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ANTONIO CARONIA IL CORPO VIRTUALE Dal corpo robotizzato al corpo disseminato nelle reti FRANCO MUZZIO EDITORE, PADOVA 1996 INDICE Ringraziamenti Introduzione Parte I. Il corpo replicato Animale, macchina, uomo Uomini di latta Lo sguardo dell'androide I corpi gloriosi dei supereroi Intermezzo. Orwell nell'era delle cybormenti Parte II. Il corpo invaso Cervelli in una scatola di metallo "Icone neuroniche sulle autostrade spinali" Il corpo obsoleto "L'intenso piacere della tecnica" Intermezzo. Corpi, schermi, reti Parte III. Il corpo disseminato Fine della distanza Telefono tattile Derive dell'identità Uscire dal neolitico Riferimenti bibliografici RINGRAZIAMENTI Questo libro rappresenta il primo e provvisorio risultato delle mie esperienze e dei miei studi sulle nuove tecnologie dell'informazione e della comunicazione negli ultimi cinque o sei anni. Di ciò che vi è scritto, della sua rilevanza o irrilevanza, delle presenze e delle assenze di temi, contributi, riferimenti, sono, naturalmente, l'unico responsabile. Non è perciò per diminuire questa responsabilità che sento di dover rigraziare qui alcuni compagni di strada per l'aiuto che mi hanno dato in questo lavoro (il più delle volte senza saperlo), ma per sottolineare una volta di più il carattere collettivo delle esperienze intellettuali e di vita, in un momento che sembra invece nascondere o sottovalutare questa dimensione. Molti oggi (io credo a torto) tendono a equivocare sull'eccitazione intellettuale e sulla voglia di libertà dei singoli che segnano l'espansione senza precedenti delle tecnologie digitali, scambiando questi fenomeni per grettezza individualistica, per chiusura solipsistica. Spero che si capirà dalla lettura quale sia la mia posizione su questo problema. Ma comunque, per me, non è stato affatto così. I debiti intellettuali più rilevanti che ho contratto con artisti, pensatori, studiosi, scrittori già noti emergeranno, spero, dalla lettura, anche se dalle citazioni non sono sempre esplicitamente rilevabili le idee di coloro che più mi hanno influenzato (forse proprio per questa ragione le ho introiettate di più, e penso in particolare a Lewis Mumford e a Marshall McLuhan). Negli ultimi due o tre anni la mia vita cognitiva e di relazione è stata segnata da una serie di esperienze, di contatti e di lavori comuni con artisti, studiosi e organizzatori di cultura, partiti da un incontro pubblico tenutosi alla galleria Mudima di Milano nel gennaio 1993, e sfociati poi nella costituzione del gruppo di AGAVE (Atelier Gluck Archivio Virtuale degli Eventi). Il primo ringraziamento va dunque a Mario Canali, Giacomo Verde, Claudio Prati, Fabio Malagnini, Carlo Infante, Paolo Rosa, Andrea Zingoni, Antonio Glessi, Massimo Contrasto, Flavia Alman, Sabine Reiff e a tutti coloro che in una forma o nell'altra hanno partecipato e stanno partecipando a questa avventura: non solo dalle riunioni private e pubbliche di Agave, ma dalle chiacchierate informali, dagli scambi di idee, dai contrasti e dalle polemiche (soprattutto da queste ultime) ho ricavato o affinato tante delle idee, degli spunti, delle argomentazioni qui esposte. Senza l'intelligenza e la generosità umana di Piero Lessio, di Giulio Fontò e di tutti i membri dello staff di Atelier Gluck, poi, nessuna di queste esperienze sarebbe stata realizzata: grazie, quindi, anche a loro. Fra tutti gli studiosi, i critici, gli artisti che ho incontrato in questi anni, vorrei ricordare almeno Derrick de Kerckhove, James Ballard, Philippe Quéau, Bruce Sterling, Stelarc, Alberto Abruzzese, Mario Perniola, Franco Berardi, Massimo Canevacci, Pier Luigi Capucci, Tomás Maldonado, Primo Moroni, Ezio Manzini, Giovanni Cesareo, Tommaso Tozzi, Strano Network e la tutta la banda di Decoder, Sergio Brancato, Gino Frezza: ogni incontro con loro è stato prezioso. E non posso dimenticare tutte le occasioni che ho avuto di ascoltare, di parlare, di scrivere su questi temi. Senza gli incontri nati dal lavoro e dalla riflessione di persone come Maria Grazia Mattei e Gabriella Belotti non avrei avuto tutti gli stimoli che ho avuto; e non avrei avuto la possibilità di esporre in fieri idee ed elaborazioni senza l'attenzione e la complicità dei giornali e delle riviste su cui ho scritto in questi anni. Sono particolarmente felice che i due per i quali recentemente ho scritto di più, Virtual e Virus, siano diretti da due donne sensibili e intelligenti come Stefania Garassini e Francesca Alfano Miglietti. Merita un ringraziamento sentito e non formale anche l'editore Franco Muzzio, che ha stimolato questo progetto con intelligenza e ha tollerato pazientemente le lentezze dell'autore nel realizzarlo. Da ultimo, devo riconoscere il mio debito con Domenico Gallo, con cui ho discusso molte questioni di letteratura e scienza; con Daniele Brolli, il cui progetto culturale ed editoriale continua ad affascinarmi; con Stefano Caronia, che ha sempre ascoltato con attenzione e discusso con entusiasmo tante delle mie idee anche nella fase più embrionale; con Maria Gallo, che ha esaminato tutte le fasi di stesura di questo libro con una un'acutezza e una pazienza che mi sono state indispensabili. Alcune parti di questo libro sono già state pubblicate in diverse sedi. L'ntermezzo 1 (Orwell nell'era delle cybormenti) era un omaggio a Orwell, nell'anniversario di 1984, pubblicato su SE. Scienza esperienza del settembre 1984. L'intermezzo 2 (Corpi, schermi, reti) comparve sul catalogo della rassegna milanese Filmaker del 1988. Il capitolo "I corpi gloriosi dei supereroi" si basa su un articolo pubblicato su Il manifesto il 21 aprile 1991, mentre "Fine della distanza" rielabora e amplia un saggio apparso su Segnocinema. INTRODUZIONE Un mattino, al risveglio, Gregor Samsa si trovò trasformato in un enorme insetto. Aveva dormito male, e un insetto non era proprio quello che avrebbe desiderato, ma non era mai stato un insetto, perciò decise di restare così. Il mattino dopo, però, si sarebbe trasformato in un colibrì, o forse in un dodo, comunque in un uccello. Di mammiferi ne aveva abbastanza, per non parlare di altri aspetti umani, mentre l'esperienza di diventare una sedia non lo aveva soddisfatto del tutto, e quindi per il momento non voleva trasformarsi in altri oggetti. I mostri siamo noi. Siamo diventati, o stiamo per diventarlo, lo diventeremo, proprio nel modo tranquillo e banale in cui Gregor Samsa, nella Metamorfosi di Franz Kafka, diventa un enorme scarafaggio. Lo sviluppo delle tecnologie di simulazione digitale, oggi note prevalentemente col nome di "realtà virtuale", ci consentirà di assumere il sembiante che vogliamo, di vestire il corpo che più ci piace. Può darsi che in un primo tempo, quando (forse fra qualche decennio) questa pratica sarà di uso comune, tutti vorranno diventare l'equivalente futuro di Kim Basinger, o Arnold Schwarzenegger, o Madonna, o Richard Gere, o del presidente Clinton. Ma anche in questa allegra sarabanda di corpi sani e robusti, di membra ben nutrite, di bellezza californiana, in fondo alla nostra mente fluttuerà il sospetto che quella trasformazione sia in ultima analisi mostruosa, e coltiveremo una segreta attrazione per le forme aliene, ibride, repellenti: quelle che da sempre hanno nutrito l'immaginario della nostra specie. La possibilità di abitare mondi virtuali, reali e non reali allo stesso tempo, e di assumere un aspetto diverso da quello usuale, trasformerà una volta di più i nostri canoni estetici, la nostra percezione del bello, al di là dei giudizi che esprimiamo e dei modelli che in apparenza coltiviamo. Le tecnologie virtuali, interattive, multimediali, cambieranno naturalmente il nostro modo di vivere, di pensare, di vedere il mondo, di considerare essenziali certe cose e accessorie certe altre. Tutte le tecnologie innovative l'hanno sempre fatto, dalla pietra scheggiata all'aratro, dalla ruota alla scrittura, dalla stampa al telefono. Le tecnologie dell'oggi, però, non si limitano ormai più a potenziare l'uno o l'altro dei nostri sensi, l'una o l'altra delle nostre facoltà mentali. Le simulazioni digitali giocano su un terreno molto più globale. Le realtà virtuali, per esempio, mettono in gioco lo strumento primario del nostro rapporto col mondo, qualcosa che è più di uno strumento perché costituisce il fondamento del nostro senso di identità: il nostro corpo. Nel ciberspazio integrale delle realtà virtuali il nostro corpo si raddoppia, si moltiplica all'infinito, acquista illimitate possibilità di travestimento. Mi sembra difficile, perciò, dubitare che tutto ciò sia destinato a cambiare radicalmente il nostro corpo, nel senso culturale, intendo, non biologico: e ho il sospetto che il mutamento su questo terreno sarà quello che potrà spiegare, se non tutti, molti degli altri mutamenti che quelle tecnologie indurranno. La forma fisica dell'uomo è ormai stabile, non può trasformarsi in qualcosa di diverso in seguito all'evoluzione. Eppure la fantasia, scientificamente del tutto infondata, degli uomini del futuro tutti cervello, dall'enorme testone e dalle membra quasi atrofizzate, che ha circolato fra gli anni Cinquanta e Sessanta nei racconti e nei fumetti della fantascienza più ingenua, è il segno della percezione di un processo reale. Quella fantasia trasferiva sul piano fisico, materiale (per visualizzarla più facilmente) una tendenza dell'uomo industriale a passare dal piano dell'evoluzione biologica a quello dell'evoluzione culturale: un processo che da sempre agisce nella specie, ma che con la tarda modernità ha conosciuto un'accelerazione, e quindi una visibilità, impensata. Ancora una volta, nella forma dell'incubo, ci si confrontava con l'esistenza dell'Altro. Ma l'Altro più terrificante, quello che davvero perturba, non è l'alieno totale, non è la geometria "innominabile" dei mostri di Lovecraft: è, come dicono i tedeschi, l'unheimlich, ciò che non è completamente familiare ma che in qualche modo ci somiglia. Il nostro futuro, o l'esistenza in un mondo parallelo, per esempio. Nelle fantasie e nelle realtà descritte nelle pagine che seguono cercherò di rintracciare i segni e i sintomi di un processo che è iniziato con la modernità ma che adesso sembra giungere alla sua fase critica: la fuoriuscita dell'uomo dal proprio corpo. Attraverso il suo raddoppiamento artificiale, attraverso l'invasione e la proliferazione nel corpo umano dei manufatti tecnologici, attraverso la manipolazione dei meccanismi (un tempo naturali) di riproduzione, fino alla scomposizione del corpo in funzioni riproducibili e alla sua ricomposizione simulata in forme che possono riprodurre l'originale o mascherarlo fino a renderlo irriconoscibile. La disseminazione dei simulacri corporei (e perciò del corpo stesso) nelle reti telematiche ci autorizza a chiamarci ancora "uomini"? Non stiamo già davvero entrando (trionfalmente o meno, non saprei dire) nell'era del postumano? PARTE I IL CORPO REPLICATO L'ossessione del doppio, del diverso-ma-simile, è vecchia come l'uomo, abita i miti più antichi e le letterature più recenti. Ma questa minaccia, un tempo, si aggirava nelle zone più lontane del mondo o nelle aree più oscure della vita associata. Erano gli esseri fantastici dei paesi lontani e sconosciuti, gli uomini con un piede solo gigantesco che faceva loro da ombrello o quelli con la testa in mezzo al corpo, di cui si narrava nei resoconti di viaggio e che venivano disegnati sulle carte geografiche medievali. Erano gli scherzi di natura, i freaks, perseguitati crudelmente nei villaggi e per le strade delle città. Erano i gemelli, guardati con un misto di ammirazione e di terrore, tanto da trovare posto nei miti di fondazione. Era l'immagine di se stessi, quella che Narciso vedeva riflessa nell'acqua, e di cui si innamorava fino alla morte. È nella letteratura romantica, in quella tedesca in primo luogo ma anche in quella inglese e americana, che la figura del doppio trova una diffusione così ossessiva da meritare una spiegazione; questa spiegazione è stata data in molti modi, ma certamente la presenza del doppio in quelle opere ha a che fare con il gigantesco mutamento sociale che veniva avanti nell'occidente, con la nascita della società industriale. Ed è in quello stesso contesto, in quello stesso periodo che acquista una valenza diversa un'altra vecchia figura del mito e del folklore, quella dell'uomo artificiale. Questa figura, in senso moderno, nasce con la nuova organizzazione della vita economica e sociale che si fa strada in Europa a partire dai secoli XVII e XVIII, con la creazione di un nuovo spazio nelle città, con quello che Lewis Mumford ha chiamato "il mito della macchina", e che esprime il bisogno del nuovo uomo protoindustriale e industriale di proiettare anche sul proprio corpo il sogno di uno sviluppo indefinito delle forze produttive. Quando l'homunculs alchemico si trasforma dapprima nel golem della leggenda praghese, poi nella "creatura" del Frankenstein di Mary Shelley, e in seguito nei "robota" del boemo Karel Capek (di nuovo Praga!), esso diviene una figura centrale del nascente immaginario collettivo della modernità, e come tale concentra e riflette una delle più potenti contraddizioni di questo immaginario: la fiducia prometeica nelle possibilità della nuova scienza e della nuova industria (con la mediazione della tecnologia) si scontra con il terrore che queste forze, prodotto di un'attività troppo simile a quella divina, si rendano autonome e si rivoltino contro i loro creatori. L'ossessione dell' "uomo meccanico" è l'ossessione di una "vita artificiale" troppo simile a quella naturale, di un compagno che noi creiamo per servirci e che invece si siede alla nostra tavola, ospite non invitato, e ci toglie l'appetito. Già William Wilson, nell'omonimo racconto di Poe, era una proiezione del nostro dibattito interiore, dei nostri fantasmi interni, che misteriosamente si stagliava all'improvviso fuori di noi, si rendeva autonomo, frantumava l'io e scambiava l'interno con l'esterno, rendeva visibile l'invisibile. La "creatura", in Frankenstein, ha la stessa funzione: ma la sua origine non è affatto misteriosa, essa è il prodotto della hybris del barone, della sua orgogliosa pretesa di strappare alla natura i suoi segreti. Il processo di esteriorizzazione degli strumenti manuali e intellettuali dell'uomo, alla fine del XVIII secolo, fa un tale balzo in avanti che le proiezioni fantastiche diventano non solo autonome, ma acquistano una data e un luogo di nascita. Mary Shelley parla di "filosofia naturale", ma è alla scienza newtoniana che pensa, e alla sua incorporazione nella tecnica. È dalla fabbrica che nasce la nuova creatura artificiale, la nuova minaccia. La macchina è il primo nemico dei lavoratori luddisti e dei poeti romantici, è l'incarnazione delle forze che stanno squassando i vecchi equilibri, rompono le abitudini della società rurale, spezzano l'apparente (o vagheggiata) unità dell'uomo con la natura e instaurano una inedita, nuova disciplina dei corpi, collettiva e uniformante. La macchina è il nuovo doppio. Uno dei dispositivi più potenti dell'immaginario collettivo del XX secolo, la fantascienza, erediterà da qui alcuni dei suoi temi: la replica e l'invasione del corpo, il robot e il cyborg. Ma quali sono i presupposti di questa contraddizione? Quali condizioni hanno potuto consentire che l'uomo e la macchina si avvicinassero così tanto, diventassero così intimi da creare il cortocircuito dell'automa, dell'androide, l'ossimoro dell'uomo artificiale? Animale, macchina, uomo Nel XVII e XVIII secolo tra i filosofi si fa strada una convinzione, che è la conseguenza radicale delle teorie eliocentriche di Copernico, Keplero e Galileo, e poi delle nuove leggi unificate di natura scoperte da Newton: quella dell'unitarietà della natura, della sua descrivibilità con un unico linguaggio, quello della nuova scienza. È una concezione altrettanto metafisica di quelle dualistiche, aristoteliche e platoniche, a cui essa pretendeva di sostituirsi, ma ha un merito: dà un senso alle nuove attività dell'uomo in quei secoli, allo straordinario accumularsi di conoscenze sul mondo e di nuove tecniche di manipolazione della materia, di creazione di nuove forme di energia, al nuovo potere di trasformazione che l'uomo sta scoprendo in se stesso. La natura non fa salti, è un continuum in cui ogni fenomeno è legato all'altro, e proprio per questo l'uomo può descriverne il funzionamento in termini unitari. "Non c'è nulla di più attraente di questa contemplazione, che ha per oggetto la scala impercettibilmente graduata, nella quale si vede la Natura passare esattamente per tutti i suoi gradini senza saltarne mai alcuno in tutte le sue diverse produzioni. Che magnifico quadro ci offre lo spettacolo dell'universo! Tutto vi è perfettamente variato, non c'è alcun salto: se si passa dal bianco al nero, ciò avviene attraverso un'infinità di sfumature o gradi, che rendono tale passaggio infinitamente piacevole." (La Mettrie, 85-86). Ecco una prima conseguenza di questo modo di pensare: l'uomo è simile all'animale, solo una graduazione quantitativa separa queste due figure del creato, anzi "è più grande la differenza che passa tra un uomo e l'altro di quella che separa gli animali dall'uomo." (Montaigne, in Mazlish 19). Da questo punto di vista si può addirittura sostenere (e Montaigne l'aveva fatto) l'inferiorità dell'uomo rispetto all'animale, testimoniata proprio da quello che l'uomo moderno più stima in se stesso, le sue facoltà razionali. Non sono queste ultime, alla fin fine, che hanno determinato la sua caduta, la cacciata dal paradiso terrestre? Dietro a questo modo di vedere le cose sta la convinzione che nell'animale la natura si manifesti in maniera più genuina che non nell'uomo: l'obbedienza dell'animale alle leggi di natura è più profonda, meno inquinata dalla cultura e dal pensiero. Ognuno nel proprio campo, gli animali raggiungono un'eccellenza di risultati che all'uomo è negata: il volo dell'uccello, la velocità del ghepardo, la potenza dell'elefante, il nuoto della balena. Descartes, che del nuovo paradigma meccanicista è uno degli iniziatori (non, però, l'esponente più radicale), riconosce le affinità fra l'uomo e l'animale, ma tenta di rovesciare le conclusioni di Montaigne. L'animale, non c'è dubbio, è più perfetto dell'uomo quanto a industriosità, ad abilità, a qualità innate: ma proprio per questo gli è inferiore. L'uomo possiede la ragione. Ciò che l'animale raggiunge automaticamente, per la sua adesione cieca al progetto della natura, l'uomo lo può attingere grazie al suo libero arbitrio, guidato appunto dalla ragione. Il modello di perfezione dell'animale, secondo Descartes, è quello di una macchina. Per Descartes in effetti i corpi non sono che macchine, ed egli riconosce volentieri tutte le affinità tra uomo e animale sul piano (per usare la terminologia aristotelica) delle due anime di livello inferiore, la vegetativa e la sensitiva. Ma l'analogia deve fermarsi a un certo punto: l'uomo, e solo l'uomo, possiede l'anima razionale, l'uomo, e solo l'uomo, pensa. Quello che è interessante notare, per noi adesso, è l'identificazione introdotta da Descartes fra animale e macchina (e fra corpo umano e macchina: l'uomo, se non fosse per la ragione, sarebbe sotto ogni altro rispetto niente più che un animale). "La natura fa sì che essi [gli animali] si comportino come si comportano in relazione alla disposizione dei loro organi; proprio come un orologio, con le sue ruote e le sue molle, è in grado di misurare il tempo molto più accuratamente di quanto noi umani, con tutta la nostra intelligenza, riusciremo mai a fare." (Descartes, in Mazlish 22). I critici tradizionalisti di Descartes respingono questa analogia. All'osservazione che gli animali sono come orologi, Fontenelle replica ironicamente che un cagnolino-macchina e una cagnolina-macchina, messi insieme in opportune condizioni, produrranno un terzo cane-macchina, mentre due orologi, per quanto a lungo stiano vicini, mai produrranno un terzo orologio. Il sesso, lo vedremo, è uno dei temi ricorrenti nelle riflessioni e nelle produzioni fantastiche sull'uomo-macchina. Ma c'è anche chi ritiene debole l'argomentazione cartesiana sulla irriducibilità dell'uomo alla macchina da un altro punto di vista. Non è tanto la ragione il punto di discrimine, quanto la possibilità di cadere in errore. La macchina appare, dal Settecento in poi, come un'esecutrice infallibile di programmi predeterminati: non può sbagliare. L'uomo, al contrario, sbaglia in continuazione. È la prevedibilità del comportamento della macchina che segnala l'impossibilità di assimilarla all'uomo, dotato di libero arbitrio. Quando Edgar Allan Poe, nel 1836, smascherò il falso automa giocatore di scacchi di Von Kempelen, questo fu uno dei punti di forza della sua argomentazione: "L'Automa non vince invariabilmente la partita. Se la macchina fosse una pura macchina, ciò non accadrebbe: vincerebbe sempre." (Poe, Il giocatore, 50). Le tesi di Descartes sui rapporti fra uomini, animali e macchine, incontrarono però un altro tipo di critiche. I materialisti radicali del Settecento francese accettavano il suo punto di partenza, l'identità di animali e macchine, ma si sbarazzavano della soluzione di continuità da lui introdotta tra l'animale e l'uomo, cioè dell'anima, e trasformavano la differenza qualitativa tra "cosa estesa" e "cosa pensante", tra materia e spirito, in una differenza soltanto quantitativa. Non più: "l'uomo non è né una macchina né un animale perché pensa", ma: "l'uomo è un animale, o una macchina, che pensa". Il pensiero cominciava ad apparire come una funzione della materia, un suo epifenomeno, per così dire, non come una sostanza diversa ad essa contrapposta. Molta acqua è passata sotto i ponti da allora. Le ricerche di psicologia cognitiva del Novecento hanno radicalmente corretto le ipotesi semplicistiche degli empiristi inglesi come Locke (vera fonte ispiratrice dei materialisti radicali francesi del Settecento), per cui i sensi erano l'unica fonte di conoscenza. Oggi sappiamo che l'opera bruta di registrazione dei dati ad opera degli organi sensoriali (nell'uomo come negli animali) è del tutto insufficiente a spiegare anche le attività cognitive di livello apparentemente più basso, i processi non coscienti come quelli della visione o dell'ascolto. Ma il problema non ha fatto che spostarsi di livello. La contrapposizione fra i sostenitori del pensiero come sostanza e del pensiero come funzione si ripresenta ancora oggi, nella forma aggiornata del problema mente-cervello: è giusto ridurre il pensiero a una funzione del cervello, o la mente è una "struttura" che va descritta e spiegata in termini autonomi, non riducibili alle componenti biologiche e all'attività elettrochimica dell'organo che comunque appare come la sede fisica di quell'attività? Il dibattito settecentesco sull'esistenza dell'anima, sul rapporto uomo-animale-macchina, sul materialismo, è ancora oggi attualissimo. Ed è proprio sul nuovo paradigma meccanicista del materialismo integrale di La Mettrie, di D'Holbach, di Diderot, che si fonda la nuova fortuna (o la sventura) del corpo artificiale nella modernità. Come hanno dimostrato Lewis Mumford e David Landes, è stato l'orologio, non la locomotiva o la macchina a vapore, la macchina chiave della modernità. È l'orologio il modello della perfezione meccanica di tutte le altre macchine industriali, oltre a essere lo strumento che consente l'operazione base, senza la quale l'organizzazione della vita moderna, a cominciare dalla fabbrica, non sarebbe neppure pensabile: la misurazione del tempo. Fin dall'inizio dell'età moderna, l'orologio connette così, più chiaramente di ogni altra macchina, la dimensione materiale e tecnica a quella immateriale e "organizzativa", l'hardware al software. Non è quindi strano che, come già per Descartes (l'abbiamo visto poco sopra), anche per i teorici del materialismo integrale settecentesco l'orologio rappresenti l'analogia più adatta quando si parla di uomo-macchina. "Occorre altro per provare che l'uomo non è che un animale, ossia un insieme di molle che si caricano tutte le une con le altre senza che si possa dire da quale punto del cerchio umano la natura abbia cominciato? Se queste molle differiscono tra loro non è che per la sede o per il grado di forza, e mai per la loro natura: e di conseguenza l'anima non è che un principio di movimento, o una parte materiale sensibile del cervello che si può, senza tema di errore, considerare come una molla principale di tutta la macchina (...). L'oscillazione naturale, propria della nostra macchina, di cui è dotata ogni fibra e, per così dire, ogni elemento fibroso, simile a quella di un pendolo, può sempre avvenire. A mano a mano che si perde bisogna rinnovarla, quando langue bisogna darle forza, affievolirla invece quando è oppressa da un eccesso di forza e di vigore (...). Il corpo non è che un orologio, di cui il nuovo chilo è l'orologiaio." (La Mettrie, 58-59, corsivo mio). Ma se "il corpo non è che un orologio", se "l'anima non è che un principio di movimento", o peggio ancora "una molla principale di tutta la macchina", nulla in linea di principio esclude che l'uomo possa essere replicato artificialmente. E in effetti la figura dell'uomo artificiale, dell'uomo ricostruito meccanicamente, serpeggia per tutto il Settecento, fa capolino qua e là, nell'immaginazione e nella realtà, nei laboratori degli artigiani francesi e svizzeri e nelle pagine degli scrittori e dei filosofi. Il primo a presentare una statua animata per spiegare il funzionamento del corpo fu Descartes, ma l'automa più famoso coinvolto in un esperimento mentale si trova nel Trattato delle sensazioni di Étienne de Condillac. Qui il filosofo ed economista francese, per illustrare la teoria che ogni conoscenza nasce dai sensi e che non c'è alcun bisogno di ipotizzare delle idee innate (come aveva fatto Descartes), immagina una statua di marmo senza intelletto, ma organizzata come un uomo. E argomenta che, dotandola degli stessi sensi dell'uomo, uno dopo l'altro, noi vedremmo nascere in lei poco a poco le stesse conoscenze sensoriali che abbiamo noi, dapprima più semplici, poi più complesse, fino alle idee astratte. La statua di Condillac ha colpito forse più i narratori che i filosofi. Jorge Luis Borges e Margarita Guerrero, nel loro Manuale di zoologia fantastica, affascinati dal sensismo integrale del francese, ma senza crederci più di tanto, ne danno una versione poetica ("Un odore di gelsomino è il principio della biografia della statua; per un momento non ci sarà che questo odore nell'universo...", 21). Più polemico lo scrittore americano di origine irlandese Raphael Aloysius Lafferty, una curiosa figura di narratore fantastico nutrito di umori cattolici tradizionalisti (un po' come C.S.Lewis). La statua di Condillac serve infatti a Lafferty per mettere in ridicolo la pretesa illuminista (più precisamente la sua visione dell'illuminismo) di ridurre tutto alla ragione. La statua di marmo, infatti, educata alle teorie e alle pratiche sensiste, crede cionondimeno nelle idee innate del bene e del male, del bello e del brutto, e viene perciò redarguita da Condillac. Ma prevede meglio di lui le conseguenze di quelle teorie. "Il mondo futuro sarà il mondo della ragione totale," dice il filosofo. "No, sarà la rivoluzione," ribatte la statua. "Un mondo condannato alle razioni ridotte della ragione chiederà il sangue a gran voce." ("La statua di Condillac", 34). In fondo, a modo suo, anche la statua di Condillac/Lafferty si ribella al suo creatore, adottando le tesi storiografiche più reazionarie sulla rivoluzione francese. Ciò non le impedisce di diventare un capo rivoluzionario, ma sempre con una riserva mentale: vorrebbe infatti frenare gli eccessi dei sanculotti contro la proprietà, perché si sente ricca, avendo un ladro in fuga depositato nella sua testa una borsa d'oro (e qui sono le teorie utilitariste di Bentham a essere messe in ridicolo). E finisce scollegata, cioè a tutti gli effetti morta. Anche questo è un aspetto interessante della questione: uomo e macchina, vita e morte. Da un certo punto di vista, nell'evoluzione della specie umana, c'è una continuità tra l'utensile, protesi immediata e controllabile della mano, e la macchina, dispositivo creato dall'uomo e avviato da lui, ma capace poi di funzionare "autonomamente": utensile e macchina sono solo manifestazione diverse, a un diverso grado, dell'atteggiamento "tecnico" verso il mondo che è tipico della nostra specie (e forse è questa la tipicità più radicale dell'uomo, il vero fondamento, che ci piaccia o no, della nostra "umanità"). Ma per altri versi la macchina suscita fantasie che l'utensile non potrebbe mai provocare, e che vengono meglio in luce quando appunto la macchina si congiunge con la statua, cioè con la replica materiale di un corpo umano. La statua, non c'è dubbio, come tutte le immagini, ha la funzione di esorcizzare e vincere la morte, di tramandare le fattezze e quindi il ricordo dell'uomo. La statua è immortale, o almeno così pensano i suoi creatori. Naturalmente è materiale, perciò anch'essa destinata a deteriorarsi e a lungo andare a svanire, anche se i tempi del suo disfacimento sono così lunghi, e i processi così diversi, rispetto a quelli cui è soggetto il corpo umano, da funzionare bene come illusione. E poi è un'immortalità immobile, che per animarsi ha appunto bisogno del ricordo o dell'immaginazione di chi la guarda. Insomma, è un simulacro di immortalità accettabile per molti versi, ma non del tutto soddisfacente. Anche la macchina è immortale (o lo sembra, rispetto all'uomo), ed è dotata di movimento: un movimento che non dipende direttamente dal corpo dell'uomo, come avviene nell'utensile, ma che è insito nel suo funzionamento. Immesso nella macchina dall'uomo, in essa il movimento si autonomizza, può apparire come una qualità interna e intrinseca alla macchina: una volta fornita l'energia necessaria, esso continuerà indefinitamente (e la perseveranza con la quale dall'inizio dell'era moderna pseudoinventori di tutti i tipi, contro ogni evidenza scientifica, continuano a inseguire la chimera del moto perpetuo, la dice lunga sulle motivazioni più profonde dell'attaccamento alla macchina). Certo, il movimento non è la vita, ma è una sua simulazione, per quanto rozza o intermedia. Non ci vuole di più per capire allora il fascino che esercita il simulacro animato dell'uomo o del mondo, e insieme la delusione, che facilmente si trasforma in terrore, quando sotto l'apparenza della vita scopriamo il marchio dell'artificialità: la molla, il metallo, oggi anche il circuito (per quanto, come vedremo, qui non solo l'illusione può essere più forte, ma forse può essere qualcosa di più di un'illusione). La situazione è stata rappresentata con straordinaria efficacia da Federico Fellini in una scena del suo Casanova, quella in cui un impassibile Donald Sutherland balla con una dama meccanica, e insieme volteggiano, volteggiano, fino a che con un rumore secco una gamba dell'automa va fuori posizione, e Casanova continua a ballare mentre la sua compagna, sotto la crinolina, esibisce grottescamente un'inquietante gamba tesa in orizzontale. Una scena che diventa idealmente, pochi anni dopo, quella del primo Terminator di James Cameron, in cui un cupo e fisso Arnold Schwarzenegger (geniale utilizzo dei limiti espressivi di un attore) si seziona il braccio con una lama per rivelare non carne e sangue, ma leve e ingranaggi. Ma qui la meccanica ha già cambiato status, non è più la regina della tecnica, è diventata ancella dell'elettronica. E infatti il Terminator, per quanto a tutti gli effetti sia soltanto un perfezionatissimo androide, viene chiamato "cyborg", con una forzatura terminologica che però non è del tutto ingiustificata. Sulla qual cosa discuteremo nella seconda parte di questo libro. Uomini di latta Che il corpo artificiale esprima un'aspirazione all'immortalità emerge con chiarezza nel romanzo paradigmatico di questo filone, Frankenstein di Mary Shelley (1816). Il barone-scienziato sceglie in effetti un modo bizzarro per creare la vita: non si serve dell'argilla, come il cabalista costruttore del golem, né del forno alchemico, come Paracelso per il suo homumculus, ma di membra di morti. Più che dare la vita ex novo vuole strappare gli esseri viventi alla morte (da questo punto di vista, anche gli zombi possono essere considerati legittimi discendenti della creatura della Shelley). È vero che, per quanto paradigmatico, il corpo della creatura di Frankenstein è un corpo artificiale del tutto particolare: sembra avere scarsa parentela con gli automi e con i robot. Non è fatto di metallo o di plastica, ma appunto di carne morta riportata in vita. La creatura, insomma, rappresenta un unicum, più simile forse al vampiro (anche quest'ultimo mette in scena una strategia, per quanto peculiare, di vittoria sulla morte). Ma la sua appartenenza alla stessa famiglia dei robot e degli androidi appare chiaramente quando si considerano gli strumenti con cui Frankenstein la porta in vita: sono gli strumenti della scienza, per quanto visti in modo misterioso, magico, esoterico. Il laboratorio di Victor, in effetti, è più simile all'antro di un mago o allo studio di un alchimista che a quello di uno scienziato: ma in esso campeggiano già gli strumenti elettrici, con i quali alcuni decenni prima Volta e Galvani avevano svelato i segreti del "magnetismo animale". Nulla di simile ai laboratori dei Vaucanson, dei Maillardet, degli Jacquet-Droz, dei Kempelen, i veri costruttori di automi i cui flautisti, scrivani, anatre, giocatori di scacchi, stupivano e deliziavano le corti dei re e il bel mondo. Scienza e tecnica, tra il Settecento e l'inizio dell'Ottocento, non erano così organicamente legate come sono oggi. I costruttori di automi non erano certo scienziati, ma abili artigiani, periti orologiai, geni meccanici. E le loro creazioni erano fonte di meraviglia per il pubblico, non di angoscia. È invece nell'immaginario che si crea il cortocircuito fra tecnica, scienza e morte, è nella letteratura che gli splendidi automi di metallo e di legno trapassano in esseri artificiali mortiferi. La gioiosa "imitazione della natura" a cui si ispiravano i maestri della meccanica diviene, nell'immaginazione degli scrittori, una malefica versione del progetto di "dominio sulla natura" enunciato un secolo e mezzo prima da Francis Bacon come manifesto della nuova scienza. E l'automa assume su di sé tutto il carico di tragico destino che spetta a un essere ambiguo e ingannatore: un essere che inganna lo sguardo nella più segreta delle dimensioni, perché imita l'aspetto esteriore della vita e dell'intelligenza senza essere né vivo né intelligente. Quando l'automa diventa il robot, l'uomo di metallo, e fa il suo ingresso sulle pagine delle riviste americane di fantascienza, fra gli anni dieci e venti di questo secolo, ha già alle spalle una storia e una tradizione. Nel secolo precedente Nathaniel Hawthorne, Herman Melville, Ambrose Bierce, lo hanno fatto diventare un personaggio, forse marginale ma significativo, della letteratura americana. E il suo senso è ancora quello che gli aveva assegnato, in pieno Settecento, un altro autore, il tedesco Ernst Theodor Amadeus Hoffmann: l'incontro con l'automa significa morte. Nel più famoso dei racconti di Hoffmann sugli automi, Der Sandmann (L'uomo della sabbia), assistiamo all'innamoramento del giovane Nathaniel per la bella Olimpia, figlia del professor Spallanzani. Olimpia è in realtà un automa, i cui occhi sono stati costruiti dall'ambiguo e inquietante ottico Coppola, che sotto il nome di Coppelius ha già terrorizzato l'infanzia di Nathaniel. Quest'ultimo associava infatti il collaboratore del padre (poi morto in una esplosione durante i suoi esperimenti alchemici) all'uomo della sabbia, l'orco che gettava sabbia negli occhi dei bambini sino a strapparli, oggetto dei racconti fantastici della madre. La rivelazione della vera natura di Olimpia e dell'identità di Coppola getta Nathaniel in preda alla pazzia, e neppure il ritorno della sua antica fidanzata riuscirà a impedire che il giovane si getti da una torre. Su questo importante racconto, e sulla relazione che esso istituisce fra la replica meccanica della vita e lo sguardo, ci soffermeremo più avanti. Per il momento è interessante osservare che la tragicità della figura dell'automa esprime in modo fantastico la stessa critica alla società industriale avanzata nell'Ottocento dagli intellettuali inglesi. Naturalmente non è tanto il destino dell'automa che preoccupa, quanto quello dell'uomo. L'automa, con i suoi dispositivi artificiali e il suo funzionamento assolutamente prevedibile, è il simbolo del nuovo uomo industriale, quello descritto da Dickens in Hard Times, l'uomo che, come dice Thomas Carlyle, "è diventato meccanico nella mente e nel cuore, come lo è nella mano." (Mazlish, 65). Ecco quindi una nuova contraddizione: l'uomo, diventando macchina, potrebbe assicurarsi l'immortalità, o qualcosa di molto simile a essa, ma solo a prezzo di perdere la sua umanità, solo a prezzo di uccidere in sé stesso ciò che lo rende uomo, in ultima analisi la vita. L'immortalità raggiunta nella macchina, insomma, condurrebbe ancora, per un'altra via, di nuovo alla morte. Questo potrebbe spiegare il rapporto che c'è tra la femme fatale e l'automa, che dall'Olimpia di Hoffmann, passando per la Hadaly di Villiers de l'Isle-Adam, arriva sino al robot forse più celebre della storia del cinema, quello di Metropolis di Fritz Lang (1926), dove lo scienziato Rothwang costruisce un automa che trasforma nella perfetta copia di Maria, la giovane eroina dei proletari, per esortarli alla ribellione e gettarli in uno scontro inutile e disperato con le forze che reggono la città. Villiers è forse un caso a parte, da un lato per la sua misoginia veramente straordinaria, dall'altro perché opera un rovesciamento radicale del luogo comune letterario ottocentesco sui rapporti fra naturale e artificiale, proclamando la superiorità del secondo sul primo. Nel suo Eva futura (1886), Hadaly è l'affascinante androide femminile (l'andreide) costruito da Edison per compiacere il suo amico lord Edwald, che non sopporta più l'assoluta mediocrità della sua bellissima fidanzata. La discussione tra Edison e lord Edwald che segue la decisione, e che occupa gran parte del libro, si conclude con il riconoscimento che l'automa sembra più naturale della donna, la copia più viva dell'originale. Questo perché, dice Edison, in tutte le donne c'è qualcosa di artificiale, mescolato però, e in qualche modo diminuito, dal processo vitale. L'andreide realizza invece la stessa artificiosità senza quella diminuzione, senza l'ambigua contaminazione col flusso della vita. Per quanto paradossale, l'affermazione illumina però un aspetto interessante dell'ossessione per l'automa della cultura occidentale. Lo sguardo terrorizzato sull'alterità dell'essere artificiale esprime, in fondo, la stessa paura che il maschio prova di fronte alla femmina della sua specie, che è il primo essere alieno di cui egli faccia esperienza. Ora la femmina sembrerebbe caratterizzarsi di fronte al maschio principalmente per essere la sede di un processo altamente naturale (anche se a volte misterioso), come la riproduzione della specie. Perché invece l'Edison di Villiers vede in lei il marchio dell'artificialità? Tutto sommato, la cosa è meno strana di quanto a prima vista può apparire. Che cos'altro è infatti il progetto di creazione dell'essere umano artificiale (nella sua formulazione più completa e oltranzista) se non il tentativo di ripetere il processo di creazione della vita sotto il completo controllo dell'uomo, del tutto svincolato dalla naturalità? Ecco quindi da un lato che la donna risulta "naturalmente" (se mi passate il gioco di parole) implicata in questa questione, ma dall'altro sembra costituire una minaccia per il programma di artificializzazione della vita, perché appare (allo sguardo del maschio) come la depositaria di quel residuo di "naturale" che potrebbe impedire la completa realizzazione di quel progetto. La contraddizione sta semmai nel combinarsi di misoginia - anzi, francamente di ginofobia - e di nostalgia per la natura, che è il segno più profondo, al di là del brillante paradosso, di Villiers. Ma la critica all'industrialismo di stampo romantico è portatrice di queste e ben altre contraddizioni. E la maschilizzazione dell'immaginario va al di là del sesso degli autori, se osserviamo che un punto di vista simile lo ritroviamo nel robot Maria di Metropolis, scritto e sceneggiato da una donna, Thea von Harbou. Che succede nel passaggio dall'automa al robot? In larga misura le tematiche restano le stesse, ma c'è un dettaglio significativo che dispiega più compiutamente, per così dire, la dimensione sociale del problema. L'automa è un singolo, un individuo, un unicum, non ha parentela se non quella col suo creatore. Forse aspira a conoscere esseri simili a se stesso, come la creatura, che chiede a Frankenstein di fabbricargli una compagna: ma questa dimensione gli è usualmente preclusa. I robot, invece, costituiscono una collettività, sono prodotti in serie, come gli oggetti industriali e come la forza lavoro che li produce (secondo l'interpretazione ormai classica di Alessandro Portelli): sono una nuova razza, o una nuova specie. È così fin da quando entrano in scena, fin da quando ricevono il loro nome, nel 1921, nella commedia R.U.R. del boemo Karel Capek. Qui gli uomini artificiali, pur senza perdere la loro drammaticità, diventano il simbolo di un'ambigua palingenesi, avviandosi a diventare i veri successori dell'umanità, che, proprio a causa della sua avidità e della ribellione dei robot, è condannata all'estinzione. Questo significativo mutamento nella visione dell'essere artificiale deriva dal fatto che Capek, con R.U.R., ha voluto scrivere un'antiutopia sui problemi della civiltà industriale. Capek riprende la critica di Carlyle e di Ruskin all'industrialismo: l'atteggiamento intellettuale di razionalismo e ateismo radicale del vecchio Rossum, lo scienziato che costruisce gli uomini artificiali per dimostrare che si può fare a meno di Dio, si trasforma nelle mani del figlio, tipico capitalista, nel progetto cinico di produrre in massa i robot a puri fini di guadagno, per farne una massa di schiavi. E la loro ribellione acquista quindi un carattere sociale, oltreché filosofico e antropologico: non è più solo la ribellione della creatura contro il creatore, ma anche quella dello schiavo