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Breve storia della curatela
A Brief History of Curating
Hans Ulrich Obrist
postmedia books
Excerpt of the full publication
Breve storia della curatela
di Hans Ulrich Obrist
© 2011 Postmedia Srl, Milano
A Brief History of Curating
© 2008, Hans Ulrich Obrist, JRP|Ringier Kunstverlag AG
Traduzione dall'inglese di Luisa Filippi
Illustrazioni di Virginia Zanetti
www.postmediabooks.it
ISBN 9788874900626
ISBN ePub 9788874900695
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Breve storia della curatela
Hans Ulrich Obrist
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Introduzione
Christophe Cherix
Quando Hans Ulrich Obrist chiede al precedente direttore del Philadelphia
Museum of Art, Anne d’Harnoncourt, un consiglio per un giovane curatore
in procinto di entrare nell’odierno mondo dei musei, più popolari ma molto
meno sperimentali, lei cita con ammirazione la famosa ode all’arte di Gilbert &
George: “Credo che il mio consiglio non cambierebbe molto: osservare, osservare e
osservare, e poi osservare di nuovo, perché niente sostituisce l’osservazione... Non
vorrei essere, in termini duchampiani, solo ‘retinica’, non è questo che voglio dire.
Vorrei stare con l’arte, ho sempre pensato che fosse una bellissima frase quella di
Gilbert & George, ‘tutto quello che chiediamo è di stare con l’arte.’”
Come può una persona stare totalmente con l’arte?
In altre parole, si può fare esperienza dell’arte direttamente in una società che ha
prodotto così tanto eloquio e costruito così tante strutture per guidare lo spettatore?
Gilbert & George rispondono considerando l’arte come una divinità: “Oh arte
da dove arrivi, chi ha dato vita ad una tale stranezza? Per che genere di persone
sei fatta: sei per i forsennati, sei per i poveri di cuore, arte per chi è senza anima?
Fai parte del fantastico mondo della natura o sei l’invenzione di qualche uomo
ambizioso? Provieni da una lunga stirpe di arti? Per questo motivo ogni artista è
nato nello stesso modo e noi non ne abbiamo mai visto uno giovane. Diventare
artista è rinascere oppure è una condizione della vita?”1. Con una buona dose di
humor, ‘le sculture viventi’ suggeriscono che l’arte non necessita di mediazione,
dato che l’artista si riferisce ad un'autorità più alta, nessun curatore o museo
deve ostacolarlo.
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breve storia della curatela
Se la figura moderna del critico d’arte è stata ben riconosciuta fin da Diderot
e Baudelaire, la sua vera ragion d’essere rimane largamente indefinita. Nessuna
effettiva metodologia o chiaro lascito è visibile rispetto alla odierna proliferazione
di corsi per curatori. Il ruolo del curatore, come mostrato nelle seguenti interviste,
appare già incorporato a professioni artistiche preesistenti, come il direttore di un
museo o di un centro d'arte (Johannes Cladders, Jean Leering, o Franz Meyer),
il mercante (Sieth Siegelaub, per esempio), o il critico d’arte (Lucy Lippard). “I
confini sono fluidi”, osserva Werner Hofmann, e prosegue notando che questo è
particolarmente vero nel suo luogo di nascita a Vienna, dove “ti devi confrontare
con l’attività curatoriale di Julius von Schlosser e Aloïs Riegl”.
L’arte del tardo Ottocento e del Novecento è strettamente legata alla storia
delle mostre. I risultati delle avanguardie degli anni Dieci e Venti possono essere
considerati, dal punto di vista odierno, come una serie di raccolte collettive ed
esposizioni. Questi gruppi seguirono la strada tracciata dai loro predecessori,
permettendo ad un numero sempre maggiore di artisti emergenti di agire come
mediatori di se stessi. “Si dimentica”, osservò nel 1972 Ian Dunlop, “quanto fosse
difficile esporre un nuovo lavoro un secolo fa. Le mostre ufficiali e semi-ufficiali
realizzate annualmente nella maggior parte delle capitali occidentali vennero
governate da cliques auto-perpetuanti di artisti troppo soddisfatti di beneficiare
dell'esplosione del collezionismo che fece seguito alla rivoluzione industriale. In quasi
tutti gli Stati tali esposizioni non riuscirono a soddisfare le necessità di una nuova
generazione di artisti. Neanche le mostre annuali dove nacquero gruppi scissionisti,
come accadde in America, per esempio, riuscirono in tale intento, neppure dove gli
artisti realizzarono le proprie contro-esposizioni, come fecero gli Impressionisti in
Francia, il New English Art Club in Gran Bretagna, e gli artisti viennesi in Austria”2.
