Fondazione Carlo Gesualdo
Centro Internazionale di Studi, Ricerche e Documentazione
Presidente Edgardo Pesiri
Studi e Testi
1
Direzione Scientifica
Guido Baldassarri (Università di Padova) - L. Rino Caputo (Università di Roma
“Tor Vergata”) - Alberto Granese (Università di Salerno) - Paolo Fabbri (Università
di Ferrara) - Piero Gargiulo (Conservatorio “Luigi Cherubini” di Firenze) - Agostino Ziino (Università di Roma “Tor Vergata”)
Responsabile Editoriale: Paola Benigni
Responsabile di Redazione e Graico: Stefania Cori
Proprietà letteraria riservata
© Fondazione Carlo Gesualdo
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83040 Gesualdo (AV)
www.fondazionecarlogesualdo.it – info@fondazionecarlogesualdo.it
ISBN 978-88-942260-0-3 cartaceo
ISBN 978-88-942260-1-0 ebook
Finito di stampare nel mese di aprile 2017
a cura di PDE Spa presso lo stabilimento di LegoDigit s.r.l.
via Galileo Galilei 15/1 – tel. 0461/24532 –Lavis (TN)
Atti del Convegno Internazionale
Nel 750^ anniversario della nascita
di Dante Alighieri.
Letteratura e Musica
del Duecento e del Trecento
Certaldo Alto, 17-18-19 dicembre 2015
A cura di
Paola Benigni, Stefano Campagnolo, L. Rino Caputo,
Stefania Cori, Agostino Ziino
Premessa
Edgardo Pesiri
Fondazione Carlo Gesualdo
Indice
Edgardo Pesiri, Premessa
L. Rino Caputo - Agostino Ziino, Introduzione
»7
9
Angelo Eugenio Mecca, Nel 750° anniversario della nascita di Dante
(2015): taccuino di lavoro
11
Elena Abramov-van Rijk, La genesi ebraica della lauda umbra: seguendo “un’antica intuizione” di Aurelio Roncaglia
23
Sebastiano Valerio, «Amoroso canto» e «alte lode»: musica e rampimenti
nella Commedia
37
Giorgio Monari, Sulle tracce dell’«allodetta» dantesca (Par. XX 73-75)
49
Alberto Granese, Dante, Paradiso: poesia e musica nei canti dell’Empireo
71
Carla Valesini, Dante e la musica. Un percorso critico in divenire
87
Francesco Ciabattoni, Salmodia, parodia e perversione musicale
nell’Inferno
93
Antonio Lovato, «Compié ’l cantare ’volger sua misura». Il concetto di
“quantitas in plana musica” (sec. XIII-XIV)
105
Armando Antonelli, Primissime indagini documentarie intorno ai Bononienses Strate Maioris di De Vulgari Eloquentia I 9 4-5
117
Luisa Nardini, Allusioni liturgico-musicali in Dante attraverso un’analisi del manoscritto 13 dell’Harry Ranson Center
131
6
Indice
Maria Lettiero, Predilezioni poetiche e musicali nelle prime traduzioni
del Decameron
141
Thomas Persico, Fisiologia e ilologia dell’amore da Cavalcanti a Boccaccio. A proposito di un recente volume della medicina nella Letteratura
Italiana delle Origini
149
Gianluca D’Agostino, Gli Alberti e la musica tra Tre e Quattrocento
161
Rossella Palmieri, Tra canto e recitazione: ‘efetti’ e ‘afetti’ barocchi
197
Angelo Fàvaro, «Sarà necessario fare questa lettura di Dante»: Gabriele
d’Annunzio e il canto VIII dell’Inferno
207
Evelina di Dio, La ‘voce’ di Dante nel teatro contemporaneo
231
Trifone Gargano, Dante nella musica d’Autore contemporanea
241
Gianluca D’Agostino
Gli Alberti e la musica tra Tre e Quattrocento
L’inquadramento storico della famiglia Alberti nelle vicende iorentine tra
Tre e Quattrocento è stato al centro di così tante indagini che è diicile rinviare
sinteticamente alla bibliograia relativa. Immensa, ormai, è la quantità di testi
su Leon Battista, 1 la poliedrica igura dell’umanista, scrittore, artista e architetto, sul quale sono stati scritti i proverbiali iumi d’inchiostro.2 Rammentiamo,
1
Un ragguaglio sulla biograia di Leon Battista: iglio illegittimo dell’esiliato Lorenzo di
Benedetto e di Bianca Fieschi, nasce nel 1404 a Genova, cresce e si istruisce tra Venezia e Padova, alla prestigiosa scuola di Gasparino Barzizza, si trasferisce dai primi anni Venti presso suoi
parenti a Bologna, e lì si addottora in diritto canonico nel 1928. Presi gli ordini minori ed essendo
divenuto segretario di Biagio Molin, reggente della Cancelleria pontiicia, dal 1429-30 è a Roma,
incaricato come ‘abbreviator’ e ‘scriptor’, e tra 1431-32 riceve da papa Eugenio IV il conferimento
di un priorato (San Martino a Gangalandi-Lastra a Signa). Nel 1434-35 è a Firenze con la curia di
Eugenio, nel 1436-37 di nuovo a Bologna, nel 1438 a Ferrara, con una delegazione iorentina per
prender parte al Concilio per l’Unione delle Chiese; quindi di nuovo a Firenze tra 1439-43, dove
nell’ottobre 1441 organizza il famoso ‘Certame coronario’, gara poetica in volgare sul tema dell’Amicizia, sponsorizzata da Piero de’ Medici, che tuttavia si risolve in un fallimento; nel ’47 diventa
canonico di Santa Maria del Fiore a Firenze, ma a quella data è più o meno stabilmente a Roma,
per dedicarsi alla letteratura (nel 1452 presenta il suo De re aediicatoria a Niccolò V) e soprattutto
alle commissioni architettoniche giuntegli da tutta la penisola.
2
Ai classici studi di L. Passerini, Gli Alberti di Firenze. Biograia, Storia, Letteratura, 2 voll.,
Firenze 1869 e G. Mancini, Vita di Leon Battista Alberti, Firenze 19112, e alle successive edizioni e studi di C. Grayson, Leon Battista Alberti: Opere volgari, 3 voll., Laterza, Bari 1960-73,
oltre a Id., Studi su Leon Battista Alberti, Olschki, Firenze 1998, G. Gorni, Leon Battista Alberti:
Rime e versioni poetiche, Ricciardi, Milano-Napoli 1975, e Id., Leon Battista Alberti: Poeta, Artista,
Camaleonte, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2012, F. Borsi, Leon Battista Alberti: Opera
completa, Electa, Milano 1973 ed E. Garin, Leon Battista Alberti, Scuola Normale Superiore,
Pisa 2013, vanno aggiunti gli importanti proili biograici di A. Grafton, Leon Battista Alberti.
Master Builder of the Italian Renaissance, New York, 2000, (trad. it. Leon Battista Alberti. Un genio
universale, Laterza, Bari 2003) e di L. Boschetto, Leon Battista Alberti e Firenze. Biograia, Storia,
Letteratura, Olschki, Firenze 2000, e molte altre recenti puntualizzazioni conluite in vari Atti di
convegno, fra i quali: Leon Battista Alberti e il Quattrocento. Studi in onore di Cecil Grayson e Ernst
Gombrich (Mantova, 29-31 ott. 1998), a c. di L. Chiavoni et al., Olschki, Firenze 2001; Leon Bat-
162
Gianluca D’Agostino
ancorché siano abbastanza note, le svariate rilessioni dedicate da questo ‘genio
universale’ alla musica.
Partiamo dal rapporto tra la musica e le altre arti ‘meccaniche’ (accennato nel
De Pictura)3 e dalla relazione matematico-numerica tra musica e architettura, che
è un tema pitagorico e vitruviano all’origine, ma che l’Alberti rilanciò estesamente nel IX libro (cap. V, § De harmonia) del suo De re aediicatoria (ca. 1444-52):
Ora quei numeri che hanno il potere di dare ai suoni la concinnitas, la
quale riesce tanto gradevole all’orecchio, sono gli stessi che possono riempire di mirabile gioia gli occhi e l’animo nostro […] Caveremo perciò tutta
la regola del inimento da’ musici, a chi sono perfettamente noti questi tali
numeri […]. Chiamiamo armonia un accordo di note gradevoli all’udito
[…] Dal variare di tali diverse note hanno origine armonie diverse le quali
sono state classiicate dagli antichi secondo determinati numeri che rilettono il rapporto tra le corde consonanti.4
Altre annotazioni sulla «soavità meravigliosa» dei «canti e inni della chiesa»,
ascoltati direttamente dall’autore nel Duomo iorentino (deinito a sua volta come «nostro tempio massimo», dov’è «iunta insieme una gracilità vezzosa
con una sodezza robusta e piena»), sono espresse nel Dialogo Profugiorum ab
Aerumna (Libro I, 1442), per bocca del primo interlocutore dell’opera, e cioè
Niccola di Vieri de’ Medici (1385-1454), un membro minore del grande catista Alberti teorico delle arti e gli impegni civili del “De re aediicatoria”, Atti dei Convegni (Mantova,
17-19 ott. 2002; 23-25 ott. 2003), a c. di A. Calzona et al., Olschki, Firenze 2007; L’uomo del
Rinascimento. Leon Battista Alberti e le arti a Firenze tra ragione e bellezza, a c. di C. Acidini e G.
Morolli, Mandragora, Firenze 2006; Alberti e la cultura del Quattrocento (Firenze, 16-18 dic. 2004),
a c. di R. Cardini e M. Regoliosi, 2 voll., Edizioni Polistampa, Firenze 2007; La vita e il mondo
di Leon Battista Alberti (Genova, 19-21 febb. 2004), 2 voll., Olschki, Firenze 2008; Leon Battista
Alberti. Architettura e Committenti (Firenze, Rimini, Mantova, 12-16 ott. 2004), a c. di A. Calzona
et alii, Olschki, Firenze 2009; senza contare la pubblicazione periodica «Albertiana».
3
Composto a Firenze intorno al 1435, in duplice redazione, latina e volgare, quest’ultima con
celebre dedica al Brunelleschi: cfr. L. B. Alberti, De Pictura (Redazione volgare), a c. di Lucia
Bertolini, Polistampa, Firenze 2011: «pittori, scultori, architetti, musici, ieometri, retorici, auguri e
simili nobilissimi e maravigliosi intelletti oggi si truovano rarissimi e poco da lodarli».
4
Su questo tema cfr. il classico R. Wittkower, Alberti’s Approach to Antiquity in Architecture,
«Journal of the Warburg and Courtauld Institutes», 4.1/2, 1940-41, pp. 1-18; F. Borsi, Note sulle
proporzioni musicali nell’architettura del Rinascimento, in Musica e arti igurative, «Quaderni della
Rassegna musicale», 4, 1968, pp. 85-95; R. Strohm, Music heory and the Arts, in Music as Concept
and Practice in the Late Middle Ages, a c. di R. Strohm e B. Blackburn (“he New Oxford History of
Music”, III. 1), Oxford Univ. Press, Oxford 2001, pp. 341-45; L. Zanoncelli, La musica e le sue
fonti nel pensiero di Leon Battista Alberti, in Leon Battista Alberti teorico delle arti e gli impegni civili
del “De re aediicatoria”, cit.; i densi accenni di S. Borsi, Leon Battista Alberti e Roma, Polistampa,
Firenze 2003, specie pp. 137-8, e la ricapitolazione di L. Bertolini, Alberti e le “humane litterae”,
in Leon Battista Alberti e l’architettura, a c. di M. Bulgarelli et alii, Silvana Editoriale, Milano 2006,
nota 55 (ringrazio Luca Boschetto per avermi segnalato questi due ultimi importanti contributi).
Gli Alberti e la musica tra Tre e Quattrocento
163
sato, deinito tuttavia dall’Alberti «uomo ornatissimo d’ogni costume o d’ogni
virtù», secondo cui:
tutti gli altri modi e varietà de’ canti reiterati fastidiano: solo questo cantare
religioso mai meno ti diletta [...] questo afermo io di me che e’ possono in
me questi canti e inni della chiesa […] m’acquetano da ogni altra perturbazione d’animo e commuovonmi a certa non so quale io la chiami lentezza
d’animo piena di riverenza verso di Dio.
Interessante, poi, il commento, ancora nel De Pictura (II, 40), sulla ‘varietas’,
da perseguire tanto nella musica quanto a tavola:
Come ne’ cibi e nella musica sempre la novità e abondanza tanto piace
quanto sia diferente dalle cose antique e consuete, così l’animo si diletta
d’ogni copia e varietà.
Commento che fa il paio con quest’altro passo, ancora dal De re aediicatoria
(I. IX):
Invero la varietà dà un sapore gradevole a tutte le cose, se poggia sull’unità e sulla corrispondenza reciproca tra elementi distanti tra loro […].
Anche in musica, quando alle voci gravi rispondono le acute, e tra quelle e
queste risuonano le medie con perfetta armonia, dalla varietà delle voci si
crea come per incanto una condizione di felice equilibrio tra i suoni, che
accresce il piacere nell’ascoltatore e ne conquista l’animo.5
V’è poi – sempre sulla questione della ‘varietas’ in musica – il lungo passo nel
proemio al libro VIII delle Intercenales (ante-1434), dove le considerazioni sulla
musica appaiono dilatate ino a formare quasi una “querelle” sui diversi stili musicali e sui vari modi di cantare, sorprendente per la sua precocità e già degna di un
accademia cinquecentesca, più che di un umanista del primissimo Quattrocento
(il quale, peraltro, non era neanche musicista di professione).
Fra la cicala e la rana era nata una vivace e interminabile discussione su
questo argomento: quale di loro fosse superiore nell’arte della musica. La
cornacchia doveva giudicare.
«La cicala», diceva la rana, «canta sempre nello stesso tono [eodem uno
spiritu canere], non conosce il modo e la tecnica della variazione vocale
[nullos nosse aferre novos canendi modos, nullas mutare conversiones], né sa
5
«Cundimentum quidem gratiae est omni in re varietas, si compacta e conformata sit mutua
inter se distantium rerum parilitate […] Nam, veluti in lyra, cum graves voces respondeant acutis
et mediae inter utrasque ad concentum intentae resonant, it ex vocum varietate sonore et miriica
quaedam proportionum aequabilitas, quae maiorem in modum oblectet animos atque detineat».
164
Gianluca D’Agostino
dare alla voce un’inlessione particolare. E la continua ripetizione di un
tono acutissimo e dissonante inisce per infastidire».
La cicala, invece, spiegava così la diferenza fra il suo canto e la chiacchiera della rana:
«A te, quando canti, ti si gonia la gola, porti indietro la lingua e gli occhi, per la fatica, ti escono fuori dalle orbite in modo sconveniente. Io, con
la mia voce armoniosa, il mio torace solcato, i miei polmoni agili, ho tutto
quello che serve ad esprimersi bene. Il tuo canto non è del tutto comico,
né tragico, né lirico, né elegiaco, né eroico. Fai molti e vari esperimenti,
tutti senza talento, e cerchi inutilmente di farti riconoscere delle capacità
musicali. Sciocca che sei! Così non dimostri le tue doti in ogni singolo genere, ma la tua universale inettitudine. Il mio canto, invece, sarà pure esile
e leggero, ma è chiaro, elegante e perspicuo».
Così litigavano fra loro, davanti alla cornacchia, per il primato e la
gloria nell’arte musicale e la pregavano di proferire la sentenza. La cicala
infatti continuava a cantare: Dì, di. La rana cominciava con O rex e altre
ampollosità. Alla ine, visto che quelle bestiole petulanti e garrule non la
smettevano di insistere e chiedevano quando avrebbe emesso il verdetto,
la cornacchia disse forte e come maledicendo con le ali: Domani, domani,
e volò via.6
Ancora una rilessione sull’efetto scaturente dalla ‘coniunzione’ delle voci si
trova nel Libro I della Famiglia (ca. 1433-34) in cui, per la verità, l’autore postula
la superiorità dell’arte poetica rispetto a quella vocale, quasi a testimoniare che, a
quest’altezza cronologica, egli avesse ormai fatto una precisa ‘scelta di campo’, a
favore della prima piuttosto che della seconda:
Non è sì soave, né si consonante coniunzione di voci e canti che possa
aguagliarsi alla concinnità ed eleganza d’un verso d’Omero, di Virgilio o di
qualunque degli altri ottimi poeti.
È noto, peraltro, che i Libri della Famiglia costituiscono una primaria fonte di
informazioni su tutto il casato Alberti (al quale infatti l’opera è idealmente dedicata). In un passo si dice che «tutti e nostri Alberti quasi erano molto litterati»7 e
che alcuni di essi erano anche molto esperti in ilosoia, matematica, astrologia e
musica, appunto, disciplina in cui il padre Lorenzo viene deinito «a tutti […] superiore». Non si è mai trovato riscontro a questa afermazione su Lorenzo Alberti
musico (il quale a rigore sarebbe stato coevo degli ultimi arsnovisti iorentini), e
pertanto si dovrà pensare ad una sua abilità musicale dilettantesca e domestica.
6
Si cita (con qualche personale modiica) dalla nuova edizione, con traduzione italiana, di: L.