contro il padrone. Il robot non è più soltanto, come l'automa, il simbolo e l'indicatore di un problema tutto interno all'uomo: comincia ad avere dei problemi tutti suoi. Se non si può parlare di psicologia dell'automa, si può parlare invece di psicologia del robot. È quello che succederà nella fantascienza americana. Non subito, però: né Hoffmann né Capek hanno grande influenza sugli scrittori popolari americani degli anni Dieci, Venti e Trenta. Abraham Merritt, Edmond Hamilton, Jack Williamson e gli altri scrittori che introducono sulle pagine dei pulp i mostri di metallo, si limitano a riproporre i modelli dei classici racconti di automi dell'Ottocento americano, spesso in modo raffazzonato e sensazionalistico. Per loro il robot è ancora un essere perfido, pericoloso, ribelle, totalmente privo di umanità, a volte un semplice pretesto narrativo per mettere in scena le nequizie del suo costruttore, lo scienziato pazzo, o le prodezze dell'eroe umano che gli si contrappone. Nella fantascienza il robot comincia a diventare un personaggio più interessante verso la fine degli anni Trenta, con autori come Lester del Rey e Eando Binder, ma soprattutto con John W. Campbell (autore e direttore della rivista Astounding Science Fiction) e Isaac Asimov, destinato a diventare lo scrittore più famoso e più autorevole di racconti sui robot. Dal 1940, anno in cui pubblica il primo di questi racconti, "Strange Playfellow" (poi ristampato come "Robbie"), fino al 1958, poi verso la metà degli anni Settanta, e ancora negli ultimi anni della sua vita (conclusasi nel 1992), Asimov conduce una tenace battaglia contro quella che lui stesso chiama "la sindrome di Frankenstein". Asimov si adopera infatti costantemente per sdrammatizzare la figura del robot come agente di conflitto. Nei suoi racconti degli anni Quaranta e Cinquanta, raccolti nelle due antologie Io, robot e Il secondo libro dei robot, lo schema è quasi sempre quello di un problema o di un enigma (il malfunzionamento di un robot, o comunque un comportamento apparentemente imprevedibile), che viene poi brillantemente risolto con l'aiuto della ricerca e della logica dallo scienziato di turno, la "robopsicologa" dottoressa Susan Calvin. Ma si tratta appunto di problemi eminentemente cognitivi, la cui drammaticità, quando c'è, è puramente intellettuale. Il robot, qui, non è nient'altro che il pretesto per alcuni paradossi logici e per il dispiegarsi della capacità dell'intelletto umano di risolverli. Il grande passo avanti di Asimov sulla fantascienza che lo precede (e a volte anche su quella che lo segue) sta nel fatto che riconosce il problema dell'uomo artificiale come un problema di esteriorizzazione delle funzioni intellettuali umane. Egli si rifiuta di identificare l' "intelligenza" con una prerogativa dell'uomo, ma non riesce a sviluppare tutte le conseguenze di questa intuizione. La sua preoccupazione fondamentale rimane quella di combattere la sindrome di Frankenstein, ma le tre famose "leggi della robotica", che elabora insieme a Campbell per tranquillizzare definitivamente l'uomo e convincerlo del carattere innocuo delle sue creazioni, sono uno strumento troppo riduttivo per affrontare un problema antropologico così complesso. È come se volessimo guarire un paziente dalla fobia dei ragni facendogli un pacato ragionamento sulla innocenza dei poveri aracnidi e sulla loro utilità per l'ecosistema. Il fatto è che Asimov è fondamentalmente un comportamentista: egli è convinto che il "comportamento desiderabile" possa essere definito in termini di stimolo-risposta, che l'etica, insomma, possa essere trasferita in algoritmi, tanto per i robot quanto (in termini enormemente più complessi) per gli esseri umani. È la stessa concezione che sta dietro all'invenzione della "psicostoria", la scienza immaginaria su cui si reggono i romanzi della tetralogia della Fondazione: anche la storia, nelle sue tendenze generali, può essere conosciuta, prevista, e quindi anche in certa misura programmata, con l'ausilio di equazioni che descrivono la psicologia sociale delle masse. Non che Asimov non si sia mai accostato al nucleo più autenticamente drammatico del rapporto fra uomini e robot. Uno dei suoi racconti più famosi, "L'uomo bicentenario" (1976), narra dell'avvicinamento progressivo del robot Andrew Martin all'autocoscienza, e quindi a una condizione autenticamente umana. La sua conclusione è che ciò gli sarà impossibile senza rinunciare all'immortalità che è tipica della macchina: per diventare uomo, Martin modificherà i suoi circuiti e si lascerà morire. Tuttavia, è sempre un futuro di integrazione e di conciliazione che interessa ad Asimov. Nei racconti degli anni Cinquanta, la sua trattazione del problema dei rapporti fra naturale e artificiale sfiora appena la questione del corpo: i robot metallici e sgraziati hanno solo una lontana rassomiglianza con la forma umana, e l'integrazione o l'esclusione dei robot nella società non si pone a quel livello. Nel cinema il modello asimoviano della goffa scatola di latta trova la sua realizzazione più famosa con il robot Robbie di Il pianeta proibito (1956), popolarissimo soprattutto fra i bambini fino agli anni Sessanta, e più recentemente con i "droidi" A2-D2 e C-3P0 della trilogia lucasiana di Guerre stellari. La questione del corpo viene invece affrontata in due romanzi, Abissi d'acciaio (1953) e Il sole nudo (1956), fra le cose migliori scritte da Asimov, centrati sul problema dei rapporti fra uomini e robot umanoidi, o androidi. Questi ultimi sono diffusi solo fra gli uomini che hanno colonizzato lo spazio, gli Spaziali, mentre i Terrestri, che vivono in grandi città sotterranee, hanno sviluppato una patologica insofferenza verso gli uomini artificiali, che all'aspetto sono del tutto indistinguibili dagli uomini. Le due culture umane, Terrestri e Spaziali, vivono separate, ma un delitto, nel primo romanzo, porta il detective Elijah Baley a dover collaborare con l'androide degli spaziali R Daneel Olivaw. La forzata convivenza con Olivaw condurrà Baley a superare i suoi pregiudizi, e a scoprire infine nel collega una paradossale "umanità". Qui Asimov rappresenta efficacemente la repulsione fisica che uomini condannati a vivere fianco a fianco in una cronica carenza di spazio (le "caverne d'acciaio" del titolo originale), sviluppano per l'essere artificiale, una repulsione tanto più grande quanto più il corpo dell'altro è simile al mio. Ancora una volta è il problema dello sguardo ingannatore che scatena la fobia: come fare a distinguere chi è dentro e chi è fuori la comunità, se non ci sono segni culturali sul corpo dell'androide che servano a identificare l'estraneo? È una domanda analoga a quella che si poneva Descartes: come faccio a sapere che gli altri uomini sono uomini come me, che pensano e sentono come me, e non invece macchine che simulano un comportamento umano? La stessa domanda che si pone la protagonista di una commedia di Massimo Bontempelli, Minnie la candida, a cui gli amici per scherzo fanno credere che tutti coloro che la circondano sono macchine e non uomini. Lo sguardo dell'androide Nel 1950 Alan Turing, il padre teorico della scienza dei calcolatori, formulava il suo ipotetico test per stabilire se e quando una macchina potesse dirsi "pensante". Dietro una tenda o un muro, entità incognite (uomini o calcolatori) rispondono per iscritto alle domande di un intervistatore. Fino a quando quest'ultimo riesce a distinguere le risposte dall'uomo da quelle della macchina, la macchina non ha passato il test. Quando le risposte diventano indistinguibili, si può ragionevolmente affermare che la macchina "pensa" (Turing, "Macchine calcolatrici e intelligenza", Somenzi, 157-183). Quarant'anni di ricerche sull'Intelligenza Artificiale (IA), tese a simulare sui calcolatori processi intellettuali almeno embrionalmente paragonabili a quelli umani, non hanno prodotto risultati di rilievo in questo senso (ciò non significa che le ricerche di IA non abbiano prodotto alcun risultato, né che siano state inutili). Secondo il filosofo John Searle, ciò non è casuale. Nel 1980 Searle ha opposto all'esperimento mentale del test di Turing un altro esperimento mentale, per dimostrare che nessuna macchina potrà mai riprodurre la qualità più profonda del pensiero umano, l'intenzionalità, cioè "quella caratteristica di certi stati mentali per cui essi sono orientati verso, o riguardano, oggetti e situazioni del mondo" (Searle, "Menti, cervelli e programmi", Hofstadter e Dennett, 346). In questo esperimento una persona che non conosce il cinese, chiusa in una stanza, scambia con gente al di fuori della stanza dei messaggi scritti in cinese, per esempio dei commenti o delle risposte a domande riguardanti una storiella. Se la persona chiusa nella stanza è stata bene istruita con un insieme di regole sintattiche che associno certi ideogrammi a certi altri, e se si è allenata abbastanza a lungo, le sue risposte sembreranno del tutto pertinenti, e saranno indistinguibili da quelle di una persona di madrelingua cinese. Ciononostante, l'uomo nella stanza non ha fatto altro che "manipolare simboli formali non interpretati" (Searle, 343), e nessuno potrebbe neppure lontanamente sostenere che egli capisca il cinese. L'esperimento della "stanza cinese" rimanda a diversi programmi di computer realizzati negli anni Sessanta e Settanta, soprattutto in campo psichiatrico: il più famoso è forse ELIZA di Joseph Weizenbaum, che simulava le risposte di uno psichiatra a un paziente, e che secondo alcuni (ma non secondo il suo autore), sarebbe il primo esempio di un computer che supera il test di Turing. Per Turing e per i sostenitori dell'IA l'intelligenza è una funzione, per così dire, diffusa, una funzione del sistema mondo che è limitativo attribuire al solo organismo umano. In linea di principio, il software è separabile dall'hardware, e perciò l'intelligenza può essere "meccanizzata" senza che questo significhi degradarla. Searle invece, che aderisce a una posizione più radicalmente materialistica (o comunque monista), giudica il pensiero inseparabile dal corpo dell'uomo. Searle non sostiene affatto che le macchine non possano pensare, al contrario: "La mia opinione è che solo una macchina possa pensare, e anzi solo macchine di un tipo particolarissimo, cioè i cervelli e altre macchine dotate degli stessi poteri causali del cervello. L'intenzionalità è certamente un fenomeno biologico, e ha altrettanta possibilità di dipendere causalmente dalla biochimica specifica delle sue origini quanto la lattazione, la fotosintesi e qualsiasi altro fenomeno biologico." (Searle, 359). Ora, può essere benissimo che la posizione di Searle sia fondata sul piano della filogenesi, e anzi, personalmente, sono piuttosto incline a ritenere più plausibile un'origine biochimica del pensiero umano, piuttosto che una di qualunque altro tipo. Ai fini della ricostruzione della storia delle idee e dell'immaginario di questo secolo, però, tutto il dibattito sulla possibilità o l'impossibilità dell'Intelligenza Artificiale, delle macchine pensanti, e così via, probabilmente non presenta un grande interesse, viziato com'è, al fondo, da un apriorismo metafisico che va addebitato più agli avversari dell'IA che non ai suoi sostenitori (per quanto, naturalmente, esista anche una metafisica dell'IA: nella sua prima risposta a Searle, Hofstadter osserva che il disaccordo fra Searle e lui, in ultima analisi, è "di carattere religioso", Menti, cervelli e programmi, 117). Nessuna obiezione metafisica, insomma, potrà eliminare dall'immaginario la presenza delle menti artificiali, dei corpi artificiali, degli esseri artificiali, e tutti gli interrogativi radicali che essa pone all'uomo sulla sua stessa evoluzione e la sua stessa natura. Con Asimov, come abbiamo visto nel capitolo precedente, si è persa un'occasione per esplorare la complessità dei problemi che l'artificiale solleva per l'uomo del XX secolo. Nella fantascienza, in genere, questa complessità è più allusa che non affrontata e sviscerata (non dico in termini teorici, ma narrativi). Ma se nella fantascienza c'è un autore a cui ricorrere per avere uno sguardo impietoso e appassionato, drammatico e ironico, sui problemi posti dal rapporto fra uomo e macchina, questi è Philip K. Dick. Autore di culto in vita, e più ancora dopo la morte (in questo hanno aiutato i due film che sono stati sinora tratti da suoi libri, Blade Runner e Total Recall), Dick è, insieme a Ballard e al primo Vonnegut (e, forse, adesso a William Gibson), uno dei pochissimi scrittori di fantascienza che venga letto anche da chi usualmente è indifferente o francamente contrario a questo genere letterario. La ragione è che Dick, pur essendo del tutto interno al genere (molto più, per esempio, che non Ballard), pur non potendo offrire al lettore (al contrario di Delany, Zelazny o Gibson) uno stile particolarmente raffinato o affascinante, è capace come pochi altri di trasferire nei suoi personaggi e nelle sue trame tutta la ricchezza del suo mondo, tutta la complessità degli interrogativi che lo hanno tormentato nel corso della sua vita. Sicché il lettore finisce per non far caso alla modestia (a volte anche alla sciatteria) dello stile, non viene respinto dalla sinuosità (a volte dalla farraginosità) delle trame, perché sente, senza possibilità di dubbio, l'autenticità e la forza di quegli interrogativi. I quali, poi, possono forse ridursi a uno solo e fondamentale: "che cos'è la realtà? che cosa la distingue dall'illusione?". O meglio: ciò che i sensi dell'uomo percepiscono, in che rapporto sta con la realtà degli oggetti e dei fatti? Essi sono "come ci appaiono", o c'è in essi una dimensione nascosta, segreta? Come Orson Welles, come William Burroughs, come Thomas Pynchon, come Kurt Vonnegut, Dick ci parla di un complotto, a volte ordito non si sa neppure da chi, che inganna i sensi e l'intelletto dell'uomo e lo intrappola in una realtà illusoria. Questo complotto è quasi sempre quello dell'artificiale, della presenza delle macchine nella nostra vita e nel nostro corpo. L'artificiale, in Dick, è un'invasione sottile, come quella di un virus, che entra nell'uomo senza quasi che egli se ne accorga, una trasformazione indotta dalle sue normali attività quotidiane: come nel racconto "Essere un blobel!", (1964) in cui un umano che ha fatto l'agente segreto nella guerra contro una razza ameboide, dopo essere stato trasformato in un alieno per poter svolgere il suo lavoro, continua a trasformarsi spontaneamente anche dopo, sino ad assumere stabilmente quella forma. La linea di demarcazione fra organico e inorganico, fra naturale e artificiale, come quella fra realtà e illusione, diviene perciò sempre più evanescente, fino quasi a scomparire. Dick vede con grande chiarezza il rovesciamento dei ruoli indotto dall'interazione tra uomini e macchine. "Forse siamo noi le vere macchine, noi umani, dal volto caldo e tenero e dagli occhi gentili. E gli oggetti che costruiamo e di cui ci circondiamo, i congegni elettronici, i radiotrasmettitori e i ripetitori a microonde, i satelliti, forse sono solo veli che nascondono autentiche realtà viventi, dato che forse partecipano più pienamente, anche se in modo a noi oscuro, della Mente suprema" ("Uomo, androide e macchina", 248). L'atteggiamento di Dick di fronte a questo processo di artificializzazione è ambiguo. A volte, influenzato dalle sue letture buddiste e dal clima psichedelico californiano degli anni Sessanta e Settanta, egli sembra leggere questa spersonalizzazione in chiave positiva, come un'estensione dei processi vitali a tutto il cosmo: "Forse abbiamo una visione della realtà non solo deformata, come attraverso un velo, ma addirittura rovesciata. Forse ci avvicineremmo di più alla verità se dicessimo: 'Ogni cosa è ugualmente viva, libera e senziente, poiché ogni cosa non è viva o viva a metà o morta, ma piuttosto attraversata dalla vita.' " (ibid.). In generale, però, l'artificiale ha in Dick un ruolo negativo, simboleggia la realtà sintetica creata dai media e dalle droghe, in cui le essenziali qualità umane (l'empatia, l'amore, l'ironia) vengono perse. L'artificiale è la manipolazione della realtà a opera del potere: potere economico, potere politico, potere militare, potere familiare, tutto ciò che coarta in qualche modo la fondamentale libertà dell'essere umano. I personaggi dickiani che si scoprono non uomini ma robot, senza averlo mai saputo, non rimpiangono esperienze che non hanno avuto, possibilità che non hanno realizzato, non maledicono l'irrealtà dei loro ricordi (reazione che gli sceneggiatori di Blade Runner, in una delle scene più sentimentali del film, attribuiscono invece a Rachel): essi protestano per la libertà perduta. E l'unica possibilità per uno di questi esseri, quando scopre la verità su se stesso, è proprio quella di recuperare la libertà: in genere con l'unico atto capace di affermare davvero questa alternativa, l'atto più radicale, cioè il darsi la morte, e con ciò dare la morte anche a tutta la realtà. Garson Poole, svegliandosi in ospedale, scopre di non essere un uomo, come ha sempre creduto, ma un robot. Non ha vene, muscoli, sangue, ma circuiti, cavi e componenti miniaturizzate. E la sua percezione della realtà dipende da un nastro che gli scorre all'interno. "Programmato. In me, da qualche parte, c'è una matrice, una griglia che mi inibisce certi pensieri, certe azioni, e mi costringe a certe altre. Non sono libero. Non lo sono mai stato. Ma ora lo so. E qui sta la differenza." ("Le formiche elettriche", 1969). E per la prima volta controlla la sua realtà facendo scorrere il nastro sino alla fine: la fine di se stesso e la fine del suo mondo, che, per quanto lo riguarda, è la fine del mondo tutto intero. Stiamo ritrovando in Dick molti elementi degli squarci di storia del corpo artificiale che sono stati presentati in queste pagine. Automi e morte. Animali e macchine. Il titolo del racconto di cui abbiamo appena parlato non è l'unico in cui compaia un nome di animale associato all'artificiale ("elettrico" è un termine caratteristico anche in McLuhan). Un animale, la pecora (naturalmente elettrica) compare anche nel titolo originale del romanzo Il cacciatore di androidi (1968), uno dei testi più significativi di Dick per il discorso sull'artificiale, da cui è stato tratto il film Blade Runner (1982). Do Androids Dream of Electric Sheep? gli androidi sognano le pecore elettriche? si chiede Dick. Chi abbia visto il film senza aver letto il libro può non cogliere il senso di questa domanda, perché nella sceneggiatura sono rimasti solo pochi accenni agli animali artificiali, che invece hanno un ruolo centrale nel romanzo. La terra in cui vive Rick Deckard, il bounty killer che "ritira" gli androidi, è quasi disabitata, in rovina, spazzata da un vento radioattivo; gli abitanti migliori sono emigrati su altri pianeti, e sulla terra sono rimasti quasi solo gli "speciali", ritardati mentali o disadattati; gli animali sono quasi del tutto estinti e sostituiti da copie elettriche, tanto che possedere uno dei rari e carissimi animali vivi è uno status symbol. I poveri terrestri trovano conforto nel mercerismo, una religione in cui l'adepto, tramite una macchina, si identifica con Mercer, un misterioso pellegrino che ascende faticosamente una collina bersagliato da pietre tirate da invisibili aguzzini. Gli androidi sono stati costruiti in forma umana per fare da schiavi ai coloni spaziali, ma ben presto le loro unità cerebrali sono diventate così complesse e sofisticate che le ultime generazioni sono nettamente più intelligenti di molti dei terrestri. E spesso gli androidi si ribellano, e tornano sulla terra per colpire i loro crudeli padroni. Bisogna individuarli e ucciderli ("ritirarli", visto che non sono esseri umani). Ma distinguere un androide da un uomo è ormai quasi impossibile: è identico non solo l'aspetto, ma anche il comportamento e il ragionamento. Un test di Turing basato su performance puramente intellettive è quindi del tutto inservibile. Dick ne introduce infatti un altro, il test VoigtKampff, che misura l'empatia, il grado di partecipazione del soggetto alle vicende di altri esseri viventi, soprattutto animali: gli androidi sono singolarmente privi di questa qualità ("sono predatori solitari", commenta Deckard), ma purtroppo talvolta anche qualche essere umano lo è, e viene "ritirato" per sbaglio. L'azione del romanzo si basa sulle peripezie di Deckard, che cerca gli androidi per incassare la taglia e poter comprare un animale vero, e i conflitti che le sue azioni scatenano entro di lui. La struttura, invece, è organizzata su una serie di rapporti di somiglianza e di conflittualità fra i personaggi: il conflitto più significativo è forse quello fra Deckard, che all'inizio del libro rappresenta la razionalità utilitaristica, e John Isidore, la "testa di gallina" con il Q.I. al di sotto della media, che però è in grado, intuitivamente, di entrare in contatto empatico con tutte le forme di vita, ivi compresi gli ambigui androidi (questo è comunque quanto pensava Dick: "la contrapposizione fra Isidore e Deckard, il contrasto fra le loro visioni della realtà, costituiscono in qualche modo il racconto primario", "Blade Runner secondo Philip Dick", in Attenzione polizia!, 31). E l'interrogativo del libro, naturalmente, è quello espresso in forma metaforica dal titolo, che si potrebbe riformulare così: "che cos'è veramente l'uomo? che cosa lo distingue dagli androidi?" La risposta, per quanto riguarda gli androidi, è netta: essi non hanno nulla di umano, sono malvagi, indifferenti alla sofferenza, capaci di cinismo e crudeltà inaudite, manipolatori della realtà. Così appaiono al lettore e così li voleva Dick (v. ancora Attenzione polizia!). Per quanto riguarda gli umani, invece, essa è ambigua, contraddittoria. Ci sono personaggi umani che hanno poco di umano, come il collega di Deckard, Phil Resch, sadico e compiaciuto massacratore di androidi. Quanto a Deckard, il suo punto di vista e la sua motivazione cambieranno più volte nel corso del romanzo: all'inizio il suo amore per gli animali non basta a controbilanciare la sua determinazione a uccidere, ed egli appare come l' "uomo meccanico" di cui parlava Carlyle; poi la sua attrazione per Rachel lo porta a tentare un contatto con l'altro da sé, a "respingere l'artificiale e il meccanico, per soffocarlo col desiderio" (Attenzione polizia!, 38), ma l'incontro fallisce e a Deckard rimane solo un senso di amaro. Anche Isidore, che comunque nella sua semplicità e intuititività rappresenta forse l'unico personaggio positivo del libro (come spesso accade in Dick), va incontro a una disillusione e a una ristrutturazione del suo punto di vista, quando vede gli androidi strappare le zampe a un ragno e scopre la loro crudeltà. Ma in Do Androids Dream..., con un procedimento tipico di Dick, la realtà si rivela sempre diversa, man mano che i personaggi la vanno scoprendo, strato dopo strato: non si arriva mai a una "ultima", ma solo a una "penultima verità", come suona il titolo di un altro suo romanzo. Così anche il mercerismo, che per buona parte del libro era sembrato l'unica risorsa rimasta agli umani, si rivela alla fine un trucco: sono vecchi nastri che la macchina proietta e in cui immerge i fedeli, come in una realtà virtuale, e Mercer è solo un vecchio attore, che vive ancora, da qualche parte, in America. Perciò non sembra esserci davvero fuga dal regno dell'artificiale, del meccanico, del contraffatto. Come in Blade Runner "director's cut", la versione originale montata dal regista Ridley Scott e poi modificata dalla produzione, in cui manca del tutto l'improbabile finale della versione ufficiale: Deckard e Rachel non fuggono affatto sorvolando le montagne e i boschi incontaminati (ironia della sorte: erano scene tagliate dall'inizio di Shining di Stanley Kubrik, una meta poco rassicurante per fuggire da un incubo), e restano ad affrontare il loro destino, il "ritiro" per Rachel, la grigia quotidianità per Deckard. La sceneggiatura di Blade Runner tradisce clamorosamente il romanzo, com'è ovvio che sia. Naturalmente è impossibile mantenere in novanta o cento minuti tutte le scene e le sottotrame di un romanzo, anche se non è particolarmente lungo come Do Androids Dream... Scott e gli sceneggiatori Fancher e Peoples hanno scelto però di tagliare proprio uno degli aspetti più significativi del romanzo, che illuminava la dialettica dickiana di realtà e apparenza e i conflitti interiori di Deckard, cioè il culto empatico di Mercer. Hanno ridotto ai minimi termini il tema degli animali elettrici, che rimane solo in un accenno durante il test Voigt-Kampff e in una rapida apparizione del gufo alla Tyrell Corporation (una scena che era già nel romanzo). Ma soprattutto hanno completamente rovesciato il discorso di Dick sugli androidi ("replicanti" nel film): gli esseri artificiali, segnati dalle esperienze estreme delle colonie extra-mondo, lungi dal rappresentare un'umanità disumanizzata, diventano degli oppressi, dotati di sentimenti ed emozioni che gli uomini hanno invece perduto, e capaci di ergersi contro i loro persecutori come eroi romantici, gli unici capaci di dare un senso alla morte. E l'episodio con Rachel, che nel libro era un rapido intermezzo che aveva la sola funzione di confermare a Deckard le sue idee sugli androidi, diventa qui per lui l'incontro fondamentale, che riesce a riscattarlo dalla brutalità del suo lavoro. Una scelta del genere porta con sé l'inevitabile corollario di retorica, ben confezionata e calibrata, che è stato uno degli ingredienti fondamentali del successo del film. Chi di noi, uscito dalla sala, non ha rimuginato nella sua testa (o magari recitato davanti allo specchio) il monologo di Roy Batty-Rutger Hauer sui "bastimenti in fiamme al largo di Orione"? Blade Runner, per dirla tutta, è un film molto poco dickiano, nonostante le sue origini. Ma resta un film fondamentale, importante, significativo, sia per il cinema degli anni Ottanta sia per il nostro discorso sull'artificiale. Non tanto per i suoi eroi un po' da operetta, né per la presenza scenica di Harrison Ford e di Rutger Hauer (entrambi, come sempre, a corto di espressioni), e neppure per il discorso dolciastro e risaputo sui falsi ricordi (nella scena delle foto di Rachel che abbiamo già citato). Tutte queste debolezze sono riscattate da una magistrale costruzione della scena, dell'ambiente, in una rigorosa organizzazione visiva che aderisce alla struttura concettuale della storia come poche altre volte si è visto. In Blade Runner il tema dell'artificiale (e forse, in fondo, anche un recupero delle tematiche di Dick) è affidato per intero alla luce, all'occhio e allo sguardo. In un certo senso, è vero, questo si potrebbe dire per ogni film. Ma quello che colpisce, qui, è l'esplicitazione diretta (non so quanto cosciente da parte del regista, ma questo, lo sappiamo, conta poco) della sostanza del cinema, una corrispondenza precisa e stringente fra i temi visivi e quelli concettuali. Il film vive tutto su un'opposizione ripetuta, insistita, radicale, fra l'opaco e il trasparente. La meravigliosa architettura scottiana della Los Angeles del 2017, eclettica e massiccia, è fatta per catturare e assorbire la luce, per creare un'ombra nella quale uomini e replicanti possano vivere e nascondersi. La luce fatica a farsi strada, filtra in lame sottilissime attraverso le finestre, viene distribuita dalle pale rotanti dei ventilatori sul soffitto, sciabola dall'alto dai fari fissati sotto le auto volanti della polizia. Quando Deckard ha avuto l'incarico e va a fare il test Voigt-Kampff alla sede della Tyrell, appena entrato dice: "C'è troppa luce", e opacizza il vetro della grande finestra finché la luce non si riduce alla solita lama. Replicanti, poliziotti, abitanti, vivono in una continua penombra, come nella casa di Isidore con i suoi giocattoli meccanici. L'opposizione luce/ombra non ha un significato univoco a livello della storia, ma solo a livello della struttura concettuale dell'intero film. Quando operano i replicanti, il buio è l'elemento nel quale possono nascondersi e vivere, la luce lo strumento del controllo del potere (il fascio del Voigt-Kampff che misura la dilatazione della pupilla, la luce che cade dalle auto della polizia). Nei dialoghi fra Rachel e Deckard, invece (con i campi di Harrison Ford quasi sempre in ombra, e Sean Young avvampante di luce), l'ombra è la condizione oscura dell'eroe/antieroe, la luce il trionfo dell'innocenza dolorosa della donna. Tutta la scena della caccia alla replicante Zora è un trionfo di materiali trasparenti, dai vestiti in plastica della donna alla serie di vetrine che lei infrange nella sua caduta, in un bellissimo ralenti. Anche la cortina di pioggia che continua a cadere per tutto il film è insieme trasparente e opaca. E se non fossimo convinti che il tema fondamentale del film è lo sforzo dello sguardo di rompere l'opacità, di aprirsi una via al di là dei muri e dei corpi, dietro i muri e dentro i corpi, per renderli trasparenti e penetrare la dimensione segreta che può dirci che cosa è umano e che cosa non lo è, se non fossimo convinti di questo, Scott ha disseminato il suo film di immagini dell'occhio. L'occhio esaminato nel Voigt-Kampff campeggia in primo piano, riempiendo tutto lo schermo, all'inizio del film, spezzando la carrellata dall'alto sulla Los Angeles disseminata di fuochi. Roy e Leon alla ricerca di Tyrell uccidono il tecnico tibetano che fabbrica gli occhi dei replicanti. La luce batte sull'occhio del gufo, che diviene opaco e svela così il suo carattere di macchina. Il corpo artificiale è una sfida allo sguardo. Ogni doppio lo è. La sua visione è insostenibile, perché in esso opera un paradosso mortale, una divaricazione mostruosa tra l'apparenza e l'essenza. Questo lo aveva già capito Hoffmann, con la sua storia di automi, ottici, orchi e occhi. Freud ha dato di Der Sandmann una lettura che lega le strutture della psiche e il mito: ha parlato del mito di Edipo e dell'equivalenza simbolica tra cecità e castrazione, di traumi infantili e di ritorno del rimosso. D'altra parte McLuhan ci ricorda che l'età moderna, che si apre con l'invenzione della stampa prima ancora che con l'avvento dell'industria, comporta una separazione gerarchica tra i sensi e l'insediamento al vertice di questa gerarchia del senso della vista. Il cerchio adesso si chiude. Se il robot e l'androide sono uno dei simboli estremi del processo di massificazione connaturato con la civiltà industriale, oggi questo processo sembra in crisi, le nuove tecnologie della comunicazione ci impongono una ridefinizione dell'autopercezione dell'uomo e del suo rapporto con l'esterno. L'occhio di Blade Runner deve forse temporaneamente chiudersi sull'esterno e rivolgersi all'interno dell'uomo, non l'interno di Sant'Agostino in cui abita la verità, ma l'interno fisico, che diventa un nuovo terreno di incontro e di battaglia fra naturale e artificiale. I corpi gloriosi dei supereroi Correva il giugno dell'anno 1938, e le edicole degli Stati Uniti ospitavano un nuovo comic book, una nuova rivista di fumetti, Action Comics. In quella ormai storica copertina campeggiava un rampante personaggio in calzamaglia blu e mantello rosso che sollevava sopra la sua testa un'auto, mentre una piccola folla fuggiva terrorizzata o guardava stupita. Era nato Superman, e con lui una mutazione nel fumetto d'avventura che avrebbe lasciato il segno. L'immaginario collettivo degli anni Trenta, in America, conosceva insieme il suo più alto momento di massificazione e industrializzazione e l'inizio della crisi di quel modello. L'industria culturale andava perfezionando i suoi apparati, costruendo un sistema di dispositivi mai visto prima (esemplificato nella grande macchina di Hollywood) che spingeva sempre più lontano le possibilità di interazione fra i bisogni e i desideri del pubblico e le offerte del prodotto culturale. Non ancora così centrale in quel sistema come sarà nel dopoguerra, il fumetto comincia comunque proprio negli anni Trenta a elaborare in modo più complesso aspirazioni e bisogni del consumatore. Nel clima del New Deal e di fronte ai primi rumori di guerra, il fantastico irrompe nel fumetto proprio per dare corpo alla nuova versione del "sogno americano", con la sua carica di apparente innovazione, di sostanziale rassicurazione sui valori tradizionali e poi di crescente coscienza del proprio ruolo internazionale. Di questo sogno Superman rappresenta il lato solare, l'illusione di una disponibilità crescente e illimitata di energia, il mito di una rigorosa trasparenza (la vista a raggi X), ma insieme la dimensione di un'America provinciale, tutta concentrata tra Metropolis e Smallville. Superman è un alieno, dotato di un corpo prodigioso, dai meravigliosi poteri, tutto dedito al bene. La società gli è amica, ma solo se rappresenta il momento dell'eccezionalità, della risoluzione di crisi straordinarie con mezzi straordinari. Non c'è posto per Superman nella vita di tutti i giorni; e nella vita di tutti i giorni egli deve dissimularsi sotto le vesti del mite e goffo Clark Kent, diligente cronista al Daily Planet, il quotidiano di Metropolis. Sotto le spoglie dell'alieno, il corpo di Superman è una nuova incarnazione del corpo artificiale, un sogno di potenza illimitata, di velocità infinita, di infinita capacità di penetrare sotto la superficie delle cose, di dominio totale sul mondo. Di questo corpo "glorioso" (non nel senso di Artaud) c'è anche una versione notturna, più violenta, potenzialmente più ambigua. Come il volto notturno di Metropolis-New York è Gotham City, così la variante notturna di Superman è Batman, nato nel 1939. Il miliardario Bruce Wayne, testimone bambino dell'assassinio dei genitori e da allora votato a combattere il crimine, non è un alieno, non ha superpoteri: dal suo corpo egli costruisce il corpo di Batman, l'uomo pipistrello, con la tenacia dell'esercizio, con una ferra forza di volontà, con una determinazione ad attingere la perfezione che ha del paranoico. Questa coppia di corpi massicci e potenti, questi fasci di muscolatura dediti alla difesa dal male delle loro città, diventano ben presto il fulcro di un nuovo genere, il fumetto di supereroi: fra il 1939 e il 1941 nasce una miriade di questi personaggi, tutti arruolati d'ufficio nel conflitto mondiale, che sperano (in parte riuscendovi) di ripetere lo straordinario successo di Superman. Con la fine della guerra ha termine la prima "età dell'oro". Alla fine degli anni Quaranta, e negli anni Cinquanta, il numero dei personaggi è molto diminuito, e la formula dà già segni di stanchezza. È il cinema di fantascienza, in quegli anni, che si rivela capace di porre con più chiarezza, nell'immaginario collettivo, le preoccupazioni per l'ambiguità sociale della scienza (quella scienza che con Hiroshima e Nagasaki aveva dimostrato di potersi facilmente trasformare da forza produttiva in forza distruttiva), e la nuova, serpeggiante insofferenza per la massificazione della società industriale, un'insofferenza che si esprime spesso in fantasie angosciose sul problema del corpo e dell'identità individuale (molto chiaramente in film come L'invasione degli ultracorpi e Destinazione Terra). Il postindustriale avanzante sembrava insofferente del classico, massiccio corpo del supereroe classico, e ne esigeva una rappresentazione insieme più problematica e più aerea, "immateriale", come si sarebbe detto due decenni dopo. Questo corpo agile, dislocato, quasi aereo, capace di occupare lo spazio in modo leggero e bizzarro compare nel novembre 1961 in una nuova testata, The Fantastic Four, I fantastici quattro; e per i supereroi si apre una nuova stagione fortunata, sotto le insegne della Marvel Comics, la dinamica casa editrice concorrente della più antica DC Comics, che pubblicava Superman e Batman. In pochi anni nascono nuovi personaggi destinati a diventare popolarissimi: Spider-Man (l'Uomo ragno), Daredevil, l'incredibile Hulk. Il colpo di genio di Stan Lee e Jack Kirby, nel creare i Fantastici Quattro, è stato quello di "scomporre le funzioni" del supereroe attribuendole a quattro personaggi diversi, estremizzando la specializzazione (Reed Richards/Mr. Fantastic, col corpo elastico ed estendibile; Johnny Storm/La torcia, capace di incendiarsi e volare; Susan Storm/La ragazza invisibile; Ben Grimm/La cosa, dal corpo di pietra massiccia) e rendendola più concretamente visibile nella vera coppia antinomica del gruppo, Mr. Fantastic e la Cosa. Nella radicale diversità delle forme dei due personaggi (filiforme, leggero, capace di riempire tutto lo spazio, Reed Richards; pesante, rigido, massiccio, Ben Grimm) si rispecchia una versione popolare e un po' ingenua del conflitto fra la ragione, qui esemplificata nello scienziato Richards, e l'emozione, che indossa il corpo pietroso di Grimm. Questo cambio radicale nella rappresentazione e nell'uso del corpo apre la strada a tutta la nuova filosofia del supereroe Marvel, che vive con disagio la sua condizione, sia perché questa gli rende difficoltosi i normali rapporti con gli altri a cui la sua "metà umana" aspirerebbe, sia perché non è più chiara, né data una volta per tutte, la bandiera sotto cui combatte, l'ideale etico che giustifica il suo codice di comportamento e motiva le sue azioni. Ecco allora che la doppia identità non è più solo espediente narrativo, ma diventa rimozione, amnesia e furia incontrollata nell'incredibile Hulk, si intreccia con i problemi della condizione giovanile nell'Uomo ragno; ecco che i superpoteri diventano motivo di emarginazione sociale e di isolamento orgoglioso negli X-Men, eroi nati e rinati più volte dal 1963 ad oggi e capostipiti dell' "esplosione mutante" degli anni Ottanta; e anche la menomazione fisica può trasformarsi nel suo contrario, come in Daredevil, il supereroe cieco. In effetti i nuovi supereroi degli anni Sessanta sono una straordinaria galleria di freaks, di corpi mutati dal nuovo pericoloso potere della scienza o dalla casualità dell'evoluzione. In molti casi l'acquisizione dei superpoteri è dovuta a un incidente che ha esposto l'eroe all'azione di sostanze o radiazioni pericolose; usato per la prima volta nel 1940 per raccontare le origini di Flash, l'uomo più veloce del mondo, l'episodio è diventato l'espediente preferito per spiegare i superpoteri dei personaggi Marvel, dai Fantastici Quattro all'incredibile Hulk, dall'Uomo ragno a Daredevil. Altre volte non è l'incidente a creare il supereroe, ma un esperimento scientifico controllato o un'innovazione tecnologica, come nel caso del siero riducente che crea Ant-Man, l'uomo formica, o l'armatura metallica che tiene in vita il playboy Tony Stark e lo trasforma nel protocyborg Iron Man. È la scienza come forza immediatamente produttiva, quindi, che penetra direttamente nel corpo per trasformarlo e renderlo adatto a nuovi compiti e nuove performance. L'immaginario non si accontenta più del sogno di un corpo onnipotente del tutto autonomo da quello dell'uomo comune, ma vuole far correre la fantasia allo stesso ritmo della ricerca scientifica, vuole che l'immaterialità dei nuovi spazi di simulazione informatici e del codice genetico scorrano dentro di noi, nella nostra carne e nel nostro sangue. Nel fare questo, anche il fumetto rielabora costantemente, ostinatamente, un tema che abbiamo già individuato fin dalle prime apparizioni del corpo artificiale: il tema della morte (come ha dimostrato brillantemente, contro il luogo comune che afferma il contrario, Gino Frezza nel suo ultimo libro La macchina del libro tra film e fumetti). La condizione del supereroe è, fin dall'inizio, quella di chi ha attraversato la morte, l'ha vista in faccia, vi convive fianco a fianco. Anche l'apparentemente immortale Superman, anche l'invincibile Batman hanno dovuto, nel loro snodo produttivo più importante degli ultimi anni, riattraversare questo tema con inedita radicalità. Fra il 1993 e il 1994, la condizione del loro rilancio (letteralmente della loro resurrezione) ha dovuto essere, esplicitamente e drammaticamente, la loro morte. Superman, ucciso nello scontro con un essere misterioso che era il suo esatto uguale e contrario (uguale nello splendore della forza, contrario nell'assoluta opacità dello sguardo e della motivazione morale), è rinato in un complesso procedimento di clonazione, di copiatura integrale del codice genetico. Batman, dal canto suo, è dovuto soccombere a un essere nelle cui vene scorre puro veleno, nato e cresciuto nell'oscurità di una prigione di una delle tante dittature del centro America (e ha poi rimarginato la rottura della spina dorsale grazie alla sua ferrea volontà e all'aiuto di una sensitiva). Anche queste ultime vicende dei supereroi, insomma, suggeriscono che alla figura del corpo replicato si affianchi in posizione sempre più centrale un'altra figura, dalle radici meno antiche ma non meno complesse, quella del corpo invaso. INTERMEZZO ORWELL NELL’ERA DELLE CYBORMENTI “ Diciamo che la forma è meccanica quando, per mezzo di una forza esterna, essa viene data a qualsiasi materia semplicemente come un’aggiunta accidentale, senza rapporto con la sua qualità. Questo accade, per esempio, quando diamo una forma particolare a una massa morbida; essa conserva quella forma, qualunque essa sia, dopo essersi indurita. La forma organica, invece, è innata; essa si rivela all’interno e acquista la sua determinazione contemporaneamente allo sviluppo perfetto del germe.” Riletto .oggi , a più di tre secoli di distanza, questo frammento del filosofo romantico proto-umano August Schlegel (dalle Vorlesungen über dramatische Kunst und Literatur, 1809,o II secolo AEPB [Ante Era Programmazione Biologica]) ci appare come uno dei primi luoghi in cui i nostri progenitori si resero conto dei limiti della forma-uomo biologica quale allora esisteva. In effetti, per milioni di anni il corpo del proto-uomo è stato il limite più evidente dell’espressione delle capacità potenziali di dominio della materia da parte delle funzioni intellettive e performative, che sono caratteristiche oggi della nostra specie in quanto cybormenti . Tutto il periodo di esistenza della forma proto-umana è stato caratterizzato dal conflitto fra l’aspirazione al dominio della materia strutturata meccanicamente (allora detta “natura”) e le limitazioni dovute al supporto biologico non programmato (il “cervello” del proto-uomo) che assicurava le funzioni mentali necessarie. Per usare la terminologia di Schlegel, la “forma” veniva impressa al proto-uomo da una forza esterna, l’evoluzione biologica