Scuola delle Scienze Umane e del Patrimonio Culturale
Corso di Laurea Magistrale in Studi storici, antropologici e geografici
La IV Commissione antimafia
(1992-1994)
di Antonino Cimino
INDICE
Introduzione ................................................................................................. 2
I. Mafia e politica tra gli anni Ottanta e la fine della prima Repubblica
I.1 Il mondo di sopra ..................................................................................................... 5
I.2 Uno sguardo al sottosuolo...................................................................................... 12
I.3 Alla fine di una Repubblica ................................................................................... 18
II. La IV Commissione antimafia
II.1 Antimafia: storia delle precedenti Commissioni parlamentari ............................. 26
II.2 Fisionomia della IV Commissione antimafia ....................................................... 35
II.3 Biografia di un presidente..................................................................................... 43
II.4 Una nuova fonte: i pentiti ..................................................................................... 49
III. Stesura della relazione mafia-politica: visioni differenti
III.1 Discussioni sul testo ............................................................................................ 62
III.2 L‟approvazione della relazione ........................................................................... 74
III.3 La relazione missina ............................................................................................ 80
III.4 La relazione radicale ........................................................................................... 87
IV. La relazione di maggioranza
IV.1 Azione-reazione .................................................................................................. 91
IV.2 La massoneria come trait d‟union tra mafia e politica ........................................ 99
IV.3 “Atto dovuto” .................................................................................................... 107
Bibliografia............................................................................................... 116
Fonti .......................................................................................................... 121
Giornali..................................................................................................... 126
Sitografia .................................................................................................. 129
1
Introduzione
Per comprendere l‟operato della IV Commissione antimafia presieduta da Luciano
Violante e il perché del documento più importante e più discusso nella sua storia - la
relazione di maggioranza sui rapporti tra mafia e politica - ci si deve immergere nello
spaccato di un biennio che rappresenta il capolinea della cosiddetta prima Repubblica
italiana.
Il documento presentato da Violante è stato considerato un testo di eccezionale valore
sia politico che culturale. Esso rispecchia molto e deve essere considerato un figlio
legittimo di quel periodo turbolento. Allo stesso modo l‟attività della Commissione
deve oggi essere collocata e letta tenendo conto del contesto storico e politico in cui
venne a insediarsi la stessa Commissione antimafia - un ambiente politico
profondamente scosso dalle indagini di Mani pulite e dalle stragi di Capaci prima, e di
via D‟Amelio dopo; un‟opinione pubblica stordita dal tritolo di quei due attentati e
aizzata contro un ceto politico corrotto da media che riportavano in prima pagina gli
arresti di centinaia di politici corrotti dalle tangenti e collusi col malaffare.
Sul piano politico la costante più rilevante è rappresentata dalla preminenza dello
scontro partitico tra il neo partito Pds, nato dalle ceneri del Pci, e la barcollante Dc, che
viene presentata dagli avversari politici e da alcune testate giornalistiche come il
simbolo di un potere corrotto che per circa mezzo secolo aveva guidato il paese sino
all‟inevitabile deriva.
I momenti di tensione sono presenti anche all‟interno della Commissione antimafia, che
in quel frangente rispecchia, seppur in piccolo, la realtà del Parlamento italiano, come
rivelano le discussioni per la stesura della relazione sui rapporti tra mafia e politica in
cui veniva puntato l‟indice più o meno direttamente su Giulio Andreotti.
In questo contesto va rivelata anche la sinergia tra politica e giustizia; cercando di
coinvolgere individui e gruppi su obiettivi condivisi come la lotta alla mafia e la lotta
alla corruzione si voleva ricompattare e riformare quell‟elettorato perso nel corso degli
anni Ottanta - quando la disaffezione per la politica aveva toccato il culmine - per dare
corpo a una seconda Repubblica con un volto politico decisamente nuovo.
Attraverso la sua relazione Violante cercava di presentare e al tempo stesso legittimare,
contrapponendoli ai meccanismi della vecchia politica, i progetti del suo gruppo;
2
l‟obiettivo era di proporsi quale espressione di una modernità politica e sociale e di
presentarsi quindi come il pilastro per la nascente seconda Repubblica.
Nel mio lavoro ho voluto tenere in considerazione questi elementi sociali, politici e
culturali per cogliere nella sostanza l‟humus della IV Commissione antimafia e per
analizzare sotto questa luce il documento più importante emerso in quella sede: la
relazione sui rapporti tra mafia e politica.
Questa ricerca si compone di quattro capitoli il cui obiettivo è quello - partendo da una
descrizione generale del periodo preso in esame – di inquadrare, attraverso un
progressivo restringimento di campo, il contesto nel quale nacque la relazione sui
rapporti tra mafia e politica.
Nel primo capitolo offro un excursus storico delle vicende politiche italiane degli anni
Ottanta, sia dal punto di vista politico che dando un spaccato di un “mondo sommerso”,
ovvero di un contesto di criminalità organizzata che in maniera sempre più strutturata
instaura rapporti con il mondo politico; concludo il capitolo inquadrando l‟ultimo
scorcio della prima Repubblica, dove la vittoria del centro-destra alle elezioni del ‟94
segna di fatto il passaggio alla seconda Repubblica. Il capitolo si basa prevalentemente
su fonti bibliografiche incrementate, per completare il panorama della ricerca, dal
richiamo ai periodici del tempo, dai quali emerge il rapporto dell'opinione pubblica con
tutta quanto accadeva nel paese. Il raffronto con i periodici si ripresenterà e sarà
fondamentale anche per i capitoli successivi.
Il secondo capitolo descrive inizialmente l‟istituzione della Commissione parlamentare
antimafia, per poi arrivare a trattare, nello specifico, della IV Commissione presieduta
da Luciano Violante; di quest‟ultimo, sempre all‟interno del capitolo, ho voluto
delinearne la biografia, attraverso sia informazioni prese all‟interno di siti internet, sia
tramite articoli che ne delineano la figura - professionale e non. Il capitolo si conclude
con un paragrafo che presenta quello che è stato indiscutibilmente il perno e la novità di
questa Commissione: le audizioni dei pentiti.
Questa nuova fonte rappresenta la base su cui Violante costruirà la relazione sui rapporti
tra mafia e politica; qui, oltre a una base bibliografica utilizzata per descrivere
l‟evoluzione della figura del collaboratore di giustizia, entrano in gioco i verbali della
Commissione, utilizzati come fonte principale per cercare di ricostruire l‟andamento
delle audizioni dei vari collaboratori; in relazione a ciò ho tentato di ricostruire sia il
clima all‟interno della Commissione antimafia sia le reazioni dell‟opinione pubblica,
colte attraverso i quotidiani.
3
Con il terzo capitolo si entra nel merito della nascita della relazione sui rapporti tra
mafia e politica. In questo paragrafo l‟utilizzo massiccio dei verbali mi ha consentito di
riportare il clima, le frizioni e le spaccature all‟interno della Commissione antimafia.
Spaccature la cui concretizzazione più evidente sarà rappresentata dalle due relazioni di
minoranza: quella missina, redatta dall‟onorevole Altero Matteoli e dal senatore
Michele Florino, e quella radicale, presentata da Marco Taradash. Entrambe le relazioni
rappresentano la visione di chi non concordava con il pensiero espresso nel testo di
maggioranza, per cui si pongono l‟obiettivo di ricostruire i veri rapporti tra mafia e
politica accusando Violante di essere sceso troppo a patti con la Dc pur di far approvare
il suo testo.
Concludo il mio lavoro con un capitolo dove, entrando più nello specifico del testo di
maggioranza, delineo i punti strategici di quella relazione. Fondamentale mi è sembrato,
innanzitutto, il messaggio che Violante lancia attraverso quel testo: egli è il portatore di
una nuova e giusta mentalità di contrasto alla criminalità organizzata in grado di
superare le gravissime pecche ante XI legislatura, quando l‟azione repressiva era
descritta come una inefficace reazione a “fisarmonica”.
Nel secondo paragrafo tratto poi il tema dei rapporti tra mafia e massoneria, cercando di
trovare un riscontro tra quanto viene riportato nel testo e l‟effettivo svolgimento delle
audizioni dei collaboratori di giustizia. L‟argomento veniva presentato come un
qualcosa di innovativo perché nel corso delle precedenti Commissioni antimafia si era
taciuto sul trait d’union che legava mafia, politica e massoneria.
Infine, termino il lavoro analizzando il messaggio insito nella relazione di maggioranza,
ovvero l‟accusa al grande vecchio della Dc, Giulio Andreotti. Anche qui le mie fonti di
riferimento rimangono la relazione di maggioranza e i verbali dei collaboratori di
giustizia, su cui la relazione basa l‟accusa su Salvo Lima e, a cascata, su Andreotti.
Emerge qui la volontà di Violante di avvalorare il processo contro il senatore, volontà
racchiusa nelle due parole “atto dovuto”, prima scritte e poi, per consentirne
l‟approvazione, tolte dal testo.
Gli 89 verbali della Commissione Violante costituiscono una fonte ampia. Il loro
utilizzo, in questa ricerca, ha risentito di una selezione fatta per cogliere il cuore della
questione che sta alla base del mio lavoro, ovvero il carattere politico della IV
Commissione antimafia e i suoi intrecciatissimi legami con le vicende dell‟ultimo
biennio della prima Repubblica.
4
Capitolo primo
Mafia e politica tra gli anni Ottanta e la fine della prima
Repubblica
I.1 Il mondo di sopra
Nato alle battute finali del governo Fanfani V, a ridosso del governo
Craxi I, ho passato l‟infanzia sotto i governi Craxi II, Fanfani VI,
Goria, De Mita, Andreotti VI, Andreotti VII. Ma questi, allora, per me
erano soltanto dei nomi. Ero così preso dal mio essere bambino!1
Il decennio per gli italiani si aprì con gli auguri del presente della Repubblica Sandro
Pertini impegnato a ricostruire, dopo esser subentrato al dimissionario Giovanni Leone,
il rapporto fra la società civile e il sistema politico2. Era crescente tra gli italiani la
disaffezione politica verso dei partiti interessati soltanto a occupare ogni spazio
possibile all‟interno dell‟amministrazione pubblica e statale.
Un decennio di cambiamenti: trasformazioni colossali investivano la mentalità del
quotidiano, i modi d‟intendere il diritto e le norme, la cultura, l‟economia, la geografia
sociale e l‟edificio politico istituzionale del paese3.
Nel 1981 si verificarono due eventi che scossero la politica. Il primo fu il mandato di
cattura che investiva Licio Gelli e di riflesso le conseguenti dimissioni del capo del
governo Forlani dopo la pubblicazione degli elenchi degli iscritti alla P2 - sulle liste
compariva anche il nome del ministro della Giustizia Adolfo Sarti; il secondo fatto vide
la conferma, tramite referendum, sia della regolamentazione dell‟aborto approvata nel
19784, che dell‟ergastolo5. I referendum influiranno molto sulla Dc e mostreranno per la
prima volta l‟allontanamento e lo scollamento di quel mondo cattolico che costituiva la
base per i democristiani.
I cambiamenti si manifestarono sin da subito sulla scena politica: si costituì una formula
di governo pentapartitica, che vedeva la compresenza assieme al trio Dc, Psdi e Pri, di
1
P. Di Paolo, Dove eravate tutti, Feltrinelli, Milano, 2011, p.78.
G. Crainz, Il paese reale, Donzelli, Roma, 2013, pp. 102-103.
3
Ivi, p. 105.
4
Per una ricostruzione complessiva cfr. G. Scirè, L’aborto in Italia. Storia di una legge, Mondadori,
Milano, 2008.
5
Il referendum per l‟abolizione dell‟ergastolo raccolse infatti solo il 22,6% dei voti, in G. Crainz, Il paese
reale, cit., p.109.
2
5
liberali e socialisti; si intravedevano segnali di cambiamento nella nomina a capo di
governo di Giovanni Spadolini; si manifestava il segno di quell‟azione di
moralizzazione della politica, favorita anche dalla presenza di un capo dello Stato come
Sandro Pertini.
Ma anche questa fiammella si spense presto. Già con le nuove nomine dei vertici dell‟Iri
e dell‟Eni si vide come l‟invadenza dei partiti faceva da padrone. I segnali di
rinnovamento furono presto dispersi in un immobilismo aggravato di per se da conflitti
interni al neo-governo pentapartitico6. Nel 1982, dopo un primo tentativo di far cadere
un governo che aveva solo creato polveroni, venne riformato nei fatti un governo
identico con in sella lo stesso leader repubblicano; tuttavia durò poco e ben presto
arrivarono le dimissioni dello stesso Spadolini, per cui il nuovo anno si aprì con un
nuovo capo del governo.
Sullo sfondo delle polemiche vi erano nodi di non poco conto: in particolare la volontà
del ministro Andreatta di contenere l‟inflazione e il debito pubblico “raffreddando” la
spesa negli investimenti e nei consumi pubblici e privati7 cozzava contro le volontà del
socialista Formica. Lo scontro provocò anche reazioni negative sul ceto medio
produttivo e su quelle professioni emergenti a cui il Psi rivolgeva le sue più care
attenzioni.
Il timone venne preso da Forlani, politico della vecchia Dc – quest‟ultima frattanto dava
segnali di rinnovamento con l‟elezione di un nuovo segretario, Ciriaco De Mita. A porre
subito fine al brevissimo governo democristiano ci pensò Bettino Craxi. Posto alla guida
del Psi, intendeva candidarsi a capo del governo, dopo aver rivitalizzato un partito
schiacciato dalla concorrenza del duo Dc-Pci; il Psi trovava così il suo leader. Uomo
formatosi nella roccaforte socialista milanese, allievo di Nenni, mirava a far diventare il
Psi la terza forza italiana.
Il compito fu fin dall‟inizio molto arduo. Il Psi non possedeva né «la pratica e la
spregiudicatezza e i mezzi finanziari di sottogoverno che tanti anni di potere avevano
dato ai democristiani», né «gli strumenti selettivi dell‟organizzazione comunista per la
creazione di intellettuali organici»8. Tuttavia, nelle elezioni del 1983 bastò che il Psi
guadagnasse qualche piccola percentuale, la Dc subisse una rilevante flessione, e il Pci
6
Ivi, p 111.
Cfr. E. Scalfari, Le spine di Andreatta, le rose di Formica, «la Repubblica», 25 settembre 1991, cit. in
ivi, p. 111.
8
Cfr. F. Diaz, Gli intellettuali e l’organizzazione dei partiti, in «Mondoperaio», gennaio 1974, 1, pp. 659, e in particolare p. 68, cit. in S. Lupo, Antipartiti. Il mito della nuova politica nella storia della
Repubbblica ( prima, seconda e terza), Donzelli, Roma, 2013, p. 105.
7
6
restasse stabile, per far occupare uno spazio centrale che avrebbe portato al socialista la
nomina a capo di governo - il governo più lungo degli anni Ottanta.
La manovra più importante di quegli anni fu data dai tagli della scala mobile che portò a
un acceso scontro tra il governo Craxi e il movimento operaio.
Un‟inflazione galoppante rendeva ormai necessario correggere l‟accordo siglato nel
19759 che vedeva l‟adeguamento automatico del salario al tasso dell‟inflazione e che
secondo molti critici comportava un movimento perverso che faceva sì che si
gonfiassero sia l‟uno che l‟altro10. A nulla servirono gli scioperi guidati dal Pci e il
ricorso al referendum abrogativo per cancellare la manovra. Proprio il referendum si
dimostrò distruttivo per lo stesso Partito comunista: con un‟affluenza che sfiorava il
78%, gli italiani si schierarono, con un 54,3% di voti favorevoli, dalla parte della
manovra di governo11.
La congiuntura economica favorevole permetteva di mascherare la dilagante evasione
fiscale. Eugenio Scalfari osservava dalle pagine di “la Repubblica”:
il Fisco ha colpito categorie sindacalmente forti ma politicamente
deboli ed ha protetto categorie politicamente fortissime, esentandole
di fatto dall‟adempimento del dovere tributario. Queste categorie,
consapevoli di godere di un privilegio, hanno tollerato una classe
dirigente corrotta, alla quale non conveniva chiedere il conto della sua
corruzione. L‟essenza della questione morale in Italia è tutta qui. Fate
che professionisti, commercianti, lavoratori autonomi, imprenditori,
paghino le imposte con la stessa completezza dei lavoratori
dipendenti, e vedrete che la classe politica non potrà continuare ancora
per molto a trafficare la ricchezza pubblica per interessi privati.
Questo è il nodo arrivato al pettine12.
Il cambiamento e i modelli di modernità a cui attingere negli anni Ottanta avevano il
volto di Margaret Thacher e Ronald Reagan. Infatti, mentre andavano in crisi le
politiche keynesiane, e insieme a esse il Welfare State, il fordismo, le social democrazie
e le identità collettive connesse, dilagavano le soluzioni liberiste13.
Un altro passaggio legato alla modernità degli anni del governo Craxi riguardava il
sistema televisivo. Molti italiani erano convinti che il monopolio delle teletrasmissioni
fosse riservato per legge a un ente pubblico come la Rai. Ma la legge che regolamentava
le trasmissioni televisive presentava dei coni d‟ombra che permisero la creazione di
9
G. Crainz, Il paese reale, cit., p. 137.
S. Lupo, Il crepuscolo della Repubblica, in Lezioni sull’Italia repubblicana, Donzelli, Roma, 1994, pp.
73- 107, in particolare p. 100.
11
G. Crainz, Il paese reale, cit., p. 139.
12
E. Scalfari, I difficili destini del nodo Visentini, «la Repubblica», 11 novembre 1984.
13
S. Lupo, Antipartiti, cit., p.160.
10
7
televisioni locali private. È sfruttando queste pieghe legislative che il gruppo Fininvest,
guidato da Silvio Berlusconi, iniziò la sua scalata14. Aggrappandosi a due sentenze della
Corte costituzionale, del 1974 e del 1976, che prevedevano la regolare formazione di tv
su scala locale, il gruppo Fininvest creò una società pubblicitaria di respiro nazionale,
Publitalia, e una rete di dimensione nazionale15. La legge che proibiva la trasmissione in
diretta su scala nazionale venne aggirata col metodo delle videocassette pre-registrate e
inviate dalla sede milanese a quelle periferiche16. Uno dei maggiori manager della
Fininvest, Fedele Confalonieri, commentò l‟accaduto con uno dei più classici argomenti
liberali: «Qualcuno ritiene che una cosa non debba essere fatta a meno che non sia
espressamente autorizzata, altri pensano che tutto quello che non è specificatamente
proibito sia consentito. Berlusconi è tra questi ultimi»17.
Nel 1984, dopo aver concluso l‟acquisto anche di Italia 1 e Retequattro, la televisione
del gruppo Fininvest concorreva a livello nazionale con la Rai18. E dopo che alcuni
pretori decisero di oscurare in alcune regioni i canali di Berlusconi, Bettino Craxi
minacciò di abbandonare la guida del governo se il Parlamento non avesse consentito la
ripresa delle trasmissioni19. La decisione di oscurare i canali ebbe ripercussioni anche da
parte di cittadini che vedendosi oscurato il televisore tempestarono di telefonate Palazzo
Chigi e anche i giornali20. Una legge per regolare l‟emittenza televisiva, la legge
Mammì, giunse solo nel 199021.
Sullo sfondo della ricostruzione fin qui fatta si delineava lo sgretolarsi di “due
Chiese“22, ovvero il venir meno del contrasto che per tutta la durata della Repubblica
italiana era stato sempre presente. In altre parole il partito guidato da Bettino Craxi era
stato in grado di porsi tra i due grandi partiti di massa, offrendo una via di mezzo agli
italiani. A fare da profeta era stato Berlinguer nell‟intervista rilasciata a Eugenio
Scalfari, dove faceva seguito un‟aspra denuncia di quel mondo così degradato e vecchio
qual‟era quello dei partiti:
14
Ibidem.
Ibidem.
16
Ivi, p. 161.
17
A. Stille, Citizen Berlusconi. Vita e imprese, Garzanti, Milano, 2006, p. 82, cit. in S. Lupo, Antipartiti,
cit., p. 161.
18
G. Crainz, Il paese reale, cit., p. 145.
19
Ibidem.
20
Si veda l‟articolo di P. Guzzanti, Migliaia di telefonate per sapere perché sono scomparsi i puffi, «la
Repubblica», 18 ottobre 1984.
21
Per una ricostruzione della vicenda rimando a E. Menduni, Televisione e società italiana. 1875-2000,
Bompiani, Milano, 2002, p. 13, cit. in G. Crainz, Il paese reale, cit., p. 146; Cfr. S. Lupo, Antipartiti, cit.,
p.161.
22
G. Crainz, Il paese reale, cit., p. 163.
15
8
I partiti hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni, a partire dal
governo. Hanno occupato gli enti locali, gli enti previdenza, le banche,
le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la
Rai Tv, alcuni grandi giornali […]. Il risultato è drammatico. Tutte le
operazioni che le diverse istituzioni e i loro attuali dirigenti sono
chiamati a compiere vengono viste prevalentemente in funzione
d‟interesse del partito o della corrente o del clan cui si deve la carica
[…]. La questione morale nell‟Italia di oggi fa tutt‟uno con
l‟occupazione dello Stato da parte dei partiti governativi e delle loro
correnti, fa tutt‟uno con la guerra per bande e con i metodi di governo
di costoro23.
Più in generale Berlinguer lamentava la trasformazione dei partiti in macchine incapaci
di perseguire il bene comune, impegnati nella gestione d‟interessi i più disparati e i più
contraddittori possibili, e talvolta anche loschi24. La drastica condanna di Berlinguer a
quel sistema dei partiti verrà ripresa nei primi anni Novanta, quando la questione morale
verrà tirata in causa per l‟abbattimento della prima Repubblica.
Gli anni Ottanta mostrarono anche le due facce dell‟Italia; da una parte le regioni del
Nord e del Centro Italia, dove la grande industria si era rinnovata in modo consistente;
dall‟altra le regioni meridionali, bacino di voti per quei partiti che mantenevano uno
stretto controllo sugli uffici pubblici e dove le assunzioni clientelari rappresentavano
molto spesso un aspetto di una gestione politica strettamente intrecciata agli affari della
criminalità organizzata25.
Nelle regioni del Centro-Nord i nuovi borghesi si resero protagonisti, a partire dal
periodo a cavallo tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta, di un boom economico. Il
tessuto, in queste regioni, appariva ormai quasi omogeneo, con una classe media forte
delle sue tendenze individualistiche e con tenori di vita che non facevano altro che
aumentare i consumi. Ma oltre a trainare economicamente l‟Italia, in quegli stessi anni
in regioni come Lombardia e Veneto iniziava a serpeggiare un certo malumore nei
confronti sia del sistema politico che delle regioni del Sud ritenute il peso del paese.
A raccogliere questi malumori di fronte a dei partiti che monopolizzavano tutto e che
risultavano inefficienti e incapaci di misurarsi con le potenzialità dello sviluppo e al
tempo stesso con la necessità di dare ad esso strutture e orientamenti adeguati, erano
E. Scalfari, Che cos’è la questione morale, «la Repubblica», 28 luglio 1981, cit. in G. Crainz, Il paese
reale, cit., pp. 163-64.
24
E. Berlinguer, Prefazione a P. Togliatti, Discorsi parlamentari, I, pp. XVI-XVII, cit. in S. Lupo,
Antipartiti, cit., p. 164.
25
L. Mussella, Clientelismo. Tradizione e trasformazione della politica italiana 1975-1992, Guida,
Napoli 2000, cit. in S. Colarizi M. Gervasoni, La tela di Penelope. Storia della seconda Repubblica,
Laterza, Roma-Bari, 2012, p. 7.
23
9
state le Leghe26. Grazie alla loro capillare presenza in quei territori, questi movimenti
raccolsero e fomentarono l‟insoddisfazione di molti cittadini, insoddisfazione che
sfocerà nella questione settentrionale; le roccaforti democristiane del Nord stavano per
far pagare il conto al partito. Una parte della questione venne lucidamente colta già dal
1985 da Mario Talamona che segnalava dalla pagine del “Corriere della Sera” come il
modello di sviluppo padano che tanto aveva giovato allo sviluppo di quelle zone doveva
essere da esempio per uno “sviluppo virtuoso” del Mezzogiorno27.
Il rilevante aumento dei consumi che avvicinava il Mezzogiorno al Settentrione non era
seguito dall‟aumento del reddito. Osservava Luciano Cafagna che l‟attenuarsi delle
differenze sul piano dei consumi tra Nord e Sud era solo un illusione, e che invece
andava maturando una frattura reale nel paese28. Effetti devastanti ebbe anche l‟enorme
affluenza di denaro erogato nelle zone dell‟Irpinia colpite dal terremoto del 1980, che,
con la quasi totale assenza di controllo dovuta alla legislazione dell‟emergenza, divenne
preda delle organizzazioni criminali.
Per molte vie, insomma, il Sud diventava progressivamente luogo simbolo del degrado
nazionale e degli effetti perversi delle politiche pubbliche, con un salto di qualità nella
percezione stessa del problema che veniva descritto, attraverso l‟utilizzo di una
metafora, dallo stesso Cafagna:
Sino ad allora sembrava che il foraggio destinato ai cavalli fosse
conteso loro da topi famelici, da un certo punto in poi sembra versato
direttamente a questi ultimi. E alla fine i topi si mangeranno i
cavalli29.
Un Italia a due volti quindi, che riusciva a mascherare bene le sue crisi interne grazie
alla congiunture economiche mondiali favorevoli che la vedevano decollare tra le
potenze economiche mondiali. I dati parlavano chiaro: l‟industria faceva segnare nel
1988 il +6%, il reddito aumentava del 20%, e anche l‟Ocse certificava all‟Italia la
crescita del Pil del 3,5% - superiore a quello tedesca, assestato al +3%30.
Malgrado si moltiplicassero i segnali della protesta popolare, gli italiani a ogni turno
elettorale finivano per confermare il quadro politico esistente, col solo risultato di
offrire una falsa rassicurazione alla classe politica, convinta di tenere ancora
26
G. Crainz, Il paese reale, cit., p.173.
M. Talamona, La questione settentrionale, «Corriere della Sera», 25 febbraio 1985; Id., La questione
settentrionale, ivi, 27 maggio 1985.
28
L. Cafagna, Nord e Sud. Non fare a pezzi l’unità d’Italia, Marsilio, Venezia, 1994, pp. 70-71.
29
Ivi, p. 70.
30
S. Colarizi M. Gervasoni, La tela di Penelope, cit., p. 3.
27
10
fermamente in mano le redini dell‟Italia e soprattutto di avere davanti a sé tutto il tempo
necessario per risalire la china nell‟opinione pubblica31. Nel 1989 la questione morale
non era ancora in cima all‟agenda degli italiani e la sconfitta di De Mita al congresso
democristiano, che riportò al comando Andreotti, Gava e Forlani, ne fu la riprova. La
grande vendetta dei vecchi Boiardi titolerà Scalfari dalle pagine del suo giornale32,
denunciando la consueta prassi della spartizione delle cariche pubbliche.
Ma gli anni Novanta erano ormai alle porte, e anche se l‟economia italiana godeva di un
buon andamento, ciò non toglieva che il buco nero nella casse dello Stato metteva a
rischio le grandi potenzialità di crescita. Alla fine del 1988 il debito pubblico incideva
sul Pil per circa il 96%, un percentuale enorme se paragonata a quella di Inghilterra,
Francia e Germania assestato su valori pari alla metà di quello italiano33. E anche se a
parole tutti i partiti si proclamavano decisi a compiere passi necessari, sbandierando i
loro principi comunitari, nei fatti evitavano poi quelle riforme indicate dalla comunità
europea che avrebbero comportato una brusca frenata alla spesa pubblica e al welfare su
cui poggiava l‟edificio già traballante dei consensi governativi34.
Nel 1989 la caduta del muro di Berlino portò ripercussioni tanto per la Democrazia
cristiana, che vide sparire il grande nemico di sempre che era servito, soprattutto
nell‟ultimo periodo, a sedare in parte i malumori sbandierando lo spauracchio
comunista, quanto sul versante del Pci dove la caduta del muro segnava la fine del
regime sovietico.
In un primo momento la fine del comunismo sovietico venne ampiamente sottovalutata
dal partito italiano, ma ben presto essa colpirà tanto da provocare all‟inizio del nuovo
decennio la morte del Pci, con la nascita, sotto la spinta di Achille Occhetto, del Pds – il
Partito democratico della sinistra.
L‟ottimismo non era bastato a coprire la realtà della disgregazione di un mondo che
condurrà il Partito comunista italiano alla ricerca di una nuova identità. La caduta del
muro seppelliva sotto le macerie non solo il modello di comunismo dittatoriale
sovietico, come lo definiva Cossutta35, ma anche quello italiano ritenuto democratico.
31
Ivi, p. 9.
E. Scalfari, La grande vendetta dei vecchi Boiardi, «la Repubblica», 21 febbraio 1989.
33
S. Colarizi M. Gervasoni, La tela di Penelope, cit., p. 17.
34
Ibidem.
35
Ivi, p. 12.
32
11
I.2 Uno sguardo al sottosuolo
«Ho fatto delle ricerche su questo fatto nuovo: la mafia che uccide i potenti, che alza il
mirino ai signori del Palazzo […]. Credo di aver capito la nuova regola del gioco, si
uccide il potente quando è diventato troppo pericoloso ma si può ucciderlo perché è
isolato»36. Era questo il pensiero del generale Dalla Chiesa inviato a Palermo per
cercare di frenare l‟ondata mafiosa che stava soffocando la città e della quale invece
cadde vittima.
Il “fatto nuovo” era iniziato nel 1979 quando a cadere per primo era stato Boris
Giuliano, vice questore di Palermo, da tempo sulle tracce dei traffici di droga che
facevano la spola tra Sicilia e Stati Uniti 37. Stessa sorte nel medesimo anno toccò a
Cesare Terranova, che aveva indagato sulle cosche e che era stato uno dei membri della
prima Commissione parlamentare antimafia, come deputato comunista. La mafia aveva
alzato “il mirino” e uno dopo l‟altro caddero tutti i componenti di quella classe dirigente
siciliana schieratisi contro di essa.
Fra il 1979 e il 1980 – ha scritto Saverio Lodato – a Palermo le istituzioni vennero
decapitate38. Una svolta, come ha osservato Salvatore Lupo, influenzata forse anche dal
terrorismo39, anche se bisogna considerare che Cosa nostra arrivava all‟appuntamento
forte di una coscienza di sé e di una tradizione radicata nel tempo e nello spazio, e non
aveva bisogno di usare ideologie disponibili sul mercato, tanto più se si trattava di
ideologie di sinistra40. Infatti, non bisogna dimenticare né i numerosi sindacalisti uccisi
dalla mafia, né l‟utilizzo della autobombe a partire già dagli anni Sessanta41.
Nuovi assetti e nuove gerarchie si stavano disegnando all‟interno dell‟organigramma
mafioso a cavallo tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta. È lo stesso Salvatore Lupo a
fornirci l‟iter che portò la mafia, sotto la guida di Riina, non solo a usare la violenza ma
a ostentarla42. Per prima cosa, dopo la seconda guerra di mafia (appellativo rigettato da
G. Bocca, Quell’uomo solo contro la mafia, «la Repubblica», 10 agosto 1982.
B. Tucci, Stava indagando su mafia e droga: ucciso il vice questore di Palermo, «Corriere della Sera»,
22 luglio 1979, cit. in G. Crainz, Il paese reale, cit., p. 117.
38
S. Lodato, Venticinque anni di mafia, Rizzoli, Milano, 1999, p.43.
39
S. Lupo, Che cos’è la mafia: Sciascia e Andreotti, l’antimafia e la politica, Donzelli, Roma, 2007, p.
11.
40
Ibidem; Id., Antipartiti, cit., p. 173.
41
Cfr. S. Lupo, Storia della mafia, cit.
42
S. Lupo, Antipartiti, cit., p. 173.
36
37
12
Mutolo che non vedeva nessuna guerra bensì un “tradimento”43) la fazione corleonese
acquisì il potere della commissione (o Cupola) di Cosa nostra, centralizzando
l‟organizzazione e controllando e gestendo i traffici di droga, soprattutto eroina. Per
Luciano Violante quest‟ultima funzionò da effetto moltiplicatore delle risorse; l‟enorme
ricchezza prodotta dal traffico di droga costituì per la mafia un buon trampolino di
lancio per inserirsi a pieno titolo nel mondo sia della finanza che della politica per
poter così sistemare gli enormi proventi derivati dal traffico di droga44.
In secondo luogo, le nuove traiettorie riguardavano gli esponenti del ”mondo di sopra”
(magistrati, politici, poliziotti, uomini d‟affari), ed è proprio in relazione a questo
aspetto che si può individuare il collegamento tra quegli omicidi e l‟atmosfera che
regnava in un‟Italia che usciva dai laceranti anni di piombo. Il contagio, infatti, non è un
elemento da sottovalutare: nessun mafioso infatti avrebbe mai pensato di sparare al
presidente delle Regione o al prefetto di Palermo, se in altri luoghi d‟Italia e negli anni
precedenti non si fosse sparato a personaggi di pari livello, o se non fosse stato ucciso
prima Moro45. L‟ondata montante delle mafie andò insomma a sovrapporsi a quella
terroristica nella sua fase calante, traendone suggestioni, strumenti e – sostiene Lupoqualche motivazione46.
Infine, il terzo percorso: quello dei cosiddetti omicidi politici o di “terzo livello”- come
li definiva Giovanni Falcone47. Il terzo livello di Falcone, accusato anche di tenere nei
cassetti i nomi dei politici indagati per mafia48, non era altro che la classificazione data
agli omicidi in base alla vittima designata; nell‟omicidio di terzo livello rientravano
l‟omicidio di un prefetto, di un commissario di polizia o di un magistrato
particolarmente impegnato nella lotta contro la mafia. Falcone ammoniva di tenersi ben
lontani dal poter ipotizzare che dietro la mafia si nascondesse “il grande vecchio” o il
“burattinaio”, che dall‟alto della sfera politica tirava le fila della mafia49. Sulla stessa
lunghezza d‟onda Salvatore Lupo ha espresso la sua ipotesi, sottolineando che
l‟omicidio di terzo livello colpiva quei personaggi che si erano qualificati come
avversari della mafia. Così era stato, per esempio, per l‟omicidio di Piersanti Mattarella,
Si veda Commissione parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni
criminale similari, Verbale XXV (audizione del collaboratore della giustizia Gaspare Mutolo),
deposizione di G. Mutolo, p. 1231.
44
L. Violante, La mafia dell’eroina, Editori Riuniti, Roma,1987, pp. 61-62
45
S. Lupo, Antipartiti, cit., p.174.
46
Ivi, p. 170.
47
G. Falcone, Cose di Cosa nostra, in collaborazione con M. Padovani, Rizzoli, Milano, 1991, p.169.
48
Cfr. S. Lupo, Che cos’è la mafia, cit. p. 34.
49
Ibidem.
43
13
presidente della Regione, democristiano di sinistra, successore di una dinastia politica in
passato chiacchierata, determinato a emanciparsi da quella cattiva fama, cercando di
attuare una correzione di rotta; per quello di Pio La Torre, dirigente comunista,
rimandato a Palermo da Roma per riprendere in mano un partito dimostratosi su scala
regionale poco affine alla lotta alla mafia - aveva infatti proposto di istituire il reato di
associazione mafiosa e di svolgere indagini patrimoniali sulle cosche.
La morte di La Torre accelera l‟invio in Sicilia di Dalla Chiesa, generale dei carabinieri,
a cui era stato affidato il ruolo di prefetto di Palermo e che era stato mandato per
combattere la mafia con poteri poco definiti50. L‟assassinio del generale, antico nemico
dei corleonesi, può esser visto come una sorta di affermazione territoriale di Cosa
nostra. Dalla Chiesa venne fermato prima che potesse aprire un fronte di lotta, come se
Cosa nostra volesse affermare: qui comandiamo noi51. Nell‟omelia funebre il cardinale
Pappalardo esclamava: «mentre a Roma si discute sul da fare, la città di Sagunto viene
espugnata dai nemici. E questa volta non è Sagunto ma Palermo. Povera Palermo!»52.
Un anno dopo, la messa preparata dal cardinale all‟Ucciardone, in occasione della
Pasqua, verrà disertata dai carcerati; la mafia mandava così un segnale di protesta nei
confronti dell‟establishment ecclesiastico53.
La politica condotta dalla fazione corleonese si mise in rotta di collisione con quella del
mondo di sopra, finendo col pensare, magari, la loro organizzazione alla stregua di un
contro-Stato54.
Ma l‟offensiva mafiosa non rimaneva però senza risposte e all‟interno della società
civile presero corpo delle mobilitazioni significative che si rifacevano all‟affioramento
di una diffusa volontà di riscatto sia all‟interno della magistratura che dell‟opinione
pubblica55. A Palermo in campo politico Leoluca Orlando assumeva il ruolo di sindaco
“antimafia” e in ambito giudiziario Antonino Caponnetto dava vita al pool antimafia
composto dai magistrati Falcone, Borsellino, Di Lello e Guarnotta.
Inoltre dopo quella stagione di innumerevoli omicidi di stampo mafioso si iniziavano a
scorgere i primi straordinari risultati nella lotta alla mafia. Nel 1984 le prime rivelazioni
50
S. Lupo, Antipartiti, cit., p. 174.
G. Fiandaca, S. Lupo, La mafia non ha vinto. Il labirinto della trattativa, Laterza, Roma-Bari, 2014, p.
18.
52
U. Santino, Storia del movimento antimafia: dalla lotta di classe all’impegno civile, Editori Riuniti,
Roma, 2000, pp. 263-64.
53
Cfr. A. Bolzoni, La mafia ha sfidato Pappalardo, «la Repubblica», 29 aprile 1983.
54
S. Lupo, Antipartiti, cit., p. 175.
55
Nel settembre 1983, a un anno dalla morte del generale, numerose persone daranno vita a una fiaccolata
che attraversa Palermo, cfr. U. Santino, Storia del movimento antimafia, cit., pp. 251 sgg.
51
14
di Tommaso Buscetta squarciano l‟ombra che ricopriva Cosa nostra, seguite a ruota da
quelle di Totuccio Contorno56. Le dichiarazioni dei pentiti portarono all‟incriminazione
di ben 707 presunti affiliati a Cosa nostra. Parte la caccia all‟uomo affinché le gabbie
non rimangano vuote nell‟aula di quello che verrà chiamato il maxiprocesso57. Molti, in
quell‟occasione, furono accusati di giustizialismo; celebre, a tal proposito, l‟articolo
pubblicato sul “Corriere della Sera” da Leonardo Sciascia intitolato ai Professionisti
dell’antimafia58; dopo l‟articolo Sciascia fu preso in quell‟occasione di mira dal pool
antimafia, al quale rispose definendolo «frangia fanatica e stupida di [un] costituendo
potere» mascherato di antimafia, che odorava tanto di 192759:
È chiaro che non da loro né da chi sta dietro loro – e ne è riconoscibile
(si dice per dire) lo stile – verrà una lotta radicale alla mafia. Loro
sono affezionati alla tensione, e si preoccupano che non cada. Ma le
tensioni sono appunto destinate a cadere; e specialmente quando
obbediscono a giochi di fazione e mirano al conseguimento di un
potere60.
Ma cos‟era questo soggetto che occupava spazi rilevanti nel frantumato spazio del
potere in Italia? E su quali posizioni politiche era schierato?
La magistratura, in quegli anni, interveniva in settori sempre più vasti e importanti della
vita collettiva: ambiente, conflitti di lavoro, prestazioni della macchina burocratica, atti
della pubblica amministrazione. In molti casi il controllo giudiziario era soltanto
sostitutivo alle carenze di quello amministrativo, in altri finiva per apparire alternativo
ad esso61. I magistrati rappresentavano una forma di potere diffuso sul territorio,
istituzionalmente non controllabile dall‟esecutivo e ben stretto attorno al suo organo di
autogoverno, il Consiglio superiore della magistratura (Csm), nel quale la sinistra era
spesso partecipe della maggioranza. A volte, però, i magistrati si rivelavano non
all‟altezza del loro compito, pavidi o corrotti, e numerosi esempi provenivano proprio
dai processi di mafia, dove per lo più gli imputati venivano assolti. Tuttavia, nel
complesso il compito fu svolto nei migliori dei modi, come risultò nel caso del pool
antimafia palermitano.
56
G. Crainz, Il paese reale, cit., p. 124.
S. Lupo, Storia della mafia, cit., p. 292.
58
Si veda l‟articolo scritto da Sciascia nel bel mezzo del maxiprocesso intitolato ai Professionisti
dell’antimafia, «Corriere della sera», 10 gennaio 1987, in L. Sciascia, A futura memoria: se la memoria
ha un futuro, Bompiani, Milano, 1989, pp. 123-30; articolo ripreso da Salvatore Lupo in Che cos’è la
mafia,cit., pp. 28-30.
59
Ivi, p. 33.