B. Alberti, Intercenales, a c. di F. Bacchelli e L. D’Ascia, con premessa di A. Tenenti, Edizioni
Pendragon, Bologna 2003, p. 531.
7
Id., Libri della famiglia, a c. di R. Romano, F. Furlan, A. Tenenti, Einaudi, Torino 1994.
Gli Alberti e la musica tra Tre e Quattrocento
165
In tal caso essa sarebbe stata simile a quella posseduta dalla stesso Leon Battista e vantata in altri passi della sua Autobiograia:8 quello, ad esempio, sull’istruzione ricevuta in fanciullezza e comprendente in pari misura «arma et equos et
musica instrumenta»; o quello sul ricorso alla musica come passatempo “quando
le lettere cominciavano ad annoiarlo”, o per “superare il dolore” («doloris molestia canendo superare»); o ancora quello sull’apprendimento musicale da autodidatta e sull’abilità nell’organo e nel canto, specialmente se eseguito tra le pareti
domestiche e in campagna, passo che conviene citare per esteso:
Apprese la musica senza alcun precettore, eppure le sue prove incontrarono il favore di musicisti esperti. Praticò il canto per tutta la vita, ma nella
dimensione privata o in solitudine, soprattutto durante i soggiorni in campagna e in presenza del fratello [Carlo] o dei parenti. Si dilettava a suonare
l’organo e in tale attività era ritenuto esperto dai musici più eccellenti. Anzi
rese alcuni musici più sapienti con i suoi consigli.9
Tale passaggio ricorda peraltro quell’altro (dal Profugiorium), sugli strumenti musicali posseduti (e forse addirittura costruiti) da Leon Battista: «Troppo
sarebbe forza qui in Battista, se potesse con suoi strumenti musici adducere gli
animi in qual parte e’ volessi».
Qualche altro accenno musicale si rinviene nel romanzo mitologico Momus
e nell’opuscolo Musca. Ma appare suicientemente chiaro, da quanto in qui richiamato, che tale intenso coinvolgimento di Battista nella musica dovette trarre
origine, sia dal contesto ‘cosmopolita’ in cui egli si formò, sia dal forte interesse
per la musica ereditato da tutta la famiglia. Sul suo ‘cosmopolitismo’ si potrebbe
aggiungere ancora altro, per esempio che quando, in gioventù, Leon Battista si
trasferì a Bologna per studiare diritto, intorno al 1421, egli fu ospite del suo parente Alberto di Giovanni Alberti, il quale a sua volta era tesoriere pontiicio di
Martino V, quindi creato cardinale dal successore, Eugenio IV. Mediante Alberto, Battista poté entrare in contatto - come per primo sostenuto dal Mancini - col
cardinale Louis Aleman, il potente Legato papale di Bologna, nonché patrono
(tramite il suo segretario personale Robert Auclou) del giovane Guillaume Du
Fay negli anni 1427-28, cioè prima dell’ingaggio del musicista a Roma.10 Poi, a
8
Redatta a Firenze tra 1441-43 (ma secondo altri già a Ferrara, 1438): cfr. R. Fubini - A. M.
Gallorini, L’Autobiograia di Leon Battista Alberti. Studio ed edizione, «Rinascimento», 12, 1972,
pp. 21-78; più di recente cfr. L. B. Alberti, Autobiograia e altre opere latine, a c. di L. Chines e
A. Severi, Bur, Milano 2012.
9
«Musicam nullis praeceptoribus tenuit et fuere ipsius opera a doctis musicis approbata; cantu
per omnem aetatem usus est, sed eo quidem intra privatos parietes aut solus, et praesertim rure
cum fratre propinquisve tantum. Organis delectabatur et inter primarios musicos in ea re peritus
habebatur. Musicos efecit nonnullos eruditiores suis monitis».
10
Cfr. su questo D. Fallows, Dufay, Dent, London 1987, pp. 28-31; A. E. Planchart,
Guillaume Du Fay’s beneices and his relationship to the court of Burgundy, «Early Music History», 8,
166
Gianluca D’Agostino
partire dal 1429-30 anche Alberti, come già Du Fay, si spostò a Roma, dove dal
1431-32 ottenne - grazie anche all’appoggio del suo parente Francesco d’Altobianco, banchiere papale (su cui cfr. più oltre) - la nomina di ‘abbreviator’ presso
la curia del nuovo papa, Eugenio IV (Gabriele Condulmer). Alberti e Du Fay
condivisero, quindi, l’esperienza curiale romana nei primissimi anni Trenta, ma
ancor più rilevante è che, dal giugno 1434 all’aprile 1436, entrambi (Du Fay nelle
vesti, ormai, di maestro della cappella papale) erano nell’entourage papale allora di
stanza a Firenze, in un periodo che per la città toscana fu incredibilmente denso
di eventi artistici e che fu coronato, il 25 marzo 1436, dalla solenne cerimonia di
consacrazione della nuova cattedrale, alla presenza del papa e di Cosimo de’ Medici, in occasione del completamento della spettacolare Cupola del Brunelleschi:
evento davvero sensazionale per il quale Du Fay compose, com’è ben noto, lo
stupendo mottetto isoritmico Nuper rosarum lores.11 Peraltro, anche dopo l’entusiasmante parentesi iorentina, le biograie dei due personaggi avrebbero potuto
nuovamente incrociarsi - e forse così avvenne - sia a Bologna nel 1436-37, che a
Ferrara, presso la corte di Niccolò d’Este, nel biennio successivo.
Sorvolando sulla questione - ampiamente dibattuta in svariati studi ormai
divenuti ‘classici’ (citati alla nota precedente) - del presunto ‘simbolismo’ numerico-pitagorico di Nuper rosarum e delle corrispondenze tra la sua complessa
strutturazione ritmica e le proporzioni architettoniche soggiacenti la cupola del
Brunelleschi, mi sofermerei brevemente sul testo letterario del mottetto, testo
che, con le sue itte ed erudite allusioni alla città del iore è probabile, se non
addirittura certo, che fosse stato fornito al musicista da un umanista vicino alla
cerchia dei committenti della composizione. Tra i nomi possibili (Bruni, Manetti, Traversari, Bracciolini, persino il Filelfo, il Panormita o altri ancora) l’Alberti
sarebbe un candidato ideale all’identiicazione con il letterato che collaborò col
maestro franco-iammingo, così come indicato già da svariati studiosi e da noi
1988, pp. 117-71; Id., he Early Career of Guillaume Du Fay, «Journal of the American Musicological Society», 46, 3, 1993, pp. 341-68; Id., Music for the Papal chapel in the Early Fifteenth
Century, in Papal Music and Musicians in Late Medieval and Renaissance Rome, ed. Richard Sherr,
Clarendon Press, Oxford 1998, pp. 93-124.
11
Vasta bibliograia su ciò: cfr. Fallows , Dufay, cit., pp. 45-6; C. Wright, Dufay’s “Nuper
rosarum lores”, King Solomon’s Temple, and the Veneration of the Virgin, «Journal of the American
Musicological Society», 47, 1994, pp. 395-441; Id., Guillaume Dufay’s ‘Other’ Composition for the
Dedication of the Duomo, in “Cantate Domino”. Musica nei secoli per il Duomo di Firenze, a c. di P.
Gargiulo - G. Giacomelli - C. Gianturco, Edii, Firenze 2001; W. Elders, Symbolic Scores: Studies
in the Music of the Renaissance, Leiden, Brill, 1994; M. Trachtenberg, Architecture and Music
Reunited: A New Reading of Dufay’s “Nuper rosarum lores” and the Cathedral of Florence, «Renaissance Quarterly», LIV, 3, 2001, pp. 740-75; M. Phelps, he Pagan Virgin? Du Fay’s Salve los,
a Second Consecration Motet for Santa Maria del Fiore, in Qui musicam in se habet. Studies in Honor
of Alejandro Enrique Planchart, eds. A. Zayaruznaya, B. J. Blackburn, S. Boorman, A-R Editions,
Middleton, Wisconsin, 2015, pp. 501-13.
Gli Alberti e la musica tra Tre e Quattrocento
167
sostenuto in altra sede.12 Più di tutto, ascoltando nel mottetto la felice alternanza
di passaggi per solo (gli agili duo delle voci superiori) e per coro (con gli interventi più ponderosi), colpisce la convergenza stilistica tra passaggi come quello
in cui i due Tenores entrano per la prima volta, sotto le parole: ‘deditum / Grandis
templum machinae’ (‘questo tempio adornato da una magniica struttura’) e quello
in cui Leon Battista nel De Pictura elogia, con magniloquenza, la grandezza della
cupola: «Structura sì grande, erta sopra e’ cieli, ampla da coprire con sua ombra
tutti e’ popoli toscani». Senza contare che l’espressione «Grandis templum machinae» del mottetto, appare davvero simile a quel «nostro tempio massimo» che
l’Alberti usa in almeno due occasioni nel Profugiorum, sopra citato.
Per tornare, invece, alla ‘radice’ familiare della passione musicale dell’Alberti,
è necessario fare un passo indietro cronologicamente, e richiamare succintamente la bibliograia sulle famiglie e sul mecenatismo culturale iorentino tra i due
secoli. Si segnalano, nell’ambito dei itti studi sulla “Early Renaissance Florence”
da parte della comunità anglo-americana,13 i contributi di Trexler e di Brenda
Preyer sulle dimore albertiane in Firenze14 e quelli della Foster Baxendale sull’esilio dei suoi vari membri:15 studi che hanno gettato nuova luce sulle vicende
12
Cfr. G. D’Agostino, Transitional forms, conservative tendencies, Florentine pride and classical
echoes in the Italian poetry set to music in the irst half of the 15th century, «Studi Musicali», Nuova Serie,
VII/2, pp. 287-369.
13
Cfr. almeno R. A. Goldthwaite, L’economia nella Firenze rinascimentale, Il Mulino, Bologna 2013; F. W. Kent, Household and Lineage in Renaissance Florence: the Family Life of the Capponi, Ginori and Rucellai, Princeton Univ. Press., Princeton 1971; N. Rubinstein, he Government
of Florence Under the Medici (1434 to 1494), Oxford-Warburg Studies, United Kindom 19982; G.
Brucker, Renaissance Florence, Univ. of California Press, Berkeley 1983; R. T. Trexler, Public
Life in Renaissance Florence, Cornell Univ. Press, Ithaca (NY), 1991; D. V. Kent, he Rise of the
Medici. Faction in Florence (1426-1434), Oxford Univ. Press, Oxford 1978, Id., Cosimo de’ Medici
and the Florentine Renaissance, Yale Univ. Press, New Haven-London 2000 (trad. it. Il Committente e le arti. Cosimo de’ Medici e il Rinascimento iorentino, Electa, Milano 2005), A. Molho, Marriage Alliance in Late Medieval and Early Modern Florence, Mass, Harvard Univ. Press, Cambridge
1994, e Id., Firenze nel Quattrocento, 2 voll., Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2006-2009, II;
P. Jacks, W. Caferro, he Spinelli of Florence. Fortunes of a Renaissance Merchant Family, Pennstate Univ. Press, s. l. 2001 (trad. it. Gli Spinelli di Firenze: mercadanti e mecenati nel Rinascimenti,
Ediir, Firenze 2013).
14
R. Trexler, A Widow’s Asylum of the Renaissance. he Orbatello in Florence in Old Age in
Pre-Industrial Society, a c. di P. N. Stearns, Holmes and Meier, New York-Londra 1982, pp. 11949 (trad. it. in Id., Famiglia e potere a Firenze nel Rinascimento, Istituto dell’Enciclopedia Italiana,
Roma 1990, pp. 255-96); B. Preyer, “Da Chasa gli Alberti”: the ‘Territory’ and Housing of the Family, in Leon Battista Alberti. Architetture e committenti, cit., pp. 3-34; Ead., Il palazzo Corsi-Horne,
Istituto poligraico e Zecca dello Stato, Roma 1993; Ead., Il palazzo di m. Benedetto degli Alberti
e Leon Battista Alberti, in Il testamento di Leon Battista Alberti, a c. di E. Bentivoglio, Gangemi,
Roma 2005, pp. 89-92, anche J. Caferro, he Spinelli of Florence, cit., pp. 91-114.
15
S. F. Baxendale, Exile in Practice: the Alberti Family In and Out of Florence, 1401-1428,
«Renaissance Quarterly», XLIV, 4, 1991, pp. 720-56; Ead., Aspetti delle società e delle compagnie
della famiglia Alberti tra tardo Trecento e primo Quattrocento, in La vita e il mondo di Leon Battista
168
Gianluca D’Agostino
della famiglia e di alcuni suoi esponenti anche collaterali, unitamente ad altre
ricerche sul mecenatismo iorentino, da parte di storici dell’arte e della miniatura, ma anche di italianisti (Bertolini, Boschetto), dopo le fondamentali pagine
a ciò dedicate nella classica monograia del Passerini. È ben noto, peraltro, che
oltre agli Alberti, svariati esponenti dell’oligarchia cittadina, sia appartenenti al
‘popolo grasso’ ilo-guelfo che alle ‘Arti minori’ ilo-popolari, si distinsero come
mecenati; basti qui nominare:16 gli Albizzi (protagonisti del governo cittadino
prima dell’avvento dei Medici, ed acerrimi nemici degli Alberti), i da Uzzano,
gli Strozzi,17 i Pazzi, i Martelli, i Cavalcanti; gli Acciaiuoli,18 i Capponi, i Ricci, i
Ridoli, i Corsini, i Brancacci, i Portinari, gli Spini, i Rucellai (soprattutto Giovanni, il cui mecenatismo architettonico quasi eguagliava, secondo Dale Kent,
quello di Cosimo Medici); i Castellani, gli Adimari, i Davanzati, i Quaratesi, i
Bardi e i Peruzzi (queste due ultime ormai decadute, poiché coinvolte nel clamoroso crack inanziario di metà Trecento); per concludere, naturalmente, con
i Medici, ossia i ‘nuovi ricchi’, leader nell’Arte del Cambio e tra i più importanti
banchieri pontiici, pronti ad afacciarsi sulla scena iorentina e ad imporsi su
Alberti, cit. Imprescindibili inoltre, per tutto il periodo, le ricerche sulle famiglie e sul Catasto
iorentino del 1427, ad opera di D. Herlihy e C. Klapisch-Zuber (Census and Property Survey of
Florentine Dominions in the Province of Tuscany, 1427-1480, e I Toscani e le loro famiglie. Uno studio
sul catasto iorentino del 1427, Il Mulino, Bologna 1988) disponibili anche online (Brown University), e quelle di A. Molho (Florentine Public Finances in the Early Renaissance, 1400-1433, Harvard
Univ. Press, Cambridge 1971; e Id., Firenze nel Quattrocento, cit.).
16
Disamine dettagliate delle genealogie di tutte queste famiglie e della loro distribuzione nei
vari Gonfaloni della città sono in D. V. Kent, he Rise of the Medici. Faction in Florence, cit. Cfr.
anche il classico A. Sapori, Compagnie e mercanti di Firenze antica, Giunti Barbera, Firenze 1978.
17
Palla Strozzi (1372-1462) fu importante mecenate artistico, ma anche protettore di letterati
e letterato egli stesso; nel Catasto del 1427 risulta essere il più ricco in assoluto della città, seguito
da Francesco Tornabuoni e da Giovanni di Bicci de’ Medici. La biblioteca del convento vallombrosiano di Santa Trinita fu fondata grazie alle donazioni dello Strozzi, che si fece anche costruire
la cappella di famiglia entro l’annessa Basilica (un tempo superbamente decorata con dipinti di
Gentile da Fabriano, come l’Adorazione dei Magi, 1420-23, ora agli Uizi, o la Deposizione di Fra
Angelico ora al Museo di San Marco). Cfr. P. Viti, Le vite degli Strozzi di Vespasiano da Bisticci,
«Atti e Memorie dell’Accademia toscana di scienze e lettere La Colombaria», 49, N. S. 35, 1984,
pp. 75-177; S. Tognetti, Gli afari di messer Palla Strozzi (e di suo padre Nofri). Imprenditoria e
mecenatismo nella Firenze del primo Rinascimento, «Annali di Storia di Firenze», 4, 2009, con ampia
bibliograia; E. Pasquini, Libri di musica a Firenze nel Tre-Quattrocento, Olschki, Firenze 2000,
pp. 103-5; anche S. J. Milner, “Le sottili cose non si possono bene aprire in volgare”. Vernacular oratory and the transmission of classical rhetorical theory in the late medieval Italian communes, «Italian
Studies», 64, 2, 2009, pp. 221-44.
18
Al Cardinale Angelo Acciaiuoli, abate commendatario della venerabile Badia Fiorentina,
appartenne un celebre Messale notato ora Cambridge, Fitzwilliam Museum, ms. 30, miniato probabilmente da Bartolomeo di Fruosino nel 1405. Com’è noto, Nino Pirrotta propose di identiicare il compositore Paolo da Firenze con un “Dominus, Paulus de Florentia” testimone di un atto
irmato a Roma dal cardinale Acciaiuoli, ancorché l’identiicazione non sia stata unanimemente
accettata dai successivi studiosi.