non programmata, e non grazie a una determinazione interna, “contemporanea allo sviluppo perfetto del germe”. La conseguenza fu che la mente proto-umana, proprio grazie a queste sue evidenti limitazioni, fu sì in grado di costruire strumenti di dominio sulla materia e, in modo molto rozzo ed embrionale, strumenti di auto-perfezionamento delle proprie funzioni: ma non fu in grado di assorbire e controllare dall’interno questi strumenti. Al contrario, li proiettò tutti fuori di sé, diede loro un’esistenza autonoma, per quanto meccanica e limitata. La presenza, in vari ordini, di tutte queste proiezioni della mente proto-umana, generò così una serie di conflitti, alcuni dei quali andarono acutizzandosi negli ultimi secoli della vecchia era. Uno di questi conflitti era quello (a livello di ciò che oggi è per noi l’insieme dei dispositivi di controllo delle condizioni di base della cibervita) fra il “naturale” e l’“artificiale” (per usare i termini dell’ epoca) , cioè tra le forme impresse alla materia dall’evoluzione non programmata e quelle create dalla mente proto-umana. Un altro era il conflitto tra le singole entità proto-umane (allora chiamate “individui”) e le forme di organizzazione collettiva di quelle entità (le cosiddette “società”). È curiosa, per esempio, la sorte di quello che è stato il prodotto più significativo dell’evoluzione del proto-uomo e il principale strumento della sua primordiale attività mentale, il linguaggio. Non solo il proto-uomo non è mai riuscito ad andare al di là di questo primitivo strumento di comunicazione e di espressione, ma ha dovuto sottostare a tutta l’aleatorietà con cui quello strumento si è sviluppato. Questa è una caratteristica più generale dell’era proto-umana: finché essa è durata, infatti , non si è mai riusciti a vincere l’influenza del fattore casuale nelle forme assunte dalle aggregazioni “sociali”. Anzi , il proto-uomo dava una grande importanza a questo fattore, che considerava di elevata qualità: tanto è vero che il termine che designava questo fattore casuale, cioè “cultura”, era connotato in maniera fortemente positiva, almeno in molti ambienti. Ebbene, anche per quanto riguarda il linguaggio, i proto-uomini non riuscirono mai a individuarne la forma comune, la sostanza unificante, rimanendo prigionieri dell’esistenza di una pluralità di forme linguistiche, legate appunto al fattore casuale o “culturale”, con enormi problemi di comunicazione, traduzione, gestione dell’attivita mentale unificata a livello planetario. È vero che alcuni studiosi proto-umani, come quelli raccolti attorno alla cosiddetta scuola di Port-Royal, o, nell’ultimo secolo della vecchia era, Noam Chomsky , intuirono l’esistenza di una “grammatica universale”, ma non arrivarono mai a formularne organicamente le leggi, né tanto meno a costruirne modelli effettivamente operativi. T utto ciò produsse, verso la fine appunto della vecchia era, dei fenomeni crescenti di ansia, un timore che i prodotti “artificiali” finissero per espropriare e asservire addirittura la proto-umanità, o che lo sviluppo ipertrofico delle funzioni e dell’organizzazione “sociale” schiacciasse una supposta sfera interiore e privata dell’“individuo”. È tipica, al riguardo, la preoccupazione nutrita da quei proto-umani che la diffusione delle prime intelligenze di nuovo tipo (allora adibite prevalentemente a compiti di calcolo, i cosiddetti “computer”) finisse per impoverire il linguaggio, riducendone la portata e l’efficacia espressiva e comunicativa; o che la diffusione dei primi, rozzi sistemi di simulazione totale (che venivano chiamati “realtà virtuali”) creassero sindromi di intossicazione comportamentale, isolamento, chiusura individualistica. È peraltro curioso che molti di coloro che la pensavano così fossero peraltro consapevoli, almeno in modo embrionale, che l’attività mentale, anche a livello puramente cognitivo, non è in alcun modo riducibile al linguaggio. Essi non avrebbero dunque, a rigor di termini, dovuto confondere l’impoverimento del linguaggio con l’impoverimento del “pensiero” (per usare la loro primitiva terminologia): cosa che invece facevano disinvoltamente. Più coerenti coloro che partivano da posizioni rigorosamente materialistiche,e consideravano la mente esclusivamente come un’emanazione del cervello proto-umano, non soltanto a livello storico (il che, va da se, è del tutto plausibile), ma anche a livello ontologico. Nell’ambito di questa presupposizione la loro posizione non era affatto contraddittoria, ma naturalmente era il loro assunto di base a restringere arbitrariamente l’insieme delle forme possibili dell’attivita mentale: come lo sviluppoulteriore si è incaricato di dimostrare ad abundantiam. L’accelerazione dell’innovazione tecnologica, e in particolare delle tecniche per il trattamento dell’informazione, portò con sé una polarizzazione tra due diverse fazioni in quello che, a giudicare da una lettura attenta di testi e cronache, fu il conflitto “culturale” più importante della fine della vecchia era. Possiamo chiamare queste due fazioni, seguendo la terminologia introdotta da uno studioso molto popolare in quei tempi, gli apocalittici e gli integrati. Anche prima degli attacchi atomici su Silicon Valley e su Tsukuba a opera dei due commandos suicidi dell’Alleanza tradizionalista organicista che in qualche modo concluse quell’era e aprì la strada alle ricerche che portarono, di lì a poco, alla nascita delle prime cybormenti,quel conflitto fu di un’asprezza straordinaria. Gli apocalittici sostenevano che la massificazione della società, 1’integrazione sempre più spinta delle nuove tecnologie nella vita quotidiana, 1’importanza sempre crescente del consumo, producevano un deperimento della figura dell’uomo. Antropocentrica o cosmocentrica che fosse la loro visione, individualiste o collettiviste che fossero le loro prospettive politiche, gli apocalittici erano convinti che il cosiddetto “progresso” fosse un fattore negativo, da eliminare e da combattere. Sopravvalutando alcuni fenomeni di inevitabile disorientamento prodottisi nella fase più acuta del periodo puramente “informatico” della cosiddetta rivoluzione postindustriale, gli apocalittici erano convinti che il computer fosse il nemico principale (la televisione, che per un certo periodo era stato il loro bersaglio preferito, stava già deperendo per conto suo, almeno nella sua forma generalista tradizionale). Questo atteggiamento accomunava correnti di “destra” (esoteristi vari, integralisti religiosi ecc.) e di “sinistra” (anarchici tradizionalisti, veterocomunisti, ecofondamentalisti). Gli integrati, divisi anch’essi al loro interno in numerose sottotendenze, erano invece beatamente convinti che l’uomo stesse vivendo l’epoca migliore e più feconda della sua storia, che l’innovazione tecnologica avrebbe migliorato sempre più le condizioni di vita, che una buona gestione dello “sviluppo” avrebbe condotto l’umanità a una liberazione graduale e pacifica dalle sue tare più evidenti. Gran parte degli apocalittici aveva una concezione del tempo ciclica, circolare; così gli integrati l’avevano lineare, potenzialmente infinita. Questi ultimi sottovalutavano grossolanamente il ruolo del conflitto e della contraddizione, se non in certi loro buffi modelli sociologici detti “funzionalisti”: ed erano quindi incapaci di comprendere i mutamenti effettivi, antropologici, indotti dalla rivoluzione postindustriale. Il loro rifiuto del catastrofismo degli apocalittici li rendeva prigionieri di una concezione tutto sommato statica dello sviluppo e del mondo. C’è appena bisogno di dire che nessuna di queste due tendenze aveva quasi neppure sfiorato il vero problema: il superamento e la trasformazione della formauomo che si andava preparando,e la creazione di organismi di sintesi, in cui l’integrazione delle capacità sintetiche delle funzioni mentali tradizionalmente umane con quelle analitiche delle intelligenze artificiali rende superato il problema della dipendenza del pensiero da una specifica forma corporea: appunto ciò che oggi siamo, le menti cibernetico-organiche, o cybormenti. U n episodio notevole di questo dibattito tra apocalittici e integrati fu il libro di George Orwell, 1984, o meglio la discussione che per anni si svolse su di esso. Ci si interrogava su che cosa avesse veramente voluto dire Orwell, se avesse inteso denunciare il socialismo burocratico dell’Urss, o il capitalismo delle nazioni occidentali, se avesse parlato del suo presente, degli anni dopo la Seconda guerra mondiale in cui il libro fu scritto e pubblicato, o del futuro che lo scrittore prevedeva o che intendeva esorcizzare. Questo libro ebbe un destino curioso: comunque lo avesse concepito e scritto il suo autore, esso venne letto come una profezia, come la descrizione del futuro quale l’autore lo vedeva. Una sorte analoga conosceva, negli stessi anni, la letteratura cosiddetta di “fantascienza”, che ebbe una breve esistenza (meno di cento anni) proprio verso la fine della vecchia era. Come se la fantascienza “descrivesse” il futuro. Naturalmente era tutto un gigantesco equivoco. La fantascienza, un po’ come tutta la curiosa attività proto-umana denominata “letteratura”, ma in una forma morbosamente esasperata, aveva solo il compito di creare dei correttivi alla concezione vincolante del tempo (fosse essa quella circolare o quella lineare). Cospargendo il testo di una serie di elementi, di tessere che si supponevano portatrici di un significato, di un riferimento a una totalità organizzata, si costringeva il lettore a costruire, nella sua immaginazione, un mondo, un universo: appunto l’universo del testo. Più o meno quello che noi oggi facciamo con le nostre sedute collettive di terapia creativa, solo che per i proto-uomini c’era bisogno dell’ ausilio di qualcosa di esterno, il libro. Il pensiero proto-umano dell’epoca aveva elaborato una “scienza dei segni”, appunto la semiotica, per dar conto di questa attività. Sulla pagina stampata del libro si chiudeva un circuito, che dall’autore andava al lettore: e soltanto con l’attività di decifrazione del lettore, con lo sforzo che egli faceva, in comune con l’autore, per costruire 1’universo del testo come universo possibile, l’investimento dell’autore poteva realizzarsi, poteva essere valutato in termini di produttività. Verso la fine della vecchia era i proto-uomini avevano reso ancora più esplicito questo meccanismo di collaborazione intorno a un testo o a un processo con la cosiddetta pratica della comunicazione e dell’arte interattive. Una simile attività, come si,vede, ha molto a che fare con lo scioglimento di un enigma, con il disvelamento di un segreto. E si può dire perciò che, se la narrativa di fantascienza rappresentava, in forma esasperata, tutto il circuito letterario (lettore-autore-lettore come figura del ciclo consumo-produzioneconsumo), era invece il romanzo giallo che forniva il paradigma di quelle due figure: e il ciclo consumo-produzione-consumo può essere visto altrettanto bene come un ciclo assassino-vittima-detective (in cui l’assassino è l’autore, la vittima il testo, e il detective è il lettore). Da questo punto di vista la grandezza di Orwell non sta nell’avere azzardato delle previsioni sul futuro e averle azzeccate, né la sua debolezza sta nell’averle eventualmente sbagliate. L’importanza di 1984 sta nell’avere agito su questo dispositivo fondamentale di decodifica del testo letterario, nell’averlo raddoppiato e reso esplicito non solo nell’atto della fruizione, ma nella costruzione stessa del testo, e nell’averne definitivamente inceppato il funzionamento. Al di là di tutto l’orrore, il grigiore, lo squallore della vita quotidiana nella Londra di 1984, la situazione di cui Winston Smith è cosciente fin dall’inizio del libro e a cui tenta invano di ribellarsi è l’assenza delle condizioni minime indispensabili per potere decifrare dei segni intorno a sé e per poter costruire, su questa base, un’immagine coerente dell’universo.Il mondo di 1984 è così spaventosamente ostile, così oscuramente e ferocemente oppressivo, proprio perché è indecifrabile: nulla, in esso, può più funzionare come segno, non ci sono più referenti, non è possibile alcuna attività di inferenza. C’e una colpa, certo, gigantesca, incombente, ma non c’è più un colpevole. Nel flusso della comunicazione sociale non esistono più regole del gioco, nulla rimanda a null’altro. E Orwell aveva visto, genialmente, che questa situazione era descrivibile non tramite una sottrazione, una rarefazione dei significanti, ma al contrario attraverso la loro moltiplicazione, proliferazione, inflazione. Dove tutto può significare tutto, dove l’antico sogno di dominazione del tempo lineare si realizza tramite una continua manipolazione e riscrittura del passato, fino a che la storia (la memoria collettiva) e la vita (la memoria individuale) non esistono più, in quello spazio si perde ogni possibilità di significazione, e anche il corpo dell’uomo perde ogni stabilità, ogni possibilità di definizione di una superficie di separazione tra l’interno e l’esterno. Dove non si dà più possibilità di segno, l’esterno può ingolfarsi nell’interno e l’interno esplodere verso l’esterno, e il corpo dell’uomo semplicemente scomparire: e abbiamo la stanza 101. In questo senso 1984 partecipa delle stesse ossessioni che avevano ispirato, quasi un secolo e mezzo prima, Frankenstein di Mary Shelley. Orwell non era né un apocalittico né un integrato. È vero però che ebbe tra i primi i suoi maggiori esaltatori, e tra i secondi i suoi più severi detrattori. Era un erede della tradizione utopista, della grande tradizione culturale della sinistra europea. Però ebbe la forza di mettere in scena la più grande aporia, la più feroce contraddizione che avesse lasciato in eredità 1’illuminismo: 1’uomo, senza utopia, precipita nell’inferno di una quotidianità che lo espropria di ogni significato e lo uccide poco a poco; ma non appena mette mano alla realizzazione di quella utopia, al tempo stesso prepara le condizioni per una quotidianità sempre più atroce. Orwell, in quanto partecipe della cultura illuminista, empirista e utopista, era naturalmente legato alla storia e alla presenza della forma-uomo. Questo grande compianto che ha scritto per la scomparsa dell’uomo è stato insieme la sua forza e la sua debolezza. Il modo in cui egli rappresenta questa scomparsa è sì grandioso, ma limitato. È legato a una biologia, a una concezione della storia e del suo senso, a una visione lineare del tempo che non ci appartengono più. Alcuni dei fenomeni da 1ui descritti , in un contesto differente, perdono tutta la loro tragicità e divengono quasi fatti quotidiani. Per questo, nell’Era della Programmazione Biologica, noi, svincolati ormai dalla vecchia forma proto-umana, noi, a cui il tempo non appare più né una retta né una circonferenza, ma una spirale cilindrica tridimensionale, noi preferiamo un altro grande cantore della scomparsa dell’uomo nell’ultimo secolo della vecchia era: Philip K. Dick. PARTE II IL CORPO INVASO Nell'articolo del 1950 sulle macchine pensanti, di cui abbiamo parlato nella parte precedente, Alan M. Turing faceva un'osservazione, incidentale per lo sviluppo della sua argomentazione ma interessante per il nostro discorso: "Nessun ingegnere o chimico pretende di essere capace di costruire un materiale che non si possa distinguere dalla pelle umana. Può darsi che un giorno questo possa essere fatto, ma perfino supponendo disponibile un'invenzione siffatta riterremmo che non valga la pena di cercare di rendere più umana una 'macchina pensante' rivestendola a questo modo di carne artificiale" (Somenzi, 158). Non so che cosa avrebbe pensato il grande matematico inglese se fosse vissuto dopo il 1954, anno in cui morì suicida, e se avesse avuto modo di vedere film come Blade Runner o Terminator. La preoccupazione di Turing era quella di rispondere alla domanda "le macchine possono pensare?", domanda che egli giudicava ambigua, ma a cui comunque era incline a rispondere di sì. Da questo punto di vista, l'idea di un corpo artificiale rappresentava naturalmente un elemento di disturbo, perché rendeva più difficile focalizzare l'attenzione sui processi del pensiero. Non c'è dubbio, però, che Turing (come forse, poi, tutta la corrente di ricerca sull'IA) si collocasse completamente dentro la tradizione dualistica del pensiero occidentale, inaugurata da Platone e ripresa agli inizi della modernità da Descartes: materia e spirito, corpo e anima. Se oggi il problema del corpo è ridiventato un problema centrale della filosofia e dell'antropologia, ciò si deve alla situazione di stallo in cui è finito il mondo occidentale (e con esso il mondo tout court) anche grazie, in ultima analisi, a quella visione dualistica. Bisogna dire, però, che alcune sezioni dell'immaginario della modernità hanno contribuito a rendere esplicite le contraddizioni di quella visione, lavorando proprio sul terreno della connessione fra la potenza del pensiero e l'inerzia della materia, cioè sul terreno autenticamente umano della tecnica. Le figure fantastiche dell'uomo artificiale da un lato riflettevano la nuova condizione del corpo nella società industriale, dall'altro cercavano disperatamente quel risarcimento a cui proprio quella condizione lo costringeva. La macchina pensante, insomma, è anche lo sbocco inevitabile proprio di quella tradizione di corpi artificiali a cui Turing guardava con tanta diffidenza. Come eredi delle mitiche figure dell'ibrido, robot, androidi e cyborg incarnano l'esperienza della colpa, esperienza che costituisce la cifra più profonda del rapporto fra l'uomo, animale tecnico, e il mondo. La nascita della coscienza nell'uomo è inseparabile dalla consapevolezza dello sconvolgimento che la tecnica (anche la più rudimentale) opera nell'ordine naturale. Ma l'uomo, ovviamente, non può fare a meno della tecnica, se non vuole ricadere in uno stato puramente animale. La modificazione dell'ambiente, l'artificializzazione del suo corpo con segni, vestiti e movimenti rituali, la trasformazione dei materiali presenti in natura per farne oggetti artificiali, utensili e protesi, questo è ciò che lo rende uomo: ma tutto ciò, inevitabilmente, lo distacca e lo contrappone, almeno in una certa misura, all'ambiente in cui vive. Nell'uomo paleolitico, tuttavia, in ragione del ridotto impatto ambientale del suo equipaggiamento tecnico e della dipendenza da elementi naturali (animali e piante allo stato selvatico) che lo portano a una vita nomade o semistanziale, quella consapevolezza non produce effetti permanenti di scissione, e il corpo può svolgere quella funzione di mediatore dello scambio simbolico che "traduce eventi naturali in significati culturali" (Galimberti, 20), di "corpo comunitario e cosmico" (Galimberti, 19) che consente alle società cosiddette primitive di costruire e far circolare il senso. Ma la rivoluzione neolitica introduce una condizione di vita completamente diversa: con essa la sopravvivenza dell'uomo dipende essenzialmente da pratiche violente, da vere e proprie ferite inferte al corpo della terra, l'agricoltura e l'estrazione dei metalli. L'esperienza neolitica crea un senso di disagio che non può che crescere man mano che la piccola comunità nomade si trasforma in una collettività stanziale, e poi il villaggio diventa una città, e la città una metropoli, man mano che alla coltivazione della terra si affianca l'artigianato. Su questa condizione di fondo, e sulla prima grande operazione di esteriorizzazione del pensiero costituita dalla scrittura, può alla fine svilupparsi, nella Grecia del V secolo, quella scissione tra anima e corpo, quella trasformazione del corpo in organismo e quella subordinazione del mondo materiale a un mondo ideale, immateriale, completamente autonomo, da cui prenderà l'avvio il pensiero occidentale. Fino a che la rivoluzione industriale e la nascita del modo di produzione capitalistico, portando il processo di esteriorizzazione a un limite parossistico, scateneranno nell'immaginario, oltre che nella realtà, una tempesta senza precedenti. Di questa tempesta concettuale e reale l'uomo artificiale è un testimone drammatico e contraddittorio. La replica artificiale del corpo umano incarna infatti, da un lato, l'aspettativa che le forze produttive crescano in modo talmente smisurato da permettere all'uomo di creare il prodotto definitivo, cioè se stesso; ma dall'altro, come abbiamo visto, segnalano la paura che il corpo si meccanizzi, che l'uomo divenga uguale alle proprie creazioni. Testimone muto, catalizzatore della rovina dell'uomo (come l'Olimpia di Hoffmann), o ribelle cosciente a un destino di nuova schiavitù (come la creatura del Frankenstein o i robot di Capek), l'uomo artificiale dice lo sconvolgimento provocato dalla rivoluzione industriale nei ritmi di vita del neolitico avanzato, aggiorna l'antica colpa della separazione dalla natura nella nuova colpa della costrizione del corpo all'interno della fabbrica, o della società diventata fabbrica. Ma nell'uomo artificiale vive anche, nella nuova forma connaturata a una società che si va desacralizzando, un'altra antica dimensione, quella del segreto, di ciò che è nascosto e invisibile agli occhi dei più eppure regge le fila del cosmo e della storia: travestimento di quella combinazione di sapere e potere, di quel linguaggio del dominio che garantisce il cosiddetto "ordine" della società (cioè la supremazia dei gestori del sovrapprodotto sociale). Se è vero infatti che nella storia della specie il segno dello sviluppo delle forme di produzione e dell'evoluzione tecnica è quello dell'esteriorizzazione, del trasferimento all'esterno di funzioni e potenze proprie del corpo, e se è altrettanto vero che questa tendenza porta inevitabilmente (almeno per quanto riguarda la società occidentale) a strutture sociali e dispositivi politici sempre più nel segno della trasparenza, della partecipazione allargata, in una parola della democrazia, ciò non significa però che venga meno l'esistenza di segreti. Essi si sono semplicemente tecnicizzati, non vivono più, cioè, in una dimensione globale e fondante, non riguardano più la totalità dei rapporti degli uomini col mondo e tra loro, come era nel mito, per cui, una volta "rivelati", essi illuminavano il senso del mondo. Oggi abbiamo segreti di fabbricazione, segreti di stato, servizi segreti, e ognuno di essi riguarda una singola storia, un singolo gruppo sociale, un singolo aspetto della vita associata. Ogni volta che uno di questi segreti viene rivelato, un frammento di vita, o un rapporto sociale, viene illuminato, ma inevitabilmente un altro segreto si riforma, in un'altra zona della società o della psiche. Nell'immaginario l'uomo artificiale nasce in una zona segreta, come prodotto di un segreto, un segreto totale, fondamentale, quello della vita. Ma quando esso appare, il segreto diviene pubblico, viene potenzialmente condiviso, non è più tale. La possibilità che il corpo dell'uomo viva una vita replicata significa il trionfo dell'esteriorizzazione, uno sbilanciamento del rapporto fra interno ed esterno, un segno della pervasione onnipresente della tecnica. Il robot è l'apoteosi della massificazione della società. Ma se la tecnica è ovunque, e lo è a tal punto che è capace di ricreare, al di fuori del corpo e del pensiero dell'uomo, altri corpi, altri pensieri, perché non potrebbe invadere lo stesso corpo naturale dell'uomo? Se la tecnica mostra una tendenza all'abbandono della sua dimensione massificata, se si mostra sempre più flessibile, capace di adattarsi a ogni diversa esigenza e a ogni diversa situazione, perché non potrebbe adattarsi a ciò che più radicalmente definisce il singolo in quanto tale, in quanto individuo, cioè il suo corpo? Così ciò che è uscito rientra, la tecnica si insinua molecolarmente, pezzo per pezzo, organo per organo, nel corpo dell'uomo, e lo trasforma in qualcosa che non è totalmente artificiale, ma non può più dirsi neppure naturale. Il cyborg, il nuovo ibrido del XX secolo, segnala il deperimento della società di massa e il ricrearsi nello stesso corpo dell'uomo di quella dimensione segreta che, in forme diverse, è evidentemente un suo bisogno insopprimibile. Cervelli in una scatola di metallo A metà degli anni Ottanta, il gruppo di scrittori etichettati come "cyberpunk" scossero violentemente il mondo stagnante della fantascienza americana e mondiale, e si imposero all'attenzione dei media, che per qualche tempo dedicarono loro uno spazio ben maggiore di quello normalmente concesso agli eventi interni al ghetto di appassionati di questo genere narrativo. Nel 1984 Neuromancer, primo romanzo di William Gibson, otteneva un successo inusuale per un libro di fantascienza. Due anni dopo l'antologia Mirrorshades, curata da Bruce Sterling, presentava al pubblico una rassegna organica e stimolante di quello che ormai si presentava come un movimento. Che cosa avevano da dire di nuovo questi scrittori più o meno sui trent'anni, con molti aspetti underground, che ai convegni dividevano drasticamente la platea fra sostenitori e detrattori? Agli inizi degli anni Ottanta Sterling aveva fissato per loro, in un manifesto diffuso solo nel mondo dei fan, un programma ambizioso: "Noi dobbiamo creare la letteratura tipica di una società postindustriale." (Alphaville, 64). Qualche anno dopo lo stesso autore, nella prefazione a Mirrorshades, articolava meglio i punti di partenza e i temi. "I cyberpunk," scriveva Sterling, "sono forse la prima generazione di scrittori di fantascienza che non sono cresciuti soltanto all'interno della fantascienza come tradizione letteraria, ma in un vero e proprio mondo fantascientifico." (Mirrorshades, 17). Sterling vedeva con chiarezza le modificazioni che gli sviluppi tecnologici degli ultimi vent'anni avevano indotto nella vita quotidiana e nell'immaginario. "Per i cyberpunk la tecnologia è viscerale. Non è il genio nella bottiglia di una Grande Scienza remota e distante: è pervasiva, terribilmente intima. Non è fuori di noi, è molto vicina a noi. Sta sotto la nostra pelle: spesso, dietro le nostre teste. Per noi non è più la gigantesca meraviglia sbuffante vapore, come era nel passato: lo Hoover Dam, l'Empire State Building, gli impianti a energia nucleare. La tecnologia degli anni Ottanta sta attaccata alla pelle, risponde al tocco: è il personal computer, il Walkman Sony, il telefono cellulare, le lenti a contatto morbide." (Mirrorshades, 20). La tecnologia inserita nella vita quotidiana, elemento di modificazione e ristrutturazione del corpo. L'artificiale come dimensione ormai scontata, evidente, esplicita, della vita. La "nuova carne" di cui già aveva già parlato David Cronenberg. Se l'aspetto più appariscente dell'immaginario tecnologico cyberpunk, quello immediatamente colto da lettori, critici e commentatori, fu il ciberspazio, che contribuì non poco a fare da cassa di risonanza per la tecnologia delle realtà virtuali che nasceva proprio in quegli anni, i testi dei cyberpunk insistevano però anche sul tema dell'invasione del corpo a opera della tecnologia. Fra i personaggi principali di Neuromante ce n'era uno, già apparso nel racconto "Johnny Mnemonic", che riprendeva una figura tradizionale del noir di ambientazione urbana, il mercenario un po' guardia del corpo e un po' killer, personaggio metropolitano misterioso, dallo sguardo distante. Questa volta il personaggio era una donna, una "street samurai" con gli occhiali a specchio (questo accessorio, che dava anche il titolo all'antologia di Sterling, era stato il primo simbolo del movimento): il che, in un libro scritto da un uomo, era già una novità. Ma c'era dell'altro: gli occhiali di Molly non erano occhiali, erano occhi impiantati, occhi artificiali direttamente inseriti nell'orbita. E le mani di Molly, che erano anche capaci di tenerezza nell'amore, al momento del bisogno si trasformavano in armi micidiali, perché da sotto le unghie scivolavano fuori dieci affilatissime lame. Molly era, insomma, un cyborg, un organismo cibernetico, un essere umano in cui abitavano, oltre ai normali tessuti, oggetti estranei, artificiali, integrati nel suo sistema corporeo (tutto ciò, sfortunatamente, scompare nella versione cinematografica di Johnny Mnemonic del 1995, diretta da Robert Longo e sceneggiata dallo stesso Gibson, in cui Molly, ribattezzata Jane, è una presenza scialba, in tutti i sensi). Pochi anni dopo Walter Jon Williams, evidentemente ispirandosi all'eroina di Gibson, creava in Hardwired il personaggio di Sarah, un'altra bad girl con un'arma, se possibile, ancora più tremenda: un serpente cibernetico lungo due metri, che a riposo stava annidato dentro la sua gola, ma all'occorrenza scattava fuori dalla bocca della donna per colpire saettando l'avversario. E altre storie di occhi inusuali si potevano leggere in Mirrorshades. Paul di Filippo ci raccontava quella di Stone, mendicante cieco a cui viene impiantato un meraviglioso sistema visivo computerizzato, che gli consente di vedere in tutte le zone dello spettro elettromagnetico ("Stone è vivo"). Tom Maddox, in "Occhi di serpente", ci parlava dei problemi dei reduci di guerra che conservavano anche in pace l'interfaccia operativa impiantata nel corpo con la quale connettevano il proprio sistema nervoso agli aerei che pilotavano. Bruce Sterling costruiva addirittura una storia del mondo (raccontata nel romanzo La matrice spezzata e in una decina di racconti) basata sulla dialettica fra Mechanists e Shapers, cioè fra coloro che scelgono di migliorare il proprio corpo per via di innesti meccanici e coloro che preferiscono la via della manipolazione genetica. Nel cyberpunk, insomma, il cyborg era di casa. Il termine "cyborg" non era nato sulle pagine di un libro di fantascienza, ma negli ambienti della ricerca scientifica che orbitava intorno alla NASA. Negli anni Cinquanta l'ente spaziale americano aveva preso davvero in considerazione l'ipotesi di modificare chirurgicamente gli esseri umani, sostituendo parti del corpo e inserendo organi artificiali, per renderli adatti all'esplorazione di altri pianeti senza dover far loro indossare ingombranti tute. Così, nel 1960, due medici del Rockland State Hospital di New York, Manfred Clynes e Nathan Kline, avevano parlato di cybernetic organisms. Nella realtà l'ipotesi era rimasta tale, ma la fantascienza aveva sviluppato l'idea, annettendo d'ufficio il nuovo nato alla sua galleria di esseri artificiali. Frederick Pohl, quindi anni più tardi, quando ormai la NASA stava ridimensionando i propri programmi, avrebbe descritto proprio questo cyborg spaziale nel suo Uomo più. In effetti non si trattava affatto di un nuovo nato. La fantascienza aveva parlato di esseri ibridi carne-metallo fino dagli anni Venti e Trenta (quasi sempre alieni malvagi e perfidi), ma, se vogliamo, anche l'omino di latta di Il mago di Oz (1900) di L. Frank Baum è un proto-cyborg. E Renato Giovannoli rintraccia l'idea della sostituzione completa degli arti con protesi artificiali addirittura in un racconto di Edgar Allan Poe del 1840, "L'uomo interamente consumato", oltre a ricordare giustamente che sono cyborg anche i marziani della Guerra dei mondi di Herbert George Wells (Giovannoli, 25/26). Nell'immaginario, perciò, questo movimento di ritorno della tecnologia all'interno del corpo dell'uomo era stato segnalato per tempo, se non addirittura in anticipo sui tempi. Fino a tutti gli anni Sessanta e oltre, però, il cyborg, anche quando non è un alieno, non evoca affatto una prospettiva di convivenza e di integrazione con la tecnologia, ma al contrario una situazione di estrema conflittualità e di esclusione dalla comunità umana. L'abbraccio troppo intimo con la tecnologia produce dei paria infelici e dolenti. Esempi abbastanza significativi di questo tipo di cyborg si trovano nei racconti di Cordwainer Smith, uno scrittore oggi quasi dimenticato, colto e raffinato, che anticipò tendenze e temi degli anni successivi. La sua visione delle esplorazioni spaziali ricalca gli eventi reali della colonizzazione del nuovo mondo: nelle sue astronavi gli equipaggi sono formati da criminali, rifiuti umani, forzati che vengono deportati nello spazio. Sia loro, però, che i loro ufficiali (gli scanners), per poter sopravvivere al terribile mal di spazio, devono sottoporsi a un'operazione chirurgica che isola tutti gli organi interni dal cervello, e ne affida il controllo a cassette che portano appese sul petto. Sono esseri privati di ogni sensibilità, la cui unica connessione col mondo è data dalla vista. Perciò, quando gli scanner tornano a terra, per poter condurre una vita normale devono ricostituire temporaneamente il contatto col proprio corpo, con un'operazione traumatica e pericolosa ("Scanners Live in Vain"). Altre volte Smith parla di esseri capaci di connettere direttamente il proprio sistema nervoso con i sistemi di comando delle astronavi, o di laminated brains, esseri umani senza più corpo, la cui mente è stata trasferita in cubi artificiali. Ritroveremo figure di questo genere, qualche anno più tardi, nella narrativa di Samuel Delany, e poi in quella dei cyberpunk. Per il momento il cyborg non è meno maledetto del robot. Esso esprime lo stesso desiderio di immortalità che abbiamo visto esprimersi nella figura dell'uomo di metallo o nell'androide (una posizione che è invece paradossalmente rovesciata in Do Androids Dream e in Blade Runner, dove i replicanti, proprio in quanto artificiali, hanno una vita a termine). Ma è un'immortalità malata, una cattiva eternità, quella assicurata dalla macchina. Un bizzarro racconto di Jorge Luis Borges e Adolfo Bioy Casares del 1967 chiarisce l'idea fin dal titolo, "Gli immortali". I personaggi in questione si presentano nella forma di due cubi sovrapposti: sul cubo superiore, più piccolo, c'è una grata attraverso la quale sembra di intravedere degli occhi, e sotto di essa una fessura da cui sfuggono sospiri e voci indistinte. Dentro ai cubi abita il cervello dell'immortale, "irrigato giorno e notte da un sistema di correnti magnetiche, l'ultimo baluardo animale nel quale convivano ingranaggi e cellule. Il resto è fòrmica, acciaio, materiale plastico." (Borges, Casares, Cronache di Bustos Domecq, 96). Se la morte del corpo è causata dal deterioramento dei suoi organi, argomenta lo scienziato pazzo di turno, basterà sostituire il corpo pezzo per pezzo, mettendo al posto della carne corruttibile componenti inossidabili, per assicurare l'immortalità, anche se a prezzo dell'immobilità. È una satira grottesca e agghiacciante, che spinge alle estreme conseguenze il paradigma meccanicista. L'idea del cervello in una scatola di metallo è comunque un'idea molto diffusa negli anni Cinquanta e Sessanta. Ma nella narrativa e nel cinema di genere, senza il filtro distanziante dell'algida ed elegante ironia dei due scrittori argentini, essa esprime con drammaticità (e spesso con una certa retorica) l'ossessione di una perdita del corpo a opera dell'organizzazione industriale della società. Un racconto del 1960 di Frederick Pohl, esponente di rilievo della cosiddetta social science fiction, o "fantascienza sociologica", è significativo in questo senso. "Il tunnel sotto il mondo" racconta di Guy Burkhardt, abitante di una tranquilla cittadina del Midwest, che scopre di essere condannato a vivere, giorno dopo giorno, sempre la stessa giornata: stessi avvenimenti, stessi incontri, stessi gesti, solo le pubblicità in cui si imbatte sembrano cambiare ogni volta. Il protagonista si rende conto con raccapriccio che ogni sera gli abitanti vengono addormentati, i loro ricordi azzerati, e ognuno di essi è pronto, il mattino dopo, a rivivere quell'immutabile 15 giugno. Si tratta evidentemente di una diabolica sperimentazione su una comunità di ignari consumatori per testare l'effetto di diversi messaggi pubblicitari. Fin qui il racconto sembrerebbe dunque, in linea con i parametri della social science fiction, una variazione su un tema in quegli anni abbastanza diffuso, sull'onda del successo del libro di Vance Packard I persuasori occulti. Ma la verità è ancora più macabra. Gli abitanti della cittadina, scopre il protagonista, in realtà sono tutti morti in un gigantesco incidente che ha distrutto il paese. L'organizzazione pubblicitaria è però riuscita a salvare i loro cervelli, e li ha collegati ad altrettanti minuscoli robottini, che abitano la riproduzione miniaturizzata della città, posata su un gigantesco tavolo in uno dei locali dell'azienda. Questi particolarissimi cyborg sono perciò intrappolati in un micromondo chiuso e in un tempo circolare, prigionieri non solo di un corpo artificiale, ma di un universo claustrofobico dominato dai media. È uno dei racconti più dickiani di Pohl, che ci dice con inusuale chiarezza che il cyborg non è tanto una questione di tecnologia, quanto di organizzazione sociale. Il matrimonio del nostro corpo con la tecnologia non potrebbe funzionare se non fossimo già immersi in un paesaggio artificiale, un paesaggio in cui le cose e le loro rappresentazioni si confondono, un paesaggio che, grazie alla potenza e alla pervasività della tecnologia che lo costituisce, ha la forza di inscriversi direttamente nel nostro sistema nervoso. Anzi, noi non possiamo più pensarci come un "io" separato e distaccato dal mondo. La nostra soggettività non è più un nucleo stabile e autonomo che rispecchia il mondo, lo ordina con la sua razionalità, gli conferisce un senso: è un grumo temporaneo, di una densità appena sufficiente a garantire una parvenza di identità, destinato a sciogliersi e a riformarsi, ogni volta diverso, in quel paesaggio che, adesso lo vediamo, non è che un flusso di informazioni continuo, dinamico, sempre al confine fra stabilità e instabilità. La potenza dell'esteriorizzazione sta per rovesciarsi come un guanto: dopo essersi estroflesso nel mondo con la forza di una tecnica dominatrice e ordinatrice, l'uomo occidentale vede tutto il mondo rifluire entro di sé, direttamente e letteralmente dentro il suo corpo. Dopo l'esplosione dell'uomo nel mondo, l'implosione del mondo nell'uomo. "Icone neuroniche sulle autostrade spinali" Le metropoli, tanto quelle del mondo industrializzato quanto quelle dell'ex terzo mondo, stanno scoppiando: per la concentrazione della popolazione, per l'estrema complessità della loro organizzazione, per le dinamiche conflittuali tra gruppi etnici, religiosi e sociali. A intervalli più o meno regolari, sociologi e futurologi prevedono il collasso dei grandi sistemi urbani. Le utopie telematiche fanno intravedere la possibilità di una loro radicale trasformazione, dello scioglimento dei luoghi di aggregazione fisica nel flusso di informazioni e di contatti virtuali possibili oggi (e ancor più domani) nelle reti. L'installazione interattiva Poltrona in-mobilcasa di Giacomo Verde (presentata per la prima volta alla Triennale di Milano nel 1995) illustra questa idea in modo efficace e paradossale. Una carrozzella da disabili, fornita di computer e modem, svolge tutte le funzioni tradizionali di una casa, trasformandosi, grazie al monitor del computer e alle operazioni che l'utente può compiere sulla tastiera, in altrettante "zone" corrispondenti a quelle di una casa vera: Veranda, Soggiorno, Cucina, Letto. C'è persino una "zona Manutenzione", che coerentemente alla logica cyborg del progetto, fornisce insieme prestazioni mediche per l'abitante e riparazioni per la macchina. Zone virtuali, ovviamente. Nel soggiorno non ci sono i libri e le riviste "reali", ma l'accesso al sapere diffuso e universale delle reti; in cucina non si preparano pasti, ma si ordinano ai ristoranti più vicini, che forniscono menu completi di indicazioni caloriche; quando decidiamo di dormire, sempre nella nostra carrozzella che è insieme letto e casa, il monitor ci canterà una ninna nanna o ci racconterà una fiaba. L'agghiacciante installazione di Verde, rendendo letterale la metafora del nomadismo, segnala in realtà una caratteristica già operante oggi: a differenza della casa tradizionale, in cui l'informazione penetra dall'esterno (con le conversazioni tra i vicini, le voci del quartiere, il giornale), nell'era dei mass media audiovisivi l'informazione sembra zampillare dall'interno della casa, dal telefono, dalla radio, dal televisore, dal computer. "Il progressivo 'addomesticamento' dei media e la graduale 'mediatizzazione' della casa sono avvenuti per adattamento reciproco." (Peppino Ortoleva, Oltre il villaggio globale, 54). Perciò se l'esterno, cioè il mondo, si rovescia dentro la casa nella forma di flussi informativi, l'interno, cioè la casa, può estroflettersi nel mondo. La tecnologia che invade il corpo dell'uomo è la stessa tecnologia che trasforma le città, che disloca funzioni, che chiude vecchi circuiti comunicativi e vecchi luoghi di concentrazione e ne apre di nuovi: e il corpo del cyborg è trascinato in questo mutamento del suo habitat, raccorda i ritmi della sua metamorfosi a quelli dell'ambiente. L'utopia telematica prefigura un mutamento della città da ambiente puramente artificiale ad ambiente "intelligente", capace di autoregolare i flussi di traffico, di adattare autonomamente le proprie strutture alla trasformazione delle funzioni e all'emergere dei nuovi bisogni dell'uomo postindustriale, di diventare un'estensione della pelle dell'uomo in grado di mediare il rapporto tra il suo corpo e i flussi informativi che ricoprono il pianeta. Ma l'immaginario non è troppo convinto della fluidità di questa transizione: la vede troppo rapida, tumultuosa, sospetta che essa sarà devastante. Immagina la catastrofe. In un romanzo del 1980, Il rock della città vivente, John Shirley rappresenta la trasformazione della città tradizionale e il suo possibile dissolvimento nei flussi telematici con una trovata interessante: personifica la città, vista come l'immaginario collettivo della comunità, e le attribuisce la capacità di incarnarsi in un corpo umano artificiale, in una estrusione di se stessa, o di impadronirsi del corpo di una persona reale per usarlo come strumento di lotta contro i nuovi padroni delle telematica (che qui sono identificati in una alleanza fra la mafia e le corporation della telefonia). Ma l'immaginario popolare aveva già una lunga tradizione in tema di catastrofi urbane, soprattutto nella cultura inglese. Alla fine del secolo scorso, negli stessi anni in cui in Francia Albert Robida immaginava la Parigi del 2000 come un concentrato di meraviglie tecnologiche, in Inghilterra Richard Jefferies vedeva invece il futuro della sua Londra come un cumulo di macerie. "Così le parti basse della possente città di Londra si mutarono