.pisauniversitypress.it Member of ISBN Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume/fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941 n. 633. Le riproduzioni effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da AIDRO, Corso di Porta Romana n. 108, Milano 20122, e-mail segreteria@aidro.org e sito web www.aidro.org Alla dolce memoria di mia madre, a Nadia, Letizia, Gabriele e papà Indice ringraziamenti 11 Presentazione 13 introduzione 15 Capitolo i legalità Sezione I. Competenza e sovranità I.1. Prologo. Riserva di legge e fonti del diritto comunitario penale 20 I.2. La competenza penale dell’Unione Europea 22 I.3. La competenza penale tipica e la possibilità dell’Unione Europea di emanare norme penali 23 I.4. La competenza penale europea atipica. Evoluzione giurisprudenziale dell’obbligo di tutela degli interessi comunitari. Gli obblighi di risultato e quelli di penalizzazione. La previsione nel Trattato di Lisbona di una competenza penale tipica impropria e l’attuale possibilità di imporre obblighi di risultato adeguatamente sanzionati 26 I.4.1. Classiicazione delle competenze penali dell’Unione Europea. Riepilogo 30 I.5. La sovranità in materia penale e l’Unione Europea come Staatenverbund 31 Sezione II. Democrazia II.1. La questione della democraticità della norma penale 34 II.2. La veriica della democraticità della norma penale europea. Principio di legalità nella Carta di Nizza e l’autonomia degli ordinamenti, nazionale ed europeo. La competenza penale tipica è condivisa con ciascun Stato membro 38 II.3. Le tradizionali obiezioni sul deicit democratico dell’Unione Europea 42 II.4. La veriica della democraticità della norma penale europea attraverso l’analisi del ruolo del Parlamento nazionale nel processo di formazione degli atti comunitari. Il Protocollo n. 2 sulla veriica del rispetto dei principi di sussidiarietà e proporzionalità e la legge n. 234 del 2012. Prospettive de iure condendo 45 II.5. L’incidenza del difetto di democraticità della norma penale europea nel diritto interno. La determinatezza della norma penale europea come limite o vincolo dell’obbligo di trasposizione per il legislatore nazionale 51 II.6. Il sindacato della Corte di Giustizia dell’Unione Europea in relazione a direttive dettagliate. La Corte costituzionale ed il controllo sulla legge di ratiica del Trattato di Lisbona e sulle norme derivate. L’incostituzionalità degli artt. 7 e 12 l. 234/2012 in relazione al principio di legalità-riserva di legge (democraticità) 55 Sezione III. Retroattività III.1. La retroattività della legge favorevole dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo alla Carta di Nizza. L’excursus dell’afermazione internazionale e la giurisprudenza costituzionale sul principio di retroattività in mitius 60 III.2. Brevi rilessioni sulla limitazione al sindacato costituzionale (di ragionevolezza) della norma abrogatrice non contraria ad una norma comunitaria 70 III.3. Note di analisi comparativa dei sistemi europei di civil law e common law in tema di norme penali più favorevoli 73 III.4. La giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea sulla retroattività benigna ed il bilanciamento con il principio di prevalenza del diritto comunitario. La vicenda del falso in bilancio italiano 80 III.5. L’inderogabilità europea del principio della retroattività della lex mitior: il principio della certezza del diritto che promana dalla irmitas del giudicato e la sua intangibilità relativa 86 Sezione IV. PRIMAUTÉ IV.1. Il principio di legalità ed il diritto vivente: giurisprudenza come fonte del diritto e l’arresto della Corte costituzionale 91 IV.2. Il conlitto tra norma europea e norma interna: il primato del diritto europeo e l’europeizzazione dei controlimiti. I principi identitari e strutturali costituzionali come parametri dell’esclusivo sindacato di legittimità del diritto europeo da parte della Corte di Lussemburgo. Dalla coordinazione di sistemi autonomi e diversi al sistema sinergico unico e generale 102 IV.3. L’inapplicazione della norma statuale penale in conlitto con quella europea. Un esempio di rilesso in bonam partem: clandestinità e direttiva rimpatri 107 IV.4. Le fonti europee interferenti con il diritto penale statuale 111 IV.5. La sistematica di Carlo Sotis. L’eurointegrazione riduttiva o in bonam partem 113 IV.5.1. (segue) L’interferenza ad efetti espansivi o in malam partem. I conlitti diadici e l’interpretazione conforme: rinvio. I conlitti triadici e l’inadempimento sopravvenuto 118 IV.6. L’interpretazione conforme 120 IV.7. Epilogo. Il ruolo del giudice comune nell’applicazione della norma penale fra democrazia e primautè europea. Ipotesi di democratizzazione dell’amministrazione della giustizia 125 Capitolo ii Ofensività 1. Premessa. L’ofensività nel sistema penale europeo. La situazione italiana: la deriva del principio di necessaria lesività e l’irrefrenabile anticipazione della tutela penale con la tipizzazione anche di illeciti di rischio. L’eicacia argomentativa o dimostrativa dell’ofensività come parametro di controllo della politica criminale 135 2. La Corte costituzionale e la politica criminale sulla clandestinità: ofensività dimostrativa ed extrema ratio 140 3. Principio di precauzione vs principio di necessaria lesività. Il precauzionismo e l’individuo potenzialmente colpevole 145 4. Il giudizio di proporzione nella Carta di Nizza come fondamento dell’ofensività del reato europeo. La proporzione nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo e gli obblighi di tutela penale in chiave vittimo-centrica. Gli aspetti dell’ofensività (necessaria lesività e dannosità sociale) per individuare il fatto penalmente rilevante 151 5. La giustiziabilità degli obblighi di tutela contenuti nella norma penale europea da parte del Giudice costituzionale 155 6. Il sindacato di proporzionalità della Corte di Lussemburgo sulla norma penale europea 160 6.1. (segue) L’eccezione democratica e la razionalità del diritto penale positivo. Il giudizio di eguaglianza-proporzione come utile sindacato sull’opzione di politica criminale 162 7. Il principio di proporzione formale tra reato e sanzione previsto dall’art. 49, co. 3, della Carta di Nizza come criterio di coerenza intrasistemica del divieto penale 165 8. Il paternalismo in diritto penale. Il fondamento della legittimità del “punire” ed il limite dell’opzione penale nell’ottica antipaternalistica di John Stuart Mill 169 8.1. (segue) L’impostazione di Joel Feirberg 170 8.2. Il paternalismo come esigenza solidaristica nella visione costituzionale in una società democratica 173 9. La Corte di Strasburgo e l’eutanasia: il punto della giurisprudenza convenzionale sul “diritto di morire” 175 9.1. (segue) Riepilogo. Il diritto al suicidio dignitoso 178 9.2. Brevi annotazioni conclusive sul rapporto tra l’art. 8 Convenzione EDU e le questioni autolesive previste nella legislazione domestica nell’alveo del sistema eurounitario 179 10. Breve conclusione sul ruolo del principio di ofensività 182 Capitolo iii Colpevolezza 1. Brevissime note introduttive. Capacità e libertà 185 2. Excursus sulle teorie tradizionali sulla colpevolezza come fondamento del diritto penale 186 3. La colpevolezza nel sistema italiano. Gli arresti della giurisprudenza costituzionale e l’individuazione del principio di colpevolezza fondato sugli artt. 2, 25, co. 2, e 27, co. 1 e 3, Cost. 192 3.1. La colpevolezza come categoria dogmatica: la nozione unitaria di colpevolezza derivante dalla funzione rieducativa della pena. “Punire per educare” 197 3.2. (segue) La struttura della colpevolezza unitaria: dominabilità, conoscibilità e libertà. Il presupposto dell’imputabilità ed i requisiti della tipicità e antigiuridicità come criteri della rimproverabilità 203 4. Siamo davvero liberi? Neuroscienze e libero arbitrio 206 5. La colpevolezza nella giurisprudenza sovranazionale 6. I criteri di imputazione soggettiva nell’ottica europea 209 213 6.1. Sguardo comparativo sulle deinizioni normative di dolo e colpa 214 6.2. La terza forma dell’elemento soggettivo negli ordinamenti stranieri. L’esperienza inglese: “recklessness” 219 6.3. (segue) L’esperienza francese: “mise en danger délibérée de la personne d’autrui” 222 6.4. (segue) L’esperienza spagnola: “maniiesto desprecio por la vida de los demás” 224 7. Annotazioni riepilogative e prospettive de iure condendo. La problematica del dolo eventuale come terza forma di colpevolezza e la restrizione possibile dell’elemento soggettivo ino alla colpa grave 227 Capitolo IV Appunti su pena e giustizia post-contemporanea 1. I principi che regolano la sanzione penale europea ed il carattere anankastico della pena “rieducativa” 237 2. La pena “rieducativa” e le misure alternative e sostitutive alla detenzione come pene proporzionate nel diritto penale dei diritti 240 3. La funzione della pena inalizzata alla risocializzazione dialogica 242 4. La collocazione del momento comunicativo nel percorso di risocializzazione ed il “progetto” individuato dal giudice della cognizione come linea-guida del percorso rieducativo 244 5. Annotazioni sui sistemi di giustizia riparativa e l’impossibilità empirica di una sostituzione integrale del sistema punitivo-rieducativo. La pena “rieducativa” tra sanzione e progetto di risocializzazione 247 6. La giustizia riparativa nell’esperienza europea ed in quella italiana. La mediazione penale come tratto comune delle maggiori esperienze di giustizia riparativa in Europa. Le consolidate esperienze anglosassone e francese e le nuove sperimentazioni nelle giovani codiicazioni 250 6.1. L’area scandinava 252 6.2. L’area centro-orientale 252 6.3. L’area anglosassone 253 6.4. L’area centro-meridionale 253 6.5. L’esperienza italiana 256 7. Note conclusive sul ruolo della vittima del sistema penale europeo e sul risarcimento come strumento riparativo in funzione solidaristica 260 Appendice postuma 267 bibliografia XX ringraziamenti Per un operaio del diritto riuscire a concludere un lavoro di ricerca presuppone la necessità di dover esprimere alcuni ringraziamenti, anche perché il necessario tempo, ritagliato negli ormai ristretti spazi che la frenetica vita professionale consente, è stato sottratto a chi arricchisce quotidianamente la vita personale. Forse è questa quella sottile malinconia che mi resta dopo aver concluso (o meglio, abbandonato) questo studio, soprattutto, quando ci si trova a rileggere pagine che non esprimono al meglio la rilessione che torna in mente. Ad ogni modo, se questa può essere intesa come un’avvertenza per il lettore, non posso che rivolgere il mio più sentito “grazie” a Luigi Cornacchia, caro amico e premurosa guida nel mio percorso di approfondimento, a cui devo la curiosità che mi ha spinto ad avventurarmi nell’indagine qui proposta e l’opportunità di coltivare una passione mai sopita. Non posso non ringraziare, poi, il mio generoso amico e collega Pierpaolo Schiattone, che, fra l’altro, è stato importante ausilio nella correzione delle bozze e, soprattutto, ha “badato” al quotidiano. Ringrazio, inine, il Prof. François Rousseau della Faculté de droit et des sciences politiques dell’Università di Nantes, per la cortesia dimostratami nel fornirmi importanti indicazioni in tema di “mise en danger délibérée de la personne d’autrui”. Lecce, dicembre 2013 G.S. 11 Presentazione Il volume di Stea ofre una vasta panoramica di studio circa i mutamenti della sovranità in materia penale a fronte dell’evoluzione giurisprudenziale europea, con particolare riferimento al tema dei principi. Lungi dal ridursi a una mera ripetizione di paradigmi già noti, l’ermeneutica dei fondamenti dell’ordinamento giuridico vigente viene proposta direttamente a contatto con la disciplina europea, per molti aspetti almeno prima facie refrattaria a un’assimilazione della tradizione dei principi: anzi il “metodo europeo”, fenomeno ovviamente in continuo divenire e dall’andamento non certo lineare e unidirezionale, fa emergere una singolare osmosi tra modelli costituzionalmente orientati anche culturalmente assai eterogenei. Pare pertanto legittimo parlare – e sia pur con l’avvertenza di un mutamento lessicale dei concetti utilizzati – di un progressivo approccio “costituzionale”, nel senso di orientato a principi fondamentali condivisi. Basti pensare alla lettura del diritto penale in chiave personalistica secondo il nullum crimen sine culpa (con la problematica emergente del suo signiicato dinamico di fronte alle scoperte indotte dalle neuroscienze) e al contempo all’esigenza, avvertita nella prassi applicativa sovranazionale, di contemperare tra loro le poliedriche opzioni circa la criteriologia di imputazione soggettiva provenienti dalle diverse esperienze giuridiche domestiche (paradigmatico il caso dell’eventuale “terza forma”). O al substrato di necessaria lesività che l’esperienza prasseologica europea sembra volere sempre più riconoscere alla tipicità/imputazione penale, nonché di proporzione tra ofesa e risposta penale, al banco di prova del precauzionismo e della dialettica paternalismo/antipaternalismo. O, prima ancora e forse prima di tutto, all’ormai ineludibile intreccio tra principio di legalità nel diritto vivente e democrazia – reale, non formale – nella formazione e nell’interpretazione delle norme; e ai rilessi in termini di diicile deinizione del ruolo del giudice comune nell’applicazione di queste ultime a fronte della primautè europea. Ma è proprio unicamente a livello sovranazionale che sembra potere prendere davvero corpo il post-moderno (rectius post-contemperaneo?) progetto orientato 13 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea a una reale implementazione di risocializzazione (dialogica) del reo, riparazione della vittima e superamento comunicativo della lacerazione sociale indotta dal reato: una estrolessione del sistema preventivo in una giustizia riparativa/conciliativa, una volta divenuta realtà nella societas maxima europea, potrebbe davvero modiicare radicalmente la isionomia dei principi fondamentali e il loro rilievo in termini di garanzia dei diritti umani di tutti i soggetti coinvolti nel conlitto. Si tratta di una sperimentazione primariamente giurisprudenziale, non di rado complessa, non sempre coerente, che però sembra voler superare quella dialettica dell’instabilità prasseologica che ha connotato in passato il diritto sovranazionale europeo proprio con riguardo all’implementazione dei principi fondamentali. Certo, i nuovi equilibri rinvenibili nel diritto vivente della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo non possono certo dirsi scevri da perplessità: basti pensare alla progressiva emersione e alle recenti soluzioni oferte al problema del suicidio assistito, che la giurisprudenza europea dimensiona, in chiave di pura autodeterminazione, sul mero proilo del rispetto della vita privata come diritto fondamentale dell’essere umano ex art. 8 CEDU; e quindi al suo diicile contemperamento con il diverso signiicato del principio solidaristico che ispira l’ordinamento giuridico italiano. Negli interstizi di un lavoro che intende afrontare “dall’alto” – ossia, dalla regione nobile dei principi – una evoluzione giuridica magmatica, per certi aspetti imprevedibile e di diicile comprensione secondo le sole categorie tradizionali come appare quella europea, emergono rilessioni estremamente utili a un ripensamento generale, anche rispetto al diritto interno, dei canoni di legalità, ofensività, colpevolezza, funzione della pena. La monograia di Stea apporta un contributo estremamente fecondo a un dibattito ormai da tempo di rilievo globale e probabilmente dai percorsi ancora in gran parte da esplorare: per intraprenderli, un’ottima cartina orientativa potrebbe essere desunta proprio dalle direttrici evidenziate – e discusse con grande padronanza della materia – nell’opera in oggetto. Luigi Cornacchia Università del Salento 14 Introduzione Un tempo, la giustizia penale in Europa era governata da una “specie” di diritto comune e l’attività giurisdizionale consisteva, sostanzialmente, nell’ottenere la confessione del reo (o presunto tale) attraverso strumenti di inaudita severità, ed alla pena si riconosceva una funzione generalmente deterrente e di intimidazione, così da giustiicarne l’“esemplarità”. Ad un certo punto, a tale “barbarie”, reagì un nuovo spirito che pervase l’Europa che, maturando idee formatesi nell’ambito dell’ampia e variegata scuola del diritto naturale moderno, considerò ragione di progresso la ristrutturazione del sistema delle fonti attraverso la creazione di una legislazione chiara, concisa e semplice che vincolasse strettamente il giudice, così afermandosi convintamente il principio di legalità come cardine essenziale della pace collettiva. Una volta individuata la fonte primaria dell’ordinamento venne il momento di riconoscere la partecipazione democratica alla formazione della legge e, tempo dopo, la terribile esperienza europea dei crimini umanitari impose l’intangibilità dei diritti e delle libertà fondamentali come valori prepositivi ed indisponibili anche per il legislatore democratico. Poi, venne il tempo dell’integrazione e della costruzione di un sistema comune europeo che, sotto la spinta dell’interpretazione evolutiva pretoria, divenne comunità ed, oggi, è unione, nella prospettiva di un’armonizzazione dei sistemi nazionali. Si è giunti così, nel cerchio della storia, ad una neo-restaurazione di una “specie” diritto comune per l’intera area europea. Da ciò, la ricostruzione1 dei principi di diritto penale è un’esigenza dettata dal doppio legame esistente tra l’ordinamento domestico e quello europeo, certamente all’indomani dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona con le sue novità in materia di competenza penale eurounionista, ma già tramite l’art. 117, co. 1. Sgubbi, Principi costituzionali in materia penale e fonti sovranazionali, in Fondaroli (a cura di), Principi costituzionali in materia penale e fonti sovranazionali, Padova, 2008, 3 ss., ove il chiaro Maestro denuncia che, «nel momento attuale, le fonti sovranazionali contribuiscono in modo signiicativo alla decostruzione dei principi costituzionali. Decostruzione nel senso anche di progressiva erosione del contenuto di principi che pure restano scritti nella nostra Carta Fondamentale e a cui gli operatori del diritto fanno continuo riferimento». 15 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea 1, Cost., che vincola l’ordinamento interno agli obblighi eurounitari. Ad onor del vero, il vincolo costituzionale sacriica il ruolo del legislatore domestico, come testualmente imposto dalla norma appena richiamata («La potestà legislativa è esercitata […] nel rispetto […] dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario»), ma esalta la funzione giudiziale, che degli obblighi eurounitari è garante, anche in virtù della primazia del diritto europeo. Il sacriicio imposto alla riserva di legge di cui all’art. 25, co. 2, Cost. va ad incidere sulla democraticità della norma penale, come aspetto sostanziale della legalità, con la necessità di raggiungere una maggiore coesione politica dell’Unione Europea e, comunque, di rendere più partecipi i cittadini all’amministrazione della giustizia. In un diritto penale dei diritti fondamentali prepositivi, la proporzione diviene il cardine su cui si innestano e si misurano tutti i principi che regolano il sistema punitivo, come indice di bilanciamento della reazione sanzionatoria che, in funzione solidaristica, non può che essere inalizzata alla ricostruzione della frattura sociale che il comportamento criminale ha provocato. E così, facendo leva sulla proporzione materiale indicata dall’art. 52 della Carta di Nizza, l’opzione penale non può essere “arbitraria”, perché, non solo, deve essere diretta a preservare solo quei diritti e quelle libertà che necessitano della tutela più severa, ma si deve dirigere solo verso quei comportamenti che ofendono la sfera di libertà della vittima così come riconosciuta dall’ordinamento non per il soddisfacimento dei propri egoistici bisogni, ma nell’interesse dell’intera collettività. Se, infatti, i doveri giuridici, su cui si fonda la personalità del fatto di reato, sono inalizzati al rispetto di interessi collettivi, pubblici od, in genere, di terzi, tale direzione teleologica deve caratterizzare anche l’attribuzione (o riconoscimento) dei diritti e delle libertà fondamentali, che, nell’ambito di una comunità, sono l’aspetto reciproco del dovere: il riconoscimento dei diritti e delle libertà non avrebbe alcun senso ove non esistesse una comunità in cui si colloca l’individuo. In questa prospettiva, il principio di colpevolezza, fondato sugli artt. 2, 25, co. 2, e 27, co. 1 e 3, Cost., diventa centrale in una società democratica, perché solo in un tale contesto è possibile rimproverare il cittadino responsabile della violazione della norma, non attraverso la minaccia della pena (così abbandonando ogni inalizzazione preventiva, ma anche retributiva), ma con l’invito a partecipare ad un percorso di risocializzazione e, in quest’ottica, la tradizionale contrapposizione tra visione reo-centrica e visione vittimo-centrica, trova una composizione, un punto di equilibrio e di mediazione. Così allontanando il rischio di incentrare il giudizio di colpevolezza sul solo autore del reato, dimenticando la vittima2. E qui si innesta il nuovo ruolo che deve assumere la pena, che, con la sua inalizzazione rieducativa, potrà comprimere solo le libertà ed i diritti dello sta- 2. Come ricorda, Parisi, Cultura dell’altro e diritto penale, Torino, 2010, 134 ss. 16 introduzione tus istituzionale di cittadino, poiché superare tale conine e, dunque, andare ad incidere sul nòcciolo intimo delle libertà, non può avere alcun signiicato per il diritto penale contemporaneo. Anche in tale contesto ha un ruolo egemone il principio di proporzione, questa volta come formulato dall’art. 49, co. 3, della Carta di Nizza, che si dispiega nell’ordinamento, rispetto alla pena, in diversi sotto-principi, quali quello di umanità e quello di rieducazione, con l’efetto che la punizione e, dunque, l’inlizione della pena al reo, non è giustiicata dal male o torto subito dalla collettività, in chiave retribuzionista, ma può comprendersi solo se costituisce l’equilibrata misura della compressione della libertà personale del cittadino, in funzione del tentativo risocializzante. La pena “rieducativa” si contrappone così alla tradizionale pena “retributiva” e mentre per quest’ultima assume un ruolo egemone la detenzione, poiché molto duttile nella sua commisurazione proporzionata con la gravità del fatto, la prima necessita di un catalogo di pene principali che sollecitino il reo ad intraprendere un dialogo risocializzante inalizzato a ricucire il tessuto collettivo strappato dall’ofesa criminale. La pena detentiva è così, da un lato, anacronistica, laddove si guardi all’ampiezza della sfera dei diritti e delle libertà riconosciuti al cittadino e, dall’altro, è conseguentemente sproporzionata, nel senso che va a limitare tutti gli aspetti della libertà personale e, dunque, insieme a quello isico, si aggiungono quelli che aferiscono alle libertà relazionali. La necessità è, pertanto, quella di individuare un catalogo di pene che riesca a coniugare la misura “temporale” con quella “di genere”, onde rendere più agevole cogliere la giusta proporzione tra fatto di reato, come violazione di libertà, e colpevolezza. La giusta proporzione avrebbe, quindi, anche un efetto positivo nella risposta risocializzante del reo e nel relativo procedimento di autoresponsabilizzazione, come, del resto, la predisposizione di strumenti riparativi da implementare nell’ordinamento domestico. Tuttavia, la perdurante inerzia (ed incapacità politica) del legislatore, nel riuscire a sistematizzare gli indirizzi comunitari, in materia penale, esalta il ruolo (supplente) del giudice comune, tanto da accentuare il sacriicio delle istanze di democrazia nazionale sottese alla riserva di legge: la crisi contemporanea della legalità penale nel sistema multilivello con il raforzato ruolo del giudice nazionale evidenzia così la crisi della democrazia rappresentativa, ancor di più ove si osservi il deicit democratico del legislatore europeo, colmato dal ruolo propulsivo della Corte di Giustizia. L’inluenza comunitaria e sovranazionale ha, comunque, già disegnato un nuovo volto del reato e del sistema penale (e non solo), con cui è ormai giunto il tempo di rapportarsi seriamente. 17 CAPITOLO I legalità sommario: sezione i. competenza e sovranità: I.1. Prologo. Riserva di legge e fonti del diritto comunitario penale. - I.2. La competenza penale dell’Unione Europea. - I.3. La competenza penale tipica e la possibilità dell’Unione Europea di emanare norme penali. - I.4. La competenza penale europea atipica. Evoluzione giurisprudenziale dell’obbligo di tutela degli interessi comunitari. Gli obblighi di risultato e quelli di penalizzazione. La previsione nel Trattato di Lisbona di una competenza penale tipica impropria e l’attuale possibilità di imporre obblighi di risultato adeguatamente sanzionati. - I.4.1. Classiicazione delle competenze penali dell’Unione Europea. Riepilogo. - I.5. La sovranità in materia penale e l’Unione Europea come Staatenverbund. sezione ii. democrazia: II.1. La questione della democraticità della norma penale. - II.2. La veriica della democraticità della norma penale europea. Principio di legalità nella Carta di Nizza e l’autonomia degli ordinamenti, nazionale ed europeo. La competenza penale tipica è condivisa con ciascun Stato membro. - II.3. Le tradizionali obiezioni sul deicit democratico dell’Unione Europea. - II.4. La veriica della democraticità della norma penale europea attraverso l’analisi del ruolo del Parlamento nazionale nel processo di formazione degli atti comunitari. Il Protocollo n. 2 sulla veriica del rispetto dei principi di sussidiarietà e proporzionalità e la legge n. 234 del 2012. Prospettive de iure condendo. - II.5. L’incidenza del difetto di democraticità della norma penale europea nel diritto interno. La determinatezza della norma penale europea come limite o vincolo dell’obbligo di trasposizione per il legislatore nazionale. - II.6. Il sindacato della Corte di Giustizia dell’Unione Europea in relazione a direttive dettagliate. La Corte costituzionale ed il controllo sulla legge di ratiica del Trattato di Lisbona e sulle norme derivate. L’incostituzionalità degli artt. 7 e 12 l. 234/2012 in relazione al principio di legalità-riserva di legge (democraticità). sezione iii. retroattività: III.1. La retroattività della legge favorevole dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo alla Carta di Nizza. L’excursus dell’afermazione internazionale e la giurisprudenza costituzionale sul principio di retroattività in mitius. - III.2. Brevi rilessioni sulla limitazione al sindacato costituzionale (di ragionevolezza) della norma abrogatrice non contraria ad una norma comunitaria. - III.3. Note di analisi comparativa dei sistemi europei di civil law e common law in tema di norme penali più favorevoli. - III.4. La giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea sulla retroattività benigna ed il bilanciamento con il principio di prevalenza del diritto comunitario. La vicenda del falso in bilancio italiano. - III.5. L’inderogabilità europea del principio della retroattività della lex mitior: il principio della certezza del diritto che promana dalla irmitas del giudicato e la sua intangibilità relativa. sezione iv. primauté: IV.1. Il principio di legalità ed il diritto vivente: giurisprudenza come fonte del diritto e l’arresto della Corte costituzionale. - IV.2. Il conlitto tra norma europea e norma interna: il primato del diritto europeo e l’europeizzazione dei controlimiti. I principi identitari e strutturali costituzionali come parametri dell’esclusivo sindacato di legittimità del diritto europeo da parte della Corte di Lussemburgo. Dalla coordinazione di sistemi autonomi e diversi al sistema sinergico unico e generale. - IV.3. L’inapplicazione della norma statuale penale in conlitto con quella europea. Un esempio di rilesso in bonam partem: clandestinità e direttiva rimpatri. - IV.4. Le fonti europee interferenti con il diritto penale statuale. - IV.5. La sistematica di Carlo Sotis. L’eurointegrazione riduttiva o in bonam partem. - IV.5.1. (segue) L’interferenza ad efetti espansivi o in malam partem. I conlitti diadici 19 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea e l’interpretazione conforme: rinvio. I conlitti triadici e l’inadempimento sopravvenuto. - IV.6. L’interpretazione conforme. - IV.7. Epilogo. Il ruolo del giudice comune nell’applicazione della norma penale fra democrazia e primautè europea. Ipotesi di democratizzazione dell’amministrazione della giustizia sezione I. Competenza e sovranità I.1. Prologo. Riserva di lege e fonti del diritto comunitario penale. La tematica dei rapporti tra la riserva di legge penale nazionale e le fonti comunitarie è studiata da tempo1, costituendo un punto di tensione dell’interrelazione tra sovranità, democrazia e ruolo dell’interpretazione giurisprudenziale, che ha costituito (ed ancora costituisce) il motore trainante dell’integrazione e dell’armonizzazione europea. L’opera esegetica della Corte di Giustizia, come si dirà, ha precisamente delineato un’inluenza del diritto comunitario su quello penale statuale, poi, sfociata in ciò che può già deinirsi come una competenza penale dell’Unione Europea. All’evoluzione giurisprudenziale, infatti, nella formazione dei principi di diritto comunitario (pretorio) che inluiscono sul diritto nazionale, è seguito lo sviluppo del diritto comunitario positivo, tanto che, di certo, la problematica qui trattata si è arricchita dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona che, come noto, abolendo la tradizionale divisione in pilastri, ha modiicato parzialmente le fonti del diritto comunitario, estendendo a tutte le materie di competenza europea la procedura legislativa ordinaria. Ma non facendo scemare del tutto il denunciato deicit di democraticità dell’iter di formazione legislativa comunitario che ancora è opposto ad una paventata attribuzione di sovranità penale dell’Unione Europea. Per molti anni, in efetti, la perentoria afermazione del Trattato di Roma per cui l’ordinamento comunitario non poteva avere alcuna competenza penale, è stata assolutamente rispettata, anche perché la sovranità nazionale non poteva ammettere la rinuncia all’esercizio sommo dell’imperium di emanare norme penali. Ma il tabù non poteva reggere all’evoluzione del protagonismo normativo della Comunità (poi Unione), ino ad iniziare a coinvolgere la sfera della sovranità penale nazionale, consequenzialmente all’incontestabile esigenza di tutelare adeguatamente interessi non più comuni ai singoli Stati membri, ma di rango sovranazionale poiché propri della Comunità. Interessi proporzionalmente accresciuti in relazione alla progressiva costruzione dell’Unione Europea, «andando a comprendere, per esempio, la tutela del buon andamento dell’amministrazione comunitaria e della corretta attività degli organi giurisdizionali comunitari, la tu- 1. Approfonditamente, Grandi, Riserva di lege e legalità penale europea, Milano, 2010, con ampi riferimenti bibliograici. 20 legalità tela della concorrenza commerciale e della trasparenza societaria, la tutela della moneta unica e la tutela dell’ambiente e, poi, la sicurezza, la regolamentazione dell’immigrazione, ma anche la qualità dei prodotti alimentari»2. La produzione comunitaria, nell’alveo del terzo pilastro ante Lisbona, è stata ricca anche in materia di penale sostanziale, attraverso l’adozione di Convenzioni3 e di decisioni-quadro4, molte certamente volte all’armonizzazione delle procedure di mutuo riconoscimento delle decisioni giudiziarie penali, ma, come detto, incidenti anche sulla previsione comune di fatti di reato, puntualmente deiniti. Norme convenzionali tutte bisognose di normativa interna di attuazione e, comunque, espressione non di un potere sanzionatorio penale proprio, quale attribuzione dell’Unione, ma di un potere inalizzato a favorire la cooperazione tra le autorità giudiziarie5. 2. Fornasari, Riserva di lege e fonti comunitarie, in Fondaroli (a cura di), Principi costituzionali in materia penale e fonti sovranazionali, Padova, 2008, 20, con rinvio a G. Grasso, Comunità europea e diritto penale. I rapporti tra l’ordinamento comunitario e i sistemi degli stati membri, Milano, 1989, 41 ss. 3. A titolo meramente esempliicativo, si possono ricordare la Convenzione del 26 luglio 1995 per la protezione degli interessi inanziari della Unione Europea (c.d. Convenzione PIF) con i protocolli sulla corruzione, sul ruolo della Corte di Giustizia e sul riciclaggio, la Convenzione istitutiva dell’Uicio Europeo di Polizia EUROPOL, anch’essa del 26 luglio 1995, la Convenzione relativa alla lotta alla corruzione nella quale sono coinvolti funzionari delle Comunità Europee o degli Stati Membri, del 26 maggio 1997, la Convenzione sulla mutua assistenza e cooperazione in materia doganale (cd Napoli II) del 18 dicembre 1997 seguita poi dalla cd Napoli III e la Convenzione di assistenza giudiziaria in materia penale tra gli Stati Membri del 29 maggio 2000. 4. A titolo esempliicativo si possono ricordare la decisione quadro sul mandato di arresto europeo 2002/584/GAI, la decisione quadro 2001/500/GAI sulla identiicazione e conisca di proventi di reato, la decisione quadro 2003/577/GAI sulla esecuzione nella UE di ordini di blocco dei beni, la decisione quadro 2005/212/GAI su conisca di beni, strumenti e proventi di reato, la decisione quadro 2006/783/GAI sul mutuo riconoscimento delle decisioni in materia di conisca, la decisione quadro 2002/465/GAI istituente le squadre investigative comuni. 5. Come ricorda Venegoni, Prime brevi note sulla proposta di direttiva della Commissione Europea per la protezione degli interessi inanziari dell’Unione attraverso la lege penale COM/2012/363 (c.d. Direttiva PIF), in www.penalecontemporaneo.it, «un capitolo a sé nella storia del diritto penale europeo è poi stato sempre rappresentato dal settore della tutela degli interessi inanziari della Unione. Questo settore era tradizionalmente trasversale al primo e al terzo pilastro perché la tutela del proprio bilancio è sempre stata per la Unione sia una delle politiche proprie (e non poteva essere altrimenti), da tutelare quindi con strumenti interni comunitari di natura amministrativa (primo pilastro), sia una materia che, potendo sfociare in condotte di rilevanza penale, doveva trovare tutela anche a livello di normativa criminale, propria degli Stati Membri ma nel cui ambito la Unione poteva emanare norme tendenti al ravvicinamento ed alla armonizzazione delle normative nazionali per favorire i rapporti tra le autorità giudiziarie (terzo pilastro). La normativa penale della Unione, quindi, era inalizzata soprattutto alla cooperazione giudiziaria tra le autorità nazionali. Anche in questo settore, quindi, la UE non esercitava un potere legislativo in materia penale “autonomo”, con la possibilità di prevedere fattispecie penale e sanzioni, indipendentemente dalla inalità di armonizzazione dei reati ai ini della cooperazione giudiziaria. Tale concetto era, infatti, espresso in maniera chiarissima nel testo dell’articolo che rappresentava la base legale per le iniziative legi- 21 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea Il Trattato di Lisbona ha poi attribuito alla competenza congiunta degli Stati e dell’Unione Europea la materia della giustizia e degli afari interni (spazio di libertà sicurezza e giustizia), ma ancora non garantendo alle decisioni europee il crisma della democraticità tramite l’esclusiva garanzia parlamentare, che, come bene è stato osservato, assicura anche la scelta dei beni giuridici da tutelare penalmente e delle modalità della tutela (aspetto sostanziale della riserva di legge)6. Non si ritiene, come si dirà più avanti, suiciente, in tali sensi, il potere di veto previsto dall’art. 83 TFUE (o c.d. freno di emergenza), esercitabile da ciascun Stato membro per ottenere la sospensione dell’adozione di una direttiva che incida su aspetti fondamentali del proprio ordinamento giudiziario penale, al ine di imprimere di tale essenziale carattere la norma penale europea. Le fonti comunitarie che interessano la questione afrontata continuano ad essere i regolamenti e le direttive (ma più queste ultime). I regolamenti hanno eicacia diretta ed immediata in tutto il territorio europeo e non hanno alcun bisogno di trasposizione interna. Le direttive, al contrario, non hanno eicacia diretta, ma impongono obblighi e obiettivi agli Stati che sono, però, liberi di raggiungerli con gli strumenti ritenuti più consoni dal diritto interno7. L’art. 83 TFUE attribuisce espressamente a tale ultima fonte europea l’esclusiva possibilità di prevedere norme di armonizzazione penale. I.2. La competenza penale dell’Unione Europea. La competenza, nella terminologia dell’architettura costituzionale, delinea gli ambiti (o materie) e la tipologia di intervento riservata agli organi dotati di potestà (legislativa, esecutiva, giudiziaria, secondo la tradizionale ripartizione). Nel sistema del diritto comunitario, la potestà legislativa è condivisa tra il Consiglio ed il Parlamento Europeo (art. 14 TUE), attraverso un iter di formazione della norma legislativa che vede l’iniziativa della Commissione e la decisione congiunta di Consiglio e Parlamento, in base a quanto previsto dalla procedura legislativa ordinaria (art. 294 TFUE). Gli ambiti di competenza degli organi comunitari sono regolati dai principi di attribuzione, sussidiarietà e proporzionalità, come deiniti dall’art. 5 TUE ed, in particolare, gli ambiti di attribuzione legislativa sono indicati in maniera specislative nel settore nel sistema pre-Lisbona, e cioè l’art. 280 del Trattato CE che, pur dichiarando la necessità della adozione di misure deterrenti e dissuasive per la tutela delle inanze comunitarie, speciicava però in maniera esplicita che le iniziative che la UE poteva intraprendere in questo campo non riguardavano comunque l’applicazione del diritto penale nazionale». 6. Fornasari, Riserva di lege e fonti comunitarie, cit., 17 ss. 7. Accanto alle direttive proprie, la giurisprudenza della Corte di Giustizia ha creato, in via pretoria, le direttive self executing (improprie) che hanno eicacia diretta, una volta trascorso il tempo per la loro trasposizione e che possono essere fatte valere dal cittadino contro lo Stato inadempiente. È superluo dover evidenziare che l’inadempimento statuale non può che avere efetti risarcitori. 22 legalità ica e dettagliata (artt. 3 e 4 TFUE), pur ammettendosi l’intervento comunitario anche su materie non attribuite, «soltanto se e in quanto gli obiettivi dell’azione prevista non possono essere conseguiti in misura suiciente dagli Stati membri, né a livello centrale né a livello regionale e locale, ma possono, a motivo della portata o degli efetti dell’azione in questione, essere conseguiti meglio a livello di Unione» (art. 5, n. 3, TUE), sotto il controllo dei Parlamenti nazionali. In materia penale, possiamo distinguere una competenza penale europea tipica, fondata (o argomentata) su disposizioni positive, da quella atipica, ancorata alla lettura pretoria dell’obbligo di leale cooperazione (o di fedeltà comunitaria) di cui all’art. 4 TUE. I.3. La competenza penale tipica e la possibilità dell’Unione Europea di emanare norme penali. La competenza penale tipica8 va considerata nell’alveo della materia di spazio di libertà, sicurezza e giustizia, attribuito congiuntamente agli Stati membri ed all’Unione Europea (art. 4 TFUE), nei limiti del «rispetto dei diritti fondamentali e dei diversi ordinamenti e delle tradizioni giuridiche degli Stati membri» (art. 67, § 1, TFUE)9. L’art. 83, § 1, TFUE prevede che «il Parlamento europeo e il Consiglio, deliberando mediante direttive secondo la procedura legislativa ordinaria, possono stabilire norme minime relative alla deinizione dei reati e delle sanzioni in sfere di criminalità particolarmente grave che presentano una dimensione transnazionale derivante dal carattere o dalle implicazioni di tali reati o da una particolare necessità di combatterli su basi comuni». Tali sfere di criminalità sono individuate dal capoverso ed, in particolare, esse sono: «terrorismo, tratta degli esseri umani e sfruttamento sessuale delle donne e dei minori, traico illecito di 8. Bernardi, La competenza penale accessoria dell’Unione Europea: problemi e prospettive, in Dir. pen. cont. - Riv. trim., 1, 2012, 43 ss., distingue la competenza penale europea (che, come si dirà, deiniamo tipica propria e impropria) in autonoma, in relazione alla previsione di cui all’art. 83, § 1, TFUE, e accessoria, in ordine a quella disciplinata dall’art. 83, § 2, TFUE. Si tratta, comunque, di una competenza indiretta, cfr. fra gli altri, Manes, Il giudice nel labirinto. Proili delle intersezioni tra diritto penale e fonti sovranazionali, Roma, 2012, 15. 9. Tesauro, Diritto dell’Unione Europea, Padova, 2012, 99 per cui «i settori di competenza concorrente possono essere oggetto di attività legislativa sia da parte dell’Unione sia da parte degli Stati. Nondimeno, l’esercizio della competenza statale, nell’art. 2 TFUE, è costruito in termini residuali rispetto a quello dell’Unione, giacché è espressamente afermato che la competenza statale possa essere esercitata soltanto qualora le istituzioni non abbiano fatto uso della propria, oppure qualora abbiano deciso di cessare di esercitare la propria. L’applicazione della norma in questione è, comunque, in grado di determinare diversi scenari: gli Stati dispongono dell’intera competenza normativa qualora l’Unione si astenga da qualsiasi forma di intervento o smetta di occuparsi del settore in questione; sono chiamati, invece, ad adottare semplicemente norme di attuazione qualora l’Unione intervenga con una disciplina non autoapplicativa; inine, subiscono la completa espropriazione delle proprie prerogative normative qualora l’Unione detti una disciplina esaustiva». 23 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea stupefacenti, traico illecito di armi, riciclaggio di denaro, corruzione, contrafazione di mezzi di pagamento, criminalità informatica e criminalità organizzata». Catalogo che può essere incrementato dal Consiglio con una decisione adottata all’unanimità, previa approvazione del Parlamento europeo, purché le ulteriori sfere di criminalità abbiano i caratteri di quelle già tipizzate. Ed invero, il primo comma dell’art. 83, § 1, TFUE individua tali caratteri nei seguenti: a) particolare gravità; b) transnazionalità che derivi (1) dal carattere o dalle implicazioni di tali reati, ovvero (2) da una particolare necessità di combatterli su basi comuni. La norma de qua, dunque, prevede l’ambito di competenza penale propria e tipica dell’Unione Europea, in una forma mitigata, se si vuole, nel senso che non essendo stabilito un catalogo comune ed armonizzato di pene, non è possibile un’applicazione diretta della norma penale europea, tant’è vero che la disposizione citata prescrive l’adozione di una direttiva, che non può avere applicazione immediata e generalizzata, necessitando del recepimento da parte di ciascun Stato membro. Pertanto, sarà impossibile poter individuare, in tale settore, delle direttive self executing. In altri termini, la previsione pattizia comunitaria ha deinito una competenza penale tipica dell’Unione, non solo, concorrente, ma anche condivisa con gli Stati membri, da un lato, essendo necessario il recepimento della norma penale europea attraverso un atto legislativo interno (di attuazione) e, dall’altro, prevedendo la possibilità di sospendere la procedura legislativa ordinaria, secondo quanto prescritto dall’art. 83, § 3, TFUE, come si dirà più avanti. Non va dimenticata la norma prevista nell’ambito della tutela degli interessi inanziari dell’Unione Europea (art. 325 TFUE) che, diversamente dal precedente art. 280 TCE, dettato per la medesima materia, consente (rectius, non esclude) la possibilità di adottare delle norme penali, non contenendo più l’inciso del precedente articolo pattizio secondo cui tali misure non avrebbero comunque interessato il diritto penale degli Stati membri, con l’efetto che anche in tale settore l’Unione è dotata di una potestà normativa penale propria. A diferenza della previsione di cui all’art. 83, § 1, TFUE, l’art. 325 TFUE non limita lo strumento di produzione alla sola direttiva, con ciò ammettendo o, meglio, non escludendo la possibilità di adozione di regolamenti in tale settore, quindi direttamente applicabili negli Stati membri, salvi i limiti imposti dal diritto interno che ne renderebbero assolutamente impraticabile l’applicazione efettiva10. 10. Venegoni, Prime brevi note sulla proposta di direttiva della Commissione Europea, cit., 3, osserva, a proposito della proposta della Commissione per la protezione degli interessi inanziari europei, ma con argomenti estensibili ad ogni altro settore, che «una proposta di regolamento 24 legalità Tale possibilità è, comunque, da escludere per una ragione sistematica. L’art. 83 TFUE, come visto, regola la competenza penale europea, prescrivendo la forma di produzione della relativa norma, tramite la direttiva. Tale disposizione formale della fonte di produzione assume carattere generale, non tanto, in relazione alla competenza tipica propria, come appena deinita, laddove vi è un’espressa attribuzione di materie aferenti alla frode inanziaria in genere, a cui fa riferimento l’art. 325 TFUE (riciclaggio, corruzione e contrafazione dei mezzi di pagamento), ma soprattutto in considerazione di quanto previsto dall’art. 83, § 2, TFUE, che, come si vedrà nel prossimo paragrafo, disciplina una competenza penale impropria ed accessoria ad ogni materia di intervento dell’Unione. Per queste ragioni e, dunque, dal combinato disposto degli artt. 83 e 325 TFUE, non appare possibile l’ipotesi di adozione di regolamenti penali per la tutela degli interessi inanziari comunitari11. avrebbe comportato dei problemi che ne avrebbero reso il cammino per l’approvazione ancora più complicato di quello che ci si può aspettare in sede di prossime negoziazioni al Consiglio della UE e al Parlamento Europeo. Oltre alle questioni di carattere “politico” sulla introduzione, per la prima volta, di norme penali direttamente negli ordinamenti nazionali senza necessità di normativa di attuazione, l’adozione di un regolamento in diritto penale sostanziale pone, in linea generale, alcuni problemi di carattere eminentemente pratico, forse non irrisolvibili, ma che meritano però delle rilessioni. Una questione problematica potrebbe essere, per esempio, quella relativa alle sanzioni. Per essere immediatamente applicabile negli stati membri come regolamento, l’atto dovrebbe contenere non tanto una indicazione di soglie sanzionatorie alle quali gli Stati membri dovrebbero adattare le proprie normative nazionali, sempre con un certo margine di autonomia, quanto l’indicazione speciica e precisa del tipo di sanzione e della sua quantiicazione – seppure sempre entro un limite minimo e massimo –, esattamente come avviene per le norme del codice penale interno. Ciò potrebbe comportare anche dei problemi linguistici in sede di traduzione – e non trasposizione, trattandosi di norme che sarebbero direttamente applicabili – di tali disposizioni. L’adozione di norme penali con regolamento è certamente un obiettivo ambizioso e rappresenterà un passo fondamentale nel cammino di uniicazione europea, ma ad esso si arriverà probabilmente con maggiore gradualità». 11. Alcuna competenza penale diretta può essere evidenziata dal combinato disposto degli artt. 86, § 2, e 325, § 4, TFUE. L’art. 86, § 2, TFUE, del resto, non pare neanche che possa formare la base normativa per la previsione di una competenza penale distinta, rispetto a quella generale di cui all’art. 83 TFUE, in materia di interessi inanziari comunitari, trattandosi di una norma di organizzazione della competenza di una futura procura europea, con la possibilità, fra l’altro, di indicare i reati più gravi da devolvere alla competenza di tale magistratura inquisitoria sovraordinata. Da ciò, non appare possibile utilizzare tale norma per giustiicare la deinizione di reati con regolamento. Lucidamente, Bernardi, La competenza penale accessoria dell’Unione Europea: problemi e prospettive, cit., 61, nota 106, evidenzia che «il quesito se gli artt. 86, § 2 e 325, § 4 TFUE prevedano l’attribuzione di una competenza penale diretta a carattere settoriale in capo all’Unione (e dunque la possibilità, per quest’ultima, di adottare regolamenti a carattere penale) riceve in dottrina tre diverse soluzioni: a) la prima soluzione è volta a negare tale competenza (cfr., per tutti, Palazzo, Corso di diritto penale, Torino, 2011, 131 ss.; amplius G. Grasso, Il Trattato di Lisbona e le nuove competenze penali dell’Unione, in Studi in onore di Mario Romano, Napoli, 2011, 2347. L’A. riconosce sì “una maggiore incisività della competenza prevista in questo articolo [325 TFUE] rispetto a 25 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea I.4. La competenza penale europea atipica. Evoluzione giurisprudenziale dell’obbligo di tutela degli interessi comunitari. Gli obblighi di risultato e quelli di penalizzazione. La previsione nel Trattato di Lisbona di una competenza penale tipica impropria e l’attuale possibilità di imporre obblighi di risultato adeguatamente sanzionati. L’opera esegetica della giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha precisamente delineato un’inluenza del diritto comunitario su quello penale statuale, poi, sfociata in ciò che abbiamo già deinito come una competenza penale (tipica e propria) dell’Unione, fondata sulla previsione dell’art. 83, § 1, TFUE. Ma accanto a tale competenza è ancora oggi possibile delineare una competenza atipica penale (o tipica impropria, come vedremo), così come elaborata dalla Corte di Giustizia prima del Trattato di Lisbona. È stata proprio la Corte di Lussemburgo, come accennato, a sancire progressivamente «il tramonto dell’idea originaria di un diritto penale impermeabile al processo di integrazione europea, deinendo un assetto dei rapporti tra ordinamento comunitario e sistemi penali nazionali in cui l’opera di deinizione di ciò che è penalmente rilevante vede sempre meno le autorità nazionali quali attori esclusivi delle scelte di penalizzazione formalizzate all’interno di ciascun ordinamento»12. quella di cui all’art. 83”, ma ritiene che tale maggiore incisività discenda solo dall’eliminazione dei vincoli relativi sia all’adozione di “regole minime” sia al presupposto della “indispensabilità”; non discenda cioè − per usare le parole di Picotti, Il Corpus Juris 2000. Proili di diritto penale sostanziale e prospettive di attuazione alla luce del progetto di Costituzione europea, in Picotti (a cura di), Il Corpus Juris 2000. Nuova formulazione e prospettive di attuazione, Padova, 2004, 85, 86 − dalla sussistenza di una “speciica ‘base giuridica’ per la creazione di un diritto penale europeo […] immediatamente operativo”); b) la seconda soluzione è orientata ad ammettere tale competenza penale diretta (cfr. Bernardi, Europeizzazione del diritto penale e progetto di Costituzione europea, in Dir. pen. proc., 2004, 8, 9; Manacorda, Los extrechos caminos de un derecho penal de la Union Europea. Problemas y perspectivas de una competencia penal “directa” en el Proyecto de Tratado Constituciónal, in Criminalia, 2004, 208 ss.; Picotti, Il Corpus Juris 2000. Proili di diritto penale sostanziale e prospettive d’attuazione alla luce del progetto di Costituzione per l’Europa, cit., 85 ss.; Riondato, Dal mandato di arresto europeo al libro verde sulle garanzie, alla Costituzione europea. Spunti sulle nuove vie di afermazione del diritto penale sostanziale europeo, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2004, 1128 ss.); c) la terza soluzione è tesa ad ammettere una circoscritta competenza penale diretta dell’Unione solo per i precetti, con conseguente esclusione che il regolamento penale possa indicare anche il tipo e l’entità delle sanzioni applicabili (cfr. Sotis, Il Trattato di Lisbona e le competenze penali dell’Unione europea, in Cass. pen., 2010, 1164 ss.)». Va segnalato che non sono stati adottati regolamenti penali aventi come base giuridica gli artt. 86 e 325 TFUE, anzi cfr. Proposta di direttiva della Commissione Europea per la protezione degli interessi inanziari dell’Unione attraverso la lege penale COM/2012/363 (c.d. Direttiva PIF); in dottrina, fra gli altri, G. Grasso, Il Trattato di Lisbona e le nuove competenze penali dell’Unione, cit., 2326; Id., La Costituzione per l’Europa e la formazione di un diritto penale dell’Unione europea, in Studi in onore di Giorgio Marinucci, I, Milano, 2006, 375; da ultimo, Grandi, Riserva di lege e legalità penale europea, cit., 122 ss. 12. Sicurella, La tutela mediata degli interessi della costruzione europea: l’armonizzazione dei sistemi penali nazionali tra diritto comunitario e diritto dell’Unione Europea, in G. Grasso, Sicurella (a cura di), Lezioni di diritto penale europeo, Milano, 2007, 247. 26 legalità La competenza penale atipica europea è stata deinita in via pretoria, dunque, chiarendo che l’assenza di ogni autonomia sanzionatoria a livello comunitario non signiica una rinuncia a tutelare in modo adeguato gli interessi devoluti alla costruzione comunitaria, imponendo, di contro, un sistema di tutela mediata dall’intervento dell’apparato sanzionatorio degli Stati membri13, necessario e obbligato dal principio di leale cooperazione (o di fedeltà comunitaria) deinito ora dall’art. 4 TUE. In altri termini, l’interesse comunitario deve essere adeguatamente tutelato da norme interne sanzionatorie, in difetto delle quali lo scopo indicato dalla norma comunitaria viene meno. Si tratta, quindi, di un obbligo di risultato sottoposto al sindacato della Corte di Giustizia che veriica, nel corso della procedura di infrazione, la concreta adeguatezza della soluzione sanzionatoria adottata dallo Stato membro. Tale controllo è regolato dal duplice vincolo della predisposizione di condizioni sostanziali e processuali “analoghe” a quelle stabilite per le violazioni del diritto interno «simili per natura ed importanza» (principio di assimilazione) e che comunque conferiscano alla sanzione «un carattere di efettività, di proporzionalità e di capacità dissuasiva» (principio della sanzione adeguata)14. Accanto agli obblighi di risultato, come appena deiniti, l’evoluzione giurisprudenziale comunitaria ha stigmatizzato la legittimità degli interventi normativi volti «ad imporre agli Stati non più di garantire mezzi sanzionatori genericamente eicaci per raggiungere l’obiettivo di tutela, ma veri e propri obblighi di penalizzazione, vincolanti gli Stati membri a qualiicare proprio come illeciti penali le infrazioni di determinate disposizioni del diritto comunitario, talora condizionandone la discrezionalità anche in relazione alla scelta della tipologia o entità delle sanzioni che devono essere previste»15. Tale impostazione poggia sulle stesse disposizioni del Trattato che attribuiscono la competenza normativa europea in quel determinato settore, che necessita di un’articolazione sanzionatoria penale come strumento di quella competenza. La legittimità degli obblighi comunitari di penalizzazione è stata riconosciuta con speciico riguardo alla tutela dell’ambiente, ma con argomentazioni estensibili ad ogni settore normativo rientrante nelle attribuzioni comunitarie, sempre se «ciò costituisca una misura indispensabile di lotta contro danni (ambientali)» gravi, volta a garantire «la piena eicacia delle norme che [il legislatore comunitario] emana in materia di tutela (dell’ambiente)»16. 13. Bernardi, L’europeizzazione del diritto e della scienza penale, Torino, 2004, 25 ss. 14. Da ultimo, Corte Giust. Un. Eur. Sez. V, 7 ottobre 2010, C-382/09; in precedenza, Corte Giust. Com. Eur., 12 settembre 1996, C-58/96; Corte Giust. Com. Eur., 8 giugno 1994, C-383/94. Va ricordato il famoso leading case in cui, per la prima volta, sono stati elaborati i principi de quibus (sentenza del c.d. mais greco), cfr. Corte Giust. Com. Eur., 1 settembre 1999, C-68/88, Commissione/Grecia, punti 23 e 24; si veda pure, Corte Giust. Com. Eur., 2 ottobre 1991, C-7/90, punto 11. 15. Fornasari, Riserva di lege e fonti comunitarie, cit., 25. 16. Corte Giust. Com. Eur., Grande Sez., 23 ottobre 2007, C-440/05, in cui si richiama il precedente di Corte Giust. Com. Eur., Grande Sez., 13 settembre 2005, C-176/03 che testualmente 27 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea Gli obblighi di penalizzazione, a diferenza di quelli di mero risultato con la previsione di una sanzione adeguata, lasciano poco spazio all’autonomia statuale, poiché, come è stato osservato17, «l’opzione tra la sanzione penale e gli altri tipi di sanzioni, garantita dagli obblighi di risultato, è al di fuori del margine nazionale di apprezzamento». Ma questo è un aspetto che dovrà essere approfondito nell’indagine, dopo aver delineato il sistema attualmente vigente18. Fino all’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, quindi, grazie all’elaborazione giurisprudenziale, l’Unione poteva intervenire in materia penale, imponendo agli Stati membri obblighi di risultato da sanzionare adeguatamente e obblighi di previsione di veri e propri illeciti penali a tutela di beni comunitari19. Attualmente, l’art. 83, § 2, TFUE contiene una disposizione che sembrerebbe costituire la base positiva della competenza penale in ogni settore o ambito di attribuzione dell’Unione Europea, alla stregua dell’elaborazione pretoria dell’obbligo di tutela penale di interessi comunitari, appena illustrato20. aferma ai §§ 47 e 48, che «in via di principio, la legislazione penale, così come le norme di procedura penale, non rientrano nella competenza della Comunità […] quest’ultima constatazione non può tuttavia impedire al legislatore comunitario, allorché l’applicazione di sanzioni penali efettive, proporzionate e dissuasive da parte delle competenti autorità nazionali costituisce una misura indispensabile di lotta contro violazioni ambientali gravi, di adottare provvedimenti in relazione al diritto penale degli Stati membri e che esso ritiene necessari a garantire la piena eicacia delle norme che emana in materia di tutela dell’ambiente». 17. Sotis, Il diritto senza codice. Uno studio sul sistema penale vigente, Milano, 2007, 171. 18. Tra le prime indagini di approfondimento, Sotis, Obblighi comunitari di tutela e opzione penale: una dialettica perpetua?, in Riv. it. dir. proc. pen., 2002, 171 ss., seguite da un ampio dibattito, Lanzi, Considerazioni sull’eventualità di un sindacato di ragionevolezza sulle scelte politico-criminali, in IP, 2003, 895 ss.; Sicurella, Diritto penale e competenze dell’Unione europea. Linee guida di un sistema integrato di tutela di beni giuridici di interesse comune, Milano, 2005, 200 ss.; Sotis, Il diritto senza codice, cit., 246 ss.; Paonessa, Gli obblighi di tutela penale. La discrezionalità legislativa nella cornice dei vincoli costituzionali e comunitari, Pisa, 2009, 193 ss.; Salcuni, Il canto del cigno degli obblighi comunitari/ costituzionali di tutela: il caso del falso in bilancio, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2005, 93 ss.; Fornasari, Riserva di lege e fonti comunitarie, cit., 31 ss.; Siracusa, Il transito del diritto penale di fonte europea dalla vecchia alla nuova Unione post-Lisbona, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2010, 779 ss.; Manacorda, Le droit pénal e l’Union européenne: esquisse d’un systeme, in RSCDPC, 2000, 95 ss.; Mezzetti, La tutela penale degli interessi inanziari dell’Unione europea. Sviluppi e discrasie nella legislazione penale degli Stati membri, Padova, 1994. 19. Esempio classico di tale forma di potestà in materia penale pre-Lisbona è la direttiva 2008/99/CE in materia di inquinamento marittimo, che è proprio il frutto dei principi espressi dalla sentenza della Corte di Giustizia nel caso C-176/03. 20. Ampiamente, al riguardo, Bernardi, La competenza penale accessoria dell’Unione Europea: problemi e prospettive, cit., 45; Sotis, Il Trattato di Lisbona e le nuove competenze penali dell’Unione europea, in Cass. pen., 2010, 1150 ss.; Salcuni, L’europeizzazione del diritto penale: problemi e prospettive, Milano, 2011, 144 ss.; Sicurella, Questioni di metodo nella costruzione di una teoria delle competenze dell’Unione europea in materia penale, in Studi in onore di Mario Romano, Napoli, 2011, IV, 2596 ss.; Hecker, Europäisches Strafrecht, Heidelberg, Dondrecht, London, New York, 2010. 28 legalità «Allorché il ravvicinamento delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri in materia penale – recita la norma – si rivela indispensabile per garantire l’attuazione eicace di una politica dell’Unione in un settore che è stato oggetto di misure di armonizzazione, norme minime relative alla deinizione dei reati e delle sanzioni nel settore in questione possono essere stabilite tramite direttive». I presupposti di tale competenza generale tipica (impropria)21 sono l’indispensabilità della norma penale e la già intervenuta armonizzazione delle legislazioni particolari, comunque, sottoposta ai limiti previsti per quella tipica (propria). A prescindere dal carattere internazionale della materia interessata (si richiede infatti l’intervenuta armonizzazione del settore di interesse comunitario), patrocinato dal principio di sussidiarietà22, il presupposto dell’indispensabilità richiesto dall’art. 83, § 2, TFUE, sintetizza l’elaborazione giurisprudenziale dei limiti agli obblighi di penalizzazione, richiedendo, inoltre, il rispetto del principio di proporzionalità23, in base al quale l’azione comunitaria non deve andare «al di là di quanto necessario per il raggiungimento degli obiettivi e, quindi, può realizzarsi solo in assenza di una adeguata normativa penale previgente negli Stati membri»24. L’indispensabilità della norma penale europea (in materia di competenza tipica impropria) è ricavabile dall’applicazione del principio di sussidiarietà (comune anche alla competenza penale tipica propria), nella combinazione dei suoi corollari dell’eicacia e della necessità, con il principio di proporzionalità. Poiché l’art. 83, § 2, TFUE, legittima, come visto, positivamente l’obbligo di penalizzazione, frutto dell’elaborazione della giurisprudenza della Corte di Giustizia, la competenza penale atipica, delineata all’inizio del paragrafo, sarebbe limitata oggi ai soli obblighi di risultato da raggiungere con sanzioni adeguate. Ma ciò non può essere. Appare, infatti, anacronistico ritenere che, a fronte della novella costituzionale europea con cui è stata recepita la pluriennale evoluzione giurisprudenziale, nulla sia mutato e tutto sia rimasto come prima. In altri termini, 21. Deinita accessoria da Bernardi, La competenza penale accessoria dell’Unione europea, cit., 48. Nello stesso senso, con esplicito richiamo, Manes, Il giudice nel labirinto, cit., 109, nota 306. 22. Codiicato dall’art. 5, § 3 TUE secondo cui: «In virtù del principio di sussidiarietà, nei settori che non sono di sua competenza esclusiva l’Unione interviene soltanto se e in quanto gli obiettivi dell’azione prevista non possono essere conseguiti in misura suiciente dagli Stati membri, né a livello centrale né a livello regionale e locale, ma possono, a motivo della portata o degli efetti dell’azione in questione, essere conseguiti meglio a livello di Unione. Le istituzioni dell’Unione applicano il principio di sussidiarietà conformemente al protocollo sull’applicazione dei principi di sussidiarietà e di proporzionalità. I parlamenti nazionali vigilano sul rispetto del principio di sussidiarietà secondo la procedura prevista in detto protocollo». 23. Codiicato dall’art. 5, § 4 TUE secondo cui: «In virtù del principio di proporzionalità, il contenuto e la forma dell’azione dell’Unione si limitano a quanto necessario per il conseguimento degli obiettivi dei trattati. Le istituzioni dell’Unione applicano il principio di proporzionalità conformemente al protocollo sull’applicazione dei principi di sussidiarietà e di proporzionalità». 24. Epidendio, Diritto comunitario e diritto penale interno, Milano, 2007, 30. 29 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea la novella, prevedendo espressamente, come visto, una competenza penale tipica (propria e impropria) dell’Unione Europea, che ha positivizzato gli obblighi di penalizzazione come ammessi dalla giurisprudenza comunitaria, ha voluto escludere una competenza atipica che, invero, non avrebbe più alcun senso ove si consideri che la sanzione penale come tutela adeguata dell’obiettivo comunitario può essere già imposta dalla norma di indirizzo europeo, ai sensi dell’art. 83 TFUE. I.4.1. Classiicazione delle competenze penali dell’Unione Europea. Riepilogo. La competenza penale dell’Unione Europea, regolata dal principio di sussidiarietà e proporzione, può essere così classiicata: – tipica propria, per cui l’Unione può stabilire norme minime relative alla deinizione dei reati e delle sanzioni in materia di terrorismo, tratta degli esseri umani e sfruttamento sessuale delle donne e dei minori, traico illecito di stupefacenti, traico illecito di armi, riciclaggio di denaro, corruzione, contrafazione di mezzi di pagamento, criminalità informatica e criminalità organizzata (art. 83, § 1, TFUE); tali materie possono essere incrementate senza la necessità della procedura di revisione del Trattato, ma dal Consiglio, previa deliberazione del Parlamento europeo, con una decisione adottata all’unanimità; – tipica impropria, per cui l’Unione può stabilire norme minime relative alla deinizione dei reati e delle sanzioni in ogni settore che è stato oggetto di armonizzazione, purché tale intervento risulti indispensabile per garantire l’attuazione eicace della stessa politica di armonizzazione (art. 83, § 2, TFUE). Tale competenza (tipica propria e impropria), come detto, riguarda la materia di spazio di libertà, sicurezza e giustizia, attribuita congiuntamente agli Stati membri ed all’Unione Europea (art. 4 TFUE), nei limiti del «rispetto dei diritti fondamentali e dei diversi ordinamenti e delle tradizioni giuridiche degli Stati membri» (art. 67, § 1, TFUE). La stessa viene esercitata esclusivamente con direttive da adottare secondo l’iter ordinario (art. 294 TFUE) e, dunque, è certamente indiretta, ovvero attraverso la procedura speciale nella sola ipotesi di competenza penale tipica impropria, qualora l’indispensabilità della norma penale intervenga in un settore armonizzato con un iter legislativo speciale25. 25. Per esempio, nel campo della tutela ambientale (artt. 191-193 TFUE) è prevista sì la procedura legislativa ordinaria ex art. 192, § 1, ma anche, in speciici sottosettori (concernenti, tra l’altro, l’assetto territoriale, le risorse idriche, la destinazione dei suoli), una procedura legislativa speciale, previa consultazione del Parlamento europeo, ex art. 192, n. 2. Sempre ai sensi dell’art. 192, § 2 TFUE, nei suddetti sottosettori si applica tale procedura «fatto salvo l’art. 114», il quale prevede la procedura legislativa ordinaria per le norme relative al ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri che hanno per oggetto l’instaurazione e il funzionamento del mercato interno: cosicché, verosimilmente, se le misure di armonizzazione che incidono sull’assetto territoriale, sulla gestione quantitativa dei succitati sottosettori hanno 30 legalità È stata appuntata l’attenzione sulle modalità di ampliamento dei settori afidati alla competenza penale. Mentre per quella tipica propria la stessa norma prevede un iter formale di incremento dei settori attribuiti alla politica criminale comunitaria, oltre alla possibilità di un’interpretazione estensiva26, quella tipica impropria, invece, non è vincolata al rispetto di un iter procedurale di incremento dei settori di intervento penale, ma è limitata solo dal criterio sostanziale insito nei principi di sussidiarietà e proporzionalità. Da ciò la concreta potenzialità espansiva incontrollabile della competenza tipica impropria27. I.5. La sovranità in materia penale e l’Unione Europea come Staatenverbund. Alla ine dell’analisi del sistema delle competenze attribuite all’Unione, va afrontata la questione della sovranità in materia penale che, comunque, non è condivisa tra l’Unione e gli Stati membri, per una serie di incontestabili ragioni. È necessario, prima d’ogni altro, valutare la natura dell’Unione Europea, certamente, di non agevole deinizione giacché eterogenee sono le fonti delle sue norme che disciplinano i rapporti tra i singoli (cittadini dell’Unione e persone residenti), le istituzioni comunitarie e gli Stati membri, vale a dire, tra i soggetti dell’ordinamento. Sifatte norme hanno infatti una natura diversiicata, a tre dimensioni: a) internazionale, se si considerano i Trattati istitutivi delle Comunità europee e un collegamento diretto con l’instaurazione o il funzionamento del mercato comune, la base giuridica sarà l’art. 114 TFUE (con conseguente adozione della procedura ordinaria); diversamente la base giuridica sarà l’art. 192, co. 2, (con conseguente ricorso alla procedura speciale). Ulteriori procedure legislative speciali caratterizzate da una mera consultazione del Parlamento sono poi previste, in particolare, agli artt. 77, § 3, 81, § 3, 89, 113, 115, 126, § 14, co. 2, 127, § 6, 153, § 2, co. 3, 183, § 4, 192, § 2, 194, § 3, 203, 218, § 6 lett. B, 219, § 1 TFUE e da talune di queste norme (essenzialmente dall’art. 115) possono conseguire misure di armonizzazione extrapenale capaci di giustiicare direttive penali di armonizzazione impropria. 26. Bernardi, La competenza penale accessoria dell’Unione Europea: problemi e prospettive, cit., 50. 27. Bernardi, op. e loc. cit., secondo cui, «nell’ambito della competenza penale accessoria solo il rispetto del requisito sostanziale insito nei principi di sussidiarietà e proporzionalità (requisito evocato nell’art. 83, § 2 TFUE, laddove si richiede che il ravvicinamento delle disposizioni nazionali in materia penale risulti “indispensabile”) si oppone ad un generalizzato travaso di competenze penali dagli Stati all’Unione in tutti i settori in cui quest’ultima dispone di una qualsivoglia competenza (concorrente o esclusiva). Per di più, il controllo preventivo dei Parlamenti interni in vista del rispetto del principio di sussidiarietà − seppur prezioso e ricco di valenze democratiche − non impedisce il varo di direttive d’armonizzazione penale ritenute non rispettose di tale principio. Nel caso in cui almeno un quarto dei Parlamenti abbiano espresso parere negativo circa la conformità del progetto di direttiva al suddetto principio è infatti previsto solo un aggravio delle relative procedure d’adozione, e non invece l’interruzione delle stesse, la quale avverrà esclusivamente in taluni speciici casi. Quanto poi al controllo successivo da parte della Corte di giustizia ex art. 263 TFUE e art. 8 Protocollo n. 2, non va ignorato che esso si è rivelato sinora assai poco pregnante, e che la modesta incisività di tale controllo è stata ribadita nei primi mesi di vigenza del Trattato di Lisbona. Appare dunque verosimile che esso anche in futuro si riveli scarsamente signiicativo e comunque non idoneo a impedire un eventuale, generoso ricorso alla competenza penale accessoria». 31 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea dell’Unione, e delle successive revisioni, in quanto accordi di diritto internazionale; b) comunitaria propriamente detta, in ordine agli atti legislativi adottati dalle istituzioni nel rispetto delle loro competenze; c) nazionale se si considera il diritto interno degli Stati membri in esecuzione del diritto comunitario28. È evidente, dunque, che tali speciicità conigurano un ordinamento sui generis, come tertium genus, rispetto a quelli internazionale e nazionale. Tale sistema non è assimilabile all’ordinamento di un’organizzazione internazionale classica, né alla struttura di una confederazione di Stati, e neppure ad alcun modello giuridico di Stato federale29. Il Bundesverfassungsgericht (Tribunale costituzionale federale tedesco), nella nota sentenza Lissabon30, avente ad oggetto il Trattato di Lisbona e le leggi tedesche di ratiica, esecuzione ed accompagnamento, fra l’altro, ha deinito l’Unione come un’associazione di Stati sovrani (Staatenverbund)31. 28. Fragola, Nozioni di diritto dell’Unione Europea. L’ordinamento giuridico, il sistema istituzionale, la carta dei diritti, Milano, 2012, 7 ss. 29. Fragola, Nozioni di diritto dell’Unione Europea, cit., 7, secondo cui, signiicativamente, «l’Unione è una struttura unica nel suo genere che concentra dosi sostanziali di sovranazionalità e che evidenzia un soggetto a composizione mista di Stati, istituzioni e persone, la cui dialettica politica e giuridico-normativa propone un complesso modello interistituzionale che si sostanzia nel c.d. “metodo comunitario”. Il sistema politico-partecipativo costituito dal Parlamento europeo rappresentativo degli interessi dei cittadini, le istituzioni più propriamente sovranazionali quali la Commissione e, sul piano giurisdizionale, la Corte di giustizia, i governi degli Stati membri che attraverso l’istituzione denominata Consiglio (nella composizione classica rappresentativo dei Ministri) esprimono la loro forte posizione e gli Stati attraverso il Consiglio europeo (con il bilanciamento della presenza della Commissione), propongono, in un delicato equilibrio di pesi e contrappesi, una nuova logica che non ha eguali nel panorama internazionale». 30. Per una completa analisi dell’importante “sentenza Lissabon” cfr. Anzon Demming, Principio democratico e controllo di costituzionalità sull’integrazione europea nella “sentenza Lissabon” del Tribunale costituzionale federale tedesco, in DC, 2009, 133 ss. Per ora è suiciente rilevare che il Bundesverfassungsgericht, con la sentenza del 30 giugno 2009, ha veriicato la compatibilità del Trattato di Lisbona, con la legge fondamentale (Grundgesetz, GG). Il giudizio del Tribunale costituzionale federale ha dichiarato il Trattato europeo sostanzialmente conciliabile con i principi fondamentali dell’ordinamento tedesco, tuttavia ha richiamato il Parlamento invitandolo a revisionare gli atti adottati per la ratiica del Trattato nel rispetto dei principi contenuti negli artt. 23, co. 1, e 38, co. 1, GG. Per gli aspetti propriamente penalistici, nella letteratura tedesca, cfr. Schunemann, Spät kommt ihr, doch ihr kommt: Glosse eines Strafrechtlers zur Lissabon-Entscheidung des BverfG; Ambos, Rackow, Erste Überlegungen zu den Konsequenzen des Lissabon-Urteils des Bundesverfassungsgerichts für das Europäische Strafrecht; Heger, Perspektiven des Europäischen Strafrechts nach dem Vertrag von Lissabon; Braum, Europäisches Strafrecht im Focus konligierender Verfassungsmodelle, tutti pubblicati in Zeitschrift für Internationale Strafrechtsdogmatik, 2009, 8, in www.zis-online.com; Zimmermann, Die Auslegung künftiger EU-Strafrechtskompetenzen nach dem Lissabon-Urteil des Bundesverfassungsgerichts, in Jura, 2009, 11, 844 ss.; Schorkopf, Das Lissabon-Urteil des BVerfG. Die Vefassungsbeschwerde als geschärftes Instrument der Verteidigung?, in Ambos (Hrsg.), Europäisches Strafrecht post-Lissabon, Göttinger Studien zu den Kriminalwissenschaften Bd. 14, Göttingen, 2011, 111. 31. BVerfG, 30 giugno 2009, § 262, secondo cui l’Unione è un non-Stato, ma un ordinamento derivato, fondato sul principio di attribuzione e costituito in un Verbund di Stati sovrani. 32 legalità Tanto premesso, non si ritiene condivisibile l’opinione secondo cui «gli Stati membri volontariamente hanno scelto con l’adesione ai trattati, di concedere periodicamente e (pressoché) deinitivamente ampie quote di sovranità, per trasferirle al controllo delle istituzioni comunitarie, con la convinzione che tale (con)cessione è necessaria per il buon funzionamento dell’intero sistema cui essi sono vincolati e per la ulteriore consapevolezza della irreversibilità del processo di integrazione»32. L’ordine di riparto delle competenze tra Unione Europea e Stati membri è regolato dal principio di attribuzione (art. 5, § 1, TUE), con l’efetto che gli Stati non hanno ceduto quote di sovranità, ma hanno attribuito (appunto) ad un ente sovranazionale (associativo) la funzione di normare, attraverso iter decisionali cooperativi, in settori ritenuti di interesse comune e transnazionale, come si evince dai principi di sussidiarietà e proporzionalità che regolano l’intervento comunitario. Il principio di attribuzione, invero, è stato raforzato con il Trattato di Lisbona proprio tramite la sistematizzazione delle competenze. Per la conservata sovranità di ciascuno Stato membro, osserva sempre il Tribunale costituzionale federale tedesco, depongono anche i meccanismi di protezione delle competenze degli Stati membri, contenuti nel Trattato, consistenti nelle regole – ribadite in via generale e precisate dal Trattato – per l’esercizio dei poteri dell’Unione, quali i principi di leale cooperazione e di sussidiarietà, il rispetto dell’identità nazionale, il principio di proporzionalità33. Il mantenimento del principio del Verbund e quindi della sovranità nazionale è poi confermato nel Trattato dalla previsione espressa del diritto di recesso e quindi dalla (implicita) reversibilità del processo di integrazione. L’Unione Europea, inoltre, non ha un popolo, né un territorio, che non sia l’insieme dei territori e dei popoli nazionali34. Per la materia penale, inine, l’impossibilità (anche solo) di una condivisione della sovranità nazionale, derivante dalle evidenziate competenze europee anche in tale sensibile attività politica, per utilizzare le parole del Bundesverfassunsgericht, è ancorata anche al «rispetto dei diritti fondamentali nonché dei diversi ordinamenti giuridici e delle diverse tradizioni giuridiche degli Stati membri» (art. 67, § 1, TFUE), che deve garantire un margine di apprezzamento da parte dello Stato membro nelle scelte di criminalizzazione, inalizzato alla «coesistenza di diversi ordinamenti tramite un’esigenza di compatibilità secondo una logica di equivalenza (e non di uniformazione) determinata in sede europea, a cui le regole nazionali devono tendere (standards normativi europei)»35. 32. Fragola, op. e loc. cit. 33. BVerfG, cit., § 304. 34. Signiicativo di tale evidenza è l’incipit del preambolo della Carta di Nizza, laddove si fa espresso riferimento non al popolo europeo, ma ai popoli europei. 35. Epidendio, Diritto comunitario e diritto penale interno, cit., 37, 38. 33 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea sezione II. democrazia II.1. La questione della democraticità della norma penale europea. Va afrontata a questo punto la tradizionale obiezione della mancanza di democraticità della norma penale europea, incentrata sui rapporti, in genere, tra diritto penale e democrazia, che, del resto, non è questione né nuova, né recentissima. La dottrina prevalente argomenta il difetto di tale carattere della norma (penale) europea36 sulla base proprio dell’iter legislativo ordinario, come disciplinato dall’art. 294 TFUE, che fa condividere la proposta legislativa della Commissione, alla comune volontà del Parlamento europeo e del Consiglio, coinvolgendo, quindi, nella formazione della fonte primaria, organi che non hanno una diretta investitura popolare (Commissione e Consiglio)37. Ancor di più per la competenza tipica impropria, almeno per quei settori che ammettono un iter normativo speciale, con esclusione (o quasi) del Parlamento europeo. La tesi appare ancora oggi convincente, non assumendo i connotati di un’opposizione preconcetta e meramente ideologico-illuministica, perché, così si argomenta, non tiene conto che ogni ordinamento nazionale europeo si ispira a principi democratici, che sono le fondamenta dell’Unione Europea come enunciati solennemente nella Carta di Nizza38. Ma non solo. L’esigenza democratica 36. Invero, si sostiene che alcuna competenza penale possa ritenersi attribuita all’Unione Europea, mancando una norma precisa e chiara che tanto dichiari. Ma, come visto, tale drastica obiezione non può sostenersi all’indomani del Trattato di Lisbona. Fra i tanti, Paonessa, Gli obblighi di tutela penale. La discrezionalità legislativa nella cornice dei vincoli costituzionali e comunitari, cit., 254 ss.; Raspadori, Il deicit di rappresentatività del Parlamento europeo: limiti e soluzioni, in Studi sull’integrazione europea, 2009, 125 ss.; su tali tesi, criticamente, Grandi, Riserva di lege e legalità penale europea, cit., 117 ss., con ulteriori riferimenti bibliograici. Per la letteratura tedesca, Meyer, Demokratieprinzip und Europäisches Strafrecht, Zürich-St. Gallen, 2009. 37. La rappresentatività democratica delle decisioni politico criminali assicurata dal Parlamento è la ratio della riserva di legge di cui all’art. 25, co. 2, Cost., secondo una storica pronuncia della Consulta (Corte cost. n. 487 del 1989, Pres. Saja, Red. Dell’Andro) chiamata a pronunciarsi sulla possibilità per le Regioni di adottare delle norme penali nei settori si competenza legislativa esclusiva o concorrente. Tale pronuncia è stata espressamente richiamata da Corte cost. n. 230 del 2012, Pres. Quaranta, Red. Frigo, su cui ampiamente in prosieguo. 38. Bernardi, La competenza penale accessoria dell’Unione Europea: problemi e prospettive, cit., 58, il quale osserva che, sebbene le due fondamentali norme europee concernenti il principio di legalità penale (vale a dire l’art. 49 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e l’art. 7 CEDU) nulla dicano al riguardo, è paciico che in ambito europeo tale principio contenga anche il corollario della democraticità. Infatti, osserva l’A., «in base alla giurisprudenza della Corte di giustizia il diritto primario dell’Unione non contiene solo principi di diritto scritto, ma anche i principi di diritto non scritto ricavati, oltreché dalle convenzioni internazionali ratiicate dagli Stati membri, dalle Costituzioni di questi ultimi. Come si sa, questa giurisprudenza pretoria è stata da tempo recepita dai Trattati, cosicché in base all’art. 6, n. 3 TUE, “I diritti fondamentali, […] risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali”. Orbene, precisato che per essere “comuni” tali tradizioni non devono 34 legalità unionista è stata ravvisata39 anche nel riconoscimento della cittadinanza europea, in aggiunta, senza sostituirla, a quella nazionale (art. 9 TUE), che costituisce la legittimazione democratica dell’Unione Europea con l’oferta ai suoi cittadini di uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia senza frontiere interne (art. 3, § 2, TUE), nel rispetto dei diritti fondamentali (art. 67, § 1 TUE), garantendo a «ogni persona i cui diritti e le cui libertà garantite dal diritto dell’Unione siano stati violati il diritto a un ricorso efettivo davanti a un giudice» (art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea – c.d. Carta di Nizza40), tramite l’efettività dei rimedi giurisdizionali assicurati dagli Stati membri (art. 19, § 1, TUE). Si tratta di una legittimazione democratica dialogica, ove la cittadinanza europea costituisce l’anello di connessione tra l’ordinamento sovranazionale e quelli domestici. Per garantire la necessità di democraticità della norma penale, non è, dunque, suiciente la sola garanzia del rispetto del relativo iter costituzionale di formazione, ma è necessario che la potestà legislativa appartenga, in via esclusiva o prevalente, ad un organo eletto democraticamente, capace di dare forte legittimazione politica alle scelte di tutela penale41, poiché l’ordinamento è democratico se è retto (e rispetta) i principi di rappresentatività, partecipazione ed uguaglianza che si concentrano ed esprimono nell’organo parlamentare. «Fra gli atti normativi, la legge, con tutti i suoi difetti, continua a possedere una qualità irrinunciabile nelle democrazie contemporanee: quella di scaturire da un procedimento di formazione pubblico e trasparente, che si svolge in Parlamento, e potenzialmente al cospetto dell’opinione pubblica, e che coinvolge l’intera rappresentanza politica, composta da maggioranza e minoranze»42. In tale prospettiva, una parte della dottrina ha valorizzato l’aspetto sostanziale della riserva di legge, sottolineando l’importanza del controllo informato da parte dei cittadini sulle opzioni legislative, attraverso cui, con metodo democratico, si forma la norma penale43. necessariamente appartenere a tutti i Paesi membri, bastando che esse esprimano un orientamento prevalente all’interno dell’Unione, è un dato di fatto che il principio di democraticità delle fonti penali − tendente il più delle volte (ma non sempre) a coincidere col principio di riserva di legge − presenti questa caratteristica e dunque rientri tra i principi generali dell’Unione. Appare pertanto indiscutibile che le direttive in materia penale debbano caratterizzarsi per la loro democraticità». Per più ampi sviluppi, cfr. Bernardi, All’indomani di Lisbona: note sul principio europeo di legalità penale, in Quaderni costituzionali, 2009, 48 ss.; Id., “Riserva di lege” e fonti europee in materia penale, Annali dell’Università di Ferrara - Scienze Giuridiche, vol. XX, 2006, 60 ss.; Grandi, Riserva di lege e legalità penale europea, cit., 81 ss. 39. Manzella, L’unitarietà dell’ordinamento costituzionale europeo, in QC, 2012, 3, 9, 663. 40. Consiglio europeo di Nizza dell’11 dicembre 2000. D’ora in poi anche solo Carta. 41. Fiandaca, Legalità penale e democrazia, in Quad. Fiorentini, 2007, 1248. 42. Zanon, in Zanon, Biondi, Diritto costituzionale dell’ordine giudiziario, 2002, 5. 43. Canestrari, Cornacchia, De Simone, Manuale di diritto penale. Parte generale, Bologna, 2007, 111. 35 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea Tale aspetto sostanziale della riserva di legge garantisce, dunque, la dialettica politica sul contenuto della norma penale, assicurando il controllo delle minoranze parlamentari, attraverso il diritto di proporre delle modiiche all’iniziativa governativa o della maggioranza, ovvero quella di far ascoltare la propria opinione, il proprio dissenso, la propria proposta alternativa. Questo carattere presuppone, però, che l’istituzione che detiene il potere legislativo sia, a sua volta, formata democraticamente, nel senso che i suoi componenti abbiano un’investitura popolare. Sotto questo proilo, nell’alveo della riserva di legge formale, come tradizionalmente deinita, si può ulteriormente distinguere un aspetto della legalità procedurale, che garantisce il rispetto dell’iter costituzionale di formazione della norma, ed un altro aspetto della legalità materiale (o democraticità), che assicura che la formazione della norma sia attribuita ad un’istituzione «che rispecchia la volontà dell’intero popolo, e le cui scelte sono il risultato della dialettica tra maggioranza e minoranza»44. Il volto democratico dell’iter di formazione della legge penale, che implementa il principio di legalità-riserva di legge (formale), appare necessario laddove si guardi alla ratio del controllo parlamentare nella formazione della norma, individuata nell’esigenza di sottrarre all’esecutivo (ed all’apparato giudiziario) il potere di normare sulla libertà personale, intesa come habeas corpus, cioè quale disponibilità del proprio essere corporeo al riparo da coercizioni che 44. Sul signiicato del principio di riserva di legge in materia penale nel quadro dello Stato democratico, v. già i fondamentali rilievi di Delitala, Cesare Beccaria e il problema penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1964, 965 ss., ora in Delitala, Raccolta degli scritti, 1976, vol. II, 688, secondo cui «la sola ragione che giustiichi la scelta del potere legislativo come unico detentore del potere normativo in materia penale risiede nella rappresentatività di quel potere, nel suo essere espressione non di una stretta oligarchia, ma dell’intero popolo, che attraverso i suoi rappresentanti si attende che l’esercizio avvenga non arbitrariamente, ma per il suo bene e nel suo interesse». In senso pienamente adesivo a Delitala, v. inoltre Bricola, Legalità e crisi: l’art. 25 commi 2 e 3 della Costituzione rivisitato alla ine degli anni 70, in Quest. crim., 1980, 179 ss., ora in Bricola, Scritti di diritto penale, vol. I, 1997, 1273 ss., secondo cui «il procedimento legislativo, pur con le sue inevitabili imperfezioni e lentezze, è ancora […] il mezzo più idoneo a garantire […] il bene fondamentale della libertà personale del cittadino». Il principio di sussidiarietà, insieme a quello di proporzionalità tra strumenti e obiettivi, illumina un proilo della riserva di legge penale ulteriore rispetto a quello negativo di sottrazione della potestà normativa ad altri poteri statali. Un proilo positivo e sostanziale, che issa direttive precise di politica criminale seguendo un’idea del diritto penale come sistema di limiti sostanziali al legislatore, che la Costituzione avrebbe ripreso dall’illuminismo, dopo averne superata la eccessiva e utopistica iducia nella legge. Su questi aspetti si veda Bricola, Politica criminale e scienza del diritto penale, Bologna, 1997; Id., Rapporti tra dogmatica e politica criminale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1988; David, Globalizzazione, prevenzione del delitto e giustizia penale, Milano, 2001; Dolcini, Riforma della parte generale del codice e rifondazione del sistema sanzionatorio penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2001, IV, 823; Donini, Per un codice penale di mille incriminazioni: progetto di depenalizzazione in un quadro del “sistema”, in Dir. pen. proc., 2000, I, 1652; Ferrajoli, Sul diritto penale minimo, in FI, 2000, V, 125. 36 legalità ne impediscano o ne limitino il movimento o che alterino i naturali processi psichici45. Del resto, come è stato correttamente osservato46, oltre alla predetta matrice liberale, si aggiunge la necessità del controllo parlamentare nell’esclusiva produzione normativa penale, al ine di «assicurare, a garanzia della libertà dei cittadini, una più forte legittimazione politica delle scelte punitive dello Stato». Tale deinizione è certamente costretta nella concezione tradizionale del principio di legalità come riserva di legge (formale) che garantisce «la coincidenza tra il contenuto delle scelte di politica penale e la volontà popolare così come espressa dai rappresentati elettivi del popolo»47. Possiamo deinire tale aspetto della democraticità come minimale48. Accanto a tale concezione minimale della democraticità, infatti, se ne può argomentare una concezione evoluta ispirata ad un metodo qualiicato di formazione della norma penale, inalizzato a far convergere il più possibile, in una visione kelseniana49 l’opinione maggioritaria con quella minoritaria ed arginare la tendenza dell’esecutivo ad assumere l’iniziativa penale, non tanto (o non più) con la decretazione d’urgenza, ma attraverso lo strumento della legge-delega. La democraticità, che è quindi un carattere fondamentale della norma penale, secondo la concezione evoluta, può essere garantita riafermando, da un punto di vista istituzionale, la centralità dell’organo parlamentare nella produzione della norma penale a maggioranza qualiicata. Si prende spunto dalla riforma della disciplina degli istituti di clemenza parlamentare (amnistia ed indulto) e, prospettando una sorta di continuità logica tra momento genetico e momento estintivo della norma penale, si ipotizza la necessità di un iter di formazione della legge penale raforzato, così come l’art. 79 Cost. impone, per la concessione dell’amnistia e dell’indulto, una legge deliberata a maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna Camera50. Soluzione poco pragmatica, ma ontologicamente 45. Probabilmente, il riconoscimento delle libertà fondamentali, partendo da una garanzia primordiale, riscontrabile nella Magna Charta del 1215, che all’art. 39 speciicava che «gli uomini liberi non possono essere privati o imprigionati […]se non da un tribunale legale dei loro pari e secondo le leggi del paese», è poi arrivato a una piena afermazione del concetto di libertà come sicurezza all’interno dell’Habeas Corpus Act del 1679. 46. Marinucci, Dolcini, Manuale di diritto penale. Parte Generale, Milano, 2006, 31. 47. Fiandaca, Legalità penale e democrazia, cit., 1252, in cui l’A. afronta l’interessante questione del modello di democrazia rappresentativa a vocazione ultramaggioritaria. 48. In questo senso, come visto, cfr. Corte cost. n. 487 del 1989. 49. Fiandaca, Crisi della riserva di lege e disagio della democrazia rappresentativa nell’età del protagonismo giurisdizionale, in Criminalia, 2011, 82. 50. E. Musco, L’illusione penalistica, Milano, 2004, 185. Un modello analogo di riserva di legge raforzata, circoscritto però alle sole materie (non necessariamente a carattere penale) la cui disciplina incide restrittivamente sui diritti fondamentali, è già operante nell’ordinamento spagnolo: cfr. Foffani, Codice penale e legislazione complementare: da un modello policentrico a un modello piramidale, in Donini, Modelli ed esperienze di riforma del diritto penale complementare, Milano, 2003, 304. 37 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea eicace nel garantire, ad un tempo, attraverso l’esclusiva competenza legislativa dell’organo parlamentare secondo un metodo di produzione ultramaggioritario, la necessaria democraticità della norma penale. Per concludere, la garanzia della riserva di legge concerne il procedimento di formazione della norma penale e l’organo democraticamente eletto deputato – in via esclusiva o prevalente – ad operare le scelte di criminalizzazione51, in stretta connessione, nel senso che la riserva di legge è rispettata solo se la norma penale è posta dal Parlamento secondo l’iter costituzionale di formazione della legge. In tal modo si imprime il carattere della necessaria democraticità (almeno nella concezione minimale) alla legge penale. II.2. La veriica della democraticità della norma penale europea. Principio di legalità nella Carta di Nizza e l’autonomia degli ordinamenti, nazionale ed europeo. Il principio di legalità, come noto, non si esaurisce nella riserva di legge, ma si completa con le ulteriori dimensioni della tassatività e dell’irretroattività52. Nel nostro ordinamento, da un punto di vista di deinizione costituzionale (art. 25 Cost.), le dimensioni della riserva di legge e dell’irretroattività sono inscindibili, per cui non è possibile ammettere una norma penale che non sia stata prodotta dall’organo parlamentare attraverso il procedimento di formazione legislativa e valga anche per il passato (ovvero sia retroattiva). Tale inscindibilità delle diverse dimensioni del principio di legalità come deinito nel nostro ordinamento, appare prevista anche nell’ordinamento europeo, secondo una lettura combinata delle previsioni pattizie. Ad ogni modo, prima di afrontare l’argomento, va fatta una precisazione terminologica, che sarà meglio ragionata nel prosieguo dell’indagine: allorquando si fa riferimento a lege o norma o disposizione si intende l’atto parlamentare; mentre quando, poi, si farà riferimento al diritto, si intenderà la norma come applicata dalla giurisprudenza (diritto vivente). Fatta questa necessaria premessa terminologica, va esposta l’analisi ermeneutica delle disposizioni pattizie che concentrato le dimensioni della legalità in materia penale. Prima d’ogni altro, va osservato che l’art. 49, § 1, Carta (richiamato dall’art. 6 TUE), rubricato “Principi della legalità e della proporzionalità dei reati e delle pene”, aferma: «Nessuno può essere condannato per un’azione o un’omissione che, al momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o il diritto internazionale. Parimenti, non può essere inlitta una pena più grave di quella applicabile al momento in cui il reato è stato commesso. Se, 51. Canestrari, Cornacchia, De Simone, Manuale di diritto penale, cit., 110. 52. Per una completa trattazione cfr. sempre Canestrari, Cornacchia, De Simone, Manuale di diritto penale, cit., 99 ss. 38 legalità successivamente alla commissione del reato, la legge prevede l’applicazione di una pena più lieve, occorre applicare quest’ultima». È di tutta evidenza che il principio di legalità, come consacrato nella Carta di Nizza, riguarda solo la dimensione del divieto di retroattività («Nessuno può essere condannato per un’azione o un’omissione che, al momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o il diritto internazionale»), non garantendo o, meglio, non interessando gli altri aspetti del principio in questione come inteso nel nostro ordinamento (riserva di legge e tassatività, fra gli altri). La lacuna si spiega con la coesistenza nella tradizione giuridica europea di due distinti e diversi ordinamenti53, l’uno, di civil law, l’altro, di common law54, con l’efetto che il principio di legalità europeo è costituito dal minimo comun denominatore tra gli opposti ordinamenti. Il nucleo minimo sostanziale del principio in questione è la dimensione dell’irretroattività per cui il diritto fondamentale di ciascun cittadino alla previa conoscenza o conoscibilità dei fatti penalmente vietati è garantito dalla predeterminazione del divieto penale, a prescindere dalla sua fonte di produzione55. In verità, anche nei sistemi di common law è stata avvertita l’opportunità che le scelte di politica criminale debbano competere all’organo democraticamente eletto56, tant’è vero che gli statutory law, oggi, contengono la maggioranza delle fattispecie punitive di parte speciale, senza però scalire l’assoluta primazìa dell’adjucative power, è ciò perché solo il diritto giudiziario deinisce tutti gli istituti e le regole di parte generale57. Il sacriicio nel principio di legalità europeo della dimensione della riserva di legge evidenzia che, in tal modo, «non è più in gioco il primato della legge e del principio democratico ad essa soggiacente, bensì la libertà di autodeterminazione dell’individuo dinanzi ad un diritto che si realizza essenzialmente nel dictum del giudice»58, così valorizzando soprattutto la matrice liberale, ma a discapito della democraticità voluta (o perseguita) dalla riserva di legge59. 53. Fornasari, Conquiste e side della comparazione penalistica, in Studi in onore di G. Marinucci, 2006, 265 ss., ivi con ampi richiami; Vinciguerra, Diritto penale inglese comparato. I principi, II, 2002. 54. Gran Bretagna e Irlanda. 55. Per un excursus comparativo anche sui principi che regolano il sistema penale, cfr. Fornasari, Menghini, Percorsi europei di diritto penale, Padova, 2012. 56. Panfield, Criminal Law, IV, Oxford, 2004, 13 ss. 57. V. Valentini, Diritto penale intertemporale. Logiche continentali ed ermeneutica europea, Milano, 2012, 161, secondo cui il principio di irretroattività costituisce la prova del nove dell’estrema diferenza tra il diritto penale continentale e quello anglosassone. 58. Palazzo, Legalità e determinatezza della lege penale, signiicato linguistico, interpretazione e conoscibilità della regula juris, in DPSC, 1987, 55. 59. Sulla nozione di law di cui all’art. 7 CEDU nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, cfr. Bernardi, Nessuna pena senza lege (art. 7), in Bartole, Conforti, Raimondi (a cura di), Commentario alla Convenzione europea per la tutela dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, Padova, 2001, 259 ss.; Manes, sub art. 7. Nessuna pena senza lege, in Bartole, De Sena, V. 39 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea Però, l’assenza della dimensione della riserva di legge nella legalità europea come enunciata dall’art. 49, co. 1, Carta, non signiica che tale aspetto sia estraneo al sistema comunitario, né che, come già annunciato, la democraticità della norma penale europea non appartenga all’assetto sovranazionale, in quanto, da un lato, la riserva di legge è connaturata all’identità nazionale degli Stati continentali e, dall’altro, la necessaria democraticità del divieto penale si ricava dai corollari (e non solo) del principio di uguaglianza dei cittadini europei. Ed invero, il principio di legalità-riserva di legge (nazionale) non è estraneo all’ordinamento comunitario, in quanto la Corte di Giustizia lo considera paciicamente un principio generale dell’ordinamento comunitario60, che costituisce il riconosciuto limite della primazìa del diritto europeo rispetto alle norme penali interne con esso in conlitto: il giudice nazionale è tenuto ad interpretare ed applicare la norma interna secondo il dettato e la inalità della direttiva, con il limite, in materia penale, della necessaria esistenza di una legge interna che ponga l’incriminazione. La riserva di legge, dunque, come principio generale dell’ordinamento comunitario. Ma la riserva di legge, come detto, è carattere strutturale dell’identità nazionale degli Stati continentali («insita nella loro struttura fondamentale, politica e costituzionale», con la lettera dell’art. 4, co. 2, TUE) e, come tale, posto come limite delle attribuzioni comunitarie. La garanzia di rispetto dell’identità nazionale (e, dunque, della riserva di legge nazionale in materia penale), intesa come deroga alla primautè europea, è sottoposta a precisi criteri indicati dalla Corte di Giustizia, fra cui quello della centralizzazione del controllo da parte degli organi europei61, non potendosi ammettere una deroga unilateralmente giustiicata dallo Stato nazionale. In altri termini, la norma europea (derivata) può essere sindacata unicamente innanzi alla Corte di Giustizia che avrà l’onere di veriicarne la legittimità con il diritto unionista pattizio, anche in relazione ai quei principi che Zagrebelsky (a cura di), Commentario alla Convenzione europea per la tutela dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, Padova, 2012, 274 ss.; anche per un’attenta e ricca casistica giurisprudenziale, cfr. Salcuni, Diritto penale europeo § 2 La convenzione europea dei diritti dell’uomo e i suoi rilessi sul sistema penale, in Cadoppi, Canestrari, Manna, Papa (a cura di), Trattato di diritto penale. Parte generale, vol. I, Torino, 2012, 426 ss. 60. G. Grasso, La protezione dei diritti fondamentali nell’ordinamento comunitario e i suoi limiti rilessi sui sistemi penali degli stati membri, in RIDU, 1991, 617 ss. In giurisprudenza, cfr. Corte Giust. Com. Eur. 8 ottobre 1987, C-80/86 (Kolpinghuis Nijmegen), in Racc., 1987, 3986, punto 13; da ultimo, Corte Giust. Com. Eur., 3 maggio 2005, C-387/02 (Berlusconi ed altri), su cui ampiamente infra § III.3. 61. Corte Giust. Un. Eur., Sez. II, 22 dicembre 2010, C-208/09, § 86, secondo cui «la nozione di ordine pubblico, in quanto giustiicazione di una deroga ad una libertà fondamentale, deve essere intesa in senso restrittivo, di guisa che la sua portata non può essere determinata unilateralmente da ciascuno Stato membro senza il controllo delle istituzioni dell’Unione europea (v. sentenze 14 ottobre 2004, causa C-36/02, Omega, Racc. p. I-9609, punto 30, e 10 luglio 2008, causa C-33/07, Jipa, Racc. p. I-5157, punto 23)». 40 legalità caratterizzano l’identità costituzionale interna, che, proprio in virtù di quanto previsto dagli artt. 4, § 2, 6 TUE e 67, § 1, TFUE (per la materia penale, ad esempio), sono elevati a parametri di controllo della legittimità degli atti europei. Da ciò, è stato osservato62 che la struttura di ogni Stato godrebbe di una più intensa ed eicace tutela rispetto a qualche anno addietro e, dunque, di una protezione raforzata, potendo l’eventuale atto lesivo essere riguardato da una sentenza di annullamento della Corte di Lussemburgo63. Le novità introdotte dal Trattato di Lisbona non possono non superare la consolidata deinizione dei legami tra il nostro ordinamento e quello comunitario64 secondo cui, «nei rapporti tra diritto comunitario e diritto interno i due sistemi sono conigurati come autonomi e distinti, ancorché coordinati, secondo la ripartizione di competenza stabilita e garantita dal Trattato (sentenze n. 168 del 1991, n. 170 del 1984 e n. 183 del 1973). Le norme derivanti dalla fonte comunitaria vengono a ricevere, ai sensi degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., diretta applicazione nel territorio italiano, ma rimangono estranee al sistema delle fonti interne e, se munite di eicacia diretta, precludono al giudice nazionale di applicare la normativa interna con esse ritenuta inconciliabile (ove occorra, previo rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, ex art. 234 del Trattato CE)». Infatti, l’Italia «ratiicando i Trattati comunitari, […] è entrata a far parte dell’ordinamento comunitario, e cioè di un ordinamento giuridico autonomo, integrato e coordinato con quello interno, ed ha contestualmente trasferito, in base all’art. 11 Cost., l’esercizio di poteri anche normativi (statali, regionali o delle Province autonome) nei settori deiniti dai Trattati medesimi». Ne consegue che «le norme dell’ordinamento comunitario vincolano in vario modo il legislatore interno», ma resta il «solo limite dell’intangibilità dei principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale e dei diritti inviolabili dell’uomo garantiti dalla Costituzione (ex multis, sentenze nn. 349, 348 e 284 del 2007; n. 170 del 1984)»65. Il percorso di frenetica sistematizzazione delle fonti66, operato dalla Corte costituzionale, ha evidenziato che la enunciata ed anche di recente ribadita coordinazione tra gli ordinamenti67 è divenuta sinergia con l’avvento di un sistema generale, unico e complesso, di tutela dei diritti (e non solo), già annunciato dai 62. Randazzo, I controlimiti al primato del diritto comunitario: un futuro non diverso dal presente?, in www.forumcostituzionale.it. 63. Per una più approfondita trattazione, cfr. infra § IV.2. 64. Da ultimo, cfr. Corte cost., n. 80 del 2011. In dottrina, Ruggeri, La Corte fa il punto sul rilievo interno della CEDU e della Carta di Nizza-Strasburgo (a prima lettura di Corte cost. n. 80 del 2011), in www.forumcostituzionale.it; Randazzo, Brevi note a margine della sentenza n. 80 del 2011 della Corte costituzionale, in www.giurcost.org. 65. Corte cost., Ord., n. 103 del 2008. 66. Tega, I diritti in crisi. Tra Corti nazionali e Corte europea di Strasburgo, Milano, 2012, 69 ss. 67. In particolare, Corte cost. n. 170 del 1984. 41 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea giudici comuni nazionali e stigmatizzato, recentemente, dalla stessa Corte costituzionale (n. 264 del 2012), a cui «non sfugge che la tutela dei diritti fondamentali deve essere sistemica e non frazionata in una serie di norme non coordinate ed in potenziale conlitto tra loro»68. Il sistema sinergico europeo poggia sugli artt. 4 e 5 TUE, ma anche sull’art. 67 TFUE, per la materia penale (e non solo), essendo capace di garantire il rispetto dei diritti fondamentali della persona umana e quelli strutturali ed identitari di ciascun Stato membro, da sé, senza il controllo particolare di ciascun Tribunale costituzionale interno. Il controllo sistemico dei diritti e, per ciò che in questa sede interessa, delle identità nazionali ofre una più penetrante tutela degli stessi, rispetto a quella che può essere garantita a livello particolare, anche al ine di evitare un diverso grado di tutela per ciascun cittadino europeo e, simmetricamente, garantire l’uguaglianza fra i gli stessi. Uguaglianza, come visto, indice di democrazia e riserva di legge nazionale in materia penale elevata a principio e regola europea attraverso il rispetto delle identità nazionali (art. 4, § 2, TUE). In conclusione, la disposizione penale europea deve garantire l’aspetto materiale della democraticità insito nel principio di legalità-riserva di legge, come parametro giustiziabile di legittimità della stessa ai trattati e, pertanto, l’indagine deve spostarsi sulle modalità che implementano tale carattere della legalità penale. II.3. Le tradizionali obiezioni al deicit democratico dell’Unione Europea. Certamente la disposizione penale europea (di regola) è prodotta all’esito della procedura legislativa ordinaria, così come deinita dall’art. 294 TFUE e prescritto dall’art. 83, § 1, TFUE. Secondo la lente del penalista italiano, tale iter conferisce alla legge penale europea, come visto, il carattere della legalità formale sotto l’aspetto procedurale, ma non quello della legalità formale sotto l’aspetto materiale (ovvero, così come si è deinito, la democraticità), poiché il ruolo del Parlamento europeo è vincolato alla volontà della Commissione (iniziativa) e del Consiglio (con cui condivide il potere legislativo)69. Né è suiciente la garanzia che il veto parlamentare impedisca l’adozione della norma comunitaria, poiché è una limitazione estranea alla tradizione costituzionale in cui le prerogative parlamentari non possono 68. La Corte costituzionale si è interessata del rapporto con la giurisprudenza della Corte EDU, che ha certamente delle caratteristiche decisamente distinte rispetto a quelle del rapporto tra ordinamento europeo e ordinamento nazionale. In tale occasione, infatti, la Consulta ha evidenziato la diferenza di sindacato della Corte EDU (che ha ad oggetto il diritto), rispetto a quello della stessa Corte costituzionale (che ha ad oggetto il sistema dei diritti e, dunque, l’obbligo di bilanciarne le prospettive di tutela). Per un commento alla decisione in questione, cfr. Ruggeri, La Consulta rimette abilmente a punto la strategia dei suoi rapporti con la Corte EDU e, indossando la maschera della consonanza, cela il volto di un sostanziale, perdurante dissenso nei riguardi della giurisprudenza convenzionale, in www.consultaonline.it, Studi e commenti, 2012. 69. Giunta, Verso un equivalente funzionale della riserva di lege?, in Criminalia, 2011, 77. 42 legalità essere sacriicate da scelte del potere esecutivo (Consiglio, in particolare). Non va trascurato, comunque, che anche il Parlamento europeo non ha un’investitura democratica secondo il tradizionale criterio di rappresentatività. L’organo parlamentare europeo non è eletto secondo il principio dell’eguaglianza del voto di cittadini costituenti un unico popolo europeo, ma dai popoli degli Stati membri secondo un criterio di contingentamento dei seggi70. Tale aspetto è stato espressamente afrontato nella già citata sentenza Lissabon, con cui, sul punto, il Tribunale di Karlsruhe ha evidenziato che «solange die europäische Zuständigkeitsordnung nach dem Prinzip der begrenzten Einzelermächtigung in kooperativ ausgestalteten Entscheidungsverfahren unter Wahrung der staatlichen Integrationsverantwortung besteht und solange eine ausgewogene Balance der Unionszuständigkeiten und der staatlichen Zuständigkeiten erhalten bleibt, kann und muss die Demokratie der Europäischen Union nicht staatsanalog ausgestaltet sein»71. L’Unione deve avere un grado di democrazia corrispondente allo stadio di sviluppo dell’integrazione. «Fino a che l’ordine delle competenze dell’Unione rimane un ordine governato dal potere di integrazione degli Stati ed è fondato sul principio di attribuzione, è suiciente che le decisioni politiche siano aidate a processi di decisione cooperativi e che rimanga un equilibrio tra competenze dell’Unione e competenze degli Stati: il principio democratico non può né deve tradursi, nell’Unione, in strutture simili a quelle degli Stati, ma può spingere a introdurre nei processi di decisione forme ulteriori che assicurino trasparenza e partecipazione dei cittadini e che accrescano lo standard di democrazia presente nell’Unione»72. In altri termini, per il tema d’analisi, il sistema europeo non ha un grado di democrazia pari a quello necessario per uno Stato sovrano, ma, comunque, è suiciente per la gestione degli afari comuni73. Ancora, ad esempio, nella materia che ci occupa, la garanzia di democraticità non è vinta neanche dalla possibilità per uno Stato membro di sospendere la 70. BVerfG, cit., § 271. 71. BVerfG, cit., § 272. 72. Così testualmente Anzon Demming, Principio democratico e controllo di costituzionalità sull’integrazione europea nella “sentenza Lissabon” del Tribunale costituzionale federale tedesco, cit., 146. 73. Fiandaca, Crisi della riserva di lege e disagio della democrazia rappresentativa nell’età del protagonismo giurisdizionale, cit., 89, secondo cui «l’impressione che si trae è che la Corte tedesca abbia (strumentalmente?) ecceduto nel inire col richiamare un modello idealtipico di democrazia à la Habermass che, in verità, sta più nel cielo della ilosoia politica che nella concreta realtà delle democrazie di oggi (inclusa quella tedesca). A parte la crisi dei partiti politici e della funzione parlamentare, è il fenomeno di crescente personalizzazione, mediatizzazione e popolarizzazione della comunicazione politica (politica pop!) che produce l’efetto di modiicare lo stesso concetto di opinione pubblica, trasformandola da luogo di dibattito e di controllo sul potere in un insieme anonimo di individui facilmente manipolabili dai leaders politici, dagli esperti di comunicazione e dai media». 