Proseguendo nel corso del Ventesimo secolo, la storia delle mostre appare
inseparabile dalle più significative collezioni della modernità. Gli artisti giocarono
un ruolo importante nella creazione di queste collezioni. Wladyslaw Strzeminski,
Katarzyna Kobro, e Henryk Stazewski iniziarono il Muzeum Sztuki a Łódź, in
Polonia, con la presentazione al pubblico nel 1931 di una delle prime collezioni
sull’avanguardia. Come ricorda Walter Hopps, “Katherine Dreier fu un personaggio
cruciale. Con Duchamp e Man Ray, aprì il primo museo moderno in America”.
Comunque, una progressiva professionalizzazione della posizione del curatore
stava diventando evidente. Molti direttori, fondatori di musei di arte moderna, si
possono annoverare tra i pionieri della curatela, da Alfred Barr, primo direttore nel
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hans ulrich obrist
1929 del Museum of Modern Art di New York, a Werner Hofmann che creò il
Museum des 20. Jahrhunderts a Vienna nel 1962. Non è sorprendente che, pochi
anni dopo, con l’arrivo di curatori come Harald Szeemann alla Kunsthalle di Berna
e Kynaston McShine al Jewish Museum e al Museum of Modern Art di New York,
la maggior parte delle mostre più importanti furono organizzate da professionisti
dell’arte più che da artisti.
Nel corso del Ventesimo secolo, “le mostre sono diventate il medium attraverso cui
la maggior parte dell’arte viene conosciuta. Non solo la quantità e la grandezza delle
mostre è incredibilmente aumentata negli ultimi anni, ma i musei e le gallerie d’arte,
come la Tate a Londra e il Whitney a New York, ora espongono le loro collezioni
permanenti come fossero una serie di esposizioni temporanee. Le mostre sono il luogo
primario di scambio nell'economia politica dell’arte, dove il significato è costruito,
mantenuto, e talvolta decostruito. In parte spettacolo, in parte evento dal valore
storico e sociale, in parte dispositivo strutturale, le mostre – soprattutto quelle di arte
contemporanea – stabiliscono e amministrano il significato culturale dell’arte”3.
Mentre la storia delle esposizioni ha cominciato, nell’ultimo decennio, ad essere
esaminata maggiormente in profondità, ciò che rimane largamente inesplorato
sono i legami che manifestazioni tra di loro connesse hanno creato tra i curatori,
le istituzioni, e gli artisti. Per questa ragione, le conversazioni di Obrist superano
l’enfasi sui grandi successi di alcuni individui; per esempio la trilogia di mostre
di Pontus Hultén Paris-New York, Paris-Berlin, e Paris-Moscow, quella di Leering
De Straat: Vorm van samenleven (The Street: Ways of Living Together), e quella di
Szeemann When Attitudes Become Forms: Live in Your Head. Il materiale raccolto da
Obrist ricostruisce “un mosaico di frammenti”, sottolineando una rete di relazioni
all’interno della comunità artistica nel cuore delle pratiche curatoriali emergenti.
Possono essere tracciate influenze condivise tra i curatori. I nomi di Alexander
Dorner, direttore del Provinciaal Museum di Hannover; Arnold Rüdlinger, a capo
del Kunstmuseum di Basilea; e Willem Sandberg, direttore dello Stedelijk Museum
di Amsterdam, diventeranno familiari al lettore di queste interviste. è il riferimento
a curatori meno conosciuti (non ancora presenti nella coscienza collettiva della
professione) che catturerà maggiormente l’attenzione degli storici. Cladders e
Leering ricordano Paul Wember, direttore del Museum Haus Lange a Krefeld;
Hopps punta a Jernayne Macagy, un “curatore pioniere dell’arte moderna” a San
Francisco; e d’Harnoncourt ricorda uno studente di Mies van der Rohe che divenne
curatore dell’arte del XX secolo all’Art Institute di Chicago, A. James Speyer.
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breve storia della curatela
Meyer osserva che se la storia non riesce a ricordare i curatori, “soprattutto
perché le loro conquiste erano destinate ai loro tempi. Per quanto determinanti
sono state comunque dimenticate”. In ogni caso, nei tardi anni Sessanta, “l’ascesa
del curatore come creatore”4 come Bruce Altshuler lo chiamò, non solo cambiò
la nostra percezione delle mostre, ma creò anche il bisogno di documentarle più
compiutamente.
Se il contesto di presentazione di un’opera ha sempre avuto importanza, la seconda
parte del Ventesimo secolo ha mostrato che le opere d’arte sono sistematicamente
associate alla loro prima mostra e che una mancanza di documentazione delle
successive espone le intenzioni originali dell’artista al rischio di essere frainteso.
è uno delle molte ragioni per cui le seguenti undici interviste rappresentano un
contributo chiave al più ampio approccio necessario per lo studio dell’arte del
nostro tempo.