in palude, mentre le terre alte si ricoprirono di arbusti. Perfino gli edifici più imponenti crollarono al suolo. Le rovine intasarono ancor più il fiume e ne deviarono il corso. Ma non esiste alcuno sbocco in direzione dell'oceano salso. E' una grande palude stagnante in cui nessuno osa addentrarsi perché la morte sarebbe ineluttabile." (Jefferies, Dove un tempo era Londra, [1885], 47-48). Da allora, nella fiction, Londra (e non solo Londra) è stata distrutta innumerevoli volte. Ad opera dei marziani nella Guerra dei mondi di Herbert George Wells (1898; il film di George Pal e Byron Haskin è del 1953); dagli orridi vegetali semoventi di John Wyndham (Il giorno dei trifidi; romanzo del 1951, film del 1963); affondata nelle lagune createsi con lo scioglimento della calotte polari in Deserto d'acqua (1962) di James G. Ballard (la stessa catastrofe ecologica è l'ambiente del film Waterworld di Kevin Costner e Kevin Reynolds, 1995, che però, a parte questo, non ha proprio niente a che fare col romanzo di Ballard). Il mondo è stato travolto dalla catastrofe ecologica, dalla sovrappopolazione, dall'inquinamento dell'ambiente, come nei romanzi di John Brunner, Tutti a Zanzibar (1968), L'orbita spezzata (1969), Il gregge alza la testa (1972). E sugli schermi le metropoli del mondo sono state spazzate via dai giganteschi mostri pseudo-giurassici emersi dai mari del Giappone (precursori dei dinosauri di Jurassic Park, filologicamente clonati da Michael Crichton e Steven Spielberg), i grattacieli sono crollati tra le fiamme in giganteschi inferni di cristallo, gli aerei e gli aeroporti sono stati investiti da immani disastri. Come altre rotture del ritmo quotidiano della vita, la catastrofe urbana non terrorizza soltanto, affascina anche. La percezione è sottoposta a un improvviso e intenso lavoro di ristrutturazione della propria routine di riconoscimento delle forme: ciò che sino a un istante prima era stato stabile, improvvisamente diventa instabile. Per comprendere i principi formali che sottostanno a questi processi, può essere utile fare qualche veloce (anche se, spero, non troppo impreciso) riferimento alle teorie del matematico francese René Thom sulla "stabilità strutturale" e la genesi delle forme: confortati anche dal fatto che questa teoria è più nota proprio col nome, non coniato ma tollerato dall'autore, di "teoria delle catastrofi". In uno spazio di qualunque tipo (pensiamo per esempio all'usuale spazio euclideo tridimensionale) una forma è una classe di equivalenza di figure chiuse, è cioè, per così dire, la caratteristica che accomuna un dato insieme di figure: per fare un esempio molto semplice, tutti i quadrati, di qualunque dimensione o disposizione nello spazio, sono caratterizzati dalla proprietà di avere i lati uguali e gli angoli retti - per cui esiste una "forma quadrata". Thom distingue tra forme strutturalmente stabili e forme instabili o informi. Le prime sono quelle che, sottoposte a piccole deformazioni, conservano lo stesso carattere topologico (rimangono, cioè, nella stessa classe di equivalenza). Le seconde non hanno tale caratteristica. Thom fa a questo proposito una considerazione interessante. "Soltanto le forme soggettivamente identificabili," dice, "le forme provviste di una denominazione, rappresentate nel linguaggio da un sostantivo, sono necessariamente strutturalmente stabili: in effetti, un oggetto dato naturalmente è sempre sottoposto a influenze perturbatrici da parte del mezzo esterno, che, per quanto deboli siano, avranno un effetto per la forma dell'oggetto; ora, per la stessa permanenza di questa forma, tali perturbazioni non dovranno fare uscire dalla classe di equivalenza." (Thom, 18). Quanto alle "forme informi", Thom prosegue così: "Si possono distinguere due grandi tipi di forme instabili, collegabili con una catena continua di intermediari; certe forme sono informi perché presentano una struttura interna assai complicata; caotiche, esse non offrono all'analisi che pochi punti o elementi identificabili; altre, al contrario, son composte di un piccolo numero di elementi identificabili, ma di cui l'associazione in uno stesso oggetto appare contraddittoria o eteroclita (le chimere e altri mostri ne forniscono esempi tipici). Queste forme instabili sono forme di biforcazione (...); di fronte a queste forme, la mente oscilla indefinitamente fra gli attrattori adiacenti [cioè, fra le forme stabili a cui parti di questi oggetti potrebbero essere ascritte, n.d.r.] senza giungere a una scelta. Ne risulta per l'osservatore uno stato di disagio o di angoscia; i pittori della scuola surrealista hanno conosciuto bene questi effetti, che hanno abbondantemente sfruttato. Al contrario, le forme instabili del primo tipo saranno rappresentate da punti aderenti a un'infinità di bacini di attrattori diversi" (Thom, 1819). L'osservazione di Thom che solo le forme strutturalmente stabili siano rappresentabili nel linguaggio da un sostantivo, ricorda immediatamente le descrizioni degli esseri abominevoli disseminate nei racconti di H.P. Lovecraft, esseri non rappresentabili da alcuna geometria, neppure percepibili in modo usuale, "innominabili". Mi sembra che la nostra percezione del disastro sia interpretabile in modo analogo. In un incendio, in un crollo, in un bombardamento, in un processo di degrado giunto a un livello irreversibile, la forma "stabile" dei palazzi, delle strade, dello spazio urbano, cede il passo a una forma informe, al mucchio, alla rovina, allo scheletro, a qualcosa che la nostra percezione non riconosce più come equivalente a quanto c'era prima. La mancanza di comune misura fra i due ordini (fra l'ordine e il disordine, se preferite) avvicina l'esperienza del caos urbano a una forma di "sublime". L'effetto del disastro, la rovina, è innominabile, non nel linguaggio naturale naturalmente, che ha coniato nomi per questi processi e per i loro prodotti, ma in quello che potremmo chiamare il linguaggio spaziale con il quale ci parla la città. C'è un linguaggio della forma urbana: è come se i quartieri, i palazzi, le vie, le piazze, i giardini, fossero organizzati in un insieme di segni i cui significati sono identificabili con (o almeno riconducibili a) certi nostri stati psichici, certe nostre situazioni mentali ed emotive, variabili in una certa misura da individuo a individuo, ma con un nucleo comune, intersoggettivo (l'immaginario collettivo). Il connettivo di questo linguaggio, l'insieme dei suoi simboli logici, potrebbe essere identificato con le tecnologie, soprattutto quelle informative e comunicative, che oggi tra l'altro definiscono la città più ancora dell'elemento spaziale in quanto tale. Si potrebbe dire, con altre parole, che ciò che rende intelligibile lo spazio urbano è proprio il rapporto fra tecnologia e forma (un rapporto che è probabilmente mediato dal tempo, nel senso che include certi invarianti temporali). Nella catastrofe urbana è questo rapporto che si spezza, che viene messo in mora, e questo produce il nostro spiazzamento percettivo, la nostra angoscia, la nostra paura. Ma al tempo stesso ciò permette di instaurare nuovi rapporti sintattici e semantici, di costruire una nuova percezione inedita non solo dei significanti, ma attraverso essi dei significati che la catastrofe ci propone. Questo è proprio la direzione in cui si è mosso Ballard. Se molte delle catastrofi dell'immaginario inglese di genere sono debitrici ai paesaggi desolati della Waste Land di Thomas S. Eliot (senza esserne, ovviamente, nulla più che una pallida eco), quelle di Ballard riescono a elaborare questa eredità in modo più personale, configurando un legame fra mezzi di comunicazione, paesaggio e psiche che è uno dei tratti caratteristici del cyborg. Verso la metà degli anni Cinquanta Ballard era poco più che venticinquenne: era giunto in Inghilterra da pochi anni, proveniente da Shanghai e da una adolescenza trascorsa, durante la guerra, nel campo di prigionia di Lunghua (che più tardi racconterà nei romanzi L'impero del sole e La gentilezza delle donne). Era di madrelingua inglese, ma era nato e cresciuto in una cultura diversa, quella della comunità inglese in Cina negli anni Trenta; poi anche questa condizione era stata sconvolta dall'esperienza della prigionia con i giapponesi. Era forse questa condizione di estraneità culturale che dava al suo sguardo sul mondo quella caratteristica così idiosincratica e straniata che il lettore trovava nelle sue opere: era per questo che i suoi occhi e il suo cervello vedevano nella città e nello spazio quei paradossi logici, topologici e storici che andava descrivendo nei suoi primi racconti. In "Città di concentramento" (1956) la città è dilatata, estesa a identificarsi con l'universo, è uno spazio finito ma illimitato, una specie di nastro di Moebius tridimensionale in cui i treni che cominciano a circolare verso ovest si trovano a un certo punto a viaggiare verso est senza aver invertito direzione. Ballard usa qui un luogo comune consolidato nella fantascienza tradizionale, quello della città sotterranea a più livelli (la stessa di Abissi d'acciaio di Asimov), che aveva però ascendenze letterarie anche più nobili, come la città artificiale che si prende cura dei suoi abitanti descritta da Edward M. Forster in "L'arrestarsi della macchina" (1902): ma non gli interessano né la ribellione contro la macchina dello scrittore di Bloomsbury (per quanto egli condivida la sua avversione a Wells), né il discorso sociologico abbozzato da Asimov. Quello che Ballard esamina in questo racconto è una percezione cristallizzata dello spazio chiuso come categoria mentale fondamentale dei suoi personaggi. Il legame fra spazio e psiche è ancora più chiaro in "Cubicolo 69", un racconto dell'anno successivo. È uno dei primi documenti della tematica medico-psichiatrica che occuperà poi tanta parte della produzione di questo scrittore. Tre volontari vengono sottoposti dal dott. Neill a un'operazione all'ipotalamo che li libera dal bisogno del sonno. "Finalmente abbiamo liberato la mente," dice Neill, "l'abbiamo sottratta a quell'arcaica zona buia che si chiama sonno, alla fuga notturna nel midollo spinale." ("Cubicolo 69", 134). Un collega di Neill è dubbioso: i tre, argomenta, "sono prigionieri di loro stessi. Non riusciranno mai a liberarsi, neanche per un paio di minuti. E per quanto tempo si può sopportare se stessi?" (ibid., 136). In effetti, qualche giorno dopo, i pazienti entrano in uno stato di catatonia apparentemente irreversibile. La grande palestra nella quale vivono, controllati giorno e notte dall'équipe medica, si è ristretta poco a poco, diventando una stanza sempre più piccola, chiudendosi addosso a loro come un vestito. O, il che è lo stesso, sono loro che si sono ingigantiti, sino a occupare tutta la stanza. "La palestra," spiega Neill, "è diventata la proiezione esterna dei loro io. Avevano raggiunto uno stadio oltre il quale non riuscivano più a contenere l'idea della propria identità." (ibid., 156). In "Cronopoli", del 1960, la catastrofe e l'abbandono della città è collegata al problema del tempo. L'idea di fondo del racconto deriva da Erewhon, una bizzarra antiutopia vittoriana di Samuel Butler. L'azione ha luogo infatti dopo che gli orologi e tutti gli strumenti di misurazione esatta del tempo sono stati distrutti e messi fuori legge da una rivoluzione organizzata dagli abitanti della megalopoli, esasperati per la rigida organizzazione della loro vita, basata su una precisa (ma ineguale) distribuzione del tempo. Il protagonista è un ragazzo che scopre per caso un vecchio orologio, ricostruisce poco a poco il passato, e va a vivere nel centro cittadino abbandonato dopo la rivoluzione, cercando di rimettere in funzione quanti più orologi possibile. Lo spazio, e in particolare lo spazio urbano, appare a Ballard più come una funzione psichica che come una struttura oggettiva. A volte si tratta della nuova occupazione di una città abbandonata e del tentativo di rimetterne in funzione i dispositivi, con una vaga nostalgia per il passato (come appunto in "Cronopoli", o in "La civiltà del vento", del 1976), o con un folle progetto politico (Hello America, 1981); altre volte una struttura dalla funzione ben nota e rassicurante, come un condominio o uno spartitraffico, cambia volto, adattandosi alle mutate motivazioni dei suoi occupanti con un processo molecolare e impercettibile, o al contrario in modo improvviso, catastrofico (L'isola di cemento, 1974; Condominium, 1975). Fin dal manifesto che stese nel 1962, Qual'è la strada per lo spazio interiore, Ballard indicava alla fantascienza una direzione di ricerca che affondasse negli stati mentali e nei processi psichici dell'uomo, più che nelle avventure spaziali o nei cervelli robotici. Era la strada che lui stesso praticava, utilizzando il filone catastrofico (quasi un marchio di fabbrica, come abbiamo visto, della fantascienza inglese) a fini completamente diversi. Nei suoi racconti e nei suoi romanzi lavora una complessa struttura simbolica, che David Pringle, in un famoso saggio ("Il quadruplice simbolismo di Ballard"), vede organizzata in una sorta di cosmologia associata alla struttura temporale, i cui i quattro elementi cardine sono acqua, sabbia, cemento e cristallo . Se l'acqua rappresenta il passato (nella forma del mare, o del liquido amniotico dell'utero), la sabbia, e il mondo minerale in genere, rappresentano il futuro di un'umanità sempre più "mentalizzata" e inaridita, mentre il cemento, associato alla città, rappresenta il presente: è cioè, per Ballard, il simbolo dell'uomo tecnologico, "incapace di procedere in una direzione precisa: verso il mondo animale (a cui appartiene, ma non del tutto), o lontano da esso. Il risultato è che si ritrova arenato sulla 'spiaggia terminale' [titolo di un altro racconto di Ballard, n.d.r.] del presente." (Pringle, 216). Quanto al cristallo, che compare in poche opere di Ballard ma domina l'omonimo romanzo Foresta di cristallo (1966), esso è il simbolo dell'eternità, del sottrarsi al condizionamento del tempo. Naturalmente queste quattro categorie interagiscono sempre tra loro, e Ballard riesce a trarre da questa combinatoria un ritratto molto personale ma convincente dell'uomo contemporaneo. Vediamo, per esempio, come la città interagisce con l'acqua (il presente con il passato, dunque, secondo Pringle) in Deserto d'acqua. L'elemento liquido, come abbiamo visto, ha sommerso il pianeta, e il romanzo ripercorre il viaggio a ritroso nel tempo evolutivo e psichico del protagonista Kerans, che, stimolato dal nuovo paesaggio, lentamente si sintonizza con esso e fa ritorno a un Triassico non solo ambientale, ma anche mentale. Anche se a prezzo della perdita della propria umanità, è lui l'unico personaggio vincente, non i vecchi scienziati né il prometeico Strangman, che vuole invece forzare l'inversione del processo naturale e prosciugare le lagune per fare riemergere le città. Ecco come appare Londra che emerge dalle acque durante uno di questi tentativi. "Sospese appena sotto la scura superficie c'erano le sagome rettangolari degli edifici sommersi, le cui finestre aperte sembravano occhi vuoti in enormi teschi affondati. Erano a pochi metri sotto il pelo dell'acqua, ma si avvicinavano affiorando dalle profondità come un'immensa, intatta Atlantide. Prima una dozzina, poi una ventina di palazzi apparvero, i cornicioni e le scale antincendio chiaramente visibili attraverso lo specchio d'acqua che si assottigliava. Erano quasi tutti alti quattro o cinque piani e appartenevano a un quartiere di piccoli negozi e uffici, racchiuso dagli edifici più alti che avevano formato il perimetro della laguna. Cinquanta metri più in là il primo tetto emerse dall'acqua, un rettangolo coperto di alghe sul quale guizzavano alcuni pesci impazziti. Poi, tutto intorno, apparvero immediatamente altri tetti, delineando il percorso di una strada stretta. Emerse la prima fila di finestre, con l'acqua che scrosciava dai davanzali e festoni di alghe appese ai cavi che penzolavano in mezzo alla strada. La laguna era già scomparsa. Mentre la nave affondava lentamente in quella che sembrava una grande piazza, intorno a loro si alzava una selva di tetti punteggiata da camini corrosi. La piatta distesa di acqua si era trasformata in una giungla di blocchi cubisti, i cui confini si confondevano con la muraglia della vegetazione circostante. (...) Per un attimo Kerans lottò per liberare la sua mente, nello sforzo spasmodico di affrontare il sovvertimento del suo mondo normale, incapace di accettare la logica della rinascita di fronte a lui. Dapprima si chiese se non si fosse verificato un completo capovolgimento climatico, che avesse provocato il ritiro degli oceani e avesse prosciugato le città sommerse. Se così fosse stato, avrebbe dovuto ripercorre la via fino al nuovo presente o restare abbandonato milioni di anni indietro sulla spiaggia di qualche desolata laguna del Triassico?" (Deserto d'acqua, 199-200). Qui Kerans è sottoposto a una duplice tensione. La città che "affiora dalla profondità" è un pezzo del suo passato recente, che lotta per contrastare la tendenza a tornare a un passato ancora più lontano, quello delle radici animali, identificate con la parte rettile del cervello. E sarà questa la tendenza che prevarrà: Kerans abbandonerà le ultime vestigia della civiltà dirigendosi a sud, "un secondo Adamo alla ricerca dei paradisi perduti del sole rinato." (Deserto d'acqua, 238). Dunque qui è il passato che vince: la storia della specie che viene ripercorsa a ritroso, fino alle radici biologiche più lontane, addirittura precedenti ai mammiferi. Tuttavia, come abbiamo visto, questo viaggio all'indietro è accompagnato dalle immagini dell'ambiente artificiale in rovina. I processi di mutazione psichica descritti da Ballard hanno comunque sempre a che fare con la tecnologia. Se in questo caso la tecnologia ha solo creato le condizioni per la sua scomparsa, altrove essa diviene invece un serbatoio di simboli che la mente dell'uomo elabora miticamente. Nel racconto "La prigione di sabbia" (1961) le capsule di sette astronauti morti continuano a orbitare nel cielo, e l'alluminio degli scafi, disintegrandosi, le rende visibili, come una nuova costellazione artificiale. Dalla terra, tre personaggi, ognuno con diverse motivazioni (la moglie di uno degli astronauti morti, un architetto che lavorava per il centro spaziale, un astronauta fallito), le seguono vagabondando per le dune attorno a Cape Canaveral, in una zona turistica un tempo fiorente e oggi abbandonata, dopo che la sabbia di Marte lì scaricata si è rivelata infestata da un virus che distrugge la vegetazione. Braccati dalla polizia che vuole evacuare definitivamente la zona, i tre rinnovano ogni sera il rito dell'osservazione di questi nuovi simboli di un'era spaziale capace di creare in tempo reale i propri miti. A proposito di questo racconto, Ballard ha scritto: "I processi della tecnologia del XX secolo depositano continuamente i loro fossili simultanei, che formano cifre nella nostra mente come le invisibili stelle delle radiogalassie. Nastri perforati di computer, vecchie guide telefoniche, circuiti stampati i cui alfabeti sono stati dimenticati, i corpi luminescenti degli astronauti morti: tutto questo fa parte dell'astronomia di sogni che riempie le nostre teste. Mi sembra probabile che la creazione di una nuova costellazione (già iniziata con i satelliti luminosi Echo) possa avere profondi effetti sul nostro sistema nervoso centrale, forse facendo scattare meccanismi di attivazione innati." (Valla, in Ballard 1968, VII). Il cyborg di Ballard non ha bisogno di impiantare fisicamente la tecnologia all'interno del proprio corpo. Quest'ultima, diffusa nel suo ambiente, agisce in lui direttamente a livello mentale, si inscrive nel suo sistema nervoso, con uno scambio fra l'interno e l'esterno che riattiva un processo simbolico a livello di tutto il corpo. Ma la civiltà industriale matura vive nell'apoteosi dell'esteriorizzazione prodotta dalla società mediatizzata e informatizzata, si crogiola nel trionfo della separazione analitica tra mente e corpo, coltiva l' "illusione delirante di riunificare il mondo sotto un unico principio" (Galimberti, 50), lo sguardo oggettivo e impersonale della scienza, la logica dell'equivalenza astratta. In queste condizioni ogni riattivazione di un processo simbolico a livello del corpo non può avere che una conseguenza: l'impossibilità di leggere in modo "socialmente corretto" i codici di scrittura del comportamento, la rottura della "normalità sociale", l'insorgere di quello che la medicina ufficiale chiama "malattia mentale". E così è con i personaggi di Ballard, che, come spesso in Dick, solo attraverso la malattia, la perdita dell'identità, la confusione tra io e mondo, possono tentare di dare un senso alla propria vita e a tutto ciò che li circonda. Ma Ballard (e questo è uno dei suoi meriti) non descrive questi processi collocandosene fuori, non assume alcun punto di vista morale o nostalgico. Al contrario, mostra come tutto ciò non sia effetto di una logica estranea e alternativa, ma sia conseguenza ineluttabile dello sviluppo delle tecnologia e dei media, che nella loro ipertrofia aprono una contraddizione insanabile con i fondamenti della società che li ha prodotti. Per Traven, il protagonista dai molti nomi di La mostra delle atrocità, "la scienza è l'ultimo stadio della pornografia, un'attività analitica il cui scopo principale è quello di isolare gli oggetti o gli eventi dal loro contesto spaziale e temporale. È questa ossessione, e l'attività di quantificazione che le è legata, ciò che la scienza condivide con la pornografia" (La mostra delle atrocità, 64). Nei "condensed novels" (romanzi condensati) di questo libro, scritti nel corso degli anni Sessanta e pubblicati per la prima volta nel 1970, un personaggio che si presenta ogni volta con un nome diverso (Traven, Talbot, Tallis, Travis, Trabert) attraversa il mondo mediatizzato, un mondo "che induce la claustrofobia, perché rappresenta un'esteriorizzazione della sua mente o, più in generale, una concretizzazione della mente collettiva dell'uomo metropolitano moderno. Ogni grattacielo, tabellone pubblicitario o trasmissione televisiva, ha un suo significato latente oltre a quello manifesto. Le vite della gente famosa (i Kennedy, Marilyn Monroe, Ronald Reagan, Elizabeth Taylor, gli astronauti dell'Apollo, persino Ralph Nader) sono parte del paesaggio, mediate da film, tv e rotocalchi" (Pringle, 217). Non sappiamo se Traven sia un medico o un malato, quale sia la sua storia, che cosa lo abbia condotto a mettersi nelle mani del dott. Nathan e delle sue ambigue infermiere, che cosa lo leghi a sua moglie Margaret o alle figure femminili che a volte si affiancano a lei, a volte la sostituiscono. Conosciamo solo la sua ossessione per i riti collettivi dei media e per le morti che essi mettono in scena, e che il nostro personaggio sente il continuo bisogno di ripetere utilizzando le persone che vivono intorno a lui. Traven "vuole uccidere di nuovo Kennedy, ma questa volta in modo che abbia senso" (La mostra delle atrocità, 65), come Vaughan, il protagonista del successivo romanzo, Crash, spasmodicamente attratto da Elizabeth Taylor, sogna di morire con lei in un incidente automobilistico. In entrambi, quelle che noi siamo portati a vedere come delle bizzarre ossessioni, se non delle vere e proprie psicopatologie di tipo sessuale, sono solo un disperato tentativo di sottrarre la vita dell'uomo (e la sua morte, che la definisce come confine ineluttabile e contrario) allo sguardo astratto, impersonale, delle istituzioni "civili" (la medicina, i media, la scienza, lo stato), e riportarla in un circuito simbolico sottratto alla maledizione del valore. La forza di questo tentativo sta nel fatto che l'uscita dall'impersonalità e dalla diabolica trasparenza della legge del valore non si compie con una secessione, attuata in nome di un "valore" antagonista (il proletariato, la storia, il ritorno al pensiero primitivo): al contrario essa avviene intensificando i processi che sono già al lavoro nella civiltà dei media, rovesciandoli contro loro stessi e contro il loro "normale" funzionamento. Lo strumento di questa ambigua liberazione è quindi proprio l'introiezione parossistica del mondo entro se stessi, l'identificazione tra il media landscape, il paesaggio dei media, e lo spinal landscape, il paesaggio spinale, nervoso. "All'alba Trabert si trovò a guidare lungo un'autostrada che penetrava nella città deserta: terreni a pascolo e stazioni di servizio, e in alto un intrico di fili, come un'algebra del cielo ormai dimenticata. Quando apparvero gli elicotteri fermò la macchina e proseguì a piedi. Dietro di sé sentiva l'urlo lamentoso delle sirene delle auto della polizia, icone neuroniche sulle autostrade spinali." (La mostra delle atrocità, 88). In questa scrittura frattale e implosa, la rottura fra linguaggio e forma che il cyborg sperimenta nel suo paesaggio urbano è la stessa che si consuma all'interno del suo corpo, e i segni che percorrono le sue "autostrade spinali" cercano di riempire il vuoto referenziale con la moltiplicazione delle connessioni fra la carne e i circuiti. La fusione fra l'interno e l'esterno, il rovesciamento di senso del processo di artificializzazione attraverso la sua accelerazione, non è l'unica via che si apre all'ibrido uomo-macchina. C'è anche quella della nostalgia per il proprio passato di essere umano, il sogno impossibile di ritornare al corpo naturale. Il cyborg "nostalgico", di solito, non sceglie lui di diventare tale: è stato un incidente o una macchinazione che lo ha ridotto così. In questo caso la vendetta contro i malvagi è sicura e terribile, anche se il poveretto, in virtù dei suoi nuovi poteri, può cercare di accreditarsi come angelo custode o protettore degli umani "buoni". Al cinema vediamo a volte questo tipo di cyborg: altre volte invece esso è un alieno spietato, in cui la forma umana nasconde la pura essenza disumana della macchina. In entrambi i casi, in genere, i risultati non sono esaltanti. In Terminator (1984) di James Cameron, per esempio, l'alieno killer è chiamato cyborg solo perché la sua forma esteriore è del tutto umana, ma in realtà esso non è altro che una macchina, una implacabile macchina da distruzione. Tuttavia, nel passaggio a Terminator 2: Judgement Day (1991), si fa sentire l'influenza dell'atteggiamento nostalgico. Qui Schwarzenegger, pur rimanendo macchina, in qualche modo si "umanizza" nel rapporto con il figlio di Sarah, il ragazzo John Connor, e infatti non svolge più il ruolo dell'alieno malvagio. Se il cyborg è stato invece originariamente un uomo, poi macchinizzato (in genere nella versione "cervello in una scatola di latta"), prevale l'atteggiamento nostalgico, con tutto il corredo di patetismo e di esaltazione dei buoni sentimenti che esso si porta dietro. Questa è la scelta di Eugène Lourié in Colossus of New York (1958), il cui cyborg è un incrocio tra Frankenstein e gli spietati robot pre-Asimov, e più recentemente di Robocop (1987) di Paul Verhoeven, un denso melodramma con risvolti western che è la fonte più autorevole dell'ultima generazione di luoghi comuni del tipo "sotto quell'ammasso di ferraglia batte un cuore". In qualche circostanza, però, il cinema ci ha regalato narrazioni diverse sul matrimonio fra la carne e il metallo, non edulcorate né moraleggianti, capaci di comunicare la sofferenza e l'orrore di questa ibridazione, ma al tempo stesso anche l'esaltazione per la nuova potenza che la fusione con la tecnologia offre al corpo. Tetsuo - L'uomo d'acciaio (1989) e Tetsuo 2 - Il corpo martello (1991), di Shinja Tsukamoto, sono due film notevoli da questo punto di vista, due esempi di un cyberpunk giapponese che mescola una sensibilità affascinata dallo scarto industriale e dai relitti meccanici con la tradizione di esseri fantastici (fantasmi, mostri, streghe) propria di quella cultura. I personaggi di Tsukamoto che subiscono la mutazione tecnologica, che vedono il loro corpo ricoprirsi a poco a poco di un metallo proliferante, brulicante, fino a trasformarsi in possenti torri d'acciaio, sono all'inizio timidi o placidi rappresentanti di quella classe media che vive e lavora a Tokio, una città, dice Tskukamoto, "strutturata sull'uso delle nuove tecnologie, in cui il corpo è completamente assente, perché le sue funzioni sono espletate dall'uso di fax, telefono, etc. La metropoli è fondata su un sistema molto forte di controllo, che tende a schiacciare la dimensione umana" (Macrì, Virus N. 6). L'intenzione del regista è perciò quella di protestare contro una civiltà che esalta il sistema nervoso e deprime la dimensione globale della fisicità, contro la megamacchina che (come in Tetsuo 2 ) riduce gli uomini a pure appendici di se stessa: questa protesta viene espressa però con immagini di una forza inusitata, che per contrasto con l'immaterialità delle tecnologie dominanti ritornano invece ai materiali della fase industriale o paleoindustriale, e questo crea un effetto di fascinazione che evita a Tskukamoto di arenarsi delle secche di un'operazione puramente didattica. Questa ricca ambiguità delle immagini e dei punti di vista è anche uno degli elementi di forza del più affascinante "cinema della mutazione" di cui oggi disponiamo, che è l'opera di David Cronenberg. Non che il regista canadese (che Tsukamoto cita, insieme a Ballard, fra i suoi punti di riferimento), non abbia un suo chiaro punto di partenza, o che non sappia, come sostiene Martin Scorsese, di che cosa parlano i suoi film. Al contrario, è proprio la fedeltà estrema alle sue ossessioni che genera l'ambiguità e il fascino che su di noi esercitano quei film (per altri spettatori sarà invece la repulsione, ma questa estrema dicotomia delle reazioni di fronte ai lavori di Cronenberg, senza possibilità di posizioni intermedie, è una conferma di quanto si sta dicendo). Perché l'opera di Cronenberg è il più radicale sguardo sul corpo prodotto dalla cultura occidentale negli ultimi cinquant'anni dopo quello di Bataille. "Nei miei film il corpo è sempre al centro," ha dichiarato in un'intervista. "Gli giro attorno come fa un pianeta col sole. Non me ne allontano mai. E se ciò accade, più me ne allontano, meno mi sento sicuro di me." (Cahiers du cinéma, Canova, 6). E altrove: "Mi interessano molto i documentari sull'interno dei corpi. Mi sembra strano che quando si apre un corpo umano per la maggior parte delle persone ciò sia ripugnante. Perché? Siete voi, sono io! Come potete trovare ripugnante il vostro stesso corpo? È ciò che voi siete! Abbiamo bisogno di una nuova estetica per l'interno dei corpi." (Cahiers du cinéma, Canova, 7). In Dead Ringers, Elliot Mantle dice a Claire Niveau, dopo aver visto il suo utero triforcuto: "È importante la bellezza interiore. Dovrebbero fare dei concorsi di bellezza anche per l'interno dei corpi. La milza migliore, i reni meglio sviluppati. Dovremmo avere un ideale di bellezza per l'intero corpo" (Canova, 80). Cronenberg vuole dunque visualizzare quel "generale rovesciamento fra mondi interni ed esterni" (La mostra delle atrocità, 97) che Ballard aveva descritto nei suoi libri (nel 1995 Cronenberg è riuscito a realizzare un progetto che inseguiva da anni, girando un film tratto da Crash). E, come Ballard, come McLuhan, Cronenberg sa bene che uno dei fattori principali di questo rovesciamento sta nella pervasività e nella penetrazione dei media, e in particolare della televisione, il medium che, parlando non solo all'occhio e all'orecchio, ma a tutto il nostro corpo (come sostiene de Kerckhove), rappresenta la transizione fra due diversi regimi dei media, quelli audiovisivi dell'era industriale e quelli digitali e interattivi di domani. Prima che fossero pubblicati i romanzi di Gibson, prima che le realtà virtuali diventassero di pubblico dominio e Wenders se ne dichiarasse insieme affascinato e respinto (Fino alla fine del mondo, 1991), il cyborg mediatico di Videodrome (1982) ha saputo rappresentare in un film sconvolgente la trascrizione nel nostro sistema nervoso dell'immaginario veicolato dai media, il farsi carne della tecnologia, la nascita dell'ibrido tra uomo e media. Videodrome racconta la storia di Max Renn (l'attore James Woods), presidente di una piccola stazione televisiva, e del suo incontro con un misterioso segnale pirata, una stazione clandestina che trasmette immagini sadiche e violente. Max viene affascinato dalle immagini di Videodrome e, per quanto messo in guardia da amici e da Bianca O'Blivion, figlia di un bizzarro massmediologo, vi si espone sempre più. A poco a poco il mondo intorno a lui cambia: la videocassetta si agita come una cosa viva, lo schermo televisivo si fa molle e cedevole, e nello stesso corpo di Max si apre una fessura, quasi una vagina, nella quale egli inserisce una pistola. Quando la fessura si riaprirà, la pistola, fattasi organica, si fonderà con la sua mano. È O'Blivion, che (come poi sapremo) è già morto per i tumori al cervello provocati dal segnale, a spiegare la situazione in una videocassetta: "La lotta per il possesso delle menti in America dovrà essere combattuta in una videoarena, col Videodrome. Lo schermo televisivo è ormai il vero unico occhio dell'uomo. Ne consegue che lo schermo televisivo fa ormai parte della struttura fisica del cervello umano. La televisione è la realtà, e la realtà è meno della televisione" (Canova, 57). In una scena finale di affascinante ambiguità, in una vecchia nave arrugginita, Max, guidato in video dall'amica Nicki, si spara gridando "Gloria e vita alla nuova carne!", e il teleschermo esplode spandendo attorno sangue e viscere. Uno degli aspetti più interessanti di questo film è che la nuova percezione di Max, indotta dal Videodrome, si allarga a macchia d'olio a tutta la realtà: non solo lui, ma neppure lo spettatore è più in grado di dire che cosa sia reale e che cosa sia allucinatorio. È esattamente quanto accade in Le tre stimmate di Palmer Eldritch o in Ubik di Philip Dick, e in modo ancora più significativo in La mostra delle atrocità di Ballard. Anche qui, infatti, come in Videodrome, la tematica dell'opera, per così dire ne "contamina" lo stile. Come ha osservato Canova, "Cronenberg applica al linguaggio quei processi di contaminazione e di confusione che mostra all'opera sul piano dei corpi. Di fronte a Videodrome non è possibile attribuire alle immagini un aprioristico statuto ontologico di verità. La narrazione, basata sull'incessante cambiamento dei punti di vista, non consente mai a nessuno di stabilire con certezza se ciò che si vede è un'allucinazione, un sogno o una 'realtà'. Lo stile di Videodrome si fonda, dall'inizio alla fine, sull'instabilità enunciativa" (Canova, 59). Cronenberg inaugura dunque un nuovo tipo di cyborg, che nasce dalla fusione del corpo biologico dell'uomo con i sistemi di comunicazione del pianeta: non più un cyborg elettromeccanico, con impianti e spinotti e prese craniali, ma un ibrido tra corpo e flusso comunicativo, quello che potremmo definire "cyborg del codice". Anche Seth Brundle, nel successivo film di Cronenberg La mosca (1986), subisce una trasformazione del genere: la metamorfosi non si limita (come nel film del 1958, L'esperimento del dottor K, di cui esso è un remake) alla sostituzione della testa dello scienziato con una testa di mosca, ma porta alla completa fusione molecolare dei corpi, a una ricombinazione fra il DNA dell'uomo e quello della mosca, operata dal computer. Se la pelle dell'uomo non è più il suo confine col mondo, perché ormai viviamo "col cervello fuori dal cranio e i nervi fuori dalla pelle", il mondo può ben rovesciarsi dentro di noi, e la nuova carne può estroflettersi nella pelle del mondo. Il cyborg del codice prepara la strada al corpo disseminato nelle reti telematiche, che sarà tra poco la nuova figura dominante dell'immaginario del corpo. Il corpo obsoleto Il corpo è un affare serio. L'arte, forse, un po' meno. Certo, a volte il corpo può volteggiare leggero, e l'arte depositarsi pesante come un macigno. Ma se questo accade, accade nelle nostre menti, quando la mediazione della sensibilità connette "in differita" due diversi momenti: a monte, l'attività dell'artista che prepara l'opera, a valle, lo sguardo o l'ascolto dello spettatore o dell'ascoltatore che con l'opera si incontra. Questa esperienza è tipica delle civiltà della scrittura, e conosce la sua apoteosi dopo l'invenzione della stampa (per la verità, nel campo dell'immagine anche prima). Questo è infatti ciò che accade quando leggiamo un libro, quando guardiamo un quadro, una scultura o un film. L'esperienza del rito, nelle società senza la scrittura, è completamente diversa. Lì è protagonista il processo, non il prodotto. Il compiersi dell'esperienza coinvolge tanto chi la compie quanto chi la osserva. Questa è l'essenza del teatro. Non c'entra l'interattività, cioè la possibilità di chi assiste di intervenire attivamente nello svolgersi dell'evento. Anche se il rito è immutabile, anche se i movimenti sono più o meno rigidamente prescritti, e lo spettatore non può fare altro che osservare, in qualche modo egli "partecipa" all'evento. Nessuno invece "partecipa" alla visione di un quadro, o a alla lettura di un libro. Qui la connessione tra il corpo dell'autore e quello del lettore (o dello spettatore) avviene tutta nella nostra mente, è interamente mediata dall'opera. È vero, per dipingere quel quadro, per scrivere quel libro, il corpo dell'autore ha dovuto lavorare duramente, a volte ai limiti dell'esaurimento psicofisico: ma noi non vediamo nulla di quel lavoro, possiamo anche non sapere nulla di quel travaglio. Un prodotto ci si offre, delimitato, conchiuso, aperto alla nostra lettura, alla nostra vista, magari anche alle nostre interpretazioni: ma aperto nel nostro lavoro, non in quello dell'autore. Completamente diversa è la situazione del teatro e della performance. Perché ogni volta che il corpo dell'altro si offre a noi in un processo di significazione, nella costruzione di un simbolo o di un insieme di simboli, "dal vivo", col suo movimento diretto, col suo sudore, con i suoi rumori, noi non "assistiamo" più, noi partecipiamo, prendiamo parte, perché quei movimenti, quel sudore, quegli odori, quei rumori, ci trascinano in un nuovo universo che è prima di tutto un'esperienza: diretta, corporale, fisica. Il tema della rappresentazione si pone molto presto per l'uomo, prima della rivoluzione neolitica, come testimoniano le pitture rupestri di Altamira. L'evocazione della realtà e del corpo "in absentia", per mezzo delle parole o delle immagini, è possibile per la nostra capacità di ricostruire mentalmente gli oggetti e gli esseri evocati, di ricordarli o di immaginarli: è, insomma, una funzione dell'immaginario. Ma il segno iconico, per il suo carattere di immediatezza, per il suo fare appello alla somiglianza fra il rappresentante e l'oggetto rappresentato, porta con sé una sfida che la rappresentazione verbale, per il carattere arbitrario della sua semiotica, non consente. Certo, noi siamo in grado agevolmente di distinguere tra l'oggetto e l'immagine, tra l'originale e la sua copia. E tuttavia nella storia delle arti figurative è rintracciabile il continuo tentativo di sfidare la percezione, di ingannare i sensi, di creare quel breve attimo di incertezza in cui lo spettatore sia portato a dubitare, anzi a scambiare schiettamente la rappresentazione per l'oggetto reale. Poi, naturalmente, i sensi (anzi il "buon senso") riprenderanno il sopravvento: quella cupola esiste, non si apre al cielo, quelle nuvole non sono reali ma dipinte, la spuma sulle froge del cavallo di Zeusi non è reale, quella frutta è dipinta, e anche l'uccellino che ha tentato di beccarla se ne ritrae subito. Ma per quel breve attimo, in quell'istante infinitesimale, la mia mente ha vacillato sull'orlo di un abisso: il mondo reale si è aperto in un luogo impensato, in cui non avrebbe dovuto essere. L'artificiale ha reso omaggio al naturale. Ma l'arte insegue il corpo perché, nel processo di formazione delle grandi civiltà reso possibile dall'estendersi e dall'affermarsi della rivoluzione neolitica, essa si è consolidata come funzione autonoma nella società, dapprima legata ai processi di significazione, di costruzione del senso, poi, embrionalmente con l'inizio della modernità, e sempre più compiutamente nel corso di questo secolo, distaccandosene del tutto. L'apparizione delle tecnologie di riproduzione chimica dell'immagine reale (fotografia e cinema) nel corso del XIX secolo ha spinto all'estremo il processo di separazione fra "cultura alta" e "cultura bassa" che si era già innescato in quello stesso secolo, tanto nel campo delle arti figurative quanto nella letteratura e nella musica. Ed è stato l'intrattenimento popolare, sempre più largamente basato su quelle tecnologie chimiche (e poi su quelle elettroniche, e digitali), a ereditare la funzione "realistica", di cui l'inganno dei sensi del trompe l'oeil è solo la punta più estrema: fin da quando, quel fatidico 28 dicembre 1895 a Boulevard des Capucines a Parigi, alcuni spettatori, come si dice, si alzarono spaventati all'arrivo del treno alla stazione di La Ciotat. Ma questa funzione realistica e riproduttiva del reale che l'intrattenimento popolare si assumeva con entusiasmo, allegria, e a volte frenesia, era ormai del tutto separata dal grande processo di costruzione simbolica del mondo che l'uomo aveva intrapreso all'inizio del suo cammino su questo pianeta, e che era andato poi sfarinandosi, man mano che il suo sguardo e il suo sapere, sotto l'impatto prima della filosofia, poi della scienza, si scomponevano in "campi", "settori", "metodi" separati. L'archetipo continuava a lavorare, ma anch'egli si "specializzava", ed era una fatica improba cercare di ricongiungere ciò che la ragione scientifica e tecnologica andavano separando con impetuosa spensieratezza. Alle arti che un tempo erano state figurative non restava perciò che esprimere quella frammentazione dello sguardo dell'uomo sul mondo, che adesso, preparata da secoli e secoli di neolitico, si andava finalmente e compiutamente realizzando. Potevano farlo, le arti, seguendo due strade, e le percorsero entrambe. Da un lato potevano moltiplicare i punti di vista, misurarsi direttamente con i processi psichici della visione e della costruzione mentale del mondo, rappresentare ciò che sino a ora era stato irrappresentabile: non l'essenza delle cose, che sfuggiva sempre più dalle dita come sabbia, ma gli altrettanto misteriosi processi dell'interfaccia