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Le frontiere della scuola negli istituti penali minorili italiani The borders of school inside Italian Juvenile Prisons Marco Brancucci Università degli Studi di Bari Aldo Moro marco.brancucci@uniba.it KEYWORDS School, Juvenile Prison, School Policy, Permanent Training. Scuola, Carcere Minorile, Politiche Scolastiche, Formazione Continua. * Revisione del contributo presentato in forma di speech individuale al Congresso internazionale della Società Svizzera di Ricerca in Educazione (SSRE) – sul tema “Où s’arrête l’école? – Wo endet die schule? – Dove si ferma la scuola?” – Faculté des sciences sociales – Institut de psychologie – Université de Lausanne (Svizzera), 29 giugno-1 luglio 2016. doi: 107346/-fei-XIV-03-16_08 © Pensa MultiMedia La scuola è l’agenzia educativa formale più radicata nel tessuto sociale. Ciò comporta che, per stare al passo dei rapidi cambiamenti sociali, essa si adatti mutevolmente, riperimetrando le proprie frontiere operative. Cosa accade alla scuola, invece, quando è collocata in frontiera all’interno di istituzioni talvolta resistenti al cambiamento, quali gli istituti penali minorili? Corpi normativi nazionali (Costituzione italiana, 1948; Ordinamento Penitenziario, 1975) ed organizzazioni internazionali (Convenzione ONU sui diritti di infanzia e adolescenza, 1989), riconoscono il diritto dei minori all’istruzione, e la sua insopprimibilità o riduzione anche nei contesti di privazione della libertà individuale. Come si traducono questi orientamenti generali nella pratica progettuale e operativa del fare scuola nei penitenziari minorili italiani? Quanto è in grado la scuola, in sinergia con la Giustizia Minorile, di rispondere concretamente e non astrattamente ai reali bisogni dei giovani detenuti? Mediante un’analisi ermeneutica dei dati resi disponibili da fonti ministeriali e recenti ricerche (Rapporto MIUR-ISFOL, 2014; Terzo Rapporto di ANTIGONE, 2015), questo saggio pone l’accento su contraddizioni e discrepanze tra il pensare scuola e il fare scuola negli istituti penali minorili italiani, e mira a immaginare come applicare strategie o azioni correttive, idonee a contribuire allo sviluppo sia della crescita culturale e educativa che all’emancipazione dei giovani detenuti. Formazione & Insegnamento XIV – 3 – 2016 ISSN 1973-4778 print – 2279-7505 on line ABSTRACT School is the most embedded formal educational agency into society. Therefore, the more society evolves fast, the more school arranges to change itself, shaping new operative borders. So, what happens, instead, when school is located inside change-proof institutions such as Juvenile Prisons? National laws (Italian Republic Constitution, 1948; Italian Penitentiary System, 1975) and international organizations (United Nations Convention on the Rights of the Child, 20 November 1989) both recognize the right of minors and adolescents for education and learning, which is insuppressible even inside prisons and somewhere else individual freedom is deprived. But, how to convert this general orientations into self-efficient school practices inside Italian Juvenile Prisons? How much able is the collaboration between School system and Juvenile Justice system to respond to the educational needs of young inmates, really? Starting from the hermeneutical analysis of available data referring to Ministerial sources and recent researches (MIUR-ISFOL report, 2014; ANTIGONE 3rd report, 2015), this essay aims to underline contradictions and discrepancies between how schooling is thought or is done inside Juvenile Prisons, and to imagine how to apply corrective actions or strategies to make them fit to enhance both the cultural and educational growth and the emancipation of young inmates. 99 Marco Brancucci 1. Premessa La scuola, per sua natura, è l’agenzia educativa formale di gran lunga più rappresentativa della società. Il suo radicamento capillare nelle realtà del territorio, infatti, la rende preminente tra le istituzioni generatrici di cultura e sapere. Ragione per la quale, per stare al passo dei rapidi cambiamenti sociali, l’istituzione scolastica è chiamata per prima ad adattarsi mutevolmente alle trasformazioni della società fluida, finanche riperimetrando le proprie frontiere operative. Proprio «i processi di mutamento sociale sul piano dell’identità etnica e culturale e le trasformazioni che la famiglia italiana ha attraversato in questo ultimo quarto di secolo unite sul piano macrosistemico ad una economia globale, alla flessibilità del lavoro e alle spinte più genericamente centrifughe, impongono alla scuola di rendersi ancor più che in passato responsabilmente attiva nel processo formativo delle giovani generazioni» (Bartholini, 2001, p. 74). Il presente contributo offre una prospettiva d’indagine peculiare: quali prospettive e opportunità di recupero sociale offre ai minori la scuola, quando è collocata in frontiera all’interno di istituzioni penali, solitamente ritenute “chiuse e totali” (Goffman, 1961), e resistenti al cambiamento? Quali eventuali proposte migliorative di correzione al sistema scuola-carcere minorile? Parlare del rapporto dialogico tra scuola e carcere, anzitutto presuppone la consapevolezza circa il legame inclusivo tra le due tipologie di istituzioni, essendo l’una il contenitore dell’altra. È la scuola che fa il suo ingresso in carcere, il quale le fa spazio tra i propri confini ristretti e le affida parte del tempo dedicato alla cura pedagogica e alla rieducazione in termini umani e formativi delle persone detenute. Ferma restando, tuttavia, la consapevolezza di talune criticità, o limiti apparenti, che caratterizzano il fare scuola in carcere. A titolo esemplificativo: tempo di permanenza dei detenuti, numero e tipologia di detenuti-studenti, percentuale di abbandono delle attività scolastiche da parte degli stessi (Tamburino, 2014). Ma non solo. Si fa riferimento anche alla non uniformità di opportunità formative reali offerte ai detenuti e al necessario rispetto delle esigenze logistiche proprie dell’istituto penitenziario ospitante, al cui interno si vengono a sommare fattori biologici, ecologici e sociali (Brancucci, 2016). 2. L’istruzione al centro: tra diritto nazionale e internazionale Focalizzare l’attenzione sulle attività di istruzione rivolte ai detenuti, siano essi minori o adulti, risponde ad un interesse non soltanto local-nazionale, ma anche di respiro più ampio. Lo conferma, infatti, la centralità assegnata all’apprendimento permanente dal Consiglio Europeo nell’ambito delle strategie europee (Strategia di Lisbona 2000, rilanciata nel 2005), finalizzate non solo a stimolare la competitività e l’impiego, ma tese a favorire anche una maggiore inclusione sociale, una cittadinanza più attiva e il raggiungimento delle aspirazioni personali di ciascuno. La riflessione sulla scuola nella realtà penitenziaria minorile, perciò, è motivata dall’importanza che l’istruzione scolastica riveste nel favorire non solo il pieno sviluppo della personalità umana dei minori, ma anche e soprattutto nel garantire la possibilità di rieducazione e la fattibilità di reinserimento sociale degli stessi. Cosicché i minori possano veder sviluppate e coltivate le proprie attitudini e inclinazioni fisiche e mentali, al massimo delle loro potenzialità. Finalità ed esigenze pedagogiche talmente importanti da meritare un’attenzione particolare da parte della Costituzione italiana, che assegna alla Repubblica il dovere morale e materiale di proteggere la maternità, l’infanzia e la gioventù, favoren- 100 2 3 4 5 6 7 8 9 Costituzione della