43 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea procedura legislativa74, come previsto dall’art. 83, § 3, TFUE, in quanto, a ben guardare, tale possibilità è rimessa ad un membro del Consiglio (composto da rappresentati a livello ministeriale di ciascun governo – art. 16 TUE) e, poi, sciolta dal Consiglio europeo (composto dai Capi di Stato e di governo di ciascun Stato membro – art. 15 TUE). Non è previsto un condizionante intervento o controllo parlamentare nazionale75. Né appare superata dalla previsione di adozione di direttive, come visto, e non di regolamenti, che lascino libero lo Stato membro per quanto riguarda la scelta della forma e dei mezzi per raggiungere il risultato indicato nella norma di indirizzo. A tal proposito, va appuntata l’attenzione sul contenuto di tali direttive, speciicamente indicato nell’art. 83, § 1, TFUE, nella previsione di «norme minime relative alla deinizione dei reati e delle sanzioni», che, dunque, non indicano il risultato da ragiungere, secondo la deinizione di cui all’art. 288 TFUE, ma individuano i mezzi inalizzati allo scopo preigurato. In prima battuta, lo Stato membro, pertanto, sarebbe tenuto a dare attuazione alla direttiva (in ossequio all’art. 4 TUE), adattando al proprio ordinamento la disposizione penale europea, che individua il mezzo minimo di raggiungimento del risultato. Appare evidente l’incidenza di tale norma sulla libertà dell’iniziativa parlamentare nazionale che non potrebbe derogare all’obbligo imposto dalla direttiva, limitandosi, eventualmente, a prevedere una sanzione penale più elevata (se possibile). Si è già osservato76 che la prima lettura dell’art. 83 TFUE (che, come detto, positivizza gli obblighi di penalizzazione di fonte pretoria) sacriica eccessivamente il margine nazionale di apprezzamento, non ammettendo l’opzione tra la sanzione penale e gli altri tipi di sanzioni. Ma su tale argomento si tornerà avanti difusamente. In conclusione, la disposizione penale europea è priva (ancora oggi) del carattere della democraticità come aspetto garantito dalla partecipazione dell’organo parlamentare, poiché, come visto, il Parlamento europeo, in particolare, non ha un’investitura democratica secondo il tradizionale criterio di rappresentatività77. 74. Contra Salcuni, Diritto penale europeo § 1 Il diritto penale europeo, in Cadoppi, Canestrari, Manna, Papa (a cura di), Trattato di diritto penale. Parte generale, vol. I, Torino, 2012, 397 ss. 75. Tale aspetto sarà analizzato più in dettaglio più avanti allorquando sarà esaminata la legge n. 234 del 24 dicembre 2012. 76. Sotis, Il diritto senza codice, cit., 171. 77. Fiandaca, Crisi della riserva di lege e disagio della democrazia rappresentativa nell’età del protagonismo giurisdizionale, cit., 92, si chiede «perché dovrebbe rimanere preferibile una deliberazione di tipo democratico-parlamentare rispetto a una procedura di codecisione europea di norme penali?» A ben guardare, acutamente osserva l’A., «il vero problema concerne, ancor prima che l’individuazione dell’organo o degli organi politico-istituzionali idealmente più adatti a deliberare, la qualità della cultura politica e della cultura penale in atto prevalente nel ceto politico e, a un tempo, nelle opinioni pubbliche dei paesi europei». 44 legalità Tale appunto non esclude, sic et simpliciter, l’esigenza di democraticità della norma penale europea, che può essere assicurata dalla partecipazione parlamentare nazionale alla formazione della norma stessa (c.d. fase ascendente). Ma anche in quella di recepimento (c.d. fase discendente). II.4. La veriica della democraticità della norma penale europea attraverso l’analisi del ruolo del Parlamento nazionale nel processo di formazione degli atti comunitari. Il Protocollo n. 2 sulla veriica del rispetto dei principi di sussidiarietà e proporzionalità e la lege n. 234 del 2012. Prospettive de iure condendo. Il deicit democratico europeo, come visto, è misurato tradizionalmente con parametri costituzionali nazionali, veriicando se le istituzioni comunitarie, interessate all’adozione di disposizioni penali, abbiano libertà e legittimazione pari a quelle nazionali, investite dell’indirizzo di politica criminale. In questo modo, si pone una chiara equiparazione tra Unione Europea e Stato membro e si giunge a dover afermare l’assenza di democraticità della lege penale europea. Non appare, però, la chiave esegetica più corretta o, meglio, più completa per il risultato auspicato (veriica di democraticità della norma) perché, come detto, l’Unione Europea è priva di un territorio, non ha un popolo, non è, dunque, un’entità statale (neanche federale), ma costituisce un ordinamento derivato, con l’efetto che il modello di democrazia adottato dall’Unione non deve essere pari a quello dovuto per uno Stato sovrano. È chiara, in questo senso, la giurisprudenza del Tribunale di Karlsruhe. Da ciò, appare, come detto, necessario veriicare la partecipazione dei parlamenti domestici all’iter di formazione della disposizione penale europea, come volta a supplire o colmare il deicit rappresentativo dell’organo parlamentare europeo. Ed invero, la dottrina più attenta78 ha argomentato le ragioni di superamento delle tradizionali obiezioni di deicit democratico comunitario, evidenziando il ruolo che viene attribuito agli organi parlamentari nazionali nell’iter di formazione (soprattutto) della disposizione penale europea. E così vengono richiamate le previsioni di cui agli artt. 5, 10 e 12, lett. c), TUE, ma anche gli artt. 69, 70 e 71 TFUE, che garantiscono l’informazione delle iniziative (anche) in materia penale nei confronti dei parlamenti nazionali, al ine di favorire il controllo sull’attività dei rispettivi membri del Consiglio (art. 10 TUE) nell’iter di produzione normativa e, comunque, la vigilanza sull’esercizio delle attribuzioni comunitarie nel rispetto del principio di sussidiarietà e proporzionalità. Facendo, dunque, partecipare i parlamenti nazionali, certamente democraticamente eletti, all’iter di for- 78. Bernardi, La competenza penale accessoria dell’Unione Europea: problemi e prospettive, cit., 58, anche se l’A. osserva che resta il fatto che «l’assenza del diritto di veto dei Parlamenti nazionali riscontrabile nel procedimento legislativo unionista rende il controllo degli organi rappresentativi nazionali non vincolante, con conseguente annacquamento dell’apporto di democraticità prodotto dalla fase ascendente del procedimento legislativo europeo». 45 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea mazione della norma penale europea (c.d. fase ascendente), sarebbe così garantita la democraticità della stessa79. Il ragionamento non fa una grinza, ma è necessario veriicare, prima di trarre delle conclusioni, il grado di partecipazione del Parlamento nazionale, nei settori di normazione penale attribuiti alla competenza europea, nella scelta di politica criminale determinata a livello comunitario. Si è già detto che l’esercizio delle competenze dell’Unione è vincolato dall’applicazione dei principi di sussidiarietà e proporzionalità, la cui concreta regolazione si trova però nel Protocollo n. 2 (atto avente il medesimo valore giuridico dei Trattati)80. Il principio di sussidiarietà serve a stabilire quando, al di fuori dei settori di esclusiva competenza dell’Unione, sussista una competenza esercitabile a livello europeo, mentre il principio di proporzionalità guida la scelta dei mezzi di intervento, imponendo la scelta di quello meno invasivo delle competenze statali. Il combinato rispetto di tali principi consente di contenere le azioni delle istituzioni europee a tutela delle competenze statali e degli enti infrastatali. Gli artt. 5 e 12 TUE e l’art. 69 TFUE prevedono che i Parlamenti nazionali vigilino sul rispetto del principio di sussidiarietà, secondo le modalità previste nel protocollo sopra richiamato. A tal ine, l’art. 4 del Protocollo n. 2 prevede che le istituzioni europee informino con regolarità i Parlamenti nazionali in merito alle loro attività, onde consentire di svolgere delle osservazioni sull’eventuale mancato rispetto del principio di sussidiarietà da parte delle istituzioni europee. Sugli atti legislativi (direttive e regolamenti), ciascuna Camera di ogni parlamento nazionale singolarmente considerata svolge una funzione di vigilanza preventiva circa il rispetto del principio di sussidiarietà. Ogni Camera, infatti, ricevuti i progetti di atti legislativi, ha a disposizione otto settimane per analizzare questi progetti e formulare pareri contenenti rilievi circa il rispetto del principio di sussidiarietà, il c.d. early warning: otto settimane nelle quali il progetto non può essere iscritto all’ordine del giorno del Consiglio ai ini della sua adozione. Di questi pareri le istituzioni europee tengono conto (innanzitutto la Commissione, che è la prevalente titolare del diritto di iniziativa legislativa), ma qualora i rilievi siano condivisi da un terzo dei parlamenti nazionali (un quarto, nel caso dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia) il progetto di atto deve essere riesaminato dalla 79. Manzella, Un Trattato necessitato, in Bassanini, Tiberi (a cura di), Le nuove istituzioni europee. Commento al Trattato di Lisbona, Bologna, 2008, 444; Morviducci, Il ruolo dei parlamenti nazionali, in DPCE, 2008, 86; Porchia, La sussidiarietà attraverso il riordino delle competenze? Il trattato di riforma e la ripartizione delle competenze, in Studi sull’integrazione europea, 2010, 642 ss. 80. Non tutte le competenze incontrano, però, i medesimi limiti: e, infatti, mentre il principio di proporzionalità riguarda tutte le competenze dell’Unione, dall’ambito di azione del principio di sussidiarietà restano invece esclusi i settori di competenza esclusiva dell’Unione europea. 46 legalità Commissione (o, se del caso, dalle altre istituzioni) e al termine di tale riesame la decisione di modiicarlo, ritirarlo o mantenerlo deve essere motivata. Entrato in vigore l’atto normativo, i parlamenti nazionali (o ciascuna Camera) possono chiedere ai loro governi in conformità con il rispettivo ordinamento giuridico interno di ricorrere alla Corte di Giustizia sempre per violazione del principio di sussidiarietà81. A livello europeo, dunque, è certamente apprestato l’apparato normativo inalizzato a garantire la partecipazione dei parlamenti nazionali all’attività legislativa dell’Unione Europea e superare il deicit democratico sotto tale proilo strutturale. Il problema, pertanto, si sposta a livello nazionale, nel senso che è necessario veriicare le modalità della vigilanza sull’attività legislativa europea efettivamente svolte da ciascun parlamento interno. Va premesso che il Protocollo n. 2 prevede la trasmissione degli atti preparatori legislativi (in genere) a ciascuna Camera degli organi parlamentari interni, solo perché i sistemi costituzionali di ogni Stato membro sono chiaramente distinti e, dunque, per alcuni l’organo parlamentare è monocamerale, per altri è bicamerale (perfetto o imperfetto). Nel campo di indagine che ci interessa, va appuntata l’attenzione (nuovamente) sull’art. 83, § 3, TFUE, a cui si è fatto spesso richiamo nelle pagine precedenti, ove è prevista la possibilità per uno Stato membro di sospendere la procedura legislativa di adozione della direttiva in materia penale. Si è prima osservato che tale previsione non garantisce il carattere di democraticità della disposizione penale europea, poiché la relativa possibilità è rimessa ad un membro del Consiglio (composto da rappresentati a livello ministeriale di ciascun governo – art. 16 TUE) e, poi, sciolta dal Consiglio Europeo (composto dai Capi di Stato e di governo di ciascun Stato membro – art. 15 TUE). La soluzione appare suiciente ove si guardi al solo sistema europeo, come visto, ma non si è badato all’ipotesi di vigilanza e controllo sull’operato del componente del Consiglio, da parte del Parlamento nazionale, garantita, come detto, dall’informativa prevista dal Protocollo n. 2. L’analisi, dunque, si sposta dal Trattato, alla legge di ratiica dello stesso (legge n. 130 del 2 agosto 2008) o, meglio, per ciò che riguarda il sistema italiano, alla legge n. 234 del 24 dicembre 2012 “Norme generali sulla partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche dell’Unione Europea”. Tale legge ha ridisegnato la disciplina della partecipazione del Parlamento, delle Regioni e province autonome, degli enti locali, delle parti sociali e delle categorie produttive al processo di formazione delle decisioni comunitarie e dell’Unione Europea (c.d. fase ascendente), prevedendo espressamente tra le i- 81. Gianniti, Il ruolo dei parlamenti nazionali dopo il Trattato di Lisbona: un’opportunità o un problema?, in Astrid, 2010. 47 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea nalità della legge la disciplina del processo di formazione della posizione italiana nella fase di predisposizione degli atti comunitari e dell’Unione Europea, nel rispetto, fra l’altro, del principio di partecipazione democratica (art. 1). Il ruolo parlamentare è garantito dalle disposizioni di cui agli artt. 3 ss., per cui il Governo è tenuto alla trasmissione alle Camere dei progetti di atti comunitari e dell’Unione Europea, degli atti preordinati alla formulazione degli stessi, e le loro modiicazioni, ivi compresi i documenti di consultazione, quali libri verdi, libri bianchi e comunicazioni. La normativa stabilisce, inoltre, che essi vengano comunicati dal Presidente del Consiglio dei ministri o dal Ministro per le politiche comunitarie, contestualmente alla loro ricezione e che sia indicata la data presumibile in cui verranno discussi o adottati dagli organi comunitari. Gli atti e i progetti di atti in tal modo trasmessi vengono assegnati ai competenti organi parlamentari, che possono formulare osservazioni e adottare ogni opportuno atto di indirizzo al Governo. La trasmissione non esaurisce però i compiti dell’esecutivo, che deve altresì assicurare al Parlamento un’informazione qualiicata e tempestiva sui progetti e sugli atti trasmessi, curandone il costante aggiornamento; informare tempestivamente i competenti organi parlamentari sulle proposte e sulle materie che risultano inserite all’ordine del giorno delle riunioni del Consiglio dei ministri dell’Unione Europea; illustrare alle Camere la posizione che intende assumere, in vista dello svolgimento delle riunioni del Consiglio europeo (eventualmente riferendo ai competenti organi parlamentari prima delle riunioni del Consiglio); riferire al Parlamento illustrando i temi di maggiore interesse decisi o in discussione in ambito comunitario, informando gli organi parlamentari competenti in ordine ai risultati delle riunioni dei Consigli europei; fornire, su richiesta degli organi parlamentari competenti, una relazione tecnica che dia conto dello stato dei negoziati, dell’impatto sull’ordinamento, sull’organizzazione delle amministrazioni pubbliche e sull’attività dei cittadini e delle imprese in relazione ai vari progetti di atti comunitari all’esame. Attraverso questa importante attività informativa sulla produzione normativa comunitaria, i competenti organi parlamentari possono adottare appositi atti di indirizzo per il Governo. Tali procedimenti riguardano la presentazione e l’esame di mozioni, risoluzioni e ordini del giorno. Sono questi, secondo l’insegnamento tradizionale, i tre strumenti di indirizzo, delineati dai regolamenti di Camera e Senato con procedure diverse a seconda che si tratti dell’Assemblea (mozioni; ordini del giorno; risoluzioni d’Assemblea) o delle Commissioni (perlopiù risoluzioni; solo in caso di sede legislativa, anche ordini del giorno)82. 82. Gli atti di indirizzo delle Commissioni permanenti sui progetti di atti dell’Unione Europea rivolti al Governo, rese nell’ambito dell’ordinaria procedura prevista per l’esame in fase ascendente (art. 144 Reg. Sen. e art. 127 Reg. Cam.) sono inviati alla Commissione Europea. 48 legalità Di rilievo, rispetto all’indagine preposta, è la previsione di cui all’art. 12 l. 234/2012, che disciplina la partecipazione delle Camere per l’attivazione del c.d. freno d’emergenza, secondo cui: «1. In relazione alle proposte legislative presentate ai sensi degli articoli 48, secondo comma, 82, paragrafo 3, e 83, paragrafo 3, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, colui che rappresenta l’Italia nel Consiglio dell’Unione europea è tenuto a chiedere che la proposta stessa sia sottoposta al Consiglio europeo, ove entrambe le Camere adottino un atto di indirizzo in tal senso. 2. Nei casi previsti dall’articolo 31, paragrafo 2, del Trattato sull’Unione europea, colui che rappresenta l’Italia nel Consiglio dell’Unione europea è tenuto ad opporsi ad una decisione per speciicati e vitali motivi di politica nazionale ove entrambe le Camere adottino un atto di indirizzo motivato in tal senso. 3. Per le inalità di cui ai commi 1 e 2 il Governo trasmette tempestivamente alle Camere le proposte presentate ai sensi dell’articolo 31, paragrafo 2, del Trattato sull’Unione europea e degli articoli 48, secondo comma, 82, paragrafo 3, e 83, paragrafo 3, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea. Decorso il termine di trenta giorni dalla predetta trasmissione, il Governo può esprimere un voto favorevole sulle proposte anche in mancanza della pronuncia parlamentare». Tale controllo parlamentare sulla formazione della norma penale europea è suiciente ad imprimere il carattere di democraticità alla stessa e, dunque, a garantire già nella fase ascendente tale aspetto della legalità materiale? Assolutamente no. Gli atti di indirizzo parlamentare non hanno alcuna eicacia legislativa, ma meramente politica e poi la formazione della volontà parlamentare è aidata al Parlamento e non al solo Senato o alla sola Camera: non è previsto alcun coordinamento per l’adozione degli atti di indirizzo parlamentare, non potendosi dunque escludere, in ipotesi, decisioni distinte, opposte o, comunque, diverse, da parte di ciascun ramo parlamentare. La disciplina di cui all’art. 12 l. 234/2012, infatti, non appare conforme all’assetto costituzionale dell’esercizio del potere legislativo, in quanto è previsto che l’attivazione della procedura di cui all’art. 83, § 3, TFUE (c.d. freno d’emergenza) consegua solo «ove entrambe le Camere adottino un atto di indirizzo in tal senso», non, dunque, nell’ipotesi in cui anche solo una Camera sia contraria all’adozione della disposizione penale europea. Tale impostazione contrasta apertamente con il sistema di bicameralismo perfetto nell’esercizio del potere legislativo. Anche sotto questa chiave di lettura, pertanto, si deve concludere afermando che la norma penale europea è priva del carattere democratico imposto dall’art. 25, co. 2, Cost., in quanto alla sua formazione non partecipa il Parlamento nazionale (pur potendo). Per ovviare a tale evidente vizio, in prospettiva de iure condendo, è necessario stabilire, per la materia penale coperta dalla riserva costituzionale di legge, che 49 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea gli atti di indirizzo parlamentare sulle proposte di direttive ai sensi dell’art. 83 TFUE, previsti dagli artt. 7 e 12 l. 234/2012, siano adottati con legge, semmai attribuendone l’esercizio, con apposita legge costituzionale, in sede legislativa ad una Commissione bicamerale83. In tal modo, la norma penale europea acquisirebbe il carattere di democraticità già nella fase ascendente, poiché la lacuna di rappresentatività dell’organo parlamentare europeo sarebbe colmata dall’efettiva partecipazione (almeno astratta) del Parlamento nazionale. Tale, del resto, è stata la decisione del Bundesverfassungsgericht nella pronuncia già più volte richiamata84. A questo punto, è necessario veriicare, de iure condito, se la democraticità della norma penale possa essere garantita nella fase di recepimento. 83. Il procedimento seguito nei vari Paesi dell’Unione per garantire questo dialogo con la Commissione europea si sta strutturando in modo diverso. Molti parlamenti si stanno orientando nel senso di aidare questa funzione alle Commissioni specializzate negli afari comunitari (è quel che sta avvenendo in Francia al Senato e in Irlanda), ma per altri sarà diicile scavalcare in questa materia le competenze delle Commissioni di merito (così è per l’Assemblea Nazionale francese) e, nei casi più rilevanti, delle stesse Aule (è quel che avviene nel Bundesrat tedesco e presso le due Camere olandesi, che hanno aidato tuttavia il potere istruttorio ad un’apposita Commissione bicamerale). 84. Come già ricordato, il Tribunale di Karlsruhe ha dichiarato l’illegittimità della legge ordinaria di accompagnamento della ratiica del Trattato di Lisbona. Questa legge infatti, conclude il Tribunale Costituzionale, «lede il diritto ex art. 38 LF in relazione con l’art. 23, co. 1, perché non attribuisce al Bundestag e al Bundesrat nella necessaria misura i poteri di partecipazione ai procedimenti europei di modiica dei Trattati e di produzione degli atti normativi, idonei a garantire che nell’applicazione delle clausole passerella, della clausola di lessibilità e dei c.d. freni di emergenza, essi esprimano il proprio avviso nel processo di decisione delle istituzioni europee. In casi del genere, in cui è possibile uno sviluppo dinamico del Trattato (dynamische Vertragsentwicklung), infatti, è necessario che i rappresentanti tedeschi in queste istituzioni agiscano sulla base di previe espresse e puntuali manifestazioni di volontà delle assemblee legislative nazionali. La sentenza reca una previsione molto analitica dei poteri che ritiene necessario attribuire al Parlamento tedesco (e cioè al Bundestag e al Bundesrat quando agisce come organo di legislazione), in considerazione dell’estensione della riserva di legge posta dall’art. 23, comma 1 LF. Per le revisioni sempliicate (art. 48, comma 6, 42, comma 2, 25, comma 2, 218, co. 8, 223, comma 1 TUE-Lisbona, artt. 262 e 311 TFUE) è necessaria una Zustimmungsgesetz ex art. 23, co. 1, fr. 2 o eventualmente 3 (§§ 306,309, 312, 412). Per la clausola passerella generale e per clausola-passerella speciale per diritto di famiglia è necessaria una legge ex art. 23, co. 1, fr. 2 (§§ 315,319); mentre per le altre clausole passerella speciali, su aree suicientemente determinate: è suiciente una approvazione parlamentare anche in forma non legislativa (§§ 319, 320,413-416). Per la clausola di lessibilità ex art. 352 TUE è necessaria una legge (§§ 323-328,417). Quanto ai “freni di emergenza” la sentenza distingue diverse ipotesi (§§ 418-419): quella della revisione ordinaria dei Trattati (quanto all’esclusione, ex art. 48, 2, della convocazione di una convenzione consultiva sugli emendamenti ai Trattati), per cui sono suicienti apposite direttive parlamentari; quella della cooperazione giudiziaria in materia penale (per es. deinizione dei reati di particolare gravità, ravvicinamento legislazioni penali, procura europea) è invece necessaria una legge ex 23, co. 1, fr. 2; inine per il freno di emergenza in tema di politica di sicurezza sociale (libertà di movimento dei lavoratori) (§400) sono necessarie istruzioni parlamentari». 50 legalità II.5. L’incidenza del difetto di democraticità della norma penale europea nel diritto interno. L’esegesi del contenuto della norma penale europea. La lege penale europea (propria o impropria) è una norma di indirizzo vincolato, poiché deinisce le norme minime relative alla deinizione dei reati e delle sanzioni che devono essere recepite nel diritto interno. Lo Stato inadempiente all’obbligo di recepimento o di raggiungimento del risultato indicato nella direttiva in materia penale, attraverso la descrizione di una fattispecie criminale come tipizzata a livello europeo, sarà sottoposto alla procedura di infrazione85. Il difetto del carattere della democraticità acquisito nella c.d. fase ascendente di produzione della norma penale europea può essere colmato nella c.d. fase discendente (di recepimento), laddove fosse garantito dalla direttiva penale un margine di apprezzamento nella scelta di criminalizzazione da parte del Parlamento nazionale che costituisce un vincolo di rispetto per il legislatore europeo, in virtù dell’europeizzazione delle identità nazionali e delle funzioni essenziali degli Stati membri, come, indubbiamente, è la riserva di legge in materia penale. Il rispetto della riserva di legge e, dunque, anche del fondamentale signiicato della stessa volto a caratterizzare di democraticità la scelta punitiva, è raforzato, non solo, dalla previsione (già vista) dell’art. 4, § 2, TUE, ma anche dal principio di leale cooperazione che non ha una valenza meramente unilaterale (Stato membro nei confronti dell’Unione), ma reciproca o bilaterale (Stato membro nei confronti dell’Unione, e viceversa). La garanzia di rispetto dell’identità nazionale-riserva di legge si evince già dalla disposizione di cui all’art. 83 TFUE, che ha previsto una qualiicazione (minima) della deinizione delle norme e delle relative sanzioni, nonché la scelta della fonte in quella necessariamente mediata (direttiva). Il rispetto dei principi di leale cooperazione e dell’identità nazionale e la previsione pattizia che delinea la competenza penale impongono la partecipazione anche nella fase discendente dei parlamenti nazionali e, dunque, vietano una norma penale europea suicientemente dettagliata nella deinizione del reato e della relativa sanzione, in modo che non resti altro al Parlamento nazionale che recepire la fattispecie così com’è, senza alcuna discrezionalità o libertà di valutazione di merito. Tale libertà, garante della democraticità della legge penale, potrebbe essere assicurata da un’interpretazione strettamente letterale della previsione pattizia, nel senso che il legislatore europeo, indicando le norme minime per la deinizione del reato, non deinisce la fattispecie criminale, ma si limita (o dovrebbe limitarsi) a 85. Viganò, Recenti sviluppi in tema di rapporti tra diritto comunitario e diritto penale, in Dir. pen. proc., 2005, 345, secondo cui si potrebbe opporre “in via teorica” un “riiuto di adempimento” in base alla teoria dei controlimiti (di cui si dirà infra), ma senza speciicare peraltro come tale riiuto possa essere esercitato; critico anche Edidendio, Diritto comunitario e diritto penale interno, cit., 40. 51 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea precisare quegli elementi necessari del reato, inalizzati al raggiungimento di un determinato risultato, riservando al legislatore nazionale la possibilità di deinire compiutamente la fattispecie delittuosa, alla stregua della propria tradizione giuridica, anche in ordine al tipo ed alla misura della pena per esso stabilita. Ma tale esegesi del vincolo contenutistico della norma penale europea, come imposto dall’art. 83 TFUE, si scontrerebbe con il principio di legalità, nella sua dimensione della determinatezza, che, secondo la dottrina più accreditata, ove tali norme minime non rispettassero i criteri descrittivi del contenuto precettivo di ogni norma penale, non potrebbero svolgere la loro funzione di ravvicinamento interstatuale delle discipline penali nazionali, ovvero non potrebbero supportare in modo suiciente l’attività ermeneutica dei giudici interni inalizzata all’interpretazione conforme al diritto unionista, o ancora, non potrebbero orientare adeguatamente le pronunce della Corte di Giustizia rispetto ai ricorsi interpretativi e per inadempimento86. Se tanto è vero, va osservato, però, che il rispetto di tale dimensione della legalità materiale per la descrizione della norma minima penale europea, da parte del legislatore comunitario, sacriicherebbe eccessivamente (se non proprio escludendolo) il margine di apprezzamento degli Stati membri, insito nella previsione formale della fonte di produzione di tali norme (direttiva). Non da meno, ma forse in modo più risolutivo, va detto che il criterio di determinatezza, come indicato anche dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia, è inalizzato, pur nel rispetto del principio di certezza del diritto, a rendere prevedibile per i soggetti di diritto «esattamente la portata degli obblighi che la norma impone loro e che questi debbano poter conoscere senza ambiguità i propri diritti ed obblighi e re- 86. Bernardi, La competenza penale accessoria dell’Unione Europea: problemi e prospettive, cit., 61, il quale richiama, a sostegno della necessaria determinatezza anche delle direttive in parola, la giurisprudenza della Corte di Giustizia ed, in particolare, Corte Giust. Un. Eur., 3 maggio 2007, causa C-303/05 (Advocaten voor de Wereld), §§ 49-50, secondo cui: «Va ricordato che il principio della legalità dei reati e delle pene (nullum crimen, nulla poena sine lege), che fa parte dei principi generali del diritto alla base delle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, è stato parimenti sancito da diversi trattati internazionali, in particolare dall’art. 7, n. 1, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (v., in questo senso, segnatamente, sentenze 12 dicembre 1996, cause riunite C-74/95 e C-129/95, X, Racc. p. I-6609, punto 25, e 28 giugno 2005, cause riunite C-189/02 P, C-202/02 P, da C-205/02 P a C-208/02 P e C-213/02 P, Dansk Rørindustri e a./Commissione, Racc. p. I-5425, punti 215-219). Tale principio implica che la legge deinisca chiaramente i reati e le pene che li reprimono. Questa condizione è soddisfatta quando il soggetto di diritto può conoscere, in base al testo della disposizione rilevante e, nel caso, con l’aiuto dell’interpretazione che ne sia stata fatta dai giudici, gli atti e le omissioni che chiamano in causa la sua responsabilità penale (v., in particolare, Corte eur. D.U., sentenza Coëme e a. c. Belgio del 22 giugno 2000, Recueil des arrêts et décisions, 2000-VII, § 145)»; conf. Corte Giust. Un. Eur., 3 giugno 2008, causa C-308/06 (Intertanko). Più recentemente, Corte Giust. Un. Eur., Gr. Sez., 29 marzo 2011, causa C-352/09 P (ThyssenKrupp), §§ 80-81. 52 legalità golarsi di conseguenza»87. Ora, appare evidente, dunque, che la determinatezza della norma penale europea sarebbe un canone descrittivo necessario ove la stessa fosse direttamente obbligatoria per gli interessati, ovvero i cittadini (in senso lato) e, pertanto, certamente nell’ipotesi di regolamenti penali. Ma tale criterio non può ritenersi vincolante anche per la descrizione delle norme minime penali, contenute in una direttiva che, come noto, non può avere applicazione diretta, ma si rivolge agli Stati membri, ai sensi dell’art. 288 TFUE. Ciò non toglie, comunque, che il legislatore penale europeo debba chiaramente descrivere le ragioni per cui ritiene necessario (o indispensabile) imporre un obbligo di penalizzazione, nel rispetto dei principi di sussidiarietà e proporzionalità e, dunque, la ratio, lo scopo o il risultato da raggiungere solo con una disposizione penale, deinendo in più rispetto a quanto previsto dalla regola generale di cui all’art. 288 TFUE, come, del resto, evidenzia l’art. 83 TFUE, la norma penale minima (e relativa sanzione), ovvero i criteri corniciali entro cui contenere il margine di apprezzamento nazionale. Tale lettura più rigorosa dell’art. 83 TFUE appare confortata dalla necessaria coordinazione con l’art. 288 TFUE, come detto, a cui l’indicazione della fonte di produzione della norma penale minima (direttiva, appunto) certamente rinvia, con l’efetto che il risultato da raggiungere deve essere certamente speciicato e ben descritto, in quanto contiene l’obbligo a cui lo Stato membro deve adeguare la sua legislazione, attraverso (ed in questo vi è la diferenza con il limite generale di cui all’art. 288 TFUE) la deinizione della norma penale (e non, dunque, con la descrizione del precetto), ovvero con l’indicazione del mezzo minimo (penale) per raggiungere quello scopo, deinito nella sua cornice essenziale. In tal maniera, si rende impossibile un’eficacia diretta della direttiva penale e la trasposizione nell’ordinamento interno deve necessariamente coinvolgere il legislatore nazionale, vincolato, questo sì, al principio di tassatività-determinatezza. Va svolta un’ulteriore rilessione. La deinizione della norma penale minima conigura il limite minimo per la tutela penale dello scopo preissato, ovvero è il margine massimo, oltre il quale il legislatore nazionale non può spingersi? Ad esempio, poniamo l’ipotesi che una direttiva penale contenga la previsione della necessaria punizione, per la tutela di un particolare interesse inanziario dell’Unione, del ine del proitto derivante da un determinato comportamento dichiarato, pertanto, illecito. Può il legislatore nazionale, nel trasporre la norma penale, stabilire la punizione di quel comportamento nel solo caso in cui il reo percepisca un lucro88, concettualmente più deinito rispetto al proitto? 87. Giurisprudenza richiamata nella nota precedente. 88. Ampiamente sulla diferenza tra proitto e lucro, Sgubbi, Delitti contro il patrimonio, in Canestrari, Gamberini, Insolera, N. Mazzacuva, Sgubbi, Stortoni, Tagliarini (a cura di), Diritto Penale. 53 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea La questione va risolta considerando che la scelta di criminalizzazione adottata a livello europeo è necessariamente ispirata dai principi di sussidiarietà e proporzionalità, come imposto dall’art. 5 TUE, ma anche dal principio di extrema ratio del diritto penale, con l’efetto che la previsione punitiva costituisce necessariamente il grado più adeguato di tutela del bene giuridico europeo. Se fosse, infatti, possibile per il legislatore nazionale, nella trasposizione della direttiva penale, descrivere una norma penale meno severa, evidentemente, il legislatore europeo avrebbe errato in eccesso nella valutazione della misura punitiva tutoria del bene giuridico prescelto e, dunque, la direttiva sarebbe contraria al canone di rango sovraordinato della proporzionalità. Se fosse possibile per il legislatore nazionale, descrivere una norma penale più severa, evidentemente, sarebbe il legislatore nazionale ad errare, poiché la misura proporzionata di tutela penale del bene giuridico è stata individuata a livello europeo, come quella suiciente per raggiungere lo scopo tutorio. In tal maniera, appare evidente che la norma penale minima europea, comunque, risulterebbe più che un limite minimo o massimo, un vincolo o una condizione all’esercizio dell’obbligo di trasposizione della stessa disposizione nell’ordinamento interno, da parte dello Stato. Ma ciò non sarebbe coerente sul piano esegetico con quanto previsto dall’art. 83 TFUE e, così, con l’espressa previsione della sola deinizione di norme minime da adottare con direttive: in altri termini, ove fosse possibile considerare la norma penale minima, come un vincolo per il legislatore nazionale, la direttiva avrebbe ben altro contenuto rispetto a quello previsto dall’art. 288 TFUE e, poi, risulterebbe priva di applicazione l’espressa indicazione della fonte di produzione, oltre alla limitazione della facoltà di descrivere la norma penale (aggettivo, minimo). Di contro, al ine di dare contenuto e applicazione alle precise indicazioni dell’art. 83 TFUE, la norma penale minima non può che conigurare un limite minimo di tutela penale da apprestare in favore del bene giuridico prescelto, ferma restando la facoltà del legislatore nazionale, in armonia con il proprio ordinamento, di apprestare un sistema tutorio penale più severo. Va fatta però una puntualizzazione. La risposta punitiva più severa del legislatore nazionale non signiica dare rilevanza penale ad altri elementi o fatti o comportamenti o soggetti per tutelare in maniera più ampia il bene giuridico, che non siano già inclusi nella previsione europea che funge da cornice oltre la quale il legislatore interno non può spingersi. In altri termini, la descrizione degli elementi costitutivi del reato contenuta nella norma penale minima europea determina l’area di rilevanza penale (proporzionata) di comportamenti che ledono o pongono in pericolo un determinato bene Lineamenti di parte speciale, Bologna, 2003; sia consentito il richiamo per ulteriore bibliograia, a Stea, Ricettazione e commercio di opere d’autore illecitamente riprodotte. La consunzione nel conlitto apparente di norme in relazione strumentale, in Riv. pen., 2007, 5, 532 ss. 54 legalità giuridico. Il legislatore interno non può ampliare (né restringere) quest’area di rilevanza penale, ma, all’interno dell’area tracciata dalla norma europea, individuare elementi che meritano una risposta punitiva più severa89. Ad esempio, se la norma europea prevede la punizione di un determinato comportamento posto in essere per scopo di lucro, il legislatore nazionale non potrà punire quel comportamento posto in essere per scopo di proitto, perché, in tal maniera, amplierebbe l’area di rilevanza penale del comportamento dato, descritta dalla norma europea. Ma potrebbe punire più severamente l’ipotesi in cui lo scopo perseguito dall’agente sia diretto a realizzare un lucro di rilevante entità, poiché si muoverebbe sempre all’interno di quell’area delineata dalla norma europea90. Così sarebbe rispettato il margine di apprezzamento riservato al legislatore domestico, garantendo, nel rispetto della riserva di legge nazionale, la necessaria democraticità della norma penale di ispirazione europea nella fase discendente (o di recepimento). Per rispondere, dunque, alla questione indicata più sopra, la norma penale che punisca solo il ine di lucro, anziché quello di proitto, si porrebbe in contrasto con il limite comunitario. Diversamente, il legislatore nazionale potrebbe prevedere il ine di lucro come circostanza aggravante del reato inalizzato al proitto, così apprestando una forma di tutela penale del bene giuridico più severa. II.6. Il sindacato della Corte di Giustizia dell’Unione Europea in relazione a direttive dettagliate. La Corte costituzionale ed il controllo sulla lege di ratiica del Trattato di Lisbona e sulle norme derivate. L’incostituzionalità degli artt. 7 e 12 l. 234/2012 in relazione al principio di legalità-riserva di lege (democraticità). Ove la tecnica legislativa europea fosse contraria alla lettura pattiziamente orientata, appena oferta nel paragrafo che precede, dei limiti della competenza penale comunitaria, non rico- 89. In sintesi, con le parole di Luigi Cornacchia, il legislatore interno ha la possibilità di innalzare la severità della risposta sanzionatoria, ma nel solco di quanto tracciato dalla norma europea e senza introdurre elementi tipici eterogenei. Analoga la posizione di Bernardi, La competenza penale accessoria dell’Unione europea, cit., 33 ss., secondo cui «l’espressione “norme penali minime” sembra circoscrivere la competenza penale dell’Unione europea alla descrizione degli elementi oggettivi e soggettivi costituenti il “cuore” della infrazione penale (dunque alle scelte di fondo in merito ai comportamenti vietati), nonché a talune scelte in ordine alle cc.dd. forme di manifestazione del reato (circostanze, tentativo, concorso psicologico e materiale di persone nel reato), auspicando che il legislatore europeo sappia coniugare determinatezza e lessibilità, al ine di consentire l’esercizio di un certo margine di discrezionalità (o di apprezzamento) nel recepimento della direttiva penale, da parte del legislatore domestico». Per una interpretazione particolarmente restrittiva del concetto di norme minime cfr. Silva Sànchez, Principio de legalidad y legislación penal europea:¿una convergencia imposible?, in Arroyo Zapatero, Nieto Martìn, Munoz de Morales (a cura di), El derecho penal de la Unión Europea: situación actual y perspectivas de futuro, Cuenca, 2007, 80 ss. 90. Sia consentito il rinvio a Stea, L’esegesi giurisprudenziale della deinizione degli enti responsabili dell’illecito da reato, in La responsabilità amministrativa delle società e degli enti, 4, 2013, 166 ss. 55 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea noscendo alcuna facoltà per gli Stati membri di mantenere in vigore o adottare misure più stringenti inalizzate ad un’eicace tutela penale dell’ambito di volta in volta interessato, la relativa direttiva (o norma in essa contenuta) sarebbe illegittima, poiché mancante del carattere della democraticità non acquisibile nella fase discendente o di recepimento della norma di indirizzo comunitario, in violazione degli artt. 4 TUE e 67 TFUE. La questione andrà afrontata dal punto di vista separatamente dell’ordinamento europeo e di quello interno. Sotto il primo proilo, è indubbio che il difetto di democraticità della direttiva dettagliata in materia penale possa essere denunciato innanzi alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, secondo la procedura di cui all’art. 263 TFUE (o in via incidentale ex art. 271 TFUE)91. I parametri del sindacato della Corte europea sono il rispetto dell’identità nazionale di cui all’art. 4, § 2, TUE (riserva di legge in materia penale), in relazione anche al principio di leale cooperazione, raforzato, nella materia penale, dal «rispetto dei diversi ordinamenti giuridici e delle diverse tradizioni giuridiche degli Stati membri» (art. 67, co. 1, TFUE). La direttiva penale, dunque, che non rispettasse i limiti contenutistici volti a garantire un margine di apprezzamento da parte dello Stato membro nelle scelte di criminalizzazione, potrebbe essere annullata dalla Corte europea. Rispetto all’ordinamento nazionale, la questione appare più complessa. Le norme europee, come accennato, sono sottratte al sindacato diretto della Corte costituzionale, che, comunque, si è riservata la possibilità di un sindacato indiretto attraverso la legge di ratiica (nel caso che ci interessa) del Trattato di Lisbona e delle norme interne adottate tramite tale Trattato. Il Giudice delle Leggi, infatti, con costante giurisprudenza92, ha afermato che «l’orientamento di apertura dell’ordinamento italiano nei confronti sia delle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute, sia delle norme internazionali convenzionali incontra i limiti necessari a garantirne l’identità e quindi, innanzitutto, i limiti derivanti dalla Costituzione». I limiti di identità sono «i principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale ed i diritti inalienabili della persona» che costituiscono l’argine all’ingresso nell’ordinamento interno sia delle norme internazionali generalmente riconosciute alle quali l’ordinamento giuridico italiano si conforma secondo l’art. 10, co. 1, Cost. (sentenza n. 48 del 1979); sia delle norme contenute in trattati istitutivi di organizzazioni internazionali aventi gli scopi indicati dall’art. 11 Cost. o derivanti da tali organizzazioni (sentenze nn. 183 del 1973; 176 del 1981; 170 del 1984; 232 del 1989 e 168 del 1991). 91. Tesauro, Diritto dell’Unione Europea, cit., 217 ss. 92. Corte cost. n. 73 del 2001. 56 legalità La conformità della norma pattizia, dunque, è sottoposta a controllo di costituzionalità tramite il sindacato della legge di esecuzione del trattato (ad esempio, sentenze nn. 183 del 1994; 446 del 1990; 20 del 1966) e, pertanto, è possibile «addivenire eventualmente alla dichiarazione d’incostituzionalità della legge di esecuzione, qualora essa immetta, e nella parte in cui immette, nell’ordinamento norme incompatibili con la Costituzione» (sentenze nn. 128 del 1987; 210 del 1986). Tale impostazione, che vede nell’art. 11 Cost. il sicuro fondamento del rapporto tra diritto italiano e diritto comunitario, ha resistito anche alla riforma costituzionale che ha portato alla riformulazione dell’art. 117, co. 1, Cost. Come linearmente indicato da Tesauro93, «l’art. 117, primo comma, nel sancire che la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali, ha portato ad una sempliicazione del quadro esistente, mettendo in chiaro in primo luogo la copertura costituzionale, con la nuova norma, di tutti gli obblighi internazionali, ivi compresi quelli derivanti da norme internazionali convenzionali. Si tratta di un riconoscimento esplicito del primato delle norme comunitarie, riconoscimento che conferma quello sancito dalla giurisprudenza costituzionale fondata sull’art. 11. Peraltro, ciò è rilevante soprattutto per il confronto con le norme comunitarie prive di efetto diretto, in quanto le norme interne conservano la loro rilevanza e sono sottoposte allo scrutinio di costituzionalità: ieri rispetto solo all’art. 11, oggi anche rispetto all’art. 117, primo comma. Nel confronto con le norme dell’Unione provviste di efetto diretto, viceversa, la norma interna incompatibile resta soggetta alla disapplicazione da parte del giudice comune, non essendoci alcuna questione di legittimità costituzionale, ma solo di competenza dell’ordinamento comunitario in luogo di quello nazionale. Né risulta modiicato – continua l’Illustre Giurista – il rapporto tra norme comunitarie e norme costituzionali, rispetto al quale il principio della prevalenza della norma dell’Unione incontra il solo limite dei principi strutturali dell’assetto costituzionale, nonché dei diritti fondamentali della persona, limite ino ad oggi rimasto sulla carta»94. 93. Tesauro, Relazioni tra Corte costituzionale e Corte di giustizia, relazione tenuta all’incontro in Bruxelles, 25 maggio 2012. 94. Ad esempio, sulla necessità di mantenere l’art. 11 come fondamento del rapporto tra diritto interno e diritto dell’Unione europea, la Corte costituzionale, nella sentenza n. 227 del 2010, ha afermato che «restano, infatti, ben fermi, anche successivamente alla riforma, oltre al vincolo in capo al legislatore e alla relativa responsabilità internazionale dello Stato, tutte le conseguenze che derivano dalle limitazioni di sovranità che solo l’art. 11 Cost. consente, sul piano sostanziale e sul piano processuale, per l’amministrazione e per i giudici. In particolare, quanto ad eventuali contrasti con la Costituzione, resta ferma la garanzia che, diversamente dalle norme internazionali convenzionali, l’esercizio dei poteri normativi delegati all’Unione europea trova un limite esclusivamente nei principi fondamentali dell’assetto costituzionale e nella maggior tutela dei diritti inalienabili della persona». 57 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea Le fonti europee non assumono rango costituzionale per efetto dell’art. 117, co. 1, Cost., trattandosi di norma interposta tra legge fondamentale e legge ordinaria, «soggetta a sua volta […] ad una veriica di compatibilità con le [disposizioni] della Costituzione»95. Ora, tornando all’analisi sopra indicata, la democraticità della norma penale europea, come appena deinita nel suo aspetto minimale, essendo una dimensione particolare della riserva di legge (corollario della legalità garantita dall’art. 25, co. 2, Cost.) costituisce un principio strutturale del nostro ordinamento costituzionale e, dunque, può essere utilizzata dalla Consulta per la dichiarazione di incostituzionalità. Non appare contraria a tale principio la previsione pattizia (art. 83 TFUE) e, dunque, la legge di ratiica, poiché la democraticità è un carattere della legalità formale sotto l’aspetto materiale (riserva di legge sostanziale), mentre tale previsione del Trattato delinea il procedimento di produzione della norma di 95. Corte cost. n. 349 del 2007, ma anche Corte cost. n. 311 del 2009, in materia di norme internazionali pattizie ed, in particolare, della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, ove la Corte, da un lato evidenzia come l’eventuale trasgressione degli obblighi internazionali di diritto pattizio comporti una violazione indiretta dell’art. 117, co. 1, Cost., dal momento che con esso «si è realizzato […] un rinvio mobile alla norma convenzionale di volta in volta conferente, la quale dà vita e contenuto a quegli obblighi internazionali genericamente evocati e, con essi, al parametro»; mentre, dall’altro speciica come tale “norma interposta” sia «soggetta a sua volta […] ad una veriica di compatibilità con le [disposizioni] della Costituzione». Dalla particolare struttura dell’art. 117, co. 1, Cost. «simile a quella di altre norme costituzionali, che sviluppano la loro concreta operatività solo se poste in stretto collegamento con altre norme, di rango sub-costituzionale, destinate a dare contenuti ad un parametro che si limita ad enunciare in via generale una qualità che le leggi in esso richiamate devono possedere, ne consegue che le norme necessarie [allo] scopo [di integrare e dare vita al parametro] sono di rango subordinato alla Costituzione, ma intermedio tra questa e la legge ordinaria». E proprio per tale peculiare posizione nel sistema delle fonti, esse «non [possono essere] immuni dal controllo di legittimità costituzionale». Si impone, infatti, l’esigenza assoluta ed inderogabile che le norme che integrano il parametro di costituzionalità siano esse stesse conformi a Costituzione «per evitare il paradosso che una norma legislativa venga dichiarata incostituzionale in base ad un’altra norma sub-costituzionale, a sua volta in contrasto con la Costituzione». E tale controllo non può «limitarsi alla possibile lesione dei princìpi e dei diritti fondamentali […] o dei princìpi supremi […], ma [deve] estendersi ad ogni proilo di contrasto tra le “norme interposte” e quelle costituzionali». Per ogni questione nascente da pretesi contrasti tra norme interposte e norme legislative interne, sarà quindi necessario «veriicare congiuntamente la conformità a Costituzione di entrambe e precisamente la compatibilità della norma interposta con la Costituzione e la legittimità della norma censurata rispetto alla stessa norma interposta». Nel caso in cui una disposizione di diritto internazionale pattizio risultasse in contrasto con una di rango costituzionale, allora la Corte dichiarerà «l’inidoneità della stessa ad integrare il parametro, provvedendo, nei modi rituali, ad espungerla dall’ordinamento giuridico italiano». Critico sulla considerazione della norma convenzionale come disposizione sub-costituzionale, Cicconetti, Creazione indiretta del diritto e norme interposte, in www.associazionecostituzionalisti.it, Sull’europeizzazione dei controlimiti, nonché sul nuovo rapporto tra i sistemi europeo e nazionale in una visione sinergica, unica e generale, infra § IV.9. 58 legalità indirizzo penale (aspetto procedurale). Quindi, la legge di ratiica e l’ordine di esecuzione sono legittimi. Potrebbe, di contro, essere incostituzionale la norma di recepimento di una direttiva che deinendo il reato e la sanzione in maniera dettagliata, non consente al legislatore nazionale una certa libertà di valutazione della scelta di politica criminale. La norma di recepimento sarebbe, infatti, sospetta di incostituzionalità perché la scelta di criminalizzazione a livello europeo non ha rispettato il canone costituzionale fondamentale sancito dall’art. 25, co. 2, Cost., secondo cui solo «attraverso l’intervento dell’organo rappresentativo di tutta la società unita per contratto sociale, si è in grado di positivizzare i principi razionali ed immutabili di giustizia penale»96. È necessario spiegarsi meglio. La norma di recepimento di una direttiva penale dettagliata, seppur formalmente adottata dal legislatore nazionale, secondo l’iter costituzionale di adozione della legge ordinaria, sarebbe sospetta di incostituzionalità per violazione del principio di legalità-riserva di legge (aspetto materiale della democraticità), in quanto l’obbligo di recepimento della direttiva nell’ordinamento interno, combinato con l’estrema determinatezza della descrizione della norma “minima”, ha precluso al legislatore nazionale di poter apprezzare la scelta di politica criminale, così ledendo il canone della riserva di legge. Per fare un paradosso, ma che rende immediato (come sempre) il vulnus lamentato, sarebbe come se una proposta di legge fosse adottata saltando la fase referente o quella redigente, senza, dunque, alcuna possibilità di modiica (emendamenti), passando direttamente al voto [sic!]97. In questa prospettiva, addirittura, si potrebbe ipotizzare per la norma penale di recepimento della direttiva dettagliata anche la violazione dell’art. 72 Cost. L’eventuale incidente di costituzionalità di tale norma di recepimento dovrebbe estendersi anche al sindacato dell’art. 7 l. 234/2012 (ma anche dell’art. 12 l. 234/2012), nella parte in cui non prevede la necessità della legge per autorizzare ogni iniziativa del Governo (rectius, del componente del Consiglio) nella formazione (fase ascendente) di direttive in materia penale ai sensi dell’art. 83 TFUE. Nell’ipotesi in cui la direttiva comunitaria in materia penale consentisse un margine di apprezzamento della scelta di criminalizzazione nella fase discendente, come dovrebbe essere stando alla lettera dell’art. 83 TFUE, interpretato alla stregua di quanto prescritto dall’art. 288 TFUE, l’art. 7 l. 234/2012 non 96. Corte cost. n. 487 del 1989. 97. L’analogia con il discusso (ab)uso della questione di iducia è evidente. In tema, cfr. Manzella, Note sulla questione di iducia, in Studi Parl. e di Pol. Cost., 1969, 5-6, 39 ss.; Olivetti, La questione di iducia nel sistema Parlamentare Italiano, Milano, 1996; Lupo, Emendamenti, maxi-emendamenti e questione di iducia nelle legislature del magioritario, in Gianfrancesco, Lupo (a cura di), Le regole del diritto parlamentare nella dialettica tra magioranza e opposizione, Roma, 2007, 41 ss.; Piccirilli, I paradossi della questione di iducia ai tempi del magioritario, in QC, 2008, 4, 789 ss. 59 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea potrebbe mai essere valutato dalla Corte costituzionale per difetto di rilevanza nel giudizio a quo. Questa è una grave lacuna del nostro sistema nel rapporto di partecipazione alle scelte di politica criminale in ampi settori della vita sociale regolati da norme europee formate a distanza, senza alcun impegno democratico e che contribuisce a raforzare quel sentimento anti europeista che oramai da tempo serpeggia nel populismo demagogico. Nel nostro ordinamento così trovano (o, ottimisticamente, potrebbero trovare) ingresso norme che l’opinione pubblica nazionale vede come imposte perché a quelle scelte non ha partecipato, perché quelle decisioni nascono senza responsabilità democratica o politica, come garantita e voluta dalla Costituzione. Anche se quotidianamente si assiste alla mortiicazione della democrazia rappresentativa, così come concepita dai nostri padri fondatori, quale principio volto a garantire la corrispondenza tra il contenuto delle scelte politiche e la volontà popolare come espressa dai rappresentanti elettivi del popolo98, si è convinti che, proprio perché il diritto penale riguarda la libertà personale la relativa restrizione non può che essere sacriicata solo con la più ampia partecipazione dei cittadini alle deliberazioni di interesse generale. La prassi, la realtà, è certamente diversa, ma non per questo il richiamo della Costituzione deve essere superato e dimenticato o, se si vuole, svilito, ma anzi deve essere sostenuto e raforzato, per fermare la deriva dei principi che sorreggono la collettività statuale99. sezione III. retroattività III.1. La retroattività della lege favorevole dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo alla Carta di Nizza. L’excursus dell’afermazione internazionale e la giurisprudenza costituzionale sul principio di retroattività in mitius. Si è già detto che il principio di legalità europeo, come consacrato nell’art. 49 Carta, è circoscritto alla sola dimensione intertemporale delle legge penale, ma, rispetto alla previsione costituzionale nostrana, riguarda non solo la norma in malam partem100, ma 98. Fiandaca, Lege penale e democrazia, cit., 1252. 99. Fiandaca, Crisi della riserva di lege e disagio della democrazia rappresentativa nell’età del protagonismo giurisdizionale, cit., 85, il quale evidenzia «il disagio delle democrazie contemporanee, come efetto di un insieme di cause quali: il declino della centralità del parlamento e la sua sempre maggiore inettitudine a fungere da luogo istituzionale di esercizio di razionalità discorsiva; la perdita di capacità progettuale e di attitudine innovativa della politica; l’indebolimento dei partiti e le derive populistiche delle maggioranze governative; la tendenza alla personalizzazione e alla mediatizzazione della politica; lo scadimento della qualità e del livello culturale e di professionalità del personale politico, ecc.». Per un quadro di sintesi, Galli, Il disagio della democrazia, Torino, 2011. 100. Per l’inderogabilità del divieto di retroattività in malam partem, come indicato nella Convenzione EDU, in dottrina, fra i tanti, Balsamo, La dimensione garantistica del principio di irretroattività e la nuova interpretazione giurisprudenziale “imprevedibile”: una “nuova frontiera” del processo di “europeizzazione” del diritto penale, in Cass. pen., 2007, 2202 ss.; Bernardi, Nessuna pena senza lege 60 legalità anche quella più favorevole al reo. «Nessuno può essere condannato – recita l’art. 49, § 1, Carta – per un’azione o un’omissione che, al momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o il diritto internazionale. Parimenti, non può essere inlitta una pena più grave di quella applicabile al momento in cui il reato è stato commesso. Se, successivamente alla commissione del reato, la legge prevede l’applicazione di una pena più lieve, occorre applicare quest’ultima». Per comprendere l’importanza fondamentale della retroattività in mitius è utile percorrere, con la dovuta sintesi, le tappe che hanno contrassegnato tale principio a livello internazionale e, poi, europeo e, dunque, nazionale, in virtù di quanto previsto dall’art. 117, co. 1, Cost. Non può non iniziarsi l’excursus storico della retroattività della legge favorevole se non dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, contenente i principi che regolano il rispetto dei diritti dell’uomo (appunto) e delle libertà fondamentali, adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948101. L’art. 11, co. 2, della Dichiarazione universale recita: «Nul ne sera condamné pour des actions ou omissions qui, au moment où elles ont été commises, ne constituaient pas un acte délictueux d’après le droit national ou international. De même, il ne sera inligé aucune peine plus forte que celle qui était applicable au moment où l’acte délictueux a été commis». Niente di nuovo ancora: la solenne Dichiarazione si limita, dunque, a ribadire la dimensione della legalità-irretrottività della legge penale sfavorevole102, nulla dicendo in ordine a quella della retroattività in mitius. (art. 7), cit., 249 ss.; Dannecker, Das intertemporale Strafrecht, Tubingen, 1993, 152 ss.; Manes, I rapporti tra diritto comunitario e diritto penale nello specchio della giurisprudenza della Corte di Giustizia: approdi recenti e nuovi orizzonti, in Sgubbi, Manes (a cura di), L’interpretazione conforme al diritto comunitario in materia penale, Bologna, 2007, 9 ss.; Jacobs, White, The European Convention on human rights, II, Oxford, 1996, 162. In giurisprudenza, ex multis, Corte eur. dir. uomo, 22 novembre 1995, S.W. c. Regno Unito, § 34 «La garantie que consacre l’article 7 (art. 7), élément essentiel de la prééminence du droit, occupe une place primordiale dans le système de protection de la Convention, comme l’atteste le fait que l’article 15 (art. 15) n’y autorise aucune dérogation en temps de guerre ou autre danger public. Ainsi qu’il découle de son objet et de son but, on doit l’interpréter et l’appliquer de manière à assurer une protection efective contre les poursuites, les condamnations et sanctions arbitraries». Per la derogabilità del principio di irretroattività alla stregua di quanto previsto dall’art. 7, co. 2, Convenzione EDU (c.d. clausola di Norimberga), da ultimo, V. Valentini, Diritto penale intertemporale, cit., 108 ss., ove si richiama ampia bibliograia internazionale a sostegno. 101. Assemblea Generale delle Nazioni Unite, risoluzione 217 A (III). Il testo fu approvato con 48 voti favorevoli, 8 astenuti e nessun voto contrario. Sul ruolo rivestito nell’ambito del diritto internazionale dalle Dichiarazioni di principi emanate dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite cfr., Conforti, Diritto internazionale, Napoli, 2002, 60. 102. Sulla connotazione illuminista e giusnaturalista di taluni corollari della legalità, atti ad esprimere le eterne idee di razionalità e giustizia, cfr. Bernardi, Sulle funzioni dei principi di diritto penale, in Annali dell’Università di Ferrara-Scienze giuridiche, vol. VI, 1992, 73 ss.; Id., All’indomani di Lisbona: note sul principio europeo di legalità penale, cit., 43 ss. 61 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea Per l’evoluzione del principio di legalità, nella dimensione analizzata, è necessario guardare al Patto internazionale sui diritti civili e politici (d’ora in poi, anche solo Patto) adottato a New York il 16 dicembre 1966 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite103. Esso stabilisce all’art. 15, co. 1: «Nul ne sera condamné pour des actions ou omissions qui ne constituaient pas un acte délictueux d’après le droit national ou international au moment où elles ont été commises. De même, il ne sera inligé aucune peine plus forte que celle qui était applicable au moment où l’infraction a été commise. Si, postérieurement à cette infraction, la loi prévoit l’application d’une peine plus légère, le délinquant doit en bénéicier». Con tale ultima espressione, il legislatore internazionale ha posto la retroattività delle legge favorevole tra i principi fondamentali del diritto universale. La questione esegetica della norma pattizia si è posta sui limiti della retroattività benigna, ovvero se la stessa potesse estendersi oltre il giudicato. La positiva opzione si ricava dalla riserva interpretativa apportata dall’Italia in sede di autorizzazione alla ratiica del Patto e contenuta nell’art. 4 l. 25 ottobre 1977 n. 881, secondo cui: «L’ultima frase del paragrafo 1 dell’art. 15 del patto relativo ai diritti civili e politici “Si postérieurement à cette infraction, la loi prevoit l’application d’une peine plus lègère, le delinquant doit en bénéicier” deve essere interpretata come riferita esclusivamente alle procedure ancora in corso. Conseguentemente, un individuo già condannato con sentenza passata in giudicato non potrà beneiciare di una legge che, posteriormente alla sentenza stessa, prevede l’applicazione di una pena più lieve», conformemente a quanto previsto dall’art. 2, co. 4, c.p. Da ciò, dunque, l’indicazione contenuta nell’art. 15, co. 1, Patto ha un più ampio respiro, facendo rientrare nell’obbligo di applicazione retroattiva della legge favorevole, anche l’ipotesi delle situazioni già deinite104. Il Patto non rientra tra le norme di diritto internazionale generalmente riconosciute, a cui fa riferimento l’art. 10 Cost. Ed invero, la Corte costituzionale, in un primo tempo, aveva avuto modo di chiarire che, «per quanto all’origine vi sia una deliberazione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, consegnata a un testo che esprime un accordo internazionale che ha da tempo ricevuto numerose adesioni e che è perciò eicace come trattato multilaterale, e sebbene i principi ivi proclamati abbiano portata universale per la loro stessa intrinseca natura, l’adesione a quel patto e la sua vigenza in Italia derivano pur sempre da un atto di volontà sovrana individuale dello Stato espresso in forma legislativa. E ciò – se non impedisce 103. Cassese, I diritti umani ogi, Roma-Bari, 2012, 44. Il Patto internazionale sui diritti civili e politici, nonché il Protocollo facoltativo ad esso connesso (già ratiicato da 10 paesi, ossia il numero minimo di ratiiche richieste per la sua entrata in vigore) sono entrati in vigore il 23 marzo 1976. In Italia l’entrata in vigore è successiva, il 15 dicembre 1978. 104. L’importante deroga al principio di intangibilità del giudicato è, come noto, stata introdotta dal nuovo co. 3 dell’art. 2 c.p., secondo cui: «Se vi è stata condanna a pena detentiva e la legge posteriore prevede esclusivamente la pena pecuniaria, la pena detentiva inlitta si converte immediatamente nella corrispondente pena pecuniaria, ai sensi dell’articolo 135». 62 legalità di attribuire a quelle norme grande importanza nella stessa interpretazione delle corrispondenti, ma non sempre coincidenti, norme contenute nella Costituzione – impedisce però di assumerle in quanto tali come parametri nel giudizio di costituzionalità delle leggi. Cosicché, una loro eventuale contraddizione da parte di norme legislative interne non determinerebbe di per sé – cioè indipendentemente dalla mediazione di una norma della Costituzione – un vizio d’incostituzionalità»105. La questione di legittimità costituzionale dovrà allora essere sollevata non con riferimento al Patto, bensì con riferimento ad un parametro costituzionale. A più riprese, come già visto106, la Corte ha potuto afermare, sia pur con riferimento alle norme della Convenzione EDU – ma con afermazioni che possono essere estese a tutto il diritto internazionale pattizio (non comunitario)107 – che il parametro costituzionale deve rinvenirsi nell’art. 117, co. 1, Cost., che, come noto, statuisce che la potestà legislativa (statale e regionale) debba essere esercitata nel rispetto, oltre che della Costituzione e dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario, anche degli obblighi internazionali108. Ora, la questione della legge più favorevole alla stregua del Patto è stata affrontata espressamente dalla Corte delle Leggi, su iniziativa della Corte di cassazione109, che ha sollevato l’incidente costituzionale proprio per un supposto contrasto con l’art. 117 Cost., integrato, tra l’altro anche dall’art. 15 Patto, della disciplina intertemporale della legge 5 dicembre 2005 n. 251 (art. 10, co. 3)110. La 105. Corte cost. n. 15 del 1996. 106. Cfr. § II.5 In particolare, Corte cost. nn. 348 e 349 del 2007 e, da ultimo, Corte cost. n. 28 del 2010. 107. Giupponi, Corte costituzionale, obblighi internazionali e “controlimiti allargati”: che tutto cambi perché tutto rimanga uguale, in www.forumcostituzionale.it, secondo l’A. «l’apertura della Corte ad una sub-costituzionalizzazione del diritto internazionale pattizio sarebbe incompatibile con la sistematica costituzionale». 108. Sull’impossibilità di disapplicare la norma interna in contrasto con quella internazionale pattizia (non comunitaria), tra i tanti, Carlotto, I giudici comuni e gli obblighi internazionali dopo le sentenze n. 348 e n. 349 del 2007 della Corte costituzionale: un’analisi sul seguito giurisprudenziale, in www.associazionecostituzionalisti.it, 28 ss. Come già evidenziato in precedenza, tale impostazione è stata ribadita anche da Corte cost. n. 80 del 2011. In dottrina, fra gli altri, Conti, La scala reale della Corte costituzionale sul ruolo della CEDU nell’ordinamento interno, in CG, 9, 2011, 1243 ss.; Costanzo, Mezzetti, Ruggeri, Lineamenti di diritto costituzionale dell’Unione europea, Torino, 2010; Mastroianni, L’ordinamento giuridico nazionale nei rapporti con le regole dell’Unione europea. La posizione della Corte costituzionale italiana, in Rossi, Baroncini (a cura di), Rapporti tra ordinamenti e diritti dei singoli, Studi degli allievi in onore di Paolo Mengozzi, Napoli, 2012, 59 ss. 109. Cass. pen., Sez. II, ord., 27 maggio 2010 n. 22357, in D&G, 2010, 296, con nota di Natalini, Lege ex Cirielli, atti alla Consulta: a rischio la norma che esclude i nuovi termini di prescrizione, se più brevi, per i processi già pendenti in appello o alla Cassazione, 298. 110. Trattasi di una previsione che introduce una deroga al principio della legge penale più favorevole, laddove stabilisce che il regime più favorevole della prescrizione non possa applicarsi ai processi già pendenti in appello e in cassazione. 63 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea Consulta (n. 393 del 2006)111, richiamando la giurisprudenza della Corte comunitaria ed accennando alla limitazione di applicabilità della retroattività benigna di cui all’art. 15 Patto, contenuta nella riserva italiana, ha fatto leva interpretativa sul «livello di rilevanza dell’interesse preservato dal principio di retroattività della lex mitior – quale emerge dal grado di protezione accordatogli dal diritto interno, oltre che dal diritto internazionale convenzionale e dal diritto comunitario, nel senso che – così si legge nella successiva sentenza n. 394 del 2006 – il principio di retroattività della norma più favorevole non ha alcun collegamento con la libertà di autodeterminazione individuale, per l’ovvia ragione che, nel caso considerato, la lex mitior sopravviene alla commissione del fatto, al quale l’autore si era liberamente autodeterminato sulla base del pregresso (e per lui meno favorevole) panorama normativo». Da ciò, non signiica che tale principio non abbia copertura costituzionale (come, invece, quello di irretroattività della norma sfavorevole posto dall’art. 25, co. 2, Cost.): il suo alveo nella Carta fondamentale è da rinvenire nell’eguaglianza di cui all’art. 3 Cost., «che impone, in linea di massima, di equiparare il trattamento sanzionatorio dei medesimi fatti, a prescindere dalla circostanza che essi siano stati commessi prima o dopo l’entrata in vigore della norma che ha disposto l’abolitio criminis o la modiica mitigatrice». Comunque, con una evidenziata diferenza, in quanto se è vero che «i fatti commessi prima e dopo l’entrata in vigore della norma penale favorevole sono identici nella loro materialità», è anche vero, però, che non lo sono «sul piano della rimproverabilità. Altro, infatti, è il porre in essere una condotta che in quel momento è penalmente lecita o punita in modo mite; altro è porre in essere la stessa condotta in contrasto con la norma che in quel momento la vieta o la punisce in modo più severo. Il collegamento del principio della retroattività in mitius al principio di eguaglianza – concludono i Giudici delle Leggi – ne segna, peraltro, anche il limite: nel senso che, a diferenza del principio della irretroattività della norma penale sfavorevole − assolutamente inderogabile – detto principio deve ritenersi suscettibile di deroghe legittime sul piano costituzionale, ove sorrette da giustiicazioni oggettivamente ragionevoli. Tali giustiicazioni vanno individuate nei beni giuridici che il legislatore, interprete della coscienza sociale, reputa oggettivamente meritevoli di essere salvaguardati da determinate forme di aggressione col presidio della pena». Si tratta, dunque, di un bilanciamento di interessi contrapposti: da un lato, quello tutelato dal principio di retroattività in mitius (il mutamento della valutazione del disvalore del fatto deve riverberarsi a vantaggio anche di coloro che abbiano posto in essere il fatto in un momento anteriore) e, dall’altro, quello tutelato, di volta in volta, dalla norma penale modiicatrice che deve essere di 111. Come già in Corte cost. n. 74 del 1980, n. 6 del 1978 e n. 215 del 2008. Per un’attenta analisi degli orientamenti costituzionali, cfr. Maiello, Il rango della retroattività della lex mitior nella recente giurisprudenza comunitaria e costituzionale italiana, in Riv. it. dir. proc. pen., 2008, 1614 ss. 64 legalità analogo rilievo. Da ciò, pertanto, «lo scrutinio di costituzionalità ex art. 3 Cost., sulla scelta di derogare alla retroattività di una norma penale più favorevole al reo – si legge nella sentenza n. 393 del 2006 – deve superare un vaglio positivo di ragionevolezza, non essendo a tal ine suiciente che la norma derogatoria non sia manifestamente irragionevole». In deinitiva, soltanto nell’ipotesi in cui l’interesse che giustiica l’irretroattività della lex mitior sia proporzionalmente più intenso di quello sotteso alla retroattività benigna «può trovare giustiicazione la deroga alla applicazione retroattiva della disposizione più favorevole al reo»112. La Consulta, comunque, si interroga su quale possa essere il limite del sindacato costituzionale, una volta individuato il parametro di legittimità. Le scelte di criminalizzazione del legislatore, con l’introduzione di norme più favorevoli, possono essere sindacate poiché «l’efetto in malam partem (dovuto alla declaratoria di incostituzionalità della norma in mitius) non discende dall’introduzione 112. Pellizzone, Il fondamento costituzionale del principio di retroattività delle norme penali in bonam partem: due decisioni dall’impostazione divergente, in Forum di Quaderni Costituzionali, 2006, secondo cui «le sentenze richiamate nel testo hanno un’impostazione motivazionale divergente in relazione al richiamo dell’art. 3 Cost.» ed, in particolare, l’A. evidenzia che «nella sent. n. 393 la Corte ha semplicemente applicato uno schema di giudizio consolidato, consistente nel vaglio di intrinseca ragionevolezza sulle deroghe al principio di retroattività; nella sent. n. 394, invece, ha effettuato per la prima volta un bilanciamento tra principio di retroattività in mitius e principio della cessazione di eicacia delle norme incostituzionali e non ha potuto, perciò, sottrarsi dall’afrontare il problema del rilievo costituzionale del principio di retroattività». Si ritiene, di contro, che tale divergenza non sussista, in quanto il richiamo del principio di eguaglianza, seppur espresso nella pronuncia n. 394, è efettuato, in entrambe le decisioni, in relazione al sindacato di ragionevolezza (secondo l’impostazione di Morrone, Corte costituzionale e principio generale di ragionevolezza, in La ragionevolezza nel diritto, Milano, 239-286, atti del convegno La ragionevolezza nel diritto, Roma, Università La Sapienza, 2, 3, 4 ottobre 2006): nella sentenza n. 393 risolto con il giudizio di ragionevolezza-razionalità; nella sentenza n. 394 deinito con il giudizio intorno al ragionevole bilanciamento degli interessi. Per un approfondito e lucido commento della sentenza n. 394 del 2006 con spunti problematici, Manes, Illegittime le “norme penali di favore” in materia di falsità nelle competizioni elettorali, in Forum di Quaderni Costituzionali, 2006. Un’osservazione: le decisioni de quibus hanno in comune la relazione dello stesso giudice costituzionale, Prof. Avv. Giovanni Maria Flick (professore emerito di diritto penale), anche se solo la seconda (n. 394) è stata dal medesimo redatta, mentre, per la prima (n. 393), il redattore è stato il Dr. Alfonso Quaranta (presidente di sezione del Consiglio di Stato). Di regola, infatti, il giudice relatore coincide con quello redattore, poiché le ipotesi di sostituzione sono eccezionali e precisamente disciplinate dall’art. 17, co. 4, Norme Integrative, secondo cui, in caso di “indisponibilità” del redattore o in presenza di “altro motivo”, la redazione può essere aidata ad altro giudice o a più giudici. Nell’ostentata sostituzione (distinta da quella latente, ovvero quando la nomina di un giudice redattore diverso dal relatore è solo desumibile dal confronto fra la parte iniziale della decisione, che precede il ritenuto in fatto, e quella inale, relativa alla sottoscrizione da parte del Presidente e di chi ha proceduto alla stesura della motivazione) del giudice redattore vi è annidata un dissent di fatto del Prof. Flick? In dottrina su tale questione, inaugurata proprio nella sentenza n. 393 del 2006, Ruggeri, La Consulta e il dissent ostentato (nota minima a Corte cost. n. 393/2006), in Id., “Itinerari” di una ricerca sul sistema delle fonti, X, Studi dell’anno 2006, Torino, 2007, 553 ss. 65 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea di nuove norme o dalla manipolazione di norme esistenti da parte della Corte, la quale si limita a rimuovere la disposizione giuridica lesiva dei parametri costituzionali, ma rappresenta […] una conseguenza dell’automatica riespansione della norma generale o comune, dettata dallo stesso legislatore, al caso già oggetto di una incostituzionale disciplina derogatoria»113. Con due importanti eccezioni. La pronuncia in commento, infatti, richiama espressamente la decisione in materia di falso in bilancio (n. 161 del 2004), sottolineando «come occorra distinguere fra le previsioni normative che “delimitano” l’area di intervento di una norma incriminatrice, concorrendo alla deinizione della fattispecie di reato; e quelle che invece “sottraggono” una certa classe di soggetti o di condotte all’ambito di applicazione di altra norma, maggiormente comprensiva». Solo a queste ultime si attaglia, in efetti – ove l’anzidetta sottrazione si risolva nella conigurazione di un trattamento privilegiato – la qualiicazione di norme penali di favore; non invece alle prime, le quali si traducono in dati normativi espressivi di «una valutazione legislativa in termini di “meritevolezza” ovvero di “bisogno” di pena, idonea a caratterizzare una precisa scelta politico-criminale»: scelta cui la Corte non potrebbe sovrapporre − «senza esorbitare dai propri compiti ed invadere il campo riservato dall’art. 25, secondo comma, Cost. al legislatore» – «una diversa strategia di criminalizzazione volta ad ampliare», tramite ablazione degli elementi stessi, «l’area di operatività della sanzione»114. E poi, la nozione di norma penale di favore è la risultante di un giudizio di relazione fra due o «più norme compresenti nell’ordinamento in un dato momento: rimanendo escluso che detta qualiicazione possa esser fatta discendere dal rafronto tra una norma vigente ed una norma anteriore, sostituita dalla prima con efetti di restringimento dell’area di rilevanza penale o di mitigazione della risposta punitiva. In tal caso, difatti, la richiesta di sindacato in malam partem mirerebbe non già a far riespandere la portata di una norma tuttora presente nell’ordinamento, quanto piuttosto a ripristinare la norma abrogata, espressiva di scelte di criminalizzazione non più attuali: operazione, questa, senz’altro preclusa alla Corte, in quanto chiaramente invasiva del monopolio del legislatore su dette scelte». Le due direttrici per individuare, dunque, la norma più favorevole oggetto del sindacato di costituzionalità, che, in via eccezionale, ammettono l’intervento della Consulta in malam partem, sono (1) le previsioni normative che sottraggono una certa classe di soggetti o di condotte all’ambito di applicazione di altra norma, maggiormente comprensiva e che, comunque, (2) modiicano o derogano 113. Sulla creatività della declaratoria di illegittimità di norme incriminatrici che faccia riespandere automaticamente la norma generale, Belfiore, Giudice delle legi e diritto penale, Milano, 2005, 151. 114. Manes, Il giudice nel labirinto, cit., 99 ss. 66 legalità ad una norma generale che resta vigente nell’ordinamento (rapporto di specialità sincronico). È stata osservata la diicoltà esegetica, non solo, di distinguere le ipotesi evidenziate, ma quella di escludere dal sindacato costituzionale le norme che delimitano le condotte, tipizzandone la rilevanza penale, poiché, ad un tempo, sottraggono una parte di condotte all’applicazione della norma posta: la scelta di politica criminale da sindacare è identica, come nell’ipotesi di sovrapposizione di norme, che fa leva sulla tecnica lex specialis derogat generali115. Ad ogni modo, sul punto, non vi è uniformità di lettura. Secondo una parte della dottrina116, la Corte ha espressamente precisato che singoli elementi di fattispecie che esprimono «scelte discrezionali “primarie” di politica criminale» non possono essere ricondotti alla nozione di norme penali di favore, perché una norma non può «essere smantellata pezzo per pezzo in sede di sindacato di costituzionalità, trasformandola – con vaniicazione del principio espresso dal citato precetto costituzionale [art. 25, co. 2, Cost.] – in quid alii rispetto alla igura voluta dal legislatore»117. Ancora è stato osservato che la sottrazione di sotto-fattispecie dal cono applicativo di una igura incriminatrice, comunque, comporta sempre la delimitazione della sua struttura descrittivo-lessicale118. Altri, invece, evidenziano che la sottrazione di sotto-fattispecie dal cono applicativo di una igura incriminatrice può avvenire attraverso la contrazione indiretta dell’area della rilevanza penale, con disposizioni esterne alla igura criminale, con l’efetto che ove tali disposizioni esterne dovessero modiicarsi nel tempo continuerebbero a porsi in un rapporto di coesistenza-sincronia con la (immutata) disposizione incriminatrice e, pertanto, sarebbero sempre giustiziabili119. L’ambito della deinizione di norme penali di favore giustiziabili è stata anche delineata da un attento intervento della Corte di cassazione120, in cui, richiamando la pronuncia n. 161 del 2004 della Corte delle Leggi, viene recuperata una distinzione tradizionale nella giurisprudenza costituzionale121 che stigmatizza la norma selettiva dei fatti meritevoli di pena, assolutamente insindacabile in forza dell’art. 25, co. 2, Cost., in quanto attiene ad una scelta discrezionale del legisla115. Manes, Illegittime le “norme penali di favore” in materia di falsità nelle competizioni elettorali, cit., 3,4. 116. Manes, il giudice nel labirinto, cit., 105. 117. Corte cost. n. 161 del 2004, su cui, ampiamente, infra § III.3. 118. Di Giovine, Il sindacato di ragionevolezza della Corte costituzionale in un caso facile. A proposito della sentenza n. 394 del 2006, sui falsi elettorali, in Riv. it. dir. proc. pen., 2007, 100 ss. 119. V. Valentini, Diritto penale intertemporale, cit., 231. 120. Cass. Sez. V, 11 ottobre 2005 n. 38967. 121. Corte cost. nn. 49 del 2002, 183 del 2000, 508 del 2000, 411 del 1995, 25 del 1994, 167 del 1993 e 148 del 1983. 67 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea tore di politica criminale, come avviene nell’ipotesi di introduzione di determinate soglie di punibilità, di condizioni di procedibilità, di abrogazione totale e parziale di precedenti norme incriminatrici. Poi la necessaria compresenza della norma più favorevole, rispetto a quella derogata generale, su cui si tornerà più avanti, appare un requisito ulteriore di ammissibilità dell’intervento della Corte costituzionale in malam partem su una norma di favore, forse eccessivamente rigido ed ingiustiicato, poiché, in prima battuta, diversamente, signiicherebbe dover dare applicazione ad una norma comunque illegittima122, avallando una scelta di politica criminale del legislatore (potenzialmente) non conforme alla Costituzione. Applicazione ontologica dell’orientamento giurisprudenziale appena delineato, è oferta dalla Corte costituzionale, con la declaratoria di illegittimità dell’art. 183, co. 1, lett. n), d.lgs. 152/2006 nel testo antecedente alle modiche introdotte dall’art. 2, co. 20, del decreto legislativo 16 gennaio 2008, n. 4123. La Consulta ha afrontato espressamente la questione degli efetti della pronuncia ablativa in malam partem su una disposizione più favorevole. Innanzitutto, il sindacato in malam partem deve essere ammesso per ragioni di coerenza sistematica e per evitare un efetto paradossale: «se si stabilisse che il possibile efetto in malam partem della sentenza di questa Corte inibisce la veriica di conformità delle norme legislative interne rispetto alle norme comunitarie – che sono cogenti e sovraordinate alle leggi ordinarie nell’ordinamento italiano per il tramite degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost. – non si arriverebbe soltanto alla conclusione del carattere non autoapplicativo delle direttive comunitarie sui riiuti, ma si toglierebbe a queste ultime ogni eicacia vincolante per il legislatore italiano, come efetto del semplice susseguirsi di norme interne diverse, che diverrebbero insindacabili a seguito della previsione, da parte del medesimo legislatore italiano, di sanzioni penali». In secondo luogo, la nozione di riiuto di cui all’art. 183, co. 1, lett. n), d.lgs. 152/2006 si colloca perfettamente nella deinizione di norma penale di favore delineata dalle sentenze nn. 161 del 2004, 393 e 394 del 2006, in quanto (a) la nozione legale di riiuto (non integratrice extrapenale) era compresente alle relative incriminazioni di cui agli artt. 51, 51-bis, d.lgs. 22/2007, (b) sottraeva sottogruppi 122. Dello stesso tenore delle sentenze nn. 393 e 394 del 2006, cfr. Corte cost. nn. 72 e 215 del 2008, su cui ampiamente cfr. Poli, Il principio di retroattività della lege più favorevole nella giurisprudenza costituzionale ed europea, in www.associazionecostituzionalisti.it; Corte cost. 236 del 2011, in cui la Corte richiama la previsione di cui all’art. 2, co. 5, c.p., in tema di leggi eccezionali o temporanee, per afermare che, «a diferenza di quello di irretroattività della legge penale sfavorevole, il principio di retroattività della legge favorevole non può essere senza eccezioni». 123. Corte cost. n. 28 del 2010. In dottrina, Maugeri, La dichiarazione di incostituzionalità di una norma per la violazione degli obblighi comunitari ex artt. 11 e 117 Cost.: si aprono nuove prospettive, in Riv. it. dir. proc. pen., 2011, 1134 ss. 68 legalità di condotte, quali il trattamento e/o gestione delle ceneri di pirite, dall’area applicativa dell’incriminazione, ofrendo (c) la relativa impunità124. Dichiarata, dunque, l’illegittimità della norma sindacata per violazione degli artt. 11 e 117, co. 1, Cost., in relazione alle direttive comunitarie in materia, non auto-applicative, come interpretate dalla Corte di Giustizia, i Giudici delle Leggi rimettono al giudice a quo la valutazione degli efetti delle sentenze di accoglimento «secondo i principi generali che reggono la successione nel tempo delle leggi penali, conformemente al consolidato orientamento per cui le questioni inerenti alla cosiddetta retroattività delle decisioni di accoglimento della Corte costituzionale attengono all’interpretazione delle leggi e pertanto devono essere risolte dai giudici comuni»125. Riepilogando, alla stregua degli arresti della Corte costituzionale, il principio della lex mitior ha un fondamento costituzionale individuato nell’art. 3 Cost. (sentenze nn. 393 e 394 del 2006), ma anche negli artt. 11 e 117, co. 1, Cost., in relazione all’art. 49, § 1, Carta, in virtù del richiamo operato dall’art. 6 TUE (sentenza n. 28 del 2010). Costituisce comunque un limite relativo (e non assoluto) alle scelte di criminalizzazione del legislatore nazionale, in quanto è necessario veriicare se la deroga allo stesso è ragionevolmente giustiicata in relazione al contro-interesse che la lex mitior intende tutelare. La norma più favorevole giustiziabile è solo quella che sottrae alcuni soggetti o alcune condotte dall’ambito di rilevanza penale di altra norma che, comunque, non viene abrogata o sostituita 124. Così anche V. Valentini, Diritto penale intertemporale, cit., 231, nota 51. Sulla lesione della riserva di legge approfondita dalla pronuncia n. 28 del 2010, ma già inferta da quella n. 394 del 2006, cfr. Abbadessa, F. Mazzacuva, Recenti sviluppi in tema di riserva di lege in materia penale e retroattività della lex mitior: a proposito della sentenza della Corte costituzionale sulle ceneri di pirite, in Ius17@ unibo.it, 2011, 3. Sul punto, ofre un’interessante e lucida posizione, Manes, Il giudice nel labirinto, cit., secondo cui «la norma interna correttamente attuativa della norma di indirizzo europeo (penale), assumerebbe un “potere di resistenza” alle modiiche successive, sia di fronte ad eventuali riforme depotenzianti la tutela richiesta a livello europeo, sia di fronte ad eventuali depenalizzazioni; ammettendo, dunque, che sulla materia vige una copertura comunitaria, che nell’ipotesi di inadempimento statale sopravvenuto consenta l’intervento della Corte costituzionale con il sindacato ex artt. 11 e 117 Cost. Tanto sarebbe ammissibile poiché, con il primo recepimento, è venuto meno il controlimite della riserva di legge». Per un’analisi approfondita, infra § IV.4. 125. Corte cost. nn. 148 del 1988, 22 del 1975 e 155 del 1973. Nella pronuncia in commento, la Corte giustiica l’omessa valutazione degli efetti della decisione di accoglimento in malam partem sul principio della lex mitior, poiché, «nel caso di specie, il giudice rimettente ha posto un problema di conformità di una norma legislativa italiana ad una direttiva comunitaria, evocando i parametri di cui agli artt. 11 e 117 Cost., senza denunciare, né nel dispositivo né nella motivazione dell’atto introduttivo del presente giudizio, la violazione dell’art. 3 Cost. e del principio di ragionevolezza intrinseca delle leggi». Critico sul rinvio alle disposizioni che regolano la successione di leggi penali nel tempo, V. Valentini, Diritto penale intertemporale, cit., 231, nota 51; nello stesso senso, in relazione alla declaratoria di illegittimità dell’aggravante della clandestinità, Gambardella, Le conseguenze della declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 61, n. 11-bis, c.p., in Cass. pen., 2011, 1350 ss. 69 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea dalla legge successiva (lex intermedia). Detto limite del sindacato costituzionale è giustiicato dal rispetto del principio di legalità ed, in particolare, della dimensione della riserva di legge (nulla poena sine lege parlamentaria), impedendo «alla Corte sia di creare nuove fattispecie criminose o di estendere quelle esistenti a casi non previsti; sia di incidere in peius sulla risposta punitiva o su aspetti comunque inerenti alla punibilità» (n. 394 del 2006). Ad ogni modo, nell’ipotesi di annullamento di una norma penale più favorevole, così appena deinita, se contrastante con una norma comunitaria, gli efetti della declaratoria sul processo e sulla posizione del reo andranno valutati dal giudice comune, alla stregua della disciplina sulla successione di leggi penali nel tempo (n. 28 del 2010), ma anche in relazione alla previsione di cui all’art. 5 c.p., sul piano degli efetti della preventiva conoscenza del divieto alla stregua della rimproverabilità penale (colpevolezza)126. III.2. Brevi rilessioni sulle limitazioni al sindacato costituzionale (di ragionevolezza) della norma abrogatrice o di depenalizzazione non contraria ad una norma comunitaria. Le autolimitazioni al sindacato costituzionale della lex mitior non appaiono convincenti, con particolare riguardo alla necessaria compresenza delle norme interessate da un ipotetico intervento di abolizione del reato. Su tale aspetto, invero, si deve registrare un contrasto (o forse un’evoluzione) nella stessa giurisprudenza costituzionale. Nella sentenza n. 394 del 2006, infatti, la Corte evidenzia che rimane escluso che la qualiicazione di norma più favorevole «possa esser fatta discendere dal rafronto tra una norma vigente ed una norma anteriore, sostituita dalla prima con efetti di restringimento dell’area di rilevanza penale o di mitigazione della risposta punitiva, poiché la richiesta di sindacato in malam partem mirerebbe non già a far riespandere la portata di una norma tuttora presente nell’ordinamento, quanto piuttosto a ripristinare la norma abrogata, espressiva di scelte di criminalizzazione non più attuali»127. Nell’occasione, la Corte, a conforto della decisione, richiama alcuni precedenti, che, ad onor del vero, non si attagliano al principio espresso nella pronuncia in esame (insindacabilità delle norme abrogatrici): nella sentenza n. 330 del 1996, la Consulta osserva che le questioni, relative alla previsione di un illecito penale, anziché amministrativo, impongono «una pronuncia che esula dai poteri spettanti a questa Corte, giacché il potere di creare fattispecie penali o di aggravare le pene è esclusivamente riservato al legislatore, in forza del principio di stretta legalità dei reati e delle pene, sancito dall’art. 25, secondo comma, della Costituzione»128; nella sentenza n. 108 126. Sul tema, di recente ed approfonditamente, Scoletta, Metamorfosi della legalità. Favor libertatis e sindacabilità in malam partem delle norme penali, Pavia, 2012, I-312. 127. Nello stesso senso, cfr. Corte cost. nn. 330 del 1996 e 108 del 1981. 128. I dubbi di legittimità costituzionale investivano gli artt. 3 e 6 del decreto-legge n. 79 del 1995, che, sostituendo il testo del terzo comma dell’art. 21 della legge n. 319 del 1976, ed aggiun- 70 legalità del 1981, la Corte ribadisce che la stessa «non può pronunziare alcuna decisione, dalla quale derivi la creazione – esclusivamente riservata al legislatore – di una nuova fattispecie penale»129. E del tutto evidente che, in tali precedenti, i Giudici delle Leggi hanno limitato il sindacato costituzionale all’ipotesi di creazione di norme incriminatrici. Concettualmente distinta da quella di annullamento della norma abrogatrice, che fa riespandere l’eicacia della norma abrogata. A tale impostazione, come detto, si contrappone altro importante orientamento della Corte costituzionale130, secondo cui «l’abrogazione non tanto estingue le norme, quanto piuttosto ne delimita la sfera materiale di eicacia, e quindi l’applicabilità, ai fatti veriicatisi sino ad un certo momento del tempo: che coincide, per solito e salvo sia diversamente disposto dalla nuova legge, con l’entrata in vigore di quest’ultima. La declaratoria di illegittimità costituzionale, invece, determinando la cessazione di eicacia delle norme che ne sono oggetto, impedisce, invece, dopo la pubblicazione della sentenza, che le norme stesse siano comunque applicabili anche ad oggetti ai quali sarebbero state applicabili alla stregua dei comuni principi sulla successione delle leggi nel tempo». In tali sensi, efettivamente, la norma abrogata e quella abrogatrice comunque sono compresenti nell’ordinamento e, dunque, anche tale ipotesi potrebbe essere posta al vaglio della Consulta, non potendo essere obiettata l’autolimitazione della necessaria compresenza delle norme interessate. La norma abrogata, invero, non è eliminata dall’ordinamento, ma ha perso eicacia precettiva131. Da ciò, tutte le scelte di politica criminale del legislatore sono giustiziabili, in relazione al principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost. L’autolimitazione sulle norme abrogatrici, poi, non è convincete in relazione al principio di legalità, sia nella dimensione della riserva di legge, che in quella della irretroattività della legge penale. La scelta politica di depenalizzazione o di abrogazione di un determinato comportamento può essere illegittima, al pari gendo ad esso un ultimo comma, conigurano come illecito amministrativo, sanzionato con pena pecuniaria, l’apertura, l’efettuazione o il mantenimento di uno scarico non autorizzato o il superamento dei limiti di accettabilità da parte di scarichi provenienti da insediamenti civili o da pubbliche fognature, mentre rimane reato l’apertura, l’efettuazione o il mantenimento di uno scarico non autorizzato o il superamento dei limiti tabellari, se proveniente da insediamenti produttivi. La scelta del legislatore era contestata dalle ordinanze di rimessione, le quali assumevano, sostanzialmente, come necessaria la statuizione di sanzioni penali, e non solo amministrative, per le condotte considerate e ritenevano irragionevole il diferente trattamento, per esse, rispetto a quello previsto per gli stessi comportamenti riferiti agli scarichi provenienti da insediamenti produttivi. 129. In materia di aborto. 130. Corte cost. nn. 49 del 1970, 321 del 1983, 387 del 1987, 826 del 1988, 124 del 1990, 167 del 1993, 194 del 1993, 25 del 1994 e 89 del 1996. 131. In materia di depenalizzazione, ravvisando la possibilità del vaglio costituzionale per manifesta irragionevolezza, pertanto ammissibile, cfr. Corte cost. nn. 313 del 1995, 58 del 1999, 144 del 2001, 110 del 2003, 364 del 2004 e 273 del 2010. 71 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea dell’opposta decisione di criminalizzazione di una condotta ino a quel momento certamente lecita. La declaratoria di incostituzionalità, nell’un caso, come nell’altro, non potrebbe stridere con il principio di legalità-riserva di legge, poiché la decisione della Corte costituzionale si colloca all’esito del vaglio della potestà legislativa, già esercitata, che deve essere conforme formalmente e sostanzialmente ai principi costituzionali. Il giudizio di ragionevolezza non si sostituisce alla scelta di merito operata dal legislatore, ma pesa quella scelta nell’alveo costituzionale, individuando la coerenza intrasistemica che ha portato il legislatore a depenalizzare o abrogare una determinata fattispecie criminale. Per fare un paradosso, sarebbe diicile non ritenere incostituzionale l’abrogazione (o depenalizzazione) del delitto di omicidio, in relazione al rango fondamentale del diritto alla vita. La declaratoria di incostituzionalità della legge abrogatrice o di depenalizzazione, poi, non violerebbe la dimensione della irretroattività della legge penale, sancita dall’art. 25, co. 2, Cost., poiché, come suggerito dalla stessa Corte (da ultimo, n. 28 del 2010), gli efetti della pronuncia devono essere valutati dal giudice comune alla stregua della disciplina temporale della legge penale, ma anche in relazione alla previsione di cui all’art. 5 c.p. (a cui non fa cenno la Consulta) e, dunque, la pronuncia in malam partem non potrebbe che avere efetti diversiicati rispetto al tempus commissi delicti. E in particolare: 1. fatto veriicatosi durante la vigenza della norma abrogata: la declaratoria di incostituzionalità della norma abrogatrice determina l’ineicacia della stessa dal giorno della pubblicazione della pronuncia ai sensi degli artt. 136 Cost. e 30, co. 3, l. 87/1953, provocando la riespansione dell’eicacia della norma abrogata e, dunque, il giudice sarà tenuto ad applicare la norma abrogata, non ostando il principio di cui all’art. 25, co. 2, Cost., in quanto, all’epoca della commissione del fatto di reato, il reo conosceva il disvalore della condotta perpetrata; 2. fatto veriicatosi dopo l’entrata in vigore della norma abrogatrice: la declaratoria di incostituzionalità della norma abrogatrice determina l’ineicacia della stessa dal giorno della pubblicazione della pronuncia ai sensi degli artt. 136 Cost. e 30, co. 3, l. 87/1953, provocando la riespansione dell’eicacia della norma abrogata, ma il giudice dovrà mandare assolto l’imputato ostando il principio di colpevolezza (art. 5 c.p., letto conformemente all’art. 27, co. 1 e 3, Cost.), in quanto, all’epoca della commissione del fatto, lo stesso non costituiva reato in virtù della novella di depenalizzazione o abrogazione e, dunque, il fatto non è rimproverabile all’agente132; 3. fatto veriicatosi dopo la pronuncia di incostituzionalità della norma abrogatrice: alcun dubbio sull’applicazione della norma abrogata. 132. Corte cost. n. 394 del 2006. 72 legalità Non possono sorgere dubbi di giustiziabilità delle norme di modiica più favorevole della norma incriminatrice133. La declaratoria di incostituzionalità della norma modiicatrice più favorevole non opera retroattivamente e, quindi, tale norma si applica comunque ai fatti commessi prima della pronuncia134. III.3. Note di analisi comparativa dei sistemi europei di civil law e common law in tema di norme penali più favorevoli. Fino all’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, il principio di legalità della norma penale, con i suoi corollari, non era posto da alcuna disposizione europea. La sua afermazione è frutto dell’elaborazione esegetica della Corte di Giustizia135 ed, in particolare, la dimensione della retroattività della lex mitior è stata asseverata, come già visto, alla stregua «delle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri» e, come tale, andava già considerata «come parte integrante dei principi generali del diritto comunitario che il giudice nazionale deve osservare quando applica il diritto nazionale adottato per attuare l’ordinamento comunitario». L’afermazione della Corte di Lussemburgo, nella nota sentenza Berlusconi136, apre l’indagine comparativa a livello europeo, che, dunque, nella prospettiva nazionale di un diritto penale conforme alle previsioni europee comuni, assume un ruolo fondamentale per comprendere la direzione ed i limiti della lettura nostrana della retroattività benigna. In un sistema penale comune, come il Trattato di Lisbona ha indicato, non sarebbe ammissibile un trattamento diseguale del reo a seconda della sua nazionalità, qualora, ad esempio, una direttiva imponga una modiica di una norma penale statuale in senso più favorevole. Prima d’ogni altro, andrà efettuata la distinzione tra sistemi di civil law e sistemi di common law. All’interno dei sistemi di diritto scritto andranno poi diferenziati quelli ove la retroattività benigna è costituzionalizzata, da quelli che si limitano a 133. C. Pecorella, L’eicacia nel tempo della lege penale favorevole, Milano, 2008. 134. Per tutti, Pagliaro, Principi di diritto penale. Parte generale, VIII ed., Milano, 2003, 132; Marinucci, Dolcini, Manuale di diritto penale. Parte generale, IV ed., Milano, 2012, 85. 135. Sul principio europeo di legalità penale e sugli sviluppi giurisprudenziali e normativi in merito, cfr. Bernardi, Riserva di lege e fonti europee in materia penale, cit., 23 ss.; Id., “Nullum crimen nulla poena sine lege” between European Law and National Law, in Cherif Bassiouni, Militello, Satzger (a cura di), European cooperation in penal matters: issues and perspectives, Padova, 2008, 87 ss.; Id., All’indomani di Lisbona, cit., 37 ss.; De Amicis, Il principio di legalità penale nella giurisprudenza delle Corti Europee, in QE, 2009, 14. 136. Corte Giust. Com. Eur., 3 maggio 2005, C-387/02, C-391/02, C-403/02, §§ 68-69. In dottrina, fra gli altri, Insolera, Manes, La sentenza della Corte di giustizia sul “falso in bilancio”: un epilogo deludente?, in Cass. pen., 9, 2005, 2768; Amadeo, La Corte di giustizia e il fantomatico efetto delle direttive societarie in ambito penale, in Bin, Brunelli, Pugiotto, Veronesi (a cura di), Ai conini del “favor rei”, Torino, 2005, 53 ss.; Bernardi, Brevi osservazioni in margine alla sentenza della Corte di giustizia sul falso in bilancio, in Bin, Brunelli, Pugiotto, Veronesi (a cura di), Ai conini del “favor rei”, Torino, 2005. 73 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea prevederla nell’alveo delle regole ordinarie dell’ordinamento penale nazionale137. I sistemi di civil law hanno certamente in comune la previsione della lex mitior, anche se si distinguono in ordine alle diverse deroghe apportate al principio. In Slovenia138, Estonia139 e Portogallo140, la retroattività in mitius è proclamata nella carta costituzionale. Gli ordinamenti penali francese141, lussemburghese142 e belga143 ammettono la retroattività benigna con il solo limite del giudicato, anche nell’ipotesi di abolitio criminis144. Con particolare riferimento al sistema francese, va osservato che il principio in parola è frutto dell’elaborazione esegetica del Conseil constitutionnel consacrata nella decisione n. 80-127 del 20 gennaio 1981, sulla scorta di quanto previsto dall’art. 8 della Déclaration des droits de l’homme et du citoyen del 1789, e segnatamente dal principio di necessità delle pene. Il Tribunale costituzionale francese, da ultimo, nella decisione n. 2010-74 del 3 dicembre 2010, ha afermato che «le principe de nécessité des peines implique que la loi pénale plus douce soit rendue immédiatement applicable aux infractions commises avant son entrée en vigueur et n’ayant pas donné lieu à des condamnations passées en force de chose jugée»145. Va considerato che tale limitazione (sentenza passata in giudicato) trova una lettura fortemente restrittiva da parte della Corte di 137. Dodaro, Principio di retroattività e “termini più brevi” di prescrizione dei reati, in GC, 2006, 4116; Fornasari, Menghini, Percorsi europei di diritto penale, cit., 21. 138. Art. 28, co. 2 Cost. «Dejanja, ki so kazniva, se ugotavljajo in kazni zanje izrekajo po zakonu, ki je veljal ob storitvi dejanja, razen če je novi zakon za storilca milejši» (I reati vengono accertati e le pene per essi pronunciate secondo la legge vigente allorché l’atto è stato commesso, salvo che una nuova legge non sia più favorevole nei confronti di chi ha commesso l’atto). 139. Art. 23, § 2, Cost. «No one may be given a more severe sentence than the one which was applicable at the time the ofence was committed. If, subsequent to the ofence being committed, a lighter sentence is determined by law, this lighter sentence shall be applied». 140. Art. 29, co. 4 Cost. «Ninguém pode sofrer pena ou medida de segurança mais graves do que as previstas no momento da correspondente conduta ou da veriicação dos respectivos pressupostos, aplicandose retroactivamente as leis penais de conteúdo mais favorável ao arguido». 141. Art. 112-1 c.p. «Toutefois, les dispositions nouvelles s’appliquent aux infractions commises avant leur entrée en vigueur et n’ayant pas donné lieu à une condamnation passée en force de chose jugée lorsqu’elles sont moins sévères que les dispositions anciennes». 142. Art. 2 c.p. del Lussemburgo «Si la peine établie au temps du jugement difère de celle qui était portée au temps de l’infraction, la peine la moins forte sera appliquée». 143. Art. 2, co. 2 c.p. belga «Si la peine établie au temps du jugement difère de celle qui était portée au temps de l’infraction, la peine la moins forte sera appliquée». 144. Nello stesso senso anche l’ordinamento penale ungherese, cfr. Section 2, Ch. 1, «A crime shall be adjudged in accordance with the law in force at the time of its perpetration. If, in accordance with the new Criminal Code in force at the time of the judgment of an act, the act is no longer an act of crime or it is to be adjudged more leniently, then the new law shall apply; otherwise, the new Criminal Code has no retroactive force». 145. Il principio di necessità delle pene implica che la legge penale più favorevole sia resa immediatamente applicabile ai reati commessi prima della sua entrata in vigore per i quali non sia intervenuta una sentenza di condanna passata in giudicato. 74 legalità Cassazione francese, nel senso che è possibile applicare la nuova legge a fatti anteriori che siano già stati giudicati in prima istanza, ma che non siano ancora oggetto di una sentenza di appello (addirittura) o di cassazione146, salvo che la nouvelle loi plus douce sia vigente, eicace ed applicabile147. L’abolitio criminis determina, come già detto, l’interruzione dell’espiazione della pena. Nel sistema nostrano, bulgaro148 e portoghese149, la retroattività in mitius è garantita senza limiti solo nel caso di abolizione del reato, ad eccezione dell’ipotesi di conversione della pena detentiva in pena pecuniaria (art. 2, co. 3, c.p. italiano)150. Va osservato che la retroattività dell’abolitio criminis non si estende all’accertamento con eicacia di giudicato del fatto storico, limitandosi a cancellare le conseguenze giuridico-penali. Il limite del giudicato, come discrimine tra le ipotesi correttive della legge vigente al momento del fatto (abolizione e mera modiica), è giustiicato dall’esigenza pratica di non riaprire i processi già conclusi, secondo una scelta di politica criminale fondata sul principio di certezza del diritto151. 146. Cass. Crim. 25 maggio 1994, n. 93-83.820, Boll. crim. 198. 147. Cass. Crim. 29 novembre 1992, n. 92-82.346, Boll. Crim. 393. 148. Art. 2, co. 2, c.p. bulgaro «If by the entry of the sentence into force diferent laws are issued, that law shall be applied which is most favourable for the perpetrator». 149. Art. 2, co. 2 «Il fatto punibile secondo la legge in vigore al momento della sua commissione cessa di esserlo se una legge nuova lo elimina dal novero dei reati; in questo caso, se v’è stata condanna, anche se passata in giudicato, ne cessano l’esecuzione e gli efetti penali» e co. 4 c.p. portoghese «Quando le disposizioni penali in vigore al momento della commissione del fatto punibile siano diferenti da quelle stabilite in leggi successive, è sempre applicabile la disciplina che si presenta in concreto più favorevole all’agente, salvo che quest’ultimo sia già stato condannato con sentenza passata in giudicato» nella traduzione di Torre, Il codice penale portoghese, a cura di Vinciguerra, Padova, 1997. 150. Un’articolata previsione in tal senso si rinviene nel Codice Penale della Repubblica di Romania, cfr. art. 7 c.p. rumeno «(1) When, from the time when the conviction decision remains inal to the complete execution of a penalty involving detention or of a ine a law has emerged providing the same penalty, but with a smaller special maximum, the sanction applied, if it exceeds the special maximum provided in the new law for the ofence committed, shall be reduced to this maximum. (2) If, from the time when a decision of life detention or severe detention remains inal to its execution, a law has emerged providing a diferent penalty of detention for the same act, the penalty of life detention or severe detention shall be replaced with the maximum of the penalty of detention provided in the new law for that ofence. (3) Should the new law provide instead of the penalty of imprisonment only the penalty of the ine, the penalty applied shall be replaced with ine, without exceeding the special maximum provided in the new law. Taking into account the part of the imprisonment already executed, the execution of the ine may be removed wholly or in part. (4) Complementary punishments, security and educative measures not executed and not provided in the new law, shall no longer be executed, and those having a more favourable correspondent in the new law shall be executed according to the contents and restrictions provided in this new law. (5) When a stipulation from the new law refers to punishments applied inally, the penalty reduced or replaced according to paragraphs (1)-(4) shall be taken into account for penalties executed prior to the entry into force of the new law». 151. Corte eur. dir. uomo, 28 giugno 2007, Perez Arias c. Spagna, secondo cui «intendere il principio di eguaglianza nell’applicazione della legge nel senso che ciò che risulta dalle decisioni poste- 75 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea In Germania, il § 2, co. 3, StGB152 stabilisce l’obbligo per il giudice di applicare retroattivamente la lex mitior entrata in vigore dopo la commissione del fatto ed antecedentemente al passaggio in giudicato della sentenza. Anche nel sistema tedesco, il principio in commento non ha rango costituzionale e, dunque, può essere derogato dal legislatore ordinario153. È interessante evidenziare la distinzione tra unechte Rückwirkung (retroattività ittizia o, meglio, retrospettività) ed echte Rückwirkung (retroattività reale), che, secondo il Bundesverfassungsgericht e la prevalente dottrina, sono due categorie non assimilabili154: (1) la norma penale ha efetto retroattivo quando si applica a fatti, transazioni o casi conclusi prima della promulgazione della nuova legge, con la conseguenza che la novella altera le conseguenze giuridiche di rapporti che già potevano dirsi deiniti; (2) di contro, la norma penale ha efetti retrospettivi quando la nuova legge si applica a fatti o azioni che sono state iniziate nel passato, ma hanno dato luogo a rapporti che non si sono ancora conclusi, al momento dell’entrata in vigore della novella. Solo nella prima ipotesi, il Tribunale costituzionale federale ritiene che la relativa norma sia illegittima, violando il legittimo aidamento (Vertrauensschutzprinzip) come diritto individuale del cittadino garantito dallo Stato di diritto, mentre non lo è mai la novella retrospettiva. Il § 2, co. 3, StGB, del resto, riguarda soltanto i casi in cui il fatto non sia ancora stato giudicato in maniera deinitiva e, dunque, avendo ad oggetto solo le norme retrospettive. Sembrerebbe un’importante deroga all’intangibilità del giudicato quanto si rinviene nel § 354-a StPO155, ove è previsto che la modiica legislativa favorevole (che attenua la pena o che depenalizza la condotta) deve essere presa in considerazione anche laddove il giudizio sia già passato parzialmente in giudicato, ad esempio, perché si è pronunciato soltanto il verdetto di colpevolezza156, ma non è ancora stata determinata la sanzione, oppure non si è ancora deciso sulla sospensione condizionale della pena. La modiica legislativa, dunque, può rilevare solo nei limiti della decisione anriori implica la revisione di tutte le decisioni deinitive anteriori che risultino contraddittorie con quelle più recenti sarebbe contrario al principio di sicurezza giuridica». Per il nostro ordinamento, al ine di giustiicare l’intangibilità del giudicato come valore preminente, cfr. Lavori preparatori del codice penale e del codice di procedura penale, V, Progetto deinitivo, Relazione sul Libro I, 22. 152. § 2, co. 3, StGB, Wird das Gesetz, das bei Beendigung der Tat gilt, vor der Entscheidung geändert, so ist das mildeste Gesetz anzuwendent, reperibile anche nella traduzione italiana di Bonadio, Il codice penale tedesco, a cura di Vinciguerra, Padova, 2003. 153. BVerfG, ordinanza del 18 settembre 2008 - 2 BvR 1817/08. 154. BVerfGE 11, 139 del 31 maggio 1960; BVerfG, 3 ottobre 1973 - 1 BvL 30/71; BVerfG, 23 giugno 1993 - 1 BvR 133/89. 155. § 354-a StPO, Das Revisionsgericht hat auch dann nach § 354 zu verfahren, wenn es das Urteil auf hebt, weil zur Zeit der Entscheidung des Revisionsgerichts ein anderes Gesetz gilt als zur Zeit des Erlasses der angefochtenen Entscheidung. 156. BGH - 3 StR 35/64 - del 2 dicembre 1964, BGH - 4StR 386/70 - del 4 marzo 1971 (NJW 1971, 1189). 76 legalità cora da rendere e, pertanto, non è corretto deinire tale previsione come deroga all’intangibilità del giudicato, quando lo stesso ancora non si è formato. Vi sono ordinamenti, poi, in cui l’eicacia della lex mitior si estende anche in presenza di sentenza passata in giudicato157. In Spagna, infatti, la previsione codicistica è chiarissima nell’afermare la retroattività benigna anche nell’ipotesi di giudicato, dando preminente rilievo, non solo, alla volontà popolare, ma anche ai diritti individuali del reo, a discapito del principio della certezza del diritto158. La centralità dell’individuo è evidenziata anche nell’ipotesi di dubbio sulla determinazione della legge più favorevole: il reo, infatti, è chiamato a contribuire alla decisione indicando al giudice la legge sogettivamente più favorevole159. Secondo il Tribunal Constitucional, il principio della retroattività della legge penale più favorevole si giustiica alla luce dell’interpretazione a contrariis dell’art. 9, co. 3, Constituciòn, nonché dell’art. 17, co. 1, Constituciòn, che sancisce il diritto fondamentale alla libertà personale160, anche se non ha una diretta garanzia costituzionale e, dunque, può essere derogato dal legislatore ordinario. Il Tribunal Constitucional161 ha negato al principio della retroattività in mitius lo status di diritto fondamentale, onde escludere il recurso de amparo162. 