sensitivo e concettuale tra uomo e mondo. Ed ecco nudi che scendono le scale, signore con cagnolino, foreste imbalsamate, spose messe a nudo dai propri celibi. Si poteva ormai tranquillamente fare a meno dello strumento che all'inizio della modernità aveva espresso più compiutamente il progetto prometeico di ordinamento del mondo, la prospettiva centrale col suo ferreo e affascinante predominio di un "punto di vista". Questo strumento aveva fatto egregiamente il suo lavoro, ma adesso esso era diventato la chiave di lettura con cui gli spettatori guardavano "naturalmente" il cinema, la fotografia, il fumetto (salvo quando qualcuno, come Man Ray, piegava anche questi strumenti a un'altra, imprevista visione). Era ormai la realtà, anche quella riprodotta, ad essere "prospettica". Pittura e scultura potevano quindi mostrare altri punti di vista, altri processi visivi, e approfittando del progressivo divorzio tra scienza e tecnica (alleate all'inizio della modernità, ma sottoposte a una reciproca deriva nel corso del Novecento), potevano provare a rappresentare non più la realtà, ma i molteplici e contraddittori sguardi dell'uomo su di essa, non più i corpi, ma direttamente le menti. Dal cubismo all'arte concettuale, una parte del Novecento ha percorso questa strada con coraggio e con coerenza, realizzando opere drammaticamente e terribilmente significative. Questa via, però, per certi versi aveva il fiato corto, e poteva portare, forse anche più rapidamente di altre rivoluzioni artistiche ed estetiche del passato, a una nuova e più mortifera accademia. Essa assumeva troppo integralmente la scissione tra mente e corpo, tra reale e immaginario, su cui la cultura occidentale si era costruita: per rovesciarla, certo, per mostrarne paradossalmente gli esiti più integrali e per ciò stesso più contraddittori con le sue premesse. Ma senza riuscire a distaccarsene abbastanza da poter neppure fare intravedere una via d'uscita dall'equivoco che aveva sempre nutrito l'arte da quando l'arte era stata tale: dare un senso alla vita senza essere la vita, illuminare la realtà rimanendo finzione. La scissione si stava spingendo troppo avanti (perché, se no, il secolo avrebbe potuto conoscere Auschwitz e Hiroshima?) per poter essere compresa e padroneggiata (non dico sanata) dagli eredi dei decadentisti e dei simbolisti. Marcel Duchamp doveva averlo capito, nel 1913, quando presentò la sua Ruota di bicicletta, il primo dei suoi ready-made, aprendo la strada a quella che Pierre Restany avrebbe chiamato la "funzione deviante", l' "altra faccia dell'arte". Anche Dada, a modo suo, aveva capito. Ma ci sarebbero voluti quasi quarant'anni perché l'eredità di Duchamp, di Dada, di Schwitters, sfuggisse alla "narcotizzazione" (è sempre Restany che parla) in cui l'aveva imbalsamata l'avanguardia patentata dei surrealisti, e potesse aprirsi agli esiti più radicali di quelle intuizioni. Negli anni Cinquanta una serie di artisti e di movimenti, quasi sempre marginali rispetto al mercato ufficiale dell'arte, produssero una serie di eventi "scandalosi", che la critica e il giornalismo filisteo accomunarono alle esperienze più estreme dell'astrattismo, per il loro comune "tradimento" di ciò che il pensiero della banalità continuava a considerare la funzione principale dell'arte: pacificare le coscienze attraverso una contemplazione sublimata della "realtà". Questi artisti, invece, condividevano con il mainstream astrattista solo i punti di partenza, ma ne differivano radicalmente per gli esiti. Essi comprendevano benissimo l'impasse in cui era precipitato il tentativo di rappresentare, nell'opera d'arte, i processi di elaborazione del mondo a opera del soggetto: capivano che l'operazione di dissoluzione della rappresentazione tradizionale era stata necessaria, ma non era più sufficiente. Capivano, con maggiore o minore chiarezza, che bisognava aggredire il fondamento stesso su cui si era basata l'arte fin da quando era esistita come tale: l'idea e la pratica della "rappresentazione". Il loro percorso mirava perciò a ripristinare nello spettatore una pratica dell'esperienza che fosse integrale, che coinvolgesse, insieme con quello dell'artista, tutto il suo corpo, e non solo le "superiori" funzioni mentali; mirava a reintegrare nell'arte la sfera dell'esperienza quotidiana, perché solo così, espandendosi e dissolvendosi, l'arte avrebbe davvero potuto illuminare quell'esperienza, e non proponendosi come momento eccezionale di contemplazione dell' "essenza del mondo". Questo succedeva nel 1952 a New York, quando David Tudor si sedeva al piano per eseguire la composizione 4'33" di John Cage, ma non faceva altro che aprire e chiudere tre volte il coperchio, perché l'opera consisteva di quattro minuti e trentatré secondi di silenzio (o meglio, quattro minuti e trentatré secondi di rumori della sala). Questo succedeva nel 1955, quando Robert Rauschenberg dipingeva Red inserendo sulla tela una vecchia coperta circondata dalle sue pennellate e dai suoi segni di matita. Questo succedeva nel 1958 a Parigi, quando Yves Klein, con Vide, invitava il pubblico in una galleria vuota, coi suoi muri monocromatici, innalzando un inno alla "sensibilità", l'unica via per arrivare alla vita, "la vita stessa che è l'essenza dell'arte". Che cosa erano gli happening, che Allan Kaprow cominciava a organizzare nel 1959 a New York, se non "qualcosa che aveva luogo", un'azione che inglobava e superava d'un balzo l'opera, un'esperienza che espandeva e dissolveva nell'ambiente lo spazio tradizionale della pittura e della scultura? "L'arte è ciò che rende la vita più interessante dell'arte": questo diceva Robert Fillou, e questo cercarono di realizzare, negli anni Sessanta e Settanta, tanto il movimento Fluxus quanto l'Internazionale situazionista, tanto Nam June Paik con la sua sperimentazione video quanto Joseph Beuys con il suo ritorno alla materia organica. Certo, tutto questo si sarebbe poi cristallizzato nei grandi e piccoli fenomeni dell'arte ufficiale, dalla pop art alla videoarte, nei quali la radicalità di questo approccio si stemperava nella semplice circolazione di nuovi "prodotti", nuove mostre, o anche nuovi eventi, più o meno interessanti. Ma questo è il "sistema dell'arte", che non ha nulla a che vedere con l'aspirazione a uscire costantemente dal limite, con la pratica che preferisce mostrare dei percorsi più che fissarsi in gelidi prodotti, con l'allargamento dello spazio dell'azione fino a identificarlo con l'ambiente della vita di tutti i giorni, con il continuo invito allo spettatore a uscire dalla passività dell'osservazione e a raggiungere l'azione. Un'arte del genere forse non è neppure più nominabile con questo nome. Ma ormai la formula della "morte dell'arte" reca su di sé il raggelante marchio di Hegel, e chi la usa rischia di passare per un fan dello Spirito assoluto. Chiamiamola ancora arte, allora: purché sia chiaro che "l'altra faccia dell'arte è quella della vita" (Restany), che questi artisti hanno cercato, lucidamente, di suturare le scissioni, le lacerazioni, le dicotomie oppositive che strutturano la civiltà occidentale, partendo proprio da quella che, come artisti, li riguarda più direttamente: quella che oppone il momento della creazione a quello della vita quotidiana. Se si vuole provare a negare questa opposizione, il coinvolgimento diretto del corpo nell'arte è quasi inevitabile. Ci può essere una body art vitalista, come quella inaugurata da Klein nel 1960 con le Antropometrie dell'epoca blu, in cui delle modelle nude cosparse di colore imprimevano la loro forma su tele e fogli di carta, e che l'autore commentava così: "Oggi per me la pittura non è più in funzione dell'occhio: è in funzione della sola cosa che, dentro di noi, non ci appartiene, e cioè la vita" (Restany, Hors Limites, 32). Ce n'è un'altra più cupa e pessimista, in cui il coinvolgimento del corpo è più scioccante e drammatico, come quella che praticarono negli anni Sessanta gli artisti del cosiddetto "azionismo viennese". Nelle loro performance, spesso interrotte dalla polizia, Hermann Nitsch, Otto Mühl, Günter Brus, Rudolf Schwarzkogler orinavano, defecavano, si mescolavano a sangue, feci e materiali organici, si procuravano lesioni volontarie: la loro era anche una protesta violenta e paradossale contro la conformistica società austriaca. Oggi l'arte "fuori dai limiti" comincia, inevitabilmente, a fare i conti anche con la dimensione artificiale del corpo, con l'invasione della tecnologia. Alcuni artisti, lavorando in modi diversi sull'artificializzazione del proprio corpo, portano oggi alla sensibilità e all'immaginario contemporanei una sfida profonda, coinvolgente e significativa. Lo fanno con la radicalità che è propria di questa tradizione artistica, ma anche con una certa serenità: assumendosi in prima persona le conseguenze e le responsabilità dei propri progetti, ma senza alcuna pretesa di dare al loro lavoro una dimensione eroica o romantica (in questo senso, nonostante una superficiale rassomiglianza, le loro performance sono abbastanza lontane da quelle degli azionisti viennesi). Anche per queste recenti incarnazioni del cyborg la vita è l'essenza stessa dell'arte. Il loro punto di partenza, affermato sempre con chiarezza nei loro scritti e nelle loro dichiarazioni, e praticato con coerenza nel loro lavoro di artisti, è l'obsolescenza del corpo umano rispetto alle nuove, incredibili possibilità della tecnologia. L'enunciato, nella sua crudezza, può essere discutibile, ma è probabilmente l'unico atteggiamento che può sostenere questo lavoro e dar loro la forza di continuare una sperimentazione così eccezionale: per quanto affrontate con tranquillità, fuori da ogni spirito di autolesionismo, le tensioni e le trasformazioni a cui essi sottopongono il proprio corpo sono comunque destabilizzanti e spesso dolorose. Orlan è una performer che ha cominciato a lavorare alla metà degli anni Sessanta, con un atteggiamento, però, che divergeva significativamente dall'atmosfera allora prevalente. I performer degli anni Sessanta (per esempio Vito Acconci) lavoravano sul corpo perché lo consideravano un originale assoluto, un punto zero dell'arte, qualcosa che era impossibile "falsificare", e lo opponevano orgogliosamente al conformismo sociale e alla banalità. Orlan, invece, fin dall'inizio dimostrava di voler battere una via più ambigua, forse insidiosa, ma non per questo meno radicale: quella della smitizzazione, addirittura della falsificazione del corpo. Così, nel 1977, distribuiva per le strade "baci d'artista" al prezzo di cinque franchi. Negli anni Ottanta cominciò ad affrontare più scopertamente il tema dell'identità. Erano gli anni del trionfo del postmoderno: citazionismo, bricolage, accumulo di materiali diversi ed eterocliti. Anche Orlan giocava con questo clima, ma nel suo lavoro c'era sempre un retrogusto diverso, il sospetto che sotto il gioco lei volesse davvero dirci qualcosa, e non solo stupirci col gioco combinatorio. Si costruì un'identità fittizia, ma scopertamente fittizia, non segreta: divenne Santa Orlan. Studiava da tempo l'iconografia cristiana, specialmente quella del periodo barocco. E in una serie di film (La vierge noire, 1980, Le couronnement et l'assumption de Sainte Orlan, 1981, Apparition et gloires de Sainte Orlan, 1983, Sainte Orlan et les viellards, 1984) mescolò questa iconografia tradizionale alle immagini contemporanee: fu una Santa Teresa del Bernini a seno nudo, ma anche una Venere in pelliccia. Orlan aveva, e ha, un aspetto sensuale e desiderabile, un bel viso. Ma nel 1990, probabilmente, sente di avere esaurito, con quei film, quei manifesti, quelle performance, tutte le possibilità della semplice pratica del travestimento. Deve passare a un altro livello, mettere in gioco direttamente, e nel modo più letterale, il suo corpo, il suo viso. Ha inizio il progetto che la tiene impegnata ancora oggi, "La reincarnazione di Santa Orlan". Prende una serie di ritratti famosi, dei classici della storia dell'arte, li mette in un computer, li combina. Ne trae un nuovo viso, che sarà il suo: la fronte della Gioconda, il mento della Venere di Botticelli, e poi Diana, Europa, Psiche. Cambierà davvero, fisicamente, poco a poco, attraverso una serie di operazioni di chirurgia plastica. Queste saranno le performance di questo nuovo ciclo della sua vita, e non solo della sua vita artistica: il suo laboratorio diventa la sala operatoria. Fra il 1990 e il 1995 Orlan si sottopone a dieci operazioni in varie città del mondo: Parigi, New York, Tokio. Molte di queste sono trasmesse via satellite in altri luoghi del mondo, musei, gallerie d'arte. Tutte sono accuratamente preparate, e sono l'occasione di performance complesse. Intorno a lei altri artisti cantano, danzano, ballano: lei è sempre sveglia (si fa somministrare solo un'anestesia locale), e dirige tutta l'operazione, leggendo dei testi, fra cui il saggio della psicanalista di scuola lacaniana Eugénie Lemoine-Luccioli, "La robe", che le ha fornito lo spunto da cui è partito questo ciclo di "arte carnale", come lei stessa lo chiama. A trasformazione completata, Orlan assumerà un nuovo nome (anche quello attuale, naturalmente, è uno pseudonimo), e affronterà tutti i problemi legali e amministrativi conseguenti al cambiamento della fisionomia e delle generalità: si capisce bene che la cosa solleverà dei delicati problemi giuridici. Perché Orlan ha affrontato una trasformazione così sconvolgente? Essa è evidentemente uno sviluppo estremo della fase precedente del suo lavoro, e mette in gioco tutto un discorso sull'identità, trasformandolo in una pratica radicale. L'artista ne è ben cosciente. In una delle sue ultime interviste ha dichiarato: "L'identità forte significa automaticamente conflitti, razzismo, scontri del tipo ricchi-poveri, forti-deboli, brutti-belli ... Io sono assolutamente contraria a una identità fissa, unilaterale. Amo le identità multiple, le identità nomadi. Quello che cerco dalla vita è la possibilità di andare altrove, di andare a vedere cosa c'è dall'altra parte, per capire che cosa siamo o saremo capaci di fare. È vero, corriamo su dei binari, ma in ogni momento abbiamo la possibilità di scartare, di imboccare un'altra via. È la stessa cosa che potrebbero insegnarci i nuovi scenari interattivi: che abbiamo la possibilità di intervenire davvero nelle nostre vite" (Alfano Miglietti, Virus N. 6). Ha ragione Pierre Restany, che ha scritto: "quest'atto transessuale da donna a donna è il più estetico degli atti morali." Non c'è nessun compiacimento estetizzante in questo lavoro di Orlan, ma l'indicazione paradossale e drammatica della nuova libertà che la tecnica, se vogliamo, ci consente: anche quella, ormai, di cambiare come più ci piace il nostro aspetto. Tutti coloro che, in questi anni, non hanno saputo vedere in questo lavoro che una fantasia bizzarra, quasi oscena, addirittura blasfema, non si aspetterebbero da questa donna coraggiosa e ironica una concezione dell'arte così matura e appassionata. "Per millenni l'arte è stata un fattore di coesione sociale: era legata ai riti e alla religione, coinvolgeva ogni membro della società. Solo dopo è diventata un fatto di tecniche e di imitazione della realtà. Anche nelle esperienze migliori degli ultimi tempi, quando l'arte ha cominciato a riflettere su se stessa, non è mai riuscita a ritrovare ciò che era stato la sua forza, cioè il Sacro. Io credo che oggi l'arte debba trovare un altro luogo, un'altra funzione, perché la religione è stata detronizzata dalla scienza. Deve trovare un'altra forza; la può trovare nella scienza, all'interno della società, ma deve trovarla, perché ciò che c'era un tempo e ora non c'è più deve essere sostituito. Ecco perché affermo (e quando lo dico so di essere ingenua e romantica, ma non mi interessa), ecco perché dico che l'arte deve cambiare il mondo. Deve mostrare le cose sotto un altro aspetto, deve cambiare i nostri usi e costumi, deve prepararci all'avvenire, e per fare tutto questo deve essere profondamente radicata nei processi sociali. Questo è quello che cerco di fare col mio lavoro. L'arte frivola e decorativa non ci serve a niente: le nostre case sono già abbastanza decorate per conto loro. Un artista dovrebbe essere il membro più sensibile e più lucido della società: non per rappresentare la realtà in modo decorativo, tutt'altro, ma per farci uscire dalle nostre decorazioni, dai nostri partiti presi, dalle nostre certezze. Dovrebbe essere un pioniere e un precursore" (Virus N. 6). Se Orlan, con la sua strategia del cambiamento dell'involucro, precorre l'era delle identità multiple e variabili, Stelarc, performer australiano di origine greca, prefigura un corpo invaso dalle tecnologie in modo ancora più integrale e funzionale. Stelarc, che è nato a Cipro nel 1946, comincia a lavorare già verso il 1968, mentre studia ancora in una scuola d'arte di Melbourne, su dei progetti che anticipano curiosamente le realtà virtuali degli anni Ottanta, non certo sul piano della tecnologia, ma dal punto di vista della forma e in parte anche della funzione: un casco che altera la percezione e un "compartimento sensorio" in cui ci si immerge per farsi assalire da suoni e luci. Fin dall'inizio il suo interesse è rivolto verso il corpo: le sue funzioni, i suoi limiti, le sue possibilità. Da allora, per quasi vent'anni in Giappone, dove insegna anche arte e sociologia alla Yokohama International School, poi in Australia, Stelarc persegue un progetto di esplorazione del corpo e delle sue potenzialità che si sviluppa in due direzioni principali: da un lato quelli che lui chiama "eventi di sospensione", dall'altro il potenziamento cibernetico del corpo. Fra il 1972 e il 1975 Stelarc si sospende nel vuoto, talvolta in gallerie d'arte, più spesso in spazi aperti, sostenuto da imbragature: non sempre c'è un pubblico in senso classico, a volte ci sono solo passanti incuriositi dall'insolito spettacolo. Poi, disturbato dal fatto che l'attenzione si concentra sull'imbragatura, per ridurla al minimo decide di sospendersi usando corde singole, che terminano in uncini inseriti nella pelle. È evidente la somiglianza con molti riti primitivi (quelli divenuti famosi anche al pubblico dei non specialisti con un film come Un uomo chiamato cavallo, per intenderci), ma Stelarc ha sempre messo in guardia contro una lettura di queste sue performance in chiave sciamanica o mistica. "I cavi per me," ha detto in un'intervista, "erano linee di tensione che facevano parte del visual design del corpo sospeso, e la pelle tirata era una specie di paesaggio gravitazionale. E c'è il desiderio primordiale di sollevarsi da terra, di volare. Molti riti primitivi hanno a che fare con la sospensione del corpo, ma nel XX secolo c'è la realtà degli astronauti che fluttuano in assenza di gravità. Alla base delle mie performance non c'è un contesto religioso, né un'inclinazione allo sciamanesimo, né il condizionamento dello yoga. Esse sono più simili a un flusso di coscienza. Metafisicamente parlando, in passato la pelle è stata considerata come una superficie, o meglio come un'interfaccia. La pelle è stata il confine dell'anima, dell'io, e insieme l'inizio del mondo. Ma una volta che la tecnologia riesce a deformare la pelle, a forarla, la sua funzione di barriera non esiste più" (Atzori, Woolford, Virtual N. 25). Le sospensioni insomma, ci avvisa Stelarc, sono meno distanti di quanto non sembrino a prima vista dall'altra componente del suo lavoro sul corpo, quella cibernetica. Dopo una prima fase, contemporanea ai primi eventi di sospensione, in cui Stelarc filma l'interno del suo corpo con tecniche endoscopiche, nel 1976 parte il suo primo grande progetto di "enhancement of the body", di potenziamento del corpo: quello della "terza mano". La preparazione dura cinque anni. Sulla base di un prototipo costruito all'Università Waseda di Tokyo da uno dei più grandi esperti di robotica, Stelarc si fa costruire una mano artificiale con cinque dita articolate, che ruota il polso e flette le dita tramite dei micromotori applicati localmente. Applicata al suo braccio destro, questa mano è collegata a dei sensori disposti su altre zone del suo corpo (il braccio sinistro, l'addome, le cosce). I segnali provenienti dai muscoli di queste zone sono amplificati elettricamente e interpretati da un programma che li associa ai vari movimenti della mano meccanica, permettendogli così di controllarla tramite le contrazioni di questi muscoli. Le performance con la terza mano cominciano nel 1984 e vanno avanti ancora oggi, arricchite progressivamente da altri elementi, tra cui dei robot industriali che si muovono in sincronia con l'artista e dei raggi laser che sembrano uscire dai suoi occhi. Sono eventi sorprendenti: la terza mano non solo si muove, ruota e afferra gli oggetti come una mano vera, ma è talmente ben coordinata con le altre due che può collaborare ad attività abbastanza complesse, come scrivere su una lavagna. Questa mano è diventata familiare agli appassionati di musica dopo che, nel 1995, è stata utilizzata in un videoclip dei Queens realizzato dopo la morte di Freddy Mercury. Nel 1992 si sviluppa il progetto del "braccio virtuale": usando il linguaggio di riconoscimento dei gesti del Data Glove™, Stelarc controlla con la sua mano reale un braccio virtuale sullo schermo del computer, facendolo muovere e facendogli crescere altre mani in posizioni innaturali. Del 1993 è una performance tra le più inquietanti e pericolose, la "scultura per stomaco". Stelarc ingoia una capsula fatta di acciaio al titanio, argento e oro, lunga 5 cm e larga 1,5, collegata tramite un filo a un servomeccanismo comandato da un circuito logico. Inghiotte molto lentamente, mentre una telecamera miniaturizzata endoscopica trasmette le immagini del tubo digerente. Quando la capsula è giunta nello stomaco, il servomeccanismo si mette in azione e la capsula si apre, diventando una piccola scultura che emette luci e suoni. È l'inizio di un discorso sul "corpo cavo" che Stelarc ha cominciato a sviluppare negli ultimi anni. L'ultimo lavoro, per il momento, Stelarc l'ha realizzato nel 1994. Si tratta dello Stimbod, "stimolatore muscolare multiplo", un sistema computerizzato che consente di controllare e attivare singoli muscoli del corpo di una persona, inviando sulla zona interessata del corpo una corrente di medio voltaggio (non più di 50/60 volt). Il movimento, in tal modo, è del tutto involontario per chi lo compie: esso viene comandato via computer, tramite un mouse o un touch screen. Se si usa un modem, il computer può essere collocato anche a grande distanza. Stelarc, come sempre, utilizza il proprio corpo per questa sperimentazione, che può essere descritta come una sorta di "coreografia programmata". Nella performance Fractal Flesh. Split Body: Voltage In / Voltage Out, replicata in vari paesi del mondo a partire dal 1995, il corpo dell'artista viene attivato da persone che stanno in città anche molto lontane. Il corpo è diviso (split body), perché Stelarc, che indossa anche la terza mano, utilizza due diverse linee elettriche: quella collegata alla mano sinistra riceve gli impulsi remoti che generano i movimenti involontari, mentre con l'altra linea, quella della mano destra, i suoi muscoli addominali comandano la mano robotica. Nel suo corpo si combinano così movimenti diversi: quelli involontari della parte naturale del suo corpo, e quelli "volontari" della parte artificiale. Stelarc è una delle punte avanzate di quel panorama artistico e concettuale che è stato a volte descritto col termine "post-umano", ma le sue performance, che hanno un grande impatto emotivo, non lasciano trasparire facilmente il loro significato. La critica d'arte tradizionale (ivi compresa quella più abituata a trattare con le correnti e gli artisti apparentemente più avanzati) si trova in grande imbarazzo nel valutare il suo lavoro, e il più delle volte equivoca pesantemente, o più semplicemente lo ignora. I media, quando ne parlano, tendono a sottolineare l'aspetto più spettacolare e superficiale del suo lavoro, che è invece rigorosissimo, e solleva fondamentali problemi filosofici e antropologici. Non aiuta la comprensione neppure la radicalità e l'estremismo delle sue riflessioni, che pure sono tra le più lucide autoanalisi operate da un artista contemporaneo. Stelarc è convinto che l'era dell'informazione stia introducendo l'uomo a un processo di "evoluzione post-darwiniana", in cui non sono più all'opera i classici meccanismi biologici della selezione naturale, ma nuove strategie di riprogettazione dell'individuo; redesigning the body, riprogettare il corpo, è la sua parola d'ordine preferita. Ecco che cosa scrive in proposito. "Non ha più senso considerare il corpo come un luogo della psiche o del sociale, ma piuttosto una struttura da controllare e da modificare. Il corpo non come soggetto ma come oggetto, e non come oggetto di desiderio ma come oggetto di riprogettazione. Il periodo psicosociale è stato caratterizzato da un corpo che girava intorno a se stesso, che orbitava intorno a sé illuminandosi ed esaminandosi attraverso stimoli fisici e contemplazione metafisica. Ma trovandosi di fronte alla sua immagine di obsolescenza il corpo è traumatizzato dall'idea di separarsi dal regno della soggettività, e di prendere in considerazione la necessità di riesaminare e possibilmente di ridisegnare la propria struttura. Modificare l'architettura del corpo significa adeguare ed estendere la sua consapevolezza del mondo. Come oggetto, il corpo può essere amplificato e accelerato fino alla velocità di fuga planetaria. Diventa un missile post-evolutivo, abbandonando e diversificando la sua forma e le proprie funzioni" (Stelarc, Il corpo tecnologico, 64). Il discorso di Stelarc, rigorosamente materialistico e antidualistico, ma per nulla tentato dalla feticizzazione né del corpo né della soggettività, affronta di petto la condizione umana nell'era dell'informazione. Il suo obiettivo non è quello di creare né un nuovo conformismo tecnologico, né una figura elitaria di superuomo, ma quello di aumentare gli spazi di libertà in una situazione nella quale lo scarto tra le prestazioni della tecnologia e le possibilità del nostro corpo, quale ci è stato consegnato dall'evoluzione, rischiano di essere una delle strozzature più castranti. "Io non propongo un modello utopico di corpo perfetto," ha detto in un'intervista. "Io non voglio che gli individui siano costretti a riprogettare il proprio corpo, sto solo esplorando delle vie attraverso le quali chi lo vuole possa farlo. E potrebbe volerlo fare perché il corpo è diventato sempre più obsoleto nell'ambiente ad alta densità di informazione che l'uomo stesso ha creato. Nessuno può sperare di assorbire e processare in modo creativo tutta questa informazione. La tecnologia, con tutte queste macchine che sono più precise e potenti del corpo, lo ha accelerato: il corpo vive ormai in condizioni di gravità zero, o di velocità di fuga da un pianeta. Per questo ritengo che esso sia biologicamente inadeguato. L'approccio ergonomico non ha più senso. Non si può continuare a progettare una tecnologia per il corpo quando la tecnologia usurpa e surclassa il corpo in continuazione. È ora invece di adeguare il corpo alla macchina, di dargli un'accelerata. Nella connessione alle reti cyber, per esempio, siamo ancora limitati dalle tastiere, e altri dispositivi del genere. Il collegamento diretto al cervello non è solo una fantasia fantascientifica, è già un'esigenza reale" (Virtual N. 25). Solo ai nostalgici della soggettività naturalistica, o del vitalismo, queste considerazioni possono apparire agghiaccianti. In realtà esse sono dettate da preoccupazioni profondamente morali, e da una concezione della vita e della cultura come processo generale, che percorre i corpi e gli individui, piuttosto che come "proprietà". In questo senso, fatte salve le differenti opzioni culturali e le differenti strategie espressive, la posizione di Stelarc appare molto vicina a quella di Klein, quando sottolineava (l'abbiamo ricordato sopra) che "la vita non ci appartiene". Il cyborg di Stelarc, più che una strategia di sopravvivenza, è un atteggiamento di umiltà e un atto di amore nei confronti del mondo. "L'intenso piacere della tecnica" Il processo di artificializzazione del corpo marcia per suo conto, non ha bisogno di essere stimolato dagli scrittori, dagli artisti o dai cineasti: le fantasie, le finzioni, le performance di questi ultimi, anzi, pur restando fantasie, finzioni e performance, hanno le loro radici in processi e sperimentazioni portate avanti dalla scienza e dalla medicina ufficiali. Ovviamente, soprattutto dalla medicina. Nel "mondo reale" il cyborg è prevalentemente un cyborg medico. È in primo luogo quando un organo funziona male che vale la pena provare a sostituirlo con una macchina o con una replica sintetica. È quando una funzionalità è compromessa o assente che si può provare a rimpiazzarla con un impianto artificiale. Non occorre avere un pace-maker per potersi considerare cyborg: a un livello più banale, lo sono tutti coloro che hanno un dente finto (e perciò, nel mondo occidentale, la maggioranza della popolazione adulta). Per non parlare di placche di metallo nelle ossa, tratti di vena o di arteria in polimero biocompatibile, e così via. L'invasione del corpo da parte della tecnologia, l'abbiamo visto, non si esaurisce certo nella coesistenza fisica di tessuti naturali e dispositivi artificiali: è un fenomeno più vasto, un fatto di culture e comportamenti, una prospettiva dell'immaginario. Ma la base materiale di questa prospettiva, non c'è dubbio, sta nella progressiva medicalizzazione permanente del corpo, nella sua alterazione (ai fini di una maggiore funzionalità) con agenti chimici o dispositivi elettronici e meccanici (in attesa di poterne modificare la struttura genetica). E più l'organo offeso o la funzionalità assente sono delicati e complessi, più urgente è il bisogno di alleviare la sofferenza, più appassionante la sfida, più sofisticata la ricerca. I possessori di protesi auricolari sono oggi forse i più avanzati tra gli uomini semiartificiali, e la Amplifon è probabilmente una delle principali produttrici di cyborg al mondo. Non parlo tanto dei tradizionali apparecchi acustici che si alloggiano nell'orecchio esterno, ma delle frontiere più avanzate della microchirurgia dell'orecchio: per esempio del cosiddetto "impianto cocleare", un'operazione che in USA si fa da qualche anno e che recentemente è giunta anche in Italia (Il Mattino, 17/3/95). È un chip che viene impiantato nell'orecchio interno (appunto nella coclea), elabora i suoni provenienti da un microfono posto dietro l'orecchio, e invia gli appropriati impulsi al nervo uditivo, il quale li invia al cervello. Questo tipo di impianto sembra l'unico in grado di risolvere i casi di sordità in cui è irreversibilmente danneggiato l'orecchio interno. Lo sviluppo dell'high tech sta moltiplicando le ricerche anche in direzione del problema della cecità. Una ingegnosa e interessante applicazione dei sistemi informativi satellitari, di questa nuova pelle del pianeta, è il Personal Guidance System messo a punto nel 1994 all'Università di Santa Barbara in California (Montefusco, Virtual N. 16). Il PGS è un ambiente virtuale sonoro portatile che potrebbe aiutare i non vedenti ad orizzontarsi in un ambiente sconosciuto. Esso consiste in un dispositivo per il rilevamento della posizione dell'utente e il suo orientamento, di un software che accede a un database di informazioni sullo spazio che deve essere attraversato, e di un interfaccia che rende queste informazioni accessibili all'utente in forma di suoni. In pratica il non vedente indossa uno zaino in cui è alloggiato il computer, una cuffia per le informazioni sonore e un'antenna collegata al sistema GPS (il GPS, Global Positioning System, è un sistema che consente di rilevare con elevata precisione la posizione sulla superficie terrestre di un'antenna ricevente, calcolando i ritardi relativi dei segnali emessi da 21 satelliti in orbita attorno alla terra). Il software, sulla base delle informazioni contenute nelle mappe che consulta, è in grado di sapere a quali oggetti (alberi, cabine telefoniche, incroci) si sta avvicinando l'utente, che viene avvisato in cuffia dall'interfaccia sonora. Il PGS, però, che non è una cura per la cecità, non è neppure una vera e propria invasione fisica del sistema occhio-cervello. Quest'ultima potrebbe invece realizzarsi con una delle varie ricerche sull'occhio bionico che sono in corso in Usa e in Giappone dalla fine degli anni Ottanta. Al progetto "Protesi neurali" dell'Istituto di Bethesda, dopo un prototipo sperimentato con relativo successo su un non vedente nel 1992, è stato realizzato nel 1995 un nuovo modello di occhio artificiale (la Repubblica, 7/3/95, L'Unità, 7/3/95), la cui sperimentazione sull'uomo è prevista per il 1996; un altro modello è stato costruito in collaborazione fra l'università di Harvard e il Mit di Boston (L'Unità, 14/10/95). Entrambi i modelli consistono di una telecamera miniaturizzata che sostituisce il sistema ottico dell'occhio (cornea, iride, cristallino) e di un microchip impiantato nella corteccia cerebrale occipitale (o sul tessuto della rétina) che funziona appunto da rétina artificiale, trasformando le informazioni luminose in segnali elettrici che vengono avviati al cervello. Si tratta di dispositivi ancora molto rudimentali, che costruiscono "immagini" di poche migliaia di pixel, contro le decine di milioni elaborate dalla rétina naturale: ma la sfida è già lanciata. A questo "cyborg ottico" di tipo elettronico se ne affianca uno genetico (un po' come nei racconti di Sterling basati sulla contrapposizione fra "Mechanists" e "Shapers"), nelle ricerche di terapia genica per la cura delle persone affette da retinite pigmentosa condotti all'università della Pennsylvania. Con la comparsa dei sistemi di realtà virtuale, si sono moltiplicate le ricerche nel campo della riabilitazione dei disabili, dei portatori di handicap, o di persone con gravi difficoltà di apprendimento. Azioni anche molto semplici (come accendere i fornelli di una cucina o riempire un carrello di merci al supermarket), che queste categorie di persone non sono in grado di compiere nella vita reale, sono invece alla loro portata in un mondo virtuale, con grandi vantaggi per la terapia. Questo è lo scopo, per esempio, del pacchetto Rompa/VIRART realizzato nel 1994 in collaborazione fra l'università di Nottingham e la ditta medica inglese Rompa, e commercializzato da quest'ultima (Vaccaro, Virtual N. 9). Ma anche in questo campo ci sono sperimentazioni che prevedono contatti più intimi fra tecnologia e corpo. Dal 1989 funziona il progetto europeo CALIES (Computer Aided Locomotion by Implanted Electrical Stimulation) diretto dal professor Pierre Rabischong dell'Institut National de la Santé et de la Recherche Médicale di Montpellier, a cui si è affiancato nel 1993 il progetto RAFT (Restoration of muscle Activity through FES and associated Technology) coordinato dal professor Antonio Pedotti, che dirige il centro di Bioingegneria di Milano (Vaccaro, Virtual N. 16). Il FES (Functional Electrical Stimulation) è oggi un settore di punta della ricerca medica. In particolare questi progetti mirano ad agevolare il recupero delle funzioni motorie nei paraplegici, cioè nei soggetti con lesioni al sistema nervoso nel midollo spinale, che hanno perso in conseguenza di ciò l'uso degli arti inferiori. CALIES prevede l'impianto per via chirurgica di un elettrostimolatore connesso ai nervi e ai muscoli offesi, un chip appositamente progettato di ridottissime dimensioni che si basa su un circuito integrato a 24 canali. Questo chip è controllato all'esterno da un computer che invia direttamente all'elettrostimolatore i comandi appropriati per i muscoli della gamba, comandi che il cervello non è più in grado di inviare per l'interruzione nel midollo spinale, e che consentono quindi al soggetto di compiere almeno i più importanti fra i movimenti necessari per camminare. I muscoli attivati dall'elettrostimolatore, anche in caso di successo di questa terapia, non sono tutti quelli attivati durante il funzionamento normale, e il paziente dovrà perciò in ogni caso utilizzare delle stampelle. Inoltre (e questo è il ruolo principale del progetto RAFT) il software di controllo della stimolazione muscolare deve essere in qualche modo "personalizzato", per adattare i modelli e le sequenze di attivazione ai dati antropometrici caratteristici del paziente (peso, lunghezza degli arti, etc.): un primo schema generale di simulazione del movimento viene perciò progressivamente migliorato con un procedimento per prove ed errori. Quello che accade qui corrisponde a un modello abbastanza diffuso nell'interazione uomo-macchina in genere e uomo-computer in particolare: un sapere generale (in questo caso il pattern che simula la generica attività deambulatoria) e individuale (il modo di camminare di quella persona particolare) vengono estratti e immessi nella macchina, che provvede poi a ritrasmetterli al singolo paziente. Il carattere adattabile e versatile della macchina digitale (il computer), rispetto a quella analogica, è quello che permette di far funzionare il sistema: non occorre costruire ogni volta una macchina diversa che simuli i differenti modi di camminare, il computer la simulerà di volta in volta in tempo reale. In questo caso, poi, il computer, limitatamente a questa particolare funzione, si sostituisce del tutto al cervello: la macchina riempie un vuoto operativo (determinato dall'incidente o dalla malattia) a livello dell'organismo, ricostituisce con una deviazione fuori dal corpo (il computer) una catena di comando che nell'individuo sano avviene invece tutta all'interno del corpo. Apparentemente la triangolazione qui realizzata è: interno-esterno-interno (uomo-macchina-uomo). In realtà, anche se la vera e propria invasione della tecnologia nel corpo si limita all'elettrostimolatore, concettualmente è tutto il complesso "corpo organico-elettrostimolatore-computer" che dovremmo considerare come "nuovo corpo" del paziente impiantato. Solo i limiti attuali della tecnologia, infatti, impongono che l'unità di controllo sia dislocata all'esterno del corpo invece che essere impiantata all'interno. Altri problemi tecnologici e fisiologici, ma analoghi interrogativi epistemologici, solleva invece un'altra ricerca che forse ci porta più vicino ancora al centro della questione del cyborg. Il progetto si chiama INTER (che sta per Intelligent Neural Interface), è partito alla fine del 1993, è finanziato dalla Comunità europea e coinvolge diverse università e centri di ricerca in vari paesi, ma il suo cuore sta in Italia, all'ARTS Lab della Scuola Superiore Sant'Anna di Pisa, diretta dal professor Paolo Dario (Corriere della sera, 28/12/94; Caronia, Virtual N. 18; Gasperetti, Virtual N. 22). Se CALIES riguarda il problema del funzionamento di arti naturali in caso di offese al sistema nervoso, INTER ha a che fare invece con gli arti artificiali. Lo scopo della ricerca è infatti quello di costruire un collegamento diretto tra il sistema nervoso umano e una protesi cibernetica, in modo che chi ne fa uso possa comandarla con i propri impulsi cerebrali, come farebbe con un arto naturale. L'équipe del professor Dario ha costruito un "connettore neurale", costituito da un chip, una matrice di microelettrodi, e da un canale di guida in materiale biocompatibile; questo connettore si interpone all'interno di un nervo periferico, in modo da poter raccogliere i segnali elettrici della fibra nervosa. La superficie di contatto fra il connettore e il nervo è costituita da una piastrina che reca fino a un centinaio e oltre di microfori, all'interno dei quali devono passare gli assoni (cioè le fibre nervose) che ricrescono, per essere convogliati nel canale di guida. In questo modo il segnale nervoso, opportunamente amplificato, potrà passare nei due sensi: dal sistema nervoso alla protesi, per comandarne i movimenti, e dalla protesi al sistema nervoso, per portare al cervello le informazioni del mondo esterno. Sino alla fine del 1995 il connettore neurale non era ancora stato testato sugli esseri umani, ma i primi esperimenti su animali hanno dato risultati incoraggianti, mostrando che le fibre nervose riescono a ricrescere passando nei fori del chip, e che i fenomeni di rigetto sono limitati e superabili. Nel caso di INTER, la malattia o l'incidente non hanno toccato il sistema nervoso, perciò il computer non si "sostituisce al cervello" nello stesso senso in cui questo si verifica nel progetto CALIES. In un certo senso, però, anche qui c'è una collaborazione di tipo "logico" tra il sistema nervoso e il circuito elettronico: ciò che manca, qui, è l'arto naturale, e un arto artificiale non riceve i comandi né invia le informazioni nello stesso modo di quello naturale. I segnali nervosi devono pertanto essere in qualche modo trasformati, in modo da risultare comprensibili ai motori e alla circuiteria dell'arto elettromeccanico. In generale, insomma, nel cyborg medico il computer o il circuito elettronico impiantato nel nostro corpo collabora col nostro sistema nervoso, e ne diviene parte integrante, sottomettendosi da un lato ai principi e alle leggi di funzionamento che sono propri del nostro corpo, ma introducendo anche in una certa misura una logica diversa. Come dobbiamo valutare allora questa coesistenza? Come dobbiamo considerare questi manufatti artificiali che ospitiamo nella nostra carne, questi elementi esterni che ci sono divenuti interni? Dal punto di vista del corpo organico, un impianto non può forse che essere considerato come un'intrusione, un elemento estraneo e allogeno, anche se ci salva la vita o ci rende una funzionalità perduta. Glie ne saremo grati, ma al fondo resterà irrimediabilmente "fuori di noi". Ma un punto di vista del genere è sostenibile sino in fondo? Un impianto è qualcosa di diverso da una protesi, che possiamo mettere e togliere quando vogliamo: se è comprensibile continuare a vedere come "estranee" le nostre dentiere e le nostre lenti a contatto (che però, fra l'altro, abbiamo ormai imparato ad accettare completamente), quanto possiamo considerare estraneo un chip sottopelle connesso con i nostri nervi? Non è divenuto, in senso proprio, una parte di noi stessi? E cosa accade se in quel chip sono codificati certi nostri saperi, certe nostre abilità, che noi vi abbiamo immesso e che ora la macchina ci restituisce, in un contatto intimo con