Repubblica italiana, approvata dall’Assemblea Costituente il 22 dicembre 1947, promulgata dal Capo provvisorio dello Stato il 27 dicembre 1947 ed entrata in vigore il 1° gennaio 1948; art. 31 comma 2. Costituzione della Repubblica italiana, cit., art. 34 comma 1. Convenzione approvata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 20 novembre 1989, ratificata dall’Italia con legge del 27 maggio 1991, n. 176, depositata presso le Nazioni Unite il 5 settembre 1991, artt. 28-29. Statuto delle Nazioni Unite, adottato il 26 giugno 1945 a San Francisco, a conclusione della Conferenza delle Nazioni Unite sull’Organizzazione Internazionale. Entrato in vigore il 24 ottobre 1945, è stato ratificato dall’Italia con legge 17 agosto 1957, n. 848. «Ogni individuo ha diritto all’istruzione. L’istruzione deve essere gratuita (…) deve essere messa alla portata di tutti (…) accessibile a tutti (…) deve essere indirizzata al pieno sviluppo della personalità umana ed al rafforzamento del rispetto dei diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali». Art. 27, Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, approvata dall’assemblea delle Nazioni Unite il 10 dicembre del 1948. Regole di Pechino, ONU, New York, 29 novembre 1985, art. 26. Costituzione della Repubblica italiana, cit., art. 27 comma 3. Legge 26 luglio 1975, n. 354, Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà, art. 1. Le frontiere della scuola negli IPM italiani do gli istituti socio-giuridici necessari a tale scopo2. E tra questi, in conformità al principio fondamentale di inviolabilità dei diritti umani sullo sviluppo della personalità (Larizza, 2012), fa rientrare a pieno titolo il diritto all’istruzione, sancito dal riconoscimento, di elevato valore civico, di una scuola aperta a tutti3 gratuitamente. Alle disposizioni della Costituzione italiana, poi, si affiancano, in ambito internazionale, quelle enunciate dalla Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza4. Essa impone agli Stati contraenti il riconoscimento del diritto del fanciullo all’educazione e all’istruzione, oltre alle finalità che l’educazione stessa deve perseguire, nel pieno rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e del principio di uguaglianza già consacrati nella Carta delle Nazioni Unite5 e nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo6. Il quadro normativo internazionale è referente anche nel caso della privazione della libertà fisica dei minori autori di reato, oggetto specifico delle Regole minime per l’amministrazione della giustizia minorile (c.d. Regole di Pechino)7. Viene sancito, difatti, il diritto dei minori collocati in istituzioni giudiziarie a ricevere una formazione e un trattamento tali da assicurare loro assistenza, protezione, educazione e competenza multi-professionale affinché, una volta riacquistata la libertà, essi siano posti nelle condizioni di avere un ruolo costruttivo e produttivo nella società. E ancora, la Raccomandazione del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa R (89) 12 sul diritto d’istruzione in carcere, che riconosce un ventaglio di opportunità per i detenuti il più ampio possibile, pari all’offerta formativa rivolta a gruppi di età simile nella società esterna. Diritto costituzionale italiano e Diritto internazionale sono concordi, dunque, nel prescrivere che il diritto all’educazione e istruzione dei minorenni non possa essere messo tra parentesi in nessun caso, né sacrificato in nome di altri diritti, anche se espressamente dedicati ai minorenni. Non potrebbe esserci altra interpretazione, d’altronde, considerato che sempre la nostra Costituzione, nel sottolineare la finalità rieducativa della pena8, induce ad includere l’aspetto ri-educativo nella funzione generale di recupero sociale (Turri, 2004) della persona condannata al carcere. Il diritto alla (ri)-educazione, infatti, è posto al centro degli interventi complessivi del cosiddetto trattamento penitenziario, e nello specifico alla base del trattamento rieducativo personalizzato, previsti in Italia dalla legge sull’Ordinamento Penitenziario9. Essa raccoglie le norme dirette a tutelare i diritti dei dete- 101 Marco Brancucci nuti, i principi di gestione degli istituti penitenziari, le regole attinenti alle prestazioni assistenziali e professionali che lo Stato ha il dovere di assicurare nei confronti di coloro che sono privati della libertà, sia adulti che minorenni. In Italia, la tutela della minore e giovane età, di chiara centratura pedagogica, è elevato a obbligo generale per tutto il sistema di procedura penale minorile e delle istituzioni che si occupano di giustizia minorile o che, come la scuola, collaborano con essa. Chi esercita il potere giudiziario, ad esempio, prima di poter applicare una misura cautelare ai minorenni autori di reato (la più afflittiva delle quali è proprio la custodia in un istituto penale), deve tener conto dell’esigenza dei minori di non interrompere i processi educativi già in atto prima dell’evento di natura penale.10 Dunque, si deve poter contare sulla garanzia di prosecuzione dei processi educativi, inclusi quelli d’istruzione, anche all’interno del carcere minorile e, soprattutto, sulla possibilità di differenziare gli interventi educativi dello Stato nei confronti del minore detenuto, considerata la sua intrinseca diversità fisiologica ed evolutiva rispetto alla condizione dell’adulto. L’attenzione fondamentale, dunque, sia per fare educazione che per fare scuola in carcere minorile, è la stessa: considerare (e mai dimenticare) il minore al centro di ogni azione professionale e del mandato istituzionale dei professionisti della Giustizia e della Scuola. Il minore, in quanto tale, è soggetto dotato di una personalità ancora in evoluzione e non pienamente capace di autodeterminarsi, ed esige di veder tutelata la propria crescita non solo da un punto di vista psicofisico, ma anche culturale e formativo. Per quanto, la situazione contingente di privazione della libertà appaia piuttosto antitetica alla natura pedagogica ed emancipatoria propria dell’intervento congiunto sul piano rieducativo e scolastico. 3. Quale scuola in carcere minorile nelle intenzioni del legislatore italiano? È sempre l’Ordinamento Penitenziario (O.P.) a riconoscere l’istruzione scolastica tra i cosiddetti “elementi del trattamento” che compongono il processo rieducativo-riabilitativo-formativo delle persone detenute negli istituti penitenziari (Cfr. Brancucci, 2010) (tab. 1) Tabella 1 – Istruzione penitenziaria Art.19 O.P. Formazione culturale curata mediante l’organizzazione dei corsi della scuola dell’obbligo e di addestramento professionale, secondo gli orientamenti vigenti e con l’ausilio di metodi adeguati alla condizione dei detenuti. Organizzazione e gestione dei corsi di scuola dell’obbligo sono di competenza del Ministero dell’Istruzione, al quale spetta anche organizzare i corsi di istruzione secondaria superiore, su richiesta dell’Amministrazione penitenziaria. In merito agli studi universitari, i detenuti-studenti sono agevolati nel loro compimento e i docenti esterni sono autorizzati dal Ministero della Giustizia a fare ingresso negli istituti, per esaminare gli allievi.11 Come vengono realizzati questi obiettivi nel fare scuola nei penitenziari minorili? 10 Decreto del Presidente della Repubblica 22 settembre 1988, n. 448, Approvazione delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni, art. 19 comma 2. 11 Cfr. Legge 26 luglio 1975, n. 354, cit., artt. 15 e 19. 