60
L. Sciascia, A futura memoria, cit., p. 131, cit. in S. Lupo, Che cos’è la mafia, cit., p. 33.
61
S. Lupo, Il crepuscolo della repubblica, cit., p. 86.
57
15
Attribuire alla magistratura una tendenza a destra o a sinistra, come soprattutto accadde
nei primi anni Novanta, risulta in molti casi forviante. Ad esempio, nonostante Falcone
fosse più tendente a sinistra e Borsellino a destra, non ci fu all‟interno della magistratura
palermitana, negli anni del maxiprocesso, un uso del potere che sfociò in una caccia alle
streghe, anzi l‟impressione è che il senso dello Stato in quell‟occasione fu suggellato come suggerisce anche Salvato Lupo - sia dall‟uomo di destra che dall‟uomo di sinistra,
in un più alto compromesso storico, dal sangue di entrambi62.
Tornando all‟ underworld63, come lo identificano gli americani, dopo che la presa del
potere da parte dei corleonesi aveva portato a una stabilizzazione del “governo mafioso”
Cosa nostra, dopo il duro colpo inferto dalle condanne del maxiprocesso, puntò a un
azione tesa a scardinarne i risultati. Si tentò in quell‟occasione persino di cambiare
nuovi referenti politici; infatti una parte dei voti mafiosi alle elezioni del 1987, stando
alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, si spostarono dalla Dc, rea di aver
voltato le spalle, al Psi, che, con i suoi proclami di garantismo, avvicinava senza volerlo
gli interessi mafiosi. Infatti, nel carcere palermitano dell‟Ucciardone si voterà
completamente seguendo queste direttive64, e così anche in alcuni quartieri della città –
quartieri popolari in testa; ma a livello cittadino, provinciale e regionale il successo dei
socialisti rispecchiava l‟andamento nazionale del voto65. Tuttavia, in quelle elezioni, la
Democrazia cristiana non accusò tanto il colpo. Sembrò che le presunte antiche minacce
di cui fu fatto oggetto Andreotti dall‟allora boss di Santa Maria di Gesù, Stefano
Bontate, di togliere i voti di tutta la Sicilia e di parte del meridione alla Dc, fossero
vuote e prive di una qualche corrispondenza66.
Ma il tentativo di avvicinare il Psi andò a vuoto e anzi finì per ritorcersi contro Cosa
nostra quando in quello stesso anno a Palermo venne eletto Claudio Martelli, schierato
su un versante garantista, e che successivamente, da ministro della Giustizia, conferirà
l‟incarico romano più importante al massimo nemico di Cosa nostra: Giovanni
Falcone67. A quel punto a Cosa nostra non restò che giocare la carta di screditare in tutti
i modi sia i pentiti che lo stesso Falcone, l‟artefice di tutti i mali. Ad esempio, dopo il
fallito attentato all‟Addaura del 21 giugno 1989, dove cinquanta candelotti di tritolo
62
Ivi, p. 87.
Cfr. S. Lupo, Quando la mafia trovò l’America. Storia di un intreccio intercontinentale, 1988-2008,
Einaudi, Torino, 2008.
64
Cfr. S. Lupo, Storia della mafia, cit., p. 304.
65
Ibidem.
66
Voglio qui segnalare il lucido ragionamento di Salvatore Lupo nel suo libro Storia della mafia, cit.,
precisamente a p. 305.
67
S. Lupo, Storia della mafia, cit., p. 305.
63
16
furono nascosti tra gli scogli a venti metri dalla casa dove il giudice trascorreva le
vacanze68, iniziò una campagna di denigrazione, durante la quale si insinuò che fosse
stato lo stesso Falcone a mettersi la bomba per manie di protagonismo e per tenere
sempre alta la tensione69.
Si arrivava così allo scontro vis a vis agli inizi degli anni Novanta. Falcone otteneva che
la sentenza del maxiprocesso non passasse per la sezione della Corte di Cassazione
presieduta dal giudice Corrado Carnevale – il giudice ammazza-sentenze – che in
passato aveva annullato molto verdetti. Si poteva intuire la garanzia che dava questo
giudice dall‟esclamazione riportata da Gaspare Mutolo davanti alla Commissione
antimafia quando si sapeva che a presiedere una qualche sentenza ci sarebbe stato
Carnevale: «C'è Carnevale. Sia lodato Gesù Cristo!»70. Il Csm aveva annunciato il
principio secondo cui le assegnazioni dovessero essere decise in base a un criterio
oggettivo di rotazione. Su questa base, il presidente della cassazione Antonino
Brancaccio dispose che il collegio giudicante non venisse presieduto dal dottor
Molinari, designato da Carnevale, ma dal dottor Arnaldo Valente, completamente
estraneo «al partito del patriottismo della prima sezione»71.
All‟inizio degli anni Novanta, in piena crisi della Repubblica italiana72, la
controffensiva mafiosa giunse al culmine e, sentendosi accerchiata dopo la conferma da
parte della Cassazione delle condanne del maxiprocesso, reagì violentemente. Il pendolo
delle relazioni tra Stato e mafia, che fin dalla nascita dello Stato italiano aveva spesso
oscillato verso la collaborazione, ora sembrava vertere decisamente verso il contrasto. Il
risultato – come sostenuto da Salvatore Lupo – era di portata storica73.
68
G. Falcone, Cose di Cosa nostra, cit., p. 10.
Cfr. G. Ayala, Chi ha paura muore ogni giorno. I miei anni con Falcone e Borsellino, Mondadori,
Milano, 2008, p. 157; S. Lodato, M. Travaglio, Intoccabili, BUR, Milano, 2005.
70
Commissione parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminale
similari, Verbale XXV, cit., p. 1255.
71
L‟espressione fu usata da Vittorio Sgroi, allora procuratore generale presso la cassazione, nella sua
deposizione del 30 marzo 1994, davanti alla procura di Palermo, nell‟ambito del procedimento penale
contro Andreotti, cit. in M. Brutti, Cosa nostra nella crisi del sistema politico italiano, in Mafia e
antimafia. Rapporto ’96, (a cura di L. Violante), Laterza, Roma-Bari, 1996, p. 52.
72
G. Crainz, Il paese reale, cit., p. 225.
73
G. Fiandaca, S. Lupo, La mafia non ha vinto, cit., p. 22.
69
17
I.3 Alla fine di una Repubblica
Se questa prima repubblica, come dicono molti osservatori, è alla fine,
finisce male, malissimo. Per chi come me appartiene alla generazione
che ha assistito piena di speranza alla sua nascita, questa
considerazione è molto amara. Ormai non ho altro desiderio che uscire
di scena. La gestazione della seconda repubblica, se dovrà nascere,
sarà lunga. Forse non avrò neppur il tempo di vederne la fine. Ma
poiché, se nascerà, nascerà con gli stessi uomini che non solo sono
falliti ma sono inconsapevoli del loro fallimento, non potrà che
nascere male, malissimo, come male, malissimo è finita la prima74.
È opinione comune che tra le elezioni del 5-6 aprile 1992 e quelle del 27-28 marzo
1994, che concludevano anticipatamente l‟undicesima legislatura della Repubblica, si
sia consumata in Italia una crisi politica dirompente, tanto che da molti è stato utilizzato
forse un termine assai impegnativo come quello di “rivoluzione”75; altri hanno parlato
di fine di regime76; c‟è infine chi più semplicemente sottolineava una svolta, sostenendo
come una discontinuità fattuale e ideale si verificò dopo le elezioni del 1994, che
portarono alla rottura radicale del sistema politico fino ad allora conosciuto77.
L‟esempio più classico lo forniva Luciano Cafagna, il quale ipotizzava una grande
slavina, originatasi dal crollo del muro di Berlino, che andava a distruggere il sistema
politico italiano formatosi nell‟immediato dopoguerra. Ad aumentarne la potenza e
l‟effetto distruttivo avevano concorso, nel corso del tempo, sommandosi, crisi
economica e malessere sociale, degrado istituzionale e crisi morale78.
La crisi fiscale era resa evidente dagli accordi presi a Maastricht e dalla previsione di
una moneta unica, i quali imponevano il rientro di quel debito pubblico che nel 1991
doppiava la ricchezza nazionale, mentre il disavanzo si attestava oltre i tredicimila
miliardi79. Si calcolava che ogni italiano avesse sulle spalle un debito di oltre ventitré
milioni di lire e in contemporanea si apriva una voragine nei conti del fisco a
testimoniare che la gente, perduta ogni fiducia nel sistema, «ha deciso impropriamente,
illegalmente, ma chiaramente di abrogarlo»80.
L‟articolo è stato pubblicato venti anni dopo in Della stessa leva. Lettere (1942-1999), carteggio fra
Norberto Bobbio ed Eugenio Garin, Aragno, Torino, 2011, cit. in G. Crainz, Il paese reale, cit., p.235.
75
Cfr. A. Mastropaolo, Antipolitica. All’origine della crisi italiana, L‟ancora del Mediterraneo, Napoli,
2000, p. 7.
76
Cfr. A. Blando, Italia 1992-1993: la retorica del regime, in Quando crollano i regimi (a cura di P.
Viola e A. Blando), Palumbo, Palermo, 2004, 93-116.
77
S. Lupo, Antipartiti, cit., p. 3.
78
G. Crainz, Il paese reale, cit., p. 226.
79
S. Colarizi, M. Gervasoni, La tela di Penelope, cit., p. 20.
80
G. Tremonti, La Caporetto del fisco, «Corriere della Sera» 15 giugno 1991.
74
18
La crisi istituzionale, a sua volta, rendeva incapace la Repubblica di controllare e
indirizzare il cambiamento.
Infine c‟era una crisi morale che avanzava parallelamente alle inchieste giudiziarie di
quegli anni, che rastrellavano giorno per giorno i politici seduti in parlamento e non, e
che svelavano l‟ampio livello di corruzione politico-affaristica per cui l‟Italia appariva
come il paese della tangente, Tangentopoli81.
La caduta del muro di Berlino portò con sé per primo il Pci, irrimediabilmente chiamato
in causa dal crollo del sistema comunista dell‟ex Urss. Il partito tentò dapprima di
cambiare nome in Pds, Partito democratico della sinistra, tentando di avviare una
politica di rinnovamento. Ma la fase discendente proseguiva incalzante e il Pds
incassava una sconfitta alle elezioni del 1991 in Sicilia, dove a salire sul carro dei
vincitori era stato Orlando con la sua Rete82. A tirar le somme dell‟ex Pci era stato
Cafagna, che definì quella del Partito comunista un mera “strategia dell‟obesità”, un
accumulazione di voti inutili per un alternativa al governo83. Ma va detto che la forza
del Pci era stata quella di creare un minoranza messa a tutela dei diritti politici e civili
nel paese in cui la borghesia aveva dimostrato col fascismo di poter negare gli uni e gli
altri84. Fu questo spirito, come ha sostenuto Salvatore Lupo, a non far capitolare il
partito, rendendolo abbastanza forte da affrontare il trauma del cambiamento, evitando
al tempo stesso di mischiarsi con quel socialismo che si era personificato nella figura di
Craxi, con cui essi erano in aperto contrasto, e tenendo testa alla scissione della parte
tradizionalista, che con in testa Armando Cossutta andò a formare Rifondazione
comunista85.
Nel frattempo il presidente della Repubblica, abbandonando quel riserbo che lo aveva
caratterizzato nel corso degli anni, iniziò a demolire a suon di “picconate”, come lui
stesso le definì, l‟autorevolezza dello Stato86. Cossiga sottolineava il cambiamento
avvenuto in quegli anni, consegnando agli italiani verità alquanto scomode. Era
l‟autunno del 1990 quando rivelò l‟esistenza di un organizzazione paramilitare
conosciuta come Gladio, clandestinamente approntata dallo Stato alla metà degli anni
Cinquanta in funzione anticomunista (la stessa verrà confermata anche successivamente
81
Cfr. S. Lupo, Antipartiti, cit., p. 139.
Cfr. S. Colarizi, M. Gervasoni, La tela di Penelope, cit., p. 22.
83
L. Cafagna, C’era una volta … Riflessioni sul comunismo italiano, Marsilio, Venezia, 1991, pp. 92 sgg,
cit. in S. Lupo, Antipartiti, cit., p. 141.
84
Ibidem.
85
Cfr. S. Colarizi, M. Gervasoni, La tela di Penelope, cit., p 12.
86
S. Lupo, Antipartiti, cit., p. 142.
82
19
dal presidente del Consiglio Giulio Andreotti87). In un crescendo il presidente aumentò
la portata della polemica contro il sistema politico e nei consueti auguri di fine anno del
1991 Cossiga pronunciava il suo discorso davanti a milioni d‟italiani, lasciandoli a
bocca aperta. Infatti in quell‟occasione il presidente pronunciò forti critiche verso dei
partiti degradati, rei di essere una delle cause del malessere del paese 88. Si arrivò allo
scontro aperto tra il mondo politico e Cossiga, che forte del suo ruolo continuava nella
sua azione. «Nessuno sa bene, forse nemmeno Cossiga, che cosa abbia in mente
Cossiga», scriveva Indro Montanelli89. Arrivò perfino a presentarsi a una riunione del
Csm alla testa di un reparto di carabinieri per ribadire il suo diritto a controllarne i
lavori90. Ma l‟azione di Cossiga, sostenuta anche dal Consiglio di rappresentanza dei
carabinieri - il Cocer - farà rivoltare anche la stampa più vicina alle istituzioni. Sempre
Montanelli lanciava l‟Alt! al presidente, chiedendo di posare “il piccone”91. Intanto il
partito di Occhetto avviava una procedura di impeachment, provocando le reazioni dello
stesso presidente che minacciava di pubblicare un dossier in suo possesso sugli ex
comunisti92.
In quel tourbillon politico-istituzionale-finanziario si venne a creare un fronte unito che
cercava di scardinare un sistema politico ritenuto immobile e paralizzante. Alla testa di
questo movimento, che tendeva a far leva sull‟opinione pubblica puntando su nomi a
effetto quali partitocrazia e regime, e contrapponendo il senso di vecchio - ritenuto
portatore di errati valori - al nuovo - portatore di legalità e di benefici - si mise Mario
Segni. Egli puntò su un‟arma come il referendum per tentare di spaccare il sistema
politico-elettorale che aveva reso la logica della democrazia dei partiti irriconoscibile;
fatto sottolineato anche da Pietro Scoppola in relazione all‟illogica presa del potere da
parte del Psi, che pur non godendo di un forte consenso popolare, sfruttando
l‟inserimento nello spazio rimasto vuoto tra Dc e Pci, riusciva, nonostante la sua
modestia, ad avere un ruolo centrale esercitando un potere di gran lunga superiore a
quello che i risultati elettorali gli avevano consegnato93.
Il vero nemico da battere era il Caf, un‟alleanza stipulata nel 1989 tra Craxi, Andreotti e
Forlani, che prevedeva un‟alternanza dei tre. L‟azione del Caf aveva portato Andreotti a
87
G. Crainz, Il paese reale, cit., p. 244-45.
Ivi, p. 246.
89
I. Montanelli, Da quella pira, «Il Giornale», 26 marzo 1991.
90
S. Lupo, Antipartiti, cit., p. 143.
91
I. Montanelli, Alt!, «Il Giornale», 6 dicembre 1991.
92
G. Crainz, Il paese reale, cit., p. 248.
93
Cfr. P. Scoppola, La repubblica dei partiti. Evoluzione e crisi di un sistema politico, 1945-1996, il
Mulino, Bologna, 1997, p. 426, cit. in S. Lupo, Antipartiti, p. 148.
88
20
rivestire per l‟ennesima volta la carica di presidente del Consiglio, Forlani ad avere la
guida della Dc, e Craxi a restare in panchina in attesa del suo turno94 .
A promuovere il referendum, in quell‟occasione, oltre al già citato Segni, erano stati il
Pds e parte della Dc. Dal canto loro, Eugenio Scalfari e Indro Montanelli iniziarono una
campagna pro-referendum sulle pagine dei loro giornali. Toni usati fino a quel momento
solo da Marco Pannella e dal Partito radicale divennero l‟animus della campagna
elettorale95. Gli elettori, alla ricerca di una soluzione, sancirono la vittoria del
referendum; un vero e proprio plebiscito dei “Sì” sommerse quelle che erano state le
dichiarazioni di Craxi, il quale aveva invitato la gente ad «andare a mare», invece che
recarsi alle urne. Scalfari dalle pagine del suo giornale titolerà: Ha vinto l’Italia pulita96.
Montanelli, dal canto suo, faceva notare come il paese avesse voglia di cambiamento;
infatti, con il voto espresso, non aveva fatto altro che sconfessare quella classe politica e
quei partiti incapaci di riformare il sistema97.
Prendeva piede l‟antipolitica, o per meglio dire un antipartismo che coinvolgeva con
un‟argomentazione populista l‟intero paese. Veniva esaltato il senso comune dell‟uomo
di strada, la sua superiorità morale e la sua innata saggezza, sostenendo l‟esistenza di
soluzioni semplici, puntando a mobilitare i rancori e la disponibilità alla protesta. Si
trattava di un movimento populista di destra e di sinistra accomunato dall‟avversione
per ogni classe dirigente, a cui contrapporre un popolo sovrano di cui romanticamente si
esaltavano le virtù98. Il messaggio era chiaro: bisognava abbattere il regime.
Ma si può davvero sostenere che la prima Repubblica fosse un regime?
Si deve tener conto che in Italia quando si parla di regime avviene subito un raffronto
col periodo fascista. Applicandolo al periodo successivo, anche con qualche forzatura, il
termine consente un raffronto tra due realtà che finirà sempre e comunque per mettere in
risalto e ribadire la natura politico-democratica della prima Repubblica.
Tuttavia ciò che ha avvalorato l‟uso di quell‟appellativo fu la presenza in Italia in quegli
anni di una situazione anomala che rifletteva gli scenari della guerra fredda. Infatti, la
conventio ad excludendum, impediva al principale partito di opposizione di andare al
governo e consentiva alla Dc di governare incontrastata per un cinquantennio attraverso
instrumenta regni anomali, dai quali derivavano pratiche trasgressive, illegali e
94
S. Lupo, Antipartiti, cit., p. 151.
G. Crainz, Il paese reale, cit., p.254.
96
«la Repubblica», 11 giugno 1991.
97
Cfr. I. Montanelli, Via col vento, «Il Giornale», 11 giugno 1991.
98
Cfr. A. Mastropaolo, Antipolitica, cit., p. 29-30.
95
21
occulte99. Appoggiando questa chiave di lettura si corre il rischio di ridurre l‟intera
storia d‟Italia alla sola dimensione criminale, riconducendo il tutto a un ottica che, non
dimentichiamolo, era pur sempre una visione di chi era marginalizzato dal quel
“regime”.
Il 1992 fu un “annus horribilis” per la Repubblica100; il 17 febbraio Mario Chiesa,
elemento di medio livello della macchina politica socialista milanese, veniva beccato
mentre intascava una tangente101. Craxi tentò di liquidare l‟accaduto attribuendolo a un
isolato “mariuolo”102. Le rivelazioni fatte da Chiesa ai giudici diedero vita a un processo
a catena che innescò l‟avvio dell‟inchiesta Mani pulite.
L‟inchiesta colpì in pieno il mondo politico e «nei venticinque mesi successivi la lista si
allungherà all‟infinito: 4525 persone arrestate, 25400 avvisi di garanzia. Tra questi 1100
parlamentari o uomini politici, coinvolti, avvisati o arrestati. E ci saranno anche dieci
suicidi»103.
Ci si è chiesto come mai prima di Mani pulite prevaleva la sensazione che le denunce
dei vari difensori della questione morale non venissero considerate - era come se
mancassero di incisività nel colpire le varie carriere politiche dei leader della
maggioranza, da Giulio Andreotti a Bettino Craxi e a seguire i vari Sbardella, Gava e
Lima. Quelli che denunciavano prima del 1992 erano marginalizzati e si dovette
attendere che una sinergia di fattori coincidesse per giungere allo scardinamento del
sistema.
L‟ago della bilancia, a quel punto, pendette a favore di chi cavalcò le ali del populismo,
scagliandosi contro quei vecchi sistemi che avevano causato il male del paese. Parole
come Tangentopoli, Partitocrazia, Mani pulite, Mafiopoli, rientrarono nell‟immaginario
comune supportando l‟idea che il vecchio era da cambiare.
A dare un ulteriore scossone ci pensò l‟omicidio di Salvo Lima, che, durante la
campagna elettorale del 1992 a Palermo, veniva ucciso dalla mafia, suscitando
inquietudine e allarme. La mafia alle urne titolava il “Corriere della Sera”104, e Norberto
Bobbio osservava: «Le prossime elezioni avranno un importanza decisiva perché la
99
Ibidem.
Ivi, p. 14.
101
Cfr. S. Lupo, Antipartiti, cit., p. 153.
102
Cfr. G. Crainz, Il paese reale, cit. p. 269.
103
I. Diamanti, 1992, Tangentopoli, in Novecento italiano, Laterza («Lezioni di storia», 9), Roma-Bari,
2008, pp.215-37 e in particolare p. 220, cit. in S. Lupo, Antipartiti, cit., p. 154.
104
Cfr. G. Crainz, Il paese reale, cit. p. 270.
100
22
degradazione non solo economica ma anche morale è sotto gli occhi di tutti»105. E alle
elezioni politiche del 5-6 aprile i partiti di governo perderanno quasi dieci punti
percentuali, con la Dc che scenderà sotto il 30% per la prima volta nella storia della
Repubblica. Ma la sorpresa maggiore fu rappresentata sia dalla sconfitta ancora una
volta del Pds e di Rifondazione, che non riusciranno ad intercettare i voti persi dai
democristiani, che dall‟emergere di quei protagonisti inediti come la Lega Nord che
raggiungerà il 10% a livello nazionale – dato che rispecchia una percentuale molto
elevata se rapportata all‟area regionale settentrionale dove la Lega raccoglieva i
maggiori consensi106.
In mezzo alle elezioni arrivava la bufera dell‟incalzante inchiesta di Mani pulite che, in
questa prima fase milanese, coinvolgeva sia il Psi che la Dc.
Dopo il voto espresso dagli italiani nella tornata elettorale di aprile si ebbero le
dimissioni del presidente della Repubblica che aprì la disputa per il Quirinale. Così,
mentre erano in corso le votazioni per eleggere il presidente della Repubblica, davanti ai
giudici sedevano «come imputati gli uomini dei partiti che dovrebbero decidere chi
rappresenterà il paese. Il presidente lo cercano ancora tra i loro capi, pensano ancora di
averne il diritto e il potere»107. E tra risse e manette che spuntavano nelle aule108,
iniziavano le votazioni per i candidati proposti. I protagonisti del Caf tentavano intanto
di piazzare per primo la nomina di Forlani, rigettata per 29 voti 109; Craxi si
autoescludeva puntando a Palazzo Chigi; Andreotti aspettava110. Giungeva a questo
punto la notizia dell‟attentato a Giovanni Falcone che portava all‟elezione di Oscar
Luigi Scalfaro e dunque all‟esclusione di Andreotti. Come ha sostenuto Lupo, quello
che avvenne allora fu un passaggio straordinariamente traumatico della nostra storia,
che ingigantì la spinta verso il nuovo, il bisogno di riscatto111.
Scalfaro subito designava il socialista Amato alla guida di una coalizione quadripartita l‟esclusione di Craxi era pensata in vista di Mani pulite112 - che rispecchiava gli
equilibri parlamentari, la quale si mise presto a lavoro preparando una stretta manovra
105
N. Bobbio, La disfatta, «La Stampa», 13 marzo 1992.
La Lega raggiunse il 23% in Lombardia, il 18% in Veneto (a cui si deve aggiungere un 8% derivante
da altre liste autonome), il 15% in Piemonte, Liguria e Friuli e il 10% persino nell‟Emila, da sempre
considerata rossa. Cfr. G. Crainz, Il paese reale, cit., p. 270.
107
M. Fucillo, Watergate italiano, «la Repubblica», 20 maggio 1992.
108
S. Mazzocchi, Tam tam di manette dentro l’aula, «la Repubblica», 14 maggio 1992.
109
G. Crainz, Il paese reale, cit., p. 274.
110
Ibidem.
111
S. Lupo, Antipartiti, cit., p.154.
112
Ivi, p. 155.
106
23
finanziaria che il peggioramento della situazione economica renderà rigorosa. Il deficit
dell‟Italia aveva superato i centosessanta miliardi, e il 20 maggio la CEE aveva lanciato
un ultimatum chiedendo tagli per trenta miliardi113. Pochi cercavano di spiegare che il
paese aveva in realtà vissuto, durante gli anni precedenti, al di sopra delle sue
possibilità; assai più semplice fu trovare un capro espiatorio nei partiti accusati di aver
rubato114.
In questo clima di incertezze, di marasma politico-istituzionale, si insediava la IV
Commissione antimafia, la cui presidenza venne affidata a Luciano Violante, uomo di
sinistra ed ex-magistrato, che inizierà i lavori sulle relazioni tra mafia e politica a partire
dall‟ottobre del 1992.
Sfruttando il momento favorevole, cavalcando l‟onda del rinnovamento, Violante
prospetterà una lettura inquietante di mezzo secolo passato sotto il “regime della Dc”;
un regime che aveva favorito la coabitazione con la mafia e spesso in combutta con
essa. Il clima incandescente favorirà anche l‟approvazione della relazione sui rapporti
tra mafia e politica in Parlamento, persino con i voti dei democristiani, dando credito
alla tesi di colpevolezza del senatore Andreotti e supportando il processo che ne seguì;
lo stesso Violante interpretò quel segnale come l‟inizio di una “nuova democrazia”115,
tentando con la sua relazione su mafia e politica di abbattere il pilastro portante della
prima Repubblica.
Le inchieste sulla mafia convogliarono nell‟incriminazione di Andreotti; quelle di Mani
pulite con l‟incriminazione di Craxi: la questione morale si era trasformata in questione
penale116 e Palermo e Milano si trasformavano rispettivamente in ”Mafiopoli” e
“Tangentopoli”117, luoghi idonei al malaffare, ma anche luoghi in cui si sviluppò un
forte sostegno di massa all‟azione della magistratura118.
Il 1993 sembrò l‟anno di consacrazione per il Pds che si poneva «sulla cresta
dell‟onda»119. Fu l‟anno che sancì la fine del Psi; nell‟aprile erano arrivate le dimissioni
del presidente del Consiglio Amato, dopo che il tentativo di risolvere Tangentopoli con
un colpo di spugna – come venne definito - andò a male. In quello stesso aprile
giungeva anche un plebiscito referendario che spianava la strada al nuovo sistema
113
S. Colarizi, M. Gervasoni, La tela di Penelope, cit., p. 26.
Ivi, p. 28.
115
L. Violante, Il nuovo c’è, «l‟Unità» 7 aprile 1993; cfr. O. Barrese (a cura di), Mafia politica pentiti: la
relazione del presidente Luciano Violante, Rubbettino, Soveria Mannelli, 1993.
116
S. Lupo, Antipartiti, cit., p. 177.
117
Ivi, p. 190.
118
Ivi, p. 191.
119
Ivi, p. 214.
114
24
elettorale maggioritario120, il Mattarellum, che si basava su un metodo misto, in
prevalenza uninominale maggioritario con una quota proporzionale.
Con la legge elettorale pronta non restava che andare alle elezioni. E nel marzo 1994
giunsero le elezioni che premiarono a sorpresa il polo berlusconiano (Forza Italia, An,
Msi e Lega), sancendo la sconfitta sia del polo di sinistra facente capo al Pds e che
comprendeva Rifondazione, la Rete e Alleanza democratica, che del terzo polo formato
dal Partito popolare, nato dalle ceneri della Dc, e il Patto Segni, gruppo che ruotava
attorno al leader referendario Mario Segni121.
Forza Italia era il primo partito italiano. La grande slavina aveva distrutto davvero
l‟Antico Regime122.
120
G. Crainz, Il paese reale, cit., p. 295.
Ivi, p. 304.
122
S. Lupo, Antipartiti, cit., p. 218.
121
25
Capitolo secondo
La IV Commissione antimafia
II.1 Antimafia: storia delle precedenti Commissioni parlamentari
Maturò attraverso un lungo periodo di dibattito, durato ben tre legislature, l'esigenza di
aprire un'inchiesta parlamentare sul fenomeno della mafia che, procedendo da uno
studio analitico della sua genesi e delle sue caratteristiche, sfociasse nella proposta di
un'articolata serie di misure atte a reprimerne le manifestazioni e a eliminarne le cause.
Il dibattito parlamentare iniziò per la prima volta il 27 luglio 1948 allorché il deputato
Berti, svolgendo alla Camera dei deputati una interpellanza, chiedeva conto al Governo
della politica che si intendeva condurre per porre fine ai soprusi verificatisi contro il
movimento operaio e contadino e ai delitti di mafia che avevano insanguinato la
Sicilia123. La strage di Portella della Ginestra, l'attentato all‟onorevole Li Causi, gli
assassinii dei sindacalisti Li Puma, Rizzotto e Cangelosi mostravano come la mafia,
«forza delittuosa permanente e in un certo senso dominante della Sicilia»124, e il
banditismo avessero assunto il ruolo di «avanguardia armata»125 contro operai e
contadini a difesa degli interessi dei latifondisti e delle loro clientele politiche. Berti
denunciava il blocco compatto venutosi a creare e che ruotava attorno a mafia,
banditismo, latifondisti e ambienti politici siciliani. Il deputato denunciava che questi
ultimi, dall‟interno del Governo regionale, avvalendosi anche di relazioni internazionali
123
Una ricostruzione del dibattito sviluppatosi intorno alla richiesta di istituire una Commissione
antimafia si trova in Commissione parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia,
Relazione conclusiva, relatore Luigi Carraro, VI legislatura, doc. XXIII, n.2, Roma, 1976, pp. 3-36. Cfr.
anche O. Barrese, I complici. Gli anni dell’Antimafia, Rubbettino, Soveria Mannelli, 1988, pp. 7-55; V.
Coco (a cura di), L’Antimafia dei comunisti. Pio La Torre e la relazione di minoranza, nota introduttiva
di Emanuele Macaluso, Istituto Poligrafico Europeo, Palermo, 2013, pp. 22-24; U. Santino, Storia del
movimento antimafia, cit.; N. Tranfaglia, Mafia politica e affari 1943-2008, Laterza, Roma-Bari, 2008,
pp. 5-13. Ulteriori passaggi relativi alla Commissione Antimafia sono presenti in G. Di Lello,Giudici.
Cinquant’anni di processi di mafia, Sellerio, Palermo, 1994; G. C. Marino, Storia della mafia, Newton
Compton, Roma, 1997 ;A. Blando, Percorsi dell’antimafia, in «Meridiana», n. 25, 1996; R. Mangiameli,
La mafia tra stereotipo e storia, Salvatore Sciascia Editore, Caltanissetta, 2000; J. Dickie, Cosa Nostra.
Storia della mafia siciliana, Mondolibri, Milano, 2005.
124
Commissione parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia, Relazione conclusiva,
relatore Luigi Carraro, cit., p. 3.
125
Ibidem.
26
soprattutto per il tramite della malavita americana, utilizzavano il malaffare per
mantenere quella struttura di potere che, con il favore del Governo nazionale, dominava
la Sicilia ed era responsabile della «ondata di terrorismo contro i comunisti e contro le
organizzazioni operaie»126.
Dal canto suo il ministro Scelba respingeva l'ipotesi di collegamenti e rapporti
internazionali tenuti dal Governo regionale e negava che il Governo nazionale avesse
«qualsiasi responsabilità su fatti o su delitti politici della mafia o non della mafia
accaduti in Sicilia»127. La mafia, aggiungeva, essendo un fenomeno secolare, non era
imputabile ad una determinata linea politica «certamente la mafia trova[va] protezione
in sfere molto elevate che essa protegge[va] a sua volta»128 e nelle recenti elezioni tutti i
partiti - affermava Scelba - «compresi quelli dell'estrema sinistra hanno approfittato, in
quella zona della Sicilia, della mafia, anche se per le dimensioni che la lotta elettorale
ha raggiunto non è la protezione di un capo mafia locale che può determinare la vittoria
di un partito»129. Il fenomeno mafioso, ribadiva il deputato Berti, dichiarando la propria
insoddisfazione per la risposta ricevuta, doveva essere risolto «colpendo la classe di
latifondisti reazionari»130 e le attività mafiose nelle zone di Piana dei Greci, di S.
Giuseppe Jato, di Corleone e di Petralia, che avrebbero reso possibile il controllo
dell'intera provincia di Palermo.
Così la prima richiesta d‟inchiesta giungeva alla Camera il 14 settembre dello stesso
anno, presentata dai deputati comunisti Berti, Failla, Pino e dal socialista Sansone131.
Ma la richiesta venne respinta perché fu vista come una “bruciante” e “immeritata”132
offesa per la Sicilia.
La questione fu più volte riproposta nel corso degli anni Cinquanta, ma la situazione
parlamentare, con una Dc fermamente al governo, non permise la sua attuazione. E
mentre dall‟altra parte dell‟Atlantico l‟esistenza stessa della mafia veniva sbattuta in
prima pagina con le inchieste di una Commissione d‟inchiesta sulla criminalità
organizzata creata ad hoc per combattere la mafia, diretta dal senatore democratico
126
Ibidem.
Ibidem.
128
Ibidem.
129
Ivi, pp. 3-4.
130
Ivi, p 4.
131
O. Barrese (a cura di), Relazione della Commissione parlamentare sul fenomeno della mafia, Relatore
Abdon Alinovi, Rubbettino, Soveria Mannelli, 1986, p. XVIII.
132
Ibidem.
127
27
Estes Kefauver133, in Italia si dovranno attendere gli anni Sessanta per la nascita di una
Commissione per certi aspetti simile.
Dopo i tanti tentativi di insabbiamento si pervenne, infatti, all‟istituzione della prima
Commissione parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia. Il tutto partì
sulla base di un ordine del giorno presentato il 5 luglio del 1960 da Ferruccio Parri,
Giuseppe Berti e Simone Gatto134.
Non fu un caso che la decisone di istituire una Commissione che indagasse sulla mafia
in Sicilia veniva approvata proprio agli inizi degli anni Sessanta135. L‟Italia era in un
periodo politicamente delicato dopo i fatti di Genova. In quell‟occasione erano
scoppiate rivolte social-comuniste di protesta, con successivi scontri con le forze di
polizia, dopo che il ministro Tambroni aveva autorizzato il Movimento sociale italiano
ad organizzare nella città, che tanto aveva subito durante la guerra gli eccidi e le torture
compiute dai fascisti, il loro congresso nazionale. Ben presto la protesta si estese in altre
città d‟Italia e seguirono altri scontri che provocarono morti e feriti; il ministro fu
costretto a presentare le dimissioni, mentre una parte della Dc si era orientata a istituire
un governo di centro-sinistra aprendosi a una partecipazione di governo col Psi di
Nenni136.
Si pervenne così nel dicembre ‟62 alla legge che istituiva la prima Commissione
parlamentare antimafia del nostro paese. Tuttavia la neonata Commissione antimafia
guidata dal socialdemocratico Paolo Rossi non si riunirà nemmeno una volta, complice
lo scioglimento anticipato delle camere.
Nonostante la prima guerra di mafia che imperversava a Palermo 137 passarono circa
sette mesi prima che una nuova Commissione antimafia venisse nuovamente instituita.
L‟inerzia fu bruscamente interrotta dalla strage di Ciaculli - roccaforte della potente
famiglia mafiosa dei Greco - che costò la vita a sette uomini delle forze dell‟ordine.
L‟eccidio diede l‟input per insediare un‟altra Commissione, ma questa volta la nomina
di presidente ricadde sul senatore democristiano Donato Pafundi, ex procuratore
generale della Corte di Cassazione, con vicepresidenti i deputati Girolamo Li Causi,
comunista, e il democristiano Oscar Luigi Scalfaro. Presto però resterà solamente Li
Cfr. S. Lupo, Storia della mafia, cit., p. 204; Id, Quando la mafia trovò l’America, cit.
Resoconto stenografico della seduta del 5 luglio 1960, Atti Parlamentari – Senato della Repubblica,
III, pp. 13083 sgg.; in particolare l‟approvazione dell‟ordine del giorno alla p. 13091, cit. in V. Coco (a
cura di), L’Antimafia dei comunisti, cit., p. 23; cfr. anche O. Barrese (a cura di), Relazione della
Commissione parlamentare sul fenomeno della mafia, cit., p. IX.
135
V. Coco (a cura di), L’Antimafia dei comunisti, cit., p. 23.
136
S. Lupo, Antipartiti, cit., p. 63.
137
Cfr. S. Lupo, Storia della mafia, cit., p. 246.
133
134
28
Causi a battersi per indagini approfondite e a tutto campo; Scalfaro, infatti, sarà
costretto alle dimissioni non volendo accettare il ruolo di freno e di “cane da guardia” 138
che il suo partito voleva affibbiargli. Quanto a Pafundi, si rese protagonista, dopo un
apprezzabile esordio, di un gran voltafaccia. Infatti, dopo aver rilevato, oltre alla
consistenza, anche l‟alta qualità del materiale custodito negli archivi della
Commissione, paragonandoli a una “polveriera”, a una “santabarbara”139, alla fine della
IV legislatura e dopo quei proclami, Pafundi consegnò l‟8 marzo 1968 ai presidenti
delle due Camere uno striminzito rapporto sullo stato dei lavori della Commissione
antimafia che annullava del tutto il lavoro fin lì svolto: «Nel corso dei suoi lavori la
Commissione ha fermato il proprio esame anche sul rapporto tra mafia e politica, senza
pervenite – allo stato - a conclusioni»140. La delusione fu grande, chi aveva per anni
visto nella Commissione uno strumento per combattere e sconfiggere la mafia si vide
costretto a fare i conti con la triste realtà dei fatti; e il pamphlet di Pantaleone intitolato
Antimafia occasione mancata141 sarà l‟emblema dello smacco subito.
La mafia riapparve sulla scena con prepotenza e l‟escalation di terrore che si registrò a
partire dal 1969, quando ritornavano dal carcere o dal confino i vecchi boss usciti
indenni dalle sentenze di Catanzaro e Bari, fu senza paragoni. Ciò che accadde dopo le
due sentenze lo racconterà il collaboratore di giustizia Antonino Calderone, descrivendo
con un certo cinismo, davanti alla Commissione antimafia presieduta da Violante, la
reazione mafiosa di quegl‟anni:
Una volta usciti dal processo di Catanzaro, quando nel 1963 la mafia
era stata messa in ginocchio, ma veramente, erano morti di fame dopo
cinque anni di latitanza o di galera. Erano morti di fame. Stefano
Bontade142 diceva che per fortuna Masino Spadaro faceva un poco di
contrabbando e gli dava una parte, perché erano morti di fame. Dopo
che sono usciti e si sono un po' organizzati Gaetano Badalamenti
disse: "Dobbiamo far sentire che siamo di nuovo qua". Disse che
dovevamo buttare a mare i carabinieri. Qualcuno ci ha riso in faccia.
138
O. Barrese (a cura di), Mafia politica pentiti: la relazione del presidente Luciano Violante e le
deposizioni di Antonino Calderone, Tommaso Buscetta, Leonardo Messina, Gaspare Mutolo, Rubbettino,
Soveria Mannelli, 1993, p. 11.
139
Cfr. W. Semeraro, Lo scandalo di Agrigento impallidisce dinanzi ai fatti che abbiamo in archivio, «Il
Giornale di Sicilia», 6 agosto 1966.
140
Commissione parlamentare sul fenomeno della mafia in Sicilia, Rapporto sullo stato dei lavori al
termine della IV legislatura presentato dal presidente Donato Pafundi, cit. in V. Coco (a cura di),
L’Antimafia dei comunisti,cit., p. 25; Cfr. anche O. Barrese (a cura di), Mafia politica pentiti, cit., p. 11;
E. Biagi, La Commissione Antimafia è riuscita a non sapere e a non dire proprio niente, «La Stampa», 26
marzo 1968.
141
M. Pantaleone, Antimafia occasione mancata, Einaudi, Torino, 1969.
142
Stefano Bontate.
29
Per fare un certo effetto dovevano far fuori qualcuno e hanno ucciso
Mauro De Mauro e il giudice Scaglione …143
È con una siffatta situazione che si dovette misurare la Commissione d‟inchiesta della V
legislatura, presieduta dal deputato democristiano Francesco Cattanei, vicepresidenti il
comunista Girolamo Li Causi e il socialista Libero Della Briotta.
Il presidente dichiarò che fin da subito uno dei compiti più importanti della
Commissione era quello di rendere noto il consistente materiale relativo alle indagini
svolte negli anni precedenti144. Si istaurò così un tandem felice, di fervida e leale
collaborazione, che approdò a notevoli risultati. Furono pubblicate le indagini sul
comune di Palermo, sulle strutture scolastiche, sui mercati all‟ingrosso e quella sui
rapporti tra mafia e banditismo145. Molto importante risultò anche la parte finale del
documento presentato da Cattanei dove veniva messa in evidenza la straordinaria
«duttilità della mafia»146, grazie alla quale si era saputa adattare a ogni tipo di
«trasformazioni sociali, economiche e politiche»147.
La relazione di Cattanei suscitò molte proteste in seno al suo stesso partito che gli
costeranno la rimozione dall‟incarico durante la VI legislatura. Con il reinsediamento
della Commissione, dopo le elezioni anticipate del 1972, avvenne la nomina del nuovo
presidente, Luigi Carraro.