il nostro sistema nervoso? È ancora "esterno" o è già "interno", per quanto un interno di tipo terribilmente nuovo e forse anche sconvolgente? So già che cosa si potrebbe obiettare. Che da sempre l'uomo ha portato fuori di sé delle parti di se stesso, con la tecnica, con l'arte, con la letteratura, e che una volta esteriorizzate, proiettate, queste parti di sé sono e rimangono esterne. Un'ascia di pietra, un martello, una ruota, un dipinto, una poesia, ognuna di queste cose è un'idea, un'intuizione dell'uomo che è diventata pro-getto, e come tale si è esteriorizzata, è uscita fuori di noi e ora vive una vita autonoma. Un libro, per il suo autore, è "parte di se stesso" solo in modo metaforico. Anche un chip lo sarà, perché anche un chip non è altro che un prodotto dell'uomo. E per quanto vivano sotto la nostra pelle, per quanto "ragionino" (concediamo anche questo) come noi o meglio di noi, i nostri prodotti rimarranno inevitabilmente qualcosa di esterno a questo corpo di carne e sangue, di tessuti e di ossa. E poi forse è ozioso discutere un problema del genere, o forse esso riguarderà soltanto i futuri portatori di impianti, le loro reazioni psicologiche di fronte alla presenza di questi elementi allogeni nel loro corpo. Anche oggi gli psicologi possono studiare le modificazioni del senso di sé, le ipertrofie e gli scompensi immaginari di coloro che ospitano nel proprio corpo l'organo trapiantato da un altro vivente. Ma come si fa a costruire un'antropologia sui trapiantati? O sui cyborg? La risposta più semplice è che proprio dallo studio dell'estremo e dell'anormale si traggono più agevolmente le leggi della normalità, come dalle palle perfettamente e innaturalmente lisce che rotolano su inesistenti guide senza attrito Galileo trasse le leggi della meccanica, o sulle perversioni di Dora e dell'uomo dei lupi Freud basò la sua scoperta dell'inconscio. Ma nel caso del cyborg io credo che siamo di fronte a qualcosa d'altro, a un fenomeno che allude a trasformazioni così radicali che il lampo accecante del loro stesso annunciarsi fa ombra alla loro comprensione. L'avvento dell'era digitale è un processo di cui probabilmente siamo ben lontani dall'aver colto tutte le implicazioni, e non so se le trombe suonate da Nicholas Negroponte, che attualmente è considerato il suo profeta più attendibile, ci aiutino a capirne di più. Perché l'era digitale non è solo una questione di maggiore circolazione e di maggiore disponibilità dell'informazione, per quanto questi processi, nella dimensione gigantesca e accelerata in cui avvengono, facciano scattare la vecchia legge marxiana della "quantità che si trasforma in qualità", e quindi spieghino alcune caratteristiche dell'epoca. Derrick de Kerckhove va più vicino al cuore del problema quando descrive il digitale come un nuovo "brainframe", un nuovo quadro mentale dopo quello alfabetico del neolitico e quello tele-audiovisivo della modernità sviluppata. Ma le proprietà di questo brainframe digitale rischiano di essere più complesse di quelle che finora abbiamo colto. Mario Canali (che oltre a costruire le sue rigorose e affascinanti installazioni è anche capace di dire cose sensate e acute su di esse) dice spesso che, per lui, il computer è la perfetta macchina dell'inconscio. Forse è difficile seguirlo su questa strada, ma pensiamo per un attimo al lavoro del progetto RAFT che ho descritto prima: in questa ricerca il computer serve a trascrivere, step by step, tutte le posizioni e i movimenti che i nostri muscoli fanno quando compiamo un'azione così semplice come quella del camminare. Cosa fa in questo caso il computer? Rende esplicita, descrive dettagliatamente, e perciò porta alla nostra coscienza, un'azione del tutto incosciente, compiuta dal nostro corpo in modo assolutamente automatico. Certo, lo fa nel modo analitico e non sintetico che gli è proprio. Noi in genere equivochiamo, e siamo portati a pensare che il computer sia una macchina "naturalmente" comportamentista, che il suo lavoro vada spiegato nei termini del meccanismo stimolo-risposta, perché noi l'abbiamo costruita così. Non è vero. Il computer si adatta altrettanto bene alle ipotesi comportamentiste che a quelle mentaliste, perché è la macchina dell'esteriorità assoluta. Non suggerisce spontaneamente alcuna teoria, né ne incorpora alcuna (come le macchine dell'era elettromeccanica), perché è la macchina della prassi senza teoria. La sua adattabilità (in linea di principio) infinita la rende adatta a simulare virtualmente qualsiasi cosa. Risponde il mentalista alla Searle: "sì, qualsiasi cosa, ma solo ciò che è computabile, e quindi non l'intenzionalità, o la coscienza, o comunque vogliamo chiamare ciò che distingue l'uomo dall'animale e dalla macchina" (e, si potrebbe aggiungere, da Dio). Può essere. Resta da vedere quanto sia desiderabile voler simulare l'intenzionalità o la coscienza, questi fantasmi inafferrabili del pensiero dualistico, o quanto l'impossibilità di questa simulazione ci dica qualcosa di significativo sul mondo. La dimostrazione dell'irriducibilità dell'uomo alla macchina, all'animale o a Dio, è uno sport oggi tanto insensato quanto la dimostrazione del suo contrario. Quello che possiamo cogliere nella figura del cyborg è invece che il processo di esteriorizzazione si è talmente esteso da rovesciarsi nel suo contrario, ed è questo che rende di colpo insensati la maggior parte dei filtri attraverso cui finora abbiamo visto il mondo. È per questo che nell'esperienza contemporanea non c'è più profondità, e tutto è superficie. È per questo che non riusciamo più a distinguere tra reale e immaginario, tra coscienza e inconscio. Non è solo l'informazione a permeare tutto il pianeta come una nuova pelle, ma il nuovo impasto dell'attività delle menti collettive. Come avevano già intuito Ballard e Cronenberg, oggi è soltanto nella tecnologia che possiamo leggere il nostro nuovo inconscio. Mario Perniola va studiando da anni questo processo, quello della trasformazione dell'uomo in una "cosa che sente", e lo ha descritto nel suo ultimo libro come un acutissimo e fulminante matrimonio tra sessualità e filosofia. "Questa è infatti la grande trasformazione cui siamo testimoni e protagonisti: sentirsi non più Dio, né animale, ma una cosa senziente. Per questa il minimo percepibile è già il massimo percepibile o meglio nel minimo percepibile è già contenuto il massimo. In tale feroce riduzionismo sensitivo noi cogliamo non l'essere in sé della cosa, né la sua essenza, ma piuttosto un sentire umano ridotto ai minimi termini. Tuttavia questo sentire minimo sembra non perdere nulla; nel più piccolo contatto è implicito tutto il sovrumano e l'infraumano di cui siamo capaci, tutte le speranze e le abiezioni, tutto il mondo intellettuale e pratico. Perciò quando dico che l'uomo è una cosa che sente, a prima vista estinguo, ottundo e spengo il sentire, o almeno gli tolgo la vivacità, il brio, la flagranza, ma dall'altro promuovo il suo estremo acuirsi, lo rendo simile a una punta, a un ago, a una spada" (Perniola, 8). Stelarc evoca la figura di un corpo cavo, aperto a ricevere nuovi organi artificiali. "Se potessimo costruire una pelle sintetica, capace di assorbire ossigeno direttamente attraverso i pori e di convertire efficacemente la luce in sostanze chimiche nutritive, potremmo radicalmente ridisegnare il corpo eliminando molti dei suoi sistemi ridondanti, dei suoi organi malfunzionanti, minimizzando l'accumulazione delle tossine nella sua chimica. Il corpo vuoto sarebbe un migliore ricettacolo per i componenti tecnologici" (Stelarc, Il corpo tecnologico, 69). Nell'estremismo di questa formulazione, egli si sbarazza d'un colpo del tabù dell'originarietà, dell'intangibilità, della sacralità del corpo naturale. Ora questo mito, che nelle tre grandi religioni monoteiste del libro è il mito dell'Eden, e nella cultura classica è quello dell'età dell'oro, sta una delle radici più robuste di quello sguardo assoluto sul mondo, di quella presunzione di innocenza delle origini dell'uomo, che ha fondato l'arroganza antropocentrica della nostra cultura, giustificando tanto la struttura di comando della società patriarcale agricola e industriale, quanto il diritto al sacco dell'ambiente. Riconoscendo come parti di noi stessi i nuovi impianti tecnologici, reali e immaginari, che abitano sotto la nostra pelle, noi ci liberiamo quindi anche dalla libidine e dalla maledizione di quello sguardo, riconosciamo che non c'è più verità assoluta nel corpo di quanta ce ne sia nel mondo. E ci apriamo alla comprensione della determinazione storica e sociale delle pratiche e dei discorsi, ci predisponiamo all'allegria e all'eccitazione nello scoprire la bellezza del viaggio, più che dell'arrivo. Questo è, fra le altre cose, il "femminismo tecnologico" di Donna Haraway, che propone il cyborg come "mito politico ironico", evidentemente contrapposto al mito della purezza delle origini che fonda il pregiudizio maschilista. "La scrittura è in primo luogo la tecnologia dei cyborg, superfici incise del tardo Ventesimo secolo. La politica dei cyborg è la lotta per il linguaggio, contro la comunicazione perfetta, contro il codice unico che traduce perfettamente ogni significato, dogma centrale del fallogocentrismo" (Haraway, 76). Haraway rovescia il pregiudizio antitecnologico di tanti movimenti artistici e controculturali degli anni Sessanta, e di tanta parte del movimento femminista americano e internazionale, e suggerisce che il cyborg indichi "una via di uscita dal labirinto di dualismi con i quali abbiamo spiegato a noi stessi i nostri corpi e i nostri strumenti" (Haraway, 84). Non sono solo le possibilità che la tecnologia offre alle donne per sfuggire ai determinismi biologici e sociali nei quali sono state sinora ingabbiate: è che la condizione di ibrido offre lo strumento migliore per affermare e praticare il radicamento di ogni discorso nella condizione di genere (oltre che storica e sociale) del soggetto enunciatore, e perciò per sfuggire alla trappola del punto di vista assoluto. Quando Haraway chiude il suo manifesto dicendo "preferisco essere cyborg che dea", intende dire che preferisce la condizione instabile e fluida di colei che ricerca il senso delle cose, piuttosto che l'acquietarsi in un modello valido per sempre, in un discorso raggiunto una volta per tutte, anche se quel modello e quel discorso comportassero il privilegio della divinità. "I nostri corpi," scrive ancora Haraway, "sono mappe del potere e dell'identità. I cyborg non fanno eccezione; un corpo cyborg non è innocente, non è nato in un giardino, non cerca un'identità unitaria e quindi non genera antagonistici dualismi senza fine (o fino alla fine del mondo). L'intenso piacere della tecnica, la tecnica delle macchine, non è più un peccato, ma un aspetto dello stare nel corpo. La macchina non è un quid da animare, adorare e dominare; la macchina siamo noi, i nostri processi, un aspetto della nostra incarnazione" (Haraway, 82). INTERMEZZO CORPI, SCHERMI, RETI La insolita, per non dire illecita idea di incontrare mia moglie e i miei figli in carne e ossa mi venne tre mesi fa, durante una prima colazione insieme. Fin dai primi giorni di matrimonio la domenica mattina aveva sempre avuto qualcosa di speciale: c'era il piacere della colazione a letto, del discutere gli avvenimenti della settimana e di ciò che scrivevano i giornali; poi, sintonizzandoci sul canale privato, Margaret e io facevamo all'amore, celebrando così la pace profonda delle nostre alcove matrimoniali. Più tardi ci collegavamo coi bambini e li guardavamo giocare nei rispettivi asili, e magari li sorprendevamo con la promessa di una visita al parco o al circo. Tutte queste attività, naturalmente, erano rese possibili dalla televisione, come pure la vita familiare. A quell'epoca, né io né gli altri avevamo mai pensato di poterci incontrare di persona: anzi, alcune vecchie quanto poco invocate ordinanze proibivano per legge i contatti personali, che potevano costituire reato ...” “ Ho trovato questa narrazione per caso, cercando delle statistiche sul XX secolo in una banca dati. Mi aveva incuriosito il titolo, Miti del XX secolo. Ho controllato l'autore, James Ballard. Non lo conoscevo, ma devo dire che nei due anni di letteratura obbligatoria all'università ho studiato quasi solo tradizioni orali amerindie. E ho guardato l'anno, 1977. Numerazione antica, naturalmente: non so bene a quale anno B.R.M. (1) corrisponda, ma non deve essere tanto prima di un secolo fa, forse anche più vicino a noi. Sono tutte narrazioni in cui questo Ballard, ai tempi suoi, cercava di immaginarsi come sarebbe stato il futuro: una forma di narrativa, mi hanno detto, che a volte veniva chiamata "fantascienza". È buffo vedere come i nostri antenati pensavano che saremmo vissuti noi. Questa narrazione, che si chiama "Riunione di famiglia", si basa sull'idea che la gente del futuro (cioè adesso, o fra qualche decennio, chi lo sa? questi testi sono così imprecisi) non si veda col proprio corpo, non si frequenti di persona, ma solo attraverso delle immagini video: non olovideo, suppongo, perché un secolo fa o giù di lì l'olovisione non era ancora stata inventata. Certo è curiosa questa convinzione che l'immagine teletrasmessa avrebbe finito per annullare il corpo: una vera ossessione. Anche se, pensando a che cosa doveva essere il corpo a quei tempi e a che cosa è adesso, e pensando a quanto era primitiva la loro "televisione", bisogna ammettere che quell'ossessione non era poi così infondata. In quegli anni, probabilmente, la Grande Accelerazione stava appena iniziando: eppure bastava un Tasso di Innovazione così modesto per provocare ansie così grandi! Sembra che una grande preoccupazione, alla fine dell'era B.R.M., fosse quella dello sviluppo del "sistema dei media", che era il nome che si dava a quei tempi alla Grande Rete. In effetti in certi periodi la Rete (o ciò che allora ne svolgeva il ruolo) doveva essere ben noiosa: i programmi che arrivavano via etere sugli schermi domestici erano tutti uguali, la possibilità di intervento dell'utente non esisteva affatto, e le immagini che circolavano, anche nelle ore di intrattenimento e di svago, erano quasi esclusivamente immagini registrate dalla realtà, non le immagini sintetiche alle quali siamo ormai abituati. Commentatori, giornalisti, pensatori, filosofi, comprendevano abbastanza bene la contraddizione di questo sistema: con la "televisione" ognuno aveva accesso a una quantità di informazione quale mai si era avuta nella storia dell'umanità, e quindi (ma su questo l'accordo non era generale) anche la sua esperienza si allargava corrispondentemente. Ma al tempo stesso questa esperienza era un'esperienza surrogata, sfuggiva al controllo del singolo, veniva prodotta e confezionata lontano da lui e (si temeva) obbedendo a interessi di altri individui e gruppi, che potevano contrastare, o comunque differirà da quelli dell'utente. Nell'anno 1984 della vecchia numerazione ci fu una discussione sulle prospettive della società a venire che ancora oggi viene ricordata. Uno dei protagonisti di quel dibattito, l'inglese George Orwell, sosteneva che la televisione stava per trasformarsi in un in uno strumenti di oppressione, e che lo schermo video (singolare preveggenza) sarebbe diventato un organo di comunicazione a due vie, capace non solo di inviare immagini, ma anche di prelevarne: il risultato sarebbe stato una società oppressiva in cui la libertà dei singoli sarebbe stata abolita a vantaggio degli apparati. Qualcuno forse ricorderà l'archeo-film Brazil, che si ispirava alle teorie di Orwell , e che ci dà ancora oggi un ritratto così documentato della tecnologia di quei decenni. Il principale avversario di Orwell, l'italoamericano Umberto Eco, riteneva invece che la televisione, consumata in dosi moderate, fosse in fondo un innocuo stimolante, e che gli intellettuali dovessero perciò preoccuparsi di fornirle materiali "intelligenti": egli stesso, per quanto singolarmente refrattario ad apparire sugli schermi, diede l'esempio con alcune lunghe narrazioni a puntate (serial), Il nome della rosa, Il pendolo di Foucault, e altri. me tutta questa diatriba non è molto chiara, ma d'altra parte non sono uno specialista di storia B.R.M., e questo è tutto quello che mi ricordo dai corsi di istruzione di base. Quello che capisco meno di tutto è perché gli abitanti di quel periodo facessero interminabili polemiche e lamentazioni invece di agire. Prendiamo per esempio la pubblicità. Articoli, libri, dibattiti sull'eccesso di pubblicità in alcune reti televisive, timori sulla sua attendibilità e sull'effetto perverso che essa aveva sulle decisioni dei consumatori. Timori molto simili a quelli che anche oggi nutrono molti gruppi di persone, per esempio i Naderiti (2), ortodossi o revisionisti. Bene, e perché allora non si facevano contro-campagne su singoli prodotti usufruendo della Rete, negli stessi spazi in cui le industrie fanno propaganda ai loro prodotti? Oggi queste cose si fanno comunemente, e l'accesso alla Rete è disponibile non solo per la grossa organizzazione Naderita, ma anche per comitati di consumatori locali. Vi immaginate che noia sarebbe stata l'ultima guerra pubblicitaria tra Pepsi e New Cola senza i tremendi controspot dei Naderiti basati sulle riprese effettuate clandestinamente nelle due fabbriche? In effetti oggi non si può più parlare della pubblicità come di un fenomeno ristretto all'informazione dell'impresa ma come un sistema di comunicazione complessa, che coinvolge a uguale titolo produttori e consumatori, e riflette tensioni fra queste due categorie e conflitti al loro interno. Ma questo è da riportare al carattere della nostra Grande Rete, che assorbe al suo interno tutti i "media" del passato, consentendo insieme la massima circolazione delle informazioni, delle immagini, delle narrazioni, e la massima libertà di scelta individuale. Lo station screen che ognuno di noi ha nella sua abitazione individuale o nella sua comune ci consente tutte le opzioni fondamentali di una normale vita di relazione, dal contatto individuale su schermo o in realtà virtuale uno-a-uno, all'inserimento nel circuito degli spettacoli olovisivi standardizzati, alla partecipazione ai gruppi creativi di teleteatro (in cui noi stessi decidiamo qual è il nostro pubblico) all'accesso a una qualsiasi dei tre milioni di banche dati strutturate disponibili via cavo o via satellite. Digitarsi nella Rete è diventato per noi un gesto così abituale che possiamo a malapena immaginare un passato in cui milioni e milioni di persone erano costrette ogni sera a consumare le stesse notizie , gli stessi spettacoli, con l'unica alternativa di spostarsi dall'uno all'altro canale o dall'una all'altra sala cinematografica. A Chi di noi rinuncerebbe alla ricchezza di esperienze e alla libertà di scelta che oggi ci sono offerte dalla Rete? Il sindacato delle Corporation ha un bel dire, ma io penso che la sua propaganda non inganni nessuno: la sua campagna per una nuova legge sul plafond minimo di pubblicità per ogni canale funzionale della Rete avrà un solo effetto: se la legge passa, sarà l'inizio di una concentrazione di canali senza precedenti, e la fine del sistema "molteplicità/individualità" che oggi caratterizza il nostro sistema integrato di comunicazioni. Del resto le compagnie eredi delle gigantesche reti televisive via etere del passato non hanno mai nascosto la loro preferenza per l'intrattenimento bolso e stupido delle narrazioni psico-umanistiche, storie insulse di vecchie famiglie e imperi politico-finanziari, in cui, fra l'altro, le sintimmagini sono relegate a un ruolo del tutto accessorio o secondario, ben diverso dall'uso creativo e integrato che se ne fa nelle migliaia e migliaia di esperienze di teleteatro. ono andato avanti a leggere la narrazione di Ballard. Ho impiegato parecchio a capire. All'inizio ero sconcertato: che cosa voleva dire "in tutta la vita non avevo mai visto (figuriamoci toccato) un altro essere umano?". Il protagonista del racconto e la moglie Margaret decidono di "conoscersi di persona" con i loro figli. L'esperienza li sconvolge tutti e quattro, si scatenano pulsioni e aggressività incredibili, e i quattro finiscono per massacrarsi a vicenda. Rantolando, il protagonista conclude: "L'unica cosa di cui sono cosciente è il mio incontenibile amore". Confesso che il finale, alla prima lettura, mi è parso esagerato, non motivato dalla logica della narrazione. In fondo, mi chiedevo, questo incontro non è molto simile a quelli che noi abbiamo abbastanza spesso con amici o conoscenti, a volte anche con sconosciuti, senza che si scatenino reazioni così incontrollate? Anche noi, si capisce, amiamo la violenza, spesso la pratichiamo fra noi, a volte in modo amichevole, a volte in modo più deciso, ma senza arrivare a eccessi del genere. Adesso credo di aver capito. Non avevo riflettuto che, ai tempi di questo autore, le realtà virtuali e la telepresenza erano ancora praticamente sconosciute o comunque limitate a qualche particolare impianto industriale o a quel poco di lavoro nello spazio che facevano i primi cosmonauti. Quando parla di "conoscersi di persona", di "toccarsi", Ballard non pensa ai simulacri virtuali, agli esoscheletri, ai telesostituti che camminano, agiscono, parlano, ripetendo movimenti e azioni che noi facciamo nella quiete della nostra station screeen. Non parla di pseudosoma, parla proprio del corpo fisico, quello organico. Ammetto che è scioccante. Che fantasia morbosa e scatenata, questo Ballard. Mi chiedo se non valga la pena di proporre uno script su questo tema, alla prossima teleconferenza del mio gruppo di teleteatro. S -------------------------------------------------------------------------------1) Before Reformed Mankind, Prima della Riforma dell'Umanità. 2) Organizzazione di difesa dei consumatori che si ispira alla figura di Ralph Nader, pioniere di questa tematica già nei tempi antichi. PARTE III IL CORPO DISSEMINATO Le tecnologie di realtà virtuale (RV) hanno poco più di dieci anni di vita effettiva, ma già nel 1993 Howard Rheingold, per raccontarne la storia, poteva scrivere un libro di cinquecento pagine; l'autore, beninteso, partiva da più lontano, da alcuni remoti antenati analogici della RV concepiti già negli anni Cinquanta, ma cionondimeno almeno due terzi del libro erano dedicati a ricerche e realizzazioni degli anni Ottanta e dei primi anni Novanta. Del resto, è ben noto che il ritmo attuale di crescita delle conoscenze scientifiche e tecniche non ha paragone con quello dell'antichità, del medioevo e dei primi secoli dell'era moderna. Negli anni scorsi la RV ha acceso la fantasia e l'interesse del pubblico in maniera consistente, suscitando attenzione non solo a livello di culto (questo capita ormai anche nel caso di fenomeni di portata più limitata), ma anche, in qualche caso, a livello di massa. Tuttavia, stando a quello che possiamo valutare oggi, per il momento essa non sembra destinata alla stessa penetrazione rapida e capillare conosciuta nel corso del secolo da altri mezzi di comunicazione (per esempio, il cinema, che, "battezzato" nel 1895, nel 1907 era già un segmento ragguardevole dell'industria culturale del tempo). Nel 1989 la presentazione del primo, costosissimo sistema di RV prodotto dalla VPL (Visual Language Programming) di Jaron Lanier, il RB2 (Reality Built for Two), suscitò l'attenzione spasmodica dei media: chi era entusiasta, chi agghiacciato, chi scettico, ma tutti ne parlavano. Nel giro di pochi mesi le pagine di quotidiani e settimanali si riempirono di articoli, interviste, presentazioni. Titoli roboanti, informazioni non di rado imprecise, esagerazioni, timori apocalittici: ma questo è il modo di informare dei mass media, anche i più seri e misurati. Con gli stessi limiti, e forse con minore sensazionalismo (ma non con maggiore precisione), anche la televisione si dedicò più volte all'argomento. In tutto il mondo industriale le prime fiere e convegni in cui venivano presentate le macchine per la RV erano prese d'assalto da falangi di giovani e meno giovani desiderosi di indossare il casco e proiettarsi nei mondi grafici interattivi. I più intraprendenti fondavano aziende per la ricerca, la produzione, o l'importazione dell'hardware e del software necessari. La RV sembrò essere per qualche tempo "il medium del nuovo secolo", se non del nuovo millennio: questo anche in Italia, dove ormai, a differenza che in passato, il ritardo rispetto agli USA nell'attenzione a molti nuovi fenomeni è ridotto a qualche mese. Su entrambe le sponde dell'Atlantico, e in Giappone, questa ondata di attenzione era stata preceduta di poco dall'interesse per la fantascienza cyberpunk, che sembrava aver anticipato con la scrittura la nuova realtà tecnologica: Gibson e Sterling apparivano a molti, e non so con quanta gioia degli interessati, i nuovi Jules Verne (per la verità nel nostro paese successe esattamente il contrario: l'interesse per la RV trainò l'interesse per il cyberpunk, al suo sorgere abbondantemente snobbato dall'editoria e dai lettori abituali di fantascienza). Oggi la RV sembra essere rientrata nei ranghi. Certo, è entrata nelle sale giochi, ma non trionfalmente: nonostante le previsioni, non ha sbaragliato i più tradizionali videogiochi non immersivi. Certo, continua a essere oggetto e strumento di ricerca, e si sta ritagliando ruoli interessanti soprattutto nel campo della medicina e della chirurgia: ma non è la regina incontrastata dei finanziamenti. Comincia a essere utilizzata nell'architettura e nel design, ma ancora con una certa diffidenza. Alcune aziende del settore si sono consolidate, altre hanno avuto una crescita vertiginosa: ma ci sono già anche i primi caduti sul campo (il che è più che normale, se non che alcuni di questi caduti sono nomi illustri, e basti pensare all'estromissione di Lanier dall'azienda che aveva fondato e all'attuale ibernazione di VPL: ma questo è spesso il destino dei pionieri, nel cinema non successe così anche a Méliès?). Sui mass media la RV non ha più lo spazio che aveva alcuni anni fa. Nella stampa specializzata o semispecializzata, è sintomatico il caso del mensile italiano Virtual, che, nato nel 1993 come "mensile di realtà virtuale e immagini di sintesi", si è saggiamente trasformato nel 1995 in "mensile dell'era digitale" (senza smettere, naturalmente, di interessarsi di RV, ma allargando appunto l'orizzonte). Perché naturalmente non si è affatto spenta, nel pubblico, la frenesia per la "modernizzazione" e per le nuove frontiere della tecnologia. Solo che la bandiera del media hype tecnologico, oggi, si chiama Internet. E la cosa è del tutto comprensibile. Il vertiginoso tasso di crescita dell'utenza delle reti telematiche negli ultimi anni, il posto centrale che esse hanno nelle scelte strategiche dei governi dei principali paesi industrializzati, i capitali che intorno a esse si vanno muovendo, dipendono in fondo dalla intrinseca maggiore accessibilità delle reti al consumo individuale domestico e continuativo. In questo senso, la limitatezza delle esperienze che per il momento si possono compiere sulla rete funziona (sempre per il momento) come acceleratore della loro diffusione piuttosto che come elemento scoraggiante. E prepara il momento in cui si apriranno a strumenti espressivi e comunicativi ben più potenti di quelli di oggi. Questa fine di secolo comunque, più ancora della precedente, sembra dominata da una successione velocissima di modelli, ognuno dei quali esprime un aspetto, una possibilità della grande trasformazione che stiamo vivendo. Non sono il solo, naturalmente, ad aver registrato questo fenomeno. Un osservatore acuto dell'immaginario scientifico e tecnologico, Daniele Brolli, ha scritto: "La RV ha rappresentato in questi ultimi anni il punto di riferimento di un universo in via di trasformazione. Con le sue promesse di non ortogonalità del tempo e dello spazio, di abbandono delle gabbie euclidee, ha sconvolto la certezza che il destino dell'uomo e delle cose dovesse essere uno solo. I mezzi di informazione hanno cavalcato l'idea di questa rivoluzione tecnologica ampliandone illusoriamente le potenzialità. Qualche film, qualche romanzo, il cyberpunk, le riviste specializzate... un susseguirsi di iniziative sull'onda delle sorti meravigliose e progressive della nuova scoperta. Il sesso virtuale come ultima frontiera del sesso. Ma per realizzare tutte le sue promesse la RV ha davanti a sé una decina d'anni di ricerche. Rimane il fascino di un'immersione totale nei mondi della videografica, di un ribaltamento delle leggi fisiche... come in un sogno della ragione, come in una riscoperta della giovinezza del sogno. Ma l'interesse popolare, sotto la guida dei media, è stato già pilotato altrove. Il futuro delle RV è di nuovo nell'oblio, perché la velocità del loro adeguamento all'immaginario popolare non è stata sufficiente" (Isaac Asimov's Science Fiction Magazine ed. it., N. 11). Ritardo dei tempi della ricerca rispetto alle stesse previsioni dei ricercatori di qualche anno fa, impazienza del pubblico, aspettative deluse, anche perché amplificate da un'informazione imprecisa e in molti casi eccessiva. Probabilmente sono questi i fattori che spiegano l'eclissi delle RV nell'interesse popolare. E poi, effettivamente, le RV sono un singolo e specifico settore di ricerca, muovono relativamente pochi soldi. Internet e le reti telematiche sono un fenomeno ben più complesso, uno strumento globale di informazione e di comunicazione al cui interno ritroviamo tutti i sottosistemi della ricerca e dell'immaginario contemporanei, anche le RV, che su Internet hanno le loro conferenze e i loro newsgroup. E poi, la nuova frontiera del capitalismo internazionale sono appunto le Information Highways, le autostrade elettroniche. Certo, anche in questo caso c'è il rischio che l'interesse del pubblico venga tra qualche tempo dirottato altrove, su altri settori e altri fenomeni, con la solita logica dell'hype, dell'informazione strillata, dell'ostentazione un po' pacchiana. Ma Internet sembra meglio piazzata per resistere a eventuali assalti. Anche se qualcuno dà un po' troppo precipitosamente per spacciati i vecchi mass media verticali e unidirezionali, e presume che la logica orizzontale e multidirezionale del nuovo medium stia per affermarsi in modo un po' troppo tranquillo. Internet non sta forse conoscendo una trasformazione che la sta portando, passo dopo passo, a essere controllata dalle stesse forze economiche che oggi dominano il mercato dell'informazione e dell'intrattenimento? Ma al di là delle fluttuazioni contingenti: avevamo sbagliato a vedere nelle RV l'emergere di un nodo di trasformazioni e di problemi legati al corpo, alla percezione e all'autopercezione, alla rappresentazione? A vederle come un segno più forte di altri della mutazione, del trapasso da un brainframe a un altro? A coglierle come un simbolo della nuova era dell'esteriorizzazione totale, dell'era digitale? Se torniamo per un attimo ai mass media, che come sempre occultano e insieme rivelano i fenomeni, ci accorgiamo che, contemporaneamente al "declino" delle RV in quanto tali, c'è stata invece l'ascesa dell'aggettivo "virtuale". "Virtuale" è una delle parole chiave di questi anni, una delle più scritte, delle più pronunciate (e spesso a sproposito), magari delle più bistrattate: ma segna comunque una tendenza. Confinata per secoli nei gerghi della filosofia e della scienza, "virtuale" sta entrando, più o meno trionfalmente, nel linguaggio comune. È vero, il suo uso prevalente è ancora sinonimo di "irreale", "finto", "non autentico": ma la sua diffusione segna comunque una riscossa della "potenza" sull' "atto" (per stare alla traduzione italiana corrente dei termini aristotelici). O meglio, indica che anche i confini fra queste due categorie traballano, si fanno labili e incerti. Che la vita dell'uomo, e tanto più quella dell'uomo contemporaneo, è a ogni istante sospesa fra l'attimo appena trascorso e una pluralità di eventi possibili, che non sta solo a noi, certo, trasformare in eventi "attuali", ma il cui accadere ci appare molto più di prima legato alle nostre scelte. La tecnologia digitale, affermano i suoi sostenitori, allarga come mai prima d'ora gli spazi di libertà dell'uomo. No, ribattono i suoi detrattori, essa è un nuovo e più perfezionato strumento di dominio, di irreggimentazione, di spersonalizzazione. Ma una cosa è certa: incomparabilmente più di quelle del passato, queste tecnologie sono "tecnologie del possibile": nel senso che rendono sempre più possibili eventi che sino a ieri apparivano impossibili, ma anche nel senso che tendono a "derealizzare", a togliere alla "realtà" tradizionale, in primo luogo a quella materiale, quell'aura di unicità e di immodificabilità con cui ogni essere vivente su questo pianeta si scontra dalle origini della vita. L'immaginario del corpo non poteva non essere toccato, profondamente, da questa svolta. A prima vista i procedimenti di simulazione digitale, il proliferare delle possibilità di travestimento "virtuale" nelle reti, la prospettiva di mettere in comunicazione a distanza non solo la voce, ma altre funzioni fisico-comunicative di due o più persone, tutto ciò sembra andare in direzione contraria a quella in cui portava il cyborg. Se il contatto sempre più intimo del corpo con tecnologie elettromeccaniche intrusive ci fa pensare a un cambiamento della stessa "materia prima" biologica del corpo, ma non certo a un deperimento della sua dimensione materiale, le tecnologie digitali sembrano andare invece verso un'evanescenza del corpo, verso una sua tendenziale scomparsa nella nuova immaterialità delle interazioni elettroniche. Preso alla lettera, naturalmente, ciò è insensato. Il corpo non scompare affatto, soprattutto non scompare la sua funzione di campo simbolico dei processi di interazione fra uomo e uomo e fra uomo e mondo. Ma certo si modifica, in un senso che, anche se è meno distante di quanto sembri a prima vista da quello del cyborg, certo ha una sua autonomia. Potremmo dire che ai processi di replica del corpo e di invasione del corpo, le tecnologie virtuali cominciano ad affiancare un terzo processo, quello di disseminazione del corpo nelle reti e negli spazi virtuali, immateriali, delle macchine digitali. E il corpo disseminato è destinato a modificare e a minacciare un rapporto basilare, che aveva retto più o meno immutato per decine di migliaia di anni, il rapporto fra corpo e identità. Sarà il completo stravolgimento di questo rapporto, probabilmente, quello che segnerà il momento terminale di uscita dall'era neolitica e dalla sua fase più matura, la società industriale. Ed esso si verificherà in modo ampio e diffuso quando si realizzerà l'incontro, oggi solo promesso, fra RV e reti telematiche: quando il mondo consisterà anche di ambienti artificiali convincenti e modificabili non solo on demand, ma sotto il nostro pieno controllo, e in questi ambienti si incontreranno corpi virtuali, anch'essi intercambiabili e modificabili, capaci di generare l'uno nell'altro risposte sensoriali anch'esse convincenti e totali. Forse a questi "simulacri" molti saranno tentati di negare il nome di uomo o di donna: forse rimarranno a lungo abitudini e consuetudini dell'epoca in cui il corpo dell'essere umano era un unicum, tempio del suo rapporto col mondo e presidio della sua identità. Certo, a quel punto l'uomo, qualsiasi sia il nome che vorrà darsi, non sarà più quello che è stato sinora. Fine della distanza "Nell'istante in cui pongono lo spettatore nel campo del loro sguardo, gli occhi del pittore lo afferrano, lo costringono ad entrare nel suo quadro, gli assegnano un luogo privilegiato e insieme obbligatorio, prelevano da lui la sua luminosa e visibile essenza e la proiettano sulla superficie inaccessibile della tela voltata." (Foucault, 19). Non si poteva esprimere meglio l'incanto fascinoso nelle cui maglie cade lo spettatore davanti a un quadro. E' vero, Michel Foucault parla di un quadro particolare, quel Las meninas che oggi campeggia sulla parete di una delle ampie sale del Prado, a Madrid. Ma il gioco sottile e intricato di linee, di sguardi, di topologie che quel dipinto mette in gioco, servono al filosofo francese per ricostruire un discorso sulle condizioni e la possibilità della rappresentazione in generale. Foucault analizza il "triangolo virtuale" costituito dagli occhi del pittore e da due luoghi entrambi invisibili, il modello che sta al di qua del quadro, e la figura sulla tela, di cui vediamo solo il rovescio; questo triangolo è in relazione con l'elemento più inquietante e sorprendente, lo specchio alle spalle dell'artista in cui si riflettono il re Filippo IV e la moglie. Quello specchio ci svela chi sono gli invisibili modelli che il pittore rappresenta nell'invisibile tela: "Il gioco della rappresentazione consiste qui nel portare l'una al posto dell'altra, in una sovrapposizione instabile, queste due forme dell'invisibilità, e di restituirle all'istante stesso all'altra estremità del quadro, al polo che è il più intensamente rappresentato: il polo di una profondità di riflesso nel cavo di una profondità di quadro."