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See discussions, stats, and author profiles for this publication at: https://www.researchgate.net/publication/265550188 Lo splendore della forma Data · September 2014 CITATIONS READS 0 617 33 authors, including: Mauro Felicori Nicoletta Cardano 39 PUBLICATIONS 35 CITATIONS 20 PUBLICATIONS 0 CITATIONS University of Bologna SEE PROFILE Sovrintendenza ai beni culturali di Roma Cap… SEE PROFILE Guido Zucconi Laura Baratin 11 PUBLICATIONS 2 CITATIONS 32 PUBLICATIONS 33 CITATIONS Università Iuav di Venezia SEE PROFILE Università degli Studi di Urbino "Carlo Bo" SEE PROFILE All content following this page was uploaded by Mauro Felicori on 11 September 2014. The user has requested enhancement of the downloaded file. luca sossella editore Numerus Lo splendore della forma La scultura negli spazi della memoria a cura di Mauro Felicori e Franco Sborgi La scultura nei cimiteri europei non è una disciplina minore. Anzi, per due secoli vi hanno lavorato i migliori artisti, sicché non si può scrivere la storia della grande scultura contemporanea senza mettere al centro questi musei a cielo aperto, caposaldi del nostro patrimonio culturale. Ma solo negli ultimi anni si è affermata questa consapevolezza. Il volume presenta la più completa e aggiornata rassegna degli studi di storia delle arti plastiche in corso nel continente. Mauro Felicori Franco Sborgi Francisco Queiroz Carlos Reyero Roger Bowdler Ray Bateson Liisa Lindgren Ioana Beldiman Daina Glavocic Sonia Žitko Régis Bertrand Christian Charlet Werner Kitlitschka Sibylle Schulz Marcel M. Celis Cristina Beltrami Nicoletta Cardano 18,00 euro Christina Huemer Camilla Bertoni Emanuela Bagattoni Alfonso Panzetta Susanna Zatti Leo Lecci Graziella Cirri Laura Dinelli Giovanna Ginex Cristina Rovere Sandra Berresford Ornella Selvafolta Guido Zucconi Anna Maria Fiore Franziska Bollerey Laura Baratin ISBN 978-88-97356-04-2 2012 luca sossella editore srl www.lucasossellaeditore.it ©2012 agli autori Finito di stampare nel mese di marzo 2012 Art director Alessandra Maiarelli In copertina Giulio Monteverde, Tomba Oneto Cimitero di Staglieno, Genova fotografia Vittorio Scarselli Collaborazione redazionale Valentina Lanza Ringraziamenti Agec - Azienda Gestione Edifici Comunali del Comune di Verona www.agec.it Association of Significant Cemeteries in Europe www.significantcemeteries.org I testi di questo volume sono stati presentati al convegno Lo splendore della scultura nei cimiteri europei che si è tenuto a Verona dal 28 al 30 settembre 2006 per iniziativa di AGEC e ASCE. In taluni casi le bibliografie possono essere dunque aggiornate a quella data. ISBN 978-88-97356-04-2 Lo splendore della forma La scultura negli spazi della memoria a cura di Mauro Felicori e Franco Sborgi Indice 9 Meraviglia e fine del cimitero moderno Mauro Felicori 13 Per una riflessione complessiva sulla funzione e sulla forma della scultura funeraria in Europa Franco Sborgi LE REGIONI 33 La scultura nei cimiteri del Portogallo (1835-1910) Francisco Queiroz 46 Più vivo che morto. La morte come realtà nella scultura funeraria spagnola (1870-1940) Carlos Reyero 58 La scultura funeraria nel Regno Unito dall’età vittoriana alla “New Sculpture” e al Modernismo Roger Bowdler 71 Tra scultura e simboli nei cimiteri irlandesi Ray Bateson 79 Scultura funeraria in Finlandia (1880-1930) Liisa Lindgren 88 La scultura cimiteriale a Bucarest e in Romania Ioana Beldiman 99 La scultura sepolcrale secessionista in Croazia Daina Glavocic 108 La scultura funeraria nella Slovenia Sonja Žitko LE CITTÀ E LE REGIONI 121 La statuaria del Cimitero Saint-Pierre di Marsiglia Régis Bertrand 132 L’evoluzione della scultura nei cimiteri parigini Christian Charlet 141 Arte scultorea nei cimiteri di Vienna Werner Kitlitschka 153 La scuola di scultura di Berlino Sibylle Schulz 162 Il laboratorio degli scultori Ernest Salu I, II e III a Laken: centro di sculture commemorative nella regione di Bruxelles Marcel M. Celis ITALIA 175 Il Cimitero Central e il Cimitero del Buceo: due “giardini” di scultura italiana in Uruguay Cristina Beltrami 187 Per una storia della scultura a Roma: il Cimitero del Verano Nicoletta Cardano 204 La scultura nel Cimitero acattolico di Roma Christina Huemer 215 Dall’ideale al vero e ritorno: passeggiata tra le opere scultoree del cimitero monumentale di Verona tra Ottocento e Novecento Camilla Bertoni 229 Sull’arte della Certosa di Bologna in epoca neoclassica: dal prevalere della pittura all’affermazione della scultura Emanuela Bagattoni 244 Scultura italiana tra Neoclassicismo e anni Trenta nei cimiteri dell’Emilia-Romagna Alfonso Panzetta 251 La città del silenzio: arte funeraria a Pavia tra Ottocento e Novecento Susanna Zatti 259 Un modello per la scultura funeraria internazionale: il cimitero genovese di Staglieno Leo Lecci 270 Scultura tra Ottocento e Novecento al cimitero delle Porte Sante di Firenze Graziella Cirri 277 La scultura nei cimiteri delle comunità nazionali di Livorno Laura Dinelli 286 L’opera funeraria degli scultori del Canton Ticino (1830-1930) Giovanna Ginex 306 Tre tombe ottomane nella Trieste dell’Ottocento Cristina Rovere TEMI E PROBLEMI 317 La Metamorfosi e la Vergine nella scultura liberty: alcune implicazioni di questo tema nel cambiamento di ruolo dello scultore funerario Sandra Berresford 331 Arte funeraria e identità sociali fra Ottocento e Novecento: soggetti, biografie, virtù del ricordo Ornella Selvafolta 351 Sacrari e ossari italiani della Prima guerra mondiale Guido Zucconi e Anna Maria Fiore 363 Sobrietà senza retorica in alcuni progetti europei per comunicare l’Olocausto Franziska Bollerey 384 Il rilievo delle sculture con tecniche laser scanner: uno strumento di conoscenza tra realtà virtuale e rigore scientifico Laura Baratin 394 Gli autori Lo splendore della forma Meraviglia e fine del cimitero moderno di Mauro Felicori Questo volume è il primo in lingua italiana a dare conto in modo esteso della ricchezza della scultura cimiteriale in Europa. Come risulta agevolmente dalla sua lettura, i manufatti destinati alla commemorazione dei defunti, nella “grande stagione” dei cimiteri fra l’inizio dell’Ottocento e la seconda guerra mondiale, non sono opere minori di artisti minori realizzate con poveri mezzi. All’opposto, sono incarichi affidati da una borghesia prosperosa ai migliori scultori del loro tempo, perchè realizzassero opere destinate a tramandare per l’eternità il ricordo delle virtù terrene di uomini laboriosi, mogli e madri esemplari, soldati senza paura, bambinetti innocenti. Non pare dunque credibile una storia della scultura del XIX e XX secolo che non abbia al centro quel museo all’aria aperta che è diventato, nel tempo, il moderno cimitero di origine illuministica, reso regola da Napoleone. E anzi appare strano, proprio in questi anni che sono stati di ripresa degli studi e delle ricerche sui cimiteri, come la grande comunità degli storici dell’arte si 9 Lo splendore della forma 10 sia per lungo tempo distratta, ritratta, dalla necessaria osservazione di questi luoghi così centrali per le discipline plastiche. È pur vero che l’Ottocento ha in Italia il destino infelice di venire dopo Tiepolo, termine ultimo della storia dell’arte secondo tanti e autorevolissimi storici dell’arte, confessi o meno che siano. Ed è altresì vero che la scultura è spesso sorella minore della pittura, soprattutto nella comune sensibilità, meno allenata a cogliere la specificità delle tre dimensioni. Epperò resta una colpa della comunità scientifica il lungo tempo in cui essa ha voltato le spalle ai camposanti, forse vittima di sentimenti “popolari” come la superstizione, o di complessi “accademici” come il timore di finire fuori dalla dimensione aulica dell’arte. Sia quel che sia, è un fatto che, dopo il lavoro pionieristico di pochi, come Franco Sborgi e Ornella Selvafolta, negli ultimi dieci anni è cresciuta notevolmente l’attenzione per i cimiteri storico-monumentali, quella della ricerca, quella dei media, quella delle istituzioni, anche grazie all’azione dell’ASCE, Association of Significant Cemeteries in Europe, che non a caso ha meritato nel 2006 la medaglia di Europa Nostra per il servizio reso al patrimonio culturale del continente, mentre più di recente il Consiglio di Europa ha indicato le moderne necropoli come uno dei suoi principali itinerari. Fu grazie all’ASCE e al Comune di Genova che ebbe una lettura a grandangolo il ruolo dei cimiteri nella storia dell’architettura moderna, partendo da Fernando Fuga, Joseph Paxton e Edward Kemp, passando per Carlo Barabino, Herman Bollé, Rodolfo Vantini, Giuseppe Barbieri, per arrivare a Lewerentz e Asplund (autori del Cimitero nel Bosco di Stoccolma, Patrimonio dell’Umanità), Max Hegele, Jože Plečnik fino ad Aldo Rossi. Si dimostrò senza tema di smentita che i cimiteri più interessanti in Europa fanno parte dell’architettura più alta, tanto più quando inserita appieno nel ridisegno urbano ottocentesco delle città. Se questo vale per l’architettura, tanto più per la scultura si può reclamare la centralità dei cimiteri, che sono in tutte le città le più ricche raccolte d’arte plastica, i musei di scultura più stupefacenti, “foreste di marmo” come qualcuno li ha definiti. In questo caso a fare nomi si fa Meraviglia e fine del cimitero moderno torto ai tanti non citati, ma bastino per tutti gli scultori presenti nei cimiteri italiani: Giacomo De Maria, Lorenzo Bartolini, Augusto Rivalta, Vincenzo Vela, Giulio Monteverde, Medardo Rosso, Pietro Canonica, Leonardo Bistolfi, Giorgio Kienerk, Giuseppe Graziosi, Lucio Fontana, Giacomo Manzù, Arnaldo Pomodoro. Un convegno tenuto a Verona nel 2006, ospitato dall’AGEC, ha permesso una prima generale ricognizione di questa ricchezza. I materiali allora raccolti, oggi opportunamente aggiornati, costituiscono il prezioso contenuto di questo volume, che si offre dunque come gemello del precedente, e fornisce allo studioso, ma ancor più ai tanti turisti che intelligentemente non trascurano di visitare il cimitero per capire l’anima di una città, una guida ragionata, con le principali chiavi per leggere la scultura e i modi con cui si rappresenta la vita spezzata, la bellezza e il tempo che fuggono, il memento mori, il dolore, la disperazione, la pietà, il lutto, le figure delle religioni. Ci si chiederà, prendendo atto che veniamo da decenni di modeste architetture affollate di anonime pietre tombali: la grandezza di un tempo, lo splendore della scultura dei cimiteri europei, potrà tornare? La mia risposta è no. Non che non veda tanti segni positivi, sia nell’architettura (Portela a Finisterre, Schultes a Berlino, Chipperfield a Venezia, Monestiroli a Voghera, episodi interessanti a Napoli, a Imola, in Umbria), sia nella scultura. Ma la sensazione è che non esistano più né i presupposti culturali né le necessità funzionali che fecero grande la stagione cimiteriale nei centocinquanta anni che seguono Napoleone. Da un punto di vista culturale, la morte appare un passaggio che perde significato, sia per i processi di rimozione tipici dell’edonismo contemporaneo; sia per la tendenza a ricondurla in un ambito naturale, un momento del fluire del tempo nel cosmo, nel contesto di una emergente sensibilità antiretorica, che si spinge fino a preferire la sepoltura anonima o la dispersione. Da un punto di vista funzionale, la crescente diffusione della cremazione ha cancellato la necessità di nuovi spazi, e perciò di nuovi progetti, mentre i comuni sono 11 Lo splendore della forma affaticati dai costi crescenti della conservazione dei grandi complessi monumentali ereditati dal passato. Le sepolture del domani non basteranno nemmeno a mantenere attivi gli spazi cimiteriali di oggi. Dove la cremazione è diffusa, molti cimiteri stanno chiudendo, spazi cimiteriali sono convertiti in giardini, ovunque ci si orienta verso il riuso dei sepolcri storici piuttosto che alle espansioni. Il cimitero, se si accettata l’espressione ellittica e vagamente sfrontata, è morto. Almeno in Italia, i grandi campi costruiti dopo la seconda guerra mondiale per le tumulazioni e le inumazioni di massa, saranno convertiti in spazi verdi; le parti storiche ospiteranno le urne di una umanità che, se proprio si deve morire, desidera scomparire, o disturbare il meno possibile, chiedere poco o niente ai successori, non rubare spazio a chi verrà. Liberi dal compito di nuove sfide progettuali, saremo civili se sapremo conservare la memoria di una stagione splendida. 12 Per una riflessione complessiva sulla funzione e sulla forma della scultura funeraria in Europa di Franco Sborgi Il convegno di Verona, che aveva come titolo emblematico Lo splendore della scultura nei cimiteri europei, aveva rappresentato indubbiamente un ampio momento di riflessione complessiva sulla funzione che la scultura funeraria ha avuto nella conformazione e nella definizione dei cimiteri europei fra la fine Settecento e i primi decenni del Novecento e, soprattutto, di come essa si sia caricata di significati e caratteri comunicativi specifici e variamente rilevanti, a seconda dei paesi in cui si è proposta. La presenza di studiosi specialisti che coprivano pressoché l’intera estensione europea, dalla Finlandia all’Italia (quest’ultima, naturalmente rappresentata con una particolare articolazione attraverso cimiteri che hanno avuto importanti ruoli storici come, ad esempio, quelli di Bologna, Roma, Genova, Verona, Milano) permetteva infatti di proporre una riflessione approfondita sulle dinamiche con cui la scultura funeraria ha saputo dare risposte diverse alle esigenze di memoria, in un’epoca come quella contemporanea in cui memoria pubblica e privata si sono spesso stretta- 13 Lo splendore della forma Leonardo Bistolfi, Tomba Bauer, 1904, Genova, Cimitero di Staglieno 14 mente intrecciate, rispondendo a comuni valori di comunicazione e di autorappresentazione sociale. Lo spirito che ha guidato l’impianto del Convegno organizzato dall’ASCE è stato soprattutto quello di rendere evidente la qualità e l’estensione del fenomeno, proponendo una nuova riflessione che rimettesse la scultura funeraria al centro dei processi generali della storia della scultura europea, ponendo fine al pregiudizio ricorrente che ha confinato per decenni tale forma rappresentativa in una sorta di dimensione “minore”, di pura ufficialità e accademismo, escludendola dai processi di ricerca operati dal linguaggio plastico di questi ultimi due secoli: anche se tracce interpretative più aperte erano state talvolta proposte peraltro per epoche precedenti: basti citare per tutti il fondamentale saggio di Erwin Panofsky, Tomb Sculpture, 1 che tuttavia concludeva la propria riflessione con l’epoca barocca. Tale marginalizzazione nasceva, almeno sino agli anni Ottanta del Novecento, sia dalla limitata conoscenza del fenomeno della scultura ottocentesca e di primo Novecento nella sua effettiva rilevanza e articolazione (pochi erano del resto, sino a quel tempo, gli studi d’insieme aggiornati criticamente e per lo più indirizzati soprattutto alle aree anglo-americane e francesi) e di quella funeraria nello specifico. Del resto la scarsa Per una riflessione complessiva coscienza del ruolo effettivo che essa aveva rivestito nell’esigenza di memoria espressa, con particolare urgenza, dalla società contemporanea, 2 non aveva certo aiutato nella comprensione del fenomeno: forma rappresentativa, questa, che l’aveva connotata a partire dall’epoca illuministica, lungo tutto il XIX secolo, in corrispondenza dell’affermarsi di una cultura positivista e progressivamente borghese: questa, affidava gran parte della propria identità tanto al ricordo delle proprie imprese, quanto dei propri valori anche quotidiani, considerandoli esemplari sia per il comportamento presente, sia per il futuro.3 Intorno agli anni Settanta del Novecento gli studi sulla scultura incominciarono a incrementarsi e ad articolarsi problematicamente, come si avverte, ad esempio, nel noto testo di Maurice Rheims, La Sculpture au dixneuvième siècle4 che, pur in termini divulgativi, metteva ben in evidenza le diverse problematicità sociali e culturali della scultura ottocentesca. Horst W. Janson – certamente una delle figure più importanti in questo processo di riperimetrazione degli studi sulla scultura fra Ottocento e Novecento5 – proponeva una riflessione sulle ragioni della sfortuna degli studi sulla scultura. Tale riflessione è ancora nella gran parte valida. Essa è particolarmente condotta nell’introduzione del volume dedicato alla scultura in occasione del XXIV congresso del CIHA (Comité International d’Histoire de l’Art)6 tenutosi a Bologna nel 1979. Quando il CIHA decise di dedicare una delle dieci sezioni del XXIV Congresso alla scultura, esso lo fece sotto la rubrica delle “aree trascurate o insufficientemente esplorate”. Non c’era dubbio che il campo era stato trascurato sino a pochissimo tempo prima; vent’anni prima sarebbe stato quasi impossibile riunire un gruppo di venticinque studiosi come quelli i cui saggi sono riuniti in questo volume. Molti di questi, abbastanza significativamente, hanno meno di quarant’anni e molto pochi hanno più di cinquant’anni.7 Segno certo del nuovo atteggiamento e della nuova attenzione critica per la scultura funeraria è la presenza 15 Lo splendore della forma 16 nella sezione di ben tre saggi sull’argomento, a opera di Fred Licht, Nicolas Penny e Rossana Bossaglia.8 Janson sottolineava inoltre come in circa un decennio la situazione stesse decisamente cambiando e come la scultura divenisse un vero e proprio nuovo campo di ricerca e si stesse iniziando a colmare il divario rispetto agli studi sulla pittura. Ugualmente notava come l’ambito degli studi sostanzialmente si fosse un tempo riduttivamente focalizzato sui contesti che da una parte facevano centro su Canova e dall’altro su Rodin: ossia sui due momenti di modernizzazione all’inizio e alla fine del XIX secolo. Tutto quanto stava in mezzo era visto rispettivamente come una conseguenza della lezione canoviana o, per contro, come una anticipazione, attraverso la figura di Rodin, di quanto sarebbe avvenuto nelle avanguardie di primo Novecento. Questo, naturalmente, metteva in secondo piano tutto il resto, ma anche impediva di comprendere l’ampiezza e la qualità della diffusione della scultura nella realtà del tempo. Diversi altri elementi emergevano dall’analisi di Janson: innanzitutto la messa in evidenza di un certo disagio culturale da parte della storia dell’arte del Novecento nei confronti di un’esperienza artistica come quella della scultura in cui i fattori tecnici e di moltiplicazione (visti come processo di industrializzazione e non come segno dell’ampio interesse dei contemporanei nei confronti di questa forma d’arte) sembravano contrastare coll’idealizzazione del gesto artistico come fattore prettamente individuale: idea presente ancora negli anni Sessanta del Novecento in molta della critica formalistica, poco attenta alla collocazione dell’opera d’arte nel suo specifico contesto socio-culturale. Ma un’altra riflessione che oggi, in una prospettiva storica, risulta particolarmente convincente è quella che Janson deriva da Hans-Gerhard Evers (1966): “La scultura dell’Ottocento è ancora così poco familiare che il nostro primo compito è quello di raccogliere il materiale e la sua documentazione dalla vasta quantità disponibile”.9 Janson finiva per concludere che ciò che valeva nel 1966 era altrettanto valido, di massima, per gli anni Per una riflessione complessiva Santo Saccomanno, Tomba Erba, 1883, Genova, Cimitero di Staglieno Settanta; anche se, a dire il vero, intorno alla metà del decennio motivi diversi si stavano proponendo, insieme a nuove e più ampie riflessioni, nuovi approcci critici alle problematiche della scultura: specialmente in area anglosassone e francese. Emblematica di questo incrocio fra cultura americana e francese (anche perché dà una nuova lettura problematica della scultura funeraria nel saggio di Fred Licht che è compreso nel catalogo),10 è la mostra curata da Peter Fusco e dallo stesso Horst W. Janson: The Romantics to Rodin. French Nineteenth-Centur y Sculpture from North American Collections.11 Particolarmente in area francese numerosi studi – pur traguardati soprattutto sulla riscoperta del tessuto nazionale – danno l’avvio a più generali riflessioni metodologiche: di particolare interesse, in proposito, la mostra tenutasi nel 1986 al Grand Palais di Parigi, La sculpture française au XIX siècle,12 sotto la direzione generale di Anne Pingeot – allora Conservatrice del Musée d’Orsay –, in cui si affrontano problematiche tecniche e sociologiche della scultura, dal funzionamento dei Salons e degli ateliers, alle committenze pubbbliche e private, fino al trasformarsi progressivo dei linguaggi lungo il corso del secolo. Il saggio introduttivo della Pingeot 13 è di particolare interesse perché fa il punto sulla situazione degli studi: anche se la rassegna bibliografica ha ovviamente un 17 Lo splendore della forma Fritz Wotruba, Tomba di Selma von Halban-Kurz, m. 1933, Vienna, Zentralfriedhof punto di vista prevalentemente francese, presenta tuttavia ampi riferimenti alla letteratura internazionale, in particolare con la messa in evidenza della scuola americana e del ruolo fondamentale di Janson. All’interno di questa ampia analisi non poteva mancare, naturalmente, una riflessione sulla scultura funeraria, nel saggio De la mort paisible à la mort tragique, curato da Antoinette Le Normand Romain.14 18 Ci parevano necessarie queste pur minime considerazioni preliminari, perché se esse sono particolarmente valide per la scultura in generale, diventano imprescindibili per contestualizzare una qualsiasi riflessione sulla specifica esperienza della scultura funeraria. Infatti, se le problematiche della scultura ottocentesca e di primo Novecento incontravano un limitato favore tanto negli studi,15 quanto nel gusto e nello stesso mercato, ancora minore era l’interesse per ciò che concerneva quella funeraria. Studi sistematici se ne vedono ben pochi dagli anni Venti/Trenta fino agli anni Settanta del Novecento, e non frequenti sono del resto quelli dedicati ai singoli complessi funerari, oppure quelli, pur suggestivi, di carattere tipologico o iconologico: volti, questi ultimi, soprattutto a una conoscenza storica e, talvolta, allo studio di nuove possibili forme per i cimiteri contemporanei. Esemplare fra questi, a nostro avviso, è il volume di Robert Auzelle, Dernières demeures del 1965 (data piuttosto precoce per questo tipo di studi), che intrec- Per una riflessione complessiva cia gli elementi storici con quelli tecnici e progettuali e correda lo studio di una ricca bibliografia tematica.16 Alle linee di rimozione nei confronti della scultura funeraria evidenziate da Janson, si devono senz’altro aggiungere altre motivazioni fondamentali, sia di tipo linguistico sia di tipo socio-culturale: anch’esse oggi da rimuovere per comprendere appieno il fenomeno della scultura funeraria e recuperarne l’effettiva importanza, come del resto i diversi contributi al convegno di Verona ben documentano. La scarsa storicizzazione induce spesso – come è stato per anni non solo nel senso comune, anche da parte degli studiosi – a ritenere erroneamente che quelle della scultura funeraria siano esperienze accademiche che seguono linee di sviluppo diverse dalle linee di ricerca che confluiranno nelle vicende di avanguardia del Novecento. Altro elemento che nuoce è peraltro la sostanziale incomprensione dell’originario forte valore comunicativo – sia come elemento emblematico-sociale, sia di memoria tanto pubblica che privata – della scultura, man mano che essa perde storicamente, nel corso del XX secolo, il ruolo sociale, sostituita da altri tipi di monumentalità.17 Ciò avviene progressivamente dopo la Prima guerra mondiale, quando a un’idea di memoria individuale si sostituisce in parte una sorta di memoria collettiva che allontana il ricordo del singolo: proponendo per contro una sorta di silenzio collettivo, di volontà di anonimato di fronte alla morte, che ritualizza, attraverso il simbolo generale, le memorie singole, stemperandole, si fa per dire, nella comune condivisione drammatica della incommensurabilità della catastrofe. Si veda qui il contributo di Zucconi e Anna Maria Fiore sui mausolei della Prima guerra mondiale.18 La morte non è più soltanto del singolo, ma di tutti e alla statua – ricordo di memorie tanto private che pubbliche, si va sempre più sostituendo il mausoleo o il memoriale, pur di dimensioni retoriche diverse, a seconda delle comunità coinvolte che lo promuovono: dall’enorme silenzio di Redipuglia che, nella sua astrazione formale, riesce in parte ad allontanarsi dalla più abituale 19 Lo splendore della forma 20 retorica del regime; al progetto, non a caso non realizzato per volontà governativa, della “Via Crucis laica” di Eugenio Baroni per il ricordo del Fante sul Monte San Michele, in cui la scultura tenta ancora di trovare una sua logica di memoria, inserendosi in quello stesso paesaggio che ha visto lo svolgersi comune della catastrofe.19 Il dissolversi nella memoria collettiva20 è in sostanza la fine di una storia della scultura funeraria e, più generalmente, di una scultura di commemorazione sociale e individuale che aveva trionfato per oltre un secolo e mezzo nella cultura occidentale, diffondendosi fra XIX secolo e primi decenni del XX non solo in Europa, ma ben oltre i suoi stessi confini: esportando modelli simbolici oltre che di gusto e comportamentali che, pur modificandosi a seconda dei contesti culturali e territoriali, creano spesso un linguaggio che ha molte più forme comuni di quanto si pensi. Tutto ciò non vuol dire, peraltro, che la scultura funeraria sparisca nei decenni successivi alla guerra, ma sta di fatto che tendono a prevalere forme architettoniche spesso banali, contenitori della morte familiare, piuttosto che espressione di una concezione profonda del rapporto fra la morte e la vita. Contemporaneamente si sviluppa la standardizzazione delle immagini più che non il loro uso personalizzato. Non a caso, ritornano forme consuete e banalizzate della pietas religiosa (la pietà più o meno derivata da quella michelangiolesca vaticana, Cristi variamente benedicenti ecc., in forte contrasto con quelle forme di laicizzazione della morte che avevano caratterizzato gli anni precedenti la Grande guerra e avevano spesso coinvolto e trasformato le stesse icone religiose. Il banale della commemorazione sembra sempre più associarsi all’assenza di commemorazione. Anche tutto questo, forse, determina la perdita dell’interesse e il fraintendimento della scultura funeraria.21 Tutto ciò ha peraltro delle eccezioni nella continuità di una scultura d’artista che offre profonde anche se non frequentissime testimonianze nel corso del XX secolo, peculiarmente quando il tema della morte e della memoria si incontrano con le realizzazioni delle avanguardie: è questa, del resto, una delle problema- Per una riflessione complessiva tiche tuttora da approfondire, rimossa anch’essa com’è dagli studi sulla scultura contemporanea. Basterebbe qui ricordare anche solo pochi esempi che mostrano come persista intenso il rapporto fra scultura e memoria. Una delle opere più note, ad esempio, di Brancusi è Il bacio, conservata nel Cimitero di Montparnasse (lo stesso artista aveva dato un altro alto esempio nel cimitero Bellu di Bucarest con La Preghiera).22 Scultori come Epstein,23 Arp,24 Laurens,25 Victor Brauner,26 Alberto Giacometti27 fino a Niki de Saint-Phalle28 hanno operato nei cimiteri francesi, proponendo opere innovative. In Italia Adolfo Wildt, Francesco Messina, Lucio Fontana, Arturo Martini, Arnaldo Pomodoro; al Zentral Friedhof di Vienna sono presenti opere di Fritz Wotruba, fra cui la Tomba della cantante d’opera Selma von Halban-Kurz, solo per citare alcuni esempi di una permanente continuità fra arte contemporanea e memoria funeraria, pur con valenze diverse rispetto a quanto avveniva nel corso del XIX e con una più stretta relazione concettuale fra artista e committente (talvolta lo stesso artista è il committente di se stesso). Il ritorno a una nuova attenzione per gli studi sulla scultura funeraria avviene, come si diceva, intorno agli anni Settanta del Novecento. In seguito a motivi diversi che non sono sempre facili da definire, in quanto incrociano il più generale ritorno di interesse per la scultura da parte degli studiosi, di cui si è detto, con quello per un nuovo mercato che coinvolge sempre più la scultura e soprattutto quella di piccolo-medio formato così ampiamente sviluppatasi nel corso del XIX secolo. Ma, nello specifico della scultura funeraria entrano in gioco senz’altro ulteriori motivazioni di carattere più ampio e non solo prettamente artistico. E non è certo un caso se, contestualmente, si va diffondendo sempre più, per definire il cimitero, il termine di “museo di scultura all’aperto”, innescando allo stesso tempo il concetto di “conser vazione” di questo imponente materiale artistico e culturale.29 Accanto alle progressive ricognizioni sulle realtà della scultura europea e americana, fra anni Sessanta e Settanta, studi socio-antropologici, genealogici, oltre che 21 Lo splendore della forma 22 tecnico-produttivi,30 pongono l’attenzione, pressoché nello stesso periodo, su quelli che si incominciano di nuovo a considerare (qualitativamente e quantitativamente) luoghi “privilegiati” della scultura: ossia i grandi cimiteri monumentali, non più mentalmente rimossi, ma visti per contro come una grande raccolta di immagini capaci di restituire, pur con qualità diverse, le chiavi di lettura di una cultura e di una ideologia della morte ancora fortemente radicata nel presente.31 Il lavoro di studiosi come Philipe Ariès, 32 Michel Ragon33 e, particolarmente Michel Vovelle,34 ridanno forte rilievo all’analisi problematica della morte e della sua rappresentazione, mettendo in evidenza il forte valore testimoniale della scultura funeraria nella più generale analisi storico-sociale del problema.35 La stringente successione di forme e di linguaggi ripercorreva l’immaginario e il comportamento di una società in forte evoluzione, che soprattutto nella concretezza del realismo36 trovava il suo momento più forte di espressione e di rappresentazione e alla durevolezza del marmo e del bronzo, oltre che alla forma e all’organizzazione monumentale del cimitero, aveva affidato sempre più i propri processi di autorappresentazione. Allo stesso modo, fra fine XIX secolo e i primi del XX, ancora agli stessi materiali affida, pur attraverso l’indeterminatezza simbolista, lo stato di pervadente inquietudine che attraversa l’epoca, fino al dissolversi delle sue certezze.37 Data ormai per scontata, sul finire del Novecento, l’importanza storica e artistica del cimitero e delle sue immagini, diveniva sempre più importante ampliare anche quantitativamente gli studi, allo scopo di verificare qualità, specificità ed estensione dei fenomeni. Nonostante l’intensificarsi degli studi nell’ultimo quarto del XX secolo, restavano comunque ancora molte questioni di fondo da chiarire. Innanzitutto quella della qualità della scultura funeraria e soprattutto il suo rapporto con la scultura accademica e l’artigianato plastico. Non mancava infatti di stupire il permanere di giudizi classificatori sommari di fronte a fenomeni che dovevano essere considerati soprattutto nella loro estensio- Per una riflessione complessiva Constantin Brancusi, Il bacio, Tomba Tatiana Rachevski, 1907-1908, Parigi, Cimitero di Montparnasse 23 ne e nella loro capacità di diffondersi, oltre che per la singola qualità tecnica. Del resto era ormai accertato l’impegno dei grandi scultori in questo ambito, spesso strettamente legato alla volontà di dare un’interpretazione personale della morte e della memoria, rifiutando una visione convenzionale. Ciò è avvenuto in diversi paesi, soprattutto Francia e Italia dove, dietro a una rappresentazione funeraria c’è soprattutto un forte pensiero sulla morte. Basti pensare agli innumerevoli casi che si riscontrano al PèreLachaise o nei principali cimiteri parigini come Montmartre o Montparnasse o nei numerosi italiani, da Staglieno alla Certosa di Bologna, dal Vantiniano di Brescia al Monumentale di Milano, al Verano di Roma, solo per citarne alcuni: e gli interventi nel convegno ancora una volta lo confermano. Lo splendore della forma 24 Molte di queste opere sono largamente note e pienamente riconosciute come parte dei processi di avanguardia della scultura: basti pensare ai modelli canoviani e al loro valore emblematico per oltre un secolo, nel determinare l’idea stessa di morte: come ad esempio nella tomba di Maria Cristina d’Austria agli Agostiniani di Vienna, dove si inventa una originale idea laica della morte, con chiara allusione al tempo e alle età dell’uomo, oltre che alle virtù della defunta.38 Basterebbe del resto pensare, in un contesto del tutto diverso, a opere come il Cavaignac di François Rude, di cui si riconosce abitualmente la qualità, ma di cui non si sottolinea mai abbastanza la precocità con cui uno scultore romantico, di fronte alla volontà di restituire l’assolutezza della morte, si trasforma in un realista, anticipando di circa un lustro alcune delle opere più importanti di Courbet. La presenza, più di quanto non si sottolinei abitualmente, in molti cimiteri europei di opere dovute a grandi e noti scultori – particolarmente in Francia, Italia, Germania, Austria, Inghilterra – testimonia del resto come la committenza si affidasse abitualmente ad artisti non accademici, e solo la grande richiesta di scultura funeraria, soprattutto dopo la metà del XIX secolo, con il sempre maggiore impulso dato dalla borghesia, mettesse in gioco, in parallelo, una moltitudine di artisti di minore capacità innovativa, fino a una diffusa operatività di qualità artigianale. Diventava quindi quasi consequenziale che, proprio per il rilievo assunto, i modelli “alti” di questa rappresentatività fossero largamente ripresi sia dagli artisti stessi, sia da uno stuolo di imitatori di diversa qualità: anche se, quasi paradossalmente, non bisogna dimenticarlo, la qualità stessa della formazione accademica garantisse una “media” qualità anche alle repliche e alle numerose derivazioni che costellano i cimiteri monumentali europei e non solo. Moltissimi sono i casi che si potrebbero citare. Addirittura spesso tali modelli divengono scelte culturali di area: l’oscillazione fra modelli neobarocchi e neoclassici guidano spesso le immagini delle aree germaniche: anche se qui spesso prevale il carattere naturalistico su Per una riflessione complessiva quello monumentale, come del resto avviene anche in parte in Inghilterra. Per quanto riguarda la Germania si veda la tipologia del Waldfriedhof di Monaco di Baviera e lo stesso Zentralfriedhof di Vienna: pur nella presenza di opere di grande pregio fino al Novecento, sembra darsi grande spazio all’ambiente naturale oltre che alle realizzazioni monumentali. Ma un’altra considerazione nasce dalle riflessioni condotte dai diversi studiosi: ossia che se il linguaggio della scultura funeraria europea propone certo specifiche connotazioni, a seconda delle aree di sviluppo o delle caratteristiche confessionali, esso mostra spesso una consonanza di pensiero sulla morte e sulla memoria, che si concreta nell’ampio diffondersi di tematiche, simboli e forme di un immaginario che va ben oltre i confini regionali e che diviene spesso proposta forte, accolta anche nelle aree extraeuropee (particolarmente le Americhe), come alcuni degli interventi ben testimoniano, evidenziando una circolazione dei modelli e dei valori ben più ampia di quanto non si pensi abitualmente. Un evidente esempio dell’amplissima diffusione di modelli considerati “alti” attraverso repliche sia originali dell’artista sia copie di qualità diverse è il famosissimo angelo della Tomba Oneto, a Staglieno, di Giulio Monteverde, diffuso in tutta Europa e nelle Americhe (rimandiamo qui al contributo di Leo Lecci),39 o al quasi altrettanto famoso angelo della Tomba Story al cimitero Acattolico di Roma (si veda il saggio di Christina Huemer),40 che si diffonde particolarmente nell’area americana.41 Ma questi non sono che due fra gli esempi più noti. Particolarmente nel caso della tipologia dell’angelo le copie e le variabili sono davvero infinite e si adattano spesso alle aree culturali in cui si propongono, con trasformazioni dovute talvolta al gusto e all’artigianato locale.42 Se i due casi appena citati sono indubbiamente rappresentativi per la loro diffusione, lo sono ancora di più perché testimoniano una problematica che coinvolge più strutturalmente le vicende della scultura del XIX secolo e dei primi decenni del XX e, in modo particolare quella funeraria che della diffusione dei modelli fa un fenomeno fisionomico, particolarmente per certe aree culturali. Fra gli interventi presenti nel volume, si 25 Per una riflessione complessiva Lo splendore della forma 26 veda in particolare quello di Cristina Beltrami che dimostra quale rilievo il problema abbia in un paese dell’America Latina come l’Uruguay.43 Ciò vale particolarmente per la scultura funeraria italiana che ha una capacità di diffusione ben più ampia di quanto non abbiano avvertito le stesse storicizzazioni nazionali.44 Altrettanto si può dire per quella spagnola e francese, in un intreccio di linguaggi che proprio nell’ambito della scultura funeraria si fa particolarmente stretto, creando una internazionalizzazione delle esperienze che si modella particolarmente sulle scelte di gusto dei committenti che si rispecchiano in forme e stili: ben oltre, talvolta, della rilevanza ufficiale degli esempi proposti. Anche queste problematiche di interscambio sono oggetto recente di ricerche che hanno permesso di ricollocare progressivamente la posizione storica della scultura al di là delle sommarie definizioni degli studi anteriori agli anni Settanta del Novecento, in una progressione di analisi che hanno caratterizzato soprattutto gli ultimissimi decenni e di cui questo volume è buon esempio. La graduale attenzione al valore intrinseco della scultura presente nei cimiteri europei ed extraeuropei e la progressiva convinzione che essa non fosse una forma minore di rappresentazione, portò, come si è detto, fra fine anni Settanta e anni Ottanta a uno studio più capillare della scultura funeraria in se stessa e, di conseguenza, del suo contesto. L’interesse sembra porsi, almeno all’inizio, su situazioni complessive, quasi rassegne generali del mondo cimiteriale, talvolta orientate al pittoresco (come del resto le prime, pur non frequenti, monografie sui singoli cimiteri). 45 Ricordiamo ad esempio il testo di Edmund V. Gillon JR., Victorian Cemetery Art (1972),46 E. Bacino, I Golfi del silenzio (1979),47 o quello più specifico di Chabot, Érotique du cimitière (1989),48 che affronta, con particolare attenzione, una delle tematiche più intriganti e spesso maggiormente rimosse della scultura funeraria fra Ottocento e Novecento. A queste rassegne generali, sostanzialmente a carattere informativo, incominciano a susseguirsi ben presto studi d’area o tipologici, in cui si propone con sempre maggiore rilievo l’importanza della scultura funeraria accanto a quella dell’architettura. I diversi contributi raccolti seguono spesso questa linea di analisi territoriale, con un’ampia diversificazione di aree: dal Portogallo alla Spagna, alla Gran Bretagna, all’Irlanda, alla Francia, alla Romania, alla Slovenia, all’area danubiano-balcanica, al Canton Ticino fino alla Finlandia, quando non affrontano la specificità contestuale di singoli cimiteri europei (Vienna, Berlino, Milano, Bologna, Roma – Verano e Cimitero acattolico –, Staglieno, Marsiglia, Firenze, Bruxelles): tali diversi interventi hanno indubbiamente aperto ulteriori strade di lettura, proponendo nuove problematiche specifiche e, soprattutto, chiarendo significative aree di identità della scultura funeraria al di là di stereotipi identificativi, evidenziando nuove se non addirittura inedite fisionomie rappresentative. La crescita dell’ASCE e della sua rete di relazioni europee ed extraeuropee si può dire che abbia contribuito non poco all’ampliamento della conoscenza della cultura funeraria e, particolarmente della sua complessità geo-culturale: oltre che, soprattutto, della necessità di una più profonda coscienza delle esigenze conservative di questo immenso patrimonio artistico e storico, coinvolgendo, oltre che gli studiosi, le stesse amministrazioni a cui competono i compiti conservativi. 1 2 E. Panofsky, Tomb Sculpture. Four Lectures on Its Changing Aspects from Ancient Egypt to Bernini, Harry N. Abrams, Inc., New York 1964. C. Brooks, in Mortal Remains, Wheaton Publisher Ltd, Exeter, 1989, riflette come gran parte della fortuna dei nuovi cimiteri, come ad esempio quello del Père-Lachaise, nascesse dalla garanzia di una memoria pressoché 3 perpetua attraverso una tomba – per chi avesse la capacità economica per costruirsela. Il prestigio e l’evidenza della tomba era naturalmente amplificata dalla presenza della scultura, come del resto era evidenziato, soprattutto dopo il 1850, in complessi come il londinese Kensal Green. Si veda F. Sborgi, La théâtralisation de la mort dans la sculpture funeraire au 27 Per una riflessione complessiva Lo splendore della forma 4 5 6 7 8 28 9 10 11 12 13 14 15 XIX siècle, in Les Narrations de la Mort, Actes du Colloque International, Aixen-Provence, 20-22 novembre 2003, Publications de Université de Provence, Aix-en-Provence 2005. F. Sborgi, Immagini della modernità nella scultura funeraria fra Ottocento e Novecento, in C. De Carli - F. Tedeschi, Il presente si fa storia. Scritti in onore di Luciano Caramel, Vita & Pensiero, Milano 2008, pp. 36-49. M. Rheims, La Sculpture au XIXe siècle Paris, 1972. Si ricorda in particolare H.W. Janson, 19 th Century Sculpture, Harry N. Abrams inc., New York 1985. H.W. Janson (a cura di), La scultura nel XIX secolo, Atti del XXIV Congresso C.I.H.A., Bologna 10-18 settembre 1979, vol. VI, Clueb, Bologna 1984. H.W. Janson (a cura di), La scultura nel XIX secolo, C.I.H.A., Atti del XXIV Congresso Internazionale di Storia dell’arte, Bologna 1979, vol. 6, Clueb, Bologna 1984. Il tema era già stato occasione di riflessione in H.W. Janson, Rediscovering Nineteenth Sculpture, in “The Art Quarterly”, XXXVI, n. 4, pp. 411-414. N. Penny, Symbol and Style in English nineteenth century sepulchral sculpture; F.S. Licht, Italian funerary sculpture after Canova; R. Bosssaglia, Scultura cimiteriale a Milano tra Scapigliatura e Simbolismo. Propyläen-Kunstgeschichte, Die Kunst des 19. Jahrhunderts, Bd. 11, Propyläen Verlag, Berlin 1966. F. Licht, Tomb Sculpture, in P. Fusco e H.W. Janson, The Romantics to Rodin. French Nineteenth- Century Sculpture from North American Collections, Los Angeles County Museum – George Braziller Inc., Los Angeles 1980, pp. 96-108. Fusco e Janson, The Romantics to Rodin cit. AA.VV., La sculpture française au XIX siècle, Paris, Galeries nationales du Grand Palais, Editions de la Réunion des musées nationaux, Paris 1986. Ibidem, pp. XI-XXI. La studiosa, oltre a numerose altre opere sulla scultura, pubblicherà nel 1995 Mémoire de Marbre. Sculpture funéraire en France 1804-1914, Mairie de Paris, Bibliothèque historique de la Ville de Paris, Paris 1995. Studi innovativi per alcuni paesi euro- 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 pei incominciano anche in questo caso fra anni Settanta e Ottanta. Ricordiamo per la Gran Bretagna B. Read, Victorian Sculpture, Yale University Press, New Haven–London 1982 (Read dedica un capitolo alla scultura funeraria); S. Beattie, The New Sculpture, Yale University Press, New Haven–London 1983; B. Read, Victorian Sculpture, Yale University Press, New Haven–London 1983. R. Auzelle, Dernières demeures. Conception, composition realization du cimetière contemporain, Imprimerier Mazarine, Paris 1965. Sull’argomento si veda anche J.J. Young, The Texture of Memory, Yale University Press, New Haven-London 1993. Si parla di oltre sedici milioni di morti. Si veda anche in G. Rossini e C. Masi (a cura di), Da Baroni a Piacentini, Immagine e memoria della Grande Guerra a Genova e in Liguria, catalogo della mostra, Genova, Palazzo Reale, Skira, Milano 2009. E Id., Da Baroni a Piacentini. Percorsi di approfondimento, Atti del convegno, Genova, Palazzo Reale 2009, Sangiorgio editrice, Genova 2010. Sul problema si veda anche F. Sborgi, Guardare la guerra, pp. 51-67. Si veda F. Sborgi (a cura di), Eugenio Baroni, catalogo della mostra, Bogliasco, De Ferrari Editore, Genova 1990. Sul trasformarsi del concetto di monumento e memoria, si veda S. De Maria e V. Fortunati (a cura di), Monumento e Memoria, atti del convegno, Bologna 11-13 ottobre 2006, Bononia University Press, Bologna 2010. Anche se, ancora negli anni Sessanta, permane a livello popolare, almeno in Italia, l’interesse per le nuove tombe, testimoniato dalle rubriche che si ripropongono sui giornali quotidiani nell’occasione dei giorni di commemorazione dei morti. Tomba T. Rachevskaia, Parigi, Montparnasse, 1909-1910. Tomba Oscar Wilde, Parigi, PèreLachaise, 1912. Tomba Pierre Loeb, Parigi, Montparnasse. Il dolore, Tomba Laurens, Parigi, Montparnasse. Signe, Tomba Victor Brauner, Parigi, Montparnasse. Tomba Gerda Taro, Parigi, Père-Lachaise. Tomba di Richard Menon, Parigi, Montparnasse 1990. 29 30 31 32 33 34 35 36 Al principio della conservazione oltre che alla valorizzazione si sono ispirati progetti europei come quello Raphael (S. Diéguez, Patao-Carmen Gjménez, a cura di, Arte y Arquitectura funeraria, Dublin, Genova, Madrid, Torino, Electa España, Madrid 2000), oltre alla stessa costituzione e l’attività dell’Ascee. J.L. Wasserman (a cura di), Metamorphoses in Nineteenth-Century Sculpture, Fogg Art Museum, Harvard University Press, Harvard 1975. Di particolare interesse per la molteplicità delle chiavi di lettura proposte contestualmente furono alcuni convegni nel corso degli anni Novanta: ricordiamo in particolare Una Aquitectura para la Muerte, I Encuentro internaional sobre los cementerios contemporaneos, Sevilla 4-7 junio 1991, a cura di F. Javier Rodriguez Barberàn, Sevilla 1993. L’Homme devant la mort, Paris, Seuil 1977 (L’uomo e la morte dal medioevo ad oggi, trad. it. di M. Garin, Laterza, Bari 1980). Lo spazio della morte: saggio sull’architettura, la decorazione e l’urbanistica funeraria, Guida, Napoli 1986. La mort et l’Occident de 1300 à nos jours, Paris 1983 (trad. it. La morte e l’Occidente dal 1300 ai giorni nostri, Laterza, Bari 1986). Si veda in particolare la parte VII, cap. XXXV. In questo ambito culturale si muovono i diversi studi problematici di Régis Bertrand. A partire dagli anni Ottanta/Novanta incominciano a organizzarsi convegni sul tema che, partiti da letture socioantropologiche, danno progressivamente spazio alla forma architettonica e alla scultura. Questo carattere misto si riscontrava ad esempio in quello organizzato a Torino nel 1992, Le Periferie della memoria (“Notiziario di Statistica”, Torino 1993, n. 2, pp. 7-26 dove, accanto a saggi sociologici, antropologici (Lombardi Satriani) ecc., compariva il saggio specificamente storico-artistico La rappresentazione della morte nelle grandi configurazioni cimiteriali urbane fra Ottocento e primo Novecento, di chi scrive. Si veda, più recentemente, R. Bertrand, A. Carol, J.-N. Pelen, Les Narrations de la mort, Université de Provence, Aix-eProvence 2005. Si veda L. Nochlin, Realismo. La pittura in Europa nel XIX secolo, Einaudi, Torino 1979 (Realism, Penguin Booksd Ltd, 37 38 39 40 41 42 43 44 45 46 47 48 Harmndsworth 1971) e in particolare il capitolo La raffigurazione della morte intorno alla metà dell’Ottocento. S. Berresford (a cura di), Carrara e il mercato della scultura II, Motta Cultura s.r.l., Milano 2007. Per i significati diversi dell’opera, si veda H. Honour, Neoclassicismo, Einaudi, Torino 1980, pp. 106-107 (prima ed. 1968). Cfr. ivi pp. 250 e sgg. Cfr. ivi p. 202. Da Stanford a Columbus, a Oakland, a Rochester, a Scottsville ecc.: solo per citare alcuni dei numerosissimi esemplari. Si veda, a titolo d’esempio, F. Sborgi, Companions on the Final Journey. Reflections on the image of the Angel in funerary sculpture during the Nineteenth and Twentieth Centuries, in S. Berresford (a cura di), Italian Memorial Sculpture 1820-1940. A Legacy of Love, Frances Lincoln, London 2004. Qui si veda anche per le variazioni tipologiche in generale. Cfr. ivi pp. 114 e sgg. Ancora Janson (Nineteenth Century Sculpture, Thames & Hudson, London 1985, p. 228, rilevava: “… un aspetto peculiare della scultura italiana del XIX secolo che non è mai stato sistematicamente affrontato [...] è l’esportazione sia di sculture che di scultori…”. Si veda anche F. Sborgi, Alcune note sulla diffusione della scultura italiana fra fine Ottocento e inizi Novecento, in L’architettura dell’eclettismo. La diffusione e l’emigrazione di artisti italiani nel Nuovo Mondo, Atti del I Conv. internazionale L’altra Italia. Architettura dell’Eclettismo ed emigrazione colta nella seconda metà dell’Ottocento, Jesi 1998, ed. Liguori, Napoli 1999, pp. 159-202. Si veda, ad esempio, Grasso e Pellicci, Staglieno, Sagep, Genova 1974 oppure i suggestivi volumi fotografici di I. Inhoffen (Uber Dem Tieferen Schlaft, Bilder und Gedanken zu einem alten Friedhofr, Karl Schillinger, Freiburg 1978), Isolde Olbaum (Denn alle Lust will Ewigkeit, Munchen 1992 ecc.). E.V. Gillon, Victorian Cemetery Art, Dover Publications, Mineola, NY 1972. E. Bacino, I Golfi del Silenzio. Iconografie funerarie e cimiteri d’Italia, A. Lalli editore, Firenze 1979: il testo parte dall’antichità e giunge al presente. A. Chabot, Érotique du cimitière, Henri Veyrier, Paris 1989. 29 LE REGIONI La scultura nei cimiteri del Portogallo (1835-1910) di Francisco Queiroz I cimiteri portoghesi del diciannovesimo secolo mostrano più particolarità architettoniche che scultoree. Spesso costituito solo da un muro e un’entrata con un importante cancello in ferro battuto, il tipico cimitero portoghese è caratterizzato da una gran varietà di cappelle funerarie e mausolei di commercianti del posto, proprietari terrieri, aristocratici, politici, dottori, giudici, insegnanti e altre persone benestanti. Questa diversità tipologica si riflette inevitabilmente nella diversità delle sculture e questo comporta che anche i livelli della qualità artistica siano in certi casi diversi, anche tra gli stessi tipi di lavori scultorei in un singolo cimitero. Possiamo quasi dividere il Portogallo in due aree, corrispondenti ai due modelli precedenti di cimitero: una rappresentata dal cimitero dos Prazeres a Lisbona, l’altra dal cimitero di Lapa a Porto. Entrambi sono diversi dai modelli più comuni in Italia, Francia, Spagna e Inghilterra. Nonostante ciò, nel nord del Portogallo (modello del cimitero di Porto) possiamo trovare alcune somiglianze con l’Italia, specialmente tra i cimiteri 33 Lo splendore della forma 34 più piccoli, dove le cappelle funerarie più grandi sono allineate alle mura esterne. Dall’altra parte, il modello di Lisbona ha alcune somiglianze con il noto modello francese che consiste nella distribuzione di vari tipi di monumenti lungo le strade del cimitero, sebbene nei cimiteri di Lisbona la griglia dei piccoli viali sia più geometrica. Nonostante queste sfumature, non c’è un solo caso in Portogallo in cui le cappelle private e i mausolei siano costruiti sotto a dei porticati, come succede nei cimiteri più grandi del nord Italia. Le sculture nei cimiteri portoghesi tendono a essere un ornamento degli imponenti monumenti funerari, il cui apparato è soprattutto architettonico o decorativo. Conseguentemente, le sculture nei cimiteri portoghesi sono per lo più allegoriche e collocate nelle facciate delle cappelle e in cima ai mausolei più grandi. Le figure più comuni sono la Fede, la Carità e la Speranza, anche se la Speranza è probabilmente la più usata tra le tre. Nei cimiteri più grandi è facile anche trovare altre statue allegoriche, come l’Industria e il Commercio. In alcune delle tombe degli imprenditori più ricchi possiamo anche trovare la statua del Brasile o della coppia Europa ed America. Altre statue allegoriche, come l’Arte, l’Agricoltura e la Navigazione possono essere presenti in virtù della biografia del defunto. Nei cimiteri più grandi possiamo anche trovare le statue della Religione e dei santi patroni. Tuttavia, le rappresentazioni religiose come l’Immacolata Concezione di Maria, il Sacro Cuore di Cristo e La Sacra Famiglia spesso compaiono solo a partire dall’inizio del ventesimo secolo. Alcune delle prime statue rappresentano le tradizionali donne piangenti e la Saudade, che rappresenta il sentimento della mancanza e può essere tradotto in maniera approssimativa con il termine “malinconia”. Alcune di queste antiche statue sono molto fredde nella loro espressione e posa: ciò è dovuto al fatto che sono basate rigorosamente sul modello neoclassico. Si possono trovare anche immagini metaforiche connesse alla morte, come l’Inverno o la Notte. Durante tutto il periodo del Romanticismo possiamo trovare facilmente nei cimiteri portoghesi vari tipi di angeli e geni della morte. La scultura nei cimiteri del Portogallo Angeli della redenzione, angeli della preghiera e angeli del silenzio erano le tipologie più diffuse di queste figure celesti che spesso avevano un modesto valore artistico. Abbiamo un buon numero di sculture belle e interessanti, generalmente sconosciute agli studiosi e difficilmente studiate. Inoltre, per quanto riguarda il Portogallo, è proprio il periodo romantico quello meno documentato storiograficamente, spesso con studi storico-artistici superficiali, e su cui c’è ancora molto da scoprire. Le sculture veramente notevoli nei cimiteri portoghesi sono rare. Bisognerebbe considerare che il Portogallo è una nazione molto piccola e che prima della fine del diciannovesimo secolo solo due città, Porto e Lisbona, superavano i centomila abitanti e d’altra parte, in Portogallo non ci furono molti scultori famosi prima di quel periodo. Anche gli storici dell’arte lo riconobbero. Comunque ci furono scalpellini portoghesi molto bravi, specializzati nello scolpire simboli iconografici e tutti i tipi di decorazioni nei monumenti. Se non abbiamo molti pezzi di scultura notevoli, sicuramente abbiamo però molti esempi efficaci di decorazioni in pietra. Ritratti in rilievo, busti e anche alcune statue di defunti erano diffusi nei più importanti cimiteri del Portogallo del Nord e anche nei cimiteri di Lisbona. Queste opere scultoree erano soprattutto in marmo portoghese conosciuto come “lioz”, che è un ottimo materiale per i monumenti funebri e, a Lisbona, è l’unico tipo di pietra calcarea usata nelle opere scultoree e decorative (oltre ad alcuni rilievi e a qualche scultura in marmo di Carrara). Nei cimiteri del Portogallo del Nord ci sono anche alcune sculture di terracotta (parte di esse poco rappresentative), realizzate soprattutto dagli artisti della “Fabrica de Ceramica das Devesas”. Queste statue hanno spesso una buona qualità e possono essere collocate tra le più interessanti di questo tipo in Europa. Le sculture in bronzo venivano realizzate molto raramente per i cimiteri portoghesi durante il diciannovesimo secolo e quasi tutti gli esempi erano degli ultimi anni di quel secolo e dei primi del seguente. L’uso del bronzo fu anche il segno di un manufatto più ricco e di un monumento più colto. 35 Lo splendore della forma 36 L’evoluzione estetica della scultura nei cimiteri portoghesi non è tuttavia facile da ripercorrere, poiché alcuni esempi hanno bisogno di un’analisi più profonda, anche se le influenze classiche erano molto chiare fino agli anni Settanta dell’Ottocento. “L’età dell’oro” della scultura funeraria portoghese si situa probabilmente negli anni Ottanta dell’Ottocento, ma non possiamo escludere un ritardo di dieci o più anni se confrontiamo quello che andava di moda nei cimiteri di Lisbona e di Porto piuttosto che nei cimiteri più piccoli. Questo può essere spiegato prendendo come esempio il cimitero di Evora, dove possiamo trovare una gran quantità di sculture, ma quasi tutte le statue religiose appartengono ai primi tre decenni del ventesimo secolo e hanno una qualità piuttosto bassa. La diminuzione della qualità dal 1900 in poi può essere evidenziata con la crescente standardizzazione dei monumenti e la reazione antiromantica degli intellettuali e delle classi più agiate. Tuttavia, alcuni dei più noti e famosi esempi di scultura nei cimiteri portoghesi (soprattutto dal 1890 al 1920) possono essere considerati elementi di transizione tra la tradizione romantica e il gusto Art Noveau, con le sue ben note caratteristiche sensuali. I seguenti esempi illustreranno alcune delle nostre affermazioni. Figura 1 Cimitero dos Prazeres (Lisbona), particolare del mausoleo di Palmela – il più grande mai costruito nei cimiteri portoghesi (1847-1849). In cima alla piramide è collocata la statua della Fede, con le chiavi di San Pietro, patrono del primo duca di Palmela, Pedro de Sousa Holstein. II modello della statua è attribuito allo scultore Francisco de Paula Araujo Cerqueira (1805-1855), professore di scultura all’Accademia di Belle Arti di Lisbona. È una statua piuttosto inespressiva e il suo aspetto freddo assomiglia ad alcune altre statue dello stesso periodo realizzate da scultori di secondo piano e anche da alcuni scalpellini esperti. Figura 2 Cimitero di Prazeres (Lisbona), particolare del mausoleo dedicato al conte di Antas (Francisco Xavier da La scultura nei cimiteri del Portogallo 1. Francisco de Paula Araujo Cerqueira (attrib.), La Fede, Mausoleo di Pedro de Sousa Holstein, duca di Palmela, particolare, 1847-1849, Lisbona, Cimitero dos Prazeres Silva Pereira, 1793-1852), un eroe militare. II mausoleo venne costruito grazie a una sottoscrizione pubblica e finito nel 1859. Nel 1858, Vitor Bastos scolpì la statua del conte, alta tre metri. Vitor Bastos era stato fino ad allora un giovane pittore che si era recentemente dedicato alla scultura. Egli riuscì a diventare famoso in Portogallo soprattutto grazie a questa statua, un fatto che dimostra chiaramente quanto fosse importante il cimitero. Il piedistal- 37 2. Vitor Bastos scultore, Giuseppe Cinatti architetto, Augusto Alves Loureiro ornatista, Mausoleo di Francisco Xavier da Silva Pereira, conte di Antas, 1856-1859, Lisbona, Cimitero di Prazeres Lo splendore della forma 3. Jose Joaquim Teixeira Lopes (attrib.), La Benevolenza e l’Amicizia. Cappella funeraria di Antonio Ribeiro Moreira e Manuel Pereira Pena, 1863, Porto, Cimitero di Lapa lo con i trofei militari venne precedentemente ideato dal disegnatore e architetto Giuseppe Cinatti e realizzato da Augusto Alves Loureiro nel 1856 che fu uno dei migliori scalpellini del diciannovesimo secolo. 38 Figura 3 Cimitero di Lapa (Porto), particolare della cappella funeraria dedicata dal commerciante Antonio Ribeiro Moreira al suo amico e benefattore Manuel Pereira Pena (morto nel 1861). II monumento venne concluso nel 1863. Fu probabilmente la prima cappella del cimitero di Porto ad avere due figure allegoriche che fiancheggiavano la porta d’ingresso. Sulla destra possiamo vedere la Benevolenza e sulla sinistra l’Amicizia. Queste statue inusuali possono essere spiegate con il fatto, anch’esso anomalo, che questa cappella venne dedicata da un uomo a un altro uomo che fu generoso, gentile e che si comportò sempre da amico. Entrambe le sculture sono in granito e si basano probabilmente sul modello di Jose Joaquim Teixeira Lopes il quale fu il padre di Antonio Teixeira Lopes e collaborò per molti anni con lo scalpellino Antonio Almeida da Costa. Assieme avevano fondato la “Fabrica de Ceramica das Devesas” di cui parleremo più avanti. Figura 4 Cimitero di Lapa (Porto), particolare della cappella funeraria dedicata da Maria Miquelina Moreira Barbosa a suo marito, il negoziante Antonio de Sousa Barbo- La scultura nei cimiteri del Portogallo 4. Emidio Carlos Amatucci (attrib.), Cappella funeraria di Maria Miquelina Moreira Barbosa e del marito Antonio de Sousa Barbosa, particolare, 1865 o 1866, Porto, Cimitero di Lapa 5. Emidio Carlos Amatucci, “Saudade”, Mausoleo di Luisa Carolina Neves Braga, particolare, 1871, Braga, Cimitero municipale sa (morto nel 1864). La cappella venne costruita probabilmente nel 1865 o nel 1866 e accoglie nella facciata la famosa trilogia delle tre virtù: la Fede in alto e la Speranza e la Carità ai lati della porta d’ingresso alla cappella. Quella nella foto è la Carità. L’autore di questo modello è sconosciuto, ma siccome lo scultore e disegnatore di ornamenti Emidio Carlos Amatucci è colui che ha decorato tutta la cappella, è probabile che sia anche l’autore delle statue. Amatucci fu il miglior scalpellino di opere in marmo stabilitosi a Porto nel diciannovesimo secolo. Era il figlio di uno scultore di Napoli e fu maestro del sopra menzionato Antonio Almeida da Costa. Figura 5 Cimitero municipale di Braga (precedentemente chiamato cimitero del Monte de Arcos), particolare del mausoleo costruito su richiesta della vedova Luisa Carolina Neves Braga nel 1871. La statua è la tipica “Saudade” portoghese, uno degli ultimi capolavori di Emidio Carlos Amatucci (morto nel 1872). In questo cimitero possiamo trovare molte altre statue di discreta qualità. Figura 6 Cimitero di Conchada (Coimbra), particolare del mausoleo dedicato a Maria Santa de Matos (1788-1877). Non è noto l’autore del ritratto in bronzo, uno dei pochi e dei più antichi realizzati in questo materiale esistenti nei cimiteri portoghesi. 39 Lo splendore della forma La scultura nei cimiteri del Portogallo 6. Mausoleo di Maria Santa de Matos, Coimbra, Cimitero di Conchada, particolare, m. 1877 40 Figura 7 Cimitero di Prado do Repouso (Porto), due mausolei con due statue dei loro proprietari, faccia a faccia, in una chiara scena di rivalità. Se si guarda dal retro si può vedere la statua di Antonio Moreira Vinha (1820-1879), sicuramente realizzata dopo il 1880 e sistemata sotto un baldacchino in modo da replicare all’altra statua di fronte, che venne realizzata nel 1879 e rappresenta il commerciante Francisco Martins e Castro (1808-1878) stabilitosi in Brasile. II suo baldacchino è opera di Jose Carlos de Sousa Amatucci, figlio del sopra menzionato Emidio Carlos Amatucci. È opinione comune in Portogallo che coloro che emigrano in Brasile e poi ritornano avendo fatto fortuna siano più propensi ad avere tombe fastose (quindi con più statue). Tuttavia, una ricerca recente evidenzia casistiche molto differenziate, tanto da non poter assumere tale regola come assoluta. Figura 8 Particolare della Confraternita do Carmo nel cimitero di Agromonte (Porto), all’interno della cappella di Alves Costa, conclusa nel 1912, con i busti dei proprietari, probabilmente marito e moglie. Il primo busto che venne collocato fu quello della moglie. Questa soluzione fu abbastanza comune fino alla fine del diciannovesimo secolo e nel primo decennio di quello seguente, ma quasi solo nei cimiteri di Porto e nei grandi cimiteri del Portogallo del Nord. 7. Tomba di Antonio Moreira Vinha (d.1880) e Tomba di Francisco Martins e Castro, Jose Carlos de Sousa Amatucci, scult., 1879, Porto, Cimitero di Prado do Repouso 41 Figura 9 Cimitero Municipale di Moura, particolare del mausoleo dedicate a Antonio Fialho Coelho (morto nel 1864) e a sua moglie Bernarda Joaquina Marques Escoval (morta nel 1863). Esso consiste in un baldacchino. Nella parte inferiore del piedistallo e collocato un cane 8. Fratellanza do Carmo, Cappella di Alves Costa, particolare, 1912, Porto, Cimitero di Agramonte 9. Germano José de Sales, Mausoleo di Antonio Fialho Coelho e Bernarda Joaquina Marques Escoval, m. 1864, particolare, Moura, Cimitero Municipale Lo splendore della forma 10. Josè Joaquim Teixeira Lopes, attrib., “Saudade”, Cappella numero 7, partic., Porto, Cimitero di Agramonte, Parte della Fratellanza di S. Francisco 11. Tomas Augusto Soller, archit., Laurentino José da Silva, Antonio Soares dos Reis, scult., “Saudade”, Commercio e Industria, Mausoleo di Francisco Antunes de Brito Carneiro. 1880 c., particolare, Porto, Cimitero di Agramonte, Sezione Municipale 42 sdraiato (rappresenta la Fedeltà della coppia). Nella parte superiore c’e l’Angelo della Redenzione (conosciuto anche come angelo indicatore, visto che indica in direzione del cielo) circondato da angioletti. All’interno del baldacchino si trova una scultura inusuale: una piantagione di cereali e vari utensili agricoli indicano che i defunti erano importanti coltivatori nella regione di Alentejo. Tutti i lavori scultorei vennero realizzati sotto la direzione di Germano José de Sales, uno dei migliori scalpellini che si stabilirono a Lisbona. La rappresentazione degli utensili dell’agricoltura può essere vista in molte cappelle di importanti coltivatori dell’Alentejo. Tuttavia, spesso questi esempi sono in rilievo e situati nel frontespizio delle cappelle. Per quanto riguarda l’iconografia collegata ai mestieri, i cimiteri portoghesi possono essere molto interessanti e sorprendenti. Figura 10 Sezione della Confraternita di S. Francisco nel cimitero di Agramonte (Porto), particolare della cappella numero 7 con una “Saudade” in terracotta. Questo prodotto venne realizzato nella già menzionata “Fabrica de Ceramica das Devesas” a Vila Nova de Gaia (vicino a Porto). Questa fabbrica di ceramica artistica e industriale apparteneva al sopra menzionato Josè Joaquim Teixeira Lopes e ad Antonio Almeida da Costa. II modello di questa statua probabilmente è di Josè Joaquim Teixeira Lopes. La scultura nei cimiteri del Portogallo Figura 11 Sezione Municipale nel cimitero di Agramonte (Porto), particolare del mausoleo di Francisco Antunes de Brito Carneiro. Venne progettato nel 1880 dall’architetto Tomas Augusto Soller e costruito da Laurentino José da Silva. Anche le tre statue – “Saudade” (in alto), Commercio e Industria (si veda la foto) vennero realizzate da Laurentino Josè da Silva sulla base di modelli precedentemente ideati su richiesta dal suo maestro, lo scultore Antonio Soares dos Reis, probabilmente il miglior scultore portoghese del diciannovesimo secolo che realizzò molti modelli di statue per cimiteri. Figura 12 Cimitero dos Prazeres (Lisbona), particolare di una delle statue del mausoleo dedicato ad Antonio Augusto de Aguiar (1838-1887), promotore della Associação Industrial Portuguesa (Associazione Industriale Portoghese). Essa venne realizzata grazie a una sottoscrizione pubblica nel 1889. Tutte le statue vennero realizzate da J.P. Lima Santos. È già chiara l’influenza dell’emergente gusto Art Nouveau, anche se la posa plastica e il leitmotiv erano ancora sostanzialmente romantici. 43 Figura 13 Cimitero Municipale di Guarda, mausoleo dedicato al popolare dottore Francisco da Cruz Sobral (morto nel 1888). La sua costruzione cominciò sicuramente dopo il 1889, grazie a una sottoscrizione pubblica. Il cimite12. J.P. Lima Santos, Mausoleo di Antonio Augusto de Aguiar, 1889, particolare, Lisbona, Cimitero dos Prazeres 13. Josè Moreira Rato Junior, scult., e Artur Sacadura, La Fama e la Gloria, Mausoleo di Francisco da Cruz Sobral, m. 1889, Guarda, Cimitero Municipale Lo splendore della forma 14. Antonio Teixeira Lopes e Jose Teixeira Lopes, archit., Tomba di Emilia Eduarda, m. 1908, Porto, Cimitero di Agramonte, Sezione Municipale 15. Joaquim Maria da Silva, Saudade, particolare, Porto, Cimitero di Agramonte, Sezione Municipale numero 1 44 ro venne ampliato in base alla richiesta di dare massima visibilità e magnificenza a questa piramide di dodici metri di altezza. La piramide è in granito, con un’iscrizione su ardesia di Valongo, ma le due statue sono in “lioz”, la ben conosciuta pietra marmorea calcarea proveniente dalla regione di Lisbona. Le statue rappresentano la Fama e la Gloria ed entrambe tengono tra le mani un medaglione in marmo con il ritratto del dottor Sobral. Questo monumento venne disegnato dallo scultore Josè Moreira Rato Junior, figlio di uno dei più importanti scalpellini di Lisbona, mentre Artur Sacadura si occupò della realizzazione della piramide. Le sculture erano sensuali, ma alquanto rigide e convenzionali nella loro posa plastica. Anche se le statue sono molto diffuse verso la fine del Romanticismo, questo tipo di opere ci rimanda ancora alle soluzioni delle tombe di Canova. Figura 14 Sezione Municipale del cimitero di Agramonte (Porto): due neonati in bronzo giacciono nella tomba dell’attrice e scrittrice Emilia Eduarda, morta nel 1908. I neonati non rappresentano i suoi figli, ma semplici bambini abbandonati, che Emilia Eduarda aiutò nel corso della sua vita. I due neonati furono realizzati da Antonio Teixeira Lopes, il miglior scultore portoghese dell’inizio del ventesimo secolo. Nella realizzazione di tutti i suoi monumenti ci fu la collaborazione del fratello, l’architetto Jose Teixeira Lopes. Entrambi studiaro- La scultura nei cimiteri del Portogallo no arte a Parigi ed erano figli del sopra menzionato Josè Joaquim Teixeira Lopes. Figura 15 Sezione Municipale numero 1 del cimitero di Agramonte (Porto), particolare di una “Saudade” realizzata nei primi anni del ventesimo secolo. L’autore del modello è sconosciuto, tuttavia, fu lo scalpellino Joaquim Maria da Silva colui che costruì il mausoleo. Questa “Saudade” è molto simile a quella del mausoleo Resende (Cimitero Prado do Repouso, Porto) che venne realizzato intorno al 1896 e divenne il mausoleo più fotografato in quel cimitero. Entrambe le statue sono rappresentative del periodo Art Nouveau e, anche se rappresentano una allegoria romantica, accenni di Modernismo emergono chiari dal piedistallo. Conclusioni Tutti gli esempi illustrati sopra sono rappresentativi dei cimiteri portoghesi, ma mentre alcuni possono essere rinvenuti in diverse versioni, altri sono unici. Bisogna fare attenzione nel pronunciare queste affermazioni, poiché molte ricerche devono ancora essere concluse. Due cose sono certe: in primo luogo non è possibile capire veramente la scultura portoghese del periodo Romantico senza uno studio approfondito dei cimiteri; in secondo luogo, pur considerando le ridotte dimensioni del Portogallo e il suo limitato sviluppo urbano nel diciannovesimo secolo, sicuramente i cimiteri ci offrono interessanti esempi di opere d’arte. 45 Più vivo che morto. La morte come realtà nella scultura funeraria spagnola (1870–1940) di Carlos Reyero 46 Sebbene la Spagna abbondi di rappresentazioni trascendenti della morte, alcuni dei migliori esempi scultorei del periodo qui trattato si ispirano alla percezione della morte come un fatto reale. Data l’abituale preferenza a considerare gli aspetti allegorici e spirituali, il Realismo si rivela come un punto di vista di grande interesse proprio perché tratta la morte da qui, dall'ambito della vita. Dal corpo presente La statua giacente di un defunto riporta in principio a un modello storico, però gli elementi realisti si ritrovano abbastanza presto. A volte si è detto che le figure giacenti sembrano immerse nel sonno con il fine di insinuare 1’apparenza del corpo vivo, generalmente con l’intenzione di esaltare l’abilità dell’artista nel dotare di vita e sentimento animato la materia, come se rappresentare l’inquietante presenza della morte sia meno difficile. In ogni caso nessuno dorme con tanta serenità, vestito con un abito da gala e con tutte le decorazioni: per Più vivo che morto quanto riguarda la verosimiglianza rappresentativa, questa tipologia si deve intendere piuttosto come un lenzuolo mortuario. Inoltre, come accadeva anche nel Medioevo, 1’abito penitenziario nella scultura funeraria era simbolo del “morire bene”, della preparazione per 1’aldilà. 1 Il mantenimento dell’abbigliamento usato nella vita terrena è da intendersi come un riconoscimento del ruolo rappresentato in questa vita, lontano dalla trascendenza ultraterrena. Di conseguenza non c’è dubbio che davanti a un giacente del XIX secolo, ci incontriamo con qualcuno che sta per morire, con un cadavere. È nei mausolei di personaggi illustri della politica nazionale dove incontriamo per la prima volta rappresentazioni giacenti del defunto. In questa sottolineata verosimiglianza rappresentativa, verso cui si indirizza l’arte del XIX secolo, queste effigi vanno interpretate come un modo di presentare il corpo del defunto con l’intenzione che sia permanentemente omaggiato. I mausolei dei politici e generali isabellini, quello di Leopoldo O’Donnell (1868-70, Madrid, Salesas),2 di J. Suñol,3 di Ramon Maria Narvaéz (1875-79, Loja) di A. Moltó4 e quello di Prim (1875, Reus) di P. Zuloaga 5 (fig. 1) vanno considerati in questo senso. 47 1. Placido Zuloaga, Tomba Prim, 1875 c., Reus, Cimitero Generale Nel Pantheon degli Uomini Illustri di Madrid,6 si trovano alcuni dei migliori esempi della scultura funeraria spagnola. Tre di questi rappresentano figure giacenti: quello di Cánovas del Castillo (1890-1906) di A. Querol, i due di M. Benlliure,7 Sagasta (1904-1905) che si Lo splendore della forma presenta con una fisionomia decrepita (fig. 2) e l’Eduardo Dato (1922-1928) avvolto in un lenzuolo funebre, circostanza che torna a utilizzare nel sarcofago di Blasco Ibáñez (1935, Valencia, Museo) (fig. 3). 