1. Gilbert & George, To Be With Art is All We
Ask, Art for All, London 1970, p. 3–4.
2. Ian Dunlop, The Shock of the New: Seven
Historic Exhibitions of Modern Art, American
Heritage Press, New York, St Louis, e San
Francisco 1972, p. 8.
3. AA.VV., “Introduction”, Thinking about
Exhibitions, Routledge, London e New York
1996, p. 2.
4. Bruce Altshuler, The Avant-Garde in
Exhibition: New Art in the 20th Century,
Harry N. Abrams, New York 1994, p. 236.
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Nato in California nel 1932, Walter Hopps è morto a Los Angeles nel 2005.
Questa intervista è stata realizzata nel 1996. È stata pubblicata per la prima volta su
"Artforum" (New York, febbraio 1996) con il titolo “Walter Hopps, Hopps, Hopps”, ed era
introdotta dal testo che segue.
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Walter Hopps
Nel profilo realizzato da Calvin Tomkins sul “New Yorker” nel 1991, dal titolo
“A Touch for the Now”, il curatore Walter Hopps ci viene mostrato come un
eccentrico outsider. Scopriamo la sua routine preferita (la sua giornata tipo inizia
non molto prima del tramonto e si protrae fino alle ore piccole) e i suoi famosi
atti di sparizione (la sua elusività spingeva gli impiegati della Corcoran Gallery di
Washington DC, dove fu direttore negli anni Settanta, a realizzare pulsanti recanti la
scritta “Walter Hopps arriverà tra venti minuti”). Il suo implacabile perfezionismo (i
suoi collaboratori ricorderanno gli abituali grugniti “Sbagliato, sbagliato, sbagliato”
con cui salutava i loro migliori sforzi) ha consolidato l’immagine del curatore quale
vivace iconoclasta. Infatti, se il suo leggendario anticonformismo potrebbe adombrare
i suoi risultati curatoriali, la sua indipendenza non è disgiunta dai suoi successi. In una
carriera di quarant’anni passata dentro e fuori i musei, durante la quale ha organizzato
oltre cento mostre, egli non si è mai lasciato sopraffare dalle logiche amministrative
o dalla routine (una volta disse che lavorare per i burocrati mentre era senior curator
alla National Collection of Fine Arts, ora National Museum of American Art, era
“come trovarsi in ospedale”). Guardando alla sua carriera si ha l’impressione che sia
un perfetto insider, ma anche un irrimediabile outsider.
Walter Hopps aprì la sua prima galleria, il Syndell Studio, mentre era ancora
studente all’UCLA, all’inizio degli anni Cinquanta, e ricevette grandi consensi per
le sue panoramiche sulla nuova generazione di artisti californiani: Action I e Action
II. In seguito, la sua Ferus Gallery a Los Angeles portò all’attenzione artisti quali Ed
Kienholz, George Herms e Wallace Berman. Come direttore del Pasadena Museum
of Art (1963-1967), Hopps organizzò un bel programma di mostre, le prime
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breve storia della curatela
retrospettive americane di Kurt Schwitters e Joseph Cornell, la prima panoramica
della pop art americana (New Painting of Common Objects), per non parlare della
prima personale di Marcel Duchamp in un museo.
Eppure Hopps ha avuto successo lavorando dentro e fuori dagli spazi istituzionali.
Mostre quali Thirty-Six Hours, in cui appese i lavori di tutti quelli che passavano di lì
nell’arco di due giorni e mezzo, sono esempi fondamentali del modello curatoriale al
di fuori dagli schemi museali. Anche oggi Hopps lavora in contesti diversi: sebbene
sia impegnato come consulente curatore per la Menil Collection di Houston, trova
anche il tempo di essere redattore di “Grand Street”, una rivista letteraria che lui ha
contribuito a trasformare in vetrina per artisti.
Il talento di Hopps nelle vesti di committente è eguagliato solo dalla sua abilità
di allestire mostre sbalorditive. Come spiega Anne d’Harnoncourt, direttore del
Philadelphia Museum of Art, il suo successo deriva dal “suo senso del carattere
dell’opera d’arte, e dalla sua capacità di far emergere quel carattere senza inquinarlo”.
Ma Hopps intende anche la figura del curatore come un direttore d’orchestra che lotta
per stabilire l’armonia tra i singoli musicisti. A dicembre, quando l’ho intervistato a
Houston per darmi qualche notizia sulla sua retrospettiva di Edward Kienholz al
Whitney, mi disse che era stato Duchamp ad insegnargli quale fosse la regola cardine
del curatore: quando si organizzano le mostre, le opere non devono mettersi di mezzo.
≈≈≈
All’inizio degli anni Cinquanta hai lavorato come organizzatore in campo musicale.
Come sei passato all’organizzazione di mostre?