(Foucault, 22). L'architettura di Las meninas sarebbe dunque costitutiva di un discorso metapittorico, di un discorso che svela, sia pure in modo criptico, i fondamenti della rappresentazione con i mezzi stessi della rappresentazione. Lasciamo sempre la parola a Foucault. "Vi è forse in questo quadro di Velasquez una sorta di rappresentazione della rappresentazione classica e la definizione dello spazio che essa apre. Essa tende infatti a rappresentare se stessa in tutti i suoi elementi. Ma là, nella dispersione da essa raccolta e al tempo stesso dispiegata, un vuoto essenziale è imperiosamente indicato da ogni parte: la sparizione necessaria di ciò che la istituisce, di colui cui essa somiglia e di colui ai cui occhi essa non è che somiglianza. Lo stesso soggetto, che è il medesimo, è stato eliso. E sciolta infine da questo rapporto che la vincolava, la rappresentazione può offrirsi come pura rappresentazione" (Foucault, 30) Quest'ultima, insomma, per "catturare" lo spettatore, deve sempre generare un raddoppiamento che è già embrionalmente teorico, una teoria di se stessa, una metarappresentazione. Questa operazione metarappresentativa, e a suo modo teorica, è possibile solo in presenza di un vincolo, di un limite che segni la finitezza dell'opera, in termini di spazio o di tempo. Pensiamo, per fare un altro esempio, all'emblematico 16 giugno 1904 che James Joyce, in Ulysses, dilatò a un intero romanzo, per poter al tempo stesso racchiudere un'intera vita, un intero universo, nello spazio di quel giorno, e offrire al lettore una "rappresentazione" della vita dei suoi personaggi che nell'uso consapevole del linguaggio li trascendesse e ne facesse degli "ognuno" (e qui risultano pertinenti anche le considerazioni di Foucault sulla sparizione contemporanea del soggetto e dell'oggetto). Secondo la tradizione, già il maestro sivigliano consigliava al giovane Velasquez di "far uscire l'immagine dal quadro". La buona pittura ha sempre bisogno di una buona cornice, ma al tempo stesso aspira a liberarsene. La rappresentazione racchiude e limita, ma al tempo stesso vuole trascendere i suoi limiti. Il cinema, raccogliendo in questo come in altri campi l'eredità delle arti figurative, ha esasperato ulteriormente questa tendenza: vuole dilatare lo schermo fino a includere lo spettatore, o, specularmente, vuole far entrare lo spettatore nello schermo. Se accettiamo la classica definizione di Morin, infatti, il cinema è "un sistema che tende a integrare lo spettatore nel film, e un sistema che tende a integrare il flusso del film nel flusso psichico dello spettatore." (Morin, 137). Ma se esaminiamo più da vicino questo doppio processo di integrazione, ci accorgiamo che la distanza fra spettatore e schermo da un lato, la finitezza dello schermo dall'altro, sono elementi indispensabili al funzionamento del dispositivo cinematografico. Seguendo l'analisi di Christian Metz sulla componente voyeuristica del cinema, è proprio l'assenza dell'oggetto a fondare il desiderio sul quale si basa il rapporto che lega lo spettatore al film: "ciò che definisce il regime scopico propriamente cinematografico non è tanto la distanza mantenuta, o la cura che si pone nel mantenerla (prima figura della mancanza, comune ad ogni voyeurismo), quanto l'assenza dell'oggetto visto" (Metz, 86, cit. in Casetti, 150-151). Questa affermazione di Metz si può interpretare in due modi. Da un lato essa rimanda, come osserva Casetti, al meccanismo stesso dell'immagine e alla sottrazione dell'originale. D'altro lato però la tematica dell'assenza nell'immagine cinematografica allude anche proprio alla questione della cornice dello schermo, e prima ancora al fotogramma, all'unità di prima articolazione del sistema segnico del film. Solo la limitatezza del fotogramma garantisce, sul versante creativo, le possibilità progettuali dell'autore collettivo del film (regista-direttore della fotografia-operatore), che sceglie l'inquadratura e i movimenti di macchina necessari a realizzare le azioni desiderate; solo la cornice dello schermo garantisce allo spettatore lo scatenamento dei meccanismi necessari al godimento estetico del film. Per irretire davvero lo spettatore il film deve fare riferimento a qualcosa che sta fuori dal quadro, deve esprimere una tensione a uscire dall'inquadratura, a rompere la cornice. Per fare questo, il cinema ha elaborato nel corso della sua storia una serie di dispositivi testuali, di figure retoriche, dalle grammatiche del montaggio all'uso degli effetti speciali, tesi proprio a simulare all'interno del rettangolo del fotogramma e dello schermo ciò che si svolge all'esterno di quei limiti, a rinchiudere nella temporalità artificiale dell'enunciazione filmica il flusso "naturale" del tempo reale. Il movimento che regge ogni testo filmico, e che va dall'interno del quadro all'esterno, è l'opposto speculare del movimento dello spettatore che si proietta nello schermo, della sua protesi simbolica (come la chiama Bettetini) che riempie lo spazio vuoto fra lo platea e lo schermo e rende dinamica la dialettica tra l'illusione cinematografica e la frustrazione per una corporeità sollecitata e non soddisfatta. L'aspirazione alla rottura del quadro è quindi connaturata al cinema, è il dispositivo che ne rende palese il suo fondarsi sul desiderio, è la messa in scena della lacerazione e insieme la tendenza alla ricomposizione, caratteristiche che fanno appunto del cinema un'arte ancora squisitamente moderna ma già protesa verso la fine della modernità. L'immersione dello spettatore, la sua diretta entrata in scena (o l'irruzione della finzione nella realtà, movimento opposto ma consustanziale) è un sogno che percorre tutta la storia del cinema, ben prima di La rosa purpurea del Cairo, un sogno costellato di plateali insuccessi (Sensorama) o di mezze affermazioni e successivi oblii (Cinerama, cinema 3D, fino all'attuale sistema Omnimax). Ma il sogno della rottura del quadro non è solo questo. Segnala anche un'altra caratteristica, che in certo modo è comune ad ogni sistema testuale, ma che nel cinema, in quanto medium caratteristico dell'industria culturale, ha assunto un peso particolarmente rilevante: la collaborazione dello spettatore, o, come lo ha definito più esplicitamente Alberto Abruzzese, "il lavoro dello spettatore". "La parte più colossale della fabbrica dell'industria culturale", scrive Abruzzese in La grande scimmia, "non emerge in modi analoghi a quelli della produzione di merce, ma si nasconde nei meccanismi collettivi e individuali della memoria, dell'inconscio, della nevrosi. Il lavoro globalmente espresso dai processi consci e inconsci del consumo e della circolazione sovrasta di gran lunga il lavoro salariato direttamente impegnato nella produzione." Il consumatore è chiamato a investire tutta la sua competenza cognitiva, tutta la sua partecipazione emotiva, nel processo di chiusura del testo filmico, nella produzione del senso. Oggi le RV sembrano radicalizzare e portare a compimento entrambe queste caratteristiche del cinema. Soprattutto le RV di tipo immersivo promettono allo spettatore un'immersione totale e plurisensoriale in un ambiente tridimensionale, realizzando quindi, forse in modo eccessivo, quella rottura del quadro, quella dissoluzione della cornice che abbiamo indicato come tensione essenziale del cinema. E insieme garantiscono una partecipazione ben più profonda e globale al processo di produzione di senso del flusso di immagini: nella RV la collaborazione dello spettatore diventa in qualche modo partecipazione alla creazione, perché l'interattività rende privo di senso l'assistere a eventi completamente decisi da altri. Lo spettatore diviene quindi partecipante e, entro i limiti permessi dallo spazio virtuale offerto dal progettista, in qualche modo "coautore" degli eventi che vi si svolgono. La RV, in questo senso, rende letterale la metafora del viaggio su cui si fonda gran parte della letteratura e del cinema. E sono tanto più significative le RV in cui è resa esplicita questa intenzione, ma al contempo sono ridotti al minimo i suggerimenti al viaggiatore da parte dell'autore, il quale si limita a fornire degli indizi su cui il partecipante può costruire il suo itinerario. In questo caso il viaggio risulta più affine che in altri casi a un viaggio interiore, come accade per esempio nell'installazione Satori di Mario Canali, in cui il partecipante è chiamato a una serie di scelte multiple entro uno spazio strutturato dall'autore, che però diviene significativo solo in relazione al percorso scelto. Intenzioni troppo radicali, si è detto, che rischiano, realizzandone un sogno, di distruggere ogni fiction, ogni meccanismo di costruzione della narrazione. Se la condizione per esplicitare il "lavoro dello spettatore" o del lettore, infatti, è l'opacità del testo, l'eccessiva "trasparenza" della RV rischierebbe di vanificare quel lavoro, perché non offrirebbe abbastanza "resistenza". In realtà, per quanto riguarda il cinema, per esempio, non sono mancati i tentativi di ampliarne i confini teorici, già prima dell'apparizione delle RV. Uno dei più stimolanti fra questi tentativi è quello di Gene Youngblood. "Oggi è importante," scriveva nel 1986 lo studioso americano, "distinguere il cinema dal suo medium proprio come non identifichiamo la musica con nessuno strumento particolare. Il Cinema è l'arte di organizzare un flusso di eventi audiovisuali nel tempo. È un evento-flusso, come la musica. Per praticare il cinema disponiamo di tre media: il film, il video, il computer. La nozione di cinema dilatato [expanded cinema] è tecnica, in termini di nuovi strumenti per generare gli eventiflusso audiovisuali, ma anche sociologica. Ritengo politicamente e socialmente più utile, più appropriato questo modo di pensare al cinema, che non il definirlo in termini di un medium specifico" (Youngblood, in Metamorfosi della visione, 32). Ma l'adesione alla proposta di Youngblood (che all'expanded cinema aveva dedicato un libro profetico già nel 1969) non sposterebbe comunque i termini del problema. L'apparizione di un nuovo medium, con le caratteristiche che abbiamo detto, costituisce comunque un salto di qualità, una "rottura" percettiva e cognitiva che si ripercuote su tutto il sistema dei media precedenti, e che va quindi studiata nelle sue componenti e nei suoi effetti. E sul cinema la new wave immersiva ha già cominciato a produrre i primi effetti. Ben oltre l'approccio classico alla rottura dello schermo che si trova in La rosa purpurea del Cairo (1985) di Woody Allen, e che riprende analoghi tentativi della tradizione futurista e neofuturista, da Majakovskij al nostro Gianni Toti, è Oliver Stone che ha finora espresso più chiaramente l'influenza del "virtuale" sul cinema, con il suo Natural Born Killers (1994). La storia della fulminante carriera di Mickey e Mallory (gli "assassini nati"), della loro trasformazione in idoli dei giovani, della manipolazione del cinico e rampante presentatore televisivo Wayne Gayle in nome dell'audience, ha creato molto dibattito, che però si è concentrato principalmente sui presunti effetti negativi della rappresentazione della violenza (vecchio sport a cui indulgono di solito i media che più di altri sulla violenza e sulla volgarità costruiscono il proprio successo), e ha invece lasciato in ombra gli aspetti formali del film. Qui Stone mira a indurre nello spettatore (e secondo me, almeno per tutto il primo tempo, ci riesce magnificamente) una sensazione di vera e propria immersione nel mondo dello schermo, un'esperienza di scomparsa del confine: mira insomma, direttamente e consapevolmente, alla dilatazione dei confini e al superamento del cinema tradizionale. Per realizzare questo risultato Stone ha combinato due tradizioni diverse della storia del cinema: quella del cinema surrealista di Dalì, del primo Buñuel e di Man Ray (lo scorpione schiacciato dalla ruota del Tir non è una citazione da L'âge d'or?), e quella del "cinema-verité", rappresentata dalla continua alternanza del colore e del bianco e nero, e dagli ipnotici movimenti della camera, che anche nelle scene più "realistiche" oscilla in continuazione da destra a sinistra, simulando i movimenti della camera a spalla che poi esploderanno verso la fine, nella scena della fuga dal penitenziario. Ma poi ha filtrato questi riferimenti attraverso vent'anni di cultura di massa, cioè attraverso la lettura e la volgarizzazione che ne hanno dato la televisione e soprattutto i videoclip musicali. Stone usa una continua contaminazione di linguaggi disparati, un pastiche appunto di televisione (la vita familiare di Mallory prima della sua fuga con Mickey è narrata come una sitcom, con tanto di risate intercalate e titoli di coda che scorrono velocissimi), di videoclip (il bombardamento delle immagini che durano frazioni di secondo, il montaggio velocissimo), di scene di repertorio. Il nostro occhio è già abituato a vedere quelle immagini, ma l'effetto della loro combinazione è sconvolgente. In molte scene gli sfondi e il paesaggio non sono quelli di una rappresentazione "realistica", ma sono evidenti proiezioni dell'immaginario dei due protagonisti o di altri personaggi: così è quando Mickey e Mallory viaggiano in macchina, così è negli "esterni" che si vedono dalle finestre della camera del motel in cui fanno l'amore (e l'effetto è replicato in una scena analoga in cui Scagnetti, il poliziotto che li arresterà, strangola una prostituta). È l'interno che si rovescia sull'esterno, l'esterno che implode verso l'interno, è la fusione di uomo e paesaggio che già Ballard aveva anticipato. Si potrebbe in realtà sostenere che l'uomo conosce già da tempo un'arte tridimensionale e immersiva, l'architettura, e che questo non ha impedito lo sviluppo di altre arti bidimensionali e "contemplative", dalla pittura al cinema. Ed è verissimo. La pittura (come la fotografia e il cinema) esprime una forma di desiderio ben diversa dall'architettura. Quest'ultima ha dalla sua il fascino di uno spazio strutturato, immersivo, la possibilità di un rapporto più diretto e coinvolgente con il corpo di chi la abita, ma funziona meno bene della pittura come "mondo possibile", è troppo legata al valore d'uso materiale, abitativo o culturale (se non nel caso delle architetture simulate del teatro e del cinema, o nel caso dei progetti che rimangono tali senza essere realizzati, come per esempio quelli di Sant'Elia, che sono appunto, proprio per questo, più simili alla pittura o al disegno). Finché non si trova altro modo di strutturare lo spazio in cui immergersi che non sia la manipolazione diretta, a varie scale, della materia, l'architettura e il design si rapporteranno all'immaginario in forma sempre molto mediata, anche se non per questo meno significativa. Ma le RV, più ancora dello schermo curvo e avvolgente dei sistemi Imax, rappresentano proprio la possibilità di agire il progetto senza dover sottostare alle limitazioni della sua realizzazione materiale, spingono ad esplorare e ad esplicitare quelle che Benedikt ha chiamato le "dimensioni intrinseche" dello spazio (Cyberspace, 143 sgg.), e pur conservando perciò molte caratteristiche dell'architettura tradizionale, sono però molto più adatte di quella all'attività di costruzione e di esplorazione dei mondi possibili: avvicinano l'architettura alle arti più immateriali in modo sinora impensabile. Come ha scritto Marcos Novak, "una architettura liquida nel ciberspazio è chiaramente una architettura smaterializzata, che non si accontenta più solo dello spazio, della forma e della luce, e di tutti gli aspetti del mondo reale. È una architettura di relazioni mutevoli tra elementi astratti. È una architettura che tende a diventare musica. (...) La musica era un tempo la più effimera delle arti, che sopravviveva solo nella memoria dei suonatori e degli ascoltatori. L'architettura era una volta la più durevole delle arti, che si estendeva nelle caverne della terra e cambiava con la lentezza dei cambiamenti del pianeta stesso. [Le tecniche digitali] permettono oggi alla musica di diventare la più permanente delle arti. Al contrario, il tempo di vita della architettura sta rapidamente diminuendo. Per molti aspetti l'architettura è diventata la meno durevole delle arti. L'architettura smaterializzata, danzante, difficile, del ciberspazio, fluttuante, eterea, instabile, trasmissibile simultaneamente a tutte le parti del mondo ma tangibile solo in modo indiretto, può diventare l'architettura più duratura che sia mai stata concepita" (Novak, in Cyberspace, 261-262). Le RV sono già oggi un efficace strumento di ricerca scientifica e tecnologica, un ausilio significativo per la progettazione e la comunicazione: non sono ancora, se non marginalmente, uno strumento espressivo. Le prime sperimentazioni da parte di alcuni artisti suggeriscono che il lavoro di costruzione delle possibilità linguistiche di questo mezzo sia ancora lungo: ed è sempre in agguato la tentazione di limitarsi ad adattare al nuovo mezzo esperienze e realizzazioni tipiche dei media precedenti (anche questa è storia già vista: è successo col libro a stampa nei confronti del manoscritto, col cinema nei confronti del teatro, e così via). Ma, se la ricerca prosegue, le vie per valorizzare al massimo le possibilità intrinseche del nuovo mezzo emergeranno. C'è chi teorizza, invece, che le RV non possano intrinsecamente diventare un nuovo strumento narrativo, che impediscano ogni attività simbolica, che distruggano le condizioni di una fruizione attiva. Credo che questa preoccupazione si basi su una concezione sbagliata dello spazio virtuale come spazio neutro, vuoto, in cui le possibilità del fruitore/partecipante possono dispiegarsi in modo totalmente libero, senza scontrarsi con alcun limite, e senza quindi poter dar luogo ad alcuna esperienza emotiva o estetica. Chiunque abbia fatto esperienza di un mondo virtuale (anche in un banale e ripetitivo videogioco) senza farsi accecare dal pregiudizio negativo, sa che non è così. "Il mondo non è mai informe né vuoto," ha scritto Brenda Laurel, "è saturo di risorse e di potenzialità. L'atto non è mai proteiforme, è sempre collaborativo. Tutte le arti sono conversazioni fra gli artisti e i partecipanti, mediate da strumenti e da tecniche. La RV promette un tipo speciale di conversazione (lo stadio successivo, dal punto di vista logico, al teatro di partecipazione e ai videogiochi), nel quale gli artisti e i partecipanti sono entrambi creatori. (...) Riconoscendo il progetto come un elemento necessario nella creazione delle RV, ci si apre alla considerazione della forma, dell'estetica e dell'arte. A livello minimo, ciò significa progettare degli strumenti amichevoli per la gente che voglia crearsi il proprio mondo e la propria esperienza virtuali. A livello massimo, significa scoprire il modo di progettare in parte o in tutto questi mondi, incluso qualsiasi personaggio 'artificiale' che li abiti, per mettere in grado le persone di vivere delle esperienze forti, interessanti e piacevoli" (Laurel, in Realtà virtuale, 104105). Nelle RV le condizioni del racconto, e della rappresentazione, si trasferiscono dall'intreccio allo scenario, dalla pittura all'architettura (immateriale), dalla temporalità regolamentata della visione cinematografica (la "durezza della durata" di cui parla Bettetini, v. Il segno dell'informatica, 67) alla libertà del tempo interno. In un possibile cinema totale e immersivo, infatti, la temporalità è controllabile dal partecipante, e non c'è più bisogno di riferimento a una "realtà d'origine", perché la realtà fa già parte dell'esperienza del partecipante, e la sua natura di simulacro è ricostruibile solo a posteriori, o dall'esterno. Il simulacro, insomma, è fuso con la realtà (come già lamentava Baudrillard, e come invece piaceva a Deleuze). La distanza tra l'occhio che vede e l'oggetto che viene visto, sulla quale si è fondata l'esperienza moderna, e non solo nel dominio delle arti visive, nell'esperienza digitale si riduce quindi sempre più. Si riduce anche la differenza tra quegli elementi del mondo che sono dati fuori di noi, al di là delle nostre possibilità di modifica, frutto dell'azione delle leggi fisiche e di un cieco processo evolutivo (o dell'attività di un "progettista supremo"), e gli elementi che derivano dalla nostra azione creatrice. Non si tratta solo della considerazione (che aveva già fatto Diderot, che era stata poi ripresa da Sartre) che la cultura è essa stessa un fenomeno "naturale", perché è la modalità di interazione col mondo di un essere creato dalla stesse forze che hanno creato i fiumi, i mari e le montagne. C'è qualcosa di più specifico, che ci lega sempre più al nostro ambiente, ci immerge in esso, ci impedisce di considerarci esterni al mondo. Da un lato, per esempio, con i satelliti artificiali e i telescopi spaziali, noi possiamo oggi condividere con l'ipotetico "progettista supremo" una visione dei pianeti, dei mondi e delle galassie altrettanto "esterna" della sua (e lo disse molto bene, anni fa, Alberto Boatto nel suo libro Lo sguardo dal di fuori). D'altro lato, il lavoro della tecnologia di cui quei satelliti e quei telescopi sono una parte, ha ormai definitivamente trasformato il paesaggio di cui facciamo parte in un paesaggio artificiale. Intanto perché anche quella che ci ostiniamo a considerare "natura" dipende invece ormai sempre di più dalle scelte generali (energetiche, di politica economica, di ogni tipo) dell'umanità, scelte che sono sempre meno affidate ai governi nazionali o alle organizzazioni sovranazionali, e sempre più alla politica delle grandi aziende multinazionali. E poi perché la nostra esperienza del mondo è sempre più un'esperienza "mediata", nel senso che dipende organicamente e totalmente dai mezzi di comunicazione a cui siamo collegati: il paesaggio umano, l'abbiamo visto, è un media landscape, un paesaggio dei media. La comparsa della possibilità di uno "sguardo dal di fuori" sul pianeta e sull'universo, l'artificializzazione del paesaggio, segnalano un processo più vasto: la fine della possibilità di separare l'osservatore, il soggetto, dall'oggetto che egli osserva. "Il fatto che l'uomo va posto all'interno e non all'esterno del paesaggio è un dato che emerge dalla vita quotidiana prima che dall'architettura. Le persone ormai non appartengono più a se stesse, ma al luogo in cui si muovono: esse sono elementi mobili di ambienti a cui possono essere aggiunte o tolte senza che l'insieme muti sostanzialmente" (Perniola, 113). Se localmente possiamo praticare lo "sguardo da fuori", globalmente siamo condannati (o liberati) a uno "sguardo da dentro". La rottura dello schermo, della cornice della rappresentazione operata dalle RV immersive, vista in questo contesto, significa la fine dei tradizionali codici della rappresentazione, il loro superamento, la loro riscrittura nei termini del nuovo sogno immersivo e interattivo. Quella rottura, al fondo, rimanda alla fine della separazione tra rappresentazione e vita, all'abbandono delle possibilità "demiurgiche" dell'arte, alla morte dell'immaginario collettivo. Possiamo chiederci: oggi abbiamo ancora bisogno di codici? abbiamo ancora bisogno di immaginario collettivo? O non dovremmo finalmente provare, adesso che abbiamo strumenti adeguati, a fare della nostra vita quotidiana un'opera d'arte? Telefono tattile Non ci deve stupire che alcune delle esperienze più significative di disseminazione del corpo (e di quelle che hanno avuto più spazio sui giornali e alla televisione) sia legata al sesso. Dai libri al telefono, dalle videocassette ai CD-Rom, all'inizio della loro storia quasi tutte le nuove tecnologie comunicative hanno attraversato una fase legata al sesso e alla pornografia. Non credo che ci sia bisogno di spiegarne la ragione. Il sesso è la più fondamentale forma di comunicazione all'interno della specie, il che equivale a dire che la sua sostanza biologica di strumento della riproduzione, cioè della sopravvivenza collettiva della specie, è fin dall'inizio investita e ristrutturata dalla cultura: l'autonomia della sessualità umana dalla riproduzione è insomma ben precedente alla moderne invenzioni di strumenti contraccettivi su vasta scala. In questa veste, la sessualità è una degli àmbiti dell'umano più fortemente istituzionalizzati, e perciò anche uno dei primi terreni su cui si giocano e si sperimentano tentativi e forme di trasgressione e di liberazione. Detto in modo più semplice e sbrigativo, la pornografia è vecchia quanto l'uomo, nello stesso modo in cui lo è la famiglia, cioè lo strumento più fondamentale di istituzionalizzazione della sessualità. Il cibersesso non ha aspettato le realtà virtuali per svilupparsi, ed è un terreno aperto (almeno in paesi come gli USA) da molto tempo prima che da noi si sviluppassero i vari 144. Tuttavia un passo avanti decisivo su questo terreno si ha quando alle tradizionali esperienze cibersessuali di "deprivazione sensoriale" (come dice Helèna Velena), cioè quelle telefoniche, o quelle telematiche basate sullo scambio di testi e di messaggi, si affiancano possibilità interattive anche a livello del tatto. Questo è un ideale terreno di coltura per i processi del corpo disseminato. Per restare all'Italia, è possibile fissare con una certa precisione l'atto di nascita di questo nuovo capitolo del cibersesso. 1994: a Erotica 94, terza edizione della fiera dell'erotismo tenutasi a Bologna, una delle principali attrazioni era la tuta Cyber SM, realizzata alla Scuola superiore di media e comunicazione dell'Università di Colonia dall'americano Kirk Woolford e dal norvegese Stahl Stenslie, e già presentata nello stesso anno al pubblico europeo in una sessione telematica tra Parigi e Colonia. La presentazione della tuta, affidata alla pornoattrice Milly D'Abbraccio e alla "sacerdotessa del cybersex" Helèna Velena, fu affollatissima ma (dicono le cronache) deluse gli spettatori, che cercavano evidentemente un'interattività fra loro e l'attrice, più che una dimostrazione dal palco. La stampa registrò l'evento sottolineandone solo, come c'era da aspettarsi, gli aspetti pruriginosi e le dichiarazioni scomposte della D'Abbraccio: e questo ebbe il suo peso anche nella successiva rottura fra Stenslie e Woolford (tutto l'episodio è ricostruito, dal punto di vista di Helèna Velena, nel suo libro Dal cybersex al transgender). La tuta Cyber SM, però, solleva tutta una serie di problemi relativi al corpo telematico e all'identità, che emergono già dalla semplice descrizione dell'oggetto e del suo funzionamento. Per maggiore chiarezza, riporto, riassumendo qua e là, ciò che ne ha scritto la stessa Velena nel catalogo della manifestazione. "Il cuore del sistema è un software scritto su piattaforma Macintosh Quadra, uno stack di hypercard che si compone di vari elementi. Abbiamo un database grafico, che comprende al momento una ventina di torsi e altrettanti bacini, sia maschili che femminili. Tali file sono delle scannerizzazioni 3D che servono per comporre il corpo con cui ci si vuole rappresentare all'altra/o utente, anzi cyberamante. Nulla vieta di utilizzare un'immagine rappresentante esattamente il proprio corpo, salvo il fatto che l'accesso a uno scanner 3D non è al momento una cosa proprio semplice né economica. Altro elemento importante è la finestra di visualizzazione, che ci permetterà di vedere il 'corpo di rappresentazione' del/la cyberamante. Tale corpo potrà essere zumato e ruotato a piacere, fino a raggiungere la zona, erogena o meno, che si desidera stimolare. La stimolazione avverrà cliccando con un mouse, o meglio ancora con una trackball, nell'area prescelta, e ciò determinerà una reazione della parte corrispondente della tuta indossata dal/la cyberamante. Una serie di pulsanti permetteranno di memorizzare e quindi presettare delle azioni specifiche, anche in sequenza. Lo stack consente pure una connessione vocale via ISDN, che permette agli/le utenti di parlarsi per creare quell'alchemica atmosfera di stimolo cerebrale e di eccitazione sensoriale che è essenziale per creare una situazione sessuale reale e non meccanica. Una serie di filtri permettono inoltre di alterare la frequenza delle voci, rendendole non più identificabili sotto il profilo del sesso. Al Macintosh va poi interfacciata la tuta vera e propria. Questa, costruita in gomma e parzialmente in fibre di carbonio, è già di per se stessa un oggetto decisamente fetish. La parte più evidente della tuta è rappresentata dalla protuberanza nera falliforme sita in mezzo alle gambe. Si tratta in realtà di un contenitore che accoglie un fallo penetrante e vibrante nel caso che la tuta sia indossata da una creatura con genitali femminili, e un fallo cavo risucchiante nel caso sia indossato da una creatura con genitali maschili. Un secondo vibratore, anale, è disposto nella parte posteriore della tuta. Su buona parte della superficie del corpo (braccia, gambe, mani, fronte, torace e seno) sono invece piazzati sensori, dischi termici, fasce vibranti e vari gadget di stimolazione, oltre ad alcune pinzette che fanno da conduttrici di scariche elettriche a intensità regolabile" (velena, Erotica 94, 35-38, poi in Dal cybersex al transgender, 148-150). Per primitiva e rozza che sia, questa tuta realizza dunque una possibilità di stimolazione sessuale reciproca fra due diverse persone che permette di non tener conto di appartenenze di sesso, preferenze sessuali nella vita ordinaria o aspetto fisico. A quanto dichiara la stessa Velena, "il meccanismo di funzionamento del Cyber SM, dovendosi utilizzare il mouse per azionare, ruotare o zumare le digitalizzazioni 3D del corpo del proprio cyberamante, benché stupendo da vedere o da raccontare, era ben poco stimolante da usare. Troppo macchinosa e lontana dalle forme di comunicazione corporea tradizionale, troppo basata sulle periferiche e sul computer in se stesso, e, per assurdo, troppo poco fisiologica" (Dal cybersex al transgender, 155). Velena e Stenslie hanno quindi successivamente progettato un secondo prototipo, chiamato InterSkin, che conserva le premesse del modello precedente, ma semplifica le procedure di stimolazione reciproca: invece di azionare il mouse per eccitare il (o la) partner, infatti, qui l'utente accarezza e stimola se stesso, e il computer trasferisce la sollecitazione nell'area corrispondente del corpo del (o della) partner. Velena commenta a questo proposito: "Una volta tanto, finalmente, in onore di chi di questa parola ha abusato, si riesce a fare l'amore con una creatura virtuale. Perché virtuale è il partner non presente che ci tocca, ci accarezza, ci stimola e attiva i microvibratori e i sensori sparsi nella tuta. Noi ci tocchiamo, ci accarezziamo, amiamo noi stessi/e, e, mentre lo facciamo, un'altra creatura virtuale, impalpabile, invisibile, immateriale, tocca, accarezza, stimola, ama, penetra noi stessi/e" (Dal cybersex al transgender, 157). Già negli anni Sessanta le prime esperienze di telepresenza permettevano di manovrare a distanza un robot che si trovava in ambienti nocivi o ostili (per esempio nello spazio), mentre il manovratore stava al sicuro in un laboratorio (telerobotica). L'ambiente in cui operava il robot, ripreso da una telecamera, appariva su uno schermo al controllore umano, che poteva così vedere i movimenti del robot e i suoi effetti, e calibrare conseguentemente i comandi per raggiungere gli obiettivi desiderati. Le tecniche di RV hanno migliorato sensibilmente la telerobotica, consentendo all'operatore umano di percepire in modo molto più realistico l'ambiente fisico in cui opera il robot. Anziché su uno schermo, questo ambiente viene infatti ricostruito in tempo reale con tecniche di grafica computerizzata, e l'operatore si immerge nell'ambiente virtuale indossando lo Head Mounted Display, il casco con visori della RV; indossando il Data Glove™, o un analogo guanto, magari con dispositivi tattili o di ritorno di forza, l'operatore comanda poi i movimenti del robot con gli stessi movimenti della sua mano, invece che tramite leve e manopole come nei sistemi tradizionali. (Fisher, in Realtà virtuale, 109-119). Con il casco e il guanto, insomma, egli vede, sente e tocca ciò che vedrebbe e toccasse se si trovasse davvero sul posto, mentre il suo corpo si trova nel suo solito laboratorio. La telerobotica a RV realizza quindi un'estensione integrale del corpo dell'operatore, che si trova in qualche misura in due luoghi differenti: quello in cui si trova il suo corpo fisico, "attuale", e quello in cui si trova il corpo robotico, di per sé inerte, la marionetta animata a distanza dai movimenti dell'operatore. Questo è già, embrionalmente, un corpo disseminato: c'è già un "corpo virtuale", non nella forma di un corpo fisicamente inesistente che produce però gli stessi effetti di un corpo reale, ma nella forma di un unico "centro di comando" che muove due corpi fisicamente distanti. Per l'operatore la sensazione, per quanto non esattamente identica, è analoga a quella che si prova manovrando un esoscheletro (come quello entro il quale Sigourney Weaver combatte l'alieno nella scena finale di Aliens), che invece di per sé non è altro che una "simulazione di cyborg", nel senso che il contatto tra organico e inorganico avviene solo alla superficie. Nella telerobotica tradizionale la sensazione di spaesamento è enorme, poiché si guarda l'ambiente remoto su uno schermo e si è costretti a immaginare di trovarsi là, mentre nella telerobotica a RV questa sensazione è molto ridotta. Tuttavia in entrambi i casi c'è la stessa meraviglia dell'esperienza in esoscheletro: all'improvviso ci si trova dotati di un corpo più grande, di arti più potenti, addirittura di organi inesistenti (pinze, benne), e gli usuali, familiari movimenti del nostro corpo si traducono nei movimenti di qualcosa di estraneo, di un meccanismo che diventa "corpo" grazie a noi. Quello che nella telerobotica impedisce al corpo disseminato di sviluppare tutti i suoi effetti è proprio la presenza del robot che si muove all'unisono con noi. È vero, il nostro corpo sembra dislocarsi, avere effetto in un luogo diverso da quello in cui agisce la nostra fisicità. C'è un transito, ma il transito ci porta davvero in un altro luogo, un luogo materiale, e in quest'altro luogo non c'è nulla di umano, o meglio, non c'è nulla di umano in più di quanto gli abbiamo messo dentro noi, con la nostra azione. Nella RV immersiva senza effettori robotici l'esperienza è diversa. Anche qui c'è una dislocazione del corpo: noi muoviamo i nostri arti, giriamo la testa, e ciò ha lo stesso effetto che ha nel mondo reale, ma allo spazio degli effetti manca una delle caratteristiche dell'usuale spazio quotidiano, cioè la materialità. Sia l'effetto di realtà, dunque, che l'eventuale interazione con altri soggetti che abitino lo stesso spazio virtuale, sono immateriali. Metto il casco, indosso il guanto: mi trovo in uno spazio tridimensionale, per esempio una stanza, che risponde ai movimenti della mia testa, rivela ai miei occhi ciò che rivelerebbe uno spazio materiale: prospettive differenti, però coerenti con l'ipotesi di un unico ambiente che mi si mostri di volta in volta diverso in relazione alla diversa posizione dei miei occhi. Di me stesso vedo solo una mano, forse una parte di braccia, di gambe: più o meno quello che vedrei nel mondo reale. Nella stanza ci sono anche altri esseri: possono apparirmi in qualsiasi forma, ma io posso avvicinarmi o allontanarmi da loro come farei nel mondo reale, posso sentire le loro voci, forse toccarli e sentirne la resistenza, come posso toccare e sentire la resistenza o le caratteristiche della superficie degli oggetti, se il mio guanto è dotato di dispositivi tattili o di ritorno di forza. Ma tutto ciò ha effetto solo sulla mia percezione dell'esterno, non su quello che capita al mio corpo fisico. Ecco il primo stadio del corpo disseminato. Io percepisco i corpi degli altri, anche lontani, come se fossero vicini (sotto forma di simulacri); quanto a me, continuo a percepire il mio corpo nel modo usuale, ma gli effetti di questo corpo avvengono in uno spazio diverso dal mio, e con modalità dissimili. Questo non è un limite delle attuali tecnologie, superabile in uno stadio più avanzato, ma un limite intrinseco, se non prevedo dei dispositivi che agiscano direttamente sul mio corpo. In questa situazione di disseminazione corporea c'è quindi una asimmetria fra me e il resto del mondo, ivi comprese le eventuali altre persone che abitano con me questa simulazione. Potremmo chiamare questa situazione "corpo disseminato unidirezionale". L'esperienza del corpo disseminato, in verità, non nasce con le RV. A essa siamo stati preparati da un mezzo di comunicazione ben più antico e radicato ormai nella nostra quotidianità: il telefono. Non a caso è stato detto che la telefonia è la prima forma di ciberspazio. Al telefono noi sperimentiamo uno spazio virtuale, immateriale non nel senso che non è basato sulla materia (i cavi su cui viaggiano i segnali elettrici, che poi il microfono, o il sintetizzatore digitale, convertono in suono, hanno ben una consistenza fisica, come i commutatori e le centraline), ma nel senso che le sue caratteristiche sono costruite dal nostro cervello sulla base di un insieme di informazioni limitato, appunto la voce del nostro interlocutore. Su questo solo dato noi siamo in grado di creare una situazione di relazione con lui (o con lei), di estrapolare il suo aspetto fisico, di costruire un corpo immaginario (parzialmente o totalmente, a seconda che già conosciamo o no chi ci parla). La voce telefonica è già una prima forma, embrionale, di disseminazione del corpo: una forma completamente simmetrica. Non solo gli effetti delle due voci sono gli stessi sui due interlocutori, ma nel ciberspazio del telefono non c'è alcun altro elemento col quale io possa relazionarmi in modo diverso da quello del puro suono. Il corpo virtuale telefonico è pura voce, e ogni corpo virtuale ha sull'altro un effetto che è limitato a questo solo aspetto (e a quanto dalla voce dell'altro ognuno è in grado di ricavare come contenuto informativo e come strategia relazionale). Ora, la tuta del cybersex di Stahl Stenslie (soprattutto la seconda versione, InterSkin, ma per certi versi anche la prima) non è altro che un telefono tattile. Essa realizza una situazione di "disseminazione bidirezionale del corpo", nel senso che in quel particolare ciberspazio il corpo che accarezza e tocca a distanza viene a sua volta accarezzato e toccato a distanza, da un altro corpo che il primo percepisce nella forma con cui il suo partner ha deciso di comparire. L'effetto di realtà è sempre immateriale, ma l'interazione in questo caso è materiale, perché essa agisce direttamente sul corpo del partecipante. Ciò sarebbe ancora più accentuato in un'eventuale futura versione di InterSkin in cui la visualizzazione non avvenisse su un monitor, ma tramite un sistema di RV immersiva. Non è detto che un corpo disseminato bidirezionale sia "più avanzato" di uno monodirezionale: dipende dall'uso che se ne fa. Anche l'asimmetria, e le interazioni immateriali degli spazi virtuali senza effettori robotici, hanno il loro fascino. Quello che è importante notare è che comunque, nelle RV immersive di ogni tipo, il rapporto con lo spazio virtuale dipende sempre meno da una proiezione immaginaria, mentale del partecipante (come avviene nella lettura di un libro, o nella visione di un film), e sempre più dalla percezione sensoriale diretta dello spazio stesso. Ciò non significa che la RV annulli d'un colpo il lavoro di mappature, congetture e interpretazioni che ognuno di noi fa in presenza di una nuova esperienza, anche di spazi immaginari o simulati, ma solo che questo lavoro coinvolge adesso l'insieme dei sensi, e non solo più facoltà mentali "superiori" come l'immaginazione. Noi sappiamo quanto lavoro mentale vi sia, in realtà, dietro a quella che appare come una "semplice e immediata" percezione di un oggetto (attuale o virtuale, da questo punto di vista, poco importa), ma questa attività è per la quasi totalità inconsapevole. Ecco perché il computer, come dice Mario Canali, appare oggi come una macchina dell'inconscio . Canali sta tentando di dimostrarlo, nei suoi lavori più recenti, con un progetto che, accantonando inizialmente le RV immersive per tornarvi eventualmente in un momento successivo, utilizza tecnologie di origine biomedica, soprattutto sensori. La prima realizzazione di questa nuova fase è stata l'installazione Ulisse, presentata per la prima volta nel 1995 alla mostra torinese ARSLAB - I sensi del virtuale: il partecipante, seduto su un trono, viene invitato a un viaggio (ispirato a un rito di iniziazione dei nativi americani), che il computer modula in relazione al suo battito cardiaco, rilevato da un sensore, e al movimento volontario rilevato da un accelerometro dissimulato in uno scettro agitato dal partecipante. Il battito cardiaco viene amplificato e trasmesso in olofonia, avvolgendo il soggetto seduto, mentre le immagini del viaggio scorrono su uno schermo posto di fronte a lui. Il viaggio termina con l'ingresso all'interno del cuore stesso: la sua immagine sintetica diventa sempre più grande, fino ad occupare tutto lo schermo (A. Caronia, "Il viaggio del tamburo", Virtual 26). Anche qui, perciò, una parte importante del nostro corpo, da cui dipende la nostra vita ma il cui movimento noi non siamo in grado di controllare coscientemente, viene esteriorizzata, per poi riassorbirci completamente. Nuovo paradosso del corpo artificiale: occorre che l'interno sia portato completamente all'esterno perché vi si possa rientrare, occorre un'attività cosciente e controllata come quella della tecnologia per rendere evidente l'attività inconsapevole e "automatica" del corpo. Come nella performance Fractal Flesh di Stelarc, in cui gli arti si muovono del tutto involontariamente, investiti dalla corrente elettrica attivata da qualcun altro, magari distante migliaia di chilometri. Come nella tuta Cyber SM, in cui il corpo è eccitato da un agente lontano e invisibile. È centrale, nella condizione del corpo disseminato, questa possibilità di controllo del corpo da parte di altri che non sia il "possessore" di quel corpo. Ma ciò non ha nulla a che fare con una prospettiva totalitaria, con l'incubo di un controllo malvagio, perché questa possibilità è del tutto reciproca: l'altro può controllarmi come io posso controllare lui (o lei). Come nella trance, come nelle possessioni rituali, si tratta piuttosto di una nuova condizione di neutralità, di impersonalità del corpo, di uno sfuggire al flusso ordinario della vita senza per questo inoltrarsi sul terreno della morte. In questa nuova condizione il corpo abbandona la sua dimensione organica e permanente, si presenta piuttosto come qualcosa di transitorio, qualcosa che si può tenere o abbandonare. Un vestito, insomma. Il corpo, dice Perniola, diventa "un corpo estraneo, o meglio una veste estranea che non appartiene a nessuno" (Perniola, 13). Non si tratta di una riedizione della prospettiva settecentesca dell'uomo macchina, non più di quanto si tratti della riproposizione di un punto di vista vitalistico. L'organico e l'inorganico si avvicinano, certo, ma non nel nome della riduzione di uno qualunque dei due all'altro: è piuttosto l'affiorare di un nuovo terreno intermedio e comune. Questo terreno, quello (per dirla sempre con Perniola) delle "cose" che pensano e sentono, è quello rivelato e agito nei processi di digitalizzazione che investono complessivamente la nostra realtà, nel flusso informativo che appare sempre più autonomo e indipendente dalle scelte non solo dei singoli, ma delle collettività tradizionali. Su questo terreno ha sempre meno senso l'opporre il mentale al fisico, il pensiero all'azione. Questo corpo disseminato e impersonale, puro estrinsecarsi di attività che risulta difficile attribuire a un soggetto individuale, non può che farsi attraversare da una sessualità altrettanto impersonale, altrettanto neutra, che proprio per questo può incontrarsi col pensiero, con la riflessione, con la filosofia insomma, in nome di una comune disposizione all'estremità. "Nella sessualità neutra l'eccesso filosofico e quello sessuale attingono nutrimento l'uno dall'altro: l'avventura filosofica sembra insipida e appannata se non implica almeno la possibilità di transitare in dimensioni reali, e viceversa l'avventura sessuale resta triviale e snervata se non si accompagna a una determinazione di perseguire conseguenze estreme che appartiene al pensare filosofico. Questo connubio tra filosofia e sessualità, che nell'esperienza dell'Occidente è sempre stato implicito e virtuale, si dispiega oggi con dirompente invadenza perché tanto l'una quanto l'altra giungono a inglobare in se stesse quanto ancora resisteva loro come opposto e inaccessibile: il modo di essere dell'inorganico, della cosa, del non vivente e del non funzionante" (Perniola, 16-17). Derive dell'identità "Il mondo nel quale viviamo, dal quale dipendiamo e nel quale perennemente troviamo e ritroviamo le ragioni della nostra identità e le finalità del nostro agire, è l'illusione prodotta e proiettata su schermo gigante da parte di un sistema illimitatamente complesso di emittenti di ogni formato e di ogni consistenza tecnica, che lavorano in connessione casuale e virtualmente infinita. Ogni emittente può essere virtualmente captata da ogni ricevente, e ogni ricevente può farsi emittente per altre riceventi, mentre, naturalmente, ogni emittente può funzionare in certe condizioni come ricevente, a patto che si riesca a penetrare la pellicola protettiva con cui ogni emittente cerca di schermarsi per non essere piratata da altre emittenti. Ma piratare è possibile, falsificare è possibile, contaminare e deviare è possibile. Tutto è possibile, dunque. Non abbiamo nessuna garanzia del fatto che il flusso di segnali dei quali siamo riceventi sia proprio quello che proviene dall'emittente autorizzata. E risalendo da una emittente all'altra non troveremo mai un'Arciemittente, una emittente originaria e garantita, un'emittente vera e autorizzata che possa chiamarsi Realtà" (Berardi, 123). Può darsi che questa situazione non ci soddisfi, che addirittura ci lasci attoniti, allibiti, nauseati, che ci metta addosso la frenesia di sfuggirla, di rifugiarci in un grembo più stabile e gratificante. Molti di noi lo fanno: in fondo, non è impossibile vivere "come se" il lavoro fosse dato una volta per tutte, "come se" la televisione, o un giornale, o un guru, dicessero la verità, "come se" le nostre e le altrui scelte dipendessero da argomentazioni razionali, o magari da pulsioni irrazionali, ma comunque sempre in qualche modo descrivibili da un discorso razionale. Non è impossibile: è sempre più difficile, ma non impossibile, non ancora. L'accumulo di informazioni che ci sovrasta, il brutale allargamento degli orizzonti che ci si spalancano davanti, la torsione dei paradigmi interpretativi del mondo che tutti stiamo sperimentando, non sono ancora arrivati a comporsi in un quadro globale, fisso, stringente. Anzi, forse non ci arriveranno mai. Forse l'essenza del capitalismo postindustriale (se ce n'è una) è proprio quella di consentire tutti questi "come se", addirittura di favorirli, come comodi bozzoli in cui ciascuno possa incistarsi a suo piacimento, mentre il capitale, mobile e deterritorializzato come gli Sciti di Erodoto, costruisce i suoi profitti proprio sul sovraccarico informativo globale, sull'incertezza cognitiva e sull'angoscia comportamentale di ciascuno di noi. Perciò si può ancora vivere coltivando la credenza in una stabilità del reale e in una governabilità dei flussi informativi, si può vivere nella nostalgia del referente. Ma naturalmente, così facendo, non stabilizzeremo affatto il reale, né governeremo l'informazione: la nostra nostalgia non farà rivivere il buon, vecchio rapporto di sudditanza fra rappresentazione e realtà. Semplicemente non capiremo nulla di quanto ci avviene intorno. Saremo solo travolti