2. Mariano Benlliure, Tomba Sagasta, 1904-1905, Madrid, Pantheon degli uomini illustri 3. Mariano Benlliure, Sarcofago di Blasco Ibáñez, 1935, Valencia, Museo Nei cimiteri le rappresentazioni dei defunti si trovano generalmente impregnate di un certo clima spiritualista o almeno di una malinconia intimista. Tra gli esempi più antichi troviamo la tomba della Famiglia Nadal (1868, Barcellona, Poblenou)8 che colpisce comunque per il suo realismo. Il fatto che siano rappresentate delle donne introduce nel cimitero la poetica romantica della bellezza e della morte. In alcuni esempi questo pensiero risulta evidente, come nella tomba Mirasol (Granada); o nella tomba di Rosa Meana Medina (1895, Santander) che è espressamente collegata al tema di Ofelia.9 È significativo che molte di queste donne siano nude, anche se parzialmente o totalmente coperte da un lenzuolo o da un velo mortuario, che indubbiamente le allontana da una situazione reale. I defunti Più vivo che morto maschi, al contrario, appaiono comunemente vestiti, il che li riconduce alla tipologia degli “uomini illustri”, come se fossero l’ultima rappresentazione pubblica dei loro resti prima di essere sepolti per sempre. Un’altra variante di figura defunta che si presta anch’essa alla poetica dell’aldilà, sebbene alla fine risponda a una realtà oggettiva, è l’esposizione del cadavere infantile. Un esempio celebre è il ritratto della bambina Maria Cristina di Borbone (1854) di J. Piquer. Nei cimiteri ci sono immagini popolari come quella di Priego (Cordoba) nella quale il neonato sembra vivo; altre più sofisticate, come il bambino morto portato dagli angeli nella Cappella della Famiglia Bosch (Arenys del Mar). Il rituale di sepoltura: dal funerale alla fossa Un’opera del francese Alfred Boucher intitolata À la terre, premiata nel 1891 e fusa da Barbedienne,10 è stata considerata il modello al quale si ispirò lo scultore catalano E. Clarasò per il suo Memento Homo, premiato con una medaglia d’oro nel 1900 a Parigi e utilizzato poi in monumenti funebri di Barcellona (fig. 4)11 e Saragozza.12 49 4. Enric Clarasó, Memento Homo, Barcelona, Montjuïc Lo splendore della forma 50 L’opera rappresenta un uomo dal fisico atletico nell’atto di scavare una tomba a terra. Si tratta dunque di un becchino e a esso è attribuita una forte carica allegorica. Il tipo umano non coincide con l’immagine sordida e funesta che, in seguito, topicamente, si associa al becchino come è decritto, per esempio, in un racconto coevo di Julio de Lemus.13 Ad ogni modo la posa è perfettamente comparabile con l’epica del lavoro che caratterizza le sculture di un artista come Meunier. Non sono questi in ogni caso gli unici “seppellitori” che appaiono nei cimiteri spagnoli. Ce n’è uno nella Cappella della Famiglia Riba (1934, Barcellona, Sant’Andreu) e un altro in quello della Famiglia Camps (1925, Sabadell). Curiosamente questi due sono più vicini al modello di Boucher che a quello di Clarasó, perché spostano la terra invece di scavarla e ciò risulta meno epico. In questo processo che tende a rendere popolari i gesti relativi ai compiti prosaici di preparazione del cimitero per i morti, è utile fare riferimento a un’altra opera di una certa singolarità iconografica, la tomba di Manuel Mendez Lopez (1936 Espinardo, Murcia), nella quale si legge “maestro di opere” (fig. 5). Naturalmente la presenza degli strumenti da muratore fanno riferimento alla professione del defunto ma allo stesso 5. Tomba Manuel Méndez López, 1936 c., Murcia, Espinardo Più vivo che morto 6. J. Bueno, Monumento alla Fossa comune, 1917-1919, Zaragoza, Cementerio de Torrero tempo a quella di qualche capomastro nel cimitero. Nella scultura funeraria di carattere rappresentativo, il rituale funebre del seppellimento è rappresentato da vari esempi memorabili come il Mausoleo di Canalejas (1912-1915, Madrid) di Benlliure, dove l’iconografia della sepoltura di Cristo assume “una dimensione quodidiana e secolare”;14 quello realizzato da J. Bueno per il Monumento alla fossa comune (1917-1919; Saragozza) (fig. 6) conosciuto con i nomi di Umanità o Infortunio, che interpreta precisamente il carattere realista, sebbene i corpi si rifacciano alla tradizione classica. Il più 51 7. Mariano Benlliure, Tomba di Joselito detto “El Gallo”, 1921-1926, Siviglia, Cimitero di San Fernando Lo splendore della forma 8. Tomba di Ángel Carratalá, Alicante, Cimitero Municipale famoso tra tutti questi è La tomba di Joselito detto “El Gallo” (1921-1926, Siviglia) (fig. 7), dove Benlliure evoca il rituale impiegato per la sepoltura del torero.15 Poeti hanno trasformato l’elegiaco cantico alla morte di un torero in un climax drammatico che si presta bene alla manifestazione del dolore, contaminato da una sensibilità quasi religiosa. Su questa linea si inseriscono opere come la tomba del torero Jaime Ballesteros “Herrem” (1915, Saragozza) opera di D. Ainaga, o la tomba di Ángel Carratalá (Alicante)16 che ricorda una Pietà con Cristo morto (fig. 8). Vivi tra i morti Allusioni alla vita quotidiana come una forma di resistenza alla scomparsa si incontrano con una certa frequenza nei cimiteri come la locomotiva che decora la tomba di Onofre Viada i Balansó o le barche della Cappella della famiglia Patxot a Barcellona.17 È evidente che tutti questi aspetti rispondono a un proposito creativo eminentemente realista sebbene non stabilisca un dialogo con il fenomeno della morte: piuttosto sembrano allontanarsi da essa come se non esistesse. Più vivo che morto 9. Marcial Aguirre, Tomba di Juan Luis Goicoechea Lecea, San Sebastián Invece il dolore tende a rappresentare un elemento di continuità tra il mondo dei vivi e quello dei morti anche se, paradossalmente, per la sua attitudine e per la sua spiritualità, poiché accarezza la morte con le dita o con il cuore, tende a essere percepito più vicino da quelli piuttosto che da noi, come nella Cappella della Famiglia Marti (1902, Barcellona, Sant’Andreu).18 D’altra parte la donna pietosa che medita nel cimitero davanti alla tomba del defunto può essere meglio colta in termini realistici, potendo lei essere intesa come madre, figlia o vedova del deceduto. In ogni caso incarna una risposta della vita davanti alla morte, come se il ricordo o la compagnia dei morti volessero perpetuarsi per sempre. Questo atteggiamento è evidente in una scultura anonima del cimitero di Vegueta a Las Palmas o nella tomba di Isabel Bardisa Fontanet ad Alicante. In alcune di queste opere ci sono anche elementi reali che rimandano inequivocabilmente a questo aspetto, come nella tomba di Juan Luis Goicoechea Lecea (San Sebastiàn), che fa parte della tomba della Famiglia Aguirre (fig. 9):19 la figura allegorica porta delle scarpe, segno di indubbia appartenenza a questo mondo. Figure sofferenti molto vincolate al realismo sono, per esempio, i bambini della tomba della Famiglia di Emilio Basagoiti (Guecho, Vizcaya) (fig. 10) opera di M. Garcia Salazar ispirata al Mausoleo di Gayarre di Benlliure. 53 Lo splendore della forma 10. M. García Salazar, Tomba della famiglia Emilio Basagoiti, Guecho, Vizcaya 54 Molto più stereotipati, sebbene non meno interessanti, sono i bambini della tomba della Famiglia Monte Escobar (1928, Granada) di Navas Parejo o quelli della tomba Maucci-Battistini (1937 Barcellona Montujic).20 Una curiosa figura sofferente molto differente dai modelli abituali, anche se la si può interpretare come una naturalizzazione di un modello canoviano, è la figura del paralitico che sembra onorare la memoria di Luisa Sancho Mata nella famosa Cappella Guirao (1908, Madrid, San Isidro) di A. Querol (fig. 11).21 Morti tra i vivi La personificazione più cruda della morte, come putrefazione del corpo o come allegoria che conduce al sepolcro, doveva sembrare un argomento poco speranzoso per venir trattato con frequenza. I vivi solitamente non hanno desiderio di incontrarsi faccia a faccia con la morte. Forse l’opera più impressionante è lo scheletro a grandezza naturale, coperto in parte da un sudario, collocato sopra la tomba del dottore Farreras Framis (1888, Più vivo che morto 11. Augustin Querol, Tomba di Luisa Sancho Mata o Panteón Guirao, 1908, Madrid, San Isidro Barcellona, Montjuïc) opera di R. Nobar (fig. 12). La maggior parte delle rappresentazioni della morte sono allegoriche e non realiste anche se non si può dire che manchino di queste ultime componenti, in quanto irrompono senza alcuna trascendenza spirituale. È il caso per esempio della tomba della Famiglia Nicolau Juncosa (Barcellona, Montjuïc) (fig. 13). Risulta imponente anche il gruppo intitolato La morte che bacia l’agonizzante di J. Barba nella tomba di Llaudes Soler (1930, Barcellona, Poblenou). Come in altri cimiteri d’Europa, incontriamo anche 1’incarnazione della morte in una bella donna che conduce i morti al sepolcro, come accade per esempio nel Sepolcro della Famiglia Maestre (1928, Derio, Vizcaya). 55 12. Rossend Nobas i Ballbè, Tomba del Dottor Farreras Framis, 1888, Barcellona, Montjuïc Più vivo che morto Lo splendore della forma 1 2 3 4 13. Tomba della Famiglia Nicolau Juncosa, Barcellona, Montjuïc 5 6 7 8 56 Una poetica simile è presente in un altro lavoro molto meno conosciuto, ma comunque spettacolare per la sua crudezza, la Cappella della Famiglia Cuesta Sanz (Guadalajara) (fig. 14), dove uno scheletro che impersonifica la morte, avvolto in un lenzuolo dietro il quale si vedono le protuberanze delle ossa, ordina ai vivi il cammino verso le fosse. Il suo inesorabile comando giunge a tutti. 9 10 11 12 14. Cappella della Famiglia Cuesta Sanz, Guadalajara Múñez, M., La indumentaria como símbolo en la iconografía funeraria, in “Fragmentos”, n. 10, 1987, pp. 73-84. 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Dublín, Génova, Madrid, Torino, Madrid, Electa España, 2000, p. 57. 57 La scultura funeraria nel Regno Unito dall’età vittoriana alla “New Sculpture” e al Modernismo di Roger Bowdler La scultura funeraria nel Regno Unito Nel diciassettesimo secolo, a poco a poco si cominciò ad abbellire i monumenti funebri con elementi scultorei. Il sarcofago di Wateringbur y, nel Kent, tomba di Henry Wood (m. 1635), ne è uno dei primi esempi, con numerosi emblemi di morte, mentre il caso più interessante è la tomba di John Tradescant il giovane (m. 1672), botanico e collezionista, nel camposanto della chiesa di Saint Mary a Lambeth, distretto londinese, con straordinari bassorilievi di paesaggi diroccati e strane creature (fig. 1). 1. Tomba di John Tradescant (m. 1672), Londra, St Mary’s Church, Lambeth 58 L’Inghilterra non nutre una particolare predilezione nei confronti delle sculture all’aperto. In passato le opere di scultura riguardavano solo gli interni e infatti quella funeraria si poneva dentro le chiese e anche quella privata veniva in linea di massima tenuta fra le quattro mura. L’ineguagliata sontuosità dei monumenti delle chiese inglesi indica che si spendevano notevoli energie nel commissionare monumenti funerari, mentre solo in secoli più recenti si ritrovano sculture degne di nota in ambiente esterno. Il presente saggio intende passare brevemente in rassegna i momenti più salienti di questa storia.1 Pochissimi monumenti medievali, quale che fosse il ceto del defunto, furono posizionati all’aperto; la tomba a baldacchino tardo-trecentesca con effigie interna che si trova ad Astbury, nel Cheshire, nota col nome di Ralph Brereton2 è un’importante eccezione giunta fino a noi. È possibile, ma improbabile, che un tempo esistessero altri monumenti di questo tipo. La stragrande maggioranza di chi apparteneva ai ceti superiori preferiva essere sepolta all’interno delle chiese e lì faceva erigere i propri monumenti funebri. 59 I camposanti georgiani sono ancora elementi di cui l’Inghilterra può andare orgogliosa. In confronto con molti altri paesi, non hanno subito grandi modifiche e vantano tuttora un gran numero di monumenti funebri della prima epoca moderna. La scultura riguardava in massima parte le lapidi, sottili blocchi di pietra che contrassegnavano le tombe e che spesso mostravano ornamenti allegorici sotto forma di bassorilievi. Un esempio su molte migliaia basterà: la Tomba di Samuel Cook (m. 1723) a Little Stanmore, nella zona nord-occidentale di Londra (fig. 2). Le sculture tridimensionali sono rarissime e una eccezione poco nota è costituita dall’effigie stile Agrippina della Signora Norris (morta nel 1779) nel camposanto della chiesa di Finchley, nella zona nord di Londra (fig. 3). Anzi, si potrebbe dire che è l’eccezione che conferma la regola: come detto, le scul- Lo splendore della forma 2. Tomba di Edward Cook (m. 1723), Londra, St Lawrence’s Church, Little Stanmore 3. Finchley, Tomba di Mrs Norris (m. 1779), Londra, St Mary’s Church, Finchley ture sepolcrali stavano all’interno, non nel cimitero. Fu solo con l’avvento dei cimitero-giardino ottocentesco che la scultura cominciò ad apparire in misura apprezzabile nei luoghi di sepoltura. I camposanti tardo-georgiani adiacenti alle chiese si riempivano sempre più di monumenti di grandi dimensioni di natura pressoché architettonica ma la scultura in quanto tale era ancora rara. I cimiteri nacquero per diverse motivazioni storico- culturali e li si può vedere come espressione tardo-Romantica dell’illuminismo. Prima di tutto, all’inizio del diciannovesimo secolo l’Inghilterra assiste a una crescita enorme delle proprie zone urbane, con relativo aumento del tasso di mortalità, e le aree di sepoltura esistenti non erano più in grado di sopperire alle necessità, in quanto venivano usate già da secoli. I pericoli La scultura funeraria nel Regno Unito sanitari legati alla decomposizione rendevano ancora meno adatti tali sovraffollati camposanti e attorno al 1830 fu messa in cantiere un’apposita legislazione. In secondo luogo, ebbero inizio una serie di attacchi contro il monopolio della Chiesa d’Inghilterra sul settore delle sepolture: la Catholic Emancipation Act (legge con cui veniva concessa piena libertà civile e politica ai cattolici di Gran Bretagna e Irlanda) del 1829 riconosceva i diritti dei cattolici per la prima volta dopo la Riforma del sedicesimo secolo. Seguirono altre importanti concessioni: per esempio, si pose fine a particolari tasse ecclesiastiche. Le abitudini andavano rapidamente mutando. In terzo luogo, i ceti medi erano sempre più disposti a pagare per il lusso e il comfort di un tranquillo luogo di riposo per i propri morti. Via via che i cimiteri si sviluppavano, ci si ispirava con crescente interesse al modello francese. Il cimitero ideale univa in sé un paesaggio di tipo creativo, utilizzando al meglio la topografia preesistente, una vegetazione accuratamente disposta e la pianificazione di vialetti e sentieri, mentre l’architettura forniva gli edifici principali – in questo nuovo spazio arcadico si inserì l’ingrediente funebre fondamentale, cioè i monumenti. Il risultato fu un giardino dedicato alla morte. Dopo il 1820 nacquero alcuni cimiteri aconfessionali privati; in genere si ritiene che il movimento abbia avuto inizio con il Rosary Cemetery di Norwich ma fu solo nel terzo decennio dell’Ottocento che vennero aperti un certo numero di cimiteri privati.3 I monumenti uniscono alla mesta funzione di contrassegnare il luogo ove riposano i resti mortali dei defunti l’obiettivo più sublime di ricordare ai vivi un’esistenza ormai conclusa. Essi uniscono testi – attraverso gli epitaffi –, e forma e talvolta si trova anche l’immagine, attraverso una iconografia e una decorazione scolpita. È necessario sottolineare fin dall’inizio che i monumenti arricchiti da immagini erano decisamente una minoranza, poiché per la maggior parte si trattava solo di elementi in pietra con semplici iscrizioni con nome e date. In area britannica, esibizioni elaborate dell’arte di uno scultore avrebbero decisamente rappresentato un’eccezione. 61 Lo splendore della forma 62 II più grandioso di tutti i cimiteri inglesi era, ed è tuttora, il cimitero di Kensal Green, inaugurato nel 1833.4 Vicinissimo al quartiere londinese di Notting Hill, nella zona nord-occidentale della città, copriva circa 22 ettari di terreno precedentemente adibito a pascolo. Vanta il più bell’insieme di tombe all’aperto di tutto il paese e di conseguenza è il primo sulla lista dei cimiteri inglesi tutelato per legge.5 A dimostrare quanto fosse rinomato nell’Inghilterra dei primi anni dell’epoca vittoriana non è solo il fatto che gli aristocratici sceglievano di venire sepolti in questo cimitero ma che anche due dei figli di Giorgio III, Sua Altezza Reale Augustus, Duca di Sussex (morto nel 1843) e Sua Altezza Reale la principessa Sophia (morta nel 1848), rispettivamente zio e zia della Regina Vittoria, chiesero di riposare in questo cimitero borghese sorto da poco piuttosto che nella cripta della Cappella di San Giorgio al Castello di Windsor. Un’occhiata approfondita alle tombe di Kensal Green è uno dei modi migliori di passare in rassegna tutta la gamma di stili della scultura funeraria inglese di metà Ottocento. I busti erano una forma piuttosto comune di monumento neoclassico. II monumento al pittore Robert Smirke (morto nel 1845), padre dei famosi architetti Sir La scultura funeraria nel Regno Unito Robert e Sydney Smirke, entrambi autori di alcuni edifici del British Museum, include un busto in marmo molto rovinato dagli agenti atmosferici, che dimostra come tale materiale sia inadatto all’aria aperta. Il bel monumento al Generate Sir William Casement (morto nel 1844) consiste in un baldacchino poggiato sulle spalle di quattro Atlanti indiani, dato che Casement aveva servito nell’esercito in India, dove era deceduto (fig. 4). II monumento fu eseguito in pietra artificiale dallo scalpellino F.M. Lander e ha resistito molto meglio. A un famigerato medico-guaritore, John St John Long (morto nel 1834), è dedicato uno dei monumenti funebri più famosi, composto da un tholos neoclassico in cui è posizionata una statua di Igea, non particolarmente intaccata dal trascorrere del tempo (fig. 5). I baldacchini sono quindi fondamentali perché le sta- 63 5. R.W. Sievier, Tomba di John St John Long (m. 1834), Londra, Kensal Green Cemetery 4. F.M. Lander, Tomba del Generale Sir William Casement (m. 1844), Londra, Kensal Green Cemetery Lo splendore della forma 6. Godfrey Sykes, Tomba di William Mulready (m. 1863), Londra, Kensal Green Cemetery 64 tue possano sopravvivere. Forse il più bello tra tutti i monumenti scolpiti dell’intero Ottocento è quello neo-rinascimentale che si trova a Kensal Green, dedicato al pittore di genere William Mulready (morto nel 1863), progettato da Godfrey Sykes e realizzato in pietra artificiale (fig. 6). Design funzionale, saggia scelta dei materiali, buona costruzione e decorazione creativa danno vita a un monumento di grande potenza. Tuttavia, tali monumenti scolpiti erano solo eccezioni, mentre molto più comuni erano i monumenti cimiteriali di natura architettonica e gli scalpellini creavano tombe che riprendevano precedenti motivi classici, come pilastri, obelischi, piedistalli e sarcofagi. L’elemento più diffuso in assoluto restava la lapide tradizionale. I bassorilievi continuarono a essere sempre meno frequenti, con poche eccezioni. La maggior parte dei cimiteri inglesi deve affrontare particolari difficoltà in termini di degrado naturale e di inquinamento. Il clima umido è molto dannoso e le sporadiche gelate invernali a volte accelerano il processo di deterioramento della pietra resa umida. Spesso i cimiteri venivano posizionati su pendii o sulla cima delle colline per offrire una bella visuale, peraltro accrescendo l’esposizione delle tombe al vento e alla pioggia battente, cui si aggiunge il fattore smog, e le piogge acide non sono un fenomeno recente. Tale era però il fascino del marmo italiano (sinonimo di marmo di Carrara per quasi tutto il periodo in que- La scultura funeraria nel Regno Unito stione) che i clienti continuavano a richiederlo. Gran parte della più bella statuaria funebre italiana rimane riparata all'interno di chiostri, spazi semiaperti, coperti, che costituiscono gallerie protette sotto le quali si potevano impiantare delicati elementi marmorei con relativa tranquillità. Zone esposte di questo tipo sono pressoché sconosciute in Inghilterra. A Kensal Green, uno dei primi edifici progettati da John Griffiths fu un colonnato posizionato lungo la parete confinaria settentrionale. I muri, oggi gravemente danneggiati da vandali, erano rivestiti di targhe marmoree simili a quelle che di solito si trovano all’interno delle chiese. Nei chiostri annessi all’imponente Cappella Anglicana in stile Schinkel si trovano due camere, ora senza tetto a causa dei bombardamenti durante la seconda guerra mondiale, all’interno delle quali si possono ammirare due elementi monumentali di maggiori dimensioni. Uno di essi è un bel gruppo scultoreo di Robert Sievier per i suoi genitori, posizionato nei 1840 circa, che non sfigurerebbe in un cimitero italiano. Questi gruppi marmorei erano da interni ma nei cimiteri inglesi un ambiente interno era difficilmente disponibile. E i cimiteri inglesi sono, per questo, più spogli. La scultura funeraria fu fortemente influenzata dal neogotico. A partire dal quarto decennio dell’Ottocento, il rinnovato interesse nei confronti dei modelli medievali di fede influì sulla conformazione di tutta l’arte sacra, che comprendeva anche i monumenti funebri. Tombe di diverse forme, come per esempio le pietre tombali orizzontali sormontate da una cappa (monumento basso, sollevato lungo il colmo centrale), la croce decorata e la tomba a baldacchino o a tempietto tornarono in auge nell’ambito di una ricerca di ispirazione specificamente cristiana. La scultura assunse un ruolo di secondo piano consistente in figure allegoriche o particolari decorativi. I migliori architetti dell’epoca produssero i relativi progetti. A Kensal Green, la Tomba del capitano Ricketts (morto nel 1867), opera di William Burges, è gravemente danneggiata, ma gli elementi ornamentali scultorei contribuiscono in maniera fondamentale alla sontuosità dell’effetto d’insieme. 65 Lo splendore della forma 7. E.M. Barry, Tomba di Alexander Berens (m. 1858), Londra, West Norwood Cemetery 66 Il capolavoro funerario di Edward M. Barry fu la grandiosa Tomba di Alexander Berens (morto nel 1858), eretta nel cimitero londinese di West Norwood (fig. 7), con forti reminiscenze di stile veneziano, a dimostrazione dell’interesse che Ruskin e altri provavano nei confronti del design in voga nell’Italia del nord. Com’era prevedibile, la figura drappeggiata di ispirazione classica ebbe un calo di popolarità ma non scomparve mai del tutto. La caratteristica più rilevante del cimitero vittoriano è il suo eclettismo. Il neogotico influì sulla scultura cimiteriale anche promuovendo l’uso degli angeli. Il primo monumento funebre in cui si ritrovano fu l’imponente sepolcro di Lord Melbourne nella Cattedrale di Saint Paul che lo scultore Carlo Marocchetti eseguì attorno al 1853. A partire dal 1880 circa, in numero sempre maggiore comparvero in zone all’aperto angeli ad ali spiegate che rimasero in voga fino agli anni Venti. La versione inglese del famoso angelo di Monteverde (o angelo della Resurrezione), nel cimitero di West Norwood, fu installato solo nei 1923.6 Spessissimo questi angeli erano importati dall’Italia, dove il livello qualitativo della scultura figurativa era di gran lunga più elevato di quello della maggior parte dei cantieri degli scalpellini monumentali. Particolarmente diffusa era la versione dell’angelo inginocchiato. Un altro elemento statuario piuttosto comune era l’effigie della Fede, raffigurata mentre abbraccia una La scultura funeraria nel Regno Unito croce. Pur non trascurando il loro carattere genuino e il contributo visivo che apportano ai paesaggi cimiteriali, la maggior parte di queste strutture non suscita grande interesse se considerate nell’ambito della scultura. Vi sono tuttavia opere scultoree interessanti. Una scoperta sorprendente, a Kensal Green, fu l’individuazione di un monumento commemorativo scolpito da una delle figlie della Regina Vittoria, la principessa Louise, con un piccolo tondo raffaellesco raffigurante la Carità, posto sulla Tomba di Mary Anne Thurston (morta nel 1896), bambinaia al servizio della famiglia reale (fig. 8). 8. Princess Louise, Tomba di Mary Anne Thurston (m. 1897), Londra, Kensal Green Cemetery Uno dei punti di forza della scultura cimiteriale inglese è rappresentato da una serie di monumenti funebri molto particolari realizzati verso la fine dell’Ottocento e nei primi decenni del Novecento, tra cui pochi ma qualitativamente apprezzabilissimi monumenti in bronzo, spesso modellati da scultori di primo piano. Il bronzo, fino ad allora materiale d’uso consueto per le sculture pubbliche, fu utilizzato su scala sempre crescente nel corso del periodo vittoriano, dapprima in rilievi a ritratto e busti (oggi, purtroppo, spesso trafugati), mentre le figure complete apparvero solo in un secondo tempo. Il monumento funebre di John Lo splendore della forma La scultura funeraria nel Regno Unito 9. Sidney March, Tomba di William Lancaster (m. 1920), Londra, East Sheen Cemetery 68 Goscombe in memoria della moglie Marte (morta nel 1924) nel cimitero londinese di Hampstead, è l’esemplare più rappresentativo. Il punto culminante del monumento funerario in bronzo si trova in un piccolo cimitero periferico, East Sheen, nella zona sud-ovest di Londra, e commemora William Lancaster (morto nel 1920) (fig. 9). Fu disegnato e realizzato da Sidney March, della famiglia di scultori nota per il Canadian National War Memorial (Monumento ai caduti) di Ottawa, che ha buone possibilità di rappresentare il canto del cigno della scultura tradizionalista del Novecento. L’angelo della morte, con le sue ali imponenti, si accascia sul basamento con epitaffio: la bellezza e la sofferenza dell’amore restano in equilibrio e la perfetta realizzazione del gruppo scolpito, insieme con la sontuosità cromatica del bronzo rivestito dal verderame, conferiscono a questo monumento funebre una piacevolezza che rende ancora più struggente il senso di un’esistenza perduta. Questi monumenti, noti ai conoscitori, sono poco pubblicizzati e talvolta trascurarli significa perderli: il commovente monumento funebre in bronzo che William Goscombe John fece realizzare per la prima moglie Marte nel cimitero londinese di Hampstead è stato recentemente trafugato. Il declino del culto dei defunti e della commemorazione era iniziato prima della Grande guerra, cosicché modestia e convenzionalità divennero le principali caratteristiche del monumento novecentesco. I monumenti funebri modernisti sono rarissimi. Si può intravedere un’ispirazione Art Déco nella Tomba Bianchi nel 10. Tomba di Mattie Bianchi (c. 1935), Londra, Hampstead Cemetery 69 cimitero di Hampstead (fig. 10), che un ristoratore italiano fece costruire per la moglie Mattie (morta nel 1930), mentre si coglie una scomposizione quasi vorticista nell’insolito rilievo scolpito da Bainbridge Copnall sul tema della resurrezione dei morti, posto sulla Tomba di Sir Percy Harris (morto nel 1948) nel cimitero di Chiswick, nella zona occidentale di Londra. Nei decenni attuali si è arrivati al punto più basso della qualità del design sepolcrale, ma vi sono chiari segni di rinascita. Harriet Fraser ha dato vita all’associazione Memorials by Artists (Monumenti funebri realizzata da artisti) allo scopo di incoraggiare chi ha subito un lutto a rivolgersi ad artisti e artigiani piuttosto che ad aziende commerciali. I risultati sono spesso stimolanti e sempre interessanti. Esiste addirittura la dimostrazione che il riserbo che ha caratterizzato i moderni monumenti funebri inglesi a volte viene messo in discussione. Ed è sempre Tra scultura e simboli nei cimiteri irlandesi di Ray Bateson Lo splendore della forma il cimitero di Kensal Green a fornirne la prova: il monumento realizzato da Zebedee Helm per Joshua Compston, artista morto giovanissimo (1970-96), lo ritrae reclinato all’interno di un vascello, mentre si prepara al suo viaggio verso l’aldilà. La scultura sta tornando nei cimiteri. 70 1 2 3 Per una panoramica dei monumenti all’interno delle chiese, vedi Kemp, Brian, English Church Monuments, 1983. La miglior monografia sul tema dei sepolcri è con ogni probabilità Penny, Nicholas, Church Monuments in Romantic England, 1977. Illustrato in Fred H. Crossley, English Church Monuments AD 1150-1550 (1921), plate 69. Questo monumento potrebbe essere stato spostato fuori dalla propria iniziale posizione interna. Vedi Brooks, Chris (a cura di), Mortal Remains, Exeter, 1989, p. 8 ss. 4 5 6 Curl, James Steven (a cura di), Kensal Green Cemetery, Chichester, 2001 L'elenco consta di 134 tombe e mausolei, garantendo così la loro salvaguardia contro demolizioni o modifiche secondo un sistema di pianificazione. Anche il paesaggio è catalogato, con le medesime modalità di tutela. L’ente locale lo ha dichiarato “zona protetta”, e quindi ne vanno rispettate le caratteristiche. È tuttora proprietà privata. Illustrato in Hugh Meller, London Cemeteries, 1981, p. 219. L’Irlanda non ha una grande tradizione di arte funebre. Una delle ragioni principali di questa carenza furono le leggi penali introdotte nel 1695, che perseguivano la Chiesa cattolica e limitavano severamente i diritti dei cattolici, che erano i tre quarti della popolazione. Furono quindi poche le chiese cattoliche costruite prima dell’emancipazione cattolica, conseguita nel 1829. Secondo le leggi penali, i cattolici e altri dissidenti potevano essere sepolti solo nei cimiteri della Chiesa d’Irlanda o in altri luoghi di sepoltura sotto il suo controllo, per di più senza il rito religioso. Questa problematica giunse al termine nel 1823, quando il principale leader cattolico, Daniel O’Connell, iniziò il processo che portò nel 1829 all’apertura del primo cimitero per cattolici e dissidenti. Un’altra ragione del declino della tradizione funeraria fu l’Atto di Unione del 1800 che unificò il parlamento irlandese con il parlamento di Westminster, ma che trasformò Dublino da seconda città dell’Impero britannico in una realtà provinciale. Gli scultori di talento decisero così di lasciare Dublino e l’Irlanda, 71 Lo splendore della forma alla ricerca di riconoscimenti più redditizi. Non sorprenderà dunque quanto scrisse il Reverendo James Graves nel 1857: È impossibile non essere colpiti dal graduale decadimento dell’arte monumentale, come illustrano i resti del XVII secolo; una regressione che continuò fino al XVIII secolo e alla prima metà del XIX, quando raggiungemmo il punto più basso. Gli emblemi pagani, come la fiaccola rovesciata e l’urna cineraria, usurparono il posto dei simboli della cristianità, mentre verbosi encomi del defunto prendevano il posto della semplice frase 'Hie Jacet' dei nostri padri. 72 Nonostante ciò Dublino possiede due cimiteri che possono orgogliosamente far parte del gruppo dei maggiori cimiteri europei. Questi sono il cimitero di Mount Jerome e il cimitero Glasnevin. Il cimitero di Mount Jerome fu aperto nel 1836 ed era destinato a essere non confessionale, sebbene solo nel 1920 questo carattere si poté manifestare pienamente. Durante l’era vittoriana, era il principale luogo di sepoltura per i professionisti protestanti, ricchi e di successo e per la borghesia degli affari di Dublino. Nel volume The Victorian Celebration of Death, il prof. James Curl afferma che Mount Jerome era “uno dei discendenti più naturali del Père-Lachaise”. Nessun altro cimitero in Irlanda ha monumenti così splendidi e diversi. Ci sono bellissime costruzioni neoclassiche, 1. Sandham Symes (architetto), Tomba Cusack, 1863, Dublino, Mount Jerome Cemetery Tra scultura e simboli nei cimiteri irlandesi obelischi, colonne, colonne spezzate, urne di varie grandezze, figure di donne addolorate, angeli, croci celtiche, catacombe, mausolei e addirittura un cane di marmo che ulula per la morte del suo ultimo padrone. Gli stili riflettono le tendenze dei cimiteri europei del tempo, influenzati da Grecia, Roma ed Egitto. Alcuni monumenti, come la Tomba Cusack, a forma di baldacchino con colonne toscane (fig. 1), sono chiaramente modellati sui più famosi monumenti funebri dei cimiteri europei. Sono presenti anche molti di quei simboli pagani e di quei fioriti epitaffi di cui aveva scritto il Reverendo Graves. 73 2. George Papworth (architetto), Tomba Drummond, 1840, Dublino, Mount Jerome Cemetery Un altro notevole monumento (fig. 2) è quello di Thomas Drummond, sottosegretario del governatore d’Irlanda dal 1835 al1840. Drummond era anche un ingegnere: aveva inventato la lampada usata nei teatri e nei fari. Lo straordinario monumento, che domina l’area circostante, fu progettato da George Papworth. Lo splendore della forma 74 Il cimitero Glasnevin aprì nel 1823 e può rivendicare di essere la necropoli della nazione. O’Connell lo pensò in modo che potesse provvedere a tutte le religioni e non solo ai cattolici. Comunque, già dopo poco tempo si vide che la gran parte dei suoi abitanti era cattolica. Più di un milione di persone sono sepolte a Glasnevin, incluse molte delle maggiori figure politiche irlandesi del XIX e XX secolo, religiosi e personalità importanti per la storia della città. Anche Glasnevin ha una bella collezione di monumenti funebri, molto influenzati nei suoi primi vent’anni dalla moda del tempo. Uno dei monumenti più grandiosi è il sarcofago di John Philpot Curran, che si basa su quello di Scipio Barbatus a Roma, un tema molto comune nei cimiteri europei. Grazie alla crescente autoconsapevolezza della Chiesa cattolica e della borghesia emergente, ci fu un passaggio dallo stile neoclassico, che era identificato con il dominio protestante e inglese, verso il Gotico e il Romanico, che era ritenuto più adatto a evocare i tempi in cui la Chiesa cattolica aveva un ruolo dominante. Ci sono molti eleganti esempi di tombe, cappelle mortuarie ed edifici in questi stili. C’è anche uno spostamento dai simboli pagani a quelli cristiani, che rappresentano la Passione, scene dalla Bibbia e dai Vangeli, mentre naturalmente si allarga l’uso della croce come segno da porre sulla tomba. La dettagliata Ultima Cena (fig. 3) è dello scultore inglese James Pearse, padre di Patrick e Willie Pearse, i due leader politici giustiziati nel 1916. Ci fu inoltre un crescente uso sulle tombe dei simboli dell’identità nazionale. Questi includono l’arpa, il trifoglio d’Irlanda, la torre circolare, l’abbazia in rovina, il sole nascente e la croce celtica. Tutti questi sim- 3. James Pearse, Ultima Cena, Tomba John D'Alton, c. 1870, Dublino, Glasnevin Cemetery Tra scultura e simboli nei cimiteri irlandesi 4. Tomba John Keegan Casey, Dublino, Glasnevin Cemetery boli sono rintracciabili sulla tomba del poeta e scrittore feniano John Keegan Casey (fig. 4). La croce celtica, rifacendosi alle High Crosses del millennio precedente, forniva una splendida opportunità per soddisfare insieme sia il bisogno dell’espressione religiosa sia la volontà di manifestare l’identità nazionale. La High Cross aveva dei pannelli che illustravano scene bibliche ed erano usati dal clero per educare i fedeli. Le croci del XIX secolo avevano simili pannelli biblici oppure avevano pannelli decorati con un elaborato ornamento intrecciato simile a quello del libro di Kells e di altri antichi manoscritti irlandesi (fig. 5). Le croci celtiche divennero così popolari che presto diventarono la caratteristica dominante di ogni cimitero irlandese. A Glasnevin la decorazione celtica trovo il suo esito più alto nel mausoleo a baldacchino (fig. 6) del Cardinale McCabe, morto nel 1885. In stile neoromanico, il monumento propone la figura del Cardinale, coricato, in mitra e in abiti talari, con angeli che reggono dolcemente il capo e i piedi. Ci sono pavimenti a mosaico con le immagini dei Quattro Evangelisti circondate dagli elaborati simboli celtici. Questi disegni coprono in modo continuo le mura esterne, quelle interne e il tetto. All’interno ci sono anche le figure scolpite delle teste degli apostoli. Lo scultore fu Thomas Farrell. I simboli dell’identità nazionale stimolavano non solo l’orgoglio irlandese, ma riflettevano anche una profonda opposizione al dominio britannico in Irlanda. In 75 Lo splendore della forma 5. Croce celtica, Dublino, Deansgrange Cemetery Tra scultura e simboli nei cimiteri irlandesi si sia spostata nei cimiteri nel 1861, con il prolungato funerale di Thomas Bellew McManus, da San Francisco al cimitero di Glasnevin. Da quel momento fino ai giorni nostri, cimiteri, tombe e funerali divennero punti di riferimento per coloro che si opponevano al dominio britannico in Irlanda. Dopo l’insurrezione feniana del 1867, venne formato un Comitato per il Ricordo; uno dei suoi obiettivi era quello di curare le tombe dei patrioti uccisi. Nel 1926 il Comitato venne riconosciuto come Cumann Uaigheann na Laochra Gaer o Associazione per i sepolcri nazionali, nome che è stato mantenuto fino ai nostri giorni. Il monumento più impressionante è il complesso di tre figure connesse alla cospirazione feniana (fig. 7); le figure rappresentano il Patriottismo, la Fedeltà e l’Irlanda e sono opera di Thomas Farrell, ma tale era il clima politico che le statue non poterono essere collocate fino al 1933, più di trentacinque anni dopo. Infine, va rimarcata l’assenza nei cimiteri irlandesi di sta- 77 76 principio questi apparivano nelle tombe di coloro che, politicamente o con altri mezzi, si erano più attivamente opposti all’autorità britannica, ma poi alla svolta del secolo divennero così diffusi da perdere di efficacia. Si potrebbe dire che l’opposizione alla Gran Bretagna 6. Thomas Farrell, Tomba del Cardinale McCabe, 1887 m., Dublino, Glasnevin Cemetery 7. Thomas Farrell, Patriottismo, Fedeltà, Irlanda. Fenian monument, 1887, Dublino, Glasnevin Cemetery Lo splendore della forma Scultura funeraria in Finlandia (1880-1930) di Liisa Lindgren tue che raffigurano i defunti. Non ce n’è alcuna a Mount Jerome e solamente poche a Glasnevin. Tra queste, la bella statua di Berry Sullivan, l’attore shakespeariano che interpretava il molo di Amleto e il busto di Lord John Gray (fig. 8) che, tra le altre cose, fornì a Dublino l’erogazione di acqua potabile. Entrambi i lavori sono dello scultore Thomas Farrell. 8. Thomas Farrell, Tomba di Sir John Gray, 1880, Dublin, Glasnevin Cemetery 78 Riferimenti bibliografici AA.VV., Arte y Arquitectura funeraria (Arte e Architettura Funeraria. Funeral art and Architecture (XIX-XX). Dublin, Genova, Madrid, Torino, edicion a cargo de Sofia Diéguez. Patao y Carmen Gimenez, con el patrocinio Comisión Europea, Madrid, 2000. Bateson, R., Dead and Buried in Dublin, Irish Graves Publications, 2002. Curl, J., The Victorian Celebration of Death, Sutton Publishing, 2001. O’Shea, S. et al., Death and Design in Victorian Glasnevin, Dublin Cemeteries Committee, 2000. Potterton, H., Irish Church Monuments 1570-1880, Ulster Architectural Heritage Society, 1975. Nel XIX secolo la cultura cimiteriale in Finlandia ebbe una funzione di distinzione sociale che servì alla crescita dell’autoconsapevolezza della borghesia e delle classi istruite. La crescente popolarità delle tombe private aveva portato alla costruzione di lapidi commemorative per le tombe personali. Le croci tradizionali spesso erano realizzate con materiali deperibili, come il legno. A poco a poco le tombe acquisirono un carattere più permanente, soprattutto nei cimiteri urbani. Lapidi in ferro fuso di produzione nazionale apparirono negli anni Quaranta dell’Ottocento. Decorazioni alla moda furono importate anche dalla Russia, dalla Svezia, dalla Polonia e dalla Germania. Le lapidi spesso contenevano simboli classici come urne e torce capovolte, ghirlande e raggi di luce. Forme monumentali neoclassiche, steli, obelischi, urne e vasi per le tombe furono resi popolari dal gusto romantico per l’immaginario classico. L’insegnamento accademico della scultura iniziò in Finlandia nella metà del XIX secolo e creò una condizione per la produzione locale della scultura funeraria. Dopo aver imparato le basi della loro futura professio- 79 Lo splendore della forma ne nella Scuola della Società dell’Arte finlandese gli studenti dovevano completare il loro percorso di studi all’estero. A Copenhagen, Roma e Parigi cominciarono a muovere i primi passi nella loro carriera. Lì avevano l’opportunità di usare i servizi professionali delle fonderie d’arte che ancora non esistevano in Finlandia. Nei centri d’arte del continente essi adottarono anche le nuove tendenze dell’arte funeraria. In Finlandia, la cultura cimiteriale raggiunse l’apice della sua varietà, elaborazione e popolarità tra il 1880 e il 1930. Commissioni di monumenti funerari ebbero un ruolo cruciale nell’opera di molti scultori come Walter Runeberg, Ville Vallgren, Emil Wikström e Felix Nylund. II Cimitero di Hietaniemi a Helsinki, con il suo Antico Cimitero del 1829, il Nuovo Cimitero del 1858 e la sua estensione del 1929, è un esempio rappresentativo del XIX e degli inizi del XX secolo con monumenti di questi importanti scultori. 80 Walter Runeberg Walter Runeberg (1838-1920), figlio del poeta nazionale della Finlandia Ludvig Runeberg, aspirava a diventare lo scultore guida della sua madrepatria. Per raggiungere questo obiettivo Runeberg studiò all’Accademia delle Arti di Copenhagen. Dal 1862 Runeberg visse e lavorò a Roma e nel 1876 si trasferì a Parigi con la famiglia. Durante la sua vita fu ammirato e rispettato in tutte le nazioni del Nord. La sua opera include dozzine di monumenti funerari nei cimiteri finlandesi. Nel 1893 Runeberg lasciò definitivamente Parigi. Durante il suo soggiorno a Copenhagen nel 1896 realizzò la Resurrezione. Più tardi, nello stesso anno, Runeberg ritornò in Finlandia dove trovò una ricca clientela desiderosa di comprare i suoi lavori e di commissionargli monumenti funebri. La Resurrezione fu comprata da un ricco mercante, Uno Staudinger, che la collocò nel giardino della sua nuova villa a Helsinki. Dopo la morte di Runeberg nel 1920 fu trasferita presso la tomba dell’artista nel Cimitero di Hietaniemi (fig. 1). II tema popolare della resurrezione rappresenta “corpi celestiali” che risorgono pieni di luce. La fonte biblica è la prima lettera di San Paolo ai Corinzi. Come un segno di invocazione e illuminazione, la posizione Scultura funeraria in Finlandia 1. Walter Runeberg, Resurrezione, 1896, Helsinki, Hietaniemi Cemetery (foto The Central Art Archives) delle mani volte verso il cielo potrebbe avere anche un’interpretazione teologica. Zacharias Topelius, scrittore finlandese molto amato, morì nel 1898. L’Associazione delle Donne finlandesi organizzò una gara artistica per commemorare il poeta cantastorie, portavoce della casa e dei bambini. I racconti per bambini di Topelius erano serviti per l’istruzione religiosa e furono importanti anche per la formazione della visione del XIX secolo della morte e della commemorazione. Su verso la Luce di Walter Runeberg fu inaugurata nel 1905. La figura alata raffigura un angelo guardiano ma con il suo petto nudo potrebbe anche essere vista come la personificazione popolare della Fama nei monumenti del XIX secolo. Il fiorente culto dei grandi uomini faceva parte di una nuova vita pubblica borghese e il culto della memoria delle persone istruite e importanti includeva la visita alle tombe. L’Antico Cimitero possiede un’area chiamata la Collina degli Artisti, riservata agli artisti più stimati. Su verso 81 Lo splendore della forma Scultura funeraria in Finlandia della Zarina prima del suo primo matrimonio con il Maestro della Caccia della corte imperiale, Paul Demidov. Dopo la morte del suo secondo marito, il colonnello Karamzin, Aurora si trasferì a Helsinki. Era la donna più ricca della Finlandia a quel tempo ed era generosa e caritatevole. Il monumento funerario fu commissionato da suo nipote, il Consigliere del Principe e del Legato Elim Demidov, che viveva a Londra (fig. 3). 2. Walter Runeberg, Su verso la Luce, Tomba Zacharias Topelius, 1905, Helsinki, Hietaniemi Cemetery, (foto The Central Art Archives) 3. Ville Vallgren, Tomba Aurora Karamzin, 1905, Helsinki, Hietaniemi Cemetery (foto The Central Art Archives) 82 83 la Luce è il monumento centrale di questo Pantheon finlandese delle arti (fig. 2). Ville Vallgren Ville Vallgren (1855-1940) lavorò a Parigi dal 1877, facendo apprendistato presso lo studio di Léon Bonnat e all’Ecole des Beaux-Arts nello studio di Jules Cavelier. Vallgren ebbe una parte importante nell’élite artistica scandinava residente a Parigi. Nel 1889 Vallgren ricevette una medaglia d’oro nel Salon des Beaux Arts. Nelle mostre internazionali del 1890 ottenne fama e una ricca clientela con le sue urne cinerarie romantiche e quasi religiose, lacrimatoi e donne piangenti. All’alba del nuovo secolo Vallgren realizzò alcuni monumenti funerari molto elaborati con un bell’immaginario figurativo come quello della filantropa Aurora Karamzin (1808-1902). Aurora, nata Stjernvall, era stata damigella Nella primavera del 1903, Vallgren aveva mostrato un modello in gesso per la tomba di Karamzin al Salon di Parigi. Originariamente, Vallgren aveva progettato una stele eretta con un ritratto e un angelo dalle lunghe ali che fuoriuscivano dal marmo. La base bassa doveva essere fatta di steatite (talco) o granito e la figura piangente doveva essere fusa in bronzo. La donna dai piedi scalzi, nel suo vestito lacero, rappresentava il popolo finlandese addolorato per il suo benefattore. Il monumento, leggermente più piccolo del modello originale, fu scoperto nel 1905 ed è oggi la più grande scultura in marmo di Carrara bianco nell’Antico Cimitero. Dopo il suo ritorno in Finlandia nel 1915 Vallgren realizzò un monumento funebre per un’altra donna, Axianne Cygnaeus, per l’Antico Cimitero di Helsinki. Aggiunse uno “Spirito” in bronzo all’obelisco di pietra che era stato eretto vent’anni prima per decorare la Tomba di Lo splendore della forma 4. Ville Vallgren, Spirito della Tomba, Tomba della Famiglia Cygnaeus, 1914, Helsinki, Hietaniemi Cemetery (foto The Central Art Archives) Scultura funeraria in Finlandia Dopo aver studiato alla scuola della Società dell’Arte finlandese a Helsinki i suoi maestri lo inviarono a Vienna, dove studiò all’Accademia delle Belle Arti con il Professor Edmund Hellmer. Nel 1885 cominciò i suoi studi all’Académie Julian a Parigi dove più tardi prese lezioni da Henri Chapu. Già come giovane artista Wikström vinse commissioni per importanti lavori che garantirono il suo sostentamento per anni. Wikström realizzò molti importanti monumenti pubblici nei primi decenni del nuovo secolo. Uno dei ricchi committenti di Wikström fu 1’uomo d'affari e filantropo Uno Staudinger che collezionò le sue opere. Dopo la morte di suo marito nel 1912, la moglie di Staudinger commissionò un monumento per la sua tomba, eretto nel 1913. Esso rappresenta una famiglia idealizzata ma la ragazzina di fronte ai genitori è effettivamente la figlia della famiglia Staudinger. La base in granito è decorata con una figura piangente e un Genio della morte con la torcia rivolta verso il basso (fig. 5). 84 85 Uno Cygnaeus, teologo e capo ispettore delle scuole elementari. I figli di Uno e di Axianne commissionarono la scultura in memoria della loro madre. Tuttavia, lo “Spirito” che sparge le rose sembra rendere immortale soprattutto la memoria dello stesso Cygnaeus, il padre della scuola elementare finlandese (fig. 4). Lo Spirito della Tomba porta una ghirlanda di rose della vita eterna di fronte all’obelisco che celebra l’immortalità dell’anima. Lo “Spirito” di Vallgren è un angelo moderno con un’acconciatura alla moda e un corpo sensuale e terreno. Nella sua arte Vallgren aspirò a far risorgere il sensuale nei regni della spiritualità. Emil Wikström Emil Wikström (1864-1942) dominò la scultura pubblica in Finlandia durante i primi decenni del XX secolo. 5. Emil Wikström, Tomba Famiglia Staudinger, 1913, Helsinki, Hietaniemi Cemetery (foto Liisa Lindgren) La Finlandia divenne indipendente nel 1917. Ben presto Wikström perse il suo ruolo dominante nella scultura pubblica e fu sostituito dai colleghi più giovani. Comunque, durante la sua lunga carriera realizzò circa quaranta monumenti funerari privati. La maggior parte Lo splendore della forma Scultura funeraria in Finlandia 7. Felix Nylund, Tomba Anton Karsten, 1925, Helsinki, Hietaniemi Cemetery (foto Liisa Lindgren) 6. Emil Wikström, Tomba Santeri Ivalo, 1942, Helsinki, Hietaniemi Cemetery (foto Liisa Lindgren) 86 di questi sono lapidi composite con ritratti a rilievo. Uno dei suoi ultimi lavori è il monumento funerario allo scrittore e giornalista Santeri Ivalo (1942). Il giovane uomo del monumento può essere visto come un Genio dell’arte (fig. 6). Felix Nylund Felix Nylund (1878-1940) studiò all’Accademia delle Arti di Copenhagen e all’Académie Colarossi a Parigi negli anni di passaggio fra XIX e XX secolo. Dopo aver lavorato e vissuto molti anni a Copenhagen, Nylund ritornò in Finlandia negli anni Venti. La Guerra civile del 1918 aveva cambiato l’atteggiamento nei confronti della morte e angeli e figure in lutto erano adesso considerati fuori luogo ed esagerati. La vistosità delle forme fu vista come simbolo di ricchezza e di status, e perfino di effeminatezza. I più bei monumenti funerari di Nylund sono quelli degli anni Venti e degli anni Trenta. Le pietre diritte, che alludono alle pietre runi- 8. Felix Nylund, Il portatore della Torcia, Tomba Hannes Gebhard, 1936, Helsinki, Hietaniemi Cemetery (foto Liisa Lindgren) che scandinave, erano popolari all’inizio del XX secolo specialmente tra i finlandesi che parlavano svedese. Attraverso questi monumenti essi sottolinearono la loro consonanza con la cultura degli svedesi e delle alleanze culturali. Nel monumento funerario del Dottor Anton Karsten, Nylund (1925) usò un modello del famoso monumento danese del Vichingo, il Jellingesten. In ogni caso il guerriero sulla pietra proviene dalla mitologia greca, il barcaiolo dell’Ade, Caronte (fig. 7). II Classicismo diede a Nylund modelli per nuovi monumenti con figure maschili, privi di eccessiva decorazione. Fanciulle piangenti furono sostituite da giovani uomini che recano i simboli dell’arte che legavano la morte alla libertà spirituale e alla lotta per i grandi ideali. La ricerca della forza della vita cambiò l’immagine della morte: nel monumento di Hannes Gebhard (1934), Felix Nylund usò un giovane Prometeo che tiene la torcia rivolta verso l’alto come immagine della vittoria. II portatore della torcia mostra chiaramente come la retorica vitalistica della vita del modernismo del XX secolo rifiutava il modo melanconico della tematica della morte come decadenza della fine del XIX secolo (fig. 8). 87 La scultura cimiteriale a Bucarest e in Romania di Ioana Beldiman La scultura cimiteriale a Bucarest e in Romania 1. Antonio Argenti, Allegoria, Tomba Casimir, 1879, Iasi, Cimitero Eternitatea 88 L’istituzione cimiteriale centralizzata creata fin dalla metà dell’Ottocento nelle più importanti città dei Principati Uniti (province unificate nel 1859 e chiamate dal 1866 Romania), seguendo i modelli parigini o italiani (fig. 1), sostituiva i piccoli cimiteri raggruppati intorno alle chiese. Si creava così anche nei Principati l’occasione di onorare nel modo dovuto le grandi personalità romene, gesto significativo nel “secolo delle nazioni”. Era un aspetto dell’ampia riconfigurazione, secondo il sistema europeo e prevalentemente francese, dei principali meccanismi istituzionali in un paese che era stato una provincia dell’Impero Ottomano fino al 1878. Nello spazio romeno, la scultura a tutto tondo è esclusa fino verso il 1830, da una parte a causa delle restrizioni imposte dalla religione ortodossa che, seguendo alla lettera il testo sacro, non accetta il ritratto in bronzo o in pietra, dall’altra parte a causa di una persistente tradizione artistica della decorazione a rilievo, le cui origini sono dovute all’appartenenza della zona all’area culturale bizantina e poi dell’arte post-bizantina. È in tale contesto che si deve intendere anche la man- 89 canza di un’accademia di belle arti fino al 1864, quando vengono inaugurate due istituzioni di questo tipo, con programmi che seguono il modello francese, a Bucarest, in Valacchia, e quello tedesco, a Iasi, in Moldavia. Prima del 1800 la scultura funeraria colta dei Principati romeni è rappresentata dalle lapidi sepolcrali dei boiardi – l’aristocrazia locale – decorate con bassorilievi in méplat, una formula stilistica tardiva che discendeva dalla scultura bizantina. Verso il 1830, nella decorazione delle lapidi scolpite prevalentemente da artigiani stranieri si impone un’iconografia di fonte occidentale: stemmi ed elementi del vocabolario neoclassico che inquadrano epitaffi a caratteri cirillici, greci o in francese. L’inizio della scultura cimiteriale a tutto tondo è segnato verso il 1830-1840 dai monumenti funerari collocati nei cimiteri privati delle famiglie regnanti, accanto alla cappella del palazzo o della dimora signorile di campagna. Lo scultore Franciscus Vernetta, che lavorava nella vicina Russia, è invitato a Iasi nel 1842 dal principe regnante moldavo, Mihail Sturdza (1834-1848), per realizzare Lo splendore della forma La scultura cimiteriale a Bucarest e in Romania 2. Franciscus Vernetta, Monumento funerario di Grigore Sturdza, 1842, Iasi, Monastero Frumoasa 3. Auguste Préault, La statua di Alexandrina Falcoianu, 1871-1873, Bucarest, Museo Nazionale d’Arte della Romania 90 per la prima volta in questo paese un monumento funerario con statua che verrà collocato vicino a Iasi, nel Monastero Frumoasa (fig. 2). L’allegoria della Morte, l’urna e il sarcofago rappresentavano “un modello iconografico diffuso dalla Slesia alla Russia”,1 ma la purezza delle forme, l’atticismo della figura meditativa testimoniavano la buona formazione canoviana dello scultore che ha saputo imporre abilmente nell’Europa dell’Est le invenzioni dell’arte italiana coeva e onorare in tal modo le committenze dell’aristocrazia russa e moldava. La tomba in marmo era destinata non solo a conservare la memoria di Grigore, il padre del principe regnante, ma anche a consolidare l’idea di una possibile dinastia sul trono moldavo.2 Per la prima volta in quello spazio veniva percepito il significato sociale della scultura funeraria moderna. L’esempio sarà seguito anche dall’aristocrazia di corte, a volte con monumenti funerari modesti ma ambiziosi, di formula italiana. Nella seconda metà dell’Ottocento, quando la Romania diventa paese di emigrazione per un certo numero di italiani, a Iasi si stabiliscono alcuni scultori provenienti dalla Penisola. L’aristocrazia locale si rivolge a questi artisti e artigiani per ornare le tombe in genere 91 con piccoli monumenti di fattura provinciale: Fabio Celesti, professore presso la Scuola di Belle Arti di Iasi, Federico Gaetano Villa, G. Franzoni. Molte sculture del Cimitero Eternitatea di Iasi, un’istituzione inaugurata nel 1876,3 sono firmate da questi nomi. Dei cimiteri signorili della regione si possono segnalare la tomba di George A. Sturza (a Miclauseni), firmata da Fabio Celesti (1900), secondo un modello lombardo-toscano, oppure il monumento a baldacchino con giacente della chiesa di Miroslava, eseguito dallo scultore bucarestino Fritz Storck (1908) secondo il gusto del committente Alexandru Mavrocordat. Lo splendore della forma 4. Pierre Granet, Jeune fille roumaine jetant des fleurs sur une tombe, Tomba di Anton Don, 1877, particolare, Cimitero Bellu, Bucarest 92 A Bucarest invece i committenti si orientano prevalentemente verso i modelli francesi. Attorno al 1848 e oltre, più desiderosi di un rinnovamento che voleva essere politico prima di tutto, e implicitamente assecondato dal gusto per un’arte più innovatrice del neoclassicismo, i giovani boiardi valacchi sono più direttamente influenzati da quello che è il cuore della vita moderna e democratica, Parigi. Questo fatto si riflette anche sull’arte funeraria, soprattutto nel cimitero SerbanVoda/Bellu (inaugurato nel 1859, architetto Alexandru Orascu) dove si notano monumenti funebri eseguiti da artisti romeni, francesi o italiani. La statua di Alexandrina Falcoianu dovuta ad Auguste Préault (fig. 3) era una committenza del colonnello Stefan Falcoianu in memoria della moglie deceduta a 24 anni. Vecchi e saldi legami di amicizia politica e di affinità personale univano lo scultore Préault e due politici del 1848 romeno, C.A. Rosetti e Ion Bratianu. Soprattutto Rosetti deve aver suggerito al committente di rivolgersi allo scultore romantico francese. La scultura cimiteriale a Bucarest e in Romania È la prima statua importante del cimitero centrale bucarestino (1873).4 Alquanto idealizzato dall’artista attraverso la grazia del contegno e i tratti classici del ritratto, il marmo reca anche l’impronta di Préault in alcune soluzioni di eccezionale plasticità: lo scialle avvolto intorno alla vita o la capigliatura, le pieghe dello scialle che ruotano intorno ai polsi e cadono dietro a falde ampie. Nel 1877, Pierre Granet esponeva al Salon des Artistes Français un gesso registrato nel catalogo come Jeune fille roumaine jetant des fleurs sur une tombe. Il bronzo, oggi nel Cimitero Bellu (fig. 4), sarà ordinato dal giurista romeno Constantin Don in memoria di suo figlio Anton, laureato in Giurisprudenza a Parigi e ivi deceduto nel1875. Ispiratosi a un tema prediletto nella Francia di quegli anni, Granet immagina una graziosa e funebre allegoria della Giovinezza prefigurando lo stile Liberty con una ragazza in costume tradizionale romeno che sparge petali di rose da un ramo rotto, simbolo della violenta fine in tenera età. A Paul Albert Bartholomé si rivolgono verso il 1910 i coniugi Maria e Alexandru Callimachi, personaggi appartenenti all’alta aristocrazia romena. Opera di gusto simbolista, Pleureuse au pied d’une croix iscriveva in una nuova sintassi un nudo ripreso dalla lunga schiera di figure del Monumento dei Morti (Père Lachaise), le quali si coprono il viso per paura del nulla. Realizzata parzialmente a tutto tondo e parzialmente in rilievo, La Pleureuse di Bucarest (fig. 5) è rappresentata nell’atto di abbracciare la croce mentre si nasconde il volto, con un gesto drammatico, tipico della sensibilità fin-desiècle ossessionata dal tema di Thanathos. Stabilito in Romania verso il 1890, lo scultore parigino Wladimir Hégél (1838-1918), è stato invitato a Bucarest dalla committenza ufficiale per realizzare dei monumenti pubblici, fondare una Scuola di Arte e Mestieri e aprire la prima fonderia artistica. Un bronzo, la figura femminile grave ed emozionale, seduta su un capitello corinzio accanto a una colonna rotta, La Morte o La Malinconia, devastata dal furto di alcuni dettagli, resta una delle sculture allegoriche di spicco del Cimitero Bellu (tomba C. Angelescu, 1902). 93 Lo splendore della forma La scultura cimiteriale a Bucarest e in Romania 6. Ion Mincu (arch.), Frederick Storck (scult.), Cappella Gheorghieff, Bucarest, Cimitero Bellu 5. Paul-Albert Bartholomé, Pleureuse au pied d'une croix, Tomba Vernescu, 1910, Bucarest, Cimitero Bellu 94 Un certo fascino esercitato dalla scultura fiorentina coeva o dalle produzioni degli studi funerari milanesi5 si nota nel periodo 1880-1918. Il caso delle committenze rivolte al professore fiorentino Raffaello Romanelli è forse il più significativo per le aspirazioni artistiche e per l’orgoglio sociale dell’aristocrazia romena. Gli oggetti che accompagnano il personaggio, i dettagli degli abiti fedelmente resi per dare il senso dell’illusione, l’abilità nell’evocare i materiali organici attraverso l’uso di quelli inorganici sono gli elementi del linguaggio tardo accademico di Romanelli. I lavori vengono eseguiti a Firenze (Fonderia Vignali), come registrato su ognuna delle sculture: l’imponente tomba di Eufrosina Poroinianu, 1902; il ritratto di Constantin Istrati ecc. (Cimitero Bellu). Un monumento in marmo, con la statua in bronzo del personaggio commemorato, in piedi, con cappello e bastone, fu commissionato a Romanelli per il Cimitero Ungureni di Craiova dagli eredi di Gogu Vorvoreanu, ricco latifondista, ex-sindaco della città. Prima dalla fine dell’Ottocento si nota una produzione costante di busti, “nature morte” (attributi della professione del defunto), allegorie, lavori forniti dagli artisti locali che rispondono alle commissioni correnti della 7. F. Storck, San Giovanni Evangelista, Cappella Gheorghieff, Bucarest, Cimitero Bellu ricca borghesia. Grazie al contributo significativo degli scultori della famiglia Storck (Karl e due figli, Frederick e Carol), il Cimitero Bellu diventa verso il 1900 un “museo di sculture all’aperto”.6 Il gusto persistente per le tradizionali formule dell’accademismo era una modalità di recupero della storia della scultura occidentale. Questa preferenza stilistica continuò a essere presente simultaneamente alle elaborazioni innovatrici che si diffondevano alla vigilia della Grande guerra: la ricerca di uno stile nazionale e la rottura con l’accademismo. Un contributo romeno ben individualizzato si affermerà dopo l’inizio del Novecento, quando nella vita artistica della capitale si impone un gruppo di scultori formati a Bucarest, di varia portata artistica e di tendenze stilistiche diverse: Constantin Brancusi, Dimitrie Paciurea, Frederick Storck, Oscar Spaethe, Constantin Balacescu e altri. Ion Georgescu, il primo scultore formato presso la giovane Scuola di belle arti, è tra gli anni 1885-1895 l’autore di alcuni busti e medaglioni del cimitero Bellu (ritratto del poeta Mihai Eminescu). Ma la più evidente affermazione del contributo locale all’arte cimiteriale avviene in occasione dell’elaborazione di uno stile architettonico nazionale, una sfida lanciata dagli architetti. Ion Mincu (1850-1912), l’ideatore di un’architettura nazionale, realizza cappelle funerarie in collaborazione con Fritz Storck (figg. 6 e 7) e con il fiorentino Romanelli. Contemporaneamente, appare un esercizio originale del monumento funerario locale: la croce in pietra, scolpita in bassorilievo con motivi ornamentali dell’e- 95 Lo splendore della forma poca di Constantin Brancovan (Sei e Settecento), già presenti negli edifici in stile nazionale. La croce della tomba dell’architetto Grigore Cerchez riprende a scala monumentale un’arte della lavorazione della pietra di tradizione nell’area romena (fig. 8). 8. Constantin Dobrescu (arch.), Tomba dell'architetto Grigore Cerchez, c. 1930, Bucarest, Cimitero Bellu 96 Un altro tipo di rielaborazione della tradizione bizantina, più complessa, è messa in atto da Dimitrie Paciurea (1873-1934), forse il più personale degli scultori attivi in Romania nella prima metà del Novecento. Egli si formò a Bucarest e poi a Parigi, dove si trovava al momento dello scandalo provocato dalla statua di Balzac realizzata da Rodin. Nel suo lavoro Il Transito della Madonna, bronzo collocato nella nicchia oblunga della Cappella Stolojan (fig. 9), Paciurea trasferisce il linguaggio della pittura nell’arte del bronzo. Elegantemente calligrafico e modellato in bassorilievo, il personaggio sacro è rap- La scultura cimiteriale a Bucarest e in Romania 9. Dimitrie Paciurea, Il Transito della Madonna (Madonna Stolojan), 1912, Bucarest, Cimitero Bellu presentato allungato, quasi una derivazione dalle icone. Soluzioni analoghe stilisticamente venivano a quella data elaborate dal croato Ivan Mestrovic o dal francese Paul Landowski. È ben probabile che Paciurea sia stato influenzato anche da esempi del genere, ma in seguito si orienterà verso un immaginario simbolista che corrisponde meglio alla sua fantasia creatrice. Nel contesto generale ancora dominato dalle riprese dei modelli tardo accademisti, un caso a parte per la sua modernità è quello del monumento Stanescu, eseguito da Constantin Brancusi (1873-1957), pioniere della scultura non figurativa, per il Cimitero “Dumbrava” di Buzau. Si tratta del gruppo funerario dedicato alla memoria dell’avvocato Petre Stanescu,7 una committenza venuta dalla Romania. Si può pensare che la modernità del monumento sia dovuta alla sua elaborazione a Parigi, centro dell’arte innovatrice. Il complesso composto da due sculture – un personaggio femminile simbolico, La Preghiera e il busto del defunto (figg. 10 e 11) – verrà concepito da Brancusi nel suo studio di Impasse Ronsin dal 1907 fino al 1914. Se l’idea basilare delle due sculture messe in dialogo non si è modificata, invece la decantazione graduale delle forme messe al servizio dell’idea si è concretizzata nella serie di varianti in cui la semplificazione delle forme è sempre più evidente. Dagli studi di nudo eseguiti sul modello e attestati dalle foto fino alla sintetica e pura silhouette della donna in preghiera, Brancusi percorre infatti la sua propria strada: dalla scultura di Rodin a una soluzione propria, fase di transizione 97 La scultura sepolcrale secessionista in Croazia di Daina Glavocic Lo splendore della forma 10. Constantin Brancusi, La Preghiera, Tomba di Petre Stanescu, particolare, Bucarest, Museo Nazionale d’Arte della Romania (da Barbu Brezianu, Brancusi in Romania, Bucarest, Alfa 2005) 11. Constantin Brancusi, Tomba di Petre Stanescu, Buzau, Cimitero Dumbrava (da Barbu Brezianu, idem) verso ciò che più tardi diventerà la geometria pura della M.lle Pogany, dell’“Uovo”, dell’Uccello fatato. Nell’arte cimiteriale, tra le due guerre mondiali, gli scultori romeni si orienteranno prevalentemente verso l’espressione del classicismo moderno, seguendo così una linea stilistica di derivazione italiana. 98 1 2 3 4 Ispir, Mihai, Clasicismul in arta româneasca, Ed. Meridiane, Bucuresti 1984, p. 95. Esule nell’Occidente, Mihail Sturdza ordinò anche altri marmi per la cappella funeraria che fece costruire a Baden-Baden (1863, arch. Leo von Klenze), rivolgendosi a Rinaldo Rinaldi e a Gabriel Thomas (v. Ioana Beldiman, Sculptura franceza in Romania (18481931), Bucuresti 2005, pp. 258-263). Ostap, C., De la Gheorghe Asachi la Scarlat Pastia…, in Cimitirul Eternitatea Iasi, Iasi 1995, pp. 10-12. Nel 1957, l’originale, trasportato al Museo Nazionale d’Arte, fu sostituito nel cimitero da una sua copia. L’opera è stata recentemente riportata all’attua- 5 6 7 lità della nota studiosa Antoinette Romain, attraverso la mostra dedicata all’artista (Musée d’Orsay 1997). Così avviene con la tomba del medico Paul Petrini, vegliata da un angelo firmato A. Rescaldani Milano, 1906, Fonderia Artistica/G.Piazza & Comp, o con il mausoleo di George Assan, coronato di una statua femminile in bronzo (E. Cassi/Milano). Verso 1870, Karl Storck apre con l’italiano Lepri un primo magazzino bucarestino dove si poteva commissionare e acquisire il marmo di Carrara. Attualmente, i due lavori che compongono il monumento del Cimitero “Dumbrava” sono esposti al Museo Nazionale d’Arte della Romania. Il presente intervento rappresenta un breve riassunto degli esempi più significativi della scultura Secessionistica dei cimiteri di Mirogoj a Zagabria, Cosala e Tersatto a Fiume, Sant’Anna a Osijek, nonché di alcuni cimiteri minori sulla costa e sulle isole dell’Adriatico (Abbazia, Bescanuova, Curzola, Lissa, Cavtat ecc.) in cui le forme secessioniste sono appena intuibili o appaiono in varianti rustiche. Bisogna sapere che la Secessione ha lasciato in Croazia poche sculture pubbliche importanti e che molte città croate all’epoca si trovavano ai margini degli influssi culturali e artistici europei, come pure che essi vi penetravano con molto ritardo. Al cimitero zagabrese di Mirogoj, massimo e più importante cimitero della Croazia, operarono i più celebri scultori secessionisti croati formatisi a Vienna e Monaco di Baviera: Robert Frangeš-Mihanovic (1872-1940) (fig. 1), Rudolf Valdec (1872-1929) e Ivan Meš trovic (1883-1962), accanto ad alcuni meno noti (Oscar Alexander, Branislav Deš kovic) (fig. 1), mentre nei cimiteri minori delle piccole città venivano impiegati scultori e scalpellini locali. Solo sporadicamente veniva- 99 Lo splendore della forma 1. Oscar Alexander, Tomba Siebenschein, Zagabria, Cimitero Mirogoj La scultura sepolcrale secessionista in Croazia 2. Tomba Kukovich, Zagabria, Cimitero Mirogoj 100 101 no invitati autori stranieri. Gli scultori più significativi che operarono nelle suddette città, nelle loro creazioni, si riferirono specificamente alla Secessione, dato che questa offriva alla scultura cimiteriale una ricca gamma di temi e motivi iconografici adeguati, il repertorio era conforme alla funzione ed era ben accetto ai committenti. Le figure femminili dalle forme dolci e sinuose rappresentanti immagini funerarie patetiche, addii, dipartite, pianti, corpi seminudi di donne in balia all’impotenza della tristezza e allo stremo delle forze, spesso vennero completati con dettagli simbolici rappresentanti una fauna bizzarra (civette, pipistrelli, serpenti) e una flora esotica (palma, alloro, edera, rosa, papavero, campanellino, lappa) (fig. 2). Tutto ciò favoriva lo specifico ambiente dell’isolamento del cimitero e della suprema meditazione legata a tali luoghi, che lo stile secessionista mantenne sui monumenti tombali croati dei territori marginali e periferici fino alla Seconda guerra mondiale. Il più vecchio e il primo scultore croato con titolo accademico fu il dalmata Ivo Rendic (1849-1932) che operò a cavallo dei secoli XIX e XX e trascorse la maggior parte della propria vita lavorando presso l’atelier triestino per committenti italiani e croati. Si specializzò nell’esecuzione delle sculture sepolcrali, ma progettò pure tombe, cappelle e mausolei. Produsse le sue felici soluzioni, specie quelle in stile Secessione (La Vestale addormentata, Credo, Meditazione, Padre Nostro) in diverse varianti che troviamo in alcuni cimiteri italiani (Sant’Anna a Trieste) e croati (Mirogoj a Zagabria, Cosala e Tersatto a Fiume, Abbazia, Zara, Curzola, Orebic e altri). Abbracciò lo stile realista, naturalista, in alcuni momenti quello secessionista e, verso la fine dei suoi giorni, inventò una variante stilistica peculiare nel tentativo di creare uno stile nazionale “jugoslavo”: “L’opera di Rendic è un museo completo di ritratti e immagini e un cimitero intero di monumenti sepolcrali”.1 Lo splendore della forma 3. Robert Frangeš, L’Amore della madre, Tomba Arko, Zagabria, Cimitero Mirogoj 102 Gli scultori zagabresi Robert Frangeš -Mihanovic e Rudolf Valdec sono i rappresentanti della seconda generazione di scultori croati a cavallo tra i secoli XIX e XX che si inserirono direttamente nelle correnti allora più aggiornate della scultura europea, superando il radicato accademismo locale e accettando la Secessione che dominava a Vienna e Monaco di Baviera, dove studiavano. Frangeš (1872-1940) è il più convincente nelle sue realizzazioni in stile Secessione perché, nei suoi monumenti sepolcrali, rappresenta in rilievo immagini che si fondono con lo sfondo (Amore materno, sul Sepolcro della famiglia Arko (fig. 3) e La musa del poeta su quello della Famiglia Tomic) o potenti figure maschili simboliche, dai dolci volumi, influenzate da Rodin (sepolcri Mayer, Miler e Vajda-Kulcar). La statua Tristezza (1924/25) sulla tomba della famiglia Vajda-Kulcar è un semplice personaggio inginocchiato con un gesto della mano, mentre I due vecchi padri (1924) sulla tomba dei La scultura sepolcrale secessionista in Croazia Mayer è un capolavoro di monumento sepolcrale, pur sempre simbolico, ma ancor oggi molto moderno per il suo carattere sintetico. Valdec (1872-1929) creò sculture e rilievi simbolici modellati talvolta con forme realistiche ma anche secessioniste (Amore - fratello della morte, 1897, Monumento Arco e Kugli nel cimitero di Mirogoj e L’angelo imprigionato, 1911 sulla tomba di S.S. Kranjcevic a Sarajevo). Il misticismo e il pessimismo sono caratteristici delle sue opere giovanili (Memento mori, 1898), ma proprio nei monumenti sepolcrali raggiunse un’espressiva decoratività secessionista. Sulla tomba di Franjo Racki (1901) troviamo il ritratto del defunto in bassorilievo “assoggettato a una ricca stilizzazione lineare e a un’unione generale con gli elementi decorativi vegetali, come pure con la rappresentazione grafica delle lettere. In esse Valdec ha raggiunto lo spirito universale ornamentalistico della Secessione in cui la linea, il piano e l’arabesca diventano fenomeni affini”.2 Ivan Meš trovic (1883-1962), dopo aver terminato gli studi a Vienna, al suo ritorno a Zagabria accelerò il processo di acquisizione della nuova arte secessionista in Croazia a cavallo tra i secoli, ma con la forza del suo talento e l’intreccio delle varie esperienze (Secessione viennese, Rodin, mitologia) riuscì a realizzare una propria via personale, una peculiare tradizione secessionista senza la quale non sarebbe esistito un ulteriore sviluppo della scultura croata. Egli fece propri gli elementi inconsueti e d’avanguardia del secessionismo: la finezza, l’esoterismo dei simboli, la fusione delle forme di Rodin e l’artificiosità delle decorazioni della Secessione viennese. Accettando solo una delle molteplici tendenze del secessionismo, la stilizzazione sinuosa e la forma piatta, nella sua opera ne sviluppò più tardi altre raggiungendo alti traguardi nella scultura, che superarono di gran lunga i confini della Croazia. Nonostante non si sia mai occupato di monumenti sepolcrali su commissione, sono rimaste alcune sue idee e opere in questo ambito (il monumento della famiglia Racic a Cavtat, 1920-1922, e il proprio mausoleo di famiglia a Otavice, 1932). Alcune sue sculture minori trovano posto nei cimiteri per la qualità o i temi d’oc- 103 Lo splendore della forma 104 casione. Malgrado la meravigliosa ubicazione del cimitero di Cavtat, sovrastante il mare, le pareti lucide, le cariatidi e le decorazioni plastiche della cappella Racic sono rilievi bidimensionali elaborati minuziosamente con numerosi motivi piatti e zoomorfi in cui si riconosce la mano instancabile del grande maestro. Agli inizi del XX secolo, nel periodo della Secessione, a Fiume la situazione era diversa che nel resto della Croazia dato che, fino alla fine della Prima guerra mondiale, la città si trovava sotto l’amministrazione ungherese, seguita da quella italiana tra le due guerre, fino al 1945, e la popolazione era orientata prevalentemente verso la lingua e la cultura italiane. Gli influssi artistici penetravano dall’Italia più che da altri paesi limitrofi, come pure gli autori che operavano accanto a numerosi scultori e scalpellini oggi sconosciuti. Da Trieste giungono a Fiume gli scultori Giovanni Mayer, Ruggero Rovan, Giovanni Marin e da Milano Donato Barcaglia. Ad eccezione di mausolei commissionati dai più abbienti, la cittadinanza di ceto medio ordinava prevalentemente monumenti sepolcrali di dimensioni non esagerate, dal punto di vista della forma, caratterizzati da sculture a tutto tondo o con la lapide in rilievo. Anche se nei tempi antichi era frequente la tradizione di sistemare sulle tombe i busti dei defunti, il ritratto venne scoperto in quanto adeguato tema sepolcrale agli inizi del XIX secolo, quando la costruzione di cimiteri cittadini venne regolata dalla legge. Si tentò di rafforzare la neonata coscienza civica dei primi anni del XX secolo e la posizione sociale raggiunta tramite le attività proficue dei singoli, il lavoro e il guadagno ottenuto in vita, per mezzo di busti o rilievi sulla tomba, spesso accentuati da una lapide con scritta relativa alla funzione, alla posizione sociale e alla professione del defunto. Alcuni busti furono completati con rilievi narrativi in metallo o pietra (Chiopris, Belasich) che evidenziavano ulteriormente l'importanza del defunto durante la sua vita e il suo status sociale (tombe di Chiopris, Emilio Rupnik, Giovanni Ciotta). Fa eccezione il grande mausoleo in pietra, in tre parti (1900-1905) del produttore di siluri Robert Whitehead realizzato, con l’arco di Olbrich, in stile Secessione La scultura sepolcrale secessionista in Croazia 4. Giovanni Mayer, Angelo della morte, Tomba Steffula, cimitero Cosala, Fiume 105 dall’architetto triestino Giacomo Zammattio e completato dal suo concittadino Giovanni Mayer con le sculture di una coppia di sposi distesi, in grandezza naturale, realizzata in marmo di Carrara. La fiumana Ida Steffula, benestante ma senza eredi, fece progettare il suo sepolcro al fiumano Giovanni Randich, ma la soluzione stilistica liberty sulle orme del Bistolfi è opera dello scultore triestino Giovanni Mayer (fig. 4). Agli estremi del baldacchino supportato da due colonne fitomorfe (due tronchi dalle radici nodose e i rami incurvati), sta seduto l’Angelo della morte, in grandezza naturale, con le grandi ali abbassate. Si tratta di un’opera eccellente, dalla composizione inconsueta, di uno scultore esperto, anche se realizzata in pietra scadente. Ivan Rendic realizzò in ambito fiumano più di venti opere, solo alcune in stile Secessione, come ad esempio la Vestale addormentata (1914) (fig. 5) sulla Tomba degli Smokvina a Cosala e sulla Tomba Tomašic ad Abba- La scultura sepolcrale secessionista in Croazia Lo splendore della forma 5. Ivan Rendic, La Vestale addormentata, Tomba Smoquina, Cimitero Cosala, Fiume 106 zia. Il motivo piacque tanto ai committenti dell’epoca che lo dovette ripetere per ben sei volte. La koinè particolare degli elementi stilistici decorativi dello storicismo, ma con prevalenti caratteristiche secessioniste fu applicata da Rendic a Cosala, unita a un uso accentuato del colore, in due mausolei con cupola (Manasteriotti e Kopajtich-Battaglierini). Accanto a Rendic, a Cosala operarono anche altri scultori fiumani come Domenico Rizzo, Ugo Terzoli (fig. 6), Edoardo Trevese, scalpellini e alcuni laboratori (Albertini, Grubisich) che introdussero e applicarono la nuova tecnologia e l’elaborazione meccanica in serie dei monumenti, causando la graduale sparizione della lavorazione a mano dei monumenti sepolcrali, che diventano sempre più semplici e senza decorazioni. Dai restanti cimiteri croati è possibile estrapolare solo qualche esempio di scultura secessionista, perché la maggior parte dei monumenti è realizzata in serie, con minime variazioni nelle dimensioni o nei dettagli. Ne è un esempio il cimitero di Sant’Anna a Osijek nel cui ambito vanno annoverati gli scultori Eduard Hauser, Payerle, Franjo Hendrich che produssero alcuni monumenti tipici con il motivo della piramide tronca, nonché Ante Slabicek, autore della tomba della famiglia Ogrizek, con la scultura marmorea della Fede. 6. Ugo Terzoli, Angelo della morte, Tomba Kucich, Cimitero Cosala, Fiume 107 In Croazia, piccola terra ai margini dell’impero austroungarico, situata nel territorio di confine in cui si mescolavano i nuovi influssi artistici dei centri culturali mitteleuropei, con una tradizione radicata di centri urbani ed espressioni rustiche di quelli rurali, la Secessione giunse con ritardo, ma quando venne accolta, con numerose varianti locali, durò a lungo, fino alla metà del XX secolo. Si tratta di un fenomeno comune a tutte le terre di confine, ma non dev’essere per forza un fenomeno negativo: talvolta può far nascere delle soluzioni del tutto nuove, originali e contribuire a una nuova via di sviluppo della prassi artistica. 