102 • A livello centrale, tra i Ministeri di competenza da cui dipendono le istituzioni penitenziarie ospitanti e fruenti delle attività d’istruzione e formazione (Ministero della Giustizia, per le carceri) e le istituzioni ospitate ed eroganti le attività stesse (Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca – MIUR, per le scuole). Il modello di riferimento è il recente protocollo d’intesa12, siglato tra Ministero della Giustizia e MIUR, che disciplina la materia di istruzione e formazione sia negli istituti penitenziari ordinari che nei Servizi Minorili della Giustizia. Un accordo interistituzionale di carattere pubblico con cui, nei limiti del possibile, si cerca di conciliare la funzione pedagogica della scuola con quella rieducativa della pena detentiva, ferme restando le differenze innegabili in termini di contesto tra la scuola e il carcere. Da un lato, il MIUR si impegna a garantire a tutti, minori e adulti, il diritto all’istruzione, alla formazione ed ai percorsi di apprendistato e di formazione per il lavoro, con l’obiettivo di favorire e sostenere il successo formativo di ciascuno e di contrastare ogni forma di disagio e di discriminazione. Dall’altro lato, il Ministero della Giustizia si impegna a valorizzare l’istruzione quale strumento idoneo a favorire la revisione critica del reato, l’attivazione di processi di reinserimento del condannato nella vita sociale ed il recupero del rispetto dei valori fondamentali di convivenza civile e democratica. Nel settore penale minorile, poi, si aggiungono obiettivi specifici tipo l’assolvimento del diritto/dovere13 allo studio, la realizzazione di un percorso di crescita responsabilizzante, il riconoscimento e lo sviluppo di competenze nella prospettiva di reingresso nei sistemi educativi e formativi e di accesso al lavoro, nonché l’attuazione di percorsi di istruzione-formazione funzionali a contrastare il fenomeno della dispersione scolastica. • A livello dipartimentale, invece, si colloca il protocollo d’intesa14 tra il Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità (DGMC) e la RIDAP – Rete Italiana Istruzione degli Adulti nell’Apprendimento Permanente – considerato che il sistema formale italiano di Istruzione degli Adulti include anche i percorsi di istruzione carceraria. Questo protocollo è dettato dall’opportunità di avviare rapporti di collaborazione e forme di raccordo sinergico tecnico-operativo finalizzati alla realizzazione di attività d’istruzione e formazione, anche a carattere sperimentale, in favore dei minori e giovani adulti15 in carico ai Servizi della Giustizia Minorile. 12 L’ultimo aggiornamento del protocollo d’intesa, sul “Programma speciale per l’istruzione e la formazione negli istituti penitenziari e nei Servizi Minorili della Giustizia”, è stato sottoscritto in data 23 maggio 2016. 13 È obbligatoria e gratuita l’istruzione impartita per almeno 10 anni e riguarda la fascia di età compresa tra i 6 e i 16 anni. L’adempimento dell’obbligo di istruzione è finalizzato al conseguimento di un titolo di studio di scuola secondaria superiore o di qualifica professionale di durata almeno triennale entro il 18° anno di età. ‹http://www.istruzione.it/urp/obbligo_scolastico.shtml›. 14 Protocollo d’Intesa stipulato a Roma, il 9 maggio 2014. 15 Si tratta di ragazzi che hanno compiuto il reato da minorenni e che, secondo quanto previsto dalle disposizioni di attuazione del processo penale minorile, sarebbero rimasti in carico ai Servizi minorili fino all’età di 21 anni (art.24 D.Lgs.28 luglio 1989 n. 272). Il Decreto Legge 26 giugno 2014 n. 92, convertito con modificazioni in Legge 11 agosto 2014, n.117, ha recentemente modificato tale normativa estendendo la competenza dei Le frontiere della scuola negli IPM italiani È necessaria ma non sufficiente, per prima cosa, una concertazione di intenti e finalità a più livelli operativi. 103 Marco Brancucci A tal fine, la RIDAP si impegna a promuovere presso le istituzioni scolastiche aderenti alla sua Rete la realizzazione di percorsi di reinserimento sociale nei confronti dei minori in condizioni di disagio, potendo contare sulla disponibilità ad utilizzare gli spazi dei Servizi minorili, in base alla finalità dei percorsi individuati. • A livello regionale/locale, sono redatti protocolli d’intesa per la presa in carico congiunta dei minori sottoposti a procedimento penale, stipulati tra i corrispettivi organi amministrativi direzionali periferici dei due Ministeri interessati: rispettivamente, i Centri per la Giustizia Minorile e gli Uffici Scolastici Regionali (USR). Tali protocolli, periodicamente rinnovati, tengono in debita considerazione l’incidenza sul territorio regionale dei fenomeni di povertà, emarginazione e illegalità che, spesso, alimentano un diffuso senso di disagio minorile. Disagio espresso sotto molteplici forme e dimensioni sia nelle scuole del territorio che nella società: bullismo, cyber-bullismo, bullismo omofobico, atti vandalici, consumo di sostanze stupefacenti, bande giovanili, disturbi alimentari, sexting, violenza di genere. Fenomeni, pertanto, da monitorare e contrastare già a scuola, anche per mezzo di un’appropriata offerta culturale e formativa, per evitare che contribuiscano a favorire o incrementare l’insuccesso e la dispersione scolastica, di per sé sintomatiche di un certo disadattamento. Ossia, sintomi della «difficoltà espressa dall’alunno di realizzare una positiva interazione con la realtà scuola per l’intervento di condizioni sfavorevoli. Ciò, non soltanto per un processo di insufficiente adattamento dell’alunno alla scuola, quanto per il risultato della mancanza o del progressivo venire meno della disponibilità di quest’ultima a promuovere la maturazione personale di ciascun alunno» (Calaprice, 2016, p. 81). Il rischio è quello di una mancata integrazione sociale, spesso anticamera della disaffezione giovanile verso le regole del vivere civile e sociale, effetto potenzialmente generatore di scelte esistenziali e stili di vita improntati alla devianza o delinquenza conclamata. Tutte le forme d’intesa illustrate, comunque, sono accomunate dall’intenzione di attivare forme sperimentali di percorsi d’istruzione certificabili, modulari e flessibili sia per durata che per contenuti. Mantenendo quanto più possibile intatta la possibilità di prosecuzione dei percorsi ideati anche dopo l’uscita dei minori dal circuito di detenzione, ossia in maniera tale da poter essere frequentati sia all’interno che all’esterno delle strutture penitenziarie. Ad ogni modo, tali percorsi sarebbero finalizzati anzitutto a favorire l’acquisizione ed il recupero di abilità e competenze individuali di ciascun minore detenuto, propedeutiche allo sviluppo dell’autonomia personale e sempre in vista di un positivo reinserimento sociale e lavorativo. La strada da percorrere, in parallelo, è indicata nella messa a punto di percorsi di alternanza scuola-lavoro, apprendistato, stage, tirocini professionalizzanti, costruiti a misura dei giovani seguiti dai Servizi minorili della Giustizia italiana. È quella di una politica dell’istruzione integrata con la formazione professionale, in collaborazione con le Regioni italiane e il mondo dell’imprenditoria nazionale. Le politiche scolastiche integrate, elaborate di concerto tra Ministero della Giustizia e MIUR, però, non possono limitarsi a pensare la scuola solo su carta. Una scuola che, difatti, potrebbe apparire poco rispondente alla complessità dei reali bisogni educativi dell’utenza nelle singole ed eterogenee aree territoriali in cui si articolano e interagiscono le istituzioni carcerarie e scolastiche coinvolte. Quanto Servizi minorili fino al compimento dei 25 anni, sempre che, per quanti abbiano già compiuto il ventunesimo anno, non ricorrano particolari ragioni di sicurezza valutate dal giudice competente, tenuto conto anche delle finalità educative. 