Gli Alberti e la musica tra Tre e Quattrocento
169
ogni altra famiglia concittadina.19 Solo alcuni tra di essi, comunque, coltivarono
genuini interessi culturali e si dedicarono al collezionismo librario: Palla Strozzi
e Cosimo de’ Medici - che ai primi del Quattrocento superavano chiunque altro
in ricchezza - risultano essere stati anche avidi lettori e collezionisti di libri, oltre che amici e protettori di umanisti, nonché fondatori di biblioteche e perino
dilettanti di musica.20 Anche i Bardi, imparentati con entrambe le famiglie e
già importanti mecenati artistici, possedevano una cospicua biblioteca, anche in
volgare.21 Dal suo canto, il potente e colto Niccolò da Uzzano,22 immortalato da
Donatello, era anche protettore della chiesa di Santa Lucia dei Magnoli in Oltrarno: un’istituzione per la quale sappiamo che fu esemplato, nel 1423-24, per
conto del suo rettore Bartoli, il ‘Liber choralis’ (Graduale e Antifonario) ora MS.
Laur. Ashb. 999, compilato con splendide miniature, simili nello stile a quelle di
Bartolomeo di Fruosino, presso Santa Maria degli Angeli, e contenente tra l’altro
(cc. 19v-22) il Discanto sopra l’Introito Gaudeamus omnes per la Messa in onore
di Santa Lucia, composto dall’abate don Paolo di Marco, ‘tenorista’, da Firenze.23
Quanto appunto agli Alberti, Antonio di messer Niccolò è citato in documenti d’archivio relativi al medesimo scriptorium degli Angeli (1395), per aver
efettuato consistenti pagamenti ai frati per l’acquisto di certi ‘Antefanari’, probabilmente ad uso e corredo della cappella di famiglia dedicata alla Vergine,
all’interno del chiostro del monastero (oggi non più visibile perché divenuto uni19
A Giovanni di Bicci de’ Medici si deve la commissione della tomba dell’antipapa Giovanni
XXIII (Baldassarre Cossa), ad opera di Donatello e Michelozzo, nel Battistero di San Giovanni;
a lui e al iglio Cosimo, la statua bronzea di S. Matteo, patrono dell’arte del Cambio, eseguita dal
Ghiberti sulla parete esterna di Orsanmichele (1419), ma anche la Sagrestia vecchia e la navata
centrale della chiesa di San Lorenzo; a Cosimo, il rifacimento dell’intera chiesa parrocchiale di
San Lorenzo ed il restauro del convento di San Marco, con annessa biblioteca e afreschi, oltre al
restauro della Badia iesolana, l’ediicazione del palazzo di famiglia con la cappella gentilizia decorata da Benozzo Gozzoli, le ville fuori porta, le cospicue donazioni librarie a vari enti e a privati, le
Pale d’altare in varie chiese, ecc. Su tutto questo cfr. D. Kent, Cosimo de’ Medici and the Florentine
Renaissance, cit.
20
Cosimo, in particolare, «alquanto se ne dilettava», di musica, come è ricordato da Vespasiano da Bisticci (Vite di uomini illustri).
21
P. Sambin, Libri in volgare posseduti da Bardo de’Bardi, «Italia medievale e umanistica»,
1, 1958, pp. 371-3. Oltre a ciò molti altri iorentini risultano aver posseduto libri e antologie ad
uso personale, i cosiddetti ‘zibaldoni’, come quello celebre di Giovanni Rucellai: ne fa un’ampia
rassegna D. Kent, Il committente e le arti. Cosimo de’ Medici e il Rinascimento iorentino, cit., pp.
103-27 e 155.
22
Niccolò da Uzzano (1359-1432), ricco politico, umanista e gonfaloniere di giustizia iorentino, fu il proprietario del palazzo in via de’ Bardi, ora Palazzo Uzzano-Capponi sul Lungarno di
sinistra: è ritratto in un celebre Busto di fattezze classiche, attribuito a Donatello e ora al Museo
del Bargello.
23
K. von Fischer, Paolo da Firenze und der Squarcialupi-Kodex (I-Fl 87), «Quadrivium», 9,
1968, pp. 5-31, con trascrizione musicale; più di recente M. S. Cuthbert, Trecento Fragments and
Polyphony Beyond the Codex (PhD., Harvard University, 2006), pp. 359 ss.
170
Gianluca D’Agostino
versità);24 e peraltro tra i monaci del monastero c’era un membro della famiglia
stessa, cosa che avrà raforzato i legami del casato con questa istituzione così
importante per la produzione di manoscritti. Ma già messer Benedetto Alberti,
noto per essere stato uno tra gli uomini più in vista nella Firenze del tempo nonché mecenate artistico (debitamente ricordato da Leon Battista nei Libri della
famiglia come «uomo in casa studioso e assiduo alle lettere, e fuori fra’ cittadini e
amici umanissimo», e «in ilosoia naturale e matematice riputato eruditissimo»)
si era accollato le spese per rifornire la splendida sacrestia di San Miniato al
Monte (afrescata da Spinello Aretino per conto dei Peruzzi), oltre che di arredi
sacri e delle altre cose necessarie (‘aliis necessariis et condecentibus’), anche di
libri corali.25
Naturalmente, nel caso speciico della musica, la committenza privata di tipo
devozionale era strettamente intrecciata alla produzione e al consumo che avvenivano entro i consueti circoli e canali ecclesiastici.26 E in efetti a Firenze una
forte ripresa, economica e sociale in generale, ma anche in particolare nel settore
della produzione libraria e di corali miniati, si registrò dopo la serie di eventi
negativi addensatisi verso la in du siècle.27 Le locali comunità ecclesiali e conven24
Cfr. M. Levi D’Ancona, he Illuminators and Illuminations of the Choir Books from Santa
Maria degli Angeli and Santa Maria Nuova in Florence, 2 voll., Centro di, Firenze 1994, p. 168;
C. De Benedictis, “All’onore di Dio e all’onore della città e a memoria di me”: la committenza degli
Alberti, in L’Ospedale di Orbatello. Carità e Arte a Firenze, a c. di C. De Benedictis e C. Milloschi,
Polistampa, Firenze 2015, pp. 17-43.
25
Memorie di questo singolare cavaliere iorentino resistono anche nella storiograia locale
successiva, ed è celebre ad esempio l’episodio, ripreso anche nelle Istorie iorentine del Machiavelli,
che ripercorre la quasi epica conclusione della vita di messer Benedetto, nel 1388, all’indomani
della funesta condanna all’esilio: egli infatti, prima di raggiungere Rodi, nel qual luogo era stato
coninato, «se ne andò al sepolcro di Cristo, dal quale tornando morì a Rodi. L’ossa del quale furono condotte a Firenze, e da coloro con grandissimo onore sepolte, che vivo con ogni calunnia e
ingiuria lo avevano perseguitato».
26
Fermo restando che l’istituzione, nella Firenze repubblicana, di una vera e propria ‘cappella
musicale civica’ (paragonabile a quelle create ed esibite da vari principi europei) data a non prima
del 1438-39, e che anche oltre tale data, i cosiddetti ‘cantori di San Giovanni’, sebbene legati di
fatto al mecenatismo dei Medici (signori ‘di fatto’, appunto, della città, a quella data), continuavano
formalmente a dipendere da un’istituzione per metà ecclesiastica e per metà laica, la cosiddetta
‘Opera del Duomo’, che era a sua volta legata al patronato delle corporazioni cittadine. Su tutto
questo gli insostituibili contributi di F. A. D’Accone, e specialmente: Music and Musicians at
Santa Maria del Fiore in the Early Quattrocento, in Scritti in onore di Luigi Ronga, Ricciardi, Milan-Naples 1973, pp. 99-126; Id, he Singers of San Giovanni in Florence During the 15th Century,
«Journal of the American Musicological Society» 14, 1961, pp. 307-58; Id, Lorenzo il Magniico
e la musica, in La musica a Firenze al tempo di Lorenzo il Magniico, ed. Piero Gargiulo, Firenze,
Olschki, 1993, pp. 219-55; recentemente ripubblicati in Id., Music in Renaissance Florence: Studies
and Documents, Aldershot, Ashgate, 2006.
27
Alludo alla conclusione della cosiddetta ‘guerra degli Otto Santi’ contro Papa Gregorio
XI (1375-78), alla (fallita) rivoluzione anti-magnatizia dei Ciompi, alle tre guerre anti-viscontee
(1391, 1398, 1404) e inine alla tremenda recrudescenza dell’epidemia di peste nel 1400 e in anni
Gli Alberti e la musica tra Tre e Quattrocento
171
tuali avevano grande necessità di dotarsi di libri di preghiere cantate (soprattutto
graduali ed antifonari), e per questo scopo facevano richiesta di sovvenzioni alle
più facoltose famiglie cittadine. In tale attività si distinsero e specializzarono,
appunto, gli scriptoria di Santa Maria Nuova e di Santa Maria degli Angeli, intorno ai quali gravitava il maggior numero di addetti alla produzione libraria,
tra copisti, calligrai, miniatori, pittori, ricamatori d’ago, “cartolari”. È appena il
caso di ricordare che nello scriptorium del monastero camaldolese degli Angeli fu
esemplato, tra 1410-15, lo splendido codice “Squarcialupi” (MS. Laurenz., Med.
Pal. 87), indiscussa “summa” retrospettiva dell’Ars nova iorentina: 28 manufatto miniato nel solco della tradizione del grande Lorenzo Monaco e compilato,
molto probabilmente, sotto la supervisione di don Paolo da Firenze, forse per
conto di Gino di Neri Capponi.29 Peraltro, alla medesima famiglia Capponi sasuccessivi che fece migliaia di vittime. Una nuova guerra contro Milano scoppiò dal 1423 e durò
ino al 1428, e in quello stesso anno cominciò la guerra contro Lucca, che furoreggiò ino al 1433
e che peraltro - come afermano D. Herlihy e C. Klapish-Zuber (I Toscani e le loro famiglie, cit.,
p. 58) - «acuì una volta di più gli appetiti iscali del Comune». Un informato prospetto delle spese
militari sostenute dalla Signoria, a favore dei propri condottieri e soldati mercenari, negli anni
1390-1402, si legge in A. Molho, Florentine Public Finances in the Early Renaissance, cit., p. 10.
28
Cfr. B. Becherini, Antonio Squarcialupi e il codice Mediceo Palatino 87, in L’Ars nova italiana del Trecento , vol. I, a c. di B. Becherini, Certaldo 1962, pp. 141-96. Cfr. inoltre gli studi conluiti nel volume Il codice Squarcialupi: Ms. Mediceo Palatino 87, Biblioteca laurenziana di Firenze, a
c. di F. Alberto Gallo, Giunti Barbera, Firenze 1992 (compreso quello di L. Bellosi, Il Maestro
del Codice Squarcialupi, pp. 147-57 e quello di M. Ferro Luraghi, Le miniature, pp. 159-92); cfr.
anche M. Salmi, La miniatura iorentina gotica, Palombi, Roma, 1954; M. Levi D’Ancona, Don
Silvestro dei Gherarducci e il ‘Maestro delle Canzoni’, «Rivista d’Arte», 32, a. 1952, Firenze 1959, pp.
28-37, e Id., he Illuminators and Illuminations of the Choir Books from Santa Maria degli Angeli, cit.;
G. R. Bent, he Scriptorium at Santa Maria degli Angeli and Fourteenth Century Manuscript Illumination: Don Silvestro dei Gherarducci, Don Lorenzo Monaco and Giovanni del Biondo, «Zeitschrift
fur Kunstgeschichte», 4, 1992, pp. 507-23; Painting and Illumination in Early Renaissance Florence,
1300-1450, a c. di L. B. Kantner, Metropolitan Museum of Art, New York 2000; W. J. Gibbons,
Illuminating Florence, Revisiting of the composer portraits of the Squarcialupi codex, «Imago Musicae»,
23, 2006-2010, pp. 25-45.
29
Fu un’altra igura molto tipica della Firenze dei primi decenni del secolo: abile politico, condottiero nonché mercante-scrittore, nel 1401 e di nuovo nel 1418 ottenne la carica di ‘Gonfaloniere
di Giustizia’ (la suprema magistratura negli anni della Repubblica); inoltre, nell’ottobre 1406 era
stato eletto primo capitano iorentino di Pisa, all’indomani della storica vittoria sulla città rivale,
vittoria celebrata, appunto, in un’arringa del Capponi, ma anche, in termini musicali, nel madrigale
di don Paolo, Godi, Firenze (il cui testo è modellato, com’è noto, su Inferno, XXVI, 1-3), e che fu
anche l’occasione per manifestazioni di giubilo popolare di vario genere (il cronista Bartolomeo del
Corazza nel suo Diario iorentino - 1405-’38 - si dilunga sull’episodio: «Fu grande festa e allegrezza;
e a mano a mano si serrarono le botteghe. Era tanta la gente, che quasi non potevasi andare per
la via a cavallo»; e più avanti: «Fu la più ricca e la più bella processione ch’io vedessi mai: dissesi
messa in santa Liperata, con grande solennità: predicò frate Giovanni Domenici»). L’associazione
del Capponi al codice Squarcialupi deriva da una vecchia ipotesi, e comunque, come già notava
la Becherini alcuni decenni fa, lo stemma gentilizio (i due leoni rampanti, d’oro in campo rosso,
opposti e separati da ampia fascia trasversale, anch’essa d’oro), che si ritrova alla c.1 e poi ribadito
172
Gianluca D’Agostino
rebbe riconducibile (sempre in via ipotetica) anche il codice musicale Pit (MS.
Paris, Bibl. Nat., fonds it. 568), proveniente dallo stesso scriptorium e recante sul
frontespizio, sotto una bella miniatura con la personiicazione della Musica e di
Tubalcain, un ‘motto’ (‘uuen goth uyel’) appunto riferibile a tale famiglia:30
La storia degli Alberti e le loro implicazioni con la musica si intrecciano dunque a queste vicende, concentrandosi soprattutto nella seconda metà del Trecento, quando la famiglia, forte della posizione acquisita in seno alle Arti di
Calimala e del Cambio, maggiormente si distinse nelle maggiori opere di mecenatismo devozionale (cappelle con afreschi), assistenziale e civico (Ospedali e
opere pie), destinate a soccorrere le necessità della popolazione iorentina più inin calce alla c. 55, proprio dove inizia la sezione dedicata a don Paolo (sezione che, notoriamente,
rimase priva dell’inserimento delle sue musiche), non corrisponde a quello della famiglia Capponi,
né propriamente ad alcun altro stemma nobiliare iorentino (la Becherini lo associava a quello di
una famiglia toscana Leoni; ma si noti pure la somiglianza cromatica-morfologica con il grifo d’oro
della famiglia Martelli). Su questi temi cfr. anche i consuntivi di M. P. Long, Francesco Landini
and the Florentine Cultural Elite, «Early Music History», 3, 1983, pp. 83-99 e J. Nádas, Song Collections in Late-Medieval Florence, in Atti del XIV Congresso della Società Internazionale di Musicologia, (Bologna, 27 Agosto - 1 Settembre 1987), a c. di A. Pompilio, 3 voll., EDT, Torino 1991, pp.
126-35; T. Seebas, Lady Music and her protégés, from musical allegory to musicians’ portraits, «Musica
Disciplina», 42, 1988, pp. 21-61.