1 2 Gamulin, Grgo, La scultura croata dei secoli XIX e XX, ed. Naprijed, Zagabria 1999, p. 63. Klicinovic, Božena, Secessione nella scultura Croata in La Secessione in Croazia, catalogo della mostra, MUO, Zagabria, 2003-2004, p. 139. La scultura funeraria nella Slovenia di Sonja Žitko 108 I cimiteri urbani dell’Ottocento in Slovenia, con le loro tombe e monumenti funebri, conservano il ricordo dei defunti e offrono un’immagine speculare della società urbana-borghese e della sua cultura. L’evoluzione dell’arte cimiteriale in Slovenia è collegata al contemporaneo plasmarsi della borghesia, allo sviluppo delle città e delle industrie. Sino agli ultimi trent’anni del XIX secolo predominavano monumenti architettonici sepolcrali piuttosto modesti e rara era pure la scultura funeraria. Nella seconda metà dell’Ottocento la tomba assunse progressivamente il ruolo sociopolitico di monumento quale rappresentazione di una borghesia che andava prendendo coscienza di sé.1 Il cimitero diventa l’ambiente privilegiato in cui la borghesia può rendere omaggio agli illustri rappresentanti del proprio ceto2 e si sviluppa in una sorta di pantheon, uno spazio consacrato all’identità nazionale, un luogo di memoria individuale e collettiva. La tomba diventò il simbolo della posizione sociale ed economica della borghesia; con esso la borghesia si autorappresentava e autoaffermava, nonché venerava i La scultura funeraria nella Slovenia suoi maggiori rappresentanti. Nel periodo in cui gli Sloveni si stavano affermando come nazione nell’ambito della monarchia austro-ungarica, le tombe di alcuni personaggi meritevoli assunsero il significato di monumento pubblico. E qui la scultura aveva suo grande ruolo: la caratteristica monumentale fu ottenuta per lo più con il ritratto del defunto, sia in forma di busto sia come medaglione in bassorilievo. Tra i personaggi “eletti” troviamo i leader politici nazionali, ma soprattutto, come avveniva del resto per i monumenti pubblici, poeti e scrittori. L’erezione di questi monumenti, che in parte supplivano alla carenza di quelli pubblici, costituiva una manifestazione della borghesia slovena e della sua coscienza nazionale sia sul piano culturale che politico. Il primo monumento funerario con funzioni di monumento pubblico fu dedicato al poeta sloveno France Prešeren, assurto verso la fine del secolo a mito e poeta nazionale. Il monumento lapideo che riproduce un’edicola – elemento tipico del paesaggio culturale sloveno, fu solennemente inaugurato nel 1852 nel cimitero di Kranj (oggi Prešernov gaj). Sempre lì, nel 1873, un altro monumento funebre fu dedicato al poeta Simon Jenko. Oltre a essere più grande del monumento a Prešeren, quest’opera si distingue perché, accanto all’insostituibile lira, è ornata da un bassorilievo con il ritratto del poeta. Tenendo conto del fatto che gli Sloveni alla fine del XIX secolo e nel periodo antecedente la Prima guerra mondiale erano riusciti a realizzare i progetti monumentali che si erano prefissati, avevano assunto carattere di monumento pubblico soprattutto le tombe dedicate a personalità considerate controverse sul piano politico nazionale. Rispecchia proprio questa tendenza il monumento al poeta Simon Gregorč ič , eretto nel cimitero vicino alla sua località natale, Vrsno, e inaugurato con una grande cerimonia e un imponente concorso di popolo nel 1908. In quest’opera, realizzata in marmo di Carrara, lo scultore Anton Bitežnik (18691949) di Gorizia ha combinato l’effige del poeta con la trasposizione di una poesia di Gregorčič che simboleggia la lotta degli Sloveni per l’emancipazione.3 Verso la fine dell’Ottocento e nel periodo antecedente la Prima guerra mondiale, l’arte borghese nei cimiteri 109 Lo splendore della forma 110 conobbe un periodo di notevole espansione e con essa anche la scultura funeraria. Questa branca dell’arte visse quindi un periodo di grande fioritura, diventando uno dei campi creativi più importanti per tutti gli scultori dell’epoca. Successe lo stesso anche per gli scultori delle generazioni successive; molti tra loro hanno creato in quest’area le opere migliori. Particolarmente ricca e rappresentativa fu la scultura funeraria nei grandi centri che avevano vissuto una crescita economica, come ad esempio Lubiana (Ljubljana), Maribor, Celje, Capodistria (Koper) e altre città. Nella scultura funeraria troviamo sia prodotti di serie (per esempio galvanoplastica) e lavori di scalpellini e officine locali, sia molte opere d’arte e originali scultori sloveni in vista, sia infine le opere degli scultori provenienti da diverse città e regioni dell’impero e dell’Italia (tra gli altri I. Rendić, V. Tilgner, R. Kauffungen, G. Ciniselli). In questo periodo erano attivi numerosi scultori accademici sloveni (A. Gangl, I. Zajec, F. Berneker, S. Peruzzi), che avevano studiato a Vienna, dove avevano potuto osservare esempi nel Wiener Zentralfriedhof, il cimitero centrale della città. A Vienna erano venuti anche a contatto con i nuovi orientamenti della scultura in Francia, Italia e Germania. Nella scultura funeraria si trovarono a convivere il tardo storicismo con i suoi predominanti stilemi neobarocchi, il realismo “borghese” (accademico) ovvero il naturalismo, il simbolismo, l’Art Nouveau e lo Jugendstil, il nuovo classicismo, la Secessione viennese e l’espressionismo. I temi iconografici di scultura funeraria corrispondevano ai valori (in particolare il valore della famiglia) della società borghese dell’Ottocento.4 Troviamo raffigurati vedove e familiari affranti, personificazioni del dolore e della separazione, della beneficenza,5 la descrizione illustrata delle opere e dei meriti personali dei defunti.6 Oltre alle immagini femminili dolenti, alle allegorie, ai geni e agli angeli, è tutto un susseguirsi di figure del Cristo e della Madonna. I ritratti dei defunti, come rappresentazione personale e venerazione dell’individuo, sono molto diffusi. Verso la fine dell’Ottocento, i ritratti diventarono rappresentativi, spesso affiancati da attributi che denotavano il mestiere, i meriti e l’importanza della persona ritratta. Rare sono invece le combinazioni La scultura funeraria nella Slovenia di ritratti con allegorie, come anche composizioni sceniche raffiguranti coppie di coniugi. Nel periodo di prevalente realismo accademico si riscontrano, a cavallo del secolo, ritratti più spirituali e meditativi. In questo periodo al posto delle raffigurazioni autocelebrative della borghesia, come avvenuto sino ad allora, nella scultura sepolcrale prendono corpo le nuove istanze del simbolismo, dello Jugendstil e della Secessione viennese tendenti a una più profonda spiritualità. Agli inizi del Ventesimo secolo la scultura funeraria a mano a mano si liberò dei vincoli che la legavano all’architettura sepolcrale. Così le statue a figura intera e i busti divennero creazioni plastiche autonome, che sino al termine della Prima guerra mondiale non fecero che accrescere il proprio impatto monumentale.7 Il secondo periodo di grande fioritura della scultura funeraria si ebbe tra i due conflitti mondiali. Certe aree di alcuni cimiteri urbani possono dirsi delle vere “gallerie di sculture all’aria aperta”, in particolare il cimitero centrale di Žale a Lubiana. Nelle figure e nei rilievi predomina il realismo espressivo, che da un lato si manifesta mediante forme chiuse semplificate, dall’altro invece con forme più dinamiche. Gli scultori (tra gli altri L. Dolinar, F. Kralj, T. Kralj, B. Kalin, Z. Kalin, P. Loboda, F. Gorš e, F. Smerdu, K. Putrih) si attennero più o meno ai temi iconografici tradizionali. Frequenti sono le raffigurazioni di Maddalena, oltre a vari temi religiosi come l’Ascensione, la Crocifissione o la Pietà, mentre si riscontrano meno figure di angeli. A figure dolenti, come donne o fanciulle, si affiancano anche figure maschili. Molti tra loro indicano i tratti individuali. Tra frequenti ritratti dei defunti durante l’intero Novecento si affermano accanto ai ritratti realistici anche soluzioni più moderne. Pregevoli sculture destinate ai sepolcri sono state realizzate anche da famosi scultori contemporanei (ad esempio J. Savinš ek, S. Batič, J. Boljka, J. Pirnat). Si tratta di sculture con un marcato carattere intimistico, in forme scultoree pure, benché si possano individuare anche forme astratte, di spiccata raffinatezza. Si tratta per lo più di opere di piccole dimensioni, mentre forme imponenti sono riservate ancora solo ai monu- 111 Lo splendore della forma 112 menti dedicati alle vittime delle guerre. È da mettere in evidenza come alcuni scultori abbiano creato per le tombe delle proprie famiglie o le tombe proprie opere d’alto valore artistico e di grande forza espressiva. L’esponente più valido della vecchia generazione, lo scultore Alojzij Gangl (1859-1935), tra l’altro anche ottimo ritrattista, eseguì il monumento al poeta Valentin Vodnik a Lubiana (inaugurato nel 1889). Nel rilievo marmoreo del 1896 per il monumento sepolcrale di Marija Murnik (nel cimitero di Radovljica) l’artista, avvalendosi del suo indirizzo neobarocco, ha saputo evocare l’illusione di una scena teatrale: ha rappresentato un vecchio mendicante e una giovane orfana che piangono sulla tomba della benefattrice morta. Il monumento è indubbiamente la più valida opera tardo storicistica dell’arte funeraria monumentale di quel periodo. 8 Gangl visse a Praga dal 1917. Nel 1934, un anno prima della morte, realizzò una delle sue ultime opere, il modello per la statua a figura intera del Cristo. L’opera venne poi fatta fondere in bronzo dai suoi conterranei e nel 1939 collocata come cenotafio nel cimitero di Metlika, sua città natale, luogo in cui è stato anche 1. Alojzij Gangl, Cristo - Viandante solitario, 1934, particolare, Metlika, Cimitero (foto Barica Flajnik Koželj, Metlika) La scultura funeraria nella Slovenia 2. Ivan Zajec, Resurrezione (modello), 1910/1911 (Fototeca del Museo Nazionale di Ljubljana) 113 sepolto. La figura maschile in atto di camminare, che in una mano tiene dell’uva e delle spighe e nell’altra un bastone da pellegrino, è intitolata Cristo - il viandante solitario (fig. 1). Quello del viandante – metafora della vita come pellegrinaggio – era il motivo privilegiato dell’arte sepolcrale del XIX secolo; nel caso specifico si trasforma in una figura penetrante ed espressiva, intrisa di sofferenza e dolore. Lo scultore Ivan Zajec (1869-1952) deve la sua fama soprattutto al monumento nazionale al poeta France Prešeren (inaugurato nel 1905 a Lubiana). Il principale orientamento dello scultore era il realismo accademico, che in Lo splendore della forma La scultura funeraria nella Slovenia 4. Lojze Dolinar, Tomba J.E. Krek, 1920, Ljubljana, Cimitero di Žale (foto Valentin Benedik, Ljubljana) 3. Svetoslav Peruzzi, Tomba Jurca, 1909 ca., Postojna, Cimitero (foto Sonja Žitko, Ljubljana) 114 alcuni casi rese più moderno ricorrendo agli stilemi delle nuove tendenze artistiche. Tra gli anni 1910 e 1911 a Trieste, dove all’epoca aveva uno studio, realizzò il modello in gesso della Resurrezione (fig. 2). Il rilievo in marmo di Carrara, alto più di tre metri, fu poi collocato nella cappella di Ivan Majdič nel cimitero di Kranj (oggi Prešernov gaj). Nell’elaborare la dinamica composizione delle figure lo scultore si è richiamato in parte allo stile della Secessione, che si riflette nella delicata distinzione tra i corpi, nei drappeggi e nello sfondo in rilievo, e in parte anche al liberty mediante le linee curve e la ritmicità delle eleganti figure allungate. Le figure salgono verso la luce, alcune già liberate, benedette e leggere. L’estasi senza tempo della figura femminile centrale è mutuata dal repertorio dei motivi tipici del simbolismo. Per la cappella di Fran Jurca nel cimitero di Postumia (Postojna) Svetoslav Peruzzi (1881-1936) ha raffigurato la moglie e il figlio dolenti del defunto (fig. 3). I due personaggi, ritratti a figura intera e in grandezza naturale, sono stati scolpiti in marmo di Carrara negli anni 1908 e 1909. L’artista era votato al nuovo classicismo, che nel 1905 dalla Germania era approdato anche a Vienna. Questo indirizzo stilistico aveva sostituito nella scultura sepolcrale le scene patetiche neobarocche con elementi e motivi nuovamente ripresi dall’arte classica, rispettando nel contempo l’esigenza di una semplificazione delle forme. Sebbene per questo gruppo scultoreo Peruzzi abbia potuto riallacciarsi tra l’altro alla scultura funeraria tedesca del tardo XIX secolo, la sua opera è caratterizzata da una eccezionale delicatezza. La giovane donna e il fanciullo in abiti che si richiamano all’antico sono compresi in un lutto silenzioso. Lojze Dolinar (1893-1970) è stato una vera potenza in campo scultoreo, un artista eccezionalmente fecondo, considerato il principale rappresentante della scultura monumentale realistica. Nel 1920 al cimitero di Žale a Lubiana ci fu lo scoprimento solenne del monumento funebre del Dolinar dedicato a Janez Evangelist Krek, sacerdote e uomo politico, promotore del movimento cattolico-sociale in Slovenia. Le due sculture in pietra del Carso, che tra l’altro rispecchiano le istanze della Secessione e del monumentalismo, per le loro grandi dimensioni e la grezza lavorazione sono state chiamate “i giganti” (fig. 4). Rappresentano il popolo sottomesso, liberato dal riformatore, e il compianto per il defunto, di cui sottolineano il potere e l’importanza.9 A France Gorše (1897-1986), valente artista orientato verso un moderato realismo, spetta un posto di rilievo nel campo della scultura slovena. Probabilmente nel 1928 egli ha realizzato la statua marmorea della Maddalena quale monumento sepolcrale della famiglia Oražem nel Cimitero di Žale a Lubiana. La figura femminile, plasticamente essenziale ed espressiva, rivela il profondo sentimento religioso dello scultore (fig. 5). 115 Lo splendore della forma La scultura funeraria nella Slovenia 6. Janez Boljka, Monumento alla memoria degli internati, 1965, Ljubljana, Cimitero di Žale (foto Valentin Benedik, Ljubljana) 5. France Gorše, Tomba Oražem, 1928 ca., Ljubljana, Cimitero di Žale (foto Valentin Benedik, Ljubljana) 116 In particolare nel cimitero centrale di Žale a Lubiana, ci sono numerosi cimiteri militari dove sono sepolti soldati sloveni, italiani, austriaci e tedeschi di entrambe le guerre. Gran parte dei monumenti eretti nei sepolcreti dei soldati e delle vittime di guerra è stata consapevolmente collocata in zone destinate a parco, il che attesta lo stretto rapporto di collaborazione intercorso tra architetto e scultore. L’ampio Parco ricordo degli ostaggi, dove sono sepolti combattenti e ostaggi caduti durante la Seconda guerra mondiale, è stato concepito dall’architetto Nikolaj Bežek nel 1955. Dieci anni più tardi nella parte occidentale del parco l’architetto Fedja Košir ha fatto collocare due monumenti dello scultore Zdenko Kalin (19111990). Il primo è dedicato agli ostaggi ed è costituito da una colonna in granito con raffigurate in rilievo tre coppie di persone impiccate, il secondo è la Fontana della vita, di forma esagonale, sui cui bordi si trovano tre coppie in bronzo di bambini e bambine intenti a giocare. A nord del Parco degli ostaggi, in un’altra zona verde, è collocato il Monumento alla memoria degli internati (fig. 6), opera dello scultore Janez Boljka (nato nel 1931), mentre l’area è sistemata in base al progetto dell’architetto Fedja Košir. Autore di un gran numero di monumenti pubblici e statue, Boljka è noto anche per gli originali bronzi di animali e figure umane. Su uno scheletro di rete alto tredici metri sono imprigionati i corpi appesi di uomini torturati. L’insieme allude alle torri di guardia e ai reticolati dei campi di concentramento.10 Si tratta di uno dei monumenti più espressivi di Žale, scoperto solennemente nel 1965. 1 2 3 4 Reiter, C., Die Sepulkralskulptur, in 19. Jahrhundert (Geschichte der bildenden Kunst in Österreich, 5), hgg. G. Frodl, München-Berlin-London-New YorkWien 2002, p. 513. Cfr. Le Normand-Romain, A., Mémoire de Marbre. La sculpture funéraire en France 1804-1914, Paris 1995, p. 56. Cfr. Žitko, S., Das Grabdenkmal als Hommage und europäische Friedhofskunst von der Mitte des 19. Jahrhunderts bis zum Beginn des I. Weltkrieges am Beispiel der Slowenen, in “Ars”, IIII/2002, pp. 185-199. Cfr. Sborgi, F., Staglieno e la scultura funeraria Ligure tra Ottocento e 5 6 7 8 9 10 Novecento, Torino 1997, pp. 356-357. Cfr. Sborgi, Staglieno cit., p. 341. Reiter, C., Die Sepulkralskulptur cit., p. 513. Kitlitschka, W., Grabkult & Grabskulptur in Wien und Niederösterreich, St. Pölten-Wien 1987, p. 67. Žitko, S., Historizem v kiparstvu 19. stoletja na Slovenskem [Historicism in 19th century Sculpture in Slovenia], Ljubljana 1989, pp. 81-83. Čopič, Š., Lojze Dolinar, Ljubljana 1985, p. 23. Čopič, Š, Prelovšek, D., Žitko, S., Outdoor sculpture in Ljubljana, Ljubljana 1991, pp. 146-147. 117 LE CITTÀ E LE REGIONI La statuaria del Cimitero Saint-Pierre di Marsiglia di Régis Bertrand Il cimitero Saint-Pierre di Marsiglia, creato nel 1853, è il cimitero “monumentale” della città nato in seguito ai grandi lavori di urbanizzazione che trasformarono Marsiglia sotto il Secondo Impero. Esso era stato preceduto dal cimitero Saint-Charles, il quale funzionò fino a metà degli anni Sessanta del XIX secolo, venendo in seguito smantellato perché circondato dalle abitazioni. Una parte delle sue tombe venne allora trasferita al cimitero Saint-Pierre, il quale vanta così la particolarità di conservare monumenti precedenti alla sua creazione. Le fotografie di molti sepolcri scolpiti nel grande cimitero marsigliese sono state pubblicate da Michel Vovelle, Philippe Ariès e Franco Sborgi; tuttavia, l’inventario della sua statuaria è lungi dall’essere completato. Si tratta di un lavoro particolarmente difficile a causa dell’ampiezza dello spazio cintato – tra i più vasti di Francia, 66 ettari – e della quantità di sculture, la cui qualità artistica è molto variabile: una parte considerevole di statue deriva da una produzione di fusioni seriali o dalla ripresa di modelli stereotipati (caso quest’ultimo di buona parte della statuaria religiosa). 121 Lo splendore della forma Tale statuaria ben rispecchia quella della città dei vivi fra il 1840 e il 1930, con la sola differenza che nel cimitero non si trova l’equivalente delle commesse pubbliche fatte dalla municipalità o dallo Stato a celebri scultori parigini; la scultura funeraria è opera di artisti marsigliesi e di artisti che a Marsiglia hanno soggiornato o si sono stabiliti. Fra il Secondo Impero e il periodo fra le due guerre questi artisti lavorano contemporaneamente per la città dei vivi e dei morti, scolpendo le tombe, le facciate delle case e delle chiese, realizzando statue commemorative per piazze e giardini, ornando di effigi le fontane ed eseguendo bassorilievi e statue per i sepolcri del cimitero. 122 La statuaria del Cimitero Saint-Pierre di Marsiglia uno scultore italiano che non avrebbe soggiornato a Marsiglia se non per pochi anni; senza dubbio un membro dell’omonima famiglia di artisti palermitani. Stabilitosi in città nel 1850, si fa notare scolpendo tre statue imponenti per la facciata della chiesa SaintThéodore-les-Récollets; realizza inoltre, nel cimitero, gli altorilievi della Tomba Melchion. Quest’opera, di grande qualità e d’ispirazione canoviana, pare sia stata tenuta in alta considerazione dai contemporanei. Alla fine del Secondo Impero, Pierre Travaux (18221869) – artista parigino venuto a Marsiglia per lavorare alla decorazione del palazzo di giustizia – scolpisce per la Tomba Barbaroux il gruppo La Religion consolant la douleur (fig. 2), che fu molto ammirato all’inizio della Terza Repubblica. Travaux muore subito dopo l’esecuzione del gruppo che viene così considerato il suo capolavoro. Come la precedente, l’opera costituisce una professione di fede dal valore pedagogico e contribuisce a cristianizzare fortemente il paesaggio del cimitero. Il cimitero sembra rappresentare in seguito una sorta di sfida nella carriera di uno dei principali scultori pro123 1. Rosario Bagnasco, Tomba Melchion 2. Pierre Travaux, La Religione consola il Dolore, Tomba Barbaroux L’allegoria, dal neoclassicismo all’accademismo tardivo Una prima generazione di scultori, fra il 1830 e il 1860, è fortemente influenzata dall’arte neoclassica e ha lasciato soprattutto allegorie femminili. (fig. 1) Rosario Bagnasco sembra essere il primo artista ad aver apposto il suo nome, in maniera abbastanza visibile, sulle opere eseguite nel cimitero. Si tratta di Lo splendore della forma venzali di fine secolo, André Allar (1845-1926), grand prix di Roma nel 1869, che lavora contemporaneamente a Parigi (viene eletto all’Académie des Beaux-Arts nel 1905), a Marsiglia (fontane Cantini e Estrangin) e Tolone (cariatidi del museo, fontana della Federazione). Forte della sua notorietà, Allar non realizza (o quanto meno non firma in maniera evidente) che tre opere al cimitero Saint-Pierre: eccezionali per materiale impiegato (marmo di Carrara), dimensioni e ubicazione. La migliore è senza dubbio l’altorilievo L’Âme à Dieu (tomba di Lazare Bonnet, 1886), eretto su di un’alta stele (fig. 3). La statuaria del Cimitero Saint-Pierre di Marsiglia 4. Auguste Carli, Tomba Famiglia Pau St. Martin 124 125 3. André Allar, L’Anima verso Dio, Tomba Lazare Bonnet, 1886 Appartenente alla generazione seguente e secondo grand prix di Roma è Augusto Carli (1868-1930): lo scultore più ammirato a Marsiglia dai primi decenni del XX secolo. Nel cimitero scolpisce molte opere di maggior rilievo, in particolare Vers l’infini (fig. 4), imponente effige femminile che s’invola verso i cieli e che rinnova il tema dell’ascesa dell’anima. Sistemata sulla Tomba Pau di Saint-Martin, essa fu innanzitutto esposta al Salon del 1913. Negli anni Venti del Novecento, dopo la guerra, Augusto Carli e suo fratello Francesco (1872-1957) eseguiranno delle patetiche figure di donne dolenti, spesso associate a croci. La fede nell’aldilà è resa in maniera esplicita in queste opere di Allar e Carli, proprio nel momento in cui la Francia conosce un periodo di lotte anticlericali e una tendenza alla disaffezione religiosa. La rappresentazione dei morti, dal realismo all’“iperrealismo” Fino alla fine del XIX secolo, la rappresentazione dei morti attraverso medaglioni o busti è stata prima di tutto riservata a qualche notabile e, soprattutto, a scrittori e artisti. A partire dagli anni Novanta dell’Ottocento busti e medaglioni sono dedicati ai morti per cause oscure e ai bambini, giungendo ad avere, insieme ai ritratti in piedi, una grandezza fino ad allora inusitata. Lo splendore della forma 5. Fratelli Carli (?), Replica della Tomba Oneto di G. Monteverde La statuaria del Cimitero Saint-Pierre di Marsiglia 6. Buselli - Henri Reybaud, L’ultimo bacio, Tomba Antonin Lains 126 127 (fig. 5) La personalizzazione delle statue rimane tuttavia discreta quando, a ricevere i tratti di giovani defunti, sono le figure di angeli o di dolenti. Particolarmente significativa è l’interpretazione marsigliese dell’angelo con la tromba della Tomba Oneto, realizzata da Giulio Monteverde (1882) nel cimitero di Staglieno a Genova; essa differisce dall’originale nel viso. Questa bella opera, apparentemente non firmata, potrebbe essere attribuita all’atelier dei fratelli Carli; considerata l’origine ligure dei Carli, a essi potrebbero anche riferirsi i due gruppi dell’Envol de l’âme, entrambi ispirati alla celebre opera di Fabiani nel cimitero di Genova. La rappresentazione realista così come quella iperrealista del defunto si diffonde a partire dagli ultimissimi anni del XIX secolo e giunge al suo apice dopo la guerra del 1914-1918, la quale determina la comparsa di qualche statua in piedi (e, in un caso, equestre) dei combattenti. Il monumento più celebre e più sovente riprodotto nel cimitero è la Tomba Lains, detta Le dernier baiser. Sul livello inferiore, troviamo la rappresentazione di una giovane donna sul letto di morte, abbracciata con fervore da un uomo; sul registro superiore, la defunta è accolta in cielo da un angelo. Il gruppo superiore è opera di Henri Reybaud (1871-?), autore di molte opere a Marsiglia e dintorni. Reybaud ha potuto subappaltare in Italia la realizzazione del gruppo inferiore, che porta la firma discreta di Buselli (altrimenti sconosciuto a Marsiglia). Le dernier baiser non ha cessato di essere criticato da alcuni visitatori del cimitero che lo hanno giudicato shoccante (fig. 6). La cappella neogotica della famiglia Joseph Gauthier (figg. 7 a-b) è decorata agli angoli da quattro nicchie, nelle quali si trovano le statue in piedi di un’anziana donna, di un poilu* (soldato della prima guerra mondiale) e, sul lato posteriore, di due donne le cui figure inquadrano il busto di un uomo d’età matura. La ricer* Letteralmente “villoso”: soprannome dato ai soldati francesi della Prima guerra mondiale (N.d.T.). Lo splendore della forma 7. Tomba della famiglia Joseph Gauthier La statuaria del Cimitero Saint-Pierre di Marsiglia 7a. Tomba della famiglia Joseph Gauthier (particolare) 128 129 ca di dettagli pittoreschi tende a rendere divertente questa volontà d’immortalare nella pietra un’intera famiglia. Una firma parzialmente leggibile ma poco visibile sembra permettere l’attribuzione delle statue di questo sepolcro a Louis Botinelly (1883-1962), autore di numerose sculture nel territorio regionale. Non è da escludere che egli abbia considerato tali lavori realisti “di sussistenza” e dunque non necessariamente annoverabili nella sua opera. La crisi della scultura funeraria Gli anni 1920-1950 conoscono un forte sviluppo delle effigi scolpite – in particolare realiste – ma esprimono anche una certa crisi dell’arte funeraria, ben evidente in due opere. Les voix de la mer (1928), gruppo monolite che costituisce il sepolcro Nivière (fig. 8), è senza dubbio il capolavoro di Paul Gondard (1884-1953), l’opera nella quale questo artista abile e dall’ineguagliabile ispirazione ha meglio saputo infondere la sua ricerca di poesia. Ma si tratta anche di un’opera d’arte, presentata come tale (il titolo è inciso sulla cornice inferiore), dal senso poco esplicito e personalizzata in modo poco felice dall’aggiunta del volto del morto a lato del gruppo. La Tomba della famiglia Brachet (fig. 9), eseguita da uno dei più importanti scultori marsigliesi di metà Novecento, Antoine Sartorio (1885-1988), testimonia l’impasse di una rappresentazione rassomigliante, che può essere associata alle ricerche ieratiche e di staticità tipiche del periodo fra le due guerre. Sul sepolcro sono rappresentati due fratelli attorno alla sorella invalida. L’opera è stata realizzata quando l’ultimo dei tre fratelli era ancora vivente. Alla fine della sua vita, Sartorio incluse questa tomba nella serie dei lavori che non si augurava di veder ricordati nella propria opera artistica. Dalla seconda metà del XX secolo, le ricerche dell’arte statuaria “contemporanea” pongono, a quanto pare, alcuni problemi ai committenti. I principali artisti marsigliesi di ultima generazione non lavorano che eccezionalmente ai sepolcri, come nel caso in cui debbano Lo splendore della forma La statuaria del Cimitero Saint-Pierre di Marsiglia 8. Paul Gondard, Les voix de la mer, Tomba Nivière 9. Antoine Sartorio, Tomba della famiglia Brachet 130 131 realizzare dei monumenti urbani. César (1921-1998) non ne realizza nessuno per il cimitero, così come François Boucher (1924-2005). Tuttavia, la rappresentazione dei defunti sotto forma di statua eretta sopravviverà quasi fino ai nostri giorni: celebrità locali pietrificate dalla pietà familiare (il boxeur Ray Grassi, 1953, statua in piedi in marmo di Carrara), adolescenti o anziani in pose familiari. L’attardato realismo esprime qui il dolore davanti al dramma: l’epitaffio ricorda la morte “sul ring” di Ray Grassi mentre altre iscrizioni rivelano incidenti d’auto, di sci o d’aereo. Ciò va sottolineato per il contrasto con la discrezione e il quasi anonimato delle tombe della maggior parte degli uomini illustri di Marsiglia, i quali però beneficiano per lo più di un monumento nella città dei vivi: è così per il musicista E. Reyer, per lo scrittore E. Rostand o per i pittori A. Monticelli e C. Camoin. Si noterà anche che davvero poche, fra le grandi famiglie di armatori e industriali, hanno ornato le proprie tombe con statue colossali o con sculture artistiche. La commissione di statue sembra piuttosto riguardare marsigliesi agiati che avevano riser vato una somma importante alla commemorazione di un defunto a loro caro. Ciò che ne deriva è senz’altro la personalizzazione e l’espressività crescente della statuaria, che rappresenta spesso un morto o una defunta scomparsi prematuramente o in modo tragico. Il cimitero di Marsiglia può essere rappresentativo dei grandi cimiteri urbani francesi e e gli sviluppi che vi si sono verificati sembrano poter essere riscontrati altrove. Si tratta anche di un buon riflesso della creazione statuaria della città e della sua regione, cosa che dovrebbe indurre ancor più a preservare le sue tombe artistiche dai danni del tempo e degli uomini. Traduzione Luca Bochicchio L’evoluzione della scultura nei cimiteri parigini di Christian Charlet L’evoluzione della scultura nei cimiteri parigini 1. Tomba del Dragone, Parigi, Cimitero del Père-Lachaise 132 Attualmente, nei venti cimiteri di Parigi, si può contare un numero elevato di opere d’arte a ornamento delle tombe; tale proliferazione di sculture di ogni sorta (statue, personaggi seduti o stesi, figure giacenti, busti, medaglioni ecc.), realizzate in diversi materiali (marmo, pietra, bronzo ecc.), non è frutto di una volontà d’introdurre l’arte scultorea nei cimiteri parigini al momento della loro creazione – all’inizio del 1800 – quanto il risultato di una lunga evoluzione sviluppatasi progressivamente nel corso del XIX secolo. In effetti, la nascita dei cimiteri è conseguente alla nuova legislazione funeraria entrata in vigore nel 1804. In virtù delle nuove regole i cimiteri sono ormai municipali e laici e non confessionali e parrocchiali, come erano prima della Rivoluzione del 1789; inoltre, accanto alle fosse comuni tradizionali nelle quali, nel 1804, viene ancora seppellito l’80% circa dei defunti, i nuovi cimiteri possono prevedere concessioni private sulla base delle quali i proprietari hanno la possibilità di edificare monumenti. I primi fra questi (qualcuno ancora esistente al St. Pier- 133 re di Montmartre e al Père-Lachaise) sono estremamente semplici: una pietra tombale o una stele con iscrizioni che qualche anno più tardi si troveranno abbinate. Non è ancora pensabile decorare i sepolcri con sculture sontuose analoghe a quelle custodite nelle chiese; queste opere caratterizzano le tombe di re e personaggi celebri che un tempo, in Francia, venivano sepolti nelle chiese, al contrario del popolo che trovava posto nelle fosse comuni dei cimiteri parrocchiali (necropoli reale di Saint-Denis, chiesa di Brou, cappelle d’Eu e d’Anet ecc.). La più antica scultura funeraria conosciuta in un cimitero parigino risale al 1809. Si trova al Père-Lachaise, su un monumento eretto in memoria di un sottufficiale dei dragoni (fig. 1) morto nel 1807 durante le campagne di Lo splendore della forma L’evoluzione della scultura nei cimiteri parigini 2. Cappella Greffulhe, Parigi, Cimitero del Père-Lachaise 3. Tomba di Eloisa e Abelardo, Parigi, Cimitero del Père-Lachaise 4. Auguste Préault, Il Silenzio, Tomba Jacob Roblès, Parigi, Cimitero del Père-Lachaise 134 Napoleone I nelle pianure della Prussia orientale e della Polonia. Si tratta di un cenotafio che glorifica il valoroso soldato attraverso un lunghissimo epitaffio, con il defunto raffigurato in abiti militari entro un medaglione: l’uniforme, l’elmetto ecc. completati da sciabola e fucile, sono raffigurati isolatamente in modo da circoscrivere la figura di una donna in lacrime, raccolta con dolore su di un’urna. Questa prima figura di dolente sarà seguita da molte altre, fino all’epoca contemporanea. Nel 1813 la morte di Alexandre Brongniart, architetto della Borsa e del Père-Lachaise, presenta l’occasione al figlio di far ornare la tomba del padre con diverse sculture quando, dai disegni della cappella Greffulhe (fig. 2) del 1810 e da quelli della tomba Delille risalenti a qualche settimana prima della sua scomparsa, sappiamo che Alexandre Brongniart privilegiava un’architettura funeraria grandiosa ma priva di sculture. La tomba di Brongniart, che unisce pietra tombale e stele, presenta su quest’ultima diverse sculture di buona fattura, fra le quali la rappresentazione in medaglione della Borsa di Parigi (il suo capolavoro), alcuni simboli funerari come la clessidra e le fiaccole, una lampada a olio e una gru pitagorica su un altare, così come l’Architettura in lacrime che lascia cadere il suo compasso. Se si confronta quest’ultima allegoria con l’Architettura scolpita tre quarti di secolo più tardi da Barrias per la tomba di Guérinot (Père-Lachaise), è possibile misurare la portata dell’evoluzione. 135 Fino alla fine dell’Impero (1814-1815), tombe come quella del Dragon e di Brongniart resteranno eccezioni. Si può nondimeno citare quella del bronzista Ravrio al Père-Lachaise, che introduce il primo busto in metallo (1814). In effetti, è il trasferimento dei resti (o supposti tali) di Molière e di La Fontaine, così come anche di Eloisa e Abelardo al Père-Lachaise (fig. 3) nel 1817, che darà il via a composizioni architettoniche di una certa estensione, il più delle volte ornate da sculture per le quali si ricorrerà ai più grandi artisti dell’epoca (fig. 4), fra i quali David d’Angers, spesso chiamato a intervenire. Sempre al Père-Lachaise, la famiglia di un ricco mercante chiamato Garreau ha appena fatto eseguire – o commissiona nello stesso periodo – allo scultore Milhomme una splendida figura di dolente in marmo (fig. 5) che servirà da modello a numerose composizioni future. Il movimento era stato così lanciato: prestigiose tombe inglobanti architettura e scultura si succedono al Père- Lo splendore della forma 5. Milhomme, Pleureuse, Tomba Gareau, Parigi, Cimitero del Père-Lachaise 136 Lachaise prima di diventare esempi imitati nei cimiteri di Montparnasse e Montmartre, rispettivamente aperti nel 1824 e 1825. Tombe in marmo con motivi militari per il maresciallo Pérignon e suo genero – il generale Rogniat – così come per il generale di Valence; statua in bronzo per l’archeologo Vivant Denon, realizzata da Cartellier, la cui tomba di marmo sarà a sua volta decorata da allegorie scolpite dai suoi allievi (Rude, Dumont, Petitot…); in seguito, la tomba di Pradier, altro scultore celebre, sarà ugualmente onorata da molti dei suoi allievi, fra i quali Etex; tombe grandiose dei marescialli Massena (obelisco con busto scolpito da Bosio), Lefevre e Suchet (composizioni di David d’Angers) e dell’ammiraglio Decrès, con scene navali scolpite da Merlieux. Sotto la Monarchia di Luglio e il Secondo Impero, il Père-Lachaise si popola di sculture che gareggiano in qualità artistica e, nel contempo, di monumenti di ele- L’evoluzione della scultura nei cimiteri parigini 6. Tomba Bègue detto Magloire, Charonne, Cimitero vata grandezza: tombe del Géneral Foy e Casimir Perier, con sculture di Beaujour e Demidoff. A Montparnasse e Montmartre, quando appaiono le prime sculture, non esistono costruzioni di ampiezza comparabile. Vi si trovano busti e medaglioni, bassorilievi (tomba Lisfranc a Montparnasse) sul modello del sepolcro impressionante del Général Gobert al PèreLachaise, o ancora dei giacenti (Cavaignac di Rude, Baudin di Millet, Kamienski di Franceschi a Montmartre) a imitazione di quelli di Eloisa e Abelardo. Nella seconda metà del XIX secolo, mentre i bassorilievi tendono a moltiplicarsi in misura minore, nelle sculture, così come nei busti e nei medaglioni, il bronzo tende a sostituire il marmo. Personaggi a grandezza naturale, in piedi, seduti o giacenti, rimangono un’eccezione. La moda delle cappelle favorisce la moltiplicazione dei dolenti specialmente ad Auteuil (tomba Moiana) e al Père-Lachaise (numerosi sepolcri fra i quali Menier e Hautoy). Nel 1860 molti piccoli cimiteri di centri storici collegati a Parigi iniziano a ricevere opere d’arte, in modo particolare Passy, Auteuil, Saint-Vincent (a Montmar- 137 Lo splendore della forma L’evoluzione della scultura nei cimiteri parigini 7. Auguste Clésinger, La Musica piangente, Tomba Chopin, Parigi, Cimitero del Père-Lachaise 8. Cappella Yacouleff , Parigi, Cimitero del Père-Lachaise 138 tre) e Batignolles. In alcuni casi, i sepolcri sono decorati con mosaici. Fino alla guerra del 1914-1918, ciò che si può trovare nei cimiteri parigini è una vera e propria collezione di tutta la scultura del XIX secolo: medaglioni di Rodin (César Franck a Montparnasse, Jehan de Bouteiller a Passy), celebri giacenti di Dalou (Blanqui, Victor Noir al Père-Lachaise) senza dimenticare i busti di David d’Angers (Balzac, Arago, Ledru-Rollin, al Père-Lachaise), il sergente Hoff e gli Alsaziani di Bartholdi (Père-Lachaise e Montparnasse), il fantasma di Madame Raspail e Géricault con la sua Zattera della Medusa eseguiti da Etex al Père-Lachaise e via dicendo. Occorre tuttavia segnalare un’opera eccezionale, profondamente innovatrice: l’uomo-uccello dalla testa di sfinge realizzato nel 1912 da Jacop Epstein per la tomba di Oscar Wilde al Père-Lachaise. L’art nouveau (Tomba Caillat decorata da Hector Guimard al Père-Lachaise) e l’art déco (la tomba del musicista Gabriel Pierné al Père-Lachaise) non sono assenti dai cimiteri parigini ma il periodo fra le due guerre non è molto propizio alla moltiplicazione delle opere d’arte funeraria. L’epoca contemporanea, che inizia all’indomani della Seconda guerra mondiale, vede apparire nei cimiteri parigini due categorie di opere d’arte ben differenti: da una parte sculture destinate a ornare sepolcri individuali, sia d’ispirazione “classica” (Pietà di Francesco Messina per la Tomba Del Duca al Père-Lachaise o la copia 9. Tomba laotiana, Parigi, Cimitero del Père-Lachaise 139 della Pietà di Michelangelo per il sepolcro Pérény a Passy), sia d’ispirazione risolutamente moderna come le figurine di Brauner a Montmartre, tombe Zao-WouKi, César (centauro) e animali (uccello e gatto) di Niki de Saint-Phalle (fig. 10) a Montparnasse; dall’altra parte, sculture estremamente realistiche e al tempo stesso simboliche, riservate a monumenti alla memoria collettiva, come quello alla Deportazione (campi di concentramento e di sterminio) e quelli ai Combattenti stranieri morti per la Francia (Père-Lachaise) (fig. 11). Questi memoriali collettivi trovano un precedente, a partire dal 1899, nel Monumento ai morti di Bartholomé (Père-Lachaise) che afferma il carattere collettivo di certe opere d’arte che non traducono più in maniera fedele i primi monumenti ai caduti militari eretti dopo la guerra del 1870. Lo splendore della forma Arte scultorea nei cimiteri di Vienna di Werner Kitlitschka 10. Niki de Saint-Phalle, Uccello, Parigi, Cimitero di Montparnasse 140 Questa breve esposizione rende soltanto in minima parte l’idea della ricchezza dei cimiteri parigini in materia di arte funeraria, sculture e architettura. Per questo, i tre più importanti fra di essi (Père-Lachaise, Montparnasse e Montmartre) e, a un livello minore, il cimitero di Passy, possono essere considerati come veri e propri musei a cielo aperto. Traduzione Luca Bochicchio 11. Memoriale ungherese di Imre Nagy, Parigi, Cimitero del Père-Lachaise Le tombe disegnate con finalità artistiche dagli artigiani e dagli scultori sono una parte essenziale del nostro patrimonio culturale. Per tutto il XIX secolo, oltre ai cambiamenti nei simboli e nelle statue usate per adornare le tombe, subirono un grande mutamento anche i materiali impiegati. Mentre all’inizio del secolo scalpellini e clienti preferivano l’arenaria gessosa e la silice – il che è ben documentato dai sepolcri nel cimitero di St. Marx – le tombe in marmo iniziarono ad acquistare popolarità a Vienna solo intorno al 1850. Le poche tombe in marmo degli inizi del XIX secolo erano prerogativa di una fascia molto selezionata della società, nobili prevalentemente. Dopo il 1820 iniziarono ad apparire a Vienna le prime lapidi in marmo con iscrizioni, collocate su tombe realizzate con materiali più economici. I solidi sepolcri in marmo così comuni dalla metà del XIX secolo in poi non erano solo simbolo della ricchezza di un individuo o di una famiglia, ma esprimevano anche una nuova, sfarzosa cultura funeraria e cimiteriale, quasi inesistente all’interno dei rigidi comportamen- 141 Lo splendore della forma 1. Viktor Tilgner (1875), Allegoria della Scultura, Cimitero centrale di Vienna (foto MA 43) 2. particolare 142 ti religiosi che erano stati dominanti in precedenza. Nel corso del XIX secolo un nuovo tipo di “venerazione dell’antenato” iniziò a svilupparsi, e la lapide del sepolcro (che assumono sempre più importanza) e la tomba di famiglia di nuova, monumentale concezione, ne divennero il solenne simbolo fisico. Oltre al marmo nero, bianco e grigio venato, nell’ultima parte del XIX secolo vennero utilizzati graniti multicolori e altre costose pietre calcaree. La fine del XIX secolo e gli inizi del XX secolo sono caratterizzati anche dalla preferenza per lussuose e, a volte, sofisticate combinazioni di materiali. Le stele in pietra nera o grigia scura venivano spesso combinate con figure in lutto realizzate in marmo bianco. Di sovente, per creare un’atmosfera e sentimenti di lutto particolarmente profondi, si univa la pietra nera con sculture in metallo scuro. 3. Monumenti, Vienna, Zentralfriedhof (foto Ingeborg Kitlitschka) Johannes Benk Friedrich Ritter von Amerling Stephan Schwartz Rudolf von Eitelberger Edmund von Hellmer Hans Makart Arte scultorea nei cimiteri di Vienna 4. Tomba Famiglia Matsch, Vienna, Döblinger Friedhof, 1897/98 (foto Ingeborg Kitlitschka) 5. Tomba di Hans Makart, m. 1884, Vienna, Zentralfriedhof (foto Ingeborg Kitlitschka) Sontuosi tralicci, ornamenti e lampade votive venivano impiegati per aumentare l’effetto dello scenario cimiteriale; di regola questi elementi erano realizzati in ferro battuto e dipinti di nero. Dal 1870 circa ai primi anni del XX secolo, durante l’ultimo periodo storicista e lo jugendstil, le dimensioni e gli arredi dei sepolcri iniziarono a crescere costantemente, secondo un processo guidato da una borghesia sempre più ricca e prosperosa. Molti suoi membri erano interessati alla costruzione di memoriali perenni e di epiche proporzioni per sé e per le loro famiglie per offrire una grande prova della ricchezza e dello stato sociale raggiunti da tramandare ai parenti ancora in vita e al mondo intero. Questo carattere monumentale dei sepolcri risponde al desiderio di trovare l’immortalità attraverso ritratti scolpiti su medaglioni a mezzo rilievo, busti tridimensionali, rilievi interi o statue. Comunque già durante la Prima guerra mondiale questo tipo di sepolcro lussuoso e sontuoso venne gradualmente abbandonato. Si potrebbe considerare questo fenomeno quasi una “riforma della tomba”, che fu dovuta, e non in piccola parte, all’input di artisti come l’architetto Josef Hoffmann e alcuni dei suoi discepoli e colleghi insegnanti nella Scuola di Arte e Mestieri del Museo Austriaco Imperiale e Reale di Arte e Industria a Vienna. La produzione di massa del periodo tra le due guerre fu largamente caratterizzata da tombe semplici e di moderate dimensioni. Sono relativamente poche le creazioni individuali e artistiche di alto livello che emer- 143 Lo splendore della forma 6. Carl Kundmann (1904), Dr. Moriz Kaposi, Cimitero di Döbling (foto Ingeborg Kitlitschka) 7. Johannes Benk (1887), Friedrich Ritter von Amerling, Cimitero centrale di Vienna (foto Ingeborg Kitlitschka) 144 gono dal vasto numero di manufatti meccanicamente prodotti in serie. Quasi tutti i sepolcri artisticamente importanti di questo periodo sono il lavoro di scultori, giacché gli architetti e gli scalpellini più ambiziosi ovviamente ritenevano che tali tombe di dimensioni ridotte non avessero più alcun interesse. Questa cambiamento si riflette nelle tombe degli anni Venti che non sono più singole emergenze all’interno di un disegno architettonico di chiaro ordine progettuale complessivo. Piuttosto, questo periodo e quelli successivi sono dominati da file monotone e uniformi di sepolcri praticamente senza uno stile individuale emergente, senza tombe artisticamente importanti. Al contrario, la qualità artistica data alle tombe del XIX e dei primi anni del XX secolo, fece del cimitero una entità composta da diversi elementi capaci di offrire una grande varietà di esperienze estetiche. Tra i motivi della scultura funeraria della seconda metà del XIX e dei primi anni del XX, il preferito e quello più frequentemente utilizzato era l’angelo. Intorno al 1850, gli angeli assunsero una varietà di posizioni standard, vennero dotati di attributi fissi e iniziarono a rimpiazzare gli antichi geni del lutto e della morte, tipici del periodo classicista Biedermeier. Come mostra la crescente popolarità della croce come motivo dominante del sepolcro, durante la prima parte del regno dell’Imperatore Francesco Giuseppe I, ci fu la moda di arricchire i sepolcri con simboli esplicitamente religiosi. Le immagini che decorano innumerevoli sepolcri e Arte scultorea nei cimiteri di Vienna 8. Franz Melhitzky, Tomba Josef Melhitzky, 1860 c., Vienna, Ottakrin (foto MA 43) 9. Fidelis Kimmel, Tomba Christof Demel, 1856, Vienna, Dornbach (foto MA 43) tombe testimoniano la particolare venerazione dell’epoca per Gesù e Maria, sebbene solo raramente un nuovo linguaggio artistico si facesse largo fra modelli espressivi convenzionali. La maggior parte delle tante statue di Gesù fu ispirata alla monumentale statua nella chiesa di Nostra Signora a Copenhagen; tale opera, con le immagini degli Apostoli, è stata disegnata ed eseguita da Bertel Thorvaldsen intorno al 1820. Una delle più voluminose e allo stesso tempo delle più impressionanti figure di Cristo fu creata dallo scultore Franz Melhitzky intorno al 1860 per la tomba di suo padre nel cimitero di Ottakring (fig. 8). La statua in zinco battuto, che benedice l’osservatore con la mano destra e regge il Libro delle Rivelazioni con la sinistra sembra quasi prorompere dalla nicchia situata in un arco nella piccola slanciata cappella di granito grigio chiaro. Mentre fra le tombe della seconda metà del XIX e del XX secolo erano moltissime le statue e i rilievi raffiguranti Cristo, la Madonna e gli angeli, ben poche sono le figure di santi. Sembra che la più diffusa sia una produzione in serie, in ferro battuto, di una Sant’Elena (altrimenti identificata come la Fede) che indica il cielo mentre tiene nelle mani una croce e un libro dei Vangeli. Stilisticamente quest’opera appartiene al classicismo Biedermeier e infatti si usava per decorare tombe già dagli anni Trenta dell’Ottocento. Anche la tomba di famiglia del ricco pasticcere Christof Demel, costruita 145 Lo splendore della forma 10. Johannes Benk, Tomba Gustav Reichert, m. 1895, Vienna, Hietzing (foto MA 43) 11. Johannes Benk, Tomba famiglia Beyfus-Jacues-Grtibl, m. 1898, Vienna, Hietzing (foto MA 43) 146 nel 1856 nel cimitero di Dornbach, è ornata da una di queste statue in ferro battuto di Sant’Elena. Disegnata da Fidelis Kimmel, è collocata su una tomba a forma di sarcofago di granito grigio chiaro (fig. 9). Uno dei soggetti più versatili e popolari della scultura funebre era la figura del genio, che poteva essere femmina, maschio o androgino. Mentre un angelo indicava legami religiosi, il genio emanava un’aura di sacralità misteriosa, segnalava l’assenza di un’appartenenza religiosa e intendeva sottolineare il mistero della morte e, allo stesso tempo, far comprendere, nella aulicità l’importanza dei defunti e delle loro famiglie. Johannes Benk, uno degli artisti più produttivi nel campo della scultura funeraria, esplorò le possibilità artistiche del motivo del genio in diversi lavori, tutti datati a partire dagli anni Novanta, collocati nel cimitero di Hietzing. Per esempio il genio neoclassico della tomba di Gustav Reichert (morto nel 1895), che si appoggia su una colonna troncata, tiene una corona d’alloro nella mano sinistra, ed è completamente coinvolto dal lutto. La struttura a forma di altare con i rilievi raffiguranti i genitori di Reichert, Johann (morto nel 1895) e Josefa (morta nel 1891) è decorata con un genio androgino che porta ghirlande di fiori in marmo (fig. 10). Nel gruppo scultoreo che incorona la tomba della famiglia Beyfus-Jacques-GrtibI, Benk inventa un genio femmina decisamente erotico che bacia in fronte il ritratto del pittore Hermann Beyfus (m. Arte scultorea nei cimiteri di Vienna 12. Rudolf Weyr, L’Austria in lutto, Monumento alle vittime dell’incendio del Ringtheatre del 1881, Vienna, Zentralfriedhof (foto MA 43) 13. Stephan Schwartz, Tomba di Rudolf von Eitelberger, m. 1885, Vienna, Zentralfriedhof (foto Ingeborg Kitlitschka) 1898) (fig. 11). Come per i geni, che non esprimono nessuna religione o filosofia, alle allegorie può essere data la forma di donne e ragazze graziose, influenzando così non solo l’effetto prodotto da singole tombe, ma quello di intere sezioni di cimiteri. Le allegorie femminili e le figure in lutto dotano talvolta i cimiteri di una particolare attrazione e forse anche di un richiamo erotico per i visitatori maschi. Furono soprattutto artisti uomini a produrre figure femminili per decorare le tombe di altri uomini, perpetuare la cultura maschile e offrire oggetti per il loro consumo estetico. I corpi di donne e ragazze erano soggetti a un’appropriazione artistica senza limiti, che solo recentemente ha iniziato a essere sottoposta a una riflessione critica. Di fatto, nessun altro prodotto artistico rispecchia l’immagine della donna nella società patriarcale del XIX e XX secolo così vividamente come le centinaia di statue femminili presenti nei cimiteri. Una delle allegorie psicologicamente più interessanti – la città di Vienna in lutto – fu creata da Rudolf Weyr per il monumento funebre eretto nel cimitero centrale di Vienna per le oltre trecento vittime del disastroso incendio del Ringtheatre dell’8 dicembre 1881. Alcune donne velate portano un sarcofago sul quale riposa seduta una pittoresca figura con un cartiglio decorativo e una ghirlanda con stemma (fig. 12). La personificazione in bronzo della Storia dell’arte sulla tomba del fondatore e primo direttore del Museo Austriaco di Arte e Industria, Rudolf von Eitelberger (morto nel 1885) (fig. 13) può essere considerata un prototipo di queste amabili e altamente versatili figure 147 Lo splendore della forma 14. Johannes Benk (scultore), Otto Hofer (architetto), Tomba di Karl von Hasenauer, m. 1894, Vienna, Zentralfriedhof (foto Ingeborg Kitlitschka) 15. Eduard Charlemont, Tomba di Nikolaus Dumbe, m. 1900, Vienna, Zentralfriedhof (foto MA 43) 148 allegoriche di ragazza. Sembra che questa tomba nel Cimitero centrale, creata da Stephan Schwartz, corrispondesse precisamente alle aspettative di un pubblico in gran parte maschile, offrendo un mix di stilizzazione pseudo-rinascimentale, triste malinconia e sensualità giovanile. È probabile che lo specifico linguaggio artistico di questo lavoro abbia offerto un modello proposto per molte altre sculture funebri di successo. Per la tomba dell’architetto della Ringstrasse Karl von Hasenauer (morto nel 1894) (fig. 14), situata nella sezione delle tombe importanti del Cimitero centrale, il suo più vecchio collaboratore, Otto Hofer, disegnò una stele circondata da mezze colonne tuscaniche con un timpano incrinato e lo stemma dell’architetto. Il busto in una profonda nicchia ovale, così come l’allegoria del lutto dell’Architettura collocata su un piedistallo, furono scolpiti da Johannes Benk. Tutti gli elementi della tomba sono così finemente equilibrati per quanto riguarda forma, misura e colore che possiamo con sicurezza indicare questo monumento come uno dei punti più alti nella storia dell’arte funeraria austriaca. Nei primi anni del XX secolo Eduard Charlemont, Josef Engelhart ed Edmund von Hellmer crearono diverse statue originali che introdussero le ultime tendenze nello sviluppo dell’arte funeraria. Il primo prodotto di questo gruppo di lavori fu probabilmente il bronzo del giovane camminatore nudo per la tomba Arte scultorea nei cimiteri di Vienna 16. Josef Engelhart, Tomba Famiglia Engelhart, 1903, Vienna, Zentralfriedhof (foto MA 43) 17. Josef Engelhart, Tomba del pittore Rudolf von Alt, m. 1905, Vienna, Zentralfriedhof (foto media wien) dell’imprenditore e patrono delle arti Nikolaus Dumbe (morto nel 1900) (fig. 15). A destra dietro la statua, che sembra dirigersi verso un nuovo mondo, un pavone simboleggia l’immortalità e la transizione nell’aldilà, mentre un serpente modellato secondo la maniera naturalistica, che rappresenta l’eternità, è posizionato dietro il piedistallo. Nel 1903 a questa scultura seguì il giovane addolorato disegnato da Josef Endelhart per la tomba della sua famiglia (fig. 16) e, pochi anni dopo, un altro suo lavoro, la Tomba del pittore Rudolf von Alt (morto nel 1905), adornata da una statua che regge un ramo di fiori nella mano destra e richiama l’Auriga di Delphi, una delle sculture in bronzo più importanti della Grecia antica (fig. 17). Theodor Charlemont dedicò una donna velata in lutto alla tomba del fratello, il pittore Eduard Charlemont (morto nel 1906) (fig. 18). Tutti questi lavori si trovano al Cimitero centrale di Vienna. Due lavori del 1929 forniscono un linguaggio contemporaneo e una prospettiva moderna alla tradizionale immagine della persona in lutto seduta sulla tomba: Josef Josephu rappresentò l’attrice Paula Kálmán in maniera strettamente naturalistica con abiti degli anni Venti (fig. 19). Ma il realismo di questa scultura in marmo al cimitero Grinzing è decisamente superato dalla tomba di Edith Rodling von Amann (che morì nel 1923 a soli ventisette anni) al cimitero Dobling. Nel 1929, la scultrice svedese Ida Carolina Thoresen, residente a Parigi, creò un ritratto estremamente realistico del defunto sotto forma di una figura nuda di 149 Lo splendore della forma Arte scultorea nei cimiteri di Vienna 18. Theodor Charlemont, Tomba del pittore Eduard Charlemont, m. 1906, Vienna, Zentralfriedhof (foto Ingeborg Kitlitschka) 19. Josef Josephu, Tomba di Paula Kálmán, 1929, Vienna, Grinzing (foto MA 43) 150 suggestiva sensualità in pietra calcarea lucida e scura (fig. 20). Già all’inizio del XX secolo e in particolare negli anni Venti un’accentuata tendenza al realismo iniziò a manifestarsi nelle sculture dei sepolcri nei cimiteri di Vienna. Gradualmente emergevano anche aspetti politici e sociali, sicché importanti lavori vennero dedicati al mondo del lavoro e alla figura del lavoratore. Per esempio, la scultura di Richard Luksch per la tomba di Josef Scheu (morto nel 1904) situata nel Cimitero centrale (fig. 21) rappresenta un gruppo di persone che intonano l’Inno dei lavoratori su testo dello stesso Scheu. Un monumento funebre di speciale rilevanza per quel periodo storico è la statua in bronzo del leader socialdemocratico Franz Schuhmeier che venne assas- 20. Ida Carolina Thoresen, Tomba di Edith Rodling von Amann, 1929, Vienna, Dobling (foto Ingeborg Kitlitschka) 21. Richard Luksch, Tomba di Josef Scheu, m. 1904, Vienna, Zentralfriedhof (foto MA 43) 22. Tomba di Franz Schuhmeier, m. 1913, Vienna, Ottakring (foto MA 43) sinato il 1° febbraio del 1913 e si trova nel cimitero di Ottakring (fig. 22); i gesti di Schuhmeier invitano i visitatori verso la propria tomba. II tema principale di questa scultura non è dunque il passaggio del defunto all’altro mondo né l’invocazione a ricordarlo, quanto piuttosto un’esortazione all’impegno politico. Con la madre che soffre rappresentata nel monumento funebre commissionato dalla Città di Vienna nel 1925, Anton Hanak abbandona il lutto per individui e famiglie cui è dedicata la maggior parte delle tombe 151 23. Anton Hanak, La Madre che soffre, Monumento ai caduti della Prima guerra mondiale, Vienna, Zentralfriedhof (foto MA 43) Lo splendore della forma La scuola di scultura di Berlino di Sibylle Schulz 24. Fritz Wotruba, Tomba di Selma von Halban-Kurz, m. 1933, Vienna, Zentralfriedhof (foto MA 43) 152 del XIX e XX secolo e commemora invece, in modo monumentale eppure espressivo, la sofferenza di milioni di persone durante la Prima guerra mondiale (fig. 23). Influenzato da Anton Hanak, Friz Wotruba optò per un concetto artistico particolarmente severo scegliendo negli anni Trenta di tornare a un linguaggio formale arcaico per esprimere una profonda internazionalizzazione combinata con un nuovo concetto di monumentalità della figura umana. La figura femminile reclinata con gli occhi chiusi, scolpita per la tomba della cantante d’opera Selma von Halban-Kurz (morta nel 1933) (fig. 24) situata nel Cimitero centrale, sembra che formi parte di una nuova realtà alla quale si può accedere solo tramite la morte. Infine, ma non ultima per interesse artistico, va segnalata la scultura creata da Alfred Hrdlicka nel suo tipico e potente stile per la propria tomba di famiglia nel Cimitero centrale di Vienna, dove è sepolta sua moglie (fig. 25). 25. Alfred Hrdlicka, Tomba della famiglia Hrdlicka, 1965, Vienna, Zentralfriedhof (foto Peter Hirsch) L’opera degli scultori berlinesi tra il XVIII e il XIX secolo raggiunse una fama mondiale ed è legata a nomi come Andreas Schluter (1660-1714), Johann Gottfried Schadow (1764-1850), Christian Daniel Rauch (1777-1857), Reinhold Begas (1831-1911) e Heinrich Pohlmann (1839-1917). Nonostante le due Guerre mondiali, le divisioni politiche della città, i danni considerevoli dovuti alle condizioni climatiche e alle influenze ambientali, i cimiteri ecclesiastici in special modo si sono preservati e numerose opere d’arte sono ancora in buone condizioni. Questi lavori dimostrano l’abilità degli scultori, che prende forma attraverso l’uso di vari materiali come la pietra naturale, il ferro, il bronzo o lo zinco, oltre alla galvanotecnica. Le tombe sono spesso situate in chiese o porticati, nonché nei giardini delle chiese e nei cimiteri. Nel patrimonio artistico di Berlino è evidente l’influenza del mondo antico, in particolare del Rinascimento e del Barocco. Tutti gli artisti, gli architetti, gli scultori e i pittori visitarono l’Europa del sud, proprio per studiarne l’arte. Fino a tutto il XIX secolo era 153 Lo splendore della forma 1. Andreas Schlüter, Sarcofago per la regina Sophie Charlotte, 1705 c., Hoenzollerngruft Oberpfarr-und Domkirche Berliner Dom (foto Wolfgang Bittner) 154 impensabile una carriera artistica che non passasse attraverso una lunga permanenza in Italia. Le composizioni e la simbologia delle sculture mescolavano modelli antichi e barocchi che, insieme con le scelte architettoniche, ampliarono e diedero prova di una determinazione artistica che fu caratterizzante dalla fine del XVIII secolo. Le opere d’arte dei cimiteri di Berlino lo testimoniano ancora oggi, mostrandosi come documentazione dell’opera di una vera e propria “Berliner Bildhauerschule” (Scuola di scultura berlinese) e dell’arte funeraria berlinese. Lo sviluppo delle arti a Berlino si arricchì poi sia grazie alla fondazione della Akademie der Kunste (Accademia dell’Arte), della Bauakademie (Accademia di Architettura) e del “Gewerbeinstitut” (Istituto del Lavoro), sia grazie al progresso industriale e alle nuove possibilità di riproduzione. I sepolcri barocchi di Andreas Schlüter rappresentano un primo picco nell’arte funeraria e nella scultura a Berlino. Gli esempi più famosi sono le sue sfarzose tombe per la Regina Sophie Charlotte (morta nel 1705) e il Re Friedrich I (morto nel 1712). Le figure si presentano nella tipica espressione barocca con l’immagine simbolica della morte (figg. 1 e 2), conforme alla rappresentazione abituale nel XVII secolo. II ritratto dei defunti, gli stemmi, le corone, le bandiere funzionano come segno di gloria terrena, mentre la donna in lutto con il Putto e Chronos che scrive nel “libro del passaggio”, simboleggiano eternità, dolore e gloria. Inoltre servono come allegorie della pietà e del lutto. La donna in lutto sulla tomba è uno dei motivi più diffusi nell’arte funeraria fino all’inizio del XX secolo. Dopo il 1750 prende piede il sepolcro a forma di urna, La scuola di scultura di Berlino 2. Andreas Schlüter, Sarcofago per il re Friedrich I, 1712 c., Hoenzollerngruft Oberpfarr-und Domkirche Berliner Dom (foto Wolfgang Bittner) con una figura di donna in lutto e angeli, che associano scenari di dolore e vogliono mettere in risalto 1’angoscia nella sua forma simbolica. In quel momento non era consuetudine tra gli scultori firmare le proprie opere, sicché alcuni lavori non possono essere identificati con sicurezza. Sotto l’influenza della Rivoluzione Francese e della sua architettura emersero nei cimiteri berlinesi, alla fine del XVIII secolo, alcuni esempi rappresentativi dell’arte classicista del periodo, per opera degli architetti David e Friedrich Gilly. Inoltre cominciarono ad apparire modelli di tombe ricavate in nicchie nei muri, con urne a mezzo rilievo nelle nicchie più superficiali e intere in quelle più profonde. A volte la nicchia nella parete accoglie una figura distesa e la simbologia, di derivazione classica, veniva adattata alla personalità del defunto. II sepolcro a forma di urna va acquistando sempre piu popolarità nella seconda metà del XVIII secolo. La tomba dell’attore Johann Friedrich Ferdinand Fleck (fig. 3) (morto nel 1803, Kirchhof I di Jerusalems e Neuen Kirchgemeinde in Berlino-Kreuzberg) mostra un allegro 155 Lo splendore della forma 3. Johan Gottfried Schadow, Tomba per l’attore Friedrich Ferdinand Fleck, d. 1803, Berlin Kreuzberg, Kirchof I der Jerusalems und Neuen Kirchengemeinde (foto Landesdenkmalamt Berlin) 4. Johan Gottfried Schadow, Tomba per Grafen von der Mark, 1788-1790, Berlin-Mitte Museuminsel, Alten Nationalgalerie (foto Landesdenkmalamt Berlin) 156 viso baffuto a mezzo rilievo che simboleggia la Commedia, il cui contrario è rappresentato dalla Tragedia. Questa opera viene attribuita a Johann Gottfried Schadow, il più eminente scultore del periodo classicista, che è considerato il principale rappresentante del primo periodo della “Berliner Bildhauerschule” (fig. 4) cui diede la sua personale impronta. Anche se la sua arte si basa sul Barocco, le sue figure, proporzioni e composizioni ci obbligano a collocarlo pienamente nel XVIII secolo. La tomba del conte Von der Mark è una delle maggiori opere di arte neoclassica in Europa. Jean Pierre Tessaert, l’insegnante di Schadow, era stato in origine incaricato di questo lavoro dopo la sua morte. Schadow sviluppò ulteriormente l’opera, seguendo ancora i desideri del maestro. La nicchia ad arco sopra il sepolcro mostra il ritratto del defunto, circondato dalle tre Parche, figure vestite con abiti lunghi in una scena in calmo movimento. I principali materiali sono marmi di vario colore. In passato la tomba era situata nella Dorotheenstätische Kirche, chiesa che fu distrutta durante la Seconda guerra mondiale. Oggi il monumento è esposto nella Alte Pinakotek nell’Isola dei Musei. Fu Karl Friedrich Schinkel, il più eminente maestro del periodo classicista, a dare 1’impronta determinante all’arte funeraria berlinese. Egli continuò a produrre i tradizionali tipi di tomba secondo lo stile rappresentativo dei monumenti di Berlino, tra i quali le stele, gli obelischi, le colonne e le croci. La scuola di scultura di Berlino Insieme a Peter Christian Beuth, il capo dell’Istituto per il commercio, intendeva commercializzare 1’uso e allargare la diffusione delle tombe con l’intento di abbellire complessivamente i cimiteri. Molte di queste tombe si possono trovare al Dorotheenstatischer Friedhof (Berlino-Mitte, Chausseestraße), che è diventato, nel periodo neoclassico agli inizi del XIX secolo e ancora lo è, un cimitero di artisti, umanisti e scienziati. “Come nella vita così nella morte”, la sistemazione delle tombe rende i defunti riconoscibili lasciando intendere alcuni aspetti della loro vita. Sotto raccomandazione di Beuth, la tomba di Schinkel fu progettata come una stele con un “acroterion”, che inizialmente era stata pensato per la tomba di Hermbstaedt. La cancellata appartiene a una serie di esempi che furono creati da Schinkel e pubblicati in collaborazione con Beuth tra il 1821 e il 1837 in Vorbilder fur Fabrikanten und Handwerker (Modello per Fabbricanti e Artigiani) disponibile alla “technische deputation” (deputazione tecnica). Questa è la ragione per cui si può incontrare questo tipo di cancellata in altri cimiteri a Berlino e in tutta la Germania. Queste tombe sono decorate con ritratti scultorei o vari acroterion con geni. I putti e gli angeli del Barocco divennero geni, alcuni femminili, alcuni maschili, alcuni neutri. I vari materiali come il bronzo, la pietra naturale e il ferro sono combinati in differenti modi e mostrano un evidente intento commerciale (fig. 5). 157 5. Karl Friedrick Schinkel, Tombe della Famiglia degli Hofgoldschmiedes Hossauer, 1833, Berlin Mitte, Dorotheenstadtischer Friedhof, Chauseestrasse (foto Landesdenkmalamt Berlin) Lo splendore della forma 6. Karl Friedrich Schinkel, Tomba del Generale von Scharnhorst (m. 1813 vicino a Praga), 1824-33, Berlin-Mitte, Scharnhorststraße, Invalidenfriedhof (foto Wolfgang Reuss, Berlin, 2004) 158 L’Invalidenfriedhof che fu creato da Friedrich II in connessione con le “guerre slesiane” nel XVIII secolo, rappresenta un incomparabile documento per la storia politica della Germania dalla fine del XVIII secolo agli inizi della Guerra fredda e al cambiamento politico del 1989; un grande documento della guerra e della sconfitta, ma anche uno spazio di grande importanza per la conservazione e per la scultura cimiteriale a Berlino. In questo luogo si troveranno tutti i più importanti tipi di tombe, inclusi molti esempi significativi e rappresentativi, come la tomba del generale Von Schamhorst, creata da Schinkel, che rappresenta la più notevole opera dell’arte funeraria neoclassica in Germania e anche un significativo monumento alle guerre di liberazione (fig. 6). Sul piedistallo e sulla base sono situati due pilastri che sorreggono la bara sulla quale dorme un leone. Il rilievo che si sviluppa sui quattro lati del fregio mostra la storia della vita del defunto, che morì durante la guerra di liberazione vicino a Praga. Questo La scuola di scultura di Berlino tipo di tomba è basato anche su esempi italiani, in cui i riferimenti al mondo antico sono proseguiti fino a tutto il Rinascimento. Vedendo il monumento si penserà subito al monumento tombale di Petrarca (13041374) vicino a Verona, ad Arquà Petrarca. II marmo bianco del monumento fu danneggiato dalle condizioni atmosferiche. Temporaneamente era stato costruito un tetto di vetro per proteggere l’opera. Ma dato che la protezione tendeva a cambiare la visione originale e il panorama, il monumento venne smantellato e fu fatta una copia del fregio. L’originale è ora conservato in un deposito all’“Isola dei Musei”. Le croci e le tavolette sepolcrali rappresentano un altro tipo di tomba molto popolare e largamente diffuso, che può essere attribuito alle idee di Schinkel. Il proprietario poteva cambiare il disegno come desiderava, giacché le cornici, il rilievo e la decorazione erano variabili. Queste tombe sono lavori rappresentativi dell’arte della fusione del ferro di Berlino, uno stile di produzione seriale veramente notevole, che non ha pari in altri cimiteri europei. Il sepolcro a urna con la donna in lutto nella nicchia della tomba di Johann Gottlieb Ernst Kleinstüber (fig. 7) è unico ed è una delle più straordinarie sculture erette in ghisa nei cimiteri berlinesi. Esso è potuto ritornare al suo colore originario attraverso la scoperta delle tracce dell’antica doratura emerse durante il complesso restauro. 159 7. Anonimo, Tomba di Johann Gottlieb Ernst Kleinstüber (m. 1834), Berlin-Pankow, Greifswalder Straße, Cimitero di Georgen-Parochialgemeinde (foto Katharina Geipel, Berlin, 1993) Lo splendore della forma 8. Gustav Stier, Tomba di Joachim (m.1853) e Rahel (m. 1857) Liebermann, Berlin Prenzlauer Berg, Jüdischer Friedhof (foto Landesdenkmalamt Berlin) 160 Tradizionalmente le immagini di persone non sono ammesse nei cimiteri ebraici. Qui la grandezza raggiunta nell’arte dell’ornamento e del rilievo è dimostrata nella tomba a parete in ferro fuso di Joachim (morto nel 1853) e di Rahel (morta nel 1857) Liebermann, creata da Gustave Stiel, un allievo di Schinkel. Il ferro fuso rivela una triplice sistemazione tipica del XIX secolo, con una parte centrale che risulta più imponente. La cosiddetta “tomba a parete” era un popolare tipo di sepoltura usata per famiglie e tombe dinastiche, eretta lungo le pareti di un cimitero. La “tomba a parete” di Liebermann (fig. 8) affascina per la sua struttura tecnica. Molti dei pezzi persi furono ritrovati nel terreno durante la preparazione del restauro. Questo rese possibile un restauro quasi completo dell’originale. Lo scultore Heinrich Pohlmann (fig. 9) capì come nessun altro della sua generazione il legame tra arte e mercato. Grazie alla collaborazione con aziende di riproduzione (WMF, Gladenbeck), Pohlmann riuscì a diffondere i suoi lavori molto velocemente. È annoverato come il più giovane e ultimo rappresentante della La scuola di scultura di Berlino 9. Heinrich Pohlmann, Tomba Heinrich Roller (m. 1916), Berlin Prenzlauer Berg, Friedhof der Freireligiosen Gemeinde Pappelallee (foto Landesdenkmalamt Berlin) 161 “Scuola di scultura berlinese” del XIX secolo. Le sue opere sono state create per differenti misure, materiali e tecniche di produzione come la pietra naturale, il bronzo o la galvanoplastica, il che spiega perché incontriamo le sue riproduzioni in molti cimiteri in tutta la Germania e l’Europa. Le sue figure più popolari sono le “donne in lutto”, create in un aggraziato barocco, quasi Art Nouveau, elegante e classico, sempre erotico. Riferimenti bibliografici Bloch, Peter, Einholz, Sibylle e von Simson, Jutta, Ethos und Pathos, Die Bauten der Berliner Bildhauerschule 1786-1914, Ausstellungskatalog, Berlin 1990. Fischer, Christoph e Schein, Renate, O ewich is so lanck, Die historischen Friedhöfe in Berlin-Kreuzberg, Ausstellungskatalog: Berlin (West) 1987. Fischer, Christoph e Welter, Volker, Frühlicht in Beton, Das Erbbegräbnis Wissinger - Max Taut - in Stahnsdorf, Berlin 1989. Der Invalidenfriedhof, Rettung in eines Nationaldenkmals, Förderverein Invalidenfriedhof, Landesdenkmalamt Berlin/Gartendenkmalpflege, Hamburg 2003. Die Hohenzollerngruft und ihre Sarkophage, Landesdenkmalamt Berlin, Oberpfarr-und Domkirche zu Berlin, München/Berlin 2005. Il laboratorio degli scultori Ernest Salu I, II e III a Laken: centro di sculture commemorative nella regione di Bruxelles di Marcel M. Celis 162 Nei diciannove comuni che costituiscono la Regione della Capitale Bruxelles, ci sono dieci cimiteri maggiori, da quello della chiesa di Laken del XIII secolo al cimitero di Schaarbeek del 1929. In alcuni di questi luoghi di sepoltura c’è un numero impressionante di sculture in pietra o in bronzo – di solito figure femminili in lutto – oltre a una grande varietà di busti, bassorilievi e medaglioni ritratto. Le ricerche hanno dimostrato che queste sculture sono state realizzate principalmente nel laboratorio degli scultori Ernest Salu a Laken, o quantomeno create dagli scultori che lì si formarono o che appartenevano allo stesso circolo di amici dediti all’arte. Per inquadrare le diverse figure, è utile considerare il loro contesto culturale e storico. Albert Carrier-Belleuse (1824-1887), Auguste Rodin (1840-1917) La guerra franco-tedesca del 1870 aveva portato al blocco di tutte le attività edilizie a Parigi. Seguendo l’esempio parigino del barone Haussman, il sindaco di Bruxelles Jules Anspach aveva trasformato il centro Il laboratorio degli scultori Ernest Salu I, II e III a Laken della città in un luogo di gigantesche nuove costruzioni, a partire dal 1868 con la copertura del fiume Zenne. Il piano doveva essere completato con la costruzione dei grandi viali centrali, naturale contesto architettonico per la realizzazione dei palazzi destinati all’affitto e, nel 1868-1873, di un monumentale palazzo per la Borsa. L’architetto era Leon Suys, il cui padre François Tilman aveva frequentato l’École speciale de Peinture, Sculpture et Architecture con Charles Percier e Pierre Fontaine, per laurearsi in seguito all’École des Beaux Arts con un Grand Prix, e completare i suoi studi a Roma all’Acadèmie de France. Egli volle assumere artisti francesi, come era tradizione da anni. L’importante scultore francese Ernest Carrier-Belleuse, era stato appena premiato all’Exposition Nationale des Beaux-Arts con la sua opera Le Messie, per cui fu fatto cavaliere dell’ordine di Leopoldo. Essendo praticamente senza lavoro in Francia, accettò con entusiasmo 1’incarico di dirigere l’enorme programma scultoreo che Suys aveva pianificato per la Borsa. Il suo laboratorio provvisorio in via Montoyer a Bruxelles si arricchì di scultori locali come Joseph Jacquet (n. 1822), Norbert Mewis (n. 1836), Antoine Van Rasbourgh (n. 1831), Juliaan Dillens (n. 1849), Ernest Salu (n. 1846). Nel suo studio a Montmartre, Carrier-Belleuse aveva precedentemente imparato ad apprezzare le qualità del suo giovane collaboratore Auguste Rodin (n. 1840). Nel febbraio del 1871 Rodin si unisce al laboratorio di Bruxelles, dove il suo primo incarico è la produzione di modelli in gesso. Questo piano di rinnovamento urbano, il più importante a Bruxelles dall’Indipendenza del 1830, si rivelò determinante per questi giovani scultori. Ciò spiega l’amicizia di lunga durata tra Rodin e Juliaan Dillens da una parte, e tra Dillens e il suo compagno di studi Ernest Salu dall’altra. Dopo il ritorno di Carrier-Belleuses a Parigi nell’estate del 1871, egli affida la gestione del laboratorio di Br uxelles a Norbert Mewis. Nel 1873, Rodin e Antoine Van Rasbourgh stipulano un contratto che prevede una collaborazione di vent’anni, che viene rinnovato nel 1877 da Rodin. Tutto quello che Rodin aveva prodotto in quel periodo 163 Lo splendore della forma 164 in Belgio, si ritrova grazie al Musée Rodin di Joseph Dillen (1878-1935), un amante dell’arte, collezionista e banditore di aste al Palazzo delle Belle Arti di Bruxelles. Nel 1927 questi ottenne una copia del Penseur di Rodin, da installare sulla sua futura tomba nel cimitero di Laken. Egli aveva avuto la possibilità di acquisirlo per il Musée Rodin alcuni anni prima. Probabilmente voleva seguire l’esempio dell’artista, la cui ultima dimora a Meudon è custodita da un simile Penseur. Proprio nel cimitero di Laken, Carrier-Belleuse aveva precedentemente lasciato un gruppo scultoreo in pietra francese, un’Allegoria dell’Educazione in stile neoPompeiano, realizzato in seguito alla morte nel 1864 all’età di 35 anni di Sophie Ghemar, un’insegnante di origine franco-belga. Suo fratello, Louis Ghemar, si sarebbe guadagnato la fama di pioniere della fotografia un anno dopo con la morte del re Leopoldo I, fondatore della dinastia belga, di cui realizzò un album Funerailles de S.M. Leopold I er., Roi des Belges et avenement de Leopold II au trone. La città di Bruxelles gli chiese poi, nel 1867 (e nel 1870) di fare un reportage fotografico, uno dei primi di quel genere, sui lavori di copertura del fiume Zenne: ciò ci riporta al punto di partenza, la costruzione della Borsa di Bruxelles. Come la famiglia Ghemar incontrò Carrier-Belleuse ancora non si sa, né è noto con esattezza quando venne realizzato il monumento sepolcrale. La prima richiesta di Ernest Salu per la costruzione di un semplice laboratorio di scultura accanto al cimitero di Laken è datata 1874, anche se su una facciata del laboratorio realizzata in seguito, il 1872 è segnato come data di fondazione. Un album per schizzi contiene un disegnino di questo primo laboratorio, ma anche, poche pagine più avanti, uno schizzo del Mausoleo Ghemar in costruzione. È troppo azzardato collegare ciò all’osservazione di Ernest Salu III, che suo nonno aveva ricevuto il suo primo incarico per un sepolcro sulle impalcature del palazzo della Borsa? Ernest Salu I (1846-1923) Ernest Salu apprese il mestiere di scultore all’Accademia Reale delle Arti a Bruxelles (1870), ma soprattut- Il laboratorio degli scultori Ernest Salu I, II e III a Laken 1. Ernst Salu I, Tomba Clara Siegerist, 1892, Laken to nel laboratorio privato di un suo professore, Guillaume Geefs (1805-1883), frequentato da molti studenti. Nel 1874, due anni dopo l’inaugurazione della chiesa neogotica di Laken con la cripta reale, progettata dall’architetto Joseph Poelaert, egli creò un suo primo laboratorio, accanto al cimitero parrocchiale. Sette anni dopo, nel 1881, ottenne l’autorizzazione per realizzare nello stesso terreno un altro laboratorio collegato alla sua abitazione. Nel dicembre del 1882 viene aggiunto un laboratorio per la lavorazione del marmo proprio dietro il primo, triplicando così la superficie della compagnia. II grande, eclettico giardino d’inverno progettato dall’architetto Oscar Lauwers è del 1912. Esso collega i laboratori, la casa e la vetrina per esposizione, e divenne così l’ingresso del complesso, esaltato dalla facciata monumentale della serra (fig. 1). Non è dunque sorprendente che la compagnia già impiegasse quaranta persone nel 1900, tra cui non meno di dieci scultori. Un contratto importante – quasi permanente dal 1870 – prevedeva il loro contributo alla costruzione delle gallerie di sepoltura sotterranee, progettate dall’ingegnere Emile Bockstael (1838-1920), che doveva poi diventare sindaco di Laken. La presenza nel laboratorio di Ernest Salu di alcuni importanti modelli in gesso di Guillaume Geefs – tra gli altri i bassorilievi per il Monumento dei Martiri in memoria dei combattenti per la libertà del 1830 (18381849), e l’effigie a grandezza naturale del Conte 165 Lo splendore della forma 2. Guillaume Geefs, Tomba Jacques Coghen, 1864 c., modello in gesso Coghen (1864) (fig. 2) – mostra l’ammirazione di Ernest Salu per il suo vecchio maestro, un’icona del Neoclassicismo. Questi modelli furono probabilmente acquistati durante l’asta pubblica del laboratorio di Geefs, che fece seguito alla sua morte nel 1885. 