104 è in grado la scuola, dunque, in sinergia con la Giustizia Minorile, di rispondere concretamente e non astrattamente alle esigenze e aspettative dei giovani detenuti? Interrogativo di pregnante senso pedagogico, ma di difficile risoluzione, se non prima di aver effettuato un’accurata analisi dei bisogni e delle buone pratiche scolastiche, col fine di individuare modelli e procedure che meglio si adattino alla specificità dei contesti carcerari esaminati. 4. Le pratiche scolastiche nella Giustizia Minorile: indagini e percorsi a confronto (ICF 2012-13, MIUR-ISFOL 2014, Antigone 2015), tra criticità e proposte – la attivazione dei Centri Provinciali per l’Istruzione degli Adulti (CPIA), in sostituzione dei preesistenti Centri Territoriali Permanenti per l’Istruzione e la Formazione in Età Adulta (CTP), da cui dipendono anche i corsi scolastici curricolari ed extracurricolari attivati negli istituti penitenziari per adulti e per minorenni, rivolti a cittadini italiani che non hanno conseguito il titolo finale del primo o secondo ciclo di istruzione e a utenti stranieri che necessitano di una alfabetizzazione linguistica e culturale; – la riorganizzazione dei corsi di istruzione degli adulti, anche quelli carcerari, in tre tipologie di percorsi. Due tipologie (di seguito “a” e “c”) sono appannaggio dei CPIA, la terza (“b”) è attribuita alle istituzioni scolastiche di secondo grado presso le quali restano funzionanti i percorsi di istruzione tecnica, professionale e artistica: a) percorsi di istruzione di 1° livello; b) percorsi di istruzione di 2° livello; c) percorsi di alfabetizzazione e apprendimento della lingua italiana. • Percorso formativo ICF (2012-13) Vale la pena citare, anzitutto, l’esperienza del “Percorso formativo rivolto agli insegnanti che lavorano negli istituti di pena e negli istituti penali minorili e agli operatori dei servizi penitenziari e della Giustizia Minorile”, promossa e realizzata dall’Istituto Centrale di Formazione (ICF) dell’allora Dipartimento per la Giustizia Minorile. Due i moduli principali previsti (11-13 aprile 2012 e 10-12 aprile 2013), con la partecipazione di rappresentative composte da dipendenti di giustizia e docenti operanti negli IPM dell’Italia centro-meridionale17, ossia nelle aree del paese maggiormente interessate dall’interdipendenza tra abbandono/insuccesso scolastico precoce e devianza minorile. Rappresentative contraddistinte dall’eterogeneità di professionalità presenti al loro interno: Le frontiere della scuola negli IPM italiani La Giustizia Minorile italiana ha manifestato negli ultimi anni un’enfasi crescente per gli aspetti non solo quantitativi, ma anche (e ben vengano) qualitativi, dell’offerta scolastica e formativa realizzata nei propri Istituti Penali per Minorenni (IPM). Interesse espresso a cavallo di un momento storico peculiare, segnato proprio dal passaggio al nuovo ordinamento dell’Istruzione degli Adulti16 che, entrato a regime dall’anno scolastico 2014-15, ha determinato: 16 Decreto del Presidente della Repubblica 29 ottobre 2012, n. 263, Regolamento recante norme generali per la ridefinizione dell’assetto organizzativo didattico dei Centri d’istruzione per gli adulti, ivi compresi i corsi serali, a norma dell’articolo 64, comma 4, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133. 17 Rappresentanti rispettivamente di Lazio e Puglia nel primo modulo (2012) e di Abruzzo, Calabria, Campania e Sicilia nel secondo (2013). 105 – – – Marco Brancucci – – – operatori dell’area penale interna responsabili del trattamento rieducativo dei minori (es. funzionari di professionalità pedagogica/educatori penitenziari); operatori dell’area penale interna preposti al controllo e alla sicurezza dei minori (es. agenti di Polizia penitenziaria); operatori dell’area penale esterna impiegati negli interventi socio-assistenziali e socio-ambientali (funzionari di professionalità del servizio sociale/assistenti sociali); docenti di scuola elementare e di corsi di Educazione e Istruzione degli Adulti; rappresentanti del MIUR, referenti per conto degli USR; rappresentanti del DGM e dell’ICF (dirigenti, formatori, educatori). Il confronto tra gli operatori penitenziari e docenti sul fare scuola all’interno degli IPM, al quale si è preso parte come funzionario ministeriale, ha consentito di evidenziare, a grandi linee, diversi elementi di criticità rilevabili nel rapporto complesso tra scuola e carcere. Riconducibili, come vedremo più avanti, anzitutto alla necessità di formalizzazione delle procedure, di omogeneità e collegialità degli interventi e del rispetto dei ruoli professionali, al fine di garantire una maggiore continuità e coerenza, su più livelli, al processo di interazione ed integrazione tra l’istituzione penitenziaria e l’istituzione scolastica L’ampia eterogeneità dei percorsi di scuola nelle carceri minorili, che potrebbe riverberarsi su qualità, quantità ed efficacia della stessa offerta formativa, è stata rilevata e confermata anche da recenti e più articolate indagini, realizzate internamente al DGMC. • Rapporto MIUR-ISFOL 2014 Si tratta di un’indagine nazionale che ha visto la stretta collaborazione del MIUR con ISFOL, Istituto per lo Sviluppo della Formazione professionale dei Lavoratori, ente Coordinatore Nazionale per l’implementazione dell’agenda Europea per l’apprendimento degli Adulti. Ricognizione che ha consentito di giungere ad un’ampia raccolta di informazioni sullo stato dell’arte delle attività scolastiche in favore dei minori detenuti, con riferimento all’anno scolastico 2011/2012. A livello metodologico, la rilevazione dei dati ha coinvolto anche i funzionari pedagogici della Giustizia e i docenti MIUR operanti all’interno dei 17 IPM attivi sul territorio nazionale in quell’anno, mediante compilazione di dettagliate schede di rilevazione. Sono stati presi in considerazione i corsi d’istruzione attivati nell’anno scolastico esaminato, risultati ridotti numericamente rispetto all’anno precedente, a causa di: politiche penali (es. nuove norme deflative di procedura penale, incremento delle misure alternative al carcere, ecc.) che hanno determinato un decremento complessivo del numero di giovani detenuti; risorse finanziarie (es. mancata o tardiva assegnazione di fondi di finanziamento, provenienti dal MIUR, Regioni, Enti Locali, Fondo Sociale Europeo, Imprese e/o Associazioni); carenze logistiche (es. la chiusura totale o parziale per ristrutturazione di alcuni Istituti). Alcuni risultati dell’indagine (Pavoncello & Di Rico, 2014): L’offerta formativa – Rispetto al totale, alcuni tipi di corsi sono risultati attivati e operativi in tutti gli IPM: – corsi di scuola primaria e di alfabetizzazione culturale (30% dell’offerta totale); – corsi di scuola secondaria di primo grado (29% dell’offerta totale); – corsi di scuola secondaria superiore di secondo grado, invece, poco rappresentati. Scarsamente praticata la possibilità di frequentare le scuole superiori all’esterno dal carcere, dunque poco favorite le pratiche di inclusione e di con- 106 fronto, mediante il contatto diretto dei ragazzi detenuti con la comunità sociale e con i giovani provenienti da altri contesti. • Terzo Rapporto di Antigone sugli Istituti Penali per Minorenni 2015 Indagine condotta nel biennio 2014-2015 dall’Osservatorio sulle carceri minorili creato dall’associazione Antigone, in collaborazione con ISFOL. Sul totale dei 16 IPM visitati dagli osservatori, sono risultati