RAIMONDI Marcantonio
Figlio di Battista, Marcantonio Raimondi nacque verso il 1479. Secondo quanto accolgono le
ricerche recenti, il luogo di nascita fu S. Martino in Argine, località di pianura a nord-est di
Bologna, mentre una tradizione recepita fino agli anni Settanta del Novecento indicava S. Andrea in
Argene, nei pressi di S. Agata Bolognese (Dillon, 1975, p. 303; Giudici, 1988, p. 355). Nulla si sa
della madre e poco della famiglia paterna.
Le uniche notizie documentate provengono da un atto notarile del 1504 (ASBo, Notarile, Antonio
Cisti, filza 3, 1504 nov. 18; Giudici, 1988, pp. 355-357). A quella data, il padre era già morto e
Marcantonio era residente nella cappella bolognese di S. Caterina di Saragozza. Fonte unica, quel
rogito, ma piuttosto ricca di informazioni. Se ne deduce che nel 1504 Marcantonio era titolare di un
patronato ecclesiastico presso la cattedrale di S. Pietro, per il quale agiva in prima persona; doveva
pertanto avere almeno 25 anni, il che porta a fissare al 1479 o poco prima la sua data di nascita
(Faietti-Oberhuber, 1988, p. 55). Con quell'atto inoltre, come patrono perpetuo della cappella di S.
Bartolomeo, presso la sagrestia nuova della cattedrale, Marcantonio concedeva un beneficio
ecclesiastico a Camillo Dolfi, che succedeva in questo allo zio Floriano. I Raimondi erano dunque
legati ad una delle famiglie più eminenti della società cittadina, i Dolfi appunto, ed anzi
esercitavano su di essa un ruolo di patronato. Non solo: questo privilegio proveniva, a quanto
sembra, da un'ascendenza di assoluto prestigio. La sagrestia "nuova" della cattedrale e, al suo
interno, la cappella di S. Bartolomeo erano state costruite infatti, negli ultimi anni del Trecento, dal
vescovo Bartolomeo Raimondi, che in quello spazio aveva eletto la propria sepoltura e nella
cappella fu poi effettivamente tumulato nel giugno 1406 (Ghirardacci, 1669, pp. 459, 570). Sia pure
in attesa di ulteriori scavi documentari, sembra più che probabile che questa sia l'origine del
patronato che i Raimondi e Marcantonio esercitavano, un secolo dopo, sulla cappella di S.
Bartolomeo, nel qual caso non sarà arbitrario fare del nostro incisore il discendente di un fratello o
di un cugino del vescovo Bartolomeo Raimondi, che resse la chiesa di Bologna fra il 1394 e il 1406.
1
I Raimondi costituivano dunque, nella società bolognese del tempo, un nucleo familiare dalle solide
relazioni e d’antico prestigio. Con la sua famiglia d'origine, tuttavia, Marcantonio ebbe un legame
non molto profondo, a giudicare quantomeno dal rapido oblio del nome di famiglia che si registra
nella sua ricchissima produzione (310, secondo il Delaborde, le sole incisioni a bulino), fenomeno
da lui stesso incoraggiato col far ricorso al nome Marcantonio Francia o de' Franci e alla sigla,
spesso presente nelle incisioni: "MAF" (Bartsch, XIV, 1813, pp. XI-XII). Già Vasari nel 1568
sembra ignorare del tutto il nome di famiglia di Marcantonio, che definisce "Marco Antonio
bolognese", precisando che acquisì il cognome Franci “per essere stato molti anni col Francia, e da
lui molto amato" (Vasari, V, pp. 403-404). Anche Malvasia, un secolo più tardi, riteneva utile
ricordare che "Marcantonio era di casa Raimondi, ancorché detto comunemente dei Franci"
(Malvasia, 1678, p. 64). Quella scelta e quel cognome, che Marcantonio portò con sé nelle sue
peregrinazioni fra Venezia, Firenze e Roma, esprimevano dunque un legame umano ed artistico,
questo sì assai profondo, con il maestro Francesco Francia, di cui per comune riconoscimento fu
l'allievo più talentuoso.