Le frizioni all‟interno della Commissione aumentarono considerevolmente, l‟atmosfera
cambiò radicalmente, come dimostrarono sia le differenze di impostazione e di tono che
si riscontrano tra la relazione generale firmata dallo stesso Carraro e quella settoriale a
cura del senatore Zuccalà, sia per l‟esigenza dei due gruppi di destra e di sinistra di
presentare due relazioni di minoranza contenenti critiche a quella di Carraro e
indicazioni di lettura degli allegati assai diverse148.
La Commissione Carraro verrà ricordata anche per lo scontro che si ebbe tra i
democristiani che volevano come membro l‟onorevole Matta, ex assessore al comune di
Palermo già oggetto di indagini da parte della Commissione nel corso della precedente
Commissione parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminale
similari, Verbale XI (audizione del collaboratore di giustizia Antonino Calderone), intervento di A.
Calderone, p.298.
144
V. Coco (a cura di), L’Antimafia dei comunisti, cit., p. 26.
145
Ibidem.
146
Commissione parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia, Relazione dell’on.
Francesco Cattanei, V legislatura, doc. XXIII, n.2-septies, Roma, 1972, p.153.
147
Ibidem.
148
Per questo aspetto cfr. N. Tranfaglia, La mafia come metodo, Laterza, Roma-Bari, 1991, pp. 48 sgg.
143
30
legislatura, e i comunisti che invece si opponevano alla sua candidatura. Il motivo era
evidente: l‟inquisito sarebbe diventato il giudice di se stesso. Il lungo braccio di ferro
vedrà però la sconfitta della fazione democristiana che voleva mantenere Matta come
membro della Commissione149.
L‟abbaglio preso dalla relazione finale del presidente Carraro appare molto evidente se
si constata quello che avvenne negli anni a seguire, con il salto di qualità compiuto dalla
mafia alla fine degli anni Settanta e con l‟inizio di quella sequela di omicidi politicomafiosi di Mattarella, Terranova, La Torre e Dalla Chiesa. Altro che mafia fortemente
indebolita, come veniva riportato sulla relazione Carraro; la realtà appariva del tutto
diversa: una mafia riorganizzata, che estendeva i propri rapporti con le altre associazioni
criminali dell‟Italia meridionale e non, che aveva rinsaldato la propria presenza nel
mondo politico, sociale ed economico della penisola150.
Passarono parecchi anni prima che venisse compiuta una nuova indagine parlamentare e
la mancanza di un‟adeguata e tempestiva risposta era da attribuire – a parere di Orazio
Barrese - a una reazione del tutto assente da parte dell‟opposizione comunista,
impegnata nell‟esperienza del “compromesso storico”151.
La risposta fu lenta e tardiva e solo a seguito dell‟omicidio di Dalla Chiesa, il 3
settembre 1982, venne istituita una nuova Commissione antimafia. La seconda
Commissione parlamentare antimafia, presieduta prima dal senatore La Penta, poi
sostituito dall'onorevole Alinovi, fu istituita con la legge 13 settembre 1982, n. 646
(legge Rognoni - La Torre). La Commissione Alinovi si differenziava dalla prima
perché non si trattava più di una Commissione d‟inchiesta, come la precedente, ma di
vigilanza, con competenze da un lato non limitate alla sola Sicilia, dall‟altro con poteri e
funzioni dimezzate, in quanto i suoi compiti rientravano nell‟ambito della legge (per la
verifica della sua attuazione, per la vigilanza sull‟applicazione e per formulare proposte
idonee a combattere mafia, „ndrangheta e camorra152).
La relazione finale, approvata a maggioranza dalla Commissione, non ricalcava gli
schemi di relazioni della precedente, perché diverse erano le fisionomie e in una certa
misura anche le finalità dei due organismi: nella prima bisognava indagare e evidenziare
i risultati dell‟inchiesta che, nonostante forti resistenze e sia pure settorialmente,
149
Cfr. O. Barrese (a cura di), Mafia politica pentiti, cit., p. 20.
Ivi, pp. 51-54.
151
O. Barrese (a cura di), Mafia politica pentiti, cit., p. 21.
152
Cfr. O. Barrese (a cura di), Relazione della Commissione parlamentare sul fenomeno della mafia,
relatore Abdon Alinovi, cit., p. V.
150
31
affrontava anche il nodo del rapporto mafia-politica, soprattutto nelle due relazioni di
minoranza; stavolta, invece, il compito istituzionale consisteva nella stesura di una sorta
di relazione di bilancio con entrare e uscite, con attivi e passivi, ovviamente con
un‟ottica e una metodologia di carattere politico. L'organismo parlamentare analizzò i
cambiamenti che si realizzarono in Cosa nostra dopo la sua entrata nel mercato degli
stupefacenti, denunciandone la trasformazione eversiva, eseguì le prime applicazioni
della legge Rognoni-La Torre, effettuò numerose visite in territori particolarmente
esposti al problema del fenomeno mafioso e, infine, individuò i primi segnali
dell'evoluzione del fenomeno mafioso in Puglia153.
Tuttavia il documento presentato da Alinovi offrì anche qualche spunto di critica.
Quella più interessante avvenne da parte del missino Alfredo Pazzaglia, che lamentava
l‟assenza dell‟analisi del fenomeno mafioso, la mancata analisi del periodo post-bellico
e le lacune sul tema della penetrazione della mafia dentro le istituzioni. Per quanto
riguardava i primi due punti le obiezioni del missino appaiono irrilevanti, in quanto la
precedente Commissione aveva già rilevato sia l‟analisi del fenomeno che la situazione
del dopoguerra, mentre il terzo punto va considerato con un certo interesse. Qui la
contestazione appariva più politica; a parere del missino si rivelava, infatti, l‟ottica
politica figlia del compromesso storico tra Pci e Dc, per cui si verificò un allentamento
della morsa da parte dei comunisti nei confronti dei democristiani154.
La terza Commissione antimafia venne istituita nel marzo 1988; la scelta del presidente
ricadde sulla figura di Gerardo Chiaromonte. Nel 1988 il Parlamento aveva approvato
una legge che ampliava fortemente i poteri della Commissione antimafia, e il 28 luglio
dello stesso anno si riunì per la prima volta per iniziare quei lavori che porteranno
all‟adeguamento dell‟impianto legislativo dopo la modernizzazione del fenomeno
mafioso. Vennero presentate in quattro anni di attività ben trentasei relazioni,
sollecitando in tal modo il Parlamento ad approvare leggi più moderne ed efficaci. Fu
un periodo molto difficile quello in cui si insediò la Commissione Chiaromonte, come
ricordava lo stesso presidente nel suo libro I miei anni all’Antimafia155. Erano gli anni
dei veleni del Palazzo di giustizia di Palermo, con l‟intento di smantellare quello che era
stato il pool antimafia guidato da Coponnetto156 prima e Falcone poi157. La prima
153
Ibidem.
Ibidem.
155
G. Chiaromonte, I miei anni all’Antimafia 1988-1992, Calice Editori, Rionero in Vulture, 1996.
156
A tal proposito rimando ad A. Caponnetto, S. Lodato, I miei giorni a Palermo, Garzanti, Milano, 1992.
154
32
“grana”158 da affrontare fu quella della pubblicazione delle schede nominative. Queste
schede consistevano in una serie di annotazioni informali con cui erano state via via
riassunte, a cura degli uffici delle precedenti Commissioni antimafia, tutte le notizie
risultanti da atti, documenti o carte comunque pervenute in mano alla Commissione, che
facessero riferimento a funzionari amministrativi o a uomini politici o a organizzazioni
di partito operanti in Sicilia159.
Al presidente fu subito chiaro il clima di aspettativa che c‟era nei confronti di questa
nuova Commissione. Già durante la decima seduta del 6 dicembre 1988, dove si doveva
decidere sulla richiesta di pubblicare o meno le schede, come si può vedere dalla lettura
dei testi stenografati, si aprì una discussione che vide opposti due schieramenti. Dalla
parte democristiana c‟era tutta l‟intenzione di non rendere pubbliche le schede,
dall‟altra, capitanata dal capogruppo Pci Luciano Violante, le intenzioni andavano nel
senso opposto160. Le schede alla fine vennero pubblicate e Chiaromonte, che in prima
battuta si era opposto, si decise in senso opposto per evitare che venissero portate
accuse di «una qualche reticenza o addirittura omertà»161 nei confronti del Parlamento e
dei suoi organi. La Commissione operò anche in modo incisivo su questioni specifiche,
come nel caso degli appalti per la costruzione della centrale di Gioia Tauro162.
Quello che però contraddistinse la Commissione Chiaromonte dalle precedenti fu la
forte intraprendenza nel proporre agli organi competenti le misure da attuare: le nuove
misure sul riciclaggio (decreto-legge 3 maggio 1991, n.143, convertito, con
modificazioni, nella legge 5 luglio 1991, n. 197), sulla tutela delle vittime delle
estorsioni (decreto-legge 31 dicembre 1991 n. 419, convertito, con modificazioni, nella
legge 8 febbraio 1992, n. 172), sulla Direzione investigativa antimafia (DIA) (decreto
legge 29 ottobre 1991, n. 345, convertito, con modificazioni, nella legge 30 dicembre
1991, n. 410), sulle direzioni distrettuali e sulla Direzione nazionale antimafia (DNA)
(decreto-legge 20 novembre 1991, n. 367, convertito, con modificazioni, nella legge 20
gennaio 1992, n. 8), sullo scioglimento dei consigli comunali inquinati (decreto- legge
157
O. Barrese (a cura di), Relazione della Commissione parlamentare sul fenomeno della mafia, relatore
Abdon Alinovi, cit., p. 11.
158
Ivi, p. 23.
159
Ibidem.
160
Cfr. Commissione parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni
criminale similari, presidenza G. Chiaromonte, Verbale X (Comunicazione del presidente in ordine ai
criteri di pubblicazione delle «schede nominative» e susseguente dibattito), pp. 322-52.
161
G. Chiaromonte, I miei anni all’Antimafia, cit., p. 31.
162
Cfr. Commissione parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni
criminale similari, presidenza G.Chiaromonte, Verbale LI (Audizione del presidente dell’ENEL), pp. 335
sgg.
33
31 maggio 1991, n. 164, convertito, con modificazioni, nella legge 22 luglio 1991, n.
221), sulla sospensione degli amministratori inquisiti (legge 19 marzo 1990, n. 55),
sulla riforma dei subappalti (legge citata n. 55 del 1990), sulla protezione dei
collaboratori della giustizia (decreto-legge 15 gennaio 1991, n. 8, convertito, con
modificazioni, nella legge 15 marzo 1991, n. 82)163.
Tutte queste proposte, poi tramutate in legge, nasceranno dal lavoro di questa
Commissione e troveranno in essa un decisivo sostegno per la lotta alla mafia.
Tuttavia è da ricordare che molte delle leggi proposte nel corso della X legislatura
saranno attuate solo nel corso della successiva, dopo le stragi di Capaci e di Via
Mariano D‟Amelio, le quali daranno il via a una nuova stagione della Commissione
antimafia affidata a Luciano Violante.
Commissione parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminale
similari, Prima relazione annuale, relatore on. Luciano Violante, doc. XXIII, n. 9, Roma, 1993, p. 11.
163
34
II.2 Fisionomia della IV Commissione antimafia
La IV Commissione antimafia venne istituita con il decreto legge dell‟8 giugno 1992, n.
306, convertito successivamente nella legge del 7 agosto 1992, n. 356, subito dopo le
stragi di Capaci e via D‟Amelio.
La IV Commissione parlamentare antimafia, presieduta dall'onorevole Luciano
Violante, era composta da venticinque senatori e venticinque deputati. Nella prima
seduta di Commissione vennero scelti i vicepresidenti - dalle urne uscirono i nomi del
senatore democristiano Paolo Cabras e del deputato del Psi Carlo D‟Amato, sostituito il
20 maggio del 1993 dal senatore dello stesso partito Maurizio Calvi. Il ruolo di segretari
fu affidato invece, ai deputati: Francesco Cafarelli della Dc – dimessosi il 16 marzo
1993 -, Girolamo Tripodi di Rifondazione comunista e Vincenzo Sorice della Dc164.
Complici anche le innumerevoli inchieste che per tutto il periodo investirono in pieno
quasi tutto il mondo politico, la Commissione subì delle modifiche all‟interno del suo
organico, con la sostituzione di molti suoi componenti. Il caso più clamoroso si ebbe in
seguito alle dimissioni presentate dal segretario di Commissione Cafarelli, a seguito di
un avviso di garanzia per una tangente ricevuta per dei lavori pubblici dell‟ANAS165. Le
dimissioni furono presentate anche da Vincenzo Scotti, ex-ministro dell‟Interno, il 31
marzo 1993, per indagini che la magistratura stava svolgendo su di lui a seguito di
alcune dichiarazioni, poi rivelatesi false, che lo vedevano implicato in fatti di
camorra166. A ogni modo venne sempre mantenuta la rappresentanza di ogni singolo
partito, rispecchiando così la composizione del parlamento: a ogni membro
dimissionario ne subentrava un altro della stessa fazione politica. Si ebbero infatti
sempre 16 componenti del gruppo Dc, 10 per il Pds, 7 per il Psi, 4 rappresentati della
Lega, 3 di Rifondazione, 2 rappresentanti per Pri, Misto e Msi e un componente per Pli,
Verdi, Psdi, Radicali e per la Rete.
Commissione parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminale
similari, Verbale I (Votazione per l'elezione di due vicepresidenti e di due segretari), pp. 3-4.
165
Cfr. Commissione parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni
criminale similari, Verbale XXX (Sulle dimissioni dell'onorevole Cafarelli da segretario della
Commissione), pp. 1451-52. Si veda anche F. Haver, ANAS:Prandini e 25 miliardi di tangenti, «Corriere
della Sera», 4 aprile 1993.
166
Rimando alla lettera di dimissioni inviata da Vincenzo Scotti alla Commissione antimafia in
Commissione parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminale
similari, Verbale XXXIV (Seguito dell'esame della relazione sui problemi connessi allo scioglimento dei
consigli comunali), p. 1634.
164
35
La Commissione si avvalse anche di alcuni consulenti esterni per svolgere compiti sia
nuovi, come per esempio l‟informatizzazione dell'archivio, che vecchi, come la verifica
dell'attuazione della legislazione esistente; ed erano sempre consulenti esterni quelli che
svolgevano un
lavoro sui
controlli amministrativi
e sul
versante sociale,
sull‟organizzazione di forum e sulla gestione dei rapporti con l'estero.
Del nutrito gruppo dei collaboratori esterni c‟era chi svolgeva un lavoro a tempo pieno,
come il dottor Pocci, il dottor Di Lello e il tenente Pizzurro (a questo gruppetto si
aggiunse successivamente anche Fernanda Torres, con il compito di organizzare i
forum); chi a tempo parziale come il dottor Mandoi, il dottor Rossi, il dottor Pennisi, il
dottor Berrione della Banca d‟Italia e il dottor Colombo. Quest‟ultimo, essendo il
Sostituto Procuratore della Repubblica di Milano e conducendo in prima persona le
indagini sulle tangenti di Milano, creò qualche perplessità all‟interno della
Commissione antimafia, tanto da far pervenire una lettera, da parte del senatore Frasca
del Psi, all‟indirizzo del presidente Violante per chiedere spiegazioni in merito alla sua
nomina167. Si palesava come uno spettro la paura che incuteva la magistratura in
particolare all‟interno quei partiti - socialista e democristiano in primis - che nel biennio
„92-„94 vennero investiti dal ciclone Tangentopoli.
C‟erano anche consulenti che offrivano una collaborazione part-time: in questo gruppo
erano compresi il dottor Pietro De Franciscis e il dottor Giuseppe Cogliando della Corte
dei conti. Per quanto riguardava invece la collaborazione di personale esterno che
collaborava ai vari gruppi di lavoro, erano stati nominati, sempre con una
collaborazione part-time, per il gruppo coordinato dal deputato Riggio i professori
Sabino Cassese, Guido Corso, Ignazio Portelli; per il gruppo di lavoro coordinato dal
deputato D'Amato i professori Luciano Sommella e Francesco Sidoti; per il gruppo di
lavoro coordinato dal senatore Calvi il professor Crescenzo Fiore; e infine, per il gruppo
di lavoro coordinato dal deputato Scotti il generale Ramponi, ex comandante generale
della Guardia di finanza. Chiudevano il quadro dei consulenti e dei collaboratori il
prefetto Guido Nardone, il dottor Carlo Notaro, il dottor Pietro Grasso e il dottor
Giannicola Sinisi, che collaborando direttamente con la Commissione antimafia erano
Cfr. Commissione parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni
criminale similari, Verbale XXVII (Esame della relazione sulle risultanze del Forum con le direzioni
distrettuali antimafia, alla presenza del ministro di grazia e giustizia, professor Giovanni Conso), p.
1358.
167
36
stati nominati dal ministro dell'interno i primi due, e dal ministro di grazia e giustizia i
secondi168.
In diciassette mesi di attività la Commissione Violante produsse dodici relazioni,
realizzò tre forum, si adoperò per la creazione di uno spazio internazionale antimafia e,
come aveva già fatto la Commissione Chiaromonte in precedenza, avanzò proposte
legislative ed amministrative.
Tuttavia l'incisivo lavoro per l'adeguamento delle leggi alle specifiche caratteristiche del
fenomeno mafioso svolto dalla precedente Commissione durante la X legislatura,
consentiva alla Commissione presieduta da Violante di non considerare più la questione
legislativa come assolutamente prioritaria nella determinazione dei mezzi idonei a
contrastare le organizzazioni mafiose. Da questo punto di vista prioritari apparivano
invece la completa applicazione delle leggi antimafia e il coerente funzionamento della
pubblica amministrazione.
Per questi motivi la Commissione si preoccupò più di razionalizzare un sistema
legislativo che si evolveva giorno dopo giorno disordinatamente e che produsse nel giro
di dieci anni più di 160 leggi in materia penale - 20 delle quali specificamente destinate
alla criminalità mafiosa169. A volte però la proposta di nuove leggi, formulata senza aver
approfondito le ragioni per le quali non avevano funzionato le precedenti, faceva
derivare alcuni gravi inconvenienti: non sempre la nuova legge riusciva a conseguire gli
effetti per i quali era stata progettata. Tutto questo portò la IV Commissione antimafia a
occuparsi principalmente del controllo e del funzionamento delle leggi esistenti,
proponendo, dove si avvertiva il bisogno, quelle correzioni opportune per il corretto
funzionamento della legge, riprendendo per alcuni versi alcune caratteristiche proprie
della Commissione Alinovi. Come nel caso della proposta dell‟istituzione dei tribunali
distrettuali antimafia, o dell‟allargamento dell‟ipotesi di reato di riciclaggio170.
Un‟iniziativa del tutto nuova rispetto alle precedenti Commissioni antimafia riguardò
invece i forum. Si trattava di colloqui con specialisti e con operatori dei diversi settori,
con lo scopo di approfondire temi specifici di particolare rilievo. Il primo forum svolto
il 20 novembre del 1992, introdotto dal presidente del Senato Spadolini, vide il
confronto tra il capo della polizia Vincenzo Parisi, il presidente del Bundeskriminalamt
168
Sul resoconto dei vari collaboratori si veda ivi, pp. 1358-60.
Per un approfondimento di tutte le proposte di legge o di modifica delle norme che regolano la
giustizia proposte dalla Commissione antimafia rimando a Prima relazione annuale, relatore onorevole
Luciano Violante, cit., pp. 12 sgg.
170
Ibidem..
169
37
Hans Ludwing Zachert, il capo della polizia spagnola Manuel Reverte de Montagud e il
responsabile della polizia francese Jacques Poinas171.
Il secondo forum si tenne il 5 febbraio del 1993, in quest‟occasione il confronto fu tra i
magistrati della Procura nazionale antimafia, della procure distrettuali e componenti del
gruppo di lavoro del Consiglio superiore della magistratura. L‟incontro fu incentrato
sullo stato della criminalità organizzata, sui risultati conseguiti dalla lotta al crimine
organizzato, dei rapporti tra i vari organismi giudiziari e tra questi e la polizia
giudiziaria172. Il terzo ed ultimo forum svoltosi tra il 14 e il 15 maggio fu destinato
all‟esame dei rapporti tra economia e criminalità. In quest‟occasione parteciparono
autorità ed esperti in materia sia italiani che stranieri173.
Come già accennato in precedenza, la Commissione approvò dodici relazioni, alcune
erano una sorta di raccolta dei lavori svolti all‟interno dei vari forum, come nel caso
della relazione Indicazioni per un’economia libera dal crimine, altre furono frutto di
sopralluoghi, di indagini settoriali, di accertamenti diretti ottenuti tramite le deposizioni
dei vari pentiti, fatto nuovo se confrontato alle attività delle precedenti relazioni. Infatti
era la prima volta che una Commissione antimafia ascoltava dei collaboratori di
giustizia e li utilizzava come fonte per le proprie relazioni. Aspetto, questo, che mostra
la distanza che separava la Commissione Violante da quella presieduta appena una
legislatura prima da Chiaromonte. Quest‟ultimo si oppose sempre all‟utilizzo dei
collaboratori di giustizia per non sconfinare in campi dove già operava un‟altra
istituzione; risultava altresì chiaro il rifiuto di fare della Commissione un organo
Per un approfondimento dei temi discussi sul forum rimando a Indicazioni per un’economia libera dal
crimine, relatore onorevole Luciano Violante, XI legislatura, doc. XXIII, n. 4, Roma, Stabilimenti
tipografici Colombo, 1993.
172
Cfr. Relazione sulle risultanze del forum promosso il 5 febbraio dalla commissione parlamentare
antimafia con la direzione nazionale antimafia, con le direzioni distrettuali e con il gruppo di lavoro per
gli interventi del CSM nelle zone colpite dalla criminalità, relatore senatore Massimo Brutti, X
legislatura, doc. XXIII, n. 1, Roma,Stabilimenti tipografici Colombo, 1993 .
173
Il forum venne suddiviso in tre sessioni di intervento. Per la prima sessione, Mafia e dinamiche
economiche, parteciparono: Armando D‟Alterio (Sostituto Procuratore della Repubblica di Napoli), Alda
Becchi ( università di Venezia), Mauro Cappelli (DIA), Sabino Cassese (Università di Roma), Luigi
Marini (Sostituto Procuratore della Repubblica di Torino), Vittorio Coda (Università Bocconi), Giovanni
Maria Flick ( Università Luiss), Stefano Zamagni (Università di Bologna). Per la seconda sessione,
Analisi ed esperienze di settori: Fabrizio Barca (Banca d‟Italia), Mario Bessone (Consob), Alberto Pera
(Antitrust), Mario Mori (Ros), Alessandro Pansa (Sco), Luca Pistorelli (Sostituto Procuratore della
Repubblica di Trapani), Ernesto Savona (Università di Trento), Hans Blommestein (Ocse), Raniero Vanni
d‟Archirafi (Cee), Gunter Klaus Haendly ( Amasciata RFT), Andrea Malusardi (Gafi), Gianni Billia
(Ministero delle Finanze), Salvatore Chiri (Banca d‟Italia), Pierantonio Ciampicali (Uic), Francesco
Petrarca ( Guardia di finanza). Per la terza sessione, Regole ed indirizzi: Amartya K. Sen ( Università di
Harvard), Paolo Bernasconi (Università di Zurigo), Michael De Feo (Ambasciata USA), Mark Findlay
(Università di Sidney), Luigi Abete (Presidente di Confindustria), Donatella Turtura (Cnel).
171
38
inquirente, sostitutivo o concorrenziale alla magistratura174 - pensiero distante anni luce
da quello del suo successore alla guida della Commissione antimafia.
Oltre alla relazione sui rapporti tra mafia e politica, che verrà analizzata nei successivi
capitoli, molto interessante appare, senza con questo voler sminuire i restanti lavori
della Commissione, la relazione sulla camorra, approvata dalla Commissione antimafia
in data 21 dicembre 1993175.
La relazione sulla camorra, come in precedenza quella su mafia e politica, non si limitò
a indagare su manifestazioni criminose; sul documento infatti veniva affrontato anche il
problema del comportamento dei vari poteri pubblici, e di quello politico anzitutto.
A un nutrito gruppo di commissari del gruppo Dc della Commissione parlamentare
antimafia non piacque la relazione presentata da Violante. Il voto contrario veniva
motivato, nella seduta del 21 dicembre 1993, dal deputato Vincenzo Sorice che
sosteneva che l‟indagine svolta su fatti all‟attenzione della magistratura e l‟utilizzo per
la relazione di documenti, forniti appunto dalla magistratura, attinenti a procedimenti
ancora nella fase delle indagini preliminari, portavano la Commissione sul terreno
giudiziario, con la conseguente influenza che ne poteva derivare atta a influenzare
procedimenti in corso176.
La Dc faceva quadrato attorno alla figura di Antonio Gava, con una difesa molto più
massiccia di quella dispiegata a favore di Giulio Andreotti quando venne discussa la
relazione sui rapporti tra mafia e politica177. Tuttavia anche in questo caso il fronte Dc
in seno alla Commissione, come già in precedenza per Andreotti, non rimase compatto,
e al gruppo dei contrari alla relazione si contrappose la fazione dei favorevoli e degli
astenuti.
174
Per una panoramica del pensiero di Gerardo Chiaromonte rimando a G. Chiaromonte, I miei anni
all’Antimafia, cit.
175
Cfr. Relazione sulla camorra, relatore onorevole Luciano Violante, XI legislatura, doc. XXIII, n. 12,
Roma, stabilimenti tipografici Colombo, 1993. Si veda anche O. Barrese (a cura di), Camorra, politica,
pentiti: atti della Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia, la relazione del
presidente Luciano Violante, le deposizioni di Pasquale Galasso e Salvatore Migliorino, le accuse della
magistratura contro otto parlamentari, prefazione di Antonio Riboldi, Rubettino, Soveria Mannelli,
1994.
176
Cfr. Commissione parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni
criminale similari, Verbale LXXXI (Seguito della discussione e approvazione della relazione sulla
camorra), intervento di V. Sorice, pp. 3330-33.
177
Per seguire il dibattito che si generò sulla posizione del senatore Antonio Gava rimando ai verbali
della Commissione antimafia sulla Discussione della relazione sulla camorra: LXXV, LXXVI, LXXVII,
LXXIX e LXXXI.
39
Il senatore Paolo Cabras, vicepresidente della Commissione antimafia, pur
manifestando alcune perplessità sulle parti relative alla questione del Mezzogiorno, votò
a favore, tirando una stoccata alle critiche sollevate dal suo stesso partito:
Dichiaro che voterò a favore della relazione perché condivido l'analisi
e la descrizione della natura, dell'evoluzione e dell'influenza della
camorra a Napoli e in Campania. Credo sia questo il nucleo
sostanziale del documento oggi sottoposto al nostro giudizio.
Condivido altresì l'intensità, direi drammatica, dell'allarme lanciato
nella relazione e riferito a quella che ho definito come degenerazione
sistemica. Credo, infatti, che tale definizione sia sufficientemente
rappresentativa del livello di pericolo, che è pari alla vastità e
all'invadenza della camorra nella vita sociale, economica e delle
istituzioni in genere, quindi non solo di quelle politiche178.
Inoltre Cabras ribadiva che per una Commissione d‟inchiesta fosse inevitabile il
riferimento a vicende oggetto di indagine giudiziaria, anche in ragione della lunga
durata dei processi179. Un altro membro della Dc, il senatore Alberto Robol, non
espresse il voto; con la sua astensione il senatore intendeva dare un segnale esplicito di
cambiamento180.
Per motivi diametralmente opposti alla Dc, la relazione ebbe anche il voto contrario dei
commissari del Msi. Il senatore Michele Florino sosteneva che la proposta di relazione
non trattava in modo adeguato l‟inquinamento di alcuni settori, escludendo volutamente
le responsabilità della magistratura che pure si era resa responsabile181.
Oltre alle relazioni sulla mafia e sulla camorra, la Commissione presentò dei lavori sulla
diffusione della criminalità organizzata in altre parti d‟Italia. In questo caso l‟intento era
quello di iniziare una lotta a tutto campo verso quelle forme di mafia concentrate in
zone non tradizionali182. Infatti, era un fatto risaputo la presenza delle organizzazioni
mafiose, camorristiche e della „ndrangheta anche in zone del Centro-Nord e i vari
collaboratori lo confermavano. L‟intento della Commissione era quello di evitare che
comunque l‟attacco delle istituzioni fosse rivolto solamente verso quei punti caldi, come
Sicilia, Campania, Calabria e Puglia, sfatando sia il falso mito delle “isole felici”, che la
Cfr. Commissione parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni
criminale similari, Verbale LXXXI (Seguito della discussione e approvazione della relazione sulla
camorra), intervento di P. Cabras, p 3344.
179
Ibidem.
180
Ivi, intervento di, A. Robol, pp. 3344-45.
181
Ivi, intervento di M. Florino, pp. 3337-39.
182
A tal proposito si veda Relazione sulle risultanze delle attività del gruppo di lavoro incaricato di
svolgere accertamenti su insediamenti e infiltrazioni di soggetti ed organizzazioni di tipo mafioso in aree
non tradizionali, relatore senatore Carlo Smuraglia, XI legislatura, doc. XXIII, n. 11, Roma, stabilimenti
tipografici Colombo, 1994.
178
40
convinzione che la mafia al Nord non esisteva essendo un sottoprodotto del
Mezzogiorno. Anche per la Calabria183 e la Puglia184 furono pubblicati dei lavori, anche
se il risultato non è paragonabile alle relazioni su mafia e camorra - infatti, tesero a
inquadrare il problema solo a livello generale.
La Commissione svolse anche dei lavori più settoriali come quello sulle
amministrazioni comunali disciolte nelle regioni meridionali185 o quella sull‟edilizia
scolastica di Palermo186. Quest‟ultima appariva ben impostata e mostrava uno spaccato
molto inquietante su quello che era la realtà cittadina, con strutture scolastiche fatiscenti
e che spesso erano di proprietà di mafiosi. La Commissione antimafia dava prova di
grande abilità nel proporre uno sviluppo di repressione che coinvolgesse tanto la
repressione delle organizzazioni criminali quanto un‟antimafia diretta a riallacciare un
rapporto di fiducia con lo Stato. Il motto portato avanti da Violante era: «l‟antimafia dei
delitti deve essere accompagnata permanentemente dall‟antimafia dei diritti»187.
Vennero anche presentate due relazioni su due città siciliane, Barcellona Pozzo di
Gotto188 e Gela189, a seguito della visita che una delegazione della Commissione
antimafia aveva svolto nelle due cittadine dopo gli omicidi del giornalista Giuseppe
Alfano, insegnante e corrispondente per la città di Barcellona del quotidiano «La
Sicilia», e del commerciante Gaetano Giordano, che aveva denunciato le estorsioni
subite e l‟imposizione del “pizzo” da parte dei gruppi mafiosi di Gela190.
Si tende spesso a dimenticare tutto il lavoro svolto dalla Commissione in quei
diciassette mesi di attività, periodo nel quale la Commissione si riunì ben ottantanove
volte, visitando quarantatre località191, ascoltando complessivamente quasi duemila
183
Cfr. Relazione sulla situazione della criminalità in Calabria, relatore senatore Paolo Cabras, XI
legislatura, doc. XXIII, n. 8, Roma, stabilimenti tipografici Colombo,1993.
184
Cfr. Relazione sulla situazione della criminalità organizzata in Puglia, relatore senatore Alberto
Robol, XI legislatura, doc. XXIII, n. 7, Roma, stabilimenti tipografici Colombo, 1993.
185
Cfr. Relazione sulle amministrazioni comunali disciolte in Campania, Puglia, Calabria e Sicilia,
relatore senatore Paolo Cabras, XI legislatura, doc. XXIII, n. 5, Roma, stabilimenti tipografici Colombo,
1993.
186
Cfr. Relazione sullo stato dell’edilizia scolastica a Palermo, relatore onorevole Luciano Violante, XI
legislatura, doc. XXIII, n. 6, Roma, stabilimenti tipografici Colombo,1993.
187
Ivi, p. 6.
188
Cfr. Relazione sulla visita effettuata dalla commissione parlamentare sul fenomeno della mafia a
Barcellona Pozzo di Gotto in data 23 gennaio 1993, relatore onorevole Luciano Violante, XI legislatura,
doc. XXIII, n. 3, Roma, stabilimenti tipografici Colombo, 1993.
189
Cfr. Relazione sulla visita effettuata a Gela dalla commissione parlamentare sul fenomeno della mafia
in data 13 novembre 1992, relatore onorevole Luciano Violante, XI legislatura, doc. XXIII, n. 10, Roma,
stabilimenti tipografici Colombo, 1993.
190
Ivi, p. 9.
191
Per l‟elenco delle località si veda Relazione conclusiva, relatori onorevole Luciano Violante,senatore
Paolo Cabras, senatore Maurizio Calvi, senatore Giovanni Carlo Acciaro, onorevole Gaetano Grasso,
41
persone – 1810 per l‟esattezza. Il tutto avvenne in un contesto carico di tensione e di
mutamenti, che accentuò la risonanza dei lavori di questa Commissione, facendo
discutere molto sui giornali, coinvolgendo tanto il mondo politico quanto l‟opinione
pubblica, specie con le seguitissime audizioni dei collaboratori di giustizia192. Queste
ultime forniranno la base per la relazione sui rapporti tra mafia e politica il documento
più discusso e controverso figlio di una Commissione antimafia immersa nel marasma
politico-istituzionale degli ultimi anni prima Repubblica.
senatore Ivo Buttini, onorevole Antonio Borgone, XI legislatura, doc. XXIII, n. 14, Roma, stabilimenti
tipografici Colombo, 1994, p. 14.
192
Per un riscontro delle dichiarazione dei vari collaboratori di giustizia rimando ai verbali della
Commissione antimafia e nello specifico: Verbale XI, Audizione del collaboratore di giustizia Antonino
Calderone; Verbale XII, Audizione del collaboratore di giustizia Tommaso Buscetta; Verbale XV,
Audizione del collaboratore di giustizia Leonardo Messina; Verbale XXV, Audizione del collaboratore di
giustizia Gaspare Mutolo; Verbale LI, Audizione del collaboratore di giustizia Pasquale Galasso;
Verbale LVI, Audizione del collaboratore di giustizia Salvatore Annacondia.
42
II.3 Biografia di un presidente
Luciano Violante è nato nel 1941 a Dire Daua, in Etiopia, in un campo di
concentramento inglese. Il padre era un giornalista comunista confinato in Africa dal
regime fascista, la madre, un donna ebraica milanese, lo portò a conoscere il padre dopo
la sua scarcerazione: «Mio padre l‟ho conosciuto quando avevo cinque anni, me lo
presentarono il giorno di Pasqua del 1946. Alla stazione»193.
Violante trascorse la giovinezza in Puglia, tra Rutigliano e Bari; qui intraprese gli studi
universitari alla facoltà di giurisprudenza e furono questi gli anni in cui conobbe e
divenne assistente di Aldo Moro. Poi giunse l‟entrata in magistratura, e in Magistratura
democratica – corrente di sinistra dell‟Anm194.
Agli anni Sessanta risale il trasferimento a Torino, assieme alla moglie - «con mia
moglie, nel 1968 eravamo la prima coppia di magistrati sposati»195; proprio quella città
vide nascere il Violante magistrato: la prima condanna fu inflitta a un giovane che
«aveva detto piciu (fesso) a un vigile»196.
Il 1974 è un anno cruciale nella biografia di Violante magistrato, poiché si concludeva
proprio allora l‟inchiesta sul cosiddetto “Golpe bianco”197 - un tentativo di colpo di
Stato tramato da Edgardo Sogno, partigiano, monarchico, diplomatico, antifascista e
anticomunista. Violante, in quell‟occasione, fece arrestare Sogno, assieme Randolfo
Pacciardi, ex partigiano e politico repubblicano, e Luigi Cavallo, giornalista ed ex
partigiano, ritenuto da Violante la mente del golpe198. Tuttavia l‟istruttoria si concluse
col proscioglimento degli imputati – nel 2000 lo stesso Sogno affermò che il complotto
c‟era stato eccome, ma sarebbe scattato solo se i comunisti avessero preso il potere199.
Da quell‟inchiesta iniziò l‟avvicinamento alla politica di Violante:
La segreteria provinciale di Torino mi propose di candidarmi nel
1976, subito dopo il processo a Edgardo Sogno. Io ero incerto, ma un
193
http://cinquantamila.corriere.it/storyTellerThread.php?threadId=VIOLANTE+Luciano, ultima
consultazione 5 giugno 2014.
194
M. Palombi e M. Travaglio, Carriera e mutazioni di un participio presente, in «MicroMega», n. 7,
2013, pp. 15-38, precisamente p. 17.
195
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consultazione 5 giugno 2014.
196
M. Palombi e M. Travaglio, Carriera e mutazioni di un participio presente, cit., p. 17.
197
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consultazione 5 giugno 2014.
198
Ibidem.
199
M. Palombi e M. Travaglio, Carriera e mutazioni di un participio presente, cit., p. 17.
43
giorno, mentre ero a casa, squillò il telefono. Era Enrico Berlinguer,
che mi chiese cosa avessi intenzione di fare. Io esposi i miei dubbi e
gli dissi di propendere per il no. Bene, mi rispose, se mi avesse detto il
contrario l‟avrei invitata a ripensarci, perché il consenso acquisito con
il processo avrebbe potuto essere strumentalizzato200.
Ma il momento venne solo posticipato di tre anni, e nel 1979 prese la tessera del Partito
comunista sotto l‟ala di uno dei padri del Pci torinese, Ugo Pecchioli, il “ministro
ombra” dell‟Interno di Berlinguer201. In quegli anni Violante iniziò a occuparsi di
terrorismo prima, e mafia poi, sotto la supervisione di Pecchioli, lavorando alla sezione
Problemi dello Stato del Pci. Sul finire degli anni Ottanta, seguì le decisioni del suo
partito, partecipando a quella guerriglia mediatica contro il pool antimafia di Palermo, e
contro Giovanni Falcone in primis. E quando Antonino Caponnetto, nel marzo 1988,
lasciò l‟incarico, sicuro che il posto sarebbe spettato a Falcone, arrivò la decisione del
Csm che virò su Antonino Meli, membro più anziano ma esterno al pool. In
quell‟occasione si disse che fu determinante il no delle correnti di sinistra in seno alla
magistratura202; la mancata nomina di Giovanni Falcone a giudice istruttore fu il primo
colpo sferrato dal Pci, la “guerra” la proseguì poi il suo alterego, il Pds.
Il partito di Achille Occhetto vedeva, in quel momento, la possibilità di mettere alle
strette la Dc, con Andreotti in testa, proprio per i suoi presunti rapporti con la mafia.
Violante in seguito alle dichiarazioni rilasciate dal collaboratore di giustizia Pellegriti al
Pm di Bologna Libero Mancuso commentava: «siamo vicini a una verità pericolosa che
può squarciare il sipario che sino ha nascosto gli assassinii di Palermo»203. Pellegriti,
infatti, aveva reso delle dichiarazioni pesanti contro Andreotti e Lima, rei di essere i
mandanti dell‟omicidio di Piersanti Mattarella. Tuttavia l‟intervento del giudice
Falcone, che dopo aver interrogato il pentito intuì che le sue dichiarazioni erano risultate
false204, smontò la tesi accusatoria della sinistra nei confronti del massimo esponente
Dc.
200
http://cinquantamila.corriere.it/storyTellerThread.php?threadId=VIOLANTE+Luciano, ultima
consultazione 5 giugno 2014.
201
P. Graldi, Pecchioli: inefficienti nella prevenzione, «Corriere della Sera», 29 maggio 1993.
202
Cfr. G. Chiaromonte, I miei anni all’Antimafia, cit., pp. 77-89.
203
Intervista di Luciano Violante in «L‟Unità», agosto 1989; cit. in M. Palombi e M. Travaglio, Carriera
e mutazioni di un participio presente, cit., p. 19.
204
G. Falcone, Cose di Cosa nostra, cit., p. 69.
44
In tal modo Falcone si era tirato addosso le accuse di un intero partito 205, con Violante
in testa, a cui si aggiunsero le pesanti critiche di Leoluca Orlando, che accusava il
giudice di tenere i nomi nel cassetto206.
Dopo una prima parentesi all‟antimafia sotto la presidenza Chiaromonte, durante la X
legislatura, nell‟XI legislatura Violante venne eletto presidente della stessa.
L‟affidamento della presidenza della Commissione parlamentare antimafia, istituita nel
luglio „92 dopo le stragi di Capaci e via D‟Amelio, a Violante generò più di una
perplessità. Chiaromonte, che per motivi di salute dovette lasciare, si disse contrario,
riservatamente e all‟interno del suo partito207. Violante era stato il coordinatore della
politica giudiziaria del Pci, ora divenuto Pds, ed era stato assai critico con Falcone,
prima per la scelta di spostarsi al ministero e in seguito, nell‟ultimissima fase della vita
del giudice, a proposito della creazione della figura del procuratore nazionale
Antimafia, ruolo a cui Falcone era candidato208.