attivi (Cfr. Caravita, 2015) per l’anno scolastico 2014-15 (tab. 2) Tabella 2 – offerta scolastica IPM a.s. 2014-15 Tipologia di corso Corsi di Alfabetizzazione linguistica Corsi per l’integrazione linguistica e sociale (CILS) Corsi di Scuola Primaria/potenziamento culturale/ corsi propedeutici alla Scuola Secondaria Inferiore (SSI) Corsi di Scuola Secondaria Inferiore/ Corsi di preparazione al diploma di SSI Corsi di Scuola Secondaria Superiore/ Studio assistito, preparazione al diploma di Scuola Secondaria Superiore Numero tot. Corsi 10 11 Num. tot. frequentanti 84 98 115 circa* 13 *manca il dato di Airola (BN) 7 60 Frequenza Scuole Secondarie all’esterno Iscritti all’Università 3 IPM di riferimento Acireale Airola (BN) Bari Caltanissetta Catanzaro Milano Nisida (NA) Pontremoli (MS) Torino Treviso Acireale Airola (BN) Bologna Catania Catanzaro Nisida (NA) Palermo Potenza Roma Torino Treviso Airola (BN) Bari Bologna Caltanissetta Catanzaro Milano Nisida (NA) Palermo Pontremoli (MS) Quartucciu (CA) Roma Torino Treviso Bologna Milano Nisida (NA) Palermo Potenza Torino Treviso Airola (BN) Catanzaro Treviso Catania Potenza Torino Le frontiere della scuola negli IPM italiani Il target e i flussi degli utenti-studenti Sul totale annuo di 1252 ingressi in IPM nel 2012, i ragazzi iscritti ai corsi sono stati appena 813, tenuto presente che diversi ragazzi entrano ed escono dagli istituti più volte l’anno e che per i maggiorenni solitamente non vige un obbligo scolastico. Per quanto riguarda la provenienza geografica, il 46% degli studenti è stato rappresentato da italiani e il 54% da stranieri. Nel 2012 si sono verificati trasferimenti per circa il 20% degli studenti e dimissioni per circa il 12% degli stessi (con picchi del 76% di trasferimenti e dimissioni pari al 45% del totale degli studenti al Sud Italia), sottolineando la frammentarietà dei percorsi educativi e formativi negli IPM e la conseguente difficoltà di portarli a termine.Su un totale di 741 ragazzi frequentanti i 63 corsi di ogni ordine e grado, i titoli di studio conseguiti sono stati appena il 14%, mentre i certificati o attestati relativi ai corsi brevi modulari di alfabetizzazione funzionale rappresentano il 9,7%, quelli relativi ai corsi di italiano per stranieri il 4,8%. 107 Marco Brancucci 4.1. Fare sintesi, fare sistema: i dati raccontano La combinazione e l’integrazione dei dati emersi dal corso di formazione ICF (2012-13) e dalle indagini MIUR-ISFOL (2014) e Antigone-ISFOL (2015), consentono di approfondire la riflessione su alcuni indicatori paradigmatici della carenza/esigenza di continuità del fare scuola in IPM. Isfol rileva anzitutto una distribuzione non omogenea degli insegnanti, sia in termini di unità assegnate ad ogni Istituto, sia di ore di formazione erogate per singola unità, talvolta molto esigue rispetto ai fabbisogni (Cfr. Pavoncello & Di Rico, 2014). Frequente, inoltre, l’avvicendamento tra insegnanti destinati agli IPM che avviene da un anno scolastico a quello successivo, dovuto essenzialmente ai criteri ed alle procedure di selezione e formazione delle graduatorie dei docenti. I docenti dei corsi di alfabetizzazione linguistica spesso risultano essere dei volontari, diversamente da quelli di Scuola Primaria e Secondaria che provengono da Istituti scolastici, essendo docenti degli ex CTP o dei CPIA di recente attivazione. In casi sporadici, i docenti provengono da scuole private (Caravita, 2015). In passato, la Legge 72/1963 aveva introdotto un “Ruolo speciale per l’insegnamento nelle scuole elementari carcerarie”, assegnando a l’allora Ministero della Pubblica Istruzione il compito di stabilire, con decreto e d’intesa con l’allora Ministero di Grazia e Giustizia, i titoli specifici necessari per l’accesso al Ruolo speciale e il compito di bandire ed autorizzare i corsi di specializzazione per il rilascio dei predetti titoli18. Per l’accesso a tale ruolo si richiedeva, «oltre al possesso del diploma magistrale, anche la partecipazione ad un corso di specializzazione realizzato d’intesa tra i due Ministeri competenti. Successivamente altre disposizioni legislative hanno previsto la realizzazione di corsi di specializzazione e di aggiornamento professionale del personale docente presso gli Istituti Penitenziari Minorili, ma resta il fatto che tali corsi non sono stati più realizzati da troppo tempo» (Pavoncello & Di Rico, 2014, p. 9). Come poter insegnare negli IPM, oggi? A livello di scuola primaria e secondaria, i docenti presentano un’apposita domanda per essere inseriti nelle graduatorie permanenti e/o nelle graduatorie d’istituto degli Uffici scolastici regionali del MIUR. Spetta agli USR, dunque, selezionare gli insegnanti sulla base della domanda presentata, dei titoli di accesso, degli eventuali corsi di abilitazione o idoneità all’insegnamento e delle esperienze professionali maturate nei settori ritenuti attinenti alla devianza minorile.19 Con quale risultato? Non tutti i docenti, in ogni caso, sono provvisti di apposita specializzazione minorile e, laddove tale requisito sia posseduto, non pare sufficientemente valorizzato e incentivato. Nel corso degli anni, è sorto «un duplice problema: da una parte ci sono insegnanti di ruolo normale che da tanti anni svolgono compiti e funzioni di ruolo speciale senza avere alcun riconoscimento ufficiale, dall’altra ci sono insegnanti precari che si trovano a lavorare in contesti molto difficili, non solo senza preparazione specifica, ma anche con poca esperienza didattica e con frequenti avvicendamenti che vanno ad incrementare il disorientamento degli studenti ristretti» (Pavoncello & Di Rico, 2014, p. 9). Tale discontinuità si riflette, di conseguenza, anno dopo anno: sulla continuità e l’omogeneità dell’offerta formativa e didattica; sulla necessità di accogliere e formare i nuovi docenti che si inseriscono nel sistema carcere e si confrontano e/o scontrano per la prima volta con le sue regole. 18 Disposizioni successivamente confermate dal Decreto legislativo 16 aprile 1994, n. 297, Testo Unico delle disposizioni legislative in materia di istruzione, art 135, comma 2 e 7. 19 Scheda pratica. Insegnare negli istituti penali per minorenni. Ministero della Giustizia. ‹https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_3_4_10.page?tab=d›. 108 Le frontiere della scuola negli IPM italiani Sempre in tema di carenza di specializzazione docente, gli osservatori di Antigone non hanno rilevato in nessun IPM la presenza di insegnanti di sostegno, né il ricorso a programmi di didattica speciale, nonostante non vada trascurata la componente di ragazzi con disagio comportamentale, difficoltà fisiche e psichiche già presente nella popolazione carceraria (Caravita, 2015). È possibile, dunque, paventare un rischio di scollamento tra i contenuti curriculari e le modalità operative di insegnamento del “fare scuola” in ambito penitenziario e il “fare scuola” in ambiente esterno. I percorsi formativi e i processi rieducativi a cui sono destinati i minori nel circuito penitenziario sono contraddistinti, ad esempio, da una durata variabile, legata indissolubilmente ai tempi di permanenza dei minori in istituto (es. durata della custodia cautelare o dell’esecuzione della pena), determinati dalla loro posizione giuridica, ovvero dalle decisioni prese in itinere dall’Autorità Giudiziaria competente (es. remissione in libertà, concessione di misure cautelari meno afflittive, del beneficio della messa alla prova, o di misure alternative alla detenzione). Frequenti, dunque, i casi di “frammentazione” del percorso scolastico che si snoda in un’alternanza tra vari