L'eredità stilistica franciana, così come quella mantegnesca, è chiaramente percettibile nelle opere
della giovinezza e fino al 1510-1512, ma secondo alcuni si tratta di un'impronta indelebile, che
affiora con evidenza anche negli estremi sviluppi, già pienamente rinascimentali, della sua
produzione (Faietti-Oberhuber, 1988, pp. 81-88). Collocato assai giovane presso la bottega dei
Raibolini, Marcantonio vi apprese presto l'arte dell'argento niellato e si diede a realizzare lastre e
decorazioni secondo la moda dell'epoca, ottenendo eccellenti risultati, dice il Vasari, grazie alla
grande facilità nell'uso del bulino e ad una perizia di disegnatore nella quale superava il maestro
(Vasari, V, p. 404). Questo talento fu messo a frutto da Marcantonio negli ultimi anni di
permanenza a Bologna, con una serie di incisioni che ne fecero già verso il 1504 un artista famoso.
Dall'Orfeo ed Euridice dei primissimi anni del Cinquecento al Priamo e Tisbe del 1505, il catalogo
presenta una ventina di stampe di prevalente argomento allegorico o mitologico (Ninfa scoperta da
un satiro; Allegoria del Tempo, della Musica, della Vita Umana; Il giudizio di Paride; Venere e
2
Vulcano), ma anche alcune scene di storia sacra (Il Battesimo di Cristo; l'Adorazione dei pastori; S.
Giorgio e il drago), in cui è evidentissima la lezione stilistica e compositiva del Francia, se non la
presenza di suoi disegni preparatori: così, in particolare, nel Giovane che solleva una cornucopia si
affollano numerose figure assai variamente atteggiate, ma tutte di chiara impronta franciana. Si
segnala, fra le opere giovanili, per la sua straordinaria rilevanza, il Ritratto di Giovanni Achillini,
detto Filoteo, del 1504, nel cui disegno si può notare la presenza del modello degli angeli musicanti,
che Marcantonio deduceva dalle pale d’altare del maestro elaborandolo peraltro con grande
originalità, col proporre il personaggio di tre quarti e adombrando una identificazione dell’amico
poeta con l’Orfeo incantatore, soggetto affrontato fin dalle opere giovanili e poi ripetutamente nel
corso degli anni in numerose stampe (De Witt, 1968, p. 6, tav. XVI). Ma valori altrettanto profondi
quell’immagine sottende sul piano dei contenuti culturali ed umani, per l’intensità dei rapporti fra
l’incisore e il grande umanista bolognese di cui è testimonianza. Mentre Marcantonio ne incideva il
ritratto, l’Achillini ricambiava l’omaggio all’amico nel suo Viridario, consacrando la sua capacità di
imitare “de gli antiqui le sante orme/ col disegno e il bolin” e associandolo dunque a pieno titolo
alla schiera dei cultori della bellezza antica e dell’arte come imitazione viva della natura: “Hame
retratto in rame –prosegue l’Achillini- chen dubio di noi pendo quale è vivo” (Faietti-Oberhuber,
1988, p. 124).
Un tratto che distingueva certamente Marcantonio dal suo maestro era l’indole inquieta, il desiderio
di conoscere nuovi luoghi ed altri artisti. Nel 1506 si colloca l’esperienza fondamentale del viaggio
a Venezia. Ben accolto, dice Vasari, dai colleghi incisori veneziani ed inseritosi così in un mercato
artistico di vastissimo raggio, Marcantonio ampliò a Venezia la sua conoscenza dell’opera grafica
dei più grandi maestri dell’epoca, fra tutti Albrecht Dürer, anche se l’opinione oggi prevalente
anticipa al periodo bolognese i primi contatti con la produzione dureriana e individua la presenza di
quel modello già in opere come il Battesimo di Cristo e l’Allegoria della vita umana, degli anni
1503-1504, o La ninfa e il satiro, del maggio 1506 e quindi precedente il viaggio a Venezia. Non il
primo incontro, dunque, ma certo un approfondimento della lezione di Dürer fu ciò che
3
Marcantonio visse a Venezia: “stupefatto della maniera del lavoro e del modo di fare d’Alberto”
dice Vasari (Vasari, V, p. 405), Marcantonio investì tutti i suoi averi nell’acquisto di una serie di
silografie di quell’artista e si diede a riprodurle con dedizione e impegno assoluti, sia pure con esiti
non sempre eccelsi (Luzzatto, 1934, pp. 340-341). L’espressione testuale del Vasari è “contrafare di
quegli intagli d'Alberto” ed in effetti le riproduzioni su rame delle silografie dureriane, fra cui le
celebri Storie di Maria Vergine, diedero luogo ad una controversia legale fra Dürer e Raimondi, non
però nel 1506 a Venezia, come sostiene Malvasia, forzando in questo il racconto vasariano, ma
dopo il 1511 a Roma, contrasto risolto poi da un accordo fra i due, in base al quale Marcantonio si
impegnava a non inserire più nelle sue copie il monogramma di Dürer (Faietti-Oberhuber, 1988, p.