30
La miniatura dell’ Allegoria della Musica è stata attribuita all’ ignoto ‘Maestro delle Canzoni’ (initimo in stile a Don Silvestro dei Gherarducci, monaco e artista in Santa Maria degli
Angeli, ma certo non lontano dallo stile di Bartolomeo di Fruosino): cfr. M. Levi D’Ancona,
Don Silvestro dei Gherarducci e il ‘Maestro delle Canzoni’, cit., Id., Bartolomeo di Fruosino, «he Art
Bullettin», 43, 1961, pp. 81-97, oltre a Id., he Illuminators and Illuminations of the Choir Books from
Santa Maria degli Angeli, cit., vol. I., pp. 20-5; D. Daolmi, Il modello iconograico della miniatura di
Pit (F-Pn, It. 568), in Studi in onore di Maria Caraci, a c. di A. Romagnoli, D. Sabaino, R. Tibaldi,
P. Zappalà, Ets, Pisa 2016, in corso di stampa.
Gli Alberti e la musica tra Tre e Quattrocento
173
digente. Allora la ‘magniicenza’ albertiana si manifestò al massimo grado, entro
e fuori le mura della città, ma soprattutto nella zona di Borgo Santa Croce, che
rimase sempre il loro ‘quartier generale’, con notevoli commissioni architettoniche e monumentali.31 Ricordiamo, per quanto concerne i collegamenti tra musica
e arti igurative, l’attaccamento della famiglia al culto di Santa Caterina martire
d’Alessandria, vera santa eponima del casato, che aveva ispirato la commissione
di parecchie opere architettoniche e pittoriche (come l’Oratorio di Santa Caterina all’Antella, in località Ponte a Ema-Bagno a Ripoli, con pregevoli afreschi
di Spinello Aretino commissionati da Benedetto Alberti). Tra le opere pittoriche a ciò riferibili citiamo pure la cosiddetta Pala della Zecca (1373), patrocinata
dagli Alberti al tempo in cui essi detenevano l’importante uicio del consolato
dell’Arte della Zecca;32 la Madonna col Bambino tra san Girolamo e Santa Caterina
31
Il ‘quartier generale’ della famiglia Alberti era costituito da una serie di costruzioni lungo via
dei Benci: il ‘Palagetto’ all’angolo con Lungarno Diaz (ora Palazzo Malenchini-Alberti), il Palazzo
all’angolo tra corso Tintori e borgo S. Croce (ora Palazzo Corsi-Horne), la celebre ‘Torre alberta’
con loggia sottostante (all’incrocio tra via de’ Benci e borgo S. Croce), e altri ediici limitroi che
fronteggiano la chiesa di S. Iacopo alla ine di v. de’ Neri, nella piazzetta omonima (o Piazza degli
Alberti, appunto). Le principali commissioni artistico-architettoniche della famiglia: l’Oratorio di
Santa Maria delle Grazie adiacente al Palagetto (angolo v. De’ Benci e Lungarno Diaz); la cappella
Maggiore (divenuta cappella di famiglia) in Santa Croce con afreschi del Gaddi (Storie della Vera
Croce) e tombe di famiglia all’interno del coro; Sagrestia nella basilica olivetana di San Miniato al
Monte, con afreschi di Spinello Aretino (Vita di S. Benedetto); Oratorio e chiesa di Santa Caterina
all’Antella a Bagno a Ripoli (afreschi del Gaddi e dell’Aretino) (mecenate: Messer Benedetto
Alberti); ospedale di Sant’Onofrio dei Tintori (mecenate: Albertozzo di Lapo degli Alberti); cappella dedicata alla vergine nel chiostro del Monastero camaldolese di Santa Maria degli Angeli
(con Incoronazione della Vergine di Lorenzo Monaco, ora agli Uizi; mecenate: Gherardo Alberti,
iglio di Benedetto); cappella nella chiesa del Carmine, Convento delle Terziarie francescane fondato da Ginevra degli Alberti (1429) poi divenuto educatorio di giovani donne (SS. Concezione)
con afreschi di Bicci di Lorenzo; Monastero di Santa Brigida e chiesa di Santa Maria e Zanobi
a Fabroro in Pian di Ripoli (fatto costruire da Antonio di Niccolò Alberti, approvato con bolla
1392 da Bonifacio IX) poi allargato a inglobare i possedimenti del Palagio albertiano denominato
“Il Paradiso degli Alberti”; Ospedale-Ospizio per donne nubili e vedove, e chiesa dell’Annunziata
dell’Orbatello (fatto costruire da Messer Niccolò a da suo iglio Antonio), e altro ancora. Oltre agli
studi del Passerini, cfr. M. Tasso, Il “canto degli Alberti” di Firenze, «Antichità Viva», 10, 1971,
pp. 20-35; anche il recente e ampio saggio di C. De Benedictis, All’onore di Dio e all’onore della
città e a memoria di me”, cit.; T.J. Loughman, Spinello Aretino, Benedetto Alberti and the Olivetans.
Late Trecento Patronage at San Miniato al Monte, New Jersey 2003; Miklós Boskovits, Pittura
iorentina alla vigilia del Rinascimento, 1370-1400, Edam, Firenze 1975; L’Oratorio di Santa Caterina all’Antella e i suoi pittori, a c. di A. Tartuferi, Mandragora, Firenze 2009; E. Valacchi – G.
Morolli, L’Oratorio di Santa Maria delle Grazie a Firenze. Un importante episodio trecentesco nella
committenza religiosa della famiglia Alberti, «Bollettino della Società di Studi iorentini», 16, 7,
2007-08, pp. 27-38.
32
In basso al grande dipinto si nota, come ultimo a sinistra dei nove stemmi relativi ai committenti, proprio lo stemma albertiano, ossia le quattro catene ricongiunte al centro in un anello
in campo azzurro e, giusto sopra di esso, la igura di Santa Caterina che sorregge una palma, immancabile segno nella sua iconograia indicante il martirio: cfr. De Benedictis, All’onore di Dio e
all’onore della città e a memoria di me, cit.
174
Gianluca D’Agostino
d’Alessandria da un Trittico attribuito a Giovanni di Francesco Toscani (ora al
Museo dell’Ospedale degli Innocenti); e ancora, la Santa Caterina e donatore di
Giovanni del Biondo (altro artista collegabile col monastero degli Angeli), da un
polittico nel Duomo (ora al Museo dell’Opera),33 il cui ignoto committente - rafigurato di proilo, a destra della santa, con il suo caratteristico pizzetto, in abito
blu e cappuccio rosso - dovrebbe essere proprio un Alberti (Benedetto?), giusta
l’estrema somiglianza con l’altro Alberti inquadrato nel particolare episodio della
Decapitazione di Cosroe, dal monumentale ciclo pittorico delle Storie della vera
Croce eseguito da Agnolo Gaddi nella Cappella Maggiore in Santa Croce (cappella gentilizia della famiglia).34
A questo riguardo, non mi risultano indagini speciiche sull’attività musicale
tardo-trecentesca svolta in quello che è il più importante e venusto complesso
francescano di Firenze; ma comunque tale argomento travalicherebbe l’ambito
della presente indagine. Ed anche al riguardo di Santa Caterina e la musica si
dovrebbe (ma qui non si può) aprire un’ampia parentesi, considerando peraltro
che proprio nella Firenze di quegli anni, specialmente nell’ambito dei cenacoli
domenicani, si andava sviluppando un particolare culto anche per l’altra Caterina, e cioè Caterina da Siena, la mistica che tanto si era adoperata per la risoluzione dello Scisma. Le due devozioni, quella per la martire d’Alessandria e quella
per la mistica senese, tendono a confondersi e a sovrapporsi, rendendo diicile
rispondere ad alcuni interrogativi. Ad esempio: a chi delle due sante andrà ricondotto il messale notato con musica - ora apparentemente scomparso - un
tempo appartenente al convento di Santa Maria del Carmine e registrato nei
suoi antichi inventari come «libro notato che v’è l’uicio di santa Katerina e altri
uicy, inisce la transiguratione»?35 E ancora: a chi andranno riferiti quei mottetti
e quelle laudi in stile ‘ars subtilior’ composti nel primo Quattrocento dal frate
domenicano Antonio da Cividale (‘Antonius de Civitate Austrie’ o ‘Antonius
de Civitato ordinis praedicatorum’), già cappellano di papa Gregorio XII presso
Cividale del Friuli (la città dove detto papa tenne il Concilio nel 1409), quindi
trasferitosi intorno al 1414 proprio a Firenze, al seguito del cardinale-poeta Gio33
Cfr. M. Boskovits, Pittura iorentina alla vigilia del Rinascimento, cit., pp. 308-9. Non è
da confondere con l’altra ‘Santa Caterina e donatore’, di Bernardo Daddi, proveniente da un altro
polittico smembrato per la cattedrale, e sempre al Museo del Duomo.
34
Cfr. ancora De Benedictis, All’onore di Dio e all’onore della città e a memoria di me, cit., p.
29; Agnolo Gaddi e la cappella maggiore di Santa Croce a Firenze. Studi in occasione del restauro, a c. di
C. Frosinini, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo 2014.
35
Cfr. Pasquini, Libri di musica a Firenze nel Tre-Quattrocento, cit., p. 38. Il Messale potrebbe comunque essere identiicato con il frammento di Antifonario (ora Firenze, Museo di San
Marco, Inv. 576, c. 52) studiato da Mirella Levi D’Ancona, oppure con il cosiddetto ‘Antifonario
per il Convento di Santa Caterina’ a San Gaggio, fuori Firenze, miniato da Zanobi Strozzi nel
1447, su cui ancora M. Levi D’Ancona, Miniatura e miniatori a Firenze dal secolo XIV al XVI,
Olschki, Firenze 1962, pp. 264-5.
Gli Alberti e la musica tra Tre e Quattrocento
175
vanni Dominici, i cui sermoni dianzi ricordati e la cui azione riformista si erano
peraltro saldamente nutriti degli ideali propugnati proprio dai seguaci di Santa
Caterina da Siena?36 Sappiamo infatti che in Toscana frate-compositore Antonio
strinse rapporti con i locali cenacoli domenicani ed in particolare con Leonardo
Dati (il grande umanista, già priore di Santa Maria Novella, che divenne Maestro generale dell’ordine appunto in quell’anno), e che il suo mottetto (frammentario) Inclita persplendens virgo è rubricato nella fonte - MS. Oxford, Bodleian
Library, Canon. Misc. 213, c.8v - in questo modo: «1422, Frater Antonius de
civitate composuit ad honorem sancte Katerine virginis et martiris».37 La dicitura
‘martire’ farebbe in questo caso propendere per Caterina d’Alessandria, che fu,
del resto, uno dei soggetti iconograici più ricorrenti nella pittura iorentina tardo-gotica e rinascimentale. Inoltre, in un importante frammento musicale senese
recentemente studiato da Mecacci e Ziino (Gavorrano-Ravi 3), si trova un altro
mottetto ‘cateriniano’, e cioè Katerina pia virgo purissima, attribuibile sempre al
Cividale e il cui testo, alludendo al topico tema del ‘matrimonio mistico’, chiude
invocando la santa dedicataria del brano (‘Alma’), ainché interceda presso il
compositore stesso:38 ci si riferisce qui alla santa senese?
Ma è ora di riprendere il tema dell’esilio politico, tema-cardine nella vicenda
degli Alberti, ispiratore di bellissime pagine dai Libri della Famiglia di Leon
Battista (quel «lungo essilio in quale siamo noi Alberti invecchiati») e pure rilevante per il discorso sulla musica. Com’è noto gli Alberti, dopo il loro progressivo declino seguìto alla sconitta del partito ilo-popolare succeduta ai Ciompi e
dopo la cacciata del potente messer Benedetto, furono oggetto di provvedimenti
giudiziari (balìe) che culminarono in due diversi momenti: nel 1401, con l’esilio
collettivo che colpì tutti gli eredi maschi maggiorenni del casato; nel 1412, con
la condanna a morte in contumacia come ribelli per molti membri della famiglia.
36
Se ne veda il proilo a cura di Oscar Mischiati nel Dizionario Biograico degli Italiani, e la
voce di Hans Schoop e Robert Nosow ‘Antonius de Civitate Austrie’, nel Grove Music Online (con
bibliograia sul compositore); R. Nosow, Ritual Meanings in the Fifteenth-Century Motet, Cambridge Univ. Press, Cambridge 2012, esp. p. 99 ss.; M. Gozzi, Osservazioni sulla notazione delle opere
profane di Antonio da Cividale, «Studi musicali», 31, 2002, pp. 233-69.
37
Cfr. l’edizione a c. di Charles van den Borren, Polyphonia sacra. A Continental Miscellany of
the Fifteenth Century, he Plainsong and Medieval Music Society, London 1962, 28; l’edizione in
facsimile: Oxford, Bodleian Library MS Canon. Misc. 213, a c. di David Fallows, Late Medieval and
Early Renaissance Music, «Facsimile», I, 8 (Chicago and London, 1995).
38
Cfr. E. Mecacci, A. Ziino, Un altro frammento musicale del primo Quattrocento nell’Archivio di Stato di Siena, «Rivista Italiana di Musicologia», 38, 2, 2003, pp. 199-225. Nello stesso
frammento sono pure ospitati un mottetto natalizio, Puer natus in Bethlehem, anch’essa anonimo
e frammentario (ma tramandato anche dal codice α.M.5.24 della Biblioteca Estense di Modena,
ModA), una lauda in volgare incompleta trasmessa in unicum (O regina sempre regna), ed un Gloria
frammentario, i quali, considerati nel loro assieme, ben potrebbero rispondere alla deinizione di
«altri uicy» dianzi citata, e si potrebbero ricollegare, come ipotizza Ziino, all’attività musicale di
qualche confraternita toscana.
176
Gianluca D’Agostino
La loro riammissione a Firenze avvenne solo verso la ine degli anni Venti del
Quattrocento, ma di certo i tempi e le condizioni non erano più gli stessi.
Sofermiamoci quindi su Antonio di messer Niccolò (ca. 1358 - 1415), altra tipica igura di mercante, banchiere, politico e cavaliere (deinito nelle bolle
papali che approvano le sue donazioni religiose «dilectus ilius nobilis vir miles
lorentinus», e ricordato anche da Franco Sacchetti nel Trecentonovelle), ma anche intellettuale e rimatore,39 autore di madrigali musicati, nonché forse persino
professore di algebra e astrologia (discipline associate alla musica): insomma, una
delle igure più esemplari e paradigmatiche della famiglia, debitamente ricordato
nei Libri della Famiglia come «uomo litteratissimo», che «non raro solea co’ suoi
studiosi amici in que’ vostri bellissimi orti passeggiando disputare». Anch’egli
fu tra i più duramente colpiti dal destino, tant’è che nel 1401 inì tra i maggiori
sospettati di congiurare contro gli Albizzi e pertanto sottoposto a tortura, poi liberato, multato e privato di tutte le sue proprietà e condannato all’esilio. Antonio
si rifugiò allora a Bologna dove di fatto si unì ai cospiratori contro gli Albizzi e
quindi fu nuovamente condannato nel 1412; morì a Bologna nel 1415 e fu riabilitato post mortem dalla Repubblica iorentina soltanto nel 1425.
Prima di questa tragico epilogo, sulla falsariga di illustri membri del casato
(in primis, il muniico padre Niccolò,40 ma anche gli zii Benedetto e Bernardo),
Antonio aveva dato ampia prova di opulenza e liberalità: ereditando i beni paterni e proseguendo tra 1376-78 i lavori, iniziati appunto dal padre nel 1370, per
l’Ospedale-Ospizio (‘Asylum’) dell’Orbatello, con annessa chiesa-oratorio di S.
Maria Annunziata, in località detta ‘Cafaggiolo’ (ora via Alfani - via della Pergola);41 e soprattutto ampliando la celebre villa “Il Paradiso” in località Pian di
Ripoli, autentico vanto della famiglia, ricordata dal solito Leon Battista con la
perifrasi di «bellissimi orti» ove «si trovassero tutti i frutti rarissimi che nascono
negli altri paesi». Questa villa (‘Palagio’), insieme all’adiacente cappella-oratorio dei Santi Maria e Zanobi a Fabroro (‘Badiuzza di Fabroro’, con afreschi di
39
Le sue rime e un suo proilo biograico nella vecchia edizione di A. Bonucci, Sonetti et
canzone del clarissimo M. Antonio delli Alberti, s.e., Firenze 1863; più di recente le puntualizzazioni
di A. Lanza, La letteratura tardogotica. Arte e poesia a Firenze e Siena nell’autunno del Medioevo, De
Rubeis, Anzio 1994; e soprattutto di G. Borriero, La tradizione delle rime di Antonio degli Alberti,
«Medioevo letterario d’Italia», 1, 2004, 3, 2006, e 5, 2008.
40
Su Niccolò cfr. la voce di A. Sapori, nel Dizionario Biograico degli Italiani. Egli è ricordato
in varie cronache iorentine come benefattore, ilantropo e ‘padre dei poveri’, come dimostra la citazione che se ne fa nell’anonimo poema in terza rima, edito da N. Newbigin, In lode di Cosimo de’
Medici e de’ igliuoli e dell’onoranza fatta l’anno 1459: «e fece le limosine a .mmigliaio: / quarantamila
ne donò al Comune; sovvenne miserabili e puelle».
41
Cfr. R. Trexler, A Widow’s Asylum of the Renaissance, cit., e più di recente il bel volume
miscellaneo L’Ospedale di Orbatello. Carità e Arte a Firenze, cit., con vasta bibliograia relativa.
Sull’arco di un portale interno all’Orbatello si può ancora leggere l’inscrizione antica: ‘Al nome
di Dio, Questo oratorio fece fare il nobile chavaliere Messer Niccholaio di Iacopo degli Alberti, a
onore di Santa Maria Annunciata negli anni di Cristo 1372’.
Gli Alberti e la musica tra Tre e Quattrocento
177
Niccolò Gerini e altri), venne poi trasformata, a partire dal 1392, per pia volontà
dello stesso Antonio («perché voleva rimedio all’anima sua e dei suoi passati»),
e con il consenso del papa, nell’ampio monastero già consacrato all’ordine di
una terza santa molto venerata in Toscana, e cioè Santa Brigida di Svezia, donde l’appellativo rimasto al luogo nei secoli seguenti, ‘Santa Brigida al Paradiso’:
un’istituzione religiosa ben documentata e molto nota in tutta la regione, le cui
alterne vicende dureranno ino all’età risorgimentale.42
Esiliati gli Alberti e coniscate, tra 1401 e 1412, le loro proprietà, esse passarono, con tutti i beni dei ‘Ribelli’, al protettorato dei Capitani di Parte Guelfa,
sotto la cui amministrazione rimasero, ino al 1769 per quanto riguarda l’Orbatello, e ino ai primi anni Sessanta del Quattrocento, per quanto riguarda il
‘Paradiso’, che almeno in parte poté a quel punto tornare agli antichi possessori:
documenti d’archivio datati 1466-68 indicano, infatti, Francesco d’Altobianco
Alberti come legittimo proprietario del ‘Paradiso’; e nel 1468, proprio da lui
Leon Battista accetterà la nomina di rettore dell’oratorio di san Zanobi al Pian
di Ripoli al Paradiso.43 Risalgono anche alla metà del Quattrocento o poco oltre
le più antiche raigurazioni a noi giunte dell’istituzione dell’Orbatello, e precisamente: al 1449 il disegno acquerellato nel cosiddetto Codice Rustici (Firenze,
Seminario Arcivescovile Maggiore, c.19r),44 ed al 1469 quello nella cosiddetta
“Pianta di Firenze di Piero di Jacopo del Massaio” dalla Cosmograia di Tolomeo
(versione ms. Paris, cod. Par. Lat. n. 17542, ex 4802, c. 132v) esemplata per Alfonso d’Aragona Duca di Calabria.