Luciano Violante gestì il compito di guidare la Commissione antimafia con grande
determinazione e indubbie capacità. Sotto la sua presidenza ci fu una novità clamorosa:
l‟audizione di alcuni pentiti. La questione aveva un profilo non trascurabile ma
sostanzialmente di forma. Un mafioso, come tale condannato, per la prima volta
prendeva la parola in un‟aula parlamentare. A molti parve un‟innovazione discutibile, a
qualcuno un fatto inaudito. Ma forse non fu questo il problema principale. Con
audizioni di questo tipo la Commissione antimafia diventava simile, di fatto, a un‟aula
di giustizia, e se questo era un rischio insito in ogni commissione d‟inchiesta con poteri
di autorità giudiziaria, in quel caso la possibilità di uno slittamento di quel tipo si
accentuava. Nel caso delle audizioni dei pentiti scelti da Violante ci fu però un ulteriore
aggravante: il presidente pretese l‟esclusiva dell‟interrogatorio che naturalmente rimase
vincolato dalle esigenze dei pubblici ministeri che disponevano per primi delle
dichiarazioni dei pentiti per le loro indagini209.
G. Chiaromonte, I miei anni all’Antimafia, cit., p. 83.
Ibidem.
207
M. Bordin, L’Antimafia delle nebbie, «Il Foglio Quotidiano», 27 ottobre 2013.
208
M. Palombi e M. Travaglio, Carriera e mutazioni di un participio presente, cit., p. 19.
209
Per un riscontro sulle modalità con cui furono tenute le audizioni dei vari collaboratori di giustizia
rimando ai verbali della Commissione antimafia: Verbale XI, Audizione del collaboratore di giustizia
Antonino Calderone; Verbale XII, Audizione del collaboratore di giustizia Tommaso Buscetta; Verbale
XV, Audizione del collaboratore di giustizia Leonardo Messina; Verbale XXV, Audizione del
collaboratore di giustizia Gaspare Mutolo; Verbale LI, Audizione del collaboratore di giustizia Pasquale
Galasso; Verbale LVI, Audizione del collaboratore di giustizia Salvatore Annacondia.
205
206
45
Ai membri della Commissione, in seguito alle proteste del radicale Taradash210,
Violante concesse al massimo di procedere col vecchio rito di udienza: i commissari
ponevano a lui le domande e dopo, se lo riteneva opportuno e se le domande non erano
compromettenti ai fini dell‟inchiesta in corso, venivano rivolte al suo interlocutore,
riservandosi un ruolo di totale controllo dell‟interrogatorio.
L‟audizione chiave fu quella di Buscetta, tornato appositamente dall‟America per
deporre davanti ai magistrati siciliani sul rapporto fra mafia e politica. Buscetta dopo
essersi rifiutato di farlo negli anni Ottanta, rivelava scenari politici suggestivi,
coinvolgendo Salvo Lima e chi stava sopra Lima, Giulio Andreotti. Il pentito parlerà di
entità riferendosi al senatore, anticipando lo scoop a un giornalista, Francesco La Licata,
che raccontava in premessa al lettore quanto l‟intervista fosse stata casuale. Mentre era
in un ristorante gli era capitato di notare quanto somigliasse a Buscetta un tizio che
mangiava a un altro tavolo. Scoperto che era proprio lui, gli aveva proposto
un‟intervista, prontamente accettata dal pentito211. I commissari, già seccati dal
duplicato giornalistico, poterono notare come nel lessico del pentito fosse comparso un
nuovo misterioso termine: “l‟entità”, una sorta di ombra misteriosa, chiamata a
rappresentare l‟interfaccia politica di Cosa nostra. Durante l‟audizione fu Cafarelli a
rompere gli indugi, subito sedato da Violante, ma in quell‟occasione Buscetta glissò
sull‟argomento:
Cafarelli:. Possiamo capire "l'entità"? A cosa si riferisce, nella scala
gerarchica, quando parla dell'entità che prima aveva deciso e poi
aveva deciso di non farlo?
Presidente:. Soprassiederei a questa domanda.
Buscetta:Forse l'onorevole Cafarelli vuole sapere l'entità di Cosa
nostra che aveva deciso questo? L'entità politica no! Però, se parliamo
di entità di Cosa nostra, posso dirlo benissimo: la commissione212.
Se non proprio il famoso “terzo livello”, qualcosa che gli si avvicinava molto. Durante
l‟audizione, anche grazie alle domande del presidente Violante, si poteva facilmente
comprendere che “l‟entità” aveva un nome e un cognome. Il nome era Giulio e il
cognome Andreotti.
Commissione parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminale
similari, Verbale XII (audizione del collaboratore della giustizia Tommaso Buscetta) intervento di Marco
Taradash, passim.
211
M. Bordin, L’Antimafia delle nebbie, cit.
212
Commissione parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminale
similari, Verbale XII, cit., p. 358.
210
46
Il processo all‟uomo più influente della Dc era ormai lanciato e se proprio non si può
dire che il via sia stato dato nell‟aula di Palazzo San Macuto, si può certamente
affermare che la volontà della Commissione, o per meglio dire di Violante, fu quella di
dare un pieno sostegno all‟inchiesta di Caselli213.
La carriera politica di Violante partita dal 1979 proseguì con un crescendo; fu eletto e
riconfermato più volte alla Camera (nel 1979, 1983, 1987, 1992, 1994, 1996, 2001,
2006) passando dal Pci al Pds e ai Ds.
L‟esperienza da presidente della Commissione antimafia si concluse dopo alcune
presunte dichiarazioni di Violante che svelavano un‟indagine a carico di Marcello
Dell‟Utri da parte della Procura di Catania. La notizia riportata sui giornali dette
l‟impressione di una utilizzazione decisamente impropria del ruolo di presidente da
parte di Violante, il quale pur continuando a smentire l‟accaduto decise di dimettersi per
fugare ogni dubbio sul suo comportamento214.
Gli anni di Mani pulite lo videro schierato sul fronte dell‟inchiesta, ma rimase deluso
per come si concluse la pulizia politica che aveva quasi spianato la strada al successo
del Pds, e che invece favorì Berlusconi e il suo centro-destra: «Quando scoppiò Mani
pulite, noi del Pds pensavamo che il problema riguardasse solo gli altri, che non
toccasse anche noi e che bastasse attendere e il frutto maturo sarebbe caduto. In realtà il
frutto maturò e cadde, ma a coglierlo fu Berlusconi»215.
Tuttavia con l‟affidamento del timone della Commissione antimafia aveva ottenuto
finalmente un posto in prima fila nella politica che contava, e sfruttando l‟onda di
notorietà venne eletto presidente della Camera durante la XIII legislatura., dal ‟96 al
2001.
Nel 2002 sembrò quasi cambiare rotta, complice uno sconcertante discorso alla Camera
durante il quale Violante rispondeva all‟accusa del berlusconiano Anedda di voler
espropriare Berlusconi:
Io sono d‟accordo con Massimo D‟Alema: non c‟è un regime sulla
base dei nostri criteri. Però, amici e colleghi, se dovessi applicare i
vostri criteri, quelli che avete applicato voi nella scorsa legislatura
Per seguire il ragionamento su cui si basò l‟accusa si veda S. Montanaro, S. Ruotolo (a cura di), La
vera storia d’Italia: interrogatori, testimonianze, riscontri, analisi: Giancarlo Caselli e i suoi sostituti
ricostruiscono gli ultimi vent’anni di storia italiana, Tullio Pironti, Napoli, 1995.
214
Cfr. G. D‟Avanzo, Violante si è dimesso “Non cado nel tranello”, «la Repubblica», 23 marzo 1994; F.
Verderami, Violante, dimissioni al veleno, «Corriere della Sera», 24 marzo 1994; A. Sciacca, da Catania
si insiste sul “no comment”, «Corriere della Sera», 24 marzo 1994.
215
http://cinquantamila.corriere.it/storyTellerThread.php?threadId=VIOLANTE+Luciano, ultima
consultazione 5 giugno 2014.
213
47
contro di noi, che non avevamo fatto una legge sul conflitto di
interessi, non avevamo tolto le televisioni all‟onorevole Berlusconi …
Onorevole Anedda, la invito a consultare l‟onorevole Berlusconi
perché lui sa per certo che gli è stata data la garanzia piena, non
adesso, nel 1994, quando ci fu il cambio di governo, che non
sarebbero state toccate le televisioni. Lo sa lui e lo sa l‟onorevole
Letta... Voi ci avete accusato di regime nonostante non avessimo fatto
il conflitto d‟interessi e avessimo dichiarato eleggibile Berlusconi
nonostante le concessioni... Durante i governi di centrosinistra il
fatturato di Mediaset è aumentato di 25 volte!216
Dal discorso tenuto il 28 febbraio 2002 alla Camera sembrò quasi che Violante fosse
passato dall‟inquisizione a fare da garantista. Apparivano ormai distanti gli anni della
Commissione antimafia.
La carriera politica infine si concludeva, dopo aver aderito al Pd, nel 2008, quando
prese la decisione di non candidarsi più: «Lascio il Parlamento dopo 29 anni, mi
sembrano tanti. L‟ho detto: sono durato qui dentro più di quanto durò il fascismo»217.
Il 30 marzo 2013 Luciano Violante è stato nominato da Giorgio Napolitano tra i dieci
componenti dei due gruppi di lavoro incaricati di definire «proposte programmatiche»
utili alla formazione di un nuovo governo, entrando a far parte del gruppo di “saggi” al
lavoro sulle riforme istituzionali218.
216
http://www.youtube.com/watch?v=RSPs85eKP6o, ultima consultazione 5 giugno 2014.
http://cinquantamila.corriere.it/storyTellerThread.php?threadId=VIOLANTE+Luciano, ultima
consultazione 5 giugno 2014.
218
Ibidem; cfr. M. Palombi e M. Travaglio, Carriera e mutazioni di un participio presente, cit., p. 28.
217
48
II.4 Una nuova fonte: i pentiti
Le confessioni rese in sede di Commissione antimafia da parte dei collaboratori di
giustizia furono una delle fonti primarie su cui si basò la relazione sui rapporti tra mafia
e politica. Questa visione, tuttavia, era declinata dai diversi partiti in maniera
diametralmente opposta: se i gruppi di sinistra sottolineavano l‟utilizzo equilibrato di
queste dichiarazioni, l‟apporto delle testimonianze dei pentiti suscitò, del resto, non
poche polemiche in primis da parte democristiana219, secondo cui il documento si
basava in modo eccessivo sulle deposizioni dei collaboratori di giustizia.
L‟attacco era rivolto principalmente verso quei “teoremi”220 che minavano la credibilità
dei partiti e, più in generale, molte delle discussioni relative all‟approvazione del
documento finale ruotarono attorno all‟utilizzo di quanto era stato dichiarato dai
collaboratori di giustizia: fino a che punto era lecito far sì che le conclusioni a cui
doveva giungere la IV Commissione antimafia fossero influenzate dalle “valutazioni
politiche dei pentiti”221? Come valutarne l‟attendibilità? Come scongiurare la tendenza
all‟assunzione acritica di quanto veniva udito? Questi erano alcuni degli interrogativi
che andavano affrontati dal momento che, per la prima volta, una Commissione
antimafia si serviva dei pentiti (l‟unico precedente risaliva alla Commissione d‟inchiesta
sul caso Moro e sul terrorismo).
Per molti rappresentavano i portatori di quelle verità che per diversi anni erano rimaste
celate e che ora mettevano in evidenza i rapporti che legavano i due mondi: quello
legale e quello illegale; per altri non erano altro che “pupi” nelle mani di alcuni
magistrati con manie di protagonismo; altri ancora li vedevano come i continuatori di
quel meccanismo iniziato tra la fine degli anni Settanta e gli inizi degli anni Ottanta del
219
Si vedano le sedute di approvazione del testo di relazione, in particolare quella di mercoledì 31 marzo
1993 Verbale XXXV (Esame e votazione della relazione sui rapporti tra mafia e politica).
220
Si veda L. Sciascia, Prefazione a L. Jannuzzi, Così parlo Buscetta, Sugarco, Milano, 1986.
221
Rimando all‟intervento di Vincenzo Sorice già inserito all‟interno del paragrafo Discussioni sul testo;
il democristiano si esprimeva contro l‟utilizzo dei collaboratori di giustizia «Non entro nel merito
dell'attendibilità o meno dei pentiti, essendo la nostra una Commissione politica; sarà la magistratura a
dover definire l'attendibilità, la nostra è una valutazione politica. Tuttavia, non mi sento (è questo il
rischio che corre la relazione) di recepire acriticamente le valutazioni politiche e i teoremi dei pentiti,
perché senza accorgercene, rischiamo di farli nostri. Non credo che la Commissione possa farsi
influenzare politicamente dalle valutazioni politiche dei pentiti» in Commissione parlamentare d‟inchiesta
sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminale similari, Verbale XXXV, cit., intervento di
V. Sorice, p. 1649.
49
secolo scorso, che si ricollegava all‟esperienza del terrorismo politico e alla
collaborazione con la magistratura di alcuni appartenenti alla Brigate rosse222.
Il termine pentito teoricamente rimandava a una dimensione morale e ideologica, al
compimento di un percorso interiore che si realizzava attraverso la confessione e
l‟assunzione di responsabilità223, ma in realtà la collaborazione con le autorità non
comportava anche un corrispettivo pentimento sul piano interiore e morale.
Ha scritto Giovanna Montanaro: «La figura del pentito di mafia è stata a volte soggetta
a vere e proprie forme di rigetto sociale»224. Al contrario del pentitismo mafioso, il
pentimento dei brigatisti rossi e dei terroristi in generale era stato maggiormente
compreso perché ricollegato al rifiuto ideologico di un progetto politico eversivo225.
«Le enfatizzazioni dei media – ha sostenuto Salvatore Lupo – e la scarsa conoscenza
della storia della mafia non aiutano a comprendere il fenomeno del pentitismo»226.
Non sempre i risultati ottenuti dalle norme premiali227 vennero accettate, e si aprì un
grosso dibattito sulla loro moralità228. Le polemiche si rinnovarono in occasione del
maxiprocesso apertosi a Palermo nel febbraio del 1986, che vide portati in giudizio
centinaia di mafiosi. Fu in quel periodo che nel capoluogo siciliano si diffuse un clima
di ostilità generale verso i collaboratori di giustizia; a iniziare dai giornali, primo fra
tutti il maggiore quotidiano cittadino “Il Giornale di Sicilia”229, e proseguendo con una
parte del mondo accademico palermitano - Giovanni Tranchina, preside della facoltà di
Giurisprudenza, trattò i pentiti alla stregua di “spie e delatori” mettendo in discussione
la legittimità stessa di quel maxiprocesso230.
222
Cfr. S. Lupo, Alle origini del pentitismo: politica e mafia, in A. Dino (a cura di), Pentiti, Donzelli,
Roma, 2006, pp. 191-214; G. Montanaro, Pentitismo e pentiti, in Nuovo dizionario di mafia e antimafia (a
cura di M. Mareso e L.Pepino), EGA, Torino, 2008, p. 402.
223
V. Coco e M. Patti, Relazioni Mafiose. La mafia ai tempi del fascismo, XL, Roma, 2010, pp. 20-21.
224
G. Montanaro, Pentitismo e pentiti,cit., p. 403.
225
Ibidem.
226
S. Lupo, Storia della mafia, cit., p.296.
227
Il 29 maggio 1982 fu approvata la legge n. 304 (definita all‟epoca “legge per i pentiti”) che prevedeva
una serie di casi di non punibilità per varie forme di recesso da associazioni terroristiche, attenuanti di
pena per altri casi, benefici vari (libertà provvisoria, sospensione condizionale della pena etc.). In
particolare era prevista la riduzione di un terzo della pena per gli autori di reati di terrorismo che si
fossero dissociati e avessero reso piena confessione. A tal proposito rimando a G. Montanaro, Pentitismo
e pentiti, cit., pp. 402-13.
228
G. Montanaro, Pentitismo e pentiti, cit., p. 402.
229
Entra la Corte, silenzio, «Il Giornale di Sicilia», 10 febbraio 1986; Cfr. S. Lupo, Che cos’è la mafia,
cit., p. 19.
230
Ibidem..
50
A tal proposito va ricordato anche l‟intervento “di sapore antropologico”231 di Mauro
Mellini, avvocato e dirigente del Partito radicale, che si schierò contro il fenomeno del
pentitismo:
Non c‟è dubbio che nel codice d‟onore del mafioso il silenzio è
d‟obbligo e la collaborazione con le forze di polizia, con i giudici, con
la giustizia è semplicemente «infamia», che mette ogni individuo al
bando, fuori dal «patto» sociale mafioso. […] Oggi una legge dello
Stato, nel dare la definizione dell‟associazione di tipo mafioso (la
legge Rognoni-La Torre), inserisce, in un breve compendio di luoghi
comuni pseudo sociologici, più che giuridici, anche l‟affermazione
che l‟omertà «deriva» dal vincolo associativo. Essa riesce così solo a
dare la misura dell‟assurdità di voler definire per legge fenomeni
naturali, sociali, extragiuridici. In realtà l‟omertà non «deriva» dalla
mafia e dalle associazioni mafiose, ma semmai costituisce uno dei
fenomeni presenti nella società e negli ambienti in cui la mafia
alligna232.
Al di là delle varie prese di posizione pro e contro i pentiti, la figura del collaboratore di
giustizia era da sempre esistita nella storia della mafia, anche se, nel corso del tempo,
assunse caratteristiche, ruoli e nomi differenti (informatori, confidenti, testimoni,
pentiti)233.
«Che i mafiosi non parlino – sosteneva Pezzino – è poi uno dei miti derivanti dalla
diffusione del paradigma dell‟omertà e dall‟immagine di una mafia con rigide regole
morali: in realtà tutti i grossi processi di mafia, fin dall‟Ottocento, si sono basati su
testimonianze e denunce di mafiosi»234. Era infatti sufficiente leggere una sentenza
ottocentesca o dei primi anni del Novecento235 per ritrovare ampie tracce di
informazioni, nei rapporti di polizia, attribuite a «fonti attendibili, degne di piena fiducia
ma di cui non voglio né posso rivelare la natura»236. Si ritrovavano, poi, importanti
descrizioni della struttura organizzativa interna della mafia già a partire dal Rapporto
Sangiorgi, nel quale, grazie a informazioni confidenziali ricevute, vennero raccolti
231
Ivi, p.20.
M. Mellini, Il giudice e il pentito. Dalla giustizia dell’emergenza all’emergenza della giustizia,
Sugarco, Milano, 1986, p. 78, in S. Lupo, Che cos’è la mafia, cit., p. 20.
233
Gruppo Abele (a cura di), Dalla mafia allo Stato. I pentiti: analisi e storie, EGA Editore, Torino,
2006, p.33-34.
234
P. Pezzino, Una certa reciprocità di favori. Mafia e modernizzazione violenta nella Sicilia
postunitaria, Franco Angeli, Milano, 1990, pp. 152-53.
235
Fra i più noti: la setta degli Stuppagghiari a Monreale, la Fratellanza a Favara e nella provincia di
Agrigento, i Fratuzzi a Bagheria, l‟Oblonica a Girgenti, la Scattatiora di Sciacca, la Fontana Nuova di
Misilmeri, quella dello Zubbio di Villabate, dei Pugnalatori di Palermo, gli Sparatori a Messina e la setta
dello Scaglione a Castrogiovanni, in Gruppo Abele (a cura di), Dalla mafia allo Stato, cit., pp. 33-47.
236
S. Lupo, Andreotti la mafia, la storia d’Italia, Donzelli, Roma, 1996, pp. 69-70.
232
51
elementi necessari per portare in giudizio gli esponenti mafiosi dell‟agro palermitano, a
cominciare dal gruppo Giammona237.
Anche in epoca fascista si trovava traccia dei collaboratori di giustizia; in un verbale del
1938, redatto dall‟Ispettorato interprovinciale di Pubblica sicurezza per la Sicilia238, si
potevano leggere le ricostruzioni dell‟organizzazione mafiosa con uno sguardo “dal di
dentro”239. Infatti, le dichiarazioni dei pentiti degli anni Trenta sembravano quasi
anticipare di mezzo secolo le dichiarazioni rese dai vari collaboratori di giustizia del
maxiprocesso palermitano; veniva descritta sia la struttura dell‟organizzazione che oggi
conosciamo col nome di Cosa nostra, sia il rituale di affiliazione, anche se già
quest‟ultimo era conosciuto fin dal 1876240.
Nei primi anni Sessanta comparve sulla scena, sulla sponda statunitense, il primo
grande pentito della mafia americana: Joe Valachi241. Quando l‟ex-soldato di Cosa
nostra americana si decise a parlare, nel 1963, aveva 59 anni, 35 dei quali vissuti come
affiliato242. La testimonianza di Valachi contro Cosa nostra americana non fu dovuta
tanto a un pentimento interiore che lo aveva portato alla confessione, quanto alla
convinzione che il boss Vito Genovese avesse decretato la sua sentenza di morte243.
Sulla sponda italiana, in particolare siciliana, il primo collaboratore di giustizia del
dopoguerra fu Leonardo Vitale. Travagliato da una crisi mistica e di coscienza, il 30
marzo 1973 decise di rivolgersi spontaneamente alla squadra mobile di Palermo e
confessare tutto244. Dalle parole scritte da Vitale nel suo memoriale emergeva
chiaramente sia lo stato di profonda crisi personale che il totale ripudio della mafia e
237
Sulla famiglia Giammona cfr. S. Lupo, Storia della mafia, cit.
Sull‟Ispettorato di Pubblica sicurezza per la Sicilia si veda V. Coco e M. Patti, Relazioni mafiose, cit.
239
V. Coco e M. Patti, Relazioni mafiose, cit., p. 20.
240
Per la prima volta veniva descritto il rituale di affiliazione; ne dava notizia il questore Rastelli che
nella sua relazione del 1876, sulla cosca della borgata palermitana dell‟Uditore, guidata da Antonino
Giammona, descriveva così l‟atto:«Qualche puntura nel braccio e nella mano per fargli uscir sangue;
questo sanguie verrebbe asciugato con una immagine di Santo su carta che indi sarebbe abbrusciata nello
atto stesso che il nuovo ammesso giurerebbe rigoroso osservanza di fede. La cenere dell‟immagine
sarebbe poscia gettata in aria e dispersa quasi a simboleggiare lo annichilimento del traditore», Il
Questore Rastelli al Procuratore del Re, Palermo 29 febbraio s.a. (ma 1876), in Asp, PG serie I (18601905), b.35, fascicolo 10, 1876, Denuncia Galati – Malfattori all‟Uditore – cit. in V. Coco e M. Patti,
Relazioni mafiose, cit. p. 26.
241
Sulla figura di Joe Valachi si veda S. Lupo, Quando la mafia trovò l’America, cit.
242
Si veda Gruppo Abele, Dalla mafia allo Stato, cit., pp. 58-59.
243
Alla domanda di John McClellan sui motivi che lo avevano indotto a parlare Valachi rispose:«Per
distruggerli. Sono stati molto ingiusti con i soldati e hanno pensato solo a se stessi, in tutti questi anni» (S.
Fox, Potere e sangue, Il crimine organizzato nell’America del XX secolo, Marco Tropea Editore, Milano,
1996, p. 368), in Gruppo Abele, Dalla mafia allo Stato, cit., p. 59. Si veda anche S. Lupo, Quando la
mafia trovò l’America, cit., p. 175-76.
244
Cfr. Gruppo Abele, Dalla mafia allo Stato, cit. p. 64-66; S. Lupo, Storia della mafia, cit., p. 249-51.
238
52
delle sue regole. Vitale può oggi essere considerato un pentito nell‟eccezione più
vera245:
Io sono stato preso in giro dalla vita, dal male che mi è piovuto
addosso si da bambino. Poi è venuta la mafia, con le sue false leggi,
con i suoi falsi ideali:combattere i ladri, aiutare i deboli e, però,
uccidere; pazzi![…]. Bisogna essere mafiosi per avere successo.
Questo mi hanno insegnato e io ho obbedito […]. La mia colpa più
grande è di essere nato, di essere vissuto in una famiglia di tradizioni
mafiose e di essere vissuto in una società dove tutti sono mafiosi e per
questo rispettati, mentre quelli che non lo sono vengono
disprezzati.[…] La mafia in sé stessa è il male; un male che non dà
scampo per colui che viene preso in questa morsa […]. Il mafioso non
ha via di scelta perché mafioso non si nasce, ma ci si diventa, glielo
fanno diventare246.
Ma non erano stati soltanto i cosiddetti soldati a rendere rivelazioni di grande
importanza. Meno nota, ma altrettanto importante, fu la vicenda legata a Giuseppe Di
Cristina, boss di Riesi. Cinque anni dopo le confessioni rese da Vitale, presentandosi
presso un comando dei carabinieri, Di Cristina rese delle dichiarazioni spontanee,
anticipando sia la guerra di mafia, che portò i corleonesi al comando, sia l‟omicidio di
Cesare Terranova. Nelle sue confessioni il boss mafioso aveva anche identificato nella
famiglia Brusca di San Giuseppe Jato una tra le più pericolose alleate dei corleonesi. Di
Cristina aveva rivelato informazioni nuove sia sull‟organigramma delle famiglie
mafiose sia sul traffico degli stupefacenti247. Ma anche in questo caso la confessione
non portò a nulla.
Si arriva così allo spartiacque degli anni Ottanta, dove per la prima volta i pentiti
entrano a far parte della storia giudiziaria più recente della mafia, ponendo fine a quella
sequela di processi conclusisi perlopiù con l‟assoluzione per insufficienza di prove248.
La mafia recepì prontamente le potenzialità del pentitismo e mise in atto una serie di
vendette che costarono la vita a numerosi familiari, amici o semplicemente persone
vicine al collaboratore di giustizia249.
245
Gruppo Abele, Dalla mafia allo Stato, cit., p. 65.
C. Stajano (a cura di), Mafia. L’atto di accusa dei giudici di Palermo, Editori Riuniti, Roma, 1986, p.
14, in Gruppo Abele, Dalla mafia allo Stato, cit., p. 65.
247
Commissione parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminale
similari, Relazione sui rapporti tra mafia e politica, relatore on. Luciano Violante, XI legislatura, doc.
XXIII, n. 2, Roma, 1993, p. 56.
248
Gruppo Abele, Dalla mafia allo Stato, cit., p. 71.
249
Furono uccisi 12 parenti di Contorno; 11 parenti di Buscetta, tra questi due figli; la madre, la sorella e
la zia di Marino Mannoia. Cfr. Commissione parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle
246
53
Sostenendo l‟esigenza di una legislazione favorevole al fenomeno del pentitismo
mafioso, Giovanni Falcone ne evidenziava le lacune vigenti fino a quel momento.
Un primo passo lo si ebbe con la legge del 1988250 che attribuiva all‟Alto Commissario
per il coordinamento della lotta contro la delinquenza mafiosa un potere generico di
adozione di misure di protezione e di tutela dell‟incolumità di coloro che, per le
dichiarazioni rese in processi di mafia, fossero esposti a grave pericolo251. Eppure si
dovette attendere il 1991 per arrivare a una normativa specifica che prevedesse la
protezione e l‟assistenza di coloro che collaboravano con la giustizia252. E sempre nel
1991, in un successivo intervento normativo, venne introdotto il meccanismo che
portava a incentivare la collaborazione per i cosiddetti reati di mafia253.
Ma torniamo alla relazione di maggioranza. Nel cercare di delineare l‟utilizzo di questa
nuova fonte ai fini della stesura finale del documento dobbiamo considerare,
innanzitutto, quale fu l‟andamento delle audizioni dei collaboratori di giustizia, che
tanto daranno di che discutere sia all‟interno che all‟esterno della Commissione
antimafia.
Il grado di permeabilità, alla fine e dopo lunghe mediazioni, venne fissato proprio nella
relazione di maggioranza, dove si legge:
I collaboratori provenienti dalla mafia hanno consentito la cattura di
pericolosi criminali (tra i quali, da ultimo, Salvatore Riina), hanno
contribuito a comprendere gli organigrammi mafiosi, hanno fornito
criteri per migliorare la comprensione delle modalità di azione di Cosa
nostra. […] Tuttavia occorre evitare tanto l'adesione acritica alle
dichiarazioni di un collaboratore, quanto l'utilizzazione strumentale di
quelle dichiarazioni ai fini della lotta politica254.
A ben guardare, tuttavia, nel corso delle audizioni l‟atteggiamento critico e prudente cui
si fa cenno era spesso soppiantato dalla tendenza opposta, ovvero quella di dare per
buono tutto quello che veniva confessato dai collaboratori di giustizia. Valutazioni
simili suscitarono, per esempio, le reazioni di alcuni componenti della Commissione
antimafia, primo fra tutti Marco Taradash, già a partire dal secondo interrogatorio di
altre associazioni criminale similari, Relazione sui rapporti tra mafia e politica, relatore on. Luciano
Violante, cit., p. 21.
250
Legge del 15 novembre 1988, n. 486.
251
Cfr. Gruppo Abele, Dalla mafia allo Stato, cit., p. 109.
252
Legge del 15 marzo 1991, n. 82 (conversione del DL 15 gennaio 1991, n.8).
253
Legge 12 luglio 1991, n. 203 ( di conversione del DL 13 maggio 1991, n. 152).
254
Commissione parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminale
similari, Relazione sui rapporti tra mafia e politica, relatore on. Luciano Violante, cit., p. 21.
54
Tommaso Buscetta. Il fatto che eventuali dichiarazioni false rese dai collaboratori di
fronte ad un organo parlamentare non avessero ripercussioni penali, come invece
avveniva negli Stati Uniti, rappresentò un grosso problema in vista anche di future
pubblicazioni dei verbali di Commissione.
Tra il novembre 1992 e il febbraio 1993 vennero ascoltati quattro collaboratori di
giustizia facenti parte dell‟organizzazione Cosa nostra. Il primo fu Antonino Calderone
in data 11 novembre del 1992, seguì, a distanza di cinque giorni, l‟interrogatorio di
Tommaso Buscetta. Il 4 dicembre dello stesso anno fu la volta di Leonardo Messina.
Infine il 9 febbraio 1993 vi fu l‟audizione di Gaspare Mutolo.
Le domande spesso rivolte dai componenti della Commissione antimafia ai vari pentiti
non furono tanto indirizzate a far luce sugli autori di specifici reati, ma rivolte
all‟ambito politico, al fine di individuare le relazioni che intercorrevano tra i due mondi.
In ogni audizione veniva deciso, a seguito di una votazione interna alla Commissione
antimafia, se rendere pubblico o meno il testo delle confessioni rese dai vari
collaboratori di giustizia. Il criterio seguito, alla fine, fu quello di rendere pubblici i testi
delle audizioni cancellando nomi e fatti conosciuti per la prima volta; infatti, molto
spesso le sedute proseguirono con il circuito audio visivo disattivato per evitare che
venissero trascritti fatti su cui ancora la magistratura stava indagando255.
Dai verbali si può notare come Luciano Violante, che svolgeva il ruolo di mediatore tra
i componenti della Commissione e i vari teste, volendo trovare il capro espiatorio di
turno, incalzava con interrogativi mirati, cercando di inserire all‟interno della domanda
posta anche la possibile risposta. In questo caso il bersaglio era facile da individuare:
Lima rappresentava il prototipo di quel malaffare politico figlio della prima Repubblica.
Tornando alle deposizioni rese da i vari collaboratori di giustizia, quella di Antonino
Calderone fu la prima. Subito dopo una breve presentazione, dove veniva indicata la
data di affiliazione dell‟ex-componente della mafia - nel caso di Calderone risalente al
1962 - le domande che seguirono vennero incentrate sulla struttura e sul funzionamento
di Cosa nostra, sull‟ascesa dei corleonesi e sulle differenze che intercorrevano tra la
mafia catanese - di cui Calderone era il rappresentante - e quella palermitana. Calderone
descrisse la struttura di Cosa nostra, ricalcando il modello già appreso in precedenza
dalle rivelazioni fornite dai collaboratori al tempo del maxiprocesso e ancor prima dai
vari Vitale, Di Cristina e Valachi. Aggiunse una dettaglio: era stato il fratello Giuseppe
255
Per seguire le dinamiche degli interrogatori dei collaboratori di giustizia rimando ai verbali di
Commissione XI, XII, XV e XXV.
55
a volere la commissione regionale, per evitare che fatti come quelli accaduti durante la
prima guerra di mafia si ripresentassero. La commissione regionale doveva ospitare un
rappresentante per ogni provincia, sei per l‟esattezza; infatti Calderone precisò che: «ai
miei tempi la mafia era presente soltanto a Palermo, Trapani, Agrigento, Caltanissetta,
Enna e Catania»256. Calderone, dunque, ci descrive, già a partire dagli anni Sessanta,
una mafia presente in sei delle nove province siciliane.
Il racconto che l‟ex-aderente a Cosa nostra fece dell‟ascesa dei corleonesi ai vertici
della cupola mafiosa ricalca la descrizione che ne faranno tutti quelli che facevano parte
della cosiddetta “mafia perdente”. Lo schema prevedeva, intanto, la perdita dei valori
causata dall‟ascesa dei corleonesi - ritenuti “scaltri” e seminatori di “zizzania”- ai vertici
dell‟organizzazione. Lo schema illustrato da Calderone risultava molto fazioso, non
tanto nella descrizione dell‟iter storico della scalata dei corleonesi al vertice della
“cupola”, quanto nell‟attribuzione di moralità e valori positivi alla cosiddetta vecchia
mafia, uscita perdente dalla scontro257. Sorprende constatare come queste dichiarazioni
non suscitassero nessuna reazione da parte né di Violante né di chi era presente durante
la deposizione del pentito. Evidentemente, consciamente o inconsciamente, si dava per
buona e corretta questa visione, quando invece andrebbe sempre tenuto presente che
qualsiasi contrapposizione tra una mafia buona - la vecchia mafia coi suoi principi e i
suoi valori - e una mafia cattiva - nuova, sanguinaria, prepotente e arrogante – risulta
inopportuna da un punto di vista tanto pubblico quanto ai fini dell‟analisi storica258.
Le domande proseguivano illustrando un spaccato di quello che era l‟imprenditoria
catanese, con i cavalieri del lavoro di Catania, Graci, Rendo e Costanzo, coinvolti nella
spartizione dei lavori. Calderone sosteneva che Costanzo, godendo di una protezione
mafiosa che lo stesso Calderone garantiva, era in forte competizione con Rendo, il quale
a sua volta godeva di agganci politici forti; rivalità che si ripercorse anche al momento
della nomina di cavaliere del lavoro: Costanzo contando sull‟appoggio della mafia
riuscirà a diventare cavaliere del lavoro dell‟industria al contrario del rivale che si dovrà
accontentare del titolo di cavaliere del lavoro, ma dell‟agricoltura259.
Nonostante l‟indirizzo dato da Violante alle domande sulla politica, in particolare sul
ruolo di Lima, il collaboratore, che evidentemente non era informato sulle dinamiche
Commissione parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminale
similari, Verbale XI, cit., deposizione di A. Calderone, p. 279.
257
Ibidem e passim.
258
A tal proposito rimando a S. Lupo, Storia della mafia, cit.
259
Commissione parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminale
similari, Verbale XI, cit., deposizione di A. Calderone, p. 290.
256
56
che agivano su Palermo, non rispose positivamente, smorzando le aspettative del
presidente di Commissione. Infatti, le successive domande che vennero poste
sull‟ambiente palermitano furono indirizzate sul ruolo della massoneria. Ma anche qui
non si ebbero dichiarazioni decisive; Violante voleva avere risposte che l‟interlocutore
non era in grado di dare. O non voleva dare, come quando, rimarcando il ricordo di una
precedente deposizione in cui il collaboratore avrebbe affermato che Cosa nostra aveva
già stabilito alleanze con nuovi referenti politici, fu chiesto a Calderone se sapesse se la
mafia dopo l‟omicidio di Salvo Lima avesse altri referenti politici. Ma anche questa
volta il pentito rispose che non sapeva nulla di tutto ciò. A questo punto al presidente di
Commissione sorse un dubbio: il collaboratore stava dicendo tutto? La domanda fu
posta in modo abbastanza diretto:
Presidente: Signor Calderone, questa Commissione non è un'autorità
giudiziaria ma un'autorità del Parlamento, anche se agisce con i poteri
dell'autorità giudiziaria. Un commissario mi ha chiesto di chiederle se
lei ha detto tutto quello che sapeva o se ha ritenuto opportuno di non
riferire su alcune cose.
Calderone: No, no, ho detto tutto, tranne qualcosa che posso aver
dimenticato. Dissi al giudice Falcone che volevo svuotarmi di tutto,
per poter ... se un giorno potrò emergere. Ma devo dire tutto, non mi
tengo niente.
Presidente: Dico questo perché, come sa, Masino Buscetta disse che
di questioni politiche non voleva parlare perché sarebbe successo un
quarantotto. Questo lei non lo ha mai pensato?
Calderone: No.
Proprio il successivo pentito ad essere ascoltato fu Tommaso Buscetta.
Prima della sua deposizione in aula si aprì un dibattito a seguito dell‟intervento di
Taradash, che faceva notare che nella precedente audizione si era dato per scontato che
la parola del pentito fosse uguale alla verità:
Signor presidente, prendo la parola per porre la questione della
pubblicità dell'audizione del collaboratore della giustizia Buscetta,
riguardo alla quale mi sembra che si sia creata all'esterno
un'aspettativa, maturata anche dopo l'audizione di Calderone, che
credo non giovi ai lavori della Commissione, il cui compito è quello di
investigare anche sui rapporti tra mafia e politica. La magistratura, o
almeno la parte più corretta di questa, ha sempre avuto una gestione
dei pentiti ben sapendo che tra quello che dice il pentito e la verità c'è
almeno lo spazio del riscontro; invece, se le nostre audizioni
continuano ad essere come quella di Calderone, in realtà non vi è
alcuna gestione da parte della Commissione delle posizioni assunte
dai pentiti. Credo che questo sia il nostro problema. E' molto
57
importante ascoltare personaggi ritenuti di grande attendibilità ma non
possiamo dare per scontato che tutto ciò che viene detto sia vero né
possiamo eccedere nello zelo e trasformare in fatti concreti quelle che
sono soltanto cose sentite260.
La premessa con la quale Buscetta aprì le danze faceva intendere che non avrebbe fatto i
nomi dei politici a una Commissione parlamentare - seppur dell‟antimafia - ma che
intendeva farli ai giudici istruttori. Tuttavia durante l‟audizione Buscetta accennò a
“un‟entità” misteriosa senza però approfondire l‟argomento261.
Non si presentò come pentito ma come un uomo libero, perché il conto con la giustizia
era stato pagato262.
Le domande iniziali seguirono la solita routine, nella quale il collaboratore descriveva
l‟organigramma di Cosa nostra, con la struttura in famiglie, la sua cupola e le varie
commissioni provinciali e regionali (Buscetta indicò anche la valenza che ogni singola
provincia aveva all‟interno della regione: «da uno a dieci: Palermo 10, Agrigento 8,
Trapani 8, Caltanissetta 6, Catania 4»263).
Quando fu posta la domanda di datare l‟inizio del traffico degli stupefacenti da parte di
Cosa nostra, Buscetta, quasi per volersi tirare fuori da un giro che si voleva affibbiare
quasi completamente ai corleonesi, lo datò intorno al 1978, anno in cui lui si trovava in
prigione. Buscetta affermava che quando nel 1980 uscì di prigione aveva notato come la
droga avesse causato la perdita di quei valori tanto cari, e un po‟ stizzito ammoniva la
commissione: «Non ridete, per favore. Sono nato così e difficilmente si può cambiare.
Io credevo in quella cosa»264.
Sul rigetto delle accuse che lo vedevano coinvolto in traffici di droga è lo stesso pentito
a smentirsi nel corso della sua deposizione. Infatti, durante la precedente presentazione,
avvenuta mediante la lettura di una lettera scritta in occasione dell‟incontro, ribadì
chiaramente che coloro che lo consegnarono a Falcone nel 1984 furono degli agenti
della DEA265. C‟è da domandarsi come mai era stata proprio la DEA, il dipartimento
antidroga degli Stati Uniti, ad averlo avuto in custodia, e non l‟FBI. Evidentemente
Buscetta proprio estraneo ai traffici di droga non doveva essere. Il fatto che non venne
Commissione parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminale
similari, Verbale XII, cit., intervento di Marco Taradash, p. 343.
261
Cfr. Commissione parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni
criminale similari, Verbale XII, cit., p. 358.
262
Commissione parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminale
similari, Verbale XII, cit., deposizione di T. Buscetta, p. 351.
263
Ivi, p. 355.
264
Ivi, p. 363.
265
Cfr. ivi, p. 352.
260
58
fatta una qualche contestazione da parte del presidente Violante alle dichiarazioni rese
dal “boss dei due mondi”266 – soprannome che tradiva, appunto, un passato in traffici di
droga – è un ulteriore indizio della volontà di occuparsi delle relazioni politiche,
piuttosto che - in questo caso - di droga.
Anche per Leonardo Messina la decisione di staccarsi da Cosa nostra era da imputare a
un problema morale. Come prima Buscetta, che dopo i traffici di droga non riconosceva
più i valori interni a Cosa nostra, l‟ex-membro della famiglia di San Cataldo, aiutato in
questo caso da amicizie che stavano al di fuori dell‟organizzazione, si preparò la strada
verso il pentimento. Le domande iniziali seguivano una routine incontrata nelle
precedenti audizioni: la fase di pre-affiliazione, il rituale e l‟organigramma della
famiglia. Leonardo Messina mostrava una struttura mafiosa non solo regionale, ma
addirittura mondiale. Si passava quindi a delineare i livelli di tale organizzazione; si
partiva dal livello più basso che era quello provinciale, si passava a quello regionale,
seguiva quello nazionale e si finiva con una commissione mondiale.