IPM, o tra istituti penali e comunità educative esterne, tra “scuola in carcere” e “scuola fuori dal carcere”. Ai minori è pertanto richiesto di adattarsi, non senza difficoltà, all’estrema variabilità che intercorre tra realtà così differenti e apparentemente distanti tra loro a livello operativo e di fruizione dei contenuti. Data la non esatta corrispondenza tra la durata dell’intero anno scolastico e la permanenza media in carcere della stragrande maggioranza dei giovani detenuti in età di obbligo formativo, appare rilevante l’esigenza di uniformare quanto più possibile i curricula scolastici, e renderli propedeutici e funzionali a favorire la prosecuzione del percorso scolastico all’esterno (Pavoncello & Di Rico, 2014). Ciò al fine di garantire ad ogni detenuto/discente quel livello, se pur minimo in taluni casi, di conoscenze e competenze certificate richieste e spendibili nel prosieguo del percorso di istruzione individualizzato. I crediti acquisiti, pertanto, dovrebbero essere certificati all’atto di dimissione dall’Istituto, e resi immediatamente spendibili per la frequenza nelle scuole del territorio. Ciò, soprattutto, nel caso di minori che devono interrompere la frequenza per trasferimento ad altra sede o per dimissione o che non hanno frequentato il corso per un numero sufficiente di ore o giorni utili ai fini della valutazione finale, ma hanno maturato un credito formativo corrispondente all’effettiva attività scolastica usufruita. Ma nella realtà? La scuola in carcere, in generale, permette di conseguire attestati di alfabetizzazione linguistica e di alfabetizzazione scolastica, certificazioni di idoneità all’anno successivo, certificati di compimento di Istruzione Primaria e Secondaria Inferiore, crediti formativi dei percorsi di Scuola Secondaria. I dati scolastici del DGMC,20 però, già a partire dall’anno solare 2012, sembrano ridimensionare l’efficacia delle opportunità previste per legge: su 1066 ragazzi iscritti ai corsi, 201 ottengono crediti formativi, 88 l’ammissione agli anni scolastici successivi e, infine, solo 71 conseguono effettivamente il titolo (Caravita, 2015). Occorrerebbe interrogarsi sulle cause del fenomeno e sui diversi fattori in gioco, oltre alla capacità didattica dei docenti, e ripensare complessivamente il sistema di istruzione nei luoghi di detenzione minorile Un altro significativo elemento di criticità nella gestione della scuola in carcere minorile è rappresentato dalla variabilità dell’utenza, sia in termini qualitativi 20 Attività scolastiche, di formazione professionale, culturali e ricreative realizzate negli Istituti Penali per i Minorenni (marzo 2014). Ministero della Giustizia. ‹https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_12_1.page?contentId=SPS1068329&previsiousPage=mg_2_5_6›. 109 Marco Brancucci 110 che quantitativi. Emerge, dunque, l’esigenza e l’urgenza di pensare e porre in essere una programmazione individualizzata per rispondere meglio ai bisogni formativi di ogni detenuto, magari mediante il ricorso ad «una metodologia basata su attività organizzate in laboratori mirati a far acquisire prevalentemente competenze professionali e/o a far cimentare il soggetto in situazioni delimitate, così da sperimentare il successo o i limiti nei compiti assolti. In quest’ultimo caso l’utente viene messo in condizione di affrontare situazioni sempre più complesse, che lo porteranno nel tempo al recupero dell’autostima e alla elaborazione di sistemi di significato da dare alle proprie azioni» (Pavoncello & Di Rico, 2014, pp. 16-17). All’interno dei gruppi classe, nell’arco di un intero anno scolastico, si registra una continua fluttuazione numerica dei partecipanti ai singoli corsi attivati che genera una ricomposizione periodica dei gruppi e delle dinamiche interpersonali che vi si innescano. Tale fluttuazione è generata da: dimissione dei minori dagli istituti penali per motivazioni ed esigenze giudiziarie; trasferimento definitivo e/o aggregazione temporanea dei minori da un istituto penale ad un altro, dettati da esigenze di sicurezza o rilievo disciplinare, sovraffollamento carcerario, legami familiari. I docenti, inoltre, sono chiamati a gestire e coordinare dei gruppi classe estremamente eterogenei al cui interno i ragazzi inseriti presentano livelli differenti di conoscenza e di competenze culturali, riconducibili a due principali ordini di fattori: esperienze e percorsi di pregressa scolarizzazione, intrapresi dai minori all’esterno dal carcere e non portati a compimento a causa della disaffezione per lo studio, di condizioni esistenziali e sociali che inducono il drop out scolastico, ovvero interrotti dall’ingresso proprio nel circuito penale minorile; età e nazionalità dei componenti il gruppo classe, in cui è frequente ritrovare insieme ragazzi appena adolescenti e giovani adulti, con livelli cognitivi e di maturazione, nonché esigenze personali differenti. Tali disparità sono ancora più evidenti all’interno dei gruppi classe dei corsi di alfabetizzazione alla lingua italiana e di scuola elementare laddove confluiscono, nella stragrande maggioranza dei casi, i minori stranieri di varie nazionalità. Si tratta per lo più di ragazzi emigrati dai propri paesi di origine (es. minori stranieri non accompagnati) ovvero di ragazzi e ragazze nomadi (ad esempio Rom, Sinti, camminanti), anche di nazionalità italiana, provenienti da gruppi etnici stanziali nel nostro paese, i quali non hanno avuto la possibilità e/o non sono stati indirizzati a frequentare la scuola, oppure hanno intrapreso percorsi d’istruzione nei paesi di origine non esattamente e specularmente sovrapponibili, per durata e competenze acquisite, ai cicli di istruzione previsti dalla legge italiana. Senza contare, inoltre, la difficoltà riscontrata dagli operatori dell’area penale esterna di garantire la prosecuzione degli studi proprio ai minori stranieri in vista del loro reinserimento sociale, in quanto questi ultimi risultano spesso sprovvisti dei documenti di identificazione necessari e richiesti dalla burocrazia scolastica. L’eterogeneità e la variabilità interna ai gruppi richiede un’azione costante di monitoraggio, supervisione e coesione da parte agli educatori del trattamento rieducativo che degli agenti del corpo di Polizia Penitenziaria, addetti invece a garantire l’ordine e la sicurezza in istituto ed il rispetto delle regole di condotta carceraria. Gli educatori, in particolare, sono impegnati quotidianamente a stimolare e a sollecitare la partecipazione dei detenuti alle attività scolastiche e a rinforzarne la motivazione che, dunque, dovrebbe andare al di là della semplice strumentalizzazione di tali attività da parte dei detenuti in vista dell’ottenimento dei benefici previsti dalla legge. Appare pacifica e di primaria importanza, dunque, l’esigenza (da tramutare in obiettivo) per gli agenti di Polizia Penitenziaria, gli educatori del trattamento e gli insegnanti di riuscire a lavorare sinergicamente per dar luogo ad un’azione coesa e coerente che, nel pieno rispetto dei ruoli e delle competenze professionali presenti sul campo, tenda a superare ed evitare la conflittualità tra aree differenti (sicurezza, trattamento, scuola) e la competi- Le frontiere della scuola negli IPM italiani zione tra gli operatori afferenti ad esse. Può capitare, ad esempio, che gli insegnanti tendano a difendere l’impegno dei detenuti-studenti, a tollerarne gli atteggiamenti anche se inappropriati (assenze dalle attività e scarso impegno scolastico), giustificandoli per la già difficile condizione esistenziale di essere detenuti, poiché convinti di una presunta