Come si sa, la più completa gloriicazione di questo ‘amoenissimus locus’ iorentino, così intimamente legato alla storia dell’arte, della poesia e della musica,
era avvenuta, prima che negli scritti di Leon Battista, in un’altra opera narrativa a carattere retrospettivo, e cioè nel cosiddetto Paradiso degli Alberti, il noto
romanzo di Giovanni Gherardi da Prato (1360-67 - 1442-46).45 Quest’opera,
42
Le vicende del restauro moderno di questo importante complesso architettonico alla periferia SE iorentina si possono leggere nel sito https://paradisodeglialberti.wordpress.com, con utile
corredo iconograico; cfr. inoltre Passerini, cit., vol. I, pp. 27 ss., oltre ad almeno tre titoli bibliograici abbastanza recenti ma non facilmente reperibili: La città degli Uizi. I musei del futuro, a c.
di F. Borsi (Catalogo della mostra, Firenze, giugno 1982 - gennaio 1983), Sansoni, Firenze 1982;
Il ‘Paradiso’ in Pian di Ripoli. Studi e ricerche su un antico monastero, a c. di M. Gregori e G. Rocchi,
Centro di Firenze, Firenze 1985; Il Paradiso degli Alberti. Storia e recupero del monastero della Vergine
Maria e di Santa Brigida, a c. di D. Rapino, Polistampa, Firenze 2014.
43
Cfr. A Parronchi, Otto piccoli documenti per la biograia dell’Alberti, «Rinascimento», 12,
1972, pp. 233-34.
44
Recentissima la monumentale edizione in facsimile del Codice Rustici, a c. di E. Guerrieri,
K. Olive e N. Newbigin, 2 voll., Olschki, Firenze 2016.
45
Fu lettore della Commedia dantesca allo Studio iorentino (1417-25) e strenuo difensore
del volgare e cultore delle ‘Tre Corone’, oltre che sodale di Landini, del Sacchetti e dell’architetto
Brunelleschi: su di lui cfr. A. Wesselofsky, Il Paradiso degli Alberti, ritrovi e ragionamenti del 1389:
romanzo di Giovanni da Prato, voll. 2, Romagnoli, Bologna 1867; G. Gherardi da Prato, Il
178
Gianluca D’Agostino
composta tra 1425-26, ma ambientando la inzione letteraria nel 1389 («felicissimo e gratioso anno»), è imperniata - nel solco di altri scritti post-decameroniani
e ilo-iorentini - sulle dotte conversazioni tra i ‘Fiorentini illustri’ con cui era in
contatto Antonio Alberti: il cancelliere Coluccio Salutati, il teologo umanista
Luigi Marsili, il conte Carlo da Poppi, il poeta Cino Rinuccini, i maestri Grazia
de’ Castellani e Biagio Pelacani da Parma, il celebre musico Francesco Landini,46
e altri ancora. Ma Il Paradiso è anche un’opera piena, appunto, di riferimenti musicali, dalle citazioni del Landini ai vari cenni alle esecuzioni musicali, nelle quali
erano comunque coinvolte anche delle nobildonne, come ad esempio Ginevra
Alberti o la misteriosa ‘Cosa’, quest’ultima a sua volta ispiratrice - e perciò citata
a mo’ di senhal - di svariate composizioni arsnovistiche, tra quelle di ser Lorenzo
Masini, Landini, don Paolo.47
È paciico, dunque, che con questo suo Paradiso tutto profano e incentrato
sull’elogio dei iorentini illustri, Gherardi volesse comporre un’opera celebrativa
Paradiso degli Alberti, a c. di A. Lanza, Salerno, Roma 1975; inoltre cfr. A. Lanza, A proposito di
una nuova edizione del Paradiso degli Alberti, in L’Ars nova italiana del Trecento, IV, a c. di A. Ziino,
Centro di Studi sull’Ars Nova Italiana del Trecento, Certaldo 1978, pp. 303-14; più di recente F.
Bausi, voce ‘Gherardi’, in Dizionario Biograico degli Italiani, e svariati importanti contributi di
E. Guerrieri, tra cui: Giovanni Gherardi da Prato e Francesco di Marco Datini (con dodici lettere,
di cui nove inedite di Giovanni a Francesco di Marco), «Interpres», 23, 2004, pp. 7-53; Ead., Il
‘Paradiso degli Alberti’ di Giovanni Gherardi: continuità e discontinuità con il modello decameroniano,
«Esperienze letterarie», 39, 4, 2014, pp. 55-72.
46
Arcinoto è l’incipit con cui viene ricordato il musicista, con le sue straordinarie capacità
artistiche ed intellettuali (e si noti in esso nuovamente l’accenno al tema della proporzioni musicali): «Fioriva ancora in que’ tempo Francesco delli Organi, musico teorico e pratico, mirabil cosa a
ridire, il quale, cieco quasi a sua natività, si mostrò di tanto intelletto divino che in ogni parte più
astratta mostrava le sottilissime proporzioni de’ suoi musicabili numeri, e quelle con tanta dolcezza
col suo organo praticava ch’è cosa non credibile pure a udilla».
47
“Cosa” (Niccolosa), inoltre, è anche citata in svariate altre opere del Gherardi e potrebbe
essere identiicata con un’altra esponente del casato Alberti: cfr. Passerini, Gli Alberti di Firenze.
Genealogia, Storia e Documenti, vol. II. 6: Documenti: Necrologia della famiglia Alberti, Firenze 1869,
pp. 39 ss. Sulla questione dei senhals nella poesia per musica arsnovistica cfr. Giuseppe Corsi,
Poesie musicali del Trecento, Commissione per i testi di lingua, Bologna 1970, e più di recente
Alessandra Fiori, Francesco Landini, L’Epos, Palermo 2004. È risaputo inoltre che il Gherardi
- a riprova dei suoi stretti contatti con l’ambiente dell’Ars nova - trascrisse nel romanzo il testo
completo di una ballata landiniana, e cioè Or su gentili ad amar pronti, che nel suo unico testimone
musicale a noi rimasto (il codice Squarcialupi) appare invece trascritta solo in parte, restando priva
del testo del secondo piede e della volta (d’altronde le obliterazioni di queste sezioni terminali
della ballata sono usuali in quella fonte musicale). La trascrizione del Gherardi risulta, pertanto,
l’unico testimone completo del testo a noi rimasto, ed in essa si può cogliere il riferimento sia al
luogo descritto nel romanzo (“volete voi vedere il Paradiso” v. 2), sia ad una persona in particolare
che usava frequentarlo, citata come senhal, e cioè “Cosa” (“mirate d’esta Cosa suo bel viso”, v. 3).
Il testimone musicale riporta invece al terzo verso la variante “Petra”, evidentemente alludendo ad
un’altra donna e quindi tradendo l’intenzione di poter utilizzare (quasi riciclare) lo stesso testo per
più di una dedicataria.
Gli Alberti e la musica tra Tre e Quattrocento
179
ed encomiastica anche nei confronti degli stessi Alberti; e questo forse anche perché, al tempo della composizione del romanzo, l’autore era in rapporti economici
proprio con il sopra citato Francesco d’Altobianco Alberti.
Tornando ad Antonio Alberti, egli dovette avere un ruolo non marginale nella promozione della poesia musicale da eseguirsi nella cornice del Paradiso, non
solo in quanto padrone di casa e mecenate, ma poiché egli stesso fu rimatore di
un certo prestigio.48 È quasi certo che egli fosse - come il Sacchetti, il Soldanieri
o il Rinuccini - in rapporti diretti con alcuni compositori arsnovisti suoi contemporanei, ed è possibile che dalla sua penna probabilmente scaturirono poesie
destinate alla musica, forse anche più dell’unico esemplare a noi rimasto in tal
senso, che è il madrigale I’ fu’ già bianc’uccel con piuma d’oro, su cui ci sofermiamo
per una disamina ilologica.
Questa poesia è tràdita in due fonti letterarie a noi note: ms. Chigi M.IV.79
della Biblioteca Apostolica Vaticana, ove appare adespota ma rubricata come
«madriale tonato»; e ms. Ashburnham 569 della Biblioteca Medicea Laurenziana, dove è appunto attribuita a «messere Antonio degli Alberti».49 La sua musicazione spetta invece al compositore ‘don’ (o ‘ser’, o ‘Dominus’, o ‘presbiter’) Donato da Cascia o da Firenze,50 giuste le attribuzioni del codice Squarcialupi (cc.
Anche se la critica più aggiornata lo ha più realisticamente inquadrato come minore e come
imitatore petrarchista, alla maniera di Cino Rinuccini, cioè di gusto arcaicizzante, o alla stregua
di altri verseggiatori con cui peraltro fu in corrispondenza, come Franco Sacchetti, Giovanni Bonafede o Alberto degli Albizzi. La sua igura, ascritta alla corrente che dal linguaggio igurativo
si deinisce “tardo-gotica”, è stata ben focalizzata dal Lanza (La letteratura tardogotica) e più di
recente dal Borriero. Manca ancora l’edizione critica delle sue rime, per cui è necessario utilizzare la vecchia edizione di A. Bonucci, cit., e quelle, parziali, a c. di N. Sapegno, Poeti minori del
Trecento, Ricciardi, Milano-Napoli 1952 e di G. Corsi, Rimatori del Trecento, Utet, Torino 1969,
pp. 520 e ss.
49
Sul manoscritto chigiano si veda oltre. Il manoscritto ashburnamiano, invece, fu giudicato
inido dal Corsi (Poesie musicali del Trecento, p. 125) proprio per quanto riguarda le attribuzioni;
peraltro, è molto probabile che le due carte (27r-v) su cui appaiono ricopiati questo e altri tre
madrigali variamente attribuiti (I’ fu’ già bianc’uccel con piuma d’oro, attribuito appunto ad Antonio
Alberti; Lucida pecorella son scampata, ascritto a Niccolò Soldanieri; I’ ò perduto l’alber’ e ’l timone
e L’aspido sordo e‘l tirello scorçone, entrambi a Rigo Belondi), tutti parimenti intonati da Donato,
derivino da un fascicolo musicale, cioè notato.
50
Di questo arsnovista toscano, ricordato dal Sacchetti con la qualiica di ‘presbiter de Cascia’,
sappiamo singolarmente poco, se non che fu frate, probabilmente camaldolese (in abiti monacali
scuri e con un pesante volume in braccio è ritratto, con aria severa, nel codice Squarcialupi), e che
operò prevalentemente in Toscana, dalla metà del Trecento in verso la ine degli anni Settanta
oppure anche oltre. Peraltro alcuni indizi, come il documento ricordato da P. Cecchi (voce ‘Donato’
in Dizionario Biograico degli Italiani – online), proveniente dall’archivio del monastero di Santa
Maria degli Angeli e relativo a un ‘Frate Donatus di Bartolo da chamerata’ il quale prese i voti nel
1376 e lasciò il convento nel 1381, sembrerebbero far pensare che l’attività musicale del nostro
si sia prolungata anche entro il decennio Ottanta. Già secondo il parere di G. Corsi (Madrigali
inediti del Trecento, «Belfagor», 4, 1959, pp. 72-82), la sua attività sarebbe da avvicinare alla ine del
secolo, se è vero che nel madrigale Dal cielo scese per iscala d’oro (Sq, cc. 78v-79r) si cela un’allusione
48
180
Gianluca D’Agostino
78v-79), del codice palinsesto ‘San Lorenzo’ (I-FSl Ms 2211, c.21, solo Tenor)51
e del manoscritto lacunoso ‘London’ (GB-Lbl Add. Ms 29987, cc.35v-36: ‘Madriale di ser Donatto da Chascia’), dove peraltro è l’unico brano esplicitamente
attribuito al compositore.52 Inoltre, in Sq il brano appare trascritto a conclusione
dell’intero (ottavo) fascicolo (cc.78v-79) assegnato a Donato (con quindici brani), dunque a mo’ di epilogo anche di quei peculiari madrigali imperniati su immagini ferine e venatorie (che normalmente sottintendevano metafore amorose),
che sembrano formare un sottogruppo a sé.53 Si tratta di:
1. Un bel girfalco scese alle mie grida (testo di N. Soldanieri) (primo brano in Sq,
con illustrazione in bas-de page)
2. Seguendo ’l canto d’un uccel selvaggio
3. Lucida pecorella son, scampata (Soldanieri??)
4. I’ fui già usignolo in tempo verde (Soldanieri)
5. Sovran uccello se’ fra tutti gli altri
6. L’aspido sordo e ’l tirello scorçone (R. Belondi)
7. Come da lupo pecorella presa (Soldanieri)
8. I’ fu’ già bianc’uccel con piuma d’oro (A. Alberti? Soldanieri?)
Similmente, nel codice ‘San Lorenzo’ - fonte con intenti antologizzanti non
lontani da quelli di Sq, e che infatti pure comprende un’ampia rassegna di brani
di Donato (undici) - I fu’ già bianc’uccel appare di nuovo come ultimo della serie
(insieme a Dal cielo scese, il presunto madrigale ‘scaligero’); mentre in ‘Lo’, come
detto, esso è l’unico madrigale attribuito esplicitamente al nostro autore: elemena Samaritana da Polenta, divenuta moglie di Alberto della Scala, signore di Verona, nel 1378 (ma a
Pirrotta tale ipotesi sembrava poco probabile). Donato comunque dovette svolgere gran parte della
sua attività a Firenze, dove certamente conobbe il Sacchetti (nel cui autografo del Libro delle Rime
sono registrati due madrigali di Donato di cui è perduta l’intonazione) e probabilmente anche il
Soldanieri, del quale musicò svariati testi: cfr. su questo F. A. Gallo, Il Medioevo, vol. II, EDT,
Torino 1977, pp. 67-8 (rist. 1996, trad. ingl. Cambridge 1985). È considerato più giovane di Gherardello e di Lorenzo e poco più anziano di Niccolò e Landini. Per il proilo biograico cfr. anche la
voce di K. von Fischer e G. D’Agostino, in New Grove Dictionary of Music and Musicians (2nd
ed.), Macmillan, London 2001, vol. 7, p. 459; per le edizioni musicali moderne cfr. N. Pirrotta,
he Music of Fourteenth-Century Italy, in Corpus Mensurabilis Musicae, vol.VIII, 3, Roma, 1962, e
T. W. Marrocco, Italian Secular Music, in Polyphonic Music of the Fourteenth Century, vol. VII,
Monaco 1971, pp. 30-74; l’edizione dei testi letterari, incompleta, è in Pirrotta, he Music of
Fourteenth-Century Italy, cit., pp. X-XIII e in G. Corsi, Poesie musicali, cit.
51
Del quale è ora imminente l’edizione: Manuscript Florence, San Lorenzo 2211: Introductory
Study and Facsimile Edition, a c. di A. Janke e J. Nádas, Libreria Musicale Italiana, Lucca.
52
Cfr. G. Di Bacco, Alcune nuove osservazioni sul codice di Londra (British Library, MS Additional 29987), «Studi Musicali», 20, 1991, pp. 181-234; M. Gozzi, Alcune postille sul codice Add.
29987 della British Library, «Studi Musicali», 22, 1993, pp. 249-77.
53
Su questo tema cfr. l’importante contributo di M. C. Vela, Per una nuova lettura del madrigale “Aquila, altera / Creatura gentile / Uccel di Dio”, di Jacopo da Bologna, «Philomusica on-line»,
13, 2014.
Gli Alberti e la musica tra Tre e Quattrocento
181
ti che farebbero pensare che il brano rivestisse una particolare importanza o che
fosse una delle composizioni più mature e rappresentative tra quelle di Donato.
In tal caso, essa potrebbe essere stata composta verosimilmente intorno ai primi
anni Ottanta, quando peraltro Antonio Alberti era un giovane uomo.