166 Juliaan Dillens (1849-1904) Un simile ambiente potrebbe spiegare la presenza nel laboratorio di Salu di modelli in gesso del suo collega e amico Juliaan Dillens, il cui soprannome era “Le poète du triste” soprattutto per alcune toccanti statue e medaglioni funerari. L’opera di Juliaan Dillens, con le sue tipiche figure aggraziate e il suo simbolismo a volte manierista, è per diverse ragioni superiore a quella dei suoi contemporanei (fig. 3). 3. Juliaan Dillens, Genio della Morte, modello in gesso Il laboratorio degli scultori Ernest Salu I, II e III a Laken 4. Ernst Salu II, Tomba Famiglia Julien Mary, 1930, Laken Ernest Salu II (1885-1980) Statue tridimensionali autonome sono piuttosto rare nei cimiteri di Bruxelles intorno alla fine del XIX secolo. Le sculture di tipo figurativo si limitavano ad angeli e putti, ritratti a medaglione o busti in marmo di Carrara poco resistente alle avversità meteorologiche, dove la firma dello scultore è raramente leggibile. Anche se la maggior parte dei monumenti funebri in pietra blu del Belgio nel cimitero di Laken quasi certamente furono realizzati nei laboratori di Ernest Salu, è spesso in forse il suo contributo alle sculture in marmo. Suo figlio, Ernest Salu II, si diplomò all’Accademia di Bruxelles (1901-1909), con il Primo Premio. Tra i suoi insegnanti c’erano Juliaan Dillens e Isidore de Rudder (n. 1855), compagni di studi del padre. In coerenza con i suoi studi egli si unì alla compagnia del padre, che rilevò dopo la Prima guerra mondiale. La maggior parte delle sue opere sono nel cimitero di Laken. Sotto la supervisione dello scultore Guillaume Desmaré, realizzò anche il monumento per il Milite Ignoto francese, nella piazza tra il cimitero e la chiesa di Nostra Signora a Laken (fig. 4). Mathieu Desmaré (1877-1946) A Laken, proprio a pochi passi dall’Atelier Salu, risiedeva anche lo scultore Mathieu Desmaré. Si era formato all’Accademia delle Arti sotto la guida di Charles Van der Stappen (1883-1910) e di Constantin Meunier (1831-1905). Di circa trent’anni più giovane di Ernest Salu I, di otto più anziano di Ernest Salu II, mostra le sue prime opere al pubblico alla Triennale di Anversa 167 Lo splendore della forma 5. Mathieu Desmaré, Tomba Pierre Desmaré, 1905-1927, Laken 168 nel 1904. Tra i suoi più importanti progetti pubblici ci sono le statue per il municipio di Laken (architetto Paul Bonduelle, 1907-1912). Gli anni di attività presso il laboratorio di Salu fanno sì che Desmaré sia famoso come lo scultore par excellence di monumenti funebri, con opere sparse in tutti i cimiteri di Bruxelles. (fig. 5) Pierre Theunis (1883-1950) Alcuni modelli in gesso nel laboratorio di Salu sono firmati da Pierre Theunis (n. 1883). Anche se c’è una notevole differenza rispetto ai lavori dei Salu, soprattutto i bassorilievi mostrano segni di mutua influenza. Pierre Theunis studiò all’Accademia di Bruxelles (18961906) come allievo di Joseph Jacquet, Charles van der Stappen e di Juliaan Dillens. L’opera di Theunis consiste principalmente in busti e in un gran numero di medaglie, spesso create all’interno della comunità ebraica. Un’importante serie di sculture ha tuttavia finalità funerarie. Poiché il suo laboratorio a Schaarbeek gli permetteva solo di creare modelli, lasciò che quelle statue fossero realizzate in pietra nel laboratorio di Salu, quasi sempre in marmo di Carrara (fig. 6). Il laboratorio degli scultori Ernest Salu I, II e III a Laken 6. Pierre Theunis, Tomba Vanderstraeten-Keteler, 1926 c., Laken Sylvain Norga (1892-1968) Un ultimo importante collaboratore del laboratorio di Salu fu lo scultore Sylvain Norga, di Etikhove nelle Fiandre Orientali. Ad appena nove anni, egli fu ammesso in via eccezionale all’Accademia di Oudenaarde per otto anni di formazione. Fece il suo apprendistato a Gent, nel laboratorio dello scultore Aloïs de Beule (1861-1935), che doveva la sua fama soprattutto all’arte religiosa. Più tardi fu assunto da Ernest Salu II a Laken, dove realizzò sculture in marmo di Carrara. Sposò Germaine Bataille (19001976), figlia del “monumentista” Emile Bataille, con il suo laboratorio al cimitero di Bruxelles, e sorella dello scultore Charles Bataille. Ernest Salu II offrì alla giovane coppia un appartamento nella sua grande casa a Laken, dove vissero dal 1921 al 1924. Fu lì che Sylvain Norga creò la famosa fonderia in bronzo Norga che, nel 1997, sua figlia Marcelle descrisse come segue: “Fu lì a Laken che mio padre, notando quanto difficilmente il marmo di Carrara resisteva al nostro clima, cominciò a pensare di introdurre articoli cimiteriali in bronzo. Dopo l’orario di lavoro nel labo- 169 Lo splendore della forma Il laboratorio degli scultori Ernest Salu I, II e III a Laken 7. Sylvain Norga, Tomba Dierickx-Desager, 1928, Evere 8. Ernest Salu III, Tomba Vanhoof-Michiels, 1956 c., Mechelen 170 ratorio del Maestro Salu, cominciava a creare i suoi piccoli modelli in scala nel suo appartamento preparando il gesso nei vasi e nelle terrine di mia madre!”. Le decorazioni per tombe in bronzo ebbero un grande successo commerciale. La serie era varia, grazie alla grande produzione i prezzi erano ragionevoli, e i modelli adatti ai gusti dei clienti: teste di Cristo, croci di ogni genere, allori, rami di palma, vasi con scene religiose, deposizioni, calvari e così via. Sylvain Norga modellò anche un certo numero di statue a grandezza naturale, che venivano riprodotte in bronzo su ordinazione. Queste erano quasi esclusivamente figure femminili in lutto, inginocchiate, sedute o distese sulla tomba, con le spalle scoperte e fiori, mazzolini e allori. Cronologicamente, datano tra il 1928 e il 1946 (fig. 7). Ernest Salu III (Laken 1909-1987) Come il padre e il nonno, Ernest Salu III frequentò l’Accademia di Bruxelles dove ebbe come maestro Isidore de Rudder, uno scultore i cui capolavori sono il gruppo Commencement et Fin (1887) e le statue per il mausoleo dello statista Charles Rogier (1888). Laureato con il massimo dei voti per il suo Studio di nudo maschile in gesso, il nipote Ernest Salu si unì al laboratorio del padre, che a sua volta gradualmente rilevò dopo la Seconda guerra mondiale. A causa del calo della domanda di monumenti funebri originali e del loro alto costo, Ernest III progettò più lapidi che sculture. Gradualmente si interessò di più ai 171 film documentari, come quello sulla costruzione dell’Atomium per l’Esposizione Universale del 1958 a Bruxelles. Nel 1983 il laboratorio di Ernest Salu chiuse definitivamente (fig. 8). Si può concludere che il laboratorio di Salu è uno degli ultimi laboratori conservati a Bruxelles, e l’ultimo di uno scultore del XIX secolo. Dopo la morte di Ernest Salu III nel settembre del 1987, l’associazione Epitaaf prese in affitto per trent’anni il laboratorio degli scultori. L’obiettivo è conservare e restaurare questo bene culturale, la creazione di un Museo per l’Arte della Memoria con un Centro di documentazione e informazione. ITALIA Il Cimitero Central e il Cimitero del Buceo: due “giardini” di scultura italiana in Uruguay di Cristina Beltrami Questo breve intervento veronese nasce dal soggetto del mio dottorato – La statuaria italiana a Montevideo dalla metà dell’Ottocento al primo ventennio del Novecento – con una particolare attenzione al patrimonio cimiteriale. È perciò possibile tracciare una parziale storia della scultura italiana attraverso una selezione dei sepolcri più significativi del cimitero Central e del Buceo. I committenti furono sia quei connazionali immigrati che trovarono fortuna in Sudamerica sia chi, pur non avendo radici italiane, riconosceva alla Penisola il primato dell’artisticità, giustificando così la dicitura “verdadera obra de arte” che si incontra talvolta nei documenti d’archivio riferita a qualsiasi scultura di provenienza italiana. A Montevideo, come in tutto il Sudamerica, la tomba rappresenta dunque l’affermazione di uno status sociale e ribadisce la provenienza da un luogo geografico – l’Italia in questo caso – da cui dipendono sia la scelta dei modelli sia la rincorsa degli artefici. Degli attuali quattro cimiteri di Montevideo,1 quello Central è il più antico e perciò, nel suo nucleo originario, 175 Lo splendore della forma 1. Giuseppe Livi, Pietà, 1863, marmo di Carrara, Montevideo, Cimitero Central (foto Robert Freidus) 2. Giuseppe Livi, Monumento ai Martiri di Quinteros, 1866-68, marmo di Carrara, Montevideo, Cimitero Central (foto Robert Freidus) 176 anche il più coerente.2 La vendita dei primi lotti risale al 1859 e l’anno successivo è già documentato un primo sepolcro – ormai perduto – mentre nel 1863 viene inaugurato il Panteon Nacional nella Rotonda.3 L’arredo scultoreo del Panteon è affidato al carrarese Giuseppe Livi4 che diviene indubbiamente il protagonista della stagione decorativa degli anni Sessanta. Egli, che è estremamente attivo anche in altri luoghi della capitale, è il promotore di uno stile al limite tra un tardo linguaggio neoclassico e la riproposizione di modelli ampiamente noti in Toscana. Ne è una evidente testimonianza la Pietà (1863) del Panteon Nacional (fig. 1) che, come ribadito anche dall’intervento di Ray Bateson, è un prototipo carrarese che conosce numerose repliche in tutto il mondo. Naturalmente il General Lerena che commissiona l’opera a Livi già nel 1860 a nome della Junta Dipartamental del Cimitero5 non è a conoscenza di tale prassi, egli anzi ritiene di investire – 560 pesos – in un’opera di specchiata artisticità, capace di evocare il rinascimento italiano. Cinque anni più tardi Livi svela la macchina commemorativa più imponente del Central: il Monumento ai Martiri di Quinteros (1866-68) (fig. 2), in onore di coloro che si sacrificarono per l’indipendenza del “Pueblo Oriental”.6 Contemporaneamente egli seguita a disse- Il Cimitero Central e il Cimitero del Buceo 3. Lavarello, Tomba Mussio, 1863, marmo e ardesia, Montevideo, Cimitero Central (foto Robert Freidus) minare il cimitero di sepolcri di tardo sapore neoclassico – quello di Atanasio Lapido (1862), di Atanasio Sierra (1863-1866), di Pedro P. Bermudez (1865 c.), di Leandro Gomez (1865 c.) e di Venacio Flores (1866) – mentre iniziano a giungere dall’Italia le prime opere finite legate alla più consolidata iconografia cimiteriale. Tra i primi marmi in ordine di tempo a giungere a Montevideo vi è la bimba pregante della Tomba Castellanos (1870), firmata dallo scultore genovese Carlo Rubatto e ripresa dal fortunato modello che Luigi Pampaloni espose a Genova nel 1868. Il capoluogo ligure, forte di una fitta rete di artigiani e scultori nonché di un attivo porto, è il fulcro di questo commercio marmoreccio e concorre inevitabilmente alla diffusione di prototipi liguri come la Tomba Mussio (1863) dei Lavarello (fig. 3) in cui un uomo piange la scomparsa della moglie accanto alla bara sulla quale lei giace. La messa in scena di uno spaccato di vita borghese, la cura nella resa dei dettagli della moda, i pizzi del lenzuolo, i tratti somatici più morbidi e realistici, fanno di questa tomba quanto di più innovativo per un pubblico uruguaiano ancora legato ai rigidi prototipi tardo neoclassici. Non a caso la Tomba Mussio è la prima di cui si occupi anche la bibliografia locale che, non senza una digressione fantastica, narra persino le vicende private del vedovo.7 Al di là della leggenda, la Tomba Mussio parrebbe la prima opera scultorea giunta a Montevideo per acquisto di 177 Lo splendore della forma 4. Giacomo Moreno, Tomba Gianelli, 1872, marmo di Carrara, Montevideo, Cimitero Central (foto Robert Freidus) 5. Enrico Butti, Tomba Nicola (Il Minatore), 1888, marmo di Carrara, Montevideo, Cimitero Central (foto Robert Freidus) 178 un privato e non per intervento di Azzarini. Nel 1879 approda infatti nella capitale lo scultore genovese Giovanni Azzarini (1853-1924 c.) che diviene il protagonista della seconda stagione decorativa del Central. Azzarini è un impresario ancor prima che un artista e organizza una massiccia importazione dall’Italia di marmi “già finiti”, divenendo così il tramite tra gli scultori o i laboratori italiani – liguri e carraresi in primis – e il vorace mercato uruguaiano. Azzarini è ad esempio l’intermediario tra Giacomo Moreno (1835-post 1900) e l’acquirente uruguaiano della Tomba Gianelli (1872) (fig. 4) che presenta quello stesso gruppo della Carità che lo scultore replicherà per la Tomba Borzino del cimitero di Staglieno (1884). Sia dunque il Central sia il Buceo, come si vedrà in seguito, divengono il luogo in cui la prima generazione di artisti nati in loco ha l’occasione di aggiornarsi, benché parzialmente, sul linguaggio scultoreo italiano.8 Oltre alla Ligura l’altra principale area di provenienza fu Carrara; lo provano numerosi sepolcri tra cui la Tomba Cachon (1875) con una riuscita figura di Padre Tempo 9 elegantemente firmata da Carlo Niccoli e la Tomba Escalada (1891) che, nonostante rechi la sigla di Azzarini, è opera di Cesare Faggioni che ne pubblicò la maquette su “Lo scultore e il marmo” col titolo di Sonno eterno.10 L’opera di maggior interesse del Central è il Minatore di Enrico Butti (fig. 5) che viene collocato sul sepolcro Nicola nel 1888, poco dopo dunque la sua esposizione all’Accademia di Brera dove, nonostante la perfetta Il Cimitero Central e il Cimitero del Buceo 6. Felice Morelli, Tomba Peirano, 1913, bronzo e granito, Montevideo, Cimitero Central (foto Robert Freidus) modellazione, non ottiene il Premio Principe Umberto per l’esplicito messaggio di denuncia. Aspetto questo che al contrario deve aver attratto Juan Nicola, un imprenditore di umili origini che proprio attraverso il sacrificio del lavoro è riuscito a conquistarsi una piccola fortuna. Nicola deve essere stato al corrente dell’esistenza di una scultura che rappresentava in modo tanto manifesto il concetto della fatica e, tramite i contatti di Azzarini, acquista il marmo in Italia. Alla fine degli anni Ottanta il cimitero può contare su un buon numero di sepolcri che lo consacrano a tutti gli effetti come un giardino di scultura internazionale. Nel 1894 infatti quando soggiorna a Montevideo lo storico di origine spagnola Fernandez Saldaña può notare come il Central sia motivo d’orgoglio per la cittadinanza quanto la Recoleta lo è per Buenos Aires.11 Alla fine del secolo è ormai attivo a Montevideo anche lo scultore napoletano Felice Morelli12 che, sbarcato in città nel 1899 e sulla scorta del successo del Monumento Muñiz (1898, Cimitero della Recoleta, Buenos Aires) del conterraneo Ettore Ximenes, dà il via anche in Uruguay alla tradizione del sepolcro in granito e bronzo.13 Morelli esordisce al Central con la Tomba Casalia (1896-98) in cui un genio della morte in bronzo celebra il busto del committente posto in cima a un obelisco di granito; la sua seconda prova è la Tomba Navajas (1904-1905) seguita infine dalla Tomba Peirano (1913) (fig. 6) dove una donna dorme un sonno eterno. 179 Lo splendore della forma Il Cimitero Central e il Cimitero del Buceo 8. Giovanni Azzarini, Tomba Juansolo, 1908, marmo di Carrara, Montevideo, Cimitero Central (foto Juan Angel Urruzola) 7. Giovanni Azzarini, Tomba di Juan Martinez, m. 1893, marmo di Carrara, Montevideo, Cimitero Central (foto Robert Freidus) A causa di una lunga epidemia di colera (1873-1878) Montevideo reclama un secondo cimitero per cui viene immediatamente assegnata l’area alle spalle del porto del Buceo. Anche il nuovo cimitero, attivo dagli anni Ottanta, necessita di un arredo scultoreo e il primo monumento d’importazione è la Tomba Ballefin (1885) firmata dal genovese Giovanni Scanzi (1840-1915). Già l’anno seguente giunge da Genova un monumento di 180 Gli ultimi marmi importati, siglati e collocati al Central da Azzarini, testimoniano un continuo compromesso tra il facile consenso, derivato da modelli consolidati come la Tomba Martinez (post 1893) (fig. 7) – vero collage di prototipi estremamente noti – e un aggiornamento al coevo linguaggio italiano. Testimone di quest’ultima tendenza è la Tomba Juansolo (1908) (fig. 8) che proverebbe il viaggio di Giovanni Azzarini a Genova attorno al 1907 per l’evidente ripresa della Tomba Orsini di L. Bistolfi (1905-1907, cimitero di Staglieno, Genova). Ed è proprio di Bistolfi l’opera più importante che compare al Central in anni piuttosto tardi: la Tomba Martinez (ante 1927) (fig. 9) presenta una versione del Cristo che cammina sulle acque che l’artista realizzò per il conte Camerini.14 181 9. Leonardo Bistolfi, Tomba Martinez, 1927, bronzo, Montevideo, Cimitero Central (foto Juan Angel Urruzola) Lo splendore della forma Il Cimitero Central e il Cimitero del Buceo 10. Leonardo Bistolfi, Tomba Crovetto (L’Olocausto), 1903-4, marmo di Carrara, Montevideo, Cimitero del Buceo (foto Robert Freidus) 12. A. Bassi, Mausoleo Saint-Bois, 1920-26, marmo di Carrara, Montevideo, Cimitero del Buceo (foto Robert Freidus) 182 matrice più marcatamente borghese, la Tomba Staricco (1886) di Domenico Carli, riproposta in seguito dallo stesso artista sia per la Tomba di G.A. Maineri a Varazze che, con una piccola modifica, nella Tomba Ferrari a Staglieno.15 Il Buceo, che paga lo scotto di essere il cimitero meno prestigioso, quello destinato alla borghesia di recente affermazione,16 conserva due dei monumenti funebri più importanti di Bistolfi. Nel 1905 infatti l’artista presenta alla Biennale il gesso de l’Olocausto (1903) destinato alla Tomba Crovetto (fig. 10) a Montevideo dove 11. Leonardo Bistolfi, Tomba Giorello, 1913, marmo di Carrara, Montevideo, Cimitero del Buceo (foto Robert Freidus) 183 giunge già dal 190417 seguito nove anni più tardi dall’imponente Monumento Giorello (fig. 11). Il Funerale dell’eroe sintetizza indubbiamente un momento di svolta a cui Bistolfi continua a riattingere anche in monumenti successivi; come la figura della Maternità del Monumento Sepolcrale per la famiglia Hofmann (1921-25, Cimitero di Torino). Oltre a quelli già citati e al costante flusso di monumenti che Azzarini indirizza anche al Buceo, sono qui attivi i carraresi Alessandro e Antonio Biggi e Giovanni Del Vecchio, i liguri Achille Canessa, Pietro Capurro, Demetrio Paernio, i Repetto e Santo Saccomanno, il fiorentino Giorgio Rossi, il milanese Giovanni Ferrari, i napoletani Amleto Cataldi e ancora Felice Morelli, il romano G. Grocchelli e il cremonese Aristide Bassi. Quest’ultimo si traferisce a Montevideo nel 1914 e qui realizza numerosi monumenti pubblici e partecipa al cantiere del Palazzo Legislativo progettato da Gaetano Moretti. L’influenza del cantiere italiano, che offre un confronto diretto con l’opera di Giannino Castiglioni, Il Cimitero Central e il Cimitero del Buceo Lo splendore della forma 184 si riflette sul Monumento Saint Bois (oggi Martinez) di Bassi (fig. 12). Esso presenta una scena allegorica in cui il virtuosismo della resa dei corpi avvitati in un evidente sforzo fisico sarebbe stato difficile da immaginare prima dell’arrivo in città dei bozzetti di Castiglioni per il Palazzo Legislativo.18 Se il Central è il monumento all’antica oligarchia uruguaiana il Buceo, con i suoi ampi spazi, rispecchia l’allargamento demografico della capitale e l’affermarsi di una generale borghesizzazione della sepoltura. Salvo alcune opere di particolare qualità, le tombe si risolvono in riproduzioni meccaniche di angeli, angioletti e cristi, molti provenienti anche da laboratori locali che a partire dal secondo decennio del secolo sono in grado di far fronte alle richieste del mercato. Benché il monumento italiano continui a rappresentare uno status symbol, a partire dal secondo decennio del Novecento esso perde gradualmente il proprio valore; le tombe infatti sembrano apprezzate più per la loro monumentalità – in concomitanza con un’esplosione decò dell’architettura cittadina – che per la loro provenienza o la qualità della manifattura. A questo processo contribuì probabilmente anche il fatto che il Palazzo Legislativo venisse realizzato con marmi locali, il che frenò la corrente d’importazione dei costosi blocchi italiani. Infine va sottolineato come già dai primi anni del secolo Montevideo possa contare anche su una prima generazione di valenti artisti, formatisi in loco e spesso figli degli stessi scultori emigrati o allievi di questi ultimi nelle scuole e nei laboratori attivi in città. 1 2 Oltre al cimitero Central e a quello del Buceo esistono anche il coevo cimitero ortodosso, detto “de los ingleses”, e il cimitero del Norte, di recentissima costruzione. Beltrami, C., La statuaria italiana a Montevideo dalla metà dell’Ottocento al primo ventennio del Novecento, relatori L. Puppi, G. Dal Canton e F. Fergonzi, Dottorato di ricerca in Storia dell’Ar- 3 4 te, I Ciclo/Nuova serie, 2004, Dipartimento di Storia delle Arti e Conservazione dei Beni Artistici “G. Mazzariol”, Università Ca’ Foscari, Venezia. Historia del Cementerio Central, in “El Dia - Suplemento Dominical”, anno IV, n. 107, 4 novembre 1934, p. 4. G. Livi (Carrara 1828-Parigi 1890 c.) stando alla tesi dello storico J.C. Pedemonte (J.C.P., Livi, Rosa Pittaluga y la 5 6 7 8 estatua de la “Libertad”, in “Dialogo”, anno I, n. 2, febbraio 1959, pp. 15-20) sarebbe giunto a Montevideo nella primavera del 1859 forte di una solida formazione accademica. Livi entra da subito in contatto con la comunità italiana presente nella capitale, in primis con Bernardo Poncini architetto del cimitero e tramite dei suoi primi incarichi: un Redentore in terracotta per la cupola della Rotonda (andato distrutto) e le due lapidi dedicate a Francisco A. De Figueroa e a Clemente A. Cesar entrambe del 1862. Pietracaprina, R., El artista italiano José Livi. Precursor de la escultura en Uruguay, in “El Dia - Suplemento Dominical”, anno IV, n. 132, 5 maggio 1935, pp. 8-9. Tra l’incarico del monumento e la sua inaugurazione passano due anni (1866-1868) in cui Livi ha l’occasione di realizzare anche un apparato effimero in memoria della stessa vicenda nella cattedrale Matriz. Egli opta per una struttura piramidale che incontra il consenso della stampa e che, in alcuni dettagli, è ripresa anche nella versione scultorea del monumento. Esso si presenta infatti come una struttura a base quadrangolare, sviluppata in altezza; l’architettura è in costante dialogo con la scultura che ha qui uno scopo decorativo-narrativo: ogni facciata riporta due ovali con i busti ad altorilievo degli otto martiri, quattro figure allegoriche campeggiano agli angoli del primo ordine alternate da altrettanti bassorilievi con scene epiche. Il monumento è coronato dall’allegoria della Patria che, mollemente adagiata a una colonna spezzata, piange la morte dei caduti. Epitafios y monumentos de los cementerios de Montevideo, Montevideo, 1889, pp. 3-4: l’anonimo cronista narra che Santiago Mussio s’imbarcò per Genova con una foto della moglie appena scomparsa alla ricerca di un artefice sufficientemente capace da immortalarne le fattezze. Cementerios. Los dias clasicos, in “La Semana”, anno II, n. 67, 12 novembre 1910, pp. 15-16: la Tomba Chucarro ad esempio è indicata come modello a cui rifarsi per la costituzione di un gusto uruguaiano. Il monumento recupera in realtà un’iconografia ormai vieta a questa data in Italia, ovvero l’angelo intento a scrivere gli estremi di morte 9 10 11 12 13 14 che Augusto Rivalta propose a Staglieno per la Tomba Bartolomeo Savi ancora nel 1865. L’opera ha immediatamente un grande successo e come bene dimostrato da Franco Sborgi (Staglieno e la scultura funeraria ligure tra Ottocento e Novecento, Artema, Torino 1997, p. 124) trova ampia diffusione, anche a livello grafico, sia in Italia sia all’estero. Un grande Padre Tempo siede sopra la roccia della Tomba di Tiburcho Cachon che porta l’elegante firma di Carlo Niccoli, lo scultore carrarese che invia l’opera a Montevideo su contatto di G. Azzarini a cui si deve probabilmente anche il disegno di scarsa qualità che accompagna la memoria descrittiva, datata 1875 (A.I.M., D.N, C.C., busta 131, n. 257609). Nello stesso anno Niccoli è nominato professore onorario all’Accademia di Carrara dove lascia in dono il gesso del monumentale Silenzio, inopinabile modello per il marmo della Tomba montevideana (Cfr. Scultura a Carrara. Ottocento, a cura di De Micheli, M., Carrara 1993, pp. 280-281). Marchetti, T.A., 2 Novembre, in “Lo scultore e il marmo”, anno V, nn. 6465, 30 ottobre 1908, p. 2. Saldaña, J.N.F., El Cementerio Central, in “El Dia-Suplemento Dominical”, anno VII, n. 263, 23 gennaio 1938, p. 1. Felice Morelli (1857-1922) ottiene fin da subito incarichi prestigiosi e s’inserisce anche nel meccanismo didattico della città; insegna infatti alla Escuela de Bellas Artes e le sue sculture sono le prime che si possano definire “uruguayas” a tutti gli effetti. Egli infatti utilizza bronzo e graniti locali – non materiali importati – e allestisce un laboratorio in grado di fondere i metalli. Il monumento al Dott. Francisco J. Muñiz (1898) alla Recoleta di Buenos Aires viene scolpito a Roma da Ettore Ximenes nel 1898 e risulta tra i più ammirati della necropoli porteña; nel 1910 è dichiarato monumento nazionale, poi dal 1928 è sicuramente noto anche in Italia perché pubblicato in Necropoli di Buenos Aires, in “Le vie d’Italia e dell’America Latina”, anno XXIX, n. 6, giugno, 1928, pp. 1233-1240. La vicenda del prototipo bistolfiano è esaustivamente descritta da Sandra Berresford in Bistolfi 1859-1933. Il percorso di uno scultore simbolista, catalogo della mostra a cura di Berre- 185 Lo splendore della forma 186 sford, S. e Bossaglia, R., Casale Monferrato 1984, p. 75. Il Cristo in bronzo della Tomba Martinez Silveira è l’unica opera di Leonardo Bistolfi del Cimitero Centrale. La scarna figura incede a mento alto indossando una veste rigonfia che ne accentua l’imponenza e il senso di dinamicità. L’unica pubblicazione in cui però – per altro molto genericamente – si citino sculture del maestro di Casale Monferrato anche nel più antico cimitero di Montevideo è Noticia sobre la escultura en el Uruguay di Walter Ernesto Laroche (1960, p. 6). Naturalmente è Giovanni Azzarini a firmare la memoria descrittiva e il disegno allegato al progetto del monumento funebre. Al contrario di quanto accada per gli altri due pezzi di Bistolfi nel Cimitero del Buceo l’opera non è firmata e dai documenti dell’archivio è possibile stabilire solamente il termine post quem del 1927 che compare sulla memoria descrittiva, dove si specifica che saranno impiegati materiali di qualità e che l’opera sarà realizzata dal “Professor” Bistolfi, garante di una “verdadera obra de arte” (A.I.M., D.N., C.C., busta 97, n. 437584). È probabile però che in questo caso l’acquisto del pezzo sia avvenuto in Uruguay e non in patria, poiché il viaggio della Nave Italia in America Latina nel 1923 tocca anche Montevideo. L’impresa, sostenuta dal governo italiano, ha lo scopo di promuovere nel continente sudamericano la cultura e soprattutto i prodotti dell’artigianato e dell’industria nazionali e i Commissari per le Belle Arti sono Leonardo Bistolfi e Giulio Aristide Sartorio. La nave è organizzata come una fiera ambulante, con sale tematiche tra cui la numero VI dedicata a “Marmi, ceramiche ed affini” e con buona probabilità anche alcune opere di Bistolfi sono qui esposte in attesa di acquirenti. Purtroppo non mi è stato possibile rintracciare il catalogo della Nave Italia e provare la mia ipotesi; attualmente l’unico studio relativo alla vicenda è il catalogo della mostra Sartorio, 1924 (Roma 1999). 15 16 17 18 Sborgi, Staglieno cit., pp. 139 e 311. TAX, En los Cementerios del “Diario Nuevo”, in “Arte y Ciencia”, anno I, n. 2, 8 novembre 1903, p. 21: “La aristocrazia montevideana se congregó á las 10 de la mañana en el Cementerio Central, oyendo misas oficiadas por sacerdotes de talento; mientras que en el Cementerio del Buceó, las misas eran dichas por padres modestos, á quienes las muchedumbres, compuestas de personas humildes, apénas atendian contemplativas en esa religión de lo infinito, que inspira el mar al fondo del bosque oscuro. El Cementerio Central, dejaba oir los acordes de una suite fúnebre, imponiendo á los mortales visitantes cierto recogimiento artistico”. Già però a partire dal 1910 la stampa nota come anche il Buceo stia subendo una “saludable transformación” (Cementerios. Los dias clásicos, in “La Semana”, anno II, n. 67, 12 novembre 1910, p. 15). L’Olocausto propone una giovane donna, affiancata da due angeli e colta nel momento di un simbolico sacrificio. L’opera è commissionata da Carlos Luis Crovetto direttamente a Bistolfi per la cifra di 27.000 lire ed è nota sin dall’esposizione del bozzetto alla Biennale del 1905 (cfr. Berresford, Bistolfi 1859-1933 cit, pp. 87-89). I documenti d’archivio montevideani rivelano molto poco sull’opera ma sono invece ricchi di dettagli sulla vicende biografiche del committente tra cui il fatto che s’assicurò l’opera molti anni prima della propria scomparsa, avvenuta a Parigi il 19 settembre 1924. I quattro gruppi rappresentano altrettante figure allegoriche: la Giustizia, la Legge, la Scienza e il Lavoro. Un sincero ringraziamento a Robert Freidus e Juan Angel Urruzola, autori delle immagini che accompagnano l’intervento. Avvertenza: L’Archivo dell’Intendencia Municipal di Montevideo è sempre indicato con A.I.M. Per una storia della scultura a Roma: il Cimitero del Verano di Nicoletta Cardano L’architetto Corrado Cianferoni, autore di un’importante monografia edita nel 1915 e dedicata al Cimitero del Verano, con sessanta tavole illustrative di cappelle, tombe e lapidi, sottolinea nell’introduzione il carattere del tutto particolare del camposanto romano.1 A differenza delle altre tipologie di cimiteri, infatti, il Verano non si presenta secondo uno schema di “regolarità monumentale” con una disposizione simmetrica di rampe, strade, porticati, recinti. Per le esigenze legate alla particolare caratteristica orografica e alla necessità di salvaguardare, almeno in parte, le preesistenze archeologiche delle catacombe, il cimitero si sviluppa con ampliamenti successivi che esulano da un piano unitario e conferiscono un carattere singolare in particolare nelle vaste zone delle sepolture private; qui si succedono monumenti ed edicole la cui fisionomia è strettamente associata a elementi naturali in una fitta vegetazione di rose, edere e glicini, sullo sfondo dei cipressi. È un carattere pittoresco, piuttosto che monumentale, scrive Cianferoni, sottolineando inoltre la peculiarità architettonica, anziché plasti- 187 Lo splendore della forma 188 ca, del cimitero, “dove sono poche opere figurali”. Le osservazioni del Cianferoni sull’aspetto della limitatezza monumentale del Verano risalgono peraltro al 1915, un momento in cui si va concludendo per la scultura il periodo di maggiore creatività e produzione di iconografie e opere funerarie all’interno dei cimiteri, con un cambiamento di gusto e di linguaggio che porterà a breve, nel corso degli anni Venti, a una riduzione qualitativa e quantitativa delle rappresentazioni in favore di una maggiore asciuttezza e di una rinnovata concezione del “monumentale”. Vero è che rispetto allo “splendore” dei cimiteri, ad esempio di Madrid o di Vienna, illustrati in questo stesso volume, il complesso delle testimonianze di scultura esistenti nel Verano non presenta manifestazioni artistiche di pari eccezionalità; costituisce piuttosto un mosaico variegato, anche con livelli di alta qualità, della scultura a Roma e nazionale, ancora da ricostruire nella sua totalità. Non mancano apporti originali, di qualità e di livello, ma la caratteristica del cimitero fa sì che l’evidenza plastica delle singole sculture non emerga immediatamente e debba piuttosto essere individuata all’interno del contesto. L’aspetto essenzialmente architettonico dato al cimitero sin dagli inizi con l’impianto del quadriportico, e al tempo stesso il carattere discontinuo, dovuto ai successivi impianti urbanistici del sito, non ha favorito realizzazioni monumentali grandiose. Il Verano tra l’altro è privo di un vero e proprio pantheon ideato per contenere le tombe di uomini illustri, una zona destinata ad accogliere sepolture pubbliche e memorie celebrative. Del resto le prerogative che il cimitero del Verano in quanto cimitero della città di Roma doveva assumere, e in particolare il carattere di monumentalità, sono stati da sempre tema di preoccupazione. Vari testi descrittivi del complesso sottolineano sin dall’inizio la necessità del carattere insieme sacro e severo che il luogo doveva assumere, un’impronta di autorevolezza cristiana che marcava la distanza dal paganesimo voluttuoso e romantico della maggior parte delle città d’Europa, escludendo un’inventiva plastica e di rappresentazioni discordante dal tono di sacralità diffusa. Seppure “pale- Per una storia della scultura a Roma 1. Corrado Cianferoni, architetto, Targa “Lux Perpetua” stra ove i più solenni scultori potran dar saggio della loro valentia”, i monumenti saranno “severe rimembranze della morte”.2 “Se tu poni piede nel Campo Verano tutto è solenne, tutto santo, tutto venerando; da per tutto in ogni punto il santo terrore dell’ultimo giorno, congiunto alla dolce certezza della risurrezione e alla consolante fiducia di raggiungere la vera patria del Paradiso, ti si presenta e ti commuove in ogni fibra”.3 Le notazioni sulla mancanza di monumentalità del Verano si ritrovano come opinione corrente sulla stampa a partire dal 1915 fino all’inizio degli anni Trenta. A conclusione del periodo di maggiore sviluppo della tipologia funeraria appare chiara la distanza con i cimiteri “monumentali” di Genova e Milano; negli anni Venti si manifesta progressivamente l’esigenza di una risistemazione che interessa la fisionomia del cimitero troppo affollata di sculture e decorazioni, di memorie spontanee e non coordinate. Grazie anche alla linea critica portata avanti da Cianferoni e alle sue realizzazioni architettoniche4 (fig. 1) si tende a una maggiore essenzialità di forme e decorazioni, a una modernità che si esplica attraverso geometrizzazioni e forme stilizzate. Il Governatorato giunge a disciplinare le tipologie dei semplici ricordi funebri posti come segni distintivi delle tombe bandendo nel 1927 un concorso per edicole funerarie, che doveva individuare tipologie da rendere poi obbligatorie.5 L’omologazione del dettaglio scultoreo o decorativo, che tende ad abolire “angioletti oranti” fusi in serie, sculture anonime, di poco pregio o “targhe di compianto molto meschine”6 189 Lo splendore della forma 190 rientra in un’azione complessiva, portata avanti dal Governatorato, di riassetto e riammodernamento dell’impianto del cimitero ripensato in chiave monumentale, in linea con gli interventi che coinvolgono negli anni del fascismo tutta la città. La sostanziale trasformazione della fisionomia del Verano è relativa all’introduzione di memorie celebrative pubbliche che consentono di accogliere riti collettivi nazionali: in primis l’imponente architettura del Mausoleo Ossario di Raffaele De Vico (1928), ma anche il Ricordo agli avieri caduti, il monumento funerario ai Martiri fascisti del giovane architetto Aldo Mascanzoni con decorazioni di Giovanni Prini (1932), o il Monumento nazionale ai marinai periti nel naufragio del Sommergibile Sebastiano Veniero di Publio Morbiducci (1930).7 Divenuto insufficiente per le esigenze di sepoltura della città, il Verano viene ripensato secondo una organica sistemazione monumentale in cui si prevede anche la costruzione del Famedio per gli uomini illustri. La possibilità di ricostruire almeno in parte il multiforme scenario della scultura del cimitero di Roma è data dal lavoro di catalogazione di circa quattromila tombe condotto dal 2000 dalla Sovraintendenza Comunale.8 Da Albacini a Zocchi: così, dalla “a” alla “zeta”, può essere sintetizzato il catalogo degli scultori, in via di redazione, presenti al Verano dalla seconda metà dell’Ottocento alla fine della Seconda guerra mondiale. La catalogazione, condotta a tappeto nella parte dell’ingresso monumentale, viale principale, quadriportico, Pincetto vecchio e nuovo, registra una produzione di “alti” e “bassi” che si colloca spesso al di fuori degli “splendori” della scultura. Alle realizzazioni scultoree si accompagna una produzione seriale di manufatti corredati da elementi decorativi e plastici che attestano, sin dagli inizi dell’istituzione del cimitero, l’intensa attività di marmisti e decoratori, alcuni dei quali specializzati nell’arte funeraria. Il catalogo degli scultori va dunque integrato con quello degli artigiani che elaborano e propongono tipologie funerarie, modelli iconografici, elementi decorativi e di arredo che si trasformano nel tempo a seconda delle variazioni di gusto e di linguaggio. Tra gli apporti specifici e di maggior rilievo in questo Per una storia della scultura a Roma ambito va segnalato il marmista e ornatista Angelo Marochetti che nel 1878 stampa il suo catalogo con quaranta tipologie funerarie: si tratta di riproposizioni della tradizione neoclassica o elaborazioni eclettiche di gusto più aggiornato, che vanno dalla semplice croce alla lapide, alla stele, all’urna, alla colonna spezzata, al monumento scultoreo vero e proprio. Lo scopo imprenditoriale del catalogo è quello di catturare attraverso una serie di modelli il desiderio dei possibili utenti dei ceti meno abbienti e popolari.9 La ditta Antonio Desio, che ha la sua sede bene attrezzata sul piazzale del Verano, costruisce dai primi anni del Novecento numerose cappelle, cercando di venire incontro alle esigenze di gusto ed economiche della media borghesia.10 Anche la ditta Medici, specializzata nelle realizzazioni in marmi antichi, riceve commissioni dal 1838 al 1925 per monumenti funebri e tombe del Verano.11 Tra gli autori minori, la cui produzione è prevalentemente dedicata all’arte funeraria e celebrativa con tipologie e modelli variamente riproposti, è da segnalare lo scultore Giuseppe Ciocchetti che nel suo stabilimento sulla via Tiburtina “L’arte funeraria” si dedica prevalentemente alla realizzazione di sculture funebri con varianti di angeli e di meditazioni sulla morte, di sarcofagi in granito, di cippi e di monumenti ai caduti.12 La storia della scultura del cimitero del Verano, tracciata attraverso gli esempi più rilevanti, registra nella fase iniziale, ossia nel momento di passaggio dalla committenza dello stato pontificio alle realizzazioni del nuovo stato unitario, alcuni episodi di particolare importanza che contribuiscono a rafforzare il carattere sacro del cimitero, e sono strettamente legati al progetto architettonico di Vespignani. Indicativi in tal senso sono il concorso del 1873 per la realizzazione delle quattro sculture collocate sopra l’ingresso monumentale e l’acquisto della statua del Redentore di Leopoldo Ansiglioni, posta a sostituzione di una preesistente croce in legno, come elemento simbolico e di immediato riferimento visivo nella area del quadriportico. Il progetto di caratterizzare con statue colossali gli archi monumentali dell’architettura di ingresso di Virginio Vespignani risale agli anni Sessanta quando viene indivi- 191 Lo splendore della forma 2. Luciano Campisi, Monumento a Goffredo Mameli 192 duato come tema iconografico quello dei “quattro Novissimi” (la morte, il giudizio particolare, il paradiso o l’inferno). Dopo una prima realizzazione di bozzetti e alcuni cambiamenti relativamente al soggetto, fu bandito l’11 giugno 1873 il concorso per le statue della Speranza, Meditazione, Preghiera e Silenzio. L’assegnazione avvenne in due fasi successive con la commissione prima a Francesco Fabj Altini (La Preghiera e La Meditazione) e Stefano Galletti (La Speranza) e in seguito (28 novembre 1873) a Luigi Blasetti (Il Silenzio). Al concorso, riservato agli “artisti romani”, peraltro solleciti subito dopo l’unità nel richiedere al Municipio l’attivazione di committenze pubbliche,13 partecipò anche il giovanissimo Ettore Ferrari, allievo di Fabj Altini.14 Il tono generale della realizzazione è dato dalle figure simboliche di Fabj Altini, concepite come angeli che esprimono l’idealità dei sentimenti e degli affetti attraverso la solennità di forme classiche.15 La definizione della scultura da porsi nell’area centrale del quadriportico, di particolare rilievo per la fisionomia del cimitero, ha una lunga gestazione. Dopo una primitiva idea di collocazione di un Crocifisso, tema di un concorso andato deserto, si pensa, secondo la proposta dell’architetto Mercandetti che riprende una idea di Vespignani, di realizzare una raffigurazione di Cristo che sale al cielo. La vicenda dura dieci anni dal 1877 al 1887 e dopo varie ipotesi che prevedono un nuovo concorso, mai realizzato, con il ritorno al tema del crocifisso, e la possibile acquisizione di una scultura di Rinaldo Rinaldi,16 si giunge alla acquisizione di un modello già predisposto da Leopoldo Ansiglioni per il Cimitero di Berlino. Per una storia della scultura a Roma Le difficoltà ad accogliere e rappresentare nella città dei morti – così come nella città dei vivi, capitale del nuovo Stato – memorie celebrative di valenza nazionale e risorgimentale sono testimoniate dal concorso bandito dal Comune nel 1889 per la realizzazione del monumento al poeta e patriota Goffredo Mameli (fig. 2). Con questa iniziativa trova risoluzione la sepoltura dei resti del poeta e patriota, depositati nel cimitero in via “provvisoria” dal 1872, dopo la riesumazione dai sotterranei della chiesa delle Stimmate. Alla possibilità di sistemazione all’interno del monumento a Garibaldi sul Gianicolo si preferisce infatti, secondo anche il volere dei familiari di Mameli, la realizzazione della memoria sepolcrale al Verano.17 Il monumento fu realizzato dallo scultore siciliano Luciano Campisi, vincitore del concorso con un bozzetto18 che prevedeva la raffigurazione in marmo di Mameli, rappresentato sul letto di morte e avvolto nella bandiera. La statua del “vate guerriero”, è inquadrata in un fondale architettonico in peperino sormontato dalla lupa capitolina disegnato da Ettore Bernich. Attraverso un morbido naturalismo Campisi riesce a rendere in modo composto ed efficace la figura del giovane eroe, morto dopo lunghe sofferenze per le ferite riportate combattendo per l’indipendenza. Una vera e propria “galleria di sculture” del Verano è raccolta nel quadriportico, elemento architettonico distintivo del cimitero, concepito da Vespignani come spazio unitario, destinato ad accogliere l’arte: il ciclo di pitture nelle lunette19 e le sculture funerarie all’interno delle arcate. Protetti dalla copertura i monumenti trovano qui la giusta ambientazione che permette, così come viene sottolineato negli scritti coevi alla sua realizzazione,20 di valorizzare gli aspetti plastici e di cogliere, nella continuità dello spazio, la varietà e la grandiosità delle raffigurazioni. Come noto, allo stesso Vespignani fu affidato nel 1862 l’incarico di esaminare preventivamente tutti i manufatti e i monumenti sepolcrali del Verano, prima di sottoporli all’approvazione del Congresso.21 Riempito di opere funerarie in prevalenza tra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta dell’Ottocento, con interventi ulteriori di trasformazione e aggiunte fino agli inizi del Novecento, il quadriportico presenta tipologie di 193 Lo splendore della forma 3. Ettore Ferrari, Sarcofago con il ritratto di Pietro Cossa 194 cappelle e gruppi statuari in gran parte ripresi dalla tradizione neoclassica e dai sepolcri delle chiese romane. Sono noti i diversi esempi di scultura collocati in questa parte del Verano,22 opere riconducibili a un ambito accademico, e che in generale testimoniano il passaggio da un classicismo morbido a toni veristi; la stessa evoluzione è visibile nelle trasformazioni di linguaggio di alcuni artisti della generazione più matura. Fabj Altini, ad esempio, realizza, nella fase conclusiva della sua attività, il Monumento Vitali nel quadriportico, fondendo un tono più classico con un’attenzione verista, evidente nella descrizione degli abiti dei familiari raccolti attorno al sarcofago della defunta. Anche Stefano Galletti nel Monumento ad Erminia Fuà Fusinato – recuperato nella sua piena leggibilità grazie al recente restauro – tratta con vena naturalistica la figura della Fusinato, poetessa e patriota, soffermandosi in un’accurata rappresentazione della posa, della sedia e delle vesti. Il risultato è un monumento funebre che riesce a restituire l’immagine di vitalità intellettuale e di forza morale della Fusinato. Per una storia della scultura a Roma 4. Ettore Ferrari, Tomba di Attilio Sammartin e Natale Sacchi, 1883 Non è possibile trattare in questa sede, seppure sommariamente, gli autori e le peculiarità degli aspetti plastici presenti nel quadriportico. Si ricordano soltanto tra le opere più note e di maggiore fortuna il gruppo di Viktor Brodski per la Cappella Giordano Apostoli (1876), il Sepolcro di Giovanni Battista Lombardi realizzato per la moglie Emilia Filonardi Lombardi (1875), la statua che ritrae il pittore Tommaso Minardi di Luigi Fontana (1876). A parte va citata la Tomba di Primo Zonca, con la presenza di Giulio Monteverde che ripropone il modello iconografico dell’Angelo del dolore (1895). Esempi significativi della scultura del Verano, utili a una comprensione ampia della trasformazione dei fenomeni artistici e delle modifiche del gusto e del linguaggio, vanno ricercati oltre i prototipi del quadriportico. Si tratta di individuare, in particolare nel Novecento, quelle “poche opere figurali” del cimitero che si rivelano innovative per il cambiamento di registro rispetto alle iconografie consolidate di angeli, sepolcri, busti, donne velate e rappresentazioni sacre. Tra le rappresentazioni funerarie più rilevanti a partire dalla fine dell’Ottocento si devono citare le opere di Ettore Ferrari,23 figura di primo piano nell’ambiente 195 Lo splendore della forma artistico e politico, che staccatosi dal romanticismo del primo periodo caratterizza la sua produzione in senso marcatamente realista, con un linguaggio plastico vigoroso ed efficace. Ne sono un esempio i numerosi monumenti funerari con i busti dei defunti, il sarcofago con il ritratto di Pietro Cossa (fig. 3) e ancora la Tomba di Attilio Sammartin e Natale Sacchi (1883), del tutto originale per la realizzazione: l’artista unisce a una semplice stele in marmo una barca capovolta su una finta scogliera (fig. 4), per ricordare il tragico evento in cui perirono i due giovani uomini, in gita in barca a vela nei pressi di Fiumicino; l’idea del naufragio è rafforzata dalla rappresentazione della giacca bagnata, realizzata in bronzo, e posta come appoggiata sulla barca. Il rilievo in marmo di Elvira Poggesi Viola, del 1902, con il ritratto della defunta all’interno di una stele floreale in cui è delineata la figura di una dolente, è particolarmente interessante e rivela l’apertura dell’artista a declinazioni simboliste (fig. 5).24 Per una storia della scultura a Roma 6. Giovanni Granata, Tomba Granata, 1909 196 5. Ettore Ferrari, Tomba Elvira Poggesi Viola, 1902 197 Seppure il cimitero di Roma non accoglie in maniera evidente le trasformazioni di linguaggio simboliste e liberty tra fine Ottocento e primi del Novecento, sono tuttavia diffuse le testimonianze, diversificate per produzione e livello qualitativo, che documentano l’abbandono di rappresentazioni realistico-classicheggianti in favore di elaborazioni dalle forme più fluide e lineari, e di soggetti di ambito simbolista. Ettore Ximenes, scultore fecondo e artista eclettico, capace di stemperare la sua originaria componente realista nelle cadenze liberty, realizza nel 1906 per la Lo splendore della forma sua stessa tomba – una architettura posta sul viale delle Cappelle – un rilievo in marmo raffigurante la morte che accoglie tra le braccia due giovani nudi.25 Di un classicismo neorinascimentale, unito a forme aggraziate e a una linearità fluida, sono le sculture realizzate dallo scultore abruzzese Giovanni Granata. Nel 1909 esegue per la tomba della figlia morta prematuramente la figura di un angelo in bronzo che raccoglie i petali di fiori dal grembo per gettarli sulla tomba a terra, inquadrata da una stele in pietra con elementi floreali (fig. 6). Vito Pardo, allievo di Monteverde, è particolarmente attivo al Verano con lavori monumentali: oltre alla nota Tomba della Famiglia Sinigaglia (1903) esegue anche il Monumento al generale De Rada (1905) e la Tomba Tortima (1911).26 Quest’ultima ottiene un notevole riscontro sia per il tema (l’angelo del dolore in bronzo raffigurato sullo 198 Per una storia della scultura a Roma scoglio della vita, in peperino), sia per la realizzazione di grande effetto, che riesce a suscitare nella sua semplicità espressiva sentimenti di commozione e dolcezza (fig. 7). La tendenza a una maggiore forza costruttiva e di solidità di forme si trova già nel 1909 nella Tomba Brenna, realizzata da Ernesto Biondi, autore tra l’altro del famoso gruppo dei Saturnalia conservato presso la Galleria Nazionale di Arte Moderna. La versatilità di questo artista e la profonda adesione al tema sepolcrale, data dalla sua amicizia con il defunto, contribuiscono al carattere innovativo del monumento, sia sotto il profilo della sintesi formale, sia per l’originalità della composizione articolata nel gruppo del compianto sul Cristo morto in marmo bardiglio e nella figura in bronzo della donna piangente accanto al sarcofago (fig. 8).27 Le realizzazioni di maggiore interesse e novità dopo la Prima guerra mondiale appartengono a Dazzi, che integra il Monumento a Fuà Fusinato con il busto di Arnaldo Fusinato, a Giovanni Prini, Duilio Cambellotti, Attilio Selva, Publio Morbiducci, Ermenegildo Luppi: si tratta di opere di qualità che testimoniano l’apporto specifico dell’ambiente romano alle vicende della scultura italiana degli anni Venti e Trenta. Si precisa con l’opera critica di Cianferoni e grazie alle realizzazioni, ad esempio di Duilio Cambellotti e di Giovanni Prini (fig. 9), una nuova cura nel disegno e nella plastica di ricordi di piccole dimensioni, lapidi o 7. Vito Pardo, Tomba Tortima, 1911 8. Ernesto Biondi, Tomba Brenna 199 Lo splendore della forma 9. Giovann Prini 200 steli, che costituisce un rinnovamento significativo della concezione dell’arte funeraria a partire dal primo dopoguerra. È il caso della lapide a Paolo Zucca realizzata da Duilio Cambellotti (fig. 10),28 oggi priva purtroppo della scultura con le rondini, o della stele a muro lievemente ogivale con la stilizzazione di un panneggio laterale da cui fuoriescono due mani giunte del monumento Belsito Prini. Della varia e rilevante produzione di Prini non possono non essere nominati i Monumenti Fera, Trabalza, Trapanese; di Publio Morbiducci la scultura raffigurante una Madonna della Tomba Giuliani (fig. 11), oltre al già citato Monumento ai marinai del sommergibile Sebastiano Veniero; di Ermenegildo Luppi va segnalato il Monumento Per una storia della scultura a Roma Ciolfi del 1924,29 e ancora si deve indicare il San Sebastiano di Alfredo Biagini, realizzato per lo stesso sepolcro dell’artista e della moglie. Di Attilio Selva, oltre al monumento fascista ai patrioti dalmati Arturo Colautti ed Ercolano Salvi (1930), va citato il sepolcro con una sintetica forma di donna dolente in marmo.30 Le trasformazioni culturali e artistiche del secondo dopoguerra cambiano totalmente la concezione dell’arte funeraria e il senso di rappresentazione della morte. Pochi i segni della contemporaneità nel cimitero del Verano, tra i quali, ad esempio, la scultura di Mirko, quasi un ricordo privato sulla Tomba di Corrado Cagli. In chiusura di questo excursus viene spontaneo interrogarsi sul ruolo odierno della scultura nel Verano e più in generale nei cimiteri monumentali. La consapevolezza ormai acquisita negli ultimi anni dell’immenso valore storico e artistico delle “città dei morti”, la tendenza alla conservazione e al restauro nel tentativo di restituire così come possibile le complesse relazioni originariamente esistenti tra spazio architettonico, manufatto plastico e natura, evidenziano la possibilità di intervento artistico: un intervento di lettura nuova di luoghi e manufatti, progettato e realizzato da artisti contemporanei nella scala urbana della città dei morti; non una estemporaneità di affermazione plastica o installativa che verrebbe soltanto a sovraccaricare un “troppo pieno”, ormai alterato; piuttosto la progettazione per luoghi e temi, secondo un piano unitario, di un nuovo rapporto con le aree dei cimiteri monumentali. 201 10. Duilio Cambellotti, Tomba Paolo Zucca, m. 1909 11. Publio Morbiducci Per una storia della scultura a Roma Lo splendore della forma 1 2 3 4 202 5 6 7 Cimitero del Verano in Roma (scelte dall’arch. Corrado Cianferoni), Crudo e C., Società italiana di edizioni artistiche, Torino, 1915. Tancredi, G., Pensieri religiosi e morali intorno i cimiteri, in “L’Album”, 7 dicembre 1861; tra i vari testi significativi per la definizione della fisionomia del cimitero cfr. anche Una visita al campo santo di Roma fuori porta s. Lorenzo, in “L’Album”, 1847; Gasparoni, F., Del cimitero e de’ monumenti sepolcrali di Roma, in Arti e lettere. Scritti raccolti da Francesco Gasparoni, Roma, Tipografia Menicanti, 1863, pp. 312 e sgg. Mencacci P., I cemeteri di Roma: appunti storici, Tip. Salviucci, Roma 1865. L’architetto Corrado Cianferoni è personaggio di rilievo per la storia del Cimitero del Verano a partire dal secondo decennio del Novecento. Definito come un eclettico libero da ogni accademia, moda o tendenza rinnova in senso modernista l’arte funeraria del cimitero, senza tralasciare il rapporto con la tradizione cristiana e medioevale. Dopo la cappella Barbavara di Gravellona del 1913 (Cardilli L., a cura di, Il Verano. Percorsi della memoria, Fratelli Palombi, Roma 1995, p. 43) che rielabora influenze secessioniste, realizza nel 1921 il grande portico che si distende lungo la rupe Caracciolo, ispirandosi alle costruzioni paleocristiane e alla basilica di San Lorenzo decorato con frammenti architettonici provenienti dall’Antiquarium. Tra le numerose cappelle da lui realizzate, e documentate dagli articoli dei quotidiani, si ricordano le tombe Celli e de Francesci, la Tomba Giuliani con scultura di Morbiducci (mess. 2 novembre 1924), la Tomba Maoli con la scultura Madonna di Prini. Cfr. Concorso per le edicole funerarie pel cimitero del Verano in Roma, in “Architettura e Arti Decorative”, marzo 1928, n. 7, pp. 326 e sgg. Cfr. “Il Messaggero”, 30 ottobre 1928. Cfr. Le nuove e monumentali opere al Cimitero del Verano, in “Il Messaggero”, 28 ottobre 1930; sul monumento realizzato in seguito al naufragio del Veniero cfr. Publio Morbiducci: 1889-1963; pitture, sculture, medaglie, catalogo della mostra a cura di Cardano N., Accademia Nazionale di San Luca, novembredicembre, Roma 1999, De Luca. 8 9 10 11 12 13 14 15 16 Il progetto di schedatura è stato svolto nell’ambito delle attività di catalogazione in collaborazione con Zètema Progetto Cultura. Attività di studio sono state svolte dal 2005 al 2007 nell’ambito di stage condotti in collaborazione con il corso di Storia Sociale dell’Arte della prof.ssa Luciana Cassanelli, Università di Roma La Sapienza. I risultati attuali sono stati raggiunti grazie all’impegno e alla professionalità di Laura Rendina, Michele Manucci, Monica Capalbi, alla collaborazione di Giuliana Renzella e di tutti coloro che nei diversi anni hanno coadiuvato le ricerche e gli studi. Cfr. Specialità di Lavori per Camposanto esistenti nell’Opificio Lapidario di Angelo Marochetti Marmista ed Ornatista, Con Laboratorio proprio, Litogr. Ribero, Roma 1878. In copertina viene specificato che “si accordano pagamenti a rate mensili da convenirsi”. Nel catalogo è inoltre pubblicata una circolare in cui si prevede come modalità di pagamento, oltre alle rate, la possibilità di offerte di generi di consumo (olio, vino, carbone, cerali…). Notizie sull’attività di Antonio Desio si ricavano dalle cronache dei giornali e in particolare in “Il Messaggero”, 1 novembre 1903; 2 novembre 1904; 3 novembre1906; 2 novembre 1908; 3 novembre 1921; 2 novembre 1922. Medici, marmorari romani, a cura di Priscilla Grazioli Medici, Tipografia Poliglotta Vaticana, 1988, p. 592. Cfr. Cav. Giuseppe Ciocchetti scultore direttore proprietario degli stabilimenti L’arte funeraria - S.l.: s.n., 1928; notizie sull’attività di Ciocchetti sono anche in “Il Messaggero”, 2 novembre 1919; 3 novembre 1922. Vedi Gnisci S., La politica culturale e artistica del Municipio romano dal 1870 al 1927, in Il Giardino della Memoria, p. 53. Sono documentati due bozzetti della Meditazione (cfr. Mantura B., Ettore Ferrari scultore tra il 1867 e il 1880, in “Capitolium”, 1974 (XLIX), n. 7-8, pp. 45-46 e uno del Silenzio. Cfr. la relazione presentata al concorso da F. Fabj Altini, ASL, vol. 136, n. 95. Proposta dello scultore Rinaldo Rinaldi di collocare al centro del quadriportico una statua di marmo rappresentante Gesù Cristo (ASC Titolo 61 post unitario, b. 1 fasc. 37). 17 18 19 20 21 22 23 Le spoglie di Mameli furono traslate nel 1941 nel mausoleo Ossario del Gianicolo. Sul monumento del Verano cfr. AC, Atti del Consiglio Comunale, 16 agosto 1890, Repertorio n. 547; Titolo 12, b. 12, fasc. 492, prot. 65560 1891. Ora conservato presso il Museo dei Bersaglieri in Roma. Cfr. Bencini L., Il ciclo di affreschi, in Percorsi della memoria. Il Quadriportico (…) cit., pp. 42-66. Cacchiatelli P. e Cleter G. (a cura di), Le scienze e le arti sotto il pontificato di Pio IX, Stab. tip. G. Aurelj, Roma 1865, vol. I, s.p. AC, Congressi di magistratura 1862; Tit. 61, b. 8 fasc. 466. Cfr. Cardilli L. e Cardano N. (a cura di), Percorsi della memoria. Il Quadriportico del Verano, Fratelli Palombi, Roma 1998. Alberi P. e Passalalpi Ferrari E., Le scultura romane di Ettore Ferrari, Firenze Libri, Firenze 1992. Ettore Ferrari 1845 - 1929 catalogo della mostra (a cura di Mantura B. e Rosazza Ferraris P.), 24 25 26 27 28 29 30 Palazzo della Cultura, Latina, 19881989, Mondadori, Milano 1988. La stele è stata inserita all’interno della cappella realizzata nel 1922 da Corrado Cianferoni, cfr. Cardilli, Il Verano cit., pp. 31-32. Cfr. Cardilli, Il Verano cit., pp. 54-56. Sull’opera di Vito Pardo cfr. Piccioni, A., Vito Pardo (scultore): critica, autobiografia, riproduzione delle principali opere, Soc. Tip. Ed. Taddei di A. Neppi e C., Ferrara 1922; per il monumento della famiglia Sinigaglia, cfr. Cardilli, Il Verano cit., pp. 78-80; per il Monumento al generale De Rada, cfr. “L’Illustrazione Italiana”, 1905, II, p. 41; per la tomba Tortima cfr. “Il Messaggero”, 1 novembre 1911. Rusconi, J.A., Un monumento funebre di E. Biondi, in “Emporium”, Vol. XXXI, 1910, n. 183, pp. 239-240. Cfr. Cianferoni, op. cit., ripr. Cfr. “Il Messaggero”, 2 novembre 1924. Nel catalogo della recente mostra di Attilio Selva (Trieste 1888-Roma 1970) scultore a Villa Strohl-fern altre preziose indicazioni. 203 La scultura nel Cimitero acattolico di Roma di Christina Huemer La scultura nel Cimitero acattolico di Roma 1. Funerale di Jonas Åkerström, 1795, Stockholm, Riksarkivet, Kart-och ritningssamlingen, Biographica, Akerström m. form. (riprodotta con autorizzazione) c’erano molti protestanti ma anche diversi cattolici, ed essi appartenevano a una scala sociale troppo elevata per essere sepolti con le prostitute. Poco dopo il 1702 questi protestanti cominciarono quindi a essere sepolti vicino alla Piramide di Caio Cestio, subito dentro le mura e non lontano dal Monte Testaccio. Quest’area era allora un pascolo comune. La Pira- 204 Il Cimitero acattolico di Roma, noto anche come il “Cimitero protestante”, non è il più antico di questo genere in Italia, ma è quello che offre il più lungo spettro cronologico di monumenti, dal XVIII secolo a oggi. Del resto, il cimitero è usato ancora oggi, e offre un luogo di riposo eterno non solo ai cristiani protestanti, ma anche ai cristiani ortodossi greci e russi, ebrei, musulmani, e a persone di tante altre fedi e filosofie. Prima del XVIII secolo, i protestanti e gli altri “eretici” che morivano a Roma di solito venivano sepolti fuori le mura, spesso in un luogo chiamato il Muro Torto, assieme a prostitute, criminali, e altri “peccatori” o persone indesiderabili. 1 Ai protestanti era proibito dal diritto canonico di essere sepolti in terra consacrata. Nell’epoca del Grand Tour, quando un numero crescente di ricchi europei del Nord venivano in Italia, divenne necessario provvedere a un luogo di sepoltura che non avesse tali associazioni negative. Un importante fattore fu il fatto che la corte britannica degli Stuart fosse in esilio a Roma, dove Giacomo III Stuart trovò la protezione del Papa, poiché nell’ambiente degli Stuart 205 2. Giovanni Battista Piranesi, Monumento James MacDonald (m. 1766) Lo splendore della forma La scultura nel Cimitero acattolico di Roma 3. Erik Gustav Goethe, Monumento Eliza Watson Temple (m. 1809), 1810 206 mide, con le sue evidenti connotazioni funerarie e la sua bella e semplice forma, e le adiacenti Mura Aureliane avevano già suscitato una grande attrazione fra gli artisti. Durante gli ultimi anni del XVIII secolo, i protestanti venivano sepolti qui in tombe generalmente senza alcun segno, poiché le regole funerarie del tempo vietavano epitaffi e monumenti. La sepoltura di solito avveniva di notte (fig. 1), per evitare di dare nell’occhio e, più tardi, durante le epidemie di colera, per evitare il contagio. Nel 1765, semplici monumenti ed epitaffi cominciarono a essere permessi, anche se il loro contenuto era ancora sottoposto a regole molto strette. Le croci, simbolo cristiano, e ogni riferimento all’aldilà erano scoraggiati (a quel tempo perfino per i Cattolici) e infatti sono molto rari. I primi monumenti furono approvati dal Papa in persona. Per il monumento funebre di James MacDonald,2 giovane membro della corte degli Stuart che morì nel 1766, Giovanni Battista Piranesi scelse un’antica colonna romana, e aggiunse un’iscrizione in cui è presente anche il suo nome come autore della tomba (fig. 2). La semplicità di questa tomba è solo apparente, poiché combina due motivi antichi: la colonna spezzata è un antico simbolo dell’interruzione della vita con la morte, mentre la forma dell’iscrizione è simile a quella di un’antica pietra miliare romana.3 Una singola colonna fu anche la scelta nel 1807 per il figlioletto di Wilhelm von Humboldt, ambasciatore prussiano presso la Santa Sede, che fu il primo a ottenere il permesso per una tomba di famiglia. Per l’importanza di questa concessione, i tedeschi assunsero le mag- 4. Monumento a John Keats (m. 1821) 207 giori responsabilità nella cura del cimitero per tutto il XIX secolo, anche se il cimitero era (e ancora lo è tra gli italiani) comunemente noto come “il Cimitero Inglese”. Tre tipi di monumenti, tutti ispirati all’antichità classica, erano popolari prima del 1810: la colonna, il sarcofago, e il piedistallo (o altare). Se c’è qualche scultura in rilievo è di solito limitata all’immaginario araldico o a motivi molto semplici, come la brocca e il disco come riferimento al rito delle libagioni funerarie. Anche i primi esempi di altorilievo nel cimitero sono neoclassici. Il primo fu la bella lapide eretta in memoria dell’americana Elisa Watson, Lady TempIe (17711809), moglie amata e madre di quattro figli. Essa è modellata sull’esempio dei rilievi degli altari romani, con scene di dipartita e di lutto (fig. 3). Lo scultore fu Erik Gustav Goethe, uno svedese. Il poeta John Keats, come molti altri sepolti nella parte Lo splendore della forma 5. Richard Westmacott II, Monumento Rosa Bathurst (m. 1824) 208 più antica del cimitero, non era né ricco né famoso quando morì nel 1821. Non volle il suo nome sulla lapide, ma solo il verso: “Qui giace colui il cui nome è scritto nell’acqua”.4 Chiese anche l’immagine di una lira greca, con una corda spezzata, simbolo del silenzio della voce del poeta (fig. 4). Questo motivo, unico nel cimitero, è ispirato alla poetica di Keats, specialmente al suo Endymion, ma le sue radici sono nell’antichità.5 L’anno dopo la morte di Keats, fu costruito un muro attorno alla parte più antica del cimitero, poi nota come la Parte Antica, e una nuova sezione fu creata verso occidente, con terrazze regolari. Non furono più permesse altre sepolture nella Parte Antica, anche se questa regola fu occasionalmente violata. Nel 1824 Rosa Bathurst all’età di 16 anni annegò nel Tevere dopo essere scivolata durante una festa ippica. Sua madre, che aveva già perso il marito in circostanze misteriose, riversò tutto il suo dolore in una lunga iscrizione sia in inglese che in italiano. I rilievi dello scultore inglese Richard Westmacott II mostrano un genio che La scultura nel Cimitero acattolico di Roma consola una figura femminile piangente (su un lato, fig. 5) e che tiene una torcia capovolta (sull’altro). Era quanto di più vicino alla rappresentazione della speranza cristiana di una vita dopo la morte a quel tempo fosse immaginabile, ma il tema era ancora rigorosamente sviluppato in stile neoclassico. Questa tomba fu resa famosa da Henry James, il quale la vide per la prima volta nel 1871 e la descrisse nel suo libro Italian Hours.6 I ritratti a rilievo si diffusero alla fine degli anni Venti del XIX secolo. Alcuni dei primi furono realizzati da Bertel Thorwaldsen, un danese, uno degli scultori più famosi della sua generazione. Il suo rilievo di August Goethe, il quale morì nel 1830 ed era l’unico figlio di Johann Wolfgang Goethe, era originariamente in marmo ed è stato sostituito da una copia in bronzo.7 Lo scultore inglese John Gibson, sepolto nel cimitero, fu l’autore dei ritratti del collega Richard Wyatt e del proprio fratello Benjamin. La lapide anonima del pittore russo Karl Brjullov (1799-1852) combina il ritratto di Brjullov con vari altri simboli, inclusi i pennelli e le tavolozze dell’artista con una classica scena di lutto. I ritratti veri e propri sono molto più rari. Devereux Plantagenet Cockburn, un soldato scozzese che morì nel 1850 all’età di 21 anni (fig. 6), fu rappresentato come una figura distesa, con il suo cane preferito e un’iscrizione che loda le sue “rare doti intellettuali e fisiche”. Lo scultore era Benjamin Edward Spence (1822-1866), di Liverpool, che studiò con Richard Wyatt a Roma. 209 6. Benjamin Edward Spence, Monumento Devereux Plantagenet Cockburn (m. 1850) Lo splendore della forma Quando nel 1870 si perfezionò l’Unità d’Italia con l’inclusione di Roma, i Protestanti furono autorizzati a esercitare il culto liberamente e cominciarono a costruire le loro chiese dentro le mura di Roma. Le vecchie restrizioni sulle forme dei monumenti funebri nel cimitero furono cancellate. Croci e altri simboli cristiani furono accettati. Nuovi monumenti furono costruiti per persone che erano morte molto tempo prima, come la croce celtica eretta nella Parte Antica per John Bell, un chirurgo scozzese, morto nel 1820, la cui tomba era segnata solo da una semplice lastra. Anche le sculture a tutto tondo divennero più comuni. La diciassettenne Maria Obolensky (1855-1873), per esempio, fu rappresentata come un’allegoria della 210 La scultura nel Cimitero acattolico di Roma malinconia, seduta davanti alla porta semi aperta della camera della tomba, persa nei suoi pensieri o nel suo dolore. Lo scultore americano Richard Greenough (1819-1904) eresse la sua splendida Psiche che si spoglia della mortalità sulla tomba di sua moglie nel 1886. Questa tomba fu descritta da Gabriele D’Annunzio nel suo romanzo Il Piacere come appariva nella prima luce della sera: “La statua di Psiche in cima al viale centrale aveva assunto un pallore di carne”.8 L’immaginario classico prevalse anche nella tomba del mecenate finlandese Victor Hoving (1846-1876), scolpito dal suo compatriota Walter Runeberg che realizzò un genio alato che solleva un ramo di palma, e in quella del pittore tedesco Hans von Marees (18371887), con una scena allegorica dell’artista incoronato dalla Musa (fig. 7). Nell’ultimo decennio del XIX secolo ci fu una significativa diffusione degli angeli, specialmente nei monumenti americani.9 Forse il più noto è l’Angelo del dolore dello scultore William Wetmore Story per la tomba della moglie Emelyn, morta nel 1895 (fig. 8). Franklin Simmons (1839-1913), anche lui americano, creò il suo Angelo della Resurrezione come monumento per la sua seconda moglie, Ella, morta nel 1905. Il monumentale bronzo di Hendrik Christian Andersen, l’Angelo della Vita (1912), non domina più il cimitero come fece dal 1918 al 1933, ma si può vedere nel suo museo a Roma.10 211 7. Monumento Hans van Marees (m. 1887) 8. William Wetmore Story, Monument Emelyn Story (m. 1895) La scultura nel Cimitero acattolico di Roma Lo splendore della forma 9. Ettore Ximenes, Monumento Thomas Jefferson Page (m. 1899) In ogni tappa della storia del cimitero, comunque, e specialmente nel corso del XIX secolo, se si confrontano i monumenti del cimitero non cattolico con i monumenti contemporanei del Campo Verano o di ogni altro cimitero cattolico italiano, l’impressione generale è di sobrietà e di un certo ritegno nella decorazione scultorea. È stato spesso detto che tale estetica fu determinata dalle restrizioni imposte dal governo papale, ma è più probabile che la causa sia stata una sorta di autocensura da parte dei protestanti stessi. Inoltre, nell’estetica delle sculture si riflette quanto sia durata l’attrazione verso lo stile neoclassico tra gli europei del nord e gli americani. Del resto, proprio la collocazione del cimitero accanto alla Piramide condizionò la scelta dei monumenti. Soltanto alla soglia del XX secolo, nelle parti del cimitero più distanti dalla Piramide, si nota un’estetica più libera, basata sul movimento internazionale dell’Art Nouveau, che però durò per un periodo comparativamente più breve. 213 212 L’Art Nouveau è rappresentata in vari monumenti nelle parti più recenti del cimitero. Una delle tombe più belle fu realizzata dallo scultore italiano Ettore Ximenes per Thomas Jefferson Page, comandante navale americano, morto nel 1899 (fig. 9). Il pittore Elihu Vedder creò una figura femminile in lutto, con la testa coperta, per sua moglie e i suoi figli.11 Un’opera tarda, poco conosciuta, dello scultore maltese Antonio Sciortino per Violet May Court (1915) è la figura di un angelo chino che raccoglie fiori. Dopo la Seconda guerra mondiale il cimitero fu posto sotto il controllo di un comitato internazionale di ambasciatori di nazioni non cattoliche, una situazione che permane ancora oggi. Le scelte estetiche venivano di solito assunte dai rappresentanti delle varie accademie scientifiche straniere in Italia, che per quasi tutto il XX secolo favorirono un approccio omogeneo ai problemi della conservazione.12 1 Per la storia del Cimitero vedi: CarI Nylander et al., The Protestant Cemetery in Rome: the “Parte Antica” pubblicato da Antonio Menniti Ippolito e Paolo Vian (Unione Internazionale degli Istituti di Archeologia, Storia e Storia dell’Arte in Roma, Roma 1989); Wolfgang Krogel, All’ombra della Piramide: storia e interpretazione del Cimitero acattolico di Roma (Unione internazionale degli istituti di archeologia storia e storia dell’arte in Roma, Roma 1995); CarI Nylander, “The people at the pyramid: notes on the Protestant cemetery in Rome”, in: Suecoromana. /. Docto peregrini: Roman studies in honour of Torgil Magnuson (Istituto Svedese di Studi Classici, Stockholm 1992), pp. [221]-249; Catherine Payllng, The Non-Catholic Cemetery in Rome: a history, “Keats-Shelley Review” 20 (2006), pp. 52-57. 2 3 4 Il primo nome presente nei documenti (William Ellis) è datato 1732, mentre i resti della prima sepoltura possono essere datati 1738: George Langton, un inglese, il cui nome è noto grazie a uno scudo in piombo che copre i suoi resti. Cfr. Roberta Battaglia, Giovanni Battista Piranesi e il monumento funebre: la tomba MacDonald, Prospettiva 73/74 (1994):, pp. 169-179. Per la storia della morte di Keats e su come la sua tomba divenne la più celebre nel cimitero, un magnete per gli amanti della poesia e un’icona del movimento romantico, vedi Keats and Italy: a history ofthe Keats-Shelley House in Rome (Il labirinto, Roma 2005) e Catherine Payling, “An Echo and a Light unto Etemity: the Founding ofthe Keats Shelley Memorial House” (with Italian translation) in Spellbound by Rome: The Anglo-American Community Lo splendore della forma 5 6 214 in Rome (1890-1914) and the Founding ofthe Keats-Shelley House (Palombi, Roma 2005), pp. 23-36. Cfr. John Curtis Franklin, “Once more the poet: Keats, Sevem, and the Grecian Iyre”, Memoirs of the American Academy in Rome, 48 (2003), pp. 227-239. Henry James, anche se non è sepolto a Roma, è presente spiritualmente in questo cimitero, grazie al suo Daisy Miller e ai suoi numerosi amici della vita reale che furono sepolti qui. Egli riassunse la speciale intensità del luogo in ltalian Hours: “... the most touching element of all is the appeal of the pious English inscriptions among all those Roman memories; touching because of their universal expression of that trouble within trouble, misfortune in a foreign land” (H. James, ltalian Hours, Grove Press, New York 1959, p. 159, originariamente pubblicato nel 1909). 