157. Art. 2, co. 2 c.p. spagnolo «No obstante, tendrán efecto retroactivo aquellas leyes penales que favorezcan al reo, aunque al entrar en vigor hubiera recaído sentencia irme y el sujeto estuviese cumpliendo condena. En caso de duda sobre la determinación de la Ley más favorable, será oído el reo», traduzione di Naronte, Il codice penale spagnolo, a cura di Vinciguerra, Padova, 1997 «Ciononostante retroagiscono le leggi penali che favoriscono il reo, anche se al momento della loro entrata in vigore è già stata pronunciata sentenza irrevocabile ed il soggetto sta scontando la condanna. In caso di dubbio sulla determinazione della legge più favorevole, viene ascoltato il reo». Per la Finlandia, Section 2.2, Ch.3, Criminal Code, Temporal application, «However, if the law in force at the time of conviction is diferent from the law in force at the time of the commission of the ofence, the new law applies if its application leads to a more lenient result». Dello stesso tenore, anche l’art. 1, co. 2, c.p. olandese, cfr. Kelk, Vinciguerra, Il codice penale olandese, Padova, 2002, 21 ss. Per la Norvegia, Section 3, I, General Provisions. 158. La Sala penale del Tribunale supremo, con sentenza del 3 febbraio 2001 (ric. n. 16/1999), ha così chiarito quale sia il limite alla retroattività delle norme favorevoli: «Non possono privarsi di efetto le pene già scontate e travolgere ciò che è stato eseguito». 159. Fornasari, Menghini, Percorsi europei di diritto penale, cit., 26. 160. Per tutte, cfr. Trib. Const. 35/1981, dell’11 novembre, FJ 3; 150/1989, del 25 settembre, FJ 5; 196/1991, del 17 ottobre, FJ 3; 95/1992, dell’11 giugno, FJ 3; 21/1993, del 18 gennaio, FJ 5; 43/1997, del 10 marzo, FJ 5; 174/2000, del 26 giugno, FJ 2; 20/2003, del 10 febbraio, FJ 4; 82/2006, del 13 marzo, FJ 9 e 234/2007, del 5 novembre, FJ 3. 161. Ex multis, Trib. Const. 15/1981, del 7 maggio, FJ 7; 68/1982, del 22 novembre, FJ 3; 51/1985, del 10 aprile, FJ 7; 131/1986, del 29 ottobre, FJ 2; 22/1990, del 15 febbraio, FJ 7; 177/1994, del 10 giugno, FJ 1; 99/2000, del 10 aprile, FFJJ 5 e 6; 75/2002, dell’8 aprile, FJ 4; 85/2006, del 27 marzo, FJ 4; 116/2007, d el 21 maggio, FJ 10; 21/2008, del 31 gennaio, FJ 5. 162. Il recurso de amparo è la possibilità riconosciuta a qualsiasi persona isica o giuridica (non soltanto cittadini) portatrice di un interesse legittimo di presentare ricorso al Tribunal Constitucional tramite l’amparo costituzionale al ine di lamentare una violazione dei diritti di cui agli articoli 14- 77 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea Ad ogni modo, tale possibilità appare ormai paciicamente ammessa in via indiretta, sia attraverso l’applicazione mediata delle norme internazionali che prevedono l’applicazione retroattiva della lex mitior, ai sensi dell’art. 10, co. 2, Constituciòn163, sia tramite il principio di proporzionalità: se non si applicasse la legge posteriore più favorevole, si potrebbe invocare la violazione del relativo diritto fondamentale (ad es., l’art. 17, co. 1, Constituciòn), per l’imposizione di una pena più grave dallo stesso legislatore ritenuta eccessiva164. In Danimarca, inine, stabilita la regola generale per cui la legge benigna si applica retroattivamente, è prevista la possibilità per il giudice di continuare ad applicare la legge abrogata, qualora il mutamento in favorem o la stessa abolizione siano dovuti a circostanze estranee al giudizio di responsabilità, con ciò dando rilievo alla ratio del mutamento o abolizione, come una sorta di possibilità di bilanciare l’interesse portato dalla norma incriminatrice abolita o modiicata, con quello sotteso alla lex mitior o abrogatrice e, dunque, far prevalere l’uno rispetto all’altro165. Negli ordinamenti continentali di civil law, si rinviene sostanziale concordanza nell’escludere la retroattività in presenza di fatti commessi sotto la vigenza di leggi temporanee o eccezionali166. I sistemi europei di common law non prevedono, in relazione allo statute law, una regola generale che sancisca l’applicabilità della legge penale più favorevole a 30 della Costituzione, che trovi la propria origine in un’azione ovvero un’omissione dei pubblici poteri. Per un’analisi comparata dei sistemi di ricorso diretto costituzionale, Gentili, Una prospettiva comparata sui sistemi europei di ricorso diretto al Giudice costituzionale: sugestioni e spunti per la Corte costituzionale italiana, Revista de Estudios Jurídicos, 11, 2011 (Segunda Época), Universidad de Jaén (España). 163. Huerta Tolcido, Artículo 25.1. El derecho a la legalidad penal, in Casas Baamonde, Rodriguez Pinero Bravo, Ferrer (a cura di), Comentarios a la Constitución Española: XXX Aniversario, Madrid, 2009, 734. 164. Llabrés Fuster, Artículo 2, in Gomez Tomillo (a cura di), Comentarios al Código Penal, Valladolid, 2010, 41, 42. 165. Kutchinsky, The Efect of Easy Availability of Pornography on the Incidence of Sex Crimes: The Danish Experience, in Journal of Social Issues, 1973, 29, 3, 161-181. 166. Vinciguerra, Diritto penale italiano, vol. I, Concetto, fonti, validità, interpretazione, Padova, 2009, 323, secondo cui «eccezionali sono le leggi emanate per fronteggiare circostanze politiche, economiche o sociali ritenute così gravi da giustiicare una normativa derogatoria del regime in atto. La legge temporanea è tale perché la sua vigenza è ab initio limitata nel tempo, vuoi per la determinazione di un termine inale, vuoi per la subordinazione della vigenza alla sussistenza di determinate situazioni eccezionali che hanno motivato la sua approvazione. Solitamente la legge temporanea è più severa della legge che sostituisce e della legge che successivamente la sostituirà. Ainché non perda la sua eicacia preventiva, il codice penale la dota di ultrattività e dovrà quindi essere applicata, anche se è stata abrogata ed anche se è entrata in vigore una legge più favorevole, ai fatti commessi quando era in vigore». In questo senso, cfr. Lavori preparatori del codice penale e del codice di procedura penale, V, Progetto deinitivo, Relazione sul Libro I, 23. 78 legalità fatti che siano stati commessi prima della sua entrata in vigore167. Di regola, il reo viene giudicato in base alla legge in vigore al momento del fatto. Il legislatore, tuttavia, ha il potere discrezionale di autorizzare di volta in volta la retroattività in mitior delle nuove norme. In tali ordinamenti, come noto, la giurisprudenza è fonte del diritto e, dunque, è soggetta al principio di legalità, nella dimensione dell’irretroattività, che proprio in tali sistemi ha avuto l’originaria consacrazione nella Magna Charta Libertatum. Il potere pretorio di ius dicere è strettamente connesso al principio della vincolatività del precedente (principio dello stare decisis) che opera inevitabilmente per mezzo della legal analogy, come noto, vietata nei sistemi di civil law. Peraltro, nel contesto inglese, questo processo di applicazione analogica, operato attraverso la statutory construction (o interpretation), è in concreto «un processo talmente circoscritto in termini di cambiamenti prodotti da essere raramente percettibile. A parte i grandi salti che indubbiamente avvengono, [l’analogia] va di pari passo con l’evoluzione quotidiana del diritto penale […] producendo così un aggiornamento di termini antichi […] in modo che gli stessi possano applicarsi più adeguatamente alle nuove condizioni»168. Pur non essendo previsto alcun divieto costituzionale di retroattività della norma penale, tale principio è comunque fortemente radicato nel sistema di common law e, nell’ordinamento britannico, ormai è garantito (per iscritto) dallo Human Rights Act 1998, con cui è stata incorporata la Convenzione europea dei diritti dell’uomo nell’ordinamento giuridico inglese. Ad ogni modo, lo ius dicere pretorio nei sistemi di common law non può essere inteso come l’irreale ipotesi di un simile potere da parte dei giudici di civil law: i giudici inglesi non pongono il diritto, ma lo svelano169. La distinzione è illuminante. Le pronunce giudiziali inglesi, come in tutti i sistemi di common law, non costituiscono diritto in sé, piuttosto prova (evidence) del diritto, che esiste in via indipendente e che viene rivelato gradualmente, attraverso l’attività interpretativa di ciascuna curia170. In tale ottica, i cambiamenti giurisprudenziali assumono la qualità di “rettiica” dell’interpretazione del diritto enunciata in precedenza, scartata a favore di quella adottata nelle pronunce successive, con la conseguenza (ittizia) che l’interpretazione successiva diventa l’unica possibile e valida, non solo pro futuro, ma anche in senso retrospettivo. Inoltre, data la natura di fonte del diritto della giurisprudenza, essa assume naturalmente eicacia anche erga 167. Pecorella, Lege intermedia: aspetti problematici e prospettive de lege ferenda, in Studi in onore di Giorgio Marinucci, I, Milano, 2006, 622. 168. Hall, General Principles of Criminal Law, II, Indianapolis, 1960. 169. Per un’attenta esposizione in relazione ai principi intertemporali, V. Valentini, Diritto penale intertemporale, cit. 159 ss. 170. Card, Cross, Jones, Criminal law, XVIII, Oxford, 2008. 79 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea omnes, secondo i criteri applicabili al principio dello stare decisis. Da ciò, è chiaro che i sistemi di common law non pongono alcuna problematica rispetto alla retroattività benigna della lex mitior, in quanto, quando un giudice di tale ordinamento pronuncia una sentenza che introduce una modiica nel diritto (overrulling), l’efetto è pro futuro, ma anche necessariamente retroattivo, poiché la decisione estrinseca il diritto quale è sempre stato. In conclusione, per gli ordinamenti di common law, la retroattività in mitius è garantita dal sistema stesso, anche con riguardo alle vicende già deinite, almeno rispetto alle conseguenze della condanna. Il mutamento del diritto viene in rilievo, in particolare, nell’ipotesi di impugnabilità oltre i termini di una sentenza di condanna ed in quella della revisione della stessa171. Non va trascurata anche l’ipotesi del risarcimento per ingiusta detenzione. In conclusione, dopo questa breve analisi dei principali ordinamenti europei, si può afermare, fatte salve particolari diferenze, che l’applicazione della lex mitior è una regola che appartiene alle esperienze comuni, con il limite dell’intangibilità del giudicato (ad eccezione del caso spagnolo, danese e britannico). III.4. La giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea sulla retroattività benigna ed il bilanciamento con il principio di prevalenza del diritto comunitario. La vicenda del falso in bilancio italiano. Prima del Trattato di Lisbona, si è già detto che, proprio dalle tradizioni nazionali europee, la Corte di Giustizia, dopo un lungo percorso travagliato e con un atteggiamento tendenzialmente agnostico172, aveva asseverato la dimensione della retroattività della lex mitior «come parte integrante dei principi generali del diritto comunitario che il giudice nazionale deve osservare quando applica il diritto nazionale adottato per attuare l’ordinamento comunitario»173. La Corte di Lussemburgo, comunque, dopo tale importante afermazione, non pervenne ad alcuna ontologica applicazione. 171. Passetto, Inghilterra, in Passaglia (a cura di), Favor rei ed efetti dei mutamenti di giurisprudenza in materia penale, in Forum di Quaderni Costituzionali, 2012. 172. Armone, Il principio di retroattività della lege penale più favorevole come diritto fondamentale nella giurisprudenza multilivello, in www.europeanrights.eu. 173. Nella giurisprudenza della Corte di Giustizia, da ultimo, Corte Giust. Un. Eur., 28 aprile 2011, C-61/11. Criticano il riferimento alle tradizioni costituzionali comuni, Davigo, I reati concernenti le false comunicazioni sociali. Tra prospettive comunitarie e legittimità costituzionale, in Draetta, Parisi, Rinoldi (a cura di), Lo spazio di Libertà, Sicurezza e Giustizia dell’Unione europea. Principi fondamentali e tutela dei diritti, Napoli, 2007, 188; Foffani, La trasparenza dell’informazione societaria come bene giuridico comunitario, in Bin, Brunelli, Pugiotto, Veronesi (a cura di), Ai conini del “favor rei”, Torino, 2005, 186; Riondato, Falso in bilancio e Corte di giustizia: non è un rigetto, in ibid., 338; Cabiddu, L’orologio, la bilancia e la spada, in ibid., 132. Critici circa la scarsa profondità argomentativa dei giudici lussemburghesi, cfr. Manacorda, “Oltre il falso in bilancio”: i controversi efetti in malam partem del diritto comunitario sul diritto penale interno, in DUE, 2006, 253 ss. 80 legalità È stata già richiamata, almeno per i risvolti interni, ma solo en passant, senza alcun approfondimento, la nota vicenda del falso in bilancio (o altrimenti conosciuta come il caso Berlusconi), su cui, a questo punto, occorre appuntare l’attenzione. La questione, come detto, aveva ad oggetto le nuove fattispecie di false comunicazioni sociali (artt. 2621-2622 c.c.) introdotte con il decreto legislativo n. 61 del 2002, impugnate dai giudici italiani174 in ordine alla compatibilità delle nuove norme con le direttive sul diritto societario che impongono agli Stati membri (fra l’altro) di prevedere sanzioni eicaci, proporzionate e dissuasive per gli illeciti di falso in bilancio175. In particolare, a seguito dell’entrata in vigore della riforma del diritto penale societario, intervenuta successivamente ai fatti di causa, gli addebiti delle fattispecie delittuose di cui all’art. 2621 c.c. non potevano più essere perseguiti, poiché ormai prescritti e, comunque, mancanti della condizione di procedibilità ormai necessaria (querela), in virtù della novella legislativa. La questione di giustiziabilità della norma penale modiicatrice più favorevole al reo, in contrasto con il diritto comunitario, invero, era già stata afrontata dalla Corte di Giustizia176 e risolta in favore della prevalenza del diritto comunitario. In tali precedenti, le obiezioni relative al consolidato principio giurisprudenziale177 per cui una direttiva, di per sé e 174. Corte d’Appello di Lecce, ordinanza 7 ottobre 2002, in Cass. pen., 2003, 640, con nota di Aprile, Note a margine di una domanda di pronuncia pregiudiziale di interpretazione di norme comunitarie, rivolta dal giudice penale alla Corte di giustizia delle Comunità europee in relazione alla nuova disciplina delle false comunicazioni sociali di cui al d.lgs. n. 61 del 2002; Trib. Milano, Sez. I penale, ordinanza 26 ottobre 2002, in Guid. dir., 2002, 45, 93 ss.; Trib. Milano, Sez. IV penale, ordinanza 29 ottobre 2002, in ibid., 97 ss., entrambe con nota di Di Martino, Disciplina degli illeciti societari in bilico tra legalità nazionale e legittimità comunitaria, in Guid. dir., 2002, 45, 85 ss. 175. Cfr., in particolare, direttiva del Consiglio 9 marzo 1968, 68/151/CEE (c.d. «prima direttiva sulle società», intesa a coordinare, per renderle equivalenti, le garanzie che sono richieste, negli Stati membri, alle società a mente dell’art. 58, co. 2 TCE, per proteggere gli interessi dei soci e dei terzi); direttiva del Consiglio 25 luglio 1978, 78/660/CEE (c.d. «quarta direttiva sulle società», basata sull’art. 54 § 3 lett. g), TCE ed intesa ad armonizzare le disposizioni nazionali relative alla stesura, al contenuto, alla struttura e alla pubblicità dei conti annuali di taluni tipi di società); direttiva del Consiglio 13 giugno 1983, 83/349/CEE (c.d. «settima direttiva sulle società», basata sull’art. 54, § 3, lett. g), TCE, e relativa ai conti consolidati). 176. Corte Giust. Com. Eur., 11 novembre 2004, C-457/02, FI, 2004 IV, 588, c.d. caso Niselli; precedentemente, Corte Giust. Com. Eur., 25 giugno 1997, cause riunite C-304/94, C-330/94, C-342/94 e C-224/95, c.d. caso Tombesi. In entrambe le ipotesi, la pregiudiziale comunitaria interpretativa aveva ad oggetto la nozione di riiuto ai sensi della direttiva del Consiglio, 15 luglio 1975, 75/442/CEE (G.U., L 194, 47). Per un approfondimento, Epidendio, Diritto comunitario e diritto penale interno, cit., 296 ss. 177. Corte Giust. Com. Eur., 8 ottobre 1987, Kolpinghuis Nijmegen, C-80/86, in Racc., 3969, § 13; Corte Giust. Com. Eur., 11 giugno 1987, Pretore di Salò, C-14/86, in Racc., 2570, § 18-20; Corte Giust. Com. Eur., 26 settembre 1996, Arcaro, C-168/95, in Racc., I-4705, § 37. In argomento, anche per un’ampia bibliograia, Nunziante, Eiciacia diretta e opponibilità ai singoli delle direttive comunitarie: rilessi in materia penale, in RPE, 1989, 207 ss.; Riondato, Competenza penale della Comunità europea. Problemi di attribuzione attraverso la giurisprudenza, Padova, 1996, 128. 81 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea indipendentemente da una norma giuridica di uno Stato membro adottata per la sua attuazione, non può determinare o aggravare la responsabilità penale di coloro che agiscono in violazione delle sue disposizioni, erano state superate, agevolmente, considerando l’irrilevanza del principio di legalità delle pene, poiché «i fatti che costituiscono oggetto delle cause a quibus potevano essere puniti in base al diritto nazionale e che i decreti legge che li hanno sottratti all’applicazione delle sanzioni risultanti dal D.P.R. n. 915/82 sono entrati in vigore soltanto successivamente»178. Da ciò, l’applicazione diretta della norma comunitaria non avrebbe avuto l’efetto di determinare la responsabilità penale già di per sé e indipendentemente da una legge interna di uno Stato membro adottata per la sua attuazione. In altri termini, una volta disapplicata la norma nazionale emanata successivamente al fatto di reato, la responsabilità del reo non sarebbe stata determinata dalla norma comunitaria, che non può trovare applicazione diretta, ma sulla base di una disposizione penale nazionale vigente al momento del fatto, vale a dire sulla disposizione incriminatrice circoscritta da quella successiva integratrice extrapenale disapplicata per contrasto con la norma comunitaria, ovvero per efetto della disapplicazione della norma successiva abrogante che determina la reviviscenza della disposizione vigente (e abrogata) all’epoca del fatto di reato. Nel caso Berlusconi, la Corte di Giustizia si pone, invece, la questione della dimensione della retroattività della norma più favorevole al reo, ignorata nei precedenti appena esaminati179, ma con particolare attenzione ai rilessi sulla riserva di 178. Corte Giust. Com. Eur., 25 giugno 1997, cit., § 43; nello stesso senso, con speciico richiamo del precedente, Corte Giust. Com. Eur., 11 novembre 2004, cit., § 30. 179. Invero, anche nel caso Niselli, l’Avvocato Generale Kokott (peraltro identico anche per il caso Berlusconi) aveva argomentato le ragioni per cui superare l’obiezione dell’applicazione della legge più favorevole, cfr. Conclusioni, §§ 63-75, secondo cui: «63. Nella fattispecie, all’applicazione diretta della direttiva potrebbe tuttavia ostare il principio in base al quale si deve applicare la legge penale più mite quando questa sia entrata in vigore, dopo il compimento del reato, in sostituzione della legge penale in vigore al momento del fatto. 64. Il principio dell’applicazione retroattiva della legge penale più mite, riconosciuto nella maggior parte degli ordinamenti giuridici degli Stati membri della Comunità (non tuttavia, ad esempio, in Irlanda e nel Regno Unito), è stato recepito anche nell’art. 49, n. 1, terza frase, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Inoltre è stato accolto nel diritto comunitario derivato relativo alle sanzioni amministrative riguardanti le irregolarità lesive degli interessi inanziari della Comunità. 65. Nella sentenza Allain la Corte ha implicitamente riconosciuto tale principio, afermando che un comportamento che ha violato in origine il diritto comunitario e che poteva pertanto essere punito in base al diritto nazionale, può essere nuovamente valutato in attuazione dei principi procedurali nazionali (in special modo, del principio dell’applicazione retroattiva della legge penale più mite), se la situazione di fatto e di diritto è cambiata successivamente. 66. Ne consegue che questo principio non deve essere considerato solo come un principio puramente nazionale, ma anche come un principio generale del diritto comunitario, del quale il giudice del rinvio deve tenere conto nell’interpretazione della legge nazionale di uno Stato membro adottata per l’attuazione della direttiva 75/442. 67. Anche se il decreto legge n. 138/02 non è qualiicabile di per sé come disposizione sanzionatoria, porta 82 legalità legge statale. Le argomentazioni dell’Avvocato Generale ricalcano le conclusioni già espresse, sul punto, nel caso Niselli. Il principio dell’applicazione retroattiva della legge penale più favorevole è internazionalmente riconosciuto e non va assolutamente considerato un principio giuridico puramente nazionale. La ratio del principio, secondo l’Avvocato Generale Kokott180, è che «un imputato non deve venire condannato sulla base di un comportamento che, secondo il punto di comunque ad una interpretazione più favorevole all’imputato della nozione di riiuto e pertanto anche dei reati disciplinati nel decreto legislativo n. 22/97, che richiedono l’esistenza di riiuti. 68. L’applicazione con eicacia retroattiva del decreto legge n. 138/02, come “legge penale più mite”, ai fatti commessi prima della sua adozione potrebbe tuttavia essere esclusa ove esso violi il disposto della direttiva 75/442. 69. La ragione dell’applicazione retroattiva della legge penale più mite è la considerazione che un imputato non deve essere condannato per un comportamento che, secondo il parere (mutato) del legislatore, non è più meritevole di pena al momento del procedimento. Le valutazioni giuridiche mutate devono quindi andare a suo beneicio. In tal modo viene garantita la coerenza dell’ordinamento giuridico. L’applicazione retroattiva della legge più mite tiene inoltre conto del fatto che la inalità repressiva di prevenzione generale e speciale viene meno se il comportamento in questione non è più punibile. 70. Ciò dimostra che il principio si fonda comunque su considerazioni di equità che non hanno una rilevanza paragonabile a quelle a fondamento del principio della legalità della pena (il principio dello stato di diritto e il principio della certezza del diritto). Per tale ragione, molti ordinamenti nazionali ammettono anche deroghe al principio, ad esempio quando la responsabilità penale si fondi su una legge in vigore, in dal principio, solo sino ad una certa data. 71. In un caso connesso alla normativa comunitaria si deve tuttavia tenere conto dell’eventualità che le opinioni del legislatore nazionale, che stanno alla base della legge penale più mite adottata successivamente, siano in contrasto con le valutazioni del legislatore comunitario che disciplinano l’ambito in oggetto. Venendo al punto, si potrebbe afermare che una legge adottata successivamente non costituisce una legge penale più mite applicabile. 72. Non sembra esservi alcun motivo per cui un soggetto debba beneiciare retroattivamente di una valutazione mutata del legislatore nazionale che sia contraria alle prescrizioni di diritto comunitario che perdurino invariate. Piuttosto, la coerenza dell’ordinamento giuridico impone, al contrario, che sia osservata in modo prioritario la normativa comunitaria applicabile. Inoltre, se un comportamento rimane punibile sotto il proilo del diritto comunitario, non viene meno nemmeno la inalità repressiva di prevenzione generale e speciale. 73. Le allegazioni della corte nella sentenza Allain non sono in contraddizione con l’interpretazione sostenuta in questa sede. A diferenza del caso di specie, nella causa Allain il contesto normativo comunitario e le circostanze di fatto erano mutati a favore dell’imputato in un momento successivo. Questa situazione non è rafrontabile con il fatto che una disposizione favorevole all’imputato, ma incompatibile con il diritto comunitario, venga introdotta a livello nazionale successivamente. 74. Al pari del principio della legalità della pena, il principio dell’applicazione retroattiva della legge penale più mite non contrasta assolutamente con l’applicazione diretta della direttiva 75/442 nella causa principale. La presa in considerazione della direttiva non porta inoltre all’istituzione di obblighi, ma produce efetti pregiudizievoli per l’imputato solo indirettamente. Ciò non esime tuttavia il giudice nazionale dall’obbligo, derivante dall’art. 249, terzo comma, CE e dall’art. 10 CE, di dare esecuzione alla direttiva 75/442. 75. In conclusione, si deve pertanto dichiarare che il giudice del rinvio ha l’obbligo di fare osservare la direttiva 75/442, nel senso di disapplicare una legge penale più mite emanata successivamente al reato, se tale legge è incompatibile con la direttiva». 180. Conclusioni §§ 154-168. 83 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea vista (modiicato) del legislatore, non è più penalmente rilevante al momento del procedimento penale ed, inoltre, l’applicazione retroattiva della legge penale più favorevole deriva dalla circostanza che gli scopi di prevenzione generale e speciale vengono meno quando il comportamento in questione non è più soggetto a pena». Valido e riconosciuto il principio, è necessario appuntare l’attenzione sulla regola di implementazione dello stesso, ovvero domandarsi se la legge più favorevole possa essere quella contraria ad una norma comunitaria. Se tanto fosse possibile, secondo l’Avvocato Generale, il sacriicio del principio di prevalenza del diritto comunitario sarebbe evidente a discapito dell’«applicazione efettiva e unitaria in tutti gli Stati membri delle direttive sul diritto societario». Da ciò, la legge penale più favorevole è solo quella applicabile, ovvero quella che non è contraria ad una norma comunitaria in virtù del principio di supremazia del diritto comunitario. Le conseguenze di una tale impostazione sono evidenti: la legge penale più favorevole al reo, ma contrastante con una norma comunitaria, va disapplicata in favore della norma vigente all’epoca del fatto, anche se più severa, senza che a ciò possa ostare la riserva di legge domestica. La Corte di Giustizia, dopo aver enunciato, come già evidenziato, che la retroattività benigna è un principio certamente comunitario, in quanto fa parte delle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri181, ancora una volta, non afronta la questione della retroattività benigna e del rapporto con la primazia del diritto comunitario, ma liquida la vicenda afermando che «una direttiva non può avere come efetto, di per sé e indipendentemente da una legge interna di uno Stato membro adottata per la sua attuazione, di determinare o aggravare la responsabilità penale degli imputati»182. Con ciò riconoscendo il limite della riserva di legge interna in materia penale. Vanno svolte alcune osservazioni. In primis, a ben guardare, la declaratoria di illegittimità comunitaria delle nuove norme sul falso in bilancio non avrebbe determinato, di per sé, la responsabilità penale dell’imputato, scaturendo tale addebito dalla riespansione dell’originaria eicacia della norma abrogata o modiicata dalla disposizione comunitariamente illegittima, in virtù della disapplicazione della stessa183. I giudici europei, invero, non sembra che abbiano fatto corretta applicazione del principio elaborato dalla c.d. giurisprudenza Kolpinghuis Nijmegen184, in quanto tale principio non può co181. Corte Giust. Com. Eur., 3 maggio 2005, cit., § 68. 182. Corte Giust. Com. Eur., 3 maggio 2005, cit., § 78. 183. Bernardi, Brevi osservazioni a margine della sentenza della Corte di Giustizia sul falso in bilancio, cit., passim. 184. Corte Giust. Com. Eur. 8 ottobre 1987, cit. In argomento cfr., Nunziante, Eicacia diretta e opponibilità ai singoli delle direttive comunitarie: rilessi in materia penale, cit.; Porchia, Gli efetti delle direttive e l’interpretazione delle norme penali nazionali: il caso Procura c. X, cit.; Riondato, Competenza penale della Comunità europea. Problemi di attribuzione attraverso la giurisprudenza, cit. 84 legalità stituire un ostacolo alla reviviscienza, limitatamente ai fatti realizzati sotto la sua vigenza, di una normativa penale nazionale più severa abrogata o modiicata da successivi interventi normativi a carattere interno volti a prevedere una disciplina sanzionatoria delle false comunicazioni sociali comunitariamente inadeguata per difetto. In secundis, non è possibile considerare sullo stesso piano le decisioni della Corte europea sui casi Niselli e Berlusconi, apparentemente antitetiche. Nel primo caso, la nozione di riiuto, sin troppo generosa, era stata introdotta nella normativa nazionale senza alcuna modiica delle igure incriminatrici richiamanti, con l’efetto che la nuova deinizione di riiuto andava ad incidere su un elemento normativo delle fattispecie di riferimento, modiicando (restringendola) la relativa area di rilevanza penale. Nel caso Berlusconi, invece, il legislatore nazionale aveva espunto dall’ordinamento la vecchia incriminazione, sostituendola con un’altra strutturalmente diversa dalla prima185. Le decisioni dei giudici europei si pongono, dunque, in linea con la lettura dei giudici costituzionali, in relazione ai limiti posti dalla riserva di legge statale in materia penale: è possibile il sindacato sulla norma che si innesta nell’area delineata da una norma incriminatrice che non viene espunta dall’ordinamento o modiicata; mentre tale sindacato è da escludere nell’ipotesi in cui la novella legislativa va ad incidere sull’area di rilevanza penale come scelta di politica criminale (nel rispetto della riserva di legge). Per concludere sulla vicenda del caso Berlusconi, la questione, dopo l’epilogo europeo, venne deinitivamente archiviata dalla Corte costituzionale, che, con ordinanza n. 70 del 2006, restituiva ai giudici rimettenti186 l’eccezione di illegittimità degli artt. 2621 e 2622 c.c., per una nuova valutazione della rilevanza della questione dopo, non solo, l’intervento della Corte di Giustizia, ma soprattutto dopo quello del legislatore con il decreto legislativo 28 dicembre 2005 n. 262 recante disposizioni per la tutela del risparmio e la disciplina dei mercati inanziari, il cui art. 30 ha sostituito le norme impugnate prevedendo ulteriori soggetti attivi del reato, una pena più elevata nel massimo per la fattispecie contravvenzionale, una pena speciica e più severa (reclusione da due a sei anni) per i fatti delittuosi commessi nell’ambito di società quotate che avessero cagionato un grave nocumento ai risparmiatori, sanzioni amministrative pecuniarie e interdittive per illeciti non punibili come reato perché rimasti sotto alle soglie di rilevanza penale 185. Per una ricostruzione per via deduttiva delle vicende a confronto, infra § IV.4.1. 186. Nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 2621 e 2622 del codice civile, come modiicati dal decreto legislativo 11 aprile 2002, n. 61 (Disciplina degli illeciti penali e amministrativi riguardanti le società commerciali, a norma dell’articolo 11 della lege 3 ottobre 2001, n. 366), promossi con ordinanze del 21 gennaio 2003, del 20 novembre 2002 e del 6 marzo 2003 dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Palermo e del 19 gennaio 2005 dalla Corte d’appello di Napoli. 85 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea del fatto con possibile incidenza sull’applicabilità alle falsità in bilancio e scritture contabili della disciplina generale della prescrizione stabilita in rapporto alle violazioni amministrative e con possibilità di interruzione del termine prescrittivo nel corso del giudizio. III.5. Il principio della retroattività della lex mitior e quello della certezza del diritto che promana dalla irmitas del giudicato, e la sua intangibilità relativa. L’entrata in vigore del Trattato di Lisbona rende giuridicamente vincolante, al pari dei trattati europei, la Carta di Nizza e, per quel che qui interessa, l’art. 49, § 1, Carta, secondo cui: «Nessuno può essere condannato per una azione o un’omissione che, al momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o il diritto internazionale. Parimenti, non può essere inlitta una pena più grave di quella applicabile al momento in cui il reato è stato commesso», aggiungendo altresì che «Se, successivamente alla commissione del reato, la legge prevede l’applicazione di una pena più lieve, occorre applicare quest’ultima». Tale ultima disposizione contiene il principio di retroattività benigna187, ricalcando la previsione contenuta nell’art. 15 Patto, che apparentemente assume carattere inderogabile188, al pari dalla irretroattività in malam partem. La risoluzione del 22 maggio 2012 del Parlamento europeo, in tema di approccio unionista al diritto penale189, conforta tale impostazione esegetica, stabilendo che, fra gli altri, il principio di irretroattività della norma penale e quello della lex mitior sono principi generali che regolano il diritto punitivo ed, in particolare, gli stessi non possono tollerare alcuna deroga, se non più vantaggiosa per il reo. Questa perentoria afermazione evidenzia un indirizzo politico chiarissimo nel considerare il principio della retroattività benigna assolutamente inderogabile, pariicandolo all’indiscusso divieto di retroattività della legge penale in malam partem. Pertanto, la legge penale più favorevole va applicata senza alcuna eccezione, apparentemente anche oltre il giudicato. L’indagine va svolta ora in direzione della derogabilità (o meno) del principio della lex mitior. 187. Sotis, Le regole dell’incoerenza. Pluralismo normativo e crisi postmoderna del diritto penale, Roma, 2012, 109 ss., secondo cui la retroattività della lex mitior a livello europeo si colloca nell’alveo del principio di proporzione ex art. 49, § 3, Carta e non in quello di legalità di al § 1 della medesima disposizione. 188. In relazione alla giurisprudenza della Corte di Giustizia, sostengono la necessaria derogabilità del principio, Bin, Un ostacolo che la Corte non può agirare, in Bin, Brunelli, Pugiotto, Veronesi (a cura di), Ai conini del “favor rei”, Torino, 2005, 110; Brunelli, Sui limiti del favor rei l’ultima parola è della Corte costituzionale, cit., 128; Insolera, Una sentenza a più facce, in ibid., 228; Veronesi, La sostenibile irretroattività della norma penale favorevole, in ibid., 359. 189. Rinvenibile su www.europarl.europa.eu. 86 legalità La irmitas del giudicato, come noto, costituisce espressione implementata del principio della sicurezza (o certezza) giuridica, che, nel nostro ordinamento, trova un’esplicita deroga, con riferimento alla sola pena pecuniaria, nell’art. 2, co. 3, c.p. Non nell’ipotesi di cui all’art. 2, co. 2, c.p., completata dall’art. 673 c.p.p., in quanto l’eicacia retroattiva dell’abolizione del reato (o della declaratoria di incostituzionalità) è contenuta nella cessazione degli efetti della condanna e, dunque, la norma abrogante del crimine non si estende all’accertamento del fatto storico e della sua attribuibilità al reo190. Non, come noto, nell’ipotesi di legge modiicatrice più favorevole ai sensi dell’art. 2, co. 4, c.p. È necessario accertare la latitudine del principio dell’intangibilità del giudicato penale a livello europeo, al ine di veriicare se la retroattività benigna (modiicatrice) incontra il limite dello stare decisis, come previsto dall’art. 2, co. 4, c.p., ovvero se tale disposizione debba ormai essere disapplicata in virtù di quanto previsto dall’art. 49, § 1, Carta. L’intangibilità del giudicato penale, innanzitutto, è assoluta in malam partem, in combinato disposto con il principio del ne bis in idem ed, in matrice convenzionale, con quello dell’equo processo garantito dall’art. 6 Convenzione EDU, come in più occasioni sancito dalla Corte di Strasburgo191. Il diritto penale del passato aveva deinito una concezione del giudicato penale caratterizzata da staticità ed irremovibilità, al ine di assicurare la garanzia della certezza dei rapporti giuridici192. Non è qui la sede per ripercorrere le tappe di un’evoluzione che ha lentamente abbandonato la rigida visione della cosa giudicata penale, essendo suiciente osservare che, ad oggi, il principio dell’irrevocabilità della res iudicata deve necessariamente mettere in conto che si possano stabilizzare condizioni di diseguaglianza tra situazioni identiche, conseguenze di errori o valutazioni diferenti da parte dei giudici, non più rimediabili con gli ordinari mezzi di impugnazione ordinaria e, talvolta, neanche attraverso i pro190. Per l’estensione della previsione di cui all’art. 2, co. 2, c.p., in combinato disposto con l’art. 673 c.p.p., anche all’ipotesi di circostanza aggravante dichiarata incostituzionale, si segnala Cass. pen. Sez. I, 27 ottobre 2011, n. 977 secondo cui «Gli artt. 136 Cost. e 30, commi terzo e quarto, legge n. 87 del 1953 non consentono l’esecuzione della porzione di pena inlitta dal giudice della cognizione in conseguenza dell’applicazione di una circostanza aggravante che sia stata successivamente dichiarata costituzionalmente illegittima. (La Suprema Corte ha precisato che spetta al giudice dell’esecuzione il compito di individuare la porzione di pena corrispondente e di dichiararla non eseguibile, previa sua determinazione ove la sentenza del giudice della cognizione abbia omesso di individuarla speciicamente, ovvero abbia proceduto al bilanciamento tra circostanze)»; conf. Cass. pen. Sez. I, 24 febbraio 2012, n. 19361; contra Cass. pen. Sez. I, 19 gennaio 2012, n. 27640 che sottolinea che il precedente del 2011 costituisce una decisione isolata contraria al costante orientamento della Suprema Corte. 191. Corte eur. dir. uomo, 28 ottobre 1999, Barbarescu c. Romania, § 62; Id. 28 maggio 2002, Vanilia c. Romania, § 42. 192. Callari, La irmitas del giudicato. Essenza e limiti, Milano, 2009. 87 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea cedimenti di revisione. È necessaria la veriica della perdurante legalità ed adeguatezza della decisione di merito, pur scongiurando il pericolo di un processo continuo che, attraverso la moltiplicazione dei fenomeni erosivi delle situazioni pregresse, attenui la stabilità di quella che va considerata e difesa come una garanzia precauzionale: la deinizione del procedimento e la correlata realizzazione di un interesse dell’ordinamento. Il principio della certezza giudiziaria non è un valore intangibile ed assoluto, ma bilanciabile con interessi di pari rango (costituzionale) e, dunque, relativo. È solo una questione di deinizione del giudicato: il fatto storico, come accertato, è incontrovertibile (salve le ipotesi di revisione), ma la valutazione giuridica dello stesso deve essere rimeditata, se cambiano gli elementi di diritto su cui quel giudizio è stato reso. È stato correttamente scritto193 che, quando l’ingiustizia di una decisione va colta «non già mediante il riesame del materiale di giudizio, bensì mediante nuovi elementi di giudizio», non si scorge pericolo alcuno per la sicurezza giuridica poiché «anzi, questa stessa esigenza si capovolge e si proila… come urgenza di ristabilire la giustizia ofesa, mentre la coscienza sia dei consociati sia degli stessi soggetti più direttamente interessati… non saprebbe accettare di dare prevalenza al giudicato su nuovi elementi atti da soli o congiuntamente ai precedenti a dimostrare la ingiustizia della sentenza irrevocabile»194. Il limite del giudicato per la retroattività benigna trova conforto nella giurisprudenza della Corte EDU, che, nel noto caso Scoppola, ha afermato che «si la loi pénale en vigueur au moment de la commission de l’infraction et les lois pénales postérieures adoptées avant le prononcé d’un jugement déinitif sont diférentes, le juge doit appliquer celle dont les dispositions sont les plus favorables au prévenu»195. Del resto, sul punto, la Corte di Strasburgo conferma la sua giurisprudenza in materia di vincolatività del giudicato in ossequio al principio della certezza del diritto196. La res iudicata, dunque, è insuperabile anche per il principio in questione. Ad ogni modo, si può ipotizzare una soluzione diversa. 193. La Rocca, Adeguamento della pena per sopravvenuta illegittimità costituzionale dell’agravante: poteri inediti del giudice dell’esecuzione, in Arch. pen., 2012, 2, nota a Cass. pen. Sez. I, 27 ottobre 2011, n. 977. 194. Leone, Il mito del giudicato, in Riv. dir. proc pen., 1956, 168. 195. Corte eur. dir. uomo, 17 settembre 2009, Scoppola c. Italia, § 109. Il principio enunciato dalla Corte, sulla base di quanto previsto dall’art. 7 Convenzione EDU, ricalca l’art. 24, § 2, Statuto della Corte penale internazionale, secondo cui: «Si le droit applicable à une afaire est modiié avant le jugement déinitif, c’est le droit le plus favorable à la personne faisant l’objet d’une enquête, de poursuites ou d’une condamnation qui s’applique». 196. Si è già richiamata Corte eur. dir. uomo, 28 giugno 2007, Perez Arias c. Spagna, secondo cui «intendere il principio di eguaglianza nell’applicazione della legge nel senso che ciò che risulta dalle decisioni posteriori implica la revisione di tutte le decisioni deinitive anteriori che risultino contraddittorie con quelle più recenti sarebbe contrario al principio di sicurezza giuridica». 88 legalità La certezza del diritto, da un lato, e la libertà personale, dall’altro, sono i valori da bilanciare nell’applicazione retroattiva della lex mitior: il punto di mediazione potrebbe essere la distinzione della res iudicata o, meglio, il carattere dell’intangibilità ancorato al solo giudizio di colpevolezza, restandone esclusi gli efetti penali, sempre modiicabili ove in senso più vantaggioso per il reo. In relazione al nostro ordinamento, dunque, andrebbe ampliata la previsione di cui all’art. 2, co. 3, c.p., in conformità a quanto previsto dall’art. 6 TUE, in combinato disposto con l’art. 49, § 1, Carta, con l’efetto che la lex mitior che modiica, non solo, la specie della pena (come oggi previsto dal citato art. 2, co. 3, c.p.), ma anche la misura della stessa, in senso più favorevole al reo, andrebbe applicata anche oltre il giudicato. Depone in tal senso il continuo riferimento delle norme internazionali, ma anche dell’art. 49 Carta, alla pena da applicare. È evidente che il riferimento al momento applicativo farebbe indurre a ritenere non ancora intervenuta la condanna deinitiva e, dunque, la riferibilità del principio della retroattività benigna alle sole modiiche intervenute prima del giudicato penale. Ma in linea con le soluzioni già evidenziate, si potrebbe proporre un’esegesi diversa della previsione europea, considerando il momento applicativo esteso a quello esecutivo, alla stregua della paciica applicabilità dei principi di personalità, proporzionalità e rimproverabilità che investono la funzione della pena dal momento della sua irrogazione a quello della sua esecuzione e, dunque, consentire, secondo le previsioni processuali statuali, l’intervento del giudice per l’applicazione della lex mitior modiicatrice della pena197. 197. Sul punto, recentemente, Corte cost. n. 210 del 2013, pubblicata anche in www.archiviopenale.it, con nota redazionale. La questione: con ordinanza depositata il 10 settembre 2012 (commentata da Gaito, Santoriello, Giudizio abbreviato ed ergastolo: un rapporto ancora diicile, in Dir. pen. proc., 2012, 1201 ss; Gambardella, Overruling favorevole della Corte europea e revoca del giudicato di condanna: a proposito dei casi analoghi alla sentenza “Scoppola”, e Musio, Di nuovo alla Corte costituzionale il compito di tracciare il conine tra tutela dei diritti fondamentali e limite del giudicato nazionale, in Cass. pen., 2012, 3981 ss.; Viganò, Figli di un Dio minore? Sulla sorte dei condannati all’ergastolo in casi analoghi a quello deciso dalla Corte EDU in Scoppola c. Italia, in www.penalecontemporaneo.it), la Corte di cassazione, sezioni unite penali, ha sollevato, in riferimento agli articoli 3 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’articolo 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (d’ora in avanti: “CEDU”), irmata a Roma il 4 novembre 1950, questioni di legittimità costituzionale degli articoli 7 e 8 del decretolegge 24 novembre 2000, n. 341 (Disposizioni urgenti per l’eicacia e l’eicienza dell’Amministrazione della giustizia), convertito, con modiicazioni, dalla legge 19 gennaio 2001, n. 4, nella parte in cui tali disposizioni interne operano retroattivamente e, più speciicamente, in relazione alla posizione di coloro che, pur avendo formulato richiesta di giudizio abbreviato nella vigenza della sola legge 16 dicembre 1999, n. 479, sono stati giudicati successivamente, quando cioè, a far data dal pomeriggio del 24 novembre 2000 (pubblicazione della Gazzetta Uiciale, ai sensi dell’art. 2 del regio decreto 7 giugno 1923, n. 1252, recante Passagio della Gazzetta Uiciale del Regno dalla dipendenza del Ministero dell’interno a quella del Ministero della giustizia e degli afari di culto e norme per la compilazione 89 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea e la pubblicazione di essa), era entrato in vigore il citato decreto-legge, con conseguente applicazione del più sfavorevole trattamento sanzionatorio previsto dal medesimo decreto. La Consulta, nell’interessantissima pronuncia, oltre a confermare la disciplina dei rapporti tra ordinamento interno e ordinamento convenzionale, tracciato dalle sentt. 348 e 349 del 2007, in ordine al ruolo del giudicato nella materia penale, aferma (Considerato in diritto § 7.3): «Spetta anzitutto al legislatore rilevare il conlitto veriicatosi tra l’ordinamento nazionale e il sistema della Convenzione e rimuovere le disposizioni che lo hanno generato, privandole di efetti; se però il legislatore non interviene, sorge il problema relativo alla eliminazione degli efetti già deinitivamente prodotti in fattispecie uguali a quella in cui è stata riscontrata l’illegittimità convenzionale ma che non sono state denunciate innanzi alla Corte EDU, diventando così inoppugnabili. Esiste infatti una radicale diferenza tra coloro che, una volta esauriti i ricorsi interni, si sono rivolti al sistema di giustizia della CEDU e coloro che, al contrario, non si sono avvalsi di tale facoltà, con la conseguenza che la loro vicenda processuale, deinita ormai con la formazione del giudicato, non è più suscettibile del rimedio convenzionale. Il valore del giudicato, attraverso il quale si esprimono preminenti ragioni di certezza del diritto e di stabilità nell’assetto dei rapporti giuridici, del resto, non è estraneo alla Convenzione, al punto che la stessa sentenza Scoppola vi ha ravvisato un limite all’espansione della legge penale più favorevole, come questa Corte ha già avuto occasione di porre in evidenza (sentenza n. 236 del 2011). Perciò è da ritenere che, in linea di principio, l’obbligo di adeguamento alla Convenzione, nel signiicato attribuitole dalla Corte di Strasburgo, non concerne i casi, diversi da quello oggetto della pronuncia, nei quali per l’ordinamento interno si è formato il giudicato, e che le deroghe a tale limite vanno ricavate, non dalla CEDU, che non le esige, ma nell’ambito dell’ordinamento nazionale. Quest’ultimo, difatti, conosce ipotesi di lessione dell’intangibilità del giudicato, che la legge prevede nei casi in cui sul valore costituzionale ad esso intrinseco si debbano ritenere prevalenti opposti valori, ugualmente di dignità costituzionale, ai quali i il legislatore intende assicurare un primato. Tra questi, non vi è dubbio che possa essere annoverata la tutela della libertà personale, laddove essa venga ristretta sulla base di una norma incriminatrice successivamente abrogata oppure modiicata in favore del reo: “per il principio di eguaglianza, infatti, la modiica mitigatrice della legge penale e, ancor di più, l’abolitio criminis, disposte dal legislatore in dipendenza di una mutata valutazione del disvalore del fatto tipico, devono riverberarsi anche a vantaggio di coloro che hanno posto in essere la condotta in un momento anteriore, salvo che, in senso opposto, ricorra una suiciente ragione giustiicativa” (sentenza n. 236 del 2011). Il legislatore a fronte dell’abolitio criminis non ha ravvisato tale ragione giustiicativa e ha previsto la revoca della sentenza (art. 673 cod. proc. pen.), disponendo che devono cessare l’esecuzione della condanna e gli efetti penali (art. 2, secondo comma, cod. pen.); analogamente ha stabilito che “Se vi è stata condanna a pena detentiva e la legge posteriore prevede esclusivamente la pena pecuniaria, la pena detentiva inlitta si converte immediatamente nella corrispondente pena pecuniaria, ai sensi dell’articolo 135” (art. 2, terzo comma, cod. pen.). A questa Corte compete perciò di rilevare che, nell’ambito del diritto penale sostanziale, è proprio l’ordinamento interno a reputare recessivo il valore del giudicato, in presenza di alcune sopravvenienze relative alla punibilità e al trattamento punitivo del condannato. Al giudice comune, e in particolar modo al giudice rimettente, quale massimo organo di nomoilachia compete, invece, di determinare l’esatto campo di applicazione in sede esecutiva di tali sopravvenienze, ovvero della dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice (art. 30, quarto comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87), e, nell’ipotesi in cui tale determinazione rilevi ai ini della proposizione di una questione di legittimità costituzionale, spiegarne le ragioni in termini non implausibili. Nel caso in esame le sezioni unite rimettenti, con motivazione che soddisfa tale ultimo requisito, hanno argomentato che, in base all’art. 30, quarto comma, della legge n. 87 del 1953, il giudicato penale non impedisce al giudice di interveni- 90 legalità sezione IV. Primauté IV.1. Il principio di legalità ed il diritto vivente: giurisprudenza come fonte del diritto nella lettura delle Corti europee e della Corte costituzionale. Brevi considerazioni sul ruolo dei Tribunali costituzionali nell’epoca del pluralismo giuridico e l’idea in crisi di sovranità. Si è visto che la retroattività in mitius è un principio inderogabile per la giurisprudenza europea, certamente prima dell’intervento del giudicato deinitivo, nel senso che qualora intervenga una modiica della legge penale più vantaggiosa per il reo, il giudice è tenuto ad applicarla. È utile indagare sul rapporto tra questo principio ed il diritto vivente (nómos émpsychos198), inteso come la legge (penale) applicata secondo l’interpretazione giurisprudenziale e, dunque, sulla rilevanza del relativo mutamento esegetico in ordine ai principi che regolano la successione nel tempo delle norme criminali. Da un punto di vista storico, è opportuno ricordare, brevemente, che, ad eccezione dei sistemi di common law, la fonte del diritto di idea giusrazionalistica199 non può che essere la legge, mentre l’attività interpretativa giurisprudenziale è vista, almeno in un primo tempo, con sospetto a causa del dispotismo dei tribunali imperante nel XVI e XVII secolo200, dovuto alla disorganizzazione della vita forense sia perché vi era un eccessivo proliferare di opinioni dottrinali, sia perché le vie processuali erano lente e complesse, sia perché la pluralità di giurisdizioni dell’antico regime originava interminabili conlitti di competenza. Da ciò, sulla scia dell’insegnamento baconiano201, nascono progetti di riforma dell’ordinamento giudiziario e processuale che portano a vincolare l’attività interpretativa giurisprudenziale subordinandola, rigidamente, al primato della legge (rectius, re sul titolo esecutivo per modiicare la pena, quando la misura di questa è prevista da una norma di cui è stata riconosciuta l’illegittimità convenzionale, e quando tale riconoscimento sorregge un giudizio altamente probabile di illegittimità costituzionale della norma per violazione dell’art. 117, primo comma, Cost. Nell’ambito dell’odierno incidente di legittimità costituzionale, tale rilievo è suiciente per concludere che, con riferimento al procedimento di adeguamento dell’ordinamento interno alla CEDU, originato dalla pronuncia della Grande Camera della Corte EDU nel caso Scoppola, il giudicato non costituisce un ostacolo insuperabile che, come invece accade di regola, limiti gli efetti dell’obbligo conformativo ai soli casi ancora sub iudice. Nella prospettiva adottata dalle sezioni unite rimettenti, non vi sono perciò ostacoli che si frappongano alla estensione degli efetti della Convenzione in fattispecie uguali a quella relativa a Scoppola, sulle quali si sia già formato il giudicato». 198. È l’espressione aristotelica. Marco Tullio Cicerone (106-43 a.C.), De Legibus, III, 1, 2, deinisce la legge come mutus magistratus. 199. Per un chiaro afresco sul periodo che precede il Settecento ed, in particolare, l’epoca della Rivoluzione francese, cfr. L. Mazza, Lezioni di diritto penale. I. Il dibattito sulle scuole, Torino, 2000, 7 ss. 200. Hespanha, Introduzione alla storia del diritto europeo, Bologna, 2003, 210. 201. Bacone (Francis Bacon 1561-1626), On Judicature, in Essays, secondo cui i giudici dovrebbero ricordare che il loro uicio è ius dicere e non ius dare, interpretare e non fare la legge. 91 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea del legislatore). Emblematico il référé législatif francese202 che obbligava i tribunali a rimettere all’Assemblea Legislativa le questioni giuridiche di dubbia interpretazione. Passando da Beccaria e Bentham, il primato della legge sul diritto di creazione giurisprudenziale è ormai un principio fondamentale appartenente a tutte le tradizioni costituzionali europee (e non solo), anche a quelle di common law, ove il principio di legalità è trasposto in quello di necessaria conoscibilità preventiva del divieto penale. Ora, è costante orientamento della Corte dei diritti umani che la nozione di diritto (law), utilizzata nell’art. 7, § 1, Convenzione EDU, è comprensiva tanto del diritto di produzione legislativa che del diritto di formazione giurisprudenziale203: è tale vale anche in rapporto agli ordinamenti di civil law, alla luce del rilevante apporto che pure in essi la giurisprudenza fornisce all’individuazione dell’esatta portata ed all’evoluzione del diritto penale204. Il principio è stato, di recente, ribadito dalla Corte di Strasburgo sul rilevante dibattito originato in Spagna dal mutamento giurisprudenziale sfavorevole del Tribunal Supremo circa le modalità di applicazione dei beneici penitenziari a determinati soggetti pluricondannati per reati di matrice terroristica separatista. In particolare, la Corte di Strasburgo si è pronunciata sul ricorso proposto da una 202. Legge 27 gennaio 1790 e Costituzione del 13 settembre 1791, cap. V, Del potere giudiziario, «21. Quando dopo due cassazioni il giudizio del terzo tribunale sarà impugnato con gli stessi mezzi che per i due precedenti, la questione non potrà più esser discussa dinanzi al tribunale di Cassazione senza esser stata sottoposta al Corpo legislativo, che emetterà un decreto dichiaratorio della legge, al quale il tribunale di Cassazione dovrà conformarsi. 22. Ogni anno, il tribunale di Cassazione sarà tenuto ad inviare alla tribuna del Corpo legislativo una deputazione di otto dei suoi membri, che presenteranno ad esso lo stato dei giudizi resi, accanto ad ognuno dei quali saranno posti la sintesi della questione e la legge che avrà determinato la decisione…». 203. Corte eur. dir. uomo, Gr. Ch., 17 settembre 2009, cit., secondo (§ 99) cui «la notion de “droit” (“law”) utilisée à l’article 7 correspond à celle de “loi” qui igure dans d’autres articles de la Convention; elle englobe le droit d’origine tant législative que jurisprudentielle et implique des conditions qualitatives, entre autres celles d’accessibilité et de prévisibilité». Evidenzia che tale impostazione è seguita nella prospettiva funzionale di ricostruire il perimetro garantistico dell’art. 7 CEDU, assumendo, dunque, il principio di legalità come regola di giudizio e non come regola sulle fonti, Manes, Il giudice nel labirinto, cit., 23, in particolare, nota 59. 204. Corte eur. dir. uomo, Gr. Ch., 17 settembre 2009, cit., secondo cui (§ 101) «la fonction de décision coniée aux juridictions sert précisément à dissiper les doutes qui pourraient subsister quant à l’interprétation des normes (Kaf karis, précité, § 141). D’ailleurs, il est solidement établi dans la tradition juridique des Etats parties à la Convention que la jurisprudence, en tant que source du droit, contribue nécessairement à l’évolution progressive du droit pénal (Kruslin c. France, 24 avril 1990, § 29, série A no 176-A). On ne saurait interpréter l’article 7 de la Convention comme proscrivant la clariication graduelle des règles de la responsabilité pénale par l’interprétation judiciaire d’une afaire à l’autre, à condition que le résultat soit cohérent avec la substance de l’infraction et raisonnablement prévisible (Streletz, Kessler et Krenz c. Allemagne [GC], nos 34044/96, 35532/97 et 44801/98, § 50, CEDH 2001-II)». Nello stesso senso, di recente, Corte eur. dir. uomo, Sez. V, 18 aprile 2013, Rohlena c. Repubblica Ceca, § 29, nonché Corte eur. dir. Uomo, Gr. Ch., 21 ottobre 2013, Del Rio Prada c. Regno di Spagna, § 93, su cui si tornerà più avanti. 92 legalità donna condannata per gravi reati a pene che, sommate, ammontavano a più di tremila anni di reclusione, ridotti a trenta, limite massimo nell’ipotesi di cumulo materiale in applicazione dell’art. 70 c.p. spagnolo 1973 (vigente all’epoca della commissione dei reati). Individuato il “ine-pena” nel giorno 27 giugno 2017, l’istituto penitenziario indicava conseguentemente nel 2 luglio 2008 la data efettiva di liberazione della ricorrente in applicazione della misura alternativa della redención de penas por el trabajo. Tuttavia, l’Audiencia Nacional, a cui spettava la determinazione deinitiva della pena da eseguire, issava il ine-pena alla data del 27 giugno 2017, in virtù di una nuova interpretazione della legge sull’esecuzione della pena (secondo una soluzione denominata come doctrina Parot)205, per cui la frazione di pena da scontare prima di accedere a tale beneicio deve essere calcolata in base alla misura della sanzione individuata prima dell’applicazione del limite dei trent’anni (e quindi, nel caso concreto, in base ai più di tremila anni di reclusione conseguenti al cumulo materiale delle pene). In altri termini, il Tribunal Supremo interpretava gli artt. 70 e 100 c.p. spagnolo 1973, alla stregua di quanto previsto dall’art. 78 c.p. spagnolo 1995. Nel ricorso alla Corte europea, dunque, è stata denunciata una violazione del principio di irretroattività in materia penale sancito dall’art. 7 Convenzione EDU, nonché la violazione del canone della regolarità della detenzione previsto dall’art. 5 Convenzione EDU. La questione era stata già esaminata dal Tribunal constitucional spagnolo che, investito di diversi recursos de amparo, ha rigettato tutte le doglianze, ritenendo inammissibile la sussunzione della vicenda nell’alveo dell’art. 7 Convezione EDU, poiché, per costante orientamento della Corte di Strasburgo, l’esecuzione penale non rientrava nell’orbita applicativa della norma convenzionale europea206 e, 205. Tribunal Supremo 28 febbraio 2006 n. 197, che «el beneicio de la redención de penas por el trabajo consagrado en el art. 100 CP 1973 ha de aplicarse no a ese máximo de cumplimiento, sino a cada una de las penas impuestas en las diversas condenas, de modo que la forma de cumplimiento de la condena total se producirá del siguiente modo: se principiará por el orden de la respectiva gravedad de las penas impuestas, aplicándose los beneicios y redenciones que procedan con respecto a una de las penas que se encuentre cumpliendo. Una vez extinguida la primera, se dará comienzo a la siguiente, y así sucesivamente, hasta que se alcancen las limitaciones impuestas en la regla segunda del art. 70 del Código penal de 1973. Llegados a este estadio, se producirá la extinción de todas las penas comprendidas en la condena total resultante». Tale decisione è contraria ad un consolidato orientamento dello stesso Tribunal Supremo 1985/1992, 506/1994, 529/1994, 1109/1997, 1458/2002, 1778/2002, 699/2003, 1223/2005. 206. Fra le tante, Tribunal constitutional, 29 marzo 2012 n. 69, Fundamentos jurídicos, § 4, secondo cui «no nos encontramos en el ámbito propio del derecho fundamental consagrado en art. 25.1 CE, que es el de la interpretación y aplicación de los tipos penales, la subsunción de los hechos probados en los mismos y la imposición de la pena en ellos prevista (por todas, SSTC 137/1997, de 21 de julio, FJ 7; 13/2003, de 28 de enero, FJ 3; 229/2003, de 18 de diciembre, FJ 16; 163/2004, de 4 de octubre, FJ 7; 145/2005, de 6 de junio, FJ 4; y 76/2007, de 16 de abril, FJ 4, entre otras muchas), sino en el de la ejecución de una pena privativa de libertad, cuestionándose el cómputo de la redención de penas por el trabajo, sin que de la interpretación sometida a nuestro enjuiciamiento se derive ni el cumplimiento de una pena mayor que la prevista en los tipos penales aplicados, ni la superación del máximo de cumplimiento legalmente previsto. En esa misma línea el 93 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea comunque, il revirement giurisprudenziale in questione non violava il principio di irretroattività della legge penale, poiché si tratta di «una nueva interpretación de la misma que, ciertamente, acoge el criterio de cómputo consagrado expresamente en el art. 78 CP 1995, pero argumentando que tal interpretación era posible a la vista del tenor literal de los arts. 70.2 y 100 CP 1973» e, dunque, non vi è stata un’applicazione retroattiva del sopravvenuto art. 78 c.p. spagnolo 1995. Con ciò escludendo l’equivalenza tra mutamento giurisprudenziale e novella legislativa in rapporto al principio di irretroattività della legge penale (appunto). Ora, la Corte europea207, dapprima, ha superato la questione della sussumibilità della violazione denunciata nell’alveo dell’art. 7 Convenzione EDU, evidenziando che, nel caso concreto, non si tratta di valutare la compatibilità convenzionale della modalità di esecuzione della pena inlitta alla ricorrente (che, come tale, non rientrerebbe nella previsione convenzionale in questione), ma di stimare la liceità convenzionale dell’interpretazione giurisprudenziale del Tribunal Supremo ai ini della efettiva determinazione della pena applicata. Risolta in senso positivo la questione dell’applicabilità in astratto dell’art. 7 Convenzione EDU al caso di specie, dunque, la Corte non ha diicoltà nell’afermare che il mutamento nell’interpretazione del Tribunal Supremo (equiparabile, come da giurisprudenza costante in materia, ad una vera e propria novella legislativa) non poteva essere previsto dal reo al momento della commissione dei reati e, pertanto, la Corte di Strasburgo ritiene insoddisfatta l’esigenza di prevedibilità delle applicazioni giurisprudenziali che promana dalla disposizione convenzionale. Tribunal Europeo de Derechos Humanos también viene airmando que las cuestiones relativas a la ejecución de la pena y no a la propia pena, en la medida en que no impliquen que la pena impuesta sea más grave que la prevista por la ley, no conciernen al derecho a la legalidad penal consagrado en el art. 7.1 del Convenio, aunque sí pueden afectar al derecho a la libertad. En este sentido se pronuncia la STEDH de 10 de julio de 2003, Grava c. Italia, § 51, en un supuesto referido a la condonación de la pena citando, mutatis mutandis, Hogben contra Reino Unido, núm. 11653/1985, decisión de la Comisión de 3 marzo 1986, Decisiones e informes [DR] 46, págs. 231, 242, en materia de libertad condicional. Y más recientemente la STEDH de 15 de diciembre de 2009, Gurguchiani c. España, § 31, airma que “la Comisión al igual que el Tribunal han establecido en su jurisprudencia una distinción entre una medida que constituye en esencia una pena y una medida relativa a la ejecución o aplicación de la pena. En consecuencia, en tanto la naturaleza y el in de la medida hacen referencia a la remisión de una pena o a un cambio en el sistema de libertad condicional, esta medida no forma parte integrante de la pena en el sentido del art. 7”». 207. Sulla questione si è pronunciata, dapprima, Corte eur. dir. uomo, Sez. III, 10 luglio 2012, Del Rio Prada c. Regno di Spagna, e successivamente, su richiesta del 22 ottobre 2012, del Governo spagnolo, sulla questione si è pronunciata deinitivamente Corte eur. dir. uomo, Gr. Ch., 21 ottobre 2013, Del Rio Prada c. Regno di Spagna, cit., che ha confermato la violazione dell’art. 7 Convenzione EDU, oltre quella dell’art. 5 § 1 Convenzione EDU. In attesa della decisione della Grande Sezione, l’orientamento dei giudici supremi spagnoli non era stato modiicato, cfr. Tribunal Supremo, Sala de lo Penal, 8 febbraio 2013 n. 101, con nota di F. Mazzacuva, Il Tribunal Supremo spagnolo sulle ricadute interne del caso Del Rio Prada in materia di irretroattività delle modiiche pegiorative del trattamento penitenziario, in www.penalecontemporaneo.it. 94 legalità Per le stesse ragioni, la Corte EDU riscontra anche la violazione dei requisiti di regolarità e legalità (voies légales) della privazione della libertà personale delineati dall’art. 5 Convenzione EDU. La problematica del rapporto tra principio di legalità e mutamento giurisprudenziale in materia penale è stata afrontata anche dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea208, che ha ritenuto applicabile il principio di irretroattività anche alla nuova interpretazione in senso sfavorevole di una norma sanzionatoria, ove la medesima interpretazione non risultasse ragionevolmente prevedibile nel momento della commissione dell’illecito. Il perno centrale dell’equiparazione europea tra novella legislativa e mutamento giurisprudenziale è la prevedibilità (ragionevole) della novità (sia essa pretoria o legislativa) in malam partem per il reo. Anche la Corte costituzionale209 è stata interessata alla questione suddetta, su iniziativa del Tribunale di Torino che ha sollevato il dubbio di legittimità dell’art. 673 c.p.p., nella parte in cui non prevede l’ipotesi di revoca della sentenza di condanna (o di decreto penale di condanna o di sentenza di applicazione della pena su concorde richiesta delle parti) in caso di mutamento giurisprudenziale – intervenuto con decisione delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione – in base al quale il fatto giudicato non è previsto dalla legge come reato210. L’angolazione valutata dalla Corte italiana è diversa rispetto a quella guardata dalle Corti europee, nei casi appena richiamati: la Corte romana si è, infatti, interessata del rapporto tra mutamento giurisprudenziale e retroattività benigna, mentre le Corti di Strasburgo e di Lussemburgo, come visto, hanno valutato la relazione tra il revirement pretorio e l’irretroattività in malam partem, incentrato 208. Corte Giust. Com. Eur., Sez. II, 8 febbraio 2007, C-3/06 P, Groupe Danone c. Commissione, §§ 87-88, secondo cui «il principio di irretroattività delle norme penali è un principio comune a tutti gli ordinamenti giuridici degli Stati membri e fa parte integrante dei principi generali del diritto di cui il giudice comunitario deve garantire l’osservanza. In particolare, l’art. 7, n. 1, della Convenzione europea di salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, stipulata a Roma il 4 novembre 1950, che consacra in particolare il principio di previsione legale dei reati e delle pene (nullum crimen, nulla poena sine lege), può opporsi all’applicazione retroattiva di una nuova interpretazione di una norma che descrive un’infrazione. Ciò avviene, in particolare, nel caso si tratti di un’interpretazione giurisprudenziale il cui risultato non era ragionevolmente prevedibile nel momento in cui l’infrazione è stata commessa, alla luce, in particolare, dell’interpretazione vigente a quell’epoca nella giurisprudenza relativa alla disposizione legale in questione; Corte Giust. Com. Eur., Grande Sezione, 28 maggio 2005, cause riunite C-189/92 P e C-202/02 P, da C-205/02 P a C-208/02 P, C-213/02, Dansk Rørindustri A/S e a. c. Commissione». 209. Corte cost. n. 230 del 2012, pubblicata anche in www.penalecontemporaneo.it con nota di Napoleoni, Mutamento di giurisprudenza e revoca del giudicato: altolà della Consulta a prospettive avanguardistiche di (supposto) adeguamento ai dicta della Corte di Strasburgo. 210. In giurisprudenza contra Cass. pen. Sez. I, 13 luglio 2006, n. 27858; Cass. pen. Sez. I, 11 luglio 2006, n. 27121. 95 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea sulla necessaria conoscibilità preventiva del comportamento punibile, che, come già visto, non è un aspetto che impegna il principio della retroattività in mitius. Ora, la Consulta ha respinto il dubbio costituzionale del giudice remittente, con una decisione ricca di spunti interessanti e di dotte argomentazioni giuridiche211, incentrando sì l’iter motivazionale sul rapporto tra principio di retroattività della lex mitior e giudicato, ma afrontando anche la questione sulla diferenza tra mutamento legislativo e mutamento giurisprudenziale, alla stregua della particolarità nazionale del principio di legalità, rispetto alla deinizione europea e, dunque, in relazione alla dimensione della riserva di legge parlamentare in materia penale consacrata dall’art. 25, co. 2, Cost. In relazione al primo aspetto, la Consulta ha evidenziato, conformemente a quanto già indicato212, che il limite del giudicato per la retroattività benigna trova conforto nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo, che, nel noto caso Scoppola, ha afermato che «si la loi pénale en vigueur au moment de la commission de l’infraction et les lois pénales postérieures adoptées avant le prononcé d’un jugement déinitif sont diférentes, le juge doit appliquer celle dont les dispositions sont les plus favorables au prévenu». La Corte costituzionale passa, poi, a valutare la questione più signiicativa, rispetto al dubbio di costituzionalità sollevato, ma anche più problematica in relazione all’orientamento della giurisprudenza europea, che, come detto, considera il mutamento legislativo equivalente a quello giurisprudenziale, certamente in relazione al principio di irretroattività della legge penale, ma non così per quello di retroattività della lex mitior. L’eccezione rispetto a quest’ultimo principio ofre la sponda, in prima battuta, alla Corte per evidenziare l’insussistenza della norma convenzionale interposta da far valere nel sindacato di cui all’art. 117, co. 1, Cost., in quanto la Corte europea si è sempre occupata del rapporto tra retroattività benigna e mutamento legislativo, non in relazione a quello giurisprudenziale213. A prescindere da tanto, l’equivalenza tra mutamento legislativo e quello giurisprudenziale, secondo i Giudici delle Leggi, comunque, non è ammissibile per il nostro ordinamento, stante le speciiche peculiarità del principio di legalità previsto dall’art. 25, co. 2, Cost., con particolare riferimento alla dimensione della riserva di legge, sconosciuta all’art. 7 Convenzione EDU. La Corte delle Leggi, 211. Romoli, Prime annotazioni a Corte cost. n. 230 del 2012. La legalità penale: Strasburgo e il “vallo italico”, in Arch. pen., 2013; Ruggeri, Penelope alla Consulta: tesse e sila la tela dei rapporti con la Corte EDU, con signiicativi richiami ai tratti identiicativi dell’ordine interno e distintivi rispetto alla struttura dell’ordine convenzionale (“a prima lettura” di Corte cost. n. 230 del 2012), in www.giurcost.org. 212. Infra § III.3. 213. Manes, Il giudice nel labirinto, cit., 33, evidenzia il falso sillogismo dell’incidente costituzionale. 96 legalità inoltre, rivendica il maggior pregio dell’opzione politico-istituzionale alla base del nostro assetto democratico tout court: in tale prospettiva, infatti, il principio di riserva di legge «demanda il potere di normazione in materia penale – in quanto incidente sui diritti fondamentali dell’individuo, e segnatamente sulla libertà personale – all’istituzione che costituisce la massima espressione della rappresentanza politica: vale a dire al Parlamento, eletto a sufragio universale dall’intera collettività nazionale […], il quale esprime, altresì, le sue determinazioni all’esito di un procedimento – quello legislativo – che implica un preventivo confronto dialettico tra tutte le forze politiche, incluse quelle di minoranza, e, sia pure indirettamente, con la pubblica opinione». Da ciò, il carattere democratico del principio di legalità previsto dall’art. 25, co. 2, Cost. costituisce un’insormontabile causa ostativa (controlimite) all’equivalenza tra diritto scritto e diritto giurisprudenziale previsto dall’art. 7 Convenzione EDU, come interpretato dalla Corte di Strasburgo, così ribadendosi la posizione subordinata del diritto convenzionale europeo alla Costituzione. Va fatta una necessaria distinzione. L’interpretazione giurisprudenziale è sempre prevedibile, o almeno così dovrebbe essere, alla stregua proprio del principio di legalità, sotto il proilo delle dimensioni correlate della determinatezza e della tassatività. Nel senso che l’esegesi di un testo legislativo non può andare mai oltre il signiicato letterale delle espressioni utilizzate dal legislatore, che, per principio, sono chiare e precise (determinatezza) e, dunque, vincolanti nella lettura applicativa giurisprudenziale (tassatività). Da ciò, l’interpretazione giurisprudenziale non ha (o, meglio, non dovrebbe) mai avere un carattere innovativo, come può essere la formulazione di una norma penale, da parte del legislatore, ma il giudice si limita a fornire una lettura di una norma necessariamente già esistente. Da questa chiara evidenza è necessario constatare che non è possibile distinguere il diritto, in quello legislativo ed in quello giurisprudenziale, ma le due componenti vanno coordinate in una res unica, che non è solo la legge, che non è solo la giurisprudenza. Le Sezioni Unite penali214, a tal proposito, hanno signiicativamente precisato che «il processo di conoscenza di una norma presuppone, per così dire, “una relazione di tipo concorrenziale” tra potere legislativo e potere giudiziario, nel senso che il reale signiicato della norma, in un determinato contesto socio-culturale, non emerge unicamente dalla mera analisi del dato positivo, ma da un più complesso unicum, che coniughi tale dato con l’atteggiarsi della relativa prassi applicativa. Il giudice riveste un ruolo fondamentale nella precisazione dell’esatta portata della norma, che, nella sua dinamica operativa, vive attraverso l’interpretazione che ne viene data. La struttura necessa- 214. Cass. pen. Sez. Unite (ud. 21 gennaio 2010) 13 maggio 2010, n. 18288. 97 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea riamente generica della norma è integrata e riempita di contenuti dall’attività “concretizzatrice” della giurisprudenza»215. La necessaria conoscibilità o prevedibilità che pare assorbire il principio di legalità, nell’interpretazione europea, o se si vuole, in chiave domestica, quello di colpevolezza in relazione all’aidamento su un consolidato orientamento giurisprudenziale216, dunque, non riguarda la norma positiva, ma quella vivente, ovvero la norma efettivamente applicata. Pertanto, il revirement giurisprudenziale non può non incidere sull’applicazione del diritto penale, al pari della novella legislativa. Non pare che tale lettura possa pregiudicare, come autorevolmente indicato dalla Corte costituzionale, il carattere democratico della legalità previsto dall’art. 25, co. 2, Cost., ovvero l’assetto della separazione dei poteri statuali, poiché la legge è pur sempre l’unica fonte del diritto. Ora, possiamo trarre delle prime conclusioni. Prima d’ogni altro, nulla quaestio sulla necessaria applicazione del revirement giurisprudenziale in senso favorevole al reo, prima del giudicato, conformemente al ruolo nomoilattico delle Supreme Magistrature. Il mutamento giurisprudenziale in senso favorevole al reo, invece, alla stregua di quanto indicato dall’art. 2, co. 4, c.p., in linea, come visto, con la lettura interpretativa europea (artt. 7 Convenzione EDU e 49 Carta), trova un limite insormontabile nel principio di intangibilità del giudicato. Ma su tale aspetto si tornerà più avanti. Il mutamento giurisprudenziale in malam partem, invece, deve portare a più approfondite rilessioni. Il revirement incide sulla prevedibilità della punizione, come indicato dalle Corti europee (e non solo), al tempo della relativa commissione, nel senso che la conoscibilità del divieto rende responsabile il cittadino. Però tale argomentazione sembra spostare la rilevanza del mutamento giurisprudenziale, dal piano della legalità, a quello della personalità, nella sua concezione normo-costituzionale217 disegnata anche sulla storica sentenza della Corte romana n. 364 del 1988, con particolare riferimento ai rapporti tra Stato e cittadino e l’inquadramento della giustizia penale all’interno di un prisma di doveri costituzionali, gravanti sullo Stato e sul cittadino, reciproci e istituzionali218. 215. Calamandrei, Elogio dei giudici scritto da un avvocato, IX Ristampa, Milano, 2012, 11, in cui l’A. deinisce il giudice come «il diritto fatto uomo». 216. Canestrari, Cornacchia, De Simone, Manuale di diritto penale, cit., 626. 217. Canestrari, Cornacchia, De Simone, Manuale di diritto penale, cit., 192. 218. Canestrari, Cornacchia, De Simone, Manuale di diritto penale, cit., 192, secondo cui vi sono, da un lato, i doveri dello Stato (principio di legalità in tutte le sue dimensioni), il cui rispetto legittima la minaccia della pena. Dall’altro, i doveri del cittadino (doveri solidaristici e strumentali di informazione, di acquisire conoscenza dei valori dell’ordinamento), volti a potersi orientare in modo responsabile. 98 legalità In quest’ottica, dunque, appare evidente la rilevanza del mutamento giurisprudenziale nell’applicazione della legge penale, in quanto la consolidata giurisprudenza che concretizza il precetto legislativo nell’alveo fenomenico, necessariamente orienta i comportamenti dei cittadini, guida le loro scelte, ammette o esclude il rimprovero penale. Del resto, secondo la topica giuridica o teoria dell’argomentazione219, costola del consensualismo220, il giudice, per decidere il caso concreto, mette mano agli argomenti disponibili (topoi), tra opinioni dottrinali, precedenti giurisprudenziali, disposizioni legislative, per raggiungere una soluzione più condivisibile, non solo, per le parti, ma soprattutto per l’opinione pubblica, in un contesto democratico come indicato dalla stessa Corte costituzionale (n. 230 del 2012). La legge, dunque, costituisce uno degli argomenti considerati dal giudice nel formulare la regola di diritto da applicare al caso concreto. Senza giungere al limite propugnato da tale teoria della critica al normativismo, che troverebbe un insormontabile ostacolo (per il nostro ordinamento) nelle previsioni fondamentali di cui agli artt. 25, co. 2, e 101 Cost., è indubbio che la legge, nella concreta punizione del comportamento del cittadino, costituisce un argomento necessario e propedeutico al pronunciamento di colpevolezza (o meno) del giudice, che, per giungere alla decisione, fa leva su altri argomenti inalizzati alla condivisione della punizione o assoluzione221. La motivazione del provvedimento giudiziale, il controllo di tale motivazione da parte del giudice superiore, ino a quello di mera legittimità, il processo pubblico, sono sintomatici della necessità di consenso del giudizio di colpevolezza (o di assoluzione). Necessità di consenso che esprime almeno uno dei caratteri della democrazia. In questo senso, il diritto giudiziario, utilizzando nella formulazione della regola da applicare al caso concreto il topoi legislativo, e ricercando il consenso nella decisione adottata, è democratico222. 219. Opere classiche di orientamento topico, cfr. Viehweg, Topik und Jerisprudenz, 1953; Esser, Grundsatz und Norm in der rechtlichen Fortbildung des Privatrechts, 1956. 220. Il consensualismo ha avuto un impatto maggiore nella teoria della legittimazione politica e giuridica, cfr. Habermass, Vorstudien und Erganzungen zueiner Theorie des kommunikativen Handelns, Frankfurt am Main, 1984, secondo cui il consenso ideale si raggiunge attraverso un ipotetico dialogo di tutti con tutti, libero da dominio; Rawls, A theory of justice, Oxford, 1972, secondo cui il consenso si raggiunge attraverso un’ipotetica negoziazione in condizioni di uguaglianza delle opportunità. 221. Hespanha, Introduzione alla storia del diritto europeo, cit., 304-305, secondo cui «la topica sembra rappresentare una prospettiva abbastanza adeguata per analizzare la funzione odierna del giudicare, in cui il giudice dipende, per dovere d’uicio e per condizione professionale, dai criteri di valutazione dello Stato espressi nella legge, ma non meno dall’inluenza e dal controllo dell’opinione pubblica, potenziati dai media. Da un lato egli è oggetto delle molteplici inluenze valutative provenienti dalla società (da una società pluralista e comunicativa). Dall’altro, la sua visibilità mediatica lo assoggetta alle reazioni dell’opinione pubblica alle sue decisioni». 222. Su tale aspetto si tornerà più avanti dopo aver esaminato, in maniera più approfondita, 99 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea Da ciò, non può non avere alcuna rilevanza il revirement giurisprudenziale in malam partem. Certamente non è colpevole il cittadino che orienti i propri comportamenti conformemente al diritto vivente, ovvero all’interpretazione consolidata della legge penale nel momento storico in cui il fatto è stato commesso. La nuova interpretazione giurisprudenziale, seppur facendo leva sulla stessa formulazione della legge, ha necessariamente preso in considerazione altri argomenti, nuovi o modiicati, secondo la connaturata evoluzione socio-culturale, non conoscibili dal cittadino, all’epoca del fatto. Pertanto, l’overrulling non può essere applicato nel caso concreto realizzato prima del nuovo orientamento giurisprudenziale. A questo punto, si può giungere ad una rilessione riepilogativa. Il mutamento giurisprudenziale, dunque, più che incidere sulla legalità, si appunta sulla colpevolezza, che è il giudizio storico sul comportamento tenuto dal reo, che nonostante la legge posta così come letta dalla giurisprudenza, si è comunque determinato a violare il precetto (vivente) punitivo. Pertanto, il mutamento giurisprudenziale in malam partem, intervenuto dopo la commissione del fatto, determina (anzi, impone) il proscioglimento del reo perché il fatto non costituiva reato (assenza di colpevolezza). Ugualmente, il revirement giurisprudenziale in bonam partem, intervenuto sempre dopo la commissione del fatto, determina il proscioglimento del reo perché il fatto non costituisce reato. Successivamente al giudicato, il mutamento giurisprudenziale, sia in malam, che in bonam partem, non può determinare la revisione del processo (rectius, del giudizio di colpevolezza). Agevolmente per il revirement in malam partem, stante il principio del ne bis in idem (prioritariamente). Mentre per il mutamento benigno, non solo, in virtù del principio di intangibilità del giudicato di colpevolezza, limite europeo anche al principio di reatroattività in mitius, ma soprattutto per la necessità democratica per cui la cessazione degli efetti penali della condanna necessiti di una chiara espressione legislativa parlamentare, che stigmatizzi la modiica socio-culturale dell’attribuzione di un certo disvalore ad un determinato comportamento (eventualmente già anticipato dalla giurisprudenza), argomentando dalla necessità dell’intervento parlamentare per i più ampi provvedimenti di clemenza (amnistia ed indulto). La legge parlamentare è, dunque, prologo del giudizio di colpevolezza e, necessariamente, epilogo dello stesso, nel senso che non vi può essere alcuna pronuncia giudiziale di condanna senza la legge penale (nullum iudicium sine lege) ed, inversamente, non vi può essere alcuna pronuncia di cessazione degli efetti penali di una condanna senza la legge che ammetta la revisione (in senso lato) la legittimazione del giudice comune alla disapplicazione della norma interna in contrasto con quella europea. 100 legalità del giudizio di colpevolezza (non abolitio sine lege). Per il momento arrestiamo qui ogni ulteriore rilessione, rimandandola a dopo aver analizzato i limiti imposti all’interpretazione giurisprudenziale delle norme penali interne in relazione al diritto europeo. Altra rilessione riguarda il ruolo dei Tribunali costituzionali nazionali rispetto all’impetuosa giurisprudenza europea, che spesso supera le letture interpretative oferte dai giudici domestici. Tale efetto, che come si vedrà, è recentemente giunto al (prevedibile) epilogo223, è dovuto all’evidente circostanza che le Corti europee si collocano in una posizione estranea al circuito della divisione dei poteri, così da non essere vincolate al limite derivante dal rispetto delle diverse funzioni statuali tradizionali (legislativa, esecutiva e giudiziaria). Collocazione che, come in più occasioni evidenziato, è riiutata dai Tribunali costituzionali nazionali, sulla scorta della riconosciuta supremazia della discrezionalità (ragionevole) del legislatore democratico. Il difetto della riserva di democraticità del principio di legalità europeo consente alla giurisprudenza europea (soprattutto, convenzionale) di ius dare, come necessaria interprete dei cambiamenti socio-culturali, in mancanza di un organo democratico che rappresenti le mutate (e mutevoli) esigenze della collettività. Efetto che si evidenzia anche a livello unionista europeo, come visto, laddove il Trattato di Lisbona (per ciò che interessa l’indagine preposta, ma anche in altri settori) ha positivizzato la giurisprudenza della Corte di Giustizia circa la competenza penale mediata (obblighi di penalizzazione e obblighi di risultato). La mancanza di un legislatore (convenzione europea) o la presenza di un legislatore democraticamente debole ammette la supplenza della giurisprudenza nell’opera di aggiornamento e/o evoluzione del diritto. Ed è qui la soferenza vissuta dai Tribunali costituzionali nazionali, rispetto all’invadenza delle Corti europee: i Tribunali costituzionali, infatti, sono organi di controllo degli atti dei poteri statuali, a cui sono istituzionalmente devoluti i poteri di amministrazione ed adeguamento delle esigenze collettive, con l’efetto di abiurare la supplenza, non solo, dei Tribunali costituzionali, ma anche di un potere sull’altro224. Tale problematica è ancora più vivida ove si consideri la tendenza del giudice comune ad utilizzare la giurisprudenza europea come un argomento centrale delle proprie decisioni, saltando il giudice costituzionale, con l’evidente efetto che azzerando la distinzione tra giudice domestico comune e giudice europeo, 223. Infra § IV.2. 224. Il conlitto tra il potere giudiziario e quello politico (in genere), che è vissuto in Italia, è iglio del deicit di interpretazione e rappresentazione delle esigenze collettive da parte del mondo politico. La supplenza dei giudici è frutto della crisi di rappresentatività politica e, dunque, di debolezza del Parlamento. In dottrina, da ultimo, cfr. Tega, I diritti in crisi, cit., 28 ss., secondo cui «l’internazionalizzazione del diritto costituzionale pare anche essere uno dei fattori di erosione della separazione tra diritto legislativo e diritto giudiziario». 101 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea in una prospettiva di pluralismo giuridico, si indebolisce l’idea di democrazia225, poiché, come già detto, le Corti sovranazionali sono prive di legittimazione democratica, riconosciuta ai giudici nazionali dalla stessa comunità politica di relativa espressione ed appartenenza. Questo ruolo del giudice domestico pone in seria crisi l’idea di sovranità nazionale e la stessa separazione dei poteri226, ancora più evidente nell’ipotesi di incontrollato utilizzo della c.d. interpretazione conforme, su cui si dirà a breve. IV.2. Il conlitto tra norma europea e norma interna: il primato del diritto europeo e l’europeizzazione dei controlimiti. I principi identitari e strutturali costituzionali come parametri dell’esclusivo sindacato di legittimità del diritto europeo da parte della Corte di Lussemburgo. Dalla coordinazione di sistemi autonomi e diversi al sistema sinergico unico e generale. Difusamente, nelle pagine che precedono, si è accennato al primato del diritto europeo su quello interno nazionale e, nell’ipotesi di conlitto, la necessità di disapplicare la norma interna in favore di quella comunitaria. Dopo, dunque, aver appuntato l’attenzione sulle ipotesi di conlitto (radicale), è ora il momento di afrontare, seppur nei limiti del tema d’indagine, le ragioni della necessaria supremazia comunitaria e la sua efettiva implementazione nell’ordinamento nazionale, attraverso la disapplicazione o inapplicazione della norma interna in conlitto. Con sviluppi inaspettati. Il diritto comunitario, in sé, tende al ravvicinamento e all’uniicazione dei diritti nazionali, al ine di consentirne la coesistenza tramite un’esigenza di compatibilità secondo una logica di equivalenza (e non di uniformazione) determinata in sede europea, a cui le regole nazionali devono tendere (standards normativi europei)227, non potendo, dunque, ammettere che esistano norme nazionali in grado di resistere alla primauté comunitaria. Tale riconosciuta caratteristica del diritto europeo è stata elaborata dalla Corte di Giustizia delle Comunità Europee, sin da quando la Comunità ha iniziato a muovere i primi passi, sulla base di una necessità, che si può deinire, esistenziale 225. Tega, I diritti in crisi, cit., 38, con richiamo al dibattito sulla giuridiicazione nei sistemi di common law. 226. Tega, I diritti in crisi, cit., 32, la quale evidenzia che «se la costruzione tradizionale di Stato, secondo il c.d. modello Westfalia, è basata sulla nozione di sovranità che si organizza attraverso il criterio gerarchico in primis ponendo al centro e a chiusura del sistema una Corte costituzionale o il Parlamento, al contrario, il sistema pluralista sembra fondarsi su una sorta di sovranità decentrata, dove i vari livelli di protezione dei diritti, tra loro disomogei data la diversità degli strumenti apportati, sono ricondotti ad unum attraverso l’attività dei giudici (l’immagine è di Ost-van de Kerchove, De la pyramide au réseau? Pour une théorie dialectique du droit, Bruxelles, 2002). In questa prospettiva emergerebbe, attraverso la progressiva erosione dei dogmi della sovranità legislativa e del controllo di costituzionalità una sorta di utopico cosmopolitismo giuridico». 227. Epidendio, Diritto comunitario e diritto penale interno, cit., 37, 38. 102 legalità delle istituzioni comunitarie, ancorata all’esegesi della norma pattizia che regola il sistema delle fonti normative europee (art. 288 TUE, già art. 249 TCE, già art. 189 TCE). Ed invero, i giudici europei228, nell’interpretazione di tale norma pattizia, hanno evidenziato che «cette disposition, qui n’est assortie d’aucune reserve, serait sans portee si un etat pouvait unilateralement en annihiler les efets par un acte legislatif opposable aux textes communautaires, in quanto le droit ne du traite ne pourrait don, en raison de sa nature speciique originale, se voir judiciairement opposer un texte interne quel qu’il soit, sans perdre son caractere communautaire ed sans que soit mise en cause la la base juridique de la communaute elle-meme». Già in tale decisione emerge limpidamente che nessun tipo di atto nazionale, nemmeno di rango costituzionale, può resistere al diritto comunitario. È un orientamento consolidato dei giudici europei a cui quelli costituzionali nazionali hanno resistito elaborando la c.d. teoria dei controlimiti229, che, con acuta sintesi, è stata deinita come «il punto di cerniera e di cesura allo stesso tempo tra i due ordinamenti»230, ovvero, rispettivamente, da un lato, perché «volta a rivendicare la primazia dei principi supremi dell’ordine costituzionale dello Stato, rendendoli impermeabili alla penetrazione comunitaria», dall’altro, perché la stessa «funge da inattiva valvola di sicurezza che, per il solo fatto di essere presente, giustiica nel senso inverso una larga tolleranza delle Costituzioni nazionali nei confronti della normativa dell’Unione, quand’anche in conlitto con disposizioni superprimarie prive del carattere della supremazia, e comunque non attinenti al nucleo essenziale dei diritti inviolabili dell’uomo». 228. Corte Giust. Com. Eur., 15 luglio 1964, C-6/64. 229. Su tale aspetto, la letteratura è molto ampia, Cartabia, Principi inviolabili ed integrazione europea, Milano, 1995, 130 ss; Ruggeri, Trattato costituzionale, europeizzazione dei “controlimiti” e tecniche di risoluzione delle antinomie tra diritto comunitario e diritto interno (proili problematici), in www. forumcostituzionale.it; Gambino, I diritti fondamentali dell’Unione europea fra “Trattati” (di Lisbona) e Costituzione, in www.federalismi.it; Lupo, Pluralità delle fonti ed unitarietà dell’ordinamento, in Falletti, Piccone (a cura di), Il nodo gordiano tra diritto nazionale e diritto europeo, Bari, 2012, 8; Villani, I “controlimiti” nei rapporti tra diritto comunitario e diritto italiano, Diritto comunitario e diritto interno, atti del seminario svoltosi in Roma, Palazzo della Consulta, 20 aprile 2007, Milano 2008, 493; Tizzano, Ancora sui rapporti tra Corti europee: principi comunitari e c.d. controlimiti costituzionali, in ibid., 479; Donati, Corte costituzionale, “controlimiti” e rinvio pregiudiziale ex art. 234 trattato CE, in ibid., 250; Onida, Nuove prospettive per la giurisprudenza costituzionale in tema di applicazione del diritto comunitario, in ibid., 66; Celotto, Groppi, Diritto UE e diritti nazionali: Primauté vs. controlimiti, in RIDPC, 2004, 1309; Cardone, Diritti fondamentali (Tutela multilivello dei), in Enc. Dir. Ann. IV, 2011, 335 ss; Morbidelli, Corte costituzionale e Corti europee: la tutela dei diritti (dal punto di vista della Corte del Lussemburgo), in DPA, 2006, 332; Camerlengo, Contributo ad una teoria del diritto costituzionale cosmopolitico, Milano, 2007, 259 ss; Mangiameli, Unchangeable core elements of National constitutions and the processo of European integration. For the criticism to the theory of the “controlimiti” (counterlimits /Shranken-Shranken). Elementi essenziali immutabili delle costituzioni nazionali e il processo di integrazione europe. Per una critica alla teoria dei “controlimiti” (counterlimits /Shranken-Shranken), in Teoria del diritto e dello Stato, 2010, I, 68 ss.; Lamarque, Corte costituzionale e giudici nell’Italia repubblicana, Bari, 2012, 137 ss. 230. Bignami, I controlimiti nelle mani dei giudici comuni, in www.forumcostituzionale.it. 103 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea È noto, comunque, che il controlimite non ha trovato alcuna applicazione concreta, nonostante reiterate enunciazioni conformi ai precedenti sul piano teorico231, in quanto, in un contesto di progressiva apertura della Corte di Giustizia alla tutela dei diritti dell’uomo, iltrata dalla ricezione delle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, l’ipotesi del controllo nazionale sull’atto comunitario in termini di controlimite viene resa ulteriormente residuale dagli spazi di intervento preventivo con cui i giudici lussemburghesi, anche per mezzo del rinvio pregiudiziale, possono disinnescare il potenziale conlitto, caso per caso232. L’abdicazione sostanziale del controllo di legittimità della norma europea in favore della Corte lussemburghese è la ragione per cui si ritiene che proprio la teoria dei controlimiti signiica il momento di cesura tra i due ordinamenti. E, dall’altro, giustiica lo scetticismo maturato in dottrina su tale teoria, ino ad invocarne il deinitivo superamento233 dovuto all’assorbimento dei controlimiti nel tessuto ordinamentale europeo, conseguente all’art. 4, § 2 TUE234, nella parte in cui vincola l’Unione al rispetto delle identità nazionali degli Stati membri, insita nella loro struttura fondamentale, politica e costituzionale. Identica funzione è stata riconosciuta anche alla clausola sul maggior livello di protezione dei diritti contenuta nell’art. 53 Carta, che salvaguardia il più favorevole ambito applicativo delle libertà eventualmente vigente in seno, tra l’altro, alle Costituzioni degli Stati membri. Si è parlato, dunque, di europeizzazione dei controlimiti235, nel senso che le previsioni fondamentali europee appena richiamate sottraggono ai tribunali costituzionali nazionali la tutela, non solo, dei diritti fondamentali dell’uomo, ma anche dei principi inderogabili che caratterizzano l’identità nazionale, rispetto alle norme europee, attribuendone la relativa tutela (ed individuazione) alla Corte di Giustizia. In altri termini, la norma europea (derivata) può essere sindacata unicamente innanzi alla Corte di Giustizia che avrà l’onere di veriicarne la legittimità con il diritto unionista pattizio positivo, anche in relazione ai quei principi che caratterizzano l’identità costituzionale interna, che, proprio in virtù di quanto previsto dagli artt. 4, § 2, 6 TUE e 67, co. 1, TFUE (per la materia 231. Sorrentino, Il diritto europeo nella giurisprudenza della Corte costituzionale: problemi e prospettive, in www.cortecostituzionale.it. Tra le pronunce della Corte, si vedano ad esempio, la sentenza n. 169 del 1991 e l’ordinanza n. 454 del 2006. 232. Cartabia, La Corte costituzionale e il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia europea, in Zanon (a cura di), Le Corti dell’integrazione europea e la Corte costituzionale italiana, Napoli, 2006, 99 ss., ed in particolare 120; Barbera, I (non ancora chiari) “vincoli” internazionali e comunitari nel primo comma dell’art. 117 della Costituzione, in Diritto comunitario e diritto interno, Atti del Seminario, Roma, Palazzo della Consulta, 20 aprile 2007, 107; Pace, La sentenza Granital, ventitré anni dopo, in ibid., 405 ss., ed in particolare 417; Caretti, Corte e rinvio pregiudiziale, in ibid., 142 ss. 233. Villani, I controlimiti nei rapporti tra diritto comunitario e diritto italiano, cit., 509 ss. 234. Ma anche gli artt. 6 TUE e 67, co. 1, TFUE. 235. Gambino, Identità costituzionali nazionali e primautè eurounitaria, in QC, 2012, XXXII, 9, 3. 104 legalità penale, ad esempio), sono elevati a parametri di controllo della legittimità degli atti europei. Da ciò, è stato osservato236 che la struttura di ogni Stato godrebbe di una più intensa ed eicace tutela rispetto a qualche anno addietro e, dunque, di una protezione raforzata, potendo l’eventuale atto lesivo essere riguardato da una sentenza di annullamento della Corte di Lussemburgo. La questione è stata afrontata expressis verbis dalla Corte di Giustizia in una recente pronuncia237, almeno con riferimento alla tutela dei diritti. Il Tribunal Constitucional spagnolo, con decisione del 9 giugno 2011, ha spiegato incidente pregiudiziale ai sensi dell’art. 267 TFUE, in relazione ad un procedimento in cui l’Audiencia Nacional aveva autorizzato la consegna di Stefano Melloni alle autorità italiane ai ini dell’esecuzione di una sentenza di condanna contumaciale inlittagli dal Tribunale di Ferrara. In particolare, la questione pregiudiziale verte sull’interpretazione, ed eventualmente sulla validità, dell’articolo 4-bis, § 1, della decisione-quadro 2002/584/GAI del Consiglio, del 13 giugno 2002, relativa al mandato d’arresto europeo e alle procedure di consegna tra Stati membri, come modiicata dalla decisione-quadro 2009/299/GAI del Consiglio, del 26 febbraio 2009 ed, in particolare, il Tribunal Constitucional invita la Corte a valutare, se del caso, se uno Stato membro possa riiutarsi di eseguire un mandato d’arresto europeo sulla base dell’art. 53 Carta a motivo della violazione dei diritti fondamentali della persona in questione, garantiti dalla Costituzione nazionale. I giudici costituzionali spagnoli hanno considerato l’interpretazione secondo la quale l’art. 53 Carta autorizzerebbe in maniera generale uno Stato membro ad applicare lo standard di protezione dei diritti fondamentali garantito dalla sua Costituzione quando questo è più elevato di quello derivante dalla Carta e ad opporlo all’applicazione di disposizioni di diritto dell’Unione. Una simile interpretazione permetterebbe, in particolare, a uno Stato membro di subordinare l’esecuzione di un mandato d’arresto europeo emesso ai ini dell’esecuzione di una decisione pronunciata in absentia a condizioni inalizzate ad evitare un’interpretazione limitativa dei diritti fondamentali riconosciuti dalla propria Costituzione o lesiva degli stessi, anche se l’applicazione di tali condizioni non fosse autorizzata dall’articolo 4-bis, § 1, della decisione quadro 2002/584. Le conclusioni rassegnate dall’Avvocato Generale (Bot) hanno, dapprima, evidenziato che se la clausola di salvaguardia del maggior livello di protezione del diritto, prevista dall’art. 53 Carta, possa permettere l’applicazione del diritto nazionale a discapito della norma europea (come punto di equilibrio e standard di equivalenza), si arriverebbe al depotenziamento dell’art. 53 Carta in modo assoluto, giacché esso viene ridotto a pleonastica garanzia circa la sopravvivenza delle liber- 236. Randazzo, I controlimiti al primato del diritto comunitario: un futuro non diverso dal presente?, cit. 237. Corte Giust. Un. Eur., Grande Sez., 26 febbraio 2013, C-399/11, Melloni c. Spagna. 105 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea tà costituzionali nazionali, purché non ne venga alterato l’equilibrio comunitario (punto 125). In secondo luogo, l’Avvocato Generale ha evidenziato la competenza della Corte di Giustizia ad utilizzare le disposizioni fondanti l’identità costituzionale dello Stato membro per sindacare la norma europea (punti 140-142). La Corte di Giustizia, in conformità a quanto sostenuto dall’Avvocato Generale, ha respinto l’impostazione del Tribunal spagnolo, poiché «lesiva del principio del primato del diritto dell’Unione, in quanto permetterebbe a uno Stato membro di ostacolare l’applicazione di atti di diritto dell’Unione pienamente conformi alla Carta, sulla base del rilievo che essi non rispetterebbero i diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione di tale Stato» e, seppur richiamando la primautè comunitaria anche in relazione alle norme interne di rango costituzionale, si limita, però, ad afermare che se è vero che «l’articolo 53 della Carta conferma che, quando un atto di diritto dell’Unione richiede misure nazionali di attuazione, resta consentito alle autorità e ai giudici nazionali applicare gli standard nazionali di tutela dei diritti fondamentali», è anche vero, comunque, che «tale applicazione non deve compromettere il livello di tutela previsto dalla Carta, come interpretata dalla Corte, né il primato, l’unità e l’efettività del diritto dell’Unione». La lettura correttiva oferta dai giudici lussemburghesi dell’art. 53 Carta non è bilanciata dal principio della osservanza da parte dell’Unione stessa dei principi di struttura degli ordinamenti di ciascun Stato membro e non solo delle tradizioni costituzionali comuni (art. 4 TUE), ma appare evidente l’efetto anche sul rapporto tra ordinamento comunitario ed ordinamento nazionale, che si è già deinito, coordinato tra sistemi giuridici autonomi e diversi238. A ben guardare, la coordinazione tra gli ordinamenti è divenuta sinergia con l’avvento di un sistema generale, unico e complesso, di tutela dei diritti (e non solo), già annunciato dai giudici comuni nazionali e stigmatizzato in una pronuncia della nostra Corte costituzionale (n. 264 del 2012), come già evidenziato. Il sistema sinergico europeo poggia sugli artt. 4 e 6 TUE, ma anche sull’art. 67 TFUE, per la materia penale (e non solo), essendo capace di garantire il rispetto dei diritti fondamentali della persona umana e quelli strutturali ed identitari di ciascun Stato membro, da sé, senza il controllo particolare di ciascun Tribunale costituzionale interno. Il controllo sistemico dei diritti, che deve includere anche quello delle identità nazionali, ofre una più penetrante tutela degli stessi, rispetto a quella che può essere garantita a livello particolare, anche al ine di evitare un diverso grado di tutela per ciascun cittadino europeo e, simmetricamente, garantire l’uguaglianza fra i cittadini europei. 238. Sul punto, Avvocato Generale, in Conclusioni, punto 143, precisa che «la considerazione degli elementi distintivi che caratterizzano gli ordinamenti giuridici nazionali fa parte dei principi che devono guidare la costruzione di uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia». 106 legalità La decisione della Corte di Giustizia che si commenta ha l’efetto immediato di mettere ordine nel riparto sul sindacato di legittimità del diritto europeo: i Giudici lussemburghesi hanno competenza esclusiva sul diritto europeo anche in relazione alla compatibilità dello stesso con i principi che caratterizzano l’identità nazionale di ciascun Stato membro, con l’efetto che alcuna norma comunitaria potrà essere sindacata innanzi alle Corti costituzionali nazionali, anche solo indirettamente, con la veriica del rispetto dei controlimiti identitari e strutturali. I Tribunali costituzionali nazionali avranno competenza solo sul rispetto da parte delle norme interne della primautè delle norme europee non direttamente applicabili. L’avocazione europea del controllo del rispetto comunitario delle identità nazionali signiica il passo avviato dalla mera associazione tra Stati (Staatenverbund) alla stessa statalizzazione dell’Unione Europea, che garantisce così la tutela eurounionista alla diversità nazionale come aspetto che caratterizza la nuova struttura unitaria. Un passo anticipato dai giudici centrali europei che pone non pochi problemi rispetto all’assetto politico unionista che, come indicato anche dal Bundesverfassungericht, nella più volte richiamata sentenza Lissabon, ha un grado di democrazia corrispondente allo stadio dell’integrazione, con l’efetto ovvio che il passo anticipato dalla Corte europea verso la sinergia degli ordinamenti pone non poche diicoltà sulla necessaria correlazione tra integrazione e livello di democraticità delle istituzioni. In altri termini, invero, si è già detto239 che il Parlamento europeo non ha un’investitura democratica secondo il tradizionale criterio di rappresentatività, poiché non è eletto secondo il principio dell’eguaglianza del voto di cittadini costituenti un unico popolo europeo, ma dai popoli degli Stati membri secondo un criterio di contingentamento dei seggi240. Da ciò, appare evidente che il principio della primautè comunitaria, ribadito dalla Corte di Giustizia nella pronuncia in commento, anche sulle norme di rango costituzionale nazionale, portando ad un controllo centralizzato della compatibilità delle norme europee derivate rispetto anche ai principi strutturali e fondanti ciascun Stato membro, si spinge ben oltre il livello di integrazione scritto nel Trattato di Lisbona, così evidenziandosi ancor di più il deicit democratico delle istituzioni comunitarie e la supremazia (supplente) della trainante giurisprudenza europea. IV.3. L’inapplicazione della norma statuale penale in conlitto con quella europea. Un esempio di rilesso in bonam partem: clandestinità e direttiva rimpatri. I giudici nazionali sono giudici europei, e, pertanto, garantiscono l’applicazione della norma europea in ciascun Stato membro e, nell’ipotesi di dubbio esegetico della 239. Cfr. infra, § II.2. 240. BVerfG,, cit., § 271. 107 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea disposizione sovranazionale, sollevano la questione innanzi alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea (art. 267 TFUE), al ine di favorire l’interpretazione e, dunque, applicazione uniforme del diritto comunitario. Il rispetto della norma europea in conlitto con quella nazionale è assicurata dall’inapplicazione di quella interna, purché la norma europea sia direttamente applicabile o sia dotata di eicacia diretta241. Oltre alla diretta applicabilità, la norma europea non deve produrre efetti sfavorevoli per il reo (e, dunque, solo un efetto in bonam partem), alla stregua della già evidenziata giurisprudenza Kolpinghuis Nijmegen (in base alla quale, come più volte ricordato, una direttiva non può, di per sé sola, determinare o aggravare la responsabilità penale di chicchessia)242. Un recente esempio di inapplicazione della norma penale per conlitto con una direttiva europea, si è registrato nella vicenda del reato di cui all’art. 14, co. 5-ter e 5-quater, d.lgs. 286/1998, in cui la Corte di Giustizia243 ha statuito – in risposta ad un quesito pregiudiziale di interpretazione sottopostole dalla Corte d’Appello di Trento244 – che «la direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 16 dicembre 2008, 2008/115/CE, recante norme e procedure comuni applicabili negli Stati membri al rimpatrio di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare, in particolare i suoi artt. 15 e 16, deve essere interpretata nel senso che essa osta ad una normativa di uno Stato membro, come quella in discussione nel procedimento principale, che preveda l’irrogazione della pena della reclusione al cittadino di un paese terzo il cui soggiorno sia irregolare per la sola ragione che questi, in violazione di un ordine di lasciare entro un determinato termine il territorio di tale Stato, permane in detto territorio senza giustiicato motivo. Una tale pena – prosegue la Corte, facendo proprio un rilievo svolto sia dalla Commissione 241. Diversamente, il contrasto andrà sollevato innanzi alla Corte costituzionale ai sensi degli artt. 11 e 117 Cost. e la norma europea non direttamente applicabile assumerà il ruolo di norma interposta. 242. Cfr. infra, § III.3. Si è già osservato che, comunque, tale principio non può ritenersi applicabile anche in merito alla valutazione di compatibilità comunitaria di una norma penale più favorevole, ma in contrasto con una direttiva direttamente applicabile, in quanto tale principio non può costituire un ostacolo alla reviviscienza, limitatamente ai fatti realizzati sotto la sua vigenza, di una normativa penale nazionale più severa abrogata o modiicata da successivi interventi normativi a carattere interno volti a prevedere una disciplina sanzionatoria comunitariamente inadeguata per difetto o in aperto contrasto. 243. Corte Giust. Un. Eur., 28 aprile 2011, Hassen El Dridi, C-61/11 PPU. 244. La decisione trae origine dal caso di Hassen El Dridi, cittadino di un Paese terzo, detenuto in Italia in regime di custodia cautelare, nei confronti del quale è stata pronunciata in primo grado dal Giudice monocratico di Trento la condanna ad un anno di reclusione, in applicazione dell’art. 14, co. 5-ter, d.lgs. 286/1998. La disposizione, introdotta in Italia nel 2009, disciplina il caso di illecito trattenimento nel territorio nazionale, senza giustiicato motivo, in violazione dell’ordine impartito dal Questore di lasciare lo Stato, prevedendo come pena la reclusione da uno a quattro anni. 108 legalità nelle proprie osservazioni sia dall’Avvocato Generale nelle conclusioni – rischierebbe addirittura di compromettere la realizzazione dell’obiettivo perseguito da detta direttiva, inendo per ostacolare il conseguimento dell’obiettivo dell’allontanamento dello straniero, ritardando l’esecuzione del rimpatrio, cui lo Stato è tenuto in forza della direttiva medesima» (§§ 58-59)245. In altri termini, secondo i giudici lussemburghesi, gli Stati membri, al ine di dissuadere il soggiorno illegale nel loro territorio, sono liberi di adottare misure anche penali, senza però pregiudicare la realizzazione degli obiettivi perseguiti dagli strumenti normativi europei, così da privare questi ultimi del loro efetto utile. La Corte ha utilizzato uno strumento ermeneutico classico, la dottrina dell’efetto utile246, con il conseguente allargamento della competenza europea, a fronte di una compressione delle competenze nazionali, ed in funzione espansiva alla tutela dei diritti247. In conseguenza della declaratoria di incompatibilità comunitaria, i giudici comuni statali, dunque, non solo, hanno disapplicato la disposizione incriminatrice in questione248, ma anche revocato249 le condanne già intervenute ai sensi dell’art. 673 c.p.p.250. La stessa sorte ha subito la normativa francese in materia di immigrazione251. 245. Pugiotto, “Purché se ne vadano”. La tutela giurisdizionale (assente o carente) nei meccanismi di allontanamento dello straniero, in www.associazionedeicostituzionalisti.it, annuario 2009. Lo Statuto costituzionale del non cittadino, 2010, 333 ss. 246. L’efetto utile, quale fondamento ermeneutico dei rapporti tra Stato e Comunità, è stato dapprima afermato con riferimento alle norme del Trattato, poi esteso ai regolamenti ed, inine, seppur con notevoli problematiche, anche alle direttive. Dalla sistematica applicazione dell’efetto utile è nato il più signiicativo istituto comunitario: l’eicacia diretta. 247. Cossiri, La repressione penale degli stranieri irregolari nella legislazione italiana all’esame delle Corti costituzionale e di giustizia, in Quaderni costituzionali, 21 maggio 2011. 248. Trib. Bologna, 5 dicembre 2012; App. Palermo Sez. III, 26 ottobre 2012; Trib. Firenze Sez. II, 4 ottobre 2012. 249. Cass. pen. Sez. I, 29 aprile 2011, n. 20130; Trib. Milano Sez. XI Ordinanza, 29 aprile 2011. 