Il brano è invece assente in ‘Pit’ (F-PN fonds italien 568), nel quale comunque Donato è ospitato (alle cc. 15v-18) con un ordinamento simile a quella sopracitato, anche se limitatamente ai primi quattro brani elencati. Ed esso non
compare neanche nell’altro grande codice iorentino, cioè FP (I-Fn Panciatichi
26), che pure ospita un gruppetto di cinque madrigali del compositore,54 ma in
un ordine diverso e con l’intromissione di una ballata del Landini (immancabile
in questa fonte).55
Tutti questi indizi lasciano pensare che i brani dell’elenco sopra citato procedessero da un medesimo impulso compositivo o da una pubblicazione simultanea ed unitaria da parte del loro compositore, e che tra essi I fu’ già bianc’uccel
rivestisse particolare rilevanza.56 Del resto, anche i capoversi di queste poesie si
somigliano parecchio: si vedano, al riguardo, gli identici attacchi di incipit del
quarto e ottavo madrigale del gruppo (che condividono peraltro anche la stessa
tematica), o le somiglianze tra il terzo e il settimo; e spiccano, per quanto riguarda la paternità dei testi, le molteplici attribuzioni a Niccolò Soldanieri, fecondo
rimatore - di cui l’unico dato biograico certo è la data di morte, 1383 - ben noto
per il suo stile epigrammatico (in quanto tale, particolarmente congeniale alle
esigenze degli arsnovisti), il quale dovette appunto lavorare, con ogni probabilità,
a stretto contatto con Donato e altri musicisti.57
Naturalmente, dietro il contenuto bucolico-amoroso apparentemente convenzionale di questi testi, potevano nascondersi intenzioni allusive e intertestuali
più profonde: quel “doppio livello di signiicazione”, come lo deinisce la Caraci
Tra cui un unicum: Come’l potest’ tu far.
Si tratta della ballata ‘occamista’ Contemplar le gran cose. Sull’organizzazione del codice Panciatichi cfr. da ultimo lo studio esaustivo di S. Campagnolo, Il codice Panciatichi 26, in“Col dolce
suon che da te piove”. Studi su Francesco Landini e la musica del suo tempo. In memoria di Nino Pirrotta,
a c. di A. Delino e M. T. R. Barezzani, Sismel, Firenze 1999, pp. 77–119.
56
Su questo cfr. E. Abramov-van Rijk, he Raven and the Falcon: Literary Space in a Trecento
Music Aviary in Musik-Raum-Akkord-Bild. Festschrift zum 65. Geburtstag von Dorothea Baumann,
a c. di A. Baldassarre, Peter Lang, Berna 2012, pp. 59-74. Più in generale sul tema dei rapporti
tra falconeria e letteratura cfr. la dissertazione di T. F. L. Gualtieri, Birds of Prey and the Sport of
Falconry in Italian Literature through the Fourteenth Century: from Serving Love to Served for Dinner,
University of Wisconsin, 2005, disponibile sul web.
57
L’edizione critica completa delle sue Rime (circa un centinaio) tarda a venire alla luce, dopo
svariate edizioni parziali (soprattutto Corsi, Rimatori del Trecento, cit., pp. 740-77) e dopo importanti studi preliminari, tra cui: L. Rossi, Osservazioni sul testo delle rime di Niccolò Soldanieri, in
L’Ars nova italiana del Trecento, vol. IV, Certaldo 1978, pp. 399-409, e più di recente, E. Pasquinucci, La poesia musicale di Niccolò Soldanieri, «Studi di ilologia italiana», 65, 2007, pp. 65-193, e
Id., Appunti sulla lingua di Niccolò Soldanieri, Moxedano, Roma 2009.
54
55
182
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Vela, che caratterizzava già i primi e paradigmatici madrigali di Jacopo e Giovanni, imperniati su temi allegorico-araldici e politici, o sulla polemica contro i
colleghi musicisti, con relative accuse di plagio. E’ probabile che anche Donato
e i rimatori a lui collegabili volessero immettersi nel solco di questa tradizione,
anche se nella maggior parte dei casi i loro signiicati allusivi ci restano oscuri.58
Vedremo meglio qualche esempio di ciò più avanti. Ma intanto, se pure ci limitassimo ad intendere questi testi nel ‘primo livello’ di signiicato, cioè come
allegorie amorose sotto forma di ‘bestiario musicale’, non possiamo dubitare che,
come tali, i madrigali di Donato contribuirono notevolmente al rilancio della
forma-madrigale tra Tre e Quattrocento, segnatamente a Firenze, cosa che appare confermata dal fatto di trovarli trascritti, appunto, anche in fonti letterarie.59
In questo senso saremmo anzi tentati di ricollegare questa ioritura ‘iorentina’
del genere ad una vera e propria voga del madrigale ‘epigonico’ (trasmessa da
Donato e Lorenzo Masini a Niccolò e a Paolo, e da questi ultimi ai ‘nordici’
Antonello da Caserta e Ciconia),60 che si potrebbe addirittura rintracciare (ma
qui entriamo nel campo delle ipotesi) ancora all’altezza cronologica di quei ‘canti
rurali’ che abbiamo citato dianzi a proposito di Leon Battista Alberti. Peraltro, i
madrigali di Donato sono per lo più a due voci, ed al canto bivocale sembrerebbe
appunto alludere anche l’Alberti nel passo in questione (‘cum fratre’); sebbene
vada riconosciuto che il trattamento melodico di varie sezioni melismatiche dei
madrigali di Donato è altamente virtuosistico (Pirrotta li deinisce «the peak of
virtuoso singing in the Italian madrigal, and therefore in the Italian Ars nova as
a whole»), e che in essi il rincorrersi delle due voci è improntato ad una notevole
complessità ritmica: dunque la loro esecuzione presupponeva (come ancor oggi
fa) interpreti competenti e professionali; mentre Leon Battista poté essere, al più,
un bravo dilettante di canto e strumento.
Attenendoci ai dati ilologici, e tornando quindi al manoscritto chigiano, si
58
Almeno in Sovran uccello sembra possibile cogliere l’allusione politica all’aquila imperiale di
Carlo IV, sulla falsariga del madrigale Aquila altera di Jacopo: cfr. C. Vela, Per una nuova lettura
del madrigale “Aquila, altera / Creatura gentile / Uccel di Dio”, di Jacopo da Bologna, cit. Ricordiamo,
comunque, che come simbolo l’aquila non era certo una prerogativa imperiale: l’aquila che stringe
il drago tra gli artigli, ad esempio, era lo stemma dei Capitani iorentini di parte Guelfa.
59
Su questi temi sia consentito il rinvio al mio saggio La tradizione letteraria dei testi poetico-musicali del Trecento. Una revisione per dati e problemi in “Col dolce suon che da te piove”. Studi su
Francesco Landini cit., pp. 389-428, da integrare ora con il più aggiornato L. McGuire Jennings,
Senza Vestimenta: he Literary Tradition of Trecento Song, Ashgate, Farnham 2014, e con alcuni
puntuali interventi di D. Checchi (tra cui I versi della musica: il problema dell’autorialità letteraria
nel repertorio dell’ “Ars nova” italiana in Musica e poesia nel Trecento italiano. Verso una nuova edizione
critica dell’ “Ars nova”, a c. di A. Calvia e M. S. Lannutti, Sismel-Edizioni del Galluzzo, Firenze
2015).
60
In efetti, una stretta interconnessione stilistica tra alcuni madrigali di Donato ed altri di
Paolo è solidamente argomentata nel recente contributo di E. Abramov-van Rijk, he Raven and
the Falcon, cit.
Gli Alberti e la musica tra Tre e Quattrocento
183
propone ora una sintesi schematica della sezione dov’è appunto ospitato il madrigale I’ fu’ già bianc’uccel. Questa silloge letteraria è stata descritta dal suo più
recente studioso, il Decaria, come «corposa miscellanea di liriche tre-quattrocentesche (moltissime delle quali attribuite a Malatesta Malatesti) copiata da
Tommaso Baldinotti sul inire del secolo XV»:61
c.133v. “Canzona tonata”: Non senti, donna, più piacer giamai [ball.: testo e
musica anonimi] 62
[fonte musicale: Lo, cc. 26v-27v; altra fonte lett.: ms. Firenze, B.N.C.,
Conv. Sopp. C.1.1746, c. 233v: ‘una ballata’] [/ Po’ che ’l viso solevi a me non
fai? / Se l’altrui fallo, a te giusto volere, / può far, togliendo a me, sperar merzede,
/ Tempo passato dê farmi dolere / Qual perseguita amando t’ho con fede, / sentendo
quei ch’altro che te non vede, / Sofrir languendo il duol che tu gli dai]
[+ 4 sonetti anonimi: Lasso dolent’a me quanto più pense; Sì duro è ’l dipartir da te, amore;
Molte iate cara mia nimica; Le vaghe luci del bel viso umano]
c.135. “Madriale tonato”: I’ fu’ già bianco uccel con piuma d’oro [madr.: mus.
Donato da Cascia; testo di Antonio degli Alberti?]63
[fonti mus.: Lo, cc. 35v-36v; Sq, cc. 78v-79; SL, c. 21r (solo T); altra fonte
lett.: ms. Firenze, Laur. Ashb. 569, c.27: “Madriale di messer antonio degli
alberti”] [vd. oltre]
“Canzona tonata”: Isperanza mantiene in vita amore [testo anon.: musica non
pervenuta]
[unicum di Chigi] [/ In in che ’l servo crede / Donna trovar da voi grazia,
o merzede. / Ma quando dal signor manca la spene / Per crudeltate, o per isdegno,
61
Rime di Francesco d’Altobianco degli Alberti, cit., pp. CXCVIII-CCV. Precedente descrizione in D. De Robertis, Censimento dei manoscritti di Rime di Dante, «Studi Danteschi»,
42, 1965, pp. 457-8. Si tratta di un manoscritto di formato piuttosto piccolo, elegante, con fregi
e decorazioni. Di una sola mano, calligraica, dell’ultimo terzo del Quattrocento, presenta inizialmente rime adespote (ma con postille di mano seriore): A. da Ferrara, Petrarca, Cecco d’Ascoli,
Boccaccio, Cavalcanti, Dante, Sennuccio del Bene. Da c. 65 si fanno più frequenti le attribuzioni
a: S. Serdini da Siena, M. Malatesti da Pesaro, F. Sacchetti, A. degli Albizi, F. Accolti ‘Aretini’,
B. da Montemagno (il Giovane), N. Cieco, Poliziano, L. Bruni ‘d’Arezzo’, B. Cambini. Prima dei
componimenti ‘musicali’ v’è una serie di sonetti adespoti (preceduti, a c. 129v, dalla rubrica ‘Incipiunt aliqua Sonitia moralia pulchra’), ai quali seguono una ‘Canzona’ (Morte tien la mia vita), che
parrebbe anch’essa in forma di madrigale, un’altra ‘Canzona’- ballata (Po che la vista angelica serena,
con incipit desunto da Petrarca, R.V.F. CCLXXVI), e altri sonetti. Su nessuno di questi pezzi si è
riusciti a reperire maggiori informazioni.
62
Italian Secular Music, a c. di T. Marrocco, vol. XI, Éditions de L’Oiseau-lyre, Monaco 1971,
pp. 103-4: il testo è dato solo per ripresa e primo piede, con signiicative varianti dei vv. 3-4: «Se
l’altru’ fall’a me giusto valore / Può far toglier da me sperar merçede».
63
Ivi, vol. VII, pp. 44–5.
184
Gianluca D’Agostino
allora / Resta il disio sol nell’amato bene / Il qual sanza speranza poco dura. /
Dunque donna per dio abbiate cura / Di non tor vostra fede / a chi fedel soggetto a
voi si vede]
“Ca(n)z(on)a tonata”: Il gran disio, et la dolce speranza [ballata: Landini]64
[fonti mus.: Sq, c. 147 (no volta); Lo, cc. 73v-74v; Pit, cc. 84v-85; FP, c.
31; Escorial IV. a. 24, cc. 22v-24; altra fonte lett.: ms. FI C. 1. 1746, c. 234v:
“Ballata”] [vd. oltre]
c.135v. “Canzona”: La bianca piuma d’un gentile uccello [madr. anon.]
[unicum di Chigi] [vd. oltre]
“Canzona”: Ciascun ch’ama virtute [ball. anon.]
[unicum di Chigi] [/Venir tardi, o pur tempo / Non perda il tempo / In seguir
donna per aver salute. / Ponga negli occhi vaghi la sua speme / Di chi servendo gli
può far onore / Et speri fructo di sì fatto seme / Ond’esce fama et nobiltà di core / Non
voglia amando seguir vano amore / Il suo folle talento / Ma sia contento / Lasciando
i vizi d’acquistar virtute]
“Canzona tonata”: Or sia che può: com’ a voi piace sia [ballata: Paolo]65
[fonti mus.: Pit, c. 82v; SL, c. 105; altra fonte lett.: ms. FI, Magl.VII.1041,
c. 22v: “sine nomine”]
[ + sonetto di Sacchetti all’Alberti: Messer Antonio mio quanto più penso, con risposta:
Famoso vaso al poetico senso; sonetto di Alberto degli Albizzi: Gli occhi lucenti e vaghi in cui
scintilla, con risposta: Già nel comun udir chiaro risuona]
c.137. “Canzona Franzese”: Adius Madame denour [anon.]
[unicum di Chigi] [/El me convien de vous partir / Car plus sofrir ne puos le
mal d’amour / se je men voie ma douls amie / Giamais plus n’avrai confort / Ma
tout le giour de ma vie / Serai per vous en desconfort / Car tout mon bien e ma deport
/ Vous le metes en gran dolour]66
Si notino subito alcune cose. Primo, le ainità - già a suo tempo rilevate dal
Capovilla -67 tra i due madrigali I’ fu’ già bianco uccel con piuma d’oro e La bianca
piuma d’un gentile uccello, non sembrano limitarsi all’incipit, ma si estendono allo
schema metrico (ABB CDD EE) e ad altre porzioni testuali:
Ballata 31 (in Pit versione a due voci): ediz. Leo Schrade, Francesco Landini: Complete
Works, Reprint of PMFC, vol. IV, L’Oiseau-Lyre, Monaco 1982, pp. 146-7.
65
Italian Secular Music, cit., vol. IX, pp. 154-55.
66
Il testo svolge il tema del mal d’amore, in forma alquanto prossima a quello del virelai di
Landini Adiu, adiu, dous dame jolie.
67
G. Capovilla, Materiali per la morfologia e la storia del madrigale ‘antico’, dal ms. Vaticano
Rossi 215 al Novecento, «Metrica», 3, 1982, pp. 159-252.
64
Gli Alberti e la musica tra Tre e Quattrocento
185
I’ fu’ già bianc’ uccel con piuma d’oro,
piacqui tanto ch’al canto amor mostrò;
et or son fatto corbo e canto cro (cro, cro).
La bianca piuma d’un gentile uccello,
che nel fuoco dimostra sua virtute,
seguendo lui m’indusse aver salute;
Quel signor che mi trasse a sé selvaggio
com’a lui piacque, me per l’ale prese,
et subito d’amor el cor m’accese.
et gli aurati piedi in ch’io m’accorsi
mischiati insieme far varii colori,
férmi palese lui degno d’onori.
Qual per isdegno non so poi mi die’
in preda là a chi porta’ mie fe’.68
Perché sopra d’ogn’altro caro il tegno,
socto ’l sigil d’Ermete in vetro segno.
Tuttavia, mentre il primo testo svolge il tema (in sé topico) del rimpianto
per una splendida condizione ormai mutata in cattivo stato, attraverso la metafora della metamorfosi, peraltro di conio ovidiano,69 da candido uccello in corvo
gracchiante e volgare; il secondo testo si dipana in modo più rainato, evocando,
forse con intento allusivo, un uccello straordinario simile alla fenice, e concludendosi con un riferimento dotto, ancorché espresso in guisa di motto popolare,
all’operazione di sigillare il vetro, chiudendo il cannello dell’ampolla con del vetro liquefatto dal fuoco (il ‘sigil d’Ermete’, appunto).
D’altronde nel primo madrigale, che poi è l’unico dei due ad essere preceduto,
nel codice, dall’esplicita didascalia ‘Madrigale tonato’, un particolare rilievo è
conferito al lemma ‘canto’, in cui è palpabile l’allusione alla destinazione musicale
dei versi, senza contare che la ripetizione del verbo ‘canto’, al terzo verso, sfocia
in una vera e propria onomatopea di gusto icastico-popolaresco, evidentemente
suggerita da ragioni musicali, e del resto abbastanza tipica di molta poesia arsnovistica (l’esempio che subito viene in mente è il celebre madrigale di Giovanni
Agnel son bianco e vo’ belando bè, ma svariate poesie del Soldanieri presentano la
stessa caratteristica).70 Diicile dire, a questo punto, se il secondo madrigale sia
stato scritto direttamente ‘in risposta’ al primo, ma certo le somiglianze (e persino le loro diferenze) tra i due testi suggerirebbero che essi siano stati composti
l’uno tenendo presente l’altro (fermo restando che ad essere messo in musica fu
68
Si segue la lezione di Sq, ma per i vv. 2-3 sono diferenti la versione del Chigiano (piacqui
tanto al canto amore mostro / Et hor son fatto corvo, et canto cro) e quella del Ashb. 569 (e piacqui tanto
il canto amor nostro / che or son fatto corbo e canto cro), che sembrano rinunciare alla rima ossitona del
secondo verso e dov’ è mutato leggermente il senso generale della frase. Inoltre al v. 8 i mss. letterari hanno ‘a cui portai’; l’Ashb. 569 reca inine alcune lectiones singulares erronee o quantomeno
sospette.
69
Su questo cfr. Abramov-van Rijk, he Raven and the Falcon, cit.