Sulle domande di ambito politico è da ritenere in questo caso poco incisiva la veemenza
di Violante, forse perché riteneva il teste poco addentro a quella politica siciliana che
contava - quella che orbitava intorno a Palermo - oppure non poté approfondire
l‟argomento visto le parallele indagini in corso della magistratura palermitana dopo che
le inattese dichiarazioni dello stesso pentito avevano tirato per la prima volta in causa
Andreotti267. Sta di fatto che le domande poste furono incentrate maggiormente
sull‟asse mafia-appalti, limitandosi, per il resto, a far dire al collaboratore di giustizia
che Lima era il referente di Cosa nostra268.
Sull‟asse mafia-imprenditoria Messina spiegava la prassi da seguire per vincere un
appalto o per essere sicuri di non ricevere danni all‟impresa: «A voi può sembrare
strano, ma da noi prima che si posi un oggetto sul territorio ci vuole l'ordine del paese.
Non si può posare neppure una "uglia"»269.
Le altre domande che seguirono riguardavano la massoneria e soprattutto la presenza di
Sindona in Sicilia, alla quale Messina non seppe dare molte spiegazioni, oltre che a
rispondere con un si o con un no alle domande per identificare l‟appartenenza ad
entrambe le associazioni di personaggi come Riina, Bontate e Liggio.
Cfr. S. Lupo, Quando la mafia trovò l’America, cit., pp. 232-38.
Cfr. Mafie e antimafia. Rapporto ’96, (a cura di L. Violante), cit., pp. 72-79.
268
Commissione parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminale
similari, Verbale XV, cit., deposizione di L. Messina, p. 559.
269
Ivi, p. 523.
266
267
59
L‟ultimo collaboratore di giustizia ad essere ascoltato fu Gaspare Mutolo. All‟inizio
della sua deposizione davanti alla Commissione si verificò nuovamente la
riproposizione della mafia buona e della mafia cattiva:
Le faccio un piccolo esempio: se un giovane litigava con la fidanzata,
lui o sua madre non andavano a parlare del problema con il
maresciallo, ma si rivolgevano alla persona di quella borgata che
poteva essere il mafioso. Secondo la cultura che c'era a Palermo...
Certo, se uno guarda oggi alla mafia, dopo quello che ha fatto, la vede
in maniera diversa, ma la mafia, fino agli anni Settanta, per come la
ricordo e per come era la mia fantasia, era tutta diversa: i mafiosi
erano le persone che comandavano, i saggi. Non si pensava mai alla
violenza...270
Il cambiamento e la perdita dei valori era da imputare ai corleonesi, che pian piano,
come descriveva Mutolo, si erano impadroniti del potere271.
Alle domande sul maxiprocesso e sull‟interessamento di Salvo Lima il pentito rispose
senza riserve: Lima si era interessato al processo e l‟omicidio era da ricondurre alle
mancate promesse272. Supposizioni ben distanti da quelle rese da Buscetta che aveva
riferito che Salvo Lima fosse stato ucciso per “denigrare Andreotti”273.
Le rivelazioni che sembrano essere più interessanti erano quelle legate al traffico di
droga, in quanto Mutolo essendo in prima persona inficiato nel traffico degli stupefanti
poteva dare delle informazioni non mediate, dando uno spaccato su quello che erano i
traffici con le famiglie americane, soprattutto dopo la morte di Inzerillo ritenuto l‟anello
di congiunzione tra la Sicilia e gli Stati Uniti per quella parentela che lo legava alla
“famiglia” americana dei Gambino274.
Finiscono con Mutolo le audizioni dei pentiti di mafia; figure molto controverse che si
ergono a protagonisti già a partire dal maxiprocesso di Palermo. Dunque quattro pentiti
ascoltati: una nuova fonte da gestire in un momento politico e giudiziario estremamente
delicato. Rapportandosi, per la prima volta in sede di Commissione parlamentare
antimafia, alla figura del collaboratore di giustizia e al suo utilizzo, si dovette fare i
Commissione parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminale
similari, Verbale XXV, cit., deposizione di G. Mutolo, p. 1222.
271
Ivi, pp. 1230-33.
272
Ivi, passim.
273
Commissione parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminale
similari, Verbale XII, cit., deposizione di T. Buscetta, p. 372.
274
Commissione parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminale
similari, Verbale XXV, cit., deposizione di G. Mutolo, pp. 1272-74.
270
60
conti con una stagione – quella del pentitismo – di recente maturazione e che richiedeva
un approccio ancora da costruire.
Nasceva con questi presupposti un documento politico che avrebbe influenzato gli
ultimi mesi della prima Repubblica.
61
Capitolo terzo
Stesura della relazione mafia-politica: visioni differenti
III.1 Discussioni sul testo
La relazione sui rapporti tra mafia e politica fu il documento più importante che la
Commissione antimafia presentò, in data 28 maggio 1993, alle presidenze di Camera e
Senato, presiedute rispettivamente dall‟onorevole Giorgio Napolitano e dal senatore
Giovanni Spadolini.
Seppure il documento finale fu approvato in larghissima maggioranza dalla
Commissione, la sua stesura non fu un atto pacifico. Dopo che Violante ebbe presentato
ai membri della Commissione antimafia la bozza di relazione, si aprì in seno
all‟assemblea un lungo dibattito che generò polemiche e strascichi che si protrassero per
giorni. Infatti, prima di pervenire al testo ultimo, la Commissione si riunì ben quattro
volte nel giro di poco meno di una settimana275.
Fu un dibattito che da un punto di vista tanto giudiziario quanto politico assunse il
valore di prova generale di quanto successivamente sarebbe accaduto alla Giunta delle
Elezioni, che avrebbe deciso di spogliare dell'immunità parlamentare Giulio
Andreotti276.
Fu infatti intorno al nome del senatore e ai suoi legami con Salvo Lima - punto di
riferimento di Cosa nostra nel mondo politico - che una parte del gruppo Dc guidata
dall‟onorevole Ombretta Fumagalli Carulli e dai senatori Umberto Cappuzzo e Saverio
D' Amelio dette battaglia: minacciando le dimissioni; costringendo il vicepresidente Dc
della Commissione antimafia, Paolo Cabras, a intiepidire il suo consenso alla relazione;
obbligando il segretario del partito Mino Martinazzoli a tentare la strada del rinvio pur
di non approvare il documento prima della soluzione del "caso Andreotti"277.
275
La commissione si riunì mercoledì 31 marzo, giovedì 1 aprile, venerdì 2 aprile e nella seduta finale di
martedì 6 aprile.
276
Il senatore Andreotti venne ascoltato dalla giunta presieduta dal senatore Pellegrino il 14, 15 e 21
aprile 1993. La giunta emanò l‟autorizzazione a procedere contro Giulio Andreotti il 6 maggio 1993. Si
veda il documento del Senato della repubblica, Domanda di autorizzazione a procedere contro il senatore
Giulio Andreotti, relatore sen. Pellegrino, XI legislatura, doc. IV, n. 102-A, Roma, 1993, pp. 1-14; S.
Lupo, Che cos’è la mafia,cit.
277
G. D‟Avanzo, All’antimafia il braccio di ferro fra Violante e Dc, «la Repubblica», 6 aprile 1993.
62
Come detto in precedenza, anche se approvato in maggioranza, il testo della relazione fu
revisionato; diverse parti furono modificate, altre inserite, alcune eliminate. L‟obiettivo
di questi aggiustamenti fu quello di evitare di prestare il fianco a critiche, e di
conseguenze a votazioni contrarie, da parte di gruppi che potevano essere maggiormente
esposti alla gogna pubblica, in quello che si configurava come un momento
estremamente delicato.
Districandosi tra critiche e consigli proposti dai vari componenti della Commissione e
opponendosi ai tentativi della Democrazia cristiana di far slittare il tutto, il presidente
della Commissione, nonché relatore del documento, procedette a rifinire la relazione.
C‟erano da soddisfare alcune richieste dei socialisti che, pur dichiarandosi soddisfatti,
ritenevano tuttavia che, data l‟“estrema rilevanza”278 del documento in questione, era
fondamentale che si colmassero alcune lacune. Il senatore socialista Achille Cutrera
affermò, ad esempio, che la relazione era carente in merito all‟apporto che Giovanni
Falcone aveva dato alla lotta contro la mafia279.
C‟è da menzionare anche l‟intervento di Antonino Buttitta280. Il deputato socialista
siciliano faceva notare che il testo necessitava di una precisazione. La relazione, in
molti suoi punti, si basava sulle rivelazioni dei collaboratori di giustizia, ad esempio
quando riportava che a Palermo, durante le elezioni che si tennero nel 1987, il Psi e il
Partito radicale avevano raccolto i voti della mafia281. Buttitta, sottolineando che si
dovessero assumere con qualche cautela le dichiarazioni dei pentiti, voleva che nel testo
si sostituisse all‟espressione “nella città” - considerata generica - la parola “in alcuni
quartieri”282. Il deputato denunciava inoltre la mancanza, all‟interno della relazione, di
quella distinzione tra organizzazione mafiosa e società mafiosa, asserendo che la prima
era la manifestazione strutturata e criminale della seconda. Quest‟ultima, affermava il
Buttitta da buon antropologo, era una cultura con i propri valori e le sue regole, un
Commissione parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminale
similari, Verbale XXXVII (Seguito dell'esame della relazione sui rapporti tra mafia e politica) intervento
di R. Olivo, p. 1753.
279
Commissione parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminale
similari, Verbale XXXVII, cit., intervento di A. Cutrera, p.1747
280
Intervento tenutosi nella seduta del 2 aprile 1993.
281
La relazione della Commissione Antimafia si rifaceva alle dichiarazioni di F. M. Mannoia, in
«processo Andreotti» p. 110, B. Di Maggio in «verbale di spontanee dichiarazioni ai Carabinieri 9
gennaio 1993», e in «interrogatorio al P.M. del 18 gennaio 1993», e in G. Caselli, S. Montanaro, S.
Ruotolo, La vera storia d’Italia, cit., p. 49, e G. Mutolo in Commissione parlamentare d‟inchiesta sul
fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminale similari, Verbale XXV, cit., deposizione di G.
Mutolo, p. 1286.
282
Commissione parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminale
similari, Verbale XXXVII, cit., intervento di A. Buttitta, p. 1713.
278
63
sistema di segni ampiamente partecipato da vasti strati della società siciliana, un fatto
criminale ma anche una realtà sociale e culturale283.
Tale aspetto della mafia non era di per se una novità; la teoria culturale della mafia, era
stata sostenuta da Giuseppe Pitrè fin dalla fine degli anni Settanta dell‟Ottocento. Per
l‟etnologo palermitano la mafia «non è setta né associazione, non ha regolamenti né
statuti, […] il mafioso non è un ladro, non è un malandrino […]; la mafia è la coscienza
del proprio essere, l‟esagerato concetto della propria forza individuale, […] donde la
insofferenza della superiorità e, peggio ancora, della prepotenza altrui»284. Tale teoria la
ritroviamo anche agli inizi del Novecento, nell‟inchiesta parlamentare sui contadini
meridionali, nella quale veniva sostenuto che la mafia non fosse un‟associazione e, in
principio, neppure un fenomeno criminoso. Si trattava invece di una «esagerazione del
sentimento di sé, del principio di non tollerare offese, della deliberata volontà di
ripararle a qualunque costo e in modo e in modo terribile senza ricorrer mai alla
giustizia pubblica»285.
A un secolo di distanza, le spiegazioni di tipo culturaliste, vennero riprese da Henner
Hess. Il sociologo tedesco riteneva che la mafia fosse non una forma di criminalità
organizzata, ma una forma di comportamento rispondente alla specifica subcultura della
società locale, che si traduce in una conformità assoluta alle norme dell‟omertà286.
Osservando il punto di vista di Hess risulta però difficile riuscire a cogliere la
dimensione organizzativa della mafia se si riduce a mero dato culturale ed etnico.
Non sarebbe nemmeno corretto adottare il metodo opposto a quello culturalista, nel
quale la mafia veniva ridotta a un fenomeno puramente organizzativo287, come
sostenuto nella relazione di maggioranza, dove si affermava che «Cosa nostra non è un
fenomeno sociale o una pura degenerazione di portamenti individuali e collettivi, come
la corruzione. È un‟organizzazione formale, dotata di regole e di capi, di un esercito
283
Ivi, p. 1714. A tal proposito rimando a S. Lupo, Storia della Mafia, cit., pp. 163-74; R. Sciarrone,
Mafie vecchie mafie nuove, Donzelli, Roma, 1998, pp. 19-51.
284
G. Pitrè, Usi, costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano, Palermo, 1978, II, rispettivamente
pp. 292 e 294, in S. Lupo, Storia della mafia cit., p.17.
285
G. Lorenzoni, Inchiesta parlamentare sulle condizioni dei contadini nelle province meridionali e in
Sicilia, Roma, 1910, in R. Sciarrone, Mafie vecchie mafie nuove, cit., p. 4.
286
H. Hess, Mafia, Laterza, Roma-Bari, 1984, cit. in R. Sciarrone, Mafie vecchie mafie nuove, cit., p. 19.
287
La caratteristica della prospettiva organizzativa non è quella di negare le relazioni con i caratteri della
cultura, ma piuttosto di ritenerli non determinanti nella definizione del fenomeno. Su questi aspetti
rimando a P. Pezzino, Una certa reciprocità di favori, citi., p. 200; R. Sciarrone, Mafie vecchie mafie
nuove, cit., p.20.
64
armato e di potenti circuiti finanziari»288. Tuttavia, accanto a Cosa nostra, che presenta
una struttura unitaria, centralizzata e gerarchizzata, esistono nella stessa Sicilia altre
organizzazioni mafiose indipendenti, che molto spesso si pongono in diretta
concorrenza con Cosa nostra: le “Stidde”289. Peraltro, anche all‟interno della stessa
organizzazione, singole famiglie godevano di una relativa autonomia, seppure
circoscritta al proprio territorio di competenza. In definitiva si può affermare che il
fenomeno mafioso non può essere ricondotto a un modello omogeneo290, come
affermato dallo stesso Sciarrone «ciascuna delle caratteristiche indicate nelle diverse
prospettive analitiche può avere un sua rilevanza teorica ed empirica»291.
Leggendo i verbali della Commissione inerenti alla discussione sull‟approvazione del
testo della relazione di maggioranza sui rapporti mafia-politica, si nota come i
rappresentati Dc, imbrigliati nella decisione di dover approvare o meno il testo, per
uscire dall‟impasse cercarono di cambiare i termini della questione. Essi tentarono di far
assumere come filone di inchiesta principale non l‟asse mafia-politica, bensì quello
relativo alle relazioni mafia-istituzioni. Sostenevano, infatti, che dare un peso rilevante a
tali relazioni, rispetto al connubio mafia-politica, avrebbe portato alla Commissione
maggior prestigio nella lotta alla mafia. In realtà appare palese il tentativo di distogliere
l‟attenzione pubblica dai rapporti compromettenti che coinvolgevano malavita e partiti,
per porre l‟accento su delle istituzioni logorate dalla corruzione. A tal proposito, così si
esprimeva il deputato Dc Vincenzo Sorice:
Partirei dalla decisione del 15 ottobre 1992, con la quale stabilimmo di
affrontare il problema del rapporto tra mafia e politica. In questa
impostazione credo vi sia un errore di fondo in quanto sarebbe stato
più esauriente e forse più corretto, per interpretare il fenomeno nella
sua complessità, parlare di rapporto tra mafia, istituzioni e politica.
Proprio questo errore di fondo, di partenza, rischia di non offrire un
quadro veritiero o comunque più aderente alla realtà e di vanificare
l‟obiettivo che si propone questa commissione e per il quale siamo
lealmente impegnati. Un fatto è certo: alla mafia (almeno all‟ultima
mafia) interessano non i politici o gli imprenditori ma soprattutto le
Commissione parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminale
similari, Relazione sui rapporti tra mafia e politica, relatore on. Luciano Violante, cit., p. 20.
289
Cfr. Commissione parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni
criminale similari, Verbale XV, cit., deposizione di L. Messina, p. 542.
290
R. Sciarrone, Mafie vecchie mafie nuove, cit., p 21.
291
Ivi, p. 22.
288
65
istituzioni, perché il rapporto con esse rappresenta un veicolo
indispensabile per poter raggiungere gli obiettivi che si prefigge292.
Un altro obiettivo democristiano fu quello di attaccare uno dei perni della relazione: le
rivelazioni dei collaboratori di giustizia293. Fu sempre Sorice a far notare alla
Commissione che, a parere suo e del partito, la parola dei pentiti veniva assunta
acriticamente dalla Commissione. Questa volta era la pagina 59 della bozza di relazione
a fare inasprire la discussione e a spingere Sorice verso ulteriori critiche:
Da appartenenti alla commissione è stato chiesto ai collaboratori della
giustizia quale dovesse essere il comportamento ufficiale dei loro
amici nei confronti di cosa nostra. La risposta è avvenuta con
l‟abituale cinismo degli uomini d‟onore: il politico può anche
partecipare a manifestazioni antimafia, fare discorsi contro la mafia,
l‟importante è che poi nella sostanza protegga gli interessi di cosa
nostra. Un politico può anche proporre e far approvare leggi contro la
mafia, se questo è necessario a dargli un alibi. Importante è che quelle
leggi non vengano applicate e che i processi si possano aggiustare294.
A giudizio del parlamentare democristiano questo passo “pericolosissimo”295 non
alterava il rapporto tra mafia e politica, ma metteva in discussione il comportamento dei
singoli. E aggiungeva:
Con molta sincerità devo dire di avere l‟impressione che senza
accorgersene, involontariamente, la relazione si sia costruita sulle
dichiarazioni dei pentiti, senza (sia pure involontariamente) un
disegno preciso[...]. Non mi sento (è questo il rischio che corre la
relazione) di recepire acriticamente le valutazioni politiche e i teoremi
dei pentiti, perché senza accorgercene, rischiamo di farli nostri. Non
credo che la commissione possa farsi influenzare politicamente dalle
valutazioni politiche dei pentiti. Questo è il pericolo che vedo
all‟interno della relazione, che risente di un‟impostazione del
genere296.
Subito dopo le critiche scottanti di Sorice, vi fu il tentativo democristiano, messo in atto
dell‟onorevole Ombretta Fumagalli Carulli, di far slittare la seduta della Commissione.
L‟onorevole, comunicando al presidente Violante che i deputati avrebbero dovuto
Commissione parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminale
similari, Verbale XXXV (Esame e votazione della relazione sui rapporti tra mafia e politica) intervento
di V. Sorice, p. 1647.
293
Sui collaboratori di giustizia si veda A. Dino, Pentiti, cit., 2006.
294
Commissione parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminale
similari, Verbale XXV, cit., intervento di V. Sorice, p. 1648.
295
Ibidem.
296
Ivi, p. 1649.
292
66
partecipare ad una seduta di votazioni in Parlamento, tentò di far rinviare la seduta. Il
tentativo però si scontrò con la ferma opposizione di Violante. Ribadendo le regole
interne alla Commissione, egli comunicò alla Fumagalli e agli altri membri della Dc che
la seduta sarebbe stata sciolta solo su esplicita richiesta da parte di uno dei presidenti
della Camera o del Senato. Costretta con le spalle al muro, la deputata democristiana si
rimise alle volontà del presidente e la seduta continuò297.
Il dibattito proseguì con la parola data al rappresentante in Commissione antimafia del
gruppo dei Verdi, l‟onorevole Massimo Scalia. Condividendo in linea generale
l‟impianto della relazione, Scalia definì troppo “siciliocentrica”298 la linea seguita per la
stesura del testo. Affermò che i lavori, pur nascendo con l‟obiettivo di indagare sui
rapporti mafia-politica, fossero stati trattati all‟insegna dei rapporto Cosa nostrapolitica, riducendo il discorso a una sola organizzazione.
Scalia era inoltre in completo disaccordo con quanto affermato dal democristiano Sorice
sui collaboratori di giustizia:
Non condivido neanche l‟opinione del collega Sorice per cui questa
relazione è costruita sulle dichiarazioni dei pentiti […]. Se così fosse
credo che non potremmo far altro che buttarla via. Il ricorso ai
collaboratori di giustizia ha inevitabilmente fornito un quadro che
spero nessuno di noi potesse avere per conoscenza diretta, interna alla
mafia, quindi va tenuta nel giusto conto una serie di informazioni
preziose che essi hanno fornito sul modo in cui si organizza la mafia
sul territorio, sul suo ruolo a livello locale e nazionale299.
Concludeva poi sostenendo che la relazione si fosse fermata sul più bello e sollecitando
quindi il presidente ad inserire un finale diverso e a tirare le somme della discussione.
Queste le sue considerazioni sulla parte finale della bozza:
L‟impunità è la principale preoccupazione di cosa nostra; la prima
domanda che sorge spontanea è quali fossero i garanti di questa
impunità. La relazione costruisce una serie di elementi per fornire la
risposta ma si ferma nel momento in cui dovrebbe darla: questo è il
maggiore elemento di sorpresa. Il presidente mi consenta di dire che
le conclusioni mi sembrano abbastanza low profile, un po‟ timide,
297
Si veda il resoconto stenografico della seduta del 31 marzo 1993, Commissione parlamentare
d‟inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminale similari, Verbale XXXV, cit.,
interventi di O. Fumagalli Carulli e L. Violante, pp. 1653-54.
298
Commissione parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminale
similari , Verbale XXXV, cit., intervento di M. Scalia, p. 1655.
299
Ivi, p.1656.
67
quasi che questa commissione possa nascondersi dietro decisioni che
la magistratura ha preso300.
A parere dello Scalia si trattava di andare ad affermare quella responsabilità politica - e
non penale – che Violante aveva sapientemente dato all‟indirizzo della propria
relazione. Sosteneva che non serviva essere a conoscenza dell‟avviso di garanzia inviato
dalla Procura di Palermo nei confronti di Andreotti o dalla Procura di Napoli nei
confronti del senatore Gava; non serviva perché la relazione conteneva quegli elementi
che le consentivano di essere già in grado di determinare la responsabilità politica del
senatore Andreotti e di altre personalità politiche. Del resto spettava alla Commissione
antimafia, a suo dire, fornire un giudizio non di carattere giudiziario ma di carattere
politico301.
Questa distinzione è uno dei capisaldi dell‟intera impalcatura della relazione su mafia e
politica e, in generale, è un punto in cui si rischia spesso di scivolare. La materia in
questione, infatti, si situava al confine con l‟attività giudiziaria, come era già emerso in
precedenza per altre commissioni d‟inchiesta, come per esempio quella per il sequestro
e l‟omicidio di Aldo Moro, quella relativa alla vicenda di Michela Sindona, la
commissione sulla loggia massonica P2, quelle sulle stragi. In contesti simili, le critiche
da parte di fazioni iper-garantiste rischiavano di essere altrettanto astratte e moraliste di
quei giustizialismi che esse stesse rifiutavano.
E fu per evitare simili discussioni che Violante effettuò una distinzione preliminare tra
responsabilità penale e responsabilità politica in relazione a manifestazioni di illegalità
che avevano comunque un incidenza sul sistema politico. Ebbene, il primo tipo di
responsabilità, essendo di esclusiva competenza dell‟autorità giudiziaria, era accertata
dalla magistratura attraverso le regole formali e certe del processo e si concretizzava in
sanzioni giuridiche prestabilite. La responsabilità politica, invece, si caratterizzava per
un giudizio di incompatibilità tra una persona che rivestiva funzioni politiche e quelle
funzioni, sulla base di determinati fatti, rigorosamente accertati, che non
necessariamente costituivano reato, ma che tuttavia erano ritenuti tali da indurre a quel
giudizio di incompatibilità. Secondo questo giudizio, le funzioni politiche, fondandosi
su un principio di fiducia e dignità, addossavano a ciascun politico una responsabilità
aggiuntiva rispetto ad altri cittadini perché veniva coinvolta la credibilità delle
300
301
Ibidem.
Ibidem.
68
istituzioni in cui la persona operava302. Per fare un esempio storicamente verificatosi più
di una volta, se un ministro della Repubblica, in una cerimonia matrimoniale, aveva
fatto da testimone all‟esponente della famiglia mafiosa, non ci troviamo di fronte a un
reato ma senza dubbio di fronte a un‟ipotesi di incompatibilità tra le funzioni pubbliche
del politico e i suoi comportamenti sociali303.
Tornando alla fase dibattimentale, i repubblicani contestarono, come già in precedenza
aveva fatto la fazione democristiana, la frase ”atto dovuto”304contenuta nel testo.
Il loro portavoce, Giovanni Ferrara Salute, affermò che l‟interesse della Commissione
antimafia doveva concentrarsi più sulle responsabilità politiche che su quelle penali e
giudiziarie che vedevano coinvolto l‟allora senatore Giulio Andreotti. Cosi si esprimeva
Ferrara Salute nei confronti di Violante:
Al presidente vorrei far notare, per esempio, che nella proposta di
relazione da lui redatta è contenuta un espressione poco chiara, o,
almeno, suscettibile di prestare il fianco ad obiezioni. Quando con
riferimento alla vicenda del senatore Andreotti, si afferma che le
risultanze della vicenda stessa portano ad un ”atto dovuto”, cioè
all‟approfondimento in sede penale, concordo con tale affermazione,
ma non vorrei che si obiettasse che tale esigenza, nella forma in cui è
stata espressa, rappresenti un invito all‟Assemblea a votare per
l‟autorizzazione a procedere305..
Pur approvando la relazione a nome del gruppo che rappresentava, l‟onorevole invitava
a far emergere il giudizio politico dagli eventi giudiziari ma senza legarsi univocamente
a essi:
Quanto al discorso relativo al momento giudiziario ed a quello politico
delle responsabilità, credo –mi rivolgo in particolare al collega Scalia
- che sia necessario procedere con particolare attenzione. […]
Indubbiamente vi è una suggestione molto forte del momento
giudiziario: la giustizia evoca nomi e situazioni e tutto questo,
ovviamente, induce all‟attenzione politica. […] Pertanto, il giudizio
politico deve emergere anche in considerazione degli eventi giudiziari,
ma deve avere una formazione molto più complessa e, soprattutto, non
deve legarsi in modo immediato a tali eventi306.
Commissione parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminale
similari, Relazione sui rapporti tra mafia e politica, relatore on. Luciano Violante, cit., pp. 21-22. Si veda
anche la prefazione di Tranfaglia in Mafia e politica. Relazione del 6 aprile 1993, prefazione di Nicola
Tranfaglia, Laterza, Roma-Bari, 1993, p. XI.
303
Ibidem.
304
Commissione parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminale
similari, Verbale XXXV, cit., intervento di G. Ferrara Salute, p. 1661.
305
Ibidem.
306
Ivi, pp. 1660-1661.
302
69
La Lega Nord, condividendo in generale il testo della relazione, aveva richiesto
all‟onorevole Violante che vi fosse inserita la distinzione tra il "separatismo antistorico
e mafioso del dopoguerra siciliano" e una "sana autonomia regionale e federalista"307.
Ad affermare ciò era stato, in rappresentanza del gruppo leghista, Mario Borghezio che
era rimasto allarmato dalla penetrazione, sia nell' ambiente bancario e finanziario sia
nelle zone del Nord, dell‟organizzazione mafiosa308. A detta di Borghezio, non si poteva
di certo paragonare un‟autonomia “antistorica e mafiosa”309 siciliana a “una sana
autonomia regionale e federalista”310. Da queste affermazioni si intravedevano quelle
idee sostenute dalla Lega. Figlio degli anni Ottanta, proveniente dal Nord Italia, Veneto
e Lombardia in primis, questo nuovo movimento dava sbocco a molteplici umori. La
Lega si basava su un‟enfatica esclusione dell‟altro: il meridionale fannullone,
l‟immigrato criminale, l‟islamico infedele, Roma ladrona, l‟Europa dei tecnocrati 311. Per
questa via la Lega rifletteva le pulsioni xenofobe, etno-nazionaliste312, rappresentava il
simbolo di quell‟antimeridionalismo che andava dilagando nelle regioni settentrionali,
si poneva contro il sistema dei partiti, ma finì per farne parte. Lasciò cadere i cappi con
cui aveva minacciato di impiccarli313 già all‟indomani delle elezioni del 1994 che la
videro trionfare al fianco di Silvio Berlusconi. Propagandava l‟immagine dei cittadini
delle sane regioni del nord impoveriti e oppressi da quell‟Italia dei partiti che foraggiava
quel sud dove il clientelismo la faceva da padrone314. Lo Stato diventava così «il primo
nemico, grande madre cattiva, scatolaio di tutte le tensioni»315.
Aldo Bonomi coglieva bene il tessuto sociale a cui si rivolgeva la Lega. Indagando con
attenzione in Lombardia a partire dai primi anni Ottanta, tentava di rintracciare la radice
del problema descrivendo la paura di quei lavoratori delle ex-grandi fabbriche milanesi
sempre più marginali e accerchiati nella nuova Milano del terziario. Soffermandosi sulla
chiusura a catena delle piccole aziende familiari e sulla crisi di quel capitalismo
familiare, perveniva alla conclusione che «piuttosto che prendersela con se stessi e con
Commissione parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminale
similari, Verbale XXXV, cit., intervento di M. Borghezio, p 1646.
308
Ibidem.
309
Ibidem.
310
Ibidem.
311
S. Lupo, Antipartiti, cit., p.202.
312
Ibidem.
313
Ivi, p. 224.
314
Cfr. S. Colarizzi, M. Gervasoni, La tela di Penelope, cit., p. 7.
315
L. Tornabuoni, L’Italia s’è rotta, intervista a Giuseppe De Rita, «La Stampa», 11 giugno 1991, cit. in
G. Crainz, Il paese reale, cit., p 260.
307
70
il loro capitalismo familiare […] preferirono credere al pifferaio magico che offriva loro
un capro espiatorio “Roma ladrona” e le sue tasse»316.
«Bisogna portare l‟attacco al quartiere generale della mafia»317. Si esprimeva in questi
termini il gruppo Msi capeggiato dal senatore Michele Florino, contrapponendo tale
idea a quella portata avanti dal presidente Violante, il quale, nella bozza di relazione,
aveva parlato di “attacco” da portare al gruppo armato della mafia318.
Durante la fase di discussione sul testo, dopo un altro intervento missino, questa volta di
Matteoli, ne venne fuori un dibattito tra la frangia democristiana e lo stesso Matteoli.
L‟onorevole sosteneva che la proposta di relazione si fosse soffermata su un aspetto che
mandava al macero tutta la pubblicistica affermatasi negli ultimi decenni in relazione al
fascismo319. Il testo, osteggiato dal missino, ribadiva il concetto che il fascismo solo in
un primo momento contrastò la mafia per poi accordarsi con i boss più importanti320.
Per confutare tale affermazioni Matteoli citava un grande sociologo ed esperto in
materia come Pino Arlacchi.
Arlacchi, nell‟intervista citata da Matteoli321, sosteneva l‟idea che Cosa nostra era stata
notevolmente indebolita dal regime fascista, sia tramite l‟operato del prefetto Mori in
Sicilia sia per via di quella generale rivendicazione da parte dello Stato fascista del
monopolio della violenza. Essendo un regime totalitario, il fascismo non permise mai
una grande concorrenza sul piano della violenza, legale o anche illegale.
Continuando nell‟analisi del fenomeno mafioso, l‟autore sosteneva inoltre che la mafia
aiutò gli americani opponendosi al regime322; infatti, essa aveva tutto l‟interesse a far
cadere il regime, tanto più che, dopo la caduta del fascismo, ci fu un momento di ripresa
316
A. Bonomi, Il rancore. Alle radici del malessere del nord, Feltrinelli, Milano, 2008, in ivi., p. 261.
Commissione parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminale
similari, Verbale XXXV, cit., intervento di M. Florino, p 1662.
318
Commissione parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminale
similari , Verbale XXXV,cit., intervento di L. Violante, p. 1643.
319
Commissione parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminale
similari, Verbale XXXVI (Sostituzione di un membro della Commissione e Seguito dell'esame della
relazione sui rapporti tra mafia e politica), intervento di Altero Matteoli, p. 1694.
320
Su fascismo e mafia rimando a Mafia e fascismo, in «Meridiana. Rivista di storia e scienze sociali»,
n.63, 2008; S. Lupo, Il fascismo. La politica in un regime totalitario, Donzelli, Roma, 2005; V. Coco e
M. Patti, Relazioni Mafiose, cit.
321
Intervista rilasciata da Pino Arlacchi ad Antonino Carlucci, in Commissione parlamentare d‟inchiesta
sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminale similari, Verbale XXXVI, cit., intervento di
Altero Matteoli, p. 1694.
322
Sul presunto aiuto della mafia allo sbarco alleato in Sicilia si veda S. Lupo, Quando la mafia trovò
l’America, cit., pp.138-48; Idem, Gli Alleati e la mafia:un patto scellerato?, in «Meridiana. Rivista di
storia e scienze sociali», n.49, 2004, pp. 193-206; R. Mangiameli, La mafia tra stereotipo e storia, cit.,
pp. 19-24; Idem, La regione in guerra (1943-50), in Storia d‟Italia. Le regioni dall‟Unità ad oggi. La
Sicilia, Einaudi, Torino, 1987, p. 502;
317
71
dell‟attività mafiosa fino alla ricostruzione del potere delle famiglie intorno agli anni
Cinquanta e Sessanta323.
Devo qui fare notare come l‟analisi che Matteoli attribuiva a Pino Arlacchi sia errata. In
primo luogo dopo la repressione attuata da Mori la mafia non venne debellata, ne danno
prova i diversi processi contro la mafia che si tennero durante gli anni Trenta 324. Alle
porte della Seconda guerra mondiale, la mafia era lì, quasi come l‟aveva trovata Mori,
con tutti i suoi riti e con i suoi codici, vitale e pervasiva, sempre attenta a proteggere la
sua continuità, seppure in una fase di riassetto325. In secondo luogo gli Alleati non
furono aiutati dalla mafia per sconfiggere il fascismo. Come ha affermato Salvatore
Lupo appariva poco credibile «la congiura degli americani che, a base di aerei e carri
armati arrivano a Villalba recando foulards ricamati con una L (come Lucky Luciano),
con la conseguenza inverosimile di una mobilitazione mafiosa guidata da don Calò per
neutralizzare le amate italo-tedesche»326. E infine, le famiglie continuarono a esistere
anche dopo il rastrellamento fascista; ne dà prova il verbale redatto nel 1938
dall‟Ispettorato interprovinciale di Pubblica sicurezza per la Sicilia327. In esso veniva
riportata l‟intensa attività della mafia palermitana degli anni Trenta, confutando, una
volta per tutte, la sconfitta mafiosa della tanto decantata operazione Mori.
Le affermazioni di Matteoli turbarono non poco l‟ala democristiana. Si ebbe difatti lo
scontro verbale tra il senatore democristiano Cabras e lo stesso missino. Il primo batté
subito colpo affermando che uno storico che portava avanti delle simili affermazioni
non era da prendere come “maestro”328. Immediata fu anche la risposta del missino, che
portando dapprima l‟esempio sul milazzismo, per affermare l‟idea di come un governo
potesse staccarsi dal monopolio democristiano mandandolo all‟opposizione, rincarava la
dose denunciando ai colleghi presenti il tentativo democristiano di far slittare la seduta.
A suo dire i democristiani, terminata la prima seduta, erano andati di corsa da “papà
Martinazzoli”329 per prendere istruzioni sul comportamento da tenere. Lo scambio di
Commissione parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminale
similari, XXXVI, cit., intervento di Altero Matteoli, p. 1694.
324
A tal propositivo si veda V. Coco M. Patti, Relazioni mafiose, cit.
325
Ivi., p. 33.
326
S. Lupo, Storia della mafia, cit., p..225.
327
Fascicolo: n. 228 allegati al verbale n. 99 del 16 luglio 1938 relativo all‟associazione per delinquere di
175 individui scoperta nell‟agro palermitano, in V. Coco M. Patti, Relazioni mafiose, cit., pp.55-211.
328
Commissione parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminale
similari, Verbale XXXVI, cit., intervento di P. Cabras, p 1695.
329
Espressione utilizzata per definire il segretario della Dc Mino Martinazzoli, eletto il 12 ottobre 1992
dopo che la Dc era stata travolta dall‟onda di tangentopoli, in Commissione parlamentare d‟inchiesta sul
323
72
battute proseguì e dovette intervenire il presidente Violante per far continuare la seduta
rimettendola sui giusti binari.
Il gruppo Pds, dal canto suo, condivise appieno il testo della relazione approvandolo in
tutte le sue parti. Con il suo intervento, Massimo Brutti accusava, come altri prima di
lui, i colleghi democristiani di voler posticipare la votazione della relazione a dopo
Pasqua; a dopo il referendum. Il senatore apostrofava così il tentativo democristiano:
Voglio dirlo con franchezza: non riesco a vedere ragioni serie per
condividere ed accettare la proposta di rinvio che è stata avanzata qui
dall‟onorevole Sorice, nei termini in cui egli l‟ha avanzata, per le
motivazioni e per i tempi che egli propone. Cosa significa un rinvio a
dopo Pasqua? Il rinvio rischia di non tenere conto della domanda e
delle attese dell‟opinione pubblica del paese; rischia di non tenere
conto della necessità che un‟istituzione come la nostra si pronunzi
formulando una valutazione. Voglio riferirmi […] ai colleghi del
gruppo Dc: volete proporre un rinvio a dopo Pasqua, a dopo il
referendum? Fatelo! Volete votarlo? Provate a votarlo: è possibile che
vi sia una maggioranza favorevole, ma è anche possibile che non vi
sia330.
Era del tutto negativo, invece, il parere sulla relazione da parte del gruppo radicale
rappresentato da Marco Taradash. Dal punto di vista radicale il testo della relazione
risultava “superato dagli eventi”331 che si stavano succedendo giorno dopo giorno in
quelle settimane convulse per la politica italiana. Infatti, il deputato radicale presenterà
in seguito una relazione di minoranza - la seconda e ultima dopo quella missina – dove
proporrà una sua visione sul reale andamento delle cose.
Questi scambi di battute, punzecchiature e screzi tra i diversi raggruppamenti politici
facevano da cornice a un particolare momento di crisi istituzionale in cui, tra le lunghe
liste degli avvisi di garanzia del “ciclone tangentopoli”332 e l‟imminente referendum
definito un autentico cambio di regime dallo stesso Amato333, si respirava un‟aria carica
di tensione.
fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminale similari, Verbale XXXVI, cit., intervento di A.
Matteoli, p. 1695.
330
Commissione parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminale
similari, Verbale XXXV, cit., intervento di M. Brutti, p. 1669.
331
Commissione parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminale
similari, Verbale XXXV, cit., intervento di M. Taradash, p. 1673.
332
S. Lupo, Storia della mafia, cit., p. 303.
333
Atti parlamentari, Camera di deputati, Discussioni, aprile-maggio 1993, p. 12841, in G. Crainz, Il
paese reale, cit., p. 295.
73
III.2 L’approvazione della relazione
Si arrivò così, tra diverse spinte e vari umori, al giorno fatidico: il 6 aprile 1993. La
votazione si svolse dopo l‟intervento del presidente Violante che, durante i giorni
addietro, era rimasto ad ascoltare quanto le parti avevano da dire, intervenendo grosso
modo solo per scandire i tempi d‟intervento e per placare le discussioni più accese.
La seduta si svolse in maniera pacifica al contrario di quanto era avvenuto nei giorni
precedenti. Violante acconsentì a quasi tutte le modifiche e integrazioni richieste di
volta in volta dai vari gruppi.
Il gruppo della Democrazia cristiana, adesso, appariva ingentilito; e a buon diritto.
Violante, infatti, aveva acconsentito ad attuare gran parte delle loro richieste. Così,
anche se erano stati sconfitti nel tentativo di rinviare la seduta di votazione della
relazione, i democristiani ottenevano una vittoria ben più importante.
Dapprima si videro togliere dal testo la parola “atto dovuto” - volontà espressa anche
dal gruppo repubblicano - poiché si trattava di un termine che poteva far apparire
l‟indagine su Andreotti svolta dalla Procura di Palermo come un fatto positivo,
anticipando di fatto la colpevolezza del senatore.
In secondo luogo venne dato spazio alle responsabilità di settori della magistratura e di
altro tipo di istituzioni, facendo prevalere al binomio mafia-politica quello meno
dirompente di mafia-istituzioni.
Infine fu diminuita la valenza delle testimonianze dei pentiti. Ciò comportò una
modifica dell‟ordine espositivo del testo della relazione, nel senso che prima si diede
spazio ai dati di carattere oggettivo e solo successivamente si fece rifermento a quanto
dichiarato dai collaboratori di giustizia.
La discussione finale sull‟approvazione della relazione sui rapporti mafia politica iniziò
con l‟intervento del senatore Massimo Calvi che esprimeva un giudizio positivo sulla
stesura finale a nome del Partito socialista. Il senatore evidenziò il punto di grande
equilibrio che Violante volle dare al testo, definendo la relazione “ovattata”334.