250. Per un approfondimento, Masera, Viganò, Addio Articolo 14, Considerazioni sulla sentenza della Corte di giustizia Ue, 28 aprile 2011, El Dridi e sul suo impatto nell’ordinamento italiano, in www. penalecontemporaneo.it; Id., Inottemperanza dello straniero all’ordine di allontanamento e diretta rimpatri UE: scenari prossimi venturi per il giudice penale italiano, in Cass. pen., 2010, 1711 ss. 251. Corte Giust. Un. Eur., Grande Sez., 6 dicembre 2011, Achughbabian, C-329/11, si è pronunciata sul rinvio pregiudiziale con il quale la Corte d’appello di Parigi aveva sollevato la questione della compatibilità con la direttiva 2008/115/CE (c.d. direttiva rimpatri) dell’art. l. 621-1 del Codice francese dell’ingresso e del soggiorno degli stranieri e del diritto d’asilo, ove è prevista la pena di un anno di reclusione a carico dello straniero che sia entrato o soggiorni illegalmente in Francia. La Corte, dopo avere dato conto della normativa comunitaria e francese rilevante per la soluzione della questione, ribadisce il principio, già afermato nella sentenza El Dridi, per cui la direttiva «non vieta che il diritto di uno Stato membro qualiichi il soggiorno irregolare alla stregua di un reato e preveda sanzioni penali per scoraggiare e reprimere la commissione di sifatta infrazione (§ 28), fermo restando che Stati membri non possono applicare una normativa penale tale da compromettere la realizzazione degli obiettivi perseguiti da tale direttiva e da privare così 109 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea Ma non inisce qui. Il legislatore italiano, con decreto-legge n. 89 del 23 giugno 2011, convertito nella legge n. 129 del 2 agosto 2011, ha modiicato in sanzione pecuniaria le pene per i reati di cui agli artt. 14, co. 5-ter e 5-quater, d.lgs. 286/1998, alla stregua di quanto previsto dall’art. 10-bis d.lgs. 286/1998 (reato di clandestinità)252, anch’esso punito con la sola pena pecuniaria. La ratio legislatoris è chiara: aggirare l’ostacolo dell’incompatibilità comunitaria. Ed in efetti, la Corte di Giustizia253, dapprima conferma la precedente giurisprudenza in materia di direttiva rimpatri, evidenziando che l’art. 10-bis d.lgs. 286/1998 non rallenta, né ostacola la procedura di rimpatrio dello straniero irregolare come disegnata dalla direttiva europea, come del resto evidenzia il co. 5 della norma in questione, il quale dispone che il giudice pronunci sentenza di non luogo a procedere allorché durante il procedimento abbia notizia dell’avvenuta espulsione dello straniero. Ad ogni modo, la Corte europea sottolinea che l’espulsione dello straniero irregolare può essere disposta anche dal giudice penale come sanzione sostitutiva alla pena edittale, ma solo nelle ipotesi tassativamente indicate dall’art. 7, § 4, Dir. 2008/115/CEE ed, in particolare, in caso di pericolo di fuga dello straniero (§ 48). Altro limite correttivo alla norma penale nazionale imposto dai Giudici europei riguarda la convertibilità della pena pecuniaria non eseguita254 in quella della permanenza domiciliare. La Corte ribadisce che gli Stati membri sono tenuti ad eseguire con la massima celerità le decisioni di rimpatrio, se necessario attraverso l’allontanamento coattivo degli stranieri non cooperanti. In linea di principio, pertanto, l’esecuzione di una sanzione di conversione come la permanenza domiciliare255 risulta idonea a ostacolare l’esecuzione dell’allontanamento, in particolare qualora la disciplina nazionale non preveda che l’esecuzione della quest’ultima del suo efetto utile» (§ 33). Sulla base di questa premessa, la Corte ritiene che la possibilità di applicare una pena detentiva allo straniero nel corso della procedura di rimpatrio, in luogo di applicare la misure coercitive previste dalla direttiva, che sono volte a superare gli ostacoli che si frappongono all’esecuzione della decisione di rimpatrio, costituisca una violazione del principio dell’efetto utile, comportando un ritardo nell’esecuzione del rimpatrio (§ 39). 252. Gatta, Il “reato di clandestinità” e la riformata disciplina penale dell’immigrazione, in Dir. pen. proc., 2009, 1323 ss. 253. Corte Giust. Un. Eur., Sez. I, 6 dicembre 2012, Sagor, C-430/11. 254. Sull’inefettività della pena pecuniaria nell’ordinamento italiano, cfr. Dolcini, La pena in Italia, ogi, tra diritto scritto e prassi applicativa, in Studi in onore di Giorgio Marinucci, vol. II, 1099; Goisis, La pena pecuniaria. Un’indagine storica e comparata, Milano, 2008, 131. 255. Viganò, La Corte di giustizia UE su art. 10-bis t.u. Immigrazione e direttiva rimpatri, in www. penalecontemporaneo.it, che, fra l’altro, evidenzia che, «sulla base del tasso di conversione stabilito dall’art. 55 co. 6 d.lgs. 274/2000 – un giorno per ogni 25 euro di pena pecuniaria –, e tenendo conto della misura minima dell’ammenda irrogabile per la contravvenzione in parola – 5.000 euro – la permanenza domiciliare risulta necessariamente pari al massimo legale stabilito dallo stesso art. 55 co. 6, e cioè a 45 giorni, pari a 23 ine settimana». 110 legalità permanenza domiciliare debba cessare a partire dal momento in cui sia possibile realizzare l’allontanamento dello straniero (§ 45). Da ciò, appare evidente che il reato di clandestinità non è incompatibile tout court con le disposizioni europee di riferimento e, dunque, non andrà inapplicato256, anche se il Giudice di Pace non potrà servirsi dell’art. 55 d.lgs. 274/2000 (conversione della pena pecuniaria in permanenza domiciliare) e/o dell’art. 16 d.lgs. 286/1998 (espulsione come sanzione sostitutiva), salve le ipotesi di cui all’art. 7, § 4, dir. 2008/115/CEE257. IV.4. Le fonti europee non direttamente applicabili interferenti con il diritto penale statuale. Il conlitto tra la norma europea ad eicacia diretta e la norma penale, si è visto, impone l’inapplicazione di quella nazionale. Ad ogni modo, le norme comunitarie non direttamente applicabili258 possono anche solo interferire con la norme penali interne attraverso (1) la tecnica della assimilazione per cui le norme comunitarie espandono la portata punitiva della norma penale nazionale e (2) quella della deinizione di elementi normativi della disposizione penale interna259 o sua integrazione. Ora, la tecnica della assimilazione consiste in un modello di normazione mediante rinvio, nel senso che le norme penali nazionali poste a tutela di dati interessi interni vengono estese dalla norma comunitaria a tutelare i corrispondenti interessi comunitari. La combinazione della norma penale interna, con quella europea, conigura una nuova fattispecie incriminatrice, con una struttura di base identica a quella nazionale, ma con un oggetto di tutela allargato come voluto dalla norma comunitaria260. Così, esempliicando, l’agente sarà incriminato per violazione della norma penale interna in combinato disposto con la legge di ratiica ed esecuzione della norma comunitaria o quella derivata. 256. GdP Roma, 16 giugno 2011, Est. Chiassai; GdP Torino, 22 febbraio 2011, Est. Polotti di Zumaglia; contra Cass. pen. Sez. I, 22 novembre 2011, n. 951, secondo cui: «La fattispecie contravvenzionale prevista dall’art. 10 bis del d.lgs. n. 286 del 1998, che punisce l’ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato, non viola la c.d. direttiva europea sui rimpatri (direttiva Commissione CEE 16 dicembre 2008, n. 2008/115/CE), non comportando alcun intralcio alla inalità primaria perseguita dalla direttiva predetta di agevolare ed assecondare l’uscita dal territorio nazionale degli stranieri extracomunitari privi di valido titolo di permanenza e non è in contrasto con l’art. 7, par. 1 della medesima, che, nel porre un termine compreso tra i 7 e 30 giorni per la partenza volontaria del cittadino di paese terzo, non per questo trasforma da irregolare a regolare la permanenza dello straniero nel territorio dello Stato». 257. Tanto è stato confermato anche da Corte Giust. Un. Eur., Sez. III, ord. 21 marzo 2013, Mbaye, C-522/11. 258. A queste, comunque, devono assimilarsi, come si vedrà, le norme europee ad efetto riduttivo del penalmente rilevante, come indicato da Sotis, Il diritto senza codice, cit., 230 ss., su cui ampiamente infra § 10.1. 259. Vinciguerra, Diritto penale italiano, cit., 166. 260. Vinciguerra, Diritto penale italiano, cit., 167. 111 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea Tale tecnica costituisce l’unico modello vigente di normativa penale diretta dell’Unione Europea, a diferenza della competenza in materia penale riconosciuta dal Trattato che, come visto, è mediata o indiretta. Viene utilizzata nella circoscritta area del segreto atomico261 e della giurisdizione comunitaria262. Il modello della assimilazione è stato particolarmente criticato in dottrina per violazione del principio di legalità, sotto il proilo della tassatività-determinatezza e, soprattutto, della riserva di legge. La determinatezza, come già detto, costituisce un aspetto complementare del principio di legalità-tassatività263 ed impone al legislatore di costruire le fattispecie penali formulando in modo chiaro e preciso gli elementi che le compongono. Il rinvio da parte della norma comunitaria alla norma interna, soprattutto laddove impone una soluzione interpretativa per l’individuazione della norma penale applicabile all’ipotesi allargata, stride con tale aspetto della legalità sostanziale. Le ragioni di frizione con la dimensione della riserva di legge di cui all’art. 25, co. 2, Cost. appaiono evidenti. Comunque, l’espansione della rilevanza penale di un fatto attraverso la tecnica in esame può essere giustiicata, nell’alveo del principio di legalità penale vigente nel nostro ordinamento, considerando che il rinvio operato dalle norme dei trattati e dei protocolli è recepito attraverso la legge di ratiica e l’ordine di esecuzione, così rispettandosi certamente la riserva 261. L’art. 194 Tratt. Euratom, dopo aver stabilito che i suoi funzionari, anche quando cessati dai loro compiti, sono tenuti al segreto d’uicio nei confronti di qualsiasi persona non autorizzata, aferma che «ogni Stato membro considera tutte le violazioni di tale obbligo come un attentato ai suoi segreti protetti che, sia per il merito che per la competenza, sono soggetti alle disposizioni della sua legislazione applicabile in materia di attentato alla sicurezza dello Stato ovvero di divulgazione del segreto professionale. Esso procede contro ogni autore di una violazione del genere sottoposto alla sua giurisdizione, su istanza di qualsiasi Stato membro interessato o della Commissione». Con qualche incertezza, comunque, si considera che le norme penali interne che possono tutelare l’interesse indicato nella norma comunitaria in questione sono gli artt. 261 (rivelazione di segreti di stato), 262 (rivelazione di notizie di cui sia stata vietata la divulgazione), 326 (rivelazione e utilizzazione di segreti di uicio) 622 (rivelazione di segreto professionale) e 623 (rivelazione di segreti scientiici o industriali) c.p. 262. L’art. 30 dello Statuto della Corte di Giustizia dell’Unione Europea stabilisce che «ogni Stato membro considera qualsiasi violazione dei giuramenti dei testimoni e dei periti alla stregua del corrispondente reato commesso davanti a un tribunale nazionale giudicante in materia civile. Su denuncia della Corte esso procede contro gli autori di tale reato davanti al giudice nazionale competente». Le norme oggetto del rinvio sono certamente gli artt. 372 (falsa testimonianza) e 373 (falsa perizia o interpretazione) c.p. 263. Canestrari, Cornacchia, De Simone, Manuale di diritto penale, cit., 125 secondo cui «il principio di determinatezza trova conforto nel tessuto di diverse disposizioni della Carta Fondamentale aventi ad oggetto il diritto di difesa, l’habeas corpus e le garanzie processuali dell’imputato (artt. 13, co. 2, 24, co. 2 e 111 Cost.). La costituzionalizzazione del principio di determinatezza è sotteso anche al principio del teleologismo rieducativo della pena di cui all’art. 27, co. 3, Cost.». 112 legalità di legge in materia penale e cristallizzandosi il precetto penale con il sistema del combinato disposto. La possibilità di un’assimilazione attraverso il regolamento, che, come noto, ha diretta applicazione all’interno dell’ordinamento di ciascun Stato membro, non si può ritenere un’ipotesi praticabile per le ragioni già evidenziate264, con l’efetto che un regolamento europeo che estenda la norma penale interna ad ipotesi in esso stabilite andrebbe annullato da parte della Corte di Giustizia per violazione degli artt. 4, 6 TUE, 67 e 83 TFUE. L’estensione della disposizione penale attraverso una direttiva, poi, troverebbe un limite nel principio giurisprudenziale per cui la direttiva, di per sé sola, non può determinare o aggravare la responsabilità penale del cittadino, senza una norma interna di recepimento, anche all’indomani dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, proprio perché, come visto, la competenza penale disegnata dall’art. 83 TFUE è mediata essendo stato previsto il solo strumento della direttiva come legittima fonte del diritto penale europeo265. L’interferenza della norma sovranazionale con quella interna, se non trova alcun ostacolo nell’ipotesi di efetti in bonam partem, diversamente deve registrarsi nel caso di efetti pegiorativi della posizione del reo. IV.5. La sistematica di Carlo Sotis. L’eurointegrazione ad efetti riduttivi e diretti. Secondo l’attenta analisi di Carlo Sotis266, un ruolo primario, nella prospettiva dirimente le problematiche dell’interferenza oggetto dell’indagine, è la distinzione, non solo, tra efetti diretti ed indiretti della norma comunitaria, ma, anche, e forse soprattutto, proprio tra efetti riduttivi (o in bonam partem) ed espansivi (o in malam partem) della stessa267, perché l’efetto in malam partem determina una presunzione relativa 264. Infra § I.3. 265. Sotis, Diritto comunitario e giudice penale, in CM, Rassegna Monotematica, 2008, 2, 27, osserva che «l’assimilazione conigura una tecnica di produzione normativa intrinsecamente analogica: (a) una disposizione penale nazionale a tutela di determinati beni nazionali; (b) la regola di assimilazione che in posizione di norma superiore aferma l’identità di ratio tutelandi tra i beni tutelati da quella disposizione e gli analoghi beni comunitari da essa non contemplati; (c) l’applicazione di quella disposizione alla tutela dei beni comunitari allora costituirebbe proprio l’efetto tipico dell’analogia. Il carattere intrinsecamente analogico dell’assimilazione comporta che la funzione incriminatrice è esercitata proprio dalla disposizione contenente l’assimilazione. Questo comporta che la questione della liceità dell’assimilazione – in termini simili a quanto avviene in prospettiva esclusivamente nazionale con la distinzione tra fattispecie ad analogia esplicita e divieto di interpretazione analogica – si presenti al tempo stesso come (a) problema di tecnica di posizione di una norma incriminatrice e (b) come criterio di applicazione delle norme incriminatrici poste. I due proili sono intrecciati, ma è utile tenerli distinti». 266. Sotis, Il diritto senza codice, cit., 230 ss. 267. Sotis, Il diritto senza codice, cit., 230, utilizza le espressioni in questione in considerazione degli efetti che la norma europea determina non per il reo (in bonam o in malam partem), ma sulla norma interna (riduttivi o espansivi). 113 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea di contrasto con il principio di legalità, che, dunque, impone all’interprete di valutare, di volta in volta, se efettivamente l’efetto interferente pregiudica. Nell’ipotesi di norma comunitaria ad efetti riduttivi, la stessa sarebbe sempre dotata di efetti diretti; diversamente, nel caso di norma ad efetti espansivi, la stessa sarebbe certamente priva di efetti diretti. Da ciò, dunque, in caso di conlitto ad efetti riduttivi il giudice non deve mai rinviare alla Corte costituzionale, mentre, nell’ipotesi di conlitti ad efetto espansivo invece deve rinviare alla Corte costituzionale. Il contrasto della norma europea ad efetti riduttivi (e diretti) determina la inapplicazione della disposizione interna (in ipotesi, anche solo un elemento di fattispecie), senza però sostituirla e, dunque, la norma europea non diventa regola di giudizio, determinando solo, come detto, la non applicazione dell’intera norma, a cui consegue il proscioglimento dell’imputato, ai sensi dell’art. 129 c.p.p., immediato corollario attuativo dell’art. 27, co. 2, Cost., che costituisce la regola (predeterminata) di giudizio, per la materia penale268. Secondo il Sotis, il parametro costituzionale appena richiamato serve a comprendere le ragioni che impongono la non applicazione dell’intera norma incriminatrice, pur se in contrasto con un principio europeo (di per sé non chiaro e preciso), una volta concretizzato dall’esegesi interpretativa della Corte di Giustizia, senza alcuna necessità dell’intervento del giudice costituzionale. Da ciò, la norma europea con efetti riduttivi del penalmente rilevante ha una funzione meramente paralizzante, non anche di disciplina, alla stregua della granitica giurisprudenza della Corte di Giustizia269 e, dunque, tali norme hanno diretta eicacia270. 268. Sotis, Il diritto senza codice, cit., 234. 269. Corte Giust. Com. Eur., 5 febbraio 1963, C-26/62, Van Gend e Loos. In dottrina, le acute osservazioni di Pocar, Diritto dell’Unione e della Comunità europea, IX ed., Milano, 2004, 291, secondo cui «l’efetto diretto della norma comunitaria non è una qualità intrinseca della norma stessa, ma dipende dalla funzione che essa è chiamata a svolgere nel caso di specie, di volta in volta, considerato». 270. Cass. pen., Sez. III, 16 maggio 2012 (ud. 8 febbraio 2012), n. 18767, Pres. De Maio, est. Franco, imp. Ferraro, § 5, edita su www.penalecontemporaneo.it, con nota di Parodi, Viganò, Una (problematica) sentenza della Cassazione in tema di raccolta abusiva di scommesse e di rapporti tra diritto interno e diritto dell’Unione europea, in www.penalecontemporaneo.it, aferma che «la non applicazione di una norma nazionale da parte del giudice è possibile soltanto allorché si sia in presenza di un diretto contrasto tra una puntuale norma interna con un altrettanto puntuale precetto comunitario, che dovrebbe essere applicato al posto della norma interna incompatibile con esso. Situazione questa che può veriicarsi, ad esempio, quando un principio generale posto dal Trattato CE sia stato speciicato e concretizzato da una decisione della Corte di giustizia, assumendo così la norma comunitaria carattere immediatamente precettivo, e dandosi pertanto luogo non ad un rapporto di conformità-non conformità ma di applicabilità-non applicabilità, in quanto l’applicazione di una norma esclude l’applicabilità dell’altra». Nel caso invece di una situazione di non conformità di una norma nazionale con un principio generale del diritto comunitario, continua la Corte, il giudice nazionale avrebbe anzitutto il dovere di tentare un’interpretazione conforme; laddove questa stra- 114 legalità Una volta spiegata la diferenza tra regola e principio271, l’Autore svolge un’analitica classiicazione delle ipotesi di contrasto tra norma europea (regola o principio) ad efetti riduttivi e norma nazionale (regola o principio), che, in questa sede, si cercherà di schematizzare, evidenziando, con lo stesso Sotis, che la classiicazione proposta non è la sola indicata dalla dottrina272, né rappresenta un criterio alternativo agli altri individuati, ma, efettivamente, pare essere quello più utile per la distinzione per tipo di azionabilità273. E così: 1. Contrasto tra norma nazionale e principio europeo: si tratta di un giudizio di bilanciamento tra gli interessi coinvolti ed, in particolare, di una valutazione da si riveli impraticabile, egli sarebbe tenuto a sollevare questione pregiudiziale dinanzi alla Corte di Giustizia, ovvero una questione di legittimità costituzionale della norma interna per violazione dell’art. 117 co. 1 Cost. [così, Parodi, Viganò, op. cit.]: «non si tratterebbe, infatti, di “non applicare” la norma italiana per applicare al suo posto la puntuale norma comunitaria incompatibile, bensì in sostanza di, per così dire, “disapplicare” o “eliminare” la norma interna per la non conformità con un principio generale dell’ordinamento comunitario, compito questo che però spetta esclusivamente alla Corte costituzionale, la cui sfera di attribuzioni verrebbe in pratica aggirata se si ammettesse una sorta di controllo difuso di compatibilità comunitaria». Tali afermazioni della Suprema Corte, seppur contrastanti con il granitico orientamento della Corte europea, ad ogni modo, paiono ofrire un utile strumento per giungere ad una regola da applicare nell’ipotesi di contrasto tra norma nazionale e principio europeo, non nel caso di norma incriminatrice, che andrà certamente inapplicata, ma in tutti gli altri casi. In queste ultime ipotesi il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia, soluzione suggerita dalla Suprema Corte, potrebbe forse rappresentare una valida alternativa, onde evitare che il singolo giudice sia chiamato a plasmare il principio UE in una regola di dettaglio (così Zirulia S.). 271. Sotis, Il diritto senza codice, cit., 251, che richiamando la distinzione efettuata da Dworkin, Taking rights seriously. New impression with a reply to critics, Londra, 1977, 90 ss., trad. it., I diritti presi sul serio, Bologna, 1982, 95, evidenzia che «le regole infatti sono norme già concretizzate di cui vanno individuati i conini di applicazione secondo la logica del “o tutto o niente”. I principi invece determinano sempre un giudizio di bilanciamento tra interessi coinvolti. Il gruppo più evidente e importante di norme comunitarie interferenti in qualità di principio con le norme incriminatrici nazionali è costituito dalle libertà fondamentali previste nel Trattato. I principi non si esauriscono nelle sole libertà fondamentali europee, ma possono emergere senza coinvolgere una libertà fondamentale, segnatamente attraverso la lettura di norme di diritto comunitario primario e derivato alla luce del principio di proporzione o del principio di non discriminazione. Questi metacriteri, intervengono sistematicamente per valutare la compatibilità con le libertà comunitarie fondamentali della normativa (penale per quanto ci interessa) nazionale; ma essi, circolando in tutto l’ordinamento comunitario, possono intervenire e infatti intervengono per valutare la compatibilità anche di altre norme comunitarie». 272. Fra i più signiicativi, Pedrazzi, L’inluenza della produzione giuridica della CEE sul diritto penale italiano, ora in Pedrazzi, Diritto penale. Scritti, vol. 1, Milano, 2003, 462 ss.; G. Grasso, Comunità europee e diritto penale, Milano, 1989, 267 ss.; Mazzini, Prevalenza del diritto comunitario sul diritto penale interno ed efetti nei confronti del reo, in DUE, 2000, 353; Riz, Diritto penale e diritto comunitario, Padova, 1984, 206 ss; Epidendio, Diritto comunitario e diritto penale interno, cit. 238 ss. Per l’analisi sintetica delle varie classiicazioni proposte, Sotis, Il diritto senza codice, cit., 263 ss., nonché nota 196, 285 ss. 273. Sotis, Il diritto senza codice, cit., 261. 115 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea della limitazione nazionale al principio europeo, per cui, a determinate condizioni, è ammessa una deroga domestica allo stesso principio. L’intervento del giudice europeo è caratterizzato dalla costante ricerca del punto di equilibrio delle limitazioni nazionali alle libertà comunitarie, bilanciando i contrapposti interessi, ma anche veriicando necessità, proporzionalità ed adeguatezza della soluzione derogatoria domestica. La competenza a dirimere tale contrasto spetta alla Corte di Giustizia che dovrà svolgere un c.d. pre-bilanciamento in cui individuare il peso degli interessi in gioco, residuando, poi, al giudice del rinvio di applicare quei pesi nel giudizio di bilanciamento vero e proprio che solo lui potrebbe compiere, essendo l’unico competente a giudicare della validità della norma nazionale in conlitto con il principio comunitario274. Emblematico della peculiare diicoltà di trovare un punto di equilibrio tra competenza pregiudiziale della Corte lussemburghese e giudici nazionali è stata la questione avente ad oggetto la compatibilità della normativa italiana in materia di scommesse, e il relativo reato di raccolta di scommesse non autorizzata (art. 4 l. 13 dicembre 1989 n. 401), con le libertà comunitarie di stabilimento e di circolazione dei servizi, su cui i giudici di merito hanno a più riprese rinviato pregiudizialmente la questione alla Corte di Giustizia275. 2. Contrasto tra norma nazionale e regola europea: la norma europea rappresenta una regola di disciplina e, dunque, consente al giudice domestico di procedere direttamente, non applicando la norma incriminatrice nazionale con essa in contrasto. Il caso è semplice e l’intervento disapplicativo è lineare: si potrebbe deinire come un contrasto diretto ad efetti disapplicativi immediati. Il più delle volte, tuttavia, il diritto penale è posto in chiave di tutela di chiusura e sanzionatoria di singole discipline di settore. In questi casi, il contrasto tra norma penale e norma europea si veriica nell’opposizione del precetto (contenuto in una disciplina non penale) con la normativa comunitaria, con la conse274. Sotis, Il diritto senza codice, cit., 280. 275. Sotis, Diritto comunitario e giudice penale, cit., 20. Per un dettagliato aggiornamento della vicenda prima dell’ultima pronuncia del Giudice europeo, cfr. Schiattone, Scommesse on line: normativa interna e libertà comunitarie in attesa della GUCE, in www.altalex.it; Galasso, Scommesse online: libertà comunitarie ed esigenze nazionali di ordine pubblico, in www.altalex.it. L’ulteriore intervento della Corte lussemburghese (Corte Giust. Un. Eur., Sez. IV, 16 febbraio 2012, C-72/10 e C-77/10, Costa-Cifone, in www.penalecontemporaneo.it, con nota di Parodi, La Corte di giustizia UE dichiara, una volta ancora, incompatibile con il diritto europeo la vigente disciplina italiana in materia di scommesse, 27 marzo 2012), ha confermato, fra l’altro, che «gli articoli 43 CE e 49 CE devono essere interpretati nel senso che essi ostano a che vengano applicate sanzioni per l’esercizio di un’attività organizzata di raccolta di scommesse senza concessione o senza autorizzazione di polizia nei confronti di persone legate ad un operatore che era stato escluso da una gara in violazione del diritto dell’Unione, anche dopo la nuova gara destinata a rimediare a tale violazione, qualora quest’ultima gara e la conseguente attribuzione di nuove concessioni non abbiano efettivamente rimediato all’illegittima esclusione di detto operatore dalla precedente gara». 116 legalità guenza che tale incompatibilità si riverbera sulla previsione sanzionatoria a copertura di quel precetto. Un esempio è costituito dalla vicenda del reato di clandestinità ed il contrasto con la c.d. direttiva rimpatri276. 3. Sostituzione di regole europee integratrici (in senso neutro) ad efetto riduttivo: premettendo che integrazione e sostituzione della norma integratrice sono fenomeni distinti ed in rapporto di genere a specie, il Sotis distingue l’ipotesi dell’integrazione in senso neutro o ampio, da quella della sostituzione della norma integratrice o della norma extrapenale. Rispetto alla prima ipotesi, solo le norme europee non integratrici del precetto non si pongono in contrasto con la riserva di legge, consistendo in quelle norme richiamate dagli elementi normativi della fattispecie incriminatrice, con l’efetto che attribuire a tali elementi il signiicato comunitario è perfettamente ammissibile, tanto nel caso che la norma europea sia precedente, quanto in quello in cui sia successiva alla norma incriminatrice domestica. Le norme comunitarie che integrano il precetto, come in caso di norme deinitorie e di norme a rinvio esplicito, potranno essere validamente richiamate solo quando siano antecedenti alla disposizione penale, perché diversamente aggirerebbero il ruolo parlamentare garantito dalla riserva di legge. Le ipotesi di sostituzione della norma integratrice sono quelle di più delicata soluzione, non tanto rispetto alla sostituzione della norma comunitaria che modiica il signiicato da attribuire ad un elemento normativo della fattispecie domestica, quanto, piuttosto, in relazione alla norme europee realmente integratrici. E qui il Sotis espone un’ulteriore distinzione tra successione di una norma comunitaria ad una nazionale e quella tra norme europee, osservando, comunque, che gli efetti riduttivi o in bonam partem, non svolgendo un esercizio della funzione incriminatrice, sono sempre ammissibili, in virtù della primautè della norma comunitaria. Tutte le ipotesi di efetti integratrici in malam partem sono, di contro, inammissibili277, ad eccezione del caso di sostituzione della norma europea integratrice a contenuto tecnico, richiamata esplicitamente dalla norma incriminatrice nazionale (rinvio isso e non mobile)278, che non modiichi il criterio attraverso cui esercitare la normazione tecnica, contenuto nella norma europea sostituita. 276. Su cui infra § IV.2. 277. Fra i tanti, con ampia indicazione bibliograica, Martufi, Eterointegrazione penale e norme europee. Il caso della legislazione penale alimentare, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2012, 3, 700, osserva che «consentire alla fattispecie di adeguarsi automaticamente alle prescrizioni europee di nuova adozione signiicherebbe sottrarre al vaglio del legislatore nazionale la selezione delle condotte punibili, dato che per efetto dell’evoluzione normativa il precetto inirebbe per assumere dei proili diversi da quelli originariamente contemplati dall’organo legislativo nazionale». 278. Per una approfondita analisi della giurisprudenza costituzionale in tema di norme penali in bianco, cfr. Petitti (a cura di), Riserva di lege e norme penali in bianco, in www.cortecostituzionale. it, Studi e ricerche, Documentazione, 7/2008. 117 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea IV.5.1. (segue) L’interferenza ad efetti espansivi o in malam partem. I conlitti diadici e l’interpretazione conforme: rinvio. I conlitti triadici e l’inadempimento sopravvenuto. Rispetto all’interferenza della norma europea in pejus, il Sotis, innanzitutto, distingue l’ipotesi dei conlitti diadici (a due norme), con quella dei conlitti triadici (a più norme). La categoria degli efetti espansivi di una norma comunitaria su una norma penale (conlitti diadici) si traduce in un’attribuzione di signiicato ad uno o più elementi della fattispecie nazionale di per sé suscettibili di più interpretazioni e, dunque, in un caso di interpretazione conforme del diritto interno a quello europeo. Rinviando la relativa analisi al paragrafo successivo, in questa sede, sia consentito evidenziare che il limite dell’interpretazione conforme ad efetti espansivi è certamente il divieto di analogia, che costituisce principio appartenente alle tradizioni costituzionali comuni279, con l’efetto che l’interpretazione conforme nella materia penale in malam partem è ammissibile nei limiti in cui, generalmente, è ammessa l’interpretazione estensiva. Ma sul punto, come annunciato, si tornerà più avanti. L’ipotesi di conlitti triadici, invece, secondo l’Autore, si rilette in un caso di c.d. inadempimento sopravvenuto, in cui vi sono due norme nazionali: una prima, conforme al diritto comunitario, ma sfavorevole; una seconda, contraria al diritto comunitario, ma favorevole. La conseguenza è che alla non applicazione della norma nazionale favorevole, ma contraria al diritto comunitario, il fatto verrebbe punito dall’altra norma nazionale, non certo dalla norma comunitaria. Tale interferenza non entra in attrito con la riserva di legge, come nell’ipotesi di conlitti diadici, ma con i principi di diritto penale intertemporale (divieto di retroattività e obbligo di retroattività benigna)280 ed impone il rinvio della risoluzione alla Corte costituzionale. Le ipotesi in commento sono state ampiamente analizzate in relazione alle vicende del caso Berlusconi (falso in bilancio) e del caso Niselli (riiuti)281, con l’ef279. Corte Giust. Com. Eur., Sez. V, 7 gennaio 2004, C-58/02, Commissione c. Spagna, § 28, in tema di conformità del diritto penale interno ad una direttiva comunitaria contenente un obbligo di penalizzazione, aferma che, «anche interpretando il diritto penale conformemente alla direttiva, le lacune e le mancanze rilevate dalla Commissione non possono essere colmate senza incorrere in violazioni dei principi di legalità e di certezza del diritto, i quali impediscono di punire comportamenti che non siano chiaramente individuati ed espressamente qualiicati come infrazioni dal codice penale». Per un’analisi dell’enunciato, Sotis, Il diritto senza codice, cit., 291, 292. 280. Sotis, Diritto comunitario e giudice penale, cit., 28, invero, fa riferimento al solo divieto di retroattività, ma con un evidente ripensamento rispetto a quanto indicato nel lavoro monograico, Id., Il diritto senza codice, cit., 310, laddove l’A. evidenzia che «i conlitti triadici ad efetto espansivo presuppongono una diformità al principio di legalità – sia nazionale che comunitario – segnatamente sub specie di presunzione di diformità alla riserva di legge». Anche se già l’A., seppur non espressamente come nel successivo contributo, appunta l’attenzione sulle problematiche con il sistema delle regole di diritto penale intertemporale. 281. Infra §§ III.1 e III.3. 118 legalità fetto che, in questa sede, per evitare inutili ripetizioni, si presenta l’eicace ricostruzione per via deduttiva oferta dal Sotis. Si è riferito che non è possibile considerare sullo stesso piano le decisioni della Corte europea sui casi Niselli e Berlusconi, apparentemente antitetiche. Nel primo caso, la nozione di riiuto, sin troppo generosa, era stata introdotta nella normativa nazionale senza alcuna modiica delle igure incriminatrici richiamanti, con l’efetto che la nuova deinizione di riiuto andava ad incidere su un elemento normativo delle fattispecie di riferimento, modiicando (restringendola) la relativa area di rilevanza penale. Nel caso Berlusconi, invece, il legislatore nazionale aveva espunto dall’ordinamento la vecchia incriminazione, sostituendola con un’altra strutturalmente diversa dalla prima. Le decisioni dei giudici europei si pongono, dunque, in linea con la lettura dei giudici costituzionali, in relazione ai limiti posti dalla riserva di legge statale in materia penale: è possibile il sindacato sulla norma che si innesta nell’area delineata da una norma incriminatrice che non viene espunta dall’ordinamento o modiicata; mentre tale sindacato è da escludere nell’ipotesi in cui la novella legislativa va ad incidere sull’area di rilevanza penale come scelta di politica criminale (nel rispetto della riserva di legge). Il Sotis agevola la veriica delle diferenze tra le vicende suddette, evidenziando quelli che sono gli aspetti comuni e quelli diversi. Innanzitutto, tali casi sono uguali rispetto all’antinomia triadica, nel senso che vi è una norma comunitaria obbligante (contenuta in una direttiva), una prima norma nazionale incriminatrice conforme all’obbligo comunitario ed, inine, una seconda norma nazionale che, modiicando la prima norma incriminatrice, reca con sé il duplice efetto di disattendere il vincolo comunitario e di restringere l’area penalmente rilevante282. Altro punto comune alle due vicende riguarda gli efetti della seconda norma nazionale che rende non punibili i fatti di causa. Di conseguenza, l’eventuale accoglimento in entrambi i casi produce un obiettivo risultato in malam partem nei confronti dell’imputato. Le diferenze tra il caso Berlusconi e quello Niselli vengono selezionate dal Sotis rispetto alle caratteristiche (si può dire) proprie dell’antinomia triadica (l’Autore parla di peso speciico). Ed, invero, in relazione alla norma comunitaria, nel caso Berlusconi, l’obbligo ivi previsto costituisce un principio comunitario (o standard di adeguatezza), con l’efetto che, costituendo un giudizio di relazione e non di disciplina, non può che ofrire un signiicato normativo dinamico e impreciso. Nel caso Niselli, invece, l’obbligo espresso dalla norma comunitaria è una regola283, con l’efetto che l’interpretazione di una regola si può fare mantenendo sul282. Sotis, Diritto comunitario e giudice penale, cit., 28. 283. La nozione di riiuto ai sensi dell’art. 1, lett. a), co. 1, della direttiva 75/442, come modiicata dalla direttiva 91/156 e dalla decisione 96/350, comprende l’insieme dei residui di produzione o di consumo che possono essere o sono riutilizzati in un ciclo di produzione o di consumo, vuoi 119 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea lo sfondo la normativa nazionale e, poi, una regola ofre un signiicato normativo più stabile e preciso di quanto possa ofrire uno standard di adeguatezza. Rispetto alla prima norma nazionale, nel caso Berlusconi, la stessa non è in adempimento diretto della direttiva comunitaria, poiché successive alla previsione nazionale. Nel caso Niselli, invece, il delitto di traico illecito di riiuti previsto dall’art. 51 d.lgs. 22/1997 e la deinizione di riiuto contenuto nell’art. 6 dello stesso decreto sono espressamente in attuazione degli obblighi comunitari contenuti dalla normativa europea in materia di riiuti. In ordine, inine, alla seconda norma nazionale e, dunque, in relazione alle diferenze per quanto riguarda il tipo di inadempimento, il Sotis osserva che, nel caso Berlusconi, la norma (incriminatrice) in inadempimento del 2002 abroga e si sostituisce alla norma incriminatrice in attuazione del 1942; di conseguenza la non applicazione della norma illegittima del 2002 e l’applicazione della norma del 1942 costituiscono due operazioni concettualmente distinte (efetto di reviviscenza della norma originaria in caso di non applicazione della normativa modiicatrice/abrogatrice successiva). Nel caso Niselli, di contro, la norma (interpretativa) in inadempimento del 2002 rideinisce la norma incriminatrice in attuazione del 1997, senza tuttavia abrogarla; di conseguenza, è paciico che la non applicazione della norma interpretativa illegittima del 2002 comporti automaticamente l’applicazione della norma incriminatrice del 1997 (immediata riespansione della norma originaria in caso di non applicazione della norma interpretativa successiva)284. L’analisi delle diferenze, dunque, consente di individuare le diversità di giudizio tra i due casi presi in esame e, pertanto, la determinazione delle ipotesi giustiziabili, ovvero quelle in cui il parametro normativo europeo di riferimento costituisce una regola ed, in particolare, nei casi in cui la prima norma penale nazionale sia in attuazione espressa e la seconda norma nazionale sia compresente285. IV.6. L’interpretazione conforme. L’interferenza della normativa comunitaria può aversi anche solo a livello interpretativo, con l’esegesi della norma interna in maniera conforme a quella europea286, ovvero assegnando alla stessa (o ad un suo elemento) il signiicato deinito dalla norma sovranazionale, alla stregua di processi logici analoghi a quelli impiegati nell’interpretazione conforme alla Co- in assenza di trattamento preventivo e senza arrecare danni all’ambiente, vuoi previo trattamento, ma senza che occorra tuttavia un’operazione di recupero ai sensi dell’allegato II B di tale direttiva. 284. Così letteralmente, Sotis, Diritto comunitario e giudice penale, cit., 29. 285. Per una tabella sinottica, cfr. Sotis, Diritto comunitario e giudice penale, cit., 37 ss. 286. Da ultimo, con un afresco della funzione dell’interpretazione conforme eurounitaria nel percorso di costituzionalizzazione dell’Unione Europea, cfr. Bernardi, Interpretazione conforme al diritto UE e costituzionalizzazione dell’Unione Europea. Brevi rilessioni di un penalista, in Dir. pen. cont. - Riv. trim., 2013, 3, 230 ss., con ampi richiami bibliograici. 120 legalità stituzione287. Altra ipotesi più problematica è quella di un’esegesi conforme che vada a manipolare la norma interna288, se non addirittura la disposizione289. L’attività ermeneutica del giudice domestico, volta ad adeguare la norma interna, nella sua applicazione concreta, alla norma comunitaria di riferimento, in adempimento dell’obbligo di fedeltà e leale cooperazione, alla stregua della giurisprudenza lussemburghese290 delinea una tecnica di armonizzazione indiretta 287. Sulle diferenze con l’interpretazione orientata a Costituzione, cfr. Gaeta, Dell’interpretazione conforme alla C.E.D.U.: ovvero, la ricombinazione genica del processo penale, in www.penalecontemporaneo.it; Mannella, Giudici comuni e applicazione della Costituzione, Roma, 2011, 135 ss., 161 ss.; in tema di interpretazione conforme, cfr. Campanelli, Interpretazione conforme alla CEDU e al diritto comunitario: proporzionalità e adeguatezza in materia penale, in D’Amico, Randazzo (a cura di), Interpretazione conforme e tecniche argomentative, Torino, 2009, 139 ss.; Di Giovine, L’interpretazione nel diritto penale, Milano, 2006; Vogliotti, Dove passa il conine? Sul divieto di analogia in diritto penale, Torino, 2011; Sotis, Le regole dell’incoerenza, cit., 43, con ampi richiami bibliograici. 288. Corte Giust. Un. Eur., Grande Sez., 16 giugno 2005, C-105/03, Pupino, in Cass. pen., 2005, 3167 ss., con nota di Manes, L’incidenza delle “decisioni-quadro” sull’interpretazione in materia penale: proili di diritto sostanziale (ibid., 2006, 1150 ss.) e di Aprile, I rapporti tra diritto processuale penale e diritto dell’Unione europea, dopo la sentenza della Corte di giustizia sul caso “Pupino” in materia di incidente probatorio (ibid., 1174 ss.); in FI, 2006, 595 ss., con nota di Armone, La Corte di giustizia e il terzo pilastro dell’Unione europea; in DPCE, 2005, 1988 ss., con nota di Favale, Possibile eicacia diretta delle decisioni-quadro nell’ambito della politica di cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale; sulla decisione, cfr. in dottrina, fra i tanti, Viganò, Il giudice penale e l’interpretazione conforme alle norme sovranazionali, in Corso, Zanetti (a cura di), Studi in onore di Mario Pisani, 2010, II, 617 ss.; Marchegiani, L’obbligo di interpretazione conforme alle decisioni quadro: considerazioni in margine alla sentenza Pupino, in DUE, 2006, 563 ss.; Garditz, Gusy, Zur Wirkung europäischer Rahmenbeschlusse im innerstaatlichen Recht, in GA, 2006, 225. 289. Sulla diferenza tra norma e disposizione, in materia penale, cfr. Donini, Europeismo giudiziario e scienza penale, Milano, 2011, 63 ss. 290. Da ultimo, Corte Giust. Un. Eur., Grande Sez., 5 ottobre 2004, C-397/01-C-403/01, secondo cui (§§ 113-116), «nell’applicare il diritto interno, in particolare le disposizioni di una normativa appositamente adottata al ine di attuare quanto prescritto da una direttiva, il giudice nazionale deve interpretare il diritto nazionale per quanto possibile alla luce del testo e dello scopo della direttiva onde conseguire il risultato perseguito da quest’ultima e conformarsi pertanto all’art. 249, terzo comma, CE (v. in questo senso, segnatamente, citate sentenze Von Colson et Kamann, punto 26; Marleasing, punto 8, e Faccini Dori, punto 26; v. altresì sentenze 23 febbraio 1999, causa C-63/97, BMW, Racc. p. I-905, punto 22; 27 giugno 2000, cause riunite da C-240/98 a C-244/98, Océano Grupo Editorial e Salvat Editores, Racc. p. I-4941, punto 30, e 23 ottobre 2003, causa C-408/01, Adidas-Salomon e Adidas Benelux, Racc. p. I-12537, punto 21). L’esigenza di un’interpretazione conforme del diritto nazionale è inerente al sistema del Trattato, in quanto permette al giudice nazionale di assicurare, nel contesto delle sue competenze, la piena eicacia delle norme comunitarie quando risolve la controversia ad esso sottoposta (v., in questo senso, sentenza 15 maggio 2003, causa C-160/01, Mau, Racc. p. I-4791, punto 34). Se è vero che il principio di interpretazione conforme del diritto nazionale, così imposto dal diritto comunitario, riguarda in primo luogo le norme interne introdotte per recepire la direttiva in questione, esso non si limita, tuttavia, all’esegesi di tali norme, bensì esige che il giudice nazionale prenda in considerazione tutto il diritto nazionale per valutare in quale misura possa essere applicato in modo tale da non addivenire ad un risultato contrario a quello cui mira la direttiva (v., questo senso, sentenza Carbo- 121 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea ma immediata (perché prescinde dall’intervento del legislatore)291. Tale tecnica di armonizzazione si pone a metà strada tra la diretta applicazione della norma europea, con correlata inapplicazione di quella nazionale, e rinvio alla Corte costituzionale, inalizzato all’annullamento della norma domestica in contrasto con quella sovranazionale (non direttamente applicabile) che funge da norma interposta secondo il parametro costituzionale di cui agli artt. 11 e 117 Cost. Ora, l’interpretazione conforme in materia penale va contenuta nei conini delineati da alcuni limiti, ontologici e assiologici292. Il primo limite ontologico va posto nella lettera della legge, ovvero che l’interprete deve rispettare l’univoco tenore letterale o lessicale della disposizione, non potendosi ammettere un’attività ermeneutica che forzi il dato testuale con un esito interpretativo addirittura contra legem, così trasformando, come acutamente osservato293, «l’interpretazione adeguatrice in normazione mascherata da parte del giudice comune, facendo in realtà applicazione diretta della norma europea, aggirando il vaglio del giudice costituzionale»294. Come già evidenziato, dunque, il limite ontologico dell’internari e a., cit., punti 49 e 50). A questo proposito, se il diritto nazionale, mediante l’applicazione di metodi di interpretazione da esso riconosciuti, in determinate circostanze consente di interpretare una norma dell’ordinamento giuridico interno in modo tale da evitare un conlitto con un’altra norma di diritto interno o di ridurre a tale scopo la portata di quella norma applicandola solamente nella misura compatibile con l’altra, il giudice ha l’obbligo di utilizzare gli stessi metodi al ine di ottenere il risultato perseguito dalla direttiva». 291. Così letteralmente, Manes, Il giudice nel labirinto, cit., 70. 292. Viganò, Il giudice penale e l’interpretazione conforme, cit., 617 ss., 649 ss.; anche Manes, Il giudice nel labirinto, cit., 56. In giurisprudenza, si segnala, da ultimo, Corte Giust. Un. Eur., 24 gennaio 2012, C-282/10, Maribel Dominguez, ove si ribadisce che «il principio di interpretazione conforme esige inoltre che i giudici nazionali si adoperino al meglio nei limiti del loro potere, prendendo in considerazione il diritto interno nel suo insieme ed applicando i metodi di interpretazione riconosciuti da quest’ultimo». 293. Manes, Il giudice nel labirinto, cit., 57. 294. Luciani, Le funzioni sistemiche della Corte costituzionale, ogi, e l’interpretazione conforme, in www.federalismi.it; Manes, op. e loc. cit., nota 163, evidenzia, «come esempio di superamento del limite ontologico imposto al giudice comune in tema di interpretazione conforme, la decisione della Suprema Corte, Sez. III, 20 gennaio 2012, n. 4377, che – argomentando dal principio enunciato da Corte cost. n. 265 del 2010 – ha ritenuto di poter correggere in via interpretativa la presunzione di adeguatezza della custodia cautelare prevista, nel caso di specie, per il delitto di violenza sessuale di gruppo (art. 609 octies c.p.), superando così – tuttavia – una chiara indicazione legislativa (art. 275 co. 3°, c.p.p.)», che, ad avviso dell’A., avrebbe dovuto essere sottoposta «al vaglio del giudice delle leggi». Tali perplessità, ricorda l’A., «hanno trovato la condivisione della Corte costituzionale nella sentenza n. 110 del 2012», la quale – confermando anche in relazione al reato di associazione per delinquere inalizzata alla commissione dei reati di cui agli artt. 473 e 474 c.p. (contrafazione di marchi o altri segni distintivi e importazione o detenzione a ini di commercio di cose recanti segni contrafatti) in linea con le precedenti decisioni n. 265 del 2010, n. 164 del 2011, n. 231 del 2011 e n. 331 del 2011 – ha rilevato tuttavia come «le parziali declaratorie di illegittimità della norma impugnata, aventi per esclusivo riferimento i reati oggetto delle precedenti pronunce di questa Corte, non si possono estendere alle altre fattispecie criminose ivi disciplinate», precisando espressamente 122 legalità pretazione conforme ad efetti espansivi è certamente il divieto di analogia, che costituisce principio appartenente alle tradizioni costituzionali comuni295, con l’effetto che l’interpretazione conforme nella materia penale in malam partem è ammissibile nei limiti in cui, generalmente, è ammessa l’interpretazione estensiva296. I limiti assiologici dell’interpretazione conforme sono quelli più aferenti al sistema garantistico proprio della materia penale, con l’efetto che è costantemente afermata l’inammissibilità di un’esegesi in malam partem di una disposizione domestica in contrasto con una norma sovranazionale e ciò, essenzialmente, da un lato, perché gli Stati membri non hanno accettato alcuna limitazione di sovranità in materia penale, in quanto la relativa competenza europea è indiretta e mediata, con l’efetto che l’inadempimento statale non può essere fatto valere sul singolo cittadino e, dall’altro, perché la riserva di legge è garante della necessaria democraticità della norma penale, che, come evidenziato dal Tribunale di Karlsruhe, non può essere assicurata dall’Unione Europea che ha un grado di democrazia proporzionato al livello dell’integrazione politica297. E poi, è costantemente afermato, a livello europeo298, il principio per cui «una direttiva non può avere come efetto, di per sé e indipendentemente da una legge interna di uno Stato membro adottata per la sua attuazione, di determinare o aggravare la responsabilità penale degli imputati», tradotto dalla Corte costituzionale, sottolineando come «l’eicacia diretta di una direttiva è ammessa solo se da essa derivi un diritto riconosciuto al cittadino, azionabile nei confronti dello Stato inadempiente» e, parallelamente, evidenziando che «gli efetti diretti devono invece ritenersi esclusi se dall’applicazione della direttiva deriva una responsabilità penale». Se tali principi sono valsi ad escludere (un tempo) che da una direttiva possa farsi derivare l’efetto di neutralizzazione e di disapplicazione di una norma interna più favorevole299, oggi, non potrà non tenersi conto della c.d. europeizzazione dei controlimiti e, dunque, della funzione armonizzante che ha assunto l’esegesi giurisprudenziale, a discapito della riserva di legge nazionale in materia penale, almeno nella sua illuministica formulazione. che «la lettera della norma impugnata, il cui signiicato non può essere valicato neppure per mezzo dell’interpretazione conforme, non consente in via interpretativa di conseguire l’efetto che solo una pronuncia di illegittimità costituzionale può produrre». Sui i limiti ontologici dell’interpretazione conforme, cfr. anche Corte cost. n. 28 del 2010, § 4 Considerato in diritto; Corte cost. n. 196 del 2010; Corte cost. n. 227 del 2010. 295. Cfr. nota 269. 296. Canestrari, Cornacchia, De Simone, Manuale di diritto penale. Parte generale, cit., 134. Per un’analisi delle criticità dell’interpretazione conforme in relazione ai limiti ontologici, cfr. Manes, Il giudice nel labirinto, cit., 56 ss. 297. Sul punto ampiamente, infra §§ II.1 ss. 298. Infra § III.4. 299. Manes, Il giudice nel labirinto, cit., 59. 123 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea Da ciò, è intuitiva l’importanza dei limiti all’interpretazione conforme comunitaria, ovvero alla discrezionalità (potere) del giudice comune di applicare la norma domestica tenuto conto del diritto europeo (e sovranazionale), stigmatizzati dalla Corte lussemburghese300 nei «principi generali del diritto, che sono parte del diritto comunitario, ed in particolare in quelli della certezza del diritto e della irretroattività»301. L’interpretazione conforme in malam partem appare (an300. La più volte richiamata Corte Giust. Com. Eur., 8 ottobre 1987, C-80/86, Kolpighuis Nijmigen; Corte Giust. Com. Eur., 7 gennaio 2004, C-60/02, secondo cui: «L’obbligo di interpretazione conforme del diritto nazionale, alla luce della lettera e dello scopo del diritto comunitario, onde conseguire il risultato conseguito da quest’ultimo, non può, di per sé, indipendentemente da una legge adottata da uno Stato membro, determinare o aggravare la responsabilità penale di un operatore che ha violato le prescrizioni di un regolamento comunitario. Infatti, il detto obbligo trova i suoi limiti nei principi generali del diritto, che fanno parte integrante del diritto comunitario, e segnatamente in quelli di certezza del diritto e di irretroattività. In particolare, il principio della legalità delle pene, sancito dall’art. 7 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, e che è un principio generale del diritto comunitario, comune alle tradizioni comuni agli Stati membri, vieta di sanzionare penalmente un comportamento che non sia vietato da una norma nazionale, anche nel caso in cui quest’ultima fosse contraria al diritto comunitario»; Corte Giust. Com. Eur., 16 giugno 2005, C-105/03, Pupino, §§ 44 e 45, secondo cui: «Occorre tuttavia rilevare che l’obbligo per il giudice nazionale di far riferimento al contenuto di una decisione quadro quando interpreta le norme pertinenti del suo diritto nazionale trova i suoi limiti nei principi generali del diritto, ed in particolare in quelli di certezza del diritto e di non retroattività. Questi principi ostano in particolare a che il detto obbligo possa condurre a determinare o aggravare, sul fondamento di una decisione quadro e indipendentemente da una legge adottata per l’attuazione di quest’ultima, la responsabilità penale di coloro che agiscono in violazione delle sue disposizioni». 301. Tali limiti sono stati recentemente ribaditi da Corte Giust. Un. Eur., Sez. II, 28 giugno 2012, C-7/11, Caronna, §§ 51-56, in cui la Corte di Lussemburgo è stata investita di una questione pregiudiziale ex art. 267 TFUE, con ordinanza dell’1 dicembre 2010, comunicata il 5 gennaio 2011, dal Giudice delle indagini preliminari presso il Tribunale di Palermo. Il giudice nazionale era stato chiamato a pronunciarsi in merito alla richiesta di archiviazione del Pubblico Ministero del locale Tribunale avente ad oggetto la contestazione elevata dai Carabinieri al titolare di una farmacia, di distribuzione di farmaci all’ingrosso senza autorizzazione e, dunque, in (apparente) violazione dell’art. 147 d.lgs. 24 aprile 2006 n. 219, norma che, per l’appunto, reprime la distribuzione all’ingrosso dei medicinali, in mancanza di autorizzazione. Più segnatamente, il giudice nazionale, interrogava, con domanda di rinvio pregiudiziale, la Corte del Lussemburgo, perché valutasse se l’art. 77 della direttiva 2001/83/CE era da interpretarsi nel senso della esenzione dei farmacisti dall’obbligo di munirsi di tale autorizzazione e, più in generale, sulla corretta interpretazione da fornirsi alla disciplina dell’autorizzazione medesima, come prevista dagli artt. 76-84 della direttiva, recepita nell’ordinamento italiano con il d.lgs. 219/06. Il dubbio sull’applicabilità ai farmacisti della disciplina in tema di autorizzazione alla distribuzione all’ingrosso dei medicinali scaturiva, nella ricostruzione efettuata dal giudice remittente, dal considerando 36 della direttiva: in tale preambolo si pone in rilievo l’opportunità che i farmacisti siano dispensati dal richiedere alle Autorità nazionali la predetta autorizzazione, a condizione che si muniscano di registri nei quali annotare le transazioni in entrata. La Corte di Lussemburgo, dopo aver premesso che, allo stato, non sussiste un’armonizzazione a livello comunitario delle discipline degli Stati membri in tema di commercio al pubblico di farmaci, ha concluso per l’insussistenza di una deroga, in favore degli esercenti l’attività di vendita al dettaglio di farmaci, quanto alle prescrizioni previste dagli artt. 79-82 della direttiva. Disposizioni, queste 124 legalità cora) assolutamente inammissibile, anche in relazione alle direttive penali di cui all’art. 83 TFUE302. IV.7. Epilogo. Il ruolo del giudice comune nell’applicazione della norma penale fra democrazia e primautè europea. Ipotesi di democratizzazione dell’amministrazione della giustizia. Si può ricondurre all’illuminismo la propensione a coninare il potere giurisdizionale ad un ruolo ancillare rispetto alla supremazia del potere legislativo303, costituendo il primo un ramo della pubblica amministrazione, con ultime, che si riferiscono all’utilizzo di locali ed installazioni idonee, di personale qualiicato, nonché all’obbligo di peculiari oneri documentali. La Corte di Giustizia, poi, si preoccupa di ribadire (§§ 5156) che (§ 51) «occorre ricordare, come ha fatto giustamente la Commissione, che, benché i giudici nazionali siano tenuti ad interpretare il diritto nazionale per quanto possibile alla luce del testo e della inalità di una direttiva al ine di conseguire il risultato da quest’ultima previsto e, quindi, di conformarsi all’articolo 288, terzo comma, TFUE, tale obbligo di interpretazione conforme è soggetto ad alcuni limiti in materia penale. (§ 52) Infatti, come ha dichiarato la Corte, il principio d’interpretazione conforme trova i suoi limiti nei principi generali del diritto, che fanno parte integrante del diritto dell’Unione, e, in particolare, in quelli di certezza del diritto e di irretroattività. Una direttiva non può avere pertanto come efetto, di per sé e indipendentemente da una legge interna di uno Stato membro adottata per la sua attuazione, di determinare o aggravare la responsabilità penale di coloro che agiscono in violazione delle sue disposizioni (v., segnatamente, sentenza del 7 gennaio 2004, X, C-60/02, Racc. p. I-651, punto 61 e la giurisprudenza ivi citata). (§ 53) Nel caso di specie, dalla decisione di rinvio emerge che la responsabilità penale del sig. Caronna trova il suo fondamento nella violazione descritta e disciplinata dall’articolo 147, paragrafo 4, del decreto 219/2006, letto congiuntamente all’articolo 100, paragrai 1 e 1 bis, di detto decreto, mentre tale disposizione non fa espresso riferimento ai farmacisti nonostante l’abolizione del divieto, nei riguardi di questi ultimi, di esercitare l’attività di distribuzione all’ingrosso di medicinali. (§ 54) Tuttavia, non spetta alla Corte ma esclusivamente al giudice nazionale pronunciarsi in merito all’interpretazione del diritto nazionale. (§ 55) Nell’ipotesi in cui il giudice del rinvio pervenga alla conclusione che il diritto nazionale nella sua versione applicabile ai fatti di cui al procedimento principale, non imponeva ai farmacisti un obbligo di munirsi di un’autorizzazione speciica per la distribuzione di medicinali all’ingrosso e non conteneva alcuna espressa disposizione che prevedesse, con riferimento ai farmacisti, una responsabilità penale, il principio della legalità delle pene, quale consacrato dall’articolo 49, paragrafo 1, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, vieta di sanzionare penalmente un tale comportamento, anche nel caso in cui la norma nazionale sia contraria al diritto dell’Unione (v., per analogia, sentenza X, cit., punto 63). (§ 56) Pertanto, l’interpretazione della direttiva, come risulta ai punti 41 e 50 della presente sentenza, non può, di per sé e indipendentemente da una legge adottata da uno Stato membro, creare o aggravare la responsabilità penale di un farmacista che ha esercitato l’attività di distribuzione all’ingrosso senza munirsi dell’autorizzazione ad essa correlata». 302. Manes, Il giudice nel labirinto, cit., 61. 303. Cavanna, Storia del diritto moderno in Europa. Le fonti ed il pensiero giuridico, Milano, 1982, 312, descrive il pensiero di Ludovico Antonio Muratori, tracciato nel libretto Dei difetti della giurisprudenza, pubblicato nel 1742, che stigmatizza la situazione giuridica del suo tempo, con una giurisprudenza dottrinale e giudicante, amministratrice in realtà di ingiustizie. Muratori distingue i difetti della giurisprudenza in intrinseci ed estrinseci. I difetti intrinseci sono ineliminabili ed essi sono: (a) le norme giuridiche non possono essere mai essere chiare, tanto è vero che debbono essere interpretate da sottili osservatori, con la conseguenza che il loro dettato è ancora più ade- 125 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea giudici-funzionari ed un’organizzazione di tipo gerarchico, per gradi304, con loro selezione attraverso il concorso pubblico ed assegnazione della sola funzione di interpretare la legge, ovvero di sussumere il fatto concreto nella disposizione posta dal legislatore democraticamente eletto. Già con l’avvento della Costituzione repubblicana, il ruolo del giudice comune muta, in quanto è prevista una limitazione alle prerogative del legislatore di porre norme regolanti i rapporti tra i cittadini ed tra i cittadini e lo Stato, attraverso i limiti sanciti dalla Costituzione, il cui rispetto è assicurato dal controllo dei giudici comuni unitamente alla Corte costituzionale. Il costituzionalismo impone, dunque, una soggezione del legislatore alla Carta fondamentale ed impone, altresì, al giudice comune di interpretare la legge conformemente ai principi costituzionali. Da ciò, già si incrina l’equilibrio illuministico della separazione dei poteri, non tanto per il controllo di legittimità costituzionale a cui è sottoposto il prodotto del legislatore, ma, in particolare, rispetto agli efetti che l’interpretazione costituzionalmente orientata ha sull’intangibilità dei contenuti della legge. In materia penale, per ciò che ci interessa, il risultato dell’interpretazione conforme va ad incidere sulla descrizione del fatto tipico, restringendone305 la rilevanza penale, a discapito della volontà legislativa, ad onor del vero, non chiaramente delineata nella disposizione posta. I conini dell’ermeneutica sono così superati, ino a coinvolgere quelli propri del potere normativo. L’ermeneutica conforme al dettato costituzionale, a ben guardare, si sostanzia nella formulazione dal principio fondamentale, da parte del giudice comune, di un limite (o, meglio, di una regola limitativa) alla legge e, successivamente, a dare applicazione al combinato disposto della disposizione normativa con la regola limitativa di origine costituzionale, ma di formulazione giurisdizionale. La partecipazione del giudice alla formulazione (e non solo all’applicazione) della norma, appare, dunque, già evidente306. guata; (b) ciascuna norma non può prevedere tutti i casi che la realtà concretamente presenta; (c) gli uomini manifestano la propria volontà sempre in maniera diversa, con l’efetto che tale volontà è sempre diicilmente interpretabile e, dunque, è origine di litigi; (d) il diritto vivente poggia sull’opinione personale del giudice-uomo, inevitabilmente condizionata da passioni, sentimenti, pregiudizi e debolezze. I difetti estrinseci possono essere eliminati, perché non dipendono dalla natura del diritto, ma da comportamenti perfettibili degli operatori del diritto. Essi sono: (a) il caos oceanico delle interpretazioni dottrinali e giudiziali che hanno sofocato il dettato legislativo, addirittura, sostituendosi a quest’ultimo; (b) l’applicazione giudiziale del diritto è arbitraria, poiché il giudice è libero nello scegliere a quale opinione interpretativa aderire. I difetti della giurisprudenza, descritti dal Muratori nella metà del XVIII secolo, mutatis mutandis, non sono molto diversi da quelli che oggi si addebitano alla magistratura. 304. Romboli, Il ruolo del giudice in rapporto all’evoluzione del sistema delle fonti ed alla disciplina dell’ordinamento giudiziario, in www.associazionecostituzionalisti.it. 305. Non essendo ammessa l’interpretazione in malam partem (ancora). 306. Per un’approfondita analisi del rapporto tra costituzionalismo e democrazia, cfr. Michel- 126 legalità Il passo successivo mette in rilievo un ulteriore potenziamento del ruolo del giudice comune e si registra proprio con l’afermarsi del sistema delle fonti di diritto europeo e con esso con la legittimazione del giudice interno a non applicare la norma nazionale in contrasto con la norma europea. Qui il punto su cui rilettere non è tanto l’ampliamento del potere normativo del giudice nazionale attraverso il delicato esame valutativo dei rapporti interordinamentali307, quanto, piuttosto, l’efetto simbolico della supremazia attribuita al potere giudiziario su quello legislativo che giunge al culmine della disapplicazione della legge, così ribaltando la funzione istituzionale del giudice interno che da semplice garante dell’applicazione della legge, nell’ottica illuministica, diviene arteice della sua inapplicazione308, nella prospettiva multilivello. Ed è proprio la primautè del diritto europeo che accentua il sacriicio delle istanze di democrazia nazionale sottese alla riserva di legge (in materia penale), superando quel limite costituzionale all’operato del giudice interno collocato nell’art. 101, co. 2, Cost., tramite la cerniera aperta di pari rango posta nell’art. 117, co. 1, Cost. Non da meno è la necessità di adeguamento interpretativo della normativa nazionale ai principi ed alle disposizioni della Convenzione EDU309, nei limiti, comunque, delle regole dell’ermeneutica giuridica, salvo, in caso di conlitto insanabile, almeno a livello interpretativo, il ricorso all’intervento chirurgico310 della Corte costituzionale311. Ma l’applicazione diretta delle norme convenzionali è stata esclusa sia dalla Consulta312, che dalla Corte di Giustizia313. man, Brennan and Democracy, Princeton, 1999, trad. it. a cura di Valentini, La democrazia e il potere giudiziario. Il dilemma costituzionale e il giudice Brennan, Bari, 2004, con interessante introduzione di Bongiovanni, Palombella, Frank I. Michelman e il signiicato della democrazia costituzionale, con ampi richiami bibliograici sul costituzionalismo americano. 307. Gargani, Verso una democrazia giudiziaria? I poteri normativi del giudice tra principio di legalità e diritto europeo, in Criminalia, 2011, 111. 308. Gargani, Verso una democrazia giudiziaria?, cit., 111. 309. Tega, I diritti in crisi, cit., 176 ss., con ampi richiami bibliograici e giurisprudenziali. 310. Espressione di Manes, Il giudice nel labirinto, cit., 136. 311. Per un’approfondita analisi, Carlotto, I giudici comuni e gli obblighi internazionali dopo le sentenze n. 348 e n. 349 del 2007 della Corte costituzionale, cit.; Ruggeri, Applicazioni e disapplicazioni dirette della Cedu (lineamenti di un “modello” interamente composito), in www.forumcostituzionale.it. Per lavori monograici, Conti, La convenzione europea dei diritti dell’uomo. Il ruolo del giudice, Roma, 2011. 312. Corte cost., n. 303 del 2011, Considerato in diritto, § 4.2.2 in cui si richiamano i precedenti nn. 349 del 2007 e 80 del 2011 con nota di Bonomi, Brevi note sul rapporto fra l’obbligo di conformarsi alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo e l’art. 101, c. 2 Cost. (… prendendo spunto da un certo mutamento di orientamento che sembra manifestarsi nella sentenza n. 303 del 2011 Corte cost.), in www. consultaonline.it. 313. Corte Giust. Unione Eur., Grande Sezione, 24 aprile 2012, C-571/10, Kamberaj, §§ 5963, decidendo su una questione posta dal Tribunale di Bolzano in via pregiudiziale, «se, in caso di conlitto tra una norma di diritto nazionale e la CEDU, il richiamo a quest’ultima efettuato dall’articolo 6 TUE imponga al giudice nazionale di dare diretta attuazione alle disposizioni di tale 127 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea La crisi contemporanea della legalità penale nel sistema multilivello con il raforzato ruolo del giudice nazionale evidenzia così la crisi della democrazia rappresentativa, ancor di più ove si osservi il deicit democratico del legislatore europeo, colmato dal ruolo propulsivo della Corte di Giustizia. Da ciò, l’importanza del limite al potere di disapplicazione della legge interna solo nell’ipotesi di norma europea (non convenzionale) con essa in contrasto, direttamente applicabile, altrimenti, il giudice comune, innanzi ad un principio comunitario od ad una norma di indirizzo (non direttamente applicabili), determinerebbe da sé la regola da sostituire a quella nazionale. Si è già detto che il giudice, per decidere il caso concreto, mette mano agli argomenti disponibili (topoi), tra opinioni dottrinali, precedenti giurisprudenziali, disposizioni legislative, per raggiungere una soluzione più condivisibile, non solo, per le parti, ma soprattutto per l’opinione pubblica, in un contesto democratico come indicato dalla stessa Corte costituzionale (n. 230 del 2012). La legge, dunque, costituisce uno degli argomenti considerati dal giudice nel formulare la regola di diritto da applicare al caso concreto. La motivazione del provvedimento giudiziale, il controllo di tale motivazione da parte del giudice superiore, ino a quello di mera legittimità, il processo pubblico, sono sintomatici della necessità di consenso del giudizio di colpevolezza (o di assoluzione). Necessità di consenso che esprime almeno uno dei caratteri della democrazia. In questo senso, il diritto giudiziario, utilizzando nella formulazione della regola da applicare al caso concreto il topoi legislativo, e ricercando il consenso nella decisione adottata, è democratico. Qui si era fermata la rilessione svolta nelle pagine precedenti, che ora va portata più avanti. Può la motivazione sostituire la partecipazione popolare nelle scelte di criminalizzazione (giudiziaria)? convenzione, nella fattispecie all’articolo 14 della medesima nonché all’articolo 1 del Protocollo n. 12, disapplicando la norma di diritto nazionale in conlitto, senza dovere previamente sollevare una questione di costituzionalità dinanzi alla Corte costituzionale». La Corte di Lussemburgo ha evidenziato che, «ai sensi dell’articolo 6, paragrafo 3, TUE, i diritti fondamentali, così come garantiti dalla CEDU e quali risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali. Tale disposizione del Trattato UE consacra la giurisprudenza costante della Corte secondo la quale i diritti fondamentali sono parte integrante dei principi generali del diritto dei quali la Corte garantisce l’osservanza (v., segnatamente, sentenza del 29 settembre 2011, Elf Aquitaine/Commissione, C-521/09 P, non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 112). Tuttavia, l’articolo 6, paragrafo 3, TUE non disciplina il rapporto tra la CEDU e gli ordinamenti giuridici degli Stati membri e nemmeno determina le conseguenze che un giudice nazionale deve trarre nell’ipotesi di conlitto tra i diritti garantiti da tale convenzione ed una norma di diritto nazionale. Si deve pertanto rispondere alla seconda questione dichiarando che il rinvio operato dall’articolo 6, paragrafo 3, TUE alla CEDU non impone al giudice nazionale, in caso di conlitto tra una norma di diritto nazionale e detta convenzione, di applicare direttamente le disposizioni di quest’ultima, disapplicando la norma di diritto nazionale in contrasto con essa». 128 legalità Il giudice oggi, come visto, non è più o, meglio, non può essere più il tecnico della lege, il giudice-funzionario che applica quanto “scritto” nella norma posta dal legislatore penale, anche perché il giudizio di responsabilità criminale comporta valutazioni che vanno oltre la mera sussunzione del fatto concreto nella fattispecie astratta positiva. Da un lato, vi sono norme (costituzionali ed europee) che pongono dei limiti all’attività legislativa, legittimando il giudice comune ad ampliare o restringere la rilevanza penale di un comportamento, disapplicando o interpretando conformemente alla norma europea, quella legislativa nazionale e così alterando la voluntas legislatoris, se non proprio quella legis. Dall’altro, la dichiarazione di responsabilità penale, come si diceva, implica giudizi di valore ispirati da principi costituzionali che vincolano, non solo, il legislatore che pone il divieto penale, ma anche (e soprattutto) il giudice che deve punire il comportamento vietato. E qui entrano in campo, in particolare, colpevolezza e ofensività, che impongono, nella loro applicazione concreta, scelte valoriali necessariamente condizionate da cultura, opinioni, visione sociale e politica, personale e non laica (nel senso estremo del termine) del giudice314. È evidente, dunque, che, ponendo al di sopra del potere legislativo ordinario e democratico, i diritti fondamentali della persona umana, scritti nelle carte fondamentali (nazionali ed, ancora di più, sovranazionali), elaborati e sviluppati dalla giurisprudenza, il giudice-funzionario post-illuministico è divenuto giudice-sovrano, legittimato a indicare dei limiti (dei veti) alla comunità democratica, alle sue scelte di regolazione dei rapporti che devono essere poste, sempre e comunque, nell’alveo dei principi costituzionali e sovranazionali come interpretati dalla giurisprudenza. Spostando in avanti la rilessione testé svolta, è necessario chiedersi, a questo punto, quale natura possa avere una tale democrazia giudiziaria, ovvero quella ricercata nella motivazione della sentenza. Non certo partecipativa o popolare, perché i giudici non sono eletti e non hanno legittimazione politica. A ben guardare, si tratta di una forma di democra- 314. Se il giudice dovesse omettere di svolgere tali giudizi valoriali sul fatto di reato, onde rimanere nell’alveo istituzionale riconosciutogli, la decisione aggirerebbe quei principi fondanti del diritto penale, frutto della giurisprudenza costituzionale. Se, invece, il giudice dovesse svolgere quelle valutazioni valoriali del comportamento del reo, dettate dai principi garantistici suddetti, allora, come detto, dovrebbe necessariamente pescare non nel bagaglio tecnico-professionale dell’ermeneutica giuridica, ma nell’esperienza culturale personale, intesa come acquis proprio del giudice-uomo iltrato dalla personale capacità critica del fenomenico che lo circonda, a discapito della certezza del diritto e dalla prevedibilità del giudizio. La caratteristica eccezionalità di ogni persona umana non consentirebbe di pensare ad un corpo di giudici-robot, tutti con le medesime idee, la medesima capacità di leggere gli accadimenti sempre diversi, nella stessa maniera, se non dovendo trascurare alcuni aspetti che conformerebbero il fenomeno al fatto tipico. Una visione utopica, sinceramente, non auspicabile. 129 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea zia elitaria (o aristocratica315) costituita da giudici professionali, selezionati per concorso pubblico, che attraverso l’ermeneutica armonizzante ed integrativa delle norme del sistema europeo sinergico, stimano la portata e la misura delle disposizioni penali e, dunque, la rilevanza criminale di determinati comportamenti, andando, in tal maniera, a regolare i rapporti dei cittadini, interferendo o, meglio, sovrapponendosi alle scelte ed alle valutazioni che spettano al legislatore eletto e, dunque, se si vuole, al popolo. Sembrerebbe che proprio l’integrazione europea abbia scardinato l’equilibrio istituzionale interno tra potere legislativo e potere giudiziario: non a caso il legislatore interno è tuttora deinito nazionale nei trattati comunitari, così ancorandolo all’identità statuale, mentre il giudice nazionale è denominato (già) europeo, così collocandolo pienamente nel sistema interordinamentale316. E qui si evidenzia l’obiezione democratica – «cioè quella in base alla quale il giudice straniero non ha legittimazione a prendere decisioni che abbiano portata generale nell’ordinamento nazionale poiché il parametro di giudizio che applica non origina da una decisione democratica»317 – per cui il giudice (nazionale) europeo applica una norma priva di legittimazione democratica (si ricordi la sentenza Lissabon del Bundesverfassungericht), potenzialmente capace di rendere ineicace una norma nazionale democraticamente posta318. Il paradosso michelmaniano della democrazia costituzionale319 è, dunque, portato ino al massimo sacriicio della partecipazione dei cittadini alle scelte che 315. Giunta, Verso un’equivalente funzionale della riserva di lege?, cit., 77. 316. Nello stesso senso, Tega, I diritti in crisi, cit., 28 ss., secondo cui l’internazionalizzazione del diritto costituzionale pare anche essere uno dei fattori di erosione della separazione tra diritto legislativo e diritto giudiziario. 317. Così Tega, I diritti in crisi, cit., 41. 318. Si badi bene. Il ruolo nuovo del giudice comune, appena evidenziato, è perfettamente conforme all’assetto costituzionale, in virtù del combinato disposto degli artt. 1, co. 2, 11, 101, e 117, co. 1, Cost. La sovranità, recita l’art. 1, co. 2, Cost., appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione. Il successivo art. 11 Cost., come noto, ammette la limitazione della sovranità popolare in un sistema internazionale come quello eurounionista. La giustizia, che è tradizionalmente uno dei poteri statuali (sovrani), è esercitata in nome del popolo ed i giudici sono soggetti solo alla legge, che, come noto, è la principale modalità di esercizio della sovranità legislativa. La legge, a sua volta, oltre ad essere sottoposta alle limitazioni costituzionali (art. 134 Cost.), è oggi vincolata ai limiti comunitari (e sovranazionali), alla stregua di quanto previsto dall’art. 117, co. 1, Cost. La legge costituzionale prevista dall’art. 137, co. 1, Cost., oltre all’ipotesi di giudizio in via principale, relativo ai conlitti tra i poteri dello Stato, tra lo Stato e le Regioni e tra le Regioni, prevede il giudizio in via incidentale per il sindacato di costituzionalità delle leggi dello Stato e delle Regioni, mediato dalla valutazione di non manifesta infondatezza del giudice comune. Il presidio giudiziario per la tutela dei diritti e delle libertà costituzionali ed, oggi, anche in relazione ai vincoli unionisti, è fondamentale per gli eventuali abusi del legislatore ordinario nazionale (rectius, della maggioranza parlamentare). 319. La diicile conciliazione di esigenze contrapposte quali quelle della sovranità e della limitazione del potere. 130 legalità toccano le libertà ed i diritti. I diritti e le libertà, infatti, sono prepositivi rispetto all’esercizio dell’attività legislativa, con l’efetto che il legislatore nazionale non ha più la funzione illuministica di riconoscere tali diritti e libertà, ma quella di rispettare diritti e libertà fondamentali già riconosciuti a livello sovranazionale o costituzionale: la partecipazione democratica non è posta a garanzia del loro riconoscimento, ma della possibilità del relativo godimento. L’efettività di tale godimento è, a sua volta, sostenuta dalla tutela giudiziaria320. E così le tradizionali prerogative parlamentari, in cui si concentra la partecipazione del popolo-sovrano all’esercizio delle funzioni istituzionali, appaiono certamente sacriicate, rispetto al ruolo assunto dal giudice eurodomestico. Per quanto riguarda il limitato tema d’indagine e, quindi, la materia penale e senza entrare nella querelle del deicit di legittimazione democratica sottesa ai produttori contemporanei di norme penali321, seppur è indubbio che l’interferenza del diritto europeo su quello penale (diversamente rispetto agli altri ordinamenti) ha importanti limitazioni, ancorate al rispetto del principio di legalità, nella sua dimensione della riserva di legge-democraticità, appare possibile, anche in materia penale, porre dei contrappesi al ruolo assunto dal giudice-sovrano che non vadano ad incidere sulla sua indipendenza, tradizionalmente riferita ai rapporti con il potere esecutivo. Se, dunque, il diritto giudiziario penale è di fondamentale importanza nello svolgimento dei rapporti tra i cittadini, allora, il carattere della democraticità della legge penale, voluta dall’art. 25, co. 2, Cost., andrebbe garantito anche (o almeno) nella fase di applicazione del divieto, così ammettendo una maggiore partecipazione dei cittadini all’amministrazione della giustizia, onde «ridurre la distanza tra volontà del corpo sociale e le politiche criminali giudiziarie»322. Escludendo l’ipotesi di elezione dei giudici o dei pubblici ministeri, una soluzione di democratizzazione dell’amministrazione della giustizia penale, potrebbe essere quella dell’estensione applicativa della giuria popolare o, senza “riesumare” tali istituti323, che imporrebbero una necessaria riforma costituzionale, si potreb- 320. Sul dibattito anglosassone in tema di stato giurisdizionale o giuridiicazione, cfr. Tega, I diritti in crisi, cit., 38, nota 52. 321. Gargani, Verso una democrazia giudiziaria?, cit., 120. 322. Gargani, Verso una democrazia giudiziaria?, cit., 121. 323. L’istituto della giuria, introdotto in Francia nel 1790-1791, cominciò a difondersi in Europa, in particolare venne adottato e disciplinato in alcune costituzioni italiane tra la ine del XVIII sec. e l’inizio del XIX sec. Nella Costituzione della Repubblica Cispadana del 1797 ad esempio, nella parte dedicata alla giustizia correttiva e criminale, molteplici articoli si occupavano dell’istituzione dei giurati. Era stato introdotto il sistema della doppia giuria: riguardo ai delitti che comportavano una pena alittiva o infamante un primo corpo di giurati doveva ammettere o rigettare l’accusa, un secondo corpo di giurati doveva pronunciarsi in veste di giudice del fatto. I giurati di giudizio, che erano dodici e che erano stati “scelti” dalle parti mediante l’esercizio del diritto di ricusa, 131 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea votavano a scrutinio segreto rispondendo alle questioni formulate dai giudici. Tale sistema fu introdotto, seppur con alcune diferenze, nelle Costituzioni della Repubblica Cisalpina del 1797 e del 1798, nonché in quella della Repubblica romana del 1798 ed in quella italiana del 1802. Napoleone, incoronato nel 1805, Re d’Italia, abolì le giurie popolari ed escluse il popolo dall’amministrazione della giustizia. Sull’argomento ampiamente cfr. Acquarone, Le costituzioni italiane, Milano, 1958, 66 ss. I tentativi di reintrodurre la giuria nei diversi stati preunitari furono diversi, ma tutti infruttuosi, stante la diidenza delle potenze straniere dominanti nell’aidare l’amministrazione della giustizia al popolo occupato. Solo nel Regno sabaudo, dopo la promulgazione dello Statuto albertino, fu introdotta la giuria solo per i reati a mezzo stampa, ainché «nel modo di amministrare la giustizia sui reati della stampa entri l’elemento essenziale dell’opinione pubblica saggiamente rappresentata». Solo con il codice di procedura penale del 1859 venne reintrodotto l’istituto della giuria, poi, esteso a tutte gli stati annessi, come garanzia di democrazia e partecipazione popolare nell’amministrazione della giustizia del nuovo Regno d’Italia. Sul punto, cfr. Manfredini, Il giurato italiano dopo il primo gennaio 1875. Commento alla lege 8 giugno 1874 e Regolamento 1 settembre 1874 per l’avvocato Giuseppe Manfredini, Padova, 1875; Gabelli, I giurati nel nuovo regno italiano secondo la lege sull’ordinamento giudiziario e il codice di procedura penale, Milano, 1861; Delitala, Del giudizio per giurati, Cagliari, 1862. Nel 1865 entra in vigore il nuovo codice di procedura penale, primo del Regno d’Italia, e l’istituto della giuria popolare viene migliorato, con alcune modiiche volte a garantire, più possibile, la “genuinità” del verdetto, evitando inluenze da parte del giudice togato (presidente), ma, soprattutto, cercando di evitare inluenze politiche nella composizione delle liste dei giurati. Per il vivo dibattito dell’epoca sulla composizione delle liste dei giurati, cfr. De Mauro, Progetto di riforma sulla istituzione del giuri in Italia, Catania, 1872; Casorati, Giudizio per giurati, composizione delle liste, in Archivio giuridico, 1870, V, 155-171; Pizzamiglio, Dei giurati in Italia, Milano, 1872. Contrario al giudizio esclusivo della giuria, a cui doveva aiancarsi il verdetto dei giudici professionali, Pessina, Della istituzione dei giurati nei giudizi penali, in Opuscoli di diritto penale, Napoli, 1874. Va ricordato che la giuria era prevista solo per la Corte d’Assise che giudicava sui reati più gravi, mentre non era prevista nei tribunali competenti a giudicare sui reati meno gravi e, generalmente, relativi alla proprietà. Il dibattito sull’istituto in parola non si è mai sopito e, tutto sommato, ruotava intorno all’argomento sull’efettiva possibilità di separare il giudizio sul fatto, dal giudizio sul diritto, nonché sull’aidabilità dei giurati. Dopo le riforme del 1874 e del 1914, la Corte d’Assise era composta da un magistrato togato e da dieci giurati popolari. L’avvento del regime fascista pose ine all’istituto della giuria popolare. Il 23 marzo 1931, con il r.d. numero 249, venne abolita in Italia la giuria. I cittadini tuttavia non vennero totalmente esclusi dalle aule delle Corti d’Assise, semplicemente ora erano chiamati ad amministrare la giustizia assieme alla magistratura togata, gli uni e gli altri in un medesimo collegio che avrebbe dovuto risolvere tanto le questioni di fatto quanto quelle di diritto ed inine applicare la pena. La nuova Corte d’Assise era composta di un presidente di sezione di Corte d’Appello che doveva presiederla, di un consigliere di Corte d’Appello (o un Presidente di sezione del Tribunale) e di cinque assessori. Sull’argomento, cfr. Frezzati, La lege sui giurati che muore e quella nuova 27 marzo 1931 numero 249 sulla riforma delle Corti d’Assise in attività al 1 luglio 1931. Studio e considerazioni teorico pratiche sull’ordinamento col richiamo degli articoli dei codici penali attinenti al decreto e tabella contenente il numero degli assessori assegnati a ciascun circolo di Corte d’Assise del Regno e quella determinante la circoscrizione territoriale delle sezioni, Treviso, 1931. Terminato il secondo conlitto mondiale e sconitto il duce, si sentiva l’impellente esigenza di riaffermare i principi di libertà e democrazia che il regime fascista aveva soppresso. Il principio della sovranità popolare riemergeva dunque prepotentemente, riaprendo così un dibattito che in realtà non era mai cessato del tutto, ovvero la discussione sul riordino delle Corti d’Assise. Il decreto legislativo 560 del 1946 ripristinò la giuria, ma di fatto rimase lettera morta, perché le successive 132 legalità bero introdurre dei collegi giudicanti misti con giudici professionali e giudici popolari (in maggioranza), così come già previsto per la Corte d’Assise, che, come noto, ha competenza per i reati più gravi stabiliti dall’ordinamento nostrano. Non si tratterebbe, dunque, di un’ipotesi sconosciuta all’ordinamento domestico. La preferenza per questa seconda opzione potrebbe essere giustiicata dalla necessità imprescindibile, per lo stesso sviluppo del diritto, di mantenere l’obbligo di motivazione del giudizio di colpevolezza o innocenza, che, come noto, sarebbe escluso per il verdetto della giuria popolare, limitato alla sola valutazione del fatto. Per quanto riguarda la magistratura inquirente, il delicato ruolo svolto per la sicurezza pubblica ed il rispetto delle regole suggerirebbe di non intervenire con riforme della fase di esercizio dell’azione penale, evitando o, meglio, vietando solo la pubblicazione o divulgazione dei nomi dei singoli magistrati procedenti (ma anche di quelli giudicanti), sia per ragioni di sicurezza personale, sia per evitare antipatici protagonismi e facili strumentalizzazioni, che nuocciono alla stessa legittimazione laica della magistratura324. norme di attuazione non vennero mai nemmeno discusse. Solo dopo l’entrata in vigore della Costituzione, si è esclusa la possibilità di reintrodurre l’istituto della giuria, alla stregua dell’obbligo di motivazione dei provvedimenti giurisdizionali come previsto dall’art. 111 Cost., inconciliabile con il verdetto. Attualmente, la partecipazione popolare all’amministrazione della giustizia è garantita dalla composizione mista della Corte d’Assise (due magistrati togati e otto giudici popolari) disciplinata dalla legge 16 marzo 1951 n. 287. 324. Ipotizzare delle realistiche riforme costituzionali in materia di giustizia penale e di bilanciamento dei poteri sovrani è arduo, stante l’accesa conlittualità politica ed istituzionale che caratterizza quest’ultimo decennio (almeno). Ad ogni modo, de iure condendo, si potrebbe auspicare il ritorno all’art. 68 Cost., così come concepito dal legislatore costituente, giusto punto di equilibrio e di separazione tra potere legislativo e potere giudiziario. Anche se forse ormai superato dal ruolo europeo assunto dalla giurisprudenza. La riforma della legge costituzionale prevista dall’art. 137 Cost., ammettendo l’impugnazione diretta del cittadino delle leggi e degli altri atti aventi forza di legge, statali e regionali, innanzi alla Corte costituzionale, così da scemare grandemente il sindacato preventivo esclusivo del giudice comune sugli atti del legislatore. Il doppio laccio dell’assetto costituzionale interno al Trattato di Lisbona ed alle norme eurounitarie, voluto dall’art. 117, co. 1, Cost., impone la democratizzazione del potere legislativo sovranazionale, escludendo il Consiglio europeo dall’iter di formazione degli atti europei vincolanti per tutti gli Stati membri. 133 134 CAPITOLO II ofensività 1. Premessa. L’ofensività nel sistema penale europeo. La situazione italiana: la deriva del principio di necessaria lesività e l’irrefrenabile anticipazione della tutela penale con la tipizzazione anche di illeciti di rischio. L’eicacia argomentativa o dimostrativa dell’ofensività come parametro di controllo della politica criminale. - 2. La Corte costituzionale e la politica criminale sulla clandestinità: ofensività dimostrativa ed extrema ratio. - 3. Principio di precauzione vs principio di necessaria lesività. Il precauzionismo e l’individuo potenzialmente colpevole. - 4. Il giudizio di proporzione nella Carta di Nizza come fondamento dell’ofensività del reato europeo. La proporzione nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo e gli obblighi di tutela penale in chiave vittimo-centrica. Gli aspetti dell’ofensività (necessaria lesività e dannosità sociale) per individuare il fatto penalmente rilevante. - 5. La giustiziabilità degli obblighi di tutela contenuti nella norma penale europea da parte del Giudice costituzionale. - 6. Il sindacato di proporzionalità della Corte di Lussemburgo sulla norma penale europea. - 6.1. (segue) L’eccezione democratica e la razionalità del diritto penale positivo. Il giudizio di eguaglianza-proporzione come utile sindacato sull’opzione di politica criminale. - 7. Il principio di proporzione formale tra reato e sanzione previsto dall’art. 49, co. 3, della Carta di Nizza come criterio di coerenza intrasistemica del divieto penale. - 8. Il paternalismo in diritto penale. Il fondamento della legittimità del “punire” ed il limite dell’opzione penale nell’ottica antipaternalistica di John Stuart Mill. - 8.1. (segue) L’impostazione di Joel Feirberg. - 8.2. Il paternalismo come esigenza solidaristica nella visione costituzionale in una società democratica. - 9. La Corte di Strasburgo e l’eutanasia: il punto della giurisprudenza convenzionale sul “diritto di morire”. - 9.1. (segue) Riepilogo. Il diritto al suicidio dignitoso. - 9.2. Brevi annotazioni conclusive sul rapporto tra l’art. 8 Convenzione EDU e le questioni autolesive previste nella legislazione domestica nell’alveo del sistema eurounitario. - 10. Breve conclusione sul ruolo del principio di ofensività 1. Premessa. L’ofensività nel sistema penale europeo. La situazione italiana: la deriva del principio di necessaria lesività e l’irrefrenabile anticipazione della tutela penale con la tipizzazione anche di illeciti di rischio. L’eicacia argomentativa o dimostrativa dell’offensività come parametro di controllo della politica criminale. Nel nostro ordinamento, l’ofensività della condotta umana è un carattere fondamentale della responsabilità penale, ormai di rango costituzionale, nel senso che non è più limitata a parametro di valutazione della sussistenza del fatto di reato, nel momento di accertamento e di applicazione, ma anche come criterio di sindacabilità della legittimità costituzionale delle norme penali, con alcuni limiti1. 1. Nella sterminata bibliograia ci si limita a segnalare, Bartoli, Il principio di ofensività in concreto alla luce di alcuni casi giurisprudenziali, in Studium iuris, 2007, 419 ss.; Caterini, Reato impossibile ofensività. Un’indagine critica, Napoli, 2004; Donini, Il principio di ofensività. Dalla penalistica italiana ai programmi europei, in www.penalecontempornaeo.it; Fiandaca, Nessun reato senza ofesa, in 135 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea L’ofensività o necessaria lesività (unitamente al principio di materialità) issa gli estremi contenutistici all’utilizzo della sanzione penale ed alla tipizzazione delle fattispecie solo in relazione a fatti esteriori connotati da un disvalore sociale particolarmente signiicativo, tale da poter giustiicare la risocializzazione del reo solo con l’applicazione della sanzione alittiva (pena). Tale principio quindi individua come meritevoli di tutela penale soltanto interessi socialmente rilevanti ed individuabili nella sola Costituzione2. La giurisprudenza costituzionale ha da Fiandaca, Di Chiara, Una introduzione al sistema penale per una lettura costituzionalmente orientata, Napoli, 2003, 203 ss.; Id., Ofensività e teoria del bene giuridico, in Stile (a cura di), Le discrasie tra dottrina e giurisprudenza in diritto penale, Napoli, 1991, 67; Fiandaca, Musco, Diritto penale. Parte generale, Bologna, 2009, 150 ss.; C. Fiore, Il contributo della giurisprudenza costituzionale all’evoluzione del principio di ofensività, in Vassalli (a cura di), Diritto penale e Corte costituzionale, Napoli, 2006, 123 ss.; Fiorella, (voce) Reato in generale, in Enc. dir., XXXVIII, 1987, 793 ss.; Insolera, Reati artiiciali e principio di ofensività: a proposito di un’ordinanza della Corte costituzionale sull’art. 1, co. 4, l. n. 516 del 1982, in Riv. it. dir. proc. pen., 1990, 726; Manes, Il principio di ofensività tra codiicazione e previsione costituzionale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2001, 147 ss.; Id., Il principio di ofensività nel diritto penale. Canone di politica criminale, criterio ermeneutico, parametro di ragionevolezza, Torino, 2005, XVI-329; Manna, I reati di pericolo astratto e presunto e i modelli di diritto penale, in Curi, Palombarini (a cura di), Diritto penale minimo, Roma, 2002, 35 ss.; Masullo, Aspettando l’ofensività. Prove di scrittura del principio nelle proposte di riforma del codice penale, in Cass. pen., 2005, 1772; N. Mazzacuva, Diritto penale e riforma costituzionale: tutela di beni giuridici costituzionali e principio di ofensività, in IP, 1998, 324; Merenda, Ofensività e determinatezza nella deinizione delle soglie di punibilità. Le soglie di punibilità nelle false comunicazioni sociali, Roma, 2007; Merli, Introduzione alla teoria generale del bene giuridico. Il problema, le fonti, le tecniche di tutela penale, Napoli, 2006; Palazzo, Ofensività e ragionevolezza nel controllo di costituzionalità sul contenuto delle legi penali, in Riv. it. dir. proc. pen., 1998, 350 ss.; Paonessa, Gli obblighi di tutela penale, cit.; Id., L’avanzamento del “diritto penale europeo” dopo il Trattato di Lisbona, in La Giustizia Penale, 2010, 307 ss.; Pulitanò, Bene giuridico e giustizia costituzionale, in Stile (a cura di), Bene giuridico e riforma della parte speciale, Napoli, 1985, 134 ss.; Valenti, Principi di materialità e ofensività, in Insolera, N. Mazzacuva, Pavarini, Zanotti (a cura di), Introduzione al sistema penale, XIV, Torino, 2012, 359 ss. 2. Nella lezione bricoliana (per cui si rinvia a Canestrari, Cornacchia, De Simone, Manuale di diritto penale, cit., 204; Donini, L’eredità di Bricola e il costituzionalismo penale come metodo. Radici nazionali e sviluppi sovranazionali, in www.penalecontemporaneo.it) la ratio di tale necessaria scelta viene illustrata con il seguente semplice ragionamento: dal momento che la pena rappresenta la sanzione più alittiva dell’ordinamento, in particolare quella detentiva, che pregiudica il bene primario costituzionalmente garantito della libertà (proclamata inviolabile dall’art. 13 Cost.), essa può essere adottata dal legislatore soltanto rispetto a condotte che pregiudichino beni almeno di pari grado, ossia beni costituzionalmente signiicativi, che trovino nella Costituzione riconoscimento, esplicito o implicito. In altri termini, si tratta di un limite della libertà legislativa, ma non di un obbligo. Per voci di dissenso, cfr. F. Mantovani, Il principio di ofensività del reato nella Costituzione, in Studi Mortati, IV, Milano, 1977, 444 ss.; Pagliaro, Principi di diritto penale, cit., 234 ss.; più di recente, Marinucci, Dolcini, Costituzione e politica dei beni giuridici, in Riv. it. dir. proc. pen., 1994, 345 ss.; De Francesco, Programmi di tutela e ruolo dell’intervento penale, Torino, 2004, 47 ss. In particolare, Manna, Diritto penale e costituzione, in Cadoppi, Canestrari, Manna, Papa (a cura di), Trattato di diritto penale. Parte generale, vol. I, Il diritto penale e la lege penale, Torino, 2012, 68 ss., critica l’utilizzo della sola libertà personale come «bene giuridico “per lezione” sacriicato dal sistema penale», evidenzian- 136 offensività tempo precisato che la necessaria lesività, astrattamente, costituisce un limite all’attività del legislatore e, concretamente, determina un onere per il giudice che, «nel momento applicativo, deve accertare, in concreto, se il comportamento posto in essere lede efettivamente l’interesse tutelato dalla norma»3, al ine di «impedire una arbitraria ed illegittima dilatazione della sfera dei fatti da ricondurre al modello legale»4. Nella letteratura penalistica è evidenziato il consolidato orientamento della Consulta per cui il sindacato sulle scelte contenutistiche del legislatore penale è limitato al relativo esercizio distorto o arbitrario, così da conliggere in modo manifesto con il canone della ragionevolezza5. Si sottolinea sempre che la Corte costituzionale, invero, non ha mai utilizzato direttamente il principio di necessaria lesività come parametro autonomo per dichiarare l’illegittimità di una norma penale6, ma solo come rilesso (appunto) del criterio della ragionevolezza. Tale criterio si fonda sul principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost. ed, in stretta connessione con il criterio di proporzione7, esige che la scelta legislativa rispetto al bene e rispetto alla do che «il sistema penale e, in particolare, il processo penale, incida anche ed in primo luogo su altri beni, pure di notevole valore, come ad esempio, la reputazione – tanto è vero che calza a pennello la nota frase carneluttiana secondo cui “la prima pena è il processo” – come ha dimostrato il caso paradgmatico del fenomeno che giornalisticamente va sotto il nome di “Tangentopoli”…». Nello stesso senso, Grosso, Per un nuovo codice penale, in Dir. pen. proc., 1999, 1117 ss.; Id., Su alcuni problemi generali del diritto penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2003, 18 ss. 3. Corte cost. n. 519 del 2000. 4. Corte cost. n. 263 del 2000; n. 30 del 2007; n. 333 del 1991 citata da Manes, Il principio di ofensività nel diritto penale, cit., 293, nota 33, in cui i giudici costituzionali, per i reati di pericolo astratto, pur ammessi nel nostro ordinamento, hanno afermato che «è riservata al legislatore l’individuazione […] delle condotte alle quali collegare una presunzione assoluta di pericolo […], purché non sia irrazionale o arbitraria, ciò che si veriica allorquando non sia ricollegabile all’id quod plerumque accidit». Si veda poi per un’aggiornata disamina della giurisprudenza costituzionale sempre Manes, Principi costituzionali in materia penale (diritto penale sostanziale), Quaderno predisposto in occasione dell’incontro trilaterale delle Corti costituzionali italiana, spagnola e portoghese, Madrid, 13-15 ottobre 2011, in www.cortecostituzionale.it, in cui si richiamano anche Corte cost. n. 1 del 1971; n. 71 del 1978; n. 139 del 1982; n. 126 del 1983; n. 62 del 1986; n. 133 del 1992; n. 360 del 1995; relativamente all’irragionevolezza della presunzione di adeguatezza della sola misura cautelare custodiale per taluni reati cfr. Corte cost. n. 265 del 2010; n. 164 del 2011; n. 231 del 2011. Per un’ampia rassegna, Neppi Modona, Il lungo cammino del principio di ofensività, in Studi in onore di M. Gallo, Torino, 2004, 89 ss.; C. Fiore, Il contributo della giurisprudenza costituzionale all’evoluzione del principio di ofensività, cit., 91 ss. 5. Corte cost., n. 262 del 2005; n. 250 del 2010; n. 447 del 1998. 6. É dibattuto se in Corte cost., n. 189 del 1987, i giudici costituzionali hanno implicitamente utilizzato il principio di ofensività per la declaratoria di incostituzionalità del divieto di esposizione di bandiere estere senza autorizzazione per assenza del bene giuridico tutelato. Afermativamente, C. Fiore, Il contributo della giurisprudenza costituzionale all’evoluzione del principio di ofensività, cit., 94. In senso contrario, Dodaro, Uguaglianza e diritto penale, Milano, 2012, 160. 7. Canestrari, Cornacchia, De Simone, Manuale di diritto penale, cit., 218. Sul principio di proporzione, senza, però, uno speciico studio sulla funzione di limite al potere punitivo statuale, 137 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea predisposizione di tutela penale sia «razionalmente argomentabile e controllabile»: di fatto, si richiede una razionalità procedurale, quella che deriva dalla dialettica democratica della discussione parlamentare8. Da ciò, l’impossibilità per la Consulta di utilizzare la necessaria lesività come parametro per il sindacato di costituzionalità, proprio perché la Corte delle Leggi è estranea al circuito di legittimazione democratica, tant’è vero che, in più occasioni, nel prezioso rispetto dell’art. 28 l. 1953, n. 87, ha afermato che le valutazioni da cui dipende la decisione di ricorrere alla sanzione criminale «attengono a considerazioni generali (sulla funzione dello Stato, sul sistema penale, sulle sanzioni penali) e particolari (sui danni sociali contingentemente provocati dalla stessa esistenza delle incriminazioni, dal concreto svolgimento dei processi e dal modo d’applicazione delle sanzioni penali) che, per loro natura, sono autenticamente ideologiche e politiche e, pertanto, non formalmente controllabili in questa sede»9. Sulla scorta di tale orientamento della giurisprudenza costituzionale, è stato osservato10 che la necessaria lesività, dunque, non può avere una valenza dimostrativa11 (tanto da potere realmente costituire presupposto di declaratoria di illegittimità costituzionale quale principio suscettibile di essere utilizzato dalla Corte costituzionale per caducare le norme in contrasto con esso), ma meramente argomentativa (vale a dire, di indirizzo politico-culturale). A prescindere, quindi, dalle autorevoli dichiarazioni ed afermazioni sul rango costituzionale del principio di necessaria lesività, è un fatto che la sua valenza meramente interpretativa ha dissolto la ragione giustiicativa che limita la tutela penale – nell’alveo del principio di sussidiarietà ed in quello dell’extrema ratio – ai soli beni giuridici costituzionalmente rilevanti, tanto che da più parti in dottrina si denuncia un processo di smaterializzazione-spiritualizzazione del bene giuridico12. Fra gli efetti di questa deriva, fra l’altro, vi è l’utilizzo sempre più frequente di tecniche di anticipazione della tutela ino alla formulazione di illeciti di mero rischio, ispirati, questi ultimi, al principio di precauzione13. nella manualistica, fra gli altri, cfr. Manna, Corso di diritto penale, I, Torino, 2012, 121; Fiandaca, Musco, Diritto penale, cit., 13 e 704. 8. Fiandaca, Nessun reato senza ofesa, cit., 124 ss. 9. Corte cost. n. 409 del 1989. 10. Canestrari, Cornacchia, De Simone, Manuale di diritto penale, cit., 220. 11. Sulla distinzione tra principi informativi o di indirizzo, dotati di mera eicacia argomentativa, e principi dotati di capacità dimostrativa, «tale da farli assurgere al rango di norme costituzionali cogenti nella costruzione di tutte le leggi ordinarie e suscettibili di essere applicati autonomamente (senza l’ausilio di altri principi) dalla Corte costituzionale per caducare le disposizioni in contrasto con essi», cfr. Donini, (voce) Teoria del reato, in Dig. Pen., 1999, XIV, § 6; Id., Ragioni e limiti della fondazione del diritto penale sulla Carta costituzionale. L’insegnamento dell’esperienza italiana, Firenze, 2001, 29 ss. 12. Ampiamente cfr. Canestrari, Cornacchia, De Simone, Manuale di diritto penale, cit., 218 ss. 13. In tema di precauzione, si rinvia a Sunstein, Il diritto della paura. Oltre il principio di precauzione, Bologna, 2010, 10 ss.; Beck, La società del rischio. Verso una seconda modernità, Roma, 2007, 138 offensività Nella prospettiva di ricerca, è necessario appuntare ora l’attenzione sui rilessi della normativa europea sul ruolo imposto ai giudici costituzionali (e comuni) nel controllo della politica criminale ed, in particolare, nella selezione degli interessi da tutelare, ovvero se sia ancora attuale l’afermazione per cui le scelte di politica criminale, «per loro natura», sono «autenticamente ideologiche e politiche e, pertanto, non formalmente controllabili». Per la veriica della problematica posta, appare opportuno esaminare ciò che sembra proilarsi come una diversa valenza del principio in commento, in chiave efettivamente dimostrativa, allorquando i giudici costituzionali hanno decretato l’illegittimità costituzionale di una circostanza aggravante centrata su un semplice status soggettivo (lo status di soggetto illegalmente presente nel territorio dello Stato, ai sensi dell’art. 61, n. 11-bis, c.p.). Seppur, come è stato osservato14, ciò risulta in linea con taluni precedenti che hanno dimostrato l’abiura di presunzioni di pericolo irragionevolmente radicate su mere condizioni o qualità soggettive, e poste a fondamento di peculiari discipline punitive, la Corte, nella pronuncia sull’aggravante di clandestinità, evidenzia la necessità di un «vaglio positivo di ragionevolezza» che la scelta legislativa deve superare per sottrarsi alle censure di illegittimità. Ma non solo. Si tratta anche di veriicare se il siste9 ss., e più di recente Id., Conditio humana. Il rischio nell’età globale, Bari, 2008, 5 ss.; Jonas, Il principio responsabilità. Un’etica per la società globale, Torino, 1990, 12 ss.; Perini, Il concetto di rischio nel diritto penale moderno, Milano, 2010, 174 ss.; Giunta, Il diritto penale e le sugestioni del principio di precauzione, in Criminalia, 2006, 231; Forti, La “luce chiara della verità” e l’“ignoranza del pericolo”. Rilessioni penalistiche sul principio di precauzione, in Scritti per Federico Stella, vol. I, Napoli, 2007, 573 ss.; Ruga Riva, Principio di precauzione e diritto penale. Genesi e contenuto della colpa in contesti di incertezza scientiica, in Studi in onore di Giorgio Marinucci, vol. II, Milano, 2006, 1743 ss.; Consorte, Spunti di rilessione sul principio di precauzione e sugli obblighi di tutela penale, in DP XXI sec., 2007, 269 ss.; Pulitanò, Gestione del rischio da esposizioni professionali, in Cass. pen., 2006, 786, 788; Piergallini, Il paradigma della colpa nell’età del rischio: prove di resistenza al tipo, in Riv. it. dir. proc. pen., 2005, 1695, 1696; Centonze, La normalità dei disastri tecnologici. Il problema del congedo dal diritto penale, Milano, 2004; Attili, L’agente-modello “nell’era della complessità”: tramonto, eclissi o trasigurazione?, in Riv. it. dir. proc. pen., 2006, 1276 ss.; Sereni, Causalità e responsabilità penale. Dai rischi d’impresa ai crimini internazionali, Torino, 2008, 155 ss.; Corn, Principio di precauzione e diritto penale? Il principio di precauzione nella disciplina giuridica dell’agricoltura biotecnologica, in Forum BioDiritto, 2008. Percorsi a confronto, a cura di Casonato, Piciocchi, Veronesi, Padova, 2009, 433; Pongiluppi, Principio di precauzione e reati alimentari. Rilessioni sul rapporto “a distanza” tra disvalore d’azione e disvalore d’evento, in Riv. dir. pen. eur., 2010, 225 ss.; Martini, Incertezza scientiica, rischio e prevenzione. Le declinazioni penalistiche del principio di precauzione, in Responsabilità penale e rischio nelle attività mediche e d’impresa, Firenze, 2010, 579 ss. Nella manualistica, Fiandaca, Musco, Diritto penale. Parte generale, cit., 207 ss.; Manna, Corso di diritto penale, cit., 67 ss. Di recente, come lavori monograici, Consorte, Principio di precauzione e tutela penale. Un connubio problematico, Bologna, 2012; Castronuovo, Principio di precauzione e diritto penale. Paradigmi dell’incertezza nella struttura del reato, Roma, 2012; Id., Principio di precauzione e beni legali alla sicurezza, in www.penalecontemporaneo.it. 14. Manes, I recenti tracciati della giurisprudenza costituzionale in materia di ofensività e ragionevolezza, in Dir. pen. cont. - Riv. trim., 2011, 1, 99. 139 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea ma sinergico europeo impone delle limitazioni prepositive e sovraordinate alle scelte di politica criminale del legislatore nazionale, come di quello comunitario, apprestando per il giudice della legittimità del diritto positivo uno strumentario di controllo delle opzioni penali. 2. La Corte costituzionale e la politica criminale sulla clandestinità: ofensività dimostrativa ed extrema ratio. In materia di politiche dell’immigrazione, il legislatore nazionale è libero di adottare misure anche penali, senza però pregiudicare la realizzazione degli obiettivi perseguiti dagli strumenti normativi europei, così da privare questi ultimi del loro efetto utile. La Corte lussemburghese, nella nota pronuncia El Dridi15, ha utilizzato uno strumento ermeneutico classico, la dottrina dell’efetto utile16, con il conseguente allargamento della competenza europea, a fronte di una compressione delle competenze nazionali, ed in funzione espansiva alla tutela dei diritti17. Prima dell’intervento della Corte europea, adita dalla Corte d’appello di Trento, la Corte costituzionale, come già anticipato, con la sentenza n. 249 del 2010, ha dichiarato costituzionalmente illegittima, in riferimento agli artt. 3 e 25, co. 2, Cost., la previsione della circostanza aggravante comune per i fatti commessi dal colpevole «mentre si trova illegalmente sul territorio nazionale», rilevando l’incompatibilità della disposizione – che fa riferimento ad una condizione personale ai sensi dell’art. 3, co. 1, Cost. – con i principi di ofensività del reato e di personalità della responsabilità penale18. La decisione parrebbe rivoluzionaria poiché si tratterebbe della prima pronuncia di illegittimità costituzionale per il tramite diretto del principio di ofensività. Ma non è, del tutto, così. Ora, i giudici costituzionali sottolineano due basilari fondamenti costituzionali in tema di trattamento giuridico dello straniero, ovvero la titolarità, in 15. Corte Giust. Unione Eur., 28 aprile 2011, Hassen El Dridi, C-61/11 PPU. La decisione trae origine dal caso di Hassen El Dridi, cittadino di un Paese terzo, detenuto in Italia in regime di custodia cautelare, nei confronti del quale è stata pronunciata in primo grado dal Giudice monocratico di Trento la condanna ad un anno di reclusione, in applicazione dell’art. 14, co. 5-ter, d.lgs. 286 del 1998. La disposizione, introdotta in Italia nel 2009, disciplina il caso di illecito trattenimento nel territorio nazionale, senza giustiicato motivo, in violazione dell’ordine impartito dal Questore di lasciare lo Stato, prevedendo come pena la reclusione da uno a quattro anni. 16. L’efetto utile, quale fondamento ermeneutico dei rapporti tra Stato e Comunità, è stato dapprima afermato con riferimento alle norme del Trattato, poi esteso ai regolamenti ed, inine, seppur con notevoli problematiche, anche alle direttive. Dalla sistematica applicazione dell’efetto utile è nato il più signiicativo istituto comunitario: l’eicacia diretta. 17. Cossiri, La repressione penale degli stranieri irregolari nella legislazione italiana all’esame delle Corti costituzionale e di giustizia, cit. 18. Manna, Il diritto penale dell’immigrazione clandestina, tra simbolismo penale e colpa d’autore, in Cass. pen., 2011, 446 ss. 140 offensività capo ai non cittadini, dei diritti inviolabili, che spettano ai singoli «non in quanto partecipi di una determinata comunità politica, ma in quanto esseri umani»19e l’inammissibilità di trattamenti diversiicati e peggiorativi dei non cittadini sulla base della sola condizione giuridica di stranieri, «specie nell’ambito del diritto penale, che più direttamente è connesso alle libertà fondamentali della persona, salvaguardate dalla Costituzione con le garanzie contenute negli artt. 24 e seguenti, che regolano la posizione dei singoli nei confronti del potere punitivo dello Stato». La Corte, in particolare, evidenzia il parallelismo illegittimo tra i trattamenti penali più severi fondati su qualità personali dei soggetti che derivino dal precedente compimento di atti «del tutto estranei al fatto-reato» ed il rigoroso rispetto dei diritti inviolabili della persona umana, con l’efetto che qualsiasi previsione di una responsabilità penale d’autore sarebbe «in aperta violazione del principio di ofensività»20. Ma non solo. Nella pronuncia in esame, poi, la Consulta individua l’altro carattere del principio di ofensività nostrano, ovvero quello della proporzione tra diritto fondamentale e bene giuridico tutelato penalmente, nel senso che, «in presenza di un diritto inviolabile, il suo contenuto di valore non può subire restrizioni o limitazioni da alcuno dei poteri costituiti se non in ragione dell’inderogabile soddisfacimento di un interesse pubblico primario costituzionalmente rilevante». Il richiamo alla teoria bricoliana del bene giuridico prepositivo e costituzionalmente previsto, per giustiicare l’uso del potere punitivo statuale, appare evidente, anche se, a ben guardare, la Corte utilizza tale parametro (nell’accezione di necessaria lesività) per dichiarare l’incostituzionalità dell’aggravante di clandestinità, in stretta correlazione con il principio di materialità (altra accezione, se si vuole, di quello di ofensività)21. Ed invero, i giudici costituzionali afermano che la disposizione censurata individua un tipo di autore – l’immigrato irregolare – illegittimamente assoggetta19. Corte cost., n. 105 del 2001. 