Le cose avvennero nello stesso momento. Quando frequentavo le superiori fondai
una specie di società fotografica con cui organizzavamo progetti e mostre a scuola.
In quello stesso periodo incontrai per la prima volta Walter e Louise Arensberg. Ma
alcuni dei miei amici più cari erano musicisti e gli anni Quaranta erano il periodo
dell’innovazione nel jazz. Era entusiasmante riuscire a vedere “classici” come Billie
Holliday nei club di Los Angeles, o nuovi talenti come Charlie Parker, Miles Davis
e Dizzy Gillespie. I musicisti più giovani che conoscevo iniziarono ad ottenere
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Era incredibile la mancanza di visibilità per gli artisti contemporanei.
Esatto. Nel sud della California c’erano state solo due occasioni, durante la mia
giovinezza, in cui si erano potuti vedere i protagonisti della New York School. I
critici li stroncarono. Una di queste era The Intrasubjectivists, un’incredibile mostra
dedicata agli artisti che Sam Kootz ed altri avevano contribuito a riunire. Poi c’era stata
una mostra curata da Joseph Fulton, il mio predecessore al Pasadena Art Museum,
che aveva organizzato un fantastico evento con Jackson Pollock ed Enrico Donati,
un misto di nuove tendenze americane e cose più vicine al surrealismo. C’erano de
Kooning, Rothko e altri. L’unico testo critico al quale avevamo accesso era quello di
Clement Greenberg, era polemico ed arrogante, e poi c’erano i bei lavori di Harold
Rosenberg e Thomas Hess. Hess cercava costantemente ogni motivazione possibile
per difendere de Kooning, come sai. Praticamente, non c’erano critici di quel tipo
nel sud della California. C’era anche Jules Langsner, che credeva fermamente in
una pittura astratta minimalista senza compromessi, tipo John McLaughlin. Non
riusciva proprio ad accettare Pollock.
Qual era l'accoglienza di questi eventi?
Mi colpiva quanto la gente rispondesse bene, in quel periodo giovani artisti e altri
che non facevano ufficialmente parte del mondo dell’arte erano davvero curiosi.
C’era un pubblico davvero umano.
Sembra un paradosso perché fino a quel momento c’era stato ben poco da
vedere, poi improvvisamente, intorno al 1951, ci fu un’impennata nell’arte
della West Coast. Mi raccontavi della tua idea di organizzare una mostra
di opere tutte realizzate nel 1951.
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Walter Hopps
contratti, ma a quel tempo era molto difficile. Il black jazz spaventava i genitori e
le forze dell’ordine, era peggio del rock’n’roll. Aveva una componente sovversiva.
Ebbi la fortuna di scoprire il grande sassofono baritono Gerry Mulligan. Più avanti,
ebbi la possibilità di presentarli come quartetto con il suo fantastico trombettista,
Chet Baker. Sai, quei tipi avevano un tipo di vita sociale diversa dal normale. In
qualche modo, nello stesso momento, mentre andavo a scuola, lavoravo con il jazz
e aprii una piccola galleria vicino alla UCLA, il Sydnell Studio.
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breve storia della curatela
Identificherei l’apice del lavoro del migliore espressionismo astratto nel periodo
dal 1946 al 1951. Questo vale per New York e, in scala ridotta, per San Francisco.
In questo periodo, la maggior parte dei più importanti pittori dell’espressionismo
astratto in America erano al massimo della forma. Volevo davvero realizzare una
mostra sul 1951, con cento artisti rappresentati da un singolo pezzo significativo.
Sarebbe stato fantastico. Lawrence Alloway, a Londra, comprese quello che stava
accadendo meglio di molte persone negli Stati Uniti. Aveva parecchie informazioni
sulla nuova arte americana, gliele avevo fornite io.
La 291 Gallery di Stieglitz è stata una fonte di ispirazione per le tue mostre?
Sì. Conoscevo un po' di cose su quello che era successo al 291. Alfred Stieglitz
è stato il primo ad esporre Picasso e Matisse negli Stati Uniti. Persino prima
dell’Armory Show, pensa.
Quindi prima degli Arensberg.
Sì, perché la collezione degli Arensberg cominciò effettivamente nel 1913, al tempo
dell’Armory show. Molte collezioni ebbero inizio allora: anche la collezione di
Duncan e Marjorie Philips a Washington iniziò in quell’anno. Katherine Dreier fu
un personaggio cruciale. Con Duchamp e Man Ray, aprì il primo museo moderno in
America. Infatti fu chiamato Modern Museum, sebbene fosse più conosciuto come
Societé Anonyme.
L’anno 1913 ci riporta in qualche maniera alla discussione che abbiamo fatto a
pranzo, quando hai parlato del 1924 come una seconda data molto importante.