70
Analoghi prolungamenti onomatopeici, sottolineati da hoqueti musicali, sono nel madrigale
Lucida pecorella son (v. 7: belando con diletto e saltellare) o nella caccia A poste messe (musicata da
Lorenzo); l’espediente dell’onomatopea ritorna sovente, in efetti, anche in poesie di cui non è
rimasta l’intonazione (L’aguglia bella, nera, pellegrina; A forniuol vo. Cu cu, un cucul fammi; I’ sono un
pipistrel che vo gridando).
186
Gianluca D’Agostino
soltanto il primo). L’autore dell’altro madrigale potrebbe essere un rimatore in
corrispondenza con l’Alberti, come ad esempio il Soldanieri, ma se ciò fosse vero,
alla luce di quanto detto inora proporremmo (sempre in via del tutto ipotetica,
ovviamente) di invertirne le attribuzioni: I’ fu’ già bianc’uccel al più corrivo e musicale Soldanieri, La bianca piuma al più dotto e posato Alberti.
Inoltre, dando ora uno sguardo d’assieme a tutta la sezione del chigiano, spiccano, decisamente, le caratteristiche rubriche ‘Canzona tonata’, ‘madriale tonato’, ecc., le quali denunciano, in modo inequivocabile, l’imparentamento con o
la copiatura diretta della sezione da un codice musicale, cioè notato. Detto antigrafo musicale non ci è pervenuto, ma in origine avrebbe potuto somigliare,
almeno per il contenuto, ad una fonte come il codice ‘London’, fonte che infatti
è citata più volte nel nostro prospetto delle concordanze: ricordiamo per inciso
che il codice di Londra è quello con il maggior numero di composizione prive di
attribuzione, ma anche una fonte con un alto numero di unica (ben 19). La prima
‘canzona tonata’ della silloge chigiana, cioè Non senti’ donna più piacer già mai, si
trova appunto intonata unicamente nel codice London (all’interno del fascicolo
IV, nella ricostruzione di Di Bacco), trascritta di seguito ad una ballata di Niccolò (La donna mia vuol esser el messere) e ad un madrigale (sempre non attribuito)
di Donato (L’aspido sord’e ’l tirello scorzone), e prima di una ballata landiniana
(ivi parimenti adespota: Se pronto non sarà l’uom al ben fare). Lo stile musicale di
questo brano presenta, comunque, un contrappunto alquanto dilettantesco ed
una modesta attività ritmica: tale musicazione andrà verosimilmente ricondotta a
qualche musicista dilettante o semi-professionale, sul genere di quelli associati da
Giuliano Di Bacco proprio al codice di Londra, e aventi contatti con l’ambiente
delle Confraternite iorentine dei Laudesi.
Semmai uno spunto di interesse ricavabile da questo pezzo sta nel trovarne
il testo attestato anche in un’ulteriore fonte letteraria, oltre al Chigiano, e cioè il
ms. Firenze, B.N.C., Conv. Sopp. C.1.1746, testimone ancora riconducibile agli
Alberti, in quanto esso è tra le principali fonti delle Rime del suddetto Francesco
d’Altobianco Alberti.71 Tra le cc. 233v-234v di questo codice sono ospitate tre
ballate che per la verità non appartengono all’Alberti, ma che evidenziano - proprio come nel caso dei pezzi della sezione del Chigiano - indubbi legami con il
repertorio tardo-trecentesco e segnatamente con la produzione arsnovistica: due
ballate (Non sentì donna e Il gran desio e la dolce speranza, quest’ultima musicata
dal Landini) sono appunto concordanti sia con il ms. Chigiano che con codici
Per esso si rinvia alle osservazioni già fatte in D’Agostino, La tradizione letteraria dei
testi poetico-musicali del Trecento, cit., e alla puntuale descrizione di Decaria, nell’edizione delle
Rime dell’Alberti, cit. Questo testimone, vergato da Antonio Bonciani, contiene, infatti, dopo varie scritture prosastiche ed in versi, una copiosissima antologia di rime di Francesco d’Altobianco,
comprendente anche una sezione, a c. 229, rubricata ‘Cominciono ballate e rondelli’, con questi
ultimi a testimoniare un raro esempio di rondeaux su testo italiano.
71
Gli Alberti e la musica tra Tre e Quattrocento
187
musicali; mentre una terza ballata (Per seguir la speranza che m’ancide, anch’essa
nota per l’intonazione fornita da Landini) è trasmessa da una folta schiera di
testimoni musicali, oltre che da un altro manoscritto letterario, e cioè il ms. Firenze, B.N.C., Magl. VII.1041,72 restando però esclusa (stranamente) dal codice
chigiano. Le rubriche relative a queste ballate nel codice iorentino (‘una ballata’,
‘Ballata’) non alludono esplicitamente all’intonazione, come invece fanno quelle
del Chigiano; tuttavia, mettendo a riscontro i testi, incluso l’altro che appare
come unicum, questa volta, di Chigi (Isperanza mantiene in vita amore), e che
pure sembra rientrare nella medesima orbita stilistica, appaiono evidenti le analogie tematiche, testuali e metrico-formali intercorrenti tra tutte queste ballate.
Diamo dunque di seguito l’elenco ed i testi delle tre ballate accomunate sia dal
tema della “Speranza” e del “disio”, sia anche, probabilmente, dal fatto di essere
state messe in musica, in origine, dallo stesso autore (che potrebbe essere stato il
Landini in tutti e tre i casi):73
Isperanza mantiene in vita amore [ballata: intonazione non sopravvissuta]
[unica fonte: Chigi M.IV.79, c. 134: “Canzona tonata”]
Per seguir la speranza che m’ancide [ballata: Landini]74
[fonti mus.: Pit, cc. 62v-63; FP, c. 21v; Sq, c. 166; Reina, c. 48 – mss.
lett: FI Magl.VII.1041, c. 48; FI C.1.1746, c. 234: “Ballata”]
Il gran disio, et la dolce speranza [ballata: Landini]75
[fonti mus.: Sq, c. 147 (no volta); Lo, cc. 73v-74v; Pit, cc. 84v-85;
FP, c. 31; Escorial IV. a. 24, cc. 22v-24; - mss. lett.: FIC.1.1746, c. 234v:
“Ballata”; Chigi M.IV.79, c. 134: “Canzona tonata”]
72
Per cui cfr. bibliograia citata sopra, oltre al classico studio ilologico di M. Barbi, Studi sul
canzoniere di Dante, Sansoni, Firenze 1915, specie pp. 462-500.
73
Per l’edizione dei testi – che comunque non compaiono nell’antologia di Corsi, Poesie musicali del Trecento, cit. – si è provveduto personalmente alla trascrizione e alla registrazione di alcune
varianti principali; per i testi presenti anche in FI 1746 si è avuta presente l’edizione di Decaria,
Rime, cit., pp. 501-2.
74
Ballata 33: ediz. in Francesco Landini: Complete Works, cit., pp. 112-3.
75
Ballata 31 (in Pit versione a due voci): ediz. in Francesco Landini: Complete Works, cit., pp.
146-7.
188
Gianluca D’Agostino
Isperanza mantiene in vita amore,
Per seguir la speranza, che m’ancide,
Il gran disio e la dolce speranza
in in che ’l servo crede,
donna, vo cercand’io
ch’io ebbi in voi
donna, trovar da voi gratia o merzede.
di celato tenere ‘l mio disio.
donna, mi die’ d’amare al cor baldanza.
Ma quando dal signor manca la spene,
Né voglio a te, cagion di tanta pena,
Quando da prima ne’ begli occhi Amore
per crudeltate o per isdegno, allora
el mio grieve tormento discovrire,
vidi, pien di pietade e cortesia,
resta il disio sol nell’amato bene,
però che la ragion pur mi rafrena;
sperai trovar merzé nel vostro core,
il qual sanza speranza poco dura.
ond’io disposto son così morire.
il qual seguendo poi, non par che sia.
Dunque, donna, per Dio abbiate cura
Ma ben ti priego, Amor, de non sofrire
Onde mal fa chi tanta fede oblia
di non tôr vostra fede
ch’io pèra in tanto oblio:
e mostra altrui
a chi fedel soggetto a voi si vede.
falle palese tu il voler mio.
che ‘n donna non si può aver idanza.
[v.2, FI 1746: sempre in voi; Chigi:
[v.3, FI 1746: più; v.4, Magl.: Non; v.5,
già in voi; v.6, FI 1746: più che rigore;
FI 1746: i miei grievi tormenti; v.8,
v.8, FI 1746 + Chigi: Dunque; v.9, FI
Magl. + Reina: volere; v.10, Magl.: el
1746: dimostra in; Chigi: mostra bene;
dolor mio] [ass. in Chigi]
v.10, FI 1746: mal si possa]
Esaminando i testi potremmo dire di essere di fronte a un mini-ciclo di ballate (landiniane) ispirate a consimili motivi conduttori; anche se andranno riconosciute alcune cose. Primo, mentre lo schema metrico delle prime due è molto
consueto nel repertorio coevo, quello de Il gran disio è anomalo e non trova altre
occorrenze nei regesti metrici relativi alla poesia del periodo (ed anche il suo
linguaggio testuale sembra avere una patina ed un sapore arcaici, quasi pre-stilnovistici).76 Secondo, l’impianto musicale complessivo e il rapporto testo-musica
nelle due ballate landiniane di cui è rimasta l’intonazione sono tra loro notevolmente diversi ed anzi sembrano esprimere due dimensioni musicali quasi contrastanti, nell’ambito del pur variegato stile di Landini. Infatti, Per seguir la speranza
è una ballata in ritmo binario e con disposizione compattamente trasmessa dai
testimoni nel tipo 33 (solo cinque ballate di Landini sono così), con testo cioè
disposto a tutte e tre le voci: un tratto considerato tipico dello stile ‘italiano’,
in cui si riscontra pure un’altra convenzione consistente nella ‘rima musicale’,
ossia nella ripetizione della formula cadenzale conclusiva della prima pars anche
alla ine della secunda. Il testo viene per lo più declamato in modo uniforme e
simultaneo, con ampi melismi regolarmente posti in ine di verso, ed entrate leggermente sfalsate, in anticipo o posticipo, soprattutto ad opera del Contratenor,
allo scopo di enfatizzare determinate parole del testo (nella fattispecie: ‘seguir’,
‘ancide’, ‘donna’).
Il gran disio, invece, ha un impianto totalmente diverso per quanto riguarda il
trattamento del testo e la tipologia ritmica: è scritta in senaria imperfetta e con
distribuzione testuale del tipo 31 (testo al solo Superius), una tipologia che già a
Cfr. L. Pagnotta, Repertorio metrico della ballata italiana: secoli XIII e XIV, Ricciardi,
Milano-Napoli 1995, p. 55.
76
Gli Alberti e la musica tra Tre e Quattrocento
189
Kurt von Fischer sembrava essere complessivamente più sfuggente,77 comunque
basata sulla combinazione delle voci inferiori, Tenor e Contratenor, concepiti
come un tutt’unico sul quale muove la voce superiore. La condotta del Superius
appare ritmicamente piuttosto squadrata, cesurata com’è dalle frequenti pause,
ma d’altronde una certa varietà è conferita dalla risoluzione delle cadenze continuamente evitata o diferita (vd. bb. 46-48 e 56-58 dell’edizione Schrade). Interessante, inine, è la circostanza di ritrovare l’intonazione del testo landiniano,
seppure notevolmente variata e limitatamente al solo refrain e primo piede, in
una fonte tanto tarda come lo chansonnier El Escorial, Biblioteca y Archivio de
Musica, Ms IV.a.24 (ca. 1450).78
Concentriamoci inine su Francesco d’Altobianco Alberti (1401-79), il terzo
importante letterato della famiglia, rimatore in efetti fecondissimo ed alquanto
originale, in parte ascrivibile alla corrente burchiellesca;79 non un letterato di professione, quanto soprattutto un abile banchiere, ma anche un mecenate culturale,
interessato, come Leon Battista, a recuperare l’eredità materiale e soprattutto
culturale del casato, e anche lui non insensibile al discorso musicale. Nato nel
1401, membro di un ramo della famiglia parimenti esiliato in Francia, Francesco
era nipote di Antonio e cugino indiretto di Leon Battista. Suo padre, e cioè Altobianco degli Alberti, iglio a sua volta del ricchissimo messer Niccolò, era stato
appunto esiliato da Firenze con i suoi fratelli Diamante e Calcedonio nell’aprile
di quell’anno (l’altro fratello, Antonio, si era com’è detto rifugiato a Bologna).
Francesco aveva solo tre mesi quando la famiglia si trasferì a Parigi, dove il padre
era titolare della iliale mercantile di famiglia. Ancorché gravato dall’esilio e dalla
precoce morte della moglie e dei fratelli, gli afari di Altobianco dovettero andar
bene, tant’è che egli aprì una seconda iliale a Bruges, ma fu poi colto da morte
nel 1417, lasciando la ditta in eredità al iglio Francesco. Questi seppe amministrare altrettanto bene le ‘compagnie’ aidategli, andando a gestire anche altre
iliali (le cosiddette “compagnie di corte”) a Roma e a Basilea, in società con i
cugini Benedetto di Bernardo e Antonio di Ricciardo e con l’ausilio di alcuni ‘governatori’ (tra i quali il suddetto Tommaso Spinelli e Piero Cambini),80 e quindi
77
K. von Fischer, La disposizione del testo nelle ballate a tre voci di Francesco Landini, in “Col
dolce suon che da te piove”. Studi su Francesco Landini, cit., pp. 181-96. Si noti peraltro che la ballata
appartiene a quel ristretto novero di brani landiniani (dieci in tutto) trasmessi sia a due voci che a tre.
78
Edizione a c. di M. K. Hanen, he Chansonnier El Escorial IV.a.24, voll. III, 19, Institute of
Mediaeval Music, Henryville 1983 (Musicological Studies, 36)
79
Cfr. Decaria, Per l’edizione delle Rime di Francesco d’Altobianco Alberti, «Studi di ilologia
italiana», 63, 2005, pp. 47-238, e 64, 2006, pp. 155-378, quindi l’edizione delle Rime, a cura dello
stesso (Commissione per i testi di lingua, Bologna 2008), con ampia rassegna dei testimoni manoscritti e bibliograia relativa. L’edizione del Decaria ha rimpiazzato quella precedente di A. Lanza,
in Lirici toscani del Quattrocento, voll. 2, Bulzoni, Roma 1973-75.
80
Sul Cambini, cfr. oltre ai ragguagli in Lanza, Lirici toscani, cit., e il recente contributo di
Decaria (che qui ringrazio per la segnalazione): Una quattrocentesca “caccia all’evasore”, «Studi di
190
Gianluca D’Agostino
trasferendosi nella città papale intorno alla metà degli anni Venti, se non prima
(papa Martino lo aveva nominato “depositario urbis” già nel 1417).81 Del ’25 è
un atto notarile stipulato tra Piero Cambini, procuratore per conto di Francesco
d’Altobianco (allora a Bologna), e il sopra citato Giovanni Gherardi, nel quale
quest’ultimo appare come debitore dell’Alberti.
Nel giugno del ’28 la sentenza di esilio contro alcuni degli Alberti fu revocata
(anche grazie alle pressioni di Martino V) e Francesco ebbe dunque la possibilità
di tornare a Firenze - la patria ideale, inora soltanto sentita nominare (proprio come per Leon Battista). Era già molto ricco, avendo dichiarato al Catasto
iorentino del ’27 un capitale (10.572 iorini) che lo poneva tra i membri della
famiglia più facoltosi in città. Ai primi anni Trenta pare comunque fosse ancora
a Roma, entrando deinitivamente nella città del iore solo intorno al 1432, ed
ivi sposando Giovanna de’ Bardi nello stesso anno. Da questo matrimonio probabilmente non nacquero igli: i tre eredi di Francesco - Giovanni, Lanzilao e
Troiolo - furono tutti illegittimi. 82
Una volta tornato a Firenze, Francesco si adoperò molto, come erede, per
riottenere le proprietà intorno a Santa Croce e in via de’ Benci, nonché alcune
tenute periferiche, tra cui, appunto, la villa del Paradiso.83 E tuttavia le vicende
successive di Francesco, oltre che a saldarsi a quelle di Leon Battista, il cui terzo
dei Libri della Famiglia veniva composto proprio intorno alla metà degli anni
Trenta,84 appaiono caratterizzate da nuove diicoltà inanziarie e da controversie
ilologia italiana», 71, 2013, pp. 185-288 e di S. Tognetti, Il banco Cambini. Afari e mercati di una
compagnia mercantile bancaria nella Firenze del XV secolo, Olschki, Firenze 1999.
81
Carlo Alberti, fratello di Battista, lo deinisce nelle sue Ephebie «uomo litteratissimo e occupatissimo in magniici esercizj», sempre impegnato a svolgere il suo lavoro a stretto contatto «col
Sommo Ponteice, e cogli altri religiosissimi prelati e signori».
82
Cfr. F. Baxendale, Exile in Practice, cit. Su Francesco d’Altobianco cfr. anche L. Martines, Un reietto politico: Francesco d’Altobianco Alberti (1401-1479) in Leon Battista Alberti e il
Quattrocento. Studi in onore di Cecil Grayson e Ernst Gombrich, cit., pp. 15-24, e Id., Strong Words.