20. Corte cost., n. 354 del 2002. 21. Si ha l’impressione che la Corte costituzionale utilizzi l’espressione ofensività per indicare accezioni del tutto eterogenee dal punto di vista concettuale. Nel testo, di contro, si preferisce la distinzione operata da Canestrari, Cornacchia, De Simone, Manuale di diritto penale, cit., 201, secondo cui, in prima battuta, il principio di ofensività sancisce che il fatto proprio e colpevole, previsto dalla legge, per integrare gli estremi dell’illecito penale, deve essere inoltre un fatto ofensivo di beni essenziali per la convivenza civile. La genericità di tale assunto non è che il precipitato della genericità della denominazione di ofesa, sotto la quale vengono fatte rientrare problematiche afatto eterogenee dal punto di vista concettuale. Per ragioni metodologiche è invece corretto distinguere tre diversi principi che presiedono alla fondazione dell’illecito penale e che si trovano reciprocamente in relazione di progressione ascendente: dal principio di materialità; al classico canone del neminem laedere rivisitato come principio di ofesa a terzi; al moderno e ben più pregnante principio di necessaria lesività. In questa prospettiva, dunque, è evidente che la Corte costituzionale ha utilizzato il principio di materialità per sanzionare l’art. 61, co. 11-bis, c.p. 141 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea to, sempre e comunque, ad un più severo trattamento, per efetto di uno stigma che viene impresso sul soggetto e che ne caratterizza – con presunzione generale ed assoluta – tutte le successive condotte penalmente illecite, come segnate da un accentuato antagonismo verso la legalità. «Tale presunzione non trova giustiicazione nella violazione delle norme sul controllo dei lussi migratori, visto che detta trasgressione non è univocamente sintomatica di una particolare pericolosità sociale. Ciò determina un contrasto – scrive la Corte – tra la disciplina censurata e l’art. 25, co. 2, Cost., che pone il fatto alla base della responsabilità penale e prescrive pertanto, in modo rigoroso, che un soggetto debba essere sanzionato per le condotte tenute e non per le sue qualità personali. Un principio, quest’ultimo, che senz’altro è valevole anche in rapporto agli elementi accidentali del reato». «La previsione considerata ferisce, in deinitiva, il principio di ofensività, giacché non vale a conigurare la condotta illecita come più gravemente ofensiva con speciico riferimento al bene protetto, ma serve a connotare una generale e presunta qualità negativa del suo autore». In conclusione, dunque, il principio di ofensività, nella sua accezione concettuale della materialità22, non ammette alcuna scelta o modulazione sanzionatoria giustiicata su connotati d’autore sic et simpliciter, qualora tale diferenziazione soggettiva sia di per sé inespressiva – almeno secondo l’id quod plerumque accidit – di un maggior danno o di un maggior pericolo per il bene giuridico tutelato23, risultando altresì, in tali casi, tanto più irragionevolmente discriminatoria alla luce del principio di eguaglianza24. Nella successiva pronuncia25 sul reato di clandestinità di cui all’art. 10-bis, d.lgs. 286 del 1998, impugnato per sospetta tensione con i principi di materialità e necessaria lesività, la Corte costituzionale ha, prima d’ogni altro, ribadito che «l’individuazione delle condotte punibili e la conigurazione del relativo trattamento sanzionatorio rientrano nella discrezionalità del legislatore: discrezionalità il cui esercizio può formare oggetto di sindacato, sul piano della legittimi- 22. Il fondamento costituzionale del principio di ofensività in genere è individuato sia nell’art. 27, co. 3, Cost., sia nell’art. 25, co. 2, Cost. che, oltre al principio di materialità (e quindi di non punibilità di puri atteggiamenti interiori o attinenti al forum conscientiae), vieterebbe anche l’incriminazione di fatti inofensivi come meri indizi sintomatici di personalità deviante o indici diagnostici della dimensione soggettiva. Cfr. Bricola, (voce) Teoria generale del reato, in Noviss. Dig. It., XIV, Torino, 1973 82 ss. 23. Corte cost., n. 249 del 2010, Considerato in diritto, § 5, edita in Riv. it. dir. proc. pen., 2010, 1349 ss., con nota di Masera, Corte costituzionale e immigrazione: le ragioni di una scelta compromissionaria, 1385. 24. Manes, I recenti tracciati della giurisprudenza costituzionale in materia di ofensività e ragionevolezza, cit., 105. 25. Corte cost., n. 250 del 2010. 142 offensività tà costituzionale, solo ove si traduca in scelte manifestamente irragionevoli o arbitrarie»26. Tale discrezionalità del legislatore può essere esercitata già con la selezione del bene giuridico da tutelare. Su tale aspetto ed in relazione alle censure oggetto del giudizio di costituzionalità, la Corte ha rigettato l’eccezione di illegittimità che evidenziava il reato di clandestinità posto a tutela di un bene giuridico privo di meritevolezza penale, e diretto a sanzionare «una mera disobbedienza», afermando che «il bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice è, in realtà, agevolmente identiicabile nell’interesse dello Stato al controllo e alla gestione dei lussi migratori, secondo un determinato assetto normativo: interesse la cui assunzione ad oggetto di tutela penale non può considerarsi irrazionale ed arbitraria – trattandosi del resto, del bene giuridico “di categoria”, che accomuna buona parte delle norme incriminatrici presenti nel testo unico del 1998 – e che risulta, altresì, ofendibile dalle condotte di ingresso e trattenimento illegale dello straniero»27. In questa pronuncia, dunque, la Corte pare discostarsi 26. Corte cost., n. 250 del 2010, Considerato in diritto, § 5. 27. Corte cost., n. 250 del 2010, Considerato in diritto, § 6.3, ove, inoltre, i giudici costituzionali evidenziano che «l’ordinata gestione dei lussi migratori si presenta, in specie, come un bene giuridico “strumentale”, attraverso la cui salvaguardia il legislatore attua una protezione in forma avanzata del complesso di beni pubblici “inali”, di sicuro rilievo costituzionale, suscettivi di essere compromessi da fenomeni di immigrazione incontrollata. Ciò, secondo una strategia di intervento analoga a quella che contrassegna vasti settori del diritto penale complementare, nei quali la sanzione penale – specie contravvenzionale – accede alla violazione di discipline amministrative aferenti a funzioni di regolazione e controllo su determinate attività, inalizzate a salvaguardare in via preventiva i beni, specie sovraindividuali, esposti a pericolo dallo svolgimento indiscriminato delle attività stesse (basti pensare, ad esempio, al diritto penale urbanistico, dell’ambiente, dei mercati inanziari, della sicurezza del lavoro). Caratteristica, questa, che, nel caso in esame, viene peraltro a rilettersi nell’esiguo spessore della risposta punitiva preigurata dalla norma impugnata, di tipo meramente pecuniario. È incontestabile, in efetti, che il potere di disciplinare l’immigrazione rappresenti un proilo essenziale della sovranità dello Stato, in quanto espressione del controllo del territorio. Come questa Corte ha avuto modo di rimarcare, “lo Stato non può […] abdicare al compito, ineludibile, di presidiare le proprie frontiere: le regole stabilite in funzione d’un ordinato lusso migratorio e di un’adeguata accoglienza vanno dunque rispettate, e non eluse […], essendo poste a difesa della collettività nazionale e, insieme, a tutela di coloro che le hanno osservate e che potrebbero ricevere danno dalla tolleranza di situazioni illegali” (sentenza n. 353 del 1997). La regolamentazione dell’ingresso e del soggiorno degli stranieri nel territorio dello Stato è, difatti, “collegata alla ponderazione di svariati interessi pubblici, quali, ad esempio, la sicurezza e la sanità pubblica, l’ordine pubblico, i vincoli di carattere internazionale e la politica nazionale in materia di immigrazione” (sentenze n. 148 del 2008, n. 206 del 2006 e n. 62 del 1994): vincoli e politica che, a loro volta, rappresentano il frutto di valutazioni aferenti alla “sostenibilità” socio-economica del fenomeno. Il controllo giuridico dell’immigrazione – che allo Stato, dunque, indubbiamente compete (sentenza n. 5 del 2004), a presidio di valori di rango costituzionale e per l’adempimento di obblighi internazionali – comporta, d’altro canto, necessariamente la conigurazione come fatto illecito della violazione delle regole in cui quel controllo si esprime. Determinare quale sia la risposta sanzionatoria più adeguata a tale illecito, e segnatamente stabilire se esso debba assumere una connotazione penale, anziché meramente amministrativa (com’era anteriormente all’entrata 143 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea dalla teoria bricoliana, richiamata, come veriicato nell’immediato precedente28, ofrendo legittimazione alla tecnica di seriazione dei beni giuridici29, e così riconoscendo espressamente al legislatore piena discrezionalità nel deinire il proilo qualitativo (e, o il tasso di artiicialità) degli interessi ritenuti meritevoli di tutela30, utilizzando così l’argomento bricoliano del bene presupposto suscettivo di tutela penale, in maniera però più ampia, tanto da distinguere beni giuridici strumentali da quelli inali di sicuro rilievo costituzionale, senza, però, individuare alcun nesso di presupposizione necessaria tra gli uni e gli altri31. Ma si tratta, a ben vedere, solo di una pseudo-libertà del legislatore ordinario nella selezione del bene giuridico da tutelare penalmente. Ed infatti, se fosse vero che il principio di necessaria lesività è indiferente alla selezione degli interessi da tutelare in sé considerati, allora, tali interessi non classiicabili potrebbero sacriicare il diritto fondamentale alla libertà personale del reo, così ledendo il principio secondo cui, in presenza di un diritto inviolabile della persona umana, «il suo contenuto di valore non può subire restrizioni o limitazioni da alcuno dei poteri costituiti se non in ragione dell’inderogabile soddisfacimento di un interesse pubblico primario costituzionalmente rilevante» (n. 249 del 2010). Allora, bisogna andare oltre. Tirando le ila del discorso e cercando di comporre in armonia la giurisprudenza costituzionale delle decisioni esaminate, si può afermare che il principio di ofensività, nella sua accezione di necessaria lesività, ha fondamento costituzionale ed è parametro di sindacabilità delle leggi penali anche in relazione alla scelta del bene giuridico da tutelare, nel senso che la libertà del legislatore ordinario nella selezione dell’interesse meritevole di tutela penale trova il solo limite della proporzione con il sacriicio della libertà personale. È un primo passo dell’argomentazione che si svilupperà in seguito. in vigore della legge n. 94 del 2009), rientra nell’ambito delle scelte discrezionali del legislatore, il quale ben può modulare diversamente nel tempo – in rapporto alle mutevoli caratteristiche e dimensioni del fenomeno migratorio e alla diferente pregnanza delle esigenze ad esso connesse – la qualità e il livello dell’intervento repressivo in materia». 28. Nella pronuncia n. 249 del 2010, la Corte aferma che, in presenza di un diritto inviolabile, «il suo contenuto di valore non può subire restrizioni o limitazioni da alcuno dei poteri costituiti se non in ragione dell’inderogabile soddisfacimento di un interesse pubblico primario costituzionalmente rilevante» (sentenze n. 366 del 1991 e n. 63 del 1994). 29. Fiorella, (voce) Reato in generale, cit., 814 ss. In materia ambientale, M. Musco, Il principio di ofensività nei reati ambientali, in www.dirittoambiente.com. 30. Manes, I recenti tracciati della giurisprudenza costituzionale in materia di ofensività e ragionevolezza, cit., 101. 31. Per la critica della selezione di beni strumentali, cfr. Canestrari, Cornacchia, De Simone, Manuale di diritto penale, cit., 219. Sulla distinzione tra beni strumentali e beni inali, Manna, Introduzione al diritto penale dell’impresa, in Manna (a cura di), Corso di diritto penale dell’impresa, Padova, 2010, 10 ss. 144 offensività Ora limitiamoci a segnare un punto, afermando che, su questa linea, il controllo costituzionale si afaccia timidamente (ancora) al “balcone” della giustiziabilità dell’extrema ratio, via che porta al sindacato degli obblighi di tutela penale, entrando così in un campo dove la ritrosìa del giudice costituzionale ad intervenire si fa più accentuata32, anche in ragione della perdurante assenza di un aidabile strumentario concettuale, che, come si constaterà più avanti, andrebbe individuato nelle norme sovranazionali in virtù dei vincoli imposti dall’art. 117, co. 1, Cost. Ad ogni modo, la denunciata smaterializzazione-spiritualizzazione del bene giuridico appare più evidente con l’ingresso, anche nella materia penale, del precauzionismo. È opportuno appuntare, brevemente, l’attenzione su tale principio al ine di veriicare l’attuale utilità di un’individuazione prepositiva e sovraordinata degli interessi meritevoli di tutela penale nell’evoluzione della norma penale europea, in considerazione dell’importante collocazione della precauzione nel sistema comunitario33. 3. Principio di precauzione vs principio di necessaria lesività. Il precauzionismo e l’individuo potenzialmente colpevole. Sul principio di precauzione si è concentrata l’attenzione della dottrina penalistica almeno dell’ultimo decennio34, in questa sede, va detto, con la dovuta sintesi, che il precauzionismo viene tradizionalmente indivi- 32. Manes, I recenti tracciati della giurisprudenza costituzionale in materia di ofensività e ragionevolezza, cit., 102, nota 12, ove l’A. richiama Donini, Democrazia e scienza penale nell’Italia di ogi: un rapporto possibile, in Riv. it. dir. proc. pen.,1083 ss., 1087 ss.; inoltre Id., Principi costituzionali e sistema penale, in Ius17@unibo.it, 2009, 2, 417 ss., e già Id., Il volto attuale dell’illecito penale, Milano, 2004, 85 ss. ove si evidenzia l’importanza della motivazione delle leggi penali quale presupposto per costruire la giustiziabilità dell’extrema ratio, mediante il successivo controllo della Corte costituzionale, e sottolineando più in generale la necessità di disporre di saperi empirici per rendere più penetranti – inter alia – i sindacati di ofensività, ragionevolezza e sussidiarietà. 33. Per una lucida impostazione, cfr. Castronuovo, Principio di precauzione e beni legali alla sicurezza, cit., in cui l’A. osserva che «l’intensa produzione normativa europea degli ultimi anni appare dichiaratamente ispirata, in diversi contesti di “rischio” (ambientale, alimentare, lavorativo, da prodotto…), alla realizzazione di un “elevato livello di tutela”. Uno strumento o, forse, in un certo senso, un sintomo di questa tendenza può essere identiicato, tra l’altro, nella progressiva estensione dell’applicazione del principio di precauzione ad ambiti di tutela sempre più ampi e ulteriori rispetto al settore (originariamente esclusivo) della tutela ambientale. Come noto, sebbene sul piano del diritto dei Trattati un riferimento esplicito al principio di precauzione sia rinvenibile esclusivamente in materia di ambiente, nondimeno la sua portata odierna – soprattutto in seguito alla giurisprudenza della Corte di Giustizia, ma poi con ampie conferme nel diritto “derivato” – è divenuta molto più vasta, trovando applicazione nelle materie incidenti sulla tutela della salute umana (oltre che delle piante e degli animali): pertanto, l’ambito di applicazione del principio di precauzione può sicuramente riguardare, nel diritto europeo vigente, i diversi settori nei quali si articola la tutela dei beni della salute e della sicurezza». 34. Cfr. bibliograia indicata nella nota 13. 145 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea duato nelle opere di Ulrich Beck e Hans Jonas, anche se il modello sociologico e ilosoico di riferimento è indubbiamente più ampio e complesso. I sostenitori di tale prospettiva sono, altresì, convinti che, in un’ottica post moderna di superamento dell’idea liberale del diritto penale contrapposto alla garanzia dell’habeas corpus, oggi, il diritto penale si deve porre l’ulteriore obiettivo di preservare le generazioni future, fondato sul generale dovere solidaristico di sicurezza. È stato osservato35 che all’esasperazione di un’ottica liberale, antropocentrica e interamente proiettata sul presente, si contrappone la teorizzazione di un generale (e generico) dovere solidaristico di sicurezza, teleologicamente orientato dal lungimirante obiettivo di preservare le generazioni future. Il fondamento del precauzionismo sta nella neutralizzazione del rischio di un danno: qualora una valutazione scientiica rilevi la presenza di rischi connessi allo svolgimento di certe attività, anche se, vista l’insuicienza o la contraddittorietà dei dati scientiici a disposizione, gli stessi non possono essere interamente dimostrati, né può essere precisata con esattezza la loro portata, il principio di precauzione impone nondimeno di adottare tutte le misure necessarie per azzerare o contenere la minaccia in questione, giungendo, se necessario, all’astensione dallo svolgimento dell’attività rischiosa36. La precauzione sta alla prevenzione, come il rischio sta al pericolo. È opinione suicientemente consolidata quella per cui, mentre il principio di prevenzione verrebbe in considerazione solo in presenza di rischi scientiicamente dimostrati, il presupposto applicativo del principio di precauzione consisterebbe, come già precisato, nell’incertezza scientiica relativa agli efetti che una certa attività o un certo prodotto sono in grado di cagionare37. 35. Massaro, Principio di precauzione e diritto penale: nihil novi sub sole?, in www.penalecontemporaneo.it. 36. Massaro, op. e loc. cit. 37. Tra gli altri Bruno, Il principio di precauzione tra diritto dell’Unione europea e WTO, in DGA, 2000, 571; Manfredi, Note sull’attuazione del principio di precauzione in diritto pubblico, in DP, 2004, 1086; Montini, Unione europea e ambiente, in Nespor, De Cesaris (a cura di), Codice dell’ambiente, III, Milano, 2009, 67; Amirante, Diritto ambientale italiano e comparato. Principi, Napoli, 2003, 39; Cordini, Diritto ambientale comparato, III, Padova, 2002, 187, 188; Cafagno, Principi e strumenti di tutela dell’ambiente come sistema complesso, adattivo, comune, Torino, 2007, 263. La distinzione emerge chiaramente dal Parere del Comitato economico e sociale sul tema Il ricorso al principio di precauzione (2000/C 268/04), secondo cui: «2.7. Ciò conduce alla problematica della decisione. Si ritorna quindi all’interrogativo formulato nella comunicazione della Commissione: che cosa è un rischio accettabile? Quando è possibile assumere un rischio? Il termine prescelto è ormai quello della precauzione. La precauzione si distingue dalla prevenzione. Per scegliere la prevenzione di fronte ad un rischio, occorre poterlo misurare: la prevenzione è possibile solo quando il rischio è misurabile e controllabile. 2.8. Per precauzione si intende l’atteggiamento che ci si aspetta da qualcuno al quale si dice che, oltre al rischio da controllare e misurare, deve correre un rischio che non può ancora conoscere ma che potrebbe manifestarsi in futuro in una nuova fase di evoluzione della scienza. Il rischio contemporaneo è contraddistinto da una dimensione particolare, ovvero dal fatto di essere 146 offensività A livello europeo, il principio di precauzione è previsto all’art. 191, n. 2, TFUE secondo cui: «La politica dell’Unione in materia ambientale mira a un elevato livello di tutela, tenendo conto della diversità delle situazioni nelle varie regioni della Comunità. Essa è fondata sui principi della precauzione e dell’azione preventiva, sul principio della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all’ambiente, nonché sul principio “chi inquina paga”. Tuttavia, il principio di precauzione assume un rilievo molto più ampio nella giurisprudenza comunitaria, che, come già ricordato in precedenza, si è resa protagonista della sua estensione a settori di tutela ulteriori rispetto all’ambiente, prima della speciica traduzione del principio dal diritto comunitario convenzionale a quello derivato»38. Un importante riferimento negli atti comunitari è poi costituito dalla Comunicazione della Commissione sul principio di precauzione (Bruxelles, 2 febbraio 2000), specialmente laddove se ne ricorda l’attinenza rispetto all’articolazione di una corretta analisi dei rischi, nelle sue tre fasi fondamentali (valutazione, gestione e comunicazione del rischio)39. Anche nell’ordinamento italiano il principio de quo, come è noto, ha ottenuto espliciti riconoscimenti normativi, specie per ciò che attiene alla tutela dell’ambiente, nel decreto legislativo n. 152 del 2006 (c.d. codice dell’ambiente)40, ma anche in materia di inquinamento elettromagnetico (legge-quadro n. 36/2001)41, di sicurezza alimentare e dei prodotti in genere. Utilizzando il parametro della precauzione per la costruzione di una norma penale si anticipa notevolmente la rilevanza criminale di un determinato comportamento, punito poiché sarebbe fonte di rischio per un bene di rilevante interesse collettivo (ambiente o salute umana). Le regole cautelari dettate dalla precauzione, infatti, sono poi formalizzate o attratte mediante rinvio (anche legato ad una straordinaria dilatazione del tempo. Si passa quindi da una problematica legata alla sicurezza tecnica ad una problematica legata alla sicurezza etica». 38. A titolo esempliicativo, Corte Giust. Com. Eur., 5 maggio 1998, C-157/96 e C-180/96, National Farmes Union; Trib. I ist. CE, 16 luglio 1998, T-199/96, Laboratoires pharmaceutiques Bergaderm SA; Corte Giust. Com. Eur., 9 settembre 2003, C-236/01, Monsanto Agricoltura Italia e altri, in FI, 2004, IV, 245 ss., con nota di Barone, Organismi geneticamente modiicati (Ogm) e precauzione: il rischio alimentare tra diritto comunitario e diritto interno, ibid. Cfr., inoltre, Trib. I ist. CE, Sez. III, 11 settembre 2002, T-13/99, Pizer Health SA/Consiglio; Trib. I ist. CE, 21 ottobre 2003, T-392/02, Solvay. 39. Castronuovo, Principio di precauzione e beni legati alla sicurezza, cit. 40. Il riferimento è, in particolare, agli artt. 3-ter, 178, 179, co. 3 e 301. 41. In materia di protezione dalle esposizioni a campi elettrici, magnetici ed elettromagnetici, è opportuno il richiamo della inalità di cui all’art. 1, co. 1, lett. b), l. 36/2001, ovvero quella di «promuovere la ricerca scientiica per la valutazione degli efetti a lungo termine e attivare misure di cautela da adottare in applicazione del principio di precauzione di cui all’articolo 174, paragrafo 2, del trattato istitutivo dell’Unione Europea». Sui possibili danni derivanti dall’uso di telefoni mobili cfr. Zocchetti, Osservazioni di un epidemiologo su una sentenza della Corte d’Appello di Brescia in sede civile, in www.penalecontemporaneo.it. 147 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea solo implicito) all’interno di norme penali, strutturate come fattispecie di mera condotta inosservanti tali regole cautelari o precauzionali, secondo un modello di illecito assimilabile a quello di mera disobbedienza42. Si ha, dunque, un arretramento della punibilità per fatti dolosi molto prima della soglia del tentativo e di un’ofensività oggettivamente e socialmente univoca, avvicinando il reato all’autore e la pena alla neutralizzazione della pericolosità. Ma a ben guardare, si va ben oltre. Il comportamento punito è rischioso poiché si ignorano (questa è la sostanza dell’incertezza), da un punto di vista scientiico, le conseguenze che possano incidere su un bene giuridico fondamentale. La conigurazione di illeciti di mero rischio disperde ogni collegamento con la materialità e la necessaria lesività del fatto criminale che si arresta innanzi al pericolo astratto, poiché, andando oltre, ino al rischio (di un pericolo), forse possibile, ma non probabile (perché si ignorano le conseguenze del comportamento), si punisce ciò che potrebbe non essere colpevole. Si sacriica la libertà personale di un individuo senza conoscere le conseguenze del suo comportamento. Né varrebbe obiettare che la criminalizzazione di quel comportamento potenzialmente pericoloso, ma anche potenzialmente innocuo, è giustiicata dalla rilevanza del bene (inale) da tutelare, poiché si ha la netta sensazione di una smaterializzazione della condotta da punire, in contrasto con la necessaria materialità del fatto da punire alla stregua di quanto indicato perentoriamente dall’art. 25, co. 2, Cost. Non va trascurato, poi, il “potenziale” inutile sacriicio della libertà personale del reo che stride con il principio fondamentale del nostro ordinamento che ripudia l’idea di un individuo potenzialmente colpevole: questo, in concreto, signiicherebbe la previsione di un illecito penale di mero rischio, nonostante l’espressa garanzia della presunzione di non colpevolezza. La libertà personale, la materialità, la necessaria lesività e la presunzione di non colpevolezza paiono in conlitto con norme penali precauzionali43. 42. Castronuovo, Principio di precauzione e beni legati alla sicurezza, cit., acutamente, osserva che «tali precetti sono a “a struttura variabile” nel senso che potranno essere formalizzati non soltanto secondo l’alternativa “secca” norme di divieto/norme d’obbligo, ma anche secondo varie sotto-articolazioni, talora di natura mista, implicanti una peculiare disciplina del rischio incerto, ma consentito solo a certe condizioni normative e procedurali: rispetto di limiti-soglia, o di procedure di autorizzazione, o di meccanismi di tipo ingiunzionale, o di norme strutturate sotto forma di obblighi di fare (es. di comunicazione, di richiamo o di ritiro di prodotti), etc. In ogni caso, si tratta di opzioni normative che, quando fondate sul principio di precauzione, non sembrano comunque riconducibili alla consueta tecnica di normazione del pericolo astratto o presunto, la cui struttura teleologica rimanda pur sempre alla disponibilità di leggi scientiiche o regole di esperienza “corroborate”». 43. Una delle teorie ilosoico-penalistiche più controverse è il diritto penale del nemico, promossa da Günther Jakobs, avente ad oggetto lo stravolgimento della predominanza della tutela giuridica dell’individuo in quanto tale, qualora la vita dello Stato sia messa in pericolo da soggetti non considerati come cittadini, ma regrediti alla condizione di “nemici”. Per una critica cfr. Zumpani, Critica del diritto penale del nemico e tutela dei diritti umani, in D&Q, 2010, 10. 148 offensività Al più, il principio di precauzione può giustiicare delle misure cautelari che impongano determinati comportamenti o vietino determinati atteggiamenti, per il tempo strettamente necessario a veriicare l’efettiva pericolosità (sulla base delle conoscenze scientiiche) degli stessi, e non la loro mera rischiosità44. Tali illeciti di mera condotta diicilmente garantiscono la tutela del bene fondamentale, ma, più correttamente, hanno ad oggetto il raforzamento, attraverso la sanzione penale, della funzione amministrativa di controllo. Tutela che potrebbe essere eicacemente garantita dall’apparato sanzionatorio amministrativo. L’ontologica problematicità del principio di precauzione con il diritto penale45, qui appena tracciata, da un lato, «enfatizza quel processo di lessione dei principi e delle categorie classiche del diritto penale, come visto, a fronte delle domande di tutela ingenerate dalle dimensioni e morfologie inedite dei rischi contemporanei46, dall’altro, espande il diritto penale, in spregio anche del principio di extrema ratio, per imporre obblighi o divieti dotati di sanzione punitiva»47. 44. Corte Giust. Com. Eur., 16 novembre 2002, T-74/00; Corte Giust. Com. Eur., 5 maggio 1998, C-157/1996, in cui la Corte ha ritenuto legittimo, nell’ambito dell’emergenza generata dal caso “mucca pazza”, il divieto provvisorio disposto dalla Commissione di esportare bovini, carni bovine e prodotti derivati dal territorio del Regno Unito, osservando, tra l’altro, che «quando sussistono incertezze riguardo all’esistenza o alla portata di rischi per la salute delle persone, le istituzioni possono adottare misure protettive senza dover attendere che siano esaurientemente dimostrate la realtà e la gravità di tali rischi» (§ 63). 45. Canestrari, Cornacchia, De Simone, Manuale di diritto penale, cit., 434 ss., in cui si evidenzia che un tale principio in materia penale trova un ostacolo nei principi garantistici, ma anche appare incompatibile, ad esempio, con l’accertamento della causalità, che, come noto, richiede un giudizio nomologico in termini di certezza o di alta credibilità razionale circa il nesso tra condotta ed evento. 46. Così Castronuovo, Principio di precauzione e beni legati alla sicurezza, cit., 9, in cui si richiama per l’analisi dottrinale al processo di lessibilizzazione delle categorie penalistiche, De Francesco, L’imputazione del reato e i tormenti del penalista, in Scritti Stella, I, Napoli, 2007, 513 ss.; Piergallini, Danno da prodotto e responsabilità penale, Milano, 2004, 33 ss. Per alcune osservazioni critiche e per ulteriori riferimenti, Castronuovo, La colpa penale, Milano, 2009, 300 ss., 420 s., 422 ss., 612 ss. 47. Per un’analisi sull’utilizzo giurisprudenziale del principio di precauzione nel nostro ordinamento, cfr. Castronuovo, Principio di precauzione e beni legati alla sicurezza, cit., 42, che, alla ine della sua indagine, osserva che «l’ipotesi di partenza – circa la capacità espansiva del principio di precauzione – ha trovato conferma, ma l’esito complessivo appare forse più chiaroscurale rispetto alle attese, lasciando intravvedere, tra le ombre, anche qualche chiarore. In un primo momento, l’analisi legislativa ha mostrato come il principio di precauzione, attraverso il suo recepimento nel diritto interno, sia perfettamente funzionale a un efetto espansivo del diritto penale. Su questo piano (astratto) dell’analisi, si è altresì evidenziata una tendenza della legislazione informata al principio di precauzione a riprodurre quella connotazione per lo più “simbolica” propria del diritto penale moderno, in funzione sia del carico sanzionatorio tutto sommato lieve, sia dei sogetti chiamati a rispondere, ovvero soltanto le persone isiche: si è dunque sottolineata l’incongruenza, ai ini dell’efettività della tutela, dell’assenza di una responsabilità degli enti collettivi per gli illeciti previsti nelle materie ispirate alla precauzione. Anche l’analisi di impatto applicativo (e concreto) del principio ha ribadito, nei suoi esiti complessivi, l’efetto espansivo sul diritto penale. Tale efetto – registrato 149 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea Per rispondere all’interrogativo posto alla ine del paragrafo precedente, nonostante le ragionevoli critiche all’impostazione bricoliana48, non vi possono essere dubbi sulla necessaria utilità di individuare un catalogo di beni giuridici prepositivi e sovraordinati, inalizzato a guidare (e limitare) le scelte di politica penale proprie del legislatore democratico e da fungere da parametro di valutazione delle stesse da parte della Corte costituzionale, nell’ambito di un giudizio di bilanciamento degli interessi coinvolti, da un lato, quello della libertà personale del reo, dall’altro, quello di volta in volta leso, di pari rango. Non si tratta di una questione di afezione ad un diritto penale costituzionalmente fondato, né di una cieca adesione ad una tesi utopica, ma di un necessario ancoraggio del diritto penale ad una carta di valori superiori, ad un richiamo alla moderazione nelle scelte di criminalizzazione perché la bussola incontrollata può portare alla regressione, ad un diritto penale autoreferenziato a colpi di maggioranze parlamentari. Per tali ragioni, il principio di necessaria lesività di indubbio rango costituzionale non può essere svilito a mero parametro di interpretazione o mero sintomo di irragionevolezza della legge penale, ma deve costituire criterio di sindacabilità della proporzione della politica criminale del legislatore, nel senso di valutazione del corretto bilanciamento efettuato dalla norma penale tra sacriicio della libertà personale imposto al reo e soddisfazione come prevalente, ma non esclusivo – si estrinseca secondo diverse modalità, agendo su diferenti elementi della fattispecie o, più in generale, su diversi momenti della ricostruzione della responsabilità penale. Talora – lo si è all’occorrenza evidenziato – il ricorso ad esso si rivela almeno in parte improprio, non versandosi, in realtà, nel caso concreto, in una situazione cognitiva di indisponibilità di un’esplicazione nomologica corroborata, bensì di incertezza relativa a circostanze fattuali. Tuttavia, anche tale utilizzo improprio rivela la tendenziale capacità espansiva del principio di precauzione: anzi, dimostra come – complice la sua ancora non del tutto risolta vaghezza sul piano giuridico – la logica “conservativa” della quale esso è espressione, le sue buone ragioni di fondo, basate su una Weltanschauung diicilmente non condivisibile nelle sue versioni “moderate”, ne facciano una formula di sintesi, una breviloquenza evocativa – pure sul piano culturale – di un approccio di tutela più intransigente anche in relazione a minacce gravi, verso beni davvero fondamentali, allo stato predicabili soltanto come “non escludibili”. A questo punto, è possibile concludere che il principio di precauzione occupa già un posto notevole tra gli elementi delle odierne politiche legislative e criminali della “sicurezza”: la sua capacità di funzionare quale fattore espansivo del penale – sia nella dimensione astratta della posizione delle norme, sia sul piano concreto della loro interpretazioneapplicazione – è, almeno in parte, anche espressione della più generale tendenza espansiva del diritto comunitario sul diritto penale nazionale che la letteratura specializzata ha negli ultimi tempi messo in luce». Come osserva l’A., tuttavia, «un elemento “in controtendenza” è stato rinvenuto nelle modalità argomentative attraverso le quali il principio di precauzione entra nelle motivazioni di quelle (due) sentenze della suprema Corte – numericamente più esigue, ma nondimeno signiicative – inquadrate nell’ultimo gruppo esaminato, là dove svolge una funzione di discrimine tra dimensione punitivo-amministrativa e dimensione penale, giudicandosi esaurito il suo ruolo, in presenza di una tutela di livello comunque elevato, sul piano sanzionatorio extrapenale». 48. Manna, Diritto penale e Costituzione, cit., 61 ss., in particolare, 80 ss. 150 offensività del bene giuridico leso o posto in pericolo. I parametri concettuali vanno individuati a livello europeo. 4. Il giudizio di proporzione nella Carta di Nizza come fondamento dell’ofensività del reato europeo. La proporzione nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo e gli obblighi di tutela penale in chiave vittimo-centrica. Necessaria lesività e dannosità sociale come elementi che individuano il fatto penalmente rilevante. Il principio di ofensività a livello europeo49 può essere teorizzato sulla scorta del medesimo ragionamento su cui si fonda la giustiicazione costituzionale nel sistema italiano (c.d. argumentum libertatis). Dal momento che la pena rappresenta la sanzione più alittiva dell’ordinamento, in particolare quella detentiva, che pregiudica il bene fondamentale della libertà personale, essa può essere adottata dal legislatore soltanto rispetto a condotte che pregiudichino beni almeno di pari grado, ossia beni signiicativi, che trovino in norme sovraordinate riconoscimento, esplicito o implicito. La libertà personale è riconosciuta dall’art. 6 Carta, richiamata dall’art. 6 TUE, con l’efetto che la competenza penale europea, nei limiti di quanto attribuitole dal Trattato, dunque, non può prevedere la punibilità di comportamenti che ledono (o mettono in pericolo) interessi estranei alla Carta di Nizza o alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, a cui l’Unione aderisce ai sensi dell’art. 6 TUE. La Corte di Giustizia è custode della conformità delle norme europee alla previsioni pattizie, secondo la procedura di annullamento disciplinata dall’art. 263 TFUE. Ad ogni modo, seppur è vero che l’ofensività costituisce un prodotto della dogmatica italiana, tale principio, nella sua più ampia accezione, appare non più essere una categoria del solo diritto penale nostrano, ma appartiene alla cultura europea, come risulta dai più recenti codici penali adottati da alcuni Paesi europei, con cui si è espressamente prevista la dannosità sociale del fatto come misura della sua rilevanza penale50. L’ofensività (in questa accezione più ampia rispetto 49. Evidenzia l’assenza del riconoscimento esplicito di tale principio da parte della Corte di Giustizia e, comunque, a livello europeo (ad eccezione di Spagna e Portogallo), da ultimo, Salcuni, L’europeizzazione del diritto penale: problemi e prospettive, Milano, 2011, 430 ss. 50. Fornasari, Menghini, Percorsi europei di diritto penale, cit., 8 ss., in cui, dopo aver evidenziato la rilevanza dell’ofesa come indice di qualiicazione del fatto di reato nelle previsioni codicistiche di Polonia e Slovenia, con un distinguo sulla previsione di mera non punibilità nel codice di procedura penale tedesco (Einstellung) e nel progetto Grosso di riforma del Codice Rocco, viene riportato l’art. 1 del codice penale croato del 1997 secondo cui (in lingua originale): «1. Kaznena djela i kaznenopravne sankcije propisuju se samo za ona ponašanja kojima se tako ugrožavaju ili povrjeðuju osobne slobode i prava èovjeka te druga prava i društvene vrijednosti zajamèene i zaštiæene Ustavom Republike Hrvatske i meðunarodnim pravom da se njihova zaštita ne bi mogla ostvariti bez kaznenopravne prisile. 2. Propisivanje pojedinih kaznenih djela te vrste i mjere kaznenopravnih sankcija za njihove poèinitelje temelji 151 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea alla deinizione nostrana, comprendente quella del neminem laedere) è dunque l’indice prepositivo di selezione penale di un fatto, come misura della proporzione della tutela penale del bene giuridico, così conigurandosi come un criterio dimostrativo da limite alle scelte di politica criminale del legislatore51. se na nužnosti kaznenopravne prisile i njezinoj primjerenosti jakosti i naravi opasnosti za osobne slobode i prava èovjeka te druge društvene vrijednosti» (traduzione: «1. I reati e le sanzioni penali sono previsti solo per gli atti che ledono o mettono in pericolo la libertà personale e i diritti umani e altri diritti e valori sociali garantiti e protetti dalla Costituzione croata e dal diritto internazionale, la cui tutela non potrebbe essere raggiunta senza la repressione penale. 2. La previsione di alcuni reati e il tipo e l’entità delle sanzioni penali si basa sulla necessità della repressione penale e sulla sua adeguatezza all’intensità e alla natura del pericolo per le libertà personali e per i diritti dell’uomo, nonché per altri valori sociali»). Il primo comma dell’articolo suddetto è espressamente riprodotto nel nuovo art. 1, del Codice croato del 7 novembre 2011. 51. Per la diferenza tra principio di ofensività e quello di esiguità, Manna, Corso di diritto penale, cit., 58, 59, che li distingue per due fondamentali ragioni: in primis, mentre l’ofensività reclama la non rilevanza dei fatti inofensivi, con il principio di esiguità ci si intende riferire a fatti, invece, offensivi del bene giuridico, ma in modo così marginale, da non risultare bisognosi di pena. La seconda diferenza, «che rende a questo proposito più accettabile quest’ultimo principio – scrive l’A. –, rispetto alle esigenze sottese alla legalità penale, consiste nella previsione di una pluralità di criteri orientativi per il giudice, che attengono anche alla colpevolezza ed ai precedenti penali dell’imputato, nonché all’opinione espressa in proposito dalla persona ofesa, che al contrario non si rinvengono a proposito dell’ofensività, al contrario limitata all’aspetto relativo alla lesione e, o alla messa in pericolo del bene giuridico». Da ciò, parrebbe evincersi che l’ofensività costituisce un principio dimostrativo rivolto al legislatore che pone un divieto penale, mentre l’esiguità è un criterio ermeneutico rivolto, dunque, al giudice nel momento applicativo del divieto penale. Andrebbe chiarito, comunque, se l’esiguità necessita di un’espressa previsione legislativa che autorizzi il giudice a valutare l’irrilevanza penale del fatto pur astrattamente ofensivo, come le ipotesi positivizzate di cui agli artt. 27 d.P.R. 448 del 1988 e 34 d.lgs. 274 del 2000. Secondo la Corte costituzionale, come indicato da Manes, Principi costituzionali in materia penale (Diritto penale sostanziale), cit., «il compito di uniformare la igura criminosa al principio di ofensività nella concretezza applicativa resta aidato al giudice ordinario, nell’esercizio del proprio potere ermeneutico (ofensività “in concreto”)», di modo che «esso rimanendo impegnato ad una lettura “teleologicamente orientata” degli elementi di fattispecie, tanto più attenta quanto più le formule impiegate dal legislatore appaiano, in sé, anodine o polisense – dovrà segnatamente evitare che l’area di operatività dell’incriminazione si espanda a condotte prive di un’apprezzabile idoneità lesiva» (Corte cost., n. 225 del 2008). Da ciò, è agevole dedurre che l’esiguità (ofensività in concreto, per utilizzare le parole della Consulta) non necessita di alcuna previsione espressa del legislatore, essendo un criterio di interpretazione delle norme penali per renderle conformi al principio costituzionale di ofensività (in astratto) e, dunque, obbligatorio per il giudice a pena di inammissibilità di un’eventuale questione di costituzionalità. Tale lettura oferta dalla giurisprudenza costituzionale parrebbe ammettere, nelle ipotesi di esiguità espressa (artt. 27 d.P.R. 448 del 1988 e 34 d.lgs. 274 del 2000), una distinzione tra inofensività concreta del fatto e tenuità del fatto (rectius, irrilevanza penale del fatto, cfr. Relazione Progetto di riforma del Codice penale del 15 luglio 1999, § Inofensività e irrilevanza del fatto; Manna, Risarcimento del danno, ofensività ed irrilevanza penale del fatto: rapporti ed intersezioni, Critica del diritto, 2001, 381 ss.), con l’efetto che un fatto tenue potrebbe essere comunque concretamente ofensivo, e viceversa, un fatto non tenue potrebbe essere concretamente inofensivo. Ma la diicoltà di individuare una distinzione esegetica sarebbe ardua, se non impossibile. Per tali ragioni, ma soprattutto per 152 offensività Da ciò va appuntata l’attenzione su un’importante disposizione della Carta di Nizza, utile a raforzare la convinzione della necessaria correlazione del sacriicio della libertà personale del reo con la tutela di beni signiicativi di pari rango. L’art. 52, § 1, Carta stabilisce: «Eventuali limitazioni all’esercizio dei diritti e delle libertà riconosciuti dalla presente Carta devono essere previste dalla legge e rispettare il contenuto essenziale di detti diritti e libertà. Nel rispetto del principio di proporzionalità, possono essere apportate limitazioni solo laddove siano necessarie e rispondano efettivamente a inalità di interesse generale riconosciute dall’Unione o all’esigenza di proteggere i diritti e le libertà altrui». La norma pattizia sovraordinata impone dunque una proporzione tra le limitazioni all’esercizio dei diritti e delle libertà fondamentali riconosciuti dalla Carta e la tutela di interessi generali, che possa essere valutata come efettiva. L’avverbio efettivamente, oltre a raforzare il principio enunciato su un piano empirico, ammette il sindacato sulla scelta del legislatore europeo, da parte dell’organo giurisdizionale preposto alla salvaguardia del rispetto delle disposizioni sovraordinate (costituzionali), ainché si veriichi che le scelte punitive «rispondano efettivamente a inalità di interesse generale riconosciute dall’Unione o all’esigenza di proteggere i diritti e le libertà altrui». Tale giudizio di proporzione afonda le sue radici nella giurisprudenza della Corte EDU ed, in particolare, nell’ambito della fondamentale valutazione della «necessità in una società democratica», che costituisce uno dei tre requisiti (accanto alla previsione legale e allo scopo legittimo) stabiliti da diverse disposizioni della Convenzione EDU ai ini di veriicare la legittimità dell’ingerenza pubblica nell’esercizio di un diritto52. Il giudizio di proporzione, dunque, costituisce uno dei momenti di maggiore penetrazione della Corte EDU nelle scelte di politica criminale del legislatore nazionale, andando a sindacare le ragioni che possano giustiicare la limitazione della libertà personale da parte della sanzione penale. Invero, la libertà personale non va intesa nell’accezione minimale come libertà i- ricercare punti certi nel sistema, la tentazione sarebbe quella di utilizzare la previsione di cui all’art. 34 d.lgs. 274 del 2000 come parametro ermeneutico di valutazione dell’ofensività in concreto per tutto il sistema penale nostrano. Però osterebbe la natura processuale di tale disposizione. Forse la soluzione migliore sarebbe quella più rigorosa: valutare l’irrilevanza del fatto solo nell’ipotesi di esiguità espressa; l’ofensività in concreto come criterio di commisurazione della pena; l’ofensività in astratto come criterio di sindacato costituzionale dell’opzione penale. Sulle ipotesi di esiguità espressa, deinite clausole di irrilevanza, cfr. Lo Forte, Il principio di ofensività, in Capodoppi, Canestrari, Manna, Papa (a cura di), Trattato di diritto penale. Parte generale, vol. II, Il reato, Torino, 2013, 933 ss.; Cesari, Le clausole di irrilevanza del fatto nel sistema processuale penale, Torino, 2005, 12 ss. Per la recente novità legislativa v. infra, Appendice postuma. 52. F. Mazzacuva, La Convezione europea dei diritti dell’uomo e i suoi rilessi sul sistema penale, in Cadoppi, Canestrari, Manna, Papa (a cura di), Trattato di diritto penale. Parte generale, vol. I, Il diritto penale e la lege penale, Torino, 2012, 459. 153 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea sica e, dunque, il giudizio di proporzione, nella giurisprudenza della Corte EDU, non si limita a valutare se la detenzione per la tutela di un determinato interesse collettivo è la reazione proporzionata per il richiesto sacriicio della libertà personale, ma se la tutela penale in genere di un determinato bene giuridico è proporzionata al sacriicio dei diritti e delle libertà fondamentali del reo. Su tale aspetto si tornerà a breve. È indubbio, pertanto, che la Corte EDU valuta la legislazione criminale nazionale secondo un criterio valoriale degli interessi coinvolti, inalizzato a stimare l’efettivo equilibrio della scelta di politica penale tra l’esigenza di tutela di un determinato interesse ed il sacriicio imposto al reo. Tale sindacato sostanziale53 presuppone delle limitazioni costituzionali alle scelte di criminalizzazione che si traducono, certamente, in divieti di incriminazione di diritti e libertà fondamentali54, ma anche in obblighi di tutela penale di determinati diritti primari55. I giudici di Strasburgo, invero, sono andati oltre56, non solo, pretendendo delle incriminazioni in astratto della violazione di determinati diritti fondamentali individuali, ma anche di concreta inlizione della pena all’autore del reato, per due ragioni: la maggior eicacia dissuasiva dello strumento penale e le esigenze di soddisfazione morale della vittima57. I richiami alla funzione generalpreventiva (positiva, in particolare) della pena, da un lato, per cui la tutela raforzata di taluni valori o beni giuridici garantisce la paciica convivenza e indirizza l’orientamento culturale58, e quella della retribuzione, dall’altro, per cui il reato come fatto intrinsecamente disvaloriale impone di essere sanzionato59, sono le coordinate teleologiche degli obblighi di tutela penale di beni giuridici fondamentali, secondo la lettura della Corte di Strasburgo. 53. F. Mazzacuva, La convenzione europea dei diritti dell’uomo e i suoi rilessi nel sistema penale, cit., 461. 54. In tema di equilibrio tra libertà di cronaca e tutela dell’onore, cfr. Corte eur. dir. uomo, 31 maggio 2011, Sabanovic vs. Montenegro e Serbia; in tema di accertamento della pericolosità delle condotte di apologia di pur gravi reati, cfr. Corte eur. dir. uomo, 15 gennaio 2009, Orban e a. vs. Francia; Corte eur. dir. uomo, 2 ottobre 2008, Aktan vs. Turchia; in tema di compatibilità tra diritto alla vita privata e familiare e divieto di penalizzazione di rapporti omosessuali, cfr. Corte eur. dir. uomo, 21 settembre 2010, Santos Couto vs. Portogallo; in tema di libertà di religione, cfr. Corte eur. dir. uomo, Gr. Ch., 7 luglio 2011, Bayatyan vs. Armenia. 55. Bricola, (voce) Teoria generale del reato, cit., 832; critico cfr. Pulitanò, Obblighi costituzionali di tutela penale?, in Riv. it. dir. proc. pen., 1983, 522 ss. che negava l’ammissibilità di obblighi costituzionali di tutela penale se non riallacciati al principio di uguaglianza. 56. Ampiamente Viganò, L’arbitrio del non punire. Sugli obblighi di tutela penale dei diritti fondamentali, in Studi in onore di Mario Romano, Napoli, 2011, 2657 ss. 57. In una visione vittimo-centrica del diritto penale. 58. Canestrari, Cornacchia, De Simone, Manuale di diritto penale, cit., 59. 59. Viganò, L’arbitrio del non punire. Sugli obblighi di tutela penale dei diritti fondamentali, cit., 2685 ss. 154 offensività Allora perché non ammettere un tale controllo da parte del giudice istituzionalmente competente al sindacato del diritto positivo dell’ordinamento a cui è preposto? Chiudendo il cerchio del ragionamento, si può afermare, quindi, che il giudizio di proporzione previsto dall’art. 52 Carta, attribuito alla cognizione della Corte di Lussemburgo (art. 263 TFUE), alla stregua della lettura esegetica della Corte di Strasburgo, esige che la norma penale europea venga posta per la tutela di diritti fondamentali previsti dai Trattati (e dalla Carta di Nizza), nei limiti delle attribuzioni conferite all’Unione, non altrimenti tutelabili, attraverso la previsione di una sanzione efettivamente dissuasiva. Il coordinato intreccio di divieti di incriminazione e di doveri di tutela penale di fondamentali diritti individuali delinea l’ambito del diritto penale sovranazionale (di vocazione universale), nel rispetto del principio di ofensività e di quello di extrema ratio delle scelte di criminalizzazione. Rispetto all’impostazione bricoliana per cui i diritti e le libertà fondamentali sono il catalogo necessario dei beni meritevoli di tutela penale, la lettura europea dell’ofensività-proporzione va ben oltre, in quanto, in chiave retribuzionistica, individua dei veri e propri doveri di tutela penale di determinati interessi: se, nella lezione bricoliana, l’ofensività è il limite della punizione imposta al reo, nel senso che in mancanza della lesione o messa in pericolo del bene, il fatto non ha alcuna rilevanza penale (aspetto negativo dell’ofensività o necessaria lesività); nell’ottica europea, l’ofensività diventa anche obbligo di tutela penale della vittima, nel senso che la lesione o messa in pericolo di un bene fondamentale impone la sanzione punitiva per il reo, nell’interesse della collettività e della vittima (aspetto positivo dell’ofensività o neminem laedere o dannosità sociale)60. La necessaria lesività e la dannosità sociale sono i criteri di valutazione della rilevanza penale del fatto, con l’efetto che non è possibile punire un comportamento che non sia, ad un tempo, lesivo e dannoso (o pericoloso), per cui la pena deve curare la lesione del bene giuridico e risarcire il danno soferto dalla vittima (anche solo collettiva). Sono i due aspetti della stessa medaglia che contengono le scelte di criminalizzazione del legislatore europeo61. 5. La giustiziabilità degli obblighi di tutela contenuti nella norma penale europea da parte del Giudice costituzionale. È noto che il contrasto tra norma nazionale e norma europea non direttamente applicabile impone la dichiarazione di incostituziona- 60. Sul paternalismo infra § 8. 61. Tali caratteri del reato europeo sono stigmatizzati nell’incipit del Considerando n. 9 della Direttiva 2012/29/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 25 ottobre 2012, che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato e che sostituisce la decisione quadro 2001/220/GAI, secondo cui: «Un reato è non solo un torto alla società, ma anche una violazione dei diritti individuali delle vittime…». 155 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea lità della prima per violazione degli artt. 11 e 117, co. 1, Cost., anche in malam partem, laddove ci si trovi innanzi ad un conlitto triadico (o a tre norme)62, il parametro normativo europeo di riferimento costituisce una regola ed, in particolare, nei casi in cui la prima norma penale nazionale sia in attuazione espressa e la seconda norma nazionale sia compresente. La problematica che qui si pone, invece, non riguarda un caso di inadempimento sopravvenuto all’obbligo comunitario di penalizzazione, né a quello di inadempimento originario (ovvero di conlitto diadico), ma di inadempimento assoluto o, meglio, di mancato intervento del legislatore nazionale in adempimento dell’obbligo comunitario. Riprendendo l’analisi interrotta più sopra, può, dunque, la Corte costituzionale, nell’inerzia del legislatore ed in adempimento dell’obbligo di fedeltà comunitaria, ampliare l’area di un’incriminazione già esistente a fatti simili a quelli in essa compresi, al ine di dare adempimento all’obbligo comunitario di penalizzazione? Prima d’ogni altro, è ormai indubbio63 che la Corte costituzionale sia 62. Secondo la nota sistematica di Sotis, Il diritto senza codice, cit., 230 ss. 63. I giudici costituzionali nostrani hanno riiutato, per molti decenni, l’opinione che la Corte possa essere inclusa fra gli organi giudiziari, ordinari o speciali che siano, tante sono, e profonde le diferenze fra il compito aidato alla prima, senza precedenti nell’ordinamento italiano, e quelli ben noti e storicamente consolidati propri degli organi giurisdizionali (Corte cost., ord. n. 13, del 1960), così chiudendo a qualsiasi ipotesi di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia come previsto allora dall’art. 177 TCE (poi, art. 234 TCE ed, oggi, art. 267 TFUE). Tale atteggiamento di chiusura è ribadito da Corte cost., ord. n. 536 del 1995, in cui si aferma che «il giudice comunitario non può essere adito come pur ipotizzato in una precedente pronuncia (sentenza n. 168 del 1991) dalla Corte costituzionale, la quale “esercita essenzialmente una funzione di controllo costituzionale, di suprema garanzia della osservanza della Costituzione della Repubblica da parte degli organi costituzionali dello Stato e di quelli delle Regioni” (sentenza n. 13 del 1960), con la conseguenza che nella Corte costituzionale non è ravvisabile quella “giurisdizione nazionale” alla quale fa riferimento l’art. 177 del trattato istitutivo della Comunità Economica Europea, poiché la Corte non può “essere inclusa fra gli organi giudiziari, ordinari o speciali che siano, tante sono, e profonde, le diferenze tra il compito aidato alla prima, senza precedenti nell’ordinamento italiano, e quelli ben noti e storicamente consolidati propri degli organi giurisdizionali” (sent. n. 13 del 1960)». Conf. Corte cost., ord. n. 319 del 1996; ord., n. 109 del 1998. Nonostante l’ampia critica in dottrina (ex multis, Raiti, La collaborazione giudiziaria nell’esperienza del rinvio pregiudiziale comunitario, Milano, 2003, 151 ss.), solo con Corte cost., ord. n. 103 del 2008 (annotata, fra gli altri, da Pesole, La Corte costituzionale ricorre per la prima volta al rinvio pregiudiziale. Spunti di rilessione sull’ordinanza n. 103 del 2008, in www.federalismi.it; Spigno, La Corte costituzionale e la vexata questio sul rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia, in www.osservatoriodellefonti.it; Cartabia, La Corte costituzionale e la Corte di giustizia: atto primo, in Giur. cost., 2008, 1292 ss.; Sorrentino, Svolta della Corte sul rinvio pregiudiziale: le decisioni 102 e 103 del 2008, in Giur. cost., 2008, 1288 ss.) si aferma che «la Corte costituzionale, pur nella sua peculiare posizione di supremo organo di garanzia costituzionale nell’ordinamento interno, costituisce una giurisdizione nazionale ai sensi dell’art. 234, terzo paragrafo, del Trattato CE e, in particolare, una giurisdizione di unica istanza (in quanto contro le sue decisioni – per il disposto dell’art. 137, terzo comma, Cost. – non è ammessa alcuna impugnazione): essa, pertanto, nei giudizi di legittimità costituzionale promossi in via principale è legittimata a proporre questio- 156 offensività autorità nazionale sottoposta all’obbligo di garantire l’applicazione del diritto comunitario, in ossequio alla costante giurisprudenza europea ed in virtù di quanto previsto dall’art. 117, co. 1, Cost. per cui, come più volte afermato, la norma comunitaria funge da parametro interposto di sindacato della legittimità delle leggi nazionali. Da ciò, la conseguenza riferita dell’obbligo anche per i giudici costituzionali di assicurare la primazia del diritto comunitario64, anche per il tramite del rinvio pregiudiziale alla Corte lussemburghese. Introducendo in sintesi, nei paragrai introduttivi, l’ofensività nel nostro ordinamento, si sono richiamati i principi di ragionevolezza e di proporzione, che trovano il comune parametro costituzionale nell’art. 3 Cost. Il ilo dell’argomentazione sulla possibilità di sindacato costituzionale sulle opzioni di criminalizzazione non può dunque non percorrere tale traccia. Ed invero, la giurisprudenza costituzionale si è confrontata con la problematica delle scelte punitive del legislatore, in relazione al principio di uguaglianza e rispetto a norme penali che si assumono discriminatorie in difetto. È noto, però, che su tale via è stata (auto)evidenziata l’incompetenza dei giudici costituzionali a creare norme penali od ad estendere la rilevanza penale di determinati fatti già selezionati dal legislatore, ad altri simili o analoghi65. L’inammissibilità di una giurisprudenza creativa o sostitutiva è stata fatta derivare, in un primo tempo, da una ragione meramente processuale, con riguardo al sindacato incidentale della rilevanza della questione nel giudizio a quo, correlato al principio costituzionale intertemporale di irretroattività della norma penale più sfavorevole al reo66. Successivamente, si è registrato un progressivo cambio di orientamento in senso sostanziale: il sindacato di costituzionalità è inammissibile, si è detto, in virtù del rispetto del principio di legalità, nella dimensione della riserva di legge, sancito dall’art. 25, co. 2, Cost.67. In questo quadro pessimistico l’argomentazione va comunque approfondita: escludendo ipotesi estreme ed inverosimili, quale l’introduzione di una nuova ne pregiudiziale davanti alla Corte di giustizia CE. I giudici costituzionali, dunque, escludono la possibilità del rinvio pregiudiziale per i giudizi promossi in via incidentale, poiché, in tali giudizi, non è l’unico giudice chiamato a pronunciarsi sulla controversia». Tale limitazione è stata, sic et simpliciter, superata da Corte cost., ord. n. 207 del 2013, ove si aferma che la Corte abbia la natura di «giurisdizione nazionale» ai sensi dell’art. 267, co. 3, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea anche nei giudizi in via incidentale. Per un quadro comparativo, cfr. Passaglia (a cura di), Corti costituzionali e rinvio pregiudiziale, in www.cortecostituzionale.it, Studi di diritto comparato, Documentazione, 2010. 64. Salcuni, L’europeizzazione del diritto penale, cit., 337 ss. 65. Per un’ampia disamina, cfr. Dodaro, Uguaglianza e diritto penale. Uno studio sulla giurisprudenza costituzionale, cit., 329 ss. 66. L’ultima decisione che utilizza tale argomento processuale è Corte cost., n. 122 del 1977. 67. Da ultimo, Corte cost., n. 230 del 2012. 157 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea fattispecie di reato nell’ordinamento interno ad opera della Corte costituzionale, va afrontata la problematica, certamente più realistica, relativa al recepimento di una norma penale europea adottata ai sensi dell’art. 83 TFUE per il tramite di una pronuncia di incostituzionalità di una norma nazionale preesistente. Si è già avuto modo di evidenziare68 che la norma europea costituisce un limite minimo di tutela penale da apprestare in favore del bene giuridico prescelto, ferma restando la facoltà del legislatore nazionale, in armonia con il proprio ordinamento, di allestire un sistema tutorio penale più severo. Con una ripetuta puntualizzazione: la risposta punitiva più severa del legislatore nazionale non signiica dare rilevanza penale ad altri elementi o fatti o comportamenti o soggetti per tutelare in maniera più ampia il bene giuridico, che non siano già inclusi nella previsione europea che funge da cornice oltre la quale il legislatore interno non può spingersi. In altri termini, la descrizione degli elementi costitutivi del reato contenuta nella norma penale minima europea determina l’area di rilevanza penale (proporzionata) di comportamenti che ledono o pongono in pericolo un determinato bene giuridico. Il legislatore interno non può ampliare (né restringere) quest’area di rilevanza penale, ma, all’interno dell’area tracciata dalla norma europea, individuare elementi che meritano una risposta punitiva più severa. Così sarebbe rispettato il margine di apprezzamento riservato al legislatore domestico, garantendo, nel rispetto della riserva di legge nazionale, la necessaria democraticità della norma penale di ispirazione europea nella fase discendente (o di recepimento). Ora, l’obbligo di recepimento della norma penale europea (art. 4 TUE), da un lato, ed il contenuto minimo che circoscrive il margine di apprezzamento democratico nazionale, dall’altro, paiono due criteri suicientemente dettagliati per consentire alla Corte costituzionale di intervenire sull’incriminazione impugnata già esistente nell’ordinamento nazionale, al ine di estenderne l’area di rilevanza penale ino a comprendere il fatto analogo descritto nella norma europea inadempiuta. Ed invero, la tradizionale eccezione di inammissibilità del sindacato per il rispetto del principio di legalità non coglierebbe nel segno, laddove si osservi che la discrezionalità legislativa garantita dalla riserva di legge è già contenuta dalla norma sovranazionale ed i giudici costituzionali si limiterebbero ad ampliare un’incriminazione preesistente ino a ricomprendere la tutela minima penale per l’interesse selezionato a livello europeo69. Senza, dunque, intaccare la prero- 68. Sia consentito il richiamo a Stea, Gli enti responsabili dell’illecito da reato nella prospettiva europea, in Riv. pen., 2013, 7, 735 ss. 69. Salcuni, L’europeizzazione del diritto penale, cit., 257, in tema di esegesi della previsione di cui all’art. 25, co. 2, Cost., evidenzia la necessità di una rilettura dell’indubbia voluntas del costituente nel riservare alla legge statale la materia penale, alla luce del mutato assetto della legalità, non più considerata nell’ottica squisitamente nazionale, bensì come legalità europea, cioè in combina- 158 offensività gativa del legislatore (ovvero quella di rendere più severo l’intervento punitivo sempre nell’area descritta dal legislatore comunitario, semmai con un intervento postumo – forse sollecitato – dalla pronuncia additiva della Corte costituzionale). Non parrebbe porsi, poi, alcun problema di inammissibilità per irrilevanza della questione70. La Corte costituzionale, infatti, nella pronuncia in materia di riiuti (n. 28 del 2010), ha evidenziato che il sindacato in malam partem deve essere ammesso per ragioni di coerenza sistematica e per evitare un efetto paradossale: «se si stabilisse che il possibile efetto in malam partem della sentenza di questa Corte inibisce la veriica di conformità delle norme legislative interne rispetto alle norme comunitarie – che sono cogenti e sovraordinate alle leggi ordinarie nell’ordinamento italiano per il tramite degli artt. 11 e 117, co. 1, Cost. – non si arriverebbe soltanto alla conclusione del carattere non autoapplicativo delle direttive comunitarie [di volta in volta considerate, n.d.r.], ma si toglierebbe a queste ultime ogni eicacia vincolante per il legislatore italiano». Ma vi è di più. Una volta dichiarata l’illegittimità della norma sindacata per violazione degli artt. 11 e 117, co. 1, Cost., la valutazione degli efetti della sentenze di accoglimento secondo i principi generali che reggono la successione nel tempo delle leggi penali andrà rimessa al giudice a quo, conformemente al consolidato orientamento per cui «le questioni inerenti alla cosiddetta retroattività delle decisioni di accoglimento della Corte costituzionale attengono all’interpretazione delle leggi e pertanto devono essere risolte dai giudici comuni»71. Diversamente, appare diicile trovare argomenti più signiicativi per garantire la giustiziabilità anche degli obblighi convenzionali di tutela penale che non superino il limite sancito dall’art. 25, co. 2, Cost. Un eventuale intervento creativo della Consulta in adempimento di un obbligo convenzionale di tutela penale di un determinato interesse stimato nella lettura della Corte EDU andrebbe ad incidere efettivamente sulla prerogativa democratica del legislatore interno72. to disposto con l’art. 117, co. 1, Cost. Tale intuizione sollecita una deduzione. La lettura combinata delle disposizioni costituzionali suddette sposterebbe, di fatto, la questione della necessaria democraticità della norma penale, che la riserva di legge garantisce, a livello eurounionista, stante la sostanziale funzione notarile attribuita al legislatore nazionale nella fase di recepimento della direttiva penale, fatto salvo il limitato margine di apprezzamento già indicato. Nel senso che l’obbligo costituzionale di adeguamento ai vincoli comunitari imposto al legislatore ordinario dall’art. 117, co. 1, Cost., traduzione domestica dell’obbligo di fedeltà di cui all’art. 4 TUE, costringe la prerogativa del libero dibattito parlamentare che la riserva di legge tradizionalmente intende preservare. 70. Forse è una lettura un po’ forzata, ma, si sa, con l’ovvio si fa poca strada. Sull’impossibilità di intervento della Corte su un inadempimento tout court (deinito sopra assoluto), cfr. Manes, Il giudice nel labirinto, cit., 122. 71. Corte cost., nn. 148 del 1988, 22 del 1975 e 155 del 1973. 72. Ampiamente e condivisibilmente Manes, Il giudice nel labirinto, cit., 123 ss. 159 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea 6. Il sindacato di proporzionalità della Corte di Lussemburgo sulla norma penale europea. La proporzione è un canone assiologico del ragionamento giuridico73, sia utilitarista, che retribuzionista, che ne determina, a seconda dell’oggetto e del metodo, il contenuto e la funzione74. Il diritto europeo stima la norma penale con diversi pesi, in quanto tra Trattato e Carta, è possibile individuare distinti canoni di proporzione75. Nelle pagine che precedono si è fatto aperto riferimento al principio di offensività-proporzione, ancorato all’art. 52, § 1, Carta, come parametro di valutazione di tutela efettiva di beni giuridici fondamentali con l’uso della pena. Sindacato istituzionalmente devoluto alla Corte di Giustizia ai sensi dell’art. 263 TFUE, poiché la norma penale europea deve essere posta per la tutela di diritti fondamentali previsti dai Trattati (e dalla Carta di Nizza), nei limiti delle attribuzioni conferite all’Unione, non altrimenti tutelabili, attraverso la previsione di una sanzione efettivamente dissuasiva. Il principio di proporzione delineato dall’art. 52 Carta è elaborato sulla scorta della giurisprudenza costante della Corte di Giustizia ed è un tipico canone di 73. Dodaro, Uguaglianza e diritto penale, cit., 89, nota 74, in cui si richiama il fondamento storico della proporzione come parametro di valutazione della legittimità delle leggi, evocando le prime applicazioni del XIX secolo nel diritto pubblico tedesco. Si richiama un’ampia bibliograia, tra cui cfr. G. Grasso, Diritti fondamentali e pena nel diritto dell’Unione Europea, in Bernardi (a cura di), Multiculturalismo, diritti umani, pena, Milano, 2006, 105 ss. 74. Sbriccoli, Storia del diritto penale e della giustizia, Milano, 2010 (nuova ed.), 148 ss.; Sotis, I principi di necessità e proporzionalità della pena nel diritto dell’Unione europea dopo Lisbona, in Dir. pen. cont. - Riv. trim., 2012, 1, 114, 115, evidenzia che, «nella prospettiva retributiva, l’idea della proporzione tra gravità del reato e gravità della pena (comminata o inlitta a seconda che sia un giudizio in astratto o in concreto) trova varie diramazioni, ma in linea generale evoca un giudizio di razionalità formale (assimilabile sul piano del metodo al c.d. principio di uguaglianza). In questo modo esso opera sulla base di uno o più reati di riferimento in cui si assume che la pena sia proporzionata (esempio classico di tertium comparationis è partire dalla pena per l’omicidio volontario come parametro di riferimento della pena “giusta”). È un giudizio di proporzionalità in senso formale quindi, come valutazione della coerenza interna nell’uso della pena. Nella prospettiva utilitaristica invece il giudizio di proporzione evoca un giudizio di adeguatezza del mezzo al perseguimento dello scopo (assimilabile agli altri standard di razionalità materiale come l’efettività, l’adeguatezza, la ragionevolezza). Qui la prima essenziale caratteristica è sul piano del metodo. Questa volta la proporzione evoca un parametro di razionalità materiale da svolgersi con la tecnica del bilanciamento, condotto facendo appello a saperi esterni, a valutazioni di impatto. Gli argomenti di tipo formale sono marginali e il giudizio prescinde da criteri di coerenza interna (come il c.d. tertium comparationis). Per dire se un determinato reato è sproporzionato non occorre insomma chiedersi se è punito in modo coerente rispetto ad un altro che si assume come proporzionato. Occorre invece valutare se, sulla base di indici fattuali e assiologici, quella pena sia il mezzo ragionevole per il raggiungimento di uno scopo che di per sé si assume come legittimo. Proporzionalità questa volta in senso materiale, come valutazione dell’uso ragionevole della pena». 75. Sul punto si rinvia a Sotis, I principi di necessità e proporzionalità della pena nel diritto dell’Unione europea dopo Lisbona, cit., 112 ss. 160 offensività razionalità materiale di valutazione del rapporto di adeguatezza tra mezzi e scopi, utilizzato, tradizionalmente, in relazione, in particolare, al conlitto tra una libertà comunitaria e una norma penale interna che frustra quella libertà, ma che dovrebbe costituire, dopo Lisbona, il criterio di valutazione anche dell’incidenza della norma penale europea su una libertà e, o diritto garantito dal Trattato e, o dalla Carta76. Ed invero, la norma suddetta indica i parametri di valutazione (rectius, di proporzionalità) della previsione di pena e, dunque, di limitazione della libertà personale del reo: a) necessità della limitazione del diritto o della libertà (in breve: necessità della pena); b) efettiva inalità di interesse generale; c) anche in alternativa rispetto a quanto sub b), efettiva esigenza di proteggere i diritti e le libertà altrui. I parametri di valutazione (necessità ed efettività) non sono alternativi, ma devono essere veriicati contestualmente. Tali parametri, poi, sono raforzati dal presupposto dell’indispensabilità richiesto dall’art. 83, § 2, TFUE, per l’adozione di direttive penali, che sintetizza l’elaborazione giurisprudenziale dei limiti agli obblighi di penalizzazione, richiedendo, oltre al rispetto del principio di proporzionalità indicato dall’art. 5 TUE, in base al quale l’azione comunitaria non deve andare al di là di quanto necessario per il raggiungimento degli obiettivi e, quindi, può realizzarsi solo in assenza di una adeguata normativa penale previgente negli Stati membri77 anche il rispetto del principio di sussidiarietà, nella combinazione dei suoi corollari dell’eicacia e della necessità, con il principio di proporzionalità78. In sintesi, il principio di ofensività-proporzione è canone di sindacato delle scelte criminali efettuate a livello europeo, dapprima, rispetto alla valutazione di indispensabilità dell’intervento europeo alla stregua della legislazione nazionale di settore e, poi, in relazione al giudizio di proporzione materiale tra limitazione della libertà personale del reo e bene giuridico tutelato penalmente. Ma vediamo come. 76. Sotis, I principi di necessità e proporzionalità della pena nel diritto dell’Unione europea dopo Lisbona, cit., 114, esclude la possibilità di estendere «il giudizio di proporzione tradizionalmente efettuato sulla norma interna limitativa di una libertà comunitaria, al sindacato sulla norma europea, perché è un giudizio cucito addosso alla valutazione di proporzionalità delle norme penali nazionali restrittive di una libertà comunitaria, con la conseguenza che risulta di diicile esportabilità, segnatamente al controllo degli atti del diritto derivato dell’Unione europea e alle norme penali nazionali poste in attuazione degli obblighi europei di penalizzazione (in cui quindi il giudizio di necessità di pena è già stato svolto a Bruxelles)». 77. Epidendio, Diritto comunitario e diritto penale interno, cit., 30. 78. Salcuni, L’europeizzazione del diritto penale, cit., 84. 161 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea La necessità della pena è parametro marcatamente utilitaristico, traducendosi, non solo, nella valutazione della necessità dell’intervento penale per la tutela dell’interesse selezionato (principio dell’extrema ratio), ma anche (e soprattutto) in un giudizio di natura fattuale con cui si argomenta l’irrazionalità della scelta del legislatore, non solo, sulla stima sanzionatoria (a cui fa riferimento la proporzionalità voluta dall’art. 49, § 3, Carta79), ma sull’an della stessa scelta punitiva. Tale giudizio va efettuato alla stregua dell’iter logico del controllo (anch’esso esterno) svolto dalla Corte EDU o, comunque, seguendo la tradizione del Bundesverfassungericht che declina il principio di proporzione (Verhältnismäßigkeit)80 in diversi criteri che, fra l’altro, guardano alla idoneità, alla necessarietà ed alla adeguatezza della speciica opzione di criminalizzazione81. La necessità di pena, dunque, prevista dall’art. 52 Carta (nell’espressione della necessità della limitazione imposta al diritto fondamentale), si traduce in uno strumento di controllo di legittimità razionale della scelta punitiva del legislatore europeo. Tale controllo, del resto, è agevolato e forse giustiicato (o imposto) dall’obbligo di motivazione di tutti gli atti di diritto derivato comunitario. La inalità di tutela di un interesse generale o di un diritto o libertà particolare è l’ulteriore criterio di controllo della legittimità dell’opzione penale che, come suggerisce l’avverbio utilizzato, deve essere efettiva e, dunque, suscettibile di essere messa in pericolo o danneggiata dalla condotta punita, ma anche veriicabile in astratto, nel vaglio di legittimità della stessa norma, ed in concreto, all’atto di applicazione della previsione punitiva. Tale criterio materiale di bilanciamento degli interessi coinvolti, sotteso alla valutazione di ofensività-proporzione della norma penale europea, accentua la deviazione del sindacato sulla norma penale europea dal piano della necessaria lesività a quello della sussidiarietà e dell’extrema ratio della stessa scelta di politica criminale, entrando così in tensione con il metodo democratico. 6.1. (segue) L’eccezione democratica e la razionalità del diritto penale positivo. Il giudizio di eguaglianza-proporzione come utile sindacato sull’opzione di politica criminale. Nell’ambito dell’argomentazione sulla giustiziabilità, innanzi alla Corte costituzionale domestica, degli obblighi di penalizzazione dettati da una direttiva pena79. Su cui infra § II.1. 80. Indicato qui come di ofensività-proporzione, ma certamente diverso dall’ofensività utilizzata dalla Corte costituzionale nostrana. Nella letteratura tedesca, Hassemer, Der Grundsatz der Verhältnismäßigkeit als Grenze strafrechtlicher Eingrife, in Id., Erscheinungsformen des modernen Rechts, Frankfurt am Main, 2007, 191 ss.; Id., Perché punire è necessario, Bologna, 2012, 153 ss.; nella prospettiva italiana, cfr. Belfiore, Giudice delle legi e diritto penale. Il diverso contributo delle Corti costituzionali italiana e tedesca, cit., 278 ss. 81. Manes, Il giudice nel labirinto, cit., 145; Sotis, I principi di necessità e proporzionalità della pena nel diritto dell’Unione europea dopo Lisbona, cit., 115 ss. 162 offensività le (ex art. 83 TFUE), si è superata l’eccezione democratica, se si vuole, con un escamotage o aggiramento, afermando che la discrezionalità legislativa garantita dalla riserva di legge è già contenuta dalla norma comunitaria ed i giudici costituzionali si limiterebbero ad ampliare un’incriminazione preesistente ino a ricomprendere la tutela minima penale per l’interesse selezionato a livello europeo. Senza, dunque, intaccare la prerogativa del legislatore (ovvero quella di rendere più severo l’intervento punitivo sempre nell’area descritta dal legislatore comunitario). La rilessione va approfondita per superare la medesima eccezione che possa essere opposta al vaglio di ofensività-proporzione della Corte di Giustizia sulla norma penale europea82. Va fatta una premessa. Il principio di legalità, come consacrato nella Carta di Nizza, riguarda espressamente la sola dimensione del divieto di retroattività, non garantendo o, meglio, non interessando gli altri aspetti del principio in questione come inteso nel nostro ordinamento (riserva di legge e tassatività, fra gli altri). Però, l’assenza della dimensione della riserva di legge nella legalità europea come enunciata dall’art. 49, § 1, Carta, non signiica che tale aspetto sia estraneo al sistema comunitario, né che la democraticità della norma penale europea non appartenga all’assetto sovranazionale, in quanto, da un lato, la riserva di legge è connaturata all’identità nazionale degli Stati continentali e, dall’altro, la necessaria democraticità del divieto penale si ricava dai corollari (e non solo) del principio di uguaglianza dei cittadini europei. Ed invero, il principio di legalità-riserva di legge (nazionale) non è estraneo all’ordinamento comunitario, in quanto la 82. Sulla democrazia delle istituzioni eurounioniste, nell’ampio dibattito, si segnala Bernardi, La competenza penale accessoria dell’Unione Europea: problemi e prospettive, cit., 58, il quale osserva che, «sebbene le due fondamentali norme europee concernenti il principio di legalità penale (vale a dire l’art. 49 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e l’art. 7 CEDU) nulla dicano al riguardo, è paciico che in ambito europeo tale principio contenga anche il corollario della democraticità». Infatti, osserva l’A., «in base alla giurisprudenza della Corte di giustizia il diritto primario dell’Unione non contiene solo principi di diritto scritto, ma anche i principi di diritto non scritto ricavati, oltreché dalle convenzioni internazionali ratiicate dagli Stati membri, dalle Costituzioni di questi ultimi. Come si sa, questa giurisprudenza pretoria è stata da tempo recepita dai Trattati, cosicché in base all’art. 6, n. 3 TUE, “I diritti fondamentali, […] risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali”. Orbene, precisato che per essere “comuni” tali tradizioni non devono necessariamente appartenere a tutti i Paesi membri, bastando che esse esprimano un orientamento prevalente all’interno dell’Unione, è un dato di fatto che il principio di democraticità delle fonti penali − tendente il più delle volte (ma non sempre) a coincidere col principio di riserva di legge − presenti questa caratteristica e dunque rientri tra i principi generali dell’Unione. Appare pertanto indiscutibile che le direttive in materia penale debbano caratterizzarsi per la loro democraticità». Per più ampi sviluppi, cfr. Bernardi, All’indomani di Lisbona: note sul principio europeo di legalità penale, cit., 48 ss.; Id., “Riserva di lege” e fonti europee in materia penale, cit., 60 ss.; Grandi, Riserva di lege e legalità penale europea, cit., 81 ss. 163 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea Corte di Giustizia lo considera paciicamente un «principio generale dell’ordinamento comunitario»83, che costituisce il riconosciuto limite della primazìa del diritto europeo rispetto alle norme penali interne con esso in conlitto. Per tali ragioni, l’eccezione democratica, dunque, al controllo materiale da parte della Corte di Giustizia sull’an della politica criminale comunitaria, è certamente rilevante anche nel contesto comunitario e merita il dovuto approfondimento. Proviamo a prendere le mosse dall’argumentum libertatis posto a fondamento della tesi realistica del bene giuridico in lettura costituzionale di Franco Bricola: il legislatore, nel porre il divieto penale, seleziona alcuni comportamenti del cittadino, che altro non sono che modalità di esercizio delle libertà garantitegli, ritenendoli meritevoli di pena in considerazione della loro dannosità o pericolosità per interessi di singoli o della collettività84. In questa maniera, tali comportamenti o modalità di esercizio di libertà individuali sono oggetto di un trattamento particolare e diferenziato85, con l’efetto che la scelta incriminatrice non andrà valutata o giustiicata con il solo parametro dell’ofensività-proporzione, ma va sindacata alla stregua del principio di uguaglianza, che ofre uno strumentario concettuale ben più solido86. Il collegamento, dunque, tra uguaglianza e proporzione, come acutamente suggerito87, a cui si fa riferimento a proposito della ragionevolezza, è la chiave di controllo della legittimità delle opzioni di politica criminale che si rivelano non necessarie o non idonee, per la ragione che comportano una limitazione priva di giustiicazione, di un diritto fondamentale, ugualmente riconosciuto a tutti gli individui. Attraverso tale binomio è possibile stimare la ragionevolezza di una scelta politica incidente su un diritto individuale 83. G. Grasso, La protezione dei diritti fondamentali nell’ordinamento comunitario e i suoi limiti rilessi sui sistemi penali degli stati membri, cit., 617 ss. In giurisprudenza, cfr. Corte Giust. Com. Eur. 8 ottobre 1987, C-80/86 (Kolpinghuis Nijmegen), in Racc., 1987, 3986, punto 13; da ultimo, Corte Giust. Com. Eur., 3 maggio 2005, C-387/02 (Berlusconi ed altri). 84. Pulitanò, Bene giuridico e giustizia costituzionale, cit., 187, secondo cui la formulazione di tipi di illecito anche) penale signiica classiicare fatti omogenei dando rilievo ad alcuni elementi di uguaglianza. 85. Dodaro, Uguaglianza e diritto penale, cit., 392. 86. Corte cost., n. 163 del 1993, Considerato in diritto, § 4, secondo cui «il principio di eguaglianza pone al giudice di costituzionalità l’esigenza di veriicare che non sussista violazione di alcuno dei seguenti criteri: a) la correttezza della classiicazione operata dal legislatore in relazione ai soggetti considerati, tenuto conto della disciplina normativa apprestata; b) la previsione da parte dello stesso legislatore di un trattamento giuridico omogeneo, ragionevolmente commisurato alle caratteristiche essenziali della classe (o delle classi) di persone cui quel trattamento è riferito; c) la proporzionalità del trattamento giuridico previsto rispetto alla classiicazione operata dal legislatore, tenendo conto del ine obiettivo insito nella disciplina normativa considerata: proporzionalità che va esaminata in relazione agli efetti pratici prodotti o producibili nei concreti rapporti della vita». 87. Dodaro, Uguaglianza e diritto penale, cit., 394, 395. 164 offensività di libertà anche rispetto alla misura del sacriicio imposto alla libertà medesima, così rivalutando i principi materiali del diritto penale (necessaria lesività, extrema ratio, colpevolezza) da meri criteri argomentativi o di logica, a veri e propri parametri di razionalità prepositivi e sovraordinati, giustiziabili nell’ambito e nei limiti del sindacato sul rispetto dell’eguaglianza88. Il rispetto dell’eguaglianza fra i cittadini, come noto, è il fondamento di qualsiasi società democratica. Secondo questa lettura, pertanto, che richiama il principio di ragionevolezzaeguaglianza usualmente praticato dai giudici costituzionali domestici, ma arricchito dall’ofensività-proporzione di cui all’art. 52 Carta, la Corte di Giustizia potrebbe sindacare la scelta di criminalizzazione del legislatore europeo al ine di veriicare l’efettivo rispetto dell’eguaglianza come fondamento della democrazia. Si badi, non solo, in negativo, ovvero eliminando dall’ordinamento divieti penali sproporzionati rispetto al sacriicio della libertà personale del soggetto attivo (reo), ma anche in positivo, ovvero espandendo la forza incriminatrice di norme già poste onde garantire la tutela di libertà e, o diritti dei soggetti passivi del reato (vittime), alla stregua del controllo svolto dalla Corte EDU (non appena anche l’Unione aderirà alla Convenzione). 7. Il principio di proporzione formale tra reato e sanzione previsto dall’art. 49, § 3, della Carta di Nizza come criterio di coerenza intrasistemica del divieto penale. La dosimetria proporzionata della pena89, relativa alla species ed al quantum, è imposta dall’art. 49, § 3, Carta («L’intensità delle pene non deve essere sproporzionata rispetto al reato»)90, secondo il principio di retribuzione, tessendo una stretta relazione tra la gravità del reato e le sanzioni inlitte91. Il sistema eurounionista non 88. Così Dodaro, op. e loc. cit. 89. Per un’analisi approfondita, Caterini, La proporzione nella dosimetria della pena da criterio di legiferazione a canone ermeneutico, in Persona pena e processo, in Caterini, Amisano (a cura di), Scritti in memoria di Tommaso Sorrentino, Napoli, 2012, 49, 79. Nella manualistica, ex multis, Manna, Corso di diritto penale, cit., 715 ss. 90. Non va trascurato che la previsione della pena da parte del legislatore europeo costituisce un’indicazione di indirizzo minima per il legislatore nazionale, con l’efetto che, ovviamente, andrà tenuto conto che la proporzione richiesta alla norma penale europea è anch’essa minima, presupponendo un limite massimo discrezionalmente determinato dallo Stato membro, ma pur sempre proporzionato alla gravità del reato, ma sindacabile solo dal giudice costituzionale nazionale. 91. L’introduzione della pena convenzionale ha posto il problema della proporzione tra questa ed il fatto di reato. Su tale rapporto tutti i maggiori studiosi, sin dal periodo illuminista, si sono interrogati e confrontati. E così, con la dovuta e necessaria sintesi, si deve ricordare Montesquieu, Lo spirito delle legi (1748), Libro VI, Cap. XVI, trad. italiana, a cura di Boito Serra, Milano, 1989, 240, il quale dedicava un Capitolo alla giusta proporzione tra le pene e il delitto, afermando l’essenzialità dell’armonia tra le pene e la loro proporzione con la gravità del reato era garanzia di libertà. Anche Beccaria, Dei delitti e delle pene (1764), edizione a cura di Burgio, Milano, 1991, 44, il quale signiicativamente afermava, in chiave, se si vuole, utilitaristica, che se la geometria fosse adattabile alle ininite ed oscure combinazioni delle azioni umane, alla scala dei disordini sarebbe dovuta corrispondere 165 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea possiede un catalogo di pene proprio, per la diversità degli ordinamenti particolari che lo compongono e dove concretamente il divieto penale va ad inserirsi. Ad ogni modo, è logicamente desumibile una distinzione qualitativa (detentiva o pecuniaria) e quantitativa della pena. La scelta qualitativa o quantitativa della pena andrà rapportata alla gravità del reato secondo una scala di valori delle ofese tutelate (per cui il bene della vita è certamente superiore a quello del patrimonio)92, ma anche in relazione al grado di rimproverabilità dell’autore del fatto, con l’efetto che la proporzione è criterio a cui si deve parametrare sia l’astratta fase edittale riservata al legislatore (gravità del danno), sia quelle successive fasi di concreta inlizione giudiziale e di esecuzione della sanzione penale (gravità della condotta). È indiscutibile che tale proporzione è convenzionale, poiché non esiste alcun canone ontologico che possa ragguagliare l’etereogenità di pena e reato, senza utilizzare criteri valoriali, almeno con riferimento alla fase di determinazione della cornice edittale, con la conseguenza che la relativa determinazione si traduce in una mera valutazione politica e diicilmente controllabile se non invadendo le prerogative del legislatore democratico. Ma a ben guardare una coerenza può (o, forse, deve) essere ricercata anche in un sistema convenzionale. una scala delle pene. Approfonditamente, Zanuso, I “luidi” e “le bestie di servigio”. Utilitarismo ed umanitarismo nella concezione penale di Cesare Beccaria, in Zanufo, Fuselli (a cura di), Ripensare la pena, Padova, 2004, 111 ss. Poi, va ricordato Filangieri, La scienza della legislazione (1783), Parigi, 1853, ristampa anastatica, Napoli, 2003, Libro III, Parte II, Capo XXV, 189, n. 19: «Se ogni delitto deve avere la sua pena proporzionata all’inluenza che ha sull’ordine sociale il patto, che si viola, ed al grado di malvagità che si mostra, nel violarlo; le leggi debbono dunque ben distinguere i delitti, per ben distinguere le pene». Va, inine, ricordato il pensiero di Bentham, Traités de législation civile et pénal (1802), Bruxelles, 1840, Tomo I, Cap. II, 157, che, a diferenza di Montesquieu e Beccaria, elaborò le regole principali del principio deinite di arithmétique morale. Signiicativa è la IV Regola: «Plus un délit est grand, plus on peut hasarder une peine sévère pour la chance de le prévenir. N’oublions pas qu’une peine inligée est une dépense certaine pour acheter un avantage incertain. Appliquer de grands supplices à de petits délits, c’est payer bien chèrement la chance de s’exempter d’un mal léger. La loi anglaise qui condamnait au supplice du feu les femmes qui avaient distribué de la fausse monnaie, renversait entièrement cette règle de proportion. La peine du feu, si on l’adopte, devrait au moins être réservée à des incendiaires homicides». Nella letteratura più recente, a cui si rinvia, cfr. Ferrajoli, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Bari, 2004, 395 ss.; Eusebi, La “nuova” retribuzione, in Riv. it. dir. proc. pen., 1983, XXVI, 914 ss.; Donini, Il volto attuale dell’illecito penale, cit., 228; per un quadro storico della dottrina penalistica ino al ’900, cfr. Sbriccoli, La penalistica civile. Teoria e ideologie del diritto penale nell’Italia unita, in Stato e cultura giuridica in Italia dall’unità alla Repubblica, a cura di Schiavonea, Bari, 1990, 167 ss. Nella letteratura tedesca lo studio sulla proporzione nella cornice edittale è approfondito, ex multis, più recenti, Götting, Gesetzliche Strafrahmen und Strafzumessungspraxis. Eine empirische Untersuchung anhand der Strafverfolgungsstatistik für die Jahre 1987 bis 1991, Frankfurt, 1997; Schott, Gesetzliche Strafrahmen und ihre tatrichterliche Handhabung, Baden Baden, 2004. 92. Critico sull’utilizzabilità della proporzione formale in parola, Sotis, I principi di necessità e proporzionalità della pena nel diritto dell’Unione europea dopo Lisbona, cit., 116. 166 offensività Il criterio assiologico di stima della cornice edittale, infatti, è individuabile a posteriori, osservando il sistema penale in cui si colloca il nuovo intervento di politica criminale e così trovando i parametri di comparazione in norme preesistenti alla novella. Pene e reati, infatti, sono posti su due piani distinti: se il nesso pena-reato è meramente convenzionale e, dunque, diicilmente dotato di proporzionalità ontologica93, quello tra reati può essere informato ad una proporzionalità interna, frutto di una costruzione razionale e coerente dei rapporti tra le diverse fattispecie. In altri termini, se è inverosimile valutare ontologicamente la gravità del reato94, è certamente possibile individuare il criterio di proporzionalità razionale del sistema penale attraverso la comparazione delle fattispecie95: se due diverse fattispecie sono sanzionate con la stessa pena, nell’apprezzamento discrezionale del legislatore dovrebbero possedere medesimo disvalore. E qui si può evidenziare l’incoerenza, ovvero può accadere che la scelta di politica penale del legislatore entri in collisione con la necessaria proporzione: ad esempio96, due reati che ofendono lo stesso bene giuridico con modalità analoghe, sanzionati con pene diferenti; oppure due reati aventi ad oggetto sempre lo stesso interesse, ma con modalità distinte, le une palesemente e obiettivamente più gravi delle altre, sanzionati, comunque, con la medesima pena o, addirittura, invertendo i disvalori, il primo con una sanzione meno severa del secondo97. 93. v. Jhering, Lo scopo del diritto (1877-1883), trad. it. a cura di Losano, Torino, 1972, 346. 94. Anche se l’orientamento della Corte costituzionale è costante nell’afermare che il principio di proporzione della pena è fondato anche sull’art. 27, co. 3, Cost., in quanto la palese sproporzione del sacriicio della libertà personale provocata dalla previsione di una sanzione penale manifestamente eccessiva rispetto al disvalore dell’illecito, vaniica il ine rieducativo della pena. Ex multis Corte cost., n. 313 del 1995. I giudici costituzionali hanno precisato che le valutazioni in merito alla proporzione astratta tra reato e pena aferiscano al potere discrezionale del legislatore, le stesse possono essere comunque censurate, sotto il proilo della legittimità costituzionale, nel momento in cui oltrepassino i limiti della ragionevolezza Fra le tante, Corte cost., n. 47 del 2010. Ad ogni modo, tale afermazione è rimasta priva di concreta applicazione, poiché la Consulta non è mai giunta ad una declaratoria di incostituzionalità della pena posta dal legislatore. Da ciò, è necessario guardare alla proporzione della pena della nuova incriminazione in relazione al sistema in cui si colloca. 95. Sul tema della ragionevolezza, fra i tanti, Di Giovine, Il sindacato di ragionevolezza della corte costituzionale in un caso facile, cit., 100 ss.; Id., Sul c.d. principio di ragionevolezza nella giurisprudenza costituzionale in materia penale. A proposito del riiuto totale di prestare il servizio militare, in Riv. it. dir. proc. pen., 1995, 159 ss. 96. Tali esempi sono indicati da Caterini, La proporzione nella dosimetria della pena da criterio di legiferazione a canone ermeneutico, cit., 65. 97. Per la distinzione tra razionalità e ragionevolezza, G. Zagrebelsky, La giustizia costituzionale, Bologna, 1988, 147 ss., secondo cui «la razionalità è determinata dalla coerenza logica, mentre la ragionevolezza, dall’adeguatezza ad un valore. Da ciò discende che la comparazione dell’importanza di due beni giuridici in relazione alla misura delle pene predisposta a loro tutela, non è un processo solamente razionale, ma anche ispirato ai canoni della ragionevolezza in quanto involge valutazioni assiologiche di tipo ideologico-politico. Del resto, se dette ultime valutazioni 167 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea In tali ipotesi di tecnica legislativa, dunque, si evidenziano delle incoerenze sistematiche, appuntando il giudizio di proporzione non all’interno della singola incriminazione, bensì in riferimento alla possibile disparità sanzionatoria tra fattispecie aini, con identica ratio incriminandi98. Per questa via, è evidente che il principio di proporzione ha valenza solo negativa, nel senso che tale principio è capace di individuare quale non è la giusta proporzione, ovvero di svelare le sproporzioni, alcune volte anche lampanti, nel sistema delle relazioni tra fattispecie99, attraverso il metro dell’eguaglianza in connubio con l’ofensività. Ora, la Corte di Giustizia ha la possibilità di sindacare la proporzione (minima) della pena indicata nella direttiva penale? Si crede di sì. Prima di Lisbona, tale sindacato veniva rinviato al giudice nazionale onde veriicare l’efettivo adempimento dell’obbligo di penalizzazione comunitario. Oggi, è onere della Corte lussemburghese quale unica giurisdizione sul diritto europeo derivato, poiché è la stessa norma comunitaria, a diferenza di quanto accadeva ante Lisbona, ad indicare una pena minima per il reato da recepire nell’ordinamento nazionale. Seppur l’ordinamento penale europeo (di mero indirizzo) è giovane, non per questo non è sistematizzato, ove si guardi anche all’esperienza delle decisioniquadro che poco diferiscono dalle direttive adottate ai sensi dell’art. 83 TFUE, con l’efetto che è certamente possibile comparare la novella con le incriminazioni aini e, dunque, veriicarne la coerenza intrasistemica100. sono cristallizzate nella gerarchia dei valori costituzionali, il criterio della ragionevolezza può essere utilizzato anche dall’interprete». 98. La Corte costituzionale, in più occasioni, ha sindacato la proporzione della pena con la comparazione inter delicta. Si segnalano come decisioni di rigetto, Corte cost., n. 22 del 2007; Id., ord. n. 229 del 2006; Id., ord. n. 170 del 2006. Tra le pronunce di illegittimità delle norme denunciate per la sproporzione delle pene rispetto a fattispecie aini: Id., n. 394 del 2006; Id., n. 168 del 2005; Id., 327 del 2002. 99. Evidenzia la valenza negativa del principio di proporzione, Cattaneo, Pena, diritto e dignità umana, Torino, 1998, 104. 100. Corte Giust. Com. Eur., 21 settembre 1989, C-68/88, Commissione vs. Grecia, richiamata, fra le tante, in Corte Giust. Com. Eur., 30 settembre 2003, C-167/01, Kamer van Koophandel en Fabrieken voor Amsterdam, § 62, secondo cui «qualora una disposizione di diritto comunitario non contenga alcuna disposizione speciica che preveda una sanzione in caso di trasgressione o faccia rinvio, al riguardo, alle disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative nazionali, l’art. 10 CE impone agli Stati membri di adottare tutte le misure atte ad assicurare la portata e l’eicacia del diritto comunitario. A tal ine, pur mantenendo la scelta delle sanzioni, essi devono segnatamente vegliare a che le violazioni del diritto comunitario siano punite, sotto il proilo sostanziale e procedurale, in forme analoghe a quelle previste per le violazioni del diritto interno simili per natura e importanza e che, in ogni caso, conferiscano alla sanzione stessa un carattere efettivo, proporzionale e dissuasivo». In dottrina, G. Grasso, L’incidenza del diritto comunitario sulla politica degli Stati membri: nascita di una politica criminale europea?, in IP, 1993, 77 ss.; Fornasari, Riserva di lege e fonti comunitarie, cit., 22; Sicurella, La tutela mediata degli interessi della costruzione europea, cit., 276 ss. 168 offensività 8. Il paternalismo in diritto penale. Il fondamento della legittimità del “punire” ed il limite dell’opzione penale nell’ottica antipaternalistica di John Stuart Mill. Nel pagine che precedono, sono stati proposti i criteri di valutazione dell’opzione penale nella necessaria lesività e nella dannosità sociale. Ora, è necessario, a questo punto dell’indagine, rilettere non solo, sul fondamento della legittimità autoritativa del “punire”, che investe valutazioni sia di ordine giuridico, che politico, ma anche su chi debba essere considerato “vittima” o, meglio, se i comportamenti lesivi rivolti verso se stessi meritano l’intervento tutorio penale. Si vuole introdurre la rilessione, dunque, nel dibattito tra paternalisti e antipaternalisti ed, in particolare, sulla questione se e ino a che punto una persona possa legittimamente disporre del proprio corpo, della propria libertà o della propria vita, ino a che punto possa cagionare a se stessa (ciò che molti considerano) un “danno”101. Ma andiamo con ordine. Tradizionalmente, nell’alveo della spiegazione giusnaturalistica, si tende a deinire la fonte della coazione legittima con il ricorso al modello contrattuale, variamente declinato. Tale impostazione tradizione viene riiutata da John Stuart Mill, uno dei maggiori ilosoi ed economisti di ine Ottocento102, poiché fuorviante: «la società non si fonda su un contratto, e sarebbe inutile inventarne uno per dedurne degli obblighi sociali»103. La prospettiva adottata da Mill per issare i limiti dell’azione della società sugli individui muove in senso opposto rispetto a come si potrebbe supporre: è l’individuo, e non la società, ad accettare i limiti alla propria libertà individuale, al ine di consentire alla società di esistere. Tali limiti vengono riassunti nel principio del danno, l’harm principle, che consiste, «in primo luogo, nel non danneggiare gli interessi reciproci, o meglio certi interessi che, per esplicita disposizione di legge o per tacito accordo, dovrebbero essere considerati diritti; e, secondo, nel sostenere la propria parte (da determinarsi in base a principi equi) di fatiche e sacriici necessari per difendere la società o i suoi membri da danni o molestie»104. E qui si delinea una prima fondamentale distinzione nell’ottica solidaristica: i diritti sono tutti interessi, ma non tutti gli interessi sono diritti. La legge od il tacito 101. Così, Maniaci, Contro il paternalismo giuridico, in Materiali per una storia della cultura giuridica, 2011, XLI, 1, 133. 102. Canestrari, Cornacchia, De Simone, Manuale di diritto penale, cit., 203, in cui si osserva che «l’harm principle, oggetto di un imponente dibattito nei paesi anglosassoni, vieta di sacriicare la libertà di un cittadino, secondo la lettura già di John Stuart Mill, laddove la sua condotta non abbia prodotto un danno a qualcuno, e quindi di sanzionare penalmente meri doveri verso se stesso, di automiglioramento morale o di cura della propria vita, salute e incolumità individuale». In questo senso, cfr. Donini, Il volto attuale dell’illecito penale, cit., 99. Ampiamente sulla rilessione angloamericana sulla capacità del teoria del bene giuridico ad indirizzare le scelte di politica criminale, Lo Forte, Il principio di ofensività, cit., 930, nota 39. 103. Mill, Sagio sulla libertà, trad. it. di Magistretti, Milano, 2009, 86. 104. Mill, Sagio sulla libertà, cit., 87. 169 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea accordo dei consociati individua tra gli interessi, i diritti che sono meritevoli di tutela e la cui violazione da parte di altri, nella concezione milliana, produce un danno, che costituisce l’unico limite alla libertà individuale: «in presenza di un preciso danno, o di un preciso rischio di danno, per il pubblico o per un individuo, il caso esula dalla sfera della libertà e rientra in quella della moralità o della legge»105. Ad ogni modo, Mill ritiene che l’interesse principale che deve essere tutelato sia la libertà personale, che costituisce la ragione per cui gli individui hanno accettato di vivere in una comunità e che, pertanto, costituisce il termine essenziale di comparazione della legittimità delle leggi anche in relazione ai limiti dell’intervento legislativo sulla regolazione dei comportamenti umani: si può proibire e punire soltanto gli atti lesivi della libertà di altri. «La mia tesi è che le sole sanzioni cui un individuo può essere legittimamente sottoposto per quella parte della sua condotta e del suo carattere che lo riguarda esclusivamente e non tocca gli interessi di chi abbia rapporti con lui, sono quelle strettamente inscindibili dal giudizio sfavorevole altrui. Gli atti che danneggiano altre persone vanno trattati in modo completamente diverso. Violare i diritti altrui, causare agli altri danni o perdite non giustiicati dai propri diritti, ingannarli con falsità e doppiezze, approittare ingiustamente o ingenerosamente di loro, anche evitando egoisticamente di difenderli: sono tutte azioni che meritano la riprovazione morale e, nei casi più gravi, il castigo»106. In deinitiva, la tesi di Mill sulla punizione e sulla coazione legislativa può essere riassunta, con le sue parole, in alcuni punti fondamentali. In primo luogo, «l’individuo non deve rendere conto alla società delle proprie azioni nella misura in cui esse non riguardano gli interessi di altri che di lui stesso»107. Poi, «l’individuo deve rendere conto delle azioni che possano pregiudicare gli interessi altrui, e può essere sottoposto a punizioni sociali o legali se la società ritiene le une o le altre necessarie per proteggersi»108. Ed inine, «la terza e più valida ragione per limitare l’interferenza dello stato è la grande sciagura costituita da un’inutile estensione del suo potere. Ciascuna funzione che viene ad aggiungersi a quelle che il governo già svolge, amplia il suo campo di inluenza sulla speranza e sul timore umani, e trasforma sempre più gli individui più attivi e ambiziosi in parassiti del governo, o di qualche partito che aspiri a diventarlo»109. 8.1. (segue) L’impostazione di Joel Feinberg. Il ilosofo americano Joel Feinberg dedica gran parte del suo trattato The Moral Limits of the Criminal Law allo sviluppo delle tesi milliane sull’harm principle, mettendo in rilievo molti argomenti solo 105. 106. 107. 108. 109. 170 Mill, Sagio sulla libertà, cit., 101. Mill, Sagio sulla libertà, cit., 97, 98. Mill, Sagio sulla libertà, cit., 108. Mill, Sagio sulla libertà, cit., 109. Mill, Sagio sulla libertà, cit., 127. offensività tratteggiati dal primo, a partire dal concetto di “danno” intorno al quale, come visto, ruota l’intera teoria del diritto penale antipaernalistica. In maniera molto schematica, Feinberg identiica alcuni signiicati del termine danno: (1) danno in un senso derivato o esteso, allorquando si vuole identiicare il bene danneggiato: «i vandali che spaccano le inestre danneggiano la proprietà di qualcuno; l’incuria danneggia i giardini; la brina danneggia i germogli. È abbastanza chiaro che questo sia un danno in senso traslato (transferred). Non ci sentiamo danneggiati per le sorti delle inestre o dei pomodori, né questi sono oggetti della nostra simpatia. Piuttosto, il nostro riferimento al loro “danno” è ellittico per il danno fatto a coloro che hanno interessi nei palazzi e nei germogli, coloro che hanno in un certo modo “investito” parte del loro benessere nel mantenimento o nello sviluppo di qualche condizione di questi oggetti. Rompendo le inestre, i vandali hanno fatto un danno diretto agli interessi del padrone della casa; hanno danneggiato le inestre soltanto in un senso derivato ed esteso»110; (2) danno come lesione agli interessi, che è quello conseguente al danneggiamento del bene (danno derivato). Precisamente, si tratta di «danno concepito come ostacolo, accantonamento o sconitta di un interesse. Usato in questo senso, è ovvio che il termine “interesse” non si riferisca a “denaro dovuto per un prestito” o “l’eccitazione dell’attenzione o della curiosità”, forse i suoi signiicati più comuni. C’è, in ogni caso, un senso familiare commerciale-legale della parola che può servire come utile modello per capire l’accezione con cui essa è collegata al danno. Mi riferisco al senso in cui una persona ha un interesse in una compagnia della quale possiede qualche azione. Se io ho un interesse, in questo senso, nella Apex Chemical Company, ho una sorta di interesse (stake) nel suo benessere»111; (3) danno in senso normativo, sarebbe il danno ingiusto o antigiuridico, tale solo se lede un diritto (e, dunque, un interesse normativamente riconosciuto, secondo la tesi milliana) ed appartenente ad altri. Come scrive Feinberg, «sebbene quasi tutti i danni in questo senso specialmente ristretto (azioni ingiuste) siano anche danni nel senso delle invasioni degli interessi, non tutte le invasioni degli interessi sono ingiuste, dato che alcune azioni invadono gli interessi di un altro in maniera scusabile o giustiicabile, o invadono interessi che gli altri non hanno il diritto che siano rispettati. Gli interessi di persone diverse sono costantemente e inevitabilmente in conlitto, così ogni sistema giuridico determinato a “minimizzare il danno” deve incorporare giudizi sull’importanza comparativa degli interessi di diverso tipo in maniera che si possa dire “ingiustiicata” l’invasione dell’interesse di alta priorità di una persona compiuta per proteggere l’interesse di bassa priorità di un’altra. 110. Feinberg, Harm to others, Oxford, 1984, 32. Si è presa in considerazione l’attenta analisi di Tincani, L’harm principle. Il principio del danno, in Sciacca (a cura di), L’individuo nella crisi dei diritti, Genova, 2009, 45 ss. 111. Feinberg, Harm to others, cit., 33. 171 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea Le ingiustizie giuridiche, allora, sono invasioni di interessi che violano le scale di priorità stabilite. Le invasioni che sono giustiicate dalle regole di priorità non sono giuridicamente ingiuste, sebbene esse possano inliggere un danno in senso non-normativo»112. La lezione feinberghiana ruota intorno al concetto di autonomia personale o sovranità assoluta su se stessi, non solo, come diritto fondamentale, ma al contempo come valore fondamentale, che vieta intromissioni esterne a prescindere dall’oggettiva bontà, razionalità o convenienza della scelta113. «Il titolare del bene giuridico ha il diritto morale di disporne: le modalità concrete – inclusa quella manu aliena – sono rimesse integralmente alla sua scelta sovrana. Rientra pertanto nel modello dell’azione autolesiva tanto quella posta in essere dal titolare del bene giuridico, quanto quella eseguita materialmente da altri: nel secondo caso si tratterà di auto-lesione indiretta, e non di etero-lesione»114. In altri termini, l’autolesione diretta (ovvero provocata dal titolare del diritto verso se stesso) e quella indiretta (ovvero quella determinata da chi riceve il consenso dell’avente diritto alla lesione del relativo bene) rientrano, secondo Feinberg, nella stessa categoria morale attraverso il principio volenti non it iniuria115. Ad ogni modo, l’intervento esterno in favore dell’interessato è legittimo solo quando manchi un atto giuridicamente eicace di volontà, espressione di autonomia116. In quest’ottica, dunque, ciò che potrebbe apparire come una forma di paternalismo tenue (soft), di contro, «si risolve in una coniugazione dell’Harm Principle: la legittimità dell’intervento dipende essenzialmente dalla volontarietà reale della decisione autolesionistica del titolare del bene»117. 112. Feinberg, Harm to others, cit., 35. 113. Feinberg, Harm to self, New York, 1986, 65. 114. Cornacchia, La vittima nel diritto penale contemporaneo tra paternalismo e legittimazione del potere coercitivo, Roma, 2012, 71. 115. Cornacchia, La vittima nel diritto penale contemporaneo, cit., 72, in particolare, in nota 15, sottolinea che negli stessi termini, nella dottrina tedesca, v. Hirsch, Neumann, “Indirekter Paternalismus” im Strafrecht - am Beispiel derTötung auf Verlangen Sollte selbstbeschädigendes Verhalten kriminalisiert werden?, in v. Hirsch, Neumann, Seelmann (a cura di), Paternalismus im Strafrecht. Die Kriminalisierung von selbstschädigendem Verhalten (Studien zur Strafrechtstheorie und Strafrechtsethik, Bd. 1), Baden-Baden (Nomos) 2010, in Rechtswissenschaft, 2011, 81; Jakobs, Tötung auf Verlangen, Euthanasie und Strafrechtsystem, in Bayerische Akademie der Wissenschaften, Philosophisch-Historische Klasse, München, 1998, 14 ss. 116. Cadoppi, Liberalismo, paternalismo e diritto penale, in Fiandaca, Francolini (a cura di), Sulla legittimazione del diritto penale. Culture europeo-continentale e anglo-americana a confronto, Torino, 2008, 114 ss.; ma già Mill, Sagio sulla libertà, cit., 111, secondo il quale è ammissibile l’intromissione da parte dello Stato nella libertà di minori, persone temporaneamente o permanentemente incapaci di intendere e volere, popoli non civilizzati, allo scopo di impedire che cagionino un danno a se stessi. 117. Cornacchia, La vittima nel diritto penale contemporaneo, cit., 74. 172 offensività 8.2. Il paternalismo come esigenza solidaristica nella visione costituzionale in una società democratica. Il dibattito sul paternalismo in diritto penale riguarda gli interventi statali coattivi che escludono alcune opzioni comportamentali dall’esercizio della libertà individuale, giustiicati dalla potenziale pregiudizialità per la persona, da realizzare attraverso il ricorso alla pena. Il paternalismo giuridico è stato deinito come quella «concezione etico-politica in base alla quale lo Stato, o un soggetto autorizzato dallo Stato, può usare la (minaccia dell’uso della) forza, contro la volontà di un individuo adulto, anche qualora le sue scelte siano razionali e libere da coazione altrui, al ine, esclusivo o principale, di tutelare (quelli che vengono considerati) i suoi interessi, ovvero (ciò che viene qualiicato come) il suo bene; in particolare al ine di evitare che questi, tramite un’azione o un’omissione, cagioni, o rischi in modo signiicativo di cagionare, a se stesso (ciò che viene considerato) un danno, ad esempio isico, psicoisico, economico»118. Sono stati individuati due modelli normativi di paternalismo giuridico: l’uno, deontologico, che «presuppone in capo a ciascun individuo l’esistenza di obblighi giuridici verso se stesso, obblighi che vietano comportamenti auto-lesivi, e ravvisa quindi nell’intervento paternalistico lo strumento di prevenzione della loro violazione»119. In tale ipotesi, l’intervento statale è giustiicato dalla titolarità del bene che efettivamente non è dell’individuo, ma della stessa società che ha riconosciuto l’uso di quel diritto da parte del singolo, purché il relativo esercizio sia conforme all’interesse comune. Ed invero, non è sostenibile ammettere l’assoluta sovranità individuale, semmai con una lettura feinberghiana del concetto di “sovranità” contenuto nell’art. 1, co. 2, Cost., se non andando a collidere «con l’ispirazione chiaramente personalistica del tessuto complessivo della Costituzione, radicata in una concezione della dignità umana come realtà originaria e intrasferibile»120. L’altro modello di paternalismo giuridico è stato deinito tutelare, in quanto «riconosce speciali obblighi solidaristici, che impongono tanto ai singoli quanto ai pubblici poteri di intervenire a salvaguardia delle persone quando non vogliano o non possano tutelare da sé i propri beni fondamentali»121. 