Ah, certo. Non è successo niente nei musei fino a circa il 1924. Ci misero alcuni
anni. Poi, a New York e San Francisco, e in parte a Los Angeles e Chicago, le cose
cominciarono ad accadere grazie ad alcuni collezionisti all’interno di quei musei.
Poco dopo il trasferimento nel sud della California, Walter Arensberg ebbe l’idea di
fondare un museo di arte moderna per esporvi la collezione sua e di altri collezionisti.
Ma era destino che la cosa non si realizzasse. Non c’erano sufficienti collezionisti di
arte moderna disposti a sostenere un progetto simile nel sud della California.
Sì. Io credo che l’arrivo di Walter e Louise Arensberg in California diede il via libera,
il permesso di fare tutto, per quanto il pubblico e le istituzioni fossero contrari all’arte
contemporanea. Persino dopo la Seconda Guerra Mondiale (tra la fine degli anni
Quaranta e l’inizio degli anni Cinquanta) nel sud della California le politiche dell’era
McCarthy erano molto dure con l’arte nei musei. Picasso e, addirittura, Magritte
(che non aveva ideali politici, anzi, era una specie di beniamino dei monarchici)
videro i loro lavori rimossi con l’etichetta di sovversivi e portatori di ideali comunisti
nell’unico museo che avevamo a Los Angeles. Qui c’era una scena contemporanea
debole, la scuola di Rico Lebrun per esempio. C’erano numerosi artisti-cloni di Picasso
e troppe insipide variazioni su Matisse; era davvero fastidioso. C’era più autenticità
e profondità in alcuni pittori di paesaggio. Ma le cose iniziarono lentamente a
diffondersi. Pittori senza compromessi, come John McLaughlin, cominciarono ad
essere esposti. Al pubblico continuavano a non piacere, ma quei lavori erano appesi
nei musei, ad esempio da James Bernard Byrnes, il primo curatore di arte moderna
al Los Angeles County Museum of Art. San Francisco fu l’altro luogo negli Stati
Uniti in cui iniziò ad essere esposta seriamente il migliore espressionismo astratto,
come Clyfford Still e Mark Rothko, come venivano descritti dalla brillante curatrice
di arte moderna Jermayne MacAgy.
Anche Richard Diebenkorn era esposto?
Diebenkorn era un loro studente. Cominciò anche lui ad esporre, come David Park
e altri.
Puoi raccontarmi qualcosa sugli artisti della tua generazione che lavoravano con
l’assemblage? Quali erano le loro fonti?
Wallance Berman era affascinante, un tocco magistrale e una grande conoscenza
del surrealismo, ma non divenne uno che copiava la forma surrealista, come tanti
altri artisti. Fu fondamentale per la sensibilità Beat. Era uno dei più seri, fu lui ad
avvicinarmi ai testi di William Burroughs. Pubblicava anche una rivista, Semina.
Uno degli intellettuali poco più anziani che influenzarono molto la cultura Beat
della West Coast fu Kenneth Rexroth, un uomo molto intelligente, ed un fantastico
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Walter Hopps
Quindi il 1924 fu anche l’anno in cui lasciò New York?
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breve storia della curatela
traduttore dell’affascinante poesia cinese. Eppoi era un maestro per persone come
Ginsberg e Kerouac, così come lo era anche Philip Whalen. Ma le culture di San
Francisco e di Los Angeles erano piuttosto diverse per quanto riguarda il sostegno,
le infrastrutture. Le persone disposte a sostenere l'arte abitavano principalmente nel
sud della California, e la maggior parte dell’arte davvero interessante, anche se non
tutta, si sviluppava nel nord. Era un dialogo difficile, e io capii che era fondamentale
ricongiungere nord e sud.
A Los Angeles e nella West Coast in generale i circoli intellettuali ed artistici
sembrano essere stati di ampie vedute, non dogmatici, ma aperti a tutti.
Assolutamente. Non c’era bisogno di fare affiliazioni come a New York. Ed Kienholz
era un amante del lavoro di Clyfford Still e del suo circolo, Richard Diebenkorn gli
andava bene. Gli piaceva ancor di più Frank Lobdell, perché era cupo e meditativo.
Ma apprezzava anche de Kooning. Non era un problema. Il mondo della New
York School, invece, era molto difficile: Greenberg diventò il mito di tutti i pittori
color field, mentre Rosemberg fu il mito di de Kooning e Franz Kline. Anche gli
artisti avevano le loro connessioni, ma nella West Coast uno come Kienholz poteva
permettersi di amare sia de Kooning che Clyfford Still.
Kienholz era legato a Wallace Berman e, più tardi, anche alla Beat generation?