illogicità del carcere che limita la vita di una persona. Motivi per i quali le altre componenti professionali potrebbero percepire i docenti come soggetti estranei alla logica penitenziaria, senza però che ciò metta in dubbio la funzione e l’utilità della risorsa scolastica (Buffa, 2000). Competizione che, spesso, si innesca laddove ai singoli attori sociali appaiono poco chiari i “confini” che delimitano le singole professionalità sulla base del mandato istituzionale attribuito loro, e che, invece, dovrebbe lasciare spazio ad una sorta di alleanza formativa interprofessionale, ovvero alla possibilità di essere propositivi e proponenti nella co-progettazione e nella possibile discussione collegiale di argomenti e ipotesi di lavoro circa le attività d’istruzione. Terreno d’incontro comune, e ufficiale, a tale proposito, deve essere la Commissione didattica21 d’istituto: presieduta dal direttore e composta dal responsabile dell’area tecnica dell’istituto e dagli insegnanti, ha compiti consultivi e propositivi circa la formulazione del progetto annuale o pluriennale di istruzione. Quali le esigenze e le aspettative dei ragazzi, invece? La ricerca Isfol ha rilevato che i giovani detenuti presentano «un elevato interesse in merito al conseguimento della scuola secondaria di 1° grado e all’alfabetizzazione della scuola primaria, seguito dalla formazione professionale e dalla scuola secondaria di 2° grado. Questi dati confermano l’esigenza di predisporre dei percorsi che siano in grado di elevare il processo di alfabetizzazione. Risulta, che una significativa percentuale della popolazione minorile e adulta in stato di detenzione, ha bassi livelli di istruzione e notevole carenza di competenze linguistiche e matematiche. Tale fenomeno è determinato dal livello di esclusione e di marginalizzazione antecedente all’ingresso negli Istituti penitenziari derivato in gran parte da situazioni famigliari svantaggiate o da problemi di salute, ma soprattutto dalla mancanza di opportunità lavorative» (Pavoncello & Di Rico, 2014, p. 10). In alcuni Istituti, finora, le sperimentazioni sembrano limitarsi alla realizzazione di corsi separati per detenuti minorenni e maggiorenni; oppure di corsi organizzati in moduli di alfabetizzazione funzionale (es. il 19% dell’offerta formativa nel 2011-12), per consentirne più agevolmente la frequenza in caso di detenzioni brevi, e la certificazione delle competenze apprese dai ragazzi nei singoli segmenti della formazione. In linea generale, l’osservatorio di Antigone conferma che «le direzioni degli istituti dichiarano di riconoscere un ruolo primario alla scuola, con particolare attenzione a differenziare il percorso educativo sulla base delle reali esigenze dei minori. Si avviano corsi di potenziamento scolastico per chi ha già un titolo e in particolare per gli stranieri o corsi di preparazione a titoli non conseguiti. Sembra siano crescenti le esigenze di conseguimento della licenza media» (Caravita, 2015, p. 26). Fa specie pensare, invece, che un’altra variabile, quella dell’innalzamento d’età dei ragazzi ospiti negli Istituti penali, non trovi corrispondenza nella stereotipia dell’offerta scolastico-formativa, considerato l’incremento dei giovani adulti fino a 25 anni di età in carico ai Servizi della Giustizia Minorile.22 (fig. 1) 21 Decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 2000, n. 230, Regolamento recante norme sull’ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà, art. 41, comma 6. 22 Legge 11 agosto 2014, n. 117, Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 26 giugno 2014, n. 92, recante disposizioni urgenti in materia di rimedi risarcitori in favore dei detenuti e degli internati che hanno subito un trattamento in violazione dell’articolo 3 della convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle 111 $-#--&' +,#,,&' ,,&' +,#, "%#(!&' +-#--&' "*#(%&' #(%&' "*# "-#--&' )(#**&' )-#--&' !"#$%&' !$ !$#+)&' $#+)&' !-#--&' ,-#--&' (-#--&' -#--&' ,-()' ,-("' 5673899:'5;<' 5673899:'5;<' , ,-(+'(.'/01234' -(+'(.'/012 2344' ; 38986=8'5;<' ;38986=8'5;<' Marco Brancucci Fig. 1. Giovani adulti in IPM (% sul totale degli ingressi annui e della presenza annua di ragazzi detenuti) – Elaborazione dati del Ministero della Giustizia – Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità – Servizio Statistica – Aggiornamento 30 aprile 2016. Come spiegare che le opportunità d’istruzione di livello superiore (Scuola Secondaria e Università) risultano sottodimensionate rispetto alla crescente richiesta di formazione continua di una popolazione carceraria minorile sempre più adulta? Il minore interesse istituzionale per i bisogni formativi legati all’istruzione superiore e agli studi universitari, può essere dettato, in gran parte, dalla difficoltà organizzativa di strutturare tali percorsi. Basti pensare che l’attivazione dei corsi di scuola secondaria superiore, da svolgere internamente agli IPM, contempla come pre-requisito, difficile da soddisfare, il parametro del numero minimo di detenuti componenti il gruppo-classe. Vanno tenute in debita considerazione, pertanto, le specificità territoriali, registrate a macchia di leopardo. Ad esempio, in alcuni contesti di città-metropolitane, «viene osservato che l’alta percentuale di stranieri di seconda generazione fa si che molti ragazzi abbiano già conseguito la scolarizzazione primaria e potrebbero frequentare corsi superiori, ma dati i numeri complessivi bassi risulta difficile organizzare corsi, soprattutto per quanto riguarda le materie tecniche e in questi casi sopperiscono i volontari» (Caravita, 2015, p. 28). La frequenza all’esterno dal carcere di corsi analoghi o di studi universitari, inoltre, richiede apposite autorizzazioni della Magistratura minorile, concedibili (e non sempre ottenibili) sulla base della posizione giuridica dei giovani detenuti, degli obiettivi dei progetti educativi individualizzati elaborati in loro favore, e della condotta comportamentale manifestata dai detenuti aspiranti studenti, considerata la loro motivazione, non sempre elevata o genuina, a proseguire gli studi. libertà fondamentali, nonché di modifiche al codice di procedura penale e alle disposizioni di attuazione, all’ordinamento del Corpo di polizia penitenziaria e all’ordinamento penitenziario, anche minorile. 112 Le frontiere della scuola negli IPM italiani Elemento di criticità ulteriore non trascurabile è la variabilità nell’organizzazione del “tempo scuola” e dello “spazio scuola” nei singoli IPM nazionali. In media, le ore giornaliere dedicate alle attività scolastiche variano da 3 a 5, per 5-6 giorni a settimana. Le attività scolastiche risultano svolte prevalentemente in orario antimeridiano, ovvero possibilmente in orari tali da non sovrapporle alla fruizione di attività lavorative e professionalizzanti (Caravita, 2015). In alcuni istituti, le attività scolastiche si svolgono in spazi autonomi dal principale edificio detentivo dell’istituto penitenziario. Spazi appositamente destinati (es. palazzina adibita ad uso esclusivo della scuola presso l’IPM di Roma), laddove è possibile conciliare ed armonizzare meglio le regole scolastiche e quelle penitenziarie, comunque da far rispettare. I detenuti-studenti, quindi, possono trarre giovamento psicologico dall’uscita dal reparto strettamente detentivo per “recarsi a scuola”, che si riflette poi sul grado di motivazione, abituandosi all’idea che la scuola, per quanto frequentata in carcere, è anche qualcosa di diverso e di altro dal carcere stesso. L’assetto logistico-organizzativo è un aspetto che, sovente, si ripercuote sulla difficoltà