Evidentemente Violante, nei giorni che seguirono la discussione sul documento,
preoccupato soprattutto di far approvare la relazione, fu più morbido nella sua stesura
finale. La relazione fu votata favorevolmente anche dal gruppo della Rete, rappresentato
Commissione parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminale
similari, Verbale XXXVIII (Seguito dell'esame e votazione della relazione sui rapporti tra mafia e
politica), intervento di M. Calvi, p. 1763.
334
74
da Alfredo Galasso. Veniva apprezzata soprattutto la concezione che la mafia venisse
intesa come “un sistema vero e proprio di potere criminale, economico e politico”335.
Che il lavoro di Violante aveva dato i suoi frutti lo si poteva intuire dall‟intervento di
Mario Clemente Mastella. Il deputato democristiano esprimeva la sua adesione
“convinta” alla relazione:
Io spero che con la nostra adesione, la nostra adesione convinta - i
contributi dei tanti colleghi della Democrazia cristiana hanno
evidenziato alcuni aspetti, operato una serie di sottolineature - alla
relazione Violante, si possa far finalmente giustizia di quella stupida
equazione per cui l‟interfaccia della mafia si è fatto apparire o si
vorrebbe far apparire strumentalmente raffigurato dalla Democrazia
cristiana336.
L‟adesione fu confermata anche dagli onorevoli Ferrauto, facente parte del Partito
socialista democratico italiano, Ferrara Salute dei repubblicani e Scalia capogruppo dei
Verdi337. Quest‟ultimo però si riservò il piacere di ammonire il comportamento del
presidente, reo a parere dello Scalia, di essersi fatto trasportare un po‟ troppo dalla
posizione democristiana. Il deputato insisteva su quella responsabilità politica che la
relazione si era fatta scivolare un po‟ troppo in fretta dalle sue pagine, ritenendo che il
lavoro svolto in Commissione avrebbe consentito di fare maggiore chiarezza sulla
responsabilità di alcuni personaggi di cui lo Scalia senza troppi problemi ne indicava il
referente nella figura di Giulio Andreotti:
Noi avevamo quella vista in più che ci avrebbe potuto tranquillamente
consentire di attribuire - e lo dico con chiarezza - responsabilità
politica al senatore Andreotti. L‟ho ascoltato con grande attenzione in
questi giorni in cui si è pronunciato attraverso la telediffusione ed ho
sentito eminentemente due argomentazioni fatte da lui. La prima è che
un uomo che si trova a vivere una così lunga vita politica sicuramente
nelle sue frequentazioni potrà incontrare Calvi, Sindona, Ciancimino,
perché troppa gente ha incontrato e quindi non è questo un aspetto
puntuale su cui costruire un castello accusatorio. L‟altra riflessione
proposta dal senatore Andreotti è il suo forte impegno sulla battaglia
contro la mafia338.
Commissione parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminale
similari, Verbale XXXVIII, cit., intervento di A. Galasso, p. 1763.
336
Commissione parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminale
similari, Verbale XXXVIII, cit., intervento di M. C. Mastella, p. 1765.
337
Commissione parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminale
similari, Verbale XXXVIII, cit., interventi di R. Ferrauto, G. Ferrara Salute, M. Scalia, pp. 1768-72.
338
Commissione parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminale
similari, Verbale XXXVIII, cit., intervento di M. Scalia, p. 1769.
335
75
Scalia continuava il suo atto di accusa contro Andreotti criticando non tanto la prima
delle affermazioni rilasciate dal senatore alla televisione, ma la seconda, ritenendo
“commisurato” il suo impegno contro la mafia:
Penso che i tempi nei quali il senatore Andreotti, come presidente del
consiglio, ha preso provvedimenti contro la mafia siano commisurati
[…] in questo modo: da quanti anni era latitante Totò Riina quando
sono stati presi provvedimenti? Nel ventesimo anno della latitanza, nel
ventunesimo anno della latitanza! Questo forse ci fa capire […] perché
noi abbiamo insistito su questa posizione: un eminente esponente della
Democrazia cristiana, capo di sette Governi, presente in tutti i
Ministeri o quasi della Repubblica italiana, non può non essersi
accorto del degrado e dell‟infiltrazione mafiosa che permeava le
istituzioni339.
In questa seduta del 6 aprile 1993 ad andare per primo contro il testo della relazione fu
il gruppo Msi. Altero Matteoli, confermando il voto contrario del suo partito, contestava
al presidente di aver presentato un documento “ovattato”340, riprendendo un‟espressione
utilizzata dal senatore Calvi nel precedente intervento, osservando inoltre che la
relazione fosse stata non di poco modificata dallo stesso relatore:
Una relazione scritta a più mani, nella quale ognuno ha ritenuto di
poter disporre di una o più pagine per scrivere ciò che voleva in
funzione del partito di appartenenza. La proposta presentata
dall‟onorevole Violante la scorsa settimana partiva da un presupposto
di fondo: le dichiarazioni dei pentiti; noi non abbiamo condiviso tale
proposta, ma riconosciamo che essa aveva una sua logica. Oggi viene
meno anche questa logica. […] Evidentemente, nella fretta di
accontentare tutti per far votare la relazione si è arrivati anche a
scrivere cose di questo genere341.
La critica al documento continuava, e questa volta il missino insisteva sul punto in cui
la relazione affrontava il problema di alcuni politici collusi con la mafia; a parere di
Matteoli, infatti, nel testo venivano adottati due pesi e due misure:
Mentre su Maira, Occhipinti e Culicchia, […] personaggi politici
minori, si spara a zero e si citano punto per punto i motivi della
339
Ibidem.
Commissione parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminale
similari, Verbale XXXVIII, cit., intervento di A. Matteoli, p.1771.
341
Ibidem.
340
76
richiesta di autorizzazione a procedere, per Andreotti tutto diventa
sfumato, soft342.
Voto favorevole veniva invece dato da Salvatore Crocetta rappresentante del gruppo di
Rifondazione comunista, e Antonio Bargone, capogruppo Pds. Entrambi i gruppi si
ritenevano soddisfatti del lavoro svolto dalla Commissione antimafia e confermavano il
valore del testo.
Le parole, quelle di Mastella, suonavano come una sconfitta amara da digerire per il
radicale Taradash, che, confermando il suo voto contrario alla relazione aveva
sottolineato come la Democrazia cristiana ne fosse uscita ripulita:
Comprendo benissimo l‟adesione – manifestata dall‟onorevole
Mastella - della Democrazia cristiana alla relazione. In effetti,
rappresenta una dilagante vittoria della Democrazia cristiana il fatto
che sull‟ultimo punto sul quale si era creato un conflitto asperrimo in
Commissione, sui giornali e nella società civile, essa abbia potuto
imporre il proprio punto di vista: il fatto che le responsabilità politiche
identificate appartengono ad una sfera della Democrazia cristiana che
è stata abbandonata dal partito oltre che dagli eventuali, supposti
alleati di un tempo343.
Opposta invece la valutazione che la Lega Nord, rappresentata dall‟onorevole Mario
Borghezio, dava alla relazione. Infatti, il leghista valutava favorevolmente il lavoro
svolto, e oltre ad apprezzare l‟inserimento nel testo della parte riguardante la
penetrazione dell‟organizzazione mafiosa nel sistema bancario e finanziario, in
particolar modo nelle zone del Nord Italia, si compiaceva con il presidente Violante per
aver sottolineato nel testo che il rapporto di Cosa nostra con il sistema politico non si
fosse esaurito nell‟attività di garante degli interessi mafiosi che sarebbe stata svolta da
Salvo Lima344.
Si schierava dalla parte dei favorevoli al testo di relazione anche il Partito liberale
italiano. Il suo rappresentate, Alfredo Biondi, apprezzando il lavoro svolto dalla
Commissione era stato critico, invece, in merito alle vicende della fuoriuscita di notizie
che aveva preceduto la votazione del testo di relazione345.
342
Ivi, p. 1772.
Commissione parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminale
similari, Verbale XXXVIII, cit., intervento di M. Taradash, p. 1775.
344
Commissione parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminale
similari, Verbale XXXVIII, cit., intervento di M. Borghezio, p. 1777.
345
Commissione parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminale
similari, Verbale XXXVIII, cit., intervento di A. Biondi, p. 1779.
343
77
Infine la relazione riceveva un altro giudizio positivo anche da parte del gruppo Misto
guidato da Luigi Biscardi. Anche in questo caso però non mancarono le stoccate rivolte
al presidente Violante, reo di aver “stemperato”346 le dichiarazioni contenute nel testo.
Dopo che le valutazioni sul documento ebbero fine, il presidente Luciano Violante
comunicò le modalità di presentazione delle eventuali relazioni di minoranza e note
integrative che i vari gruppi o singoli commissari avrebbero potuto presentare. Tali testi
dovevano essere presentati entro e non oltre i trenta giorni, rispettando così il
regolamento interno che la Commissione antimafia si era data all‟inizio dei suoi
lavori347.
Quanto alle note integrative sui rapporti tra mafia e politica, ne vennero presentate due,
rispettivamente da parte dell‟onorevole Alfredo Galasso rappresentate della Rete, e del
senatore Massimo Brutti del gruppo Pds.
Le note furono inserite all‟interno della stessa relazione di maggioranza e andarono a
incrementare il lavoro principale presentato da Violante.
La prima delle due verteva più sulle relazioni del sistema di potere mafioso,
dimostrando il suo essere articolato, mettendo in luce i suoi referenti nelle imprese,
nelle professioni, nelle istituzioni e nei partiti politici. Un sistema, quello mafioso, che,
intrecciandosi con il sistema della corruzione, determinò un profondo inquinamento
della vita politica e istituzionale oltre che di quella economica348.
La seconda nota integrativa puntava più l‟obiettivo sui rapporti tra servizi segreti e
antimafia, con la costituzione in Sicilia di un centro di addestramento speciale,
Commissione parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminale
similari, Verbale XXXVIII, cit., intervento di L. Biscardi, p. 1781.
347
Si fa riferimento all‟articolo 22 del regolamento interno di cui la commissione si predispose già dalla
seconda seduta. Articolo 22: 1.Gli atti, le delibere e la documentazione completa raccolta dalla
Commissione sono depositati in apposito archivio riservato. Il presidente sovrintende all'archivio, ne cura
la funzionalità e adotta le misure di sicurezza che ritenga opportune, d'intesa con i Presidenti delle due
Camere. 2. Gli atti depositati in archivio possono essere consultati dai commissari e dai collaboratori della
Commissione. 3 Nel caso di atti, delibere e documenti segreti, ai sensi dei commi 1 e 3 dell'articolo 13 del
presente regolamento o dell'articolo 25-octies comma 3 del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306,
convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 1992, n. 356, non è consentita in nessun caso la
possibilità di estrarne copia. Tale limite si applica anche per gli scritti anonimi. Comma 1 Qualunque atto
o documento che perviene alla Commissione è immediatamente protocollato a cura dell'ufficio di
segreteria, in Commissione parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni
criminale similari, in Commissione parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre
associazioni criminale similari, Verbale II (Esame del regolamento interno della Commissione) intervento
di L. Violante, pp. 21-22.
348
Cfr. Nota integrativa alla relazione sui rapporti tra mafia e politica, relatore onorevole Alfredo
Galasso, in Relazione sui rapporti tra mafia e politica, relatore Luciano Violante, cit., pp. 83-117.
346
78
denominato Scorpione, diretto da due esponenti dell‟organizzazione Gladio: il tenente
colonnello Paolo Fornaro e il maresciallo Vincenzo Li Causi349.
La relazione, come già anticipato all‟inizio di questo capitolo, ebbe un largo consenso e
fu votata favorevolmente da quasi tutti i gruppi in seno alla Commissione, con
l‟eccezione del Movimento sociale italiano e del Partito radicale, che presentarono
successivamente le loro relazioni di minoranza350 approvate anch‟esse dalla
Commissione parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre
associazioni criminali similari.
349
Cfr. Nota integrativa alla relazione sui rapporti tra mafia e politica, relatore senatore Massimo Brutti,
in Relazione sui rapporti tra mafia e politica, relatore Luciano Violante, cit., pp. 119-142.
350
Le due relazioni di minoranza quella del Movimento Sociale Italiano e quella del Partito Radicale
verranno approvate rispettivamente dalla commissione antimafia in data 28 aprile 1993 e in data 6
maggio 1993.
79
III.3 La relazione missina
In data 28 aprile 1993 fu presentata al presidente Violante da parte dei commissari
Matteoli e Florino una relazione di minoranza sui rapporti tra mafia e politica.
Il documento, scritto dai due rappresentanti del Movimento sociale italiano, venne
trasmesso, unitamente alla relazione approvata dalla Commissione in data 6 aprile 1993,
ai presidenti dei due rami del parlamento. Il testo di relazione era figlio di un dissenso
già manifestato in seno alla Commissione durante le riunioni che si susseguirono per
l‟approvazione del testo di relazione di maggioranza.
I due firmatari, fin dalle prime pagine, volendo screditare il lavoro proposto da Luciano
Violante, diedero un taglio provocatorio al proprio testo in modo tale da evidenziarne la
netta opposizione con la relazione di maggioranza.
La relazione missina si apriva con una citazione del discorso che Leonardo Sciascia
tenne davanti alla Camera dei Deputati il 26 febbraio del 1980:
Non voglio dire con questo che i lavori della Commissione antimafia
siano del tutto inutili; anzi poco fa mi è stato chiesto di riconoscere
quello che avevo detto alla televisione francese, cioè che la relazione
di minoranza dell‟onorevole Giuseppe Niccolai è una cosa molto
seria; […] non esito a ribadirlo qui. Ci sono cose utili; si evince, per
esempio, che i marescialli dei carabinieri ed i marescialli di pubblica
sicurezza quasi sempre hanno fatto il loro dovere, ma è più in alto che
non si è fatto quello che si doveva fare351.
Tale accenno alla relazione missina del 1976 serviva ad avvalorare il profondo contrasto
che il testo redatto da Florino e Matteoli esprimeva nei confronti di una maggioranza,
che a giudizio dei due relatori, si era piegata alle volontà dei partiti. E per avvalorare ciò
si faceva riferimento a un‟altra relazione di minoranza di destra, una relazione che già in
passato, al pari della relazione di minoranza di sinistra352, si era schierata in profondo
contrasto nei confronti della relazione di maggioranza dell‟allora presidente Carraro. Al
tempo tutti aspettavano l‟esplosione di quella “Santa Barbara” anticipata da Donato
Pafundi, che al momento del suo insediamento aveva preannunciato che negli archivi
351
Discorso tenuto da Leonardo Sciascia davanti la Camera dei Deputati il 26 febbraio 1980, in
Commissione parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminali
similari, Relazione di minoranza sui rapporti tra mafia e politica, relatori on. Altero Matteoli e sen.
Michele Florino, XI legislatura, doc. XXIII, n.2-bis, Roma, 1993, p. 6.
352
Cfr. V. Coco (a cura di), L’Antimafia dei comunisti, cit.
80
della Commissione si andava accumulando una “polveriera”353, ma poi tardò a farla
esplodere, e alla fine la montagna partorì un topolino354. Si parlò all‟epoca di un
“Antimafia” come un‟“occasione mancata”355.
Tornando alla citazione di apertura, il riferimento a Sciascia serviva ad accentuare un
effetto di contrasto, verso un antimafia che aveva presentato un testo di relazione dai
toni smorzati. Anni prima, infatti, Sciascia aveva scritto di “professionisti
dell‟antimafia”356 stigmatizzando molto il comportamento sia di politici sia di quei
magistrati che gravitavano nell‟orbita del pool antimafia, i quali sfruttavano la lotta
contro la mafia ai fine della loro carriera.
In quell‟occasione Sciascia si scagliò in particolare contro Paolo Borsellino reo, a suo
dire, di carrierismo. Borsellino, vincitore del concorso per l‟assegnazione del posto di
Procuratore della Repubblica di Marsala, aveva ottenuto quella qualifica non tanto per
ragioni di anzianità ma per particolari competenze professionali nel settore della
malavita organizzata, maturate sul campo e che gli valsero il superamento della
graduatoria di altri magistrati.
Il credere che in Italia non ci fosse un vero Stato, il non accettare l‟idea che il paese si
trovasse in uno stato di difficoltà, la polemica che lo vide opposto a Giorgio Amendola,
quando lo scrittore si rifiutò di condannare i cittadini di Torino datisi malati per non
fare i giurati in un processo contro le Brigate rosse, aveva fatto maturare nello scrittore
siciliano l‟atteggiamento di chi si rifiutava di accreditare la repressione 357. Si pensi per
esempio al blitz napoletano del 1983, che demolì l‟ala cutoliana della camorra, ma portò
anche alla carcerazione di Enzo Tortora - che ne sarebbe poi uscito pulito, ma dopo un
lungo percorso giudiziario358.
Fu tutto questo a provocare in Sciascia
una rottura col Pci e il conseguente
avvicinamento ai radicali.
La relazione di minoranza del „76 era stata scritta a tre mani; oltre alla parte del già
citato Niccolai, constava di altre due relazioni: una prima scritta dal deputato Nicosia e
353
S. Lupo, Storia della mafia, cit., p. 243.
Ibidem; Per una storia della Commissione antimafia cfr. O. Barrese, I complici, cit.; F. Renda, Storia
della mafia, Sigma, Palermo, 1997, pp. 360-95; U. Santino, Storia del movimento antimafia, cit.; N.
Tranfaglia , Mafia, politica e affari, cit.;
355
È il titolo del volume di M. Pantaleone, Antimafia occasione mancata,cit.
356
Si veda l‟articolo scritto da Sciascia nel bel mezzo del maxiprocesso intitolato ai Professionisti
dell’antimafia, «Corriere della sera», 10 gennaio 1987, in Sciascia, A futura memoria, cit., pp. 123-30.
Articolo ripreso da Salvatore Lupo in Che cos’è la mafia, cit., pp. 28-30.
357
Ivi, p. 7-12; G. Fiandaca S. Lupo, La mafia non ha vinto, cit., p.46.
358
S. Lupo, Che cos’è la mafia, cit., p. 10.
354
81
una seconda dal senatore Pisanò. Oltre all‟elemento di contrasto che le opponeva alle
relazioni di maggioranza, uno dei punti di contatto tra le due relazioni, a distanza di
ventisette anni, era la reale convinzione che la mafia nel periodo fascista fosse stata
debellata. Nella prima parte scritta da Nicosia, per esempio, si legge chiaramente che il
«cosiddetto fenomeno mafioso fu soffocato e reso inoffensivo dal 1927 al 1943»359, e
che «Mori distrusse la mafia»360.
Oggi, alla luce di nuovi e più recenti studi sembra ormai del tutto errato continuare ad
affermare e sostenere tale ipotesi361. Guardando più da vicino l‟ampio seguito
propagandistico dato all‟operazione Mori, si può notare come esso trasse anche in
inganno quella letteratura che, dal secondo dopoguerra in poi, studiando il fenomeno
mafioso, aveva ritenuto che Mori avesse dato un bel colpo di spugna all‟isola
ripulendola dalla mafia.
Questa lettura, però, non teneva conto dell‟esistenza di una seconda repressione messa
in atto dal regime. Infatti, una nuova recrudescenza della criminalità mafiosa aveva
costretto i fascisti a rimetter mano alla questione mafia nell‟isola 362, solo che questa
seconda ondata repressiva non fu per nulla pubblicizzata, dal momento che ciò avrebbe
comportato una chiara sconfessione della precedente minandone l‟efficacia tanto
decantata dal regime. La storiografia, dunque, ignorò quasi del tutto quello che erano
stati gli anni Trenta per la questione dei rapporti tra mafia e fascismo. Si prenda ad
esempio il caso di Michele Pantaleone che in Mafia e politica363 indirizzò sì l‟attenzione
dell‟opinione pubblica nazionale sulla questione della mafia, ma facendosi altresì
condizionare dagli aspetti politici figli del suo tempo; così risulta del tutto inverosimile
sia la ricostruzione storica sulla rinascita mafiosa legata allo sbarco anglo-americano,
sia l‟aver ritenuto che durante gli anni Trenta la mafia come organizzazione
scomparve»364.
Commissione parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia, Relazione del deputato
Nicosia, VI legislatura, doc. XXIII, Roma, p. 960.
360
Ivi, p. 965.
361
A tal proposito rimando ai lavori di. S. Lupo, Storia della mafia cit.; R. Mangiameli, La mafia tra
stereotipo e storia, cit.; P. Pezzino, Una certa reciprocità di favori, cit.; G. Raffaele, L’ambigua tessitura.
Mafia e fascismo nella Sicilia egli anni Venti, Franco Angeli, Milano, 1993; Mafia e fascismo, in
«Meridiana. Rivista di storia e scienze sociali», n. 63, 2008; A. Recupero, Ceti medi e “homines novi”.
Alle origini della mafia, in «Polis», n.2, 1987, pp.307-28; V. Coco M. Patti, Relazioni Mafiose. La mafia
ai tempi del fascismo, XL edizioni, Roma, 2010.
362
V. Coco M. Patti, Relazioni Mafiose, cit., p. 14.
363
M. Pantaleone, Mafia e politica (1943-1962), Einaudi, Torino, 1962.
364
Ivi, p. 46.
359
82
La questione tra mafia e fascismo negli anni Trenta non venne affrontata neanche dai
primi lavori in cui si faceva sistematico ricorso alle fonti archivistiche. Si prenda ad
esempio il lavoro di Salvatore Porto che formalizzando una tripartizione cronologica,
comprendeva in un unico blocco il periodo tra i primi anni Trenta e lo sbarco degli
alleati in Sicilia, durante il quale la mafia, fortemente depotenziata dalla precedente
repressione, sarebbe stata sostanzialmente ignorata dal regime365.
Tornando al testo missino, secondo la relazione di minoranza del 1993 - composta da
undici capitoli e da alcune considerazioni finali che appaiono critiche sulle conclusioni
del testo di maggioranza - il tratto caratterizzante della mafia sarebbe lo stretto rapporto
con la politica.
Partendo dalle origini della mafia i due relatori descrivevano i rapporti con la politica
approfondendo talune figure come quella del senatore Giulio Andreotti; affrontavano
temi come la cultura dei pentiti e il loro utilizzo. Sulla relazione si dedicava un capitolo
anche alla camorra, accusando la relazione di maggioranza di essere stata «totalmente
carente sui fenomeni della altre associazioni mafiose»366, - a onor del vero Luciano
Violante scrisse successivamente una relazione incentrata solo sulla camorra367. Veniva
ripreso anche il tema dell‟espansione della mafia nelle regioni del Centro-Nord368;
nell‟ottavo capitolo veniva messo in luce il coinvolgimento di alcuni agenti dei servizi
segreti, particolare attenzione ricevette la questione del questore Bruno Contrada.
Quest‟ultima vicenda veniva posta per dimostrare come le ramificazioni di Cosa nostra
erano radicate così in profondità da intaccare oltre all‟organigramma politico, quello
imprenditoriale arrivando sino a uomini dei servizi segreti e funzionari dello Stato. Il
numero tre del Sisde prima di essere arrestato il 24 dicembre del 1992, per concorso
esterno in associazione di tipo mafioso, ricoprì in Sicilia per oltre venti anni cariche di
grande importanza come quella di Capo di Gabinetto del super Prefetto, nonché Alto
Commissario per la lotta alla mafia, dottor Emanuele De Francesco. Venne indicato da
collaboratori di giustizia come uomo ”a disposizione di Cosa nostra”369.
365
S. Porto, Mafia e fascismo. Il prefetto Mori in Sicilia, Armando Siciliano, Messina, 2001(1977), cit. in
V. Coco M. Patti, Relazioni Mafiose cit., p. 10.
366
Commissione parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminali
similari, Relazione di minoranza sui rapporti tra mafia e politica, relatori on. Altero Matteoli e sen.
Michele Florino, cit., p. 54.
367
La relazione verrà prima presentata in commissione il 21dicembre del 1993 e successivamente
trasmessa ai presidenti delle due camere in data 15 febbraio 1994.
368
Anche qui c‟è da ricordare la relazione scritta dal senatore Carlo Smuraglia approvata in commissione
il 13 gennaio 1994 e trasmessa ai presidenti delle due camere in data 19 gennaio 1994.
369
Commissione parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminali
similari, Relazione di minoranza sui rapporti tra mafia e politica, relatori on. Altero Matteoli e sen.
83
Il testo missino mirava a screditare tutti quei partiti che tradizionalmente avevano tirato
le fila del potere sino a quel preciso momento. Venivano citate e riportate testimonianze
nel tentativo di dimostrare che in realtà l‟unico partito non colluso con la mafia fosse
appunto quello del Movimento sociale italiano.
Si partiva innanzitutto dall‟aggiustare il tiro di certe dichiarazioni dei collaboratori di
giustizia, che, affermando che i voti della mafia ricadevano su tutti i partiti tranne Pci e
Msi370, non coinvolgevano il Partito comunista. Veniva così impostato, già a partire
dalle prime pagine del secondo capitolo, l‟atto di accusa contro l‟ex Pci371, elencando i
misfatti a cui i comunisti avevano compartecipato. Per avvalorare tale tesi venivano
presi in esame, oltre ad alcune dichiarazioni rilasciate da Vito Ciancimino, alcuni
articoli del “Giornale di Sicilia”, come quello comparso il 26 ottobre 1984, nel quale si
descriveva la spartizione degli appalti che coinvolse tanto gli ex-sindaci democristiani
Elda Pucci e Giuseppe Insalaco, quanto il Partito comunista, che partecipò, al pari degli
altri partiti, alla spartizione della “torta degli appalti”372.
Un altro punto interessante di suddetta relazione appare quello affrontato nel sesto
capitolo, l‟argomento “Andreotti e la ideologia dell‟omertà”.
A partire dalla prima pagina veniva stilato un lungo elenco di nomi di politici accusati
dai collaboratori di giustizia e sospettati di essere collusi con Cosa nostra. Erano
davvero parecchi i nomi di senatori e deputati chiamati direttamente in causa dai pentiti
e nella maggior parte dei casi gli onorevoli coinvolti facevano capo ad un partito in
particolare, la Democrazia cristiana.
Nel momento in cui la Dc venne messa sotto processo e la magistratura chiese
l‟autorizzazione a procedere nei confronti del suo massimo esponente, il senatore Giulio
Andreotti, la stessa ebbe un atteggiamento alquanto “schizofrenico”
373
: da una parte
accantonò l‟ex-presidente del consiglio, dall‟altra inasprì lo scontro contro la
Michele Florino cit., pp. 60-61; Si veda anche A. Dino (a cura di) Pentiti, cit.; su Bruno Contrada si veda
la dichiarazione del collaboratore di giustizia Gaspare Mutolo in Commissione parlamentare d‟inchiesta
sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminale similari, Verbale XXV, cit., deposizione di
G. Mutolo, p. 1247.
370
Si vedano le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia in Commissione parlamentare d‟inchiesta sul
fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminale similari, T. Buscetta, Verbale cit., passim.; A.
Calderone, Verbale XI, cit., passim.; L. Messina, Verbale XV, cit., passim.; G. Mutolo, Verbale XXV,
cit., passim.
371
Nel 1991 dopo il congresso ci fu la nascita del Pds voluta da Achille Occhetto. Si veda G. Crainz, Il
paese reale, cit., pp. 251-53.
372
A. Vaccarella, Eccolo la lista degli appalti rossi, «Il Giornale di Sicilia», 26 ottobre 1984.
373
Commissione parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminali
similari, Relazione di minoranza sui rapporti tra mafia e politica, relatori on. Altero Matteoli e sen.
Michele Florino, cit., p.44.
84
magistratura presentando un esposto alla magistratura di Roma. All‟interno dello stesso
partito si creò una spaccatura: mentre per bocca di Martinazzoli veniva confermata la
fiducia verso un organo così importante dello Stato, d‟altro canto c‟era chi, come
Gerardo Bianco, accusava il tentativo di destabilizzare i poteri dello Stato374.
La relazione proseguiva descrivendo la carriera del senatore, elencando quei misfatti di
cui, in tutta la sua lunga carriera di politico, si era macchiato. La demolizione della
figura di Andreotti iniziava dall‟accusa di aver portato avanti il tentativo di far scattare
il “golpe” Borghese per parare, sempre a detta dei due relatori, l‟ondata che stava per
travolgere Sindona. Veniva ricostruita, nella fattispecie, l‟intera vicenda nel tentativo di
dimostrare come ambienti più disparati come la massoneria - nello specifico la loggia
P2 - la mafia, l‟ambiente bancario, quello politico e anche il massimo vertice del
Governo avevano fatto quadrato intorno al bancarottiere Michele Sindona375.
La relazione, poi, puntava l‟obiettivo sul connubio Andreotti-Lima che vedeva in
quest‟ultimo, ritenuto il braccio destro del senatore, il primo referente politico che la
mafia aveva a disposizione. Infatti, Lima era stato da sempre “chiacchierato” all‟interno
dell‟ambiente della magistratura, come dimostrano vari documenti e soprattutto la
sentenza del giudice Terranova del 23 giugno 1964, dove veniva messa in luce l‟antica
amicizia che legava Salvo Lima ai fratelli La Barbera, Angelo e Salvatore 376. Per la
relazione missina appariva chiaro: «Lima era amico dei mafiosi e ad Andreotti non
dispiaceva starci accanto»377.
Sempre il senatore veniva poi inserito nella vicenda che aveva portato all‟assassinio del
generale Dalla Chiesa. Si citava, così, il famoso incontro del 5 aprile 1982 annotato sul
diario del generale378, si ripercorrevano le fasi del processo e si menzionavano le
dichiarazioni di alcuni pentiti che lo accusavano per gli omicidi sia del generale Dalla
Chiesa che del giornalista Pecorelli379.
A conclusione del paragrafo, che concludeva la relazione missina, si palesava la
speranza che il boss mafioso Gaetano Badalamenti, chiamato in causa dai pentiti,
Si veda l‟artico di G. Luzi, La crociata per Giulio ha spaccato la DC, «la Repubblica», 6 aprile 1993.
Su Michele Sindona si veda S. Lupo, Che cos’è la mafia, cit., pp. 48-53; Idem, Storia della mafia, cit.,
pp. 308-312.
376
Sulla storia dei fratelli La Barbera si veda S. Lupo, Storia della mafia, cit., pp.258-59.
377
Commissione parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminali
similari, Relazione di minoranza sui rapporti tra mafia e politica, relatori on. Altero Matteoli e sen.
Michele Florino, cit., p.45.
378
S. Lupo, Che cos’è la mafia, cit., p.62; Idem, Storia della mafia, cit. p.308.
379
Commissione parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminali
similari, Relazione di minoranza sui rapporti tra mafia e politica, relatori on. Altero Matteoli e sen.
Michele Florino, cit., p. 52. Cfr. S. Lupo, Storia della mafia, cit., p.303.
374
375
85
potesse, in un futuro alquanto prossimo, confermare tale tesi, esortando il Parlamento ad
attuare controlli più severi, affinché il Badalamenti non finisse, come Sindona e
Pisciotta, ucciso in carcere da un caffè omicida380.
Commissione parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminali
similari, Relazione di minoranza sui rapporti tra mafia e politica, relatori on. Altero Matteoli e sen.
Michele Florino, cit., p. 52.
380
86
III.4 La relazione radicale
Con la relazione sui rapporti fra mafia e politica (mafia e politica in
Sicilia, per dire meglio) approvata a larghissima maggioranza, con i
voti favorevoli di DC, PDS, PSI, Lega Nord, PSDI, PRI, PLI, Verdi,
Misto, la Commissione antimafia ha perso una grande occasione di
pulizia, piegandosi ad uno degli ultimi - è da augurarsi- compromessi
possibili del regime partitocratico e consociativo381.
Si apre con queste dichiarazioni al veleno la seconda e ultima relazione di minoranza
presentata alla Commissione antimafia dal Partito radicale. La relazione radicale
rappresenta quasi un manifesto del partito. Nei vari paragrafi che si susseguono nel testo
vengono elencati ad uno ad uno i punti del pensiero radicale. Per Taradash la
Commissione antimafia non aveva voluto intraprendere il difficile cammino verso la
verità, e fu per questo che egli presentò il suo punto di vista.
Più che una relazione che esaurisce il punto sui rapporti tra mafia e politica, il
documento appare come «una simulazione di laboratorio»382, per tracciare la strada per
una futura relazione su di un tema tanto difficile come quello sui rapporti tra mafia e
politica.
Dopo aver posto una serie di domande retoriche nei primi paragrafi del testo a partire
dal secondo capitolo iniziava l‟atto di accusa verso quell‟opposizione di sinistra che nel
corso degli anni era stata del tutto assente e/o compiacente. Dal secondo dopoguerra in
poi, a giudizio del radicale, era completamente mancata quella parte di opposizione
tanto decantata dalla sinistra, col Pci in testa.
Gli accordi politici e di sottogoverno tra partiti di maggioranza, Dc in primo luogo, e
Pci erano state una sorta di costante della storia della Repubblica
In Sicilia il consociativismo assunse infatti caratteri particolari, influenzando tutti gli
aspetti della vita economica e civile della regione, già a partire dal lontano 1958 quando
il presidente della regione era Silvio Milazzo, il “democristiano dissidente”383. Infatti, il
milazzismo rappresentava, a detta del radicale, un caso clamoroso di consociativismo.
Al suo interno orbitavano i gruppi più disparati: da alcuni democristiani, in rotta con
Commissione parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminali
similari, Relazione di minoranza sui rapporti tra mafia e politica, relatore on. Marco Taradash, XI
legislatura, doc XXIII, n. 2-ter, Roma, 1993, p 1.
382
Espressione utilizzata da Taradash in ivi, p.12.
383
Ivi, p. 13.
381
87
Roma, ai monarchici, missini, socialisti e comunisti - quest‟ultimi a dare il loro
appoggio dall‟esterno.
Secondo la ricostruzione radicale il Governo Milazzo avrebbe influenzato la vita
politica in Sicilia per gli anni a venire. La Sicilia aveva ereditato infatti il definitivo
degrado dell‟idea di autonomia e la consuetudine all‟intrigo politico, al trasformismo e
all‟affarismo. Era sicuramente nella gestione dei finanziamenti pubblici che si ritrovava
la più durevole influenza del milazzismo sulla successiva storia politica, economica e
sociale dell‟isola.
Per avvalorare tale idea veniva presa ad esempio la costituzione della Sofis384.
Attraverso i crediti partecipati, la Sofis acquisiva quote ed azioni di società nate già
fuori da logiche di mercato. Si trattava, in particolare, di aziende in difficoltà
economiche che venivano finanziate dalla Sofis stessa, che, invece di richiedere
nuovamente indietro le somme prestate, acquisiva le quote delle suddette società. Ad
amministrare il tutto c‟erano alcuni personaggi che condizionarono la vita della regione
per oltre un trentennio: l‟avvocato Vito Guarasi385, il professor Francesco Pignatone,
l‟avvocato Francesco Morgante e l‟ingegner Domenico La Cavera386.
La Sofis interpretò, sotto il profilo economico e imprenditoriale, una perfetta forma di
consociativismo fra i poteri, che trovò la perfetta corrispondenza in campo politico. Due
facce della stessa medaglia insomma che al di là degli apparenti scontri tra maggioranza
e opposizione, esprimeva, in realtà, una totale convergenza di scelte e d‟interessi387.
A parere del radicale, la sinistra, con Pci in testa, fu pienamente corresponsabile delle
degenerazioni partitocratiche e della parallela crescita mafiosa.
Questo punto di vista appare completamente all‟opposto di quello presentato dalla
relazione di maggioranza dove veniva espresso, su un binario parallelo a quello delle
indagini giudiziarie in corso in quel periodo, un atto di accusa verso la sola Dc, o
meglio verso quel settore della Democrazia cristiana gravitante lungo l‟asse LimaCiancimino-Andreotti.
Nella terza e ultima parte la relazione analizzava il tema del narcotraffico. Taradash
iniziava un‟analisi molto lucida su quello che era stato il falso mito della mafia
Cfr. Commissione parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia, Relazione dell’on.
Niccolai, VI legislatura, doc. XXIII, Roma, p. 1106.
385
Ivi, p. 1089-94.
386
Su La Cavera si veda Commissione parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia,
Relazione dell’on. Niccolai, cit., p. 1096.
387
Commissione parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminali
similari, Relazione di minoranza sui rapporti tra mafia e politica, relatore on. Marco Taradash, cit., p. 14.
384
88
tradizionale che per ragioni morali o di costume rifiutava di occuparsi del traffico di
droga388. Infatti, andavano estirpati due stereotipi persistenti – che i mafiosi alla don
Corleone nel “Il Padrino” fossero riluttanti a imbattersi nel commercio di droga e che in
Sicilia essi si occupavano esclusivamente di faccende rurali fino agli anni ‟60. I mafiosi
erano implicati in traffici di droga da moltissimo tempo. Persino prima della guerra, nel
1935, Serafino Mancuso fu condannato da un tribunale degli Stati Uniti a quarant‟anni
di carcere per spaccio di stupefacenti. Espulso nel 1947, tornò ad Alcamo dove riprese
insieme con il fratello ciò che doveva essere un‟attività di lungo periodo389. Il Mancuso
ovviamente non era il solo che in quest‟ambiente trafficava in stupefacenti. Lo scambio
transoceanico tra la Sicilia e gli Stati Uniti fin dagli anni Venti rappresentò il canale
principale per il contrabbando di droga. Nascosti nelle casse d agrumi, oppio e morfina,
viaggiavano da Palermo a New York in quantità tali da provocare per rappresaglia una
serie di restrizioni commerciali da parte americana390. Calogero Orlando, nato a
Terrasini, partito per Detroit nel ‟22 con quattrocento dollari, tornò nel ‟28 con
ottocento dollari; nel corso di un continuo viavai tra America e Sicilia e Spagna si
arricchì con l‟import-export di olio e formaggi, con la fabbricazione e il commercio di
sardine e acciughe salate - almeno a suo dire. Infatti secondo la polizia la merce che
trattava era la droga391. L‟elenco continua con Jimmy l‟americano, alias Pietro Davì,
ritornato dal ritornato dagli Stati Uniti nel ‟34,viene arrestato nel ‟35 a Milano per
traffico di droga392.
L‟analisi di Taradash continuava con la stima dei profitti legati al traffico di droga e i
traffici del riciclaggio di denaro sporco. Veniva stimato che all‟epoca, secondo i dati
rilasciati dal GAFI (gruppo di azione finanziaria internazionale), venivano riciclati una
somma proveniente dal traffico di droga, oscillante tra i centoventi e i centocinquanta
miliardi di dollari. In Italia l‟ISTAT stimava cifre più prudenti, parlando di un mercato
A tal proposito rimando a S. Lupo, Quando la mafia trovò l’America, cit., pp. 232-34.
Commissione parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminali
similari, Relazione di minoranza sui rapporti tra mafia e politica, relatore on. Marco Taradash, cit., p.22.
390
S. Lupo, Storia della mafia, cit., p. 260; Per l’esportazione agrumaria, in «Sicilia Nuova», 19 marzo
1926, in S. Lupo, Storia della mafia, cit. p. 260; Si veda anche la cronaca del sequestro di 100 kg di
morfina in partenza per New York, «Giornale di Sicilia», 24 luglio 1926, cit. in S. Lupo, Storia della
mafia, cit., p. 260.
391
Tribunale di Palermo. Sentenza contro F. Garofalo e altri, 31 gennaio 1966, in Antimafia, Doc., XIV,
t. XIV, cit. in S. Lupo, Storia della mafia, cit., p. 260.
392
S. Lupo, Storia della mafia, cit., p. 160; Cfr. Commissione parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno
della mafia in Sicilia, Relazione sul traffico mafioso di tabacchi e stupefacenti nonché sui rapporti tra
mafia e gangsterismo italo-americano, relatore senatore Michele Zuccalà, VI legislatura, doc. XXIII,
Roma, pp. 333-34.
388
389
89
che oscillava tra i novemilacinquecento e i tredicimila miliardi, di cui settemila per la
sola eroina393.
Taradash chiudeva la sua relazione sia sottolineando l‟abisso che la distanziava
dall‟analisi fatta nella relazione di maggioranza sia introducendo una serie di proposte.
Prima fra tutte la riforma elettorale. Una riforma del meccanismo elettorale in senso
uninominale maggioritario ad un turno avrebbe ridotto, a parer suo, le possibilità
d‟influenza dei gruppi mafiosi.
Il radicale giudicava anche necessaria la riforma di quel sistema imperniato sulla
strategia proibizionista rilevatosi impotente dinanzi alla diffusione della droga e al suo
consumo, e che aveva favorito l‟espansione e il consolidamento delle organizzazioni
criminali, sempre più potenti sia economicamente che politicamente, con effetti
devastanti nel tessuto civile del paese394.
Per Taradash alla Commissione antimafia era mancato il coraggio di compiere quegli
atti di verità e di chiarezza che sarebbero serviti a costruire un futuro migliore. E il fatto
che il testo di maggioranza fosse stato approvato alla quasi unanimità parlava chiaro.
Commissione parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminali
similari, Relazione di minoranza sui rapporti tra mafia e politica, relatore on. Marco Taradash, cit., pp.
26-27; Cfr. L. Violante, La mafia dell’eroina, cit., pp. 127-61.
394
Commissione parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminali
similari, Relazione di minoranza sui rapporti tra mafia e politica, relatore on. Marco Taradash, cit., p. 31.