Kienholz e Berman si conoscevano, ma c’era una frattura tra loro. Kienholz era chiuso,
ma anche realista. Berman era pieno di spiritualità, un ebraismo cabalistico e un forte
rispetto per la cristianità. Kienholz non lo giudicava, ma non voleva nemmeno averci
a che fare. Erano davvero diversi. Sono rappresentati fianco a fianco nella grande
mostra Beat Culture curata da Lisa Philipps al Whitney Museum di New York. Al
momento sto lavorando su una retrospettiva completa dell’opera di Ed Kienholz e
Nancy Reddin Kienholz, che sarà presentata alla fine dell’anno al Whitney. Il lavoro
di Ed fu considerato molto controverso, persino nel 1960, quando gli fu dedicata la
sua prima retrospettiva. Oggi credo che susciti meno controversie, ma non si sa mai.
Con questa mostra spero di rivelare la continuità e allo stesso tempo il potere della
sua arte, insieme con le sue origini pregne di un forte senso americano della cultura
californiana e della sua vasta gamma di tematiche.
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Willem Mengelberg era il direttore d’orchestra della New York Philharmonic, e fu
colui che introdusse in America la nobile tradizione tedesca di formare un’orchestra
e di dirigerla. Cito Mengelberg non tanto per il suo stile, ma per il suo instancabile
rigore. Qualsiasi cosa succedesse, lui faceva fare all’orchestra il suo concerto. La
buona curatela del lavoro di un artista (cioè la capacità di presentarlo in mostra)
necessita della comprensione più ampia e approfondita dell’opera dell’artista che da
parte del curatore. Questa conoscenza approfondita si spinge molto al di là di ciò
che viene poi effettivamente incluso in mostra. Allo stesso modo, nel momento in
cui il direttore dirige la sua orchestra, il suo approccio, per esempio, alla Sinfonia di
Giove, sottende una profonda conoscenza di tutta la musica di Mozart. Mengelberg
era il tipo di direttore che aveva una vasta conoscenza di ogni compositore a cui si
dedicava. Tra i curatori, invece, ho sempre ammirato moltissimo Katherine Dreier,
con le sue mostre ed attività, perché lei, più di ogni altro collezionista o committente
che ho conosciuto, sentiva la necessità di facilitare quello che veramente volevano
fare gli artisti e di farlo nel miglior modo possibile.
Si può dire che fosse complice degli artisti.
Esattamente. Non aveva altre persone benestanti in commissione che potevano
aiutarla. Aveva Man Ray e Duchamp, avere artisti di questo livello di solito è solo
una fonte di problemi.
Hai anche nominato Alfred Barr e James Johnson Sweeney.
Alfred Barr, che proveniva da una famiglia protestante yankee, doveva diventare un
pastore luterano. Invece diventò un grande direttore e curatore, con un’istituzione
che aveva tutte le risorse di cui i Rockefeller ed altri potevano disporre in quel periodo.
Barr sosteneva una sorta di imperativo morale, predicava l'idea che l’arte moderna
fosse utile alle persone, che la massa potesse essere in qualche modo indottrinata
attraverso il nuovo modernismo, e che questo avrebbe migliorato la vita della gente. In
questo era molto vicino ai fondamenti della Bauhaus. James Johnson Sweeney era più
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Walter Hopps
Tornando al problema della curatela: in una precedente intervista hai nominato
una breve lista di curatori e direttori d’orchestra americani che consideri tuoi
importanti predecessori.
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breve storia della curatela
complicato e romantico. Non credo avrebbe affermato che l’arte fine a sé stessa fosse
necessariamente e moralmente utile per le persone, ma non sosteneva rigidamente
che non lo fosse. Sweeney era un vero romantico, sentiva che l’esperienza estetica
come un territorio completamente separato da esplorare. E lui era un esploratore.
Riteneva che Picasso fosse uno dei maggiori avventurieri. Sweeney fu uno dei primi
della sua generazione ad ammirare Picasso. Lavorò per un breve periodo al Museum
of Modern Art, e poi al Guggenheim.
E poi a Houston?
Sì, al Museum of Fine Arts di Houston per un periodo, a fine carriera. Sweeney si
sentiva istintivamente vicino all’espressionismo astratto. Avendo lavorato in Francia
quando era giovane (in giornali letterari ecc...) si era anche avvicinato al tachisme.
Stava cominciando ad avere una certa empatia, una certa risposta dai nouveaux
realistes poco prima di morire. Credo che se fosse stato più giovane, e ancora in
vita, sarebbe stato per esempio il maggiore sostenitore di Yves Klein. Sweeney era
anche una delle persone più rigorose che abbia mai conosciuto quando allestiva
un’installazione. Quando ero giovane, ho potuto vederlo dal vivo, nella vecchia
sede del Guggenheim prima del nuovo edificio di Frank Lloyd Wright. L’edificio
di Wright non gli piacque mai. Era lo scontro di due personalità forti. Sweeney
avrebbe voluto un luogo più neutrale per i propri allestimenti. Comunque, proprio
nell’edificio di Wright fece una favolosa mostra su Alexander Calder.