di inserimento di giovani detenuti provenienti da altri istituti. Essi si ritrovano a fronteggiare l’inserimento in un nuovo gruppo-classe, a relazionarsi con nuovi docenti, ad adattarsi ad una modulazione del tempo destinato alla scuola nell’arco della giornata, diversa da quella a cui abituati, nonché ad una differente fruizione degli spazi ad essa assegnati. Si passa, infatti, da istituti dagli ambienti logisticamente poco idonei per fare scuola (es. scarsa illuminazione o aerazione dei locali adibiti ad aule), o con scarsità di arredi ed ausili didattici (es. libri di testo obsoleti o insufficienti, assenza di biblioteca, ecc.), a istituti strutturalmente meglio attrezzati, provvisti di stanze per attività sia scolastiche che para-scolastiche (es. cineforum), biblioteche più fornite e strumentazioni in dotazione più al passo con i tempi (es. lavagna interattiva multimediale multi-touch – L.I.M. presso IPM di Bari) (Caravita, 2015). Desta preoccupazione, inoltre, il rischio di dispersione scolastica, dovuto principalmente a una molteplicità di fattori concorrenti: dimissioni e trasferimenti dei detenuti-studenti in altri contesti penitenziari o comunitari; crescente demotivazione; difficoltà di concentrazione; manifestazioni di disagio psichico e comportamentale; mancata padronanza della lingua italiana (es. gli stranieri); disparità tra i livelli di scolarizzazione; diversità di offerta trattamentale (es. ragazzi in custodia cautelare o in esecuzione pena); ecc. Criticità sono presenti nell’attivazione di accordi di rete informale o formale e di collaborazione della scuola con le istituzioni presenti sul territorio, di assoluta indispensabilità per garantire continuità al percorso riabilitativo ed inclusivo del giovane, oltre che il successo delle attività formative da concordare con le diverse realtà territoriali, quali associazioni di volontariato, imprese, enti di formazione, etc. (Pavoncello & Di Rico, 2014). In tale direzione, pertanto, è ancor più auspicabile la messa in pratica delle azioni programmatiche e delle procedure organizzative volte all’allargamento della platea di attori socio-istituzionali da coinvolgere per la buona riuscita della scuola in carcere, previste dal protocollo d’intesa del 23 maggio 2016 tra MIUR e Ministero di Giustizia, testé citato. 5. Concludendo … proponendo correttivi metodologici Rendere più efficace e virtuosa la comunicazione e l’integrazione tra scuola e carcere, e favorire una collaborazione proficua tra gli attori sociali coinvolti in questo processo comunicativo, non passa solo attraverso la trasmissione di informazioni e di saperi. Serve soprattutto elaborare proposte, per quanto non esaustive, che partano dal basso, dalla base operativa dell’istituzione carceraria, da chi il carcere lo vive attivamente e in prima persona. Per farlo, occorre che carce- 113 Marco Brancucci 114 re e scuola si dotino di intenti e intese progettuali comuni. «Fondamentali sono la condivisione e il riconoscimento tra tutti gli operatori coinvolti di obiettivi comuni e metodiche professionali, seppur diverse, orientate alla loro realizzazione. […] Oculate riflessioni devono essere condotte sul significato di risorsa che l’offerta formativa assume all’interno di un istituto di pena e sul fatto che un “carcere-scuola” per essere tale deve essere credibile, ovvero, deve poter costituire un servizio che metta realmente alla prova volontà e impegno dei detenuti-studenti» (Buffa, 2000, p. 67). Un primo passo, è ipotizzare la “stipula” di un patto formativo tra operatori scolastici e detenuti/studenti che preveda il perseguimento di obiettivi formativi a breve, medio e lungo termine e la facilitazione dei processi di apprendimento, tenuto conto dei bisogni speciali di ogni ragazzo (es. mediante “test di ingresso” e “test intermedi” per valutarne il livello iniziale e intermedio di conoscenze, competenze, aspettative, inclinazioni). Attivando, auspicabilmente, micro-progetti e/o moduli scolastici che abbiano una propria specificità a livello individuale e locale, nei limiti di una flessibilità e adattabilità degli stessi alle singole realtà carcerarie, ovvero mutuando le buone pratiche da un istituto ad un altro. In quest’ottica, serve tener conto della specificità professionale degli operatori istituzionali coinvolti, sia penitenziari che scolastici, abbandonando l’autoreferenzialità ed eventuali narcisismi professionali ostativi all’avvio ed alla tenuta nel tempo di una collaborazione proficua tra gli stessi. Partendo, ad esempio, dall’individuazione obbligatoria all’interno dell’èquipe educativa di ogni IPM di almeno un referente per l’ambito scolastico, che funga da tramite e interfaccia tra il carcere e la scuola. Che solleciti la calendarizzazione di riunioni e occasioni periodiche di incontro e confronto tra corpo docente ed operatori del trattamento e della sicurezza, onde favorire la collegialità degli interventi, al di là della formalità della Commissione didattica d’istituto. Momenti idonei, peraltro, a valorizzare maggiormente il ruolo degli insegnanti che prestano la propria opera educativa all’interno degli IPM, al fine di garantire alla professionalità di cui sono portatori la giusta rilevanza e visibilità anche all’esterno dell’istituzione carceraria. E farlo fin da subito, magari predisponendo attività e procedure di accoglienza a favore degli operatori scolastici che entrano per la prima volta in carcere, al fine di illustrare e spiegare le ragioni sottese alle norme e alle regole (codificate e non) che disciplinano e governano la vita quotidiana all’interno degli istituti penali minorili. In tal senso, sarebbe funzionale mettere a punto procedure operative, che fungano da framework generale, alle quali ciascun docente possa fare riferimento nel caso di avvicendamenti tra colleghi in anni scolastici contigui, proseguendo l’opera formativa/educativa già avviata. E, infine, dotare gli operatori sia penitenziari che scolastici di strumenti operativi condivisi: registri, diari di bordo sui contenuti e sullo status quo delle attività, report intermedi e finali, ecc., che favoriscano la circolazione di comunicazione e informazioni. Pensare di costruire, ad esempio, un modello di “scheda didattica” per ogni detenuto, adottabile a livello nazionale nei vari IPM. Col fine di raccogliere e far confluire informazioni pratiche sui livelli di apprendimento e competenze acquisite; e così facilitare l’uniformità operativa e la comunicazione tra educatori e docenti afferenti ad istituti diversi, soprattutto nel caso di trasferimento di ragazzi. Migliorare le politiche scolastiche penitenziarie si può, e si deve. È un imperativo morale per l’educazione e l’istruzione nei confronti delle giovani generazioni, se vogliamo realmente mettere in crisi pregiudizi, stereotipi e stigma collettivi sul carcere come scuola del crimine, e riabilitarlo a scuola di legalità e di opportunità per la vita. Bartholini, I. (2001). Scuola: avamposto e nuova frontiera del mutamento sociale, in Mancuso, R. (a cura di), Scuola e carcere. Educazione, organizzazione e processi comunicativi (pp. 77-100). Milano: FrancoAngeli. Brancucci, M. (2010). Il trattamento penitenziario e il trattamento ri-educativo: dai riferimenti normativi agli elementi operativi. In S. Calaprice, Si può rieducare in carcere? Una ricerca sulla pedagogia penitenziaria. Le buone pratiche ri-educative nel Trattamento Penitenziario (pp. 129-161). Bari: Giuseppe Laterza. Brancucci, M. (2016). La “formazione umana” in carcere: il ruolo chiave dell’educatore. 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