393
90
Capitolo quarto
La relazione di maggioranza
IV.1 Azione-reazione
Finora siete stati a guardare, ora state facendo qualche passo
importante […]. Se si molla, Cosa nostra avrà il tempo di
riorganizzarsi. Non dobbiamo attaccare sempre lo Stato facendo il
gioco di Cosa nostra. No, in questo momento lo Stato va aiutato nel
suo sforzo395.
Con queste parole Leonardo Messina, durante l‟audizione del 4 dicembre del 1992
davanti ai membri della Commissione antimafia, ben sintetizzava l‟animo di sfiducia
che seguì le stragi di quello stesso anno.
Inquadrando la relazione di maggioranza in quel piccolo lasso di tempo, appena un
biennio - dal 1992 al 1993 -, si può scorgere in essa la risposta alla necessità che si era
insinuata in gran parte dell‟opinione pubblica italiana di una moralizzazione tanto
politica quanto istituzionale, in particolare per quel che concerneva la lotta alla mafia.
Si voleva confidare in un intervento salvifico della magistratura, la quale avrebbe
traghettato la Repubblica verso una seconda fase, chiudendo repentinamente coi misfatti
della prima.
La testimonianza di Leonardo Messina era emblema di quel messaggio fatto passare
dallo stesso Violante che, nel documento finale, sintetizzava lo statu quo che per molti
anni aveva visto le istituzioni italiane inermi di fronte al dilagare del fenomeno mafioso,
con cenni di reazione in occasione di qualche clamoroso omicidio di stampo mafioso396.
Partendo da questi presupposti, Violante si poneva come il portatore di un risanamento
morale e il condottiero di un‟azione duratura e di una lotta alla mafia non più limitata
«da esigenze di politica internazionale e interna, negoziazione istituzionale e tendenze
isolazioniste in Sicilia»397.
Commissione parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminale
similari, Verbale XV, cit., deposizione di L. Messina, pp. 531-32.
396
Lo stessa visione è riproposta da Violante in. L. Violante (a cura di), Mafie e antimafia. Rapporto ’96,
cit., pp. VII-XV;Id., Il ciclo mafioso, Laterza, Roma-Bari, 2002.
397
Commissione parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminale
similari, Relazione sui rapporti tra mafia e politica, relatore on. Luciano Violante, cit., p. 53.
395
91
Da qui la denuncia di tutto ciò che concorse a creare un clima di “coabitazione”, nel
quale si erano sviluppate le connessioni tra mafia e politica. Violante, tanto per
cominciare, sosteneva polemicamente che non era un caso che anche stavolta l‟azione
repressiva delle istituzioni aveva iniziato a muoversi dopo gli sconcertanti attentati del
1992398, superando i forti ritardi e i rimandi che si erano profilati all‟orizzonte prima di
quei fatti.
La relazione di maggioranza descriveva quella paralisi a cui era approdata la lotta alla
mafia attraverso un‟analisi storica dello sviluppo delle connessioni tra mafia, politica e
istituzioni a partire dal secondo dopoguerra in poi. L‟accusa era diretta in primis ai
vertici della Dc regionale, con Salvatore Lima in testa, poiché si segnalava come
avessero favorito, o in ogni caso come non avessero osteggiato, la connivenza tra
istituzioni e mafia399.
Nel testo si affermava che l‟azione repressiva procedeva a “fisarmonica”400, nel senso
che prevedeva un reazione all‟organizzazione mafiosa solo quando quest‟ultima
attaccava, per poi tornare subito dopo allo stato precedente di tacita coabitazione tra
istituzioni e mafia.
Il direttore del Sisde Angelo Finocchiaro, nel corso dell‟audizione davanti alla
Commissione401, iniziava la sua deposizione sottolineando come gli stessi servizi erano
tirati in causa solo in ”momenti particolari”:
A tal fine ricordo pure che la competenza dei servizi in tema di
criminalità organizzata[…] può essere suddivisa in due tempi e che lo
spartiacque è rappresentato dalla legge n. 410 del 30 dicembre 1991.
Prima di tale data i servizi non avevano competenza istituzionale nei
confronti della criminalità e soltanto in momenti particolari,
soprattutto allorquando l'attività criminale si è espressa con
manifestazioni eclatanti […] hanno svolto un'attività saltuaria in
materia402.
Anche l‟onorevole Ayala durante la fase dibattimentale sul testo di relazione
valorizzava il fatto che, nel documento, Violante si fosse soffermato su un punto di
398
Ivi, p. 73.
Ivi, p.67.
400
Ivi, p. 54.
401
L‟audizione davanti alla Commissione antimafia si svolse il 12 gennaio 1993.
402
Commissione parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminale
similari, Verbale XIX (audizione del prefetto Angelo Finocchiaro, direttore del Sisde), deposizione di A.
Finocchiaro, p. 697. Si veda anche L. Violante, Il ciclo mafioso, cit., pp. 71-74.
399
92
estrema importanza, ricostruendo nella fattispecie la risposta dello ”Stato”403 al
fenomeno mafioso. Ayala, che non a caso aveva lavorato per parecchi anni al fianco di
Falcone e Borsellino, svolgendo anche il ruolo di pubblico ministero durante il primo
maxiprocesso, giudicava la riposta istituzionale basata sulla logica dell‟”emergenza
emergenziale”404:
Io l'ho sempre definita basata sulla logica dell'emergenza,
emergenziale. Ed ho sempre ritenuto che questo sia stato il grande
limite perché accostare il termine emergenza […] ad un fenomeno che
è più vecchio dello Stato italiano, poiché la mafia esisteva già prima
del 1861, è la più grande contraddizione in termini che si possa
immaginare. Parlare di emergenza terroristica va benissimo: il
terrorismo non c'era, è esploso, ha avvilito la qualità della vita
democratica del paese; quell'emergenza andava affrontata in termini
emergenziali, perché tale era. Ma è stato un limite l'aver affrontato o
tentato di affrontare la mafia con una risposta emergenziale; perché è
vera un'altra affermazione, cioè che la forza della mafia è tutta
derivata dalla debolezza dello Stato, non è una forza autonoma: è
ovvio, scontato ma è giusto, a scanso di equivoci, che sia chiarito405.
La tesi portata avanti, insomma, era quella che la mafia in passato non aveva ricevuto
particolari attenzioni se non per atti veramente scellerati. Si pensi alla strage di Ciaculli
del 1963 che costò la vita ai cinque carabinieri e ai due militari intervenuti per
disinnescare l‟esplosivo406; a seguito di quell‟eccidio si ruppe lo stallo in cui giaceva la
nomina della nuova Commissione antimafia, dopo lo scioglimento anticipato delle
Camere nel ‟63407; infatti, di fronte al clamore suscitato dalla strage di Ciaculli si
insediò la Commissione presieduta dal democristiano Pafundi408.
Violante faceva emergere l‟azione a “fisarmonica” dello Stato sottolineando come tutte
quelle leggi che erano nate per contrastare la mafia venivano approvate solo dopo e in
conseguenza di gravi delitti. Ne erano un esempio la legge sulle misure preventive del
31 maggio 1965, provvedimento figlio della reazione delle istituzioni dopo l‟eccidio di
Ciaculli; la proposta di legge presentata dal deputato comunista Pio La Torre409 il 31
Commissione parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminale
similari, Verbale XXXV, cit., intervento di G. M. Ayala, p. 1719.
404
Ibidem.
405
Ibidem.
406
Cfr. S. Lupo, Storia della mafia, cit., p. 272; Commissione parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno
della mafia in Sicilia, Relazione conclusiva, relatore Luigi Carraro, cit., p.195.
407
S. Lupo, Antipartiti, cit., p.65.
408
Cfr. V. Coco, L’antimafia dei comunisti, cit., p. 24.
409
La legge passata alla storia come Rognoni-La Torre (Legge del 13 settembre 1982, n. 646.)
rivoluzionò la giurisprudenza in materia di lotta alla criminalità organizzata, istituendo l‟associazione di
tipo mafioso e definendone la fattispecie:«L‟associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno
403
93
marzo del 1980 che sino al 1982 aveva visto l‟approvazione di un solo articolo e che
venne approvata nel giro di dieci giorni dopo lo sgomento provocato dalla morte del
generale Dalla Chiesa410; le integrazioni alla legge La Torre e la concessione di più
incisivi poteri all‟Alto Commissario Antimafia411 volute subito dopo l‟omicidio del
presidente di sezione della Corse d‟Assise d‟Appello di Palermo Antonino Saetta,
avvenuto nel settembre 1988. La morte del giudice Saetta era legata a due processi
contro la mafia dei quali il giudice si stava occupando in quel periodo: quello
sull‟omicidio del giudice Chinnici che vedeva imputati i Greco di Ciaculli412 e quello
relativo all‟uccisione del capitano dei carabinieri Basile, che incolpava i boss Puccio,
Bonanno e Madonia413come esecutori del delitto.
La ricostruzione che si evinceva dal testo era che le leggi che gravitavano attorno
all‟azione antimafia erano sempre dettate da omicidi eccellenti o eclatanti che colpivano
straordinariamente l‟opinione pubblica, come avvenne anche per l‟omicidio del giovane
magistrato Rosario Livatino (la sua morte, avvenuta il 21 settembre del 1990, non fu
voluta da Cosa nostra ma da un organizzazione rivale, la” Stidda” di Agrigento414).
Non era casuale, poi, che Violante proseguisse la sua analisi valorizzando tutte quelle
leggi approvate nei primi anni novanta. Il punto era che si voleva collocare in quel
parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di
assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto
la gestione o comunque il controllo di attività economiche, per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé
o per altri ovvero al fine di impedire o ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad
altri in occasione di consultazioni elettorali».
410
Commissione parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminale
similari, Relazione sui rapporti tra mafia e politica, relatore Violante, cit., p. 54.
411
Ivi, p. 55.
412
La sentenza del processo per l‟omicidio del giudice Chinnici venne emessa nel dicembre 1988, i
fratelli Greco furono assolti dall‟accusa di strage e condannati per associazione mafiosa a pochi anni di
carcere. Si veda anche F. De Pasquale E. Iannelli, Così non si può vivere. Rocco Chinnici: la storia mai
raccontata del giudice che sfidò gli intoccabili, Castelvecchi, Roma, 2013.
413
II processo Basile ha una storia assai particolare. Il 23 febbraio 1987 la prima sezione penale della
Cassazione annullò le condanne inflitte per l'omicidio del capitano Basile, sostenendo, con una brusca
innovazione giurisprudenziale (con un solo precedente: sez. I, 30 gennaio 1980, Muscovich), che
l'omissione dell'avviso agli avvocati del giorno dell'estrazione a sorte dei giurati comportava nullità
assoluta. Quattro mesi dopo, il 27 giugno 1987, La Rocca e le sezioni unite ristabilirono la precedente
giurisprudenza, ma ormai l'annullamento era stato pronunciato. Gli sviluppi furono tragici. La Corte
d'Assise d'Appello, presieduta dal dottor Saetta, ricondannò gli imputati. Il presidente Saetta venne ucciso
il 25 settembre 1988, mentre cominciò a circolare il suo nome come probabile presidente per l'appello
relativo al maxiprocesso. La prima sezione della Cassazione annullò di nuovo il 7 marzo 1989 la sentenza
di condanna, questa volta per difetto di motivazione. Alla fine gli imputati furono condannati con
sentenza divenuta definitiva. Cfr. Commissione parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle
altre associazioni criminale similari, Relazione sui rapporti tra mafia e politica, cit., p. 33.
414
Dell‟esistenza delle “stidde” fu il collaboratore di giustizia Leonardo Messina a parlarne; alla domanda
posta da Violante su cosa fossero esattamente, il Messina rispondeva: «Le "stidde" sono un'espressione di
Cosa nostra. Un uomo messo fuori confidenza che punge altri uomini diventa "stidda". Si comporta
precisamente come i mafiosi» in Commissione parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle
altre associazioni criminale similari, Verbale XV, cit., deposizione di L. Messina, p. 542.
94
frangente una svolta e a riprova di ciò il relatore citava le leggi in materia di sequestri
di persona e di protezione dei collaboratori di giustizia415; i provvedimenti di buon
andamento dell‟attività amministrativa416; le leggi relative allo scioglimento dei consigli
comunali inquinati417; quelle sull‟irrigidimento del processo penale, sulla trasparenza
degli appalti e sull‟attività amministrativa418; le leggi di coordinamento dell‟attività
antimafia della polizia419; le norme sulla limitazione dell‟elettorato passivo per gli
imputati di reati di mafia420; il decreto legge anti-racket421.
Ma anche questi interventi, sottolineava a rigor di cronaca Violante, erano stati
preceduti o accompagnati da un forte clima di tensione dovuto a un eccezionale numero
di omicidi in quelle regioni tradizionalmente infestate dalla mafia422. Il decreto-legge
anti-racket, ad esempio, venne presentato il 31 dicembre del 1991 solo dopo l‟omicidio
a Palermo dell‟imprenditore Libero Grassi avvenuto il 29 agosto del 1991. Ma si pensi
anche alla reazione che si ebbe dopo la morte del giudice Falcone - avvenuta il 23
maggio del 1992 - e quella, a distanza di due mesi, del giudice Paolo Borsellino - il 19
luglio. I due eccidi scatenarono tanto nella società civile quanto nelle istituzioni una
reazione senza precedenti. In quel contesto ci fu una repressione dei livelli militari della
mafia che portò all‟arresto di boss latitanti da anni, primo tra tutti Totò Riina,
riconosciuto da molti come il capo dei capi423.
Retoricamente la relazione si interrogava anche sul perché di tutte quelle occasioni
perse per eliminare una pericolosa “coabitazione”. Violante ricordava, ad esempio, le
confessioni rese negli anni Settanta da Leonardo Vitale424 e dal boss Giuseppe Di
415
Legge del 15 marzo 1991, n. 197.
Legge del 12 luglio 1991, n. 203.
417
Legge del 22 luglio 1991, n. 221.
418
Legge del 13 maggio 1991, n. 152.
419
Legge del 30 dicembre 1991, n. 410 ; Legge del 20 gennaio 1992, n. 8.
420
Legge del 18 gennaio 1992, n. 16
421
Decreto-legge del 31 dicembre 1991, n. 419.
422
Gli omicidi di mafia furono 226 nel 1988, 377 nel 1989, 557 nel 1990, 718 nel 1991. Dati desunti dai
dossiere «Andamento della criminalità. Situazione aggiornata», relativi agli anni 1989, 1990, 1991,
redatti dal Ministero dell'interno, in Commissione parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno della mafia e
sulle altre associazioni criminale similari, Relazione sui rapporti tra mafia e politica, relatore Violante,
cit., p. 55.
423
L‟arresto del boss mafioso avvenne il 15 gennaio 1993. La vicenda del suo arresto rimane ancora oggi
avvolta nel mistero. Tra i fautori della trattativa stato-mafia si sostiene che fu Provenzano a svelare il
nascondiglio del boss, negando quello che fin‟ora era stata la versione ufficiale che legavano l‟arresto del
boss avvenuto dopo le rivelazioni del collaboratore di giustizia Baldassarre Di Maggio. Sulla presunta
trattativa si veda G. Fiandaca S. Lupo, La mafia non ha vinto, cit.
424
Il mafioso Leonardo Vitale che il 30 marzo 1973 si presentò spontaneamente alla squadra mobile di
Palermo, confessò delitti da lui stesso commessi, riferì notizie di eccezionale rilievo su Cosa Nostra; nel
giudizio, venne ritenuto attendibile e condannato solo per le accuse che riguardavano se stesso; venne
invece ritenuto seminfermo di mente e non attendibile per le accuse rivolte agli altri componenti di Cosa
416
95
Cristina425 che non furono sfruttate adeguatamente da delle autorità associate a quel
malaffare statale che aveva caratterizzato il periodo precedente; la reazione, si
sottolineava ancora una volta, si arenava quando le acque si erano del tutto calmate.
L‟esempio più clamoroso fu dato dal periodo successivo alla prima guerra di mafia, che
vide un‟iniziale grande mobilitazione - fecero seguito numerosi arresti, invii al confino,
le inchieste del giudice Terranova, le inchieste della Commissione antimafia- e un
conclusivo nulla di fatto. Sembrò quasi di rivedere la prassi descritta da Sciascia nella
sua novella Filologia dove i mafiosi, ascoltando i consigli dei notabili, scelsero il
ritorno alle prudenze antiche426.
Le testimonianze dei pentiti descrivevano una mafia al collasso: «Cosa nostra non è più
esistita nel palermitano dopo il 1963 – affermava Antonino Calderone – Era K.O. […]
sembrò andare allo sbando. Basta pensare che il capo della commissione provinciale di
Palermo, Totò Greco “Cicchiteddu”427, abbandonò la carica ed emigrò in Venezuela»428.
La tesi era avvalorata anche dalle dichiarazioni di Buscetta, il quale affermava che nel
1963 le famiglie mafiose si erano sciolte a causa della repressione: «La polizia a
quell‟epoca fece sul serio, veramente. Mandò in galera tutto il fior fiore e disturbò gli
altri mandandoli al confino […]. La commissione che era stata costituita da Salvatore
Greco, detto Cicchiteddu, si sbandò. Allora si sciolsero tutte le famiglie»429. Ma dopo la
prima reazione si ebbe la frenata. Così dai processi di Catanzaro prima e Bari poi430, i
nostra; uscì dal carcere nel giugno 1984, fu ferito gravemente in un agguato il 2 dicembre dello stesso
anno e morì cinque giorni dopo. Si veda S. Lupo, Storia della mafia, cit. p. 249-52.
425
Il 25 agosto 1978 i carabinieri di Palermo presentarono alla Procura di quella città un rapporto
giudiziario scaturente dalle confessioni spontaneamente rese da Giuseppe Di Cristina, boss di Riesi, e
dalle indagini conseguenti. Di Cristina aveva anticipato la guerra di mafia che porterà i corleonesi ai
vertici di Cosa Nostra; aveva annunciato l'omicidio di Cesare Terranova (che verrà ucciso il 25 settembre
1979); aveva indicato la famiglia dei Brusca di San Giuseppe Jato come una tra le più pericolose alleate
dei corleonesi; aveva svelato l'organigramma delle famiglie mafiose; aveva fornito informazioni nuove ed
assai rilevanti sul traffico di stupefacenti. Ma sulla base di quel rapporto non venne compiuta alcuna
indagine. Si veda S. Lupo, Storia della mafia, cit. p. 296.
426
L. Sciascia, Filologia, in Id., Il mare colore del vino, Einaudi, Torino, 1973, pp. 88-96, cit. in G.
Fiandaca e S. Lupo, La mafia non ha vinto, cit., pp. 12-15.
427
Sulla famiglia Greco si veda S. Lupo. Storia della mafia, cit., pp. 235-37.
428
Cfr. P. Arlacchi, La mafia imprenditrice: l’etica mafiosa e lo spirito del capitalismo, Il Mulino,
Bologna, 1994. p. 89-90, in A. Silj, Malpaese: criminalità, corruzione e politica nell’Italia della prima
Repubblica, 1943-1994, Donzelli, Roma, 1994, p. 362; P. Arlacchi, Gli uomini del disonore: la mafia
siciliana nella vita del grande pentito Antonino Calderone, Mondadori, Milano, 1992; S. Lupo, Storia
della mafia, cit., p. 272.
429
Commissione parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminale
similari, Verbale XII, cit., deposizione di T. Buscetta, p.356.
430
Cfr. Commissione parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni
criminale similari, Relazione sui rapporti tra mafia e politica, relatore Violante, cit., p.91; S. Lupo, Storia
della mafia, cit., p. 272; V. Coco, L’antimafia dei comunisti,cit., p. 26.
96
boss e gli esponenti dell‟organizzazione, protagonisti della prima guerra di mafia431, ne
uscirono indenni. Infatti, la corte di Catanzaro emise una mite sentenza e soltanto un
numero limitato di mafiosi riportò condanne pesanti, mentre la stragrande maggioranza
degli imputati riuscì a cavarsela con pene miti e con l‟assoluzione, a testimonianza di
come il sistema penale fosse, nei confronti dei contesti criminosi organizzati, fragile,
impotente, corrotto secondo molti; infatti tutto ciò fu visto come il simbolo dello stato di
coabitazione che regnava tra istituzioni - o parte di esse - e mafia.
C‟è da dire che all‟epoca non si ebbe la capacità di vedere nella sua interezza il
fenomeno mafioso; non era condivisa l‟esistenza reale di una sola organizzazione
piramidale e di norme e criteri comuni segreti posti a regolare i comportamenti
delittuosi. C‟era chi nemmeno credeva all‟esistenza della mafia. Ad esempio, l‟idea dei
giudici di Catanzaro era quella dell‟esistenza di una galassia di molti gruppi criminali
indipendenti che si muovevano sullo sfondo di una cultura individualista e assai
negativamente reattiva nei confronti dello Stato: la generale illegalità del tessuto sociale
siciliano tendeva a coprire l‟occulta struttura mafiosa che finiva per restare del tutto
incomprensibile con gli strumenti interpretativi del tempo.
Oggi è impossibile negare la mancata reazione come anche la copertura data in gran
parte dalla Democrazia cristiana. Ma va anche rilevata l‟insufficienza e l‟impossibilita
giuridica di contestualizzare singoli delitti in un quadro così complesso con il solo
ausilio di fonti confidenziali che finivano per rivelarsi pressoché inutili, viste le reiterate
procedure minatorie esperite contro i testimoni, che spesso si rifiutavano di testimoniare
e ritrattavano tutto, e che dettero così una mano agli imputati, i quali vedevano cadere i
capi di accusa uno dopo l‟altro.
Questa sostanziale incapacità a comprendere l‟unità sostanziale del fenomeno spiegava
il perché non si fosse riusciti a mettere in campo sino alla fine degli anni Ottanta e i
primi anni Novanta, ovvero tra inizio e fine del maxiprocesso, un‟azione di contrasto
più sinergica e realmente efficace.
Se questo era il quadro offerto dalla relazione, non bisogna tuttavia dimenticare che si
trattava pur sempre di un documento politico. Esso deve essere letto alla luce della
volontà di scardinare una parte di quel sistema politico nato alla fine della guerra e che
mai aveva lasciato il timone del comando. Assumendo quest‟ottica, è necessario
rapportarsi alla struttura di un testo approvato quasi all‟unanimità da quei membri della
431
Cfr. S. Lupo, Storia della mafia, cit., pp. 270-72.
97
IV Commissione antimafia con un atteggiamento smaliziato, tenendo conto che la
pressione esercitata su essi da parte dell‟opinione pubblica alimentò un clima di cesura
che accompagnerà i lavori di questa Commissione, i quali diedero ad alcuni la
possibilità di sfruttare quanto stava accadendo come trampolino politico, in vista del
rivolgimento del 1994.
98
IV.2 La massoneria come trait d’union tra mafia e politica
La relazione di maggioranza inquadrò il problema di come le organizzazioni criminali,
in particolar modo Cosa nostra, si fossero pian piano inserite nei gangli del potere
intrecciando i propri interessi a quelli di altri gruppi.
Dalle dichiarazioni dei pentiti estrapolate dai verbali di Commissione sembra risulti
essere assodato che la mafia siciliana venne in contatto con logge massoniche, e che
alcuni tra i più importanti boss fossero massoni.
Tuttavia, nella relazione, Violante, nel descrivere il nesso che univa la massoneria a
Cosa nostra, poneva l‟attenzione sulla capacità dell‟organizzazione mafiosa di muoversi
in completa autonomia: «Cosa nostra ha una propria strategia politica […]. La strategia
politica di Cosa nostra non è mutata da altri»432.
La relazione tracciava le linee storiche di questo sodalizio raccogliendo le testimonianze
dei collaboratori di giustizia. L‟esempio più calzante sembra quello dell‟incontro tra
alcuni boss mafiosi e Junio Valerio Borghese nel dicembre del 1970, con lo scopo di
coinvolgere la mafia nel tentativo di colpo di stato. A fare da mediatori furono esponenti
della massoneria. Tale scenario era stato svelato da Tommaso Buscetta che, rievocando
la precedente confessione resa nel 1984, aveva riproposto il fatto davanti alla
Commissione antimafia:
Chi parlò di Borghese a Cosa nostra sono i massoni. Pippo Calderone
o Giuseppe Di Cristina non conoscevano Borghese. Quindi
l'appuntamento viene dato dal fratello di Carlo Morana a Pippo
Calderone e a Giuseppe Di Cristina. […] Quando poi vanno a Roma,
si vanno ad incontrare personalmente con Borghese e nasce quel
fatto433.
Da qui, stando alle dichiarazioni del collaboratore di giustizia, prese piede l‟azione
eversiva della mafia che tese a “scassare la credibilità dello Governo italiano”434
attraverso una serie di attentati per favorire il golpe. A confermare tale scenario fu
Antonino Calderone, che ricordava come il fratello Pippo in quell‟occasione ricevette le
informazioni sul piano dallo stesso Borghese, il quale invitava i membri
Commissione parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminale
similari, Relazione sui rapporti tra mafia e politica, relatore on. Luciano Violante, cit., p. 40.
433
Cfr. Commissione parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni
criminale similari, Verbale XII, cit., deposizione di T. Buscetta, p. 392.
434
Ivi, p. 396.
432
99
dell‟organizzazione a tenersi pronti nel caso in cui a “Roma sentiste sparare qualche
colpo”435.
Seguendo lo schema proposto dalla Commissione antimafia, Cosa nostra avrebbe
condotto una guerra non ortodossa che mirava ad aumentare il disordine nel paese; a ciò
era dovuta la partecipazione al progetto Borghese, che si avvalse anche dell‟appoggio
sia dei servizi segreti che di Gelli.
La ragnatela complessa di interessi e rapporti tra le diverse forze eversive cominciò a
emergere già nell‟ambito dell‟attività di due Commissioni parlamentari d‟inchiesta,
quella sul caso Sindona e quella sulla loggia massonica P2. Nella prima veniva
esaminato il finto rapimento del bancarottiere, che aveva portato Michele Sindona a
compiere un viaggio in Sicilia con destinazione Palermo. Il bancarottiere fu prima
accompagnato da Antony Caruso, figlioccio del mafioso Joseph Macaluso, e poi dallo
stesso boss italo-americano in persona. Sindona non fece tappa direttamente in Sicilia,
infatti soggiornò prima per qualche giorno a Vienna e ad Atene436. Proprio nella capitale
greca si aggregò ai due un terzo elemento che accompagnerà Sindona sino al termine
del suo soggiorno palermitano: Joseph Miceli Crimi. Il medico massone, legato al boss
John Gambino, era stato l‟artefice della preparazione del rientro di Sindona in Italia
mettendosi in contatto con Giacomo Vitale, massone e cognato di Stefano Bontate, e
Michele Barresi, anch‟esso massone437.
Nella seconda inchiesta parlamentare veniva ripercorsa, oltre alla nascita della loggia
Propaganda 2, la vicenda che legava Licio Gelli all‟ambiente mafioso438.
Fin qui il testo di Violante evidenziava come le relazioni che intercorrevano tra le due
organizzazioni erano poste come una sorta di cooperazione. Le richieste sollecitate dalla
massoneria erano talora accolte da Cosa nostra in una logica utilitaristica. La mafia,
ribadiva il presidente della Commissione antimafia, «conservò sempre la sua autonomia
Cfr. Commissione parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni
criminale similari, Verbale XI, cit., deposizione di A. Calderone, p. 300.
436
Cfr. G. Cipriani, I mandanti. Il Patto strategico tra massoneria mafia e poteri politici, Editori Riuniti,
Roma, 1993, pp. 23-25.
437
Ibidem.
438
Sulla vicenda P2 oltre alla Relazione della Commissione parlamentare d‟inchiesta sulla loggia
massonica P2 (legge 23 settembre 1981, n. 527) Roma, Camera dei Deputati – Senato della Repubblica,
1984, Cfr. G. Rossi e F. Lombrassa, In nome della “Loggia”, Napoleone, Roma, 1981; AA. VV., La
vicenda della P2: poteri occulti e Stato democratico, De Donato, Bari, 1983; A. Cecchi, Storia della P2,
Editori Riuniti, Roma, 1985. Una diversa analisi in M. Teodori, P2:la contro storia, SugarCo, Milano,
1985 (Teodori fu uno degli autori della Relazione di minoranza). Anche Gelli propose una propria
versione dei fatti: Cfr. L. Gelli, Lettera aperta al presidente della Repubblica italiana, testo ripreso in Id.,
La verità, Demetra, Lugano 1989.
435
100
decisionale e non si pose mai in uno stato subalterno alla massoneria»439. E le numerose
testimonianze dei collaboratori di giustizia sembravano ribadire tale tesi.
Esiste però un problema di fondo legato alle fonti utilizzate da Violante per avvalorare
le sue congetture; queste connessioni, infatti, emergevano dalle dichiarazioni dei pentiti.
E tutti i quattro collaboratori ascoltati dalla Commissione non riportavano notizie di
prima mano. Analizzando i verbali si può avere qualche perplessità in merito alle
domande poste da Violante; ancora una volta si ha l‟impressione che le domande siano
poste in modo tale da indirizzare le risposte. Spesso il pentito si limitava a citare
qualche nome che per conoscenza diretta o per sentito dire faceva parte della
massoneria. Il problema, però, sorgeva non per quel che concerneva l‟appartenenza o
meno di Stefano Bontate o di suo cognato Giacomo Vitale o ancora di Michele Greco,
nella gerarchia massonica, ma quando si cercava di capire cosa, questi personaggi,
inseriti all‟interno di queste logge, facessero. Infatti, a questo punto, i verbali riportano
quasi esclusivamente delle voci, delle congetture, o il riferimento a logge coperte e a
elenchi segreti. L‟esempio era dato dal pentito Calderone; a suo dire, una loggia coperta
avrebbe chiesto fin dal 1977 ai vertici di Cosa nostra di far affiliare due uomini d‟onore
per ciascuna provincia. La proposta, accettata, avrebbe visto l‟ingresso in massoneria di
Michele Greco e Stefano Bontate per la provincia di Palermo; Giuseppe Calderone e un
altro uomo d‟onore per la provincia di Catania; Bongiovino per quella di Enna e Totò
Minore per quella di Trapani440. Il collaboratore di giustizia precisava il ruolo degli
uomini d‟onore iscritti alla muratoria. Cosa nostra, attraverso loro, poteva servirsi della
massoneria per svolgere un ruolo importante ai fini di aggiustare i processi avvicinando
i magistrati massoni441. Ma anche in questo caso non si trattava di una testimonianza di
primo mano perché la loggia segreta non si era rivolta direttamente a Calderone, ma al
fratello. Per cui, Calderone non era neppure a conoscenza del modo in cui si
aggiustavano i processi - o almeno fece finta di non saperlo e si limitò a riportare
quanto riferitogli dal fratello Giuseppe.
Commissione parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminale
similari, Relazione sui rapporti tra mafia e politica, relatore Violante, cit., p. 62.
440
I personaggi citati rappresentavano all‟epoca i vertici di Cosa Nostra siciliana Cfr. Commissione
parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminale similari, Verbale
XI, cit., deposizione di A. Calderone, pp. 294-95.
441
Ivi, p. 300.
439
101
Buscetta, dal canto suo, dichiarò che alcuni massoni si erano interessati al cosiddetto
«processo dei 114»442. Ma alla domanda se lui si intendesse o meno di massoneria la
risposta fu negativa443.
Leonardo Messina riferì alla Commissione che l‟intero vertice di Cosa nostra fosse
massone e, a suo giudizio, il rapporto mafia-politica si concretizzava attraverso gli
appalti e la massoneria - quest‟ultima definita come “un punto d‟incontro per tutti”444.
Gaspare Mutolo confermava quanto detto in precedenza dagli altri collaboratori di
giustizia ed evidenziava come la massoneria fosse importante per l‟organizzazione
mafiosa in quanto «tutti i punti chiave, sia commercialmente, sia nelle istituzioni si sa
che sono occupati per la maggior parte da massoni»445.
Il fatto che i quattro teste, pur non essendo addentro a tali dinamiche, ritenessero di
sapere tutto, o quasi, di una società segreta fa ipotizzare da una parte che l‟importanza
della massoneria, i suoi membri e gli interessi curati da questi uomini con doppia
affiliazione fossero risaputi all‟interno dell‟organizzazione mafiosa; dall‟altra si ha
difficoltà nell‟assumere come completamente vere le dichiarazioni di non affiliati alla
muratoria, i quali pur sfruttando nella loro attività un reticolo di relazioni, che si
estendeva da Palermo verso la sua vasta provincia e che si allargava fino a racchiudere
l‟intera regione, come una sorta di catena che legava tutti questi personaggi, non
potevano comunque contare su conoscenze dirette.
Una cosa sembra certa: la cooperazione tra mafia e massoneria andava al di là
dell‟occasionale presenza di qualche boss mafioso tra i liberi muratori. Si possono far
risalire nel tempo molte somiglianze tra queste due organizzazioni. Si pensi alla
funzione della solidarietà massonica tra professionisti e uomini d‟affari, che risultava
essere molto simile alla solidarietà mafiosa tra personaggi legati a gruppi diversi o
anche avversi, situati in diversi continenti. La creazione di un campo di comunicazione,
di conoscenze e di influenze rappresentava un vantaggio comparativo per questo tipo di
criminalità rispetto alle altre; e, come ha sostenuto Salvatore Lupo, soprattutto conservò
saldo il legame tra Sicilia e Stati Uniti446.
442
Processo contro Angelo La Barbera ed altri svoltosi presso la Corte d'Assise di Catanzaro nel 1968
(sentenza del 22 dicembre 1968).
443
Commissione parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminale
similari, Verbale XII, cit., deposizione di T. Buscetta, pp. 393-94..
444
Commissione parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminale
similari, Verbale XV, cit., deposizione di L. Messina, p. 554.
445
Commissione parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminale
similari, Verbale XXV, cit., deposizione di G. Mutolo, p. 1298.
446
S. Lupo, Storia della mafia, cit., p.42.
102
Tra mafia e massoneria c‟era peraltro un legame storico, oltre che funzionale. Rituali e
giuramenti di mafia esprimevano non solo la generica simbologia del sangue presente in
diverse esperienze di crimine organizzato, ma anche l‟impressionante testimonianza
della continuità più che secolare di un tipo di organizzazione segreta ricavato dal
modello fornito dalla massoneria e dalla carboneria che fu del tutto disponibile nella
Sicilia di metà Ottocento447.
E la diffusione di logge “atipiche”448 nell‟isola, e più ancora il fatto che dall‟età liberale
in poi la Sicilia rimase la regione italiana con più elevata presenza massonica,
rappresentava un elemento contestuale da tenere presente449.
Molti nomi, infatti, vennero fuori quando nel marzo del 1986, un mese dopo l‟inizio del
maxiprocesso, a Palermo, in via Roma 391, venne alla luce camuffata da “Centro studi
sociologici italiani” la loggia massonica Armando Diaz insieme ad altre logge
massoniche siciliane, vecchie e nuove, che comprendevano circa duemila iscritti, tra cui
mafiosi, magistrati, imprenditori, politici e giornalisti450. Alla scoperta del covo si era
arrivati a seguito del pedinamento di un uomo d‟onore, Giovanni Lo Cascio, capo di
una gang che esportava eroina dall‟Europa agli Stati Uniti451.
L‟affiliazione di esponenti mafiosi in logge massoniche e l‟esistenza di logge coperte in
Sicilia emersero anche nel corso delle indagini della magistratura di Trapani, che
diedero vita al procedimento contro Giovanni Grimaudo452. Tutto era cominciato con
una lettera anonima pervenuta alla questura di Trapani nella quale si avanzavano pesanti
accuse nei confronti di chi aveva gestito il concorso per l‟assunzione di vigili urbani nel
comune della città siciliana453. Procedendo alla perquisizione del Centro Studi Scontrino
di cui era presidente Giovanni Grimaudo, il quale contava già precedenti penali per
truffa, usurpazione di titolo, falsità in scrittura privata e concussione, vennero fuori
risultati clamorosi, oltre a una valanga di lettere di raccomandazione, e furono scoperti
447
Ibidem.
Ivi, p. 41.
449
Ibidem.
450
Alcuni personaggi di altissimo livello comparivano nell‟elenco della loggia A. Diaz. i cugini Nino e
Ignazio Salvo, Federico Ardizzone (editore del Giornale di Sicilia), i fratelli Salvatore e Michele Greco
(detti rispettivamente “il senatore” e il “Papa”), Giacomo Vitale (cognato di Stefano Bontate), l‟avvocato
Vito Guarrasi e Giuseppe Mandalari.
451
Commissione parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminale
similari, Relazione sui rapporti tra mafia e politica, relatore Violante, cit., p. 99.
452
Ibidem.
453
Cfr. G. Cipriani, I mandanti, cit., p. 35.
448
103
documenti che riguardavano sei logge454, di cui una con carattere di assoluta segretezza.
L'esistenza di un'altra loggia segreta trovò una prima conferma nel rinvenimento in
un'agenda sequestrata al Grimaudo. Alla lettura degli elenchi e delle agende spuntarono
fuori nomi altisonanti non solo del gotha mafioso trapanese ma di personaggi di rilievo
della vita politica italiana e siciliana. Nell‟elenco di nominativi annotati sotto la dicitura
“Loggia C”455 figurava quello di Natale L'Ala, capomafia di Campobello di Mazara.
Nella loggia Ciullo d'Alcamo risultavano essere stati affiliati Pietro Fundarò, che
operava in stretti rapporti con il boss mafioso Natale Rimi; Giovanni Pioggia, della
famiglia mafiosa di Alcamo; Mariano Asaro, imputato nel procedimento relativo
all'attentato al giudice Carlo Palermo456. Lo stesso magistrato, miracolosamente
scampato all‟attentato, nel libro Il quarto livello ha sostenuto la tesi che la loggia C
fosse in qualche modo collegata direttamente alla P2, e che lo stesso Gelli avrebbe
partecipato all‟inaugurazione del Tempio. Infatti, la loggia C entrò in funzione l‟8
maggio 1981, subito dopo, cioè, la scoperta, avvenuta il 17 aprile del 1981, della lista
degli appartenenti alla Propaganda 2, nella villa Wanda di Castiglion Fibocchi 457.
Dai verbali d‟inchiesta citati da Violante nel testo di relazione si affermava che nel
procedimento trapanese contro Grimaudo vari testimoni ribadivano l'appartenenza alla
massoneria di Mariano Agate458. Dagli appunti rinvenuti nelle agende che furono
sequestrate al Grimaudo risultavano poi anche collegamenti con i boss mafiosi Calogero
Minore e Gioacchino Calabrò, peraltro suffragati dai rapporti che alcuni iscritti alle
logge intrattenevano con gli stessi459. Alle sei logge trapanesi ed alla “loggia C” erano
affiliati amministratori pubblici, pubblici dipendenti - comune, provincia, regione,
prefettura - uomini politici460, commercialisti, imprenditori, impiegati di banca. Gli
affiliati a questo sodalizio massonico interferivano sul funzionamento di uffici pubblici,
si occupavano di appalti e di procacciamento di voti in occasione delle competizioni
elettorali, tentavano di favorire posizioni giudiziarie e di corrompere appartenenti alle
Le sei logge che facevano riferimento al circolo Scontrino erano: Iside, Iside 2, Ciullo d‟Alcamo,
Hiram, Cafiero e Osiride.
455
Sulla “Loggia C” si veda C. Palermo, Il quarto livello. Integralismo islamico massoneria e mafia.
Dalla rete nera del crimine agli attentati al Papa nel nome di Fatima, Editori Riuniti, Roma, 1996, pp.
93-98.
456
Commissione parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminale
similari, Relazione sui rapporti tra mafia e politica, relatore Violante, cit., pp. 99-100.
457
C. Palermo, Il quarto livello, cit., pp. 95-96.
458
Commissione parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminale
similari, Relazione sui rapporti tra mafia e politica, relatore Violante, cit., p. 61.
459
Ibidem.
460
L'onorevole Canino aveva ammesso l'appartenenza a quelle logge, pur non figurando il suo nome negli
elenchi sequestrati.
454
104
forze dell'ordine461. Risultava che lo stesso Grimaudo aveva chiesto soldi agli onorevoli
Canino e Blunda, rispettivamente appartenenti alla Democrazia cristiana e al Partito
repubblicano, per sostenerne la campagna elettorale462; la moglie di Natale L'Ala
affermò che, su richiesta del Grimaudo, il marito si era attivato per favorire l'elezione
del democristiano Nicolò Nicolosi e del repubblicano Aristide Gunnella463.
All‟interno del circolo venne anche ritrovata una lettera inviata nell‟ottobre del 1982
dall‟onorevole Calogero Mannino al maestro venerabile Giovanni Grimaudo, con la
quale si comunicava la concessione da parte dell‟Assemblea regionale siciliana di un
contributo di due milioni al circolo Scontrino464.