153).
Il periodo veneziano ebbe comunque effetti rilevanti nell’evoluzione stilistica di Marcantonio, non
solo per le profonde riflessioni suscitate dall’incontro con Dürer. Incontro personale, forse, oltre che
artistico, dato che in quello stesso 1506
anche Dürer viaggiava fra Venezia e Bologna, per
perfezionare alla scuola di Luca Pacioli le sue conoscenze nel campo della prospettiva
(Anzelewsky, 1987, p. 44; Faietti-Oberhuber, 1988, p. 56). Ma a Venezia Marcantonio conobbe
anche, forse grazie alle incisioni di Giulio Campagnola, l'opera di Giorgione, come denunciano le
stampe degli anni 1507-1508. È il caso della Donna che annaffia una pianta (forse Allegoria della
Grammatica), ispirata a un probabile, ancorché sconosciuto, modello giorgionesco, dell’Incredulità
di san Tommaso e soprattutto del Sogno, incisione nota anche come Il sogno di Raffaello o
L'incendio sul lago. Immagine misteriosa ed onirica appunto, popolata di creature fantastiche dalle
nordiche ascendenze, ma chiaramente allusiva ad una Venere coricata del Campagnola, a sua volta
ispirata ad un perduto quadro di Giorgione (Petrucci, 1964, p. 20; Faietti-Oberhuber, 1988, p. 156).
A una più meditata assimilazione della lezione grafica di Dürer vengono invece ricondotti alcuni
disegni degli stessi anni 1507-1508: Adamo del 1504, il Giovane seduto, o Allegoria del legame
amoroso, e la Giovane donna, probabilmente Allegoria della Temperanza e della Prudenza.
4
Non sappiamo quanto durò il periodo veneziano iniziato nel 1506, ma certamente nel 1508
Marcantonio era a Firenze, tappa intermedia del percorso che lo avrebbe poi portato a Roma. Anche
quello fiorentino fu un periodo decisivo nell’evoluzione artistica dell’incisore bolognese: a Firenze
si determinò in lui una svolta espressiva di grande portata, che lo avrebbe rapidamente indirizzato
verso ideali formali compiutamente rinascimentali. Qui infatti Marcantonio vide e studiò
intensamente il cartone di Michelangelo per La battaglia di Cascina, affresco commissionato nel
1504 per la sala del Consiglio in Palazzo Vecchio ma poi mai realizzato, e quelle riflessioni sulla
potenza scultorea e sul movimento delle figure michelangiolesche trovarono piena espressione in
Venere, Marte e Amore, opera datata dicembre 1508, e soprattutto nell’Arrampicatore, inciso a
Firenze nel 1509, o forse a Roma nel 1510 sulla base di disegni tracciati a Firenze. Certamente a
Roma, dove Marcantonio rimase stabilmente dal 1510 al 1527, quel soggetto fu ripreso e sviluppato
ne Gli arrampicatori, moltiplicando i personaggi, arricchendo il paesaggio e perfezionando la
tecnica incisoria grazie allo studio, cui si era applicato nel frattempo, delle opere di Luca da Leida.
A Roma il Raimondi visse l’ultima fase, la più importante forse, della sua evoluzione artistica,
segnata potentemente dall’incontro con Raffaello, della cui opera divenne il più fecondo e prezioso
divulgatore. Grazie alle relazioni rapidamente allacciate, Marcantonio avviò qui una fiorente attività
e poté aprire una vera bottega, in cui si formarono numerosi allievi, fra cui il ravennate Marco
Dente e Agostino Veneziano, ed altri che dallo studio approfondito della sua opera trassero
ispirazione, come Enea Vico e il Bonasone (Bartsch, XV, 1813, pp. 101-178, 275-370). Ma
soprattutto negli anni romani, ed in particolare nel periodo 1510-1515, egli diede corpo ad una
poderosa produzione di stampe di soggetto o comunque di ispirazione raffaellesca, a partire dalla
celeberrima Lucrezia del 1511 e poi il Giudizio di Paride e il Parnaso e, ancora, la Strage degli
innocenti e il Martirio di santa Cecilia, per citare solo le principalissime fra decine e decine di
incisioni (Foratti, 1941-1942, pp. 186-192). Dopo il 1515, il tratto grafico ed il chiaroscuro delle
sue stampe tendono ad appesantirsi ed esasperarsi in senso drammatico, uno sviluppo manierista,
dunque, che caratterizza la sua ultima produzione e si manifesta con chiarezza nel Martirio di san
5
Lorenzo inciso fra il 1525 e il 1527 su disegno di Baccio Bandinelli, scena di impianto teatrale e
densa di anatomie poderose e dalle attitudini più varie.