7 8 9 10 11 12 Il rilievo in marmo originale di questo monumento e quello di Heinrich Reinhold (1825) furono rimossi nel 1962 e si trovano ora al Museo Thorwaldsen di Copenhagen. In G. D’Annunzio, Prose di romanzi, a cura di E. Bianchetti, Milano 1968, I: 357. Cfr. Regina Soria, “American artists in the Protestant Cemetery” (with Italian translation) in Spellbound by Rome cit., pp. 65-77. Museo Hendrik Christian Andersen, via Pasquale Stanislao Mancini 20, Roma. Sebbene Vedder avesse precedentemente perduto due figli, la costruzione della tomba di famiglia risale probabilmente al 1909, anno idella scomparsa della moglie Caroline. Vedder morì nel 1925 ed è sepolto nella stessa tomba. Il presente studio considera solo le fasi fino all’inizio della Prima guerra mondiale. Dall’ideale al vero e ritorno: passeggiata tra le opere scultoree del cimitero monumentale di Verona tra Ottocento e Novecento di Camilla Bertoni Se nel XIX secolo è stata così lenta la conquista della rappresentazione del vero in opposizione alle istanze idealizzanti di matrice neoclassica, in maniera speculare è stato difficile nel XX secolo il superamento della celebrazione della memoria attraverso la mimesi del reale. Solo negli anni ’80 del Novecento compaiono nel cimitero monumentale di Verona soluzioni che si avventurano nel regno della simbologia più o meno astratta della morte, del compianto e del ricordo. Questa passeggiata tra le tombe monumentali del sepolcreto veronese intende ricostruire alcuni passaggi di questa vicenda artistica. In ritardo rispetto ad alcune città come Faenza, Brescia e Vicenza che tra le prime mettono in atto i progetti dei nuovi cimiteri secondo il decreto napoleonico, ma in anticipo rispetto a molte altre (a Milano la costruzione del nuovo cimitero inizia nel 1860), Verona vede prolungarsi la realizzazione del maestoso edificio disegnato da Giuseppe Barbieri dal 1829 fino agli albori del nuovo secolo. Fino al 1855 sono molto pochi i monumenti eretti in cimitero, la maggior parte delle realizzazioni avverranno infatti nella seconda 215 Lo splendore della forma 216 metà del secolo. Il primo monumento significativo è quello per la Tomba Emilei di Innocenzo Fraccaroli (Castelrotto, VR 1805-Milano 1882) del 1836 circa: una semplice edicola, conclusa in alto da un timpano di classica memoria, con i simboli della vita che si spegne, le fiaccole rovesciate, e della vita eterna dell’anima, la lucerna. L’artista veronese, dal 1825 trasferito a Venezia e dal 1836 a Milano, aveva già a queste date modellato la statua destinata a renderlo universalmente celebre, l’Achille ferito, e riceverà a Verona committenze per diversi altri monumenti funerari, alcuni scomparsi sotto i bombardamenti della Seconda guerra mondiale, altri tuttora esistenti come quello per la famiglia Bonomi del 1838. È proprio in questo monumento che si inizia ad affrontare in maniera “moderna” la possibilità che la scultura possa glorificare l’uomo e la sua esistenza reale nel tempo attuale, senza tradire i grandi modelli del passato. Una questione ideologica, questa del rapporto tra vero e ideale, alla base del dibattito artistico per tutto il secolo, con riferimento particolare alla scultura. Allievo di Fraccaroli, Grazioso Spazzi (Verona 18161892) si riferisce direttamente al maestro quando realizza il Monumento Dalla Riva, del 1842 (fig. 1), che gli fece guadagnare un discreto successo. Si riconosce l’insegnamento neoclassico, gli elementi della compo- 1. Grazioso Spazzi, Tomba Dalla Riva, particolare, 1842-45 c. Dall’ideale al vero e ritorno 2. Giovanni Spazzi e altri, Monumento a Angela Erbisti, 1852 sizione sono gli stessi utilizzati da Fraccaroli nel Monumento Bonomi, ma l’atmosfera è cambiata con l’introduzione di un maggiore realismo nella figura della madre ritratta in età senile. Dopo il classicissimo del monumento con il ritratto clipeato del marchese Carlo di Canossa, morto nel 1844, di Lorenzo Muttoni (Verona 1798 ca.-1882), a dominare la scena artistica cittadina, e a ricevere le più impegnative committenze pubbliche, saranno i membri della famiglia Spazzi. Distrutto il Monumento Sacchetti del 1850, le loro capacità innovative volte verso un sempre maggiore realismo si leggono soprattutto nel Monumento ad Angela Erbisti (fig. 2) commissionato nel 1852 dai figli Paolo e Antonio Brenzoni a Giovanni Spazzi, fratello di Grazioso, con il concorso di altri artisti veronesi. Appartenente a una nobile famiglia cittadina, Paolo aveva sposato la poetessa e patriota Caterina Bon: mentre Caterina alla morte (1856) lasciò una cospicua eredità alla città destinata al mantenimento dei poveri, il marito, morto nel 1869, lasciò invece i suoi beni a favore dell’arte, destinando le ricchezze alla fondazione di 217 Lo splendore della forma 3. Ugo Zannoni, Monumento a Maria Smania, 1880 218 una scuola gratuita di pittura e scultura. La rappresentazione del momento del distacco dalla famiglia sul letto di morte era innovativa destinata a lasciare il segno. Bisognerà aspettare però ancora fino al 1880, con il Monumento a Maria Smania (fig. 3) scolpito da Ugo Zannoni, perché la scena familiare acquisisca dimensioni reali. I tempi per un vigoroso realismo a Verona non erano ancora maturi, la posizione vincente, in bilico tra istanze classiche e aperture veristiche, sarà a lungo ancora quella di Grazioso Spazzi che ottenne al cimitero gli incarichi più impegnativi e prestigiosi: nel 1843 per eseguire le diciotto metope con Storie del Vecchio e Nuovo Testamento per il frontone della chiesa – la cui costruzione era stata terminata nel 1844 –, mentre nel 1855 aveva consegnato le tre figure dedicate alle virtù teologali Fede, Speranza e Carità1 da collocarsi sopra il medesimo frontone al centro del quale compare l’iscrizione Piis Lacrimis. In questo caso il soggetto seguiva delle precise disposizioni lasciate da Barbieri, mentre per i due pantheon laterali, Ingenio claris e Beneficis in Dall’ideale al vero e ritorno patriam, Barbieri non aveva fatto in tempo a definire il progetto: questo comportò la ripresa della questione a partire dagli anni ’60 con lunghi strascichi. Innocenzo Fraccaroli, ormai considerato milanese a tutti gli effetti, ricevette ancora qualche incarico per il cimitero di Verona: si può documentare il Monumento Tessari (anche questo oggi non più esistente, ne resta un disegno) del 1853 circa. Quanto Paolo Brenzoni aveva spinto il giovane scultore Giovanni Spazzi verso un maggiore realismo, tanto invece Fraccaroli restava qui, forse anche per influenza del committente, legato a una composizione neoclassica a figure simboliche, classicamente panneggiate, destinata a non avere alcun seguito nella seconda metà del secolo. Tra gli anni ’50 e ’60, sono di Grazioso e Giovanni Spazzi le firme più ricorrenti al cimitero scaligero: Giovanni scolpisce nel 1852, per il piccolo Giulio Bassani, l’Angelo danneggiato dai bombardamenti del 1944; con una romantica infrazione alle regole degli spazi cimiteriali concessi alla scultura, Giovanni Spazzi faceva “volare” il suo angelo al di sopra del cornicione, collocandolo nella vela del soffitto voltato dell’ambulacro a colonne. Al 1853 risale invece la possente figura togata dell’avvocato Giovan Battista Cressotti che campeggia gigantesca nell’angolo tra i due colonnati. Nel 1854 un’apparizione del più puro classicismo della vecchia scuola con il Giovanni Spazzi faceva Monumento Peccana di Alessandro Puttinati (Verona 1801-Milano 1872), unico da lui firmato al monumentale di Verona. Intanto entrava sotto il colonnato la prima realizzazione tra le poche “forestiere”, quella dell’Angelo della Carità per la Tomba di Teresa Muselli Vela del 1853 con i due realistici “straccioni” a piedi nudi del veneziano Luigi Ferrari (1810-1894). Al 1862 risale la statua di Caterina Bon Brenzoni, poetessa e benefattrice, effigiata come Santa Elisabetta d’Ungheria, con corona d’alloro e lira ai piedi, dal viterbese Pio Fedi (Viterbo 1825Firenze 1892), ma collocata nel pantheon Ingenio claris solo nel 1923, dopo infinite discussioni in merito alle onorificenze da riservarsi ai cittadini illustri. Nel caso dell’Immacolata per la Cappella Canossa (1864) era stata forse l’origine toscana della famiglia che aveva fatto 219 Lo splendore della forma 4. Giovanni Duprè, Monumento Monga, 1871 220 optare per uno scultore di Firenze, Aristodemo Costoli (Firenze 1808-1871), mentre nel caso del Monumento Monga, inaugurato nel 1871, la morte prematura del veronese Torquato Della Torre aveva portato a coinvolgere il senese Giovanni Duprè (Siena 1817-Firenze 1882) (fig. 4). L’insegnamento purista di Costoli si sposa, anche nelle sculture dell’allievo Duprè, con un equilibrato e composto naturalismo. Al cimitero di Verona gli Spazzi furono ancora autori insieme del Monumento Gandini Morelli Bugna - Bottagisio in marmo bianco di Carrara, con il manierato Angelo della Giustizia inserito nella classica nicchia a candelabre. Morto Giovanni nel 1866, nel 1867 Grazioso ricevette ancora qualche incarico, e gli toccherà soprattutto l’onore di lavorare al completamento della facciata del cimitero all’inizio degli anni ’80, scolpendo le due Prèfiche nella lunetta posta sopra l’ingresso, opera in cui sarà coadiuvato dal figlio Carlo. Ma i maggiori protagonisti dei lavori in facciata saranno però Giuseppe e Cesare Poli insieme a Giacomo Grigolli. Ormai la fama di Spazzi, al suo vertice tra gli anni ’50 e ’60 (nel 1862 fu premiato all’esposizione di Firenze), aveva iniziato la sua discesa: il testimone passerà ai figli Carlo e Attilio, mentre splendeva ormai l’astro di Ugo Zannoni (Verona 1836-1919). Dall’ideale al vero e ritorno Vincitore del concorso per il Monumento a Dante, inaugurato nel 1865 ancora sotto dominazione austriaca, Zannoni ebbe grandissimo successo alle esposizioni internazionali con una ricchissima produzione di statuine di genere, ma quando la committenza glielo consentiva lo scultore, in breve trasferitosi a Milano dove lavorò al cantiere del Duomo, divenne un grande interprete della realtà. La sua prima grande opera al cimitero veronese è il Monumento Trezza del 1877 per il quale venne subito evocato un – giustificato – parallelo con il Napoleone morente di Vincenzo Vela che aveva fatto furore all’Esposizione Universale di Parigi di dieci anni prima. Ma la morte eroica dell’imperatore veniva qui ricondotta a una dimensione borghese. Zannoni metteva in campo il suo caratteristico stile eclettico, definito all’epoca “bizantino”, giocato sugli eleganti cromatismi e sui virtuosismi tecnici. Nel 1886 Zannoni stupiva ancora con il Monumento Erbisti Smania per il coraggio di rappresentare una realtà famigliare intima, con i figli raccolti intorno alla madre morente. Zannoni fu tacciato di eccessiva leziosità, di indulgere un po’ troppo all’eleganza, ma fece clamore la capacità dell’autore di tradurre nel marmo la qualità tattili di stoffe e pizzi. La facciata del cimitero fu completata con l’Angelo della Risurrezione realizzato da Giuseppe Poli, maestro di scultura all’Accademia Cignaroli a partire dal 1877 fino al 1890 o 1891 che formò la nuova generazione di scultori nati tra gli anni ’50 e ’60 come Giacomo Grigolli, il figlio Cesare Poli, Pietro Bordini, Luigi Marai e Romeo Cristani, che infine gli succederà nella carica accademica. L’iconografia “dell’angelo ritto con la tromba”, accompagnato dalla legge e dalla storia, era già stata suggerita a suo tempo nei disegni di Barbieri, mentre alcuni dubbi sorsero sulla figura da porsi sul lato interno, che si credette di poter interpretare come quella del Profeta Ezechiele che pronuncia le parole per la risurrezione (“ossa arida audite verbum domini”). Il relativo concorso fu bandito nel 1878, i lavori furono conclusi dagli artisti selezionati all’inizio del 1882: Giacomo Grigolli, che lavorava in società con i Poli, veniva pagato 11.500 lire per il gruppo sul frontone esterno (rifatto 221 Lo splendore della forma 222 negli anni ’60 del Novecento dal veronese Gino Bogoni); Carlo Spazzi, figlio di Grazioso, riceveva 9.000 lire per l’Ezechiele; Grazioso e Carlo Spazzi 5.000 lire per il gruppo con le “donne piangenti”; gli scultori Poli e Grigolli 4.000 lire per i tre bassorilievi dell’ingresso; Angelo Pegrassi 1.260 per i due vasi funerari sotto l’atrio, infine Francesco Pegrassi (Verona 1838-1899), figlio di Salesio, 4.675 lire per i due leoni sulla gradinata, copia da quelli canoviani del Monumento a Clemente XIII. Questa citazione canoviana diventa quasi uno stereotipo cimiteriale: due felini gemelli compaiono infatti, fin dalla fine degli anni ’20, anche all’ingresso del cimitero vantiniano di Brescia, scolpiti per mano dello scultore bolognese Democrito Gandolfi. Il leone, scelto da Canova come simbolo della potenza spirituale e terrena del papa, aveva anche una valenza simbolica legata al tema della resurrezione, quindi la citazione assumeva il doppio valore simbolico con l’omaggio al “divino scultore”. Isolati dal contesto originario, incrementano la loro valenza naturalistica rispetto all’idea neoclassica che stava alla base del monumento a Clemente XIII. Ugo Zannoni intanto, dopo aver vinto il concorso per il Monumento Aleardi, in un momento storico in cui cominciava a scemare l’entusiasmo ottocentesco per le celebrazioni scultoree, nel 1886 firma un altro dei suoi capolavori cimiteriali, il Monumento a Calisto Zorzi, un capomastro che con le sue mani si era costruito una grande ricchezza, ricordato per la generosità e la munificenza verso la classe sociale dalla quale proveniva, virtù che vennero effigiate nella scena del monumento funebre. Dopo una committenza al Monumentale di Milano, Zannoni realizza a Verona nel 1894 l’ultimo grande monumento cimiteriale veronese per la famiglia Allegri-Zorzi (fig. 5). Gli elementi sono quelli consueti: il “bizantinismo” dell’inquadratura architettonica, la profusione di marmi, bronzi e dorature, l’estremo realismo della lavorazione marmorea, la costruzione di una scena reale, l’inserimento di un rappresentante delle classi umili secondo il credo positivista della classe alto borghese di cui l’autore si fa portavoce. Da questo momento Zannoni ripeterà i suoi stilemi funerari senza trovare più i danarosi committenti di un Dall’ideale al vero e ritorno 5. Ugo Zannoni, Monumento Allegri Zorzi, 1894 223 tempo, limitandosi quindi a lavorare più in piccolo, dimensione che evidentemente meno gli si confaceva. L’epoca grandiosa era per lui ormai terminata. Coetanei di Cristani e Bordini, Carlo e Attilio Spazzi, nati rispettivamente nel 1854 e nel 1859, formatisi probabilmente alla scuola del padre Grazioso, oltre a eseguire i gruppi per i frontoni del cimitero, firmarono insieme molte sculture al cimitero di Verona, tra le quali la più significativa è quella per la Tomba Pindemonte-Moscardo del 1898 (fig. 6). Il tema dell’angelo che accoglie l’anima della morente era stato felicemente affrontato da Giulio Monteverde al cimitero di Ferrara alla fine degli anni ’70. Il pittoricismo e gli effetti luminosi di superficie ottenuti dai due Spazzi denotano un aggiornamento dei due giovani scultori, anche forse sull’esempio di Monteverde, ma i due autori restano nel campo di un persistente verismo e non si può ancora parlare di simbolismo. Carlo Spazzi ebbe molto successo a Vicenza dove nel 1893 fu Lo splendore della forma Dall’ideale al vero e ritorno 7. Loculo Umberto Boccioni, 1916 6. Carlo e Attilio Spazzi, Monumento Pindemonte-Moscardo, 1898 224 molto elogiato il Monumento Zanella; nel cimitero di quella città ottenne di conseguenza diversi incarichi. Con la morte di Giulio Camuzzoni nel 1886, si chiude un’epoca: il sindaco di Verona, presidente per anni dell’Accademia di Agricoltura, Scienze e Lettere e della Società di Belle Arti, era stato uno dei principali protagonisti delle vicende legate alla scultura monumentale veronese, soprattutto al di fuori della cinta del cimitero. Con il suo monumento funebre scolpito da Romeo Cristani, divenne protagonista anche all’interno: Cristani cercò un tema originale, quello di Verona riconoscente rappresentata come giovane donna operosa, che ricama il nome del defunto, con il capo coronato dall’Arena, e diede il massimo di sé nella resa dei morbidi modellati. Ma la simbologia non fu apprezzata, e l’opera venne molto criticata. Cristani insomma si era mosso a disagio tra vecchio e nuovo secolo, tra rappresentazione realistica e traduzione in chiave simbolica, e vedrà nascere nuove polemiche e incomprensioni anche all’inaugurazione dell’Umberto I nel 1906 mentre nel 1899 aveva perso la cattedra di scultura all’Accademia Cignaroli. Se anche Bordini, Cristani e i giovani Spazzi2 continueranno a lavorare nel nuovo secolo, ormai la stagione della scultura monumentale ottocentesca si era chiusa e il Novecento apriva le porte a un linguaggio a loro non più comprensibile. Il nuovo secolo non vede la scultura funeraria godere di quell’interesse che l’aveva vista al centro della vita culturale cittadina nel XIX secolo. Il dispendio per la conclusione dell’edificio cimiteriale, nel quale le principali famiglie nobiliari e alto borghesi avevano già fatto realizzare i propri monumenti, le difficoltà economiche legate anche ai conflitti mondiali che causarono la distruzione in parte dell’edificio, le trasformazioni culturali che avevano fatto progressivamente perdere fiducia e interesse verso gli atti commemorativi, atti che ripresero temporaneamente vigore nella “monumentomania” che esplose, non senza critiche, alla fine della Prima guerra mondiale in ricordo dei caduti, furono tra le cause del declino della scultura monumentale funeraria. Ciononostante si possono ancora elencare alcuni episodi degni di nota nel corso del XX secolo, che vide anche l’ampliamento della fabbrica cimiteriale che ne risultò quasi raddoppiata. 225 Lo splendore della forma Dall’ideale al vero e ritorno 8. Tullio Montini, Monumento Fedrigoni, 1916 9. Ruperto Banterle, Monumento Galtarossa, 1924 226 In questo nuovo settore la produzione di lapidi istoriate a motivi vegetali e floreali, spesso con ritratti in rilievo, in generale risalenti al secondo e terzo decennio del Novecento, rappresenta la parte di maggior interesse. Tra queste lapidi si trovano quelle di molti artisti protagonisti della vita culturale cittadina del nuovo secolo, come Angelo Dall’Oca Bianca, i Trentini, o anche quella del pittore e scultore futurista Umberto Boccioni, originario di Reggio Calabria ma morto a Verona nel 1916 (fig. 7). Anche alcuni episodi scultorei sono degni di nota, in particolare quello del Monumento Fedrigoni di Tullio Montini (Verona 1878-1964) (fig. 8). Un episodio questo che però si pone ancora in linea con la tradizione 10. Mario Salazzari, La cacciata Cappella Pomari, 1964 11. Pino Castagna, Tomba Carlini, 1989 celebrativa ottocentesca, come in generale accade anche con le molte opere di Egidio Girelli (Verona 1878-1972). Curiose e diverse le citazioni, più o meno fedeli all’originale, del Pensatore di Rodin, come quella di Francesco Modena (Verona 1878-1972) o di Ruperto Banterle (Verona 1889-1968). Quest’ultimo nel Monumento Galtarossa (fig. 9) si dimostra però capace di aggiornamenti novecenteschi, dove evidentemente anche la committenza lo consente. Nel Monumento Falceri degli anni ’20 di Emilio Prati (Verona 1889-San Paolo del Brasile 1979) si incontra invece una mescolanza di citazione neogotica e gusto liberty secondo la moda in auge a cavallo tra i due secoli. Bisogna attendere gli anni ’60 del Novecento per incontrare un episodio che resta purtroppo piuttosto isolato, che si distacca dagli altri per la capacità di conciliare il compito commemorativo o i temi biblici ed evangelici con l’aggiornamento del linguaggio e con la forza innovativa dell’invenzione formale. Si tratta delle parti scultoree firmate dal veronese Mario Salazzari (Verona 19041993) nella Cappella Pomari del 1964 (fig. 10): le formelle bronzee, chiaramente ispirate al portale della basilica di San Zeno, ma libera e notevole interpretazione di quell’esempio, o anche l’Anima dolente bronzea per la Cappella Paini dello stesso autore. Salazzari utilizza qui ciò che lui stesso definisce il linguaggio del “vuoto per il pieno” e rilegge la scultura romanica del portale di San Zeno creando un insieme di grande qualità. Nella Cappella Carlini, realizzata nel 1989 dallo scultore veronese Pino Castagna (Verona 1932), l’autore opta 227 Sull’arte della Certosa di Bologna in epoca neoclassica: dal prevalere della pittura all’affermazione della scultura di Emanuela Bagattoni Lo splendore della forma 12. Riccardo Cassini (scultore), Gilberto Barbesi (architetto), Tomba Bonazzi, 1981 228 per un’elaborazione quasi astratta dello spazio, definito anche attraverso la vegetazione, ricorrendo a simboli molto “leggeri” come le pietre su cui sedersi a meditare sul ricordo (fig. 11). Infine ancora un autore veronese, Riccardo Cassini (Verona 1945), firma le opere scultoree della Cappella Bonazzi del 1981, la cui architettura si deve a Gilberto Barbesi (fig. 12). L’idea scultorea si svolge intorno allo scorrere del tempo rappresentato attraverso le quattro pagine scolpite a bassorilievo sulle quali un bocciolo vive le sue quattro stagioni. 1 Il gruppo, non più esistente, si intravede in una foto le cui lastre originali sono conservate al Museo civico di Castelvecchio di Verona. In una foto nella fototeca della Biblioteca Civica di Verona, e risalente ai rifacimenti degli anni ’50 successivi ai bombardamenti, si nota il gruppo evidentemente sopravvissuto alla guerra, ma nessuno dei quattro gruppi posti sui frontoni dal lato interno al cimitero fino a oggi è stato reperito. 2 Cristani morì l’11 gennaio 1920, Bordini il 28 aprile del 1922, Attilio Spazzi sotto le bombe del 1915 mentre il fratello Carlo continuò a lavorare fino al 1936. * Per le fonti e le citazioni bibliografiche cfr.: Bertoni, C., La scultura monumentale 1836-1896, in Ottocento a Verona, a cura di Marinelli, S., Milano, 2001. Con l’apertura del cimitero comunale nel soppresso monastero della Certosa, avvenuta nel 1801,1 in netto anticipo rispetto all’editto napoleonico di Saint-Cloud (promulgato in Francia nel 1804 ed esteso all’Italia nel 1806) e alla realizzazione dei primi cimiteri nei più importanti centri urbani italiani ed europei, Bologna rivestì un ruolo pionieristico relativamente ai nuovi usi sepolcrali che si sarebbero imposti nell’età a venire. Un tema, quello relativo all’importanza dei sepolcri e alla necessità di cambiarne l’ubicazione che, in quel tempo, fu oggetto di interesse internazionale sia per le fondamentali implicazioni sociali e culturali, sia per quelle igieniche. Il moderno cimitero bolognese fornì infatti una risposta di straordinaria modernità alle più aggiornate e indifferibili istanze sanitarie di matrice illuministica, così come all’acceso dibattito filosofico-letterario incentrato sull’importanza del culto della memoria e sull’opportunità di realizzare moderni sepolcreti extra-moenia al fine di estinguere i problemi igienici causati dal plurisecolare uso di inumare le salme all’interno dei centri abitati.2 229 Lo splendore della forma 1. Flaminio Minozzi, Monumento a Tarsizio Rivieri Folesani, 1801, Cimitero Comunale, Chiostro della Cappella 230 Fin dalla sua fondazione, il nuovo sepolcreto di Bologna fu opportunamente suddiviso in due spazi distinti tra loro non solo dal punto di vista strutturale, ma anche da quello concettuale: le persone comuni, secondo una logica illuminista-giacobina, vennero sepolte in vasti campi dove l’unica distinzione attuata era quella per età e per sesso; al contrario le classi sociali più elevate ebbero il privilegio di inumare i loro familiari in sepolcri monumentali ricavati nelle arcate del Gran Chiostro dell’antico monastero, ciascuno di essi destinato ad accogliere un unico defunto che in vita si fosse distinto in ambito civile o professionale e fosse, quindi, ritenuto meritevole di una memoria che ne rendesse immortale il ricordo. Già nel 1801, sulla tomba del giovane medico e docente universitario Tarsizio Rivieri Folesani, il pittore bolognese Flaminio Minozzi dipinse il primo monumento sepolcrale realizzato nel Cimitero Comunale della Certosa (fig. 1). Ben presto gli interventi artistici andarono moltiplicandosi in maniera esponenziale, facendo dell’ex monastero dei certosini di Bologna “la collection la plus complète de sculptures et de peintures funeraires néo- Sull’arte della Certosa di Bologna in epoca neoclassica 2. Pietro Fancelli e Luigi Busatti, Monumento a Vincenzo Martinelli, 1808 ca., Chiostro della Cappella classiques de l’Italie”,3 una sorta di museo d’arte contemporanea in continuo divenire che, in conformità con le finalità didascaliche della cultura neoclassica, si connotava come un exemplum virtutis cittadino, suscitando l’interesse e l’ammirazione non solo dei bolognesi ma anche di letterati e di colti viaggiatori italiani ed europei, in quel tempo in visita nella città emiliana.4 L’arte funeraria bolognese di età neoclassica costituisce un unicum nell’ambito della storia dell’arte cimiteriale, non solo per la precocità della realizzazione ma soprattutto per ciò che concerne l’evolvere delle scelte relative alla tecnica esecutiva dei monumenti: se, infatti, nel corso dei primi tre lustri del secolo furono i pittori ad avere quasi l’esclusiva delle commissioni per la decorazione dei sepolcri,5 nel 1815/16 si assistette a una improvvisa inversione di tendenza in favore della scultura.6 Non deve stupire l’iniziale predilezione del mezzo pittorico a Bologna, dove la pittura classico-naturalistica e quadraturista vantava una più celebre e radicata tradizione rispetto alla scultura – anzi alla plastica, poiché nella città felsinea al marmo, materiale scultoreo per eccellenza, da sempre si preferivano materiali da 231 Lo splendore della forma 3. Giacomo De Maria, Monumento a Giuseppe Vogli, 1811-13, Recinto dei Sacerdoti 232 modellare di più agevole reperimento locale come la terracotta, il gesso o lo stucco – che da secoli occupava un ruolo di subordinazione e di completamento nei confronti dell’arte pittorica. Le cause dell’improvviso prevalere della scultura nel cimitero felsineo, alla metà del secondo decennio del XIX secolo, vanno individuate sia nella tardiva, quanto ineludibile, affermazione a Bologna delle istanze estetiche neoclassiche di matrice internazionale, sia nella 3a. Giacomo De Maria, Monumento a Giuseppe Vogli (particolare) Sull’arte della Certosa di Bologna in epoca neoclassica 4. Giovanni Putti, Flaminio Minozzi, Giacomo Savini, Monumento a Carolina Baldi Comi, poi Ottani, 1815-1816, Sala della Pietà necessità di ovviare ai rilevanti problemi di conservazione che i monumenti dipinti della Certosa – per la maggior parte situati all’aperto – presentavano. Sebbene il Neoclassicismo, negli ultimi decenni del XVIII secolo, si fosse affermato in tutta Europa e godesse di particolare fortuna nell’ambito delle commissioni sepolcrali, agli inizi degli anni ’10 dell’Ottocento esso faticava ancora a imporsi nella città emiliana, dove un peculiare e radicato attaccamento alla tradizione artistica locale scoraggiava sia il superamento della pittura classico-naturalistica e quadraturista, sia quello degli stupefacenti effetti scenografici che costituivano una sorta di elemento di continuità rispetto agli apparati effimeri polimaterici tanto diffusi in epoca barocca. Nella prestigiosa Accademia di Belle Arti (ex Clementina), ufficialmente riformata dai francesi nel 1804,7 gli esponenti della vecchia guardia ancien régime, arroccati su posizioni passatiste, erano ancora numerosi in età napoleonica e le più aggiornate idee classiciste riuscirono a imporsi solo negli ultimi tempi dell’Impero, grazie soprattutto all’impegno del letterato piacentino Pietro Giordani, notoriamente schierato su posizioni 233 Lo splendore della forma 4a. Monumento a Carolina Baldi Comi, poi Ottani (particolare) 234 d’avanguardia neoclassica e divenuto, nel 1808, prosegretario dell’Accademia.8 Un ruolo di primario, se non decisivo, rilievo va riconosciuto a Giordani anche per ciò che riguarda l’interessamento e l’impegno profusi dall’Accademia e dalla Municipalità di Bologna relativamente al prosieguo dell’arricchimento artistico del cimitero felsineo nell’età della Restaurazione. In proposito vanno ricordati due fondamentali discorsi che egli pronunciò in Accademia: il Compendio all’Orazione Panegirica pel Canova e il Panegirico ad Antonio Canova9 nel 1810 e l’orazione Delle sculture ne’ sepolcri nel 1813, due anni in anticipo rispetto alla vicenda che portò ai rivolgimenti relativi alla tecnica dell’arte sepolcrale bolognese. In particolare in quest’ultimo discorso, sorvolando opportunamente sui monumenti della Certosa bolognese, il prosegretario auspicò un duplice aggiornamento – iconografico e stilistico – dell’arte sepolcrale che, in linea con i principi neoclassici, privilegiasse temi di valore didascalico coniugati a una rigorosa essenzialità compositiva. A tal fine egli indicò, quali incontrastati modelli, le opere funerarie canoviane, avvalorando, in tal modo, l’assoluto primato della scultura nell’ambito cimiteriale. Gli accorati indirizzamenti giordaniani ebbero seguito, anche se parzialmente, solo a partire dal 1815, anno in cui si concretizzò l’interessamento congiunto dell’Accademia e della Municipalità verso i monumenti che sempre più numerosi andavano riempiendo il nucleo monumentale del cimitero felsineo. Sull’arte della Certosa di Bologna in epoca neoclassica Il primo significativo episodio in tal senso va individuato nella seduta accademica del 2 gennaio 1815 quando l’incisore e docente Francesco Rosaspina, non senza esagerare, denunciò “un disordine che fa gran danno alle Arti e gran disonore alla città: ed è che nel cimitero della Certosa, dove concorrono tutti i forestieri, non si vedono altro che goffissime opere d’inettissimi artisti e niune de’ più valenti” e, interpretando le sempre maggiori mire di controllo e d’azione degli accademici sullo sviluppo artistico del sepolcreto bolognese, prospettò l’opportunità di “proporre al Municipio che nel vendere gli Archi del Cimitero si aggiungesse la condizione di far fare i monumenti ad Artisti abili, e presentarne prima un disegno alla Municipalità, che potrebbe consultare l’Accademia”.10 Conseguentemente, il 22 gennaio, a nome dell’Accademia, i docenti Leandro Marconi e Francesco Rosaspina – anch’essi, come Giordani, esponenti della corrente classicista – consegnarono al Podestà una missiva in cui il prosegretario specificava: “Il Cimitero Comunale, che è riputato un ornamento singolare di questa Città, e come tale visitato ed invidiato da tutti i forestieri, si faccia sempre più adorno e riguardevole per monumenti di Belle Arti, le quali in questi tempi hanno pochi altri luoghi od occupazioni da esercitarsi. Sarebbe perciò convenevole che a operare nel Cimitero si chiamassero sempre Artisti noti e riputati e i cittadini ricchi, riserbandosi una maggiore libertà circa l’ornare a lor genio l’interno delle private abitazioni, avessero più particolarmente riguardo al pubblico decoro in luogo sì illustre. E quindi non parrebbe inconveniente che la Municipalità nel vendere gli Archi aggiungesse questa condizione, che i monumenti si dessero a fare ad Artisti di conosciuto merito. E se nella scelta degli autori e dei disegni delle opere fosse ricercata del suo avviso l’Accademia, ella volentieri si presterebbe a questa causa, che può molto contribuire all’onore della Città.”11 Nella sua minuziosa risposta, inviata all’Accademia il 10 febbraio, il podestà riconobbe l’esigenza di tutelare il prestigio di cui godeva il cimitero comunale e, oltre ad accogliere le istanze di collaborazione degli accademici, propose dettagliate norme circa la realizzazione e 235 Lo splendore della forma 236 la conservazione delle opere monumentali. Tra l’altro, egli prospettò l’istituzione di una commissione, composta di accademici, deputata al controllo della qualità artistica dei monumenti e richiese all’Accademia la stesura di un elenco di artisti “di più che mediocre riputazione” cui affidare la realizzazione delle decorazioni sepolcrali, prevedendo ulteriori garanzie da parte accademica nel caso in cui artisti “forestieri” fossero stati chiamati a operare alla Certosa. Una disposizione, quest’ultima, che costituì, negli anni successivi, un importante fattore di consolidamento del monopolio della locale scuola artistica nell’ambito funerario. Il duplice ruolo – esecutivo e di controllo – che nei decenni successivi gli accademici bolognesi puntualmente esercitarono sull’arricchimento artistico del cimitero, favorì il peculiare e anacronistico strascico della tradizionale plastica felsinea di gusto popolare e di ascendenza tardobarocca che perdurò fino a Ottocento inoltrato. Poche settimane più tardi – precisamente il 20 marzo – l’Accademia inviò al Podestà una lunga e incisiva relazione giordaniana in cui, contemporaneamente al compiacimento degli accademici per le proposte avanzate dal podestà, venivano enunciate importanti riserve a tutela degli artisti operanti alla Certosa, in particolare relativamente alle proposte municipali di proibire ai pittori e agli scultori di avvalersi di aiuti e di imporre loro di garantire l’inalterabilità delle opere per tre anni (facendosi carico, nel corso di questo tempo, dei necessari restauri o rifacimenti). Riguardo a quest’ultimo punto gli accademici, pur trovando “prudentissimo che l’artista debba garantire la durata del lavoro”, auspicarono la diminuzione del tempo di responsabilità degli artisti a un solo anno, sufficiente “a sperimentare gli effetti di tutte le quattro stagioni, e a giudicare la bontà di qualunque opera”12 e proposero che, a partire dal secondo anno, il ripristino o il rifacimento dell’opera deteriorata gravasse, pena il decadimento di proprietà, unicamente sul proprietario del sepolcro. Tali istanze dell’Accademia, accettate e successivamete inserite nella normativa, unitamente agli aggiornati indirizzamenti stilistici, iconografici e tecnici giordaniani, dovettero senza dubbio incoraggiare i committenti bolognesi a optare per la rea- Sull’arte della Certosa di Bologna in epoca neoclassica 5. Giacomo De Maria, Monumento a Carlo Caprara, 1817 ca., Chiostro della Cappella lizzazione di monumenti in scultura, sicuramente meno deteriorabili rispetto a quelli dipinti. Per comprendere la portata delle idee di Giordani e l’influenza che esse esercitarono nell’ambito cimiteriale felsineo della Restaurazione, occorre ritornare alla missiva accademica del 20 marzo 1815 in cui il prosegretario, superate le diffidenze degli accademici più conservatori capeggiati dal presidente dell’Accademia Carlo Filippo Aldrovandi, poté asserire: “I monumenti che nel Cimitero la pietà de’ ricchi cittadini vorrà fare a’ suoi defunti saranno o di Scultura o di Pittura che imiti il rilievo, cioè rappresenti quelle sole cose che ragionevolmente mostrerebbe la Scultura. Perché i monumenti dipinti si ammettono solamente per minorare la spesa degli scolpiti. E quindi la ragionevolezza insegna a escluderne i paesaggi, le prospettive di profonda pianta, e di punto di veduta fuori del quadro, le figure colorite nelle carni e nelle vesti a imitazione del vero: e vuole che il fondo della nicchia sia continuato senza alcuna apertura: le figure che ivi si dispongano, imitino statue di bronzo o di marmo: il tutto insieme abbia del grave e malinconico; e non colla sfacciata e saltellante varietà di colori renda l’aspetto di una 237 Lo splendore della forma 238 scena teatrale”.13 Poche righe più avanti, supponendo che i committenti bolognesi non avrebbero facilmente rinunciato alla tradizione dei monumenti dipinti, Giordani aggiungeva: “non dovranno con bizzarro e confuso arbitrio succedersi l’uno all’altro i monumenti: ma a uno di scultura seguiranno due o tre o quattro di pittura, e quindi un altro di scultura, e così con ordine costante. I cittadini nell’acquistare gli Archi, eleggeranno quelli di Pittura e di Scultura, secondo la propria loro volontà, e l’intenzione che avranno di spendere nel monumento”. Così non fu: evidentemente anche la cultura bolognese – tanto fiera della propria tradizione artistica da risultarne talvolta succube – era ormai pronta ad avvicinarsi all’essenzialità neoclassica e a rinunciare alle notevoli possibilità narrative del mezzo pittorico in favore della più sintetica scultura. I modelli iconografici canoviani, infatti, si imposero alla Certosa, almeno parzialmente e soprattutto per ciò che riguardava lo schema compositivo dei monumenti, ma tale aggiornamento convisse ancora a lungo con una peculiare riproposizione della locale tradizione plastica di derivazione barocca, caratterizzata da ormai anacronistici effetti scenografici. Tale complessità stilistica e iconografica connota la maggioranza dei monumenti eseguiti alla Certosa nell’età della Restaurazione, tra i quali vanno ricordati almeno pochi esempi riferibili ai due maggiori scultori attivi a Bologna in quel tempo: Giacomo De Maria e Giovanni Putti. Il Monumento Caprara (fig. 5), prima opera sepolcrale realizzata in marmo alla Certosa di Bologna, scolpita da Giacomo De Maria attorno al 1817, costituisce un significativo esempio della combinazione di moderni motivi canoviani e di elementi di retaggio barocco: il corteo funebre chiaramente ispirato al monumento a Maria Cristina d’Austria convive, infatti, con reminiscenze passatiste, evidenti nel virtuosismo tecnico che contraddistingue la bella figura velata, elegante omaggio all’esuberanza illusiva tipica dell’arte bolognese settecentesca. Un motivo, quello della velata, che fu ripreso in altri importanti monumenti sepolcrali felsinei nell’arco di almeno un decennio. Sull’arte della Certosa di Bologna in epoca neoclassica 6. Giovanni Putti, Monumento a Giovanni Fornasari, 1822, Chiostro d’ingresso 6a. Giovanni Putti, Monumento a Giovanni Fornasari (particolare) Egualmente connotato da ambivalenza stilistica e iconografica, in bilico tra neobarocco e neoclassico, appare il Monumento Casali, modellato da Giovanni Putti nel 1817.14 La continuità con la tradizione appare evidente nella Piangente, avvolta in un amplissimo manto che le lascia scoperti solo il profilo e le mani intrecciate, inginocchiata e atteggiata in un disperato ed enfatico gesto di preghiera. A questa figura si accompagna un elegante Genio della morte di rigorosa impostazione neoclassica che con la mano sinistra solleva, scoprendo l’epitaffio, un abbondante tendaggio di forte valenza scenografica che ricorda i sipari teatrali e, al contempo, le coltri funebri barocche. Il richiamo è rivolto sia alla grande tradizione scenografica felsinea, sia a quella degli apparati polimaterici effimeri (generalmente apparati funebri eretti in occasione di importanti esequie e “sepolcri pasquali” realizzati nelle chiese durante la Settimana santa) eseguiti in gran numero in antico regime e che a Bologna continuavano a essere saltuariamente realizzati ancora a Ottocento inoltrato. L’imprescindibile legame della scultura funeraria bolognese con gli apparati effimeri tradizionali si esplicitava infatti, oltre che in un peculiare stile neoclassico contrastato e abbondantemente rispettoso della ricchezza materica e del virtuosismo tecnico di matrice barocca, anche nella singolare scelta dei materiali in cui i monumenti venivano realizzati: gesso, stucco, scagliola e terracotta, la cui facile deteriorabilità si opponeva all’idea neoclassica di arte sepolcrale finalizzata a durare nel tempo e a perpetuare il ricordo degli estinti. Una contraddizione tutta bolognese a cui, per altro, singolar- 239 Lo splendore della forma 7. Giovanni Putti, Monumento a Giuseppe Levi, 1826, Chiostro Maggiore Sull’arte della Certosa di Bologna in epoca neoclassica è dato qualche esempio, sovente sono presenti figure allegoriche alludenti a encomiabili virtù possedute dal dedicatario del monumento o, più concretamente, alla professione esercitata dallo stesso. Un repertorio, quello relativo alle allegorie delle professioni, che andò progressivamente ampliandosi, costituendo una significativa espressione delle coeve evoluzioni sociali: dalle prestigiose professioni alto borghesi raffigurate in epoca napoleonica, fino ad arrivare, attorno alla metà del terzo decennio del secolo, a comprendere anche più umili e ordinarie occupazioni lavorative. Inusitate invenzioni iconografiche come la singolare Allegoria del Commercio (modellata da Putti nel 1826 per il Monumento Levi)15 (figg. 7-7a) costituivano infatti una sorta di celebrazione della piccola borghesia di recente arricchimento e, al contempo, anticipavano motivi iconografici di marca realista che pochi decenni più tardi, attraverso la profusione in ambito artistico di soggetti comuni e di scene di vita quotidiana, avrebbero improntato l’arte cimiteriale italiana ed europea.16 241 240 mente corrispondevano quella straordinaria modernità e quella lungimiranza in campo sociale e igienico-sanitario che, in anticipo rispetto alle altre realizzazioni cimiteriali italiane ed europee, avevano determinato l’istituzione del grande cimitero di Bologna. Per quanto concerne il repertorio iconografico delle tombe neoclassiche della Certosa, accanto a espressionistiche Piangenti e a scenografici Genî della Morte di cui si 1 2 7a. Giovanni Putti, Monumento a Giuseppe Levi (particolare) 3 Sul cimitero della Certosa di Bologna si vedano i volumi La Certosa di Bologna. Immortalità della memoria, a cura di G. Pesci, Bologna 1998 (con bibliografia precedente); La Certosa di Bologna. Un libro aperto sulla storia, catalogo della mostra a cura di R. Martorelli, Bologna 2009; Luce sulle tenebre. Tesori preziosi e nascosti dalla Certosa di Bologna, catalogo della mostra a cura di B. Buscaroli e R. Martorelli, Bologna 2010. Tra i vari studi sull’argomento si vedano almeno L. Sozzi, I Sepolcri e le discussioni francesi sulle tombe negli ultimi anni del Direttorio e del Consolato, in “Giornale Storico della Letteratura Italiana”, CXLIV, 1967, pp. 567-588; P. Aries, L’uomo e la morte dal Medioevo ad oggi, Roma-Bari 1980; J. McManners, Morte e Illuminismo. Il senso della morte nella Francia del XVIII secolo, Bologna 1984; M. Vovelle, La Morte e l’Occidente, Roma-Bari 1886. G. Hubert, La sculpture dans l’Italie napoléonienne, Paris 1964, p. 272. 4 Fin dai primi decenni del XIX secolo il cimitero della Certosa di Bologna e i suoi monumenti acquisirono fama internazionale e furono oggetto di particolare interesse da parte di artisti, letterati ed editori che pubblicarono disegni e incisioni, guide e descrizioni a uso turistico che avevano per oggetto i sepolcri bolognesi e i loro illustri dedicatari. In proposito, cfr. E. Bagattoni, Un luogo di rappresentanza nella Bologna di primo Ottocento, in La Certosa di Bologna cit., pp. 123-129 e, soprattutto, D. Camurri, Il tema del cimitero come soggetto letterario nella Bologna dell’Ottocento, in All’ombra de’ cipressi e dentro l’urne… I cimiteri urbani in Europa a duecento anni dall’editto di Saint Cloud, atti del convegno internazionale (Bologna, 24- 26 novembre 2004), Bologna 2007, pp. 291-299; E. Bagattoni, Neoclassicism and local artistic tradition in the sepulchral monuments of the Certosa Cemetery in Bologna during the Napoleonic Era and the Sull’arte della Certosa di Bologna in epoca neoclassica Lo splendore della forma 5 6 242 7 8 Restoration, in “Conservation Science in Cultural Heritage” n. 11, 2012. Sui sepolcri bolognesi decorati in pittura si vedano i fondamentali saggi di Anna Maria Matteucci: Monumenti funebri di età napoleonica alla Certosa di Bologna, in “Psicon”, II, 4, 1975, pp. 71-78; Fantasia dei decoratori bolognesi nei monumenti ad affresco della Certosa, in La Certosa di Bologna cit., pp. 183-195; I monumenti funebri d’età napoleonica nella Certosa di Bologna. La rimozione del macabro, in All’ombra de’ cipressi cit., pp. 261-289. Cfr. anche V. Lucchese, Memoriae pictae, in Luce sulle tenebre cit., pp. 29-33. Dal 1801 al 1815 furono realizzati cinquantasei monumenti dipinti e tredici in scultura. Dal 1816 al 1826 furono eseguiti cinquantacinque monumenti in scultura e sedici in pittura. Pochissime furono le tombe decorate a tecnica mista (pittura e scultura insieme). Questi dati sono ricavati da A. Mampieri, In tema di scultura funeraria neoclassica: Giacomo De Maria alla Certosa di Bologna, in “Arte a Bologna”, n. 1, 1990, p. 80 (da rilevare che per la datazione delle opere è stata considerata la data di morte del dedicatario del monumento come termine post quem, sulla base di quanto pubblicato in G. Zecchi, Collezione dei monumenti sepolcrali del Cimitero di Bologna, Bologna 18251842). Sui monumenti ottocenteschi in scultura si vedano S. Tumidei, La scultura dell’Ottocento in Certosa, in La Certosa di Bologna cit., pp. 197-217 (cui seguono le schede delle opere a cura di E. Bagattoni, A. Mampieri e S. Tumidei, pp. 218-245); R. Martorelli, Aristocrazia e borghesia. Evoluzione della scultura in Certosa nell’Ottocento, in Luce sulle tenebre cit., pp. 35-41. Sulla trasformazione dell’Accademia Clementina in Accademia Nazionale di Belle Arti, avvenuta nel 1804, si veda E. Farioli e C. Poppi, Bologna 1804-1813: un’Accademia napoleonica fra tradizione e rinnovamento, in “Ricerche di Storia dell’Arte”, 33, 1988, pp. 49-70. Dal 1808 al 1815 Pietro Giordani fu prosegretario della Regia Accademia di Belle Arti di Bologna. Egli fu chiamato a sostituire il segretario e scultore Giacomo Rossi gravemente ammalatosi nel 1808. Il presidente dell’Accademia Carlo Filippo Aldrovandi (allineato su posizioni tradizionaliste e antitetiche 9 10 11 12 rispetto a quelle giordaniane) in una lettera del 1808, riferendosi a Giordani asserì: “sa il greco, il latino e l’italiano e la storia avendo memoria prodigiosa; è poi l’uomo più incomodo dell’universo” (cit. in S. Tumidei, La scultura dell’Ottocento cit., p. 197). Il Compendio all’Orazione Panegirica pel Canova fu letto da Giordani in Accademia il 2 giugno 1810. Poche settimane più tardi, il 28 giugno, egli pronunciò il Panegirico ad Antonio Canova. Ambedue i discorsi compaiono in Scritti editi e postumi di Pietro Giordani, pubblicati da A. Gussalli, vol. II, Milano 1856, pp. 9-81. La Lettera al celebratissimo Antonio Canova per l’arrivo suo sperato in Bologna (pubblicata in Scritti editi e postumi cit., vol. I, 1856, pp. 337-343) risale invece al 10 novembre 1809. Cfr. P. Giordani, Lettere ed atti per l’Accademia di Belle Arti in Bologna, a cura di L. Scarabelli, Bologna 1874, p. 84 dove è attestato che il 6 agosto 1813, in Accademia, Pietro Giordani pronunciò il discorso Sulle sculture ne’ sepolcri (pubblicato in Scritti editi e postumi cit., vol. II, pp. 294-302). Atti dell’Accademia dal 1809 al 1815, ms., pp. 75-76 (Archivio dell’Accademia di Belle Arti di Bologna). Lettera del prosegretario dell’Accademia P. Giordani e del presidente C.F. Aldrovandi al Podestà di Bologna, ms., 22 gennaio 1815 (Archivio Storico Comunale di Bologna, Carteggio amministrativo, Titolo XV, Rubrica 2, anno 1817). L’inconfondibile paternità giordaniana di questa missiva e di quella citata alle note 14 e 16 è confermata anche dalla pubblicazione in P. Giordani, Lettere ed atti per l’Accademia cit., p. 110 e sgg. (va comunque segnalato che quest’ultimo testo presenta alcune inesattezze relative a firmatari e date rispetto agli originali delle lettere e degli Atti dell’Accademia conservati presso l’Archivio dell’Accademia di Belle Arti e l’Archivio Storico Comunale di Bologna). Sul carteggio intercorso tra l’Accademia di Belle Arti e la Municipalità di Bologna nel 1815 relativamente ai monumenti sepolcrali della Certosa, si vedano anche E. Bagattoni, Un luogo di rappresentanza cit.; S. Tumidei, La scultura dell’Ottocento cit.; A. Mampieri, Il ruolo dell’Accademia di Belle Arti nella costituzione del cimitero monumentale della Certosa di Bologna, in All’ombra de’ cipressi cit., pp. 249- 13 14 15 16 17 18 259; A. Mampieri, Arte in Certosa: i rapporti tra l’Accademia di Belle Arti e il Comune di Bologna, in “Arte a Bologna”, n. 6/2007, 2008, pp. 73-89 (con trascrizioni documentarie). Lettera del Podestà di Bologna all’Accademia di Belle Arti di Bologna, ms., 10 febbraio 1815 (Archivio Storico Comunale di Bologna, Carteggio amministrativo, Titolo XV, Rubrica 2, anno 1817). Lettera di P. Giordani e C.F. Aldrovandi al Podestà di Bologna, ms., 20 marzo 1815 (Archivio Storico Comunale di Bologna, Carteggio amministrativo, Titolo XV, Rubrica 2, anno 1817). Carlo Filippo Aldrovandi fu presidente dell’Accademia di Belle Arti di Bologna dal 1807 al 1822. Sulla sua figura e sul suo pensiero si veda A.M. Matteucci, Carlo Filippo Aldrovandi e Pelagio Pelagi, in “Atti e Memorie della Accademia Clementina di Bologna”, XI, 1974, pp. 87-95. Lettera di P. Giordani e C.F. Aldrovandi al Podestà di Bologna, ms., 20 marzo 1815 (cit. supra, nota 14). Giacomo De Maria, il più “neoclassico” tra gli scultori bolognesi del tempo, aveva perfezionato e aggiornato la propria formazione durante un lungo soggiorno nella capitale pontificia tra il 1787 e il 1789 e, dopo aver ricevuto alcuni incarichi accademici negli anni a cavallo tra i due secoli, tenne la cattedra di scultura all’Accademia di Bologna dal 1804 al 1831, improntando la formazione di generazioni di scultori locali. Su G. De Maria si vedano A. Mampieri, In tema di scultura funeraria neoclassica cit., e S. Zamboni, Giacomo De Maria: contributi e materiali inediti, in “Accademia Clementina. Atti e Memorie”, n. 27, 1990, pp. 105-135. Giovanni Putti, nonostante i contatti cosmopoliti e le prestigiose commissioni pubbliche cui attese a Milano negli ultimi anni dell’Impero, non si distaccò mai dalla tradizione artistica felsinea, giungendo a proporre, ancora nella seconda metà degli anni Venti, eccentriche opere di gusto neobarocco che rivelano il superamento di qualsiasi retaggio di essenzialità e chiarezza compositiva di marca neoclassica in favore di valenze espressionistiche ante litteram (ad es. i monumenti funerari Ferlini (1826) e Billi Cavazza (1829), rispettivamente ubicati nel Chiostro Maggiore e nel Chiostrino delle Madonne) le cui radici 19 20 21 22 23 24 vanno ricercate nel furore preromantico delle opere tardosettecentesche di Luigi Acquisti e Giacomo Rossi. Su G. Putti si vedano i miei studi: Giovanni Putti tra Antico Regime e Impero. Dalla formazione all’affermazione di un protagonista bolognese della scultura neoclassica, in “Arte a Bologna”, n. 6/2007, 2008, pp. 56-72; Tra pathos e allegoria. I monumenti funerari di Giovanni Putti alla Certosa di Bologna, Cesena 2008. Sul monumento Caprara si veda la scheda dell’opera a cura di A. Mampieri, in La Certosa di Bologna cit., pp. 122-123. Il tema della figura velata fu affrontato, con straordinaria enfasi ed esuberanza fino a un eccesso di matericità, da Giovanni Putti nei monumenti Fornasari (1822) e Levi (1826), rispettivamente ubicati nel Chiostro d’Ingresso e nel Chiostro Maggiore. Cfr. E. Bagattoni, Tra pathos e allegoria cit., pp. 114-119, 164-168. Cfr. Ibid., pp. 66-71. Agli artisti impegnati alla Certosa era chiesto di tramandare, seguendo il concetto illuminista e romantico al contempo che percepiva la vera morte solo nell’oblio, il ricordo dei defunti, della loro posizione sociale (soprattutto se nobili) e della loro professione (se aristocratici). Sulle tombe dei nobili sovente comparivano lo stemma gentilizio e figure allegoriche alludenti a virtù attribuite all’estinto o genericamente alla morte (Genî funebri), mentre nei monumenti dedicati a esponenti della borghesia venivano molto spesso rappresentate allegorie di professioni “illustri” (di carattere intellettuale o militare) esercitate dai defunti. Solo in pochi e prestigiosi casi vennero rappresentati simboli e allegorie di professioni meno prestigiose e di più recente elevazione sociale (come la pratica artistica) che, in antico regime, solo eccezionalmente avevano assunto una dignità che le collocasse oltre il modesto livello artigianale. Ciò è riferibile prevalentemente nei casi di monumenti dedicati a uomini, in quanto a quel tempo le donne, salvo rarissime eccezioni, non svolgevano attività professionali e sulle loro tombe per lo più comparivano figure simboleggianti generiche virtù. Cfr. supra, nota 22. Sulla scultura funeraria italiana, si veda il fondamentale testo a cura di S. Berresford, Italian memorial sculpture 18201940: a legacy of love, London 2004. 243 Scultura italiana tra Neoclassicismo e anni Trenta nei cimiteri dell’Emilia-Romagna di Alfonso Panzetta Scultura italiana tra Neoclassicismo e anni Trenta 1. Giovanni Putti, Tomba Ferlini (particolare), 1812, Certosa, Bologna 244 La generazione più recente degli studiosi sta oggi ottimamente lavorando nella direzione del corretto recupero critico e storico della scultura del XIX secolo nel più ampio panorama dell’arte del periodo, facendo propria quella definizione di “Cimitero=Museo all’aperto” di scultura che iniziò a comparire verso la fine degli anni Ottanta. Una generazione che ha preso sul serio tale definizione, lavorando con passione precisa e puntuale al censimento delle opere d’arte presenti nei cimiteri, componendo così veri e propri cataloghi delle “collezioni museali”. Il censimento, la presa di coscienza di quanto esiste e si possiede, è il primo passo per la valorizzazione e la tutela di un patrimonio che, se proviamo a ragionare in termini nazionali, risulta di enorme entità e importanza. Solo attraverso tale capillare censimento sarà realmente possibile studiare l’Ottocento restituendo alla scultura quella centralità che ebbe in Italia, una centralità ormai riconosciuta dalla comunità internazionale degli studi. Personalmente tendo a rifuggire e a rinnegare la dicitura di “scultura funeraria” che continuamente viene uti- 245 lizzata dalla critica contemporanea quando ci si occupa di cimiteri monumentali, quasi che la destinazione commemorativa della scultura costituisca un genere a parte, in qualche misura minore. La scultura funeraria è sempre, anche se a livelli differenti di qualità e importanza, scultura prima di tutto. Sarà sufficiente riflettere sulla scultura dei secoli precedenti per rendersi conto di quanto fuorviante e riduttiva possa essere la dicitura “scultura funeraria”, come del resto quella di “scultura religiosa”: non ci sogniamo minimamente di definire in tal modo né la Margherita di Brabante di Giovanni Pisano, né il Mosè o le Cappelle Medicee di Michelangelo, eppure furono opere eseguite in modo specifico per monumenti funerari; sono sculture, pura espressione della creatività dell’artista. È allo stesso modo che dobbiamo rapportarci alla scultura del XIX secolo. Già nel 1989, nell’introduzione alla prima edizione del Dizionario degli Scultori Italiani dell’Ottocento edita da Lo splendore della forma 2. Alessandro Franceschi, Tomba Ercole BevilacquaAldobrandini, 1827, Certosa, Ferrara 246 Allemandi, auspicavo l’organizzazione di visite guidate all’interno dei cimiteri monumentali e la necessità di allestire progetti di tutela e conservazione specifici. Dopo oltre tre lustri, l’attenzione per questo patrimonio plastico è sensibilissima e, in parallelo alle visite guidate che oggi vengono organizzate nelle singole realtà cittadine, è ora possibile ipotizzare una fase successiva, una fruizione più globale di questo immenso patrimonio artistico progettando percorsi di visita trasversali e sovralocali. Se all’interno di ciascun cimitero monumentale è possibile, infatti, a diversi livelli, cogliere il disegno della scultura italiana dal neoclassicismo al Novecento, come riflesso locale di un più ampio panorama, tale disegno apparirà più chiaro se si valuta globalmente il patrimonio di una intera regione, con in più l’opportunità di cogliere l’entità e l’originalità del contributo degli scultori attivi nella regione al più ampio disegno storico della scultura del XIX e XX secolo. In un’ottica così allargata sarà possibile riflettere sulla presenza di opere di artisti extra-regionali, Scultura italiana tra Neoclassicismo e anni Trenta apportatori di linguaggi culturali e modelli formali di differente provenienza, ma anche rilevare l’esistenza di opere di artisti nativi nella regione che però hanno svolto gran parte della loro attività fuori da questa, comunque mantenendo con essa un legame profondo tramite le committenze più illuminate. È il caso del ferrarese Stefano Galletti (1832-1905) attivo a Roma, ma che per il cimitero di Cento, sua città natale, ha eseguito una notevole serie di capolavori in marmo; ma è anche il caso di un altro ferrarese, Gaetano Galvani (1868-1945), sempre attivo a Roma, che nel cimitero della nativa Bondeno colloca numerose opere tra le quali sono da indicare alcuni dei suoi capolavori, di un realismo purissimo venato di impegno sociale. Sul filo dell’idea di individuare un ideale percorso di visita storico-critico che possa dipanarsi in una scala almeno regionale, negli ultimi tempi è stata condotta e completata una schedatura a tappeto, con relativa campagna fotografica, sui cimiteri monumentali dei più importanti centri dell’Emilia Romagna. Così, partendo da Castel San Giovanni nel piacentino e concludendo a Rimini sull’Adriatico, passando per Piacenza, Fiorenzuola, Fidenza, Parma, Reggio Emilia, Correggio, Modena, Mirandola, Vignola, Carpi, Bologna, Imola, Ferrara, Argenta, Bondeno, Cento, Comacchio, Ravenna, Lugo, Faenza, Forlì e Cesena, si è presa coscienza di una parte di quel macro-museo di scultura che è il nostro territorio nazionale incontrando, accanto a quelle degli artisti emiliano romagnoli, opere di capitale importanza di artisti di prima grandezza nel contesto del XIX e XX secolo. La sequenza che emerge dalle diverse centinaia di opere che compongono questo percorso, mette poi in luce una fisionomia culturale della ragione che è risultata, sino a ora, assolutamente inedita e ignorata. Nell’attuale definizione della fisionomia nazionale della scultura tra XIX e XX secolo si tendono a individuare sinteticamente quattro macro aree di influenza culturale: la Lombardia, la Toscana, Roma e, genericamente, il meridione. Ma questa sintesi non rende merito al ruolo che ebbe l’Emilia Romagna, e Bologna in particolare, per un periodo ben più ampio di quello in 247 Lo splendore della forma Scultura italiana tra Neoclassicismo e anni Trenta 3. Alessandro Cavazza, Tomba Bonaccini, 1860, Cimitero di San Cataldo, Modena 4. Giovanni Collina Graziani, Tomba Francesca Rossi, 1876, Cimitero, Faenza 248 esame e che sarebbe da far partire almeno dagli anni ’20 del XVIII secolo con l’attività della sua Accademia Clementina prima, poi Nazionale, Pontificia e infine Reale. Bologna, con i suoi oltre due secoli di premi dedicati alla scultura – dall’importantissimo Marsili, poi Marsili-Aldrovandi, seguito dal premio Curlandese e dal premio Baruzzi, che terminerà la sua attività alle soglie del secondo conflitto mondiale – sarà un reale punto di riferimento nazionale ancora tutto da indagare in modo analitico. Mediante tali premi di scultura saranno infatti presenti o legati in qualche modo a Bologna – come concorrenti, membri delle commissioni d’esame o referenti – tutti i più bei nomi della scultura del periodo, rendendo la città un effettivo crocevia di incontro culturale ad altissimo livello: da Antonio Canova a Lorenzo Bartolini, da Giovanni Duprè a Tito Sarrocchi, da Adriano Cecioni a Vincenzo Vela, da Antonio Dal Zotto a Giulio Monteverde, per citarne solo alcuni, non emiliani. La straordinaria ricchezza e varietà del patrimonio plastico esistente e conservato nei cimiteri monumentali dell’Emilia Romagna, non sarebbe infatti comprensibile e giustificabile senza riflettere sul fatto che questo possa essere, di fatto, il riflesso evidente dell’importanza che quest’area geografica ebbe per oltre un secolo. Nell’ottica di un percorso di visita attraverso il patrimonio plastico delle Certose emiliano romagnole è possibile quindi individuare almeno due sequenze: quella composta dalle opere realizzate da artisti extra regionali, parallela all’altra, ricchissima, frutto dell’attività degli scultori emiliano romagnoli. 5. Giacomo Zilocchi, Tomba Luigi Marchesi, 1906, Cimitero, Piacenza Nella prima filza, tra neoclassicismo e Novecento, si collocano i capolavori di Pietro Tenerani a Bologna; Bartolomeo Ferrari a Ferrara; Lorenzo Bartolini a Bologna e Ferrara; Carlo Finelli a Bologna; Santo Saccomanno a Cesena; Antonio Rossetti, Augusto Rivalta, Carlo Chelli, Giovanni Battista Lombardi, Vincenzo Vela, Giovanni Duprè e Salvino Salvini a Bologna; Giulio Monteverde a Ferrara; Giovanni Strazza a Bologna; Cesare Zocchi a Cesena e Ravenna; Giovanni Battista Cevasco a Piacenza; Enrico Astorri a Castel San Giovanni; Vincenzo Consani a Ferrara; Aristodemo e Leopoldo Costoli a Bologna e Cesena; Francesco Confalonieri a Castel San Giovanni; Tito Sarrocchi a Modena; Dante Sodini a Rimini; Francesco Bonola a Bologna; Paolo Testi a Forlì; Giorgio Kienerk a Bologna; Francesco Jerace a Forlì; Achille Canessa a Faenza e Fiorenzuola; Ettore Zocchi a Rimini; Gino Nicoli e Pietro Arcangioli a Ferrara; Cesare Aureli a Cesena; Leonardo Bistolfi a Ferrara e Bologna; Bernardino Boiafava a Forlì; Libero Andreotti a Ferrara; Sirio Tofanari a Forlì; Giuseppe Mancini a Parma; Oreste 249 Lo splendore della forma 250 Chilleri a Bologna; Annibale De Lotto a Lugo e Marta Sammartini a Bologna. Nel medesimo arco temporale, l’impegno e la creatività degli scultori emiliano romagnoli si manifesta a un livello di qualità altissimo. Impossibile citare tutti gli scultori variamente attivi in questa sede, ma almeno bisogna sottolineare il purissimo neoclassicismo di Giacomo De Maria, Giovanni Putti (fig. 1), Cesare Gibelli, Giovanni Battista Ballanti Graziani, Raimondo Trentanove, Luigi Antonio Acquisti, Alessandro Franceschi (fig. 2), Cincinnato Baruzzi, Innocenzo Giungi o Giuseppe Ferrari, il purismo romantico di Alessandro Cavazza (fig. 3), Massimiliano Putti, Giovanni Collina Graziani (fig. 4), Apollodoro Santarelli, Luigi Maioli e Gaetano Saviotti, il realismo di primissima mano di Prudenzio Piccioli, Carlo Parmeggiani, Luigi Legnani, Enrico Pazzi, Carlo Monari, Diego Sarti, Domenico Randi, Enrico Barberi e Mauro Benini, il verismo di impegno sociale di Tullo Golfarelli, Alessandro Massarenti, Gaetano Galvani e Pasquale Rizzoli, il nuovo ed elegantissimo linguaggio liberty di Gaetano Samoggia, Arturo Orsoni, Fedele Toscani, Giuseppe Romagnoli, Silverio Montaguti, Arrigo Minerbi, Pietro Veronesi, Domenico Baccarini, Pier Enrico Astorri, Mario Sarto e Domenico Rambelli, e le solidità novecentesche di Giuseppe Graziosi, Armando Minguzzi, Ercole Drei, Venanzio Baccilieri e Farpi Vignoli. La città del silenzio: arte funeraria a Pavia tra Ottocento e Novecento di Susanna Zatti A Pavia, come in altre città italiane ed europee, il cimitero rappresenta la più ampia e importante raccolta pubblica di opere pittoriche e scultoree locali (e non solo) dei decenni tra Otto e Novecento: luogo per eccellenza della conservazione di memorie private e collettive attraverso il linguaggio delle arti figurative, costituì la testimonianza eloquente di una cultura artistica che permeò di sé, allo stesso modo, la città dei morti così come quella dei vivi. Proprio in quegli ultimi decenni dell’Ottocento in cui il Cimitero veniva edificato in stile neo romanico lombardo, su progetto degli architetti Vincenzo Monti e Angelo Savoldi, e si dotava di buona parte dei monumenti più significativi sotto i porticati del quadrilatero originale, a Pavia conosceva la sua stagione più vitale e felicemente feconda la Civica Scuola di Pittura, la gloriosa Accademia dove insegnarono i maestri e si formarono gli artisti e abili artigiani e decoratori che in gran numero contribuirono a caratterizzare la veste ornamentale degli edifici comuni del recinto monumentale, là dove avrebbero trovato ospitalità le sepolture perpetue. 251 Lo splendore della forma 252 In città, fino ad allora, erano scarseggiati per gli artisti incarichi e occasioni di mostrare in pubblico il loro mestiere e l’abilità nel dar forma ed evidenza plastica a contenuti rappresentativi e simbolici, se si escludono i pochi concorsi per monumenti di carattere risorgimentale. Il Cimitero, almeno nel primo cinquantennio della sua vita, è dunque palestra e banco di prova per i talenti locali, luogo del confronto con artisti “forestieri” di consolidata fama – a partire da Vincenzo Vela fino ad arrivare a Mario Rutelli –, occasione di acceso dibattito civico tra laici e clericali sulla funzione dell’arte, sul valore del monumento, sull’iconografia e simbologia funeraria. Mentre la classe medio borghese aveva affidato il ricordo di vite operose per lo più a formelle in maiolica di produzione locale, murate sul fronte interno del perimetro, dove sono effigiati gli strumenti del mestiere (il macellaio, lo speziale ecc.), i professori universitari e i professionisti – prima nei porticati dell’Università, poi nel vecchio camposanto, anteriormente alla riforma architettonica – avevano commissionato monumenti scultorei di pregio: così Giovanni Gorini, docente universitario, sepolto in un sarcofago di gusto greco-romano affiancato dalla figura femminile dolente e pensierosa; così il professor Cesare Ferreri noto incisore, così Giuseppe Carganico, l’inventore di apparecchiature mediche, e ancora il notaio G.B. Adami, che nel 1844 aveva fatto realizzare da Vincenzo Vela il monumento per la giovane moglie scomparsa (fig. 1), monumento che Carlo Tenca aveva illustrato sulla “Rivista Europea” quale fulgido esempio di plastica verista del Romanticismo, elogiando soprattutto l’uso del costume contemporaneo (quello del marito in particolar modo) e la forte comunicatività emotiva (specie la figura della figlia maggiore, che esprime il melanconico presentimento del dolore). È un modello plastico cui s’ispirarono altri artisti ancora per tutto l’ultimo quarto del secolo: da esso deriva infatti l’iconografia dei personaggi ottocenteschi addobbati con i loro migliori vestiti, e con i capelli ben agghindati e intrecciati, che si congedano con affettuosità e trattenuto dolore dai loro cari. È una scultura di tipo realistico e descrittiva che traduce il concetto della morte in una dimensione terrena e La città del silenzio: arte funeraria a Pavia 1. Vincenzo Vela, Tomba Maddalena Bozzi Adami, 1844 2. Francesco Sala, Progetto Cappella Luigi Nocca, 1885 (Pavia, Archivio Storico Civico) quotidiana che, nella versione più modesta a opera di artigiani locali, si esplicita in una nutrita serie di figure di bambine, o giovanette, o mogli afflitte e recanti fiori, o personaggi virili paludati, descritti con forbitezza di particolari per gli abiti e gli attributi: – tra gli altri – è il caso della tomba per Oliviero Modesti (1895), con la bella figura femminile sopraffatta dal dolore e accasciata sulla tomba del marito. Si diceva che nel cimitero molto si rispecchia della cultura figurativa cittadina: la classe imprenditoriale e del colto professionismo tende a riprodurre nella cappella funeraria quei modelli di rappresentatività formale già utilizzati al di fuori; semmai nella città silenziosa sono accolte in maggior misura libertà stilistiche e aperture in senso moderno, trasgressioni all’accademismo di maniera. La destinazione funeraria favoriva, infatti, l’adozione di una maggiore varietà di stili, con preferenza per quelli non classici e con recupero dei linguaggi che il formulario dell’Eclettismo considerava “mistici” e adatti al raccoglimento, quali il bizantino e il gotico: di qui le tante edicole ornate con motivi di archetti acuti, cuspidi, pinnacoli, colonnine tortili, rosoni a traforo (edicola Moro, cappella Nocca) (fig. 2). Mentre ragioni legate al recupero del bagaglio culturale e artistico locale pavese (e alla pratica del restauro delle basiliche medievali) suggeriscono l’adozione di formule architettoniche e scultoree decorative d’eco longobardo o neoromanico: è il caso delle edicole Pizzocaro e Pellegrini, che ripropongono cornici con motivi di girali e tralci 253 Lo splendore della forma La città del silenzio: arte funeraria a Pavia 4. Enrico Cassi, Tomba Ernesto Cozzi, Lavoro e riposo, 1897 3. Enrico Cassi, Tomba Cairati, 1890 254 di vite tratti dal San Michele, restaurato nel 1860/70. Tra le prime edicole a dotarsi di ornamenti artistici vi è quella di Carlo Cazzani (1882), con gruppo statuario di Giulio Branca, professore dell’Accademia di Brera, che rivisitava il modello classico della figura giacente sul sarcofago, con angelo sul fondo e figura allegorica inginocchiata a fianco. Nel 1888 esordisce nel campo della scultura cimiteriale il pavese Enrico Cassi (nato nel 1863), discendente di una rinomata ditta locale di marmorai, formatosi nello studio di Rasetti a Viggiù e diplomatosi nel 1886 a Brera con Francesco Barzaghi ed Enrico Butti: da questi maestri aveva derivato la tendenza a unire all’accuratezza della resa naturalistica una speciale attenzione per l’indagine psicologica, tradotta in un modellato vibrante e sensibile, dagli effetti luministici e pittorici. Nel monumento Cairati (del 1890) aveva dato prova della perizia tecnica – nella resa virtuosistica dello scialle di trina e del serto floreale – e insieme della capacità di sottolineare, senza enfasi retorica, la rievocazione del dolore, secondo un modello ripreso da Edoardo Tabacchi nella tomba Omodeo del Cimitero milanese (fig. 3). Pure in un cimitero laico, dove mancavano emblemi confessionali delle zone ed edifici comuni, acceso dibattito avevano suscitato alcuni monumenti dall’iconografia pagana quali il gioioso e fortemente profano altorilievo marmoreo Lavoro e riposo di Cassi ispirato al monumento Castiglioni di Enrico Butti del Cimitero di Milano e dedicato a un allegoria dell’Agricoltura (fig. 4). Tra i pittori pavesi chiamati a decorare le principali sepolture, destinate per lo più a professori universitari e illustri clinici, è Pacifico Buzio, allievo prediletto di Trecourt alla Scuola di Pittura, compagno di corso sia di F. Faruffini sia di T. Cremona: suo il decoro pittorico delle tombe Pollini (fig. 5), Cairati, Lunghi, dell’edicola del prof. Orsi – che realisticamente rappresenta una visita al malato da parte del noto chirurgo – e ancora del monumento Maggi, dove l’affresco dal titolo Al di qua e al di là della vita è già percorso da una vena simbolista. Negli anni a cavallo del secolo, infatti, anche a Pavia non tardano a farsi largo le istanze simboliste, connesse con il dominante orientamento spiritualista e antinaturalistico che punta sull’ideale svalutando la cura veristica oggettiva. Grazie all’eclettico Enrico Cassi (che, peraltro, nel 1900 aveva vinto il concorso per il monumento alla Famiglia Cairoli, con un bozzetto d’impronta accademico-realistica, preferito alla più innovativa proposta di Leonardo Bistolfi) si afferma un nuovo stile – più sinuoso e morbidamente plastico, con predilezione per andamenti asimmetrici e decori fitomorfi – e una nuova iconografia, meno descrittiva e più intensamente espressiva. Banditi i temi dell’omaggio dei congiunti 255 Lo splendore della forma 5. Pacifico Buzio, Bozzetto Cappella Pollini, 1890 6. Enrico Cassi, Tomba Pietro Chiesa, 1909 256 alla tomba, del ritratto, della rievocazione di episodi della vita terrena, si aspira a rendere i concetti della sopravvivenza dello spirito e del perpetuarsi dei valori ideali: si rifiuta perciò il costume alla moda e la tipizzazione fisionomica per rappresentare personaggi senza tempo, languide sembianze vestite di pepli e veli, sospese tra il sogno e la morte (si vedano, in particolare, il monumento Pietro Chiesa, molto simile al sepolcro Barelli del Monumentale di Milano, fig. 6, e quello della famiglia Rolandi). L’idea della continuità tra vita e morte è resa attraverso l’accostamento di parti naturalistiche a tutto rilievo, ben tornite, e di immagini evocative, trattate a basso rilievo schiacciato o solo graffite, che alla luce rispondono con effetti diversi di fremente animazione. Anche Antonio Oberto, poliedrico artista formatosi alla Civica Scuola di Pittura, pittore, grafico e scenografo presso il Teatro cittadino, si propone nel Cimitero nella veste unitaria di ideatore di elementi architettonici, scultorei e decorativi, contribuendo a impartire un omogeneo aspetto Jugendstil e poi déco alle cappelle che disegna e orna con pitture, graffiti, encausti, bronzetti, stucchi e ferri battuti, secondo quel concetto di “arte totale” diffuso in esordio del Novecento (tombe Anelli, Ricotti). Maestro di Oberto – così come di altri artisti operanti al Cimitero quali Antonio Villa, Filippo Tallone, Emilio Testa – è Giorgio Kienerk, direttore della Scuola Civica per un trentennio, grafico di fama internazionale, pittore d’avanguardia e anche autore di sensibili e innova- La città del silenzio: arte funeraria a Pavia 7. Alfonso Marabelli, Tomba Rossi Dositeo, 1911 8. Alfonso Marabelli, Piangente, Tomba Famiglia Vivanti, 1933 tive sculture a tutto tondo e a rilievo, presentate con successo in esposizioni europee. A lui si rivolge la committenza più colta e altolocata, in particolare il mondo accademico e delle cliniche universitarie: suoi i monumenti funebri per Camillo Golgi, il primo premio Nobel italiano per la medicina nel 1906, e per Roberto Rampoldi, medico oculista (è raffigurato mentre opera assistito dalla Scienza e al cospetto della Cecità) e senatore del regno, per i quali egli, peraltro, si attiene ai modelli plastici più tradizionali. Ultimo – in ordine di tempo – protagonista della scultura cimiteriale pavese entro il primo trentennio del secolo è Alfonso Marabelli, il più dotato scultore pavese del tempo, allievo di Butti all’Accademia braidense e autore nella città dei vivi del monumento agli studenti universitari caduti nel I conflitto mondiale e della statua a Golgi nel cortile così detto “delle statue” dell’Ateneo. Realizzando la suggestiva figura dolente della tomba Rossi Dositeo, che col capo reclinato sembra meditare sul mistero della morte, Marabelli inaugura una cospicua serie di personificazioni femminili di grande efficacia plastica, che poco o nulla concedono all’enfasi oratoria così come alla facile emotività o alla piacevolezza decorativa, imponendosi per una sorta d’intensa e silenziosa presenza etica e morale (fig. 7). Segue di poco la delicata e forte immagine femminile della tomba Rossi, un’altrettanto forte e concentrata figura di guerriero posto a guardia dell’edicola De Filippi del 1914, quando già incombeva la minaccia del con- 257 Lo splendore della forma 258 flitto: ogni residua cadenza e ritmo liberty hanno ceduto al disegno stilizzato e sintetico della maschera e dell’armatura, della spada dalla grande elsa a croce e della cornice in pietra appena sbozzata. E se ancora in diverse lastre e monumenti prevale il linearismo vitalistico dell’Art Nouveau nel disegnare sembianze femminili dalle chiome fluenti e dalle membra appena velate, o efebici cristi crocifissi, non immemori del monumento a Segantini di Bistolfi, negli anni successivi alla parentesi bellica Marabelli esibisce una diversa cifra stilistica, progressivamente più sobria, d’anelito purista, che lo conferma artista di squisita sensibilità, capace di rinnovare l’iconografia funeraria, interpretando le inquietudini del suo tempo. La composizione plastica della Piangente ideata per la tomba Vivanti – una donna in bronzo si appoggia con le braccia e il capo a un’alta parete in granito, nascondendo a chi transita il volto e il dolore – è di intensa espressività per il rimando al muro del pianto e per l’originalità della soluzione “di spalle”, che affida il messaggio non al volto e alla mimica delle