Dal quadro complessivo delle due inchieste di Palermo e Trapani emergeva anche il
collegamento tra la loggia trapanese Iside e la loggia palermitana Diaz, diretta da
Giuseppe Mandalari465. Una figura di primordine, quella di Giuseppe Mandalari;
ritenuto dal consigliere istruttore, Rocco Chinnici, “tributarista e consulente della
mafia”466, arrestato un prima volta nel 1974 per favoreggiamento personale nei
confronti di Totò Riina e di Leoluca Bagarella, candidato non eletto tra le fila del Msi
alle politiche del 1972, finì nuovamente arrestato nel 1983 con l‟accusa di associazione
per delinquere di stampo mafioso nell‟ambito dell‟inchiesta sulle attività economiche
della cosca di Rosario Riccobono467. Mandalari svolse un‟intensa attività massonica
nell‟ambito della Gran Loggia nazionale degli Alam468. Risultava legato a Totò Riina e
socio fondatore nel 1974, con il mafioso Giuseppe Di Stefano, della società Stella
D‟Oriente di Mazara del Vallo, della quale faceva parte dal 1975 Mariano Agate. Della
società facevano parte parenti del boss camorristico Nuvoletta, membro di Cosa
nostra469. Peccato che dopo tutta una serie di indagini che portarono a far luce su un
Commissione parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminale
similari, Relazione sui rapporti tra mafia e politica, relatore Violante, cit., p. 61.
462
Ibidem.
463
Ibidem..
464
G. Cipriani, I mandanti, cit., p. 36.
465
C. Palermo, Il quarto livello, cit., p. 94.
466
Diario del dottor Rocco Chinnici, l‟Espresso, agosto 1983, in C. Palermo, Il quarto livello, cit., p. 94.
467
G. Cipriani, I mandanti, cit., p. 39.
468
Giuseppe Mandalari fu anche Gran Maestro della loggia di piazza del Gesù oltre che Sovrano della
loggia di Palermo di via Cordova.
469
Commissione parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminale
similari, Relazione sui rapporti tra mafia e politica, relatore Violante,cit., p. 62. Stando alle dichiarazioni
dei collaboratori di giustizia i boss camorristici come Nuvoletta e Zaza erano uomini d‟onore affiliati a
Cosa nostra. Dirà Calderone:«Zaza era uomo d'onore. Nuvoletta era uomo d'onore. Era una famiglia di
Napoli. Una decina dei Nuvoletta dipendeva da Michele Greco, perché non andavano d'accordo e si era
un po' distaccata dalla famiglia originaria. Tutti e due i fratelli Zaza erano uomini d'onore e ce ne erano
anche tanti altri», in Commissione parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre
associazioni criminale similari, Verbale XI, cit., deposizione di A. Calderone, p. 316.
461
105
mondo inabissato l‟indagine venne stoppata. Violante ne dà una sua spiegazione
asserendo che l‟indagine era andata troppo in alto e ventitré giorni dopo la perquisizione
che aveva permesso la scoperta delle logge segrete, il dirigente della squadra mobile di
Trapani, Saverio Montalbano, venne trasferito per presunto uso scorretto dell‟auto di
servizio470.
Prendendo a riferimento le due istruttorie sembra quasi che l‟apporto di notizie fornito
da collaboratori di giustizia sia quasi nullo. Stefano Bontate, i Greco e altri boss di Cosa
nostra hanno sfruttato un terreno d‟incontro, offerto loro dalle logge massoniche, per
tessere legami con i loro partner del mondo della politica, dell‟imprenditoria e
dell‟economia in generale. Le dichiarazioni in questo caso non furono in grado di
ricostruire quei reticoli fluidi e vari che andavano a sovrapporsi all‟organizzazione che
collegava i mafiosi tra loro. Essendo smorzato questo apporto, i richiami contenuti nella
relazione in merito a mafia e massoneria risultano aridi, e si ha l‟impressione che
limitino la loro portata a richiamare l‟attenzione pubblica sullo spettro di un grande e
unico complotto.
Cfr. Commissione parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni
criminale similari, Relazione sui rapporti tra mafia e politica, relatore Violante, cit., p.100; G. Cipriani, I
mandanti, cit., p. 36.
470
106
IV.3 “Atto dovuto”
La decisione da parte della Commissione antimafia di scrivere una relazione che
indagasse sulle connessioni politiche di Cosa nostra fu dettata da esigenze nate dopo che
il g.i.p. del Tribunale di Palermo aveva diramato i mandati di cattura per l‟omicidio,
ritenuto di stampo mafioso, dell‟eurodeputato democristiano Salvo Lima471. Sul verbale
venivano indicati alcuni elementi che denunciavano una stabile relazione tra la vittima e
gli esecutori dell‟assassinio, appartenenti all‟organizzazione mafiosa. Tale relazione era
imperniata sullo scambio di favori tra Lima e l‟ambiente mafioso, che portava il primo
ad ottenere voti e consenso politico e i secondi a ricevere in cambio favori di carattere
giudiziario e di altro tipo472.
Queste le basi da cui prese piede il lavoro che avrebbe condotto il presidente della IV
Commissione antimafia a stilare il suo documento più controverso e più discusso.
Certo, non era la prima volta che il nome di Salvo Lima veniva fatto in qualche
relazione parlamentare o indagine giudiziaria, anzi nelle indagini riguardanti i rapporti
tra mafia e politica il nome del democristiano era sempre stata una costante.
Il sodalizio che legava il democristiano all‟onorata società veniva fatto risalire agli anni
Cinquanta, quando Palermo venne investita da quel processo di urbanizzazione che si
concluderà con il famoso “sacco di Palermo”473, vicenda legata indissolubilmente al duo
Lima-Ciancimino. Infatti, dal 1959 al 1964, con Lima sindaco e Ciancimino assessore ai
lavori pubblici, si avviò un connubio di interessi tra mafia, amministrazione pubblica e
costruttori che diventò un trampolino di lancio per la creazione di cordate e alleanze
verticali tra mafiosi, imprenditori e politici che condizionarono le vicende della spesa
pubblica, gli equilibri politici e i rapporti di forza tra i vari gruppi di Cosa nostra. Nel
corso di quegli anni, con Salvo Lima vicino alla famiglia mafiosa dei Bontate e Vito
Ciancimino legato invece ai corleonesi, nacque una sorta di sistema integrato di
competenze, di funzioni e di poteri che ruotava attorno a Cosa nostra: gli uomini politici
che contavano avevano ciascuno i propri imprenditori, i propri professionisti e il proprio
capomafia474.
Cfr. Commissione parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni
criminale similari, Relazione sui rapporti tra mafia e politica, relatore Violante, cit., p. 9.
472
Ibidem.
473
Si veda Il sacco di Palermo, «L‟Ora», 22 giugno, 1961.
474
Commissione parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminale
similari, Relazione sui rapporti tra mafia e politica, relatore Violante, cit., p. 58.
471
107
L‟entrata sulla scena politica di Lima risaliva all‟anno 1949 quando, appena
ventunenne, si apprestava a diventare consigliere comunale di Palermo per la lista
democristiana, partito al quale si era iscritto già all‟indomani della guerra475. Intanto, nel
corso degli anni Cinquanta, si assisteva a un mutamento all‟interno dei gruppi dirigenti
del comune di Palermo: la vittoria di Fanfani al congresso nazionale democristiano del
1954 portava al cambio della guardia nel capoluogo siciliano476. Il timone fu preso da
Giovanni Gioia e Salvatore Lima477.
Negli anni che lo videro sindaco di Palermo, il democristiano fu fatto oggetto di feroci
critiche da parte del giornale locale “L‟Ora” che denunciava il sodalizio politicomafioso che intercorreva a quei tempi a Palermo tra il sopracitato e ambienti
malavitosi478. Nel 1968 Lima divenne capo della corrente andreottiana, dopo la rottura
con l‟ala fanfaniana e con Giovanni Gioia.
Malumori erano sorti anche all‟interno della istituzioni ecclesiastiche; l‟arcivescovo di
Palermo aveva pubblicamente espresso il suo parere contrario nei confronti della scelta
della Democrazia cristiana di candidare «personaggi al centro di troppi scandali»479. Ma
le critiche e gli screzi che serpeggiavano anche in seno al proprio partito non frenarono
la sua ascesa politica; così dal 1972 al 1976 svolse dapprima il ruolo di sottosegretario
alle Finanze sotto il governo Andreotti e in seguito, con Moro, di sottosegretario al
Bilancio480. Quest‟ultima nomina del 1974 suscitò le obiezioni di Paolo Sylos Labini
che si dimise per protesta481.
Le polemiche contro la figura di Salvo Lima non placarono durante il decennio
successivo, e, alla morte del generale Dalla Chiesa, il figlio Nando chiamava
direttamente in causa Lima e i dirigenti della Dc siciliana482.
475
Sulla biografia politica di Lima cfr. V. Vasile, Salvo Lima, in N. Tranfaglia (a cura di), Cirillo, Ligato
e Lima. Tre storie di mafia e politica, Laterza, Roma-Bari, 1994, pp. 185-267.
476
Commissione parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminale
similari, Relazione sui rapporti tra mafia e politica, relatore Violante, cit., p. 58.
477
Cfr. V. Coco, L’Antimafia dei comunisti, cit.
478
Si vedano gli articoli contro l‟ex-sindaco democristiano: Il sacco di Palermo, «L‟Ora», 22 giugno
1961; Il sindaco dei violenti, «L‟Ora», 25 gennaio 1963; Politica e violenza a Palermo, «L‟Ora», 8 luglio
1963
479
V. Vasile, Salvo Lima, cit. p. 227.
480
Cfr. J.L. Briquet, Mafia, justice et politique en Italie. L’affaire Andreotti dans la crise de la
Republique (1992-2004), Edition Karthala, Paris, 2007, p. 100.
481
Cfr. La discussa nomina di Sottosegretario al Bilancio. Sylos Labini si dimette per protesta contro
Lima, «Corriere della Sera», 21 dicembre 1974, cit. in J. L. Briquet, Mafia, justice et politique en Italie,
cit. p.100.
482
Cfr. I mandanti dell’omicidio sono nella DC di Palermo, intervista con Nando Dalla Chiesa, «la
Repubblica», 8 settembre 1982.
108
Le fonti primarie su cui si basò il documento stilato da Luciano Violante furono le
dichiarazioni rese da vari collaboratori di giustizia, in particolare quelle di Tommaso
Buscetta, dalle quali emergeva quanto Lima, pur non essendo mafioso, fosse addentro
alle dinamiche di Cosa nostra in quanto figlio di un uomo d‟onore483.
Oltre alla dichiarazioni dei collaboratori di giustizia il fatto era accertato da diverse
sentenze, una fra tutte quella del 23 giugno 1964 redatta dal giudice istruttore Cesare
Terranova, dove si scorgevano i fitti i rapporti che intercorrevano tra Lima e i La
Barbera:
È certo che Angelo e Salvatore La Barbera, nonostante il primo abbia
negato, conoscevano l‟ex-sindaco Lima ed erano con lui in rapporti
tali da chiedergli favori. Basti considerare che Vincenzo D‟Accardi, il
mafioso del Capo, ucciso nell‟aprile ‟63, non si sarebbe certo rivolto a
La Barbera per una raccomandazione al sindaco, se non fosse stato
sicuro che Angelo o Salvatore La Barbera potevano in qualche modo
influire su Salvatore Lima484.
Ma erano ben note anche altre “amicizie”, come quella con i due cugini Nino e Ignazio
Salvo, che per lungo tempo erano stati titolari delle esattorie siciliane e che, secondo
quanto detto dai pentiti, avrebbero mediato insieme a Lima i rapporti tra la politica
romana e i vertici di Cosa nostra485. Dipinti da Salvatore Lupo come «i maggiori
rappresentanti di un ambiguo mondo finanziario siciliano che si collocava vicinissimo ai
vertici della politica regionale»486, i Salvo erano grandi finanziatori della corrente
andreottiana in Sicilia, di cui Lima era il noto rappresentante487.
Secondo quanto scritto nella relazione, il rapporto che intercorreva tra Lima e le
famiglie mafiose metteva in luce una prassi consolidata, un circuito di favori che
riguardavano essenzialmente due questioni alle quali l‟organizzazione mafiosa
attribuiva un particolare rilievo ai fini della propria salvaguardia d‟interessi e per
Commissione parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminale
similari, Verbale XII, cit., p. 389.
484
Lo stralcio della sentenza del giudice Terranova in P. Menghini, M. Nese, La discesa cominciò con i
pentiti, «Corriere della Sera», 13 marzo 1992.
485
Si vedano le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia in Commissione parlamentare d‟inchiesta sul
fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminale similari, Verbale XII, cit., deposizione di
Tommaso Buscetta, passim.; Verbale XI, cit., deposizione Antonino Calderone, passim.; Verbale XV,
cit., deposizione di Leonardo Messina, passim.; Verbale XXV, cit., deposizione di Gaspare Mutolo,
passim.
486
S. Lupo. Che cos’è la mafia, cit. p. 54.
487
Ibidem.
483
109
sottrarsi alle sentenze e guadagnare quell‟impunità tanto cara alla mafia 488. Anzitutto
Cosa nostra chiedeva l‟intervento politico per il trasferimento di funzionari scomodi,
che magari svolgevano fin troppo bene il loro lavoro. Sulla relazione Violante citava il
caso di Antonino Calderone che, parlando del vicequestore di Catania, il dottor Cipolla,
raccontava di aver chiesto l‟intervento di Salvo Lima, tramite i cugini Salvo, per far
trasferire il funzionario di polizia489. Il presunto favore però - dimenticava di aggiungere
Violante – in quel caso non si concretizzò per via dell‟intervento di Lima, ma per una
richiesta di trasferimento fatta dalla moglie del vicequestore, che faceva l‟insegnante, e
che a sua volta e a prescindere dai desideri di Cosa nostra aveva fatto richiesta di
trasferimento490. In secondo luogo, l‟aiuto dell‟esponente politico, che aveva
collegamenti e amicizie importanti a Roma, era richiesto in occasione dei grandi
processi, con l‟intento di aggiustarli e, se possibile, annullarli del tutto.
Numerosi collaboratori di giustizia si erano espressi in tal senso, individuando nella
figura di Salvo Lima il referente principale di Cosa Nostra491; ad esempio Tommaso
Buscetta, che dopo essersi a lungo rifiutato di parlare dei rapporti fra mafia e politica,
aveva alla fine dichiarato davanti alla Commissione che Salvo Lima era effettivamente
l'uomo politico a cui principalmente Cosa Nostra si rivolgeva per le questioni di
interesse dell'organizzazione che dovevano trovare una soluzione a Roma492:
Presidente: Quali erano i referenti palermitani di Lima?
Buscetta: Principalmente i Salvo.
Presidente: Lima era parlamentare europeo ed era uomo anche
abbastanza importante nella vita politica per cui non poteva occuparsi
di tutto.
Buscetta: Ma mica gli dicevano: vammi a fare la spesa tutti i giorni!
Chiedevano un favore oggi e un altro dopo un mese. Quindi erano
impegni che poteva ...
Presidente: … mantenere493.
Commissione parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminale
similari, Relazione sui rapporti tra mafia e politica, relatore Violante, cit., p.70.
489
Ibidem.
490
Cfr. Commissione parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni
criminale similari, Verbale XI, cit., deposizione di Antonino Calderone, p. 310.
491
Si vedano le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia in Commissione parlamentare d‟inchiesta sul
fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminale similari, Verbale XII, cit., deposizione di
Tommaso Buscetta, passim.; Verbale XI, cit., deposizione Antonino Calderone, passim.; Verbale XV,
cit., deposizione di Leonardo Messina, passim.; Verbale XXV, cit., deposizione di Gaspare Mutolo,
passim.
492
Commissione parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminale
similari, Relazione sui rapporti tra mafia e politica, relatore Violante, cit., p.69.
493
T. Buscetta in Commissione parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre
associazioni criminale similari, Verbale XII, cit., deposizione di Tommaso Buscetta, p. 373.
488
110
Del resto tutti i collaboratori di giustizia, ascoltati in Commissione antimafia,
descrivevano Salvo Lima come il referente per le questioni romane. Ma nessuno davanti
alla Commissione fece il nome di questi interlocutori romani.
Tuttavia nell‟estate del ‟92, dopo le morti di Falcone e Borsellino, si aprirono scenari
molto compromettenti e il nome venne fuori. Le rivelazioni fatte da Leonardo Messina
ai magistrati accusavano Giulio Andreotti - forse l‟uomo più potente della Dc – di
essere sceso a patti con la mafia proteggendone gli interessi. Il tramite per Leonardo
Messina era costituito dall‟ex-sindaco di Palermo, capo corrente andreottiano in
Sicilia494.
Ampio seguito fu dato dalla testate giornalistiche alle indagini sui salotti romani
coinvolti nel malaffare. Infatti, quando la Procura di Palermo fece intendere che le
indagini che erano in corso si sarebbero protratte e allargate, fu chiaro che l‟onda
avrebbe investito anche gli “amici romani di Lima”495, in primis Andreotti.
Violante espresse nel testo di relazione un commento molto insinuante nei confronti del
senatore:
Risultano certi alla Commissione i collegamenti di Salvo Lima con
uomini di Cosa nostra. Egli era il massimo esponente in Sicilia della
corrente democristiana che fa capo a Giulio Andreotti. Sulla eventuale
responsabilità politica del senatore Andreotti, derivante dai suoi
rapporti con Salvo Lima, dovrà pronunciarsi il Parlamento496.
Sulle pagine della relazione, riprendendo il filone dell‟inchiesta aperta dalla procura di
Palermo in quel frangente, veniva avvalorata l‟accusa contro Andreotti. Si deve
ricordare come l‟inchiesta, nella bozza di relazione, fu definita in prima battuta da
Violante “atto dovuto”; e proprio in relazione a questa definizione si ebbero feroci
discussioni che portarono, a seguito di una mediazione tra i diversi gruppi, alla sua
cancellazione e a quella che fu percepita come una vittoria da parte democristiana497.
Rimane, comunque, a prescindere dalla sua cancellazione, un‟espressione che manifesta
un intento ed è su questo che dobbiamo soffermarci. L‟atteggiamento di Violante
rispecchiava il volere del partito guidato da Achille Occhetto, che vedeva in quei fatti la
494
Si veda la memoria depositata da pm di Palermo nel procedimento penale 3538/94, § 1, pp.6-13, cit. in
L. Violante (a cura di), Mafie e antimafia. Rapporto ’96, cit., p. 73.
495
Si veda Inchiesta sugli amici romani di Lima, «Corriere della Sera», 23 ottobre 1992.
496
Commissione parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminale
similari, Relazione sui rapporti tra mafia e politica, relatore Violante, cit., p. 71.
497
Si vedano i verbali della Commissione parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre
associazioni criminale similari, Esame e votazione della relazione sui rapporti tra mafia e politica, dal
Verbale XXXV al Verbale XXXVIII.
111
possibilità di mettere in crisi la Democrazia cristiana – e Andreotti in particolare. A quel
punto non bisognava più accontentarsi di pesci relativamente piccoli, fossero essi
Ciancimino, Lima o i cugini Salvo. Si puntava alla “balena”498.
Questo approccio si manifestò chiaramente, ad esempio, in alcune audizioni condotte
con tono estremamente incalzante, come nel caso delle domande rivolte a Mutolo:
Presidente: Quando ha parlato di Lima, lei ha detto che Lima si
rivolgeva a persone della sua stessa corrente politica. Vuole chiarire
questo concetto alla Commissione?
Mutolo: Vado per logica e per quello che avevo sentito dire. Non so
se è giusto... Lui si rivolgeva a personaggi a Roma che erano
onorevoli non so chi, della sua stessa corrente. Lui era nella corrente
andreottiana. Non so a chi si rivolgesse.
Presidente: Ma si rivolgeva a uomini politici siciliani o non siciliani?
Mutolo: No, penso che, anche se c'era qualche siciliano, il discorso
valeva...
Presidente: Non erano uomini politici siciliani della sua corrente. In
Cosa nostra si facevano dei nomi di uomini politici non siciliani ai
quali si poteva fare riferimento tramite Lima?
Mutolo: Guardi, non ricordo e non lo posso dire, perché non sono
sicuro. Qualche nome c'era, però...
Presidente: Quali erano questi nomi che si facevano?
Mutolo:Non me li ricordo
Presidente: Lei non si ricorda o non intende dirli? Sono due concetti
diversi.
Mutolo: Siccome non sono sicuro, potrei cadere in qualche errore e
quindi non ritengo giusto dire una cosa di cui non sono sicuro.
Presidente: Comunque un nome si è fatto, questo è il punto, nel
vostro giro?
Mutolo: Di nomi uno se ne faceva sicuramente, ma non è che posso
ricordarmi ora quale fosse.
Presidente: Non se lo ricorda! Lei può anche rispondere dicendo: non
intendo dirlo. Sono due concetti diversi.
Mutolo:Non intendo dirlo, perché non ritengo sia giusto...
Presidente: Va bene, questa è una risposta499.
I sospetti su Andreotti, come era accaduto nell‟ottobre dell‟anno precedente, non
facevano che alimentare quel clima di accusa, che porterà a presentare il processo al
senatore come il momento in cui si scopriva la vera storia d‟Italia, da quelle aule di
tribunale doveva emergere una vicenda composta tutta di una materia sotterranea,
fangosa, che sommergeva e vanificava il piano legale di questo paese.
In realtà conosciamo fin troppo bene gli sviluppi successivi per lasciarci ammaliare da
quel clima di cambiamento. Andreotti venne assolto, non essendo stata dimostrata la
498
M. Palombi e M. Travaglio, Carriera e mutazioni di un participio presente, cit., p. 19.
Commissione parlamentare d‟inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminale
similari, Verbale XXV, cit., deposizione di G. Mutolo, pp. 1286-87.
499
112
tesi per cui la corrente politica comprendente l‟imputato, Lima e i Salvo rappresentava
un struttura di servizio dell‟organizzazione mafiosa500. Ma questo era prevedibile se si
pensava che anche dalle dichiarazioni dei vari pentiti al cospetto della Commissione
parlamentare antimafia non emerse mai alcun elemento inedito che autorizzerà la messa
in accusa del senatore.
Le dichiarazioni dei collaboratori si mantennero sempre sul vago e fecero emergere più
che altro uno schema che mostrava in che modo le richieste di favori giungessero ai
politici; due erano solitamente gli iter seguiti: la richiesta poteva essere mediata o da
personaggi che ruotavano intorno alla politica, come i cugini Salvo, o dal politico locale
stesso che, contattato dal boss col quale aveva un rapporto privilegiato, gli garantiva di
fare il possibile per adempiere al favore richiesto, tirando in ballo personaggi più
altolocati se la richiesta richiedeva interventi più “potenti”. Non si andò al di là di
questo schema vago e di un frustrante rincorrersi di voci.
Anche quando si discusse la stesura del testo finale e iniziarono a comparire i primi
nomi degli “amici romani”, come quello di Giulio Andreotti, si aprì un fronte di protesta
e si ebbero diversi scontri in seno alla Commissione, e non solo.
Sul coinvolgimento di Giulio Andreotti in fatti di mafia si crearono due fazioni: quella
degli innocentisti e quella dei colpevolisti. Anche nella stessa Democrazia cristiana si
ebbero delle spaccature. Il democristiano Cabras, vicepresidente della Commissione
antimafia, si esprimeva così sulle pagine del quotidiano nazionale del “Corriere della
Sera”:
C' e' un vero indizio grave a carico di Giulio Andreotti ed e' il suo
rapporto con Salvo Lima". Lo afferma Paolo Cabras, democristiano,
vicepresidente della Commissione parlamentare antimafia, in una
intervista a L'Espresso. "Di Andreotti mi e' sempre apparsa
incomprensibile questa tenacia nel difendere i rapporti con Lima
quando un distacco da quel personaggio lo avrebbe certamente
avvantaggiato". Secondo Cabras ad Andreotti può essere contestata la
convinzione da lui sempre manifestata con grande fermezza della
innocenza di Lima e riguardo ai legami con i mafiosi di Cosa
nostra501.
Si aprì una scissione in seno al partito che si “tormentava sul caso Andreotti”502 tra chi
lo difendeva, chi in disaccordo su certe amicizie e chi faceva intendere di non averlo
S. Lupo, Che cos’è la mafia, cit., p. 71.
Lima indizio contro Giulio, «Corriere della Sera», 17 aprile 1993.
502
G. A. Stella, La DC si tormenta sul caso Andreotti, «Corriere della Sera», 8 aprile 1993.
500
501
113
scaricato, ma che intanto dava il voto favorevole alla relazione della Commissione
parlamentare antimafia dando credito alla sua colpevolezza503.
Nel frattempo Martinazzoli, esprimendosi in merito alla richiesta a procedere nei
confronti del senatore, cercava di buttare acqua sul fuoco affermando che ognuno
avrebbe votato «in piena autonomia senza diktat di partito»504.
La vicenda del coinvolgimento di Andreotti tenne banco sui giornali nazionali ancor
prima delle rivelazioni dei pentiti rese alla Commissione antimafia. L‟indignazione fu
palesata in un pesante articolo apparso su “la Repubblica” a firma di Eugenio Scalfari.
In occasione dell‟ordine di arresto diramato dai giudici inquirenti del Tribunale di
Palermo, il fondatore di “la Repubblica”, titolava “Quel patto tra cosche e politica”,
schierandosi dalla parte di quell‟indignazione morale popolare che ancor prima
dell‟omicidio Lima condannava la decennale connivenza tra la mafia e la
“nomenklatura governante”505.
Oggi che il processo all‟«uomo politico italiano più accusato, ma anche il più
assolto»506 è terminato, c‟è una presa d‟atto delle relazioni di Andreotti con personaggi
che a loro volta mantenevano relazioni privilegiate con la mafia. Vennero individuati
contatti ma non prove di suoi interventi in favore di Cosa nostra, anche se, per tutto il
periodo precedente il 1980, la Corte, ribaltando il giudizio espresso in primo grado,
accertò la partecipazione alla associazione per delinquere dell‟imputato. Tuttavia
Andreotti venne assolto per decorrenza dei termini: il reato era ormai caduto in
prescrizione507.
Il senatore mantenne sempre la condotta di chi era estraneo ai fatti; e persino a sentenza
emanata, quando gli fu richiesto di esprimere un giudizio generale dei rapporti intercorsi
tra mafia e Democrazia cristiana, l‟imputato dichiarava: «non ne so molto […]. Un
esperienza diretta c‟è l‟ha chi ha fatto politica lì. Bisognerebbe chiedere a loro»508.
Una delle poche volte in cui parlò di mafia fu in una della prime interviste rilasciate alla
stampa dopo l‟incriminazione, dove propose una sintesi storica del fenomeno mafioso:
schierata dapprima con gli alleati, la mafia aveva appoggiato in seguito il separatismo.
503
Ibidem.
M. Manno, Martinazzoli: “Su Giulio non do indicazioni. La DC non vota come un partito totalitario”,
«Corriere della Sera», 21 aprile 1993.
505
E. Scalfari, Quel patto tra cosche e politica, «la Repubblica», 22 ottobre 1992.
506
L. Violante, I corleonesi: mafia e sistema eversivo, L‟Unità, Roma, 1993, p. 39.
507
Cfr. S. Lupo, Che cos’è la mafia, cit., p. 74.
508
Intervista ad Andreotti in «Corriere della Sera», 17 maggio 2000, cit. in S. Lupo, Che cos’è la mafia,
cit., p. 72.
504
114
Il senatore taceva, tuttavia, sul successivo periodo, quello che l‟ha vista schierata con la
Democrazia cristiana509.
«Andreotti - afferma Salvatore Lupo- si riferiva alla mafia con la stessa nonchalance
con cui scriveva sui papi, rispondeva ai giornalisti e alle Commissioni parlamentari»510.
Egli negò sempre di aver conosciuto i cugini Salvo e affermò di non sapere che cosa
facessero Lima e Ciancimino - cosa che non solo apparve inverosimile a chi allora era
schierato sul fronte dei colpevolisti, ma anche a chi, come Napoleone Colajanni, era
schierato su fronte opposto: «Andreotti non è nato ieri per non sapere chi erano Lima e
Ciancimino. Lo sapevo io, lo sapevano tutti, figuriamoci se non lo sapeva lui»511.
Fino alla fine il senatore continuerà a difendere il suo rapporto con Salvo Lima,
ritenendo che le voci che lo vedevano colluso con la mafia non fossero altro che un
effetto di un metodo perverso di lotta politica diffuso in Sicilia dopo il 1950, basato su
accuse reciproche di “mafiosità” sia all‟interno dello stesso partito che tra partiti
avversi512.
Ma si sa che «dal palazzo del principe si scorge evidentemente un panorama diverso
rispetto a quello che possiamo osservare noi comuni mortali»513.
509
S. Bonsanti, Io Giulio Andreotti, «la Repubblica», 17 dicembre 1993.
S. Lupo, Che cos’è la mafia, cit., p. 48.
511
Intervista a Colajanni in «Corriere della Sera», 17 maggio 2000, cit. in S. Lupo, Che cos’è la mafia,
cit., p. 72.
512
Cfr. G. Andreotti, Cosa loro. Mai visti da vicino, Rizzoli, Milano, 1995, pp. 29-30.
513
S. Lupo, Che cos’è la mafia, cit., p. 47.
510
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Roma, 1976.
Relazione conclusiva di minoranza, relatori Niccolai, Nicosia, Pisanò,VI
legislatura, doc. XXIII, n. 2, Roma, 1976.
Relazione di minoranza dei deputati La Torre, Benedetti, Malagugini e dei
senatori Adamoli, Chiaromonte, Lugnano, Maffioletti nonché del deputato
Terranova, relatori senatori Adamoli, Chiaromonte, Lugnano, Maffioletti e
deputati La Torre, Bnenedetti, Malaguini, Terranova, VI legislatura, doc. XXIII, n.
2, Roma, 1976.
Commissione parlamentare sul fenomeno della mafia, IX legislatura:
Relazione della commissione parlamentare sul fenomeno della mafia, relatore
Abdon Alinovi, IX legislatura, doc. XXIII, n. 3, Roma, 1985.
121
Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre
514
associazioni criminali similari, XI legislatura :
Relazione sulle risultanze del forum promosso il 5 febbraio dalla commissione
parlamentare antimafia con la direzione nazionale antimafia, con le direzioni
distrettuali e con il gruppo di lavoro per gli interventi del CSM nelle zone colpite
dalla criminalità, relatore senatore Massimo Brutti, X legislatura, doc. XXIII, n.
1, Roma,Stabilimenti tipografici Colombo, 1993.
Relazione sui rapporti tra mafia e politica, rel atore onorevole Luciano Violante,
XI legislatura, doc. XXIII, n. 2, Roma, stabilimenti tipografici Colombo, 1993.
Relazione di minoranza sui rapporti tra mafia e politica, relatori onorevole
Altero Matteoli e senatore Michele Florino, XI legislatura, doc. XXIII, n. 2-bis,
Roma, stabilimenti tipografici Colombo, 1993.
Relazione di
minoranza sui rapporti tra mafia e politica, relatore Marco
Taradash, XI legislatura, doc. XXIII, n. 2-ter, Roma, stabilimenti tipografici
Colombo, 1993.
Relazione sulla visita effettuata dalla commissione parlamentare sul fenomeno
della mafia a Barcellona Pozzo di Gotto in data 23 gennaio 1993, relatore
onorevole Luciano Violante, XI legislatura, doc. XXIII, n. 3, Roma, stabilimenti
tipografici Colombo, 1993.
I di azio i per u ’e o o ia li era dal ri i e, relatore onorevole Luciano
Violante, XI legislatura, doc. XXIII, n. 4, Roma, Stabilimenti tipografici Colombo,
1993.
Relazione sulle amministrazioni comunali disciolte in Campania, Puglia, Calabria
e Sicilia, relatore senatore Paolo Cabras, XI legislatura, doc. XXIII, n. 5, Roma,
stabilimenti tipografici Colombo, 1993.
Relazio e sullo stato dell’edilizia s olasti a a Paler o, relatore onorevole
Luciano Violante, XI legislatura, doc. XXIII, n. 6, Roma, stabilimenti tipografici
Colombo, 1993.
Le relazioni dell‟XI legislatura sono disponibile online all‟indirizzo:
http://legislature.camera.it/chiosco.asp?content=/documenti/documentiParlamentari/ElencoDOC_1_12.as
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consultazione 10 giugno 2014.
514
122
Relazione sulla situazione della criminalità organizzata in Puglia, relatore
senatore Alberto Robol, XI legislatura, doc. XXIII, n. 7, Roma, stabilimenti
tipografici Colombo, 1993.
Relazione sulla situazione della criminalità in Calabria, relatore senatore Paolo
Cabras, XI legislatura, doc. XXIII, n. 8, Roma, stabilimenti tipografici Colombo,
1993.
Prima relazione annuale, relatore onorevole Luciano Violante, XI legislatura,
doc. XXIII, n. 9, Roma, stabilimenti tipografici Colombo, 1993.
Prima relazione annuale di minoranza, relatori onorevole Altero Matteoli e
senatore Michele Florino, XI legislatura, doc. XXIII, n. 9-bis, Roma, stabilimenti
tipografici Colombo, 1993.
Relazione sulla visita effettuata a Gela dalla commissione parlamentare sul
fenomeno della mafia in data 13 novembre 1992, relatore onorevole Luciano
Violante, XI legislatura, doc. XXIII, n. 10, Roma, stabilimenti tipografici Colombo,
1993.
Relazione sulle risultanze delle attività del gruppo di lavoro incaricato di
svolgere accertamenti su insediamenti e infiltrazioni di soggetti ed
organizzazioni di tipo mafioso in aree non tradizionali, relatore senatore Carlo
Smuraglia, XI legislatura, doc. XXIII, n. 11, Roma, stabilimenti tipografici
Colombo, 1994.
Relazione sulla camorra, relatore onorevole Luciano Violante, XI legislatura,
doc. XXIII, n. 12, Roma, stabilimenti tipografici Colombo, 1993.
Relazione conclusiva, relatori onorevole Luciano Violante,senatore Paolo
Cabras, senatore Maurizio Calvi, senatore Giovanni Carlo Acciaro, onorevole
Gaetano Grasso, senatore Ivo Buttini, onorevole
Antonio Borgone, XI
legislatura, doc. XXIII, n. 14, Roma, stabilimenti tipografici Colombo, 1994.
123
Verbali:
X legislatura515:
Verbale X, Comunicazioni del presidente in ordine ai criteri di pubblicazione
delle «schede nominative» e susseguente dibattito.
Verbale LI, Audizione del presidente dell’ENEL.
XI legislatura
516
:
Verbale I, Votazione per l'elezione di due vicepresidenti e di due segretari.
Verbale XI, Audizione del collaboratore di giustizia Antonino Calderone.
Verbale II, Esame del regolamento interno della Commissione.
Verbale XII, Audizione del collaboratore di giustizia Tommaso Buscetta.
Verbale XIV, Audizione del Direttore Generale Giuseppe Tavarmina e del
Vicedirettore Vicario della DIA dottor Giovanni De Gennaro.
Verbale XV, Audizione del collaboratore di giustizia Leonardo Messina.
Verbale XXV, Audizione del collaboratore di giustizia Gaspare Mutolo.
Verbale XIX, Audizione del Prefetto Angelo Finocchiaro, direttore del SISDE.
Verbale XXVII, Esame della relazione sulle risultanze del forum con le
direzioni distrettuali antimafia, alla presenza del ministro di Grazia e Giustizia,
professor Giovanni Conso.
Verbale XXIX, Seguito della discussione ed eventuale votazione sulle risultanze
del forum con le direzioni distrettuali antimafia, alla presenza del ministro di
Grazia e Giustizia, professor Giovanni Conso.
Verbale XXX, Audizione dei rappresentanti dei sindacati SIULP e SAP della
polizia di Stato.
515
I verbali del resoconto stenografico di ogni singola seduta della X legislatura sono stati presi dal CDRom allegato al libro Senato della Repubblica Archivio Storico, Gerardo Chiaromonte. Discorsi
parlamentari, il Mulino, Bologna, 2004.
516
I verbali del resoconto stenografico di ogni singola seduta dell‟XI legislatura sono disponibili online
all‟indirizzo: http://www.senato.it/static/bgt/listastencomm/4/53/s/11/1992/index.html?static=true, per le
sedute tenutesi nel 1992;
http://www.senato.it/static/bgt/listastencomm/4/53/s/11/1993/index.html?static=true, per le sedute
tenutesi nell‟anno 1993;
http://www.senato.it/static/bgt/listastencomm/4/53/s/11/1994/index.html?static=true, per le sedute
tenutesi nell‟anno 1994; ultima consultazione 10 giugno 2014.
124
Verbale XXXV, Esame e votazione della relazione sui rapporti tra mafia e
politica.
Verbale XXXVI, Seguito dell’esame e votazione della relazione sui rapporti tra
mafia e politica.
Verbale XXXVII, Seguito dell’esame e votazione della relazione sui rapporti
tra mafia e politica.
Verbale XXXVIII, Seguito e votazione dell’esame e votazione della relazione
sui rapporti tra mafia e politica.
Verbale LI, Audizione del collaboratore di giustizia Pasquale Galasso.
Verbale LVI, Audizione del collaboratore di giustizia Salvatore Annacondia.
Verbale LXXVI, Seguito della discussione della relazione sulla camorra.
Verbale LXXV, Discussione della relazione sulla camorra.
Verbale LXXVII, Seguito della discussione della relazione sulla camorra.
Verbale LXXVIII, Audizione del Generale Mario De Sena e Audizione del
Senatore Antonio Gava.
Verbale LXXIX, Seguito della discussione della relazione sulla camorra.
Verbale LXXX, Discussione della relazione sulle risultanze dell'attività del
gruppo di lavoro incaricato di svolgere accertamenti su insediamenti e
infiltrazioni di soggetti ed organizzazioni di tipo mafioso in aree non
tradizionali.
Verbale LXXXI, Seguito e approvazione della discussione della relazione sulla
camorra.
125
Giornali
Corriere della Sera:
La discussa nomina di Sottosegretario al Bilancio. Sylos Labini si dimette per protesta
contro Lima, «Corriere della Sera», 21 dicembre 1974.
B. Tucci, Stava indagando su mafia e droga: ucciso il vice questore di Palermo,
«Corriere della Sera», 22 luglio 1979.
M. Talamona, La questione settentrionale, «Corriere della Sera», 25 febbraio 1985.
M. Talamona, La questione settentrionale, «Corriere della Sera», 27 maggio 1985.
L. Sciascia, I professionisti dell’antimafia, «Corriere della sera», 10 gennaio 1987.
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P. Menghini e M. Nese, La discesa cominciò con i pentiti, «Corriere della Sera», 13
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Inchiesta sugli amici romani di Lima, «Corriere della Sera», 23 ottobre 1992.
G. A. Stella, La DC si tormenta sul caso Andreotti, «Corriere della Sera», 8 aprile 1993.
Lima indizio contro Giulio, «Corriere della Sera», 17 aprile 1993.
M. Manno, Martinazzoli: “Su Giulio non do indicazioni. La DC non vota come un
partito totalitario”, «Corriere della Sera», 21 aprile 1993.
P. Graldi, Pecchioli: inefficienti nella prevenzione, «Corriere della Sera», 29 maggio
1993.
F. Verderami, Violante, dimissioni al veleno, «Corriere della Sera», 24 marzo 1994.
Sciacca, da Catania si insiste sul “no comment”, «Corriere della Sera», 24 marzo 1994.
Intervista a Giulio Andreotti, «Corriere della Sera», 17 maggio 2000.
Intervista a Colajanni, «Corriere della Sera», 17 maggio 2000.
Il Foglio Quotidiano:
M. Bordin, L’Antimafia delle nebbie, «Il Foglio Quotidiano», 27 ottobre 2013.
Il Giornale:
I. Montanelli, Da quella pira, «Il Giornale», 26 marzo 1991.
126
I. Montanelli, Via col vento, «Il Giornale», 11 giugno 1991.
I. Montanelli, Alt!, «Il Giornale», 6 dicembre 1991.
la Repubblica:
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G. Bocca, Quell’uomo solo contro la mafia, «la Repubblica», 10 agosto 1982.
I mandanti dell’omicidio sono nella DC di Palermo, intervista con Nando Dalla Chiesa,
«la Repubblica», 8 settembre 1982.
A. Bolzoni, La mafia ha sfidato Pappalardo, «la Repubblica», 29 aprile 1983.
P. Guzzanti, Migliaia di telefonate per sapere perché sono scomparsi i puffi, «la
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E. Scalfari, I difficili destini del nodo Visentini, «la Repubblica», 11 novembre 1984.
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S. Mazzocchi, Tam tam di manette dentro l’aula, «la Repubblica», 14 maggio 1992.
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G. Luzi, La crociata per Giulio ha spaccato la DC, «la Repubblica», 6 aprile 1993.
S. Bonsanti, Io Giulio Andreotti, «la Repubblica», 17 dicembre 1993.
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G. D‟Avanzo, Violante si è dimesso “Non cado nel tranello”, «la Repubblica», 23
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Il Giornale di Sicilia:
W. Semeraro, Lo scandalo di Agrigento impallidisce dinanzi ai fatti che abbiamo in
archivio, «Il Giornale di Sicilia», 6 agosto 1966.
A. Vaccarella, Eccolo la lista degli appalti rossi, «Il Giornale di Sicilia», 26 ottobre
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Entra la Corte, silenzio, «Il Giornale di Sicilia», 10 febbraio 1986.
L’Ora:
Il sacco di Palermo, «L‟Ora», 22 giugno, 1961.
Il sindaco dei violenti, «L‟Ora», 25 gennaio 1963.
Politica e violenza a Palermo, «L‟Ora», 8 luglio 1963.
L’Unità:
L. Violante, Il nuovo c’è, «l‟Unità» 7 aprile 1993.
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