Nella pratica curatoriale è necessario adottare delle strategie flessibili. Ogni evento è
una situazione unica e idealmente cerca di essere il più vicino possibile all’artista.
Il corpo di lavori di un artista contiene un obiettivo intrinseco con cui devi cercare
di relazionarti o che devi cercare di capire. Questo implica un coinvolgimento a
livello psicologico. Ho sempre cercato di rimanere il più calmo e pacifico possibile.
Se c’era un modo semplice di fare una cosa, la facevo in quel modo. Quando ho
organizzato la retrospettiva su Duchamp nel 1963, io e lui abbiamo passeggiato per
il vecchio Pasadena Art Museum (i toni dominanti erano il bianco e il marrone,
alcuni supporti erano lignei) e c’era del marrone scuro. Duchamp disse: “Va bene
così. Non fare nulla che sia troppo complicato”. Insomma, lui era sempre molto
pratico. Aveva però un modo molto sottile per cercare di orchestrare o estrapolare
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Ti riferisci alla Biennale di San Paolo del 1965?
In quell’occasione, ma anche quando ho esposto il suo lavoro a Washington. C’era
un’enorme parete che aveva degli elementi di disturbo nella parte superiore, nella
parte dove erano esposti i dipinti. Questo infastidiva talmente Barnett (ma lui solo)
che abbiamo dovuto costruire una falsa parete alta circa dieci metri: una grande spesa
e tanti problemi.
In termini di flessibilità, negli anni Sessanta e soprattutto negli anni Settanta, la
tipica kunsthalle europea era vista come un laboratorio, un luogo in cui si potevano
fare esperimenti senza l’ossessione del successo, del pubblico e di spazi da riempire.
Infatti, in questo era simile alla tradizione che stava alle spalle di Dominique de Menil
per parte della famiglia di suo padre, gli Schlumberg, nel campo dell’ingegneria. Si
sarebbe potuto togliere “Menil Collection” dalla facciata dell’edificio e chiamarlo “de
Menil Research”, e sarebbe sembrato un edificio di ingegneria.
Era questa l’intenzione che ha portato a scegliere Renzo Piano come architetto?
Assolutamente. Questa è una delle ragioni per cui scegliemmo Renzo Piano, il
cui grande amore è l’ingegneria. Credo che i suoi antenati fossero costruttori di
navi e non c’è niente di più bello di una nave. La sua forma però è assolutamente
razionale. Prima di morire, nel 1974, Jean de Menil volle che Louis Kahn costruisse
il nuovo museo. La cappella di Philip Johnson esisteva già, quindi una specie di
santuario di pace era già stato realizzato. Jean de Menil volle il nuovo museo, con
quei padiglioni, sullo stesso terreno nel parco. Kahn morì circa un anno dopo,
quindi non fu più possibile continuarlo. Credo però che l’ingegneristico spazio
pubblico di Piano funzioni bene a fianco dello spazio, più raccolto, del santuario
della cappella di Rothko.
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Walter Hopps
quello che c’era, Duchamp sapeva esattamente come lavorare con quello che già
esisteva. Con altri artisti, invece, le installazioni erano molto differenti. Barnett
Newman era un uomo solare, ma elaborava una visione preconcetta di come lo
spazio sarebbe dovuto apparire. Tutte le volte che ho esposto le sue opere, ho sempre
dovuto allestire molte strutture.
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breve storia della curatela
Hai nominato anche René d’Harnoncourt tra i tuoi modelli.
Era davvero speciale. Nelson Rockefeller fu fortunato ad averlo conosciuto. Era un
altro di quelli che provenivano da studi scientifici, nello specifico in chimica. Sarebbe
potuto diventare un ingegnere in uno dei grandi settori di coloranti dell’industria
chimica. Invece, grazie al suo amore per l’arte, anche quella antica, René d’Harnoncourt
diventò una figura che, istintivamente, comprende che l’arte antica conteneva forme
archetipe, mettondo in relazione le cose già presenti nelle cosiddette arti tribali o
primitive con i risultati ottenuti con il moderno. Quando arrivò al Museum of Modern
Art, vide che qualcosa di più profondo e di più ampio respiro stava accadendo con
Pollock, molto più profondo dell’influenza del surrealismo francese. Capì che Pollock,
a modo suo, stava tornando ad alcune delle antiche fonti cui avevano attinto gli stessi
surrealisti. D’Harnoncourt aveva una levatura da diplomatico capace di mantenere
tutti i dipartimenti, tutte le diverse personalità, più o meno in equilibrio. Fu portato
al MoMA dopo che Alfred Barr ebbe un esaurimento nervoso, ed il suo compito
principale, almeno finché Nelson Rockefeller fu coinvolto, era quello di aiutare Barr. E
fu quello che fece; si trovarono molto bene insieme. L’altro curatore presente in quella
lista credo fosse Jermayne MacAgy. Un vero maestro, specialista di bellissime mostre
a tema. Il suo lavoro migliore fu a San Francisco dove organizzò una mostra sul tema
del tempo. C’era un lavoro di Chagall intitolato Il tempo è un fiume senza rive [19301939]. Credo che la frase intrigasse MacAgy, anche più del lavoro stesso. La mostra era
astorica, proveniente da ogni periodo storico, e interculturale. Vi incluse diversi tipi di
orologi. C’era un piccolo Dalì con piccoli orologi accanto a svariati tipi di riferimenti
e allusioni al tempo, in opere vecchie e nuove. In un’altra mostra al California Palace
of the Legion of Honor di San Francisco, MacAgy organizzò un’esposizione di armi
e armature e realizzò una fantastica scenografia: nel grande atrio allestì un’enorme
scacchiera allineando le figure come due squadre in competizione.