Non furono tuttavia, quelli romani, anni privi di turbamenti per Marcantonio. La grande impresa
delle incisioni raffaellesche lo portò a collaborare con Giulio Romano, che dapprima gli
commissionò una impegnativa serie di immagini di grande formato, tratte dalle Storie di Venere,
Apollo e Giacinto e dalle Storie di Maddalena e dei Quattro Evangelisti, per coinvolgerlo poi in una
collaborazione dagli effetti imprevedibili. Giulio disegnò e Marcantonio incise una serie di sedici
immagini, venti secondo Vasari, dai contenuti erotici fin troppo espliciti, anche se riferiti a
notissimi episodi mitologici e storici, come gli amori di Venere e Marte, Ercole e Deianira,
Antonio e Cleopatra, cui si aggiungevano alcune scabrose variazioni su satiri e ninfe. I Modi,
pubblicati nel 1524 e di nuovo nel 1527, ebbero grande successo editoriale, provocando le ire degli
ambienti di curia e quelle di Clemente VII. Giulio Romano evitò le peggiori conseguenze, prosegue
il Vasari, essendo già partito per Mantova, dove da tempo lo attendeva Federico II Gonzaga,
mentre il malcapitato Marcantonio finì in carcere (Vasari, V, p. 418). Il racconto vasariano presenta
in realtà alcune incongruenze, ma sembra coerente sul piano cronologico: Giulio Romano partì in
effetti per Mantova nell'ottobre 1524, ignaro delle conseguenze che l'edizione dei Modi avrebbe
avuto di lì a poco. Del tutto inattendibile, invece, il racconto degli esiti della vicenda proposto da
Vasari. Dal
carcere, infatti, Marcantonio uscì nel 1525, non per
interessamento di Baccio
Bandinelli, come sostiene Vasari, ma per intervento di Pietro Aretino, che era allora nelle grazie di
papa Clemente (Aretino, 2013, pp. 6-7; Bernasconi, 1982, pp. 271-273). Incuriosito dalle incisioni,
l'Aretino ne avrebbe di lì a poco fatto la fonte principale dei primi sedici Sonetti lussuriosi,
pubblicati fra il 1526 e il 1527, mentre Marcantonio lo compensò del provvidenziale intervento con
un bellissimo ritratto (Bartsch, XIV, 1813, pp. 374-375; Petrucci, 1964, p. 28). Evidentemente a
Vasari dispiacque questo finale della vicenda. Il ruolo del poeta licenzioso, nella liberazione
dell’artista dal carcere, rendeva forse ai suoi occhi ancor più sconveniente la disavventura di
Marcantonio; meglio quindi attribuire la liberazione all'intervento di un imprecisato cardinale de’
6
Medici, Ippolito forse, che però non era a Roma in quegli anni, e di uno scultore fiorentino come il
Bandinelli, sia pure non di primo livello e non disinteressato (Vasari, V, p. 419). Prezzo di
quell'intercessione sarebbe stata infatti l'incisione del citato Martirio di san Lorenzo, in cui
Marcantonio riuscì a correggere non pochi difetti del disegno di Bandinelli; anche questo
particolare della narrazione vasariana, peraltro, viene considerato quantomeno dubbio dalla critica
recente (Giudici, 1988, p. 356).