118. Maniaci, Contro il paternalismo giuridico, cit., 134. 119. Cornacchia, La vittima nel diritto penale contemporaneo, cit., 68, che rinvia, per una lettura neokantiana del “dovere giuridico intrapersonale” verso se stesso dedotto dall’imperativo categorico (con particolare riferimento al sucidio), a Maatsch, Selbstverfügung als intrapersonaler Rechtsplichtverstoß. Zum Strafunrecht einverständlicher Sterbehilfe, Berlin, 2001, 210 ss. 120. Cornacchia, La vittima nel diritto penale contemporaneo, cit., 69, il quale, fra l’altro, osserva che «accogliere la concezione di cui qui si fa cenno comporterebbe che, se davvero la sovranità anche sulla dimensione individuale “appartiene al popolo”, questo potrebbe assumere la decisione sovrana di revocare la concessione fatta al cittadino. Invece l’idea del rispetto e del riconoscimento reciproco della dignità di soggetti morali come principio delle relazioni umane non dipende dalla volontà collettiva, è logicamente antecedente e fondativo rispetto allo stesso principio democratico». 121. Cornacchia, La vittima nel diritto penale contemporaneo, cit., 69, a cui si rinvia per la scru- 173 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea Questa breve premessa sul paternalismo (non essendo questa la sede per dare conto dell’imponente dibattito sul tema), è utile ad introdurre una rilessione che sarà utilizzata come cardine intorno al quale ruotano molte delle argomentazioni, non solo già svolte nelle pagine che precedono, sul ruolo dell’ofensività come criterio di selezione delle scelte di politica criminale, ma anche in quelle che seguono, in particolare sul fondamento della colpevolezza e sulla deinizione della pena. Si è convinti che il paternalismo in diritto penale può essere riconosciuto come uno dei pilastri dell’attuale assetto costituzionale solidaristico fondato sull’art. 2 Cost., nel senso che la personalizzazione della responsabilità penale (ricercata propriamente dalla colpevolezza), appare costruita sulla nozione di individuo voluta dall’art. 2 Cost., come “cittadino”, ovvero membro di una comunità che gli riconosce libertà e diritti nei limiti del rispetto di quelli riconosciuti agli altri consociati. Se, dunque, è il “cittadino” l’attore (attivo o passivo) del reato appare così giustiicabile l’intervento paternalistico con la sanzione penale per impedire (e, dunque, anche correggere) i comportamenti autolesivi del cittadino poiché diretti ad ofendere un membro della comunità. In altri termini, l’“individuo”, da sé solo, è indiferente al sistema penale che invece è proteso verso il “cittadino” (ovvero l’individuo come membro di una società) sia per garantirgli il libero esercizio dei diritti e delle libertà riconosciutegli, attraverso la minaccia della pena, sia per reintegrarlo nel tessuto sociale quando è perpetrato il reato o, meglio, come si dirà in prosieguo, per riparare lo strappo del tessuto sociale provocato dal comportamento vietato (relazione agente-vittima). In tale prospettiva, l’intervento paternalistico volto ad evitare l’autolesione è diretto, non verso l’individuo, ma alla salvaguardia dell’assetto sociale. E qui si pone l’interrogativo del limite all’intervento coercitivo della società democratica onde evitare la degenerazione in sistemi totalitari, che nella tesi milliana e feinberghiana è individuato nell’intangibilità della libertà individuale. L’intervento tutorio sociale ino a quale punto può correggere la scelta del cittadino per scongiurarne l’autolesione? La questione si pone in relazione ad individui capaci di intendere e di volere, perché per i minori e per gli incapaci (permanentemente e temporaneamente) in genere (cittadini vulnerabili), l’intervento paternalista è giustiicato già nell’impostazione libertaria con la mancanza di un’efettiva e libera volontà dell’individuo che compromette la coerenza della scelta autolesionista. Giustiicare l’intervento paternalista del diritto penale anche contro la libertà individuale del cittadino libero e capace di intendere e volere, signiica dover selezionare alcuni beni giuridici assolutamente indisponibili nell’interesse comu- polosa analisi di tutti gli aspetti del paternalismo. Si veda anche Id., Placing Care. Spunti in tema di paternalismo penale, in Criminalia, 2011, 6, 239 ss. 174 offensività ne. Primo fra tutti, il diritto alla vita riconosciuto dall’art. 2 Convenzione EDU. Non si sceglie di nascere, non si dovrebbe scegliere di morire. Dal punto di vista della visione solidaristica qui tracciata, «ciò che rende pubblicamente illecito un comportamento è la sua connotazione intrinseca di denegazione dello status di membro della civitas alla vittima, anche consenziente e del tutto a prescindere dalle conseguenze lesive che ne possano derivare»122. Il dibattito è molto ampio e complesso e qui non è possibile darne compiuto apprezzamento123. Sarà suficiente sofermarsi, in linea con l’indagine proposta, sulla giurisprudenza della Corte di Strasburgo in tema di eutanasia attiva, al ine di comprendere gli sviluppi sulla legislazione penale di stampo paternalistico tuttora vigente nel nostro ordinamento. In altri termini, l’interrogativo è quello di veriicare, innanzitutto, la compatibilità convenzionale dell’indisponibilità della vita e dell’integrità isica nell’ordinamento interno (art. 579 c.p. e 5 c.c.) ed, in caso di accertata resistenza, valutarne la centralità in tema di scelte di ine-vita. 9. La Corte di Strasburbo e l’eutanasia: il punto della giurisprudenza convenzionale sul “diritto di morire”. I giudici di Strasburgo sono stati investiti delle questioni di ine vita in diverse occasioni, afrontando, in particolare, il problema del suicidio assistito, vale a dire della scelta di una persona di porre ine alla propria vita, richiedendo assistenza medica attraverso la somministrazione di una sostanza letale. Il parametro convenzionale di valutazione della questione posta è stato individuato nell’art. 8 Convenzione EDU, che consacra tra i diritti fondamentali dell’essere umano, quello relativo al rispetto della vita privata. In una prima pronuncia124, la Corte EDU, infatti, esclude la possibilità di dedurre dalla previsione convenzionale dell’art. 2 Convenzione EDU, che tutela il diritto alla vita, anche l’obbligo di riconoscere al cittadino il diritto a morire. E in particolare, la Corte aferma che, in tale disposizione della Convenzione EDU, «il n’a aucun rapport avec les questions concernant la qualité de la vie ou ce qu’une personne choisit de faire de sa vie», poiché «l’article 2 ne saurait, sans distorsion de langage, être interprété comme conférant un droit diamétralement opposé, à savoir un droit à mourir; il ne saurait davantage créer un droit à l’autodétermination en ce sens qu’il donnerait à tout individu le droit de choisir la mort plutôt que la vie»125. Il diritto all’autodeterminazione, secondo la Corte EDU, rientra nella previsione di cui all’art. 8 Convenzione EDU, come detto, la cui nozione di “vie privée” è molto ampia e non può essere declinata in 122. Cornacchia, La vittima nel diritto penale contemporaneo, cit., 85. 123. Fra i tanti, Manna, sub artt. 579-580. Omicidio del consenziente ed istigazione o aiuto al suicidio: l’eutanasia, in Manna (a cura di), Reati contro la persona, I, Reati contro la vita, l’incolumità individuale e l’onore, Torino, 2007, 40 ss. 124. Corte eur. dir. uomo, Sez. IV, 29 aprile 2002, Pretty vs. Regno Unito. 125. Corte eur. dir. uomo, Sez. IV, 29 aprile 2002, cit., § 39. 175 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea un numero chiuso e tassativo di ipotesi, rientrandovi «l’intégrité physique et morale de la personne» o solo «des aspects de l’identité physique et sociale d’un individu», come, per esempio, «l’identiication sexuelle, le nom, l’orientation sexuelle et la vie sexuelle relèvent de la sphère personnelle» o, ancora, «le droit au développement personnel et le droit d’établir et entretenir des rapports avec d’autres êtres humains et le monde extérieur». Nella previsione dell’art. 8 Convenzione EDU, dunque, non può non essere compreso anche il diritto all’autodeterminazione. Ad ogni modo, nell’occasione, i giudici europei escludono la violazione convenzionale da parte del Regno Unito, considerando «l’ingérence incriminée […] justiiée comme “nécessaire, dans une société démocratique”, à la protection des droits d’autrui», in ossequio alle condizioni derogatorie prescritte dall’art. 8, § 2, Convenzione EDU. Nella decisione in commento, i giudici europei sottolineano, infatti, che «il ne paraît pas arbitraire à la Cour que la législation relète l’importance du droit à la vie en interdisant le suicide assisté tout en prévoyant un régime d’application et d’appréciation par la justice qui permet de prendre en compte dans chaque cas concret tant l’intérêt public à entamer des poursuites que les exigences justes et adéquates de la rétribution et de la dissuasion»126. Su tale orientamento, si innesta un’ulteriore decisione127, in cui alla Corte fu sollecitata la rilessione sulla possibilità che dall’art. 8 Convenzione EDU discenda il diritto a un suicidio dignitoso: ad essere denunciata era la legislazione svizzera in materia, che è una tra le più libertarie in Europa128. La Corte, in maniera più espli- 126. Corte eur. dir. uomo, Sez. IV, 29 aprile 2002, cit., § 77. 127. Corte eur. dir. uomo, Sez. I, 20 gennaio 2011, Haas vs. Svizzera. 128. Crivelli, Gross c. Svizzera: la Corte di Strasburgo chiede alla Svizzera nuove e più precise norme in tema di suicidio assistito, in www.associazionecostituzionalisti.it, la quale descrive la legislazione svizzera in materia di suicidio assistito, evidenziando che «in Svizzera il codice penale sanziona in dal 1937 l’omicidio su richiesta della vittima (art. 114 c.p.) mentre l’assistenza al suicidio viene perseguita solo se compiuta per “ini egoistici” (art. 115 c.p.): tale ultima disposizione ha favorito il sorgere di organizzazioni di “assistenza al suicidio” che assicurano un supporto medico logistico alla scelta di porre ine alla propria vita, provvedendo al ricovero ospedaliero o all’assistenza domiciliare e fornendo la somministrazione di un farmaco letale, il pentobarbitale sodico. Nonostante un intenso dibattito a livello politico e sociale e diverse proposte di riforma, la norma penale sul suicidio assistito non è stata aiancata da altre disposizioni di legge volte a precisare gli obblighi gravanti sulle organizzazioni di assistenza al suicidio, anche al ine di prevenire possibili abusi. Il quadro normativo risulta invece integrato a livello sublegislativo, dalle direttive eticomediche che nel novembre 2005 si è data l’Accademia svizzera delle Scienze mediche in tema di “Assistenza dei pazienti terminali”. L’art. 4.1 delle citate linee guida indirizza il comportamento dei medici nelle ipotesi di assistenza al suicidio consentita dalla legge, e dispone che qualora il medico – che ha sempre il diritto di riiutare tale forma di assistenza – decida di prestarla, deve veriicare l’esistenza di alcune condizioni: accertare che “la malattia di cui sofre il paziente legittimi la supposizione del suo decesso imminente”; accertare che trattamenti alternativi siano stati proposti e, se accettati dal paziente, adottati; accertare la capacità di intendere e di volere del malato; assicurarsi che la condotta inale, e cioè l’assunzione del farmaco, sia compiuta autonomamente ed esclusivamente dal malato, ovvero, che “l’ultimo gesto del processo che porta alla morte sia in ogni caso compiuto dal paziente stesso”». 176 offensività cita rispetto alla pronuncia del 2002, evidenzia che «le droit d’un individu de décider de quelle manière et à quel moment sa vie doit prendre in, à condition qu’il soit en mesure de former librement sa volonté à ce propos et d’agir en conséquence, est l’un des aspects du droit au respect de sa vie privée au sens de l’article 8 de la Convention»129. A questo punto, la Corte evidenzia la diferenza della questione oggetto del ricorso de quo rispetto al precedente del 2002, osservando «le requérant allègue non seulement que sa vie est diicile et douloureuse, mais également que, s’il n’obtient pas la substance litigieuse, l’acte de suicide lui-même serait privé de dignité», aggiungendo, inoltre, che «et toujours à la diférence de l’afaire Pretty, le requérant ne peut pas véritablement être considéré comme une personne inirme, dans la mesure où il ne se trouve pas au stade terminal d’une maladie dégénérative incurable qui l’empêcherait de se donner lui-même la mort»130. Ora, dopo aver individuato l’oggetto della questione nella veriica di un obbligo positivo per la Svizzera di prevedere nella sua legislazione l’ipotesi di suicidio assistito per un soggetto non malato, onde consentire allo stesso «un suicide dans la dignité», la Corte aferma che, in tale prospettiva d’esame, andrà compiuto un bilanciamento degli interessi in gioco «dans le cadre duquel l’Etat jouit de son côté d’une certaine marge d’appréciation». I giudice europei, dunque, stimano l’interesse da bilanciare con la previsione denunciata dell’art. 8, con quello di cui all’art. 2, «qui impose aux autorités le devoir de protéger les personnes vulnérables même contre des agissements par lesquels elles menacent leur propre vie» ed «oblige les autorités nationales à empêcher un individu de mettre in à ses jours si sa décision n’a pas été prise librement et en toute connaissance de cause»131. Qui la Corte utilizza una lettura evolutiva della Convenzione EDU attraverso il parametro “comparativo”, afermando che «les recherches efectuées par la Cour lui permettent de conclure que l’on est loin d’un consensus au sein des Etats membres du Conseil de l’Europe quant au droit d’un individu de décider de quelle manière et à quel moment sa vie doit prendre in», concludendo, comunque, che «la grande majorité des Etats membres semblent donner plus de poids à la protection de la vie de l’individu qu’à son droit d’y mettre in»132. Dopo aver analizzato la legislazione svizzera che, come già ricordato, è la più libertaria in questa materia, la Corte EDU respinge il ricorso, statuendo che «les Etats aient une obligation positive d’adopter des mesures permettant de faciliter la commission d’un suicide dans la dignité»133. Successivamente, la Corte è tornata a pronunciarsi in materia di suicidio assistito134 sul ricorso del coniuge di una paziente tetraplegica e totalmente dipen- 129. Corte eur. dir. uomo, Sez. I, 20 gennaio 2011, cit., § 51. 130. Corte eur. dir. uomo, Sez. I, 20 gennaio 2011, cit., § 52. 131. Corte eur. dir. uomo, Sez. I, 20 gennaio 2011, cit., § 54. 132. Corte eur. dir. uomo, Sez. I, 20 gennaio 2011, cit., § 55. 133. Corte eur. dir. uomo, Sez. I, 20 gennaio 2011, cit., § 61. 134. Corte eur. dir. uomo, Sez. V, 12 luglio 2012, Koch vs. Germania, con nota di Parodi, Una cauta pronuncia della Corte europea in tema di eutanasia attiva, in www.penalecontemporaneo.it. 177 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea dente dall’ausilio di un respiratore, ma comunque non terminale (ed anzi con una aspettativa di vita di una quindicina di anni), che aveva chiesto all’autorità amministrativa tedesca la somministrazione di farmaci idonei a procurarsi la morte senza sofrire. Il ricorrente aveva invano impugnato il provvedimento amministrativo di rigetto avanti alle istanze giurisdizionali tedesche sino a giungere alla Corte costituzionale, la quale aveva però giudicato inammissibile il ricorso per difetto di legittimazione attiva del ricorrente, vertendosi in materia di diritti personalissimi. Nelle more, la moglie si era recata in Svizzera, dove era stata aiutata a morire in una clinica privata. La Corte europea, dopo avere confermato il principio secondo cui «le fait d’empêcher par la loi la requérante d’exercer son choix d’éviter ce qui, à ses yeux, constituera une in de vie indigne et pénible représente une atteinte au droit de l’intéressée au respect de sa vie privée, au sens de l’article 8 § 1 de la Convention», restando peraltro aperta la possibilità che tale interferenza possa ritenersi giustiicata rispetto alle necessità di tutela di uno dei controinteressi menzionati nell’art. 8, § 2, Convenzione EDU. Nel caso di specie, la Corte ha concluso per l’accoglimento del ricorso, poiché la giurisdizione nazionale non aveva esaminato nel merito l’istanza avanzata. Più recentemente135, la Corte di Strasburgo è stata investita della questione relativa alla legittimità della richiesta di un soggetto sano di poter ottenere assistenza al suicidio libero e volontario. I giudici europei iniziano il loro ragionamento richiamando la giurisprudenza consolidata. Ora, se è vero che il diritto di morire è un aspetto del diritto al rispetto della vita privata e che tale aspetto può essere limitato dallo Stato per una delle esigenze previste dall’art. 8, § 2, Convenzione EDU, è anche vero, però, che tali limitazioni devono essere previste dagli Stati in modo chiaro e comprensibile, al ine di consentire agli individui di comprendere agevolmente se tale diritto sia loro attribuito concretamente, e non in forma meramente illusoria136. 9.1. (segue) Riepilogo. Il diritto al suicidio dignitoso. Si può afermare, dunque, che il diritto al rispetto della vita privata, previsto dall’art. 8 Convenzione EDU, riguarda anche la libertà di scelta di evitare «une in de vie indigne et pénible», secondo la personale visione della propria esistenza. Ad ogni modo, tale libertà non costituisce un obbligo positivo di tutela, ma è da bilanciare con le esigenze prescritte espressamente dal capoverso della norma convenzionale in questione, rientrando nel margine di apprezzamento di ciascun Stato dare maggiore rilievo alla tutela della vita anche nelle ipotesi auto-agressive. A tal proposito, la Corte espressamente utilizza l’argomento comparativo per 135. Corte eur. dir. uomo, Sez. II, 14 maggio 2013, Gross vs. Svizzera. 136. La decisione non è deinitiva, in quanto la Svizzera ha fatto richiesta di riesame innanzi alla Grande Camera. L’udienza innanzi alla Grande Camera è issata per il 2 aprile 2014. 178 offensività evidenziare il fondamento del margine d’apprezzamento statale137, sottolineando che, nella maggioranza delle esperienze nazionali degli Stati membri del Consiglio d’Europa, «toutes les formes d’assistance au suicide font l’objet d’une interdiction stricte et sont érigées en infractions pénales». Nel caso in cui, però, lo Stato scelga di riconoscere tale libertà, allora, deve indicare, in maniera chiara e comprensibile, tutte le ipotesi in cui l’individuo può fasi assistere nel porre ine alla vita. 9.2. Brevi annotazioni conclusive sul rapporto tra l’art. 8 Convenzione EDU e le questioni autolesive previste nella legislazione domestica nell’alveo del sistema eurounitario. L’ordinamento domestico rispetta la libertà di autodeterminazione dell’individuo, purché la scelta non comporti il contributo materiale o morale di nessun altro individuo. Tanto si evince dalle previsioni delittuose di cui all’art. 579 c.p. (omicidio del consenziente) o all’art. 580 c.p. (istigazione o aiuto al suicidio), ma anche nei casi di riiuto delle cure laddove il consenso del paziente è centrale anche nei trattamenti sanitari obbligatori stabiliti dalla legge n. 180 del 1978 che impone «iniziative volte ad assicurare il consenso e la partecipazione da parte di chi è obbligato». Il suicidio è lecito se determinato liberamente e consapevolmente dall’individuo, come dire, nella solitudine di se stesso. Diversamente, la società ed ogni membro della stessa non può aiutare, in alcuna maniera, nessun cittadino alla determinazione di ine-vita, come evidenziato anche dagli obblighi solidaristici fondati sull’art. 2 Cost. e garantiti dalle previsioni di cui agli artt. 54 e 593 c.p. L’interrogativo posto nelle pagine che precedono riguarda la compatibilità convenzionale di tali previsioni penalistiche con il diritto al suicidio assistito riconosciuto sotto la previsione dell’art. 8, § 1, Convenzione EDU. L’incompatibilità è manifesta: da un lato, l’individuo ha diritto ad essere assistito dallo Stato nella libera e consapevole scelta di porre ine alla sua vita; dall’altro, l’ordinamento italiano esclude qualsiasi agevolazione o assistenza di terzi al suicidio, come atto contrario ai principi (positivi) di solidarietà sanciti dall’art. 2 Cost. 137. In particolare, Corte eur. dir. uomo, Sez. V, 19 luglio 2012, cit., § 26, aferma: «Des recherches en droit comparé menées relativement à 42 Etats membres du Conseil de l’Europe montrent que, dans 36 pays (Albanie, Andorre, Autriche, Azerbaïdjan, Bosnie-Herzégovine, Bulgarie, Croatie, Chypre, République tchèque, Danemark, Estonie, France, Géorgie, Grèce, Hongrie, Irlande, Lettonie, Lituanie, l’exRépublique yougoslave de Macédoine, Malte, Moldova, Monaco, Monténégro, Norvège, Pologne, Portugal, Roumanie, Royaume-Uni, Russie, Saint Marin, Espagne, Serbie, Slovaquie, Slovénie, Turquie et Ukraine), toutes les formes d’assistance au suicide font l’objet d’une interdiction stricte et sont érigées en infractions pénales. En Suède et en Estonie, l’assistance au suicide ne constitue pas une infraction pénale; toutefois, les médecins estoniens n’ont pas le droit de prescrire un médicament en vue de faciliter le suicide. A l’inverse, seuls quatre Etats (Suisse, Belgique, Pays-Bas et Luxembourg) autorisent leurs médecins à prescrire des doses létales de médicament, dans les limites de garanties particulières». 179 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea Ad ogni modo, per come visto, tale diritto al suicidio dignitoso può essere derogato nelle ipotesi previste dall’art. 8, § 2, Convenzione EDU, secondo cui: «Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui». Da ciò, l’ingerenza statale nella vita privata dell’individuo è ammessa se (1) è prevista dalla legge, (2) ispirata alla salvaguardia della sicurezza nazionale, del benessere economico del paese, della difesa dell’ordine e della prevenzione dei reati, della protezione della salute o della morale, o della protezione dei diritti e delle libertà altrui ed, inine, (3) «nécessaire, dans une société démocratique». Secondo la giurisprudenza della Corte EDU, la deinizione di “nécessité” implica che l’ingerenza statale corrisponda ad un bisogno sociale proporzionato all’obiettivo da perseguire138. Tra gli obiettivi da perseguire, previsti dall’art. 8, § 2, Convenzione EDU, che possano interessare il diritto al suicidio dignitoso, possono indicarsi l’ordine pubblico e la protezione della morale. Ma non è suiciente individuare gli obiettivi perseguiti che (astrattamente) giustiicano l’ingerenza statale, essendo, altresì, essenziale rappresentare la necessità dell’ingerenza nella scelta di ine-vita per la società democratica. La tutela della vita è stata riconosciuta fondamentale dalla stessa Corte di Strasburgo, ma solo in relazione agli individui vulnerabili, obbligando «les autorités nationales à empêcher un individu de mettre in à ses jours si sa décision n’a pas été prise librement et en toute connaissance de cause»139. Non, quindi, nei confronti di un individuo libero e capace di intendere e volere, che possa consapevolmente autodeterminarsi ed esprimere un valido consenso. La giurisprudenza di Strasburgo, come visto, si arresta dinanzi all’argomento comparativo: nella stragrande maggioranza degli Stati membri del Consiglio d’Europa «toutes les formes d’assistance au suicide font l’objet d’une interdiction stricte et sont érigées en infractions pénales» e, pertanto, «les Etats parties à la Convention sont loin d’avoir atteint un consensus à cet égard, ce qui implique de reconnaître à l’Etat défendeur une marge d’appréciation considérable dans ce contexte»140. Da ciò, non potrebbe ravvisarsi alcuna violazione convenzionale da parte della normativa interna, poiché l’ingerenza statale nella libertà di scelta di ine-vita ha un margine d’apprezzamento molto ampio. Ma supponendo una rigorosa lettura dei limiti all’ingerenza statale previsti dall’art. 8, § 2, Convenzione EDU, diicilmente la previsione delittuosa di cui 138. Corte eur. dir. uomo, Sez. IV, 29 aprile 2002, cit,, § 60. 139. Corte eur. dir. uomo, Sez. I, 20 gennaio 2011, cit., § 54. 140. Corte eur. dir. uomo, Sez. V, 12 luglio 2012, cit., § 70. 180 offensività all’art. 579 c.p. potrebbe essere salvata, potendosi ravvisare la violazione dell’art. 117, co. 1, Cost., in relazione all’art. 8, § 1, Convenzione EDU. Ed invero, stando alla giurisprudenza della Corte europea, «les Etats aient une obligation positive d’adopter des mesures permettant de faciliter la commission d’un suicide dans la dignité»141, purché non si tratti di «personnes vulnérables» e, dunque, la scelta sia stata manifestata liberamente e consapevolmente. Posto che l’individuo ha diritto ad un suicidio dignitoso, ovvero che non sia traumatico o doloroso isicamente e psicologicamente, allora, è dovere dello Stato ammettere l’assistenza medica alla consapevole decisione di porre ine alla vita, con l’efetto che l’art. 579 c.p. andrebbe emendato prevedendo l’esclusione della punibilità del medico che dia assistenza al suicidio del consenziente. Anche in tale ipotesi si giungerebbe a rendere lecito il comportamento del medico, come dai più giustiicato facendo leva sull’art. 51 c.p., e quindi considerando l’atteggiamento omissivo dello stesso come conseguenza del riiuto del paziente di continuare un determinato trattamento terapeutico (c.d. eutanasia passiva)142. Ancora più evidente l’incompatibilità europea dell’art. 579 c.p., ove si guardi alla Carta di Nizza che, come noto, rispetto alla Convenzione EDU, gode dell’eficacia della primazia del diritto europeo in forza del richiamo operato dall’art. 6 TUE, con tutte le conseguenze di vincolatività imposte dall’art. 117, co. 1, Cost. e la possibilità di diretta applicazione in luogo della normativa interna143. 141. Corte eur. dir. uomo, Sez. I, 20 gennaio 2011, cit., § 61. 142. Sulla problematica della responsabilità del medico che abbia interrotto od omesso l’esecuzione di un trattamento di sostegno vitale a fronte di un espresso riiuto del paziente adulto e capace di intendere e volere, in dottrina, cfr. Barni, Sull’alterna fortuna della nozione di eutanasia, in Riv. it. med. leg., 1985, 421 ss.; Calcagni, Mei, L’eutanasia tra volontà, diritto a morire e assistenza al morente, Zacchia, 1994, 243 ss.; Cassano, Catullo, Eutanasia, giudici e diritto penale, in Cass. pen., 2003, 1369 ss.; Eusebi, Il diritto penale di fronte alla malattia, in Fioravanti (a cura di), La tutela penale della persona, Milano, 2001, 119 ss.; Giunta, L’eutanasia. Diritto di vivere, diritto di morire, in Riv. it. dir. pen. proc., 1997, 74 ss.; Magnini, Stato vegetativo permanente e interruzione dell’alimentazione artiiciale:: proili penalistici, Cass. Pen., 2006, 2006, 1985 ss.; Monticelli, Eutanasia, diritto penale e principio di legalità, in IP, 1998, 463 ss.; Seminara, Rilessioni in tema di suicidio e di eutanasia, in Riv. it. dir. pen. proc., 1995, 670 ss.; Id., Le sentenze sul caso Englaro e sul caso Welby: una prima lettura, in Dir. pen. proc., 2007, 1561 ss.; Todini, Rilessioni in tema di diritto a morire con dignità e di aiuto a morire, in GP, 2000, 193 ss.; Vallini, Riiuto di cure salvavita e responsabilità del medico: sugestioni e conferme dalla più recente giurisprudenza, in Dir. pen. proc., 2008, 68 ss.; Viganò, Esiste un diritto ad essere lasciati morire in pace? Considerazioni in margine al caso Welby, in Dir. pen. proc., 2007, 5 ss.; Id., Decisioni mediche di ine vita e attivismo giudiziale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2008, 1594 ss.; Id., Rilessioni sul caso di Eluana Englaro, in Dir. pen. proc., 2008, 1035 ss.; Id., L’interruzione dell’alimentazione e dell’idratazione artiiciali nei confronti di pazienti in stato vegetativo permanente, in www.forumcostituzionale.it. 143. Ferma restando la distinzione, a tal ine, tra principi e regole, e dando solo a queste ultime l’eicacia di diretta applicazione, attivando così l’onere di inapplicazione, da parte del giudice comune, della norma interna con essa in contrasto. 181 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea L’art. 7 Carta riproduce la previsione convenzionale sul diritto al rispetto della vita privata, su cui si innesta, come visto, la libertà di autodeterminazione, che va interpretata nella stessa misura stimata dalla Corte di Strasburgo, come espressamente previsto dall’art. 52, § 3, Carta. L’art. 7 Carta, però, non richiama le limitazioni all’ingerenza statale su tale libertà dettati dall’art. 8, § 2, Convenzione EDU. Tale omissione, ad ogni modo, appare colmata dall’art. 52, co. 1, Carta, nella parte in cui stabilisce che «possono essere apportate limitazioni solo laddove siano necessarie e rispondano efettivamente a inalità di interesse generale riconosciute dall’Unione o dall’esigenza di proteggere i diritti e le libertà altrui». Per tal via, l’ingerenza statale nei diritti e nelle libertà riconosciute dalla Carta è meno ampia, rispetto alla lettura convenzionale, in quanto, non solo, la inalità perseguita dall’autorità statale deve essere “necessaria”, al pari dell’indicazione convenzionale, ma deve essere “riconosciuta” di interesse generale dall’Unione, e non dal singolo Stato membro. Apparendo, pertanto, una limitazione all’ingerenza statale più debole al livello eurounitario e, conseguentemente, un raforzamento della libertà all’autodeterminazione sotto il proilo del diritto all’assistenza per un suicidio dignitoso, l’art. 579 c.p. si espone sempre più alla declaratoria di illegittimità costituzionale per violazione degli artt. 11 e 117, co. 1, Cost, in relazione agli artt. 6 TUE, 7 e 52 Carta. Eppure tali soluzioni non convincono in una visione sociale dell’ordinamento tutto. Gli obblighi solidaristici in una società democratica impongono alla comunità di dare assistenza all’individuo che abbia manifestato l’intenzione di porre ine alla sua vita, trattandosi dell’estrema volontà dell’individuo, anche al ine di veriicare se il malessere personale che una tale scelta necessariamente manifesta possa essere attribuito ad un difetto solidaristico e, dunque, ad un’inerzia sociale che può (e deve) essere rimediata. Non è possibile scindere la dignità, come carattere proprio dell’humanitas, dalla vita corporale o biologica e, quindi, la vita andrebbe considerata indisponibile anche nell’interesse comune, in quanto il bene della vita viene tutelato dall’ordinamento, non solo, nell’interesse dell’individuo, ma anche della collettività: «la vita del singolo assume un valore sociale in considerazione dei doveri che lo stesso ha nei confronti dello Stato e della famiglia»144. È una visione che sarà approfondita nelle prossime pagine. 10. Conclusioni sul ruolo del principio di ofensività. L’ofensività non è estranea all’ordinamento europeo e, per il tramite del principio di proporzione, materiale e formale, diviene criterio di sindacato delle scelte di politica criminale del 144. Valsecchi, in Dolcini, Marinucci (a cura di), Codice penale commentato, Milano, 2011, II, III ed., art. 575, 5161. 182 offensività legislatore sovranazionale, da parte della Corte lussemburghese. Non pare essere sacriicato il principio di democraticità delle opzioni di carattere penale, allorquando la giustiicazione del controllo penetrante del giudice costituzionale (o para-costituzionale, come quello europeo) sulle modalità di esercizio della potestà legislativa, si rinviene nella tutela dei diritti e delle libertà fondamentali garantite in via prepositiva e sovraordinata, all’indomani dell’esperienza traumatizzante del secondo conlitto mondiale e della conseguente necessità di veriicare costantemente la democrazia maggioritaria, ainché non degeneri in sopraffazione della minoranza. Gli obblighi di tutela penale, negativi e positivi, giustiziabili, come veriicato, attraverso l’ofensività-proporzione, pongono al centro del sistema la libertà personale, nella sua più ampia accezione, ino a giungere al concetto di dignità, del reo e della vittima. In questa prospettiva di un diritto penale dei diritti fondamentali, è diicile rendere coerente e, dunque, proporzionata, la pena alla gravità del reato, ovvero alla gravità che il comportamento vietato ha inferto al diritto o alla libertà della vittima. In altri termini, il disvalore del fatto di reato (ad eccezione di quelli più gravi) può essere misurato meglio non con la graduazione della pena detentiva, che, quindi, va ad incidere sulla libertà isica del reo, ma solo con la limitazione proporzionata di un altro aspetto della libertà personale del reo, che non sia quello isico, quale, ad esempio, l’uso di un veicolo per poter circolare, l’obbligo di prestare attività di volontariato, l’interdizione o la sospensione dall’esercizio dell’attività lavorativa, etc. Per il nostro sistema, si tratterebbe di considerare le pene accessorie o alcune amministrative (si pensa a quelle relative al Codice della Strada), come pene principali, rivalutando, altresì, l’efettività della pena pecuniaria145. In questa prospettiva, dando cioè concretezza alla pena inlitta, la certezza del diritto penale e la sua eicacia preventiva certamente ne gioverebbero. Ma andrebbe anche sviluppato il sistema di giustizia riparativa. 145. Per un’analisi sul grave stato di inefettività in cui versa la pena pecuniaria, ma anche per una rifondazione della pena pecuniaria in prospettiva comparatisca con i sistemi spagnolo e tedesco, in particolare, Goisis, L’efettività (rectius inefettività) della pena pecuniaria in Italia, ogi, in www. penalecontemporaneo.it; Id., La pena pecuniaria. Un’indagine storica e comparata, cit., 8 ss. 183 CAPITOLO III Colpevolezza 1. Brevissime note introduttive. Capacità e libertà. - 2. Excursus sulle teorie tradizionali sulla colpevolezza come fondamento del diritto penale. - 3. La colpevolezza nel sistema italiano. Gli arresti della giurisprudenza costituzionale e l’individuazione del principio di colpevolezza fondato sugli artt. 2, 25, co. 2, e 27, co. 1 e 3, Cost. - 3.1. La colpevolezza come categoria dogmatica: la nozione unitaria di colpevolezza derivante dalla funzione rieducativa della pena. “Punire per educare”. - 3.2. (segue) La struttura della colpevolezza unitaria: dominabilità, conoscibilità e libertà. Il presupposto dell’imputabilità ed i requisiti della tipicità e antigiuridicità come criteri della rimproverabilità. - 4. Siamo davvero liberi? Neuroscienze e libero arbitrio. - 5. La colpevolezza nella giurisprudenza sovranazionale. - 6. I criteri di imputazione soggettiva nell’ottica europea. - 6.1. Sguardo comparativo sulle deinizioni normative di dolo e colpa. - 6.2. La terza forma dell’elemento soggettivo negli ordinamenti stranieri. L’esperienza inglese: “recklessness”. - 6.3. (segue) L’esperienza francese: “mise en danger délibérée de la personne d’autrui”. - 6.4. (segue) L’esperienza spagnola: “maniiesto desprecio por la vida de los demás”. - 7. Annotazioni riepilogative e prospettive de iure condendo. La problematica del dolo eventuale come terza forma di colpevolezza e la restrizione possibile dell’elemento soggettivo ino alla colpa grave 1. Brevissime note introduttive. Capacità e libertà. La libertà personale è il perno intorno a cui ruota il diritto penale. La pena incide sulla libertà del reo. Il reato ha ad oggetto una libertà (o solo un aspetto della stessa) della vittima o della collettività. Il reo ha (de)liberatamente violato il divieto penale. L’opzione di violare il precetto penale, dunque, presuppone la libertà del reo di volere assumere un comportamento antigiuridico. La costrizione lato sensu di un comportamento lo rende insigniicante per il diritto penale e ne abbiamo contezza con le previsioni di cui agli artt. 45 e 46 c.p.1, ma anche, in una concezione più ampia, nelle disposizioni di cui agli artt. 48 (in cui l’inganno determina un’errata percezione del fatto da parte del suo autore, portandolo a svolgere un certo comportamento – e così, in qualche modo, costringendolo)2 e 54 (in cui si fa espresso riferimento ad una condotta necessaria determinata da una particolare situazione) c.p. Da ciò, possiamo ricavare, con profonda generalizzazione, che, per il nostro sistema codicistico, già come impo1. Da considerare come ipotesi tipizzate di esclusione della colpevolezza per mancata coscienza o volontà dell’azione, Marinucci, Il reato come “azione”. Critica di un dogma, Milano, 1971, 199 ss. 2. Sull’argomento, di recente, Risicato, L’errore di fatto, di diritto, su lege extrapenale e su lege penale, in Cadoppi, Canestrari, Manna, Papa, Trattato di diritto penale. Parte generale, II, Il reato, Torino, 2013, 628 ss. 185 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea stato dal legislatore del ’30, la punizione di una condotta tipica presuppone la libera autodeterminazione del reo, che non sia stato costretto da alcunché. In altri termini, l’agente deve essere libero di volere e, dunque, deve possedere, secondo la nota espressione agostiniana, il libero arbitrio, secondo alcuni3 già positivizzato nella capacità di volere di cui all’art. 85 c.p.4. Ad ogni modo, si crede che la capacità e la libertà sono due concetti distinguibili: si può avere l’«attitudine a controllare i propri impulsi ed a determinarsi in conformità al proprio giudizio»5, ma non essere liberi di adempiere in concreto al proprio intendimento, con la conseguenza che l’autore del fatto non può essere considerato colpevole6. L’esclusione della colpevolezza può ammettersi solo nelle ipotesi di alterazione del processo motivazionale dell’autore, andando a comprimere la personale libertà di autodeterminarsi. Con ciò non si vuole dire che la libertà di autodeterminarsi coincida con il concetto colpevolezza. 2. Excursus sulle teorie tradizionali sulla colpevolezza come fondamento del diritto penale. La colpevolezza è tradizionalmente intesa come un concetto poliedrico7, terminologicamente distinta a seconda che essa funga da elemento costitutivo del reato (Straf begründungsschuld) che si pone accanto alla tipicità e all’antigiuridicità, oppure da criterio di commisurazione della pena (Strafzumessungsschuld). «La colpevolezza è altresì quel luogo ideale della teoria del reato deputato a raccogliere i criteri di imputazione soggettiva»8, a sua volta, di regola considerata, nella sua concezione psicologica, come mero parametro valutativo della relazione soggettiva fatto-autore, tanto da abbracciare paciicamente, il dolo e la colpa. Comunque si è sempre discusso se vi rientrassero ulteriori elementi e di quale natura gli stessi fossero. Il ruolo centrale nel sistema penale assunto dalla colpevolezza ruota intorno al rapporto tra le teorie della pena, da un lato, e le regole della responsabilità, dall’altro, con la conseguenza che seguire la sua evoluzione negli ultimi cin- 3. Su colpevolezza e libero arbitrio, Bettiol, Colpevolezza giuridica e colpevolezza morale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1980, 1007 ss. 4. Per la possibilità di distinguere gli aspetti dell’imputabilità, Introna, Se e come siano da modiicare le vigenti norme sull’imputabilità, in Riv. it. med. leg., 1999, 716. Di contrario avviso, Marini, voce Imputabilità, in Dig. Pen., VI, Padova, 1992, 253; Collica, Prospettive di riforma dell’imputabilità nel “Progetto Grosso”, in Riv. it. dir. proc. pen., 2002, 880. 5. Canestrari, Cornacchia, De Simone, Manuale di diritto penale, cit., 602. 6. Evidenzia che la colpevolezza è un concetto estraneo al Codice Rocco, Salcuni, La colpevolezza e le cause che la escludono o la diminuiscono, Cap. IV, in Cadoppi, Canestrari, Manna, Papa, Trattato di diritto penale. Parte generale, II, Il reato, Torino, 2013, 465, in particolare nota 14. 7. In tal senso, Zaffaroni, Colpevolezza e vulnerabilità, in Riv. it. dir. proc. pen., 2003, 340. 8. Così, testualmente, Giunta, Principi e dogmatica della colpevolezza nel diritto penale d’ogi, in Riv. it. dir. proc. pen., 2002, 123. 186 colpevolezza quant’anni non può prescindere dalla relazione con le discussioni sulla funzione della pena e con la dogmatica penale. In altri termini, la colpevolezza, che costituisce il segno distintivo dell’illecito penale9, si riempie di signiicato concettuale in relazione a quale funzione si intende attribuire alla pena. Per tracciare, dunque, sinteticamente, l’evoluzione del concetto in parola, non si potrà non ricorrere a delle sempliicazioni, onde ricondurre poi la discussione sulla concezione più moderna della colpevolezza, proponendone una lettura coerente con l’abbandono dell’idea retribuzionista della pena, propugnando un adattamento sulla funzione rieducativa della stessa. I decenni a cavallo tra il XIX e il XX secolo furono caratterizzati, com’è noto, dal cosiddetto dibattito tra scuole: la scuola “classica”, da un lato, vincolata ai princìpi sulla retribuzione e la prevenzione generale, e quella “positiva”, dall’altro, rivolta verso il primato della prevenzione speciale. Tale relazione sottolineava, come accennato, con le parole di Franz von Liszt, «la dipendenza assoluta del potere punitivo dal principio dello scopo»10. Ma questa relazione, nel secondo dopoguerra, apparve screditata in conseguenza della degenerazione del diritto avvenuta con i regimi nazifascisti, così propugnandosi l’idea «di vincolarsi a dei valori e rinunciare ad ogni ragione funzionale»11 e sviluppando lo stretto legame tra la pena e il principio di colpevolezza in funzione di un nuovo diritto penale rispettoso della dignità dell’uomo, abbandonando, dunque, l’idea kelseniana del diritto penale. Da ciò, la colpevolezza del diritto penale, come punto di riferimento della pena, doveva essere un’efettiva possibilità di rimprovero, nel senso che l’agente colpevole non solo avrebbe dovuto, ma anche potuto comportarsi diversamente. In questo contesto, apparve, dunque, necessario afrontare la questione del libero arbitrio, già ampiamente discussa nella controversia tra le scuole, e tuttavia si riteneva di aver risolto il problema afermando che «colpevolezza e responsabilità […] non sono soltanto concetti elaborati speculativamente, bensì anche realtà delle relazioni interpersonali che è possibile provare empiricamente»12. Sono emblematiche le parole stigmatizzate in una iper-richiamata pronuncia del Bundesgerichtshof del 1952, secondo cui: «La pena presuppone la colpevolezza. La colpevolezza è la “rimproverabilità” [Vorwerf barkheit]. Il motivo essenziale del giudizio di colpevolezza risiede nel fatto che l’uomo è predisposto all’autodeterminazione libera, responsabile e morale, ed è pertanto in grado di decidersi per il diritto e contro l’illecito»13. 9. Donini, Europeismo giudiziario e scienza penale, cit., 155 ss. 10. v. Liszt, Strafrechtliche Aufsätze und Vorträge, I, Berlin, 1905, 161. 11. Jescheck, Das Menschenbild unserer Zeit und die Strafrechtsreform, Tübingen, 1957, 9. 12. Noll, Die ethische Begründung der Strafe, Tübingen, 1962, 14, nota 26. 13. Entscheidungen des deutschen Bundesgerichtshofes in Strafsachen, II, 194, 200; in senso conforme Jescheck, Das Menschenbild, cit., 20 ss. 187 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea L’analisi storica della problematica sul contenuto del concetto di colpevolezza, necessariamente sintetizzata in queste pagine14, non può che iniziare dall’esame della concezione psicologica: frutto dell’idea illuministica del reato e della visione retributiva della pena, la colpevolezza psicologica, basata sull’uguaglianza formale tra i cittadini, ruotava intorno al danno sociale prodotto dal comportamento vietato, con la conseguenza che l’individualizzazione della responsabilità si limitava a coincidere con il solo nesso psicologico che collegava il fatto al suo autore, proprio per escludere ipotesi di risposta punitiva diseguale (in senso formale). Tale concezione è disegnata, almeno in principio, sul solo criterio d’imputazione soggettiva del dolo, che è volontà e previsione dell’evento, restando esclusa (almeno) la colpa incosciente, che, come noto, è priva di volontà e previsione15 e, dunque, la colpevolezza psicologica si afermava come colpevolezza del volere16. Lo sforzo dottrinale di trovare un concetto unitario di colpevolezza, comune a dolo e colpa, ha portato all’elaborazione della concezione normativa della colpevolezza17, che riducendo l’importanza degli elementi psicologici, ha appuntato l’attenzione sul signiicato del movente psicologico dal punto di vista dei suoi contenuti di valore, individuando la nota normativa comune a dolo e colpa, che, in deinitiva, costituisce il criterio su cui si fonda la qualiicazione di valore che si sovrappone al sostrato psicologico. Tale nota normativa comune viene individuata sui concetti di antidoverosità e di riprovevolezza o rimproverabilità (Vorwerf- 14. Per il relativo approfondimento si rinvia, per la sola manualistica, De Francesco, Diritto penale, I, I fondamenti, Torino, 2008, 338 ss. 15. Agli inizi del ’900, Kohlrausch, Irrtum und Schuldbegrif, 1903; Id., Die Schuld (Reform des Strafgesetzbuch), 1910, 137. 16. Galliner, Die Bedeutung des Erfolgs bei den Schuldformen des geltenden Strafgesetzbuch, 1910. 17. Per interessanti osservazioni sull’efettiva elaborazione storica della concezione normativa, cfr. Mereu, Culpa=colpevolezza, Bologna, 1972; Scarano, La non esigibilità nel diritto penale, Napoli, 1948, 11 ss.; Petrocelli, La colpevolezza, Padova, 1962, III ed., 4; Id., La concezione normativa della colpevolezza, in RIDP, 1948, 21 ss.; Padovani, Appunti sull’evoluzione del concetto di colpevolezza, in Riv. it. dir. proc. pen., 1973, 554, 555; Zaffaroni, Colpevolezza e vulnerabilità, cit., 342, nota 14; Ronco, Cenni storici sulla colpevolezza “fondante” e sulla colpevolezza “graduante”, in IP, 2011, 7 ss., secondo cui «l’insegnamento della classica dottrina italiana mai ha abbandonato il principio della colpevolezza, vuoi in chiave “fondante”, vuoi anche in chiave “graduante” la imputazione giuridica, in funzione dell’ontologica diversa appartenenza dell’azione al soggetto». In particolare, Scarano, La non esigibilità nel diritto penale, cit., 12 ss., evidenzia che i classici [Gallus Aloys Kleischrod, Giovanni Carmignani e Francesco Carrara, citato anche da Ronco, Cenni storici sulla colpevolezza “fondante” e sulla colpevolezza “graduante”, cit., 21, 22, unitamente ad Alberto De Simoni, giurista lombardo (1740-1822)] avrebbero introdotto un elemento normativo nel concetto di colpevolezza allorché parlavano di imputazione politica del fatto. Della stessa opinione, con riferimento al pensiero di Francesco Carrara, Delogu, “Vivo e morto” nell’opera di Francesco Carrara, in Francesco Carrara nel primo centenario della morte, Atti del Convegno internazionale Lucca-Pisa 2-5 giugno 1988, Milano, 1991, 91 ss., spec. 96, 97. Contra, Padovani, Appunti sull’evoluzione del concetto di colpevolezza, in Riv. it. dir. proc. pen., 1973, 565, nota 49. 188 colpevolezza barkeit), assestandosi deinitivamente su quest’ultimo, che, nel corso degli anni, è stato sempre più oggettivizzato, facendo, dunque, della «colpevolezza un locus squisitamente normativo e valutativo»18. In breve: la colpevolezza consiste in un giudizio di rimprovero mosso dall’ordinamento all’indirizzo del reo per il fatto commesso19. Ma l’individuazione del contenuto concettuale della qualiicazione di rimproverabilità non è unanime, variando tra una «concezione formale che legge il rimprovero nel non aver osservato la norma violata»20 ad «una visione sostanziale che ravvisa l’oggetto del rimprovero nelle caratteristiche personologiche del reo»21, ma mutuando anche rispetto alle diverse funzioni della pena22: è 18. Salcuni, La colpevolezza e le cause che la escludono o la diminuiscono, in Cadoppi, Canestrari, Manna, Papa, Trattato di diritto penale. Parte generale, II, Il reato, Torino, 2013, 471. 19. La letteratura sul tema è amplissima. Senza alcuna pretesa di completezza, nella dottrina tedesca, Frank., Über den Auf bau des Schuldbegrifs, in GieBener-Fs, 1907, 519 ss.; Goldschmidt, Normativer Schuldbegrif, in Festgabe fur R. Frank, I, Tubingen, 1930, 428 ss.; Id., Der Notstandm ein Schuldproblem. Mit Rucksicht auf die Strafgestzentwurfe Deutschlands, Osterreichs und der Schwiez, in Osterreichische Zeitschrift fur Strafrecht, 1913, 130 ss.; Welzel, Personlichkeit und Schuld, in Zeitschrift fur Strofrecht, 1941, 428 ss.; Id., La posizione dommatica della dottrina inalistica dell’azione, in Riv. it. dir. proc. pen., 1951, 9 ss.; Id., Il nuovo volto del sistema penale, cit., 1952, 48 ss.; Gallas, Plichtenkollision als Schuldausschließungsgrund, in Festschrift fur E. Mezger, Monaco-Berlino, 1954, 311 ss.; Id., Zum gegenwärtigen Stand der Lehre vom Verbrechen, in Beitrage zur Verbrechenslehre, 1968, in Zeitschrift für die gesamte Strafrechtswissenschaft, trad. it. di Sigismondi, Sullo stato attuale della dottrina del reato, in Scuola pos., 1963, 48 ss.; Muller-Dietz, Grenzen des Schuld Gedankens im Strafrecht, Karlsruhe, 1967, 59 ss; Neufelder, Schuldbegrif und Verfassung, in GA, 1974, 294 ss.; Brukharrdt, Das Zweckmoment im Schuldbegrif, in GA, 1986, 203, 204, 226; Hirsch, Das Schuldprinzip und seine Funktion im Strafrecht, in Zeitschrift fur die gesamte Strafrechtswissenschaft, 1994, 746 ss.; Koriath, Grundlagen strafrechtlicher Zurechnung, Berlin, 1994, 538 ss.; Eckert, Schuld, Veranwortung, Unrechtsbewußtsein: Bemerkungen zum personalen konzept strasfrechtlicher Sozialkontrolle, Monchenglanbach, 1999, 19 ss. 20. Per la c.d. teoria formale della colpevolezza normativa, Caruso, La discrezionalità penale. Tra tipicità classiicatoria e tipologia ordinale, Padova, 2009, 271 ss. 21. Salcuni, La colpevolezza e le cause che la escludono o la diminuiscono, cit., 471, richiama anche le diverse concezioni di rimproverabilità proposte, in particolare, nella dottrina tedesca: «per Mezger inisca col coincidere con la colpa per la condotta di vita [Mezger, Die Straftat als Ganze, in ZSTW, 1937, 675]; per Welzel nella mancanza di controllo dell’Io sulla vita interiore [Welzel, Das deutsche Strafrecht. Eine systematische Darstellung, Berlin, 11 Aul., 1969, 136]; per la scuola di Kiel con la malvagità per non essersi adeguati e formati una personalità psichica diversa [Bockelmann, Studien zum Täterstrafrech, Berlin, 1940. Per un’impostazione critica, cfr. tra i più recenti, Marinucci, Sogettivismo ed ogettivismo nel diritto penale. Uno schizzo dogmatico e politico criminale, in Studi in onore di Franco Coppi, II, Torino, 2011, 1133 ss.; Id., Giuseppe Bettiol e la crisi del diritto penale negli anni Trenta, in Riv. it. dir. proc. pen., 2008, 929 ss.; Seminara, Sul metodo tecnico-giuridico e sull’evoluzione della penalistica italiana nella prima metà del XX secolo, in Studi in onore di Mario Romano, I, Napoli, 575 ss., e spec. 597 ss.]». Per un’analisi particolare e storica, cfr. Mazza, Il problema della colpevolezza nel pensiero di Giuseppe Magiore, Siena, 1994, passim. 22. Musotto, Colpevolezza, dolo e colpa. Prima parte. La dottrina della colpevolezza, Palermo, 1939, 31 ss. L’analisi dell’impostazione di Giovanni Musotto è ampiamente analizzata da Pagliaro, Il contributo di Giovanni Musotto alle dottrine generali del reato, in Studi in onore di Giovanni Musotto, I, Palermo, 1979, 5 ss. Sul concetto di colpevolezza completamente al servizio della prevenzione e, dunque, sulla 189 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea così «una visione retributiva della pena imporrebbe un rimprovero personale ed individualizzante, una concezione della pena in termini di prevenzione generale inquadrerebbe il rimprovero in base ad un agente astratto, una visione specialpreventiva si concentrerebbe sulla rimozione (sulla possibilità di) delle cause di disturbo»23. L’oggettivizzazione della colpevolezza psicologica e la soggettivizzazione della concezione normativa, portati all’estremo, hanno condotto ad uno svuotamento24 della colpevolezza, come anche l’eccessiva normativizzazione di dolo e colpa25, facendo perdere ogni nesso con l’individuo26. Attualmente per- visione della colpevolezza funzionale, v. Liszt, Strafrechtliche Aufsätze und Vorträge, Berlin, II, 1905, 219 ss.; Roxin, “Schuld” und “Verantwortlichkeit” als strafrechtliche Systemkategorien, in Festschrift für Henkel, Berlin-New-York, 1974, 171 ss., 180 ss.; Id., Sul problema del diritto penale della colpevolezza, in Riv. it. dir. proc. pen., 1984, 16 ss. Per una lucida impostazione della colpevolezza funzionale, sempre dalla letteratura tedesca, Jakobs, Schuld und Prävention, Tübingen, 1976, 8, 11 ss., 14 ss.; Id., Strafrecht, Allgemeiner Teil, Berlin-New York, 1991, II ed., 17, 21 ss.; Id., La funzione del dolo, della colpa e della colpevolezza nel diritto penale, in Studi sulla colpevolezza, Torino, 1990, 40 ss., sulla scorta di Niklas Luhmann, l’A. parte dal presupposto che «il conlitto con le nostre aspettative rappresentato da un comportamento deviante debba in qualche modo venire elaborato, e a questo scopo servirebbe tra l’altro – se non si vuole rinunciare alla norma – la strategia di rendere l’agente responsabile del suo comportamento, cioè di dichiararlo colpevole. Questo avviene nella misura in cui non si riesca o non sembri opportuno disinnescare il contrasto in un altro modo, ad esempio trattando l’agente come un malato di mente. Raforzare la validità della norma, stabilizzarla, è deinita prevenzione generale positiva, e solo a questo scopo deve servire il giudizio di colpevolezza rispetto al comportamento contrario alle norme, soltanto questo scopo deve costituire il contenuto del concetto di colpevolezza: «l’oggetto della valutazione è ormai solo una costruzione». Per un’attenta esposizione delle obiezioni alla concezione funzionale della colpevolezza, Stratenwerth, Il concetto di colpevolezza nella scienza penalistica tedesca, in Materiali per una storia della cultura giuridica, 1998, XXVIII, 1, 6, 223 ss. Critici sulle tesi funzionaliste della colpevolezza, ma anche sulla teoria jakobsiana della prevenzione generale integratrice (secondo cui la pena sarebbe la negazione della negazione e perciò l’afermazione del diritto e dello Stato), nella letteratura italiana, Baratta, La teoria della prevenzione integrazione. Una nuova fondazione della pena nella teoria sistemica, in Dei delitti e delle pene, 1984, 5 ss., Bartoli, Colpevolezza: tra paternalismo e prevenzione, Torino, 2005, 42; Veneziani, Motivi e colpevolezza, Torino, 2000, 215 ss.; Fiandaca, Considerazioni sulla colpevolezza, in Riv. it. dir. proc. pen., 1987, 846 ss.; Venafro, Scusanti, Torino, 2002, 91 ss., 107 ss. 23. Salcuni, La colpevolezza e le cause che la escludono o la diminuiscono, cit., 472. 24. Ferrajoli, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, IX ed., Roma-Bari, 2008, 501; contra, Padovani, Teoria della colpevolezza e scopi della pena, in Riv. it. dir. proc. pen., 1987, 801 ss. 25. De Vero, Disvalore d’azione e imputazione dell’evento in un’agiornata costruzione separata dei tipi criminosi, in Studi in onore di Giorgio Marinucci, II, Milano, 2006, 1487 ss. Sulla normativizzazione del dolo eventuale ed i rapporti con la colpevolezza, Canestrari, Dolo eventuale e colpa cosciente, Milano, 1999, 279; di recente, Astorina, Verità e problemi di imputazione del dolo eventuale tra rischio, tipicità e colpevolezza, in Riv. it. dir. proc. pen., 2012, 924 ss.; Raffaele, La seconda vita del dopo eventuale tra rischio, tipicità e colpevolezza, in Riv. it. dir. proc. pen., 2012, 1077 ss. Per un’impostazione critica, Manna, È davvero irrisolvibile il mistero del dolo eventuale?, in www.archiviopenale.it; Id., Corso di diritto penale, cit., 346; Id., Colpa cosciente e dolo eventuale: l’indistinto conine ed il principio di stretta legalità, in Studi in onore di Franco Coppi, I, cit., 201 ss. 26. Sull’incompatibilità tra colpevolezza e reati di evento, cfr. Eusebi, Prefazione, in Lüderssen, Il declino del diritto penale, Milano, 2005, XV; Id., La prevenzione dell’evento non voluto. Elementi di 190 colpevolezza mane una concezione intermedia della colpevolezza27, che, dunque, ha caratteri della visione psicologica, come la necessità del nesso psichico tra fatto ed autore, in cui si innesta la possibilità di muovere un “rimprovero” per l’atteggiamento antidoveroso dell’agente28 da un punto di vista giuridico-sociale, fondato sul «poter agire diversamente»29, ovvero, secondo una diversa impostazione, per non essersi motivato secondo le norme30. Per concludere il breve excursus nel dibattito sulla colpevolezza, va appuntata, con la dovuta sintesi, l’attenzione sul concetto sociale di colpevolezza. L’impossibilità di poter dimostrare empiricamente la capacità di autodeterminarsi altrimenti dell’autore concreto nel momento e nella situazione in cui è stato consumato il comportamento criminoso, ha evidenziato l’assoluta diicoltà, secondo le impostazioni tradizionali della colpevolezza, di individualizzazione del giudizio di rimproverabilità, poiché tale giudizio «non può più essere conigurato afermando che questo agente avrebbe potuto agire diversamente, ma solo che un altro nella sua situazione “avrebbe potuto resistere alla tentazione del reato”: “criterio per la valutazione della colpevolezza” […] può “essere soltanto una una rivisitazione dogmatica dell’illecito colposo e del dolo eventuale, in Studi in onore di Mario Romano, II, cit., 963 ss.; M. Mantovani, Diritto penale del caso e prospettive de lege ferenda, in ibid., 1061. 27. Bettiol, Diritto penale, cit., 322 ss.; Pulitanò, Appunti sul principio di colpevolezza come fondamento della pena: convergenze e discrasie tra dottrina e giurisprudenza, in Le discrasie tra dottrina e giurisprudenza in diritto penale, Napoli, 1991, 88; Bartoli, Colpevolezza, cit., 51, anche se pone dolo e colpa nel fatto. Sulla teoria inalistica dell’azione, C. Fiore, Ciò che è vivo e ciò che è morto nella dottrina inalistica dell’azione. Il caso italiano, in Riv. it. dir. proc. pen., 2005, 295 ss. Sul pensiero di Bettiol, Pagliaro, Teleologismo e inalismo nel pensiero di Giuseppe Bettiol, in Id. (a cura di), Il diritto penale fra norma e società, IV, Milano, 2009, 642 ss.; Riondato, Un diritto penale detto ragionevole. Raccontando Giuseppe Bettiol, Padova, 2005, 134; Ronco, L’attualità di Giuseppe Bettiol nel 100° anniversario della nascita e nel 25° anniversario della morte, in Criminalia, 2007, 147 ss. 28. Salcuni, La colpevolezza e le cause che la escludono o la diminuiscono, cit., 473, nota 69, ricorda che nella deinizione di Donini «si tratterebbe dell’atteggiamento antidoveroso della volontà, valutato nelle sue qualità e diferenze psicologiche, alla luce della normalità delle condizioni personali e sociali che hanno determinato o condizionato la motivazione del soggetto nella realizzazione del fatto tipico». 29. Ross, Colpa, responsabilità e pena, Milano, 1972, 257 ss.; Hart, Responsabilità e pena, Milano, 1981, 55-79. Sulla distinzione del rimprovero a secondo della natura del reato (naturale o artiiciale), Vallini, Antiche e nuove tensioni tra colpevolezza e diritto penale artiiciale, Torino, 2003, 6 ss., 10 ss. 30. Roxin, Sulla fondazione politico-criminale del sistema del diritto penale, in Moccia (a cura di), Politica criminale e sistema del diritto penale. Sagi di teoria del reato, Napoli, 1998, 197 ss., il quale identiica la colpevolezza nella motivitabilità mediante norme. Nella letteratura tedesca, Stratenwerth, Die Zukunft des strafrechtlichen Schuldprinzips, Heidelber-Karlrhue, 1977, 22 ss.; Achenbach, Individuelle Zurechnung, Verantwortlichkeit, Schuld, in Grundfragen des modernen Strarechtsystems, hrg. Schunemann, Berlin-New York, 1984, 140 ss.; Amelung, Zur Kritik des Kriminalpolitischen Strafrechtssystems von Roxin, in ibid., 97 ss. In senso critico, Padovani, Teoria, cit., 819. Illustra la posizione di Roxin, di recente, Salcuni, La colpevolezza e le cause che la escludono o la diminuiscono, cit., 478; Venafro, Scusanti, Torino, 2002, 135 ss. Ampiamente, Caruso, La discrezionalità penale, cit., 282 ss. 191 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea capacità media”»31. L’agente concreto, quindi, avrebbe potuto agire altrimenti se «alla luce della nostra esperienza riferita a casi analoghi, un altro al suo posto, con l’impiego dell’energia volitiva che a lui può essere mancata, avrebbe potuto agire altrimenti nelle concrete circostanze»32. L’uomo provvisto di una capacità media di autodeterminazione33, pur sempre modellato sulla falsariga delle caratteristiche individuali dell’agente concreto, costituisce il “termine di paragone” utile a dimostrare che anche «l’agente concreto, al momento del fatto, fosse in grado di agire diversamente (e cioè in modo conforme alla pretesa di comportamento della norma incriminatrice)». In altri termini, la libertà di poter agire conformemente alla norma costituisce una presunzione iuris tantum, con la conseguenza che il concetto di colpevolezza si ricava sostanzialmente in negativo34, nel senso che «la possibilità di agire diversamente si presume, nel singolo individuo, in presenza di condizioni psichiche normali (maturità e sanità mentale) e in assenza di fattori che possano in qualche modo pregiudicare la normalità della motivazione che sorregge la sua condotta»35. 3. La colpevolezza nel sistema italiano. Gli arresti della giurisprudenza costituzionale e l’individuazione del principio di colpevolezza fondato sugli artt. 2, 25, co. 2, e 27, co. 1 e 3, Cost. Il volto della colpevolezza nostrana non può che essere disegnato sulla giurisprudenza costituzionale, che ha evidenziato la necessità di ediicare tale concetto sulla scorta del principio di cui all’art. 27, co. 1, Cost. – secondo cui «la responsabilità penale è personale» – in lettura combinata con il co. 3 della stessa disposizione, ed assicurando un aggancio ulteriore nell’art. 2 Cost. Ma andiamo con ordine. L’accezione minimale della personalità (divieto di responsabilità per fatto altrui) è stata progressivamente abbandonata dalla Corte costituzionale36, che è approdata alla lettura evolutiva dell’art. 27 Cost., con la fondamentale decisione n. 364 del 198837: argomentando dalla inalità rieducativa della pena (art. 27, co. 31. Jescheck, Weigend, Lehrbuch des Strafrechts, Allgemeiner Teil, Berlin, 1996, V ed., 427 ss.; Stratenwerth, Il concetto di colpevolezza nella scienza penalistica tedesca, cit., 226. 32. Jescheck, Weigend, Lehrbuch des Strafrechts, Allgemeiner Teil, cit., 441; nella letteratura italiana, Canestrari, Cornacchia, De Simone, Manuale di diritto penale, cit., 584; Palazzo, Corso di diritto penale, cit., 16; Romano, Commentario, cit., 328. 33. Canestrari, Cornacchia, De Simone, op. e loc. cit. 34. Hirsch, Das Schuldprinzip und seine Funktion im Strafrecht, in Zeitschrift für die gesamte Strafrechtswissenschaft, 1994, 106, 750. 35. Canestrari, Cornacchia, De Simone, op. e loc. cit., in cui si evidenzia che «tale tipo di autore è quello che di solito compare sulla scena del processo penale, dove le questioni relative alla colpevolezza vengono sollevate, in realtà, soltanto molto raramente». 36. Corte cost. n. 3 del 1956; Id. n. 107 del 1957; Id. n. 22 del 1973; Id. n. 209 del 1983. 37. Sulla sentenza n. 364 del 1988, nell’ampia bibliograia, senza presunzione di completezza, Pulitanò, Una sentenza storica che restaura il principio di colpevolezza, in Riv. it. dir. proc. pen., 1988, 192 colpevolezza 3, Cost.), la Consulta ha afermato che “per fatto proprio” non deve essere inteso «il fatto collegato al soggetto, all’azione dell’autore, dal mero nesso di causalità materiale […] ma anche, e soprattutto, dal momento subiettivo, il quale deve investire – almeno nella forma della colpa – gli elementi più signiicativi della fattispecie tipica». Tale pronuncia ha ricostruito il concetto di colpevolezza in termini contrattualistici, ponendo, da un lato, i doveri costituzionali dello Stato attinenti alla formulazione, struttura e contenuti delle norme penali e, dall’altro, i corrispondenti doveri informativi del cittadino. In particolare, il dovere statale, fondato sugli artt. 73, co. 3, e 25, co. 2, Cost., è quello di introdurre fattispecie penali «non numerose, eccessive rispetto ai ini di tutela, chiaramente formulate, dirette alla I, 686 ss.; Fiandaca, Principio di colpevolezza ed ignoranza scusabile della lege penale: “prima lettura” della sentenza n. 364/88, in FI, 1988, I, 385 ss.; Padovani, L’ignoranza inevitabile sulla lege penale e la declaratoria d’incostituzionalità parziale dell’art. 5 cod. pen., in LP, 1988, 449 ss.; Ronco, Ignoranza della lege (dir. pen.), in Enciclopedia Giuridica Treccani, XV, Roma, 1989, 8 ss.; Stortoni, L’introduzione nel sistema penale dell’errore scusabile di diritto: signiicati e prospettive, in Riv. it. dir. proc. pen., 1988, 83 ss.; Romano, Commento all’art. 5 cod. pen., in Commentario sistematico del codice penale, I, Art. 1-84, III ed., Milano, 2004, 103, parla di vera e propria «modernizzazione del nostro sistema penale»; Alessandri, Commento all’art. 27, co. 1° Cost., in Branca, Pizzorusso (a cura di), Commentario della Costituzione, Artt. 27-28, Rapporti civili, Bologna, 1991; Belfiore, Brevi note sul problema della scusabilità dell’“ignorantia legis”, in FI 1995, II, 154 ss.; Id., Contributo alla teoria dell’errore in diritto penale, Torino, 1997; Belli, Ignoranza scusabile della lege penale, in Studium iuris, 2003, 2, 253 ss.; Binda, in Dolcini, Marinucci (a cura di), Codice penale commentato, Milano, 2006, I, II ed., art. 5, 121 ss.; Cadoppi, Orientamenti giurisprudenziali in tema di “ignorantia legis”, in FI, 1991, II, 415 ss.; Id., La nuova conigurazione dell’art. 5 c.p. ed i reati omissivi propri, in Stile (a cura di), Responsabilità ogettiva e giudizio di colpevolezza, Bologna, 1989; Calabria, Delitti naturali, delitti artiiciali ed ignoranza della lege penale, in IP, 1991, 35 ss.; Callegari, Errore sul precetto, in Studium iuris, 2006, 5, 608 ss.; Carcano, L’adempimento dell’onere informativo necessario per rendere scusabile l’errore sulla lege penale, in Cass. pen., 2008, 6, 2407 ss.; Corbetta, Ignoranza della lege penale: quando è scusabile, in Dir. pen. proc., 2002, 6, 718; D’Amico, Art. 5, in Bifulco, Celotto, Olivetti (a cura di), Commentario alla Costituzione, I, Artt. 1-54, Torino, 2006; Di Salvo, Art. 5, in Lattanzi, Lupo (a cura di), Codice Penale. Rassegna di giurisprudenza e di dottrina, I, La lege penale e le pene. Il reato, Libro I, Artt. 1-84, Aggiornamento 20002004, Milano, 2005; Flora, Commento all’art. 5, in Crespi, Forti, Zuccalà (a cura di), Commentario breve al codice penale. Complemento giurisprudenziale, IX ed., Padova, 2008, 53 ss.; Id., voce Errore, in Digesto delle Discipline Penalistiche, IV, IV ed., Torino, 1990, 255 ss.; Giunta, Commento all’art. 5, in Padovani (a cura di), Codice penale, IV ed., Milano, 2007, 56 ss.; F. Mantovani, Ignorantia legis scusabile e inescusabile, in Riv. it. dir. proc. pen. 1990, I, 379 ss.; Mucciarelli, Errore e dubbio dopo la sentenza della Corte costituzionale 364/1988, in Riv. it. dir. proc. pen., 1996, 223 ss.; Palazzo, Ignoranza della lege penale, in Digesto delle Discipline Penalistiche, VI, IV ed., Torino, 1992, 122 ss.; Tassinari, Note a margine del principio di scusabilità/inevitabilità dell’ignoranza della lege penale a venti anni dalla sua introduzione ad opera della Corte costituzionale, in De Francesco, Piemontese, Venafro (a cura di), La prova dei fatti psichici, Torino, 2010; Uccella, L’ignoranza inevitabile in diritto penale: note minime sulle prime applicazioni della Corte di Cassazione, in Cass. pen., 1993, 1721 ss.; Vassalli, L’inevitabilità dell’ignoranza della lege penale come causa generale di esclusione della colpevolezza (nota a C. Cost., 24 marzo 1988 n. 364), in Gcost, 1988, 3 ss. 193 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea tutela di valori almeno di “rilievo costituzionale” e tali da essere percepite anche in funzione di norme “extrapenali di civiltà”, efettivamente vigenti nell’ambiente sociale nel quale le norme penali sono destinate ad operare». Dall’altro, quello del cittadino di adempiere a «strumentali, speciici doveri di conoscenza», ma subordinati all’adempimento dei correlativi obblighi statali, come corollario (per rimanere in tema negoziale) del principio inadimplendi non est adimplendum (se si vuole), cosicché nell’ipotesi di ignoranza (o di errore) inevitabile sulla legge penale38, non è possibile afermare la responsabilità penale del cittadino (incolpevole). L’importanza della conoscibilità del divieto viene evidenziato dalla Corte costituzionale con l’afermazione per cui «far sorgere l’obbligo giuridico di non commettere il fatto penalmente sanzionato senza alcun riferimento alla consapevolezza dell’agente, considerare violato lo stesso obbligo senza dare alcun rilievo alla conoscenza od ignoranza della legge penale e dell’illiceità del fatto, sottoporre il soggetto agente alla sanzione più grave senza alcuna prova della sua consapevole ribellione od indiferenza all’ordinamento tutto, equivale a scardinare fondamentali garanzie che lo Stato democratico ofre al cittadino ed a strumentalizzare la persona umana, facendola retrocedere dalla posizione prioritaria che essa occupa e deve occupare nella scala dei valori costituzionalmente tutelati». Poco tempo dopo, la Corte costituzionale39, tornando sull’argomento, deinisce il nuovo volto del reato in prospettiva costituzionale, sottolineando che «perché l’art. 27, primo comma, Cost., sia pienamente rispettato e la responsabilità penale sia autenticamente personale, è indispensabile che tutti e ciascuno degli elementi che concorrono a contrassegnare il disvalore della fattispecie siano soggettivamente collegati all’agente (siano cioè investiti dal dolo o dalla colpa) ed è altresì indispensabile che tutti e ciascuno dei predetti elementi siano allo stesso agente rimproverabili e cioè anche soggettivamente disapprovati». Recentemente, i giudici costituzionali40, confermando l’impianto argomentativo delle pronunce del 1988, hanno riconosciuto il carattere assiomatico e delimitativo al principio di colpevolezza, come tale insuscettibile di essere sacriicato dal legislatore ordinario in nome della tutela penale di eventuali controinteressi, ancorché di rango costituzionale. Aianco ai principi di legalità e di irretroattività della legge penale, dunque, la Corte costituzionale ha posto quello di colpevolezza, che «mira […] a garantire ai consociati libere scelte d’azione, sulla base di una valutazione anticipata (“calcolabilità”) delle conseguenze giuridico-penali della propria condotta; “calcolabilità” che verrebbe meno ove all’agente fossero addossati accadimenti estranei alla sua sfera di consapevole dominio, perché 38. Soprattutto se il legislatore non è stato chiaro nella formulazione del divieto penale o la giurisprudenza ha assunto un determinato orientamento applicativo, salvo, poi, mutare indirizzo. 39. Corte cost. n. 1085 del 1988. 40. Corte cost. n. 322 del 2007. 194 colpevolezza non solo non voluti né concretamente rappresentati, ma neppure prevedibili ed evitabili. In pari tempo, il principio di colpevolezza svolge un ruolo “fondante” rispetto alla funzione rieducativa della pena (art. 27, terzo comma, Cost.): non avrebbe senso, infatti, “rieducare” chi non ha bisogno di essere “rieducato”, non versando almeno in colpa rispetto al fatto commesso. D’altronde, la inalità rieducativa della pena non potrebbe essere obliterata dal legislatore a vantaggio di altre e diverse funzioni della pena, che siano astrattamente perseguibili, almeno in parte, a prescindere dalla “rimproverabilità” dell’autore. Punire in difetto di colpevolezza, al ine di dissuadere i consociati dal porre in essere le condotte vietate (prevenzione generale “negativa”) o di “neutralizzare” il reo (prevenzione speciale “negativa”), implicherebbe, infatti, una strumentalizzazione dell’essere umano per contingenti obiettivi di politica criminale, contrastante con il principio personalistico afermato dall’art. 2 Cost.». La Corte costituzionale, dunque, con quest’ultimo importante arresto41, parrebbe tracciare una nuova visione del principio di colpevolezza, che si evidenzia non tanto in relazione all’espresso ripudio delle tesi funzionaliste negative (di feuerbachiana memoria42), già incompatibili con gli ordinamenti liberaldemocratici43, ma, dopo il richiamo alla necessità del nesso psichico tra fatto ed autore (concezione psicologica), ha avvinto il giudizio di rimproverabilità, nella prospettiva normativa, sull’individuo come riconosciuto dall’art. 2 Cost.44. Il richiamo del principio personalistico nella lettura costituzionale della colpevolezza, oferta dall’ultimo arresto della Corte costituzionale, merita il dovuto approfondimento, anche al ine di evidenziarne le nuove peculiarità in prospettiva europea, come si dirà. 41. Risicato, L’errore sull’età tra error facti ed error iuris: una deciione “timida” o “storica” della Corte costituzionale?, in Dir. pen. proc., 2007, 1465 ss. 42. Feuerbach, Revision der Grundesaetze und Grundbegrif des positiven peinlichen Rechts, Erfurt, 1799, I. 43. Hassemer, Perché punire, cit., 105, aferma che l’idea di intimidazione «allontana il cittadino dalla posizione del legislatore» dal momento che la pena grava su tutti e non solo su chi si è determinato a violare la norma penale. 44. L’importanza della colpevolezza è sottolineata da De Simone, Persone giuridiche e responsabilità da reato. Proili storici, dogmatici e comparatistici, Pisa, 2012, 226, secondo cui è possibile individuare un ulteriore e più forte aggancio normativo della colpevolezza «nell’art. 3, commi 1 e 2, cost.: nel primo, quando parla di (pari) dignità sociale di tutti i cittadini; nel secondo, quando fa riferimento al pieno sviluppo della persona umana. A tal proposito, si potrebbe fare un ragionamento di questo tipo: se compito della Repubblica – e cioè dello Stato – è quello di rimuovere gli ostacoli che […] impediscono il pieno sviluppo della persona umana, sarebbe assurdo che proprio lo Stato fosse lasciato arbitro di creare ostacoli di ordine giuridico. E tale sarebbe, senza dubbio, una responsabilità penale che faccia a meno della colpevolezza». Invero, tale parametro era stato già richiamato dalla Corte costituzionale (n. 364 del 1988), che ritenne che l’art. 27, co. 1, Cost. andasse interpretato non solo in combinato disposto con l’art. 27, co. 3, Cost., ma anche con una serie di disposizioni costituzionali, tra le quali, per l’appunto, l’art. 3, co. 1 e 2, Cost. Tanto viene ricordato sempre da De Simone, op. loc. cit., in part. nota 591. Nello stesso senso, Binda, Art. 5, cit., 97. 195 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea Nell’ordinamento nostrano, come è noto, il sistema dei diritti fondamentali trova fondamento proprio nell’art. 2 Cost., secondo cui «la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità», ma la ratio di questa disposizione può essere individuata solo se si considera il clima storico-culturale in cui è stata elaborata, frutto del compromesso tra le ispirazioni di pensiero dell’epoca (cattolica, liberale e socialista)45 ed, in particolare, se si appunta l’attenzione sulla deinizione di individuo ivi descritto che ruota intorno a quei principi che poi furono recepiti nella formulazione della disposizione costituzionale in parola e riguardanti: «a) il riconoscimento dell’anteriorità della persona rispetto allo Stato; b) il riconoscimento della socialità della persona, destinata a completarsi e a perfezionarsi mediante una reciproca solidarietà economica e spirituale; c) l’afermazione dei diritti fondamentali della persona e dei diritti delle comunità anteriormente ad ogni concessione da parte dello Stato»46. L’art. 2 Cost., dunque, viene ad assumere un ruolo centrale ed, in un certo senso, caratterizzante (o assiomatico) dell’ordinamento repubblicano, superando la concezione statocentrica dell’individuo come cittadino in senso unilaterale, ovvero nel solo «rapporto con lo Stato»47, viene riconosciuto il primato della persona sempre come cittadino, ma in prospettiva dialogica o contrattualistica, per utilizzare l’impostazione oferta dalla Corte costituzionale. 45. Calamandrei, Cenni introduttivi sulla Costituente e i suoi lavori, in Calamandrei, Levi (a cura di), Commentario sistematico alla Costituzione italiana, Firenze, 1950, CXXVIII, in cui si ricorda che «come l’Assemblea da cui fu approvata, così anche la Costituzione fu necessariamente ispirata da quella politica di coalizione dei tre partiti cosiddetti ‘di massa’, che nel periodo della Costituente fu la base del Governo De Gasperi: fu, cioè, anch’essa, ‘tripartita’»; Id., La Costituzione e le legi per attuarla, in Cappelletti (a cura di), Opere giuridiche, III, Napoli, 1968, 511 ss., in particolare 514. 46. Va osservato che tale ultimo aspetto, anche in ossequio a quanto si legge nei lavori preparatori della Costituzione (La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori della Assemblea costituente, a cura della Camera dei deputati - Segretariato generale, Roma, 1971, VI, 322 ss., sul resoconto della Prima Sottocommissione), relativo ai diritti delle formazioni sociali, lo si ritiene per tradizione ricompreso nell’art. 2 Cost., proprio alla luce dei lavori preparatori, anche se la formulazione adottata alla ine non vi farebbe espressamente menzione, dal momento che – secondo questa – le formazioni sociali avrebbero rilievo solo in quanto luogo ove si svolge la personalità dell’uomo, per cui dovrebbe derivarsi: a) che il riconoscimento di diritti alla formazione dovrebbe essere sempre strumentale rispetto a quello efettuato nei confronti del singolo; b) che il conlitto tra pretese della formazione e diritti dell’individuo può avere un esito diverso a seconda della natura della formazione medesima. Infatti, qualora, l’adesione a questa sia il frutto di una libera scelta del singolo, questo può recedere e non può chiedere, in nome del proprio diritto, una tutela che modiichi o delimiti la natura e l’azione della formazione sociale; se, invece, l’appartenenza alla formazione è giuridicamente obbligatoria la tutela del diritto del singolo individuo può comportare, quanto meno, la delimitazione delle pretese della formazione. Così Mangiameli, Il contributo dell’esperienza costituzionale italiana alla dommatica europea della tutela dei diritti fondamentali, in www.giurcost.org. 47. Espressione di Crisafulli, Individuo e società nella Costituzione italiana, in Riv. dir. lav., 1954, 75. 196 colpevolezza Ad ogni modo, non si crede possibile considerare legati i due aspetti della personalità, l’una, individualista e, l’altra, sociale, tradizionalmente considerati nell’art. 2 Cost., nel senso che non appare corretto ritenere che tale disposizione voglia riconoscere al singolo diritti e libertà fondamentali «per l’appagamento egoistico dei suoi bisogni e desideri individuali»48, apparendo, diversamente, più utile assicurare al cittadino quei diritti fondamentali in funzione solidaristica, poiché funzionali (appunto), non per il soddisfacimento dei propri egoistici bisogni, ma nell’interesse dell’intera comunità. Se i doveri giuridici hanno un’evidente inalizzazione verso il rispetto di interessi collettivi, pubblici od, in genere, di terzi, tale direzione teleologica, si crede, va a caratterizzare anche l’attribuzione (o riconoscimento) dei diritti e delle libertà fondamentali, che, nell’ambito di una comunità, sono l’aspetto reciproco del dovere: il riconoscimento dei diritti e delle libertà non avrebbe alcun senso ove non esistesse una comunità in cui si colloca l’individuo. In altri termini, il riconoscimento dei diritti e delle libertà fondamentali a ciascun individuo va a segnare il limite dei diritti e delle libertà per gli altri individui, andando a riempire di contenuto i doveri di rispetto reciproco tra i membri della stessa comunità. In questa prospettiva, il principio di colpevolezza, fondato sugli artt. 2, 25, co. 2, e 27, co. 1 e 3, Cost., diventa centrale in una società democratica, perché solo in un tale contesto è possibile rimproverare il cittadino responsabile della violazione della norma, non attraverso la minaccia della pena (così abbandonando ogni inalizzazione preventiva, ma anche retributiva49), ma con l’invito a partecipare ad un percorso di risocializzazione ed, in quest’ottica, la tradizionale contrapposizione tra visione reo-centrica e visione vittimo-centrica, trova una composizione, un punto di equilibrio e di mediazione. Così allontanando il rischio di incentrare il giudizio di colpevolezza sul solo autore del reato, dimenticando la vittima50. 3.1. La colpevolezza come categoria dogmatica: la nozione unitaria di colpevolezza derivante dalla funzione rieducativa della pena. “Punire per educare”. Il rimprovero di colpevolezza è correlato alla funzione della pena, con l’efetto che l’oggetto del relativo giudizio va colto nel teleologismo punitivo. Se, come si dirà approfonditamente51, la inalizzazione della pena è quella di selezionare un dialogo risocializzante con il reo-cittadino, individuale e personale, 48. Esposito, La libertà di manifestazione del pensiero nell’ordinamento italiano, Milano, 1958, 8. 49. Per una critica all’idea retribuzionista della pena cfr. Eusebi, La “nuova” retribuzione, in Riv. it. dir. proc. pen., 1983, 914 ss.; Id., Cristianesimo e retribuzione penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1987, 275 ss.; Id. (a cura di), La funzione della pena: il commiato da Kant e da Hegel, Milano, 1989, 173 ss.; Id., Dibattiti sulle teorie della pena e mediazione, in Riv. it. dir. proc. pen., 1997, 811 ss.; Id., Le istanze del pensiero cristiano e il dibattito sulla riforma del sistema penale nello stato laico, in Acerbi, Eusebi (a cura di), Colpa e pena? La teologia di fronte alla questione criminale, Milano, 1998, 207. 50. Come ricorda, Parisi, Cultura dell’altro e diritto penale, Torino, 2010, 134 ss. 51. Cfr. infra Cap. IV, § 2. 197 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea cercando così di riportarlo all’interno del contesto sociale, con la partecipazione della vittima, il rimprovero di colpevolezza che gli si può muovere non può che riguardare l’aver tenuto un comportamento socialmente incompatibile, vuoi perché ha violato il divieto penale, vuoi perché ha leso l’interesse collettivo o individuale della vittima, vuoi perché ha esercitato la libertà riconosciutagli dall’ordinamento, «al di fuori dei limiti da esso segnati»52. L’individualizzazione ricercata dalla colpevolezza, dunque, è sagomata sulla nozione di individuo voluta dall’art. 2 Cost., come “cittadino”, ovvero membro di una comunità che gli riconosce libertà e diritti nei limiti del rispetto di quelli riconosciuti agli altri consociati. In tal maniera parrebbe escludersi lo sdoppiamento della colpevolezza, come categoria dogmatica, in fondante e graduante, a seconda se abbia ad oggetto l’an od il quantum della pena53. Ed invero, tale necessaria convergenza tra i due aspetti della colpevolezza pare evincersi dalla stessa giurisprudenza costituzionale che, fondando la Schuld sull’art. 27 Cost., ha sottolineato lo stretto legame che deve esistere tra colpevolezza del reo e prevedibilità della pena54. La lettura unitaria del concetto di colpevolezza può essere strutturata sulla nozione normo-costituzionale del principio di personalità, per cui «non è legittimo ediicare alcun rimprovero penale in capo a chi rispetto al fatto oggetto di imputazione non sia competente»55. In particolare, si è distinto il principio di per52. Così Cornacchia, La moderna hostis iudicatio, cit., 112. In questo senso, parlando di abuso della libertà di agire, cfr. Caruso, La discrezionalità penale, cit., 329. 53. Prosdocimi, Proili penali del postfatto, Milano, 1982, 237, secondo cui «quanto alla colpevolezza, ad una nozione essenzialmente psicologica della colpevolezza, valida ai ini dell’imputazione del fatto, appare corrispondere in sede di commisurazione della pena una nozione normativa della colpevolezza medesima: la prima non è graduabile (o per meglio dire, la sua graduazione non ha alcun pratico signiicato: ciò che rileva è la sua presenza o la sua assenza), la seconda contribuisce a determinare l’entità del contrasto tra il fatto concreto e l’ordinamento, e la conseguente riprovevolezza dell’autore». Nello stesso senso, ma con riferimento ai motivi a delinquere, cfr. Veneziani, Motivi e colpevolezza, Torino, 2000, 190. 54. Pulitanò, Responsabilità ogettiva e politica criminale, in Responsabilità ogettiva e giudizio di colpevolezza, Napoli, 1989, 71 ss. 55. Canestrari, Cornacchia, De Simone, Manuale di diritto penale, cit., 195 ss., argomentano la concezione normo-costituzionale del principio di cui all’art. 27, co. 1, Cost., fondandolo sul concetto di cittadino responsabile e competente ed, in particolare, «la sfera di responsabilità coincide […] con la competenza, ossia con quella “misura” che segna l’ambito di autonomia del cittadino “riconosciuto” dall’ordinamento nello status, [ovvero] l’insieme delle posizioni (dalle mere libertà negative, ai diritti garantiti in positivo, agli obblighi, facoltà, potestà) giuridicamente riconosciute al soggetto di diritto dall’ordinamento. È status quello generale di cittadino, concretizzato poi sulla falsariga delle suddivisioni derivanti dalle compartimentazioni e specializzazioni della particolare attività presa in considerazione: la competenza del medico cardiologo è sensibilmente diversa da quella del medico generico; quella del meccanico da quella dell’elettrauto. Il riconoscimento di status generali è funzionale all’autonomia delle reciproche competenze: ciascun soggetto di diritto deve rispettare la sfera altrui, ossia, deve organizzare la propria sfera di attività in modo da non pregiudicare quella degli altri. […] Inoltre, sono status quelli speciali, riconosciuti in via istituzionale a 198 colpevolezza sonalità in due diversi livelli: l’uno, che descrive il nesso di attribuibilità del fatto al cittadino «chiamato a rispondere soltanto di quei fatti rispetto ai quali aveva un dovere giuridico, ossia derivanti dalla scorretta gestione della sua sfera di competenza»; l’altro, che rappresenta i fatti dei quali il cittadino può rispondere, ovvero «soltanto di quei fatti rispetto ai quali [lo stesso] aveva un potere di controllo, essendo da lui prevedibili ed evitabili»56. Nella decisione n. 322 del 2007, del resto, la Corte costituzionale evidenzia la giuridica impossibilità di poter attribuire al cittadino «accadimenti estranei alla sua sfera di consapevole dominio». “Colpevole” e “personale”, come noto, sono concetti sovrapponibili: il rimprovero non può che essere rivolto ad un cittadino nella cui competenza ricadeva il fatto vietato. In altri termini, l’argomentazione che spiega l’attribuzione del fatto al soggetto attraverso il nesso normo-costituzionale, già di per sé, seleziona il cittadino (potenzialmente) colpevole57. determinati soggetti, in vista della tutela di beni fondamentali della società. Dallo status discendono, tra gli altri, doveri giuridici: in particolare, doveri di corretta gestione della propria sfera di attività in funzione del rispetto di quella altrui. La competenza del soggetto dipende dalla violazione di tale dovere giuridico: solo per quelle lesioni che derivano dalla trasgressione del dovere giuridico è competente. […] Alla violazione del dovere giuridico deve essere riconducibile la lesione che integra il fatto di reato, non invece gli elementi che ne stanno fuori, dato che l’art. 27 si riferisce solo all’illecito penale. […] Il rimprovero derivante dalla norma penale non è mai rivolto a “chiunque”, ma – proprio per il principio di responsabilità individuale di cui all’art. 27, co. 1 Cost. – sempre a un soggetto individuato dal dovere giuridico derivante dallo status riconosciuto dalla norma stessa, che proprio attraverso tale riconoscimento lo costituisce soggetto di diritto: in una parola, a un soggetto “competente”. Solo chi è competente rispetto alla sfera di rischio da cui origina la lesione può essere chiamato a risponderne penalmente, per la ragione – non di avere “causato” la conseguenza lesiva, né di avere disobbedito a un ordine dello Stato, ma – di non avere osservato i doveri giuridici derivanti dal proprio status correlati alla sfera di rischio stessa. […] Si è suggerito di qualiicare questo dovere giuridico – ancora extrapenale, ma che viene a caratterizzare l’antigiuridicità dell’illecito penale – con il termine “oicium iuris”: di matrice stoica, utilizzato da Cicerone, sta a caratterizzare, secondo il richiamo di Emilio Betti, “il complesso dei doveri che incombono (e dei correlativi poteri che spettano), in posizioni diferenziate, a quanti siano investiti di un compito di protezione e di responsabilità nell’interesse di singoli o della società intera organizzata nella res publica”. Il termine sembra appropriato a identiicare entrambe le tipologie di doveri giuridici trattati – quelli “generali” e quelli “speciali” – ben potendo ricomprendere infatti anche quel livello minimo di solidarietà che ciascuna società assume e garantisce in via istituzionale […] In questi termini, la responsabilità è personale, se e in quanto ciascuno risponda solamente delle violazioni di quei doveri giuridici che attengono allo status (generale o speciale) a lui riconosciuto dalla Costituzione: i doveri giuridici costituiscono dunque limite, ma, prima ancora, fondamento della responsabilità. Quindi, a fondamento della responsabilità va posta la competenza derivante da quei doveri giuridici che attengono allo status riconosciuto dall’ordinamento: “nullum crimen sine peculiari oicio”, ossia, nessuna responsabilità senza un dovere giuridico “proprio”. Questa la cifra del principio di responsabilità personale nel signiicato di responsabilità per fatto consacrato dall’art. 27, co. 1 Cost.». 56. Canestrari, Cornacchia, De Simone, Manuale di diritto penale, cit., 200. 57. E’, infatti, necessario accertare, come si dirà, oltre alla conoscibilità del precetto, anche la libertà di scelta, onde giungere al giudizio di efettiva colpevolezza del cittadino. 199 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea Conforto a tale lettura della colpevolezza si può trovare, poi, nella deinizione della inalità rieducativa della pena elaborata dalla Corte costituzionale, che, in una storica pronuncia58 (richiamata anche nell’arresto del 2007), in cui si discosta dall’orientamento tradizionale59, aferma che il principio contenuto nell’art. 27, co. 3, Cost. «lungi dal rappresentare una mera generica tendenza riferita al solo trattamento, indica invece proprio una delle qualità essenziali e generali che caratterizzano la pena nel suo contenuto ontologico e l’accompagnano da quando nasce, nell’astratta previsione normativa, ino a quando in concreto si estingue», secondo una prospettiva per cui “tendere” esprime solo «la presa d’atto della divaricazione che nella prassi può veriicarsi tra quella inalità e l’adesione di fatto del destinatario al processo di rieducazione». Conclusivamente afermando che «il precetto di cui al terzo comma dell’art. 27 della Costituzione vale tanto per il legislatore quanto per i giudici della cognizione, oltre che per quelli dell’esecuzione e della sorveglianza, nonché per le stesse autorità penitenziarie», in quanto «se la inalità rieducativa venisse limitata alla sola fase esecutiva, rischierebbe grave compromissione ogniqualvolta specie e durata della sanzione non fossero calibrate (né in sede normativa né in quella applicativa) alle necessità rieducative del soggetto»60. Se, quindi, questa è la ratio della punizione (“perché punire”: si punisce per rieducare), la necessità personalistica ed individualizzante del rimprovero penale non può prescindere dall’indagare sulle ragioni che hanno portato il reo ad assumere il comportamento antisociale. Ed invero, se, come sostenuto nelle pagine precedenti, la inalizzazione della pena è quella di selezionare un dialogo risocializzante con il reo-cittadino, individuale e personale, cercando così di riportarlo all’interno del contesto sociale, con la partecipazione della vittima, questo percorso di ricerca della corretta via comunicativa con il reo (ma anche con la vit- 58. Corte cost. n. 313 del 1990 che segue l’impostazione dell’importante precedente n. 364 del 1988 e, di recente, confermata da Id., n. 322 del 2007. 59. Sulla c.d. concezione polifunzionale della pena, Corte cost. n. 12 del 1966; n. 22 del 1971; n. 167 del 1973; n. 264 del 1974, in cui la Consulta, fra l’altro, aferma, in un giudizio di compatibilità costituzionale della pena dell’ergastolo con l’art. 27, co. 3, Cost.: «funzione (e ine) della pena – si è afermato – non è certo il solo riadattamento dei delinquenti, purtroppo non sempre conseguibile. A prescindere sia dalle teorie retributive, secondo cui la pena è dovuta per il male commesso, sia dalle dottrine positiviste, secondo cui esisterebbero criminali sempre pericolosi e assolutamente incorreggibili, non vi è dubbio che dissuasione, prevenzione, difesa sociale, stiano, non meno della sperata emenda, alla radice della pena»; da ciò, i giudici costituzionali poterono concludere che l’art. 27 Cost. «non ha proscritto la pena dell’ergastolo […] quando essa sembri al legislatore ordinario, nell’esercizio del suo potere discrezionale, indispensabile strumento di intimidazione per individui insensibili a comminatorie meno gravi, o mezzo per isolare a tempo indeterminato criminali che abbiano dimostrato la pericolosità e l’eferatezza della loro indole». 60. Per un’attenta analisi della distinzione tra colpevolezza fondante e colpevolezza graduante, Caruso, La discrezionalità penale, cit., 294. 200 colpevolezza tima), impone di comprendere le ragioni intime che lo hanno portato a deviare e così violare il divieto penale. Ed in coerenza con l’idea per cui il rimprovero al reo consiste nell’aver tenuto un comportamento socialmente incompatibile, tali ragioni sono sottese all’abuso della sua sfera di libertà, avendo egli agito oltre i limiti dalla stessa segnati: «al diritto penale non interessa che il “volere” sia inibito dalla coscienza, ma solo che dal naturale appetito e dall’insopprimibile lìbito non scaturiscano azioni disgregatrici delle ordinate relazioni giuridiche pretese dall’ordinamento»61. In questa prospettiva, dunque, la colpevolezza, come categoria dogmatica, non può che aferire alla teoria del reo e non del reato62, in quanto il giudizio di rimproverabilità ha ad oggetto il reo-in relazione-al-fatto e non il contrario, ovvero il fatto-in-relazione-al-reo. Gli efetti di tale collocazione dogmatica e sistematica della colpevolezza sottraggono al rimprovero penale, certamente, gli elementi psichici (dolo e colpa), appartenendo al fatto tipico, almeno come suoi requisiti, poiché ad esso, viceversa, necessariamente presupposti63. Non si punisce (rectius, non si vuole rieducare) perché il reo ha agito con dolo o con colpa, ma perché ha scelto di abusare della libertà riconosciutagli, assumendo un comportamento socialmente incompatibile. Ed invero, in mancanza di un fatto tipico ed antigiuridico è superlua l’indagine sulla colpevolezza del responsabile del fatto stesso. Tale visione appare più chiara laddove si consideri il noto esempio di Frank: «Il cassiere di una ditta commerciale ed un portavalori compiono, indipendentemente, l’uno dall’altro, un’appropriazione indebita. L’uno ha una buona posizione, non ha famiglia, ma 61. Caruso, La discrezionalità penale, cit., 330. 62. La colpevolezza viene espressamente collocata nella teoria del reo nei giovani codici penali di Croazia (Capitolo IV) ed in quello della Bosnia-Erzigovina, laddove, recentemente, vi è stata la correzione dell’espressione (traduzione inglese) di “criminal responsability” con “culpability” (Capitolo II). 63. Nello stesso senso, C. Fiore, Diritto penale, I, cit., 391, che evidenzia che l’elemento soggettivo del fatto è un requisito essenziale per il conigurarsi della colpevolezza, ma non facendo parte del suo contenuto. «L’accertamento del dolo o della colpa dell’autore costituisce una condizione imprescindibile della sua “rimproverabilità”, ma dolo o colpa non costituiscono il criterio del rimprovero, bensì soltanto un suo necessario presupposto». Nella letteratura tedesca, Hirsch, Das Schuldprinzip und seine Funktion im Stafrecht, cit., 746 ss. Diversamente, Canestrari, Cornacchia, De Simone, Manuale di parte generale, cit., 588, secondo cui il dolo e la colpa sono requisiti del fatto tipico, ma «hanno, al contempo, una dimensione di colpevolezza, che si aggiunge a quella fattuale» ed, in particolare, «per il dolo, la consapevolezza della dimensione ofensiva del fatto ovvero […] la coscienza attuale dell’illiceità del fatto stesso. […] La dimensione di colpevolezza della colpa si identiica invece con la sua misura soggettiva, e cioè con l’esigibilità dell’osservanza della regola cautelare alla quale bisognava attenersi nella situazione concreta, valutata alla luce delle caratteristiche personali dell’autore del fatto». 201 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea svaghi costosi. L’altro viene modestamente retribuito, ha una moglie malata e molti igli in tenera età. Per quanto ognuno dei due sappia di appropriarsi illecitamente di denaro altrui, e quindi, in relazione al dolo non sussista alcuna diferenza, pur tuttavia ognuno dirà: il cassiere è colpevole in modo più grave del portavalori»64. Se, dunque, alla colpevolezza è estraneo ogni elemento del fatto tipico, come criterio di rimproverabilità, è così superata la diicoltà di trovare delle argomentazioni utili a vincere le obiezioni di compatibilità della colpa con il principio di colpevolezza65. Ma se è vero che dolo o colpa, come condotta ed evento, ofesa e motivi, non sono requisiti della colpevolezza, ma suoi presupposti, non per questo questi possono essere ignorati nel giudizio di colpevolezza: gli elementi del fatto (oggettivo e soggettivo) rilevano ai ini della corrispondenza al tipo (tipicità), ma anche per delineare l’illiceità oggettiva del fatto (antigiuridicità), classiicando, dunque, il fatto come tipico ed illecito. Senza, però, alcuna capacità di graduazione. È stato evidenziato, invero, che «le “oscillazioni” da cui l’illiceità può essere caratterizzata nel caso concreto trovano il loro fondamento nei diversi “contenuti di disvalore” assunti dall’evento, o dalla condotta, o dalle ‘circostanze modali, ovvero da più fattori fra questi insieme»66. Con ciò volendo sottolineare che la sussunzione di un fatto concreto nella fattispecie astratta ha un efetto livellante, necessitando di un’ulteriore valutazione di disvalore che vada a distinguere ogni fatto concreto in relazione alle conseguenze sanzionatorie. È un’esigenza di individualizzazione del fatto in virtù (se si vuole) di quanto previsto dall’art. 3 Cost. E tale diferenziazione si può cogliere solo quando si passa alla fase di quantiicazione della pena o, secondo la inalizzazione dialogica della stessa, alla fase di selezione del percorso espiatorio più adeguato alla risocializzazione del reo, senza dimenticare la vittima. In questa fase, gli elementi del reato già valutati ai ini della tipicità (ed antigiuridicità) vanno necessariamente riconsiderati, come “criteri”, per selezionare la misura o la specie della pena più idonea ad accompagnare il reo nel percorso di risocializzazione. È necessario, a questo punto, un riepilogo. Il principio di colpevolezza costituisce l’essenziale momento di raccordo tra il fatto ed il reo-cittadino, poiché solo un fatto che rientra nella sfera di competenza del cittadino è colpevole secondo la lettura dell’art. 27, co. 1 e 3, Cost., evidenziando la necessità di attivare un percorso o dialogo risocializzante con il reo. Tale principio è implementato 64. Frank, Uber den Auf bau des Schuldbegrifs, cit., 523. 65. In dottrina, Donini, voce Teoria, cit., 259 ss.; Palazzo, Corso di diritto penale, III ed., Torino, 2008, 204, 214 ss., 355; Canestrari, Cornacchia, De Simone, Manuale di diritto penale, cit., 275 ss.; C. Fiore, S. Fiore, Diritto penale. Parte generale, Torino, III ed., 2008, 155; Neppi Modona, Guida al codice penale, II ed., Milano, 2008, 165. 66. Paliero, “Minima non curat praetor”. Ipertroia del diritto penale, Padova, 1985, 703. 202 colpevolezza nell’ordinamento attraverso il giudizio di rimproverabilità, che ha ad oggetto sia l’an che il quantum della pena. Sotto il primo proilo, il giudizio di colpevolezza (o rimproverabilità) riguarda la libertà di scelta, con particolare riguardo alle ragioni che hanno portato il reo ad abusare della libertà riconosciutagli dall’ordinamento. La libertà di scelta («coscienza e volontà») del cittadino è un concetto necessariamente relativo67, che, pertanto, impone la personalizzazione dell’opzione personale con la valutazione dell’efettiva possibilità, da parte del cittadino, di controllare (o dominare) la situazione concreta e, dunque, potersi liberamente determinare. In breve: gli si rimprovera di aver abusato della propria libertà assumendo un comportamento socialmente incompatibile che avrebbe potuto evitare. Sotto il secondo proilo (quantum), il giudizio di colpevolezza signiica il momento di «personalizzazione del fatto tipico ed antigiuridico», attraverso la commisurazione della pena utilizzando gli elementi (oggettivi e soggettivi) del fatto come criteri di selezione del dialogo rieducativo68. 3.2. (segue) La struttura della colpevolezza unitaria: dominabilità, conoscibilità e libertà. Il presupposto dell’imputabilità ed i requisiti della tipicità e antigiuridicità come criteri della rimproverabilità. I requisiti della colpevolezza “unitaria” possono identiicarsi nella dominabilità del fatto perché rientra nella sfera di competenza del cittadino e, dunque, è dallo stesso controllabile; nella conoscibilità del precetto; nella libertà della scelta di assumere il comportamento antisociale (= antigiuridico) pur potendo agire diversamente. L’imputabilità69 ne costituisce un neces67. Absolutus signiica sciolto, privo di legami. La persona umana è un essere sociale, che ha necessità di interagire con i suoi simili e con l’ambiente che lo circonda: l’uomo è in relazione con il mondo. La libertà di scelta, dunque, è necessariamente relativa, non assoluta, poiché costituisce il prodotto della reazione tra i fattori endogeni, propri dell’individuo, assolutamente (questi sì) dell’agente, con quelli esogeni interagenti propri della comunità (aspetti socio-culturali). 68. Caruso, La discrezionalità penale, cit., 318, in particolare, nota 205. 69. Nell’ampia bibliograia, senza alcuna completezza, oltre la manualistica, cfr. Bertolino, Empiria e normatività nel giudizio di imputabilità per infermità di mente, in LP, 2006; Id., Le incertezze della scienza e le certezze del diritto a confronto sul tema della infermità mentale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2006; Id., Fughe in avanti e spinte regressive in tema di imputabilità penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2001; Id., Il nuovo volto dell’imputabilità penale. Dal modello positivistico del controllo sociale a quello funzionalgarantista, in IP, 1998; Id., L’imputabilità e il vizio di mente nel sistema penale, Milano, 1990; Id., Proili vecchi e nuovi dell’imputabilità penale e della sua crisi, in Riv. it. dir. proc. pen., 1988; Bricola, Finzione di imputabilità ed elemento sogettivo nell’art. 92 co. 1 c.p., in Riv. it. dir. proc. pen., 1961, 239; Id., Fatto del non imputabile e pericolosità, Milano, 1960; Caraccioli, Il momento di rilevanza dell’imputabilità negli ordinamenti italiano e tedesco con riguardo ai reati istantanei, in Riv. it. dir. proc. pen., 1971; Centonze, L’imputabilità, il vizio di mente e i disturbi di personalità, in Riv. it. dir. proc. pen., I, 2005; Ceretti, Merzagora (a cura di), Questioni sulla imputabilità, Padova, 1994; Cerquetti, L’imputabilità nella sistematica del diritto penale, Perugia, 1979; Ciappi, Traverso, Disegno di lege di riforma del codice penale: note critiche a margine della nuova disciplina sull’imputabilità, in Riv. it. med. leg., 1997; Collica, La crisi del concetto di autore non imputabile “pericoloso”, in www.penalecontemporaneo.it; Id., Il giudizi 203 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea sario presupposto, piuttosto che un ulteriore requisito: l’assenza della capacità di volere preclude l’indagine se il soggetto sia stato libero di autodeterminarsi, pur avendone l’attitudine. Solo la libera scelta di assumere un comportamento antisociale in relazione ad un fatto controllabile, infatti, rende il reo colpevole, ovviamente, se tale scelta va a delineare un abuso della propria sfera di libertà. L’intensità od il grado del nesso psichico costituisce un criterio del rimprovero colpevole. L’abuso della libertà di scelta è certamente il requisito più caratterizzante il giudizio di colpevolezza ed è quello potenzialmente più problematico, astrattamente, delineando una “clausola aperta” che, in teoria, imporrebbe la valutazione di ogni aspetto del processo motivazionale del reo: se la colpevolezza è ciò di quanto più personalistico il diritto penale è in grado di esprimere70 appare ovvio di imputabilità tra complessità fenomenica ed esigenze di rigore scientiico, in Riv. it. dir. proc. pen., 2008; Id., Prospettive di riforma dell’imputabilità nel “Progetto Grosso”, in Riv. it. dir. proc. pen., 2002; Crespi, (voce) Imputabilità, in Enc. 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Canestrari, Cornacchia, De Simone, Manuale di diritto penale, cit., 585. 204 colpevolezza che il relativo giudizio andrebbe stimato su tutti i fattori che hanno determinato la scelta, con il rischio, neuropsicologico e sociologico71, di poter giustiicare tutto, evidenziando che, in quella situazione, l’agente non ha scelto o non era libero. Ma tale assunto non può essere condiviso. Non ogni aspetto del processo motivazionale, infatti, può essere preso in considerazione nel giudizio di colpevolezza, ma solo quelli tipici e nominati, poiché 71. Nella bibliograia, senza alcuna pretesa di completezza, cfr. Brusco, Scienza e processo penale: brevi appunti sulla valutazione della prova scientiica, in Riv. it. med. leg., 2012; Id., La valutazione della prova scientiica, in Dir. pen. proc. - Speciale: la prova scientiica nel processo penale, 2008; Canepa, Problemi dell’attività diagnostica nel sistema italiano di giustizia penale e perizia criminologica, in Riv. it. med. leg., 1979; Capra, Le neuroscienze e la genetica molecolare nella valutazione della capacità di intendere e volere, in www.psciologiagiuridica.it; Caprioli, La scienza “cattiva maestra”: le insidie della prova scientiica nel processo penale, in Cass. pen., 2008; Carrieri, Catanesi, La perizia psichiatrica sull’autore del reato: evoluzione storica e problemi attuali, in Riv. it. med. leg., 2001; Caruana, Due problemi sull’utilizzo delle neuroscienze in giurisprudenza, in Sistemi intelligenti, 2010, 2, 337 ss.; Casasole, Neuroscienze, genetica comportamentale e processo, in Dir. pen. proc., 2012; Catanesi, Martino, Verso una psichiatria forense basata su evidenze, in Riv. it. med. leg., 2006; Catanesi, Carrieri, La perizia psichiatrica sull’autore del reato: evoluzione storica e problemi attuali, in Riv. it. med. leg., 2001; Cucci, Gennari, Gentilomo, L’uso della prova scientiica nel processo penale, Rimini, 2012; De Caro, Lavazza, Sartori, Siamo davvero liberi? 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Se la sfera di competenza del cittadino è costituita da libertà, diritti, doveri e obblighi e se il fatto è ad esso attribuito perché non ha adempiuto al dovere giuridico (ovvero alla corretta gestione della sua sfera di competenza come attribuitagli dall’ordinamento) e se il ine del punire è quello di risocializzare il reo, è evidente che, non solo, i criteri di rimproverabilità devono essere tipici, come è tipico il divieto penale, ma anche le ipotesi di esclusione della colpevolezza non possono che essere tipizzate. Con ciò non si vuol dire che la libertà di scelta è relativa: ne è relativa solo la valutazione di abuso della stessa. La tipizzazione dei criteri del giudizio di rimproverabilità è, del resto, una conseguenza della società democratica, in funzione garantistica, non solo, del colpevole, ma anche della vittima. E se non fossimo liberi di scegliere assolutamente? 4. Siamo davvero liberi? Neuroscienze e libero arbitrio. Ma siamo veramente liberi? Quanto inluiscono i fattori endogeni ed esogeni sull’iter volitivo del comportamento criminale? Tali fattori escludono il libero arbitrio? Per alcune impostazioni neuroscientiiche72, il libero arbitrio non esiste perché la volontà è il prodotto di reazioni chimiche neurali, nel senso che il nostro pensiero conscio viene costantemente scavalcato da ciò che il cervello meccanicamente fa, cosicché ogni azione umana si può ritenere di fatto involontaria. Se fosse dimostrata la verità del determinismo psicologico, non solo, si minerebbe alla radice il fondamento di orientamento culturale (almeno) del diritto penale, ma verrebbe meno l’etica, l’idea divina, «la mente sarebbe un mero epifenomeno del cervello, e nulla più. L’intelligenza una ipotesi costruita ex post, la ragione una dimensione metaisica e lo spirito un inganno degli spiritualisti»73. Non è questa la sede per afrontare un tema così complesso, poiché la questione del libero arbitrio resta un vero enigma su cui, da secoli, dibattono ilosoi, teologi e scienziati, senza mai raggiungere risultati condivisi74. Ad ogni 72. Boncinelli, Che ine ha fatto l’io?, Milano, 2010; nella letteratura neuroscientiica, cfr. Libet, Mind Time. The Temporal Factor in Consciousness, Harvard, 2004; Id., Relections on the Interaction of the Mind and Brain, in Progress in Neurobiology, 2006, 78, 322-326. 73. Pilutti, Le neuroscienze ed il libero arbitrio. Il determinismo causale, in Sul Filo di Soia, 17 giugno 2013. 74. De Caro, Lavazza, Sartori, La frontiera mobile della libertà, in Id. (a cura di), Siamo davvero liberi? Le neuroscienze e il mistero del libero arbitrio, Torino, 2010, IX; Haynes, Posso prevedere quello che farai, in ibid., 5-20, il quale evidenzia che «gli studi neuroscientiici contemporanei, poi, hanno evidenziato che, analizzando l’attività di una regione del lobo frontale (area 10 di Brodmann), già oggi siamo in grado di predire un comportamento alcuni secondi prima che lo stesso soggetto agente acquisisca la consapevolezza della propria determinazione». Ma in realtà tale questione non si può considerare afatto risolta. Ed invero, Tempia, op. cit., 100 ss., aferma che «una serie di esperimenti 206 colpevolezza modo, in estrema sintesi, si sente la necessità, forse per spirito di conservazione e volontà di esistenza dell’essere umano, di evidenziare che l’esperimento di Libet certamente mette in rilievo che le capacità di decisione consapevole sono escluse dalle catene causali che producono i comportamenti. Ma quali decisioni? In efetti, gli esperimenti neuroscientiici in questione riguardano tutti determinazioni rapide e ripetitive75, per le quali era stato detto ai soggetti di non pianiicare l’azione, ma di aspettare l’insorgere di un forte stimolo a compierla. L’attività neurale precoce misurata, dunque, corrispondeva molto semplicemente a stimoli elementari che precedevano la consapevolezza conscia. D’altra parte, è esperienza di tutti che l’attenzione conscia non è sempre presente: ad esempio, quando si guida l’auto lungo un percorso conosciuto e solitamente praticato, non solo si agisce con gesti di guida automatizzati, ma, alla ine del viaggio, se si fa mente locale sui movimenti fatti, sui colori dei semafori trovati, sulle accelerazioni e le decelerazioni, sulle auto incrociate o sorpassate, non si ricorda quasi nulla. L’attenzione inconscia presiede alle azioni routinarie del quotidiano. Se, infatti, fossimo costretti a rilettere consapevolmente su ogni nostra azione, saremmo perenni principianti alla guida, incapaci di parlare, scrivere, ballare, suonare uno strumento. Diversamente, l’attenzione conscia, relativamente lenta e laboriosa, è richiesta quando si apprende una qualsiasi nuova attività o, comunque, più impegnativa rispetto all’esperienza maturata. Se vado in bicicletta su un percorso accidentato sconosciuto, l’attenzione conscia mi porterà a scegliere una velocità ed una direzione che mi eviti di rovinare a terra, ma non presidierà l’equilibrio necessario a saper pedalare. Fosse così semplice la questione del libero arbitrio, da identiicare con l’attenzione conscia, sarebbe risolta. eseguiti su diverse aree cerebrali ha infatti dimostrato che il tempo mentale di cui abbiamo coscienza non corrisponde fedelmente al tempo cronometrico, ma viene sovente deformato in modo da creare una rappresentazione mentale della realtà il più possibile coerente». In altre parole, si osserva «una distorsione della percezione del tempo nelle vicinanze dei movimenti volontari», che può giungere al punto di invalidare l’interpretazione della successione temporale di causa-efetto. Perciò, a tutt’oggi non si può afermare che vi sia una qualche prova sperimentale conclusiva a favore del riduzionismo materialista: rimane quindi aperto il problema «se l’uomo possa decidere in maniera non determinata dagli antecedenti isici del proprio cervello». A ben vedere, l’idea che un nesso di causalità possa essere svelato da un’analisi della successione temporale degli eventi neurali risente di una concezione strettamente meccanicistica del cervello (visto all’incirca come un orologio, solo più complesso) – si basa, cioè, su un presupposto più o meno arbitrario, non fondato su ineccepibili dimostrazioni scientiiche. Eppure, la isica del XX secolo ci ha insegnato che la realtà materiale non è riducibile nella sua essenza a fenomeni meccanici (magari con una spruzzatina di fenomeni elettromagnetici per spiegare la chimica). Pertanto – conclude l’A. – «inché non conosceremo la reale natura degli eventi mentali, e la loro relazione con le leggi della isica della materia, non sarà possibile negare né confermare scientiicamente un ruolo causale della mente». 