mani, ma al gesto trattenuto, alla postura del corpo di grande compostezza (fig. 8). Anche nel monumento Prelini – due figure femminili che si confortano e si abbracciano nello sfondo di una quinta di serizzo – Marabelli sa interpretare le istanze delle contemporanee correnti scultoree dei Novecentisti di raffinata ieraticità, di mortificazione dell’oratoria, di monumentalità castigata. Un modello per la scultura funeraria internazionale: il cimitero genovese di Staglieno di Leo Lecci Questo studio ha origine da uno dei campi maggiormente indagati da Franco Sborgi nell’ambito delle ricerche sulla scultura che lo impegnano ormai da diversi anni: quello della diffusione della scultura italiana all’estero e, nello specifico degli approfondimenti su Staglieno, quello della diffusione internazionale della scultura italiana attraverso i modelli presenti nel monumentale cimitero genovese.1 Lo studio è stato portato avanti, e ancora procede, seguendo due binari paralleli: una mappatura quantitativa – di per sé già interessante e per molti aspetti significativa – nei cimiteri italiani e stranieri di repliche autografe o di copie di sculture presenti a Staglieno o di opere a esse ispirate, e la ricerca dei motivi di tale diffusione, siano essi cause contingenti, quali la presenza di uno scultore in un dato contesto, oppure ragioni di carattere ideologico o sociali. In effetti, come lo stesso Sborgi ha più volte sottolineato, il caso della scultura funeraria è uno degli esempi più rilevanti della circolazione di modelli a livello internazionale e del costituirsi di un linguaggio che talvolta 259 Lo splendore della forma 260 assume caratteri locali, ma più spesso trova un riferimento generale in una committenza che si riconosce in valori rappresentativi comuni: gioca un ruolo fondamentale l’internazionalizzazione delle borghesie emergenti fra la seconda metà del XIX secolo e i primi decenni del XX, divenendo il maggiore tramite di tale diffusione. Al di là delle specifiche culture, infatti, i processi autorappresentativi mostrano caratteri collettivi. La fortuna che, tra gli ultimi decenni del XIX secolo e i primi del XX, incontra il “realismo borghese”, fortemente caratterizzato da una rappresentazione analitica, risponde alla mentalità positivista di una committenza che affida la perpetuazione della propria memoria alla concretezza del fatto, alla propria storia personale, al proprio riconoscibile ruolo nel contesto sociale ed economico. In questo quadro d’insieme alcune immagini si diffondono ad ampio raggio e il cimitero di Staglieno, seguendo con perfetto parallelismo storico e culturale le vicende, gli ideali, l'idea stessa della vita di una borghesia in piena ascesa come quella genovese, si configura come una sorta di “laboratorio” dell'immaginario borghese della morte – tra i più descrittivi che si riscontrino in Occidente – e diviene una vera e propria raccolta di prototipi replicabili in altri contesti cimiteriali. Genova, è noto, è uno dei principali porti europei e tra XIX e XX secolo rappresenta uno dei più importanti scali per le rotte transoceaniche e per l’emigrazione. Le visite di diplomatici, imprenditori e commercianti, i frequenti ritorni in patria di quei migranti liguri che avevano fatto fortuna in Italia o più spesso all’estero, particolarmente nell’America del Sud, contribuiscono in maniera decisiva alla circolazione delle immagini. Inoltre le repliche, autorizzate o meno, sono abitualmente realizzate in centri come Carrara o Pietrasanta, dove gli scultori liguri inviano le loro opere per la sbozzatura o proprio per l'esecuzione dal modello. Le riproduzioni vengono anche eseguite da fotografie, il che spiega la spesso non ottima qualità delle copie e i cambiamenti che sovente compaiono nelle diverse repliche. Oltre alle fotografie realizzate da professionisti, esistevano quelle fatte o volute dagli stessi artisti e da essi utilizzate come strumento promozionale del proprio lavoro: Un modello per la scultura funeraria internazionale un fenomeno molto diffuso, come rivelano gli archivi fotografici delle accademie o scuole d’arte e, per il contesto ligure, quello dell'Accademia Ligustica di Genova. Per Staglieno non esistono repertori come quelli relativi al Père Lachaise di Parigi realizzati da Roger e figli (1828)2 e da Ferdinando Quaglia (1834);3 tuttavia alcune pubblicazioni dovevano avere analoghe funzioni di diffusione: ad esempio, quelle di Partecipazio (al secolo G. Minuto), Staglieno. Album Ricordo e Staglieno. Guida del visitatore, entrambe pubblicate nel 1883, e quella di Ferdinando Resasco (figlio di Giovanni Battista, l’architetto responsabile del progetto esecutivo del cimitero),4 La necropoli di Staglieno. Opera storica descrittiva illustrata, del 1892, più volte riedita nel corso del secolo seguente e nel 1926 anche in lingua francese. Sandra Berresford ha recentemente pubblicato un Album degli Angeli, databile al 1925 e conservato all’Istituto del Marmo Pietro Tacca a Carrara, che raccoglie fotografie in bianco e nero di angeli, ma anche di sculture di diverso genere (monumenti ai caduti, piangenti e altro) destinato agli studenti della Scuola del marmo, nel quale è presente, tra le molte altre, la fotografia di una replica del celebre Angelo del Giudizio (fig. 1) realizzato nel 1882 da Giulio Monteverde (Bistagno 1837 Roma 1917) per la tomba del ricco commerciante e banchiere Francesco Oneto a Staglieno.5 Proprio quest’ormai celeberrima scultura costituisce un caso particolare di riproduzione di un modello del 261 1. Giulio Monteverde, tomba Oneto, 1882, Genova, Cimitero di Staglieno (foto Piera Tambuscio) 2. Giulio Monteverde, tomba Monteverde, 1890, Roma, Cimitero del Verano Lo splendore della forma 262 cimitero genovese che non si può spiegare solo con la pur estesa diffusione delle immagini o la reputazione di uno scultore, ma impone di tener in conto anche l’affermazione di un nuovo clima culturale. Come ancora Sborgi ha più volte indicato, la statua scolpita da Monteverde – allora uno degli autori più rappresentativi della scultura ufficiale italiana della seconda metà del XIX secolo, la cui opera conoscerà un crescente successo internazionale per l’indiscutibile capacità di coniugare tradizione e modernità – propone, verosimilmente per la prima volta nell’ambito della scultura funeraria, un’enigmatica immagine femminea6 dell’angelo del giudizio che rappresenta il passaggio verso un nuovo clima simbolista-decadente. Se dal punto di vista stilistico la scultura mostra l’influenza dell’ambiente romano in cui cominciava a diffondersi la “cultura del mistero” dei Preraffaelliti inglesi, la commissione di un monumento funebre così carico di ambiguità da parte di un ragguardevole esponente della borghesia testimonia come la crisi delle certezze positiviste coinvolgesse proprio la classe sociale che aveva con decisione contribuito alla loro affermazione. La scultura di Monteverde favorirà, con altre all'incirca coeve, il successo di un’iconografia angelica sempre più sensuale e vicina alla femme fatale che tanta parte ha nella letteratura e nella pittura del tempo; un’iconografia che, tra la fine del secolo e l’inizio del successivo, arriverà a portare, non senza polemiche, il tema del nudo nella scultura cimiteriale, o comunque l’immagine di un’esplicita figura femminile quale compagna dell’ultimo viaggio.7 L’angelo della tomba Oneto diviene così, per molti anni, una vera e propria icona della scultura funebre, riprodotta in moltissimi cimiteri italiani e stranieri in repliche autografe e non – dall’Italia alla Francia, dalla Spagna all’Inghilterra, fino alle Americhe – e replicata dallo stesso Monteverde per la sua cappella funeraria nel cimitero monumentale del Verano a Roma (fig. 2). Il rilevamento nei cimiteri internazionali della presenza di questa scultura, tra le più note e affascinanti del cimitero di Staglieno, o di varianti a essa ispirate, non è ancora completo, ma già conosciamo numerosissime Un modello per la scultura funeraria internazionale 3. Tomba Gianelli, 1912 c., Piacenza, Cimitero comunale (foto Laura Putti) 4. J.A. Lorenzi, tomba Vermeulen, 1903 c., Principato di Monaco, Cimitero di Monaco (foto Francesco Colombi) statue da essa derivate con o senza specifiche variazioni. A Genova e in Liguria se ne trovano alcune repliche non autografe nei cimiteri di Voltri (tomba Verruggio, 1926; tomba Bottino; tomba Gaggero) e Pegli (tomba Remaggi, 1902) e in quelli di Rapallo (tomba Giovanni Croce, 1887) e della Spezia; ancora in Italia, ricordiamo la riproduzione realizzata nel 1890 da Vittorio Rossi per la tomba Lunghi nel cimitero monumentale di Pavia, 8 le copie non autografe del Verano di Roma (tomba Del Vecchio) e del cimitero comunale di Piacenza (tomba Gianelli, 1912 c., fig. 3), quest’ultima dal volto particolarmente somigliante alle figure femminili del preraffaellita Dante Gabriele Rossetti. L’esemplare milanese pubblicato da André Chabot in Erotique du Cimetière9 non trova invece riscontro nella capillare guida del cimitero del capoluogo lombardo scritta da Giovanna Ginex e Ornella Selvafolta.10 In Francia conosciamo la replica non firmata del cimitero di Saint-Pierre di Marsiglia, che in questo stesso volume Régis Bertrand propone di attribuire ai fratelli Auguste e François Carli.11 Nel cimitero del Principato di Monaco se ne trovano tre diverse varianti; due di queste sono state eseguite dall’atelier Lorenzi della confinante cittadina di Beausoleil: una (tomba Vermeulen, 1903 c., firmata “J.A. Lorenzi / marbres Beausoleil”, fig. 4), è di grande formato, vicino a quello originale, 263 Lo splendore della forma 5. Lorenzi, tomba Allavena, 1928 c., Principato di Monaco, Cimitero di Monaco (foto Francesco Colombi) 6. Tomba Pallanca, 1936 c., Principato di Monaco, Cimitero di Monaco (foto Maria Rebecca Ballestra) 264 ma dal modellato piuttosto rigido, tanto che il viso dell’angelo ha assunto evidenti connotazioni maschili; l’altra (tomba Allavena, 1928 c., firmata Lorenzi / Beausoleil, fig. 5), è più tarda e di minori dimensioni, ma di più morbida esecuzione, iconograficamente più vicina al prototipo genovese. Una terza scultura non firmata (tomba Pallanca, 1936 c., fig. 6), dalle sembianze femminili più marcate, la cui immagine è combinata con quella dell’angelo che sparge i fiori sulla tomba, presenta un altro curioso cambiamento rispetto al modello di Monteverde, indicativo delle trasformazioni che la figura originale assume nel tempo attraverso le diverse mediazioni: la lunga tromba che connota la creatura celeste quale Angelo del giudizio si è trasformata in un approssimato e irrigidito panneggio. Altri angeli funebri evidentemente ispirati a quello della tomba Oneto si trovano in diverse città europee: Barcellona (cementerio de Montjuïc), Madrid (tomba Iriarte, Cementerio de Nuestra Señora de La Almudena) Londra (tomba King, 1923, Norwood Cemetery; tomba Lyras, Putney Vale Cemetery), Monaco di Baviera; 12 negli Stati Uniti, a New York City (Woodlawn Cemetery, Bronx e Green-Wood Cemetery, Brooklyn), nel Texas, a Galveston (Old Town Cemetery), nel Missouri, a Saint Louis, dove la vicenda della replica del noto angelo genovese nel cimitero di Bellefontaine è Un modello per la scultura funeraria internazionale 7. Tomba Llambi Campbell, 1912, Buenos Aires, Cimitero della Recoleta (foto Franco Sborgi) 8. Tomba Di Paola, Buenos Aires, Cimitero della Recoleta (foto Luca Bochicchio) avvolta nella leggenda che la vuole commissionata a Monteverde da un facoltoso personaggio, Herman Luyties (1871-1921), innamoratosi della modella dello scultore italiano durante un viaggio in Italia compiuto sul finire dell’Ottocento.13 Ma il maggior numero di repliche e varianti si registra in America centrale e meridionale dove, a Buenos Aires, Monteverde ha anche eseguito, su commissione della comunità italiana, il Monumento a Giuseppe Mazzini (1878). Proprio nei principali cimiteri della capitale argentina non si contano copie, repliche e d’après dell’Angelo di Staglieno. Per quanto riguarda la Recoleta, conosciamo una replica probabilmente autografa solo attraverso fotografie d’epoca (tomba Vincente Ocampo),14 mentre è stata rintracciata una copia ornata da una cintura di gusto esotico (tomba Llambi Campbell, 1912, fig. 7), oltre a una serie di angeli liberamente ispirati a quello Oneto che sormontano cappelle funebri più o meno imponenti (fig. 8), i quali si ritrovano, pur in numero minore, anche nel cimitero di Chacarita.15 Altri esemplari centrosudamericani si trovano a Cuba, all’Avana (tomba Castellanos, tomba Marinello e cappella José Manuel Cortina, Cementerio de Cristóbal Colón), in Costa Rica, a San Jose (Cementerio General), in Perù, a Lima (Mausoleo Fernández Concha Mavila, autore L. Luisi, e tomba Guillermo Rey, Cementerio Presbítero Matías Maestro) e in Cile. Anche se artista di minore popolarità rispetto a Giulio 265 Lo splendore della forma 9. F. Fabiani, tomba Parpaglioni, 1884, Genova, Cimitero di Staglieno (foto Massimo Palazzi) 10. F. Fabiani e Pere Bassegoda, Barcellona, Cimitero di Poblenou 266 Monteverde, Federico Fabiani (Alessandria 1835 Genova 1914), scultore di origine piemontese che vive e opera a Genova, dove frequenta l’Accademia di Belle Arti, incontra analogo successo grazie al carattere fortemente rappresentativo delle sue immagini: nelle sue sculture funebri egli raffigura preferibilmente l’accompagnamento dell’anima (tombe Rocco Piaggio, 1876; Castello, 1882; Parpaglioni, 1884) (fig. 9), un tema che, personalizzando il rapporto tra la figura angelica e il defunto, è particolarmente caro alla committenza e trova notevole apprezzamento nel clima dell’intimismo tardo romantico e decadente, non senza tangenze con la cultura preraffaelita. Il prototipo di questo soggetto è la scultura di Giulio Bergonzoli (1822-1868) L’amore degli angeli, esposta con grande successo all’Esposizione Universale di Parigi del 1867 – il cui gesso preparatorio è oggi conservato all’Accademia di Belle Arti di Ravenna – ispirata all’omonimo poema scritto da Thomas Moore nel 1823 e tradotto in Italia nel 1836.16 Grazie anche al loro virtuosismo compositivo le opere di Fabiani, che raffigurano il defunto e l’angelo in volo – e che, per questo motivo, non mancheranno di suscitare anche l’ironia dei critici che parleranno di “figure per aria” o di “alpinismo angelico” –,17 incontrano il gusto della committenza straniera, soprattutto sudamericana, tanto che lo scultore deve soggiornare all’estero per soddisfare le numerose richieste, come ricorda Ferdinando Resasco: “Per eseguire speciali commissioni egli si recò in Spagna e in America. Dalla Venezuela gli venne anzi una commenda”.18 Opere funebri di Fabiani si trovano, Un modello per la scultura funeraria internazionale infatti, a Barcellona (fig. 10), dove nel cimitero di Poblenou esiste una riproduzione autografa pressoché identica alla tomba Parpaglioni, a Madrid e a Caracas (tomba Maria Eraso, 1887), ma anche nel Regno Unito, a Allerton nel Lancashire (tomba Mrs John Bibby); mentre sculture non autografe si trovano in Francia, a Marsiglia, nel cimitero di Saint-Pierre (tomba Chiarelli e tomba Nappi)19 e a Besançon e in Portogallo, a Lisbona (tomba Maria Pais Nogueira Quadrio, Cemitério dos Prazeres). In Italia, una delle riproduzioni più riuscite è quella scolpita da Giovanni Collina Graziani per la tomba Francesca Rossi (1876) nel cimitero di Faenza.20 I casi appena considerati, di Monteverde e Fabiani, sono evidentemente macroscopici, per l'esteso ambito di diffusione che la loro opera ha avuto, superando i confini del continente europeo. Tuttavia altre opere di Staglieno hanno suscitato ammirazione e interesse a livello internazionale, soprattutto nell’America centro-meridionale, dove era numerosa le comunità italiana e ligure, come in Messico, Argentina, Venezuela, Uruguay e Perù. È il caso, per citare solo qualche esempio, della Tomba E. A. Piaggio (1876) di Santo Saccomanno (Genova 18831914) il cui severo angelo barbuto, personificazione del Tempo, ritroviamo nell’articolata cappella funebre della Famiglia Gomez alla Recoleta di Buenos Aires; della Tomba Carlo Erba (1883), ancora di Saccomanno, la cui sensuale figura femminile, simbolo del Sonno Eterno, sarà riprodotta dallo stesso scultore per la Tomba Miguel Horta, nel cimitero di Paysandù, in Uruguay;21 della tomba eseguita da Giovanni Battista Villa (Genova 1832-1899) per Antonio Montanaro (1888), ricco mercante che aveva fatto fortuna con i traffici nel Sud America, integralmente replicata dallo stesso Villa nel cimitero della Recoleta di Buenos Aires (Tomba Dorrego Ortiz Basualdo). Per le comunità italiane e liguri in particolare, guardare a Staglieno significava non solo mantenere un forte legame, anche culturale, con il paese di origine, ma anche scegliere modelli rappresentativi prestigiosi e aggiornati. Del resto, già poco dopo la metà XIX secolo Staglieno, inaugurato il primo gennaio 1851 e presto sviluppatosi con grande intensità rappresentativa, è considerato uno dei luoghi d’arte più importanti del capoluogo ligure. 267 Un modello per la scultura funeraria internazionale Lo splendore della forma 268 Mark Twain (1835-1910) nel suo libro di viaggio The Innocents Abroad, pubblicato a Londra nel 1869 scrive: “Our last sight was the cemetery (a burial place intended to accommodate 60,000 bodies,) and we shall continue to remember it after we shall have forgotten the palaces. It is a vast marble colonnaded corridor extending around a great unoccupied square of ground; its broad floor is marble, and on every slab is an inscription – for every slab covers a corpse. On either side, as one walks down the middle of the passage, are monuments, tombs, and sculptured figures that are exquisitely wrought and are full of grace and beauty. They are new and snowy; every outline is perfect, every feature guiltless of mutilation, flaw, or blemish; and therefore, to us these far-reaching ranks of bewitching forms are a hundred fold more lovely than the damaged and dingy statuary they have saved from the wreck of ancient art and set up in the galleries of Paris for the worship of the world”.22 Ancora quasi un secolo dopo, un altro celebre scrittore, Evelyn Waugh (1903-1966), arriverà ad affermare: “It is a museum of mid-nineteenth-century bourgeois art in the full, true sense, that Campo Santo of Genoa stands supreme. If Père Lachaise and the Albert Memorial were obliterated, the loss would be negligible as long as this great repository survives”.23 1 Di F. Sborgi si vedano in proposito: Le culture figurative, in Storia d'Italia. Le Regioni dall'Unità ad oggi. La Liguria, Einaudi Torino 1994, pp. 337-414; Staglieno e la scultura funeraria ligure tra Ottocento e Novecento, Artema, Torino 1997; Alcune note sulla diffusione della scultura italiana tra fine Ottocento e inizi Novecento, in L. Mozzoni e S. Santini (a cura di), L’architettura dell’Eclettismo. La diffusione e l’emigrazione di artisti italiani nel Nuovo Mondo, Liguori, Napoli 1999; Il cimitero monumentale di Staglieno a Genova, in Arte y Arquitectura funeraria / Arte e Architettura funeraria / Funeral Art and Architecture (XIX-XX). Dublin, Genova, Madrid, Torino. Electa Spagna, Madrid 2000 (schede di L. Lecci e Paola Valenti); Difusion de la Escultura Italiana in Iberoamérica, in R. Gutierrez, R. Gutierrez Vinuales, Historia del Arte Iberoamericano, Lunwerg, Barcelona 2000; Companions on Final Journey, in S. Berresford, Italian Memorial Sculpture 1820-1940. A Legacy of Love, Frances Lincoln, London 2004; Considerazioni sulla diffusione della scultura italiana in America Latina, in Migrazioni liguri e italiane in America Latina e loro influenze culturali, Atti del Convegno internazionale a cura della Fondazione Casa America, Genova, 26 febbraio 2004, Aracne, Roma 2005, pp. 121-134; La diffusione della scultura italiana nei paesi andini e in iberoamerica fra il XIX e il XX secolo, in Patrimonio Cultural en los Pases andinos: perspectivas a nivel regional y de Cooperación. Encuentro entre la cultura de los 2 3 4 5 6 7 8 Países andinos y la tradicion umanista italiana. Atti del convegno, Cartagena de Indias (Colombia), 26-28 aprile 2005, IILA, Roma 2005. pp. 233-244; La théâtralisation de la mort dans la sculpture funeraire au XIX siècle, in Les Narrations de la Mort, Atti del convegno internazionale, Aix- en-Provence, 20-22 novembre 2003, Publications de Université de Provence, Aix-En-Provence 2005; Percorsi del marmo in America Latina, in S. Berresford (a cura di), Carrara e il mercato della scultura, Federico Motta, Milano 2007, pp. 248-253; Immagini della modernità nella scultura funeraria fra Ottocento e Novecento, in Il presente si fa storia. Scritti in onore di Luciano Caramel, Vita e Pensiero, Milano 2008, pp. 37-49. Roger père et fils, Le champ du repos, ou, Le Cimetière Mont-Louis, dit du père Delachaise, Paris 1816. F. Quaglia, Le Père Lachaise, ou Recueil de dessins au trait et dans leurs justes proportions des principaux monumens de ce cimetière, Paris 1934. Il progetto originale, del 1835, si deve all’architetto civico Carlo barabino (Genova 1768-1835) la cui improvvisa morte nello stesso 1835 determinerà l’intervento del suo allievo e collaboratore Giovanni Battista Resasco (Genova 1789-1871) il cui progetto sarà approvato nel 1840. S. Berresford, Arte funeraria, in S. Berresford (a cura di), Carrara cit., Milano 2007, pp. 198-199. Sulle vicende della committenza si veda la scheda di R. Vitiello in C. Olcese Spingardi (a cura di), Ottocento in salotto. Cultura vita privata e affari tra Genova e Napoli, cat. mostra (Genova), Maschietto editore, Firenze 2006, pp. 128-131. Per le sue fattezze femminili Partecipazio, nella citata Guida del visitatore, non esita a definirla “un’angela”. Cfr. F. Sborgi, Companions cit., London 2004 che giustamente porta ad esempio la tomba Bauer (1902-04) di Leonardo Bistolfi a Staglieno. Cfr. S. Zatti, La città del silenzio. Scultura e pittura nel Cimitero Monumentale di Pavia (1889-1940), Edizioni Cardano, Pavia 1996, p. 80, ill. 19. Zatti, che pubblica il progetto del monumento conservato all’Archivio Storico Civico di Pavia, scrive che nell’angelo di Rossi “la stampa locale riconosce prototipi di Vincenzo Vela ma che con più puntualità si ispira al monumento Braida Fontanella di Leonardo Bistolfi nel cimitero torinese…”; in realtà 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 esso è una puntuale replica dell’angelo della tomba Oneto di Monteverde. A. Chabot, Erotique du Cimetière, Edition Henri Veyrier, Paris 1989, p. 146. Cfr. G. Ginex, O. Selvafolta, Il Cimitero monumentale di Milano. Guida storicoartistica, Silvana editoriale, Cinisello Balsamo (Mi) 1996. Cfr. il testo di R. Bertrand qui pubblicato a p. 121 e la relativa immagine. Come si rileva dal libro fotografico di Isolde Ohlbaum, Aus Licht und Scatten. Engelbilder, Knesebeck, München 1994, p. 101 (e oggi anche nel suo sito personale www.ohlbaum.de), anche se una ricerca nei principali cimiteri della città tedesca da parte di Franco Sborgi e Paola Valenti non ha dato alcun riscontro. Cfr. www.thegravehunter.com e http://northstargallery.com/pages/Mon 33story.htm Cfr. F. Sborgi, Alcune note cit., Napoli 1999, p. 190, fig. 14, che ne pubblica una foto tratta da E. Zuccarini, El trabajo italiano en la Republica Argentina, Buenos Aires 1910, p. 89. Una prima ricognizione sul campo è stata condotta da Luca Bochicchio per la sua tesi di dottorato in via di svolgimento: La scultura italiana nelle Americhe fra ‘800 e ‘900. Studio di un modello generale di diffusione in America Latina, Dottorato di ricerca in Arti Spettacolo e Tecnologie Multimediali, XXIII ciclo, Università di Genova, Facoltà di Lettere e Filosofia, Dipartimento di Italianistica, Romanistica, Arti e Spettacolo. Cfr. Gli amori degli angeli. Poema di Tommaso Moore, prima traduzione italiana del Cav. Andrea Maffei, Livorno 1836; Sborgi 1997, pp. 352-353; A. Panzetta, Gli Amori degli Angeli. Un capolavoro ritrovato di Giulio Bergonzoli 18221868, Galleria Giordani, Bologna 1999. Cfr. Sborgi 1997, p. 332 e Sborgi 2000, p. 245 (scheda di P. Valenti). Cfr. F. Resasco cit., Genova 1892, p. 159. Cfr. ancora il testo di Bertrand in questa sede a p. 121. Se ne veda l’immagine nel saggio qui pubblicato da A. Panzetta a p. 244. Citata da Sborgi al convegno di Genova 2004 (pubblicato in Considerazioni cit., Roma 2005, p. 128) su segnalazione di Cristina Beltrami. M. Twain, The Innocents Abroad, The American Publishing Company, Hartford (Conn.) 1869, p. 170. E. Waugh, A Tourist in Africa, London 1960. 269 Scultura tra Ottocento e Novecento al cimitero delle Porte Sante di Firenze di Graziella Cirri Scultura tra Ottocento e Novecento a Firenze 1. Antonio Frilli, Tomba Bellini, 1874 270 Il cimitero monumentale di Firenze detto delle “Porte Sante” è posto sul colle di San Miniato al Monte. La stretta relazione con la Basilica romanica ne ha determinato, fin dai primi anni, l'importanza. Nel 1854, anno della sua istituzione, il cimitero consisteva solo in un appezzamento di terreno, racchiuso tra le mura rinascimentali, usato dall’Opera Pia dei Ritiri Spirituali per seppellire i propri fratelli; in seguito il lavoro di diversi architetti fiorentini quali Niccola Matas, Mariano Falcini, Tito Bellini ed Enrico Dante Fantappiè, portarono al complesso e articolato sviluppo monumentale del cimitero. Le statue più antiche del cimitero risentono del gusto romantico caratteristico del secondo Ottocento fiorentino, come ad esempio nel monumento Bellini, realizzato attorno al 1874 da Antonio Frilli. Lo scultore ha posto sui gradini di una “falsa” cappella una statua raffigurante una figura femminile, coperta da un’ampia veste che lascia intravedere solo le estremità del corpo (fig. 1). Anche il volto rimane celato dal cappuccio e in parte dalle mani. Le dimensioni reali della scultura 271 e il forte realismo caricano l’opera di un intenso pathos. Il dolore inconsolabile è riassunto nell’atteggiamento della donna rannicchiata su se stessa, mentre il senso di oscurità e di smarrimento è dato dalla porta socchiusa, allusione a un passaggio obbligato tra il mondo dei vivi e quello dei morti. L’autore, di cui purtroppo ancora non sappiamo molto, pochi anni dopo ha realizzato un’altra versione di quest’opera in un altro cimitero fiorentino, Trespiano. La suggestione e l’allusione romantica al trapasso, unita a una ricerca attenta verso le nuove simbologie legate al concetto di Eros e Thanatos, hanno poi portato alla realizzazione di numerose versioni di “angeli della morte”, e tra quelle più suggestive emerge il monumento realizzato da Emanuele Caroni. Un angelo in marmo bianco si frappone con il corpo e le ali al passaggio tra il mondo dei vivi e quello dei morti. La statua per la sua verosimiglianza e la ricerca introspettiva sembra quasi cercare un dialogo con l’osservatore. Il panneggio flui- Lo splendore della forma 272 do dell’abito arriva fino a terra, lasciando appena intuire il corpo sottostante. Le mani, forse più di altri dettagli, esemplificano la tensione psicologica e l’atteggiamento di cesura verso quella che è la strada che non offre possibilità di ritorno. Intorno alla fine del secolo la figura dell’angelo presenta anche altre varietà tipologiche, come ad esempio nel monumento della famiglia Pellas De Maillane dove, su di un’alta base in pietra, è collocata una statua bronzea raffigurante un angelo in ginocchio, ideata nel 1890 dallo scultore Augusto Rivalta, fiorentino d’adozione, e realizzata nello stabilimento della stessa famiglia committente. L’atteggiamento prostrato della figura, lo sguardo verso il cielo e le mani giunte sono un chiaro riferimento all’accettazione della volontà divina. Il realismo delle forme è filtrato dalla candida e pudica bellezza del giovane rappresentato. Il cimitero delle Porte Sante, destinato fin dalla sua istituzione alla sepoltura di personaggi illustri, ospita numerosi monumenti come quello del musicista Emilio Koppel, realizzato attorno al 1893 dallo scultore Paolo Testi. In questo caso la commozione intima dei familiari e la commemorazione pubblica sono state riassunte da una statua allegorica raffigurante La Musica, che ai piedi della grande croce con il capo reclinato e gli occhi socchiusi piange la grave perdita subita dall’arte. La figura femminile rappresentata non è altro che la moglie dell’artista, Leopoldina. Lo scultore ha reso abilmente la consistenza materica dell’abito, così come altrettanto realisticamente ha caricato di pathos l’espressione del volto. Gli strumenti musicali e gli spartiti richiamano idealmente l’attività del defunto, mentre la ghirlanda di fiori rimanda a un ambito più intimo e familiare, il ricordo doloroso dei congiunti. Oltre alle figure allegoriche, il cimitero delle Porte Sante offre anche numerosi esempi di ritrattistica borghese di stampo accademico, tuttavia ci sono anche delle variazioni al tema, come ad esempio il monumento delle sorelline Bianca ed Emma Marchesini. Il gruppo scultoreo fu realizzato da Michele Auteri Pomar, nel 1874, dopo il decesso della seconda figlia. Bianca è ritratta a mezzo busto e con il volto celato da un velo. La statua è un alto basamento adornato da rose scolpite, mentre Emma è rap- Scultura tra Ottocento e Novecento a Firenze 2. Michele Auteri Pomar, Tomba delle sorelline Bianca ed Emma Marchesini, 1874 presentata a figura intera, mentre si appresta a correre incontro alla sorellina, scavalcando il confuso accatastamento di giochi, libri e oggetti disposti lungo il sarcofago (fig. 2). In questo caso lo scultore ha cercato di ricreare uno spazio domestico, descrivendo in modo puntuale i dettagli decorativi di stoffe e balocchi. Il forte realismo della rappresentazione scultorea è riscontrabile da qualsiasi punto di vista la si osservi, soprattutto nell’abbigliamento, dove è percepibile la consistenza delle trine e dei merletti che lo caratterizzano. Il realismo, la ritrattistica, lo studio della fisionomia e della psicologia sembrano caratterizzare l’evoluzione dello stile a cavallo tra i due secoli, quando gradualmente fu abbandonato il topos della ritrattistica borghese di matrice accademica. Raffaello Romanelli, uno fra i maggiori innovatori della scultura fiorentina, realizzò per il cimitero delle Porte Sante un monumento in bronzo fuso che più di altri esemplifica il nuovo atteggiamento artistico. La defunta, Dina Manetti, rappresentata in dimensioni reali, sembra sorpresa in un atteggiamento domestico, mentre coglie un fiore. Il gioco di reale e realistico è accentuato anche dalla presenza di aiuole attorno al basamento della statua. In questo caso, l’abbigliamento non è ricercato, ma è 273 Lo splendore della forma 3. Libero Andreotti, Tomba Luigi Bertelli (Vamba), Cimitero delle Porte Sante, Firenze 274 quello consueto delle donne borghesi durante le mansioni domestiche. Non c’è ricerca di un ideale aulico, anzi l’autore ha cercato di cristallizzare un momento assolutamente reale della vita della defunta, senza lasciare spazio neanche a richiami simbolici. Con il passaggio al nuovo secolo anche le rappresentazioni sacre tendono verso un marcato realismo, come si può riscontrare nella scultura bronzea del Cristo Benedicente, realizzata da Dante Sodini, per il monumento del Lord inglese Joan Teample Leader. Il Cristo sembra incedere verso l’osservatore con passo deciso, ma allo stesso tempo calmo, con la mano in atto di benedire. In quest’opera non sono presenti eccessi decorativi, ma un’elegante e posata sobrietà. Il gusto cambia drasticamente dopo il primo conflitto mondiale. Dagli anni ’20 del Novecento gli scultori della nuova generazione cercano di dare un significato nuovo alle loro opere, dal realismo alla sintesi delle forme, e da questo al simbolo e alla trascendenza. A tale proposito, all’interno della zona del cimitero dedicata in origine alla sepoltura dei bambini emerge la statua di Luigi Berteli (Vamba), scrittore e giornalista, nonché autore del famoso Giornalino di Gianburrasca. Il monumento, realizzato da Libero Andreotti, sintetizza nei gesti e nelle espressioni dei personaggi il contributo che Vamba aveva dato alla pedagogia (fig. 3). L’opera in bronzo è caratterizzata da un impianto a tutto tondo Scultura tra Ottocento e Novecento a Firenze 4. F. Vannucci, Tomba Mario e Maria Mazzone, 1945 c., Cimitero delle Porte Sante, Firenze che permette all’osservatore di apprezzarne tutti i punti di vista. Le due figure formano un’unica unità spaziale. La serenità dei volti, il tono calmo dei gesti rende l’opera un unicum nel cimitero delle Porte Sante. Dello stesso autore nel cimitero troviamo anche la statua del Cristo risorto realizzato in bronzo nel 1928 e collocato nel 1935 dalla moglie al momento del suo decesso. Quest’opera realizzata nella fonderia Vignali è una replica di quella del Monumento alla vittoria di Bolzano. Il corpo idealizzato, la compostezza della posa e la ieraticità del volto, sono il manifesto dello stile dell’autore che è riuscito, attraverso l’essenzialità delle forme, a rievocare il momento della resurrezione del Cristo. Tra i numerosi scultori del primo Novecento che hanno realizzato opere funerarie per questo cimitero troviamo anche Alimondo Ciampi. In questo caso ben due statue adornano il suo sepolcreto. La tomba, collocata nel 1939 dalla moglie dello scultore, è composta da l’Autoritratto e dalla statua di San Giovannino in preghiera. Ambedue le opere sono cariche di sentimentalismo, ma prive di patetismo. Alimondo è rappresentato in abiti da lavoro, con il mazzuolo in mano, mentre il San Giovannino è colto nel momento della preghiera, durante il dialogo più intimo e fraterno con Dio. Tra le opere della prima metà del Novecento, emerge per originalità il Monumento funerario ai due fratelli Mario e Maria (fig. 4), realizzato attorno al 1945 dallo scultore fiorentino Vannucci. Mario fu ucciso durante la Seconda guerra mondiale e solo dopo un’assidua ricerca dei resti venne traslato dalla madre in questo cimitero. 275 Lo splendore della forma Maria invece era deceduta nel 1946, prima di poter convolare a nozze. I genitori in questa statua volevano celebrare il ricongiungimento dei due fratelli, uniti per l’eternità da un infausto destino. I volti non esprimono dolore o rabbia, ma solo serenità, stato d’animo o di chi è morto per la patria e di chi è stato chiamato a miglior vita e ha accettato senza remore la volontà divina. Una croce sul petto della fanciulla sembra suggellare questo messaggio di infinita spiritualità e devozione. Le due statue sono collocate in una zona del cimitero per lo più destinata alle semplici sepolture a sterro, prive quindi di imponenti monumenti, fattore che esalta ancora di più lo sviluppo verticale di quest’opera. Molte delle opere scultoree presenti nel cimitero non sono visibili poiché sono custodite all’interno delle cappelle private, tuttavia ci sono anche le eccezioni come un’opera di Giuliano Chiari, L’Abele con l’agnello, realizzata nel 1854 per la famiglia Tassinari e collocata nel 2003 da Carlo Malvani – attuale proprietario della cappella – nella cripta della Basilica affinché possa essere visibile al pubblico. 276 La scultura nei cimiteri delle comunità nazionali di Livorno di Laura Dinelli Durante la signoria dei granduchi Cosimo I e Ferdinando I de’ Medici, la città di Livorno ebbe un’espansione territoriale e demografica che, fra il 1590 e il 1603 – anni dell’emanazione dei bandi di popolamento e delle così dette “Leggi livornine” – e i primi trent’anni del XVII secolo, attirò nel porto labronico una popolazione eterogenea proveniente dal bacino del Mediterraneo e dai paesi del centro e nord Europa. L’invito rivolto a “tutti quelli forestieri [...] quali siano Manifattori di sartie, Calafati, Maestri d’Ascia, legnaiuoli d’ogni sorte, Muratori, Maràgoni, Scarpellini, pescatori, marinari, Fabri”, successivamente esteso a “mercanti di qualsivoglia natione, Levantini, Ponentini, Spagnoli, Portoghesi, Greci, Todeschi et Italiani, hebrei, Turchi, Mori, Armeni, Persiani et altri”, con il quale Ferdinando si rivolgeva ai futuri abitanti di Livorno, convinse ben presto centinaia di commercianti, marinai e artigiani di diverse nazionalità a trasferirsi stabilmente nella nuova città medicea attratti dall’immunità granducale che garantiva loro “amplissimo salvacondotto” di non essere molestati 277 Lo splendore della forma 278 per i debiti contratti nei paesi di provenienza e libertà di lavorare e commerciare. A tale privilegio si aggiungeva poi un’altra importante concessione: la possibilità di professare liberamente la religione dei propri padri garantendo inoltre agli acattolici di disporre di propri luoghi di culto e di aree riservate per seppellire i correligionari defunti. La piena “tolleranza”, enunciata formalmente dai Granduchi di Toscana nei loro atti normativi, fu di fatto messa in pratica se pur con qualche difficoltà e, nel volgere di qualche decennio, le comunità ebraica, anglicana e protestante ottennero luoghi di culto frequentabili liberamente. L’apertura dei cimiteri fu, in ogni modo, oggetto di complesse trattative fra le autorità civili e i rappresentanti delle nazioni estere, trattative che si prolungarono in alcuni casi per anni e che, inizialmente, portarono a semplici concessioni a inumare le salme in terreni non perimetrati fuori dalla cinta muraria. Successivamente recintati, i cimiteri acattolici accolsero le spoglie dei labronici e dei tanti stranieri che morivano a Livorno o in Toscana. Nel corso dei quattro secoli che sono trascorsi dalla fondazione di Livorno, in città, assieme ai cimiteri “pubblici” – in tutto cinque – e ai camposanti delle varie confraternite cattoliche, sono stati edificati quattro cimiteri della Nazione ebraica, due di quella inglese, tre degli olandesi-alemanni, due dei greci ortodossi, uno degli armeni, uno valdese, tre musulmani e due tempi cinerari. A essi sono infine da aggiungere i quattro cimiteri, cattolico, eterodosso, ebraico e musulmano, che funzionarono all’interno del lazzaretto di San Leopoldo, stabilimento dove i passeggeri delle navi provenienti da zone infette trascorrevano i periodi di quarantena e dove, spesso, si verificavano decessi. A causa delle necessarie chiusure delle aree sepolcrali che con il tempo sono state inglobate nell’area urbana, a oggi a Livorno restano due cimiteri pubblici – che accolgono gli appartenenti a qualsiasi confessione religiosa – quelli ebraico, greco-ortodosso, olandese-alemanno, i cinque cattolici e il tempio cinerario, tutti questi ancora aperti alle inumazioni, oltre ai tre cimiteri interdetti: i due inglesi e quello ebraico ottocentesco. La scultura nei cimiteri delle comunità nazionali di Livorno Vicende legate alla loro gestione, spesse volte resa difficile dalle precarie condizioni economiche delle comunità nazionali proprietarie – con gli anni sempre meno numerose se non del tutto estinte – i danni dovuti ai bombardamenti dell’ultima guerra mondiale e qualche intervento di ammodernamento un po’ troppo incisivo, hanno purtroppo disperso parte del patrimonio artistico cimiteriale labronico, ma grazie al trasferimento di alcune tombe da un cimitero a quello successivo, pratica seguita soprattutto dalla comunità ebraica, da quella greca e dalla Nazione olandese-alemanna, nei cimiteri acattolici è ancora oggi possibile incontrare tombe del XVII e XVIII secolo. Attualmente interventi volti alla salvaguardia e alla valorizzazione dei cimiteri livornesi sono messi in atto dall’Amministrazione Comunale che da tempo programma, in accordo con la Soprintendenza di Pisa del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, campagne di inventariazione informatizzata delle tombe; dalle singole comunità proprietarie delle aree cimiteriali e dalla Fondazione Cassa di Risparmi di Livorno che finanzia interventi di restauro nei cimiteri olandesealemanno, greco-ortodosso ed ebraico. Considerate l’eterogeneità dei culti e delle tradizioni delle diverse confessioni religiose presenti a Livorno e l’ampiezza dell’arco temporale coperto, la trattazione del patrimonio scultoreo cimiteriale livornese ha richiesto una preliminare scelta di sintesi che è stata 279 1. Tomba di Rafael Crespin, 1695, Cimitero ebraico moderno, Livorno Lo splendore della forma 280 individuata nella presentazione, in ordine cronologico, di alcuni esempi di tombe prescindendo dal cimitero di appartenenza. Ciò ha restituito una visione generale, in questa occasione presentata in maniera necessariamente sintetica, che mette in evidenza la diffusa adozione, in epoche contemporanee o di poco successive, di medesime tipologie di tombe in cimiteri diversi, spesso anche in forma di evoluzione stilistica, ma anche, più raramente, di unicum mai ripetuti. Per esempio, la tipologia a tumulo delle tombe ebraiche della fine del XVII secolo, decorate da arabeschi d’ispirazione fitomorfa e iscrizioni che ricoprono completamente le superfici disponibili, si ritrova, pochi anni dopo, nel cimitero inglese adorna di elementi ad alto rilievo, quali lo stemma e gli emblemi riferiti al defunto, che costituiscono già la parte decorativa preminente rispetto agli ornati delle cornici e all’iscrizione (fig. 1). La lapide posta nel cimitero della Nazione olandese-alemanna a ricordo di Beniamin Major (fig. 2) racconta invece, per mezzo di una ricercata cura narrativa che non si ripeterà in alcuna altra tomba labronica, la vita e le nobili battaglie condotte contro i turchi di un uomo d’armi svizzero al servizio delle potenze europee. La tipologia a sarcofago accomuna invece il Sepolcro di Maria Michel (fig. 3), impreziosito da un altorilievo raffigurante una giovane donna addormentata assieme ai suoi due figli, con la cassa eseguita un secolo dopo, e 2. Lapide in memoria di Beniamin Major, 1719, Cimitero olandese-alemanno, Livorno La scultura nei cimiteri delle comunità nazionali di Livorno 3. Tomba di Maria Michel, 1721, Cimitero vecchio degli Inglesi, Livorno oggi conservata nel cimitero ebraico, nella quale gli specchi sono riccamente decorati con foglie e girali di acanto a rilievo e ornati da simboli funebri come la falena, l’airone e il globo alato. Anche per onorare la memoria di Adolfo Romanovic, morto a Livorno nel 1830 e sepolto nel cimitero della comunità greco-ortodossa (che, tradizionalmente, ospitava i correligionari russi), fu scelta una tomba a sarcofago dove due geni funebri piangenti si asciugano gli occhi con il medesimo gesto del genio alato che decora il fronte principale del monumento, oggi nel camposanto della Purificazione, eretto in memoria di Teresa Sanchez (fig. 4), deceduta nel 1837 all’interno del lazzaretto San Leopoldo. Rilievi con figure di chiara ispirazione neoclassica si ritrovano poi nella Tomba di William John Crosbie eretta nel 1824 nel cimitero inglese, nella quale compare anche il simbolo funebre dell’ouroboros, spesso presente nelle tombe dell’epoca, mentre pietose figure femminili, ancora di derivazione neoclassica, esortano a deporre una corona di fiori sulla Tomba di Anne Marie Hall, sepolta nel 1843 nel cimitero della Nazione olandese-alemanna. Negli stessi anni il cimitero greco-ortodosso andava arricchendosi di ricordi funebri costituiti da alti basamenti decorati, sulla cui sommità era posta una statua a tutto tondo come l’angelo genuflesso che, stringendo al petto una croce, ricorda ai vivi la contessa Annette de Vierre morta nel 1842. Solo due tombe livornesi, che fanno parte di ciò che rimane del cimitero ottomano, oggi inglobato in quel- 281 Lo splendore della forma La scultura nei cimiteri delle comunità nazionali di Livorno 5. Tomba di Badaravi Barada, 1847, Cimitero comunale della Cigna, Livorno 4. P. Vanelli, Tomba di Teresa Sanchez, 1839, Cimitero della Purificazione, Livorno 282 lo comunale della Cigna, e che furono erette alla fine degli anni ’40 dell’Ottocento, appartengono alla rara tipologia “a culla” (fig. 5), non più replicata nei cimiteri cittadini. In quel periodo nei recinti sepolcrali iniziarono invece a comparire opere dei maggiori scultori locali come Giovanni Paganucci, Giovanni Puntoni (fig. 6) e Temistocle Guerrazzi. Di quest’ultimo sono da ricordare almeno il Monumento a Thomas Lloyd (1867), nel cimitero anglicano e, nel camposanto della Misericordia, il Monumento Marassi (1871). Particolarmente fortunata fu la figura del riccioluto Angiolo con le mani giunte al petto (1859) del livornese Enrico Mirandoli (fig. 7) che venne replicata più volte nel camposanto di Salviano e in quello della Misericordia. Una tarda versione dell’angiolo, rappresentato con le mani giunte in preghiera, si trova nel cimitero greco-ortodosso. Per quanto riguarda le repliche di sculture celebri, anche i cimiteri di Livorno si affollarono di duplicati del Putto orante di Luigi Pampaloni e di figure ispirate alla Fiducia in Dio di Lorenzo Bartolini, la cui nudità originale veniva coperta da una veste più o meno castigata. Anche una delle tipologie classiche dell’arte funeraria, una bassa colonna tuscanica scanalata, si incontra durante l’Ottocento in tutti i cimiteri labronici (Tomba di Catherine de Lacy, 1810 nel cimitero anglicano). La colonna spezzata mutò quindi nelle imponenti colonne erette nel 1888 nel cimitero ebraico in memoria di 283 6. Giovanni Puntoni, Tomba della famiglia Canessa, 1878, Cimitero della Misericordia, Livorno 7. Enrico Mirandoli, Angelo, Cimitero greco-ortodosso, Livorno Lo splendore della forma Albertina Coen Salmon e Amelia Tagiuri (fig. 8) per poi tornare all’originaria semplicità nella contemporanea tomba del giovane di origine greca Enrico Tossizza, sepolto nel camposanto della Purificazione. Tombe decorate da un vaso cinerario coperto da un drappo si incontrano contemporaneamente nel cimitero ebraico – Monumento a David Lumbroso (1880) –, in quello inglese e nel camposanto della Purificazione, Sepolcro di Giovanni Gambini. Anche la variante con l’urna che sostituisce il vaso è presente nel cimitero della Cigna sulla tomba, contraddistinta anche da simboli massonici, di Oreste Vernassa (1906) e nel cimitero ebraico nelle tre tombe, collocate fra il 1887 e il 1915, in ricordo dei componenti della famiglia Cave Bondi. 284 La scultura nei cimiteri delle comunità nazionali di Livorno Con il progressivo assottigliamento delle comunità estere livornesi, a esclusione di quella ebraica tutt’oggi numerosa e proprietaria di un cimitero in attività, l’esigenza di disporre di appositi cimiteri acattolici è, dal secolo passato, man mano venuta meno e poiché nel cimitero comunale della Cigna non esistono zone distinte per la sepoltura degli acattolici, pochi metri separano il candelabro a sette fiamme che orna la Tomba di Ida Baccetti (1931) dal Cristo posto al centro del Monumento della famiglia Soriani (Giacomo Zilocchi, 1917) e dai simboli massonici che compaiono sulla Tomba di Jacopo Sgarallino, maggiore dei Mille di Garibaldi (Lorenzo Gori, 1882). Esemplari della singolarità della società livornese sono poi i Sepolcri dei soldati francesi (fig. 9) cattolici e musulmani morti a Livorno durante la Prima guerra mondiale. Poste una accanto all’altra nel cimitero della Cigna, differenziate solo da una croce o da un arco orientaleggiante, le semplici tombe allineate dimostrano il carattere di una città aperta e tollerante e capace di far convivere per quattro secoli culture e religioni diverse, così come recitava il motto impresso nell’unghero d’oro coniato nel 1655 dal granduca Ferdinando II de’ Medici: Diversis gentibus una. 285 8. Tombe di Albertina Coen Salmon e Amelia Tagiuri, 1888, Cimitero ebraico di viale Ippolito Nievo, Livorno 9. Giancarlo Palanti, Quadrato dei Francesi, 1941, Cimitero comunale della Cigna, Livorno L’opera funeraria degli scultori del Canton Ticino (1830-1930) di Giovanna Ginex L’opera funeraria degli scultori del Canton Ticino 1. Francesco Somaini, Monumento al cav. Gaudenzio de Pagave, 1838, marmo, Brescia, Cimitero Vantiniano 2. Francesco Somaini, Monumento Torriani-Missori, 1854, marmo, Gentilino, Cimitero di Sant’Abbondio 286 Nel 1805 Grazioso Rusca (Rancate 1757-Milano 1829) subentrava a Carlo Maria Giudici nella carica di protostatuario della Fabbrica del Duomo di Milano, un incarico di grande prestigio conseguente alla disposizione napoleonica per un rapido compimento dei lavori, e che poneva il ticinese alla guida del maggiore cantiere di scultura attivo in area cisalpina: nel 1807 sarà approvato il progetto di Carlo Amati per il completamento architettonico della facciata della cattedrale milanese.1 Negli anni della dominazione francese, dal 1796 al 1814, e quindi in quelli della restaurazione asburgica fino al 1848, sia sul versante della scultura di soggetto sacro, sia su quello delle commissioni civili, anche private, furono numerosi gli esempi fuori dal Cantone della produzione di artisti ticinesi, volta al compimento e al rinnovamento dell’apparato scultoreo di diverse fabbriche del Lombardo-Veneto e del Piemonte; tra questi, il lavoro di Francesco Somaini (Maroggia 1795Milano 1855) è tra i più notevoli e documentati.2 A questa articolata tradizione di vicinanza tra gli artisti del Cantone e le regioni settentrionali della futura Italia unita, dobbiamo alcuni importanti aspetti della scultura presente nei cimiteri del Ticino. Gli scultori ticinesi furono infatti largamente partecipi dello svolgimento dell’arte funeraria nelle aree in cui furono attivi. Il cenotafio classicheggiante per l’architetto Luigi Cagnola fu affidato a Francesco Somaini; 3 inoltre, l’opera dello scultore è documentata nel cimitero “Vantiniano”, progettato per la città di Brescia dall’architetto Rodolfo Vantini nel 1815. Nella Rotondina Municipale è tuttora collocato il neoclassico Monumento al cav. Gaudenzio de Pagave commissionato nel 1834 a Somaini dalla città di Novara e ultimato con il bassorilievo in marmo di Carrara nel 1838,4 anno in cui secondo la consuetudine fu esposto all’annuale di Brera prima di approdare alla definitiva collocazione cimiteriale (fig. 1). Anche in Ticino Somaini realizzò diverse sepolture tra cui lo splendido Monumento Torriani-Missori presentato a Brera nel 1854,5 un anno prima che l’artista morisse (fig. 2). Si tratta di una delle ultime opere di Somaini, che vi lascia il segno più vivo della svolta in senso romantico della sua plastica funeraria. Il monumento è collocato nel cimitero di Sant’Abbondio dei comuni di Montagnola e Gentilino, edificato nel 1842 e descritto come monumentale già nel 1863.6 Nel 1849 Alessandro Rossi, già allievo di Pompeo Marchesi a Brera, lascia nel Gentilino la stele tombale ornata da un altorilievo di puro stile neoclassico collo- 287 Lo splendore della forma 3. Alessandro Rossi, Monumento a Carlo Bernardino Fè, 1851, Gentilino, Cimitero di Sant’Abbondio 4. Vincenzo Vela, Monumento a Vincenzo Dalberti e Giovanni Martino Soldati, 1852, marmo, Cimitero, Olivone 288 cata sulla tomba di Franceschina Gilardi, unica figlia dell’architetto Domenico Gilardi al quale con ogni probabilità si deve il progetto dello stesso cimitero.7 È datato invece 1851 uno dei capolavori dello stesso Rossi che si offre al visitatore di fronte alla stele Gilardi: il Monumento per Carlo Bernardino Fè, commissionato dalla moglie e dalle figlie del defunto (fig. 3). Nella figura femminile in preghiera inginocchiata davanti a una croce Rossi accoglie appieno le istanze del naturalismo e in particolare la lezione di Vincenzo Vela, di cui il Gentilino conserva uno dei capolavori: La preghiera su una tomba eseguita per la famiglia Boffa dopo il ritorno dello scultore a Ligornetto nel 1867. Vela è presente anche nel piccolo cimitero di Olivone con il Monumento a Vincenzo Dalberti e Giovanni Martino Soldati, del 1852 (fig. 4), e nel più vasto ma meno anti- 5. Alessandro Rossi, Busto maschile, Monumento Enderlin, 1857 c., Lugano, Cimitero 6. Ignoto, Monumento Famiglia Brentani, 1860 c., Lugano, Cimitero L’opera funeraria degli scultori del Canton Ticino 7. Ignoto, Cappella della Famiglia Polar, 1860 c., Breganzona, Cimitero co cimitero di Lugano (1897) che raccoglie anche alcune opere in precedenza collocate sia nell’antico cimitero in zona “Madonnetta”, consacrato nel 1835, sia nel cimitero degli acattolici sul colle di Loreto.8 Nel cimitero di Lugano sono da segnalare inoltre la Cappella per la famiglia Enderlin, del 1857, con opere di Vela e Alessandro Rossi (fig. 5), la Cappella Weissenbach e il Monumento Pietro Riva firmato e datato da Pietro Lucchini nel 1849, sobria composizione neoclassica ornata dalle figurazioni della Fede e della Religione,9 e il Monumento Famiglia Brentani, opera d’ignoto, del 1860 circa (fig. 6). Ancora di Vincenzo Vela, infine, il poco conosciuto Monumento all’architetto Carlo Frasca eretto nel 1869 nel cimitero di Breganzona, piccolo camposanto dominato dall’imponente edicola della famiglia Polar (figg. 7, 7a) arricchita da opere scultoree di grande qualità plastica la maggior parte delle quali attribuibili ad Alessandro Rossi. 289 7a. Ignoto, Cappella della Famiglia Polar, particolare Lo splendore della forma 290 Nel corso della seconda metà dell’Ottocento anche in Ticino la sepoltura riconoscibile, arricchita da un segno plastico o architettonico, divenne un’imprescindibile forma di rappresentanza sociale.10 In questi decenni, oltre al cimitero di Lugano, sono notevoli per la scultura in Ticino quelli già ricordati di Ligornetto, del Gentilino e quello di Bellinzona. Altri recinti minori racchiudono inoltre sculture di grande interesse, come i cimiteri di Chiasso e Morcote. Nel 1895 il canonico Pietro Vegezzi dedica gran parte del suo volumetto intitolato I nostri morti alla monumentalità recentemente sancita anche per legge del recinto cimiteriale luganese, nel quale dal 1° settembre 1891 per collocare lapidi o monumenti era ormai obbligatorio – su modello della normativa già in vigore nei cimiteri monumentali italiani – presentare agli uffici preposti un progetto “colla misura precisa dello spazio da occuparsi”. 11 Il canonico apre la descrizione delle opere d’arte raccolte nel recinto cimiteriale con i lavori del massimo esponente degli scultori ticinesi, Vincenzo Vela, insostituibile punto di riferimento per gli scultori ticinesi anche in ambito funerario. Vegezzi presenta quindi gli altri autori, di cui il primo è Raimondo Pereda. Nato nel 1840, fino al 1893 docente alla Scuola di disegno di Lugano, Pereda appartiene alla prima generazione cresciuta sotto l’influenza di Vela. Il rimando al maestro si evidenzia in una delle prove più convincenti di Pereda, il delicato Monumento Amelia De Filippis, fanciulla morta quindicenne nel 1887, raffigurata come anima in preghiera avvolta in una lieve tunica panneggiata alla base (fig. 8). La scultura, che si innalza da uno scabro masso appena sgrezzato a simboleggiare il distacco della defunta dalle durezze terrene, con al suo fianco il realistico busto del padre Battista eseguito dallo stesso Pereda nel 1887, è collocata all’interno di un tempietto classicheggiante circondato da un recinto in ferro battuto. Tale tipologia sepolcrale, ripetuta fino agli anni ’80 dell’Ottocento nei cimiteri monumentali, è oggi rara nel suo aspetto originario, qui ancora conservatosi. Ugualmente rari nei cimiteri ticinesi sono gli esempi del monumento funerario per eccellenza: la piramide. L’opera funeraria degli scultori del Canton Ticino 8. Raimondo Pereda, Monumento ad Amelia De Filippis, 1888 c., marmo, Lugano, Cimitero 9. Antonio Chiattone, Monumento Famiglia Rezzonico, 1900, marmo, Lugano, Cimitero Ripresa con grande fortuna nella stagione neoclassica europea, la tipologia della piramide non è affatto frequente neppure nei massimi cimiteri monumentali italiani, inauguratisi come i ticinesi in un’epoca in cui la cultura architettonica dell’eclettismo già percorreva altri revival stilistici. Essa diviene motivo architettonico suggerito con una resa bidimensionale nel Monumento Famiglia Carlo Vella di Antonio Chiattone, eretto attorno al 1895 nel cimitero di Faido e nel Monumento famiglia G. Rezzonico, sempre di Chiattone, artista sul quale torneremo in seguito, collocato al cimitero di Lugano nel 1900 (fig. 9). Lo scultore di Chiasso Antonio Soldini è ancora privo di uno studio che ne restituisca il giusto ruolo nella storia della plastica ticinese. Nato nel 1854, fu allievo a Brera di Lorenzo Vela al cui insegnamento si deve con ogni probabilità non solo l’abilità scultorea, ma anche quella particolare maestria progettuale e soprattutto decorativa che Soldini dispiega nelle commissioni funerarie, specie degli anni Ottanta. Si veda il precoce ma complesso Monumento per la Famiglia Valsangiacomo collocato in un’arcata del cimitero Comunale di Chiasso (fig. 10), non firmato ma senz’altro attribuibile a Soldini per le strette assonanze stilistiche sia con l’attiguo e firmato Monumento per la Famiglia Pedroni (fig. 11), sia con la figura angelica dei monumenti Dandrea e Bernasconi. 291 Lo splendore della forma 10. Antonio Soldini, Monumento Funebre Famiglia Valsangiacomo, 1881-1887, Chiasso, Cimitero 11. Antonio Soldini, Monumento Famiglia Pedroni, 1889, Chiasso, Cimitero 292 I fratelli Chiattone Nell’area ticinese la vicenda artistica dei fratelli Chiattone12 offre il massimo esempio di qualità coniugata alla serialità di “bottega” e alla riconoscibilità di uno stile. Ancora poco conosciuta, l’attività di Antonio Chiattone – fratello maggiore del più noto Giuseppe, anch’egli scultore – si snoda tra monumenti commemorativi, funerari e opere di genere, su cui si tornerà in seguito. Di formazione braidense – nel 1875 si iscrive all’Accademia milanese per poi frequentare l’atelier di Francesco Barzaghi – Antonio si muove nell’ambiente della Scapigliatura lombarda. Nel 1881 apre un proprio studio a Milano, chiamandovi a lavorare Giuseppe, il fratello più giovane. Secondo le biografie più recenti rientra quindi a Lugano nel 1886.13 Certamente i rapporti con la città natale non si erano interrotti nel corso della permanenza milanese; ne fa fede la realizzazione del Monumento funebre a Elvira Greco, datato 1883, collocato al cimitero di Lugano. La stretta collaborazione tra i due fratelli – attestata anche dalla firma “Fratelli Chiattone Lugano” apposta su molti lavori – continua almeno fino al 1897. Alla bottega dei Chiattone è assegnato da Vegezzi14 il Monumento a Carlo Fumagalli eseguito nel 1886 per il Cimitero di Lugano, seguito nel 1887 dal Monumento al pittore Carlo Bossoli. Nel 1892 lo scultore incontra a Lugano l’imperatrice Elisabetta d’Austria, dalla quale otterrà prestigiose committenze: nel 1894 per un mausoleo commemorativo dell’arciduca Rodolfo da collocare a Corfù,15 a Villa Achilleion, quindi per altre opere all’interno L’opera funeraria degli scultori del Canton Ticino 12. Antonio Chiattone, Monumento Famiglie Rava-Molo, 1896, marmo, Lugano, Cimitero della villa e un lavoro “per onorare la memoria dell’arciduca Alberto”, 16 infine un monumento alla stessa imperatrice. Nel 1902 lo scultore sarà insignito di un’alta onorificenza imperiale. Dagli anni Novanta alla morte Antonio Chiattone attraversa dunque il suo periodo maturo e di maggiore prestigio. Lo attestano anche la menzione speciale ottenuta all’Esposizione universale di Parigi del 1900 con il marmo de Il riposo – il cui modello in gesso era stato presentato a Milano nel 1881 – e, in ambito funerario, alcuni capolavori collocati al cimitero di Lugano. Dall’ultimo decennio dell’Ottocento sino agli anni Venti inoltrati, anche nel Cantone si diffonde nella scultura funeraria il gusto e il linguaggio simbolista, che predilige simbologie di gusto letterario o religioso tradotte plasticamente in uno stile nuovo, più armonioso e fluido, preludio al trionfo del Liberty che segnerà con maggiore decisione il primo decennio del Novecento: a questi nuovi modi si uniforma anche la plastica di Antonio Chiattone. Si veda il Monumento famiglie Rava Molo (fig. 12) eseguito nel 1896, dove nella figura femminile in meditazione accanto a un’urna su un sepolcro ricoperto da un prato fiorito lo scultore recepisce la maniera della scultura simbolista internazionale, esplicitata nell’essenzialità delle linee fluide e nella purezza del modellato. Qualche anno dopo, nel già ricordato Monumento famiglia Davide Enderlin,17 riprogettato nel 1900 in memoria della fanciulla Pia, lo scultore accoglie a pieno nella sontuosa base a motivi vegetali il gusto liberty ormai diffuso, 293 Lo splendore della forma 13. Antonio Chiattone, Monumento Pia Enderlin (Nicchione Famiglia Davide Enderlin), 1900, marmo, Lugano, Cimitero 14. Giuseppe Chiattone, Monumento Aristide Bergès, 1904, Tolosa, Cimitero monumentale di Terre-Cabade 294 inserendo virtuosistici motivi floreali scolpiti come un pizzo nel marmo (fig. 13). Per Antonio Chiattone, modello esplicito per queste assai richieste sepolture a nicchia collocate sotto i porticati dei cimiteri monumentali ticinesi, caratterizzate dalla ridondanza degli elementi decorativi, furono le opere funerarie realizzate da Leonardo Bistolfi e da Edoardo Rubino, dagli anni ’90 dell’Ottocento, soprattutto per il cimitero Generale torinese. Proprio con la ricchezza degli elementi decorativi policromi in marmo, a fresco, ferro battuto, ceramica, mosaico e altro ancora Chiattone “firma” le sepolture monumentali della sua bottega, progettate come un unico manufatto artistico a più voci. Si tratta di uno stile immediatamente riconoscibile che sarà reso ancora più esuberante dal fratello Giuseppe che dalla morte di Antonio, nel 1904, diresse la bottega familiare.18 Risale a questa data di passaggio un monumento funerario che arricchisce l’ancora incompleto censimento dell’opera di Giuseppe Chiattone, confermandone al contempo la versatilità stilistica. Il cimitero monumentale di Terre-Cabade a Tolosa accoglie la sepoltura monumentale per Aristide Bergès (1835-1904), industriale cartaio e innovatore nella tecnologia dell’energia idraulica (fig. 14), firmata nel 1904 da Chiattone. Il monumento di gusto neoclassico è costituito da un imponente tholos a pianta circolare raffigurata simbolicamente in rovina, arricchita alla base da un bassorilievo che descrive la fabbrica del defunto.19 Allievo a Brera dal 1880 al 1886, Giuseppe Chiattone è L’opera funeraria degli scultori del Canton Ticino 15. Giuseppe Chiattone, Fragilità della vita. Monumento famiglia D’Ambrogio (dettaglio), 1905, marmo e bronzo, Lugano, Cimitero senz’altro una delle personalità artistiche ticinesi di maggior valore, e non solo in ambito funerario. Proprio all’interno di questo specifico settore egli lascia il segno più incisivo; le sue opere furono infatti per i contemporanei dei modelli cui guardare, per gli studiosi di oggi esempi di una produzione personale e riconoscibile. Nei primi anni del secolo egli riprende nelle sepolture dei cimiteri ticinesi la policromia caratterizzante le ultime opere del fratello Antonio esasperandone la perfezione tecnica, quasi a voler stupire per la maestria della resa dei particolari, nelle sculture come in ogni ambito delle arti applicate. Bastino come esempi i marmi, il bronzeo – segantiniano – albero fiorito e, sulla volta e sul fondale, le complesse decorazioni simboliche in gesso policromo della Fragilità della vita per il Monumento famiglia D’Ambrogio collocato nel 1905,20 (fig. 15) lo stupefacente manto damascato trasferito nel marmo di Carrara per la fanciulla angelicata posta nella nicchia del Monumento famiglia Bianchi-Raposi (Fides mistica pacis), del 1908 (fig. 16), completato in alto da una schiera di angeli musicanti inserita in una falsa architettura di gusto eclettico. La critica ha spesso sottolineato l’adesione dell’artista ai modi del simbolismo, specie per i temi funerari; si tratta comunque di un’affinità di superficie e di forma più che di profonda condivisione di una poetica. Si vedano a questo proposito opere come il rilievo per il Monumento Leopoldina Beretta del 1909, al cimitero di Chiasso e il pur notevolissimo doppio gruppo sculto- 295 Lo splendore della forma 16. Giuseppe Chiattone, Fides mistica pacis. Monumento Famiglia Bianchi-Raposi, 1908 c., Lugano, Cimitero 296 reo allegorico per il Monumento Moroni-Stampa del 1911, al cimitero di Lugano, coronato da un bassorilievo intitolato Vita Somnium Breve raffigurante il motivo bistolfiano dei Funerali di una vergine (fig. 17). Dal decennio successivo lo stile di Chiattone si fa più greve insistendo su un’iconografia di matrice simboli- 17. Giuseppe Chiattone, Vita somnium breve. Monumento Famiglia Giovan Battista Moroni-Stampa, 1911, marmo, Lugano, Cimitero L’opera funeraria degli scultori del Canton Ticino sta tradotta in una plastica dal modellato appesantito e di facile lettura. Se infatti gli elementi iconografici di questa più tarda produzione rimandano direttamente a opere come L’Ave Maria del 1898 presentata in quell’anno a Basilea, suo precoce capolavoro, o al gruppo Pace domestica per il Monumento Famiglia Fedele del 1906,21 alberi, pecorelle, giardini, brani di paesaggio montano accostati a figurazioni spesso a tutto tondo in esso inserite appaiono ora svuotati da ogni tensione poetica, mera formula compositiva coniugata a un sobrio realismo, dove l’intento narrativo è talora di assoluta evidenza. Le sue pastorelle in preghiera accanto a piccole croci, i salici piangenti che ombreggiano i sepolcri, i massi scabri su cui si muovono i personaggi rimandano a modelli d’antica e illustre tradizione devozionale popolare quali i gruppi scultorei delle cappelle dei Sacri Monti. A tale ascendenza si possono riferire anche la policromia delle pietre utilizzate che caratterizza le realizzazioni dell’artista e l’inserimento non secondario di altri materiali nel manufatto artistico – ferri battuti, maioliche, vetri – con una sapienza che per decenni ha fatto identificare Chiattone e la sua bottega con lo stile dell’intero Cantone. Luigi Vassalli Con il luganese Luigi Vassalli, nato nel 1867, è ormai compiuta la svolta generazionale che porterà i giovani artisti nel Novecento. Dal 1884 Vassalli è a Milano all’Accademia di Brera, allievo di Lorenzo Vela, Francesco Barzaghi e Ambrogio Borghi; a Lugano apre un suo studio attorno al 1887, anno in cui si diploma e nel quale il giovane avrebbe iniziato la sua attività eseguendo il Monumento Brocca per il cimitero di Lugano.22 Da allora la carriera di scultore sarà premiata dai massimi riconoscimenti anche istituzionali, mentre come insegnante alla Scuola di disegno di Lugano avrà modo di formare molti degli scultori ticinesi della generazione successiva.23 L’opera di Vassalli percorre diligentemente e spesso con alti esiti formali il succedersi degli stili affermatisi nel corso degli oltre quattro decenni della sua attività artistica. Dai primi anni del Novecento, l’impegno e la 297 Lo splendore della forma 18. Luigi Vassalli, Monumento Famiglia Gaudenzio Somazzi, 1903, bronzo, Lugano, Cimitero 19. Luigi Vassalli, Monumento Famiglia Rutishauer, 1903, marmo, Lugano, Cimitero 298 fortuna nella plastica funeraria favorirono certamente l’apertura dello scultore verso un moderato simbolismo che rimase tuttavia caratterizzato da forti componenti descrittive e narrative che spesso appesantiscono la composizione. Crudo realismo e linguaggio evocativo si coniugano nel fondale bronzeo ad altorilievo del nicchione del Monumento Somazzi (1903) (fig. 18) in cui Vassalli raffigura una processione funebre iconograficamente molto vicina a due dipinti allora molto noti di Pietro Anastasio, Le vestali che lasciano il tempio (1890-1891) e Requiem (1891).24 Più convincente è l’altorilievo per il Monumento Rutishauser (fig. 19), del 1903, tra i capolavori dello scultore ticinese, nel quale la fanciulla protesa verso i gigli della purezza, quasi scavata nella nicchia che rimanda all’altra vita, rinvia direttamente alle composizioni funerarie di Leonardo Bistolfi, evocato anche in Spasimo, del 1910. Allo stesso 20. Luigi Vassalli, Continuità della vita, Monumento Famiglia Castagnola, 1908 c., marmo, Lugano, Cimitero 21. Luigi Vassalli, Monumento Scala-Solari, 1904, Lugano, Cimitero L’opera funeraria degli scultori del Canton Ticino 22. Luigi Vassalli, Adolescente piangente, Monumento Famiglia Widmer, 1927, bronzo, Lugano, Cimitero 23. Leone Pandolfi, Monumento funebre Angelo Spreafico, 1910, marmo, Lugano, Cimitero ascendente va riferita la struttura compositiva e architettonica del Monumento Castagnola (Continuità della Vita) (fig. 20), mentre la misurata figura femminile dolente recante la corona della Riconoscenza, in meditazione accanto al sepolcro, scolpita per il Monumento Scala-Solari (1904) (fig. 21), riprende con poche varianti la grande figura femminile del già citato Monumento Rigamonti, qui declinata da Vassalli accogliendo con parsimonia i suggerimenti dell’“Arte Nuova”, e impaginando la figura contro uno sfondo di gessi policromi decorato a serti di rose.25 Il prestigio istituzionale dello scultore verrà in certo modo consacrato nel 1913, quando per cura della Sezione ticinese della Società dei pittori, scultori e architetti svizzeri di cui era presidente egli organizzerà la Prima esposizione di belle arti della Svizzera Italiana26 nella quale espose diverse opere tra cui Continuità della vita27 e il marmo Cristo morto;28 misura dell’apprezzamento della sua opera, sarà infine la fortuna che incontrerà fino agli anni ’20 del Novecento il suo stile, improntato a un sobrio simbolismo ancora ben sostenuto dal confronto con il “vero” (fig. 22), in una fitta schiera di allievi o semplici imitatori. In ambito funerario è questo il caso di Leone Pandolfi, scultore privo di qualsiasi supporto bibliografico o documentario, di cui si segnala l’intensa figura femminile in preghiera collocata al cimitero di Lugano sulla sepoltura di Angelo Spreafico, del 1910 (fig. 23). Di ben altra fortuna e qualità si presenta l’opera di Giuseppe Foglia (Lugano 1888-1950), che frequenta i 299 Lo splendore della forma 24. Giuseppe Foglia, Monumento Famiglia Ender, 1924-1925 c., bronzo e granito, Castagnola, Cimitero 300 corsi di Luigi Vassalli alla Scuola d’arte e mestieri di Lugano e prosegue la formazione alla Scuola libera del nudo annessa all’Accademia di Roma. Rientrato a Lugano allo scoppio della guerra, si dedica al giornalismo d’arte e nel 1920 e 1926 espone alla Biennale di Venezia; nel 1925 partecipa alla Mostra d’arte svizzera di Karslruhe. La sua produzione si estende alla scultura monumentale, al disegno e alla pittura. La radice realista di Foglia affonda nella classicità e si traduce in chiave fortemente espressiva, soprattutto nella scultura a carattere monumentale, e in ambito funerario ricordo almeno la statua intitolata Silenzio (1923-1924) per la sepoltura Salvioni al Cimitero comunale di Bellinzona, il Monumento Ender (1924-1925) (fig. 24) al Cimitero comunale di Castagnola, e Risveglio per la sepoltura Vicari (1948), sempre a Castagnola. Scultori e marmorini La produzione di Luigi Piffaretti, nipote di Vincenzo Vela, appare strettamente legata all’influenza del grande scultore ticinese. Artista la cui carriera si svolse prevalentemente a Torino a contatto con l’ambiente del- L’opera funeraria degli scultori del Canton Ticino 25. Luigi Piffaretti e Gottardo Induni, Monumento sepolcrale a Vincenzo Vela, 1891, Ligornetto, Cimitero l’Accademia Albertina, in Ticino Piffaretti lascia la sua massima testimonianza nel Monumento Vincenzo Vela eretto con la collaborazione di Gottardo Induni nel cimitero di Ligornetto (fig. 25); nell’opera – dove per volere dello stesso Vela è collocata una copia di scuola del suo Ecce Homo scolpito nel 1870 per l’edicola dei conti Giulini a Velate Brianza (fig. 26) – l’acuto realismo dei particolari – si veda la resa del materasso su cui è adagiato il defunto – è accostato alla struttura compositiva di misura classicheggiante. Ampelio Regazzoni presentò alla Terza Esposizione Triennale di Belle Arti di Brera tenutasi a Milano nel 1897, una “statua in gesso” dal titolo Cristo alla colon- 301 26. Vincenzo Vela, Ecce Homo, Edicola Giulini Della Porta, 1868, Cimitero di Velate 27. Ampelio Ragazzoni, Cristo legato alla colonna, Monumento Famiglie Pietro e Antonio Bernasconi, 1896, bronzo, Chiasso, Cimitero Lo splendore della forma L’opera funeraria degli scultori del Canton Ticino 29. Pietro Andreoletti, Monumento alle vittime del San Gottardo, 1889, marmo, Göschenen, Cimitero 30. Pietro Andreoletti, Monumento alle vittime del traforo del San Gottardo, 1886, marmo, gneiss, Airolo, Cimitero 28. Ignoto, Stele funeraria per due coniugi, 1870 c., Cureglia, Cimitero 302 na,29 bene accolta dalla critica. Una fusione in bronzo dell’opera è collocata al cimitero di Chiasso nella nicchia dell’arcata monumentale concessa alle famiglie Pietro e Antonio Bernasconi (fig. 27). La scultura, firmata e datata 1896, rivela un artefice sensibile di cui purtroppo si sono finora rintracciate poche notizie, e un segna un momento alto della plastica ticinese dell’ultimo Ottocento, che qui appare strettamente legata agli esiti della scultura realista lombarda. Alla stessa matrice va riferito anche il brano di verismo offerto dal Tagliapietre presentato da Regazzoni a Berna nel 1894 e recensito da Luigi Chirtani.30 Altri artefici di minore incisività qualitativa, seppure di notevole interesse per un inquadramento generale della plastica ticinese del tempo, sono Michelangelo Marchesi e il padre Gerolamo, dei quali sono state rintracciate sepolture di un certo interesse caratterizzate dalla particolare attenzione per l’apparato decorativo e simbolico sul quale spicca, a coronamento della doppia centina, il pellicano che sfama i suoi piccoli; simbolo raro in ambi- to funerario originato dalla leggenda secondo la quale esso stesso fa sgorgare il sangue dal suo petto in un atto di amore per nutrire i suoi piccoli, il pellicano divenne nella tradizione ecclesiale simbolo di Cristo dal cui fianco squarciato uscì sangue e acqua per la riconciliazione e la divinizzazione di tutta la Chiesa.31 Al cimitero di Cureglia si veda la stele d’autore anonimo con due ritratti affrontati di coniugi, che rimanda a una tra le più antiche iconografie funebri (fig. 28). Nei cimiteri, non solo ticinesi, e nella committenza sacra è infine racchiusa anche l’attività principale di Pietro Andreoletti (Porto Ceresio, 1860) e della sua bottega d’arte funeraria attiva a Faido (figg. 29 e 30). 1 2 Per una visione d’insieme delle sculture ottocentesche del Duomo di Milano rimando a R. Bossaglia, L’Ottocento: fra neoclassico, purismo, romanticismo e floreale, in Il Duomo di Milano, Cassa di Risparmio delle Provincie Lombarde, Milano 1973, pp. 134-165. Per un’analisi della scultura ticinese del tempo si veda G. Ginex, Scultura ticinese. Committenza e mutamenti del gusto, in R. Chiappini, a cura di, Arte in Ticino. 1803-2003. La ricerca di un’appartenenza. 