Il carcere fu dunque esperienza reale e dolorosa per Marcantonio, come attesta fra gli altri lo stesso
Aretino in una lettera del 1537 (Bernasconi, 1982, p. 272), così come fu duramente reale il dramma
del sacco di Roma del 1527, annunciato profeticamente in una incisione assai complessa, macabra e
allucinata, nota come Lo stregozzo o La carcassa, forse una Allegoria della malaria, attribuita da
alcuni all'allievo Agostino Veneziano, ma perfettamente coerente agli ideali compositivi e stilistici
dell'ultimo Marcantonio (Petrucci, 1964, p. 29). Nel saccheggio del 1527 il Raimondi perse tutti i
suoi averi e fu costretto a far ritorno a Bologna “poco meno che mendico”, racconta Vasari, che
conclude la biografia ricordando i suoi meriti enormi nei confronti “dell’arte nostra, per avere egli
in Italia dato principio alle stampe, con molto giovamento et utile dell’arte, e commodo di tutti i
virtuosi...” (Vasari, V, p. 419). Giudizio certo ancora condivisibile, quello sul progresso delle arti
visive favorito dalle stampe di Marcantonio, che divulgarono in tutta Europa la grande pittura del
Rinascimento, ma riduttivo rispetto agli originali contributi di una personalità artistica vivace,
feconda ed innovativa, come la critica già da tempo riconosce ormai in modo unanime (De Witt,
1968, pp. 7-8).
Pressoché nulla si sa degli ultimi anni di vita e di attività di Marcantonio, che morì a Bologna non
molto dopo il suo ritorno da Roma e comunque prima del 1534. In quell’anno, infatti, Pietro
Aretino lo ricordò ancora una volta in una pagina della Cortigiana, al passato però, come un grande
maestro, il migliore di tutti, anzi, nell’arte del bulino (Vasari, V, p. 404, n. 1; Giudici, 1988, p. 357).
7
Fonti e bibliografia
Archivio di Stato di Bologna, Notarile, Antonio Cisti, filza 3, 1504 nov. 18; Viridario de Gioanne Philotheo
Achillino bolognese, in Bologna 1513; G. Vasari, Le vite dei più eccellenti pittori, scultori ed architettori,
con nuove annotazioni e commenti di G. Milanesi, 9 voll., Firenze 1878-1885; C. Ghirardacci, Historia di
Bologna, II, Bologna 1669; C.C. Malvasia, Felsina pittrice. Vite de' pittori bolognesi, Bologna 1678; A.
Bartsch, Le peintre graveur, XIV-XV, Vienne 1813; H. Delaborde, Marcantoine Raimondi, Paris 1887; G.L.
Luzzatto, Dürer e Marcantonio, in L'Archiginnasio, 29 (1934), pp. 337-342; N. Beets, Alberto Dürer, Luca
di Leida e Marcantonio Raimondi. Un triumvirato nel regno dell'incisione, in Maso Finiguerra, 1 (1936),
pp. 149-159; A. Foratti, Marcantonio e Raffaello, in Atti e memorie della Deputazione di storia patria per
l'Emilia e la Romagna, 20 (1941-1942), pp. 181-192; A. Petrucci, Panorama della incisione italiana. Il
Cinquecento, Roma 1964, pp. 19-35; A. De Witt, Marcantonio Raimondi. Incisioni, Firenze 1968; J.A.
Levenson – K. Oberhuber – J.L. Sheehan, Early Italian engravings from the National Gallery of art,
Washington 1973; G. Dillon, Raimondi Marcantonio, in Dizionario enciclopedico dei pittori e degli incisori
italiani, Torino 1975, pp. 303-305; F. Anzelewsky, Dürer, Werk und Wirkung, Stuttgart 1980; I.H.
Shoemaker - E. Broun, The engravings of Marcantonio Raimondi, Lawrence 1981; F. Bernasconi, Appunti
per l'edizione critica dei "Sonetti lussuriosi" dell'Aretino, in Italica, 59/4 (1982), pp. 271-283; K. Oberhuber,
Raffaello e l'incisione, Roma 1984; F. Anzelewsky, Dürer, in Art e Dossier, 14 (1987); G. Dillon, Il vero
Marcantonio, in Studi su Raffaello, a cura di M. Sambucco Hamond – M.L. Strocchi, Urbino 1987, pp. 551561; Bologna e l'Umanesimo, 1490-1510. Catalogo della mostra, a cura di M. Faietti e K. Oberhuber,
Bologna 1988, al cui interno C. Giudici, Marcantonio Raimondi, alle pp. 355-357; P. Aretino, Sonetti
lussuriosi, ed. critica e commento di D. Romei, in Banca Dati "Nuovo Rinascimento", 2013.
Massimo Giansante
8