75. Nahmias, Is Neuroscience the Death of Free Will?, in The New York Times, 13 novembre 2011. 207 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea Per il diritto penale che, come detto, ruota intorno al libero arbitrio o libertà di scelta, il problema dell’incidenza del neurodeterminismo, con efetti di dissoluzione, può essere superato cambiando il “punto di vista”. Le investigazioni scientiiche considerano l’individuo da una “prospettiva in terza persona”, così evidenziando che la libertà di agire e di scegliere è «una percezione fallace dei processi causali che determinano il comportamento»76. Se, invece, si considera l’individuo da una «prospettiva fenomenologica o in prima persona» è certo che lo stesso si percepisce come libero di agire e di scegliere. Partendo da questa diversa prospettiva e considerando che la società non è altro che un insieme di individui che, proprio perché membri di una comunità sociale (appunto), vengono deiniti cittadini, si può svolgere un ragionamento del genere: se, dunque, ogni cittadino di tale comunità si percepisce libero di agire, è logico e coerente con l’idea di colpevolezza unitaria già prospetta che il rimprovero di invito alla risocializzazione non può che presupporre tale libertà di scelta, poiché appartenente fenomenologicamente ad ogni cittadino. Per rendere più evidente tale visione, è opportuno valutarla nell’ipotesi di fatto criminoso intenzionale: la volontarietà dell’azione non è qualcosa che un agente ha, bensì qualcosa che un osservatore gli attribuisce. «Ma – cosa fondamentale – come nel caso dell’intenzionalità, anche nel caso dell’azione volontaria ogni individuo applica questo “atteggiamento” non solo agli altri individui, ma anche a sé stesso. Conseguentemente, ogni individuo si percepisce come libero e responsabile delle proprie azioni»77. La scienza, nelle diverse discipline in cui si articola, come strumento dell’uomo per indagare e conoscere le ragioni più segrete di ciò che gli appare e di trovare una spiegazione razionale ad ogni aspetto del vivente (e non solo), ha tentato più volte di fornire un chiarimento convincente sul modo in cui gli individui assumono delle decisioni e si comportano di conseguenza, senza però riuscire a superare quella latente necessità del “domandare ilosoico”, come traccia dell’intimo dualismo spirituale e materiale che caratterizza l’individuo. La prospettiva delle neuroscienze di svelare il funzionamento del cervello e delle sue interazioni con la mente, con il corpo e con il mondo esterno, come detto, si innesta perfettamente nella discussione millenaria intorno al libero arbitrio. Ma non basta. Biologismo, evoluzionismo e ora neuroscienze puntano alla spiegazione dell’individuo, deinendone le strutture prime ed il modo di esprimersi nel reale con «la convinzione, esplicita o implicita, che esista una prospettiva fondamentale in grado di farci capire perché le persone fanno quello che fanno»78. L’evidenza di non riuscire a comprendere e, dunque, spiegare l’essere umano «come 76. Caruana, Due problemi sull’utilizzo delle neuroscienze in giurisprudenza, cit., 342. 77. Caruana, op. e loc. ult. cit. 78. Duprè, Natura umana. Perché la scienza non basta, Roma-Bari, 2007, 200. 208 colpevolezza soggetto spirituale ed etico [geistig-sittlichen Wesen]»79 ha spostato il campo d’indagine delle neuroscienze ino ad avere contatti con quello umanistico, con l’effetto che i termini libero arbitrio, coscienza, azione, soggettività, emozioni etc. sono gli argomenti del ragionamento neuroetico80 per cercare di trovare una nuova via per spiegare l’uomo. 5. La colpevolezza nella giurisprudenza sovranazionale. La lettura del principio di colpevolezza da parte della Corte costituzionale, soprattutto nell’ultimo arresto richiamato, ha un chiaro, anche se non espresso, orientamento sovranazionale, aprendo cioè alla deinizione della colpevolezza oferta, non solo, dal Bundesverfassungsgericht, ma anche dalla Corte di Strasburgo. In Germania, invero, esiste una consolidata giurisprudenza del Tribunale di Karlsruhe che fonda la colpevolezza, da un lato, sul Rechtsstaatsprinzip (art. 20, co. 3, GG81) e, dall’altro, sulla dignità e sull’autoresponsabilità della persona umana (artt. 1, co. 1, e 2, co. 1, GG)82. Nella già richiamata sentenza Lissabon83, la Corte tedesca aferma che «il diritto penale si regge sul principio di colpevolezza. Questo principio presuppone una responsabilità autonoma [Eigenverantwortung] 79. BverfG 30 giugno 2009, cit. su cui ampiamente infra Cap. I, § II.1 ss. 80. Per un’ampia bibliograia, Lavazza, Che cos’e la neuroetica?, in Lavazza, Sartori (a cura di), Neuroetica. Scienze del cervello, ilosoia e libero arbitrio, Bologna, 2011. 81. L’art. 20, co. 1 GG proclama: «La Repubblica Federale di Germania è uno Stato federale, democratico e sociale» e prosegue poi con «Ogni potere dello Stato emana dal popolo. È esercitato dal popolo con elezioni e votazioni e per mezzo di appositi organi della legislazione, del potere esecutivo e della giurisdizione». 82. L’art. 1 GG recita: «(1) La dignità dell’uomo è intangibile. Rispettarla e difenderla è dovere di ogni potere dello Stato. (2) Il popolo tedesco si riconosce pertanto nei diritti inviolabili e inalienabili dell’uomo come fondamento di ogni comunità umana, della pace e della giustizia nel mondo. (3) I diritti fondamentali previsti negli articoli seguenti vincolano il potere legislativo, il potere esecutivo e quello giurisdizionale come diritto immediatamente eicace». Nella dottrina tedesca, ex multis, Lagodny, Strafrecht vor den Scranken der Grundrechte, Tubingen, 1996, 386; Stachelin, Strafgesetzgebung im Verfassungsstaat, Berlin, 1998, 243 ss.; Wolff, Der Grundsatz “nulla pena sine culpa” als Verfassungsrechtssatz, in AoR 1999, 124, 76 ss. 83. BverfG 30 giugno 2009, per cui si rinvia infra Cap. I, nota 28, § 364 «Die Zuständigkeiten der Europäischen Union im Bereich der Strafrechtsplege müssen zudem in einer Weise ausgelegt werden, die den Anforderungen des Schuldprinzips genügt. Das Strafrecht beruht auf dem Schuldgrundsatz. Dieser setzt die Eigenverantwortung des Menschen voraus, der sein Handeln selbst bestimmt und sich kraft seiner Willensfreiheit zwischen Recht und Unrecht entscheiden kann. Dem Schutz der Menschenwürde liegt die Vorstellung vom Menschen als einem geistig-sittlichen Wesen zugrunde, das darauf angelegt ist, in Freiheit sich selbst zu bestimmen und sich zu entfalten (vgl. BVerfGE 45, 187 <227>). Auf dem Gebiet der Strafrechtsplege bestimmt Art. 1 Abs. 1 GG die Aufassung vom Wesen der Strafe und das Verhältnis von Schuld und Sühne (vgl. BVerfGE 95, 96 <140>). Der Grundsatz, dass jede Strafe Schuld voraussetzt, hat seine Grundlage damit in der Menschenwürdegarantie des Art. 1 Abs. 1 GG (vgl. BVerfGE 57, 250 <275>; 80, 367 <378>; 90, 145 <173>). Das Schuldprinzip gehört zu der wegen Art. 79 Abs. 3 GG unverfügbaren Verfassungsidentität, die auch vor Eingrifen durch die supranational ausgeübte öfentliche Gewalt geschützt ist». 209 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea dell’uomo, che determina autonomamente il proprio agire e che, in virtù della libertà di volizione [Willenfreiheit], può scegliere tra il lecito e l’illecito. La tutela della dignità umana si fonda su un’idea dell’uomo come soggetto spirituale ed etico [geistig-sittlichen Wesen], destinato ad autodeterminarsi e a svilupparsi in libertà», aggiungendo, in modo signiicativo, che «il principio che ogni pena presuppone una colpevolezza ha quindi la propria base nella garanzia della dignità umana dell’art. 1 comma 1 legge fondamentale»84. È evidente nella lettura della colpevolezza tedesca, l’accentuazione dell’aspetto personalistico, rispetto al ruolo sociale dell’individuo, seppur recuperato con il richiamo tradizionale al Rechtsstaatsprinzip, anche se in forma meno pregnante rispetto al riconoscimento della colpevolezza intorno alla deinizione di “cittadino” ricavabile dall’art. 2 Cost. Vi è una marcata accentuazione del fondamento del rimprovero penale sull’autoresponsabilità della persona umana ed, in particolare, sul “libero arbitrio” e, dunque, sull’individuo come essere spirituale-morale e non membro di una società. In tal maniera, vi è uno scollamento tra l’imposizione del divieto penale, evidentemente inalizzato alla tutela di un interesse sociale preminente, rispetto all’applicazione della pena al reo o all’accertamento della sua colpevolezza, laddove pare dimenticarsi la inalizzazione sociale del divieto violato dal reo, per concentrarsi solo sull’individuo “come è in se stesso”, e non “come è nel contesto sociale a cui appartiene”. Con tanto si vuole solo sostenere che l’“individuo” è indiferente al diritto penale, mentre assume rilevanza e centralità il “cittadino”, ovvero l’individuo come membro di una comunità: la teoria dell’ofensività, del resto, ofre un’importante sostegno a tale visione, allorquando giustiica l’intervento punitivo solo a tutela di beni giuridici di interesse costituzionale85. Tutto ciò che appartiene alla sfera spirituale dell’individuo è irrilevante per il diritto penale o, meglio, per l’accertamento della colpevolezza penale, come, del resto, evidenziato dalla tipicità delle cause di giustiicazione o dall’esclusione degli stati emotivi (art. 90 c.p.) dalle cause di limitazione della capacità di intendere e di volere, o 84. Traduzione svolta su incarico dell’Uicio studi della Corte costituzionale dal Prof. Jörg Luther, Dipartimento di Politiche Pubbliche e Scelte collettive POLIS, Università del Piemonte orientale. 85. In quest’ottica, appare evidente che tutti gli interessi meritevoli di tutela penale, accedendo alla tesi bricoliana, avendo rilevanza costituzionale, non sono mai individuali, ma sociali, nel senso che l’opzione penale non è selezionata nell’interesse del singolo, ma solo della collettività. L’oggetto materiale del reato, efettivamente, è spesso personale: ad esempio, nel furto, l’appropriazione dell’autovettura di Tizio, certamente va ledere il patrimonio di Tizio, ma l’interesse tutelato dalla norma astratta non è questo, ma quello di garantire che il trasferimento dei beni avvenga nelle forme previste dalla legge civile, che può essere assicurato con lo strumento penale. Ancora, l’uccisione di Caio, certamente lede il diritto supremo alla vita dello stesso, ma l’interesse tutelato dal divieto penale è quello di tutelare la comunità, nel senso che la previsione delle punizione del colpevole del delitto di omicidio assicura la conservazione della struttura collettiva dall’aggressione di un suo membro (cittadino). 210 colpevolezza ancora dalle previsioni sull’aberratio ictus. La funzione del diritto penale è quella culturale e di controllo sulle regole del vivere sociale. Anche la Corte europea dei diritti dell’uomo ha elaborato, nell’esegesi evolutiva della Convezione EDU, il principio di colpevolezza come conseguenza implicita del principio di legalità (art. 7 Convenzione EDU). Ed invero, la Corte di Strasburgo, in una nota pronuncia86, ha, per la prima volta, stabilito che, nonostante l’art. 7 Convenzione EDU non menzioni espressamente il nesso psicologico tra l’elemento materiale del reato ed il reo, «la logique de la peine et de la punition ainsi que la notion de “guilty” (dans la version anglaise) et la notion correspondante de “personne coupable” (dans la version française) vont dans le sens d’une interprétation de l’article 7 qui exige, pour punir, un lien de nature intellectuelle (conscience et volonté) permettant de déceler un élément de responsabilité dans la conduite de l’auteur matériel de l’infraction. A défaut, la peine ne serait pas justiiée. Il serait par ailleurs incohérent, d’une part, d’exiger une base légale accessible et prévisible et, d’autre part, de permettre qu’on considère une personne comme “coupable” et la “punir” alors qu’elle n’était pas en mesure de connaître la loi pénale, en raison d’une erreur invincible ne pouvant en rien être imputée à celui ou celle qui en est victime». Il legame psicologico tra autore e fatto, come indicato dai giudici di Strasburgo, speciicato con «conscience et volonté», non ha certamente un’indicazione pregnante e chiara, ove si considerino, in particolare, le diferenze deinitorie, anche importanti, tra tutti i criteri di imputazione soggettiva, potendosi, ad ogni modo, individuare almeno nella colpa (incosciente) che costituisce il minimo e più debole nesso di natura soggettiva che possa conigurarsi tra un fatto ed il suo autore. Ad ogni modo, tale indicazione della Corte EDU non pare che possa assumere, almeno ancora, il carattere generalizzante del principio «nullum crimen, nulla poena sine culpa»87, in quanto, in una recente pronuncia88, i giudici euroumanitari appaiono discostarsi dal principio espresso nella decisione del 2009, poiché, dapprima, afermano che «il ne peut y avoir de peine sans l’établissement d’une responsabilité personnelle», poi, dichiarano che «l’article 7 de la Convention ne requiert pas expressément de “lien psychologique” ou “intellectuel” ou “moral” entre l’élément matériel de l’infraction et la personne qui en est considérée l’auteur»89, andando così a 86. Corte eur. dir. uomo, Sez. II, 20 gennaio 2009, Sud Fondi Srl c. Italia, in particolare §§ 116,117; su tale pronuncia, F. Mazzacuva, Un “hard case” davanti alla Corte europea: argomenti e principi nella sentenza di Punta Perotti, in Dir. pen. proc., 2009, 1540 ss. 87. Manes, Il giudice nel labirinto, cit., 143, in particolare nota 409. 88. Corte eur. dir. uomo, 29 ottobre 2013, Varvara c. Italia, con nota di F. Mazzacuva, La conisca disposta in assenza di condanna viola l’art. 7 CEDU, in www.penalecontemporaneo.it. 89. Nella pronuncia si fa richiamo espresso al precedente, Corte eur. dir. Uomo, 21 marzo 2006, Valico Srl c. Italia, in cui, dopo aver precisato che «il appartient en premier lieu aux autorités nationales de décider du type d’amendes qu’il convient d’appliquer. Les décisions en ce domaine impliquent une appréciation de problèmes politiques, économiques et sociaux que la Convention laisse à la compétence des 211 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea modiicare l’importante precedente, concludendo, con un’operazione di “taglia e cuci”, che «la logique de la “peine” et de la “punition”, et la notion de “guilty” (dans la version anglaise) et la correspondante notion de “personne coupable” (dans la version française), militent pour une interprétation de l’article 7 qui exige, pour punir, une déclaration de responsabilité par les juridictions nationales, qui puisse permettre d’imputer l’infraction et d’inliger la peine à son auteur. A défaut de quoi, la punition n’aurait pas de sens (Sud Fondi et autres, précité, § 116). Il serait en efet incohérent d’exiger, d’une part, une base légale accessible et prévisible et de permettre, d’autre part, une punition quand, comme en l’espèce, la personne concernée n’a pas été condamné». Per evidenziare la diferenza tra le due decisioni della Corte di Strasburgo, in cui, nell’ultima pronuncia impropriamente si richiama quella del 2009, va osservato che, dopo l’espressione «la logique de la “peine” et de la “punition”, et la notion de “guilty” (dans la version anglaise) et la correspondante notion de “personne coupable” (dans la version française), militent pour une interprétation de l’article 7 qui exige, pour punir…», identica in ambedue le decisioni, in quella del 2009 (Sud Fondi vs. Italia), la Corte aferma: «un lien de nature intellectuelle (conscience et volonté) permettant de déceler un élément de responsabilité dans la conduite de l’auteur matériel de l’infraction»; mentre in quella del 2013 (Varvara vs. Italia), tale conclusione è sostituita da «une déclaration de responsabilité par les juridictions nationales, qui puisse permettre d’imputer l’infraction et d’inliger la peine à son auteur». In altri termini, nel primo caso, la Corte EDU ritiene necessario per applicare una pena al cittadino un legame psicologico tra lo stesso ed il fatto addebitatogli, mentre, nel secondo caso, i giudici sovranazionali ritengono suiciente per applicare la sanzione penale all’autore del fatto la sola dichiarazione di responsabilità, secondo l’ordinamento interno, che consenta di imputare quel comportamento, anche solo materialmente (se previsto nell’ordinamento), al soggetto90. Etats parties», i giudici sovranazionali afermano: «Il est vrai que l’amende en question a été inligée à la société requérante pour des raisons objectives sans qu’il ait été nécessaire d’établir l’existence d’une intention délictueuse ou d’une négligence de sa part. Toutefois, l’absence d’éléments subjectifs ne prive pas nécessairement une infraction de son caractère pénal; de fait, les législations des Etats contractants ofrent des exemples d’infractions pénales fondées uniquement sur des éléments objectifs». 90. Certamente, dal punto di vista dei rilessi sul nostro ordinamento, le decisioni in questione escludono ogni possibilità di applicare la conisca urbanistica (di cui è riconosciuta – e ribadita – la natura penale) al cittadino che non sia dichiarato colpevole a seguito di una pronuncia di condanna del giudice nazionale. Così, con un colpo di spugna, abiurando il consolidato orientamento della Suprema Corte di cassazione in subiecta materia. Sul punto, ex multis, Cass. pen. Sez. III, 6 ottobre 2010, n. 5857 (rv. 249516); Cass. pen. Sez. III, 9 luglio 2009, n. 36844 (rv. 244923); Cass. pen. Sez. III, 11 aprile 2007, n. 35219. In senso diforme, nella giurisprudenza di merito, App. Palermo Sez. I, 11 aprile 2012, secondo cui: «La conisca contemplata dall’art. 44, comma secondo, d.P.R. n. 380 del 2001 (T.U. edilizia) costituisce una sanzione amministrativa emessa dal Giudice penale in via di supplenza. Anche con riferimento alle sanzioni amministrative, pertanto, esulano dalla materia criteri di responsabilità oggettiva, in quanto richiesto, quale requisito essenziale di legalità per la loro ap- 212 colpevolezza È evidente il passo indietro in tema di riconoscimento universale del principio di colpevolezza91. 6. I criteri di imputazione sogettiva nel volto europeo del diritto penale. Il nesso intellettuale tra autore e fatto è un requisito strutturale del fatto tipico. Nel nostro ordinamento92, i criteri di imputazione soggettiva sono espressamente deiniti nell’art. 43 c.p. e, di regola, i delitti sono dolosi (art. 42 c.p.)93, salvo che vi sia espressa previsione della fattispecie colposa94, mentre le contravvenzioni posso- plicazione, la esistenza di una condotta che risponda ai necessari requisiti soggettivi della coscienza e volontà dell’agente e sia caratterizzata quanto meno dall’elemento psicologico della colpa. Una lettura costituzionalmente orientata del menzionato articolo induce, pertanto, necessariamente ad escludere dall’ambito di operatività della norma la possibilità di coniscare beni appartenenti a soggetti estranei alla commissione del reato e dei quali sia accertata la buona fede». L’arresto della Corte di Strasburgo appare contrario anche al recente orientamento di Cass. pen. Sez. III, 4 febbraio 2013, n. 17066 (rv. 255112), secondo cui: «La conisca dei terreni può essere disposta anche in presenza di una causa estintiva del reato (nella specie, della prescrizione), purché sia accertata la sussistenza della lottizzazione abusiva sotto il proilo oggettivo e soggettivo, nell’ambito di un giudizio che assicuri il contraddittorio e la più ampia partecipazione degli interessati, e che veriichi l’esistenza di proili quantomeno di colpa sotto l’aspetto dell’imprudenza, della negligenza e del difetto di vigilanza dei soggetti nei confronti dei quali la misura viene ad incidere. (Fattispecie nella quale è stata ritenuta legittima la conisca dei terreni nonostante la prescrizione del reato, all’esito dell’accertamento della rimproverabilità della condotta degli imputati e della illegittimità della concessione edilizia rilasciata in zona di inediicabilità assoluta)». Sul tema, in dottrina, fra i tanti, Panzarasa, Conisca senza condanna?, in Riv. it. dir. proc. pen., 2010, 1672 ss.; Maiello, Conisca, CEDU e Diritto dell’Unione, tra questioni risolte ed altre ancora aperte, in Dir. pen. cont. - Riv. trim., 2012, 3-4, 41 ss., in particolare 49 ss. 91. Per una complessa analisi comparativa tra principi costituzionali e principi convenzionali, con speciico riguardo al nullum crimen, Di Giovine, Il principio di legalità tra diritto nazionale e diritto convenzionale, in Studi in onore di Mario Romano, vol. IV, 2197 ss. 92. Per l’analisi approfondita dei criteri d’imputazione nel nostro ordinamento, di recente, Canestrari, La struttura sogettiva della fattispecie, in Cadoppi, Canestrari, Manna, Papa (a cura di), Trattato di diritto penale. Parte generale, II, Il reato, Torino, 2013, 89 ss. 93. Nell’ampia bibliograia, Gallo, Il dolo. Ogetto e accertamento, in Studi urb., 1951-1952; Id., (voce) Dolo (dir. pen.), in EdD, XIII, 1964, Milano, 1964, 750 ss.; Pecoraro Albani, Il dolo, Napoli, 1955; Bricola, Dolus in re ipsa, Milano, 1960; Donini, Il delitto contravvenzionale. Culpa iuris e ogetto del dolo nei reati a condotta neutra, Milano, 1993; Eusebi, Il dolo come volontà, Brescia, 1993; De Simone, L’elemento sogettivo del reato: il dolo, in Giur. Sist. Dir. Pen. Bricola-Zagrebelsky. Codice penale. Parte generale, II ed., Torino, 1996, 395 ss.; Prosdocimi, Il reato doloso, in Dig. Pen., XI, Torino, 1996, 235 ss.; Canestrari, Dolo eventuale e colpa cosciente: ai conini tra dolo e colpa nella struttura delle tipologie delittuose, Milano, 1999, 70 ss.; Id. La deinizione legale del dolo: il problema del dolus eventualis, in Riv. it. dir. proc. pen., 2001, 906 ss.; Pedrazzi, Tramonto del dolo?, in Riv. it. dir. proc. pen., 2000, 1265 ss.; Masucci, Fatto e valore nella deinizione del dolo, Torino, 2004; Id., Reato doloso, in Dig. Pen., Agg. IV, Torino, 2008; Id., Rilessioni sulla volontà del fatto di reato, requisito del dolo, alla luce delle neuroscienze e di recente dottrina, in Vinciguerra, Dassano (a cura di), Scritti in onore di Giuliano Marini, 2010, 163 ss.; Demuro, Il dolo, II, L’accertamento, Milano, 2010. 94. Nella sterminata bibliograia, tra i più recenti, Forti, Sulla deinizione della colpa nel progetto di riforma del codice penale, in De Maglie, Seminara (a cura di), La riforma del codice penale. La parte 213 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea no essere indiferentemente dolose o colpose, a meno che non vi siano incompatibilità di natura logica tra singole fattispecie contravvenzionali ed il dolo o la colpa. Non va trascurata, poi, la problematica sull’individuazione della linea di conine tra dolo eventuale e colpa con previsione95. Non essendo possibile, in questa sede, esaminare approfonditamente le diverse concezioni dogmatiche relative all’élément moral, l’indagine comparativa sarà appuntata, da un lato, sulla scelta legislativa di prevedere una deinizione normativa di dolo o colpa, onde contenere l’esegesi applicativa e, dall’altro, sull’individuazione di una soglia minima di rilevanza penale del nesso intellettivo, alla stregua dell’indirizzo legislativo eurounionista. Il Parlamento europeo, infatti, ha fornito un’importante indicazione di indirizzo, riconoscendo la centralità nel diritto penale, fra gli altri, del principio di colpevolezza che impone «pene soltanto per atti commessi intenzionalmente oppure, in circostanze eccezionali, per atti che implichino grave negligenza»96. È evidente che l’indicazione europea, adagiandosi sulla concezione psicologica della colpevolezza, restringe notevolmente l’area di rilevanza penale del nesso psicologico alle sole ipotesi di dolo e di colpa grave, lasciando, comunque, aperta la problematica della “linea di conine” tra dolo e colpa ed, in particolare, tra le forme borderline di dolo eventuale e colpa cosciente, come, del resto, all’interno della colpa, risulta sempre diicile poter distinguere la colpa lieve da quella grave, che, come visto, per la massima istituzione democratica europea, costituisce il limite della rilevanza penale di un comportamento. 6.1. Sguardo comparativo sulle deinizioni normative di dolo e colpa. L’atteggiamento più difuso negli ordinamenti stranieri è quello relativo all’assenza di una deinizione normativa dei criteri d’imputazione soggettiva97, mentre essa si ritrova nella generale, Milano, 2002, 67 ss.; Veneziani, Regole cautelari “proprie” ed “improprie” nella prospettiva delle fattispecie colpose causalmente orientate, Padova, 2003; Cornacchia, Concorso di colpe e principio di responsabilità penale per fatto proprio, Torino, 2004; Bonafede, L’accertamento della colpa speciica, Padova, 2005; Castronuovo, Le deinizioni di reato colposo, in Riv. it. dir. proc. pen., 2002, 495 ss.; Id., La colpa penale, Milano, 2009; Canepa, L’imputazione sogettiva della colpa. Il reato colposo come punto cruciale del rapporto tra illecito e colpevolezza, Torino, 2011; Grotto, Principio di colpevolezza, rimproverabilità sogettiva e colpa speciica, Torino, 2012; Canestrari, La doppia misura della colpa nella struttura del reato colposo, in IP, 2012, 21 ss. Nella manualistica, fra gli altri, Canestrari, Cornacchia, De Simone, Manuale di diritto penale, cit., 407 ss.; Cadoppi, Veneziani, Elementi di diritto penale. Parte generale, V ed., Padova, 2012, 302 ss.; Manna, Corso di diritto penale, cit., 203 ss. 95. Sul punto, si rinvia, anche per i richiami bibliograici più recenti, alle chiare pagine di Manna, Colpa cosciente e dolo eventuale: l’indistinto conine e la crisi del principio di stretta legalità, in Studi in onore di Franco Coppi, Torino, 2012, 201 ss. 96. Risoluzione del 22 maggio 2012 del Parlamento europeo su un approccio dell’UE in materia di diritto penale (2010/2310(INI)), Considerando J e punto n. 4. 97. Fornasari, Menghini, Percorsi europei di diritto penale, cit., 72. 214 colpevolezza legislazione penale portoghese98, bosniaca99, croata100, inlandese101, ungherese102 ed in quella slovena103, solo per citarne alcune. Anche il legislatore austriaco104 deinisce il dolo nelle sue forme di manifestazione più classiche, partendo da quella più ampia e meno intensa (dolo eventuale), da intendere, dunque, come quella 98. Artigo 14 c.p.: «(1) Age com dolo quem, representando um facto que preenche um tipo de crime, actuar com intenção de o realizar. (2) Age ainda com dolo quem representar a realização de um facto que preenche um tipo de crime como consequência necessária da sua conduta. (3) Quando a realização de um facto que preenche um tipo de crime for representada como consequência possível da conduta, há dolo se o agente actuar conformando-se com aquela realização». Traduzione in inglese: art. 14 c.l., Intent: «1. Whoever, representing an act that constitutes a type of crime, carries it on, with the purpose of accomplishing it, acts with intent. 2. A person still acts with intent when he represents the accomplishment of an act that constitutes a type of crime as a necessary consequence of his conduct. 3. When the accomplishment of an act that constitutes a type of crime is represented as a possible consequence of the conduct, there is intent if the agent acts accepting that accomplishment». 99. Art. 15 criminal law (english version): «(1) A criminal ofence may be committed with speciic or general (direct or indirect) intent. (2) The ofender acts with speciic (direct) intent when an ofender was aware of his deed and desired its commission. (3) The ofender acts with general (indirect) intent when an ofender was aware that a prohibited consequence might have resulted from his action or omission to act but nevertheless consented to its occurrence». 100. Clanak 44 kazneni zakon: «(1) Kazneno djelo može se pociniti s izravnom ili neizravnom namjerom. (2) Pocinitelj postupa s izravnom namjerom kad je svjestan svog djela i hoce njegovo pocinjenje. (3) Pocinitelj postupa s neizravnom namjerom kad je svjestan da može pociniti djelo pa na to pristaje». Traduzione in inglese: art. 44 c.c., Intent: «(1) A criminal ofense may be committed with direct (dolus directus) or indirect intent (dolus eventualis). (2) The perpetrator acts with direct intent when he is aware of his conduct and desires its perpetration. (3) The perpetrator acts with indirect intent when he is aware that he might commit an ofense and accedes to it». 101. Ch. 3, Section 6 criminal code (english version): «A perpetrator has intentionally caused the consequence described in the statutory deinition if the causing of the consequence was the perpetrator’s purpose or he or she had considered the consequence as a certain or quite probable result of his or her actions. A consequence has also been intentionally caused if the perpetrator has considered it as certainly connected with the consequence that he or she has aimed for». 102. § 13 általános rész: «Szándékosan követi el a bűncselekményt, aki magatartásának következményeit kívánja, vagy e következményekbe belenyugszik». Traduzione in inglese: § 13 c.l.: «An act of crime is perpetrated intentionally by the person who wishes the consequences of his conduct or acquiesces to these consequences». 103. Člen 25 kazenski zakonik: «Kaznivo dejanje je storjeno z naklepom, če se je storilec zavedal svojega dejanja in ga je hotel storiti ali če se je zavedal, da lahko zaradi njegovega ravnanja nastane prepovedana posledica, pa je privolil, da taka posledica nastane». Traduzione in inglese: art. 25 c.c., Intent: «A criminal ofence shall be committed with an intent if the perpetrator was aware of his act and wanted to perform it, or was aware that an unlawful consequence might result from his conduct but he nevertheless let such consequence to occur». 104. § 5 StGB - Vorsatz: «(1) Vorsätzlich handelt, wer einen Sachverhalt verwirklichen will, der einem gesetzlichen Tatbild entspricht; dazu genügt es, daß der Täter diese Verwirklichung ernstlich für möglich hält und sich mit ihr abindet. (2) Der Täter handelt absichtlich, wenn es ihm darauf ankommt, den Umstand oder Erfolg zu verwirklichen, für den das Gesetz absichtliches Handeln voraussetzt. (3) Der Täter handelt wissentlich, wenn er den Umstand oder Erfolg, für den das Gesetz Wissentlichkeit voraussetzt, nicht bloß für möglich hält, sondern sein Vorliegen oder Eintreten für gewiß hält». 215 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea generale (e minima), che deve assistere il comportamento criminale del cittadino, salvo, poi, delineare, nei successivi paragrai, il dolo intenzionale e quello diretto. Gli ordinamenti che non prevedono alcuna deinizione del dolo, come quello tedesco, ad ogni modo, ricavano la relativa nozione positiva, da quella negativa contenuta nella disciplina dell’errore sul fatto (§ 16 StGB) per cui «Wer bei Begehung der Tat einen Umstand nicht kennt, der zum gesetzlichen Tatbestand gehört, handelt nicht vorsätzlich»105, salvo che il fatto non venga punito a titolo di colpa. Da ciò, utilizzando un argomento noto anche alla dogmatica nostrana, il dolo sussiste allorché il reo si sia rappresentato o voluto tutti gli elementi del fatto tipico. Va ora appuntata l’attenzione sulla nozione di colpa. Generalmente, tutti gli ordinamenti che hanno la deinizione normativa di dolo, evidenziano anche quella di colpa, regolarmente delineata sulla previsione nostrana di colpa incosciente, nel senso di procedere, come per la deinizione del dolo, dall’ipotesi meno intensa, a quella massima. Ed invero, nel codice portoghese, all’art. 15, si aferma: «Age com negligência quem, por não proceder com o cuidado a que, segundo as circunstâncias, está obrigado e de que é capaz: (a) Representar como possível a realização de um facto que preenche um tipo de crime mas actuar sem se conformar com essa realização; ou (b) Não chegar sequer a representar a possibilidade de realização do facto»106. Nella prima parte della norma, quindi, il legislatore portoghese deinisce la “colpa con previsione” (o cosciente), che, come noto, costituisce la massima ipotesi di forma di colpa prevista anche dall’ordinamento domestico, salvo, poi, delineare l’ipotesi meno pregnante (colpa senza previsione). Tale impostazione è seguita dal codice croato (art. 45)107, come quello bosniaco (art. 16)108, 105. Per la traduzione in italiano, cfr. Vinciguerra (a cura di), Il codice penale tedesco, Padova, 2003, 47 ss., in particolare 61, per la traduzione del § 16. 106. Fornasari, Menghini, Percorsi europei di diritto penale, cit., 77, traducono: «Agisce con colpa colui che, non procedendo con l’attenzione cui, secondo le circostanze, è obbligato e di cui è capace: (a) si rappresenta come possibile la realizzazione di un fatto che integra una fattispecie di reato, ma agisce senza rassegnarsi a questa realizzazione; (b) non arriva nemmeno a rappresentarsi la possibilità di realizzazione del fatto». 107. Clanak 45 kazneni zakon: «(1) Kazneno djelo može se pociniti sa svjesnim ili nesvjesnim nehajem. (2) Pocinitelj postupa sa svjesnim nehajem kad je svjestan da može pociniti djelo, ali lakomisleno smatra da se to nece dogoditi ili da ce to moci sprijeciti. (3) Pocinitelj postupa sa nesvjesnim nehajem kad nije svjestan da može pociniti djelo, iako je prema okolnostima i prema svojim osobnim svojstvima bio dužan i mogao biti svjestan te mogucnosti». Traduzione in inglese: art. 45, negligence: «(1) A criminal ofense may be committed by advertent or inadvertent negligence. (2) The perpetrator acts with advertent negligence when he is aware that he might commit an ofense but carelessly assumes that it will not occur, or that he will be able to prevent it from occurring. (3) The perpetrator acts with inadvertent negligence when he is unaware that he might commit an ofense, although under the circumstances and according to his personal characteristics he should and could have been aware of such a possibility». 108. Art. 16 criminal law (english version): «(1) A criminal ofence may be committed by advertent or inadvertent negligence. (2) The ofender acts with advertent negligence when he was aware that a prohibited consequence might have occurred as a result of his action or omission to act, but carelessly assumed that it 216 colpevolezza georgiano (art. 10)109 – in cui la colpa cosciente è deinita “presumption”, rispetto a quella incosciente detta “negligence” – e sloveno (art. 26), preoccupandosi, in tutti gli ordinamenti, di delineare la linea di demarcazione e distinzione tra il dolo e la colpa, ad eccezione del codice penale polacco110, laddove la nozione di colpa si ricava in negativo dall’assenza del dolo111. È interessante segnalare la previsione di colpa nel sistema inlandese, laddove il concetto di negligence è deinito in senso solidaristico, come il “duty to take care” (ovvero, letteralmente, il “dovere di prendersi cura” o, meglio il “dovere di attenzione o di diligenza”), che signiica, nei sistemi di common law, uno dei requisiti fondamentali della negligence, non come uno stato mentale caratterizzante ogni forma di torts, ma come una vera e propria condotta autonoma. Nella prospettiva esaminata, tale caratterizzazione della negligence inlandese costituisce la concretizzazione normativa della fenomenologia attuale dei fatti colposi, che si presentano come il risultato dell’interazione tra più soggetti, «così che l’estensione dello stesso dovere oggettivo di diligenza di ciascuno risulta spesso modellato (ma anche modellabile soltanto) con riferimento reciproco a quello di altri soggetti che si trovino ad interagire con il primo»112. Un’impostazione che giustiica l’esonero da responsabilità del cittadino per le inosservanze di doveri di diligenza da parte di concittadini con i quali interagisce, in virtù di quell’aidamento o aspettativa sociale per cui tutti i consociati siano attenti nel rispettare il “duty to take care” relativo alla propria sfera di competenza113. È interessante, poi, osservare che la norma inlandese indica gli elementi da valutare ai ini della qualiica della gravità della negligence, ed in particolare, signiicandoli «nelle ragioni sottese al dovere di diligenza, nell’importanwould not occur or that he would be able to avert it. (3) The ofender acts with inadvertent negligence when he was unaware of the possibility that a prohibited consequence might have occurred, although, under the circumstances and according to his personal characteristics, he should and could have been aware of such possibility». 109. Art. 10 criminal law (english version): «1. The action shall be deemed to be crime of negligence if it is perpetrated through presumption or negligence. 2. The action shall be perpetrated through presumption if the person was aware of the action forbidden under the norms of foreseeing, foresaw the possibility for the illegal consequence but had unfounded hope that he/she would avoid this consequence. 3. The action is committed through negligence if the person was aware of the action forbidden under the norms of foreseeing, did not foresee the possibility for the illegal consequence though he/she was obliged to and could foresee it. 4. The action committed by negligence shall be deemed to be ofence only in case it is referred to in the relevant article of this Code». 110. Art. 9, § 2, Kodeks karny: «Czyn zabroniony popełniony jest nieumyślnie, jeżeli sprawca nie maja˛c zamiaru jego popełnienia, popełnia go jednak na skutek niezachowania ostrożności wymaganej w danych okolicznościach, mimo że możliwość popełnienia tego czynu przewidywał albo mógł przewidzieć». 111. Fornasari, Menghini, Percorsi europei di diritto penale, cit., 78. 112. Canestrari, La struttura sogettiva della fattispecie, cit., 154. 113. Nel nostro ordinamento si parla di c.d. principio dell’aidamento. In bibliograia, si segnalano, oltre alla classica manualistica, M. Mantovani, Il principio di aidamento nella teoria del reato colposo, Milano, 1997; Id., Alcune puntualizzazioni sul principio di aidamento, in Riv. it. dir. proc. pen., 1997, 1043 ss.; Cornacchia, Concorso di colpe e responsabilità per fatto altrui, cit., 483 ss.; Bisacci, Il principio di aidamento quale formula sintetica del giudizio negativo in ordine alla prevedibilità, in IP, 2009, 194 ss. 217 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea za degli interessi in pericolo, nella probabilità della violazione, nell’intenzionalità dell’assunzione del rischio e nelle altre circostanze relative al fatto»114. Va segnalato il caso del codice francese che distingue la faute pénale a seconda si tratti di “délit d’imprudence” o di una “contravention”: la “faute d’imprudence”, che non ha una deinizione generale nel nuovo Code pénal, si ricava dagli artt. 221-6, 222-19 e R. 625-2 e consiste in una «maldresse, imprudence, inattention, négligence ou manquement à une obligation de prudence ou de sécurité imposée par la loi ou le règlement». La “faute contraventionelle”, invece, non richiede un’imprudenza o una negligenza da parte del reo, ma sussiste per il solo fatto della violazione della prescrizione legale o regolamentare, così facendo dubitare della necessità del nesso psicologico tra fatto ed autore per tali tipi di contravvenzioni. La dottrina più attenta francese115, invero, ha sottolineato l’importanza del principio nulla poena sin culpa per ogni infrazione penale: le cause di giustiicazione, si è detto, non si limitano solo alle previsioni delittuose ed a quelle criminali, ma vanno estese anche a quelle contravvenzionali, sulla scorta di quanto stabilito dall’art. 121-3, co. 5, c.p. («Il n’y a point de contravention en cas de force majeure»), con l’efetto che «les dispositions sur les causes d’irresponsabilités ne sont pas limitées aux crimes et aux délits, mai font en meme temps disparaitre la contravention»116. In altri termini, la distinzione tra le forme di faute previste nella legislazione francese si evidenzia solo dal punto di vista della prova, nel senso che la “faute contraventionelle” non deve essere dimostrata dalla pubblica accusa, ma costituisce una vera e propria “presunzione”: «du moment que le fait matériel est établi, la faute contraventionelle existe; en prouvant le fait, on prouve par là meme la faute»117. È interessante, inine, la nozione di negligence che si trova nel codice penale estone118, almeno secondo la traduzione uiciale in lingua inglese, per cui il crite- 114. Ch.3, Section 7: «(1) The conduct of a person is negligent if he or she violates the duty to take care called for in the circumstances and required of him or her, even though he or she could have complied with it (negligence). (2) Whether or not negligence is to be deemed gross (gross negligence) is decided on the basis of an overall assessment. In the assessment, the signiicance of the duty to take care, the importance of the interests endangered and the probability of the violation, the deliberateness of the taking of the risk and other circumstances connected with the act and the perpetrator are taken into account. (3) An act which is deemed to have occurred more through accident than through negligence is not punishable». 115. Ex multis, nella letteratura francese, Légal, La responsabilité sans faute et le délits matériels, in La chambre criminelle et sa jurisprudence: recueil d’études en hommage à la mémoire de Maurice Patin [1895-1962], Président de la Chambre criminelle de la Cour de cassation, Paris, 1965, 129 ss.; Dalmasso, Le délits d’imprudence, Colloque de Droit e commerce, 2001, in Rj com., 2001, 18 ss.; Ponseille, La faute caractérisée en droit pénal, in RSC, 2003, 18 ss.; Verhaegen, L’élément fautif en matière de contravention aux réglements, in RCS, 1988, 289 ss. 116. Bouloc, Droit pénal general, Paris, 2013, 256. 117. Bouloc, Droit pénal general, cit., 261. 118. § 18 Karistusseadustik, Tahtlus: «(1) Tahtlus on kavatsetus, otsene ja kaudne tahtlus. (2) Isik paneb teo toime kavatsetult, kui ta seab eesmärgiks süüteokoosseisule vastava asjaolu teostamise ja teab, 218 colpevolezza rio colposo va distinto in “recklessness” e in “carelessness”, a seconda che l’agente preveda le conseguenze del suo comportamento contrario al divieto penale, ma è convinto, per negligenza o irresponsabilità, di riuscire ad evitare tali conseguenze (recklessness); oppure ignori le conseguenze del suo comportamento contrario al divieto penale, che comunque avrebbe dovuto prevedere ove fosse stato attento e coscienzioso (carelessness). Tale distinzione introduce l’argomento relativo ad una terza forma dell’elemento soggettivo. 6.2. La terza forma dell’elemento sogettivo negli ordinamenti stranieri. L’esperienza inglese: “recklessness”. La recklessness, che è una denominazione intraducibile in italiano (forse potrebbe essere intesa come “spregiudicatezza” o “sconsideratezza”119), nel codice estone, è considerata una forma della colpa, mentre, nella tradizione inglese, a cui si deve l’elaborazione, si colloca in una posizione intermedia tra il dolo intenzionale e la colpa senza previsione120, accostandosi, secondo la nostra grammatica criminale, al dolo eventuale, per la nozione più antica, ma anche alla colpa cosciente, alla stregua dell’evoluzione esegetica dell’esperienza giurisprudenziale anglosassone più recente121. Tale forma della mens rea ha ad oggetto l’assunzione di un rischio, inteso come sinonimo di «probabilità o possibilità di un’ofesa penalmente rilevante»122, ma non è paciico l’oggetto della relativa consapevolezza, dividendosi tra «coloro secondo i quali il soggetto è reckless solo se è consapevole di assumere un rischio et see saabub, või vähemalt peab seda võimalikuks. Isik paneb teo toime kavatsetult ka siis, kui ta kujutab endale ette, et süüteokoosseisule vastav asjaolu on eesmärgi saavutamise hädavajalik tingimus. (3) Isik paneb teo toime otsese tahtlusega, kui ta teab, et teostab süüteokoosseisule vastava asjaolu, ja tahab või vähemalt möönab seda. (4) Isik paneb teo toime kaudse tahtlusega, kui ta peab võimalikuks süüteokoosseisule vastava asjaolu saabumist ja möönab seda». Traduzione in inglese: § 18, Negligence: «(1) Negligence is recklessness or carelessness. (2) A person is deemed to have committed an act through recklessness if the person foresees the occurrence of circumstances which constitute the necessary elements of an ofence but, due to inattentiveness or irresponsibility, seeks to avoid the occurrence of such circumstances. (3) A person is deemed to have committed an act through carelessness if the person is unaware of the occurrence of a circumstance which constitutes a necessary element of an ofence but should have foreseen the occurrence of the circumstance in the case of attentive and conscientious performance». 119. Curi, Tertium datur, Milano, 2003, 47 ss. 120. Curi, Tertium datur, cit., 240 ss., deinisce la recklessness come un’endiadi tra dolo eventuale e colpa cosciente. Diversamente, Vinciguerra, Diritto penale inglese comparato, cit., 297, secondo cui «nella gerarchia degli states of mind, descrittivi delle varie forme in cui si può manifestare la volontà colpevole, la recklessness si trova, dunque, ad un livello intermedio fra l’intention e l’inadvertent negligence, cioè la colpa inconsapevole, che […] viene considerata esterna alla mens rea, per tradizione da lungo tempo accreditata nel sistema penale inglese». Si veda ancora, Fornasari, Menghini, Percorsi europei di diritto penale, cit., 84. 121. Fornasari, Menghini, Percorsi europei di diritto penale, cit., 82. 122. Vinciguerra, Diritto penale inglese comparato, cit., 299. 219 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea ingiustiicato (soggettivisti) e coloro i quali sostengono che egli è reckless se il rischio assunto è tale che qualsiasi soggetto ragionevole ne sarebbe stato consapevole (oggettivisti)»123. La recklessness soggettiva è stata per la prima volta teorizzata dal Kenny124 «come forma di colpevolezza caratteristica del soggetto che, avendo previsto la possibilità di produzione di una conseguenza dannosa tramite la tenuta di una determinata condotta, abbia ugualmente persistito in detta condotta, con assunzione consapevole del rischio delle relative conseguenze»125. Ad ogni modo, la recklessness soggettiva, poi, va distinta a seconda dell’ofesa o degli elementi della condotta, nel senso che «una persona è reckless riguardo all’ofesa conseguenza della propria condotta quando ne prevede il probabile o possibile veriicarsi, ma non la desidera né la prevede come praticamente certa, e noncurante di ciò agisce»; oppure «la recklessness rispetto agli elementi rilevanti della condotta signiica la consapevolezza della loro probabile o possibile esistenza, senza conoscere o sperare che lo siano e noncurante della quale il reo agisce egualmente»126. Tale ultima concezione soggettiva della recklessness divenne precedente vincolante con il leading case Cunnigham127. La recklessness soggettiva, dunque, copre un’area compresa, con i termini nella nostra grammatica, tra il dolo diretto, in relazione alla probabilità dell’ofesa, e del dolo eventuale, per la possibilità della stessa, con la conseguenza che è recklessness l’ipotesi in cui l’ofesa non è prevista come una conseguenza certa della condotta, ma solo possibile o anche probabile, oltre a quelle ove tale ofesa, seppur non prevista, è prevedibile da un uomo attento e 123. Law (the) Commission (n. 143), Criminal law, Codiication of the criminal law. A report to the Law Commission, 1985, 20. 124. Kenny, Outlines of criminal law, 1902, cit. da Allen, Textbook on criminal law, cit., 65. 125. Curi, Tertium datur, cit., 73. 126. Così, Vinciguerra, Diritto penale inglese comparato, cit., 299. Nella letteratura inglese, Smith, Hogan, Criminal law, V ed., 1983, 52. 127. Un soggetto aveva strappato dal muro della cantina di una casa disabitata un contatore del gas al ine di prelevare il denaro che si trovava ivi nascosto; tale azione aveva comportato una fuga di gas, il quale era stato inalato dalla vittima (suocera) stanziata nella abitazione adiacente, creando una situazione di pericolo di vita. In primo grado, l’imputato era stato condannato per aver agito maliciously, ma la Corte d’Appello giudica lo stesso imputato non colpevole, in quanto egli aveva agito non essendo a conoscenza del fatto (o non avendo rilettuto sul fatto) che il gas avrebbe potuto essere inalato da qualcuno: non era possibile, dunque, individuare una deliberata e consapevole assunzione di rischio. Per un’approfondita analisi del caso Cunnigham, cfr. Curi, Tertium datur, cit., 76; Vinciguerra, Diritto penale inglese comparato, cit., 299 ss., per cui «la cosiddetta Cunningham recklessness esige […] che nel caso concreto l’agente abbia previsto il rischio del veriicarsi dell’evento lesivo come conseguenza della propria condotta e, ciononostante, l’abbia intrapresa. La prova della colpevolezza in casi simili è aidata spesso ad una complicata analisi sull’atteggiamento interiore del reo per arrivare a stabilire se il rischio è stato compreso ed ignorato o se, invece, di tale rischio non vi è stato consapevolezza (ed in quest’ultimo caso non ci potrà essere prova di colpevolezza basata sulla recklessness)». 220 colpevolezza coscienzioso128. La recklessness oggettiva, invece, è stata formulata in due decisioni129 della House of Lords, rispettivamente in materia di incendio (caso Caldwell) e di omicidio dovuto a guida pericolosa d’un autoveicolo (caso Laurence), con cui venne afermata un’estensione della rilevanza penale della recklessness alle ipotesi in cui il soggetto avesse assunto un rischio evidente («obvious risk»), da valutare in base al parametro della «persona mediamente ragionevole» («reasonable man»). L’applicazione giurisprudenziale negli anni seguenti ha confermato l’interpretazione oggettiva, eventualmente aprendo alla valutazione di stati d’animo ipotetici a contenuto positivo130 («se ci avesse pensato, al reo sarebbe stato evidente il pericolo») o negativo131 («anche se ci avesse pensato, al reo il pericolo non sarebbe stato evidente»)132, anche se così si sottolinea un ittizio o meramente ipotetico accertamento della mens rea133. L’impostazione oggettiva della recklessness ha prestato il ianco a diverse critiche: anzitutto, come appena evidenziato, la circostanza di non considerare necessaria l’efettiva previsione del rischio determina una forma di imputazione soggettiva che si pone fuori dalla categoria della mens rea; in secondo luogo, dal momento che la valutazione dell’«obvious risk» viene prospettata con riguardo al parametro oggettivo del «reasonable man», la recklessness oggettiva tende a conferire rilevanza penale anche alla condotta del soggetto che avesse agito in una situazione di limitata capacità di intendere e volere, senza valutazione dell’efettiva possibilità di percezione del rischio da parte dell’agente concreto134; ed inine, parrebbe crearsi un vulnus per il caso in cui l’agente riconosca il rischio, ma conidi nella non realizzazione dell’ofesa, con l’efetto che la Caldwell recklessness includerebbe l’ipotesi del soggetto che agisca senza efettuazione di alcuna valutazione, ed escluderebbe le ipotesi di erronea valutazione del rischio. A tali censure, la giurisprudenza inglese ha tentato di rispondere in via interpretativa135, così, di volta in volta, allargando le maglie dell’oggettivismo, co128. Se l’elemento soggettivo prescritto per un reato è, dunque, l’intention, il reckless va assolto. Cfr. caso Moloney [1985] 1 All E.R. 1025, ampiamente esaminato da Vinciguerra, Diritto penale inglese comparato, cit., 300 ss. 129. Nella letteratura inglese, Syrota, Recklessness and Calwell, in CLR, 1981, 658 ss.; Cowley, The retreat from Morgan, in CLR, 1982, 198 ss.; Ashall, Manslaughter. The impact of Calwell, in CLR, 1984, 467 ss. Nella letteratura italiana, Curi, L’istituto della reckleness nel sistema penale inglese, in Riv. it. dir. proc. pen., 1998, 975 ss.; Id., Tertium datur, cit., 74 ss.; Vinciguerra, Diritto penale inglese comparato, cit., 304 ss. 130. R. v. Pig [1982] CLR 446. 131. Elliot [1983] 2 All E.R. 1005. 132. Così, Vinciguerra, Diritto penale inglese comparato, cit., 309. 133. Nello stesso senso, Vinciguerra, op. e loc. cit. 134. Curi, Tertium datur, cit., 83; Vinciguerra, Diritto penale inglese comparato, cit., 312. 135. R. v. Coles [1995] 1 Cr. App. R. 157; Stephen (Malcom R.) [1984] 79 Cr. App. R. 334; Hardie [1985] 1 W.L.R. 64; D.P.P. v. “K” [1990] CLR 321; R. v. Reid [1992] 3 All E.R. 6733 H.L. 221 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea minciando ad accettare che possano prospettarsi situazioni oggettive e situazioni soggettive estranee alla sfera di controllo dell’agente e tali da giustiicare «l’omessa considerazione del rischio e la conseguente esclusione della recklessness»136. Volendo trarre delle conclusioni con riguardo all’inquadramento dogmatico della recklessness, ipotizzando analogie con le categorie del dolo e della colpa, si può evidenziare che, in tale forma dell’imputazione soggettiva, ricadono situazioni corrispondenti al «dolo diretto (rappresentazione della probabilità dell’ofesa), di dolo eventuale (rappresentazione della possibilità dell’ofesa) e di colpa incosciente grave (non rappresentarsi un’ofesa ovvia per qualsiasi persona ragionevole), mentre ne resta fuori la situazione che qualiichiamo di colpa cosciente – caratterizzata, com’è noto, dalla rappresentazione della possibilità dell’ofesa accompagnata dal convincimento che essa non si veriicherà – e di colpa incosciente non grave»137. È ovvio che le situazioni di colpa cosciente e colpa incosciente lieve rientrano nell’ambito della negligence138. Attualmente, la recklessness oggettiva riguarda solo i reati contro il patrimonio139. 6.3. (segue) L’esperienza francese: “mise en danger délibérée de la personne d’autrui”. Anche nell’ambito dell’ordinamento francese è rilevabile una terza forma di imputazione soggettiva, sostanzialmente simile alla recklessness soggettiva140, che si pone tra il dolo e la colpa: la mise en danger délibérée de la personne d’autrui, prevista dall’art. 121-3, co. 2, Code pénal secondo cui: «Toutefois, lorsque la loi le prévoit, il y a délit en cas de mise en danger délibérée de la personne d’autrui». Si tratta, dunque, di un’imputazione eccezionale, alla stregua di quella colposa ed, invero, è prevista: 1. come circostanza aggravante per i delitti di omicidio colposo (art. 221-6, co. 2, Code pénal, poi, speciicata nell’art. 221-6-1, co. 2, n. 1, Code pénal); 2. con riguardo alle aggressioni involontarie all’integrità isica, qualora si provochi un’incapacità totale al lavoro superiore ai tre mesi (art. 222-19, co. 2, Code pénal, speciicata nell’art. 222-19-1, co. 2, n. 1, Code pénal), ovvero un’incapacità inferiore o uguale ai tre mesi (art. 222-20, co. 2, Code pénal); 3. con riferimento alla fattispecie denominata “des risques causés à autrui” (art. 223-1 Code pénal). In tutte tali ipotesi, l’elemento soggettivo del fatto tipico richiede che l’agente 136. Vinciguerra, Diritto penale inglese comparato, cit., 312, ove, in nota 113, si richiama la letteratura inglese, Field, Lynn, Capacity, recklessness and the House of Lords, in CLR, 1993, 127 ss.; Elliot, Endangering life by destroying or damaging property, in CLR, 1997, 383 ss. 137. Così Vinciguerra, Diritto penale inglese comparato, cit., 314. 138. Ampiamente, Vinciguerra, Diritto penale inglese comparato, cit., 317 ss. 139. Law (the) Commission (n. 143), Criminal law. Codiication of the criminal law. A report to the Law Commission, cit. 140. Vinciguerra, Diritto penale inglese comparato, cit., 303. 222 colpevolezza abbia commesso una «violation manifestement délibérée» di una «obligation particulière de sécurité ou de prudence» che sia imposta «par la loi ou le règlement». Il requisito della manifesta volontarietà della violazione va a speciicare la previsione di cui all’art. 121-3, co. 2, Code pénal, laddove già l’espressione «délibérée» sottolinea la necessità di una componente volitiva efettiva, lucida e pesata, tanto da escludere, ai ini dell’integrazione della forma di imputazione in parola, le mere disattenzioni141. Il requisito della «violation manifestement délibérée», poi, deve avere ad oggetto un obbligo di «sécurité» o di «prudence» previsto «par la loi ou le règlement»: in altri termini, l’obbligo violato non deve riguardare un mero dovere generale di prudenza o diligenza, come informatore e di indirizzo del comportamento da tenere sul luogo del lavoro o alla guida di un’autovettura (a titolo esempliicativo), ma deve riguardare la violazione di una disposizione di legge o di regolamento che indica delle regole oggettive, immediatamente percepibili e chiaramente applicabili, al ine di imporre un modello di condotta suicientemente circostanziato142. Relativamente alla collocazione dogmatica della mise en danger, la stessa non è univoca: le posizioni dottrinali, infatti, oscillano fra il considerarla una categoria aine al dolo eventuale143, ovvero una categoria più simile alla colpa grave, che non ad una forma attenuata di dolo144. La giurisprudenza francese ha evitato che tale forma intermedia d’imputazione soggettiva potesse essere «source d’arbitraire», afermando che «la faute constitutive de la mise en danger est caractérisée par la violation manifestement délibérée du risque particulier causé par son manquement»145. 141. Curi, Tertium datur, cit., 141. 142. Caron, Risque causés à autrui, in JurisClasseur, 11, 2004, §§ 7 ss. Nella letteratura francese, cfr. Malabat, Le délit de mise en danger, la lettre et l’esprit, in JCP G, 2000, I, 208; Mayaud, Des risques causés à autrui, applications et implications ou la naissance d’une jurisprudence, in Rev. sc. crim., 1995, 575; Id., Du caractère non intentionnel de la mise en danger délibérée de la personne d’autrui, in Rev. sc. crim., 1996, 651; Id., De la nature particulière de l’obligation violée dans la mise en danger, in Rev. sc. crim., 1997, 106; Id. Du lien de causalité dans le délit de risques causés à autrui, in Rev. sc. crim., 1999, 581; Id., Le délit de risques causés à autrui, infraction complexe, in Rev. sc. crim., 2001, 575; Id., L’identiication de l’obligation de sécurité, in Rev. sc. crim., 2002, 104; Pralus, Le délit de risques causés à autrui dans ses rapports avec les infractions voisines, in JCP G, 1995, I, 3830; Simola, L’article 223-1 du Code pénal ou quand autrui vous met en danger, in Gaz. pal., 2000, 1, doctr. 576; Roets, Rélexions sur les possibles implications du principe de précaution en droit pénal, in Rev. sc. crim., 2007, 251. 143. Bouloc, Droit pénal général, cit., 253. 144. Nella letteratura francese, Accomando, Guéry, Le délit de risque causé à autrui ou de la malncontre à l’art. 223-1 nouv.C. Pén., in RSC, 1994, 68 ss.; Defrance, La mise en danger imputable à un conducteur de véhicule, in Jurispr. auto, 1998, 268 ss.; Puech, De la mise en danger d’autrui, D. 1994, Chorn, 153 ss.; d’Hauteville, La gradation des fautes, in Rélexions sur le nouveau Code pénal, Pédone, 1995, 40 ss. Nella letteratura italiana, Curi, op. ult. cit., 124 ss.; Fornasari, Menghini, Percorsi europei di diritto penale, cit., 85. 145. C. Crim. 16 febbraio 1999, in Bull. crim., 24: Id., 9 marzo 1999, in Bull. crim., 34; Id., 16 ottobre 2007, in Bull. crim., 246; Id., 29 giugno 2010, in Bull. crim., 120. 223 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea In altri termini, la mise en danger assomma «in sé le caratteristiche del dolo eventuale e della colpa cosciente, sdrammatizzando una distinzione che, in molti casi dubbi, sembra presentare irrisolvibili margini di ambiguità»146. Tale forma d’imputazione, à la française, non è intenzionale, ma è volontaria147. «L’infraction n’est pas intentionnelle, parce que son auteur ne veut pas de la mort ou des blessures visés au titre des risques encourus. S’il a la volonté de la commettre, c’est seulement par référence à la violation de l’obligation de sécurité, mais sans doubler pareille volonté d’une détermination semblable dans le sens de la réalisation efective des dommages redoutés»148. Nel senso che il comportamento punito ha una base volontaria, ma senza l’intenzione od il desiderio di raggiungere il risultato previsto. Tale è, dunque, la realtà che consacra il Code Pénal nel criterio d’imputazione della «mise en danger»: la volontaria indiferenza ai valori sociali tutelati dall’ordinamento. 6.4. (segue) L’esperienza spagnola: “maniiesto desprecio por la vida de los demás”. Nell’esperienza spagnola, come detto, non è prevista una nozione normativa di dolo e colpa, con l’efetto che la relativa determinazione e delimitazione dei rispettivi contenuti, è rimessa all’elaborazione giurisprudenziale149. Anche in Spagna è dibattuta la linea di conine tra dolo eventuale e colpa cosciente, dando luogo a due tesi contrapposte, l’una, della c.d. teoria del consentimento e, l’altra, della c.d. teoria della probabilidad, come, del resto, emerso anche nel nostrano dibattito scientiico, in cui, da un lato, si valorizza una distinzione fra dolo eventuale e colpa cosciente basata sul proilo volitivo, dal momento che il consenso alla realizzazione del possibile evento dovrebbe conigurare, appunto, una presa di posizione della volontà150; dall’altro, si evidenzia, trascurando totalmente il proilo volitivo, unicamente la componente intellettiva151. 146. Così Fornasari, Menghini, Percorsi europei di diritto penale, cit., 85. 147. Salvage Ph., Droit pénal général, VII ed., Grenoble, 2010, 50, evidenzia che «la volonté c’est la faculté de se déterminer à l’action», mente «l’intention c’est la volonté orientée vers un but, ici vers l’accomplissement d’un acte interdit par la loi». La volontà, dunque, è un requisito dell’intenzione o, meglio, una sua condizione necessaria, ma non suiciente. 148. Mayaud, Risques causés à autrui, Répertoire de droit pénal et de procédure pénale, 2007 §§ 76 ss. 149. Curi, Tertium datur, cit., 163. 150. Nella manualistica, Antolisei, Manuale di diritto penale. Parte generale, XVI ed., Milano, 2003, 354 ss.; Fiandaca, E. Musco, Diritto penale, cit., 369; F. Mantovani, Diritto penale, cit., 312; Padovani, Diritto penale, cit., 206; Manna, Corso di diritto penale, cit., 346 ss.; Canestrari, Cornacchia, De Simone, Manuale di diritto penale, cit., 394 ss. Per un dettagliato quadro delle teorie volitive, Canestrari, Dolo eventuale e colpa cosciente. Ai conini tra dolo e colpa nella struttura delle tipologie delittuose, cit., 33 ss.; Cerquetti, Il dolo, cit., 180 ss. 151. Senza nessuna pretesa di completezza, nella dottrina italiana, Pulitanò, I conini del dolo. Una rilessione sulla moralità del diritto penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2013, 1, 22 ss.; Viganò, Il dolo eventuale nella giurisprudenza recente, in Il libro dell’anno del diritto 2013, Roma, 2013, 118 ss.; Id., 224 colpevolezza Ora, non essendo questa la sede per approfondire il dibattito sulla distinzione tra dolo eventuale e colpa cosciente152, qui appena evidenziato al solo ine di sottolineare che l’esperienza spagnola non si discosta da quella italiana anche in ordine alle indicazioni legislative sulla bipartizione tradizionale dei criteri d’imputazione soggettiva tra dolo e colpa (a cui nel nostro ordinamento si aggiunge la preterintenzione, ma solo come criterio misto), va osservato che, proprio su tali considerazioni, la previsione codicistica spagnola di cui all’art. 381 Còdigo penal non pare conigurare un terzo criterio di imputazione soggettiva, ma semmai una mera speciicazione, da parte del legislatore, della forma del dolo o della colpa, nella sua intensità o misura, che giustiica la previsione sanzionatoria più severa. Ferma restando la diicoltà dogmatica di collocazione di tale speciicazione nell’alveo di uno o dell’altro dei tradizionali criteri d’imputazione. In altri termini, non pare trattarsi di una deinizione di “parte generale”. “Fuga spericolata” in autostrada e incidente con esito letale: un’ipotesi di dolo eventuale?, in CM, 2005, 1, 73 ss.; Camaioni, Evanescenza del dolo eventuale, incapienza della colpa cosciente e divergenza tra voluto e realizzato, in Riv. it. dir. proc. pen., 2012, 2, 508 ss.; Canestrari, La distinzione tra dolo eventuale e colpa cosciente nei contesti a rischio base “consentito”, in www.penalecontemporaneo.it; Id., La deinizione legale del dolo: il problema del dolus eventualis, in Riv. it. dir. proc. pen., 2001, 3, 906 ss.; Id., Dolo eventuale e colpa cosciente. Ai conini tra dolo e colpa nella struttura delle tipologie delittuose, cit., passim; De Francesco, L’enigma del dolo eventuale, in Cass. pen., 2012, 5, 1974 ss.; Id., L’imputazione sogettiva del campo della sicurezza sul lavoro: tra personalismo e raforzamento della tutela, in LP, 2012, 2, 555 ss.; Id., Dolo eventuale, dolo di pericolo, colpa cosciente e “colpa grave” alla luce dei diversi modelli di incriminazione, in Cass. pen., 2009, 12, 5013 ss.; Id., Una categoria di frontiera: il dolo eventuale tra scienza, prassi giudiziaria e politica delle riforme, in Dir. pen. proc., 2009, 11, 1317 ss.; Fiandaca, Sfrecciare col “rosso” e provocare un incidente mortale: omicidio con dolo eventuale?, in FI, 2009, 7-8, 414 ss.; Pierdonati, Dolo e accertamento nelle fattispecie penali c.d. “pregnanti”, Napoli, 2012; Bartoli, La sentenza sul rogo della Thyssenkrupp: tra prassi consolidata e proili d’innovazione, in LP, 2012, 2, 529 ss.; Id., Il dolo eventuale sbarca anche nell’attività d’impresa, in Dir. pen. proc., 2012, 6, 703 ss.; Id., Brevi considerazioni in tema di prova del dolo eventuale, in Dir. pen. proc. - Speciale dolo e colpa negli incidenti stradali, 2011, 29 ss.; Forte, Gli incerti conini del dolo e della colpa: un caso problematico in tema di circolazione stradale, in La Corte d’Assise, 2011, 1, 291 ss.; Id., Morte come conseguenza di contagio da HIV: proili sogettivi, in FI, 2001, II, 290 ss.; Id., Dolo eventuale tra divieto di interpretazione analogica ed incostituzionalità, in Riv. it. dir. proc. pen., 2000, 2, 820 ss.; Id., Ai conini tra dolo e colpa: dolo eventuale o colpa cosciente?, in Riv. it. dir. proc. pen., 1999, 1, 228 ss.; De Vero, Dolo eventuale, colpa cosciente e costruzione “separata” dei tipi criminosi, in Studi in onore di Mario Romano, Milano, 2011, II, 883 ss.; Eusebi, La prevenzione dell’evento non voluto. Elementi per una rivisitazione dogmatica dell’illecito colposo e del dolo eventuale, in Studi in onore di Mario Romano, Milano, 2011, II, 963 ss.; Id., Appunti sul conine fra dolo e colpa nella teoria del reato, in Riv. it. dir. proc. pen., 2000, 3, 1053 ss.; Iacoviello, Processo di parti e prova del dolo, in Criminalia, 2010, 5, 463 ss.; Cerquetti, La rappresentazione e la volontà dell’evento nel dolo, Torino, 2004; Veneziani, Motivi e colpevolezza, Torino, 2000; Pedrazzi, Tramonto del dolo?, in Riv. it. dir. proc. pen., 2000, 4, 1265 ss.; Prosdocimi, Dolus eventualis. Il dolo eventuale nella struttura delle fattispecie penali, Milano, 1993; Hassemer, Caratteristiche del dolo, in IP, 1991, 3, 481 ss. Per un excursus sulle teorie del dolo eventuale, con interessanti spunti critici parametrati sul principio di stretta legalità, cfr. Manna, Colpa cosciente e dolo eventuale, cit., 216 ss. 152. Su cui, con la necessaria sintesi, infra § 7. 225 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea Tale speciicazione dell’elemento soggettivo, che, come afermato, evidenzia solo una diversa forma di dolo o colpa, è prevista nell’ambito della disciplina dei reati derivanti dalla circolazione stradale ed, in particolare, colui che conduce «un vehículo a motor o un ciclomotor a velocidad superior en sesenta kilómetros por hora en vía urbana o en ochenta kilómetros por hora en vía interurbana a la permitida reglamentariamente» oppure sotto l’inluenza «de drogas tóxicas, estupefacientes, sustancias psicotrópicas o de bebidas alcohólicas» (art. 379 c.p.), che, secondo la previsione di cui all’art. 380 c.p. vanno considerate condotte di guida «con temeridad maniiesta y pusiere en concreto peligro la vida o la integridad de las personas», sarà punito più severamente se mette in atto tali condotte «con maniiesto desprecio por la vida de los demás». In breve: l’art. 381 c.p. punisce chi, con manifesto disprezzo per la vita altrui, conduce un veicolo o un ciclomotore con evidente imprudenza, mettendo in pericolo la vita o l’integrità delle persone, ovvero «a velocità superiore a 60 km/h su strada urbana o a 80 km/h su strada extraurbana», e quella «con un tasso alcolico espirato nell’aria superiore a 0,60 milligrammi/litro o con un tasso alcolico nel sangue superiore a 1,2 grammi/litro». Si tratta di un reato di pericolo astratto. Il termine “desprecio” ha un’evidente connotazione soggettiva, avvicinandosi, almeno terminologicamente (ove si possa tradurre così) alla recklessness inglese, e sta ad indicare che la condotta di guida abbia determinato un pericolo “general” per la sicurezza collettiva. L’intervento del legislatore del 2007 ha ampliato la rilevanza penale di tale caratterizzazione soggettiva della condotta, laddove ha modiicato con l’espressione “manifestio desprecio”, quella prevista dalla previgente disposizione di cui all’art. 384 c.p., di “consciente desprecio”153, che, facendo 153. Nella sentenza dell’Audiencia Provincial Castéllon, 18 maggio 2010 n. 182, con riferimento alla previsione antivigente dell’art. 384 c.p., si legge: «Los elementos del tipo de delito deinido en el artículo 384, párrafo primero, nos dice la STS, Sala 2.a, Núm. 1209/2009, de 4 Dic. [Rec. 10335/2005] son los siguientes: 1) Conducción de un vehículo a motor entre los cuales se encuentran los llamados ciclomotores. Se trata de un delito de los conocidos como de propia mano, esto es, de aquellos de los cuales solo pueden ser autores propiamente dichos quienes realizan una determinada acción corporal o personal, sin perjuicio de que puedan existir partícipes en sentido amplio a título de inductores, cooperadores necesarios o cómplices (no coautores ni autores mediatos), lo mismo que ocurre con los conocidos como delitos especiales propios (por ejemplo, los delitos genuinos de los funcionarios públicos, como la prevaricación). El autor en sentido estricto ha de ser quien conduzca un vehículo a motor o un ciclomotor. 2) Hay que conducir el vehículo con temeridad maniiesta, es decir, la temeridad ha de estar acreditada. Temeridad signiica imprudencia en grado extremo, pero también osadía, atrevimiento, audacia, irrelexión, términos compatibles con el llamado dolo eventual. Es lo contrario a la prudencia o la sensatez. 3) Tiene que ponerse en concreto peligro la vida o la integridad de las personas. Se trata de un delito de peligro concreto, esto es, de una infracción en la que ha de acreditarse que existieron personas respecto de las cuales hubo un riesgo para su integridad física, incluso para su vida; personas concretas aunque pudieran no encontrarse identiicadas. 4) El último elemento se encuentra en el texto del propio párrafo primero del art. 384, que conigura un elemento subjetivo del tipo, además de dolo, cuando nos dice que ha de obrarse “con consciente desprecio por la vida de los demás”. Se requiere que el comportamiento del conductor del vehículo haya originado un peligro general, esto es, un peligro que aunque ha de ser concreto en los términos expuestos, ha de afectar a la seguridad colectiva». 226 colpevolezza riferimento, dunque, alla consapevolezza del “disprezzo” imponeva un’indagine sull’efettiva accettazione di tale connotazione negativa per la vita altrui, da parte dell’agente, come probabilità del veriicarsi dell’ofesa (dolo diretto). Oggi, invece, tale “disprezzo” deve essere solo evidente (“manifestio”), con ciò potendosi ipotizzare la suicienza dell’accettazione da parte dell’agente anche solo possibile dell’ofesa alla collettività, richiedendo, pur sempre, la relativa prova. In altri termini, la modiica del 2007 sembrerebbe, da un lato, aver ampliato la rilevanza penale della condotta aggravata di cui all’art. 381 c.p., anche a situazioni di mera accettazione della possibilità del veriicarsi di un pericolo per la sicurezza collettiva (dolo eventuale) e, dall’altro, evidenziato comunque la necessità della prova di tale aspetto soggettivo, non potendo presumersi nella sola temerarietà delle condotte di guida qualiicate154. 7. Annotazioni riepilogative e prospettive de iure condendo. La problematica del dolo eventuale come terza forma di colpevolezza e la restrizione possibile dell’elemento sogettivo ino alla colpa grave. Il principio “nullum crimen sine culpa” appartiene alle tradizioni di tutti gli ordinamenti europei ed il suo valore sovranazionale è stato già tracciato dalla Corte di Strasburgo, anche se, ad oggi, non ha assunto il carattere della generalità, alla luce della successiva e recente lettura dell’art. 7 Convenzione EDU, che ammetterebbe anche una forma di responsabilità penale priva del nesso psichico tra autore e fatto. Tale nesso non assorbe il signiicato evolutivo della colpevolezza, ma ne va a costituire solo un rilesso, in quanto la colpevolezza è personalità della responsabilità penale ediicata sul cittadino come membro di una comunità che gli garantisce dei diritti e delle libertà, ma che pretende dallo stesso il dovere giuridico di controllare ogni rischio che rientra nella sua sfera di dominabilità, meglio deinita di competenza. In tale maniera, la colpevolezza è criterio di attribuibilità del fatto al suo autore, ovvero a quel cittadino competente alla gestione di quella determinata situazione (dominabilità, appunto) perché, pur essendo stato posto in grado di conoscere i limiti entro cui poter esercitare i suoi diritti e le sue libertà (conoscibilità), si è autodeterminato a violare il divieto penale (libertà). Il giudizio di rimproverabilità al cittadino, efettuato utilizzando i requisiti del fatto tipico, come criteri di valutazione, alla stregua di quelli indicati dall’art. 133 c.p., deve essere diretto a selezionare un dialogo rieducativo con il reo, che non escluda la vittima del reato. A livello europeo, si è evidenziata l’iniziativa del Parlamento volta ad indicare un indirizzo comune per il futuro del diritto penale che, come detto, valorizzi 154. Fra i tanti nella dottrina spagnola, Ramòn Garcìa, La nueva polìtica criminal de la seguridad vial. Relexiones a propósito de la LO 15/2007, de 30 de noviembre, y del Proyecto de Reforma del Código Penal, in Revista Electrónica de Ciencia Penal y Criminología, 2007, 9-11. 227 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea il principio di colpevolezza e limiti la rilevanza penale di alcuni comportamenti solo se imputabili a titolo di dolo o, in casi eccezionali, di colpa grave. La maggior parte degli ordinamenti nazionali ruota intorno alla bipartizione dell’elemento soggettivo tra dolo e colpa, anche se le più recenti esperienze tendono a fornire una nozione normativa di colpa più ristretta rispetto a quella nostrana, andando ad escludere almeno la colpa generica lieve, mentre rispetto al dolo si è osservata l’attenzione degli ordinamenti più giovani a deinire positivamente anche la problematica igura del dolo eventuale, come quella minima e generale che deve avere ad oggetto il fatto tipico, senza dimenticare quelle più intense (dolo intenzionale e dolo diretto). Poi, si sono analizzate le forme intermedie tra dolo e colpa previste negli ordinamenti inglese (“recklessness”), francese (“mise en danger délibérée de la personne d’autrui”) ed, inine, spagnolo (“maniiesto desprecio por la vida de los demás”), osservando che, in relazione a tale ultima esperienza, la previsione solo nella parte speciale non consente, a diferenza degli ordinamenti inglese e francese, di ammetterne la relativa generalizzazione e, dunque, considerarla, anch’essa, come una forma autonoma di criterio d’imputazione soggettiva. A tal proposito, in questa sede conclusiva, merita un approfondimento l’ipotesi di introdurre anche nel nostro ordinamento una terza forma della colpevolezza, intermedia tra dolo e colpa, espressiva di una rimproverabilità per volontaria assunzione di rischio, e conglobante in sé gli elementi propri delle attuali categorie del dolo eventuale e della colpa cosciente. Appuntando, inine, la rilessione sull’indirizzo soggettivo eurounionista della colpa grave come limite colpevole all’opzione penale ed una possibile (o probabile) implementazione nel nostro ordinamento. Innanzitutto, l’esigenza di una tale prospettiva muove dall’osservazione della casistica giurisprudenziale in tema di applicazione del dolo eventuale o della colpa cosciente155, che, di regola, propende per la sussunzione più severa nella prima fase processuale, laddove la ricerca del consenso anche della decisione giudiziale è più inluenzata dall’opinione pubblica, salvo essere, poi, ribaltata nella fase d’appello, ripiegando sull’ipotesi della colpa cosciente, che trova conferma in cassazione156. Questa considerazione fenomenologica evidenzia altresì che, nella prima fase del processo, in cui trova, di regola, sfogo l’ipotesi volontaria della responsabilità penale, la funzione essenzialmente retributiva e preventiva (generale) della pena ofre soddisfazione e garanzia di ripristino della sensazione di sicurezza sociale per la vittima e la collettività, ma esprime anche l’opposta 155. Per un’approfondita ed attenta analisi della casistica giurisprudenziale, di recente, Aimi, Dolo eventuale e colpa cosciente al banco di prova della casistica. Analisi e critica della giurisprudenza in materia, in Dir. pen. cont. - Riv. trim., 2013, 3, 301 ss. 156. Manna, Dolo eventuale e colpa cosciente, cit., 220. 228 colpevolezza percezione di ingiustizia e sproporzione per il reo. Nella fase di appello, tali sentimenti si ribaltano, poiché la soluzione colposa (seppur di grado massimo) che fa degradare il fatto nell’ipotesi punitiva meno severa, è avversata dalla vittima e considerata, invece, afermazione di garanzia della giustizia penale da parte dell’imputato. Il discremen, dunque, è la diferenza nella risposta punitiva, a seconda si sussuma il fatto concreto nella previsione dolosa o in quella colposa, in relazione a situazioni che hanno ad oggetto la vita umana o, comunque, l’integrità psico-isica dell’individuo, in cui il reo ha agito con grave supericialità. Si pensi, a titolo esempliicativo, agli incidenti provocati dalla grave violazione delle norme che regolano la circolazione stradale (guida in stato di ebbrezza o sotto l’inluenza di sostanze stupefacenti, velocità eccessiva all’interno di un centro urbano, passaggio con il semaforo rosso, etc.)157. Ancora, il contagio del partner sano da parte del corriere HIV che, consapevole del suo stato, pratica comunque un rapporto sessuale non protetto158. Più recentemente, l’infortunio mortale sul lavoro per gravi comportamenti omissivi nella predisposizione delle cautele antinfortunistiche159. 157. Nella giurisprudenza di merito, per l’ipotesi del dolo eventuale, tra le numerose, Trib. Trani 31 gennaio 2008; Trib. Napoli, Sez. IX, 12 gennaio 2011; Trib. Torino, Sez. II, 26 settembre 2011; Ass. App. Milano, Sez. I, 12 marzo 2012. Nella giurisprudenza di legittimità, per l’ipotesi di colpa cosciente, Cass. Pen., Sez. IV, 25 marzo 2009, n. 13083; Cass. Pen., Sez. IV, 27 dicembre 2010, n. 45395; Cass. Pen., Sez. IV, 9 ottobre 2012, n. 39898. 158. Per l’applicazione del dolo eventuale, Trib. Cremona, 14 ottobre 1999; Trib. Bologna, Sez. I, 13 aprile 2006; Trib. Savona, 6 dicembre 2007; Cass. Pen., Sez. V, 1 dicembre 2008, n. 44712; Cass. Pen., Sez. V, 26 marzo 2009, n. 13388; Cass. Pen., Sez. V, 3 ottobre 2012, n. 38388. Per l’opzione della colpa con previsione, Ass. App. Brescia, 26 settembre 2000; Cass. Pen., Sez. I, 3 agosto 2001, n. 30425. In dottrina, Aimi, Dolo eventuale e colpa cosciente, cit., 313, osserva che «la colpa cosciente sia stata riconosciuta – ad esito dei tre gradi di giudizio – nel solo caso in cui, a seguito del contagio, si era veriicata la morte del partner dell’imputato e, dunque, all’imputato era contestato il delitto di omicidio volontario, anziché il meno grave delitto di lesioni personali». 159. Ass. Torino, Sez. II, 14 novembre 2011, n. 31095. Ad esito del secondo grado di giudizio, la Corte di Assise di Appello di Torino ha invece afermato la sussistenza della mera colpa cosciente, cfr. Ass. App. Torino, Sez. I, 23 maggio 2013, n. 6, con nota di Zirulia, ThyssenKrupp: confermate in appello le condanne, ma il dolo eventuale non rege), in www.penalecontemporaneo.it. Tali pronunce sono state ampiamente commentate, cfr. Bacchini, Le motivazioni della “sentenza Thyssen”. I principali spunti di rilessione per una nuova interpretazione applicativa e punitiva della normativa in materia di sicurezza sul lavoro, in www.hyperedizioni.com; Bartoli, Il dolo eventuale sbarca anche nell’attività d’impresa, in Dir. pen. proc., 2012, 702 ss.; Bellina, Infortuni sul lavoro: la giurisprudenza penale alla “svolta” del dolo eventuale?, in Il lavoro nella giurisprudenza, 2012, 152 ss.; Marra, La prevenzione degli infortuni sul lavoro e il caso Thyssenkrupp. I limiti penalistici delle decisioni rischiose nella prospettiva delle regole per un lavoro sicuro, in I working papers di Olympus, 2012, 8, 1 ss.; Pascucci, L’individuazione delle posizioni di garanzia nelle società di capitali dopo la sentenza “ThyssenKrupp”: dialoghi con la giurisprudenza, in I working papers di Olympus, 2012, 10, 1 ss.; Piva, “Tesi” e “antitesi” sul dolo eventuale nel caso ThyssenKrupp, in Dir. pen. cont. - Riv. trim., 2013, 2, 204 ss.; Raffaele, La seconda vita del dolo eventuale tra rischio, tipicità e colpevolezza. Rilessioni a margine del caso Thyssen, in Riv. it. dir. proc. pen., 229 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea Non volendo essere questa la sede per afrontare la problematica della deinizione del dolo eventuale, è suiciente limitarsi ad evidenziare, per quanto interessa lo sviluppo delle rilessioni, che, nella lettura giurisprudenziale domestica maggioritaria160, non senza un’incoerenza dei criteri per la sussunzione del fatto concreto nella fattispecie astratta conformemente letta161, è suiciente, ma necessaria, ad integrare la forma del dolo eventuale «la sola previsione [rappresentazione, n.d.r.] dell’evento come possibile da parte dell’agente»162, che degrada in colpa cosciente «esclusivamente qualora l’agente abbia raggiunto la convinzione che l’evento non si sarebbe veriicato»163. Tale lettura ermeneutica pare discostarsi dalla littera legis e, dunque, entra in aperto conlitto con il principio di legalità164, laddove si osservi che il criterio della volontà, requisito indefettibile del dolo, e quello dell’accettazione del rischio, non paiono avere una sostanziale identità concettuale165: «non ci si può non rendere conto come il criterio dell’accettazione sia sì un criterio analogo a quello della volontà, ma ontologicamente e sostanzialmente diverso, di cui ha in comune, non a caso, soltanto l’identità di ratio legis, tanto da dar luogo ad una inammissibile forma di analogia c.d. esterna»166. Alle stesse conclusioni, del resto, si giunge appuntando l’attenzione non sulla nozione 2012, 1077 ss.; De Francesco, L’enigma del dolo eventuale, in Cass. pen., 2012, 1974 ss.; Viganò, Il dolo eventuale nella giurisprudenza recente, in Libro dell’anno del diritto 2013 Treccani, reperibile su www. treccani.it. Da ultimo, di Biase, Thyssenkrupp: verso la resa dei conti tra due opposte concezioni di dolo eventuale?, in www.penalecontemporaneo.it. 160. La igura del dolo eventuale è di creazione pretoria, Manna, Colpa cosciente e dolo eventuale, cit., 206. 161. Segnalata da Aimi, Dolo eventuale e colpa cosciente al banco di prova della casistica, cit., 322. 162. Aimi, op. e loc. ult. cit. 163. Aimi, op. e loc. ult. cit., in cui l’A. segnala l’esistenza anche di una «corrente giurisprudenziale minoritaria, che àncora il dolo eventuale non tanto alla (sola) avvenuta rappresentazione dell’evento come possibile, quanto all’efettuazione, da parte dell’imputato, di un vero e proprio bilanciamento tra l’interesse perseguito e il bene giuridico eventualmente leso, conclusosi con la scelta di sacriicare quest’ultimo sull’altare degli interessi dell’agente, e che condanna a titolo di colpa cosciente qualora l’efettuazione di questa “opzione” non sia dimostrata o non appaia credibile». 164. Prosdocimi, Dolus eventualis, cit., 28 ss.; Forte, Ai conini tra dolo e colpa, cit., 254; Manna, Colpa cosciente e dolo eventuale, cit., 207 ss.; Aimi, Dolo eventuale e colpa cosciente al banco di prova della casistica, cit., 327. 165. Sulla normale rilevanza del dubbio per integrare la forma del dolo eventuale, fra i tanti, Canestrari, La struttura sogettiva della fattispecie, cit., 95, con ampi richiami giurisprudenziali. 166. Manna, Colpa cosciente e dolo eventuale, cit., 209, in cui il chiaro Maestro, dopo aver illustrato la tesi che distingue l’analogia interna, che riguarderebbe l’attività interpretativa del giudice nei limiti della littera legis, da quella esterna, che supera tali limiti imposti dall’art. 14 disp. prel. c.c., osserva che la sostituzione del criterio della volontà, con quello dell’accettazione del rischio costituisce un’inammissibile forma di analogia esterna. Nello stesso senso, Cerquetti, La rappresentazione e la volontà dell’evento nel dolo, Torino, 2004, 306 ss.; Fiandaca, Appunti sul “pluralismo” dei modelli e delle categorie del diritto penale contemporaneo, in La Corte d’Assise, 2011, 59 ss.; da ultimo, Aimi, Dolo eventuale e colpa cosciente al banco di prova della casistica, cit., 325 ss. 230 colpevolezza codicistica di dolo, ma su quella di colpa cosciente, come noto, unica aggravante comune dei delitti colposi, che, all’art. 61, co. 1, n. 3, c.p., viene deinita come quella condotta perpetrata «nonostante la previsione dell’evento», con la logica evidenza «che detta previsione deve sussistere al momento della condotta, e non deve essere stata sostituita da una non-previsione o contro-previsione, come quella implicita nella rimozione del dubbio», secondo la deinizione maggioritaria della colpa cosciente per diferenziarla dal dolo eventuale167, proprio in quanto la preposizione «“nonostante” sottolinea eicacemente il permanere di un fattoreostacolo che dovrebbe frapporsi alla condotta»168. Anzi, nelle esperienze europee più giovani, del resto, il legislatore si è preoccupato espressamente di precisare che il dolo può essere diretto o indiretto (eventuale), fornendo una nozione di ciascuna ipotesi, in cui, sostanzialmente, si ha dolo eventuale allorquando l’agente è in dubbio e, comunque, accetta il rischio di commettere il fatto delittuoso previsto169, a cui corrisponde la normatizzazione della colpa cosciente (advertent negligence) consistente nella contro-previsione che il fatto non si sarebbe veriicato per supericialità o per le ritenute capacità dello stesso agente170. Ma permane il problema, da un lato, della proporzione tra il fatto di reato e la risposta punitiva e, dall’altro, della concreta distinzione tra dolo e colpa, con riguardo agli aspetti processuali di prova del nesso psichico. L’introduzione di una terza forma di criterio soggettivo, intermedio tra dolo e colpa, alla stregua della recklessness anglosassone o della mise en danger delibérée de la personne d’autrui francese, sostenuta da una parte della dottrina171, certamente consentirebbe di parametrare la risposta punitiva dello Stato all’efettiva supericialità della condotta posta in essere dall’agente, con la previsione speciica dei fatti di reato puniti ove integrati da tale terza forma (come oggi accade 167. Per l’impostazione tradizionale, Antolisei, Manuale di diritto penale, cit., 353; Contento, Corso di diritto penale. Volume secondo, III ed., Bari, 2004, 122; M. Romano, Commentario, cit., 443 Padovani, Diritto penale, IX ed., Milano, 2008, 202,203; F. Mantovani, Diritto penale, cit., 367. 168. Prosdocimi, Dolus eventualis, cit., 28. Così anche Forte, Ai conini tra dolo e colpa, cit., 254. Contra, Gallo, (voce) Dolo, cit., 792 nt. 118. Nella manualistica critica nei confronti dell’elaborazione tradizionale della tesi dell’accettazione del rischio, cfr. Manna, Corso di diritto penale, cit., 325 ss.; C. Fiore, S. Fiore, Diritto penale, cit., 257 ss.; Fiandaca, Musco, Diritto penale, cit., 367 ss.; Cadoppi, Veneziani, Elementi di diritto penale. Parte generale, IV ed., Padova, 2010, 295 ss.; Pulitanò, Diritto penale, IV ed., Torino, 2011, 314 ss.; Palazzo, Corso di diritto penale, cit., 317 ss.; Marinucci, Dolcini, Manuale di diritto penale, cit., 299 ss. Un’impostazione singolare ove si rinuncia a distinguere dolo eventuale e colpa cosciente sul piano strettamente psicologico, De Vero, Corso di diritto penale I, cit., 492 ss. 169. In questo senso, a titolo esempliicativo, art. 44, co. 3, c.p. croato, art. 15, co. 3, c.p. bosniaco, art. 16, co. 4, c.p. estone. 170. Sempre a titolo esempliicativo, art. 45, co. 2, c.p. croato, art. 16, co. 2, c.p. bosniaco. 171. Curi, Tertium datur, cit.; Manna, Alla ricerca di una terza forma, tra dolo e colpa, in Cadoppi (a cura di), Verso un codice penale modello per l’Europa. Ofensività e colpevolezza, Padova, 2002, 239 ss. 231 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea per il delitti colposi). In un sistema solidaristico, infatti, come quello voluto dalla Carta repubblicana e fondato sul principio personalistico di cui all’art. 2 Cost., come già descritto, non può essere tollerata una gestione supericiale (intesa come gravemente negligente) della propria sfera di competenza, che, di conseguenza, comporta l’efettiva e concreta messa in pericolo delle altrui libertà, se non proprio dell’essere umano, con l’efetto che, per tal via, parrebbe giustiicata una risposta più severa dello Stato nei confronti del reckless (per la dirla à la anglosassone). Anche dal punto di vista della colpevolezza, il rimprovero risocializzante avrebbe più eicacia, laddove l’agente possa, comunque, considerare proporzionata la reazione penale all’efettivo apporto psicologico alla condotta posta in essere e, poi, la vittima consideri equa la pena ai ini del ripristino della sicurezza collettiva. Se, dunque, è condivisibile l’esigenza di introdurre una terza forma di criterio soggettivo, inalizzato ad individuare una serie di reati puniti anche a titolo “intermedio”, che non sia dolo, ma neanche mera colpa, resterebbe, comunque, da deinire la nozione di tale ulteriore forma, in maniera tale da distinguerla nettamente dalle altre due. Si potrebbe pensare alla positivizzazione del dolo eventuale, sostituendo all’aspetto volitivo (puro) indicato dall’art. 43 c.p., quello dell’accettazione del veriicarsi dell’evento, accompagnato dall’indicazione speciica dei fatti puniti anche con una tale forma meno intensa di dolo, quali tutti i reati contro la vita o l’integrità psico-isica della persona, come, del resto, suggeriscono le esperienze inglese, francese e spagnola. Eppure non si è convinti che tanto sarebbe suiciente a risolvere l’intollerabile incertezza del diritto172, in quanto il problema dell’applicazione della forma intermedia tra dolo e colpa non è la deinizione positiva: di tanto, si ha contezza nell’esame della casistica giurisprudenziale, che, di regola, premette una deinizione comune del dolo eventuale (e della colpa cosciente), salvo poi optare per l’uno, anziché per l’altra, e viceversa. La questione, in efetti, si pone in ordine ai criteri per l’individuazione della forma psichica che ha assistito la condotta dell’agente: in altri termini, si tratta di individuare gli indici dai quali desumere la forma dell’elemento psicologico, che, come noto, sfugge alla prova diretta «trattandosi di una valutazione avente ad oggetto una fenomenologia prettamente interiore e soggettiva»173. Dovendosi abiurare le presunzioni che farebbero scivolare nel fenomeno degenerativo del dolus in re ipsa, è paciica l’impossibilità (per contrasto con il principio di colpevolezza) per il legislatore di indicare alcuni 172. di Biase, Thyssenkrupp: verso la resa dei conti tra due opposte concezioni di dolo eventuale?, cit., 6 del dattiloscritto. 173. Così Canestrari, La struttura sogettiva della fattispecie, cit., 124. Sull’argomento, fra i più recenti, Astorina, Spunti per una lettura internazionalistica del dolo e dell’imputabilità, in Riv. it. dir. proc. pen., 2010, 1849 ss.; S. Fiore, Il dolo, in De Francesco, Piemontese, Venafro (a cura di), La prova dei fatti psichici, Torino, 2010, 53 ss. 232 colpevolezza comportamenti come indici rilevatori di un determinato atteggiamento psichico che comporterebbero un’ulteriore illegittima «prassi di svuotamento del contenuto psicologico o di normativizzazione del dolo, sul cui sfondo, l’esito positivo del giudizio di colpevolezza passa attraverso il ricorso a sempliicazioni probatorie o all’allargamento “abusivo” del concetto di dolo»174. Da ciò, sarebbe più agevole considerare l’accettazione del rischio come un’ipotesi di colpa grave: «se, infatti, l’agente prevede come possibile il veriicarsi di un determinato evento e agisce lo stesso, accettandone il rischio, ciò non può che signiicare che ha violato una fondamentale regola cautelare, che non poteva non imporgli, date le premesse, di rimanere inerte o, comunque, di agire diversamente»175. In tal maniera, sarebbe possibile per il legislatore selezionare alcune regole cautelari la cui violazione determinerebbe una reazione punitiva più severa, così issando la c.d. misura ogettiva della colpa, ferma restando la necessità di indagare, di volta in volta, «se l’agente reale, che ha agito in concreto, era in grado (secondo il suo personale potere di agire) di impersonare il tipo ideale di agente collocato nella situazione concreta»176 (c.d. misura sogettiva della colpa)177. Inoltre, il legislatore potrebbe individuare i criteri oggettivi di gravità della condotta colposa, senza con ciò intaccare la misura personalistica della colpa, che rimarrebbe sempre da accertare in concreto. Si tratta, in altri termini, di tipizzare delle ipotesi che assumono particolare rilevanza penale, quando la misura della divergenza tra la condotta tenuta dall’agente ed il modello di comportamento a contenuto preventivo prescritto dalla regola cautelare doverosa per il soggetto è di grado oggettivamente elevato. Si pensi, ad esempio, all’ipotesi di guida in stato di ebbrezza o sotto l’efetto di sostanze stupefacenti, o ancora, sempre nell’ambito dei reati conseguenti ad incidenti stradali, l’ipotesi di attraversamento del semaforo rosso o il viaggiare, in un centro urbano, ad una velocità superiore di molto al limite imposto. Si tratterebbe di introdurre nel nostro ordinamento ipotesi simili a quelle previste dal legislatore spagnolo, emendando, però, la dei- 174. Canestrari, La struttura sogettiva della fattispecie, cit., 125, in cui, comunque, è interessante segnalare la deinizione di dolo eventuale suggerita, in una prospettiva de lege ferenda: «Si ha dolo eventuale allorquando l’agente si sia rappresentata concretamente la realizzazione del fatto tipico come conseguenza probabile della propria condotta e ne accetta la veriicazione. Il rischio di realizzazione del fatto tipico deve essere non consentito e di natura tale che la sua assunzione non può neppure essere presa in considerazione da una persona coscienziosa ed avveduta del circolo di rapporti cui appartiene l’agente, posta nella situazione in cui si trovava il soggetto concreto ed in possesso delle sue conoscenze e capacità». 175. Manna, Colpa cosciente e dolo eventuale, cit., 209. Nello stesso senso, Eusebi, Appunti sul conine tra dolo e colpa nella teoria del reato, in Riv. it. dir. proc. pen., 2000, 1089 ss.; Forte, Ai conini tra dolo e colpa: dolo eventuale e colpa cosciente?, cit., 279 ss.; Pagliaro, Principi di diritto penale, cit., 280. 176. Canestrari, La struttura sogettiva della fattispecie, cit., 166. 177. Ampiamente, Canestrari, Cornacchia, De Simone, Manuale di diritto penale, cit., 445. 233 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea nizione di dolo contenuta nell’art. 43 c.p. e, dunque, restringendone la nozione alle sole ipotesi di dolo intenzionale e dolo diretto. In questa direzione, dando attuazione all’indirizzo europeo che vuole restringere l’area del penalmente rilevante, si potrebbero escludere dalla punibilità tutti quei comportamenti con un nesso psicologico quasi-oggettivo (colpa incosciente lieve), così da elevare il grado della colpa da criterio di commisurazione della pena, a quello di selezione del penalmente rilevante, alla stregua di quanto effettuato dall’art. 3, co. 1, l. 189/2012, nell’ambito della responsabilità penale medica178 (anche se solo con riguardo alle ipotesi di imperizia). Per tal via, i criteri di graduazione della colpa e, quindi, di distinzione tra colpa lieve e colpa grave individuati, tradizionalmente, (a) nella misura della divergenza tra la condotta efettivamente tenuta e quella che era da attendersi sulla base della norma cautelare cui ci si doveva attenere; (b) nella previdibilità in concreto della realizzazione dell’evento e della relativa concreta evitabilità della sua realizzazione; (c) dal punto di vista soggettivo, nella misura del rimprovero personale sulla base delle speciiche condizioni dell’agente; (d) nella motivazione della condotta; (e) nella consapevolezza o meno di tenere una condotta pericolosa e, quindi, dalla previsione dell’evento179, andrebbero normativamente deiniti per ragioni di determinatezza del divieto penale. Va, inine, posta una brevissima rilessione sul dibattito intorno all’introduzione nell’ordinamento nostrano del c.d. omicidio stradale. Le proposte legislative avanzate, nella legislatura in corso180, non risolverebbero la problematica, espressamente perseguita, relativa alla certezza della risposta punitiva, in quanto non 178. Per l’analisi della novità legislativa, da ultimo, Brusco, Linee guida, protocolli e regole deontologiche. Le modiiche introdotte dal c.d. decreto Balduzzi, in www.penalecontemporaneo.it. In giurisprudenza, Cass. pen. Sez. IV, 29 gennaio 2013, n. 16237, in Dir. pen. proc., 2013, 6, 692 ss., con nota di Risicato; tale pronuncia è stata annotata anche da Roiati, Il ruolo del sapere scientiico e l’individuazione della colpa lieve nel cono d’ombra della prescrizione, in www.penalecontemporaneo.it; Pulitanò, Responsabilità medica: letture e valutazioni divergenti del novum legislativo, in www.penalecontemporaneo.it; Amato, Per le sentenze deinitive di condanna dei sanitari esclusa una applicazione automatica della norma, in Guid. dir., 2013, 20, 82 ss. La decisione in questione, scritta con la dotta penna del Cons. Blaiotta, ofre un’importante e completo excursus sulla storia della responsabilità medica (cfr. §§ 5,6), passando dalla diretta applicazione dell’art. 2236 c.c., al campo penale, alla sua abiura ed, inine, al relativo recupero come criterio d’esperienza: «la colpa del terapeuta ed in genere dell’esercente una professione di elevata qualiicazione va parametrata alla diicoltà tecnico-scientiica dell’intervento richiestogli ed al contesto in cui esso si è svolto». Va segnalata la rimessione alle Sezioni Unite del ricorso avverso la sentenza della Corte d’assise d’appello di Torino nel noto caso Thyssenkrupp, che dovrà segnare, fra l’altro, la linea di conine tra dolo eventuale e colpa cosciente, la cui relazione è stata aidata al Cons. Blaiotta. La lucidità dell’impostazione e l’argomentazione giuridica della decisione saranno indubbiamente manualistiche. 179. Cass. pen. Sez. IV, 29 gennaio 2013, cit., § 13. 180. XVII Legislatura, in ordine di presentazione, C.361; C.562; C.959; S.859; C.1430; C.1475; C.1646; C.1677. 234 colpevolezza viene trovata soluzione alla questione di distinzione tra fatto doloso e quello colposo in materia di incidenti stradali. Ed invero, la maggior parte delle proposte di legge presentate, tendono ad introdurre nell’ordinamento la fattispecie di omicidio stradale, limitandosi a descrivere la condotta dell’agente (di regola, guida in stato di ebbrezza o sotto l’inluenza di sostanze stupefacenti) e collocando la nuova disposizione subito dopo il delitto di omicidio (art. 575 c.p.), così richiamandone la relativa caratterizzazione del nesso psichico (dolo). Draconiane le ipotesi di revoca sine die dell’abilitazione alla guida. In tal maniera, l’obiettivo ricercato è paradossalmente ribaltato e risulta addirittura illogico: la risposta punitiva sarebbe inferiore rispetto a quella prevista dall’art. 575 c.p.! Dall’altro, non è risolta la vertenza sulla distinzione tra dolo eventuale e colpa cosciente che porterebbe all’inevitabile persistenza della situazione di incertezza attualmente vissuta. Salvo quanto già indicato relativamente all’introduzione di fattispecie assistite dalla colpa grave, l’efetto ricercato potrebbe ragionevolmente raggiungersi anche con l’anticipazione della tutela penale, delineando delle fattispecie di pericolo (astratto e concreto), di nuovo facendo riferimento all’esperienza spagnola (artt. 379 ss. c.p. spagnolo), salvo descrivere come circostanze aggravanti ad effetto speciale le ipotesi di veriicazione dell’evento (omicidio o lesioni personali). In tal maniera, delineando l’evento come circostanza della condotta e non come elemento costitutivo del reato, la relativa imputazione andrebbe efettuata secondo i criteri meno pregnanti di cui all’art. 59, co. 2, c.p., che, certamente, non riguardano la volontà dell’agente, «non solo perché non è necessario un dato psichico consistente nella rappresentazione attuale, similmente al dolo ed alla colpa con previsione, ma soprattutto perché è estranea a tale criterio di imputazione tanto l’intenzionalità quanto la violazione di una regola precauzionale»181. 181. Così Preziosi, Le circostanze del reato, in Cadoppi, Canestrari, Manna, Papa (a cura di), Trattato di diritto penale. Parte generale, II, Il reato, Torino, 2013, 830. 235 CAPITOLO IV appunti su pena e giustizia post-contemporanea 1. I principi che regolano la sanzione penale europea ed il carattere anankastico della pena “rieducativa”. - 2. La pena “rieducativa” e le misure alternative e sostitutive alla detenzione come pene proporzionate nel diritto penale dei diritti. - 3. La funzione della pena inalizzata alla risocializzazione dialogica. - 4. La collocazione del momento comunicativo nel percorso di risocializzazione ed il “progetto” individuato dal giudice della cognizione come linea-guida del percorso rieducativo. - 5. Annotazioni sui sistemi di giustizia riparativa e l’impossibilità empirica di una sostituzione integrale del sistema punitivo-rieducativo. La pena “rieducativa” tra sanzione e progetto di risocializzazione. - 6. La giustizia riparativa nell’esperienza europea ed in quella italiana. La mediazione penale come tratto comune delle maggiori esperienze di giustizia riparativa in Europa. Le consolidate esperienze anglosassone e francese e le nuove sperimentazioni nelle giovani codiicazioni. - 6.1. L’area scandinava. - 6.2. L’area centro-orientale. - 6.3. L’area anglosassone. - 6.4. L’area centro-meridionale. - 6.5. L’esperienza italiana. - 7. Note conclusive sul ruolo della vittima del sistema penale europeo e sul risarcimento come strumento riparativo in funzione solidaristica. 1. I principi che regolano la sanzione penale europea ed il carattere anankastico della pena “rieducativa”. Le linee di principio che deiniscono il volto della pena europea si ricavano dagli artt. 2, co. 2, 4 e 49, co. 1 e 3, della Carta di Nizza, nonché dagli artt. 3, 4, § 2 e 3, lett. a), e 7, § 1, Convenzione EDU e, dunque, oltre al principio di legalità, anche nella sua dimensione di divieto di retroattività in malam partem, vanno indicati i principi di umanità e proporzione, con il divieto della tortura, della pena di morte, del lavoro forzato e di ogni trattamento penitenziario «inumano e degradante», che, a ben guardare, costituisce il limite estremo della stessa proporzione tra pena e fatto di reato. Su tale limite va appuntata l’attenzione. La lettura giurisprudenziale sovranazionale dell’art. 3 Convenzione EDU1 e, 1. Su cui ampiamente Colella, La giurisprudenza di Strasburgo 2008-2010: il divieto di tortura e trattamento inumani o degradanti (art. 3 CEDU), in Dir. pen. cont. - Riv. trim., 2011, 1, 221 ss. ed, in particolare, 223, in cui l’A., relativamente alla deinizione di trattamenti inumani e degradanti di cui all’art. 3 Convenzione EDU, evidenzia che «l’elaborazione dottrinale distingue fra le tre categorie sottolineando come: (a) nell’ipotesi di pene/trattamenti degradanti vengano in rilievo essenzialmente elementi di natura emotiva (in particolare, l’umiliazione della vittima); (b) la nozione di pene/ trattamenti inumani copra le condotte che si caratterizzano per una soferenza isica o psicologica di particolare intensita (che non deve necessariamente essere sorretta dall’intenzione degli autori della stessa); (c) i tratti distintivi della tortura siano la rilevante gravita (costituendo la stessa una forma particolarmente grave di trattamento inumano) e lo scopo speciico di ottenere informazioni, di estorcere una confessione, di inliggere una punizione, di intimidire o di esercitare una pressione su qualcuno (sulla falsariga di quanto richiesto expressis verbis dall’art. 1 della Convenzione ONU 237 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea dunque, del divieto di pene inumane e degradanti va ricavata dall’ampia casistica delle decisioni della Corte di Strasburgo, potendo, dunque, derivare il relativo contrasto tanto dalle condizioni della detenzione2, quanto dalla sottopo- contro la tortura). Il diritto vivente di Strasburgo consente, tuttavia, di attribuire ai suddetti criteri una validità solo tendenziale, posto che, da un lato, il conine fra trattamenti inumani e trattamenti degradanti si mostra nell’applicazione pratica alquanto incerto, e sono assai frequenti le pronunce in cui la Corte utilizza l’espressione “trattamento inumano e degradante” quasi si trattasse di un’endiadi; dall’altro, non sempre i misbehaviour che raggiungono la soglia di gravità necessaria per essere qualiicati come altrettante ipotesi di tortura sono assistiti dallo scopo speciico ora menzionato: l’analisi della giurisprudenza di Strasburgo consente, piuttosto, di evidenziare un rapporto di proporzionalità inversa fra la gravita della condotta e lo scopo speciico perseguito dall’agente». 2. Colella, La giurisprudenza di Strasburgo 2008-2010, cit., 237, rileva che «le pronunce rese dalla Corte in materia possono idealmente suddividersi in due gruppi: (a) quelle in cui i giudici di Strasburgo hanno riscontrato la violazione a fronte di situazioni di carattere obiettivo (quali ad es. il sovraffollamento, le precarie condizioni igieniche, la mancanza di areazione, ecc.); (b) quelle in cui, invece, la violazione dell’art. 3 Cedu e stata afermata in ragione della problematica compatibilità del regime di detenzione “comune” con le condizioni di salute del ricorrente, afetto da gravi disturbi isici o psichici». Per la giurisprudenza, Corte eur. dir. uomo, 11 giugno 2009, S.D. c. Grecia; Id., 22 luglio 2010, A.A. c. Grecia; Id., 26 novembre 2009, Tabesh c. Grecia; Corte eur. dir. Uomo, Gr, Ch., 21 gennaio 2011, M.S.S. c. Grecia e Belgio con nota di Beduschi, Immigrazione e diritto di asilo: un’importante pronuncia della Corte di Strasburgo mette in discussione le politiche dell’Unione Europea, in www.penalecontemporaneo. it. Relativamente al problema del sovrafollamento carcerario come condizione di obiettiva violazione dell’art. 3 Convenzione EDU, si segnalano Corte eur. dir. uomo, 14 febbraio 2008, Dorokhov c. Russia; Id., 16 luglio 2009, Sulejmanovic c. Italia; Id., 15 ottobre 2009, Buzhinayev c. Russia; Id., 22 ottobre 2009, Orchowski c. Polonia; Id., 22 ottobre 2009, Norbert Sikorski c. Polonia; Id., 14 gennaio 2010, Melnikov c. Russia; Id., 2 febbraio 2010, Mariana Marinescu c. Romania; Id., 16 marzo 2010, Jiga c. Romania; Id., 1 giugno 2010, Răcăreanu c. Romania; Id., 10 giugno 2010, Mukhutdinov c. Russia; Id., 23 settembre 2010, Aleksandr Leonidovich Ivanov c. Russia; Id., 2 novembre 2010, Grozavu c. Romania; Id., 4 novembre 2010, Arefyev c. Russia; Id., 25 novembre 2010, Roman Karasev c. Russia; Id., 30 novembre 2010, I. D. c. Moldavia. Di recente, Corte eur. dir. uomo, 2 luglio 2013, Feher c. Ungheria; Id., 4 luglio 2013, Rzakhanov c. Azerbaijan; Id., 30 luglio 2013, Toma Barbu c. Romania; Id., 1 agosto 2013, Horshill c. Grecia; Id., 9 luglio 2013, Ciobanu c. Romania e Italia. In relazione al problema del sovrafollamento carcerario italiano, cfr., da ultimo, Corte cost. n. 279 del 2013 che ha dichiarato l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 147 o.p., sollevata da Trib. Sorv. Venezia, 18 febbraio 2013, nonché da Trib. Sorv. Milano, 18 marzo 2013, riconoscendo che «che il sovrafollamento carcerario può nella realtà assumere dimensioni e caratteristiche tali da tradursi in trattamenti contrari al senso di umanità e da rendere al tempo stesso impraticabili i rimedi “interni” di cui si è parlato. In questi casi occorre un rimedio estremo, il quale, quando non sia altrimenti possibile mediante le ordinarie misure dell’ordinamento penitenziario, permetta una fuoriuscita del detenuto dal circuito carcerario, eventualmente correlata all’applicazione nei suoi confronti di misure sanzionatorie e di controllo non carcerarie», ma, tuttavia, respingendole «per la pluralità di soluzioni normative che potrebbero essere adottate; pluralità che fa escludere l’asserito carattere “a rime obbligate” dell’intervento additivo sull’art. 147 cod. pen. Oltre al mero rinvio dell’esecuzione della pena, sono, infatti, ipotizzabili altri tipi di rimedi “preventivi”, come, ad esempio, quelli modellati sulle misure previste dagli artt. 47 e seguenti dell’ordinamento penitenziario, ad alcune delle quali si è fatto riferimento nel dibattito seguito alla sentenza Torreggiani; misure che per ovviare alla situazione di invivibilità derivante dal sovrafollamento carcerario potrebbero essere adottate dal giudice anche in mancanza 238 appunti su pena e giustizia POST-CONTEMPORANEA sizione a particolari regimi carcerari3 o dalla durata della pena (come nel caso dell’ergastolo)4, il cui ilo conduttore può essere indicato nel giusto bilanciamento tra esigenze di sicurezza sociale e dignità umana del detenuto, nel senso che l’alizione connaturata alla pena non deve superare il limite dell’incidenza sui diritti fondamentali dell’uomo, che, da un lato, costituiscono il nòcciolo essenziale dell’individuo e, dall’altro, sono, in un certo senso, indiferenti all’ordinamento penale che ha riguardo nei confronti dell’individuo come membro della comunità (“cittadino”). In altri termini, la pena, con la sua inalizzazione rieducativa, può comprimere solo le libertà ed i diritti della sfera sociale dell’individuo, ovvero del suo status istituzionale di cittadino, poiché superare tale conine e, dunque, incidere sul nòcciolo intimo delle libertà, non può avere alcun signiicato per il diritto penale contemporaneo. Da tale considerazione, discendono almeno due rilessioni. Dapprima, appare chiaro che il principio di proporzione indicato dall’art. 49, § 3, Carta si dispiega nell’ordinamento, rispetto alla pena, in diversi sotto-principi delle condizioni oggi tipicamente previste. In particolare potrebbe ipotizzarsi un ampio ricorso alla detenzione domiciliare, sempre che le condizioni personali lo consentano, o anche ad altre misure di carattere sanzionatorio e di controllo diverse da quelle attualmente previste, da considerare forme alternative di esecuzione della pena. È da ritenere infatti che lo stesso condannato potrebbe preferire misure del genere e non avere interesse a un rinvio come quello prospettato dai rimettenti, che potrebbe lasciare a lungo aperta la sua vicenda esecutiva» ed, inine, ammonendo il legislatore nazionale, afermando «come non sarebbe tollerabile l’eccessivo protrarsi dell’inerzia legislativa in ordine al grave problema individuato nella presente pronuncia». 3. Sul regime dell’art. 41-bis o.p., cfr. in dottrina, Nicosia, Il 41-bis e una forma di tortura o di trattamento crudele, inumano o degradante?, in Riv. it. dir. proc. pen., 2009, 1240 ss.; Della Bella, Il regime detentivo speciale di cui all’art. 41-bis ord. penit., in Corbetta, Della Bella, Gatta (a cura di), Sistema penale e “sicurezza pubblica”: le riforme del 2009, Milano, 2009, 447 ss. Nella giurisprudenza sovranazionale, Corte eur. dir. uomo, 9 gennaio 2001, Natoli c. Italia; Id., 27 novembre 2007, Asciutto c. Italia; Id., 27 marzo 2008, Guidi c. Italia; Id., 17 luglio 2008, De Pace c. Italia; Id., 20 gennaio 2009, Zara c. Italia; Id., 1 dicembre 2009, Dell’Anna c. Italia; Id., 1 dicembre 2009, Stolder c. Italia. 