1803-1870, catalogo della mostra, Museo di Belle Arti-Lugano, Salvioni Edizioni, Lugano 2001, pp. 221-244. Per una contestualizzazione dell’opera di Somaini a Milano, si veda M.T. Fio- 3 rio, a cura di, Le Chiese di Milano, Electa, Milano 1985, p. 163. Tra le principali commissioni fuori città ricordo almeno le due statue Fede e Speranza per l’altare sinistro della chiesa barocca di Santa Maria del Sole a Lodi e le due statue in marmo di san Gioachimo e san Giuseppe, presentate a Brera nel 1842 per la fabbriceria di Spirano. A Torino Somaini eseguì il grande bassorilievo sul frontone della chiesa dedicata alla Gran Madre di Dio e a Novara gli Angeli colossali per la cattedrale. Il legame tra Somaini e l’architetto Cagnola risale alla chiamata dello scultore all’impresa della decorazione dell’Arco del Sempione a Milano 303 L’opera funeraria degli scultori del Canton Ticino Lo splendore della forma 4 5 6 7 304 8 9 10 11 (1806-1838) ed è confermato dalla partecipazione alla decorazione degli ambienti della villa che l’architetto progettò ed eresse per se stesso a Inverigo (La Rotonda, che oggi ospita la Fondazione don Gnocchi) nel 1813, ultimata nel 1833. Cfr. V. Terraroli, Il Vantiniano. La scultura monumentale a Brescia tra Ottocento e Novecento, Grafo, Brescia 1990, p. 38, fig. 8. Monumento sepolcrale in marmo di commissione della signora Anna Torriani e della di lei figlia Agnese vedova Missori da collocarsi nel cimitero del comune di Gentilino presso Lugano (catalogo Brera, n. 423, p. 56). Lavizzari, Escursioni nel Canton Ticino, 1863 (ed. 1988), p. 167. Sul cimitero di Gentilino si veda inoltre P. Vegezzi, in “Gazzetta Ticinese”, 18 settembre 1885 e M. Agliati, Storia e storie della Collina d’oro, Gaggini-Bizzozzero, Lugano 1978, pp. 82-107. Domenico Gilardi (Montagnola 17851845 Milano) deve la sua fama all’attività svolta a Mosca, alla cui ricostruzione seguita alle devastazioni e gli incendi causati dalle campagne napoleoniche egli contribuì massicciamente. Gilardi lasciò la Russia nel 1832. La progettazione del cimitero di Gentilino è documentata da una lettera del 14 agosto 1839 (Lettera di Pasquale Lucchini alla Municipalità del Comune di Gentilino, 14 agosto 1839. Gentilino, Archivio Comunale, scatola 367, 333.7). Cfr. G. Pasqualigo, Manuale ad uso del forastiere in Lugano, Lugano 1855, p. 181 e Lavizzari, Escursioni cit., p. 80. Sulle vicende dei cimiteri luganesi vedi anche P. Vegezzi, I nostri morti. Il camposanto di Lugano ed i suoi principali monumenti, Tip. Traversa, LuganoMenrisio 1893 (2° edizione); P. Vegezzi-A. Tamburini, Il vecchio Camposanto di Lugano e le iscrizioni dei principali Monumenti, Tip. Traversa, LuganoMendrisio 1901. Per il Monumento Pietro Riva si veda Pasqualigo, Manuale cit., p. 136. Si veda G. Ginex, Scultura ticinese: un percorso tra temi e artefici, in R. Chiappini, a cura di, Arte in Ticino. 1803-2003. L’affermazione di un’identità. 1870-1914, catalogo della mostra, Museo di Belle Arti-Lugano, Salvioni Edizioni, Lugano 2002, pp. 141-166. In Cronaca di Lugano, in “Gazzetta 12 13 14 15 16 17 18 19 Ticinese”, 18 agosto 1891. Allo stato attuale delle ricerche archivistiche i progetti presentati per le sepolture non sono stati rinvenuti. “Scultori che godono meritata fama fra noi e all’estero, sono gli intelligenti e distinti fratelli Chiattone”, così in Canonico [Pietro] Vegezzi, I nostri morti. Il camposanto di Lugano ed i suoi principali monumenti, Tip. Traversa, LuganoMendrisio 1895, p.12. Per i Chiattone, si vedano i testi di C. Sonderegger in Opere d’Arte della Città di Lugano. Donazione Chiattone, catalogo della mostra, Lugano-Museo Civico di Belle Arti. Villa Ciani, 13 ottobre 2006-15 aprile 2007, Lugano 2006. Ringrazio Sonderegger per avere fornito le riproduzioni delle opere presenti nei cimiteri ticinesi utilizzate in questo saggio e nella presentazione in Powerpoint realizzata da chi scrive per il Convegno (scansioni eseguite da Anahi Traversi). P. Vegezzi, I nostri morti cit., p. 12. Da “Gazzetta Ticinese”, 9 marzo 1895. In “Gazzetta Ticinese”, 25 marzo 1895. Si segnala la decorazione a fresco del muro di sfondo, oggi quasi completamente illeggibile, che completava la composizione scultorea con un paesaggio e un volo di angeli; inoltre è da ricordare la presenza nel nicchione del busto di Giuseppe Enderlin realizzato nel 1884 da Vincenzo Vela. L’artista aveva iniziato a operare autonomamente in ambito funerario anche prima della morte del fratello maggiore. All’Esposizione svizzera del 1897 figurava D’içi bas ils n’ont connu que les fleurs!, “modello di monumento sepolcrale in memoria di Zisette e Francis Wanner, Ginevra” (Esposizione Svizzera di belle arti di Lugano. Catalogo, catalogo della mostra [esposizione circolante], Tip. Traversa, Lugano 1897, n. 2, p. 25). Sul monumento si veda anche G. Foletti, Arte nell’Ottocento. La pittura e la scultura del Cantone Ticino (18701920), Locarno 2001, p. 208, nota 15. Altre informazioni, in particolare su Aristide Bergès sono state tratte dal sito web del Comune di Tolosa, Francia. Il cimitero di Terre-Cabade [terra scavata, argilla] di Tolosa fu aperto nel 1844 su progetto dell’architetto Urbain Vitry che lo ideò in uno stile ispirato all’antico Egitto. 20 21 22 23 24 25 Con ogni probabilità si tratta di Vie brisée esposta a Losanna nel 1904. Inaugurato al cimitero di Lugano nel novembre del 1906, il monumento fu recensito nella rubrica Cose d’arte del “Corriere del Ticino” (10 novembre 1906) dando peculiare rilievo alla particolare iconografia dell’opera. J. Belloni, Luigi Vassalli, Società ticinese per le belle arti, Lugano 1932, s.p. Per Vassalli, tra i più documentati degli scultori ticinesi del suo tempo, si veda in G. Foletti, Arte nell’Ottocento cit., pp. 473-483. A differenza di quanto finora pubblicato, Requiem è sicuramente databile al 1891 ante quem, essendo stato presentato a Lugano nel 1891. Si veda in Esposizione artistica svizzera in Lugano. Catalogo delle opere esposte, catalogo della mostra (esposizione circolante), Tip. Traversa, Lugano 1891, n. 32, p. 27 (Requiem). Alla stessa mostra fu presentato anche Le vestali che lasciano il tempio (ibidem, n. 51, p. 28). A una di queste sepolture va forse rife- 26 27 28 29 30 31 rita Requiescant in pace presentata a Losanna nel 1904. Prima esposizione di belle arti della Svizzera Italiana. Catalogo ufficiale, catalogo della mostra (Villa CianiLugano), Tip. Luganese, Lugano 1913. Si veda anche in G. Foletti, Arte nell’Ottocento cit., p. 35. Prima esposizione cit., n. 6, p. 11. ibidem, n. 5, p. 17. Terza Esposizione Triennale di Belle Arti. Brera 1897. Catalogo illustrato (Milano, Palazzo di Brera), F.lli Treves, Milano 1897, n. 327, p. 41. Regazzoni, che compare in catalogo come abitante a Milano in via Montebello 3, esponeva anche In ascolto (n. 282, p. 35). L. Chirtani, Il tagliapietre. Statua al vero in marmo di Ampelio Regazzoni, in “Natura e arte”, gennaio 1896, p. 336. Giovanni, 19, 33-34. Il tema è ripreso da San Tommaso d’Aquino nell’inno Adoro te devote: “Pie pellicane, Jesu Domine / me immundum munda tuo sanguine / cuius una stilla salvum facere / totum mundum quit ab omni scelere”.. 305 Tre tombe ottomane nella Trieste dell’Ottocento di Cristina Rovere Tre tombe ottomane nella Trieste dell’Ottocento 1. Il lavacro con copertura a cupola ficazioni nella società, distinguendo le diverse persone e le diverse funzioni. Per trovare a Trieste dei “veri” turbanti ottocenteschi, cioè dei turbanti che portino in sé una connotazione distintiva di status sociale, bisogna recarsi al cimitero chiamato turco o ottomano. In questo cimitero si conservano tre lapidi antropomorfe, tre lapidi che imitano la sagoma umana, portando nella parte apicale della stele un copricapo. 306 Un viaggiatore ottocentesco di passaggio a Trieste annotava come in città ci fossero “italiani, turchi, ebrei, spagnoli […] parlanti ciascuno nella propria lingua […] gente eterogenea per patria, costumi, fisionomia […]”.1 Oggi le uniche solide tracce di quel fecondo periodo di scambi e intrecci si conservano nella zona cimiteriale di Trieste, dove accanto al cimitero cattolico – entrato in uso nel 1825 – si trovano una serie di cimiteri acattolici (ebraico, greco ortodosso, ottomano ecc.). Questo mosaico cimiteriale è l’ipostatizzazione della società triestina multiculturale del XIX secolo, quella delle millet – le comunità religiose – che convivevano una a fianco all’altra in una continua dialettica di vicinanza/distanza. Le millet a volte si mescolavano per fare affari insieme, si contaminavano sotto il profilo della moda, al punto che le signore triestine “andavano a teatro col turbante alla turca, all’armena, alla persiana, [turbante] composto di due mezzi scialli di cachemire [...]”.2 I turbanti che le triestine indossavano hanno sempre avuto nei mondi islamici la funzione di tracciare strati- 307 Il cimitero ottomano Il cimitero turco o ottomano è ancora oggi in uso, e sarebbe più esatto definirlo semplicemente islamico, perché strettamente confessionale. Venne istituito dal Governo Austriaco nel 1842 e dato in cessione formale nel 1849 al Console Generale dell’Impero Ottomano presente in città. Dall’esterno del muro che lo circonda si scorge una cupola sormontata da una mezza luna orientata secondo la qibla, la direzione che indica la città di Mecca (fig. 1). La cupola copre un piccolo edificio che in passato è stato erroneamente identificato come una moschea,3 ma che nella realtà è un lavacro. Al suo interno, infatti, si trova un piano di marmo su cui la salma viene deposta per essere lavata e preparata (fig. 2). La morte dei musulmani è accompagnata da un rito che si svolge secondo norme ben definite e codificate in quattro fasi: il lavaggio del corpo, il suo avvolgimento in sudari, la preghiera corale per lui/lei e infine il seppellimento nella nuda terra.4 Lo splendore della forma Tre tombe ottomane nella Trieste dell’Ottocento 3. La lapide del pellegrino 2. Il piano di marmo su cui la salma viene preparata per l’inumazione 308 Le lapidi antropomorfe Per i musulmani la morte è un passaggio dalla “dimora terrena” (dār ad-dunya) all’“ultima dimora” (dār alakhı¯ra). In linea di principio per le lapidi si raccomandava – e si raccomanda – sobrietà e semplicità, se non addirittura forme di anonimato, anche per prevenire eventuali espressioni di idolatria. Ma all’interno dell’Impero Ottomano, a partire dal XVI secolo e fino quasi alla metà del XIX, si assiste invece all’individualizzazione delle sepolture attraverso la comparsa delle lapidi antropomorfe. Le tre lapidi antropomorfe di questo cimitero sono un unicum, perché questa tipologia funeraria fu presente sempre e soltanto entro i confini dell’Impero Ottomano. Queste tombe sono l’unico esempio di lapidi antropomorfe nell’Europa Occidentale, e mentre simili sepolture divennero sempre più desuete in Turchia entro la prima metà dell’Ottocento, nel cimitero triestino permangono ben oltre la metà di tale secolo. Uno scrittore russo parlando di lapidi dice “se scruto a lungo la lapide che per qualche motivo mi ha emozionato, mi sembra di vedere la persona che è qui sepolta […] la sento 4. Particolare del copricapo persino raccontarmi la sua vita”.5 In questo caso lo sforzo immaginativo dell’osservatore è ridotto, perché queste lapidi si raccontano nell’iscrizione funeraria – che riporta molti dati personali del defunto, come la professione – e nel copricapo. Nell’Impero Ottomano gli abiti erano regolamentati con registri di etichetta che ne stabilivano fogge, colori e dimensioni. Anche i copricapi – parte integrante dell’abbigliamento – erano codificati e dunque indicativi dello status di chi li indossava. I turbanti, quindi, così come erano distintivi in vita, lo diventano pure nella rappresentazione sulle lapidi. Con questo tipo di lapidi si assiste a un fenomeno di stratificazione sociale della morte. Gli uomini decidono di lasciare traccia di sé, escono dall’anonimato. El-hāgg, il pellegrino Questa lapide appartiene a Muhammad Beg Čārı̄k Bosna, un bosniaco, morto nel 1291 del calendario islamico, che corrisponde al 1874-75 del calendario gregoriano.6 È un prisma a base quadrangolare, con all’interno l’iscrizione e sopra un cilindro su cui poggia il copricapo (fig. 3). Nella stele, oltre al nome del defunto e alla data di morte, compaiono un’invocazione a Dio e la richiesta di recitare per lui una preghiera, una Fātiha. Questa 309 Lo splendore della forma Tre tombe ottomane nella Trieste dell’Ottocento 7. Particolare del turbante 5. La lapide del capitano 6. La lapide del mistico L’iscrizione – in sei cartigli obliqui – è più esplicativa. Prima del nome del defunto – Muhammad Ben Hāgı̄ Huseı̄n Bilālı̄ – viene infatti indicata la professione, qapudān, ovvero capitano. Si deduce quindi che anche Huseı̄n Bilālı̄ era un militare, sepolto nel cimitero di Trieste nel 1279 H./1862-63. 310 formula di iscrizione, seppure con ordine differente, sarà presente anche nelle altre due sepolture. “L’abitatore della tomba” viene definito el-hāgg, cioè il pellegrino, titolo che veniva – e viene – assegnato a chi abbia compiuto il pellegrinaggio a Mecca, e che diventa titolo distintivo, onorifico. Il copricapo è un kalāh, un berretto di feltro o lana con al centro un cono o un cilindro. Questo copre le orecchie e parte del collo e, in corrispondenza del viso, si vedono delle incisioni verticali a indicare una griglia di protezione. All’altezza del collo un decoro dentellato imita una striscia di passamaneria, mentre all’altezza delle orecchie sono incise una borchia e una piuma (fig. 4). Borchie, piume e passamaneria erano decori preziosi, riservati agli ufficiali. Questi elementi permettono di identificare Muhammad Beg Čārı̄k Bosna come un militare che apparteneva ai quadri superiori dell’esercito. Al-qapudān, il capitano La lapide è un parallelepipedo sormontato da un turbante di fattura poco elaborata, che nella sua semplicità non dà molti dati sul defunto (fig. 5). Gül, la rosa mistica L’iscrizione della lapide comincia con la data – 1262 H./1845-46, è la più antica – e dopo la lunga invocazione a Dio, compare il nome del defunto ‘Abdallāh Ben Sālih Ülgünlı̄, “originario di Ülgün”, Dulcigno, in Montenegro (fig. 6). Vista l’origine montenegrina, si può supporre che anche egli fosse un militare delle eterogenee truppe balcaniche che prestavano servizio nelle zone adiacenti a Trieste. Il turbante – di semplice fattura – porta nell’angolo sinistro un particolare significativo: una rosa (gül, fig. 7). Se piume, passamaneria e borchie erano simboli caratterizzanti degli ufficiali, le rose invece erano distintive dei sufi, i mistici. ‘Abdallāh Ben Sālih apparteneva a una confraternita mistica (tāriqa). Due furono le confraternite più capillarmente diffuse nei Balcani: i bekhtashı̄ e i mevlevì. I bekhtashı̄ furono molto presenti nelle zone rurali dei Balcani, mentre l’ordine dei mevlevì – noto soprattutto per il rito della danza roteante, da cui il nome di “mistici danzanti” – ebbe “monasteri” disseminati all’interno di tutti i domini ottomani. 311 Tre tombe ottomane nella Trieste dell’Ottocento Lo splendore della forma Dal tipo di rosa, e dal raffronto con altre lapidi, si può identificare il defunto come un affiliato all’ordine dei bekhtashı̄. Lapide 3: gül, la rosa mistica Lui [Dio] è l’Eterno Anno 1262 (1845-46) Mi fu concessa per grazia di Dio la professione di fede. O mio Dio, concedimi la felicità per questo possa io trovare l’intercessione del Tuo Inviato. Originario di Ülgün ‘Abdallāh ben Sālih. [Si reciti] per il suo spirito una Fātiha. Vita/morte I cimiteri islamici nell’Ottocento, come ancora oggi, erano luoghi “pieni di fiori, di vigne e di arbusti”,7 venivano vissuti come dei giardini, scelti quali “prediletti e spessi passeggi”.8 Questo fatto aveva colpito molti viaggiatori tra i quali Théophile Gautier, che così raccontava il binomio vita/morte nel grande cimitero di Costantinopoli: “Qui non è la solitudine che si estende sull’oblio, ma la vita che riprende il posto concesso temporaneamente ai morti”.9 God is the Eternal Year 1262 (1845-46) I was granted for the grace of God The profession of faith. Almighty God, grant me happiness That I may find for this the intercession of Your Envoy. From Ülgün ‘Abdallāh ben Sālih. Recite a Fātiha for his spirit. Lapide 1: el-hāgg, il pellegrino 312 Egli è il Creatore, l’Eterno. Il bisognoso della Misericordia del Suo Signore Che concede il perdono. Debole, lontano l’abitatore della tomba El-hāgg Muhammad Beg Čārı̄k Bosna confida nella benevolenza di Dio. [Si reciti] una Fātiha. Anno 1291 (1874-75). He is the Creator, the Eternal. The one who needs the mercy of His Master Weak and far away is the one who inhabits the tomb. El-hāgg Muhammad Beg Čārı̄k Bosna He trusts in the goodness of God Recite a Fātiha (for his spirit). Year 1291 (1874-75). Lapide 2: al-qapudān, il capitano Egli [Dio] è Il Vivente. Anno 1279 (1862-63). Mi fu concessa per grazia di Dio la professione di fede. O mio Dio, concedimi la felicità per questo possa io trovare l’intercessione del Tuo Inviato il capitano Muhammad Ben Hāgı̄ Huseı¯n Bilālı̄. [Si reciti] per il suo spirito una Fātiha. God is the Living. Year 1279 (1862-63). I was granted for the grace of God The profession of faith. Almighty God, grant me happiness That I may find for this the intercession of Your Envoy. The captain Muhammad Ben Hāgı̄ Huseı¯n Bilālı̄. Recite a Fātiha for his spirit. 313 1 2 3 4 Da un articolo di un anonimo praghese contenuto in Gasparini, L., 21 autori. Impressioni su Trieste 1793-1887, Trieste 1951, pp. 37-39. Caprin, G., Tempi andati: pagine della vita triestina (1830-1848), Trieste 1891, p. 218. “Vedi da lontano una cappella turca, su cui scintilla dorata la mezza luna, è una moschea […]”, De Drago, V., Una passeggiata alle tombe. Pensieri e descrizioni sui Monumenti ed Epitaffi dei Cimiteri di Trieste, Trieste 1870, p. 211. Per una disamina dei rituali che accompagnano la morte e della storia del cimitero, rimando a un mio precedente lavoro Tracce islamiche nella 5 6 7 8 9 Trieste dell’Ottocento, Trieste 2005. Akunin, B. e Tchakhartichvili, G., Le città senza tempo, Milano 2006, p. 117. Da qui in avanti si indicherà l’anno del calendario islamico seguito da una “H.”, abbreviazione che corrisponde all’Higra – l’Egira – l’anno zero per i musulmani. Eberhardt, I., Heures de Tunis cit. dal sito: http://sufi.it/Islam/nisa/Isabelle1.htm. De Drago, V., Una passeggiata alle tombe cit., pp. 211-212. Gautier, T., Una passeggiata, in Guadalupi, G. (a cura di), Orienti. Viaggiatori scrittori dell’Ottocento, Milano 1989, p. 73. TEMI E PROBLEMI La Metamorfosi e la Vergine nella scultura liberty: alcune implicazioni di questo tema nel cambiamento di ruolo dello scultore funerario di Sandra Berresford Leonardo Bistolfi, il “poeta della morte” (Casale Monferrato 1859-1933), essendo il più importante scultore funerario simbolista d’Italia, necessita di una piccola introduzione. Della lunga descrizione di Bistolfi sul concetto riguardo La bellezza della morte, il suo monumento a Sebastiano Grandis (fig. 1), capo ingegnere del Tunnel del Frejus, un particolare della frase colpisce la mia mente: “… se in noi, viventi, vive un atomo dell’anima del mondo, e quest’atomo vivrà dopo di noi, la Morte non può essere il fenomeno crudele e spaventoso che ha turbato tante generazioni”.1 Sembra incongruente che un artista che non possiede specifiche conoscenze scientifiche possa riferirsi nel 1895 a “un atomo” anche se il linguaggio scientifico viene moderato da un riferimento più letterario “all’anima del mondo”. Dal 1890 la Tavola Periodica di Mendeleev era nota da circa venticinque anni e sebbene la prima pubblicazione di Einstein sulla relatività risalisse al decennio successivo, Torino era già attiva con discussioni scientifiche e filosofiche specialmente tra i Lom- 317 Lo splendore della forma 1. Leonardo Bistolfi, La Bellezza della Morte, Monumento a Sebastiano Grandis, particolare, 1895, Borgo San Dalmazzo (Cuneo), Cimitero (foto Robert Fichter) 318 brosiani e nei Circoli Universitari, dove intellettuali come Arturo Graf e Giovanni Cena stavano volgendo il loro interesse verso il socialismo. Bistolfi descrisse la sua idea come “un’intuizione spontanea” ma non ci sono dubbi sul fatto che fu influenzato dall’ambiente a lui vicino. Analogamente il suo commento letterario lo pone al centro del dibattito contemporaneo sul ruolo dell’arte e della letteratura. Inoltre, il riferimento all’inconscio onirico della sua creatività ricorda che le religioni alternative (Buddismo, Teosofia e Spiritualismo in generale) facevano parte del complesso Zeitgeist della fin de siècle europea. Nella sensuale figura femminile La bellezza della morte lo scultore ha affermato: “La rappresentazione plastica della bellezza immortale e perpetuamente giovane della sua idea nella figura spirituale della fanciulla che emana dalla tomba, fremente d’ansia di vita rinovellata e come inebriata di profumi esalati di quella candida rinascenza di fiori ideali”.2 La mancanza di definizione era intenzionale e il turbolento senso di vitalità nei drappeggi nella parte più bassa del monumento fu progettata per attirare la mente verso l’al- La Metamorfosi e la Vergine nella scultura liberty to, verso la spiritualità. Il lavoro fu elogiato nei circoli d’avanguardia come rappresentativo di un nuovo tipo d’immaginazione funeraria: l’incarnazione della metamorfosi e, per associazione, il rifiuto del concetto cattolico di resurrezione del corpo, furono visti come una giustificazione della relativamente nuova pratica di cremazione. Non è una coincidenza che la maggior parte delle sculture sul tema delle metamorfosi fu eseguita nel nord Italia, dove i crematori furono costruiti negli anni ’70 e ’80 dell’Ottocento e dove queste idee erano meglio accettate rispetto al sud, prevalentemente agricolo e più conservatore. Paola Lombroso, figlia di Cesare, usò di nuovo una terminologia scientifica per descrivere un concetto implicito del monumento Grandis: “La Morte non è in fondo che il laboratorio della vita. La materia circola continuamente e la morte non è che una fase transitoria, necessaria per passare al rinnovamento della vita, perché le scorie della decomposizione si trasformino in linfe vitali. Non è più la ribellione contro la morte, ma l’intuizione di un eterno mistero, di una legge di venusto equilibrio”.3 Alla luce di questa nuova filosofia lo scultore sostiene che la morte non deve più essere “il crudele e spaventoso fenomeno che ha addolorato tante generazioni”.4 In verità quando si considera la scultura del periodo realista, si intuisce che la nuova società borghese, tutto sommato, ha provato a cercare un compromesso abbastanza equo con la morte. Il messaggio che la scultura realista spesso trasmette, sia con parole sia in immagini, è che se si è condotta una vita giusta e morale si ottiene un posto garantito in Paradiso. Il ruolo dei fiori scolpiti qui è importante ma non vitale: sono portati come corone o bouquet da familiari in lutto e fanno parte dello “scenario della Morte” del Realismo; in quanto tali essi poterono perfino diventare importanti status symbol: più ostentati i fiori, più importante il defunto. In ogni caso esisteva già una stretta associazione tra i fiori, simboli di purezza ma anche di effimere e premature morti: le tombe dei bambini raramente sono prive di decorazioni particolari e ricchi tributi floreali, sia reali sia scolpiti (fig. 2). Mentre la nuova scienza metteva in dubbio le certezze della religione e l’arte cercava nuovi ideali spirituali, la 319 Lo splendore della forma 2. Michele Auteri-Pomar, Emma e Bianca Marchesini, 1874, Firenze, Cimitero delle Porte Sante (foto Robert Freidus) 3. Leonardo Bistolfi, La Sfinge, Tomba Famiglia Pansa, 1890-92, Cuneo, Cimitero (foto Robert Fichter) 320 morte divenne un mistero e, lungi dall’essere consolatorio, una minaccia. Il Monumento alla Famiglia Pansa di Bistolfi, a Cuneo, ideato nel 1890 e conosciuto come La Sfinge fu uno dei primi monumenti simbolisti in Italia, sulla scia dell’Angelo Oneto di Monteverde, ad affrontare ed esprimere i nuovi sentimenti di inquietudine e disagio nei confronti dell’Aldilà (fig. 3). Qui la cascata di fiori intricati scolpita e parzialmente stilizzata (crisantemi, papaveri e gigli dai lunghi steli) rappresenta la resurrezione e inizia a integrarsi con la figura. Mentre Bistolfi si impegnava in prima persona a realizzare il modello in argilla, la traduzione di questi dettagli floreali in duro marmo bianco richiedeva una particolare abilità da parte dello scultore e dei suoi assistenti. Poco dopo, nella tomba del piccolo Arnaldo Pugliese, figlio del suo amico Clemente Pugliese-Levi, pittore divisionista, i fiori scolpiti di Bistolfi, crescendo dal suolo, arrivarono a coprire la tomba di marmo bianco quasi dotati di vita propria.5 Le tombe ebraiche non potevano contenere immagini, ma un’eccezione generale fu fatta per i fiori e i motivi ornamentali. Infatti, la passione per il Liberty colpì anche la comunità ebraica, come tutti, negli anni ’90 dell’Ottocento, e si riflesse in tombe principalmente floreali come la Zamorani a Bologna.6 In quel periodo, il fascino legato alla morte e alla sepoltura fu evidenziato anche nella pittura italiana del Nord. Un esempio è ben rappresentato dal Piccolo bambino morto o dal Fiore raccolto (1903-06 Musée d’Orsay a Parigi) dell’amico di Bistolfi, il divisionista Giuseppe Pellizza. La Metamorfosi e la Vergine nella scultura liberty 4. Giovanni Lomazzi, Tomba Antonietta Risi Pogliani, 1902, Milano, Cimitero Monumentale, da Arte Funeraria Italiana, serie V, tavola 16 5. Cesare Reduzzi, Tomba Augusta Schumacher, 1899, Torino, Cimitero Monumentale Inoltre, Mentessi, e Previati eseguirono I funerali della Vergine, mentre Giovanni Segantini trattò la malattia, la morte e la sepoltura in diverse occasioni. L’albero della Vita e il ciclo della Natura Il tema del ciclo della Natura, sebbene non nuovo nell’arte funeraria, fu particolarmente popolare negli anni ’90 dell’Ottocento, ancora nel Centro-nord, perché rappresentava un’inclinazione più scientifica e laica nei confronti della morte.7 Esso era anche molto adatto a rappresentare gli ideali socialisti attraverso la figura del Seminatore/Contadino/Mietitore. Nel 1902 Giovanni Lomazzi, proprietario di una fonderia milanese di successo, propose questo tema per Antonietta Risi Pogliani, che voleva significativamente essere ricordata “come donna di fede mazziniana” (fig. 4). L’albero della vita diede inoltre allo scultore liberty un’ampia possibilità di utilizzo delle sue capacità ornamentali nel trattamento della vegetazione lussureggiante (fig. 5). La Morte e la Vergine 8 Tuttavia, la vera personificazione del tema della metamorfosi/fanciulla avvenne con la Purificazione di Bistolfi, la simbolica incarnazione della ventiseienne Emma Rocca Hierschel De Minerbi in una cappella privata a 321 Lo splendore della forma 6. Leonardo Bistolfi, Purificazione, Cappella Hierschel De Minerbi, interno, 1899-1903, Belgirate 7. Leonardo Bistolfi, Il Sogno, Tomba Erminia Cairati Vogt, 1900, Milano, Cimitero Monumentale (foto Robert Freidus) 322 Belgirate, uno dei gioielli della scultura liberty italiana (fig. 6). Realizzata nel periodo in cui Bistolfi stava diffondendo l’“Arte decorativa moderna”, l’opera fu progettata in ogni dettaglio (perfino l’epigrafe e i caratteri delle scritte) dallo scultore in quattro anni, dal 1899 al 1903. Esternamente si trova il bassorilievo del Funerale della Vergine mentre all’interno la figura di candido marmo bianco si solleva da un trionfo di gigli e rose verso altri gigli che scendono dall’alto, attesa da una schiera di angeli. Per Bistolfi il culmine della donna “in metamorfosi” è la statua chiamata Il sogno, realizzata nel 1900 per Emilia Cairati Vogt (cimitero di Milano), moglie del suo amico architetto e pittore Gerolamo Cairati (fig. 7). Qui, in un vortice di drappeggi e di fiori, apparentemente dotati di vita propria, l’Anima è nel suo stato finale di trasformazione: solo i bei piedi, una mano e il suo viso nascosto sotto il frusciante lenzuolo funebre sono visibili. Bistolfi non era proprio in sintonia con i Divisionisti a lui contemporanei: guardava al passato. Gli scultori sono meno preoccupati dei pittori nell’ostentare citazioni, forse perché gli insegnamenti accademici per la scultura erano basati sulla copia. Quale miglior fonte per una donna trasformata in vegetazione dell’Apollo e Daphne (1622-1625, Galleria Borghese, Roma) di Bernini? Il fatto che Daphne fugga per preservare la sua castità può aver rinforzato il suo fascino subliminale. L’ammirevole Monumento De Daninos di Enrico Cassi (Cimitero ebraico, Milano, 1906) (fig. 8), guarda anch’esso a questo modello, così come Materno Giribaldi nel suo Monumento a Francesco Zo (Asti 1911) (fig. 10). La Metamorfosi e la Vergine nella scultura liberty 8. Enrico Cassi, Monumento De Daninos, 1906, particolare, Milano, Cimitero Monumentale, Settore Ebraico, foto da Il Cimitero Monumentale di Milano. Edicole funerarie isolate e contro muro. Tombe, C. Crudo & Co Soc. Italiana di Edizioni Artistiche s.d., Torino Anche il Ratto di Proserpina (1621-1622, Roma, Galleria Borghese) di Bernini servì da modello: qui le forze opposte della donna e dell’uomo lottano quando Proserpina/Persefone prova a liberarsi dalla stretta di Plutone e l’intensa carnalità delle figure è per un attimo catturata nel marmo. Tuttavia, con la fine del XIX secolo, gli scultori italiani avevano ugualmente familiarità con l’interpretazione del mito di Persefone da parte di Dante Gabriel Rossetti, come rinnovamento del ciclo della vita. La sensualità di molte loro figure è in parte derivata dai modelli dei Pre-Raffaelliti e potrebbe aver stimolato un certo voyeurismo da parte dell’osservatore: giovani fanciulle sottratte dalla Morte al loro destino, ossia la realizzazione dell’amore carnale. L’arte di Bistolfi prese una nuova svolta dopo il 1900, e il suo modello diventò Michelangelo, gli Schiavi, in particolare: la forma ora deve emergere dalla pietra piuttosto che essere scavata in essa. Tuttavia, la metamorfosi 323 9. Enrico Pancera, Tomba Famiglia Prada Corielli, 1920, Milano, Cimitero Monumentale (foto Robert Fichter) La Metamorfosi e la Vergine nella scultura liberty Lo splendore della forma 10. Materno Giribaldi, Tomba Francesco Zo, 1911, Asti, Cimitero (foto Robert Fichter) 11. Cesare Reduzzi, Tomba Teresa Moriondo Franzini, 1906-1908, Torino, Cimitero Monumentale (foto Robert Fichter) 324 continuò a ispirare molti altri scultori funerari liberty, spesso, ma non sempre, quando avevano a che fare con morti premature: in nessun caso in maniera più esplicita che ne Il Puro Spirito sorge fra le Rose (Milano, Tomba Prada Corielli, 1920)9 di Enrico Pancera (fig. 9). Eros e Thanatos, la Morte e la Vergine (Plutone e Proserpina), invadono i cimiteri italiani con incongrua sensualità. L’esalazione dell’ultimo respiro diventa sempre più orgasmica. L’eterna lotta è spesso accompagnata da fiori e dalla lussureggiante vegetazione liberty. I cardi selvatici e gli spinosi rovi rappresentano il dolore delle premature morti delle giovani “spose mancate” e delle madri morte di parto, casi in cui i tradizionali ruoli della donna sono destinati a rimanere tragicamente incompiuti. Gigli e boccioli di rose fioriscono in promessa della resurrezione (fig. 11). Il genere divenne così popolare che non fu usato esclusivamente nelle tombe delle giovani donne. Il letto di rose Bajo las rosas tibias de la cama los muertos gimen esperando turno Garcia Lorca La scena del letto di morte ha una lunga tradizione nell’iconografia funeraria, ma negli anni ’90 dell’Ottocento il letto, spazio della Morte ma anche della Nascita e della Procreazione, divenne una celebrazione della carnalità, mentre le donne esalavano l’ultimo respiro e noi, voyeur, stiamo a guardare. 12. Leonardo Bistolfi, Tomba Fanny Lacroix, 1901-1905 c., Milano, Cimitero Monumentale, da Il Cimitero Monumentale di Milano. Edicole funerarie isolate e contro muro. Tombe, C. Crudo & Co Soc. Italiana di Edizioni Artistiche, Torino, n.d. 325 Bistolfi nella sua tomba per Fanny Lacroix a Milano10 collegò il letto di morte di una giovane vergine con il simbolo della rosa (fiore ambivalente che rappresenta sia la Vergine sia la Passione carnale) (fig. 12). Una parte delle migliori sculture liberty venne realizzata su questo tema, spesso sviluppato verticalmente, se il luogo lo richiedeva, ed esteso inoltre ai giovani uomini e alla celebrazione dell’amore coniugale. Quando la vergine non era circondata da rose sul letto di morte, esse venivano richiamate altrove: in una delle collaborazioni più proficue tra scultori e architetti liberty, Edoardo Rubino scolpì delle rose nei capelli della bella Amalia Porcheddu Dainesi (Torino, 1912) mentre l’architetto Giulio Casanova basò il suo mosaico su un disegno ripetuto di rose stilizzate, molto simili a quelle di Charles Rennie Mackintosh (i cui capolavori vennero esposti con grande successo a Torino e Venezia a cavallo del secolo).11 Il tema venne esplicitamente utilizzato in pittura ed esteso all’arte decorativa. Alcuni esempi possono essere Lo splendore della forma 13. Quarantelli, I Funerali di Legda, da L’Artista Moderno, Torino, 1907, n. 7, p. 96 326 trovati nel periodico quindicinale “L’Artista Moderno”, pubblicato a Torino dal 1905 e diffuso nelle scuole d’arte, che dedicò particolare attenzione ai Pre-raffaelliti e ai modelli dell’Estetismo (fig. 13). In particolare il periodo fu caratterizzato dal mescolarsi di molti stili e tipi di manufatti. Il linguaggio delle sculture dei cimiteri spesso differiva molto poco da quello degli ornamenti architettonici delle città. Le figure scolpite del monumento di Ferdinando Bocconi, alto venti metri, in marmo bianco, per la sua famiglia a Milano, avrebbero potuto facilmente decorare la facciata del suo emporio. Il monumento venne eseguito nel laboratorio di Carrara di Alessandro Lazzerini, un artista che lavorava anche in proprio (fig. 14). La Metamorfosi e la Vergine nella scultura liberty 15. Varie fonti dell’inizio del XX secolo, Esercizi per le classi di Ornato, Massa, Istituto d’Arte Palma da gerarchia dei ruoli: il modellatore, l’autore e il realizzatore del modello, il bozzattore o cesellatore che abbozza la statua in marmo usando il pantografo attraverso un sistema di punti, il decoratore (spesso specializzato in drappeggi, capelli, fiori ecc., esperto nell’uso del violino), il rifinitore e colui che fonde il bronzo, spesso esterno alla bottega. Era cosa abituale per gli artisti come Bistolfi andare a Carrara per finire i propri lavori anche se fino a che punto venissero aiutati è sempre stato oggetto di discussione. In seguito alla crescita delle scuole di tecnica e arte 15a Lo scultore e l’artigiano L’economia di Carrara è sempre dipesa dai suoi laboratori di scultura dove da lungo tempo esisteva una rigi- 14. Orazio Grossoni, Crocefisso del Monumento Bocconi, 1901-1914, Milano, Cimitero Monumentale, nel laboratorio di Alessandro Lazzerini, Carrara. Collezione privata, Carrara 15b 15c 15d 327 Lo splendore della forma 15e La Metamorfosi e la Vergine nella scultura liberty 16. Luca Beltrami, Giuseppe Mentessi, Tomba della madre di Mentessi, 1910, già Cimitero Monumentale di Milano, ora nel Cimitero di Ferrara, foto da Arte Funeraria Italiana, serie V, tav. 10 328 329 alla fine del Diciannovesimo secolo, i ruoli degli artigiani, degli scultori, dei costruttori e degli architetti divennero incredibilmente fluidi. L’istituto d’arte di Massa (da dove provengono i documenti illustrati, figg. 15 a-e) fu fondato prima del 1850 e venne riformato verso la fine del Diciannovesimo secolo, ma materiale simile può essere trovato nelle scuole d’arte di Pietrasanta, Carrara e in ogni parte del nord dell’Italia. Il giovane apprendista intagliatore/scultore poteva ora consultare le più recenti cappelle e sculture funerarie in una serie di libri illustrati messi in vendita da case editrici artistiche del nord Italia (Bestetti e Tuminelli, Crudo & Co., Antonio Vallardi ecc.) (fig. 16). Le scuole d’arte stesse insegnavano non solo gli ornamenti attraverso una serie di esercizi, ma introdussero anche lo studio della storia degli stili. Il decoratore preparato a quel punto era più che capace di realizzare monumenti funebri. Forse proprio a causa di ciò, gli Scultori (con la S maiuscola), iniziarono per la prima volta a firmare i propri lavori dandosi il titolo di “Professori”. Come conseguenza della ripresa del Rinascimento e dell’influenza di Rodin, nel primo decennio del Ventesimo secolo gli scultori italiani si stavano dedicando sempre più a uno stile puramente figurativo e realista, lasciando agli artigiani il campo della decorazione liberty. La Natura e l’Arte erano giustapposte: non solo a livello teorico ma anche a livello pratico. La vegetazione reale arrivò a giocare un ruolo fondamentale nello schema complessivo, ponendo oggi problemi conservativi di non poco conto. In molti casi è iniziato un processo inverso di metamorfosi e la Natura ha rapidamente rivendicato il suo ruolo (fig. 17). Arte funeraria e identità sociali tra Ottocento e Novecento: soggetti, biografie, virtù del ricordo di Ornella Selvafolta Lo splendore della forma 17. Leonardo Bistolfi, Monumento a un Eroe del Lavoro, Tomba Angelo Giorello, 1907-1913, Montevideo, Cimitero del Buceo (foto Robert Freidus) 330 1 2 3 4 5 6 7 8 Corsivi miei. L. Bistolfi, lettera a Cobalto nella “Gazzetta del Popolo della Domenica”, 10/11/1895. Ibidem. Corsivi miei. Lombroso, P., Artisti Contemporanei, Leonardo Bistolfi in “Emporium”, gennaio 1899, pp. 2-17, p. 12. L. Bistolfi, Id. Riprodotto in Berresford S. e Bossaglia R., Bistolfi: 1859-1933: il percorso di uno scultore simbolista, Piemme, Casale Monferrato 1984, p. 222. Riprodotto in Berresford S. (ed.), A Legacy of Love, Italian Memorial Sculpture 1820-1940, Frances Lincoln, London 2004, p. 195. Per l’interpretazione di questo tema di Bistolfi, vedere Signora Treves c. 1903 nel settore ebraico del cimitero monumentale di Torino, Ripr. ibid. p. 232. Per un’analisi più dettagliata di questa e degli altri temi iconografici nelle sculture funebri italiane della seconda metà del Diciannovesimo secolo e dell’inizio del Ventesimo si veda Berresford, A Legacy of Love cit. 9 10 11 Il titolo originario dello scultore fu invece “figura d’angelo che nasce da un cespo di rose”. Non più esistente. Simbolo dell’effimero (Rosa similfluori et statim perit), le rose sono associate anche al mito di Persefone e al ciclo della natura: si dice che le prime rose rosse siano fiorite dal sangue di Adone, amante di Afrodite ma anche di Persefone. Ciò ha un significato sia pagano sia cristiano: nel primo secolo a.C., al banchetto di Rosalia, le tombe vennero ornate con rose, ma la rosa rossa è anche il fiore del sangue di Cristo, simbolo della Passione e della Resurrezione, e venne sparso sulle teste dei comunicandi alla Pentecoste. Nel tardo Diciannovesimo secolo sia la letteratura sia la pittura di Stefan George e Alma Tadema avevano celebrato Eliogabalo che soffocò fino alla morte nei petali di rosa; anche d’Annunzio fu affascinato dalla storia. Ashyxia del 1884 di Angelo Morbelli mostra un presunto suicida in mezzo a tante rose. Riprodotto in Berresford, A Legacy of Love cit., pp. 180-181. Tra i molteplici aspetti che connotano l’arte funeraria, un posto di rilievo spetta alla sua caratterizzazione in senso identitario, cioè al rapporto che essa intrattiene con i diversi soggetti sociali dei quali riflette le tipologie, le inclinazioni, le attività.1 Un esempio particolarmente calzante a tale riguardo è rappresentato dai Modèles de marbrerie (figg. 1, 2) repertorio di manufatti in marmo a uso di artisti e artigiani, uscito a Parigi attorno alla metà degli anni 1830, dove tra caminetti e altari, pavimenti e piedistalli, vasi e balaustre, compaiono anche le “appliques pour inscriptions de tombeaux”, vale a dire le “lastre” destinate alle iscrizioni funerarie: una voce apparentemente poco rilevante che non identifica propriamente i monumenti, bensì solo una loro porzione: ovvero gli spazi dove apporre le scritte, i nomi, le date, gli eventuali epitaffi.2 L’autore Jean-Baptiste Bury precisa di voler fornire suggerimenti a una branca dell’arte passibile di proficui risvolti commerciali. Poiché, egli sottolinea, “ci si è dimenticati di dare alle iscrizioni delle tombe le forme variate di cui esse sono suscettibili, e soprattutto di 331 Lo splendore della forma 1., 2. Différentes formes d’inscriptions pour des tombeaux, pyramides, pierres, tumulaires, cippes, ec., da Bury, Modelés de Marbrerie, Bance Editeur, Paris, s.d. (1835 ca.), tav. 69 e tav. 71 332 imprimere loro un carattere di decorazione che richiami la vita del defunto, la sua situazione nella società, i suoi motivi di speranza nella vita celeste, i rimpianti che egli lascia dopo di lui”.3 In una parola, di fissare la sua identità anche nelle campiture per le iscrizioni. I trentadue modelli di “appliques” che affollano le ultime quattro tavole del volume, presentano quindi motivi in bassorilievo da scolpire sulle lastre a ricordo di un musicista o di un pittore, di una madre o di un padre di famiglia, di uno storico o di un istitutore, di un giudice o di un prelato, di un massone o di un architetto, di un proprietario o di un negoziante, di un sergente di polizia o di un guerriero illustre.4 Per tutti costoro Bury ha inventato speciali raffigurazioni, ma, prima ancora, ha dovuto vestire i panni del sociologo, per determinare ruoli e professioni, stabilire analogie e differenze, interpretare gesti e costumi, estrapolare simboli ed emblemi, al fine di raffigurare, egli scrive, gli “attributi analoghi al lavoro, alla posizione sociale, ai ricordi che ciascuno ha potuto lasciare”.5 Con risultati forse artisticamente poco rilevanti, ma storicamente di grande interesse, Bury compie un affondo nella Francia della prima metà del secolo mostrandoci la madre di famiglia con gli attrezzi del lavoro domestico femminile (le forbici, la conocchia, il filo); il commerciante tra cornucopie e medaglie dei quattro continenti; l’istitutore vegliato dallo sguardo acuto e sapiente delle civette; l’architetto con gli strumenti del disegno dai quali affiora la pianta di un edificio a metà tra il Arte funeraria e identità sociali tra Ottocento e Novecento Pantheon e la rotonda di Palladio; l’esiliato per cui il cane aspetta fedele sotto un salice piangente; fino al generale-legislatore in allusione esplicita a Napoleone, al suo trono e all’epica delle sue campagne vittoriose. Tutto questo entra in sintonia anche con diverse testimonianze letterarie sui cimiteri e, in particolare, con il Père-Lachaise descritto da Balzac negli stessi anni dei Modèles de marbrerie come doppio della città: luogo eterogeneo e inclusivo che è riflesso della grande Parigi e ammette tutte le “coloriture” del tessuto sociale con la sua trama di identità e differenze.6 È bene d’altronde ricordare che fin dalle disposizioni dell’editto di Saint-Cloud (1804), vigente in Italia dal 1806, era stata prevista una prima classificazione delle sepolture comprendente sì fosse comuni e tombe tutte uguali, ma anche “posti distinti in concessione”, ammettendo una forma di possesso individuale e di personalizzazione dei monumenti.7 Così che, nonostante le famose invettive di Ugo Foscolo ne I sepolcri (1807) contro la legge che contendeva “il nome a’ morti”, l’editto non aveva proibito le sepolture personalizzate, né aveva impedito l’erezione di quei segni della memoria considerati in grado di suscitare pensieri elevati, di mantenere gli affetti, di tramandare il ricordo dei defunti e di risarcire del dolore della perdita.8 Testimonianza significativa è il monumento per Francesca Galbiati, eretto a Milano nel cimitero pubblico di San Rocco nel 1820: quarant’anni prima, quindi, dell’apertura del Cimitero Monumentale.9 Per la moglie Francesca, Domenico Angiolini commissiona un progetto di monumento all’architetto-scenografo Paolo Landriani e prepara un’epigrafe che trasmette i tratti essenziali di una biografia al femminile: si parla di una giovane bella e virtuosa, morta di parto a vent’anni alla quale il marito rende omaggio non dimenticando di qualificarsi come avvocato, cioè nella rispettabilità della sua professione e del suo status.10 Egli fa poi pubblicare a proprie spese un’incisione del monumento (fig. 3) corredandolo di un testo esplicativo dove il senso dei sepolcri connesso alla memoria di vite illustri trasmigra in questo caso a quello di un’esistenza condotta nella normalità del quotidiano, ispirato dallo 333 Lo splendore della forma 3. Fuori di Porta Romana nel Camposanto. Monumento a Francesca Galbiati, incisione, 1820. Milano, Civica Raccolta di Stampe Achille Bertarelli 334 stesso intento di “tramandare […] con opere durevoli alla memoria dei posteri le domestiche virtù di quell’esimia Donna”. “Opere durevoli” per eternare “le virtù” dei propri morti: è qui, in fondo, che si concentrano le principali istanze dell’arte funeraria, la cui rapida crescita nei cimiteri, proprio a partire dai primi decenni del secolo XIX, è, come ben sappiamo, anche il segno di una nuova forma di affettività verso i defunti e verso se stessi: di una maggiore coscienza di sé e del rapporto che si instaura tra le persone, la storia e il destino. Tanto che i cimiteri, dove tale rapporto si compone e acquista il senso dell’estremo approdo, rivelano attraverso le sepolture un legame spesso esplicito tra la morte e le biografie dei singoli come se, paradossalmente, il decesso diventasse il momento in cui le particolarità di ciascuna vita appaiono in piena luce. Negli stessi anni, quando le piazze d’Italia accoglievano i monumenti destinati agli eroi, ai patrioti, ai politici, ai Arte funeraria e identità sociali tra Ottocento e Novecento 4. Luigi Strazza, Monumento Francesco Lucca, 1876, Milano, Cimitero Monumentale (foto F. Papetti, 2006) letterati e agli artisti, le cui effigi e le cui esistenze dovevano contribuire a illustrare e costruire l’identità del paese, molte sepolture ne ripetevano così gli schemi per celebrare le virtù di singoli percorsi biografici, attraverso la narrazione più o meno esplicita delle professioni, delle attività e dei contesti.11 È il caso, nel Cimitero Monumentale di Milano, della sepoltura per Francesco Lucca (dello scultore Giovanni Strazza, datata 1876) (figg. 4, 5) a ricordo di un’interes- 335 5. Luigi Strazza, Monumento Francesco Lucca, 1876, Milano, Cimitero Monumentale, dettaglio di un’epigrafe (foto O. Selvafolta, 2006) Lo splendore della forma 336 sante figura di editore musicale che, da semplice operaio della Ricordi, era arrivato a fondare un proprio stabilimento e acquisire grande notorietà soprattutto quale sostenitore della musica di Wagner.12 A lui la moglie Giuseppina Strazza dedica un monumento che, per la struttura compositiva e gli aspetti formali della celebrazione, potrebbe agevolmente stare in una piazza cittadina: Francesco Lucca, “esempio all’operajo e al facoltoso”, è raffigurato seduto in poltrona sotto la quale si impilano i libri (sul dorso di un volume si legge il titolo Lohengrin); ai suoi piedi quattro amorini raffigurano lo “Studio”, la “Composizione”, la “Musica” e la “Riconoscenza”, mentre le epigrafi si infittiscono in una sorta di accanimento letterario volto a celebrarne la vita operosa. La sua biografia in ascesa sembra uscita dalle pagine di Volere è potere del naturalista ed educatore Michele Lessona, pubblicato nel 1869 e costruito attorno alle vite esemplari di quegli italiani che, partiti da condizioni sfavorevoli, erano approdati ai vertici della gerarchia sociale. Manifesto del self-help italiano, lo scritto aveva propugnato l’etica del lavoro e della perseveranza, della determinazione e dell’integrità quali agenti principali della propria fortuna, diventando un punto fermo della pedagogia post-risorgimentale.13 Nelle sue pagine trova posto anche un personaggio come Ambrogio Binda, nato poverissimo, orfano a soli sette anni, divenuto un facoltoso industriale che assommava le virtù dell’“intelligente operaio, attivo imprenditore, onesto commerciante, cittadino integrerrimo”.14 6. Metello Motelli, Monumento Ambrogio Binda, 1876 Milano, Cimitero Monumentale (foto O. Selvafolta, 2006) Arte funeraria e identità sociali tra Ottocento e Novecento 7. Luigi Panzeri, Monumento Eugenio e Luigi Villoresi, Milano, Cimitero Monumentale, 1904, veduta con la diga e l’edificio di presa sul Ticino (foto O. Selvafolta, 2006) 337 Per la sua sepoltura al Monumentale di Milano l’artista Metello Motelli (fig. 6) scolpisce nel 1876 un bassorilievo dove la figura del defunto, al centro di due gruppi simmetrici, riceve l’omaggio degli operai e delle loro famiglie, rifacendosi ai modelli della composizione classica, ma attualizzando i rituali dell’onore, della riconoscenza e del serto di alloro, nell’accenno al lavoro e agli ambienti di fabbrica, ai condotti e alle cinghie di trasmissione che muovevano i macchinari dei grandi stabilimenti Binda: bottonifici e cartiere considerati capisaldi del tessuto produttivo milanese pre-unitario e avamposti della successiva, intensa, industrializzazione.15 I meriti legati all’imprenditorialità e a un fortunato Lo splendore della forma 338 accumulo di ricchezze sono certamente tra i più rispettati ed esibiti, sia attraverso i ritratti onorifici dei defunti e le lunghe epigrafi dedicatorie, sia attraverso la raffigurazione del lavoro, sia attraverso gli effetti benefici sul tessuto sociale. Questi possono esprimersi negli atteggiamenti caritatevoli del defunto o nel tributo che a lui recano figure emblematiche che, al di là delle singole biografie, rispondono anche a una sorta di omologazione nelle forme della memoria e rivelano una regola non scritta, tuttavia operante, di rispettabilità sociale e professionale basata sull’attività e sulla concretezza dei risultati raggiunti.16 La figura del lavoratore agricolo, in un paese in cui contemporaneamente ai processi di industrializzazione permangono i valori contadini, è presenza ricorrente e trova anche specifica destinazione nei monumenti che onorano gli autori di interventi tecnici sul territorio: al Verano di Roma un contadino con la falce esprime riconoscenza all’ingegnere Alessandro Brisse (scultore Arnaldo Zocchi, 1894) che era riuscito nella difficile impresa della bonifica del lago Fucino;17 mentre a Milano lo scultore Luigi Panzeri (nel 1904) (fig. 7) sceglie a sua volta un vecchio contadino per ricordare gli ingegneri idraulici Eugenio e Luigi Villoresi, artefici di importanti lavori di riassetto territoriale e del canale di irrigazione chiamato con il loro nome che, derivando le acque dal Ticino e dal lago Maggiore, aveva recato grande vantaggio all’agricoltura dell’alto milanese. 18 Entrambi i monumenti, di Roma e Milano, onorano insigni ingegneri attraverso i risultati della loro opera e, nello stesso tempo, rimandano alle grandi opere territoriali dell’Italia post-unitaria e all’emergere dei saperi pratici e delle professioni tecniche tra gli attori della costruzione nazionale. Nel monumento Villoresi si va però oltre l’evocazione e la raffigurazione simbolica, rappresentando una situazione precisamente ancorata al tempo e allo spazio. Il monumento costituisce infatti un’efficace sintesi interpretativa del canale Villoresi e del paesaggio tecnico da lui generato: dall’alto al basso si legge il percorso che, captando l’acqua mediante la grande diga di sbarramento sul fiume evidenziando l’edificio di presa al Arte funeraria e identità sociali tra Ottocento e Novecento 8. Enrico Butti, 1912, Edicola Besenzanica, modello in gesso, Milano, Archivio del Cimitero Monumentale 9. Enrico Butti, Edicola Besenzanica, 1912, Milano, Cimitero Monumentale (foto F. Papetti 1995) Panperduto, giunge alle bocche di derivazione e si dirama nelle campagne fino ad arrivare alla piccola chiusa della roggia di irrigazione nel campo del contadino, in una sorta di sistema a caduta che porta benefici a tutti e a tutte le scale territoriali. Il rapporto con la terra e, per traslato, il lavoro agricolo, si rivela un modo durevole di rappresentare e insieme omaggiare l’operosità dei defunti. Nei Modèles de marbrerie per la tomba di un non meglio precisato “lavoratore” era stata prevista l’immagine di un contadino e dei buoi all’aratro, secondo un’iconografia che appare quindi in grado di attraversare le epoche e le espressioni artistiche.19 In tutt’altro contesto un esempio eclatante è rappresentato dalla famosa sepoltura milanese dell’impresario edile Gaetano Besenzanica (1912), dove lo scultore Enrico Butti (figg. 8, 9) sceglie di rappresentare il lavoro senza riferimenti specifici all’attività del defunto. La sua storia individuale di costruttore è infatti assorbita nella sfera di una storia universale che, secondo le intenzioni e spiegazioni stesse dell’artista, si riassume nell’idea del “soffio vitale della Natura” che anima costantemente l’esistenza, l’attività, la fatica dell’uomo e imprime il suo vigore ai contadini e ai buoi intenti ad arare. È quindi il lavoro nella sua “manifestazione primigenia” a contatto con la terra-madre a essere onorato.20 E non è forse un caso che nello stesso cimitero milanese si riscontrino intenzioni non dissimili nell’edicola progettata nel 1940 dall’architetto Piero Portaluppi per Umberto Girola (fig. 10), a sua volta costruttore edile, famoso per la realizzazione di edifici civili e industriali, grandi infrastrutture territoriali e centrali idroelettriche. Le scritte in rilievo sulla facciata raccontano di un 339 Lo splendore della forma 10. Piero Portaluppi, architetto, Edicola Girola, modello del progetto, 1940, Milano, Cimitero Monumentale. Fondazione Piero Portaluppi, Milano 340 costruttore capace di dominare le acque per moltiplicare la folgore (cioè per produrre energia elettrica), ma le sculture rappresentano da un lato un minatore e dall’altro un contadino all’aratro, entrambi legati alla terra, associando quindi l’epica delle grandi trasformazioni tecnologiche ai luoghi più archetipi e le fatiche del lavoro ai gesti più antichi.21 Tra le virtù ottocentesche più rappresentate vi sono quelle della famiglia, vero e proprio articolo di fede per la borghesia in ascesa, e sorta di “emblema totale” per un secolo evoluzionista che affida la sua durata anche al concatenarsi delle generazioni. Non si possono dimenticare a questo proposito i numerosi monumenti dove i congiunti si raccolgono attorno al letto del moribondo, raccontandoci primariamente l’identità e la solidarietà di un gruppo e affermando nel marmo il carattere perenne del clan. Uno dei più famosi è il monumento Carlo Raggio dello scultore Augusto Rivalta nel cimitero di Staglieno Arte funeraria e identità sociali tra Ottocento e Novecento (1872) dove la raffigurazione dettagliata di uomini e cose intende fissare nell’intensità del vero il momento più difficile e angoscioso dell’esistenza e nello stesso tempo traduce in termini visivi il senso della stirpe.22 Sono documenti preziosi che non solo attestano lo stato dell’arte, ma recano anche straordinarie testimonianze della cultura materiale, dei costumi e dei riti sociali connessi al cerimoniale di una morte che Philippe Ariés, in Storia della morte in occidente, ha definito “addomesticata”, osser vando che nel secolo XIX il decesso avviene quasi sempre in casa, riservando l’ospedale a chi è privo di denaro, di famiglia e di affetti e considerando le stesse cliniche, seppure destinate alle classi abbienti, aridi luoghi d’esilio.23 A partire dalla raffigurazione di Carlo Raggio attorniato dai famigliari si possono avviare anche alcune considerazioni sulle derivazioni dai modelli, sulla loro persistenza, trasformazione, rinnovamento. 24 Proprio il tema del letto di morte è iconografia che ha alle spalle un lungo percorso: dalle Kline nelle Necropoli etrusche, dalle figure adagiate sui sarcofagi rinascimentali, dai catafalchi degli apparati funebri barocchi esso approda nell’Ottocento al “letto di casa”. Trova una pregevole e famosa declinazione tra il 1837 e il 1843 nel monumento funebre per la contessa Sofia Zamojska in Santa Croce a Firenze di Lorenzo Bartolini, dove il letto en désordre, i lineamenti emaciati e sofferenti, l’espressione tranquilla, presentano uno straordinario amalgama di classicismo e verismo che ispirerà numerose derivazioni, irradiandosi dalle pareti della chiesa fiorentina ai porticati e ai campi aperti dei cimiteri.25 Tra le più belle di fine Ottocento è la sepoltura apprestata dallo scultore Enrico Butti a Milano per Isabella Casati (figg. 11, 12), morta di parto nel 1890: un’opera d’arte che va ben oltre il dettato verista per accogliere le maggiori raffinatezze di forme e significati del simbolismo, così da sublimare il trapasso nel sogno e la morte nella bellezza. Ma i cuscini e i drappeggi delle coperte suggeriscono comunque che l’evento tragico ha avuto luogo tra le pareti domestiche; e, del resto, la concezione della morte non è affatto slegata da quella dell’abitazione.26 341 Lo splendore della forma Arte funeraria e identità sociali tra Ottocento e Novecento 12. Enrico Butti, Monumento Isabella Casati, 1890, Milano, Cimitero Monumentale (foto F. Papetti 1995) 11. Enrico Butti, Monumento Isabella Casati, 1890, Milano, Cimitero Monumentale (foto F. Papetti 1995) 342 “Ti fabbricai la stanza del riposo” aveva scritto l’avvocato Antongini a proposito del monumento funebre per la moglie Francesca e basta leggere i galatei domestici e persino certi repertori di arredamento del secondo Ottocento per trovare frequenti accenni alla camera da letto, non solo come spazio del riposo e dell’intimità affettiva, ma anche come quel “santuario”, dove si compie il miracolo della vita e dove “un giorno si offrirà riparo all’agonia”.27 Questa sfera intima e familiare così presente nella cultura del secolo, ha modo di esprimersi appieno nella raffigurazione dei personaggi femminili. Se l’identità maschile si costruisce soprattutto sulla competenza professionale, l’ideologia politica, il gruppo sociale di appartenenza: in altri termini, su una rete di rapporti pubblici e con il mondo esterno, l’identità femminile appartiene infatti quasi esclusivamente al privato e alle prospettive dell’interno domestico. L’identità positiva che viene riconosciuta alle donne è soprattutto quella di mogli e di madri, ed è in base a questi ruoli virtuosi che vengono ricordate e onorate nei testi delle epigrafi. Esse sono d’altronde le custodi di una morale privata che si affianca alla morale pubblica maschile e ne costituisce, per così dire, il lato complementare in termini psicologici e di manifestazione dei sentimenti. Alle donne spetta il compito di elaborare il lutto e, quindi, di svolgere un ufficio significativo nell’equilibrio dei sentimenti; poiché se agli uomini, tranne poche eccezioni, è concesso di porsi davanti alla morte in atteggiamenti di composto cordoglio o di profonda meditazione, alle donne è invece permesso di esprimere tutta la traiettoria delle emozioni legate al dolore: la pietà, la tristezza, l’afflizione, lo sconforto, la disperazione. Anche il dolore appare quindi come il portato dell’educazione e in quanto tale si addice maggiormente alle sepolture dominate dalle espressioni, dai gesti e posture delle figure femminili. Il loro diverso atteggiarsi avrà nel corso del secolo XIX un andamento in crescendo leggibile nei monumenti attraverso le trasformazioni subite dalla “dolente”: una delle più diffuse iconografie funerarie. All’origine sta un modello alto, anzi, il modello per eccellenza: la stele Volpato di Antonio Canova, in Santi Apostoli a Roma, datata 1807: lo stesso anno della pubblicazione de I Sepolcri e forse il monumento più in sintonia con il tributo foscoliano alla memoria e all’eredità degli affetti. La donna seduta in triste meditazione davanti al cippo su cui posa il ritratto del defunto è stata matrice di moltissime derivazioni a opera dello stesso Canova e di altri più o meno noti e valenti sculto- 343 Lo splendore della forma 13. Gaetano Matteo Monti, Monumento Ottaviano Tosio Avogadro, 1854, Brescia, Cimitero Vantiniano (da V. Vicario, La scultura bresciana dell’Ottocento, Cremona 1995) 14. François-Dominique Milhomme, Monumento Pierre Gareau, 1815, Parigi, Cimitero Pére-Lachaise (da A. Le Normand-Romain, Mémoire de marbre , Paris 1995) 344 ri al Pére-Lachaise come a Staglieno, a Verona e al Vantiniano di Brescia. Interessante in quest’ultimo il monumento per Tosio Avogadro dello scultore Gaetano Matteo Monti (1852) (fig. 13): una replica tarda che, pur in adesione all’iconografia classica, mostra un sensibile cambiamento rispetto alla scarna scena canoviana, rarefatta, intellettuale, trascendente la particolarità dell’evento luttuoso. Monti addensa invece i rimandi simbolici (le muse, i fiori e frutti del papavero), infittisce le pieghe delle vesti, arricchisce il cippo di bassorilievi, aggiunge colonnette e poggiapedi, entra nel dettaglio del sedile, allunga il testo dell’epigrafe. Il gusto più analitico e circostanziato che esso manifesta è già il sintomo del legarsi delle emozioni a una dimensione più personale, quindi del loro intensificarsi e, in nuce, del loro maggiore esibirsi agli sguardi. Dalla compostezza neoclassica che nel 1815 possiamo ancora trovare al Père-Lachaise sulla tomba di Pierre Gareau dello scultore François-Dominique Milhomme (fig. 14), si arriva nel 1892 al compianto estremo per il 15. Domenico Trentacoste, Monumento AlexandreEmile Herbillon, 1892 (da A. Le Normand-Romain, Mémoire de marbre, Paris 1995) Arte funeraria e identità sociali tra Ottocento e Novecento 16. Angelo Galli, Monumento Paolina Piantelli Canfori, Milano, Cimitero Monumentale 1919 (foto F. Papetti, 1995) colonnello Herbillon nel cimitero di Montmartre (a opera dello scultore Domenico Trentacoste) (fig. 15) o all’afflizione ultima della tomba Piantelli Canfori (fig. 16) del 1919 al Monumentale di Milano: il dolore ha progressivamente acquisito un’espressione fisica, si piega in posture drammatiche quasi teatrali, come se la figura della dolente si sia infine scossa dal suo pianto controllato per soccombere alla disperazione senza speranza, alla prostrazione assoluta, all’annientamento.28 Soltanto alle donne è dato esprimere tanta angoscia, e anche per questo diventano soggetto prediletto dell’arte. Gioca a loro favore la possibilità di indagare un ampio spettro di sentimenti che dalla rassegnazione giunge alla desolazione più cupa, nonché di dare forma a una suggestione estetica della morte intrisa di bellezza e di abbandono sensuale. Le sepolture dove domina la figura femminile spesso non raccontano molto sulle loro identità individuali, ma raccontano parecchio sull’identità della donna nel secolo scorso, sul suo ruolo nella famiglia e nella società, sui rapporti di potere tra i sessi. Come vedove, ed è questo uno dei ruoli femminili più rappresentati, le donne piangono la perdita dei loro consorti e ne custodiscono i sepolcri; come madri, in un’epoca segnata da un’alta mortalità infantile, devono soggiacere anche al dolore insopportabile della perdita dei figli. Non c’è nessuna morte che, come questa, esprima la fragilità della vita e la crudeltà del fato; la culla vuota che era stata preparata per il bimbo Emilio Rigamonti (fig. 17) al Monumentale di Milano è uno dei più bei monumenti che rappresentano lo sgomento e la 345 Lo splendore della forma Arte funeraria e identità sociali tra Ottocento e Novecento 19. Monumento Mario Piva, 1913, Milano, Cimitero Monumentale (foto O. Selvafolta, 2006) 17. Ernesto Bazzaro, “La culla vuota”, Monumento Emilio Rigamonti, 1890, Milano, Cimitero Monumentale (foto F. Papetti 2006) 346 stupefazione davanti all’assenza da parte di una giovane donna che solo uno scultore anticonvenzionale come Ernesto Bazzaro sa mostrare senza lacrime; mentre il monumento Falconi Negri dello scultore Alessandro Lafôret (fig. 18) del 1906 esprime in altro modo, ma con altrettanta intensità, lo strazio di un ultimo abbraccio.29 Se per i bimbi domina la commozione, per le giovani esistenze che già hanno espresso aspirazioni, desideri e progetti, domina spesso il rimpianto. Il desiderio di 18. Alessandro Lafôret, Monumento Adelaide Falconi Negri, dettaglio, 1906, Milano, Cimitero Monumentale (foto O. Selvafolta 2006) ricordare e l’attitudine alla narrazione che contrassegna il XIX secolo fanno qui progressivamente abbandonare la simbologia allegorica (si pensi alla colonna spezzata) per raffigurare invece ambiti riconoscibili di pensieri e azioni. Nel Monumentale di Milano i genitori del giovane ingegnere Mario Piva (1913) precisano che egli aveva collaborato per cinque anni con l’Azienda elettrica municipale e lo fanno rappresentare mentre medita progetti di impianti idroelettrici sullo sfondo di uno scenario alpino (fig. 19), mentre i genitori di Milan Mitzko Conforti (1919, scultore Attilio Prendoni) raccontano il sogno del figlio di diventare medico nelle scene di cura ai malati e nel disegno di un ospedale modello che sarebbe stata sua ambizione realizzare30 (fig. 20). Attraverso la rappresentazione dei ruoli che i due giovani avrebbero ricoperto nella società, si prolunga la loro esistenza, la loro personalità si rafforza e il ricordo si intensifica nella sfera del desiderio. Presentando la sua raccolta senza pretese di modelli in marmo Bury aveva sottolineato che essi mostravano gli emblemi di identità reali e di identità ideali: di quelle cioè che si “possono richiamare alla mente”.31 E che, proprio per questo, potevano meglio assolvere alla funzione della memoria proiettando le circostanze transitorie dell’esistenza nello spazio sempre presente dell’immaginazione: là dove, aveva affermato Goethe “la vita dopo la morte può ben apparire una seconda vita, alla quale si giunge attraverso un’immagine, attraverso un’epigrafe e in cui si indugia più a lungo che nella vita da vivi”.32 È un brano delle Affinità elettive, scritto 347 Arte funeraria e identità sociali tra Ottocento e Novecento Lo splendore della forma 9 20. Attilio Prendoni, Monumento Milan Mitzko Conforti, 1919, Milano, Cimitero Monumentale (Foto O. Selvafolta, 2005) 10 11 348 tra il 1808 e il 1809, all’indomani dell’editto di SaintCloud e all’indomani de I Sepolcri, appena all’inizio dello straordinario sviluppo dell’arte funeraria. 1 2 3 Alcune considerazioni in questo senso sono già state sviluppate da chi scrive in Identità pubblica e identità privata nei cimiteri dell’Ottocento, in Baroni R. (a cura di), Sette racconti ottocenteschi. Percorsi tra arte e storia del XIX secolo, Museo Bagatti Valsecchi, Milano, 1997, pp. 31-46. Cfr. Bury, Modelés de Marbrerie, Bance Editeur, Paris, s.d. [1835 ca.]. Il sottotitolo recita: Recueil d’ouvrages relatifs aux Arts et Métiers dans lesquels on trouve tout ce qui peut être utile aux Architectes et Ingénieurs, aux Entrepreneurs des bâtiments, aux Ornementistes, aux Peintres et aux Sculpteurs, aux Menuisiers, Serruriers, Marbriers, Peintres de décorations, aux Orfèvres, Bijoutiers, etc., etc. Ibidem, p. 16. 4 5 6 7 8 Si vedano in Ibidem le tavv. da 69 a 72, raggruppate sotto il titolo Différentes formes d’inscriptions pour des tombeaux, pyramides, pierres, tumulaires, cippes, etc. Ibidem, p. 16. Cfr. soprattutto il romanzo Ferragus¸ primo del ciclo Histoire des Treize (1833); edizione utilizzata: Balzac, La Comédie humaine, vol. V, Bibliothèque de la Pléiade, Paris 1977, pp. 897-898. Cfr. per l’editto di Saint-Cloud, Bertrand R., La nouvelle législation funéraire, in Le Père-Lachaise, a cura di Healey, C. Bowie, K. Bos, A., Paris, Action Artistique de la Ville de Paris, 1998, pp. 57-60. La disposizione per le sepolture private si trova all’articolo 10. Per la questione foscoliana e il significato de I Sepolcri, cfr. il recente Dei 12 13 14 sepolcri di Ugo Foscolo, a cura di G. Brabarisi e W. Spaggiari, Atti del convegno, “Quaderni di Acme”, n. 80, Milano 2006. Si ricorda che prima della costruzione del Cimitero Monumentale (aperto alle inumazioni nel 1866), Milano disponeva di sette cimiteri ubicati fuori della cinta dei Bastioni in corrispondenza delle porte di entrata in città; cfr. Tedeschi, C., Origini e vicende dei Cimiteri di Milano e del servizio mortuario, Milano, Giacomo Agnelli, 1899. Per il monumento Galbiati (non più esistente) cfr. l’incisione corredata di testo Fuori di Porta Romana nel Camposanto. Monumento a Francesca Galbiati, Paolo Landriani inv., Sergent Marceau inc. 1820, Gioacchino Guelfi scolpì in marmo. Acquatinta, Pirola, Milano, 1820. Milano, Civica Raccolta di Stampe Achille Bertarelli. Fuori di Porta Romana cit.: “Qui di Francesca Galbiati donna per forme e per virtù da suoi tutti desiderata cui prima prole nascendo tolse sul quarto lustro la vita, l’avvocato Domenico Angiolini marito dolentissimo pose le amate spoglie l’anno 1818”. Per le piazze, i monumenti, la celebrazione dell’identità e delle glorie nazionali, rimando agli studi di M. Isnenghi, tra i quali L’Italia in piazza. I luoghi della vita pubblica dal 1848 ai giorni nostri, Mondadori, Milano 1994. Cfr. inoltre Fantasmi di bronzo, Torino, Marteno, 1978; Corgnati, M., Mellini, G., Poli, F. (a cura di), Il lauro e il bronzo. La scultura celebrativa in Italia 1800-1900, catalogo della mostra, s.n., Torino, 1990; per Milano: Petrantoni, M. (a cura di), Memorie nel bronzo e nel marmo, Milano, Federico Motta, 1997. Ginex, G. e Selvafolta, O., Il Cimitero Monumentale di Milano. Guida Storico artistica, Milano, Silvana Editoriale, 19961, p. 104. Cfr. Lessona, M., Volere è potere, Firenze, G. Barbera, 1869; il volume ebbe ben quattordici edizioni; mi riferisco qui alla ristampa anastatica (Roma, Studio Tesi, 1990). Il testo di Samuel Smiles basato sulla teoria del Selfhelp (1859) fu tradotto in italiano nel 1865 (titolo Chi s’aiuta il ciel l’aiuta) e vendette 150.000 copie. Ambrogio Binda, in Lessona, M., Volere è potere cit., pp. 339-348. 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 Ginex, G. e Selvafolta, O., Il Cimitero Monumentale cit., p. 30. Per gli stabilimenti cfr. Ambrogio Binda e C. Cartiera, Ambrogio Binda. Fabbrica di Bottoni, in Trevisani, E, Rivista Industriale e Commerciale di Milano e Provincia, Milano, Stabilimento Tipografico Cesana, 1894, pp. 36-39. Sulle forme di omologazione della memoria in base a criteri stabiliti dalla società, cfr. gli studi di M. Halbwachs, tra i quali La memoria collettiva, nuova edizione critica a cura di P. Jedlowski e T. Grande, Milano, Unicopli, 2001. Per il monumento Brisse, Cfr. Berresford, S., Italian Memorial Scupture, 1820-1940. The Legacy of Love, London, Frances Lincoln, 2004, p.119. Per la bonifica del Fucino, cfr. Parisi, R. e Pica, A., L’impresa del Fucino. Architettura delle acque e trasformazione ambientale nell’età dell’industrializzazione, Napoli, Athena, 1996. Per il monumento Villoresi, cfr. Ginex, G. e Selvafolta, O., Il Cimitero Monumentale cit., p. 130. Per l’opera idraulica dei Villoresi cfr. P. Morachiello, Ingegneri e territorio nell’età della Destra (1860-1875), Officina, Roma 1976, il capitolo I canali per l’irrigazione dell’alta Lombardia, pp. 114-151. Bury, Modelés de Marbrerie cit., tav. 69. Cfr. Ginex, G. e Selvafolta, O., Il Cimitero Monumentale cit., pp. 58-59. Ibid. p. 143. Sull’attività costruttiva di Umberto Girola cfr. Selvafolta, O., “Fulgura multiplicavit”: le centrali idroelettriche di Ettore Conti, Umberto Girola e Piero Portaluppi, in Giorgi, A. e Poletti, R. (a cura di), Accoppiamenti giudiziosi. Storie di progettisti e costruttori, Milano, Skira, 1995, pp. 23-63. Per questo specifico monumento, ma soprattutto per Staglieno e per la scultura funeraria nel suo insieme, cfr. lo studio fondamentale di Sborgi, F., Staglieno e la scultura funeraria ligure tra Ottocento e Novecento, Artema, Torino, 1997 (monumento Raggio p. 125). Ariès, Ph., Storia della morte in occidente. Dal Medio Evo ai giorni nostri, Milano, Rizzoli, 1978. Anche su questi temi sono fondamentali gli studi di Franco Sborgi, si veda in particolare in Staglieno e la scultura funeraria cit., il capitolo La diffusione di un modello al di fuori dell’ambito regionale, pp. 319-339; e Id., Alcune note sulla diffusione della scultura ita- 349 Sacrari e ossari italiani della Prima guerra mondiale di Guido Zucconi e Anna Maria Fiore* Lo splendore della forma 25 26 27 28 350 liana tra fine Ottocento e inizi Novecento, in Mozzoni L. e Santini, S. (a cura di), L’architettura dell’Eclettismo. La diffusione e l’emigrazione di artisti italiani nel Nuovo Mondo, Atti del Convegno Internazionale, Jesi 1998, Liguori Editore, Napoli 1999, pp. 159-202. Cfr. Sborgi, F., Staglieno e la scultura funeraria cit., pp.125-127; cfr. inoltre. De Micheli, M, La scultura dell’Ottocento, Torino, Utet, 1992, il paragrafo sulle opere di Lorenzo Bartolin: “La fiducia in Dio” e il monumento alla contessa Zamojska, pp. 70-74. Ginex, G. e Selvafolta, O., Il Cimitero Monumentale cit., pp. 49-50. La citazione si riferisce a uno scritto del 1875 dell’abate francese Chaumont ed è riportata, senza altra indicazione, da Martin-Fuger, A,. I riti della vita privata nella borghesia, in Perrot, M. (a cura di), La vita privata. L’Ottocento, Bari, Laterza, 1988, p. 205. Per i galatei, cfr. Botteri, I., Nuovi e buoni comportamenti nei galatei ottocenteschi italiani, in Sette racconti ottocenteschi cit. pp. 19-30. Il tema della stele Volpato e delle sue 29 30 31 32 33 34 diverse derivazioni è ampiamente trattato dalla storia della scultura; per le considerazioni e gli esempi apportati in questo saggio, cfr. soprattutto Le Normand-Romain, A., Mémoire de marbre. La sculpture funéraire en France de 1804 à 1914, Paris, Bibliothèque historique de la Ville de Paris, 1995, pp. 142-145. Alla concezione del monumento partecipa anche il pittore Luigi Basiletti, cfr. Terraroli, V., Il Vantiniano. La scultura monumentale a Brescia tra Ottocento e Novecento, Brescia, Grafo Edizioni, 1990, pp. 65-66. Per i due monumenti parigini cfr. Le Normand-Romain, A., Mémoire de marbre cit, pp. 144-146, 160; per il monumento Piantelli Canfori del Cimitero Monumentale, cfr. Ginex, G. e Selvafolta, O., Il Cimitero Monumentale cit., p. 125. Ibidem, pp. 105-106, p. 98. Ibidem, p. 192. Bury, Modelés de Marbrerie cit., p. 16. Goethe, J.W., Le affinità elettive (1809), trad. di Cusatelli, G., Garzanti, Milano 1975, p. 151. I monumenti ai caduti dopo il 1918 Il tema del monumento ai caduti si configura in Italia secondo una cronologia legata agli eventi nazionali: le guerre risorgimentali prima, il grande conflitto mondiale poi. In quest’ultimo contesto, con maggior vigore, il tema del sacrario si afferma dinnanzi all’opinione pubblica nazionale come oggetto di alto contenuto artistico e simbolico. È soprattutto durante il ventennio fascista che emerge l’aspirazione a inserire il monumento commemorativo in un sistema di rappresentazione unitario: un codice comune che intende evocare una serie di riferimenti condivisi su base nazionale. Già nella torre ottocentesca di San Martino della Battaglia, l’apporto delle diverse località italiane all’unificazione nazionale doveva essere riassunto in un’anagrafe dei caduti, divisa per province e per comuni. Non era dunque nuova l’idea di rappresentare globalmente lo sforzo sostenuto dalla comunità nazionale, articolandolo secondo precise partiture geograficoamministrative. 