dai processi, e neppure lo sapremo. Perché "il cambiamento delle condizioni dell'esperienza è diventato così profondo e destrutturante che gli schemi cognitivi acquisiti (i paradigmi dominanti) impediscono di vedere le nuove prospettive circostanti, impediscono di apprezzare le novità degli eventi mondani, e di mettere a frutto le potenzialità pratiche, produttive, che le nuove tecnologie di emissione dei segni hanno messo a disposizione" (Berardi, 14). Perché stiamo tutti mutando, come individui e come specie. Ancora una volta le RV funzionano come cartina di tornasole di questo processo. Come sempre quando un nuovo mezzo di comunicazione si profila all'orizzonte (o si è già affermato), nascono le preoccupazioni per i rischi che esso comporta. Se ancora adesso, che la televisione sembra sul punto di essere superata da nuovi e più potenti strumenti di informazione e di intrattenimento, si continua a discutere della sua pericolosità, perché non si dovrebbe fare lo stesso con il computer? Paul Virilio, che delle mutazioni della contemporaneità è uno degli osservatori più assidui, da anni ci ricorda che, come nel campo dei trasporti, così anche nella comunicazione, a ogni tecnologia è associato uno specifico incidente (Gambaro, Virtual N. 8). Col treno, con l'automobile, con l'aereo, l'uomo ha creato non solo l'accorciamento delle distanze, quando questi vettori funzionano nel modo corrispondente alla loro funzione, ma anche nuove, catastrofiche possibilità di malfunzionamento e di morte. Quali saranno gli "incidenti specifici" dei mezzi di comunicazione digitali? La pubblicistica corrente, non si saprebbe dire se inseguendo o istigando una supposta "opinione pubblica", ha già pronta la risposta: isolamento, spersonalizzazione, dipendenza, sono le nuove "malattie del digitale". L'immagine dell'uomo col casco che si isola dal mondo esterno e vive illusorie esperienze in mondi inesistenti è già diventata un cliché. Il digitale come una nuova droga, insomma, il discorso di Timothy Leary specularmente rovesciato contro le intenzioni del suo autore. Anche un intellettuale insolitamente moderato come Furio Colombo, quando i media erano nel pieno della loro esaltazione/esecrazione per le RV, si è lasciato trascinare dal luogo comune, spingendosi al punto da invocare il proibizionismo anche per questa tecnologia (La stampa, 20.5.1993). Questo malessere, che negli ultimi tempi ha un po' spostato il proprio oggetto, trasferendosi sul fenomeno più à la page, cioè su Internet, ha trovato il suo interprete più raffinato in Tomás Maldonado. Senza concessioni ai toni beceri e scandalistici della stampa, e neppure agli accenti apocalittici degli intellettuali più dichiaratamente nostalgici, Maldonado ha comunque voluto interrogarsi sulle ragioni della "sempre più ossessiva smania per i mondi evanescenti", sul processo che porta la civiltà occidentale a scegliere come suo strumento di rappresentazione emblematico (con la stessa funzione che in passato hanno avuto la scrittura e la stampa) "un sistema planetario di immagini destinate a essere vissute, secondo alcuni, come più reali del reale stesso" (Maldonado, 14 e 17). L'analisi che egli svolge è apparentemente equilibrata, e delinea luci e ombre, virtù e vizi di questo processo e del suo esito sempre più probabile. "Vi è un'ambivalenza di fondo nelle RV, anzi in tutta la cultura della virtualità," dice Maldonado (ibid., 58/59). Da un lato esse "spezzano il nostro legame con il mondo delle cose e dei corpi, assottigliano sempre di più la nostra possibilità di esperienza con l'universo della fisicità" (ibid., 67), e quindi "possono avere effetti deleteri su molti aspetti della nostra vita" (ibid., 53). Dall'altro però le RV si sono già dimostrate strumento importante nella ricerca scientifica, nella progettazione, nella medicina, nella robotica industriale. Ciò dipende dal fatto che, secondo Maldonado, oltre alle discontinuità tra il mondo reale e i mondi delle RV, ci sono anche forti elementi di continuità, perché "questi costrutti iconici sono stati elaborati sulla base della nostra esperienza passata" con il mondo reale (ibid., 67). E, discutendo sulla somiglianza tra le immagini del sogno e quelle simulate, e sulla natura del nostro vissuto in rapporto ad esse, egli conclude: "È evidente che le immagini computazionali ad altissima fedeltà, così come tutti gli altri 'fantasmi di veglia', non possono essere equiparate alle immagini sognate. La loro somiglianza è molto remota. Alla domanda: 'Le RV sono esperienze?' io non esiterei a rispondere affermativamente" (ibid., 58). Le RV sarebbero quindi esperienze che allontanano dall'esperienza? La contraddizione, dice Maldonado, è nell'oggetto dell'indagine, non nell'analisi. Se questo è vero, però, sarebbe forse il caso di riformulare le nostre categorie. Se il concetto tradizionale di "esperienza" ci conduce a una contraddizione così flagrante, forse è inadeguato. La posizione di Maldonado è interessante, perché tenta di sfuggire all'alternativa fra esaltazione acritica e altrettanto acritica denigrazione delle RV: ma per sottrarsi davvero a questa morsa ci sarebbe forse stato bisogno di più coraggio metodologico, si sarebbe dovuto scendere più in profondità, riconoscere più compiutamente la portata sconvolgente della rivoluzione autopercettiva operata dalle RV e più in generale dal nuovo quadro digitale. E a questo passo Maldonado non si risolve, perché ne è impedito dalla rigorosità e dalla classicità del suo approccio razionalista. Nel sottolineare la contraddittorietà del nuovo mondo digitale, Maldonado non è il solo a mettere l'accento più sui rischi che sui vantaggi, e a denunciare lo "straniamento dalla realtà" di cui le nuove tecnologie sarebbero portatrici. In Europa questa sembra essere la posizione più autorevole (se non la più diffusa) tra gli intellettuali, ma anche negli Stati Uniti si levano voci accorate che mettono in guardia dalla catastrofe del "sovraccarico informativo". Tra queste voci una delle più assidue è quella di Neal Postman, che dagli anni Settanta a oggi si è esercitato nell'eccitante attività di stanare i nemici della "cultura" americana, via via identificati nei movimenti radicali e liberal degli anni Sessanta, poi nella rivendicazione di visibilità delle culture etniche, nei gruppi fondamentalisti, nella televisione. Nel suo più recente libro tradotto in Italia (Technopoly, 1992) a tutto questo si aggiunge naturalmente il computer, e il salto di qualità che esso consente ai gruppi dirigenti legati alla tecnologia: questi ultimi starebbero ormai organizzando il passaggio dalla società della "tecnocrazia" alla società del "tecnopolio". Per Postman la questione fondamentale è quella dell'informazione, e dello stravolgimento della libertà di informazione che si opera appunto nell'era del tecnopolio. Nelle epoche precedenti la quantità di informazione disponibile non avrebbe raggiunto la massa critica solo perché funzionavano efficacemente alcuni meccanismi di controllo dell'informazione stessa (la religione, lo Stato, la burocrazia, la specializzazione del sapere). "Le parole del primo emendamento presuppongono e sono rivolte a un pubblico che non solo ha accesso all'informazione, ma ne possiede il controllo, si rivolgono cioè a gente che sa come usare l'informazione nel proprio interesse" (Technopoly, 65). Nel tecnopolio, invece, "crollano le difese contro l'eccesso di informazione, la vita istituzionale non basta più a gestire la troppa informazione, la cultura, sopraffatta dall'informazione generata dalla tecnologia, cerca di servirsi della tecnologia stessa per trovare orientamento chiaro e finalità umana" (Technopoly, 71). È sorprendente come Postman non riesca a scindere le tecnologie e il range di possibilità che esse aprono, dalla loro attuale gestione monopolistica: il computer, insomma, da Bill Gates. Il controllo sociale dell'informazione, nella sua visione, viene visto come improbabile "esigenza generale", che sarebbe stata assicurata dai passati monopoli industriali, mentre sarebbe fuori dalla portata dell'attuale tecnopolio. Non ci vuole molto a vedere in Postman un nostalgico dei vecchi valori, un "conservatore che rimpiange i bei tempi andati: la sua è la reazione di un intellettuale tradizionale che si sente lasciato in disparte al momento del cambio della guardia" (Sanfilippo e Matera, 70). Altri tentano un'operazione opposta: radicare le nuove tecnologie nelle vecchie ideologie. Questa è, per esempio, l'essenza delle critiche che Michael Heim muove alle posizioni di Heidegger sulla tecnica, e della sua proposta di una teoria neo-platonica (invero molto generica) delle RV. Heim tenta di dare consistenza e dignità filosofica a uno dei pregiudizi più diffusi e banalizzanti sulle tecnologie digitali, quello che esse negherebbero il corpo, e lo fa ricorrendo proprio alla più antica e coerente fra le teorie dualistiche, quella di Platone. "Vi è una continuità ontologica sotterranea che collega la conoscenza platonica delle forme ideali ai sistemi informativi della Matrice [o ciberspazio, ndt]. Ambedue gli approcci cognitivi dapprima estendono e poi rinnegano l'incarnazione fisica della conoscenza. In ambedue l'Eros stimola gli uomini a superare l'ostacolo della 'carne', concentrando la propria attenzione su ciò che attrae la mente sul piano formale. " (The Metaphysics of Virtual Reality, 88; v. anche "Ontologia erotica del ciberspazio" in Cyberspace, 68). Se fosse vero, come crede Heim, che "il ciberspazio è il platonismo realizzato", e che "nello spazio computerizzato il cibernauta lascia la prigione del corpo per emergere in un mondo di sensazioni digitali" (ibid., 89, tr. it. 69), naturalmente avrebbero ragione i critici materialisti e razionalisti come Maldonado. Per evitare la Scilla di un nuovo dualismo platonico, però, dubito che sia necessario abbandonarsi alla Cariddi di una cecità di fronte alla portata dei rivolgimenti in atto. In una direzione analoga a quella di Heim va l'operazione, molto più elegante e fascinosa, di Elémire Zolla. "Spero che dopo aver soddisfatto la volontà di violenza e di sesso per quanto vasta essa sia, dopo aver quindi introdotto all'avventura sciamanica virtuale, gli occhiali magici mostreranno la natura illusoria d'ogni realtà, la sua scambievolezza, la sua sostituibilità e faranno quindi accedere o molti o pochi al massimo fine, la liberazione." Così ha scritto Zolla nel 1992 (Zolla, 31). Egli ha visto negli "occhiali magici" una possibilità di accedere per via tecnologica alla "traslazione dall'uomo all'animale" (Zolla, 22), di rivivere l'antica comunanza con la natura e la fusione col mondo che sono tipiche delle esperienze sciamaniche: "credo che si perverrà a programmare vicende sciamaniche e accanto ad esse altri casi di perfezionamento psichico e anche spirituale" (Zolla, 23). È interessante e affascinante (e riprende, tra l'altro, analoghe intuizioni provenienti dall'underground contemporaneo) pensare che le nuovissime tecnologie ci diano la possibilità di ricollegarci a pratiche arcaiche, "primitive", a dimensioni dell'esperienza svalutate e tagliate progressivamente via dal susseguirsi delle rivoluzioni tecnologiche dal neolitico in poi. Ma siamo sicuri che sia necessario dare di quelle pratiche e di quelle esperienze una lettura metafisica? Zolla spera che le RV ci possano avvicinare alla condizione del "liberato in vita, fine dell'uomo secondo l'induismo", di colui che "ha escluso la fascinazione e la maledizione del cambiamento" (Zolla, 24). È questa una lettura dell'esperienza "primitiva" che ha tentato a più riprese il pensiero occidentale, specie quella parte del pensiero occidentale che ha creduto di vedere nell'oriente una risposta inequivoca e acquietante all'inquietudine eraclitea, alla maledizione di non potersi bagnare due volte nella stessa acqua. Ma nell'ipostasi assolutizzante delle visioni dello sciamano, nella fissazione sistematica della sua esaltata e precaria identificazione con l'animale, nell'ergersi di queste esperienze a disvelamento della vera e autentica "realtà" e della loro trasformazione nel mito originario della "integrità primordiale", in tutto ciò si annida precisamente lo stesso equivoco prometeico del controllo totale della natura, che, nonostante l'apparenza, non è affatto in contrasto con la credenza in una origine pacificata e senza conflitti dell'essere umano e della vita. Ma lasciamo pure da parte le preferenze sull'ontologia e i miti della filogenesi umana, che rivelano poi sempre, al fondo, scelte assiologiche più che ipotesi cognitive. Nella loro concreta esperibilità le RV ci rivelano davvero un itinerario ascetico di questo tipo? Siamo sicuri di poterle interpretare secondo la vecchia, sperimentata dialettica di realtà e apparenza (in salsa occidentale od orientale, poco importa)? "Quando si parla di RV, si mette di solito l'accento sul carattere fantomatico e immateriale di tali dimensioni dell'esperienza: questo presupposto è condiviso sia dagli apologeti della nuova tecnologia virtuale, i quali la celebrano come un dissolvimento o un alleggerimento o una spiritualizzazione della realtà, sia dai critici, i quali la interpretano come un ennesimo inganno, come un'evasione, che ci sottrae al peso, alle responsabilità e ai pericoli del presente, proiettandoci in un mondo evanescente e disincarnato. Tanto gli uni quanto gli altri danno per scontato che le RV non sono vere realtà, ma tutt'al più sistemi di rappresentazione della realtà che ambiscono a prenderne il posto. Questa aspirazione è vista dagli apologeti come una specie di liberazione dalle angustie e dalle ristrettezze della realtà, dai critici come una specie di colpevole fuga da essa. Ma la realtà non è qualcosa di ovvio o di immobile! Ora la virtualità non aumenta, ma riduce la dimensione di precarietà del reale; essa fa passare l'uomo dall'epoca della rappresentazione a quella della disponibilità; le cose virtuali sono costantemente a nostra disposizione. Tutto è offerto e questa offerta costituisce appunto la sua virtualità" (Perniola, 38-39). Mi sembra che qui Perniola abbia colto benissimo il punto, e lo esprima con grande lucidità, sia pure di sfuggita (perché altro è ciò che in questa esposizione gli interessa): la scoperta novecentesca della precarietà del reale, del carattere sfuggente della realtà, della sua ingovernabilità da parte dello sguardo razionale dell'uomo, non poteva che sfociare nella presenza di un'altra dimensione, quella appunto della "disponibilità", che si realizza dapprima nelle costruzioni dell'immaginario, dalla letteratura al cinema (non potendo più esprimere dimensioni ontologiche "forti" e stabili, romanzi e film si danno come puri saggi della capacità di ordinare e padroneggiare mondi artificiali), poi, in tempi più vicini a noi, in questa nuova dimensione intermedia, resa possibili dalle tecnologie elettroniche, che dissolve ogni opposizione tra naturale e artificiale, fra realtà e rappresentazione. Questa dimensione inizia nella televisione, ma comincia a realizzarsi più compiutamente con le tecnologie digitali. È sempre Perniola che lo dice, quando a proposito delle immagini di sintesi osserva che "anche la provocazione messa in atto dalla grafica computerizzata che inventa attraverso piccole variazioni successive volti che non sono mai esistiti in natura e che nemmeno possono esistere, appartiene alla stessa sensibilità che è eccitata da un artificio spinto all'estremo ed emancipato da qualsiasi riferimento a un modello originale" (Perniola, 60). Le RV, insomma, non ci fanno attingere alcun livello di realtà superiore o più autentico, ma spingono al parossismo l'indistinzione, completamente artificiale e postumana (non naturale e originaria), tra i vari livelli della realtà. Questo, non altro, è il senso della rivincita della "possibilità" sull' "attualità" che le tecnologie digitali portano con sé. Il corpo disseminato è quindi un corpo fluttuante, che perde sempre di più la sua dimensione sacrale, il suo riferimento a un'origine immutabile e fondativa, che nella sua crescente disponibilità al travestimento, alla disseminazione funzionale e finzionale, alla manipolabilità, accentua (sempre per restare con Perniola) il suo carattere di "vestito". Un corpo del genere, va da sé, non è più adatto a sostenere un'identità forte e stabile, a segnare con la sua unicità e intangibilità il confine fra interno ed esterno, a corroborare un mito originario di fondazione. Paradossalmente, solo la fine della credenza in un'origine di unità e armonia con la natura rende possibile che il nuovo corpo artificiale e disseminato funzioni come strumento di contatto e di inserimento nel nuovo paesaggio tecnologico, nella nuova dimensione del mondo in cui naturale e artificiale si confondono. Ma questo contatto, questo inserimento, sarà sempre meno garantito dallo "zoccolo duro" opposto ai processi di omologazione dall'accoppiata fra stabilità della forma corporea e isolabilità del flusso mentale individuale (i due pilastri dell'identità in quanto percezione di se stessi come processo continuo e, appunto, individuabile). Il gigantesco processo di deterritorializzazione, che, secondo Deleuze e Guattari (L'anti-Edipo) percorre tutta la storia dell'uomo, e che con il capitalismo conosce un'accelerazione senza precedenti, aveva trovato in questo processo identitario un precario e relativo argine. "Nel corso dell'epoca moderna si costruiscono apparati di identificazione che fissano socialmente e culturalmente il rapporto fra deriva singolare e gioco cosmico. La trasformazione dei proletari in operai costituì la più gigantesca fissazione di questo genere che sia dato immaginare. Immense schiere di uomini vennero costretti a riorganizzare mentalmente il mondo, a ristrutturare la propria percezione del tempo, a costringere e a rimodellare i propri gesti e il proprio corpo" (Berardi, 177). Ora, nell'era digitale, il processo di identificazione non solo "deve modellare essenzialmente le modalità cognitive, i modelli di funzionamento dell'attività mentale" (ibid.), ma deve anche fare i conti con l'estensione della deriva corporea, con una nuova possibile stirpe di corpi virtuali disseminati nelle reti, precari e temporanei grumi di attività sensoriale e cognitiva che compensano con la loro mobilità il confinamento delle dita alla tastiera o al mouse, la fissità degli occhi sullo schermo del monitor, l'imprigionamento del capo o del corpo fisico nel casco o nella tuta. Tutto ciò, oltre a scavare un fossato sempre più ampio tra la minoranza nippooccidentale coinvolta direttamente nei processi di rete e il resto del pianeta (i "dannati della terra" per i quali la globalizzazione e la mondializzazione continua e continuerà a significare emarginazione e povertà), costituirà per le nuove forze economiche che si stanno impiantando nel ciberspazio un'occasione mai vista di profitti e di nuove, inedite forme di sorveglianza e di controllo. La nuova "élite nomade", il "potere assente" che si va costituendo secondo molti osservatori (v. Critical Art Ensemble, Sabotaggio elettronico), lavora rapidamente per un "nuovo ordine virtuale", in cui ciò che conta non è più il controllo dello spazio fisico, ma appunto di quello virtuale, del ciberspazio. A questo processo sarà del tutto inutile contrapporre una resistenza fondata sulla riterritorializzazione, ancorarsi a pratiche del corpo che tentino di restaurarne la rigidità e la stabilità, cercare salvezza nel rafforzamento dell'identità e della memoria. Queste esperienze sono condannate a essere nient'altro che il rovescio impotente e sanguinoso della globalizzazione in atto. La paranoia dell'identità e della "riscoperta delle radici" non porta ad altro che alle guerre locali più barbare, al massacro reciproco delle popolazioni, alla pulizia etnica: come dimostrano fino alla nausea le convulsioni che attraversano i territori dell'ex impero sovietico, dalla Cecenia all'ex Jugoslavia. La nostalgia dell'identità é in agguato anche dietro i percorsi più radicali: anche il transgenderismo, cioè la rivendicazione di uno spazio per la propria "ambiguità" sessuale o la propria non rispondenza tra biologia e corpo desiderante, può correre il rischio, a volte, di trasformarsi in nient'altro che in una nuova ricerca di identità, nella fissazione di uno status finora non riconosciuto, di un nuovo "modello". Quando leggo l'affermazione di Velena che la vita di una transessuale MtF (Male to female) "finisce quasi sempre su un marciapiede non perché gli ormoni siano cari e l'elettrocoagulazione pure, ma perché manca un punto di riferimento, manca una finalità, un pattern a cui fare riferimento, mancano dei modelli di ruolo" (Dal cybersex al transgender, 202), credo di capire, naturalmente, quello che lei vuol dire, ma vorrei risponderle (senza spaccare il capello in quattro) che forse è meglio non ricadere nella metafisica della "finalità", e che il percorso suo (e di quelle come lei) è interessante e merita rispetto e riflessione, proprio in quanto percorso, in quanto apertura di un ventaglio di possibilità. In quanto transito, e non in quanto approdo. Che è poi quanto ci propone il corpo collettivo e multiplo di Luther Blissett, questo straordinario personaggio che "vuol fuggire dal carcere dell'Arte e CAMBIARE IL MONDO." Luther Blissett è una delle esperienze di apertura dell'era del corpo disseminato, perché è capace di assumere sino in fondo l'indistinzione fra reale e immaginario, trasformando la logica dell'invenzione estenuata in pratica vissuta e diffusa. "Chiunque può diventare Luther Blissett semplicemente dichiarandosi parte del progetto e firmando col nome collettivo LUTHER BLISSETT. Si tratta di un genuino esperimento esistenziale, di un esercizio di filosofia pratica. LUTHER BLISSETT desidera vedere cosa succede quando si cessa di distinguere tra chi costruisce e ciò che viene costruito: la scultura del Mosè di Michelangelo diviene la storia di un'afasia che porta all'autolesionismo e al suicidio, mentre gli architetti postmoderni muoiono per overdose di anabolizzanti, screditando le palestre in cui si allenavano e dopavano. Il capitalismo domina le cose e le persone nominandole e descrivendole: 'Tu sei un Io'. 'No, io non voglio più essere un Io, voglio essere infiniti Ii!" Il nome collettivo distrugge i meccanismi di controllo della logica borghese. Senza possibilità di classificazione, il potere non può imporre identità precotte e predigerite, né operare per metterle l'una contro l'altra. Pavlov muore coi suoi fottuti campanelli." ("Cosa vuole Luther Blissett"). Uscire dal neolitico Pavlov muore coi suoi fottuti campanelli? Si apre per il mondo una nuova era, in cui le nuove tecnologie digitali permetteranno il superamento della frammentazione dei sensi, della polarizzazione della società, della divisione del lavoro? Alvin Toffler aveva profetizzato, quasi vent'anni fa, l'avvento dell'era del prosumer, del produttoreconsumatore, l'inizio di una Terza ondata (dopo quelle della società agricola e della società industriale), capace di ricomporre ciò che quelle avevano diviso. Ma Toffler, oggi, fa da puntello teorico al neoliberismo selvaggio della destra repubblicana negli Usa, a quel Newt Gingrich che pontifica contro lo statalismo assistenzialista democratico (e sarò l'ultimo a dolermene), ma poi si arrampica sugli specchi per non mandare Bill Gates davanti all'Antitrust (Dyson, Wired, agosto 1995). Tutto il dibattito su tecnologia e democrazia, aperto fin dagli anni Trenta da Patrick Geddes e Lewis Mumford, rilanciato nei Cinquanta da Harold Innis e Marshall McLuhan, ripreso oggi con una pluralità di posizioni che vanno dall'anarco-situazionismo al lib-lab (da Hakim Bey a Stefano Rodotà), ruota attorno a una polarità di aspettative e di previsioni. Da un lato, la tecnologia che nasce dalla tradizione industriale appare, nella sua versione di volta in volta più aggiornata (la "tecnologia elettrica" di McLuhan, il digitale di Negroponte), come l'annuncio di una nuova era: sia che venga vista come lo strumento capace di realizzare più compiutamente le promesse di partecipazione (mai mantenute) avanzate dalle moderne teorie politiche democratiche, superando le storture e le caricature della democrazia, sia che si presenti come istanza di superamento della democrazia rappresentativa, in una prospettiva anarchica o consiliarista. Dall'altro lato, questa stessa tecnologia appare, per alcune sue caratteristiche di progettazione e di produzione, facile preda del monopolio, cioè dell'esito apparentemente più lontano dalla "pura" ideologia del mercato, in realtà suo sbocco ineliminabile (almeno sinora): con la conseguenza che, invece di favorire la più ampia partecipazione dei cittadini e la ricostituzione di comunità organiche, la nuova tecnologia sembra invece funzionare come strumento di manipolazione, anche se non in forme dispotiche e orwelliane, come organo dell'ennesima variante dell'inevitabile complotto dei poteri costituiti a danno dei cittadini. Possiamo separare con nettezza le ragioni e i torti di queste opposte argomentazioni? C'è da dubitarne. Certamente gli indizi che fanno pensare a una trasformazione radicale dei paradigmi concettuali e operativi su cui si è basata la società industriale sembrano oggi prevalenti, primo fra tutti quello della progressiva marginalizzazione, nel mondo sviluppato, della categoria "lavoro". Arrivati al grado di sviluppo attuale delle tecniche produttive, la società capitalista appare incapace di assicurare la sopravvivenza dei propri strati più deboli sulla base della remunerazione dell'attività lavorativa, per la semplice e banale ragione che di questa attività ha sempre meno bisogno. Intere categorie di lavoratori, intere professioni scompaiono a un ritmo impressionante, ingoiate dall'informatizzazione, dall'assunzione nella megamacchina digitale di sezioni sempre maggiori, orizzontali e verticali, del processo produttivo: e dei promessi nuovi posti di lavoro nei settori ad elevatissima tecnologia, della produzione miracolosa di nuova occupazione in seguito all'innescarsi di circoli virtuosi, non c'è traccia, almeno non nella proporzione necessaria a equilibrare la voragine di lavoro che si apre nei settori tradizionali. La verità è che oggi la globalizzazione dell'economia mondiale e la smaterializzazione dei processi produttivi consentono di produrre sempre più merci e servizi, e sempre migliori, a prezzi costanti o decrescenti, impiegando sempre meno manodopera: e il personale necessario per progettare e costruire le nuove macchine, gli strumenti di controllo dei nuovi flussi produttivi, soggiace alla stessa tendenza, cioè decresce anch'esso allo stesso tasso, o a un tasso di poco minore. “In passato, quando una rivoluzione tecnologica minacciava una massiccia contrazione dell’occupazione in un comparto dell’economia, emergevano nuovi settori che assorbivano la manodopera divenuta eccedente. Nei primi anni di questo secolo, un settore manifatturiero in crescita esponenziale è stato in grado di assorbire molti dei milioni di salariati agricoli e di coltivatori diretti messi fuori gioco dalla rapida meccanizzazione dell’agricoltura. Tra la metà degli anni cinquanta e i primi anni ottanta, un comparto dei servizi in rapida crescita è riuscito a reimpiegare buona parte dei ‘colletti blu’ spiarzzati dall’automazione. Oggi, al contrario, mentre tutti questi settori sono soggetti a rapide ristrutturazioni e a processi di automazione spinta, non se ne è sviluppato alcuno ‘sgnificativo’ in termini occupazionali, in grado cioè di assorbire i milioni di senza lavoro. Il solo nuovo comparto che inizia ad affacciarsi all’orizzonte del nostro sistema economico è quello della conoscenza: un gruppo elitario di settori e di discipline professionali - i cosiddetti analisti di simboli o knowledge workers - responsabili di spianare la strada alla nuova economia automatizzata ad alta tecnologia del futuro. Sebbene il loro numero sia destinato a crescere, rimarrà comunque piccolo a confronto con i milioni di posti di lavoroche verranno resi ridondanri dalle nuove ‘macchine pensanti’.” (Rifkin, 73-74) L'era del lavoro sta finendo. Nessuno dei compiaciuti discorsi sulla vittoria mondiale del capitalismo o sulla bontà dei meccanismi di mercato, spontanei o corretti che siano, può nascondere questa semplice verità. Questo sconquasso nella sezione sviluppata del pianeta sarà rappezzato, coperto, mascherato ancora per qualche decennio dall'esubero di manodopera a bassissimo prezzo nella sezione non sviluppata, e dagli effimeri effetti dei meccanismi di un welfare state che ha funzionato solo finché rappresentava un dispositivo agibile di investimento sociale, e che oggi declina con impressionante rapidità. Poi i paesi del nord del mondo saranno posti di fronte all'indilazionabile necessità di affrontare insieme i problemi degli equilibri ecologici del pianeta, forse ormai irrimediabilmente compromessi, e della pressione demografica e sociale del sud del mondo, senza potersi più basare sui tradizionali meccanismi dell'economia. “Le nostre istituzioni politiche, i rapporti sociali e le relazioni economiche si fondano sulla vendita della risorsa lavoro in un mercato aperto; ora che il valore di quel lavoro è sempre meno rilevante come risorsa per la produzione e la distribuzione di beni e servizi, devono essere messe in atto nuove modalità per la distribuzione della ricchezza e il conferimento del potere d’acquisto. Si dovranno trovare alternative al lavoro formale per sfruttare le energie e le doti delle generazioni future.” (Rifkin, 349) Queste alternative non sono al di fuori della nostra portata: sono alternative già maturate nei conflitti sociali di questo secolo, nell’emergere di nuove esperienze all’interno della stessa economia capitalistica. Anche Rifkin le indica con grande chiarezza: si tratta della riduzione dell’orario di lavoro, come strumento di redistribuzione dei guadagni di produttività realizzati con le tecnologie labor saving e di sostegno alla domanda globale; dell’attenzione e del sostegno al cosiddetto “terzo settore” dell’economia (economia sociale, organizzazioni non profit), che ha già dimostrato di saper interpretare e soddisfare bisogni delle comunità più e meglio dei tradizionali settori pubblico e privato, tanto nel mondo industrializzato quanto nei paesi non sviluppati. Ma si può essere ragionevolmente pessimisti sul fatto che le mediocri e declinanti élite politiche del pianeta e le aggressive élite economiche (multinazionali, banche private e pubbliche), le quali ultime gestiscono sempre più in prima persona le scelte decisive, riescano ad avere il coraggio intellettuale e operativo necessario per affrontare l’emergenza in questa ottica. Anche perché l'unica prospettiva in cui le misure indicate da Rifkin potrebbero essere attuate è quella di svincolare la distribuzione dei mezzi di sopravvivenza dal lavoro come misuratore sociale, liberare le straordinarie energie intellettuali e pratiche dell'umanità favorendo la circolazione e l'elaborazione collettiva del sapere, porre fine al regime di irreggimentazione coatta dei corpi su cui si sono basate tutte le civiltà: e questo significherebbe il suicidio economico, politico e sociale di quelle élite. L'era del lavoro si era aperta quando l'estendersi della rivoluzione neolitica aveva creato un sovrapprodotto sociale di dimensioni tali da richiedere la nascita di funzioni specifiche per la sua gestione e di gruppi separati addetti a tali funzioni, aprendo al tempo stesso la strada a un mutamento delle strategie cognitive e delle basi etiche su cui si fondava la convivenza degli aggregati umani. "Si può assumere che la transizione all'umanità vera e propria sia avvenuta quando l'equipaggiamento genetico dell'uomo divenne così ricco da consentirgli tutta quella gamma di comportamenti sociali che di fatto troviamo nella storia e nell'etnografia. (...) [Da allora] la trasmissione culturale ha integrato - e, in misura importante, sostituito - la trasmissione genetica come agente di stabilità. (...) Dopo l'emergere di questa nuova dimensione dell'umanità, due rivoluzioni molto profonde hanno trasformato la condizione umana in misura radicale: così radicale che vien voglia di parlare di due specie radicalmente diverse, se non di uomini, almeno di società. La prima rivoluzione è costituita dall'affermarsi della prassi di produrre e di conservare il cibo: essa ha portato alla costituzione di società molto più vaste e complesse che hanno permesso e incoraggiato il differenziarsi di governanti, specialisti della coercizione e specialisti degli indicatori umani, ossia di guardiani degli indicatori simbolici, in altre parole di un ceto di clerici" (Gellner, 64-65). Gellner, come molti altri studiosi, tende a sottolineare la discontinuità, rispetto a questo mondo contadino unificato e stabile, della seconda rivoluzione, quella industriale, preparata e accompagnata dalla rivoluzione scientifica e tecnologica: questa seconda rivoluzione sarebbe stata, per così dire, "estremamente improbabile" nell'ambito delle società agricole tradizionali, e il suo verificarsi segnerebbe un problema storiografico di primaria importanza. Tutto questo è certamente vero, ma in questo contesto è forse più illuminante mettere l'accento sui caratteri di continuità tra le due società, rappresentato, oltre che dal differenziarsi dei gruppi sociali legati alla "spada e al libro", dall'innovazione conoscitiva centrale della società neolitica sviluppata, quella che Gellner chiama "platonismo generico", e che, preparata da alcuni millenni di diffusione, estensione e radicamento della civiltà, viene pienamente espressa nella Grecia del V secolo a.C. Questa innovazione, che consiste nell'ergersi a enti indipendenti e trascendenti delle idee, "modelli insieme logici e morali della realtà" (Gellner, 74), è resa possibile dalla scrittura. "In assenza di scrittura, il discorso è sempre legato a un contesto (...). Disporre della scrittura, invece, vuol dire poter separare un'affermazione dal contesto. In un certo senso, il trascendente nasce a questo punto: quando il significato incomincia a vivere senza parlante e senza ascoltatore" (Gellner, 69/70). È vero che la scrittura non dispiega tutto il potenziale dei suoi effetti psicologici e sociali se non dopo l'invenzione della stampa, e che il ruolo dell'oralità, prima di Gutenberg, continua ad essere centrale nella trasmissione della cultura e dei valori condivisi, cioè nella coesione della società. Tuttavia, a ben vedere, la cesura più netta appare proprio essere quella tra paleolitico (e forse neolitico incipiente), e neolitico sviluppato: dal punto di vista della differenziazione sociale e della visione del mondo, la società industriale non è che uno sviluppo e un approfondimento ("improbabile" quanto si vuole) del neolitico. Questo è particolarmente chiaro sulla questione del corpo. Nelle società cosiddette primitive, che hanno rappresentano l'unica occasione per l'uomo occidentale di conoscere delle varianti, per quanto particolari e forse eccentriche, di società senza scrittura e senza stato, il corpo ha un posto centrale nello scambio simbolico che fonda e garantisce la convivenza. In queste società, "grazie alla circolazione simbolica, il corpo non viveva diviso tra natura e cultura, perché quelli che per noi sono eventi naturali come nascite, morti, fenomeni meteorologici, i simboli si incaricavano di trasformarli nell'ordine culturale dei riti, delle pratiche magiche, religiose, ludiche che servivano a ristrutturare sistemi minacciati di disordine. Punto di congiunzione tra i due ordini era il corpo che nella danza traduceva eventi naturali in significati culturali. È il contesto simbolico che nella danza fa nascere i passi e le figure necessari per evocare la pioggia o per allontanare il pané, la maledizione. Ogni gesto espone il senso di un simbolo che il gesto successivo già dissolve per evitare che divenga un segno, e quindi che nasca un codice" (Galimberti 20). Il corpo codificato, invece, il corpo irreggimentato delle società complesse e stratificate, il corpo "valorizzato" e sede dell'Io, non è più capace di questo scambio simbolico, non è più capace di dire, nella sua molteplicità e ambivalenza, l'appartenenza del singolo alla comunità. Questa appartenenza è ormai demandata a un altro principio, che fa parte di un ordine radicalmente diverso e contrapposto a quello dei corpi, della materia investita dal processo simbolico: l'ordine dello spirito, dell'anima, dell'assoluto, della trascendenza irrigidita e ipostatizzata. Forse non c'era altro modo per assicurare la coesione sociale in una situazione come quella che si creò in tutto il mondo, in modi e forme diverse ma convergenti, fra gli ottomila e i tremila anni prima di Cristo: certo l'apparizione degli specialisti della coercizione e degli specialisti della parola, e la credenza in una verità assoluta, che abita un mondo radicalmente diverso da quello della materia, sono riuscite ad assicurare per millenni la distribuzione, durante gli anni delle vacche magre, dei beni accumulati negli anni delle vacche grasse. Ma a quale prezzo! Oggi, che l'ammontare del sovrapprodotto sociale e le sue modalità di produzione sembrano rendere d'un colpo obsoleti tutti gli indicatori e i dispositivi messi in opera per assicurarne la distribuzione; oggi che l'interfaccia fra l'uomo e l'ambiente, fra l'uomo e l'uomo - il regno della tecnica - si è fatta così spessa da diventare essa stessa una parte, e la parte predominante, dell'ambiente in cui viviamo; oggi, che le tecniche con le quali comunichiamo non estendono più l'uno o l'altro dei nostri sensi, ma tutto il nostro corpo, e che la simbiosi con la macchina è diventata così intima da farci dubitare di essere ancora la stessa specie che mosse i suoi primi passi nelle savane dell'Africa un milione e mezzo di anni fa; oggi tutta l'era neolitica dovrebbe forse apparirci come una gigantesca parentesi da abbandonare al più presto, un esperimento che ha avuto le sue luci e le sue ombre, ma la cui continuazione avrebbe costi insostenibili. Ricongiungerci al nomadismo e al tribalismo della nostra storia paleolitica non avrebbe, in questo modo, il significato di un nostalgico ritorno alle origini. Avrebbe, al contrario, il senso di un utilizzo davvero pieno e integrale delle tecnologie di comunicazioni attuali, la messa in campo di una unificazione dell'umanità basata non sull'astrazione di una verità che abita un regno distante e ostile, ma sulla concretezza, sul movimento, sull'immediatezza, sul calore dei corpi, anche se si tratta dei cyborg elettronici e dei corpi disseminati dell'era digitale. Per avviare un nuovo scambio simbolico, un nuovo general intellect, una mente davvero collettiva, che non prescinda più, questa volta, dal corpo, perché il nostro corpo digitale è ormai ovunque. Un'esplosione, e non un'implosione, dell'uomo, o di ciò che viene dopo di lui. A suo modo, e pur credendo di poterlo riassumere nella sua filosofia della storia di cristiano cattolico, McLuhan aveva già intravisto questo processo a metà degli anni Sessanta. "La nostra nuova tecnologia elettrica che estende i nostri sensi e i nostri nervi in un discorso globale può avere grande influenza sul futuro del linguaggio. Essa non ha bisogno di parole come il calcolatore numerico non ha bisogno di cifre. L'elettricità apre la strada a un'estensione del processo stesso della consapevolezza, su scala mondiale e senza alcuna verbalizzazione. E' possibile che questo stato di consapevolezza collettiva fosse la condizione dell'uomo preverbale. Ed è possibile che il linguaggio, come tecnologia dell'estensione umana di cui conosciamo così bene i poteri di divisione e di separazione, sia stato la "Torre di Babele" mediante la quale gli uomini hanno cercato di arrampicarsi nel più alto dei cieli. Oggi i cervelli elettronici ci promettono la traduzione immediata di un cifrario o di un linguaggio in qualunque altro. Ci promettono insomma, attraverso la tecnologia, una condizione pentecostale di unità e comprensione universali. (...) È anche possibile che l'estensione elettrica del processo di coscienza collettiva, creando una coscienza senza pareti, possa rendere antiquato il muro del linguaggio. I linguaggi sono balbettanti estensioni dei nostri cinque sensi, in varie proporzioni e in varie lunghezze d'onda. Una simulazione immediata della coscienza supererebbe il discorso in una forma di massiccia percezione extra-sensoriale nello stesso modo in cui i termostati globali potrebbero superare quelle estensioni della pelle e del corpo che noi chiamiamo case." (McLuhan, Gli strumenti del comunicare, 100 e 149, corsivi miei). Per il momento nel mondo delle reti, in Internet, il gigantesco esperimento di creazione di una nuova oralità che è in corso fa abbondante uso del linguaggio: parole e immagini si mescolano in un flusso inarrestabile, ingovernabile, incomprensibile all'interno della logica del codice. Forse il linguaggio non dovrà essere abbandonato, come prefigurava McLuhan, ma sicuramente avrà un nuovo ruolo, una nuova collocazione entro un sistema di comunicazione globale che comincia appena adesso a delinearsi, un sistema che avrà di nuovo il suo centro nel corpo, nelle nuove condizioni in cui esso potrà diffondersi e vivere autonomamente nelle reti. Quali caratteristiche avrà un sistema di comunicazione di questo tipo è oggi impossibile dire. Quello che è certo è che esso non potrà assomigliare, neppure lontanamente, ai sistemi di comunicazione dell'oggi opportunamente riverniciati. Le "televisioni interattive", i cinquecento canali, il "digitale" nella sua versione fieristica e industriale, non sono il primo passo per uscire dal neolitico, ma l'ultimo sussulto di un sistema di comunicazione gerarchico e funzionale a una società la cui perpetuazione significherebbe la bancarotta dell'umanità. Sarebbe una ben misera prospettiva se il corpo disseminato non fosse che lo sgabello con cui Bill Gates si issa sulla schiena del resto dell'umanità. RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI Alberto Abruzzese, La grande scimmia. Mostri vampiri automi mutanti, Roma, Napoleone, 1979. Francesca Alfano Miglietti, "Orlan" (intervista), Virus N.6, ottobre 1995. Alphaville n. 1, La svolta degli anni Ottanta (cyberpunk, splatterpunk, nuovo nero), Bologna, Telemaco, 1992. Isaac Asimov, Tutti i miei robot (raccolta dei racconti) in: Il grande libro dei robot, trad. di Laura Serra, Milano, Mondadori, 1994. 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