Come facevano le mostre di Jermayne MacAgy ad evitare di subordinare la singola
opera dell’artista al concetto complessivo?
Possedeva, nella maggioranza dei casi, un tocco molto sicuro e discreto.
Hai anche parlato delle sue mostre in termini di un design all’insegna
della quasi totale assenza.
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hans ulrich obrist 221
Exhaustion, nel quale scriveva che i modi convenzionali della rappresentazione letteraria
associati al romanzo erano “datati”, e che il romanzo era un modello letterario logoro.
Dopo la morte del romanzo possiamo provare un esercizio di ingenuità e continuare
come se nulla fosse accaduto (come fanno migliaia di scrittori), oppure si può rendere
produttiva la fine del genere: da Jorge Luis Borges a Italo Calvino, uno trova le versioni
fantastiche di una certa “letteraturatura dopo la letteratura” in cui il gioco finale è
trasformato in un nuovo tipo di scrittura. Un caso emblematico: il brillante metaromanzo del 1979 di Calvino Se una notte d’inverno un viaggiatore che riunisce tanti
libri incompatibili.
Forse è nello stesso modo che la pittura è morta, anche se è ancora tenuta in vita da
Gerhard Richter, uno che dipinge in tutti gli stili senza privilegiarne alcuno. Perlomeno
questa è la posizione che il critico Benjamin Buchloh ha voluto che l’artista accettasse
in una mitica intervista del 1986. Con uno stile grandioso Richter dimostrerebbe
quindi la fine della sua disciplina.
Così sembrerebbe che anche la Biennale abbia raggiunto la sua inevitabile fine. Ma
questa fine forse è necessaria se si è alla ricerca di un nuovo inizio. Hans Ulrich Obrist
lo sa e per questo, insieme a Stéphanie Moisdon, ha organizzato la Biennale di Lione
(settembre 2007) come una sorta di gioco meta-letterario. Nello spirito di OuLiPo (un
gruppo sperimentale di poeti e matematici), l’intero evento è stato ridotto ad un elenco
di manuali, il curatore non era altro che un algoritmo. Forse un’altra versione della
fine è stata segnata dalla 50° edizione della Biennale di Venezia (curata da Francesco
Bonami nel 2003), almeno così la pensavamo io e Obrist mentre lavoravamo alle nostre
sezioni. La mostra conteneva una molteplicità di spettacoli: la più estrema, densa, e
impressionante biennale asiatica (a cura di Hou Hanru), sezioni organizzate da artisti
(Gabriel Orozco e Rirkrit Tiravanija), una sorta di laboratorio ai Giardini (Utopia
Station, una collaborazione tra Obrist, Tiravanija e Molly Nesbit), e numerose altre
mostre incompatibili, ognuna con una propria logica. Fu un evento eterogeneo, e in
qualche modo fu la Biennale che pose fine alla Biennale come forma sperimentale, che
cercò di esaurire tutte le possibilità in una sola volta, forzando la pluralità, per quanto
possibile. Molte persone non apprezzarono, ma ho l’impressione che quasi tutto ciò che
è seguito a questo sforzo potrebbe sembrare conservatore.
La fine della Biennale non significa che non saranno più realizzate biennali
(esattamente come la “morte del romanzo” non ha mai significato la scomparsa dei
libri dalle librerie). Al contrario, ci sono più biennali che mai. Ma come forma di
sperimentazione ed innovazione sembra che abbia raggiunto un punto in cui deve
reinventarsi. L’idea che le forme di espressione artistica si possano esaurire non è una
novità. Per esempio, a metà degli anni Venti, un giovane Edwin Panofsky fece questa
dichiarazione: “Quando il lavoro su certe problematiche artistiche progredisce a tal
breve storia della curatela 222
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