Writing and Social Strain in the Italian Renaissance, cit., pp. 137-66; L. Boschetto, Leon Battista
Alberti e Firenze, cit.; A. Decaria, “Sempre a te piacquero le cose mie”. Francesco d’Altobianco e Leon
Battista Alberti in Alberti e la cultura del Quattrocento, cit., pp. 301-38.
83
F. W. Kent, he Making of a Renaissance Patron of the Arts, in Giovanni Rucellai ed il suo Zibaldone. II: A Florentine Patrician and his Palace, he Warburg Institute, Univ. of London, London
1981, p. 43), cita una lettera di Bernardo Rucellai a Lorenzo de’ Medici (13 marzo 1466): «abbiamo ordinato una gita piacevole domenicha si va al Paradiso […] e fo conto ci daremo buon tempo
fra luogo di Francesco d’Altobianco e quivi che sai quella sua moglie fa buona festa».
84
La dedica del III libro della Famiglia rivolta da Leon Battista proprio a Francesco d’Altobianco, nonché la menzione di quest’ultimo in altri scritti letterari di Battista, dimostrano la
considerazione e persino la deferenza in cui egli teneva tale suo parente, asceso - almeno nei primi
anni Trenta - ad un rango e ad una levatura sociale notevoli. In realtà tale dedica diventa un pretesto - come ha ben rilevato il Decaria - per rievocare il prestigio culturale un po’ di tutta la famiglia
e rivendicare chiaramente, pur tra le avversità della sorte, il suo primato morale e intellettuale sulla
scena iorentina.
Gli Alberti e la musica tra Tre e Quattrocento
191
giuridiche che lo videro opporsi ad altri suoi familiari, e che iniranno per abbattersi, come una nuova e deinitiva crisi, su buona parte del casato (i cosiddetti
“Alberti di ponente”) e su Francesco stesso, costringendolo alla dichiarazione di
fallimento nei primi anni Quaranta (documenti catastali del ’42 informano infatti che la sua dichiarazione di fallimento fece enorme scalpore in tutta Firenze).85
Per quanto concerne i suoi rapporti con la musica, è ben noto che a Francesco
si associa un altro importante cimelio musicale, il codice Chantilly 564, silloge
tardo-trecentesca di musica francese in stile Ars subtilior, sulla quale, dopo lo
studio pioneristico di Ursula Günther,86 si sono incentrate le indagini di Anne
Stone e Yolanda Plumley,87 quelle di Elizabeth Upton,88 e il recente contributo,
storico-artistico, della Manzari.89 L’associazione di questa fonte all’Alberti deriva - come per prima rilevò la Günther - dalla nota di possesso del codice a c. 9,
che peraltro è un’aggiunta seriore rispetto al suo nucleo originario, la quale recita:
A di xviij di luglio 1461 Franciescho d’alto biancho degli alberti dono
questo libro alle mie fanciulle e arechollo Lançalao suo igliolo Amme
homasso Spinelly. Propria manu
Tale iscrizione rivela, peraltro, che a quella tarda data (inizi anni Sessanta) il
prezioso manufatto passava, per il tramite del iglio dell’Alberti, al nuovo proprietario, Tommaso Spinelli (anzi, alle di lui iglie); il quale, a sua volta, provenendo da un’agiata famiglia, era stato socio in afari dell’Alberti a Roma e che
non avrebbe tardato a distinguersi come banchiere e tesoriere papale, nonché
come mecenate artistico (suo il celebre Palazzo Spinelli): peraltro anche Spinelli
era parecchio interessato alla musica.90
Su tutto questo l’ampia trattazione di L. Boschetto, I libri della “Famiglia” e la crisi delle
compagnie degli Alberti negli anni trenta del Quattrocento in Leon Battista Alberti. Actes du Congrès
international de Paris (Sorbonne - Institut de France-Institut culturel italien - Collège de France,
10-15 avril 1995), éd. par Francesco Furlan Aragno-J.Vrin, Torino-Paris 2000, pp. 87-131); anche
Id., Leon Battista Alberti e Firenze, cit.
86
U. Günther, Unusual Phenomena in the Transmission of Late Fourteenth-Century Polyphonic
Music, «Musica Disciplina», 38, 1984, pp. 87-118; su questa scia anche S. Campagnolo, Il codice
Panciatichi 26, cit.
87
Y. Plumley, A. Stone, Codex Chantilly: Bibliothèque du Château de Chantilly, 564: Introduction and Facsimile, Turnhout, Brepols, 2008; A Late Medieval Songbook and its Context: New
Perspectives on the Chantilly Codex, a c. di Y. Plumley e A. Stone, Turnhout, Brepols 2010.
88
E. Randell Upton: Inventing the Chantilly Codex, «Studi Musicali», 31, 2003, pp. 181231; Ead., he Creation of the Chantilly Codex (Ms. 564), «Studi Musicali», N.S., III, 2, 2012, pp.
287-352.
89
F. Manzari, he International context of Boniface IX’s court and the marginal drawings in the
Chantilly Codex (Bibliothèque du Château, Ms. 564), «Recercare», 22, 2010, pp. 11-33.
90
In una lettera (13 luglio 1458) che Pietro de’ Medici gli invia a Roma, si richiedeva il suo
intervento ainché certi cantori di San Giovanni non venissero cacciati di casa, per il bene della
«conservatione di questa cappella». Nei suoi testamenti, inoltre, Tommaso Spinelli lasciò molti
85
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Gianluca D’Agostino
In realtà gli studi più recenti di Plumley e Stone - recentemente confermati
dalla minuziosa indagine della Manzari - suggeriscono che l’Alberti dovette aver
acquistato il manoscritto già a Roma, presso la curia papale, dove lavorava già
dalla metà degli anni Venti; da qui egli lo portò a Firenze nei primi anni Trenta,
facendovi probabilmente efettuare delle aggiunte (tra le quali le composizioni
di Baude Cordier, compreso il celeberrimo rondeau a forma di ‘cuore musicale’,
nonché l’indice e altri brani). Quanto alle varie decorazioni marginali e ai disegni
come quello, veramente notevole, a c. 37, dei due gruppi di chierici cantori e del
cavaliere al centro, la più recente opinione degli esperti di miniatura è che essi
siano precedenti a tale periodo, opera di artisti attivi nella cerchia dei papi romani
(Bonifacio IX) oppure pisani (Alessandro V) entro la prima decade del Quattrocento. Le questioni relative alle “aggiunte” posteriori fatte al codice Chantilly
rimangono comunque ancora aperte, giacché non possiamo sapere con esattezza quale e quanta parte ebbe in questo Francesco d’Altobianco: ad esempio, la
parziale corrispondenza e le analogie tra queste aggiunte in Chantilly e quelle
apposte intorno al 1430 al codice iorentino Panciatichi 26 della Nazionale di
Firenze (cioè il gruppo di pezzi francesi consecutivi alle carte 103v-108 di questo
codice, chiamate da Stefano Campagnolo inserzioni di mano F e G), potrebbero
suggerire - come fa Campagnolo sulla scorta di un ragionamento fatto a suo
tempo da Pirrotta e poi da Michael Long - che anche Panciatichi «sia stato nelle
disponibilità della stessa famiglia Alberti». Tuttavia qui siamo nel campo delle
mere ipotesi, e si vede bene come la strada per confermare la connessione tra gli
Alberti, la loro villa Paradiso, e quest’altra, importantissima fonte dell’Ars nova
italiana (senz’altro la più importante per Landini), sia ancora lunga da fare e meritevole di accurate indagini supplementari.
Che poi Francesco d’Altobianco avesse dimestichezza anche proprio personale con la poesia per musica francese è provato dal fatto che adoperò locuzioni
della lingua d’oltralpe nelle sue proprie liriche, nonché dal fatto che si cimentò
anche in alcuni rondeaux (‘rondelli’) su testo italiano (trasmessi dal cod. Conv.
Sopp.C.1.1746 in una sezione appositamente rubricata ‘Cominciono Ballate e
rondelli’): si tratta di esempi piuttosto rari di testi modellati metricamente sui
rondeaux d’oltralpe91 ma vergati in lingua italiana e per questo assimilabili ad
alcuni brani musicati da Du Fay e da altri compositori coevi e trasmessi nel citato
codice Oxford 213.
Il suo interesse per l’Ars nova iorentina appare anche confermato dalla sezione conclusiva della sua silloge di Rime contenuta nel codice Conventi Soppreslibri ad istituzioni ecclesiastiche, tra cui si registra «uno quaderno votivo da cantare, et parechie
quaderne da cantare e da legere». Su di lui e su questi documenti cfr. J. Caferro, he Spinelli of
Florence, cit. pp . 308 e 331, oltre a Appendice, lettera 23.
91
Vi richiamarono l’attenzione F. Bausi - M. Martelli, La metrica italiana. Teoria e storia,
Le Lettere, Firenze 1993, pp. 129-30.
Gli Alberti e la musica tra Tre e Quattrocento
193
si, che contiene, appunto, anche testi di ballate di tipo arsnovistico. Secondo il
Decaria, la presenza delle ‘canzone tonate’ e delle altre rime di matrice musicale
nel codice Chigiano, andrà spiegata ipotizzando che esse fossero contenute, appunto, nel perduto antigrafo comune tanto a questo codice quanto al ms. Conv.
Sopp.1764 (e forse in parte anche al ms. Magl. 1041, o meglio alla fonte tardo-trecentesca da cui questo codice copiò). Ed è lecito ipotizzare, a questo punto, che tale antigrafo fosse nella disponibilità di Francesco d’Altobianco; il quale,
oltre a possedere il codice Chantilly, avrà potuto detenere, nella sua non inima
biblioteca personale, anche una collezione di poesie musicali italiane, dalla quale
ricopiare qualche brano, probabilmente perché collegato alle rime del suo illustre
zio Antonio. Considerando poi che nessuno dei testimoni letterari a noi pervenuti trasmette il ciclo nella sua interezza, potremmo dire di trovarci di fronte a
un caso, peraltro molto comune tra le sillogi di poesia tardo-trecentesca,92 in cui
l’originale - verosimilmente musicale - conteneva una raccolta di brani più ricca
di quanto oggi non traspaia, la quale non è passata integralmente in nessuno dei
manoscritti derivati (letterari), probabilmente per efetto della selezione dovuta
ai compilatori di altri intermediari. Quale isionomia, poi, dovesse avere questa
perduta silloge musicale, è materia di pura speculazione.
D’altronde, l’attestazione nel Chigiano del testo di una ballata musicata da
Paolo (Or sie che può, com’a voi piace sia), la cui intonazione è trasmessa dal codice
‘Pit’ e da ‘SL’,93 induce a rilettere, visto il carattere notoriamente molto circoscritto nella trasmissione delle opere di Paolo. In efetti questa ballata, peraltro
non particolarmente originale ai nostri occhi (se ne veda la trascrizione più oltre, da cui peraltro rilevo la possibilità che il v 6: «ch’a me dolente par pur cosa
nova», citi in senhal ancora una volta l’onnipresente dama ‘Cosa’), dovette godere
di particolare fortuna e di una circolazione anche extra-musicale, giacché la ritroviamo trascritta in almeno due sillogi letterarie (oltre al Chigiano, ancora il
Magliabechiano 1041, qui con l’eloquente rubrica ‘sine nomine’, riferibile al poeta o all’intonatore?), entrambe possibilmente dipendenti dallo stesso antigrafo.
Eccone il testo secondo la versione-Chigi, con la registrazione delle varianti (per
lo più meramente graiche) di ‘Pit’:
Su questo cfr. lo studio capitale di Barbi, sopra citato.
D’altronde Paolo è un compositore completamente ignoto ai, o ignorato dai, compilatori
del codice London, con un solo suo brano attestatovi, mentre è noto che ‘Pit’ sia la fonte maggiormente rappresentativa per le sue composizioni; cfr. su questo: N. Pirrotta, Paolo Tenorista,
in a new fragment of the Italian Ars Nova, Gottlieb, Palm Springs 1961; J. Nádas, Song Collections
in Late-Medieval Florence, cit.; e Id., he Songs of Don Paolo Tenorista: he Manuscript Tradition,
in In cantu et in sermone. A Nino Pirrotta nel suo 80° compleanno, a c. di F. Della Seta e F. Piperno,
Olschki, Firenze 1989, pp. 41-64; B. Brumana e G. Ciliberti, Le ballate di Paolo da Firenze nel
frammento Cil, «Esercizi: Arte musica spettacolo», 9, 1986, pp. 5-37; G. Carsaniga, I testi di Paolo
Tenorista (nuove proposte di lettura), «Studi e Problemi di Critica Testuale», 40, 1990, pp. 5-22;
voce ‘Paolo da Firenze’ di D. Fallows in he New Grove, second edition.
92
93
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Or sia che può, come a voi piace sia;94 [Pit: sie… com’a]
ch’io so pur che mal face, [Pit: pur so]
donna, chi tanta fe’ sì tosto oblia.
Ditemi qual cagion partir vi muova [Pit: mova]
dal bel disio in che v’accese Amore;
ch’a me dolente par pur cosa nuova [Pit: nova]
fuggir chi v’ama con perfecto core. [Pit: fugir…perfetto]
Così mi truovo, lasso, in gran dolore [Pit: trovo]
po’ ch’a’ vostr’occhi spiace [Pit: po’c’a’]
ch’io lor fedel soggetto, amando, sia. [Pit: subgetto]
Quanto allo stile musicale, il suo arrangiamento a due voci e le cadenze musicali poste chiaramente alla conclusione dei versi sembrerebbero connotati di un
pezzo, se non giovanile, quantomeno convenzionale, ferma restando la spiccata
vivacità ritmica in entrambe le voci, che è peraltro cifra caratteristica di tutta
l’opera di Paolo.
L’accenno conclusivo a don Paolo di Marco, ‘tenorista’, da Firenze, ci riporta
ancora una volta al discorso sul mecenatismo albertiano ed in particolare alla
chiesa-oratorio annessa all’Orbatello, istituzione di cui il compositore-sacerdote
fu rettore a partire almeno dal 1417, se non anche da prima, quando egli era già
abate del convento benedettino di San Martino al Pino in val di Chiana (territorio iorentino ma diocesi di Arezzo), nonché consigliere arcivescovile a Firenze. Grazie al fondamentale studio di Günther, Stinson e Nádas95 sappiamo che
presso questa chiesa - allora retta, come detto, dai Capitani di Parte Guelfa - il
‘reverendus pater Dominus Paulus abbas’ spese la stagione matura della sua non
breve vita (essendo nato nel 1355, mentre del settembre 1436 è la redazione del
suo testamento), dedicandosi ai pii uici, all’amministrazione della curia, ma anche (ancora) alla musica (perlomeno a quella liturgica) e alla copiatura di codici.
All’Orbatello, infatti, Paolo sicuramente preparò e ordinò (“composuit et ordinavit”) lo splendido antifonario (per la verità: Graduale Temporale e Santorale per
l’intero anno liturgico) ora Ms. Douai, Bibliothèque Marceline Desbordes-Valmore, ms. 1171, miniato da Bartolomeo di Fruosino nello scriptorium di Santa
Maria degli Angeli,96 aine nello stile iconograico al corale Laur. Asbhurn. 999
94
L’incipit ricorda la ballata del bolognese Taddeo Pepoli Or sia che può e sia com’a voi piace, già
edita nella classica antologia del Carducci (Cantilene e ballate, strambotti e madrigali dei secoli XIII
e XIV, Tip. Nistri, Pisa 1871, p. 319); il testo mostra altre analogie con quello di un’altra ballata di
Paolo, e cioè Se già seguir altra.
95
U. Günther, J. Nádas, J. Stinson, Magister Dominus Paulus Abbas de Florentia: New Documentary Evidence, «Musica Disciplina», 41, 1987, pp. 203-46; e anche Nádas, he Songs of Don
Paolo Tenorista: he Manuscript Tradition, cit., pp. 41-64.
96
Se ne veda lo studio più recente a c. di A. Labriola, Il Graduale-Antifonario della chiesa di
Orbatello miniato da Bartolomeo di Fruosino, in L’Ospedale di Orbatello, cit., pp. 209-19. Cfr. anche il
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195
per Santa Lucia dei Magnoli e al ‘Messale Acciaiuoli’.
Il bellissimo libro fu ricordato nell’Inventario «delle chose che sono nella
chiesa d’Orbatello nelle mani del abate Pagholo», stilato nel 1431 da Niccolò
degli Albizzi, allora provveditore della Parte Guelfa, e descritto, insieme ad altri
libri liturgici, come «libro rosso chon più messe miniato e notato bello». Una
miniatura raigurante un ‘monaco orante’ (c. 60v) farebbe pensare all’abito indossato dai Camaldolesi del convento degli Angeli; mentre un’altra miniatura
con San Nicola (c. 84) sembrerebbe alludere a Niccolò di Jacopo degli Alberti,
il benemerito fondatore di Orbatello. Un gesto di omaggio, pittorico e musicale,
all’illustre famiglia.
volume Nuovi studi sulla pittura tardogotica. Intorno a Lorenzo Monaco, Atti del Convegno (Fabriano-Foligno-Firenze, giugno 2006), a c. di D. Parenti e A. Tartuferi, Sillabe, Livorno 2007.