351 Lo splendore della forma 352 In Italia come altrove, soltanto dopo il 1918 il modo di rappresentare il sacrificio dei soldati riesce a essere realizzato nell’ambito di un intero sistema territoriale. Per arrivare a questo obiettivo, il culto dei caduti in guerra doveva però perdere quel carattere selettivo e, in parte individuale, che aveva avuto fino a quel momento; la mise en scène della terribile ecatombe doveva essere corale e generalizzata in ognuno dei paesi coinvolti nel conflitto. A ricordo dei 450.000 morti per la patria, si voleva che ogni provincia, ogni comune, così come ogni categoria di lavoratori, potesse dare vita a una propria, concreta testimonianza. Compiuta nel ventennio successivo alla Grande guerra, la campagna di realizzazioni si articola nella totalità dello spazio nazionale, lasciandoci un cospicuo patrimonio di testimonianze in pietra: una vasta rete di monumenti celebrativi, di parchi delle rimembranze, di templi votivi e di sacrari extraurbani. Già da questo breve elenco di possibili topoi commemorativi si evince un ampio ventaglio di significati attribuibili alla parola architettura: il termine è da intendersi come materializzazione di un’idea che può assumere le sembianze di un edificio per il culto, di un gruppo scultoreo, di una sistemazione di uno spazio significativo, di un sacrario collocato fuori dall’abitato. Fin dagli inizi, il monumento ai caduti aveva chiamato in causa il rapporto tra scultura e architettura ma, specialmente all’indomani della Grande guerra, appare evidente il ruolo educativo che l’architettura deve svolgere in forme dichiaratamente enfatizzate. Ed è così che, a differenza di altre fasi commemorative, il monumento ai caduti della Grande guerra diventa parte di un sistema di rappresentazione omogeneo che coinvolge l’ambiente urbano nel quale va a collocarsi. Noi oggi parliamo forse in modo un po’ astratto di sistema commemorativo capillarmente articolato, come se si trattasse di qualcosa rigorosamente pianificato. In realtà la questione apparve dopo il 1918 come complessa e controversa, dominata da interessi e da enti non coordinati tra di loro: accanto alla presenza conflittuale del governo centrale e degli enti locali, assistiamo al sovrapporsi di una serie di comitati e di commissioni nate ad hoc. Sacrari e ossari italiani della Prima guerra mondiale Ai contemporanei, la campagna per la costruzione di monumenti commemorativi appare fin dall’inizio come fenomeno incontrollato i cui esiti sembrano ben lontani dagli obiettivi. Monumentomania è allora termine ricorrente; il deputato Ettore Janni parla già alla fine del 1918 di “invasione monumentale”.1 Oltre alle lapidi e alle stele sparse nei seimila comuni d’Italia, vi sono i simboli di carattere nazionale: a Roma si costruiscono i monumenti commemorativi di intere categorie (i dipendenti dei ministeri, i poliziotti, i ferrovieri, i vigili del fuoco…). Viene da chiedersi se, in quella fase di grande intensità realizzativa, l’architettura abbia saputo rispondere alla domanda di un nuovo culto laico dei caduti in guerra. Il tema è stato affrontato soprattutto sul piano simbolico, in relazione a una serie di avvenimenti politici.2 Sul fronte dell’architettura mancano repertori completi, come abbiamo notato, a differenze di quel che comincia ad accadere nel campo della scultura: fanno eccezione le province di Roma e del Lazio, più alcune aree del Piemonte dove sono stati realizzati studi di tipo sistematico.3 353 La prima generazione di sacrari monumentali Nella maggior parte delle città-capoluogo, il monumento ai caduti assume sembianze diverse, associandosi spesso a temi e tipi tra loro differenti: il faro come a Trieste, il tempio votivo come a Padova o a Modena, il gruppo scultoreo come a Milano. Quasi ovunque e in particolare nei centri del Triveneto, l’episodio acquista un decisivo rilievo urbanistico collocandosi spesso come nuovo epicentro della futura espansione edilizia o di quella in corso di realizzazione. Poi mano a mano che ci si addentra nei centri minori, le testimonianze dell’immane contributo di sangue vanno sempre più riducendosi: una lapide o un cippo commemorativo, oggetti di dimensioni modeste ma non per questo necessariamente provviste di scarso significato simbolico. Nei comuni più piccoli, i monumenti ai caduti della prima guerra mondiale finiscono così per perpetuare una tradizione di arte funeraria che coinvolge e dà lavoro a una serie di scultori locali. Lo splendore della forma 354 In buona parte dei casi ritroviamo un ben riconoscibile legame di continuità con i monumenti costruiti per celebrare le guerre d’indipendenza: vi possiamo infatti riconoscere quel mix di realismo e di astrattismo concettuale che ha caratterizzato i primi cinquanta anni di storia patria. Anche dopo il 1918 compaiono steli, colonne, piramidi, obelischi e cippi sormontati da fanti in armi o da vittorie alate e spesso appoggiate su di una sfera. Contemporaneamente inizia a farsi strada l’idea di monumentalizzare i luoghi prossimi ai campi di battaglia: è il caso del Monumento al Fante che non sarà mai realizzato, nonostante le buone intenzioni e i tanti sforzi compiuti a partire dal 1920, quando fu bandito il concorso d’idee.4 L’ipotesi di realizzare un colossale manufatto sulla collina di San Michele al Carso (Gorizia) si era fatta strada già all’indomani dell’Armistizio. Si trattava, al tempo stesso, di un ossario situato al centro del più sanguinoso teatro di guerra e di un monumento commemorativo legato a quella categoria – il Fante – che aveva pagato il più alto tributo alla patria in termini di sangue. I primi sacrari extra-urbani che commemorano la Grande guerra non si allontanano di molto da quegli schemi di ossario realizzati nel corso dell’Ottocento; nella maggior parte dei casi si tratta di riproposizioni di quei modelli che sono già stati largamente impiegati in occasione delle guerre d’indipendenza. Solo successivamente, con il varo del piano Faracovi, ha inizio la campagna per la costruzione di grandi sacrari nazionali e si registra il progressivo allontanamento del “tipo” legato ai precedenti modelli.5 È il caso delle prime realizzazioni dei sacrari di Fagarè, Nervesa della Battaglia, Tonale, Asiago, Casteldante di Rovereto e altri ancora sorti tutti accanto ai principali teatri di guerra, dei quali ha scritto in modo dettagliato Anna Maria Fiore.6 Essi rientrano in un vero e proprio programma di monumentalizazione voluto dallo stato fascista, e in particolare da Mussolini, deciso a dare una degna cornice celebrativa ai luoghi che furono teatro della prima guerra mondiale. Lo scopo iniziale è quello di dare sistemazione definitiva alle salme dei soldati caduti, Sacrari e ossari italiani della Prima guerra mondiale sepolti, sino ad allora, in cimiteri provvisori. È in questa fase che l’ossario viene ripensato: da grande e anonima tomba si trasforma in un luogo in cui l’individualità del caduto viene salvaguardata. Il programma Faracovi definisce la realizzazione di una serie di grandi ossari militari, da collocarsi lungo i principali fronti di battaglia: sul corso dell’Isonzo, del Piave, e sulla linea montana. Le grandi concentrazioni di salme divengono la soluzione più razionale per contenere i costi degli interventi e dotarsi di architetture altamente celebrative. La seconda generazione di sacrari monumentali Anche per quanto riguarda l’affidamento delle commesse vengono introdotte non poche novità: inizialmente i progetti sono assegnate a professionisti locali. Ancora negli anni Venti, l’ossario del Pasubio è disegnato dall’architetto vicentino Ferruccio Chemello che lo concepisce secondo il tradizionale schema della torre commemorativa, già impiegato a San Martino e a Custoza; negli stessi anni Chemello progetta una lunga serie di chiese parrocchiali nel Vicentino, non molto dissimili dall’ossario nel rapporto tra elemento verticale e orizzontale. Soltanto in una seconda fase che coincide con l’arrivo di Giovanni Faracovi, la scelta dei professionisti andrà ben al di là dell’ambito geografico legato alla singola opera. Soprattutto da Roma e da Milano provengono gli architetti incaricati di disegnare la nuova generazione di sacrari monumentali. Il tentativo di unificare le indicazioni di tipo progettuale provengono dallo stesso piano Faracovi il quale rappresenta forse l’espressione più compiuta di un intento dichiaratamente accentratore. Le sperimentazioni architettoniche intorno al tema del memorial post-bellico condurranno, intorno alla metà degli anni Trenta, alla messa a punto di nuovi e imponenti impianti commemorativi: tra questi spiccano i sacrari di monte Grappa, di Caporetto e di Redipuglia. Tra questi, emerge il complesso monumentale di Redipuglia che rappresenta il più grande sacrario militare italiano e nel contempo il punto d’arrivo delle sperimentazioni architettoniche condotte sul “tipo”. 355 Lo splendore della forma 1. Sacrario del Monte Grappa, pianta, 1935 (Archivio del Commissariato Generale per le Onoranze ai Caduti in Guerra, Roma, Sezione Tecnica, Monte Grappa) 356 La sua vicenda progettuale è legata a due professionisti lombardi, lo scultore Giannino Castiglioni e l’architetto Giovanni Greppi; su committenza dell’allora incaricato dal governo Ugo Cei, i due professionisti avviano le loro ricerche a partire dal sacrario del monte Grappa nel 1933.7 I due definiscono alcuni dati sull’assetto plani-volumetrico che si ritrovano nella quasi totalità delle realizzazioni legate a questa nuova serie di sacrari monumentali: si veda la presenza di una “via eroica”, della “pareteossario”, del percorso ascensionale di tipo iniziatico che sfrutta l’andamento irregolare del terreno – sempre è presente una cappella, che spesso corrisponde a un preesistente edificio di culto e che sovente costituisce il centro di un cannocchiale visivo. Il rapporto con il sito diventa un dato costante: il complesso si apre e si dispone nell’ambiente naturale traendo, da questa relazione spaziale, un elemento decisivo della propria, marcata fisionomia architettonica. Per il grande complesso del monte Grappa, Greppi e Castiglioni utilizzano un impianto planimetrico a cerchi concentrici con cinque gradoni: le pareti-ossario scendono ad avvolgere lo sperone roccioso sulla cui sommità 2. Sacrario del Monte Grappa, veduta Sacrari e ossari italiani della Prima guerra mondiale 3. Sacrario del Monte Grappa, veduta della “via eroica” e del “portale di Roma” sorge il santuario della Madonnina del Grappa, concepito in forma di tempietto circolare, sovrastato da una cupola metallica e da una grande croce (figg. 1-2). Realizzata in forma di grande viale lastricato in pietra bianca, la “via eroica” è fiancheggiata da due file di grandi cippi su cui sono incisi i nomi delle località legate alle battaglie più significative della zona; il percorso parte dal piazzale, ove sorge il tempietto, e si conclude con il “portale di Roma”. Si tratta di un massiccio edificio realizzato in blocchi di pietra in forma di enorme sarcofago, donato dalla città di Roma e in origine pensato come accesso all’ossario ipogeo preesistente (fig. 3).8 Dopo l’esperienza del sacrario del monte Grappa i due artisti adottano un impianto ottagonale nel sacrario di Caporetto; sfruttando il forte dislivello, il complesso digrada verso l'alto mediante due gradoni concentrici, realizzati in pietra sbozzata e impostati su un alto basamento. 9 Un sistema di scalinate a doppia rampa immette alla sommità della collina dove si trova la chiesa di S. Antonio ovvero l’elemento visivamente dominante dell’intero complesso (fig. 4). 357 4. Sacrario di Caporetto, veduta Lo splendore della forma In questa circostanza uno dei principali problemi posti a Greppi e Castiglioni è l’inserzione dell’edificio religioso e la necessità di porlo in rapporto con l’insieme; da questa esigenza nasce, infatti, la teoria di arcate libere. Posta alla sommità del complesso, questa racchiude l’edificio religioso pur lasciandolo intravedere in modo da smorzare l’eccentricità della sua collocazione. Inizialmente il tema del sacrario era stato riproposto attraverso oggetti architettonici capaci di segnalare un luogo significativo: è un compito di norma affidato torri, piramidi, complessi dotati di campanile. In seguito, grazie alla svolta impressa da Greppi e Castiglioni, l’insieme architettonico acquisisce una valenza ben più complessa: gli viene attribuito il carattere di percorso en plein air ove l’articolazione della massa volumetrica contribuisce a restituire l’immagine di un monumento in movimento. 358 Redipuglia Il compito di dimostrare tutto questo sarà assegnato al gigantesco sacrario di Redipuglia che sarà inaugurato quasi alla vigilia del secondo conflitto mondiale. Il punto d’arrivo dei concetti espressi nei precedenti sacrari è sicuramente Redipuglia (fig. 5).10 Qui sono custoditi i resti di centomila caduti dei quali sessantamila risultano ignoti. La costruzione sorge sul gradone occidentale del Carso e, da una posizione elevata, domina il paesaggio pianeggiante che si estende verso ovest: per chi proviene dalla penisola, la vista è immediatamente catturata dagli enormi gradoni che occupano il ciglio dell’altopiano carsico. Nel suo carattere di dichiarato fuori-scala, il gigantesco sacrario estremizza quel concetto di archi-scultura11 che è andato sviluppandosi soprattutto negli anni precedenti alla Grande guerra, ma che ha trovato opportunità di realizzazione soprattutto nel dopoguerra. 5. Sacrario di Redipuglia, pianta (Archivio del Commissariato Generale per le Onoranze ai Caduti in Guerra, Roma, Sezione Tecnica, Redipuglia) Sacrari e ossari italiani della Prima guerra mondiale 6. Sacrario di Redipuglia, veduta Inaugurato a venti anni di distanza dalla fine della Grande guerra, il monumento è nato da un bozzetto dello scultore Giannino Castiglioni, sviluppato insieme all’architetto Giovanni Greppi. In questo caso, la rappresentazione di tipo realista ha ceduto il passo a una visione geometrico-elementare: in uno scenario minimalista, per non dire astratto; la statuaria è del tutto scomparsa, sostituita dall’accostamento e dalla contrapposizione di grandi masse volumetriche che vengono a configurasi come una imponente scalinata monumentale. Lastricato in pietra del Carso, il piazzale è attraversato lungo la sua linea mediana dalla “via eroica” la quale corre tra due file di lastre di bronzo: disposte in numero di diciannove per ciascun lato, le lastre portano inciso i nomi della località teatro di combattimenti (fig. 6). In fondo alla “via eroica” si elevano i ventidue gradoniossario che custodiscono le spoglie dei quarantamila caduti identificati. I loro nomi sono incisi in bronzo sulle singole lapidi, secondo un ordine alfabetico che procede dal basso verso l’alto della gigantesca scalinata.12 Ciascun gradone è concluso nella parte superiore da una fascia in pietra sulla quale è incisa e ripetuta innumerevoli volte la parola “Presente” (fig. 7). 359 7. Sacrario di Redipuglia, veduta di uno dei gradoni con l’iscrizione “Presente” Sacrari e ossari italiani della Prima guerra mondiale Lo splendore della forma 8. Sacrario di Redipuglia, veduta delle tombe del Duca d’Aosta e dei suoi cinque Generali 360 Il rimando al rito militare dell’appello è inequivocabile ed è forse la testimonianza più eloquente di quella identificazione tra caduti della Grande guerra e martiri fascisti. Tanto rigida quanto complessa, la disposizione planimetrica riproduce lo schieramento di un intero corpo d’armata costituito da centomila soldati: le tombe dei caduti sono allineate secondo una progressione che vede sorgere, isolata alla base, il sepolcro del Duca d’Aosta comandante della Terza Armata. Questo, a sua volta, risulta fiancheggiato dalle urne dei Generali caduti in combattimento (fig. 8).13 L’effetto di fuori-scala ci suggerisce un approccio più scultoreo che architettonico alla definizione del volume: sul monte Grappa e soprattutto a Redipuglia, Castiglioni e Greppi sembrano avere infatti elaborato un modello tri-dimensionale calato, in un secondo tempo, sulle necessità funzionali e distributive. La volontà di attribuire monumentalità al sacrario non esclude anche l’utilizzo di artifici illusionistici ricorrendo a un uso sapiente dello strumento prospettico come accade a Redipuglia. La gradonata si restringe verso l’alto, seguendo l’andamento delle linee di fuga richiamando una soluzione già utilizzata da Greppi e Castiglioni nella realizzazione della “via eroica” del sacrario del Grappa.14 In conclusione resta da chiedersi se l’architettura di Greppi e Castiglioni sia riuscita a convogliare, verso esiti significativi, il bisogno di rappresentare il culto dei caduti; specialmente nella fase in cui il problema è al centro dell’attenzione del regime fascista. Sicuramente, alcuni capi d’opera della seconda generazione (e in primis Redipuglia e monte Grappa) riescono a raggiungere risultati originali; interpretano a pieno la volontà da parte del fascismo di appropriarsi della vittoria nella Grande guerra e della memoria dei suoi caduti. In quanto meta di pellegrinaggio, la sacralità del luogo è sempre sottolineata da grandi scalinate laterali o centrali che permettono di accedere ai vari ripiani dei gradoni; questi ultimi, grazie al loro andamento oscillante, evocano i percorsi iniziatici dei grandi santuari dell’antichità.15 Al di là degli aspetti ideologici, il sacrario apparirà come interprete di una nuova forma di monumentalità che proprio la forzatura del contesto naturale rende più efficace. Il carattere complessivo dell’opera contribuisce così a infondere nel visitatore un’immagine non convenzionale dell’immane tragedia. 1 2 3 Cfr. Janni, E., L’invasione monumentale, in “Emporium”, L (1918), p. 249. Si veda anche, dello stesso autore le considerazioni contenute in Memorie di deputato, Mondadori, Milano 1922, pp. 98 sgg. In questo ambito, si veda Monteleone, R. Saracini, P., I monumenti italiani ai caduti della grande guerra, in La grande guerra: esperienza, memoria, immagini, a cura di D. Leoni e C. Zadra, Il Mulino, Bologna 1986. Cfr. anche l’articolo di Canal, C., La retorica della morte: monumenti ai caduti della Grande guerra, in "Rivista di storia contemporanea", n. 4, ottobre 1982, pp. 659-669. La memoria perduta: monumenti ai caduti della Grande guerra a Roma e nel Lazio, a cura di V. Vidotto, B. Tobia, C. Brice, Nuova Argos, Roma 1998; Francolini, S., Monumenti ai caduti in guerra nella provincia di Novara e nella provincia del Verbano-Cusio-Ossola, Litopress, Borgomanero 2006; Campagnolo, C., Monumenti ai Caduti della prima guerra mondiale nel Biellese, Biella, s.d.; Salvagnini, G., La scultura nei monumenti ai caduti della prima guerra mondiale in Toscana, Opus libri, Firenze 1999. 4 5 6 7 8 Espletato da un apposito Comitato nazionale nel luglio 1920, il concorso ebbe importanti esiti sul piano architettonico. Cfr. Papini, R., Il Concorso per il Monumento al Fante, in “Emporium”, LII (1920), pp. 89-96. Sul Programma generale per la sistemazione definitiva delle sepolture militari italiane messo a punto dal generale Giovanni Faracovi nel 1928 si veda Fiore, A.M., La monumentalizzazione dei luoghi teatro della Grande Guerra: il sacrario di Redipuglia di Giovanni Greppi e Giannino Castiglioni, in “Annali di Architettura” n. 15, 2003, pp. 233-234. Fiore, A.M., La monumentalizzazione cit., pp. 233 sgg. Sulla collaborazione tra Greppi e Castiglioni, si veda: Fiore, A.M., La monumentalizzazione cit., pp. 235-236. Sul sacrario del Grappa inaugurato nel settembre del 1935 e sulla storia dell’ossario preesistente si veda: Fiore, A.M., La monumentalizzazione dei luoghi teatro della Grande guerra: i sacrari di Giovanni Greppi e di Giannino Castiglioni (1933-1941), tesi di dottorato, relatori proff. G. Zucconi - H. Burns, IUAV, Venezia 2001, pp. 88-110; Vanzetto, L.. e Manesso, A., Cima Grappa. 361 Lo splendore della forma 9 10 362 Luogo conteso dalle memorie, Grafica 6, Zero Branco >2001; Zagnoni, S., Dal monumento al Fante ad una nuova tipologia monumentale. Appunti per un’iconologia, in “Parametro”, XXVII, 213, 1996, pp. 62-64; Commissariato Generale Onoranze Caduti in Guerra (a cura di), Sacrari militari della Prima Guerra Mondiale. Monte Grappa ed altri vicini, Arti Grafiche Francesco Garroni, Roma 1980. Sul sacrario di Caporetto, realizzato tra il 1935 e il 1938 e inaugurato da Benito Mussolini nel settembre dello stesso anno, si veda: Fiore, A.M., La monumentalizzazione cit., pp. 151-156. Cfr. sull’argomento. Fiore, A.M, La monumentalizzazione cit., pp. 233 e sgg. Inoltre sul sacrario di Redipuglia si veda: Bortolotti, M., Progetti e realizzazioni in Friuli Venezia Giulia, 1931-1938, in “Parametro”, cit., pp. 33-40; Nicoloso, P., Settembre 1938: Mussolini nella Venezia Giulia. Indirizzi totalitari e architetture per il fascismo, in Torviscosa: Esemplarità 11 12 13 14 15 di un progetto, a cura di E. Biasin, R. Canci, S. Perulli, Forum, Udine 2003, pp. 23-25. Cfr. Mangone, F., La morte e l'eroe: archiscultura monumentale in Italia, 1890-1922, in "La Nuova Città", n. 9, settembre-dicembre 1995, pp. 53 sgg. Si veda anche Zucconi, G., Gli anni dieci tra riscoperte regionali e aperture internazionali, in Storia dell'architettura italiana. Il primo Novecento, a cura di G. Ciucci e G. Muratore, Electa, Milano 2004, pp. 38-55. Commissariato Generale Onoranze Caduti in Guerra (a cura di), Sacrari militari della Prima Guerra Mondiale. Redipuglia, Franco Ricci-arti grafiche, Roma 1999, p. 2. Ibidem. Fiore, A.M, La monumentalizzazione cit., p. 241. Ivi, pp. 241-242. Sobrietà senza retorica in alcuni progetti europei per comunicare l’Olocausto di Franziska Bollerey * Le parti sui sacrari monumentali sono opera di A.M. Fiore, le altre parti di G. Zucconi. Questo libro tratta dello “Splendore della Scultura nei cimiteri d’Europa”. All’interno di questo contesto ammetto di sentirmi un po’ come un’estranea. La scultura sepolcrale o l’architettura dei cimiteri non possono essere l’oggetto del mio testo: devo occuparmi per prima cosa di assassinî e assassinati, genocidi di proporzioni inimmaginabili. Per introdurvi a questo tema, sarebbe meglio partire dai sopravvissuti all’Olocausto: “Avevamo un canarino. Dopo l’emanazione del decreto che proibiva agli Ebrei di tenere animali domestici (15.5.1942), mio marito non riuscì ad abbandonarlo. Quando il sole splendeva, metteva la gabbia alla finestra. Qualcuno deve aver riferito ciò alla polizia. Gli fu detto di andare alla ‘Gestapo’, la Polizia Segreta tedesca. Dopo molte settimane di angoscia ricevetti l’ordine di andare alla stazione di polizia portando con me tre marchi del Reich come prezzo da pagare per poter prendere l’urna che conteneva le ceneri di mio marito”.1 II tema della memoria dell’Olocausto causato dalla Germania non tocca solamente l’aspetto del ricordo colletti- 363 Lo splendore della forma 364 vo, bensì fa sorgere inevitabilmente sentimenti intensi di corresponsabilità, vergogna e di colpa. È la consapevolezza di non aver resistito a ciò che fu psicologicamente introdotto con abilità in una procedura che avanzò a piccoli passi e venne progettata con cura (come viene mostrato in modo impressionante nei cartelli dei pali della luce del “Bayerisches Vierte” di Berlino),2 che sarà sempre presente per una certa generazione. Ernst Bloch così commentò questo abile processo per far considerare queste crescenti atrocità come cose normali nella mente della gente: “Questa è una dimostrazione ancora più violentemente coercitiva dello stesso esercizio del potere, nella misura in cui agisce incessantemente e meno pateticamente, paralizzando la coscienza della contraddizione, abbassando la soglia per le occasioni di mostrare coraggio”.3 Probabilmente se il fascismo, immediatamente dopo la sua salita al potere, avesse cominciato a deportare gli Ebrei, si sarebbe verificata una assai più effettiva resistenza. Ma fu proprio questa progressiva alienazione dai valori umani, morali ed etici che rese possibile ciò che il fascismo tedesco chiamò Endlösung (Soluzione finale). Oltre che su di una diffusa mancanza di coraggio individuale, l’Olocausto poteva contare sul supporto di un gran numero di istituzioni oltre che di branche dell’industria: ovviamente era abbastanza naturale che i produttori dei forni crematori, le ditte di “Topf'” (pentole e indumenti), lavorassero costantemente per il miglioramento dell’efficienza dei loro prodotti per i campi di concentramento. “Quando milioni di esseri umani vennero uccisi ad Auschwitz e in altri campi di concentramento e sterminio tedeschi, gli assassini dovettero fronteggiare molti problemi tecnici. L’uccisione e la sistemazione dei cadaveri dovevano avvenire in maniera continua, economica ed efficace, e lasciando meno tracce possibili. Per realizzare un simile sistema, le SS si rivolsero a esperti civili che non si fecero scrupoli a progettare un meccanismo adatto a risolvere i problemi relativi allo sterminio. L’azienda di Erfurt Topf & Sons esercitò un ruolo determinante in questo processo. Per venire incontro alle richieste delle SS, l’ammini- Sobrietà senza retorica per comunicare l’Olocausto 1. Hirsch, Lorch e Wandel, Memoriale del “Binario 17”, Berlino, quartiere di Grunewald, 1998 365 strazione della ditta e gli ingegneri progettarono sia i forni crematori per l’eliminazione dei cadaveri sia le camere a gas. A tale scopo, dovevano inizialmente fare attenzione al peso dei corpi che uccidevano e bruciavano nei forni crematori. Per fare questo hanno dovuto verificare per prima cosa le prime uccisioni di massa e i primi utilizzi dei forni crematori. I tecnici che partecipavano a questo processo utilizzarono l’esperienza in modo da ottimizzare i macchinari per lo sterminio.”4 Lo splendore della forma 366 II fascismo tedesco poteva contare su una molteplicità di aiuti industriali e istituzionali. Allo stesso modo, per esempio, divenne un normale aspetto del lavoro della Deutsche Reichsbahn (la Ferrovia del Reich tedesco) organizzare i trasporti di massa delle vittime verso il loro sterminio. Proprio nel centro di Grünewald, uno dei più tranquilli e privilegiati quartieri di Berlino, è stato trovato uno dei maggiori centri di deportazione ferroviaria. Per molto tempo la Reichsbahn, così come più tardi la Deutsche Bundesbahn (Ferrovia Federale), ha negato di aver mai collaborato con il regime nazista. Nel 1985, in occasione del centocinquantesimo anniversario delle ferrovie tedesche dell’Est e dell’Ovest, l’amministrazione ebbe molti problemi nell’includere questo capitolo della loro storia nelle proprie esposizioni commemorative. Solo dopo la riunificazione dei due sistemi ferroviari nel 1990 venne presa la decisione di costruire un monumento che ricordasse le deportazioni durante il regime nazista. II luogo commemorativo a Berlino-Grünewald oggi ricorda ognuna delle passate funzioni del “Binario 17”.5 Venne così bandito un concorso a inviti. Tra i membri della giuria c’erano Ignatz Bubis, presidente del Consiglio Centrale Ebraico della Germania, Heinz Dürr, direttore del Consiglio Management della Deutsche Bahn (Ferrovia Tedesca) AG, il prof. Gunther Gottmann, direttore del Museo del Traffico e della Tecnica (oggi Museo della Tecnologia Tedesca), Jerzy Kanal, capo della Comunità Ebraica di Berlino e il Dr. Salomon Korn , architetto di Francoforte. La giuria assegnò il primo premio agli architetti Hirsch, Lorch und Wandel, di Saarbrürcken e Francoforte sul Meno. Il nucleo centrale era costituito da 186 gri- 2. Karol Broniatowski, Memoriale alla deportazione, Berlino, quartiere di Grunewald, 1991 Sobrietà senza retorica per comunicare l’Olocausto glie in acciaio, sistemati cronologicamente e immersi nella ghiaia lungo il bordo della piattaforma ferroviaria. In ognuno si può leggere la data di ogni singolo viaggio, il numero dei deportati, il luogo di partenza e la destinazione (fig. 1). La vegetazione che si formò spontaneamente nel corso degli anni nel binario 17 venne mantenuta. Oggi, come parte stessa del memoriale, serve come simbolo del fatto che nessun treno partirà mai più da questo binario.6 Collegata a questo monumento, c’è la scultura di Karol Broniatkowski, commissionata dallo Stato Federale di Berlino, che indica il cammino verso la rampa della deportazione (fig. 2). Gli elementi commemorativi del genocidio e delle deportazioni di massa creano qui un memoriale che sembra più autentico e commovente del monumento ufficiale commissionato anni più tardi dopo un lungo dibattito dal Deutsche Bundestag. Esso non riesce a essere – e qui non mi riferisco al Centro di documentazione sotterraneo aggiunto all’area sovrastante – un vero memoriale commovente del ricordo di milioni di Ebrei uccisi. Il monumento alla memoria dell’Olocausto che si trova a Berlino venne progettato da Peter Eisenman, che nella fase iniziale collaborò con Richard Serra.7 Serra, che aveva ricevuto questa commissione dopo l’impressionante lavoro svolto per l’antica sinagoga di Pulheim, vicino a Colonia, si ritirò dall’incarico dopo un paio di richieste di modifiche provenienti dall’ufficio della Cancelleria tedesca. Egli temeva che “alla fine un progetto manipolato risultasse solo indirettamente collegato al concetto originate, ma non costituisse un’opera d’arte in se stessa”.8 La dimensione dell’opera (un’area di 19.073 metri quadrati contenente 2.711 stele alte tra 95 centimetri e oltre 4 metri) colloca questo progetto in un gruppo di monumenti di larga scala che incontriamo nel periodo successivo all’Illuminismo, attraverso i progetti degli “Architetti Rivoluzionari” come per esempio il Cenotafio dedicato a Isaac Newton nel 1784, opera di Etienne-Louis Boullée. Più tardi, questo tipo di monumento lo troviamo nel Nord Italia nel periodo compreso tra le due guerre mondiali, durante il regime di 367 Lo splendore della forma 3.1. Louis Etienne Boullèe, Cenotafio per Isaac Newton, 1784 3.2. Giovanni Greppi, Memoriale di Redipuglia, 1938 368 Benito Mussolini (vedere il contributo di Guido Zucconi in questo libro) (figg. 3.1, 3.2). Questa tarda commemorazione dei morti della Prima guerra mondiale trovò un’espressione di magnificenza e allo stesso tempo una propria qualità estetica nel dettaglio.9 L’organizzazione delle scale di Redipuglia, per esempio, sembra anticipare il successivo progetto di Carlo 4. Giovanni Greppi, Memoriale del Redipuglia, 1938, dettagli delle scale Sobrietà senza retorica per comunicare l’Olocausto 5.1. Giovanni Greppi, Memoriale del Monte Grappa, 1935 5.2. Jakow S. Belopolski, Memoriale sovietico, Berlino, Parco di Treptow, 1946-1949 Scarpa (fig. 4). Lo splendido isolamento del memoriale del Monte Grappa d’altra parte sottolinea ancora una volta il concetto – se lo si può dire celebrando la morte – di grandeur maestosa. Tornando a Berlino: il monumento commemorativo della Seconda guerra mondiale a Treptow,10 innalzato dai Russi in onore dei soldati dell’Armata Rossa morti combattendo la Germania fascista, mira allo stesso effetto ma appare tuttavia quasi confrontabile con la sua controparte nel Nord Italia (figg. 5.1, 5.2). Preferirei comunque tornare al mio soggetto originale: dagli anni Cinquanta i Tedeschi realizzarono memoriali in pietra e installarono lapidi commemorative in molti luoghi. Essi promossero centri di informazione e di ricerca, luoghi commemorativi.11 In un periodo successivo molti campi di concentramento vennero aperti al pubblico come luoghi attraverso i quali ricordare la storia sotto il regime di Hitler. Solo dal 1980, tuttavia, c’è stato un aumento di incarichi ad architetti e artisti per la realizzazione di opere commemorative.12 In Giappone, all’inizio degli anni Cinquanta, noti architetti come Kenzo Tange (Monumento alla memoria 369 Lo splendore della forma 6.1. Kurt Schwitters, Collage, 1919 6.2. Daniel Libeskind, Museo ebraico, Berlino, 1998/2000 6.3. Enrique Miralles e Benedetta Tagliabue Cimitero di Igualada, Catalogna, 370 dei morti di Hiroshima e la Sala della Pace) e Ryoito Fukuda (Monumento alla memoria dei morti in guerra di Okinawa) si occuparono di questo soggetto.13 In Germania, la decisione di fondare un Museo Ebraico seguì questa linea di sviluppo.14 Nel 1999 il museo venne aperto; Daniel Libeskind, nella sua moderna addizione al precedente palazzo barocco che per anni ricoprì il ruolo di Museo Storico di Berlino, prese spunto da una parte dalla ferita provocata dall’Olocausto nel corso della storia, dall’altra dall’Espressionismo, che fu in sé una reazione agli effetti disastrosi della Prima guerra mondiale. Libeskind optò per un linguaggio di decostruzionismo ottenendo quindi quello che otto anni prima era stato proposto nel progetto del cimitero monumentale di Enrique Miralles e Benedetta Tagliabue a Igualada in Catalogna (figg. 6.1, 6.2, 6.3).15 Per quanto riguarda il monumento berlinese alla Memoria dell’Olocausto, senza dubbio Serra ed Eisenman si ispirarono in parte al progetto di Libeskind (figg. 7.1, 7.2). 7.1. Daniel Libeskind, Museo ebraico, Berlino, 1998/2000 7.2. Peter Eisenman, Memoriale dell’Olocausto, Berlino, 2005 Sobrietà senza retorica per comunicare l’Olocausto Oggi, appena sotto la Porta di Brandeburgo, troviamo II Monumento alla Memoria degli Ebrei d’Europa uccisi. L’iniziativa risale al 1989, anno della caduta del muro di Berlino. Nel 1994/95 venne bandito un concorso che vide la partecipazione di 528 concorrenti. Seguendo un dibattito pubblico nell’estate del 1997 venne lanciato un nuovo concorso a inviti per architetti e artisti. Dopo l’approvazione dell’innalzamento del monumento alla memoria da parte del Deutscher Bundestag, nella primavera del 2003 vennero eseguiti i lavori. La sua inaugurazione avvenne il 12 maggio del 2005. L’intero lavoro venne accompagnato da una vivace discussione e da molte critiche contro il singolo monumento centrale e contro l’esclusione di tutte le altre vittime del fascismo. La documentazione relativa all’intero processo è contenuta in un libro di almeno milletrecento pagine che riflettono la problematicità del soggetto.16 Rimane la domanda se il ricordo collettivo può essere più di un gesto rituale riguardante il passato, un passato che non passerà mai.17 “A cosa serve un opprimente ed enorme monumento nel centro della città con una estensione di quarantamila metri quadrati”, chiese Gyorgy Konrad nella “Frankfurter Allgemeine Zeitung”.18 Nello stesso giornale, E. Young scrive: “Una nuova generazione di pensosi artisti tedeschi già da tempo aveva espresso con chiarezza le riserve su quel tipo di monumento commemorativo. La sua logica didattica e la rigidità demagogica, la presunzione conformista con cui questi monumenti si impadroniscono della storia furono collegati al fascismo in più di un aspetto [...] e com’è possibile commemorare le vittime del fascismo con una forma d’arte autoritaria [...]?”19 “... Sarebbe stato molto meglio spendere i soldi per la conservazione dei molti e diversificati memoriali dell’Olocausto [...] Poiché un singolo posto non può parlare a nome di tutte le vittime, non può nominare tutte le vittime e i colpevoli, la nazione deve invitare ripetutamente i suoi cittadini a visitare i tanti luoghi commemorativi esistenti e i centri d’informazione: il magnifico centro di documentazione nel ‘Wannsee-Villa’ e l’esposizione molto istruttiva sulla ‘Topografia del Terro- 371 Lo splendore della forma 372 re’ (torneremo su questo tema) in quelli che erano i quartieri berlinesi della Gestapo, lo storico paesaggio oppressivo di Buchenwald, la cura dedicata alla costruzione di un museo nel campo di concentramento di Dachau, la molteplicità di lapidi commemorative che in ogni zona della Germania evidenziano i punti di partenza delle deportazioni e i molti spazi vuoti dove originariamente erano situate le sinagoghe – per non parlare dello spazio per la riflessione tra tutti questi”.20 Anche Gyorgy Konrad oppone una specie di pars pro toto: “Eccellenti e importanti artisti tedeschi affrontarono la sfida, ma divenne evidente che nessuno era all’altezza dell’incarico. Si tratta forse di un fatto inevitabile che deve essere accettato. Le proposte (del monumento commemorativo dell’Olocausto) fin qui mostrano kitsch didattici e spietati, con delle allusioni, dei simboli contorti, idee, concetti e arroganza nei confronti dei visitatori e dei vicini della porta accanto. Non c’è bisogno di un monumento commemorativo che rifletta l’enorme dimensione della Germania. Sarebbe molto meglio un monumento commemorativo che rappresentasse la triste sorte subita da ogni bambino ebreo incenerito”.21 Walter Jens ha recentemente detto che non si poteva “piangere eccessivamente” e che il contrario del pianto era il sussurro. Lo spazio sotterraneo di Micha Ullman e Ramat Hasharon riempito con scaffali vuoti in Bebelplatz costituiva, per esempio, un monumento commemorativo di questo tipo. Nonostante tutti questi discorsi il monumento alla memoria dell’Olocausto di 19.000 metri quadrati venne realizzato e aperto nel 2005. Due anni più tardi grandi problemi sorsero in relazione alla qualità fisica di più di quattrocento delle stele così come alcune scritte sui muri. Per quanto riguarda il carattere suggestivo dell’opera, si può almeno dire che un monumento alla memoria della tragedia dell’Olocausto dovrebbe offrire una possibilità di contemplazione e di riflessione per quanto riguarda il proprio atteggiamento nei confronti del razzismo e della xenofobia. Tuttavia la disposizione architettonica, come si può osservare già dall’imaugurazione del monumento induce i visitatori, all’interno di quella Sobrietà senza retorica per comunicare l’Olocausto 8. Peter Eisenman, Memoriale dell’Olocausto, Berlino, 2005 373 struttura simile a un labirinto, a “giocare a nascondino”, a correre, gridare, arrampicarsi e saltare, nonostante tutto questo sia ufficialmente vietato. Nel parlato comune, il monumento è chiamato “Holo-Hop”. Dall’estate del 2006 il margine sud del monumento è fiancheggiato da una serie di locali fast-food. Adesso i turisti saltano fuori dai loro pullman, si godono i loro hamburger e passeggiano lungo le strade interne del monumento, senza visitare il centro di documentazione dell’Olocausto, una sorta di ripetizione di ciò che potrebbero apprendere al Museo Ebraico di Berlino (fig. 8). Cosa c’è veramente da ricordare? Dal 19 settembre del 1941 gli Ebrei vennero obbligati a indossare la “stella gialla”. II lungo processo delle esclusioni e delle discriminazioni sempre più estreme cominciò nel marzo del 1933. Quello che è possibile portare alla nostra attenzione di quei dodici anni, i sei senza guerra e i sei con la guerra, e le riflessioni che scaturiscono da così tante ingiustizie e umiliazioni – come Konrad e Gyorgy specificarono – saranno dimostrati di seguito. Lo splendore della forma Sobrietà senza retorica per comunicare l’Olocausto 10.1. Memoriale della Topografia del Terrore, Berlino, 1992 9.1. Tessuto giallo con la Stella di Davide, 1941 10.2. Micha Ullman, Memoriale dei libri bruciati, Berlino, 1995 9.2. Vista dall’aereo di Berlino bombardata, 1945 9.3. Via Lewandowsky, Tappeto rosso nella sede centrale del Ministero della Difesa tedesco, 2002 374 375 Nel 1945 il Reich crollò e Berlino, la sua capitale, cadde totalmente in rovina. Circa sessant’anni più tardi è sorprendente vedere come, in conseguenza della decisione del governo rossoverde del periodo, nel 2003 sia stato steso un tappeto sul pavimento della sala principale del Ministero Nazionale della Difesa vicino al Landwehrkanal, un canale urbano, in cui la polizia del Reich gettò nel 1919 i cadaveri di Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg. Questo tappeto mostra la riroduzione di una foto aerea della città di Berlino totalmente distrutta nel 1945.22 Così qui le forze armate di una nazione contemplano le conseguenze dell’azione militare nerll’epoca della guerra meccanizzata proprio nel loro quartier generale (figg. 9.1, 9.2, 9.3). Viene naturale confrontare un simile atteggiamento con il fatto che durante il famoso discorso di Colin Powell prima del Consiglio delle Nazioni Unite a New York il 5 febbraio 2003, in cui venne dichiarato che gli Stati Uniti d’America erano decisi a dichiarare guerra all’Iraq, la copia dell’opera pittorica di Picasso Guernica – rappresentazione delle conseguenze della guerra – fosse stata coperta durante il discorso ufficiale. Ci sono però anche vie più drastiche e allo stesso tempo più sottili per mettere a confronto la società con la storia del fascismo e del militarismo e le loro rispettive conseguenze. Nel 1992 venne aperta la mostra la Topografia del terrore.23 In maniera sicuramente meno spettacolare rispetto al monumento commemorativo di larga scala Lo splendore della forma 376 di Eisenman, le celle che precedentemente venivano impiegate per le torture nel quartier generale della Gestapo vennero rese accessibili al pubblico che ora può guardare materiale documentario nelle condizioni ambientali originali. Le tracce commemorative più impressionanti sono tuttavia quelle che vengono chiamate “contromemoriali”, che si trovano nel tessuto urbano e nelle strade comuni della città di Berlino, in cui avvennero molte delle atrocità commesse dal Terzo Reich. C’è la già menzionata libreria sotterranea di Micha Ullman sotto Bebel Platz, nella zona vicina all’Università Humboldt nell’Unter den Linden. Con i suoi scaffali vuoti, la cavità sotterranea bianca, che è visibile da sopra attraverso il vetro, ser ve a ricordare l’infame rogo a opera degli studenti nazisti dei libri messi al bando, il 10 maggio 1933. L’ingresso al centro è fiancheggiato da una decorazione in bronzo contenente una citazione di Heinrich Heine, che dice “dove si bruciano libri, il rogo degli esseri umani non è lontano” (figg. 10.1, 10.2).24 In un’altra località, salendo le scale della stazione della Metropolitana di Hausvogteiplatz in direzione della Museumsinsel o del Ministero degli Affari Esteri, si può notare nella parte verticale di ogni gradino il nome delle antiche aziende ebraiche che lavoravano nel campo dell’abbigliamento e che una volta erano situate lì. In cima ai gradini si trova, come ostacolo per il proseguimento, il monumento Denkzeichen, Modezentrum, Hausvogteiplatz (Centro commemorative e della moda di Hausvogteiplatz): tra le diverse lapidi si può leggere la seguente: “I proprietari e i dipendenti Ebrei delle Industrie di abbigliamento berlinesi ready-to-wear vennero obbligati a emigrare dal Nazionalsocialismo, 11. Rainer Görz, Memoriale del Centro di Moda di Hausvogteiplatz, Berlino, 1995/2000 Sobrietà senza retorica per comunicare l’Olocausto 12. Christian Boltanski, Progetto delle case perdute (Missing House Project), Berlino, 1990 377 oppure vennero deportati nei campi di concentramento e uccisi” (fig. 11).25 In un’altra parte della città, nella Große Hamburger Straße, un quartiere tradizionale ebraico a Berlino, vicino alla grande sinagoga nella Oranienburger Straße, si può trovare un vuoto tra due palazzi che risale ai bombardamenti del 1940 e non è mai stato riempito: qui, su un muro bianco, si possono leggere i nomi degli inquilini che vivevano nelle costruzioni distrutte e le date della durata della loro permanenza negli appartamenti dietro il muro. Qualunque fosse stata la data d’inizio, i soggiorni terminarono tutti nel periodo tra il 1943 e il 1945. Questo è il Missing House Project di Christian Boltanski del 1990. I muri si presentano come una sorta di libro leggibile come il passaggio del libro di Rainer Maria Rilke Malte Laurids Brigge, che descrive un muro spoglio confinante con un palazzo demolito a Parigi che fornisce molte tracce sulle quali l’immaginazione si può soffermare (fig. 12).26 Lo splendore della forma 13. Renata Stih e Frieder Schnock, Luoghi del ricordo, Quartiere bavarese, Berlino, 1991/1993 Sobrietà senza retorica per comunicare l’Olocausto 14. Steli commemorative, 1995, Gunter Demnig, Berlino, Kreuzberg 378 379 Lo stimolo al passante a osservare e leggere è evidente anche nel già menzionato Bayerisches Viertel a Berlin-Schöneberg. Nel 1988 una persona che viveva lì decise di scoprire quanti Ebrei erano divenuti preda della graduale “arianizzazione”. Dopo la sconvolgente scoperta che non meno di seimila abitanti ebrei del solo quartiere erano stati perseguitati e successivamente uccisi, il comune di BerlinSchöneberg nel 1991 bandì un concorso per il progetto di un monumento commemorativo. Venne scelta all’unanimità la proposta di Renata Stih e Frieder Schnock.27 La loro idea consisteva in ottanta cartelli fissati sui lampioni e sui pali stradali che portassero da una parte segni grafici e dall’altra i decreti nazisti che riguardavano gli Ebrei. La commemorazione riproduce così a livello verbale e pittorico la violenza sociale che, procedendo gradualmente, era entrata a far parte della vita di tutti i giorni in quel periodo. Ci mostra che lo sterminio non fu un avvenimento irreversibile e improvviso, ma fu piuttosto un processo lento che consistette in una serie successiva di privazioni minori ma determinanti. Parallelamente alla riproposizione del passato all’interno del presente veniva assegnato un ruolo importante a chi percorre i quartieri berlinesi. I cartelli (fig. 13) sono disseminati nel tessuto urbano di oggi nello stesso modo in cui i sentimenti antisemiti e i decreti contro gli Ebrei vennero instillati nella coscienza comune cinquant’anni prima. Di fatto presentando le azioni contro i cittadini Ebrei in un contesto di abituale e sicuro ambiente moderno, ai fruitori degli ubiqui cartelli è chiesto di assumere il ruolo di potenziale collaborazionista o “Mitläufer” (come si diceva nel dopoguerra). La realizzazione dell’estensione di questo “Mitlaufertum” tra i precedenti abitanti del quartiere ha come conseguenza la domanda contemporanea relativa a come ognuno di noi avrebbe reagito, di come si sarebbe vissuto in quei tempi e, conseguentemente, quale reazione c’è oggi nei confronti della xenofobia. Qui possono proporsi importanti effetti provocatori e una proposta di identificazione che molto probabilmente non possono emer- Sobrietà senza retorica per comunicare l’Olocausto Lo splendore della forma 380 gere di fronte all’ufficiale e gigantesco labirinto commemorativo realizzato da Eisenman vicino alla Porta di Brandeburgo. Infine è opportuno citare un altro esempio di onnipresente e decentrato counter memorial, come quello chiamato Stumbling Stones.28 L’idea nacque nel 1992. Il suo creatore, Gunter Demnig, inserì dei blocchi di bronzo di dieci centimetri per lato lungo le vie della città, nei marciapiedi di fronte alle case abitate precedentemente da Ebrei con scritti sopra i loro nomi, le date delle deportazioni e quelle della loro morte. Essi ricordano in maniera semplice ma autentica ogni particolare dello sterminio delle migliaia di Ebrei berlinesi (fig. 14) e si possono trovare anche in altre città tedesche come per esempio Bonn, Essen, Freiburg, Amburgo, Colonia, Leipzig, Münster, Neuruppin, Stuttgart, e Zittau.29 Nella loro semplicità formano un notevole contrasto con l’imponenza dell’ufficiale Monumento Statale alla Memoria dell’Olocausto che venne realizzato sotto il governo del cancelliere cristianodemocratico Helmut Kohl circa vent’anni fa. Così oggi abbiamo l’opportunità di confrontare il gesto superimposto con l’approccio che si è sviluppato da un denso contesto, per confrontare la ricerca di creare compassione e comprensione – anche una autoriflessione piena di speranza – con l’attitudine impositiva dello Stato che tende al monumentalismo. Si potrebbe credere che il Monumento Statale alla Memoria dell’Olocausto di Berlino abbia corso il rischio di diventare un gesto privo d’importanza se si osservano i progetti presentati al concorso che vennero esposti nel 1995 nello Staatsratsgebaude, che in precedenza era la sede del governo della DDR. Alcuni di essi diedero davvero l’impressione che, per citare di nuovo Walter Jens, “un pianto sarebbe stato eccessivo”; a proposito di questo James E. Youngs pose appunto la domanda: “Come è possibile commemorare le vittime del fascismo attraverso una forma d’arte autoritaria?”. Oggi a Berlino, come probabilmente in nessun’altra città della Germania, è possibile osservare entrambe le possibilità e fare un confronto secondo il proprio punto di vista. 1 2 3 4 5 Berliner Geschichtswerkstatt (ed.): Fundstucke, Fragmente, Erinnerungen: Juden in Kreuzberg (Edition Hentrich), Berlin 1991, p. 187 Stih, Renata e Schnock, Frieder, Orte des Erinnerns. Ausgrenzung und Entrechtung, Vertreibung,Deportation und Ermordung von Berliner Juden in den Jahren 1933 bis 1945. Places of Remembrance. Isolation and deprivation of rights, expulsion, deportation and murder of Berlin Jews in the years 19331945. Denkmal/Memorial in Berlin Schoneberg 1993, Haude & Spenersche Verlagsbuchhandlung GmbH, Berlin 2002. Gli stessi autori nei 2007 progettarono la Town-Map-Carpet per il museo ebraico di Monaco di Baviera, così come la carta topografica pieghevole La città come testo. La Monaco ebraica, Monaco di Baviera 2007. Techniker der “Endlosung”. Topfvnd Sohne - die Ofenbaner von Ansclwitz, catalogo della mostra, Stiftung Gedenkstatten Buchenwald and Mittelbau-Dora, Ruhrlandmuseum Essen, 5. Marz-27. August 2006. Frase tratta dalla brochure di accompagnamento Techniker der Endlosung cit. II 27 gennaio 1998 Deutsche Bahn AG inaugurò il monumento alla memoria del “Binario 17” dedicato ai deportati nel periodo 1941-1945 trasportati dai treni delle Ferrovie dello Stato tedesco verso i campi di concentramento. Deutsche Bahn AG fino a poco tempo fa si oppose a ulteriori manifestazioni di commemorazione per il trasporto dei bambini verso i campi di concentramento. Nel frattempo tuttavia, venne concesso dalla Deutsche Bahn un “Treno del Ricordo” per commemorare le molte decine di migliaia di bambini che vennero deportati durante il periodo nazista. Tuttavia la generosità della Deutsche Bahn non fu abbastanza da garantire agli organizzatori libero accesso al treno: devono pagare per ogni miglio che viene percorso sulla linea dal loro “Treno del Ricordo”. II primo treno lasciò Würzburg il 27 gennaio 2007 per commemorare le deportazioni nella regione Franconia. II “Treno del Ricordo” consiste in alcuni vagoni in cui viene raccontata la storia delle deportazioni con proiezioni video. La tratta percorsa dal treno attraversa molte grandi città tedesche: Amburgo, 6 7 8 9 10 11 Colonia, Francoforte e Dresda. Nelle stazioni ferroviarie, l’attesa dei passeggeri sembra essere cresciuta dopo la visione di questi treni di morte. Come mostrano le foto realizzate in molte città tedesche, le deportazioni avvenivano durante le ore di luce e nelle immediate vicinanze del traffico ferroviario quotidiano. Fra i binari ferroviari vennero trovati messaggi lasciati dai deportati, tra i quali c’erano molti bambini: singole preghiere d’aiuto, frammenti di lettere e cartoline. Queste testimonianze sono andate perdute. Difficilmente possono essere trovati un singolo binario ferroviario che ci ricorda la sorte dei deportati o qualche stazione ferroviaria dove si trovi un monumento alla memoria. Cfr. www. Zug-der-erinnerung.eu. Pagina Internet Deutsche Bahn AG, 2006. Position: Unternehmen, Konzern, Geschichte. Mhnmal Gleis 17" http://www.db.de/site/bahn/de/unternehmen/konzern/geschichte/themen/m ahnmal/mahnmal.html). Su Richard Serra cfr. la retrospettiva del Museo d’Arte Moderna di New York, estate 2007, Lacayo, Richard, Size does matter. Richard Serra’s artwork is huge. Inoltre cfr. “Time Magazine”, 30 luglio 2007, pp. 51-52. Schulz, Bernhard, Nur Kompromiß, in “Der Tagesspiegel” vol. 7, luglio 1998. Il Ministero italiano della Difesa, che si occupava della sepoltura dei soldati a Roma, nel 1980 e nel 1990 preparò una serie di brochure sui Sacrari militari della Prima guerra mondiale. Redipuglia commemora le morti di oltre centomila uomini. Il monumento venne realizzato nel 1938 seguendo il progetto di Giovanni Greppi e dello scultore Giannino Castiglioni. Gli stessi autori progettarono nel 1935 il monumento del Monte Grappa innalzato per ricordare più di cinquantamila uomini uccisi. Cfr. Luoghi della Grande guerra 1915–1918, Carta Turistica, Ufficio informazioni turistiche, Altopiano di Asiago, 1997. Monumento alla memoria sovietico innalzato tra il 1946 e il 1949 a Berlino-Treptow che commemora i soldati sovietici uccisi durante la battaglia di Berlino. Architetto Jakow S. Belopolski, ingegnere civile Sarra S. Walerius, scultori Alexander A. Gorpenko e Jewgeni W. Wutschetitsch. All’intemo della struttura Luoghi della 381 Sobrietà senza retorica per comunicare l’Olocausto Lo splendore della forma 12 382 persecuzione e della resistenza nella Berlino del periodo tra il 1933 ed il 1945 venne creato il luogo commemorativo Plotzensee per ricordare l’assassinio dei combattenti della Resistenza avvenuto il 20 luglio 1944. Nel 1967, in seguito all’incoraggiamento dei combattenti della Resistenza sopravvissuti, il Senato di Berlino decise di realizzare un centro commemorativo ed educativo chiamato Monumento alla Memoria della Resistenza tedesca nel Bendlerblock della Stauffenbergstraße. Qui, tra un gran numero di artisti, vorrei menzionare Jochen ed Esther Shalev-Gerz con il loro Sinking Column del 1986, innalzato come monumento commemorativo contro il fascismo nei sobborghi di Amburgo. Il loro lavoro consiste in una colonna con un diametro di un metro e dodici di altezza ricoperta da uno strato di piombo. Secondo l’intenzione degli artisti, questo monumento deve comunicare con il pubblico. Accanto alla colonna c’erano quattro matite grandi in ardesia e una targa su cui veniva spiegato in sette lingue diverse il significato di questo monumento contro il fascismo e su cui era stato riportato un invito alla gente perché ponesse una firma sulla colonna. Non appena lo spazio libero veniva interamente coperto dalle firme, la colonna veniva sprofondata nel terreno per la porzione di spazio occupata dalle scritte. Con il passare del tempo sarebbe stata realizzata una lista di nomi e la colonna sarebbe dovuta immergersi nel terreno. Questa lista doveva assomigliare alla lunga lista di nomi sugli altri monumenti alla memoria dell’Olocausto, anche se in questo caso non si trattava di una lista di vittime, ma di una lista di sopravvissuti, essendo le firme realizzate da gente in vita. Jochen Gerz parlò di “un nuovo tipo di commemorazione che sostituisce il momento breve d’interesse con una co-partecipazione e una corresponsabilità permanenti” (Jochen Gerz, discorso per la giuria del monumento commemorativo degli Ebrei d’Europa uccisi, 14 novembre 1997). Come esempio più recente (2006), vorrei menzionare il Monumento alla Memoria dei Vicini deportati nella zona della precedente stazione ferroviaria di Aspang a Vienna. Da qui vennero deportate nei campi di concentramen- 13 14 15 16 17 18 19 20 21 to più di cinquantamila persone. I vincitori del concorso furono gli architetti di Stoccarda Fischer, Naumann and Partners, in collaborazione con l’artista Kirsten Arndt, anch’egli di Stoccarda. Cfr. “DieNeue Stadt”, 1952, Jg. VI, H. 12, pp. 533-535. Per creare ulteriore spazio per la sezione ebraica del Museo di Berlino, si tenne un concorso architettonico nel 1988. II Museo di Berlino fu collocato in un edificio barocco del 1735, quindi ricostruito tra il 1963 e il 1969. L’architetto americano Daniel Libeskind vinse il concorso nel giugno del 1989 arrivando primo tra 165 partecipanti. La costruzione venne cominciata nel novembre del 1992 e nel maggio del 1995 si tenne la cerimonia d’inaugurazione. Nel 1998 fu completata la costruzione e vennero aperti gli uffici. II primo gennaio 1999 il Museo di Berlino venne ufficialmente aperto e convertito in una fondazione autonoma a partecipazione pubblica. Il cimitero di Igualada del 1992 utilizza in una maniera molto abile la posizione di una precedente cava di pietra. Abbassando lo sguardo dal bordo più alto della cava, la forma del pavimento può essere interpretata come una foresta che galleggia su di un fiume o, simbolicamente, una vita che galleggia nel fiume del tempo. Heimrod, Lite, Schlusche, Gunter and Seferenz, Horst (ed.): Der Denkmalstreit - das Denkmal? Die Debatte urn das “Denkmal fur die ermordeten Juden Europas”. Eine Dokumentation, Berlin 1999 (Philo Verlagsgesellschaft). Cf. anche DIF, Deutsches Filminstitut (ed.), Cinematographie des Holocaust. Die Vergangenheit in der Gegenwart. Konfrontationen mit den Folgen des Holocaust im deutschen Nachkriegsfilm, Berlin 2001. Konrad, Gyorgy, Abschied von einer Chimare. Wider das Holocaust-Denkmal, in: “Frankfurter Allgemeine Zeitung”, 26 novembre 1997. Ibidem Young, James E., Gegen Sprachlosigkeit hilft Kreischen und Lachen. Wer an die Vemichtung erinnern will, muB die Leere gestalten: Berlins Problem mit dem Holocaust-Denkmal und meines, in: “Frankfurter Allgemeine Zeitung”, 4. Juni 1998. Konrad, Gyorgy, op. cit. 22 23 24 I visitatori del Ministero della Difesa attraversano l’atrio con la raffigurazione della Berlino distrutta dai bombardamenti aerei che si trova lungo il loro tragitto verso gli uffici dei dipendenti del Ministero. Una fotografia aerea del 1945 sotto forma di un tappeto di dieci metri per cinque (Tappeto Rosso, 2003) si trova sul pavimento della sala d’entrata della sede berlinese del Ministero della Difesa tedesco al Reichpietschufer. Esso mostra il quartiere del Tiergarten con le sue ambasciate e i suoi dintorni. L’artista berlinese Via Lewandowsky interpreta questo lavoro come un “ironico ponte tra il concetto di Tappeto Rosso e il trauma della distruzione”, che richiede un po’ di distanza per essere percepito nella giusta maniera. Vista da vicino, la raffigurazione appare come un disegno astratto caotico. Più l’osservatore sale le scale che dalla sala portano al piano superiore, più aumenta la precisione della raffigurazione. Lewandowsky fu testimone della distruzione di Dresda, la città in cui viveva, a causa dei “bombardamenti del terrore” da parte degli Alleati. Il concetto del tappeto nacque in seguito al concorso “Arte ed Architettura” negli edifici pubblici all’interno del Ministero della Difesa nel 2002 (Fonte: dpa del 24.03.2003). Rurup, Reinhard (ed.): Topographic des Terrors. Gestapo, SS und Reichssicherheitshauptamt auf dem. PrinzAlbrecht-Gelande. Eine Dokumentation, Berlin 1987. II vincitore della concorso fu Micha Ullman, la realizzazione nel 1995. La citazione originale di Heinrich Heine è: “Dort, wo man Bucher verbrennt, verbrennt man am Ende auch Menschen” (Là, dove si bruciano libri, alla fine si bruciano anche gli uomini). Per BebelPlatz si veda anche Pump-Uhlmann, 25 26 27 28 29 Holger, Bebelplatz, Berlin, Germany, in Mancuso, Franco e Kowalski, Krzysztof (ed.), Squares in Europe. Squaresfor Europe, Cracow 2007, pp. 98-99. Nel 1995 si tenne un concorso per questo monumento commemorativo, che venne vinto da Rainer Gorsz. Il monumento venne inaugurato il 10 luglio del 2000. Cfr. Bollerey, Franziska, Mythos Metropolis. Berlin (Gebr. Mann Verlag), Delft (1HAAU) 2006, pp. 29-31. Stih, Renata e Schnock, Frieder, op. cit. Cfr. anche Kunstamt Schoneberg, Schoneberg Museum in Zusammenarbeit mit der Gedenkstatte, Haus der Wannsee Konferenz (ed.), Orte des Erinnems. Judisches Alltagsleben im Bayrischen Viertel. Eine Dokumentation, Berlin 1999 (1995A) e far Kreuzberg, Berliner Geschichtswerkstatt (ed.), Fundstucke, Fragmente. Erinnerungen: Juden in Kreuzberg 1991. Konzept: Christine Zahn, Neue Gesellschaft fur Bildende Kunst e.V. (NGBK), Redaktion: Eisbrenner, Bettina (ed.): Stolpersteine fur die von den Nazis ermordeten ehemaligen Nachbam aus Friedrichshain und Kreuzberg, Berlin 2002. L’ufficio che si occupa del coordinamento delle “Stele commemorative” per Berlino si trova nel “Gedenkstatte Deutscher Widerstand”, Stauffenbergstraße 13-14 a Berlino. All’inizio dell’anno 2007 circa 2.000 “stele commemorative” vennero posizionate a Berlino. Ce ne sono più di 12.500 in oltre 277 città tedesche. Cfr. le informazioni relative alle città che contengono “Stolpersteine” (le stele commemorative) su internet. Informazioni generali su www.stolpersteine.com/start.html. Per le singole città www.stolpersteinewuerzburg.de; www.stolpersteine-muenchen.de; www.stolpersteine-leipzig.de. 383 Il rilievo delle sculture con tecniche laser scanner: uno strumento di conoscenza tra realtà virtuale e rigore scientifico di Laura Baratin 384 Introduzione L’evoluzione delle tecnologie informatiche ha favorito un rapido sviluppo e l’affinamento di tecniche di rilevamento di oggetti solidi aprendo prospettive interessanti per impieghi in diversi settori. Negli ultimi anni soprattutto per soddisfare alcune richieste in campo industriale sono stati introdotti sul mercato i laser scanner per il rilevamento di oggetti. Questo tipo di apparecchiature sono in grado di rilevare milioni di punti in pochi istanti con precisione soddisfacente in vari campi applicativi. La rapidità di acquisizione dei dati applicata nell’ambito dei Beni culturali permette di introdurre nel mercato della conoscenza e della salvaguardia un notevole risparmio in termini di tempi e di costi pur garantendo la qualità dei risultati. La tecnica consiste nell’acquisizione di dati metrici e assetti deformati per mezzo di un apparato di rilevamento a raggi laser. Il sensore di scansione, montato su base motorizzata, opera registrando tutti i punti architettonici visibili (rispetto al centro di scansione), secon- Il rilievo delle sculture con tecniche laser scanner do un passo regolabile dall’utente. Come risultato si ottiene, infatti, una nuvola di punti tridimensionale che riproduce esattamente lo stato di fatto dell’oggetto analizzato, consentendo la successiva modellazione solida. Oggi la ricostruzione e la realtà virtuale sono sempre più considerate un efficace strumento di conoscenza: permette infatti di “conoscere il mondo” mediante un apprendimento di tipo senso-motorio, più naturale per l’essere umano rispetto all’apprendimento di tipo simbolico-ricostruttivo, mediato dalla scrittura. La tendenza attuale testimonia che le recenti tecnologie per il rilievo, la modellizzazione e la visualizzazione 3D sono sempre più utilizzate nel settore dei Beni culturali; in questo settore, nel campo dello studio, della salvaguardia e della loro conservazione, le immagini tridimensionali sembrano essere un mezzo estremamente utile date le molteplici applicazioni prevedibili: - possono essere uno strumento per la simulazione di ipotesi di lavoro che potrebbero giustificare delle scelte tecniche, estetiche e storiche; sia nell’ambito di interventi di restauro sia nelle analisi storico-critiche ipotizzate dagli storici dell’arte; - possono essere uno strumento di visualizzazione immediata per informare un pubblico non abituato alla lettura della rappresentazione grafica, uno strumento pedagogico fondamentale per evidenziare la qualità di un lavoro, per insegnarne la sua storia e più in generale come supporto alla storia dell’arte o più semplicemente per presentare delle informazioni turistiche ad alto livello; - possono essere uno strumento “spettacolare” associato spesso al cinema e ai mezzi di comunicazione visiva; - possono essere, infine, uno strumento della memoria che può associare alle forme degli oggetti “sintetizzati” delle informazioni complesse immediatamente accessibili; i materiali, le datazioni, lo stato di conservazione, i restauri. Grazie alle nuove tecnologie, oggi possiamo visitare luoghi virtuali dentro i quali sono racchiuse testimonianze dell’operato dell’uomo sia del presente sia del passato, dislocate geograficamente e temporalmente in 385 Lo splendore della forma posti fisicamente lontanissimi tra loro; possiamo scegliere i nostri percorsi di conoscenza; possiamo interagire con l’opera, di qualunque luogo o di qualsiasi epoca essa sia. Tali applicazioni sono capaci di mostrare qualunque bene culturale in tutte le angolazioni possibili, ruotarlo, manipolarlo, evidenziare i particolari ecc. I progetti di realtà virtuale mirano a offrire al fruitore simulazioni sempre più vicine all’esperienza reale, e in alcuni casi permettono un’interazione più approfondita. Dall’altro lato si pensi anche alla valenza scientifica dei rilievi e della documentazione acquisita attraverso queste tecniche che consentono operazioni di salvaguardia e di restauro sempre più raffinate e rigorose. Dove è il limite nella documentazione per la conservazione e valorizzazione dei Beni culturali fra il rigore scientifico e l’effetto scenico? In questo lavoro si presenta una panoramica del settore secondo queste due angolazioni attraverso una serie di casi esemplificativi e in particolare nell’esperienza sviluppata in collaborazione con il Comune di Bologna. 386 Primo esempio: La Cappella funeraria Goldoni nel Cimitero Monumentale di Bologna Il Cimitero Monumentale della Certosa di Bologna, fin dalla sua fondazione, è stato uno specchio della cultura bolognese riflettendone le evoluzioni artistiche, sociali e politiche; conosciuto a livello internazionale quale tappa degli itinerari del Gran Tour e sotto il continuo controllo per la qualità stilistica delle opere da parte dell’Accademia delle Belle Arti. Questo complesso, che ha visto il suo progressivo declino a partire dagli eventi bellici, deve essere concepito come insieme di unità organiche, come ambienti di un museo senza pareti dove ogni opera costituisce una realtà a sé in un costante dialogo con il suo contesto. Per organizzare interventi mirati alla riqualificazione del sito si è ritenuto fondamentale la conoscenza della consistenza culturale delle singole opere presenti e delle implicazioni conservative a esse collegate. Il Progetto Nuove Istituzioni Museali del Comune di Bologna propone accanto alle fasi di catalogazione un Il rilievo delle sculture con tecniche laser scanner approfondito esame e una specifica conoscenza dell’ambiente fisico dove si trova collocata ogni singola opera – poiché dall’ambiente derivano le principali cause del degrado – e un progetto di manutenzione periodica e programmata finalizzato al controllo dei processi di alterazione che agiscono complessivamente e unitamente sull’intero sistema. Un idoneo progetto di manutenzione dovrebbe prevedere la compilazione di una scheda conservativa da cui emergano: le caratteristiche specifiche del sito, i fattori ambientali responsabili del degrado, la consistenza del degrado stesso. Da qui la sperimentazione avviata su alcune tipologie di opere. Il rilievo della tomba Goldoni,1 primo esempio di schedatura, è stato condotto attraverso l’utilizzo complementare di due laser scanner terrestri con caratteristiche molto differenti tra loro. Il rilievo del corpo di fabbrica è stato realizzato utilizzando lo strumento laser FARO LS, motorizzato che utilizza il metodo della differenza di fase, con una portata massima di 80 metri e con un angolo di ripresa di 360° in orizzontale e 320° in verticale. Il lavoro si è concentrato sulla parte frontale del fabbricato e sui due lati, realizzando un numero esiguo di scansioni (complessivamente cinque) con la finalità di avere una descrizione tridimensionale complessiva dell’oggetto. Questa acquisizione, che potremmo definire “di contesto”, è stata arricchita sperimentando sul grande bassorilievo del fronte principale un laser scanner – FARO ARM – dotato di braccio antropomorfo in grado di definire le superfici più complesse (fig. 1). 387 1. Laser scanner a braccio antropomorfo FARO ARM durante l’acquisizione Lo splendore della forma Il rilievo delle sculture con tecniche laser scanner 3. Fasi di modellazione della tomba secondo le misure del progetto originale 2. Progetto di Giusppe Vaccaro per la tomba Goldoni 388 Lo strumento è composto da un braccio snodato alla cui estremità viene montata una testina laser che può essere comandata con precisione dalla mano, in modo simile a una pistola. È uno strumento di utilizzo piuttosto diffuso nel settore della meccanica e dell’industria automobilistica che in questa occasione è stato testato in un ambiente nuovo, per valutare quale può essere la sua adattabilità alla descrizione di elementi tridimensionali architettonici e scultorei. Sono state acquisite tre delle sei formelle di marmo che compongono il bassorilievo utilizzando un ponteggio reso solidale con la struttura muraria della tomba per raggiungere la giusta posizione operativa. Il braccio antropomorfo abbinato alla facile impugnatura della testina laser rende possibile il raggiungimento di tutte le superfici, anche quelle più nascoste, eliminando di fatto il problema della copertura dei sottosquadri. Lo strumento, inoltre, consente di acquisire un’unica nuvola di punti, eliminando di conseguenza le fasi di elaborazione dei dati che riguardano l’unione delle nuvole di punti; infatti, quando si ferma l’acquisizione e in seguito la si riprende, non solo i nuovi punti vanno ad aggiungersi alla stessa nuvola, ma lo scanner è anche in grado di riconoscere le superfici su cui è già stata fatta l’acquisizione, evitando di aggiungere ulteriori misure. I dati acquisiti sono strati trattati seguendo le procedure standard che si eseguono per i rilevi laser scanner architettonici: pulizia delle nuvole di punti da elementi indesiderati, filtraggi per la riduzione del rumore, unione delle nuvole, triangolazione. Il modello ottenuto costituisce così un elemento conoscitivo della struttura nel suo complesso. Come ulteriore applicazione, partendo dai progetti originali quotati di Vaccaro, è stato realizzato un modello tridimensionale della tomba nelle sue condizioni di esecuzione. Successivamente è stato inserito il modello del bassorilievo acquisito e si possono notare le differenze rispetto al progetto originario. Nelle figg. 2 e 3 si possono vedere rispettivamente parte dei progetti di Giuseppe Vaccaro per la tomba Goldoni e alcune fasi della modellazione secondo i dati di progetto. Le nuvole delle tre formelle del bassorilievo sono state anch’esse pulite e filtrate per ridurre il rumore, in questo caso dovuto essenzialmente ai piccolissimi movimenti fatti dal ponteggio. Nella fig. 4 è possibile vedere a confronto un dettaglio fotografato di una formella e la corrispondente acquisizione dei dati laser mappati, mentre in fig. 5 alcune viste mettono in evidenza come sia stato possibile acquisire con qualità e senza lacune questa geometria così complessa e articolata. Il rilievo, in questo caso, può costituire un punto di partenza per alcune applicazioni finalizzate sia alla predisposizione di interventi tecnici, sfruttando l’elevato grado di precisione ottenuto, sia per una documentazione utile agli uffici museali per far conoscere la con- 389 Lo splendore della forma 4. Confronto tra la superficie rilevata dallo scanner e la formella “reale” Il rilievo delle sculture con tecniche laser scanner 6. Foto della statua dell’Ercole all’interno di Palazzo d’Accursio sistenza del proprio patrimonio funerario monumentale nell’ottica di una migliore gestione e valorizzazione. 390 Secondo esempio: la Statua di Ercole in Palazzo d’Accursio a Bologna L’intervento è stato richiesto per realizzare una rappresentazione tridimensionale superficiale della statua di Ercole (fig. 6) nella sala omonima all’interno del Palazzo Comunale d’Accursio. La Sala d’Ercole è luogo di frequenti esposizioni temporanee e la loro programmazione può essere seguita nel sito web del Comune, anche attraverso alcuni allestimenti virtuali. La rappresentazione della statua doveva essere, quindi, sufficientemente dettagliata per essere utilizzata in un contesto di ambientazione interattiva libera della Sala (fig. 7), con la necessità, in ogni caso, di avere il minor numero di poligoni possibile per una rapida gestione e visualizzazione del modello. Il rilievo è stato orientato maggiormente all’acquisizione della forma e della morfologia dell’oggetto, trascurando gli aspetti più strettamente legati alle dimensioni e agli elementi di dettaglio. A questo proposito anche le scelte legate alla tecnologia laser scanner sono state orientate su un tipo di strumento che nasce per il rilievo di oggetti di grandi dimensioni e con una minore complessità morfologica, ma con tempi decisamente inferiori rispetto a uno strumento specifico per la scansione di oggetti d’arte. Il rilievo è stato realizzato con il laser scanner FARO LS, strumento motorizzato che utilizza come metodo di misura quello della differenza di fase, montato su treppiede con estensione massima in altezza di 2.5 metri. Sono state eseguite sette scansioni da altrettante stazioni per un totale di 60 milioni di punti rilevati. La 391 5. Dettagli delle scansioni laser 7. Sala d’Ercole rappresentazione virtuale Il rilievo delle sculture con tecniche laser scanner Lo splendore della forma laser “ad alta risoluzione”, che soprattutto per gli oggetti storico-artistici può costituire una fondamentale banca dati tridimensionale, fonte di precisa conoscenza metrica e alta capacità descrittiva dell’opera, anche nell’ottica di futuri interventi di restauro e conservazione. 8. Vista frontale della statua dai rilievi laser scanner 392 durata complessiva delle operazioni è stata di circa 1,52 ore. Le operazioni di elaborazione sono state stimate in tre giornate lavorative per la creazione di un modello superficiale finale della statua composto da circa 1.900.000 poligoni, utilizzato successivamente per le ambientazioni richieste (figg. 8 e 9). In questo modo, si è cercato di dare una risposta alla richiesta di ottimizzazione di tempi, costi e qualità dei risultati dell’operazione di rilievo ed elaborazione per applicazioni a carattere prevalentemente grafico come quelle di ambientazione tridimensionale su web. Naturalmente non si intende con tali osser vazioni disconoscere l’estrema importanza che riveste il rilievo 9. Particolare delle superfici triangolate della testa dell’Ercole Riferimenti bibliografici Felicori, M. e Zanotti, A. (a cura di), Cimiteri d’Europa - Un patrimonio da conoscere e restaurare, 228, Compositori Industrie Grafiche ed., Bologna 2004. Società Storica Poliziana (a cura di), La Chiesa Cattedrale di Montepulciano, Le Balze ed., Montepulciano 2005. Società Storica Poliziana (a cura di), Scultura a Montepulciano dal XIII al XX secolo, Le Balze ed., Montepulciano 2003. Antinucci F., Musei virtuali. Come non fare innovazione tecnologica, Laterza, Bari 2007. 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Elmo a Malta attraverso la creazione di modelli tridimensionali, in Atti della 11° Conferenza Nazionale ASITA, Federazione Asita, Torino, novembre 2007. 1 La Cappella funeraria Goldoni, famiglia di industriali bolognesi, fu progettata intorno agli anni ’50 dall’architetto Giuseppe Vaccaro in collaborazione, per la parte scultorea, con lo scultore ungherese Amerigo Tot. 393 Gli autori 394 Mauro Felicori dirigente del Comune di Bologna, è stato il presidente-fondatore dell’ASCE Franco Sborgi insegna Storia dell'Arte all’Università di Genova Francisco Queiroz è ricercatore al CEPESE dell’Università di Porto Carlos Reyero è docente di Storia dell’Arte all’Università Pompeu Fabra di Barcellona Roger Bowdler è Head of Designation all’English Heritage Ray Bateson ricercatore e autore sui cimiteri come beni culturali Liisa Lindgren è curatrice delle collezioni d’arte del Parlamento finlandese e docente all’Università di Helsinki Ioana Beldiman insegna Storia dell’Arte all’Università delle Arti di Bucarest Daina Glavocic è consulente museale presso Museo di arte moderna e contemporanea di Rijeka Sonja Žitko è docente di Storia dell’Arte all’Università di Ljubljana Régis Bertrand Università della Provenza, è presidente del Centre d’Études d’Histoire Religieuse Méridionale Christian Charlet è stato storico dei cimiteri del Comune di Parigi Werner Kitlitschka è storico dell’arte all’Università di Vienna Sibylle Schulz è storica dell’arte indipendente Marcel M. Celis storico dell’arte, ha lavorato al Consiglio dei Monumenti della Comunità Fiamminga del Belgio e animato l’associazione Epitaaf Cristina Beltrami insegna Museologia e Storia dell’Arte all’Università di Verona Nicoletta Cardano curatore storico dell’arte, è coordinatrice del catalogo unico della Sovraintendenza ai Beni Culturali di Roma Christina Huemer scomparsa nel 2010, è stata bibliotecaria e storica dell’arte all’ICCROM e all’Accademia Americana di Roma Camilla Bertoni è storica dell’arte e giornalista Emanuela Bagattoni è docente di Storia dell’arte contemporanea all’Università di Bologna Alfonso Panzetta è docente di Storia della Scultura all’Accademia di Belle Arti di Bologna Gli autori Susanna Zatti dirige il Settore Marketing territoriale e Cultura del Comune di Pavia Leo Lecci è ricercatore e docente di storia dell’arte contemporanea all’Università di Genova Graziella Cirri storica dell’arte, docente al Centro di cultura per stranieri all’Università di Firenze Laura Dinelli è responsabile Beni culturali e Sistema delle Fortezze al Comune di Livorno Giovanna Ginex storica dell’arte e curatrice indipendente Cristina Rovere arabista, insegnante di arabo e traduttrice Sandra Berresford è storica dell’arte indipendente Ornella Selvafolta è docente di Storia dell’Architettura al Politecnico di Milano Guido Zucconi è docente di Storia dell’architettura allo IUAV di Venezia Anna Maria Fiore ha conseguito il dottorato allo IUAV di Venezia con una ricerca sui sacrari Franziska Bollerey insegna Storia dell’Architettura e Urbanistica alla Facoltà di Architettura di Delft Laura Baratin è docente di topografia e cartografia all’Università di Urbino 395