4. Corte eur. dir. uomo,12 febbraio 2008, Kaf karis c. Cipro; Id., 2 settembre 2010, Iorgov c. Bulgaria. Di recente, Corte eur. dir. uomo, Gr. Ch., 9 luglio 2013, Vinter e a. c. Regno Unito, che modiicando la posizione della sezione semplice (su cui cfr. contra Viganò, Ergastolo senza speranza di liberazione condizionale e art. 3 CEDU: (poche) luci e (molte) ombre in due recenti sentenze della Corte di Strasburgo, in www.penalecontemporaneo.it), la Corte europea, censurando la disciplina della liberazione anticipata vigente nel Regno Unito, ofre importanti precisazioni in ordine al problema della compatibilità dell’ergastolo con il divieto di trattamenti inumani e degradanti. Se, infatti, nella giurisprudenza di Strasburgo era già stato afermato che la pena perpetua può considerarsi legittima solo se aiancata da regole che la rendano riducibile in concreto – consentendo, appunto, la liberazione anticipata del condannato –, nella sentenza in parola la Corte europea precisa che tali regole devono ofrire concrete prospettive di scarcerazione dopo un periodo minimo di detenzione prestabilito e predeterminare in maniera chiara tempi e modalità della revisione, così da permettere al condannato di comprendere le condizioni della sua liberazione (sul punto, cfr. Viganò, Ergastolo senza possibilità di liberazione condizionale nel Regno Unito e articolo 3 CEDU: la Grande Camera della Corte EDU ribalta la sentenza della Quarta Camera, in www.penalecontemporaneo.it). 239 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea quali quello di umanità e quello di rieducazione, al primo, come detto, strettamente avvinto, con l’efetto che la punizione e, dunque, l’inlizione della pena al reo non è giustiicata dal male o torto subito dalla collettività, in chiave retribuzionista, ma può comprendersi solo se costituisce l’equilibrata misura della compressione della libertà personale del cittadino, in funzione del tentativo risocializzante. In breve: la pena non proporzionata costituisce di per sé un trattamento disumano e degradante perché pregiudica il ine rieducativo. In secondo luogo, la pena retributiva, nella cultura contemporanea, ha serie diicoltà di efettiva giustiicazione perché «punire è inumano e ineicace»5 e la relativa ratio va ancorata alla sua inalizzazione, con l’efetto che la pena è proporzionata se diretta alla risocializzazione, in quanto va ad incidere sulle libertà del cittadino riconosciutegli dall’ordinamento proprio per garantire e regolare le relazioni sociali. In altri termini, se la comminazione della pena deve essere misurata tra la lesione inferta dal reo e quella subita dallo stesso (proporzione) e se tale equilibrio deve essere motivato dal recupero sociale dello stesso reo, senza dimenticare la vittima, allora, è chiaro che la pena si giustiica solo nella misura in cui riesce ad incidere sulla sfera di libertà del cittadino per consentirne il reingresso in società. In breve: la pena non rieducativa è degradante e disumana perché non proporzionata. Le due rilessioni, pertanto, sono come facce della stessa medaglia. In questa prospettiva, dunque, l’aspetto ontico della sanzione penale (umanità) e quello deontico della stessa (rieducazione), così come tradizionalmente intesi, si fondono, divenendo un vero e proprio carattere anankastico della pena contemporanea. Nel nostro ordinamento, tale carattere della pena si evidenzia già nella collocazione sistematica di entrambi gli aspetti della proporzione (art. 27, co. 3, Cost.), come, del resto, esplicitamente indicato dalla Corte costituzionale per cui l’esecuzione della pena deve essere caratterizzata dalla «salvaguardia, congiuntamente, del diritto a non subire trattamenti disumani e della inalità rieducativa della pena, perché il contesto “non dissociabile” nel quale vanno collocati i due princìpi delineati dal terzo comma dell’art. 27 Cost. esclude l’ammissibilità di interventi che, allo scopo di porre rimedio a una lesione del primo, determinino una compromissione della seconda»6. 2. La pena “rieducativa” e le misure alternative e sostitutive alla detenzione come pene proporzionate nel diritto penale dei diritti. La pena “rieducativa” si contrappone così alla tradizionale pena “retributiva” e mentre per quest’ultima assume un ruolo egemone la detenzione, poiché molto duttile nella sua commisurazione proporzio- 5. Lüderssen, Il declino del diritto penale, cit., 149. 6. Corte cost. n. 279 del 2013, Considerato in diritto, § 7.1, cpv. 240 appunti su pena e giustizia POST-CONTEMPORANEA nata con la gravità del fatto, di cui costituisce l’analogo negativo7, la prima necessita di un catalogo di pene principali che sollecitino il reo ad intraprendere un dialogo risocializzante: «vuoi rendendo la sanzione direttamente espressiva del valore dei beni ofesi in concreto (e solo a contrariis del disvalore dell’illecito), attraverso prescrizioni, per esempio riparative, le quali orientino al recupero di sensibilità solidaristiche; vuoi ricollegando la segnalazione della presa di distanze dal reato a un percorso riabilitativo che abbia riguardo alle condizioni personali dell’agente (si pensi all’istituto della messa alla prova nel sistema minorile); vuoi, inine, promuovendo la compartecipazione dello stesso agente di reato, una volta accertati i fatti e la colpevolezza, nel riconoscimento in rapporto con la vittima (o con soggetti esponenziali degli interessi ofesi) del disvalore di quanto accaduto, anche attraverso la proposta, da parte dell’agente medesimo, di speciiche prestazioni orientate alla composizione del conlitto (si pensi alle esperienze di mediazione penale o a determinate modalità di deinizione anticipata del processo davanti al giudice di pace)»8. Solo così la pena da mera inlizione di una soferenza personale per il reo9, passa alla riparazione della frattura istituzionale rappresentata dal reato. Per tal via, si era già suggerita la rivalutazione delle pene accessorie (prescrittive ed interdittive), in quanto la duttilità propria della pena detentiva si ottiene non tanto (o, meglio, non solo) nella misura “temporale” (anni, mesi e giorni), ma badando a quella “di genere”, avendo ad oggetto solo uno o più aspetti della libertà personale. In altri termini, la pena detentiva è, da un lato, anacronistica, laddove si guardi all’ampiezza della sfera dei diritti e delle libertà riconosciuti al cittadino e, dall’altro, è conseguentemente sproporzionata, nel senso che va a limitare tutti gli aspetti della libertà personale e, dunque, insieme a quello isico, si aggiungono quelli che aferiscono alle libertà di circolazione e comunicazione (libertà relazionali). Andando, invece, ad individuare un catalogo di pene che riesca a coniugare la misura temporale con quella di genere, è certamente più agevole cogliere la giusta proporzione tra il fatto di reato e la sanzione (e, dunque, la colpevolezza), poiché la pena andrà a limitare uno o più aspetti della libertà personale per un certo tempo, ma non necessariamente la libertà isica, che, in tale prospettiva, andrebbe prevista per i crimini più gravi. La giusta proporzione avrebbe anche un efetto positivo nella risposta risocializzante del reo e nel relativo procedimento di autoresponsabilizzazione. Un ruolo determinante potrebbero assumere le misure alternative e quelle sostitutive alla detenzione già previste nel sistema nostrano, come anche alcune pene accessorie o sanzioni amministrative interdittive. 7. Eusebi, Proili della inalità conciliativa nel diritto penale, in Studi in onore di Giorgio Marinucci, II, Milano, 2006, 1109 ss. 8. Eusebi, Proili della inalità conciliativa nel diritto penale, cit., 1114. 9. Antolisei, Manuale di Diritto penale, cit., 3, secondo cui «la pena è una soferenza che lo Stato inligge alla persona che ha violato un bene giuridico». 241 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea 3. La funzione della pena inalizzata alla risocializzazione dialogica. Il diritto punitivo europeo, come visto, ai suoi albori, imponeva l’intervento statale con il proprio apparato sanzionatorio per la tutela di determinati interessi comunitari (ciò che si sono deiniti obblighi di risultato e, più eicacemente, dopo, obblighi di penalizzazione): l’Unione delineava il precetto per la tutela dell’interesse comune, ciascun Stato membro stabiliva la sanzione proporzionata, efettiva e dissuasiva, utilizzando il proprio catalogo di pene. L’entrata in vigore del Trattato di Lisbona ha previsto una competenza penale tipica (propria e impropria) dell’Unione per cui è possibile l’adozione di direttive penali che deiniscano, non solo, il precetto, ma indichino anche il minimo della pena per esso dovuta. Da ciò, è evidente che il diritto penale europeo non si limita più solo alla descrizione del precetto, ma stima anche (almeno in parte) la relativa pena (fatto salvo il margine di apprezzamento per ciascuno Stato membro). Va ora svolta una rilessione sulla pena europea e relativa funzione. Il diritto è qualiicato come penale perché la violazione del precetto impone l’applicazione di una pena. Questa è un’ovvietà. La sanzione per essere penale, a sua volta, deve essere alittiva, nel senso che deve essere capace di porre un onere sulla libertà personale dell’individuo, e dissuasiva, poiché è inalizzata ad evitare il perpetrarsi di comportamenti identici o analoghi rispetto a quelli, di volta in volta, puniti, ed a soddisfare moralmente la vittima. L’alittività e la dissuasività devono tendere alla rieducazione del condannato, come previsto dall’art. 27, co. 3, Cost. ed, in quest’ottica, la contrapposizione tra visione reo-centrica e visione vittimo-centrica, trova una composizione, un punto di equilibrio e di mediazione. La tendenza risocializzante della pena nostrana non è espressamente prevista a livello europeo, ma l’equilibrio evidenziato tra gli interessi coinvolti tramite la sintesi della pena inlitta al reo, come detto, può essere argomentato positivamente dalla necessaria proporzione tra sanzione e reato richiesta dall’art. 49, § 3, Carta («Le pene inlitte non devono essere sproporzionate rispetto al reato»), che, come noto, costituisce il principio generale di cui la tendenza rieducativa è corollario. Per queste ragioni, si può afermare che la pena europea deve tendere alla risocializzazione del reo in attuazione del principio generale di proporzionalità enunciato dall’art. 49, § 3, Carta (nonché nel rispetto della dignità umana consacrato nell’art. 1 Carta10). La tendenza rieducativa della pena assume un ruolo egemone ed escludente ogni altra inalizzazione, principalmente quella retributiva11, ove si guardi alla 10. Vinciguerra, Diritto penale italiano, cit., 33, secondo cui le pene non devono presentare contenuti tali da rendere il condannato insensibile a spinte interiori verso il riadattamento sociale, come sarebbero le sanzioni che mortiicassero la sua dignità umana. 11. Per una critica all’idea retribuzionista della pena cfr. Eusebi, La “nuova” retribuzione, cit., 914 ss.; Id., Cristianesimo e retribuzione penale, cit., 275 ss.; Id. (a cura di), La funzione della pena: il 242 appunti su pena e giustizia POST-CONTEMPORANEA necessaria mediazione che la pena sintetizza nell’ottica di una risocializzazione dialogica, come momento di incontro conciliativo tra reo e vittima (e collettività). In altri termini, il reo, compiendo il reato, non solo, assume un comportamento ostile alla regole comuni e, dunque, alla vigenza della norma12, esercitando la libertà riconosciutagli dall’ordinamento, «al di fuori dei limiti da esso segnati»13, ma lede anche un interesse fondamentale proprio della vittima (in genere); l’espiazione della pena, come percorso di formazione valoriale, costituisce il tramite per il reingresso nella comunità sociale del reo; la comunità sociale accoglie il reo ricollocandolo all’interno della collettività, una volta, dunque, che, con l’espiazione della pena, il reo ha compreso l’importanza dei valori lesi dal comportamento punito e così riequilibrato il pregiudizio alla vigenza della norma. Ma la ricomposizione della frattura istituzionale tra reo-cittadino e società non è suiciente al ripristino integrale della vigenza della norma, come punto di riferimento della cittadinanza in un’ottica di ricostituzione della iducia nella sicurezza collettiva14, ove il percorso di formazione valoriale in cui consiste l’espiacommiato da Kant e da Hegel, cit., 173 ss.; Id., Dibattiti sulle teorie della pena e mediazione, cit., 811 ss.; Id., Le istanze del pensiero cristiano e il dibattito sulla riforma del sistema penale nello stato laico, cit., 207. 12. Nella lettura di Günther Jakobs, il diritto penale del nemico (Feindstrafrecht) – come evidenzia Cornacchia, La moderna hostis iudicatio tra norma e stato di eccezione, cit., già Id., La moderna hostis iudicatio entre norma y estado de excepción, Centro de Estudios Constitucionales, 94, Madrid, 2008, 71, 110 – rappresenta la conseguenza di una precisa considerazione del ruolo che assume l’efettività nella validazione delle norme dell’ordinamento: una norma vigente, corretta dal punto di vista formale e materiale, che tuttavia non sia stabilizzata nella realtà sociale in modo tale da poter essere confermata controfattualmente in caso di sua violazione – attraverso la deinizione del comportamento deviante del soggetto che viola la norma, e non l’aspettativa normativa, come motivo del conlitto – è diritto astratto, puro feticcio, ino a quando non vi sia un minimo di efettività. Mentre, dunque, per il diritto penale del nemico, la pena è pura privazione dello ius civis, dello status di cittadino, per il diritto penale del cittadino (Bürgerstrafrecht), di contro, la pena è sì alizione, ma in funzione di garanzia della vigenza della norma. Nella bibliograia si segnala, naturalmente, Jakobs, Derecho penal del ciudadano y derecho penal del enemigo, in Derecho penal del enemigo, a cura di Jakobs, Cancio Melià, Madrid, 2003, 41 ss.; Id., Bürgerstrafrecht und Feindstrafrecht, in Höchstrichterliche Rechtsprechung Strafrecht, 2004, 88 ss., Id., Diritto penale del nemico, in Donini, Papa (a cura di), Diritto penale del nemico. Un dibattito internazionale, Milano, 2007, 5, fra gli ultimi; nella letteratura italiana, Donini, Il diritto penale di fronte al nemico, in Cass. pen., 2006, 772; Id., Diritto penale di lotta v. diritto penale del nemico, in Gamberini, Orlandi (a cura di), Delitto politico e diritto penale del nemico. Nuovo revisionismo penale, Bologna, 2007, 131; Resta, Nemici e criminali. Le logiche del controllo, in IP, 2006, 1, 181 ss.; Bartoli, Lotta al terrorismo internazionale. Tra diritto penale del nemico, jus in bello del criminale e annientamento del nemico assoluto, Torino, 2008, 10; Palazzo, Contrasto al terrorismo, diritto penale del nemico e diritti fondamentali, in Quot. Giur., 2006, 2, 667 ss.; Insolera, Terrorismo internazionale tra delitto politico e diritto penale del nemico, in Dir. pen. proc., 2006, 895 ss.; Kostoris, Processo penale, delitto politico e diritto penale del nemico, cit., 293; Zumpani, Critica del diritto penale del nemico e tutela dei diritti umani, cit., 526 ss. 13. Così Cornacchia, La moderna hostis iudicatio, cit., 112. 14. Manna, La vittima del reato: à la recherche di un diicile modello dialogico nel sistema penale, in Studi in onore di Giorgio Marinucci, cit., 981. 243 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea zione, ignorasse la posizione della vittima-cittadino15. Da ciò, la necessaria comunicazione tra reo e vittima è il fondamento del riadattamento sociale: se non si compone anche la frattura interpersonale reo-vittima in maniera condivisa tra gli attori del reato, non solo, non si potrà mai deinire un efettivo reingresso del reo nel tessuto collettivo e, dunque, riequilibrare il pregiudizio alla vigenza della norma, intenso anche nel signiicato di ripristino del senso di sicurezza sociale, ma, poi, si giungerebbe ad escludere la vittima che non riuscirà a comprendere la nuova oferta di ospitalità della comunità per il suo aggressore16. Il percorso rieducativo, dunque, imposto dalla pena svolge una doppia funzione: per il reo, è responsabilizzazione, ma anche comprensione del danno provocato con il suo illegittimo comportamento e conferma della validità della norma; per la vittima, è soddisfazione morale del male subito, ma anche comprensione della soferenza conseguente all’aggressione patita e, dunque, capacità di superare l’umano istinto vendicativo, con aidamento nell’attitudine del sistema penale a garantire la sicurezza sociale17. Così la comunicazione è il necessario presupposto della risocializzazione del reo e carattere principale di un nuovo sistema penale di tutela dei diritti e delle libertà fondamentali della vittima18. 4. La collocazione del momento comunicativo nel percorso di risocializzazione ed il “progetto” individuato dal giudice della cognizione come linee-guida del percorso rieducativo. Il percorso di risocializzazione è formato da fasi e momenti, come si desume 15. Manna, La vittima del reato: à la recherche di un diicile modello dialogico nel sistema penale, cit., 966, evidenzia la necessità di un sistema sanzionatorio meno alittivo e stigmatizzante, ma tuttavia idoneo al reinserimento sociale, tanto del reo, quanto della vittima. 16. Signiicativamente, Manna, La vittima del reato: à la recherche di un diicile modello dialogico nel sistema penale, cit., 986, aferma, in particolare, che «un sistema sanzionatorio dialogico rende possibile ipotizzare un catalogo di pene meno stigmatizzati di quelle tradizionali, che assolvano ad ineludibili inalità di risocializzazione del reo come della vittima, consentendo così a tali soggetti, ma anche alla società interna, di superare la lacerazione ingenerata dal reato, in virtù di un dialogo costruttivo e di una rinnovata iducia in un sistema penale che, nel pieno rispetto delle garanzie individuali del reo, sappia anche ascoltare e soddisfare le esigenze della vittima». 17. Una pena dialogica, che si trasformerebbe, più che altro, in un percorso di riconciliazione, aferma un riconoscimento più signiicativo del diritto ofeso rispetto all’impostazione retributiva, proprio grazie alla cooperazione necessaria del reo, cfr. Eusebi, La riforma del sistema sanzionatorio penale: una priorità elusa? Sul rapporto tra riforma penale e rifondazione della politica criminale, in Picciotti, Spangher (a cura di), Verso una giustizia penale conciliativa, Milano, 2002, 49 ss. Nello stesso senso, Manna, La vittima del reato: à la recherche di un diicile modello dialogico nel sistema penale, cit., 982. 18. Riondino, Giustizia riparativa e mediazione nel diritto penale canonico, Città del Vaticano, 2011, secondo cui «il ine ultimo dell’intervento penale dovrebbe […] consistere nel promuovere un atto di responsabilità che non derivi da una semplice costrizione esterna, ma da un serio e profondo percorso di incontro e di reciproca conoscenza, che permetta all’autore del reato la revisione dei suoi stili di comportamento e l’autoresponsabilizzazione». 244 appunti su pena e giustizia POST-CONTEMPORANEA dalla lettura della giurisprudenza costituzionale19 per cui il principio contenuto nell’art. 27, co. 3, Cost. «lungi dal rappresentare una mera generica tendenza riferita al solo trattamento, indica invece proprio una delle qualità essenziali e generali che caratterizzano la pena nel suo contenuto ontologico e l’accompagnano da quando nasce, nell’astratta previsione normativa, ino a quando in concreto si estingue», secondo una prospettiva per cui “tendere” esprime solo «la presa d’atto della divaricazione che nella prassi può veriicarsi tra quella inalità e l’adesione di fatto del destinatario al processo di rieducazione». Conclusivamente afermando che «il precetto di cui al terzo comma dell’art. 27 della Costituzione vale tanto per il legislatore quanto per i giudici della cognizione, oltre che per quelli dell’esecuzione e della sorveglianza, nonché per le stesse autorità penitenziarie», in quanto «se la inalità rieducativa venisse limitata alla sola fase esecutiva, rischierebbe grave compromissione ogniqualvolta specie e durata della sanzione non fossero calibrate (né in sede normativa né in quella applicativa) alle necessità rieducative del soggetto». Da ciò, il percorso di risocializzazione va segnato nel momento generatore (allorquando il legislatore individua la pena astrattamente proporzionata alla fattispecie posta - fase legislativa), in quello determinativo (allorquando il giudice individua la pena da applicare al reo, tenuto conto di tutti i requisiti del giudizio di colpevolezza e, segnatamente, dei criteri indicati dall’art. 133 c.p. - fase cognitiva) ed, inine, in quello comunicativo, su cui va appuntata l’attenzione. A prescindere, dunque, dalla prima fase, che ha ad oggetto una rieducazione in astratto, come astratta implementazione del principio di proporzione, il percorso di risocializzazione in concreto riguarda i momenti determinativo e comunicativo. Rispetto al momento determinativo, si tratta di individuare un sistema sanzionatorio utile al «recupero di quei legami solidaristici che il reato ha infranto»20, attraverso l’abbandono dell’egemonia della pena detentiva, come già evidenziato, da sostituire con pene prescrittive ed interdittive più consoni ad un diritto penale forgiato sui diritti del cittadino, che si vadano ad inserire in un “progetto” che guidi il percorso di risocializzazione volto «a favorire il riappropriarsi, da parte di chi subisca la condanna, delle regole trasgredite e, altresì, la sua responsabilizzazione rispetto ai danni o ai pericoli prodotti»21. La pena detentiva, dunque, intesa come prescrizione sulla libertà personale (isica) dovrebbe essere utilizzata solo in ipotesi di estrema gravità dell’ofesa perpetrata e di efettivo ed 19. Corte cost. n. 313 del 1990 che segue l’impostazione dell’importante precedente n. 364 del 1988 e, poi, confermata da Corte cost. n. 322 del 2007. 20. Eusebi, Proili della inalità conciliativa nel diritto penale, cit., 1111. 21. Eusebi, Ripensare le modalità della risposta ai reati. Traendo spunto da CEDU 19 giugno 2009, Sulejmanovic c. Italie, in Cass. pen., 2009, 12, 4938 ss.; Id., Dibattiti sulle teorie della pena e mediazione, in Riv. it. dir. proc. pen., 1997, 830 ss. 245 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea attuale pericolo per la comunità. Tale momento determinativo potrebbe anche essere assente, nel senso che, collocandosi nella fase cognitiva ed, in particolare, nella parte inale del processo pubblico, si potrebbe prevedere una sospensione dell’iter di accertamento pubblico della colpevolezza del reo, anticipando il momento comunicativo in cui si collocano le iniziative di autoresponsabilizzazione del reo, anche con la «messa in opera, da parte del soggetto agente di condotte riparative adeguate, in una prospettiva di carattere riconciliativo»22. Dovrebbe, comunque, avere un ruolo fondamentale la pena ablativa che tolga al reo il proitto dell’illecito, come quella pecuniaria23. Il momento comunicativo, se non anticipato nella fase cognitiva, come visto, va collocato nella fase esecutiva come forma caratterizzante il progetto determinato dal giudice della cognizione, all’esito del processo pubblico, poiché è necessario individuare il colpevole, come interlocutore necessario, che, prima del giudizio, è presunto innocente. Una volta indicato il progetto relativo al percorso di risocializzazione e, quindi, il reo abbia riconosciuto la propria responsabilità o quest’ultima sia stata accertata nelle forme del processo pubblico, il giudice dell’esecuzione dovrà valutare l’ammissione spontanea del reo ad un sistema di giustizia riparativa24, inalizzata ad anticipare il pieno recupero, da parte del colpevole, del libero esercizio dei diritti limitati dalle sanzioni determinate dal progetto di recupero. La mediazione o altro strumento dialogico proprio del- 22. Eusebi, Ripensare le modalità della risposta ai reati, cit., 4958. 23. Sull’ineittività della pena, Goisis, L’efettività (rectius inefettività) della pena pecuniaria in Italia, ogi, cit. 24. Il modello della giustizia riparativa e la mediazione penale si pongono come risorsa emergente nell’amministrazione della giustizia penale a livello internazionale. Sull’argomento cfr. Romano, Il conlitto e la mediazione, Rassegna penitenziaria e criminologica, 2012, 1, 47 ss.; senza pretesa di completezza, cfr. Ciappi, Coluccia, Giustizia Criminale. Retribuzione, riabilitazione e riparazione: modelli e strategie di intervento penale a confronto, Milano, 1997; De Francesco, Venafro, Meritevolezza di pena e logiche delattive, Torino, 2002; De Leo, Psicologia della responsabilità, Bari, 1996; De Leo, Patrizi, Psicologia giuridica, Bologna, 2002; De Leo, Volpini, La veriica di alcuni principali obiettivi nella mediazione penale minorile, in Rassegna Italiana di Criminologia, 2, 279-287, Gatti, Marugo, La vittima e la giustizia riparativa, in Marginalità e Società, 1994, 27, 12-32; Gulotta, Elementi di psicologia giuridica e di diritto psicologico, Milano, 2002; Morineau, Lo spirito della mediazione, Milano, 2003, Morrone, Mediazione e riparazione del danno nella competenza penale del giudice di pace, in Rassegna penitenziaria e criminologica, 2000, 1-3, 55-68; Pisapia (a cura di), Prassi e teoria della mediazione, Padova, 2000; Savona, Ciappi, Travaini, Prevenzione e mediazione tra esperienze passate e progetti futuri: una proposta di mediazione integrata, Relazione al seminario organizzato dalla Provincia Autonoma di Trento sul tema “Il protocollo d’intesa nel sistema penitenziario: una opportunità o una provocazione?”, Trento, 1999; Scaparro (a cura di), Il coragio di mediare. Contesti, teorie e pratiche di risoluzioni alternative delle controversie, Milano, 2001; Scardaccione, Nuovi modelli di giustizia: giustizia riparativa e mediazione penale, in Rassegna penitenziaria e criminologica, 1997, 1-2, 9 ss.; Scardaccione, Baldry, Scali, La mediazione penale. Ipotesi di intervento nella giustizia minorile, Milano, 1998; Vianello, Diritto e mediazione. Per conoscere la complessità, Milano, 2004. 246 appunti su pena e giustizia POST-CONTEMPORANEA la giustizia riparativa, in tale maniera, può comportare l’estinzione della pena applicata al reo, poiché, come evidenziato da Duf25, il processo comunicativo, proprio della mediazione, non solo, ha carattere retributivo, nella misura in cui è orientato a produrre nel reo la soferenza di cui è meritevole, anche se detta soferenza si risolve nel senso del rimorso, nell’apprestamento di riparazioni e nella “pena naturale” della sottoposizione allo sguardo pubblico, specialmente a quello delle vittime; ma, inoltre, tale processo ha carattere preventivo, rivolto al futuro, dissuasivo per il reo dalla commissione di ulteriori reati, ma anche inclusivo ed educativo26. Se il momento comunicativo avrà esito positivo, allora, il giudice dell’esecuzione interverrà sul “progetto”, sospendendone l’adempimento, consentendo al reo di reinserirsi nel tessuto sociale. Se l’esito di tale processo sarà negativo, il giudice dell’esecuzione, alla ine del percorso di risocializzazione come delineato nel “progetto” indicato dal giudice della cognizione, dovrà valutare la pericolosità sociale del reo, applicando la misura di sicurezza più idonea, che consisterà in un’estensione del progetto di risocializzazione oltre la misura temporale della pena determinata dal giudice della cognizione27. 5. Annotazioni sui sistemi di giustizia riparativa e l’impossibilità empirica di una sostituzione integrale del sistema punitivo-rieducativo. La pena “rieducativa” tra sanzione e progetto di risocializzazione. L’idea dell’intervento del paradigma riparativo nella giurisdizione penale si colloca nell’ampio alveo di un movimento ideologico mosso da alcune istanze, molto spesso anche diicili da conciliare tra loro, che vanno dall’insoddisfazione nei confronti del sistema penale28 alle ricerche antropologiche29, dalla rivaluta25. Duff, Punishment, Communication and Community, Oxford, 2001, 96 ss. 26. Cornacchia, Funzione della pena nello Statuto della Corte penale internazionale, Milano, 2009, 197, in cui il chiaro A. (ibid., 233 ss.) analizza, con approfondite argomentazioni, i sistemi di giustizia riparativa nel sistema del diritto penale internazionale. 27. Cornacchia, La vittima nel diritto penale contemporaneo. Tra paternalismo e legittimazione del potere coercitivo, cit., 137, evidenzia l’opportunità di un procedimento riconciliativo deformalizzato, al ine di favorire la partecipazione della vittima. 28. Zehr, Toews (a cura di), Critical Issues in Restorative Justice, Monsey, NY, 2004; Zehr, Mika, Fundamental Concepts of Restorative Justice, in Contemporary Justice Review: Issues in Criminal, Social, and Restorative Justice, 1998, 1, 1, 47-56; Zehr, The Little Book of Restorative Justice, Intercourse, PA, 2002; Id., Retributive Justice, Restorative Justice. New Perspectives on Crime and Justice, 4, Akron, PA, Mennonite Central Committee Oice of Criminal Justice, September, 1985; Id., Changing Lenses. A New Focus for Crime and Justice, Scottsdale, 1990; Vianello, Per uno studio socio-giuridico della mediazione penale, in Sociologia del diritto, Milano, 1999, XXVI, 2. 29. Weitekamp, Research on Victim-Ofender Mediation. Finding and Needs for the Future, in European Forum for Victim-Ofender Mediation and Restorative Justice (a cura di), Victim-Ofender Mediation in Europe. Making Restorative Justice Work, Leuven, 2000; Braithwaite, Restorative Justice and Responsive Regulation, Oxford, 2002; Wright, Restorative Justice: for whose beneit?, in European Forum for Victim-Ofender Mediation and Restorative Justice (a cura di), Victim-Ofender Mediation in Europe. Making Restorative Justice Work, Leuven, 2000, il quale prende in esame le pratiche ripara- 247 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea zione del ruolo della vittima30 alla critica abolizionista31, dalla religione32 alla restitutive esistenti nelle comunità Kpelle della Liberia, degli Zapotec in Messico, dei Tiv in Nigeria e le tradizioni coreane e Barotse. 30. É un fatto che la vittima è rimasta per molto tempo estranea agli interessi della dottrina penalistica italiana, la quale ha sempre concentrato la sua ricerca sulla igura del delinquente. Infatti, sia la Scuola Classica che quella Positiva hanno trascurato la igura del soggetto passivo del reato. Nelle teorizzazioni della Scuola Classica non c’è posto per la vittima del reato, poiché essa parte dal presupposto che il reato è un’ofesa nei confronti dello Stato, mentre in quelle della Scuola Positiva, l’assenza di qualsiasi riferimento alla vittime è dovuta alla centralità dell’indagine sulla personalità del delinquente, inalizzata al recupero del reo. La crescita dell’interesse per la vittima è legata alla difusione dei movimenti in favore delle vittime (in particolare quello femminista), i quali sono stati molto fermi nel denunciare l’assoluto disinteresse sia sociale, sia giudiziario per il soggetto passivo del reato, soprattutto nei confronti delle vittime di reati sessuali. Sullo studio del ruolo della vittima nel reato esiste una vastissima bibliograia: cfr., per esempio, Saponaro, Vittimologia. Origini, concetti, tematiche, Milano, 2004; Portigliatti Barbos, Vittimologia, in Dig. Disc. Pen., Torino, 1999, 314 ss.; Cario, Victimologie, De l’efraction du lien intersubjectif à la restauration sociale, Paris, 2000; Karmen, Crime Victimes. An introduction to Victimology, Wadsworth, 2004. 31. Solitamente, all’interno dei movimenti abolizionisti, si individuano due correnti: (1) l’abolizionismo radicale, che propone una profonda trasformazione del modo di concepire la pena e che individua nel sistema penale le cause stesse della criminalità, e per questo motivo ne chiede l’eliminazione (Christie, Abolire le pene? Il paradosso del sistema penale, Torino, 1985) e (2) l’abolizionismo istituzionale, che pur non intendendo rinunciare al sistema di giustizia penale, richiede però l’abolizione di tutte le istituzioni totali. A proposito di quest’ultimo orientamento Eusebi (La pena “in crisi”: il recente dibattito sulla funzione della pena, Brescia, 1990) osserva che, «ove non intenda negare aprioristicamente almeno un certo grado di autonomia del fenomeno criminale rispetto ai meccanismi ascrittivi del sistema punitivo, l’altro orientamento disponibile all’abolizionismo [quello istituzionale] per escludere la legittimità del ricorso al diritto penale è quello di disconoscerne, in qualsiasi caso, l’utilità preventiva: la pena assumerebbe, come si è sostenuto, un mero carattere declamatorio e rituale, del tutto incidente, se non nei termini di un incremento della soferenza, sulla difusione della criminalità». Probabilmente, da quest’ultimo orientamento prese ispirazione il modello riparativo, come afermato da Ciappi, Coluccia, Giustizia criminale. Retribuzione, riabilitazione e riparazione: modelli e strategie di intervento penale a confronto, Milano, 1997, 110, secondo cui «fa propria l’esigenza di sopperire ai difetti del modello retributivo, basato unicamente sulla sanzione come risposta statale al fenomeno della criminalità, e di quello riabilitativo, che spesso confonde le reali esigenze della prevenzione con quelle della repressione, le ragioni della scienza con le ragioni del potere e dimostratosi ineicace». 32. I principi come la riconciliazione, la riparazione e la guarigione sono evidenti nelle religioni e soprattutto in quella cristiana. Braithwaite, Principles of Restorative Justice, in v-Hirsch (a cura di), Restorative Justice and Criminal Justice: Competing or Reconcilable Paradigm?, Oxford, 2003) ha afermato che la giustizia biblica è una giustizia riparativa, in quanto la lex talion è un’interpretazione molto sempliicata. Bianchi, Justice as sanctuary: toward a new system of crime control, Bloomington, 1994, 29, in maniera più severa, osserva che «qui siamo di fronte ad un marchiano errore intenzionale nella traduzione dei testi biblici» e spiega che in quasi tutti i passaggi della bibbia nella traduzione inglese, quando troviamo la parole retribuzione, nel testo ebraico le radici e le lettere dei termini corrispondenti, sono sh-l-m, (meglio conosciute come shalom), che signiica pace. Quindi quei termini non devono assolutamente intendersi come “retribuzione”, speciicamente proibita dalla Bibbia. “Occhio per occhio”, allora più che essere un richiamo alla retribuzione, deve essere inteso come il limite posto a non chiedere mai un valore più alto di ciò 248 appunti su pena e giustizia POST-CONTEMPORANEA tion33. Di tale modo di fare giustizia, va evidenziato che vi sono diverse forme o tipologie: da quella integrata con il sistema retributivo, come sopra ipotizzato, a quelle più drastiche e di rottura con il sistema tradizionale, che auspicano che la giustizia riparativa sia alternativa a quella punitiva (retributiva), ovvero sostituisca il sistema della punizione e del castigo, restituendo la soluzione del conlitto alla composizione tra reo e vittima, in favore del quale lo Stato, detentore del monopolio di punire, abdichi, salvo che il reo riiuti di cooperare o la procedura fallisca per altra ragione34. Poi, inine, vi è la proposta che guarda alla giustizia riparativa come complementare a quella tradizionale. Ma è davvero possibile ipotizzare la sostituzione del sistema tradizionale con uno riparativo? È certamente prematuro fare un’ipotesi di implementazione di un tale sistema, poiché è necessario uno sviluppo sul piano prasseologico; tuttavia, si è indotti ad un tentativo, almeno a livello teorico, al ine di veriicarne l’impostazione astratta che dovrebbe fungere da supporto ontologico nell’ipotesi empirica. Tale tentativo viene qui appena tracciato. In prima battuta, tenuto conto dell’obbligo costituzionale dell’azione penale, che rende impossibile (o altamente diicile) soppiantare la giustizia tradizionale, che è stato danneggiato. A supporto di questa spiegazione, Zehr, Justice, Restorative Justice. New Perspectives on Crime and Justice, 4, Akron, PA, Mennonite Central Committee Oice of Criminal Justice, September, 1985, spiega che «la lex talion era intesa come mezzo per portare la pace attraverso la compensazione, mirata al mantenimento dell’equilibrio tra i gruppi». Lo stesso A. aferma che «quando gli elementi costitutivi delle società erano le tribù o le famiglie, e questo è il caso riferibile al contesto del Vecchio Testamento, era possibile concepire la “ristorazione” dell’uguaglianza sociale tramite il sacriicio di un membro di una tribù come compensazione per la perdita di una vittima di un’altra tribù». Secondo Zehr, l’idea di Shalom, ristorazione, non retribuzione quindi, era centrale nel concetto di giustizia nel Vecchio Testamento, dove «la ristorazione e la restituzione andavano oltre la punizione, dato che il tema principale era il ritorno delle buone relazioni tra i gruppi». 33. Se le istanze dei victims’ movements invocavano un ampliamento del ricorso a forme di risarcimento a favore della vittima, l’approccio incarnato dalla restitution, vuole fare del risarcimento il ine stesso della risposta punitiva al reato, facendogli perdere quella che nel diritto penale attuale è la sua “funzione ancillare” rispetto alla pena, sostituendola completamente a questa. Tramontano, Percorsi di giustizia: verso una nuova modalità di risoluzione dei conlitti, in Rassegna Penitenziaria e Criminologica, 2010, 2, richiamando i contributi di Van Ness e Strong, ha evidenziato i principali argomenti su cui si fonda la proposta del movimento per la restitution: (a) la vittima è il soggetto autenticamente colpito dal reato; (b) sono necessarie forme di pena meno intrusive, e comunque alternative al carcere; (c) richiedere all’autore di reato di risarcire la vittima può avere un efetto riabilitativo; (d) la restitution è relativamente facile da ottenere e garantire (ad esempio attraverso azioni esecutive); (e) un adeguato risarcimento, reso in modo pronto e visibile, riduce istanze “vendicative” da parte di vittime e società civile. 34. Per una sintesi dell’oggetto dell’abolizionismo, cfr. Eusebi, Quale ogetto dell’abolizionismo penale? Appunti nel solco di una visione alternativa della giustizia, in Studi sulla questione criminale, 2, Roma, 2011, 81 ss. 249 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea escludendo i crimini di una certa gravità e quelli contro interessi impersonali, si potrebbe prevedere una giustizia riparativa sostitutiva di quella giurisdizionale penale in taluni settori e taluni reati laddove l’interesse privato condiziona l’esercizio del diritto di punire statuale: si pensa all’ampio ambito dei reati a querela o istanza della persona ofesa, in cui la volontà della vittima già oggi incide sull’inizio e prosecuzione dell’azione punitiva pubblica. Se a tale giustizia punitiva si sostituisce quella riparativa, l’interesse privato può essere ugualmente (o meglio) garantito, poiché il processo riparativo dialogico, nell’impostazione dufiana, conserva tutte le funzioni proprie del diritto punitivo (alittive, dissuasive, retributive, rieducative), ma garantendo alla vittima un ruolo sostanziale nella responsabilizzazione del reo, che, nell’attuale sistema dei reati ad istanza privata, è limitato alla sola condizione processuale. Ad ogni modo, appare più opportuno concentrarsi non sul sistema, al ine di veriicarne un’impossibile (o quantomeno diicile) sostituzione, anche solo per alcuni settori delle previsioni criminali, ma sulla pena o, meglio, su quell’aspetto della stessa che si è deinito “progetto” volto a segnare il percorso di risocializzazione dialogica, anche nell’ipotesi (non remota) in cui la vittima non voglia partecipare al programma di risocializzazione del reo o non riesca a superare il torto subito e l’istinto vendicativo, mentre il reo abbia dato prova di comprensione del danno conseguente al suo comportamento criminale e, dunque, di pentimento e responsabilizzazione. Riepilogando, la pena rieducativa è costituita da una sanzione proporzionata alla colpevolezza del reo attraverso una misura temporale e di genere, che vada cioè a neutralizzare uno o più aspetti della libertà personale del reo in ossequio alla gravità del fatto, ino a quella isica che include tutti gli altri aspetti della vita di relazione, secondo tempi determinati dal giudice della cognizione nei limiti della cornice edittale. A tale sanzione deve essere aiancato un progetto di risocializzazione, secondo protocolli prestabili e personabilizzabili dal giudice, che stabiliscano, se si vuole, le tappe del cammino di espiazione della sanzione, favorendo il momento comunicativo con recupero della centralità della vittima e l’utilizzo di strumenti riparativi. La pena rieducativa è, in deinitiva, «sanzione e progetto di risocializzazione». A questo punto, è opportuno identiicare gli strumenti riparativi che potrebbero essere utilizzati per la risocializzazione del reo, durante la fase esecutiva della pena (rectius, del suo momento comunicativo), guardando alle esperienze già implementate nella tradizione europea, ma anche in quella italiana. 6. La giustizia riparativa nella tradizione europea ed in quella italiana. La mediazione penale come tratto comune delle magiori esperienze di giustizia riparativa in Europa. Le consolidate esperienze anglosassone e francese e le nuove sperimentazioni nelle giovani codiicazioni. Le forme di giustizia riparativa che si incentrano sull’incontro tra 250 appunti su pena e giustizia POST-CONTEMPORANEA la vittima e l’autore, come la mediazione35, sono comuni a molti paesi europei e vengono utilizzate, prevalentemente, nella fase precedente l’esercizio dell’azione penale. Paesi come Austria, Norvegia e Gran Bretagna sono tra i primi in Europa ad aver adottato dei programmi di giustizia riparativa. L’indirizzo europeo allo sviluppo di tale forma di giustizia penale si rinviene, certamente, nella raccomandazione relativa alla “Mediazione in materia penale”, che invita gli Stati membri a tenere presente i principi generali in tema di mediazione, indicando le regole che devono disciplinare l’attività degli organi della giustizia penale in relazione alla stessa, gli standards da rispettare per tale attività, le indicazioni sulla qualiica dei mediatori e sulla loro formazione, il trattamento dei casi individuali agli esiti della mediazione, le attività di ricerca e valutazione che gli Stati membri dovrebbero promuovere sulla materia36. Se vero che la mediazione costituisce uno degli strumenti della giustizia riparativa più utilizzato nel panorama europeo, è necessario menzionare anche solo i meri esiti riparativi, deiniti, in particolare, dall’art. 3 della Risoluzione 2002/15 del Consiglio Economico e Sociale delle Nazioni Unite, avente ad oggetto i «Principi base sull’uso dei programmi di giustizia riparativa in materia penale», come «responses and programmes such as reparation, restitution and community service, aimed at meeting the individual and collective needs and responsibilities of the parties and achieving the reintegration of the victim and the ofender». Nella Conferenza internazionale tenutasi a Greifswald (Germania) in data 4 e 5 maggio 2012, che si inserisce nel quadro del progetto Restorative Justice in Penal Matters in Europe inanziato dalla Commissione Europea, nell’ambito del programma Giustizia penale 2007-2013, si è avuta la possibilità di rappresentare lo stato dell’arte della giustizia riparativa nelle esperienze nazionali europee, utile per un’analisi comparativa, al ine di tracciare un’eventuale percorso comune37. 35. Peters, Victim-Ofender Mediation: Reality and Challenges, in Victim-Ofender Mediation in Europe. Making Restorative Justice Work, European Forum for Victim-Ofender Mediation and Restorative Justice, Leuven, 2000, 11, secondo cui «Quasi ovunque in Europa la victim-ofender mediation è considerata il modo migliore per raggiungere gli obiettivi della giustizia riparativa. Spesso non si fa distinzione: la victim-ofender mediation è la giustizia riparativa e la giustizia riparativa rimane limitata all’utilizzo della victim-ofender mediation». 36. Raccomandazione Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa n. R(99)19 adottata il 15 settembre 1999, § 4: «La médiation en matière pénale devrait être possible à toutes les phases de la procédure de justice pénale». 37. Si farà riferimento all’importante resoconto delle relazioni svolte durante la Conferenza da Flor, Mattevi, Giustizia riparativa e mediazione in materie penali in Europa, in www.penalecontemporaneo.it, ma anche allo studio comparato di Austria, Francia e Italia del Progetto MEDIARE, Mutual exchange of data and information about restorative justice, Programma comunitario Grotius II Penale, 2004. 251 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea 6.1. L’area scandinava. Norvegia e Finlandia hanno sperimentato il processo mediativo già nei primi anni ottanta, giungendo solo nel primo caso ad un tempestivo riconoscimento legislativo, mentre la Danimarca ha dato vita a sperimentazioni solo a partire dal 1994, posticipando ino al 2010 ogni intervento normativo. Nell’esperienza danese, in particolare, l’attivazione della mediazione è devoluta alla polizia, senza che sia richiesto un previo esplicito riconoscimento di responsabilità da parte del reo, salvo dover evidenziare che i maggiori problemi pratici nell’applicazione dell’istituto si incontrano a causa dell’opposizione delle vittime, che si riiutano frequentemente di sedersi al tavolo mediativo oppure, una volta sedute, se ne allontanano con una certa facilità. Per la Svezia, le esperienze di mediazione sono in progressiva crescita, soprattutto in ambito minorile, sempre a partire dalla ine degli anni ottanta, per giungere, nel 2002, ad una disciplina, ancora non completa, che detta alcune linee generali, capaci tuttavia di supportare uno sviluppo omogeneo dell’istituto su tutto il territorio nazionale. In Finlandia, la giustizia riparativa ha raggiunto un livello altissimo di applicazione, con un importante successo delattivo, ma anche conciliativo, ove si pensi che la maggior parte degli esperimenti si conclude con un accordo risarcitorio, o solo con semplici scuse. La mediazione viene attivata in fase di indagini dal pubblico ministero o dalla polizia, che – quando ritengono che il caso sia adatto alla procedura (sono normalmente esclusi i reati violenti) – informano le parti di questa facoltà. Se l’esito è positivo si aprono due soluzioni, sul versante procedimentale: (a) se il reato è procedibile a querela, questa viene ritirata, impedendo la prosecuzione del giudizio; (b) se, invece, il reato è procedibile d’uicio, il pubblico ministero può archiviare o chiedere al giudice che dell’accordo si tenga conto ai ini dell’attenuazione della pena. 6.2. L’area centro-orientale. Per l’area centro-orientale europea, si osserva una notevole disomogeneità di sviluppo della giustizia riparativa, dovuta, in particolare, ai ritardi nella sua implementazione. In Bulgaria, le pratiche riparative – intendendo con queste essenzialmente la mediazione penale – sono ampiamente conosciute ed apprezzate in ambito scientiico come strumenti integrativi della giustizia tradizionale, ma senza un particolare successo empirico, nonostante il Bulgarian Mediation Act del 2004, con il quale la mediazione è stata introdotta in ambito civile e familiare, ha riconosciuto la possibilità di inserire nell’ordinamento anche una disciplina delle pratiche mediative nel rapporto tra autore e vittima del reato, senza tuttavia far seguito alcuna concreta iniziativa attuativa del legislatore in materia penale ed il nuovo codice di procedura penale del 2005, entrato in vigore l’anno successivo, ha del tutto omesso di disciplinare l’istituto. 252 appunti su pena e giustizia POST-CONTEMPORANEA Per la Bosnia-Erzegovina e la Croazia, l’implementazione di sistemi di giustizia riparativa è resa diicoltoso dal principio di obbligatorietà dell’azione penale, anche se la mediazione penale rappresenta una misura di diversion molto importante nella fase pre-processuale (attraverso una sorta di sospensione condizionata della procedibilità), gestita prevalentemente da organismi non governativi e da altri professionisti esterni all’organizzazione giudiziaria. L’esperienza ungherese è relativamente breve, in quanto, solo dall’inizio del 2007, è stata introdotta nel codice di procedura penale una disciplina speciica della mediazione, che può essere avviata, in particolare, in fase pre-processuale, su istanza della persona sottoposta alle indagini o della vittima, e con il loro consenso, nei procedimenti penali riguardanti reati contro la persona, contro la sicurezza dei trasporti o contro il patrimonio per i quali è prevista una pena non superiore a cinque anni di reclusione. Va segnalata la nozione di vittima in questo contesto che è molto ampia, comprendendo anche le persone giuridiche, ma la prospettiva futura è quella di pensare ad un’applicazione della mediazione addirittura ad ipotesi in cui la vittima non sia identiicata, con l’efetto che tale istituto assumerebbe una speciica funzione di riparazione della frattura istituzionale che il reato a perpetrato nella collettività (rectius, ordinamento). L’accesso alla mediazione presuppone l’ammissione di responsabilità del reo, ovvero una vera e propria confessione dei fatti commessi. L’esito positivo della mediazione può condurre all’archiviazione del procedimento. In ogni caso, comunque, l’esito anche negativo non può essere utilizzato contro la persona sottoposta alle indagini. In generale, inine, le dichiarazioni rilasciate dalle parti nell’ambito del procedimento di mediazione non possono assumere valore probatorio. È interessante, poi, l’esperienza della Lettonia, dove la mediazione in materia penale si è imposta nella pratica grazie soprattutto all’operato delle organizzazioni non governative e dello State Probation Service, un istituto pubblico, dipendente dal Ministero della Giustizia, che si occupa della risocializzazione dei condannati, in particolare a lavori di pubblica utilità (grandemente impiegati nel sistema penale). L’attenzione al tema della giustizia riparativa ha suscitato diverse proposte di riforma, tra le quali si deve menzionare quella rivolta ad inserire tra i più tradizionali ini della pena anche la riparazione, deinita più precisamente come restoration of justice. Per la Polonia, l’introduzione della mediazione nei codici penale e di procedura penale del 1997 ha assunto un signiicato politico di rinnovamento e rottura con il passato e, comunque, ha, in qualche misura, avuto un discreto successo nella pratica, anche per la fase esecutiva della pena38. 38. Art. 320 c.p.c. polish: «§ 1. If it is relevant in connection with a respective motion to the court, the state prosecutor may, on his own initiative, or with the consent of parties, refer the case to a trustworthy institution or person in order to conduct a mediation procedure between the suspect and the injured. § 2. 253 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea La mediazione penale nell’ordinamento sloveno, introdotta nel 1999, ha riscosso un notevole successo soprattutto nella fase delle indagini preliminari, potendo portare all’archiviazione del procedimento in ipotesi di esito positivo. 6.3. L’area anglosassone. Le esperienze dell’Inghilterra e del Galles sono le più interessanti, anche perché gli strumenti della giustizia riparativa (come i reparation orders) sono ampiamente impiegati, in ipotesi di reati lievi ed imputati non recidivi, in ambito minorile, anche grazie al Crime and Disorder Act del 1998, mentre – per quanto riguarda gli adulti – sono ancora del tutto privi di supporto normativo ed hanno cominciato solo timidamente ad apparire, sempre per reati di lieve entità, dal 2003, attraverso il conditional caution, un ammonimento condizionato, anche a pratiche riparative, che può formulare il pubblico ministero. La vittima viene direttamente coinvolta nella deinizione della riparazione, quando, in particolare, per la natura della stessa, si impone come necessario od opportuno il suo consenso. Qualora, invece, l’ammonimento segua lo svolgimento di un processo riparativo, le condizioni possono rilettere l’esito dello stesso, attivato autonomamente dalle parti. Abbastanza frequente – anche se non difusa omogeneamente sul territorio – è, infatti, la mediazione sperimentata, unitamente ad alcuni schemi di conferencing, all’esterno del sistema uiciale di giustizia penale e gestita prevalentemente da associazioni di volontari che lavorano in stretto contatto con il governo locale, la polizia ed il servizio sociale. Le modalità e gli efetti della collaborazione tra gli enti variano profondamente e sono in gran parte rimessi alla discrezionalità del pubblico ministero e della polizia. Il processo penale per il resto rimane intrinsecamente retributivo nella pratica, anche se in sentenza il giudice deve ordinare al condannato di risarcire la vittima per ogni ofesa, perdita o danno subito come conseguenza del reato o motivare qualora si astenga dall’ordine. 6.4. L’area centro-meridionale. In Austria, la giustizia riparativa, dapprima, sperimentato in alcuni centri sin dagli anni ottanta, successivamente è stata normativamente introdotta, prima in ambito minorile (1988) e, successivamente, nel codice di procedura penale (1999), al ine di consentire la deprocessualizzazione in un ordinamento altrimenti vincolato al principio di obbligatorietà dell’azione penale. Le condizioni stabilite dalla legge per accedere alla diversion sono le se- Having conducted the mediation proceedings, a trustworthy institution or person shall prepare a report on its course and results, which the state prosecutor shall take into account when deciding on submission to the court of the respective motion referred to in § 1. § 3. The Minister of Justice shall set forth, by ordinance, conditions to be met by institutions and persons authorized to conduct mediation, the scope and terms of giving them access to the case iles, as well as the principles and procedures for preparing reports on the course and results of the mediation proceedings». 254 appunti su pena e giustizia POST-CONTEMPORANEA guenti: l’indagato deve avere un’alta probabilità di condanna; l’indagato deve essere consapevole di aver fatto qualcosa di sbagliato (ma non è necessaria la piena confessione); l’indagato non deve aver commesso un reato che richiede l’applicazione di misure di prevenzione generale. Questa condizione si veriica nel caso in cui l’indagato che chiede di ricorrere alla mediazione sia già stato condannato per altri reati, nell’anno precedente (la durata del periodo può variare); la vittima ed i suoi interessi devono essere tenuti in adeguata considerazione. In Austria, le forme di diversion costituiscono un’alternativa alla sanzione penale tradizionale. In generale, il Pubblico Ministero utilizza la mediazione penale (Außergerichtlicher Tatausgleich) come forma di archiviazione. Tuttavia la mediazione penale può essere utilizzata anche come semplice circostanza attenuante, ovvero come condizione per la concessione della messa alla prova o del rilascio sulla parola. L’ordinamento belga conosce ampiamente tutte le forme della giustizia riparativa, in tutte le sue forme. La mediazione penale può dirsi indirettamente riconosciuta dal legislatore belga con la legge del 1994, che ha introdotto il nuovo art. 216-ter c.p.p., per i reati per cui il pubblico ministero ritiene che si possa applicare la pena non superiore a due anni di reclusione. Il pubblico ministero, dunque, convoca l’indagato, invitandolo a indennizzare o riparare il danno causato dalla condotta vietata. Il pubblico ministero, se del caso, può convocare, altresì, la vittima, al ine di organizzare una mediazione. A diferenza di quasi tutti gli altri paesi europei, dove la giustizia minorile ha rappresentato il terreno privilegiato di sperimentazione delle pratiche riparative, in Belgio, questa si è difusa soprattutto nella giustizia ordinaria. L’esito positivo dell’invito conciliativo determina «l’extinction de l’action publique». Una diversa forma di mediazione, invece, è stata introdotta – dopo una compiuta sperimentazione – solo nel 2005, per i reati più gravi, con l’obiettivo di far evolvere l’applicazione dello strumento, sottraendolo ad una spiccata funzionalizzazione diversiva. L’esito positivo del processo mediativo può essere considerato dal giudice esclusivamente in sede di commisurazione della pena. L’ordinamento spagnolo non conosce l’istituto della mediazione penale, certamente nell’ambito della giustizia ordinaria, mentre, a partire dal 2000, ha fatto capolino nella giustizia minorile. Ad ogni modo, vi sono degli istituti che possono essere ricondotti alla giustizia riparativa. Innanzitutto, è previsto un tentativo di conciliazione preliminare obbligatorio, in ipotesi di procedimenti per difamazione ed ingiuria. Poi, il codice penale riconosce alcuni beneici, in termini soprattutto di attenuazione della pena o di sua sospensione, qualora siano state poste in essere condotte riparative. I reati procedibili a querela rappresentano il vero terreno di possibile sperimentazione della mediazione e, così, sfruttando i piccoli spazi lasciati dal sistema alla giustizia riparativa, in alcune realtà locali, su iniziativa dell’amministrazione, sono sorti dei servizi di mediazione, che operano sperimentalmente a favore di alcune Corti. 255 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea Inine, la Francia ha un’antica tradizione di giustizia riparativa che risale ai tempi della Rivoluzione francese, quando fu istituita la igura dello jude de paix39. L’ordinamento penale francese utilizza misure di riparazione, tra cui la mediazione, già a partire dagli anni settanta-ottanta. La scelta di sperimentare forme di giustizia riparativa è dovuta, da un lato, al fallimento dell’apparato giudiziario e, dall’altro, alla perdita della tradizionale capacità di gestire i conlitti da parte dei gruppi più vulnerabili sul piano socio economico. L’emergere negli anni Ottanta di un forte domanda di sicurezza sociale, collegata all’incremento dell’urbanizzazione, al degrado connesso delle periferie e delle grandi città, a una società sempre più multietnica, porta alla creazione delle Maison de justice et du droit, le strutture che gestiscono la mediazione penale. Tali strutture possiedono diverse caratteristiche, poiché rappresentano un luogo terzo rispetto all’aula giudiziaria, pur essendo create su impulso del Procuratore della Repubblica; svolgono una funzione di supporto ai servizi e alle associazioni che agiscono sul territorio a tutela del cittadino e a sostegno delle situazioni di disagio (le associazioni di aiuto alle vittime, le associazioni per la mediazione, i servizi sociali territoriali etc.). L’accesso alla mediazione penale è, comunque, agevolato dalla mancanza del principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, con l’efetto che le parti non devono obbligatoriamente ricorrere all’autorità giudiziaria per attivare il procedimento di mediazione. La mediazione si attua per reati ed infrazioni che prevedono pene inferiori ad un mese e che sono quasi sempre causate da conlitti in ambito familiare, lavorativo, di vicinato, tra persone, quindi che si conoscevano già prima del reato e che saranno costrette a rincontrarsi. Tale strumento riparativo è normalmente avviato all’interno dell’ordinaria procedura penale, sia dal pubblico ministero, che dalle parti, ma non è sottoposto al controllo giudiziario. La conduzione della mediazione è aidata o alle Maisons de justice ed du droit, che dipendono direttamente dalla Procura (mediazione non delegata o retenue), o alle associazioni per le vittime40, che stipulano un apposito accordo con la Procura della Repubblica competente (mediazione delegata o delegue). 6.5. L’esperienza italiana. Si è già accennato alla diicoltà costituzionale che incontra nel nostro sistema l’ipotesi di una sostituzione della giustizia tradizionale con quella riparativa o, meglio, con lo strumento della mediazione. È venuto ora il momento di approfondire la relativa problematica. Tale istituto parrebbe contrastare con il principio di obbligatorietà dell’azione penale, previsto dall’art. 112 Cost., poiché, si dice, la conciliazione tra le parti 39. Un esperimento, quello del Giudice di pace, rivelatosi fallimentare a causa di un apparato di giustizia troppo burocratizzato. Nel 1958 lo jude de paix viene abolito e sostituito dalla igura del conciliateur, che mantiene competenze riparative/conciliative soprattutto in ambito civile. 40. Le principali associazioni sul territorio francese sono: Istitut National d’aude aux victimes et de la Mediacion (Inavem); Comité de Laison des Association de contrôle judiciarie (Clcj). 256 appunti su pena e giustizia POST-CONTEMPORANEA non fa venire meno il disvalore del comportamento vietato che non può coincidere (sempre) con l’interesse particolare della vittima. Fatta eccezione, dunque, per i reati perseguibili a querela della persona ofesa ed in relazione a solo quelli per cui la stessa è rimettibile, è evidente che l’intervenuta conciliazione tra autore del fatto e vittima implicherebbe il certo arresto del procedimento penale. La questione, dunque, si pone in relazione ai reati procedibili ex oicio, per cui l’iniziativa pubblica obbligatoria è regolata dal criterio dell’idoneità degli elementi indiziari per sostenere l’accusa in giudizio, prevista dall’art. 125 disp. att. c.p.p., con l’efetto che l’archiviazione non può essere richiesta sulla base di scelte conciliative, che non possono incidere sulla prova del fatto commesso. Non paiono sostenibili le soluzioni proposte relativamente ad un’applicazione «non rigorosa del principio di obbligatorietà»41 che, argomentando dalla giurisprudenza costituzionale42, fanno leva sull’ofensività in concreto ex post, poiché «la riparazione del danno riduce il disvalore sociale della condotta, diminuendo – qualora non riesca, addirittura, ad azzerarle – le conseguenze pregiudizievoli»43, optandosi meglio su soluzioni di mediazione processuale che vadano a sostituire la pena senza escludere il processo e, dunque, facendo salvo il principio di cui all’art. 112 Cost. Ora, in ordine agli strumenti riparativi vigenti nel nostro ordinamento, va evidenziato che la mediazione è stata introdotta nella prassi, conformemente alla tradizione europea, innanzitutto nel sistema minorile, in forza del disposto degli artt. 9 e 27 D.P.R. 448/1988 per la fase delle indagini preliminari, ed in virtù degli artt. 27 e 28 D.P.R. 448/1988, per le fasi successive44. 41. Patanè, Ambiti di attuazione di una giustizia conciliativa alternativa a quella penale: la mediazione, in Giostra, Illuminati (a cura di), Il giudice di pace nella giurisdizione penale, Torino, 2001, 27. 42. Corte cost. n. 88 del 1991, secondo cui «la regola che l’art. 125 del d.lgs. 28 luglio 1989, n. 271 (art. 125 disp. att. c.p.p.) (norma di attuazione del nuovo codice di procedura penale) detta per il pubblico ministero, quando deve decidere se iniziare o meno un’azione penale, consiste in una valutazione degli elementi acquisiti non più nella chiave dell’esito inale del processo, (come già previsto nel testo dell’art. 115 del progetto preliminare) bensì nella chiave della loro attitudine a giustiicare il rinvio a giudizio nel senso, cioè, che la valutazione degli elementi di prova acquisiti durante le indagini preliminari diventa funzionale non alla condanna bensì alla sostenibilità dell’accusa. Così come formulata, la norma è, in deinitiva, la traduzione in chiave accusatoria del principio di non superluità del processo, in quanto il dire che gli elementi acquisiti non sono idonei a sostenere l’accusa equivale a dire che, sulla base di essi, l’accusa è insostenibile e che, quindi, la notizia di reato, è, sul piano processuale, infondata. L’impossibilità di sostenere la prospettazione accusatoria deve essere quindi chiara e non equivoca, coerentemente all’univocità dell’infondatezza (“manifesta”) che connota la formula usata nell’art. 2, direttiva 50, della legge di delega 16 febbraio 1987, n. 81». 43. Tigano, Giustizia riparativa e mediazione penale, in Aleo, Barone (a cura di), Quaderni del dipartimento di studi politici 2/2007, Milano, 2007, 38. 44. Senza intenzione di completezza, in dottrina, si rinvia a Cesari, Sub art. 27 d.P.R. 448/1988, in Giostra (a cura di), Il processo penale minorile, Milano, 2009; Id., Sub artt. 28-29 d.P.R. 448/1988, 257 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea Per quanto riguarda, invece, la giustizia ordinaria, il legislatore italiano ha introdotto lo strumento della mediazione nel sotto-sistema della giurisdizione penale di pace, in ossequio a quanto previsto dall’art. 29 d.lgs. 274/2000, che può essere disposta dal giudice onorario in presenza di reati procedibili a querela di parte, in sede di udienza di comparizione, avvalendosi di centri e strutture pubbliche o private presenti sul territorio, qualora tale attività possa favorire la conciliazione tra autore del reato e vittima e, dunque, con una chiara inalizzazione delattiva volta alla caducazione dell’azione penale per volontà della vittima (rimessione della querela)45. Al pari di quanto previsto dal sistema minorile, l’istituto della particolare tenuità del fatto è previsto come causa di improcedibilità dell’azione penale dall’art. 34 d.lgs. 274/200046 e va formulata nella coesistenza di quattro parametri, di cui due inerenti al fatto di reato (l’esiguità del danno o del pericolo ed il grado della colpevolezza) e due inerenti all’agente (l’occasionalità della condotta e le esigenze di vita), oltre all’assenza di un requisito negativo: la carenza di interesse della persona ofesa alla prosecuzione del procedimento. Tale interesse negativo non può essere «generico ed imprecisabile»47, ma andrebbe correlato alle previsioni di cui agli artt. 29 e 35 d.lgs. 274/2000, nel senso che la vittima può opporsi alla declaratoria di improcedibilità per tenuità del fatto nell’ipotesi in cui non si sia conciliata con l’autore del reato o non abbia ottenuto alcun risarcimento. La scelta del le- ibid.; Colamussi, La sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto: punti controversi della disciplina e prospettiva di riforma, in Cass. pen., 1996, 1669 ss.; Di Nuovo, Grasso, Diritto e procedura penale minorile, Milano, 2005; Giannino, Il processo penale minorile, Padova, 1997; Palomba, Il sistema del processo penale minorile, Milano, 2002, 508 ss.; Larizza, Le “nuove” risposte istituzionali alla criminalità minorile, in Presutti, Palermo Fabris (a cura di), Diritto e procedura penale minorile, Milano, 2002, 249 ss.; Pansini, Udienza preliminare, in ibid., 496 ss.; Sfrappini, Sub art. 27 D.P.R. n. 448/1988, in Giostra (a cura di), Il processo penale minorile, Commento al D.P.R. 448/1988, Milano, 2009; Musacchio, Manuale di diritto minorile. Proili dottrinali e giurisprudenziali, Padova, 2007; Iasevoli, Diritto all’educazione e processo penale minorile, Napoli, 2012. 45. In dottrina, Sotis, La mediazione nel sistema penale del giudice di pace, in Mannozzi (a cura di), Mediazione e diritto penale, dalla punizione del reo alla composizione con la vittima, Milano, 2004, 47 ss. 46. Nella letteratura, senza pretese di completezza, Bartoli, L’irrilevanza penale del fatto. Alla ricerca di strumenti di depenalizzazione in concreto contro la ipertroia c.d. “verticale” del diritto penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2000, 1473 ss.; Caprioli, Melillo, Ruggieri, Santalucia, Sulla possibilità di introdurre nel processo penale ordinario l’istituto della particolare tenuità del fatto, in Cass. pen., 2006, 3496 ss.; Cerqua, Improcedibilità per particolare tenuità del fatto, in Gpace, 2003, 4, 326 ss.; Diotallevi, L’irrilevanza penale del fatto nelle prospettive di riforma del sistema penale, in Cass. pen., 1998, 2806 ss.; Vinciguerra, Appunti sull’inofensività, la tenuità dell’ofesa e la tenuità del reato in Italia nel secondo novecento, in Studi in onore di Giorgio Marinucci, 2006, 2077 ss.; Salcuni, Esiguità e reati di pericolo astratto: intorno all’applicabilità dell’art. 34 d.lgs. n. 274 del 2000, in Cass. pen., 2007, 2901 ss.; Sgubbi, L’irrilevanza del fatto quale strumento di selezione dei fatti punibili, in Picotti, Spangher (a cura di), Verso una giustizia penale “conciliativa”, Milano, 2002, 159 ss. 47. Bartoli, Le deinizioni alternative del procedimento, in Dir. pen. proc., 2001, 180. 258 appunti su pena e giustizia POST-CONTEMPORANEA gislatore non è condivisibile, ove si guardi poi alla notevole diferenza tra quanto previsto per la fase delle indagini preliminari, in cui il decreto di archiviazione per tenuità del fatto può essere adottato anche nell’ipotesi di opposizione della persona ofesa, e quanto stabilito per la fase dibattimentale, ove tale opposizione costituisce un vero e proprio veto alla declaratoria di improcedibilità, che, ovviamente, ne inicia la stessa potenzialità delattiva, ma anche riparativa. Ed invero, tale opposizione della vittima deve mirare solo a sollecitare il reo ad assumere un atteggiamento conciliante e di comprensione nei confronti della vittima, al ine di evitare comportamenti di indiferenza nei confronti dell’ofesa perpetrata48. La condotta riparatoria, già prevista, fra l’altro, nel sistema della responsabilità da reato degli enti collettivi e nell’ipotesi di cui all’art. 341-bis c.p.49, assume una particolare importanza nel microsistema di pace, in quanto l’art. 35 d.lgs. 274/2000 disciplina una deinizione alternativa del procedimento con inalità delattive ed esigenze di ricomposizione tra autore e vittima, che determina, nell’ipotesi afermativa, l’estinzione del reato50 o, secondo una parte della dottrina, nonostante il tenore letterale della disposizione, tale condotta conigura una causa sopravvenuta di non punibilità51. Allo stesso modo, un ruolo importante è stato assunto dal lavoro di pubblica utilità, sanzione riparatoria in senso ampio, da poco introdotta come sanzione sostitutiva della pena detentiva o pecuniaria, anche per la guida in stato di ebbrezza. Originariamente previsto solo dall’art. 73, co. 5-bis d.P.R. 309/1990, consiste nella prestazione di un’attività non retribuita a favore della collettività 48. Tale norma è stata oggetto di censure di illegittimità proprio in ordine al requisito negativo della non-opposizione della vittima, ma la Corte costituzionale le ha dichiarate tutte inammissibili senza entrare nel merito delle censure. Cfr. Corte cost. n. 34 del 2003; Id. n. 63 del 2007. 49. Nel nostro ordinamento vi sono diverse disposizioni di legge che da condotte riparatorie o risarcitorie fanno discendere degli efetti in ordine al trattamento sanzionatorio: e così, rispetto alla commisurazione della pena si guardi agli artt. 62, co. 1, n. 6 e 133, co. 2, n. 3, c.p.; ancora in merito all’esecuzione della pena, l’art. 47, co. 7, o.p.; o inine, in ordine all’an dell’esecuzione, gli artt. 165, co. 1, e 176, co. 4, c.p. 50. In dottrina, fra i tanti, Bernardi, Aspetti penali sostanziali. 2. Giudice di pace e reati nella legislazione speciale, in Dir. pen. proc., 2011, 172 ss.; Cerqua, La rilevanza delle condotte riparatorie dell’imputato con riferimento ai reati di pericolo, in Gpace, 2009, 79 ss.; Eusebi, Strumenti di deinizione anticipata del processo e sanzioni relative alla competenza penale del giudice di pace: il ruolo del principio conciliativo, in Picotti, Spangher (a cura di), Competenza penale del giudice di pace e “nuove” pene non detentive, Milano, 2003, 55 ss; Flora, Risarcimento del danno e conciliazione: presupposti e ini di una composizione non punitiva dei conlitti, in Picotti, Spangher (a cura di), Verso una giustizia penale conciliativa, Milano, 2002, 149 ss.; Galatini, La disciplina processuale delle deinizioni alternative del procedimento innanzi al giudice di pace, in ibid., 217 ss.; Giunta, Un primo bilancio applicativo della giurisdizione penale di pace, in Gpace, 2006, 80 ss.; Lunghini, La competenza penale del giudice di pace: l’estinzione del reato conseguente a condotte riparatorie, in Gpace, 2001, 2, 240 ss. 51. Ex multis, Guerra, L’estinzione del reato conseguente a condotte riparatorie, in Scalfati (a cura di), Il giudice di pace. Un nuovo modello di giustizia penale, Milano, 2001, 506. 259 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea da svolgere presso lo Stato, le regioni, le province, i comuni o presso enti e organizzazioni di assistenza sociale o volontariato52. Gli artt. 186 co. 9-bis, e 187, co. 8-bis C.d.S., così come modiicati, prevedono che la pena detentiva e pecuniaria per la guida in stato di ebbrezza può essere sostituita, se non vi è opposizione da parte dell’imputato, con quella del lavoro di pubblica utilità di cui all’articolo 54 d.lgs. 274/2000, secondo le modalità ivi previste e consistente nella prestazione di un’attività non retribuita a favore della collettività da svolgere, in via prioritaria, nel campo della sicurezza e dell’educazione stradale presso lo Stato, le regioni, le province, i comuni o presso enti o organizzazioni di assistenza sociale e di volontariato, o presso i centri specializzati di lotta alle dipendenze53. La sanzione viene disposta dal giudice solo su richiesta dell’imputato54, in armonia con quanto previsto dall’art. 4 Convenzione EDU55. 7. Note conclusive sul ruolo della vittima nel sistema penale europeo ed il risarcimento come strumento riparativo in funzione solidaristica. La giustizia riparativa e, in particolare, il ruolo della vittima nell’accertamento del reato (e non solo) sono evidenziati nella recente direttiva 2012/29/UE del 25 ottobre 2012, preceduta da 52. La prestazione di lavoro, ai sensi del decreto ministeriale 26 marzo 2001, viene svolta a favore di persone afette da HIV, portatori di handicap, malati, anziani, minori, ex detenuti o extracomunitari; nel settore della protezione civile, nella tutela del patrimonio pubblico e ambientale o in altre attività pertinenti alla speciica professionalità del condannato. 53. La pena in questione è applicata all’imputato per i reati previsti dall’art. 73, co. 5, d.P.R. 309/1990 (produzione, traico e detenzione illecita di sostanze stupefacenti di lieve entità), nonché nell’ipotesi generale di cui all’art. 105 l. 689/1981, quando non può essere concesso il beneicio della sospensione condizionale della pena; viene comminata in alternativa alla pena detentiva e alla pena pecuniaria, con le modalità previste dall’art. 54 del decreto legislativo 28 agosto 2000 n. 274. La legge 9 agosto 2013, n. 94 ne ha potenziato il ricorso per i tossicodipendenti introducendo il co. 5-ter che prevede che la misura possa applicarsi anche per un reato diverso da quelli previsti dal co. 5, purché commesso per una sola volta, da persona tossicodipendente o da assuntore abituale di sostanze stupefacenti o psicotrope e in relazione alla propria condizione di dipendenza o di assuntore abituale, per il quale il giudice inligga una pena non superiore ad un anno di detenzione. 54. Ma anche del difensore munito di procura speciale, Cass. pen. Sez. III, 3 febbraio 2010, n. 16849. 55. Nel senso di una necessaria collaborazione del reo per scopi di risocializzazione, Aprile, La competenza penale del giudice di pace, Milano, 2007, 292; V. Zagrebelsky, Solo un piccolo catalogo di reati supera la portata stretta della delega, in D&G, 2000, 31, 6. Si ritiene che qualora il condannato chieda di poter svolgere il lavoro di pubblica utilità, il giudice sia tenuto ad applicare tale pena, in luogo della permanenza domiciliare, che per un verso presenta più marcati caratteri di alittività, andando ad incidere sulla libertà personale del reo in maniera più estesa a diversi aspetti della stessa, e, dall’altro, la stessa è sprovvista di positive attitudini risocializzanti. «Assecondare la richiesta del condannato che dimostra “un’autentica volontà di risocializzazione” corrisponde tra l’altro alla logica della mediazione cui è ispirato il sottosistema del giudice di pace». Cfr. Leoncini, Le sanzioni, in Dir. pen. proc., 2001, 198; Manozzi, La giustizia senza spada, Milano, 2003, 314 ss. 260 appunti su pena e giustizia POST-CONTEMPORANEA un’ampia elaborazione normativa a livello europeo ed internazionale56, adottata in ossequio a quanto previsto dall’art. 82, § 2, TFUE che attribuisce alla competenza eurounionista i diritti delle vittime della criminalità57. In tale prospettiva, la direttiva contempla diversi strumenti riparativi oltre alla mediazione penale, contenendo una deinizione di giustizia riparativa come qualsiasi procedimento che permette alla vittima e all’autore del reato di partecipare attivamente, previo consenso libero ed informato, alla risoluzione delle questioni risultanti dal reato con l’aiuto di un terzo imparziale. L’indirizzo tracciato dalla disposizione europea è quello di individuare le condizioni perché le vittime possano giovarsi di servizi di giustizia riparativa (tra i quali comprende la mediazione, il dialogo esteso ai gruppi parentali e i consigli commisurativi), apprestando garanzie volte ad evitare la vittimizzazione secondaria e ripetuta, e l’intimidazione58. La giustizia riparativa e il precauzionismo59, ma la stessa predisposizione di una tutela penale della prevenzione, volta ad evitare vittime, come l’indirizzo della giurisprudenza convenzionale sull’elaborazione degli obblighi positivi di penalizzazione60, sono un carattere innovativo del diritto penale contemporaneo, rispetto a quello tradizionale che ruotava intorno al solo autore del reato ed alla punizione di comportamenti, di regola, dannosi61. Oggi, il percorso di avocazione della tutela dei diritti ofesi, da parte del sistema penale, è giunto ad un punto di (necessaria) inversione: 56. Giuffrida, Verso la giustizia riparativa, in Mediares, 3, 2004 elenca tutta l’ampia normativa di indirizzo europeo in subiecta materia, succedutesi sino alla direttiva appena menzionata. 57. Per un generale inquadramento delle fonti internazionali ed europee in materia di tutela della vittima, senza alcuna intenzione di completezza, Aimonetto, La valorizzazione del ruolo della vittima in sede internazionale, in Giur. it., 2005, 1327 ss.; Armone, La protezione delle vittime dei reati nella prospettiva dell’Unione europea, in Diritto penale europeo e ordinamento italiano, Milano, 2006, 99 ss.; Id., La protezione delle vittime dei reati nello spazio giudiziario europeo: prospettive e paradossi all’indomani del Trattato di Lisbona, in FI, 2011, 204 ss.; Del Tufo, La tutela della vittima in una prospettiva europea, in Dir. pen. proc., 1999, 889 ss.; Id., Linee di politica criminale europea e internazionale a protezione della vittima, in QG, 2003, 705 ss; Id., La vittima di fronte al reato nell’orizzonte europeo, in Fiandaca, Visconti (a cura di), Punire Mediare Riconciliare. Dalla giustizia penale internazionale all’elaborazione dei conlitti individuali, Torino, 2009, 107 ss.; Gamberini, Les politiques supranationales européennes ou l’âme ambiguë de l’harmonisations, in Giudicelli-Delage, Lazerges (a cura di), La victime sur la scène pénale en Europe, Paris, 2008, 159 ss.; Lanthiez, La clariication des fondaments européens des droits des victimes, in ibid., 145 ss.; Sanz-Dìez de Ulzurrun Lluch, La posición de la víctima en el derecho comparado y en la normativa de la Union europea, in González González (a cura di), Panorama actual y i perspectivas de la victimología: la victimología y el sistema penal, Madrid, 2007, 137 ss. 58. Conigliaro, La nuova direttiva europea a tutela delle vittime da reato. Una prima lettura della direttiva 2012/29/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, in www.penalecontemporaneo.it, 6 del dattiloscritto. 59. Tanto è acutamente evidenziato da V. Valentini, Diritto penale intertemporale, cit., 9. 60. Fra i tanti, sul punto, Bestagno, Diritti umani e impunità. Obblighi positivi degli Stati in materia penale, Milano, 2003, 149 ss. 61. Venafro, Brevi cenni introduttivi sull’evoluzione della tutela della vittima nel nostro sistema penale, in Venafro, Piemontese (a cura di), Ruolo e tutela della vittima in diritto penale, Torino, 2004, 12. 261 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea dall’avocazione statale della tutela della vittima che aveva portato alla sua completa marginalizzazione e spersonalizzazione62, infatti, si è passati ad un indirizzo opposto caratterizzato dal re-ingresso della vittima nell’iter di responsabilizzazione del reo e, come visto, di sua risocializzazione, come una sorta di restituzione della gestione del conlitto nelle mani dell’ofeso. È un’evidenza che «connota in maniera netta il diritto penale moderno in contrapposizione al passato: le necessità delle vittime divengono “visibili” e assurgono in qualche modo a funzione della stessa giustizia penale»63. A ben guardare, comunque, il re-ingresso della vittima nella gestione del conlitto attraverso gli strumenti riparativi ha il ine di giovare, non solo, alla stessa vittima, escludendo la relativa marginalizzazione o vittimizzazione secondaria, ma anche al reo, che vede così favorirsi il percorso di risocializzazione64. Ma l’attenzione dell’ordinamento tutto proteso verso la vittima, appare evidenziata anche dall’attribuzione al risarcimento del danno soferto di una sorta di funzione pubblica, così come, un tempo, propugnato dalla scuola positiva, che per prima ha posto interesse sul terzo protagonista della giustizia penale65, individuando nel risarcimento del danno (appunto) l’unico rimedio attraverso il quale lo Stato possa attuare una tutela immediata a favore dell’ofeso66. In tal maniera, il pregiudizio subito dal singolo è ristorato dalla comunità che non ha saputo o potuto evitare la commissione del reato. Lo strumento risarcitorio, pertanto, assume un evidente connotato riparativo, poiché inalizzato a restituire alla vittima, per scopo solidaristico, il pregiudizio patito e, comunque, reinserendo la vittima in una posizione di tutela e di riguardo da parte dell’ordinamento. Così, certamente, si favorisce la partecipazione della persona ofesa al percorso di risocializzazione dell’autore del reato, ma, ugualmente, non si discrimina il reo in condizioni economiche disagiate, che, diversamente, vedrebbe venir meno la possibilità di un positivo reingresso in società, non avendo l’occasione (incolpevole) di soddisfare la vittima dal punto di vista restitutorio, a diferenza di quanto potrebbe fare il reo in condizioni economiche vantaggiose67. La previsione, dun62. Bovino, Problemas de derecho procesal penal contemporàneo, Buenos Aires, 1998, 71 ss.; Hassemer, Persona, mundo y responsabilidad. Bases para una teorìa de la imputaciòn en el Derecho penal, Bogotà, 1999, 110 ss. 63. Cornacchia, La vittima nel diritto penale contemporaneo. Tra paternalismo e legittimazione del potere coercitivo, Roma, 2012, 37. 64. Per la normativa italiana riparativa, già evidenziata infra § 5.5, si rinvia a Mannozzi, Mediazione e diritto penale. Dalla punizione del reo alla composizione della vittima, Milano, 2004. 65. Ex multis, Ferri, Principi di diritto criminale, Torino, 1928, 581. 66. Garofalo, Riparazione alle vittime del delitto, Torino, 1887; Ferri, Il diritto di punire come funzione sociale, in Arch. psich., II, 1882, 76 ss.; Id., Relazione sul Progetto preliminare di codice penale italiano per i delitti (1921), in Appendice ai Principi di diritto criminale, Torino, 1928, 732. 67. La questione relativa alle condizioni economiche del reo per poter usufruire di determinati beneici è stata sollevata innanzi alla Corte costituzionale in relazione all’art. 3 Cost. e con riferimento all’art. 165 c.p., nella parte in cui attribuendo al giudice la facoltà di concedere la sospensione 262 appunti su pena e giustizia POST-CONTEMPORANEA que, del risarcimento riparativo anticipato dallo Stato, in favore della vittima del reato, sarebbe (quasi) imposta dal combinato disposto degli artt. 2 e 3 Cost., nel senso che tale strumento avrebbe una inalità solidaristica in favore della vittima e di eliminazione delle diferenze economiche in favore del reo, allo scopo di favorirne la rieducazione ai sensi dell’art. 27, co. 3, Cost. Anche se tale forma di riparazione pubblica non era sconosciuta già negli stati italiani preunitari68, inizia a difondersi in maniera consistente nei paesi anglosassoni a partire dagli anni sessanta del secolo scorso, approdando anche in Italia69. Un impulso notevole viene fornito dalle fonti di indirizzo comunitario, ma anche internazionale. Ed invero, la Risoluzione n. 40/34, “Dichiarazione dei principi fondamentali di giustizia per le vittime del crimine e dell’abuso di potere”, approvata il 29 condizionale della pena subordinatamente all’efettiva riparazione del danno comporterebbe una discriminazione a carico di quel condannato il quale, a causa delle sue condizioni economiche, non fosse in grado di prestare il dovuto risarcimento. La Corte cost. n. 49 del 1975 ha dichiarato tale questione infondata, afermando, fra l’altro, che «la facoltà del giudice di imporre la condizione in esame, risponde ad una apprezzabile esigenza di politica legislativa penale, in quanto costituisce uno strumento diretto, da un lato, a tutelare, con l’interesse della persona ofesa, quello, pubblico, alla eliminazione delle conseguenze dannose degli illeciti penali e, dall’altro lato, a garantire che il comportamento del reo, successivamente alla condanna, si adegui concretamente a quel processo di ravvedimento, la cui realizzazione, come si evince dall’art. 164 cod. pen., costituisce lo scopo precipuo dell’istituto stesso della sospensione condizionale della pena, ed è indubbiamente testimoniato, fra l’altro, dalla circostanza, di per sé rivelatrice, dell’efettuato risarcimento del danno. Ed è appena il caso di osservare che tutto ciò costituisce ragionevole giustiicazione della fattispecie normativa in esame. D’altra parte, è da porre in evidenza che lo stesso art. 165, la cui legittimità è qui in esame, riconosce al giudice il potere di subordinare o meno all’adempimento dell’obbligo del risarcimento del danno la sospensione condizionale della pena: ciò come efetto di una valutazione, motivata ma discrezionale, della capacità economica del condannato e della concreta sua possibilità di sopportare l’onere del risarcimento pecuniario. E tale valutazione può intervenire, secondo giurisprudenza della Corte di cassazione, sia nel momento del giudizio di condanna, sia anche nel momento successivo di incapacità che sopravvenga entro il termine issato per l’adempimento della condizione. Questi principi forniscono chiaramente al giudice un mezzo idoneo per evitare che si realizzi in concreto un trattamento di sfavore a carico del reo, in funzione delle sue condizioni economiche, ed escludono, pertanto, anche sotto questo proilo, la violazione dell’invocato principio di eguaglianza». In altri termini, la subordinazione al risarcimento è imposta dal giudice a seguito di una valutazione della capacità economica del condannato di sopportare l’onere. Nella giurisprudenza di legittimità, in questo senso, cfr. Cass. pen. Sez. II, 15 febbraio 2013, n. 22342; Cass. pen. Sez. V, 3 novembre 2010, n. 4527. Contra, Cass. pen. Sez. III, 25 giugno 2013, n. 38345; Cass. pen., 19 novembre 2003, n. 48534. 68. Nel settecento, il Granduca Leopoldo di Toscana aveva istituito la Cassa per il risarcimento dei danni a favore delle vittime che non potevano beneiciare del risarcimento diretto del reo perché fuggito o in stato di insolvibilità. Del pari, analoga Cassa era prevista nel codice penale del Regno delle Due Sicilie del 1819. 69. Per una dettagliata ricostruzione storica della riparazione pubblica alle vittime del reato, cfr. Casaroli, La riparazione pubblica alle vittime del reato fra solidarietà sociale e politica criminale, in IP, 1990, 277 ss.; Amodio, Solidarietà e difesa sociale nella riparazione alle vittime del delitto, in Vittime del delitto e solidarietà sociale, Milano, 1975, 41 ss. 263 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea novembre 1985 dall’Assemblea generale della Nazioni Unite, con cui si raccomanda agli Stati l’adozione di misure volte al riconoscimento e all’efettività dei diritti delle vittime, riconosce, come diritto fondamentale della vittima, il diritto al risarcimento del danno (artt. 8-13), da farsi valere in primo luogo nei confronti del reo e, qualora il danno non possa essere pienamente risarcito dal colpevole o da altre fonti, viene previsto che siano gli Stati a doversi impegnare per fornire l’indennizzo alle vittime. Per quanto riguarda, invece, il diritto europeo70, dopo la Risoluzione n. (77) 27, adottata dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa il 28 settembre del 1977, sul “risarcimento alle vittime di reati violenti”, con cui vengono stabilite le direttrici fondamentali in materia di risarcimento alle vittime e si raccomandano gli Stati membri di prevedere un sistema di indennizzo statale per le vittime di reati intenzionali violenti, qualora l’indennizzo non possa essere assicurato ad altro titolo, e la Convenzione Europea sul “risarcimento alle vittime dei reati violenti”, emanata dal Consiglio d’Europa il 24 novembre 198371, ed alcune risoluzioni del Parlamento europeo72, è stata adottata la decisione-quadro n. 2001/220/GAI del 15 marzo 2001, relativa alla posizione della vittima nel procedimento penale73, poi, sostituita dalla direttiva del Consiglio 2004/80/CE “sull’indennizzo delle vittime di reato”, del 29 aprile 2004, la quale – al ine di dare concreta attuazione ad uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia e di salvaguardare la libera circolazione dei cittadini all’interno dell’Unione Europea – contiene una serie di prescrizioni agli Stati membri, ainché sia garantito un indennizzo equo ed adeguato per il risarcimento statale delle vittime dei reati intenzionali violenti e sia agevolato l’accesso al risarcimento statale in caso di reati commessi in uno Stato membro, diverso dallo Stato di residenza della vittima (situazioni transfrontaliere), mediante una cooperazione raforzata tra le autorità degli Stati. A tale direttiva, il nostro ordinamento74 ha dato (rectius, ha iniziato a dare) attuazione con il decreto legislativo 6 novembre 2007, n. 204, recante “Attuazione della direttiva 2004/80/CE relativa all’indennizzo delle vittime di reato”. Tale 70. Per un quadro generale sul diritto europeo in materia di vittime, cfr. Del Tufo, La tutela della vittima in una prospettiva europea, in Dir. pen. proc., 1999, 889 ss.; Id., La vittima di fronte al reato nell’orizzonte europeo, in Fiandaca, Visconti (a cura di), Punire Mediare Riconciliare. Dalla giustizia penale internazionale all’elaborazione dei conlitti individuali, Torino, 2009, 107 ss. 71. Casaroli, La Convenzione europea sul risarcimento alle vittime dei reati violenti: verso la riscoperta della vittima del reato, in Riv. it. dir. proc. pen., 1986, 563. 72. Risoluzione PE 13 marzo 1981 in GUCE n. C 077 del 6 aprile 1981 p. 0077; Risoluzione PE 12 settembre 1989 in GUCE n. C 256 del 9 ottobre 1989 p. 0032. 73. Per una dettagliata analisi cfr., fra i tanti, Del Tufo, La vittima di fronte al reato nell’orizzonte europeo, cit., 110 ss. 74. In relazione all’attuazione delle prescrizioni contenute nella direttiva in questione, l’Italia è risultata inadempiente. Infatti, il nostro Paese, non avendo provveduto ad attuare la direttiva entro il termine perentorio stabilito dalla Commissione europea (1 gennaio 2006), è stato destinatario di un procedimento per inadempimento, conclusosi con la condanna da parte della Corte di Giustizia, cfr. Corte Giust. Com. Eur., Sez. V, 29 novembre 2007, Commissione c. Italia. 264 appunti su pena e giustizia POST-CONTEMPORANEA direttiva è, parzialmente, inadempiuta, in quanto, nel nostro ordinamento, non è previsto il diritto all’indennizzo per le vittime di tutti i reati intenzionali e violenti, come prescritto dalla disposizione di indirizzo europeo, ma solo per alcuni75. Non solo, lo Stato italiano è stato condannato dal giudice domestico al risarcimento dei danni subiti dalla vittima di un reato intenzionale e violento per inadempimento della direttiva in questione76, ma, recentemente, la Commissione europea77 ha inviato, ai sensi dell’art. 258 TFUE, un parere motivato all’Italia per la cattiva attuazione di tale direttiva, in quanto «l’Italia non dispone di alcun sistema generale di indennizzo per tali reati: la sua legislazione prevede soltanto l’indennizzo delle vittime di alcuni reati intenzionali violenti, quali il terrorismo o la criminalità organizzata, ma non di altri» e, per l’efetto, «alcune vittime di reati intenzionali violenti potrebbero non avere accesso all’indennizzo cui avrebbero diritto»78. 75. Legge 13 agosto 1980, n. 466, artt. 3 e 4, recante norme in ordine a speciali elargizioni a favore di categorie di dipendenti pubblici e di cittadini vittime del dovere o di azioni terroristiche; legge 20 ottobre 1990, n. 302, artt. 1,3, 4 e 5, recante norme a favore delle vittime del terrorismo e della criminalità organizzata; decreto legge 31 dicembre 1991, n. 419 – convertito dalla legge 18 febbraio 1992, n. 172 – art. 1, di istituzione del Fondo di sostegno per le vittime di richieste estorsive; legge 8 agosto 1995, n. 340, articolo 1 – nel quale sono richiamati gli artt. 4 e 5 della legge n. 302/1990 – recante norme per l’estensione dei beneici di cui agli articoli 4 e 5 della legge n. 302/1990, ai familiari delle vittime del disastro aereo di Ustica; legge 7 marzo 1996, n. 108, artt. 14 e 15 recante disposizioni in materia di usura; legge 31 marzo 1998, n. 70 art. 1 – nel quale sono richiamati gli artt. 1 e 4 della legge n. 302/1990 – recante beneici per le vittime della cosiddetta “Banda della Uno bianca”; legge 23 novembre 1998, n. 407, art. 2, recante nuove norme in favore delle vittime del terrorismo e della criminalità; legge 23 febbraio 1999, n. 44 artt. 3, 6, 7 e 8 recante norme in materia di elargizioni a favore dei soggetti danneggiati da attività estorsiva; D.P.R. 28 luglio 1999, n. 510, art. 1, regolamento recante nuove norme in favore delle vittime del terrorismo e della criminalità organizzata; legge 22 dicembre 1999, n. 512, art. 4, recante istituzione del Fondo di rotazione per la solidarietà alle vittime dei reati di tipo maioso; decreto legge 4 febbraio 2003, n. 13 – convertito con modiicazioni dalla legge n. 56/2003 – recante disposizioni urgenti in favore delle vittime del terrorismo e della criminalità organizzata; decreto legge 28 novembre 2003, n. 337 – convertito con modiicazioni dalla l. n. 369/2003 – art. 1, recante disposizioni urgenti in favore delle vittime militari e civili di attentati terroristici all’estero; legge 3 agosto 2004, n. 206, art. 1, recante nuove norme in favore delle vittime del terrorismo e delle stragi di tale matrice; legge 23 dicembre 2005, n. 266, inanziaria 2006, che all’art. 1 co. 563, 564 e 565, detta disposizioni per la corresponsione di provvidenza alle vittime del dovere, ai soggetti equiparati ed ai loro familiari; legge 20 febbraio 2006, n. 91 norme in favore dei familiari dei superstiti degli aviatori italiani vittime dell’eccidio avvenuto a Kindu l’11 novembre 1961. 76. Trib. Torino, 3 maggio 2010, n. 3145, in Guida dir., 2010, 28, 16 ss.; poi, confermata da App. Torino, Sez. III, 23 gennaio 2012, n. 106, in www.altalex.it. Sul diritto all’indennità per mancato adempimento di una direttiva non self-exetuting, nella giurisprudenza di legittimità, ex multis, Cass. civ. Sez. Unite, 17 aprile 2009, n. 9147. 77. In data 17 ottobre 2013, parere n. 2011/4147. 78. Direttiva 2011/36/UE del Parlamento UE e del Consiglio del 5 aprile 2011 concernente la prevenzione e la repressione della tratta di esseri umani e la protezione delle vittime, e che sostituisce la decisione quadro del Consiglio 2002/629/GAI, in particolare, art. 17, prevede espressamente il risarcimento pubblico per la vittima. Recentemente recepita con d.lgs. 4 marzo 2014, n. 24. 265 appendice postuma 1. La «tenuità dell’ofesa» come clausola generale di irrilevanza. - 2. La sospensione del processo con messa alla prova. - 3. Gli obblighi europei di penalizzazione e la reviviscenza di norme abrogate. 1. La «tenuità dell’ofesa» come clausola generale di irrilevanza. Il 2 aprile 2014, la Camera ha approvato, in via deinitiva, la proposta di legge n. 331-927-B, recante “Deleghe al Governo in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio. Disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili”. La legge è suddivisa in tre capi: il primo capo ha ad oggetto due deleghe al Governo, in materia di pene detentive non carcerarie e di depenalizzazione; il secondo capo introduce l’istituto della sospensione del processo con messa alla prova ed, inine, il terzo capo disciplina la sospensione del procedimento nei confronti degli irreperibili, di natura meramente processuale. In questa sede, si intende appuntare la rilessione sulla tenuità dell’ofesa e sulla sospensione del processo con messa alla prova. In primis, dunque, di notevole interesse è la previsione di cui all’art. 1, co. 1, lett. m), con cui è prevista l’introduzione, nella legislazione ordinaria, della causa di non punibilità per i reati sanzionati con la sola pena pecuniaria o con pene detentive non superiori nel massimo a cinque anni, quando risulti la particolare tenuità dell’ofesa e non la abitualità del comportamento. Il legislatore delegante ha fatto chiaro richiamo alle previsioni già vigenti nell’ordinamento (artt. 34 d.lgs. 274/2000 e 27 D.P.R. 448/1988), con alcune sostanziali diferenze: dapprima, la tenuità è riferita alla sola ofesa e non al fatto, così facendo riferimento ad uno solo dei parametri di tenuità indicati dall’art. 34 d.lgs. 274/2000 («esiguità del danno o del pericolo»), ma, in particolare, oggettivizzando la valutazione del giudice così escludendo la stima della colpevolezza o di tutto ciò che a questa si possa ascrivere, ad eccezione della condizione negativa della «non abitualità del comportamento» che, prima facie, sembra distinguersi dall’«occasionalità del comportamento» indicata dall’art. 27 D.P.R. 448/1988. Mentre quest’ultima è stata letta in giurisprudenza come «la mancanza di reiterazione di condotte penalmente rilevanti»1, utilizzando il termine «non abitualità» parrebbe che il legislatore delegato abbia voluto indicare come criterio di valutazione dell’esiguità quello psicologico, piuttosto che quello cronologico-quantitativo, se si vuole, per 1. Ex multis, Cass. pen. Sez. II, 13 luglio 2010, n. 32692. 267 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea cui la condotta «deve essere valutata in relazione alla capacità a delinquere del reo»2, così imponendo al giudice una stima globale sulla personalità del reo ed ammettendo la possibilità che il comportamento da valutare non sia necessariamente unico, né coincidente con lo stato di incensuratezza dell’imputato e, quindi, «la veriica della natura delle condotte pregresse e, di conseguenza, della ripetitività dei medesimi comportamenti illeciti». Lascia perplessi la compatibilità della previsione delegata con la direttiva 2012/39/UE in ordine alla posizione processuale della vittima nel processo penale, ma si è convinti che il legislatore delegato, sul punto, porrà rimedio, imponendo l’obbligo di sentire previamente la persona ofesa, alla stregua di quanto previsto dall’art. 34 d.lgs. 274/2000, ma in forma esplicitamente meno ostativa, ovvero evitando di soggettivizzare, dal lato passivo, il giudizio di esiguità sulla base dell’opinione della persona ofesa non altrimenti valutabile da parte del giudice. Tanto in linea con la visione sociale della giustizia penale per cui non potrebbe ammettersi la tutela o valorizzazione di una posizione soggettiva, sia anche quella della persona ofesa, incompatibile con l’interesse collettivo3. La natura, inine, dell’istituto appare «sostanziale» e non processuale, deponendo, in tal senso, oltre il tenore letterale del criterio di delega («escludere la punibilità di condotte…»), anche il riferimento appunto all’ofesa come criterio oggettivo di stima della tenuità. L’introduzione nella grammatica penale di una sorta di «clausola generale di irrilevanza» va a colmare l’imbarazzo di una parte della giurisprudenza nell’applicazione in concreto del principio di ofensività, che, come visto, è stato coninato alla sola fase della commisurazione della pena nel rispetto del principio di stretta legalità di cui all’art. 25, co. 2, Cost. 2. La sospensione del processo con messa alla prova. L’istituto della sospensione del procedimento con messa alla prova, sino ad ora previsto nel solo sistema minorile dall’art. 28 D.P.R. 448/1988, è collocato dalla novella ai nuovi artt. 168-bis 2. Bartoli, Le deinizioni alternative del procedimento, in Dir. Pen. Proc., 2001, 178; Di Chiara, Esiguità penale e trattamento processuale della “particolare tenuità del fatto”: frontiere e limiti di un laboratorio di deprocessualizzazione, in Scalfati (a cura di), Il giudice di pace. Un nuovo modello di giustizia penale, Padova, 2001, 350. 3. Per intendere la facoltà di opposizione della persona ofesa sulla dimostrazione dell’insussistenza dei requisiti sostanziali di tenuità del fatto, mai su un sentimento, cfr. Brunelli, Gli esiti non sanzionatori del procedimento innanzi al giudice di pace: la tutela della persona ofesa tra spinte mediatrici ed esigenze delattive, in Fornasari, Marinelli (a cura di), La competenza civile e penale del giudice di pace, bilancio e prospettive, Padova, 2007, 122; Eusebi, Strumenti di deinizione anticipata del processo e sanzioni relative alla competenza penale del giudice di pace: il ruolo del principio conciliativo, in Picotti, Spangher (a cura di), Competenza penale del giudice di pace e “nuove” pene non detentive, Milano, 2003, 67; Sgubbi, L’irrilevanza del fatto quale strumento di selezione dei fatti punibili, in Picotti, Spangher (a cura di), Verso una giustizia penale “conciliativa”, Milano, 2002, 166. 268 appendice postuma ss. c.p. e, dunque, subito dopo la disciplina della sospensione condizionale della pena. A diferenza della previsione minorile, per ovvie ragioni, l’istituto riguarda solo i reati puniti con la sola pena edittale pecuniaria o con la pena edittale detentiva non superiore nel massimo a quattro anni, sola, congiunta o alternativa alla pena pecuniaria, nonché per i delitti indicati dall’art. 550, co. 2, c.p.p.4. La messa alla prova comporta la prestazione di condotte volte all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato, nonché, ove possibile, il risarcimento del danno dallo stesso cagionato, nonché l’aidamento dell’imputato al servizio sociale, per lo svolgimento di un programma che può implicare, tra l’altro, attività di volontariato di rilievo sociale, ovvero l’osservanza di prescrizioni relative ai rapporti con il servizio sociale o con una struttura sanitaria, alla dimora, alla libertà di movimento, al divieto di frequentare determinati locali. A tali condizioni, poi, si aggiunge quella dell’obbligatoria prestazione di lavoro di pubblica utilità. La sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato non può essere concessa più di una volta e, comunque, non si applica nelle ipotesi di abitualità al crimine come prevista dagli artt. 102-105 e 108 c.p. Durante il periodo di sospensione del procedimento con messa alla prova il corso della prescrizione del reato è sospeso, ma per il solo beneiciario in deroga a quanto previsto dall’art. 161, co. 1, c.p. L’esito positivo della prova estingue il reato, ma non le eventuali sanzioni amministrative accessorie. Il beneicio è revocato nelle ipotesi tassative di cui all’art. 168-quater c.p.5. Alcune brevi osservazioni. Prima d’ogni altro, la sospensione del procedimento con messa alla prova comporta l’inesistenza di ipotesi di proscioglimento da dichiarare immediatamente ai sensi dell’art. 129 c.p.p., come si desume dall’art. 464-quater c.p.p. e, poi, il beneicio può essere richiesto anche dall’indagato nella fase delle indagini preliminari ai sensi dell’art. 464-ter c.p.p. 4. E, dunque, violenza o minaccia a un pubblico uiciale prevista dall’articolo 336 del codice penale; resistenza a un pubblico uiciale prevista dall’articolo 337 del codice penale; oltraggio a un magistrato in udienza aggravato a norma dell’articolo 343, secondo comma, del codice penale; violazione di sigilli aggravata a norma dell’articolo 349, secondo comma, del codice penale; rissa aggravata a norma dell’articolo 588, secondo comma, del codice penale, con esclusione delle ipotesi in cui nella rissa taluno sia rimasto ucciso o abbia riportato lesioni gravi o gravissime; furto aggravato a norma dell’articolo 625 del codice penale; ricettazione prevista dall’articolo 648 del codice penale. 5. La natura sostanziale della novella avrebbe suggerito una disposizione transitoria, al ine di consentire la possibilità di poter usufruire di tale importante causa di estinzione del reato anche nei procedimenti in cui sia stato superato il termine ultimo per poterne usufruire, con l’efetto che tale omissione legislativa comporterebbe un vizio di costituzionalità per violazione degli artt. 3, 10, 11, 117, co. 1, Cost., in combinato disposto con gli artt. 49, § 3, Carta e 7 Convenzione EDU, oppure, in maniera più pragmatica (come suggerito dal Dr. Michele Toriello, giudice presso il Tribunale penale di Lecce), si potrebbe ipotizzare un’interpretazione conforme che, consenta agli imputati, di poter richiedere tale beneicio nella prima udienza utile dopo l’entrata in vigore della novella. 269 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea La probation domestica consiste in un programma di trattamento stilato d’intesa con l’uicio dell’esecuzione penale esterna, contenente un dettagliato progetto che coinvolge anche la famiglia del beneiciario e la vittima, con ipotesi di condotte riparatorie e conciliative, oltre al lavoro di pubblica utilità che costituisce il perno intorno al quale ruota l’istituto in parola. Il giudice è tenuto a valutare l’idoneità di tale programma di trattamento, con i criteri di cui all’art. 133 c.p., come stabilito dall’art. 464-quater, co. 3, c.p.p., stimando, altresì, una favorevole prognosi per cui il reo si asterrà dal compiere attività criminali. Da tale breve analisi esegetica, si può ragionevolmente dedurre che il programma di trattamento è visto dal legislatore, oltre come un chiaro beneicio per il reo, anche come sostitutivo della pena edittale, almeno sotto il proilo di necessità di veloce eliminazione del disvalore del fatto, tant’è vero che, non solo, il giudizio di «idoneità» e quello di «commisurazione» hanno in comune i medesimi criteri (quelli di cui all’art. 133 c.p.), ma, in particolare, l’esito negativo della prova impone la riduzione della pena da espiare detraendo il periodo di prova eseguito, alla stregua di quanto stabilito dall’art. 657-bis c.p.p. Ad ogni modo, dal punto di vista quantitativo o di durata del periodo della messa alla prova, appare esserci un’assoluta autonomia tra «pena» e «programma», non solo perché il legislatore non ha indicato alcun criterio di conversione, se non nell’ipotesi di esito negativo e di condanna del reo. Né può farsi riferimento alla previsione di cui all’art. 54 d.lgs. 274/2000, sia perché l’art. 168-bis, co. 3, c.p. contiene una deinizione autonoma di lavoro di pubblica utilità, solo in parte sovrapponibile a quella di cui all’art. 54 d.lgs. 274/2000, sia perché i criteri di conversione indicati da tale disposizione si limiterebbero a considerare il solo periodo di lavoro di pubblica utilità, come sostitutivo integralmente della pena, mentre il programma di trattamento, oggetto della valutazione di idoneità di cui all’art. 464-quater, co. 3, c.p.p., non include solo tale prestazione, ma anche obblighi riparatori e conciliativi, che, dunque, devono rientrare nel giudizio di idoneità giudiziale. Si potrebbe afermare che, mentre la commisurazione della pena ha ad oggetto una valutazione del comportamento del reo, l’idoneità del programma riguarda un giudizio «sul cittadino che ha commesso il fatto». Comunque, anche per evitare iniquità, è indubbio che il giudice potrà certamente utilizzare come parametro di valutazione i criteri di conversione di cui all’art. 54 d.lgs. 274/2000, salvo poi aumentare o diminuire il periodo di lavoro (con il limite dei dieci giorni almeno) in base alle ulteriori prescrizioni, oneri ed obblighi a cui si è sottoposto il prevenuto ed in considerazione del termine di relativo adempimento imposto ai sensi dell’art. 464-quinquies, co. 1, c.p.p. In ogni caso, il periodo di sospensione e, dunque, la durata del programma di trattamento non può superare due anni quando di procede per reati per i quali è prevista una pena detentiva, sola, congiunta o alternativa alla pena pecuniaria, 270 appendice postuma ovvero un anno quando si procede per reati puniti con la sola pena pecuniaria (art. 464-quater, co. 5, c.p.p.). Tanto si giustiica, considerando che, da un lato, il beneiciario/richiedente è un soggetto non abituato al crimine e, comunque, non pericoloso socialmente e, dall’altro, il programma di trattamento è inalizzato ad eliminare il disvalore della violazione del divieto penale attraverso condotte riparatorie e conciliative tramite un percorso di comprensione dell’ofesa e di responsabilizzazione del beneiciario, non di espiazione e risocializzazione come funzioni proprie della pena. Da ciò, la necessità di distinguere anche sul piano temporale, il «programma di trattamento» e la pena (ipotetica). Il legislatore, poi, ha previsto il contraddittorio con la persona ofesa, a cui è garantito il diritto di interloquire sulla richiesta del reo, anche se si segnalano alcuni punti critici della novella con la previsione di indirizzo comunitaria sulla tutela delle vittime nel processo penale (direttiva 2012/29/UE), come, ad esempio, l’esclusione della vittima nelle determinazioni correttive in corso di trattamento (art. 464-quinquies, co. 3, c.p.p.) o l’impossibilità di autonoma impugnazione nel merito della concessione del beneicio (art. 464-quater, co. 7, c.p.p.). Appare di notevole interesse, inine, la necessità di acquisire notizie sulle condizioni di vita familiare e personale del reo, come previsto dall’art. 141-ter, co. 3, d.lgs. 271/1989, nonché le ulteriori informazioni su tali aspetti che il giudice può ritenere necessario acquisire ai ini della concessione del beneicio, ai sensi dell’art. 464-bis, co. 5, c.p.p., che, invero, sarebbero utili già alla commisurazione della pena in funzione rieducativa, come auspicato. 3. Gli obblighi europei di penalizzazione e la reviviscenza di norme abrogate. La Corte costituzionale (n. 32 del 2014) ha dichiarato l’incostituzionalità degli artt. 4-bis e 4-vicies ter, del decreto legge 30 dicembre 2005, n. 272 “Misure urgenti per garantire la sicurezza ed i inanziamenti per le prossime Olimpiadi invernali, nonché la funzionalità dell’Amministrazione dell’interno. Disposizioni per favorire il recupero di tossicodipendenti recidivi e modiiche al testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309”, con cui era stata modiicata la disciplina penale in materia di stupefacenti ed, in particolare, modiicando l’art. 73 D.P.R. 309/1990 è stata prevista una medesima cornice edittale per le violazioni concernenti tutte le sostanze stupefacenti, uniicando il trattamento sanzionatorio che, in precedenza, era diferenziato a seconda che i reati avessero per oggetto le sostanze stupefacenti o psicotrope incluse nelle tabelle II e IV (cosiddette “droghe leggere”) ovvero quelle incluse nelle tabelle I e III (cosiddette “droghe pesanti”). Per efetto di tali modiiche le sanzioni per i reati concernenti le cosiddette “droghe leggere” e, in particolare, i derivati dalla cannabis, precedentemente stabilite nell’intervallo edittale della pena della reclusione da due a sei anni e della multa 271 i principi di diritto penale nella giurisdizione europea da euro 5.164 ad euro 77.468, sono state elevate, prevedendosi la pena della reclusione da sei a venti anni e della multa da euro 26.000 ad euro 260.000. Ai ini dell’indagine, è utile segnalare, in questa sede, che l’intervento della Corte costituzionale ha determinato la reviviscenza delle previsioni abrogate, non solo, per ragioni di carattere procedurale, poiché non si sarebbe veriicato l’efetto abrogante imposto dalle disposizioni incostituzionali, ma, in particolare, il mancato ripristino delle norme abrogate esporrebbe l’Italia all’inadempimento comunitario, atteso che «la materia del traico illecito degli stupefacenti è oggetto di obblighi di penalizzazione, in virtù di normative dell’Unione europea. Più precisamente la decisione quadro n. 2004/757/GAI del 2004 issa norme minime relative agli elementi costitutivi dei reati e alle sanzioni applicabili in materia di traico illecito di stupefacenti, richiedendo che in tutti gli Stati membri siano punite alcune condotte intenzionali, allorché non autorizzate, fatto salvo il consumo personale, quale deinito dalle rispettive legislazioni nazionali. Pertanto, se non si determinasse la ripresa dell’applicazione delle norme sanzionatorie contenute nel D.P.R. n. 309 del 1990, resterebbero non punite alcune tipologie di condotte per le quali sussiste un obbligo sovranazionale di penalizzazione. Il che determinerebbe una violazione del diritto dell’Unione europea, che l’Italia è tenuta a rispettare in virtù degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost.»6. 6. Corte cost., n. 32 del 2014, Considerato in diritto, § 5. Per la critica all’autolimitazione sul sindacato costituzionale in relazione al norme favorevoli abrogatrici, ampiamente, infra, Cap. I, § III.2. 272 Bibliograia Abbadessa, Mazzacuva, Recenti sviluppi in tema di riserva di lege in materia penale e retroattività della lex mitior: a proposito della sentenza della Corte costituzionale sulle ceneri di pirite, in Ius17@unibo.it, 2011, 3. Accomando, Guéry, Le délit de risque causé à autrui ou de la malncontre à l’art. 223-1 nouv.C. Pén., in RSC, 1994, 68 ss. 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