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F. Coden (a cura di): Minima medievalia 51 Il sarcofago altomedievale dell’HUMILIS SERVUS di Cella di Ovaro (Udine): la scoperta archeologica, la morfologia del manufatto, l’epigrafe (1) (Alfredo Buonopane, Fabio Coden, Gilberto Dell’Oste) (Figg. 1-8) Il casuale rinvenimento della tomba (2) Il rinvenimento del sarcofago di Cella di Ovaro, del tutto fortuito (Fig. 1), risale al novembre 1972, ed è avvenuto nel corso dei lavori di sistemazione della viabilità interna eseguiti dalla ditta Luigi Nigris di Tolmezzo; come risulta dagli atti conservati presso l’archivio comunale di Ovaro (3), la ditta aveva stipulato il contratto d’appalto il 22 gennaio 1972 e i lavori dovevano procedere speditamente, incalzati dall’imminente arrivo dell’inverno. Secondo alcune testimonianze dell’epoca, il mezzo meccanico impegnato ad ampliare il tracciato viario adiacente la parete nord della chiesa urtò una lastra di pietra e gli operai si accorsero che il terriccio circostante stava sprofondando in una cavità, perciò i lavori si arrestarono temporaneamente e alcuni abitanti del luogo poterono avvicinarsi per constatare la presenza di una sepoltura antica di cui non vi era memoria: i testimoni riferirono che la fossa conteneva due scheletri umani aiancati e tra i due corpi vi era un oggetto metallico appuntito, di forma allungata, simile a una punta di lancia o ad un coltello; il manufatto, poi disperso, aveva un colore scuro ma non presentava segni di corrosione, perciò alcuni pensarono che si trattasse di un oggetto in bronzo. Riguardo all’iscrizione presente sulla lastra di copertura, fu richiesto il parere del prof. Pietro Menis, allora direttore del Museo diocesano, che ipotizzò una datazione tra X e XI secolo (4). Durante l’estate 2016, è stato possibile intervistare il dott. Antonmarco Covassi, al tempo medico presso l’ambulatorio di Ovaro, il quale ricorda di essere stato invitato sul luogo dai carabinieri del comando di Comeglians per un rapido esame degli scheletri rinvenuti nella sepoltura: questa testi(1) Gli autori desieranno in questa sede ricordare e ringraziare tutti coloro che hanno generosamente contribuito a ricostruire le vicende legate a questo ritrovamento archeologico: dott.ssa Angela Borzacconi (Museo Archeologico Nazionale di Cividale), don Giuseppe Carniello (Pieve di Gorto), dott. Antonmarco Covassi (Ovaro), Terzina Grazioso (Cella di Ovaro), Palmira Marchetti (Cella di Ovaro), Paolo Marin (Comeglians), Mattia Primus (Clavais di Ovaro), Paolo Querini (Associazione Archeologica Cjanal di Guart, Ovaro), Emilio Tronchin e Ezio Lepre (Associazione Planelas e Scugjelas, Museo della Fornace di Cella di Ovaro). (2) Il primo paragrafo di questo contributo è di Gilberto Dell’Oste. (3) Archivio del Comune di Ovaro, b. “1973. Lavori di sistemazione, allargamento e bitumatura di strade comunali interne”, cat.X, cl.1. (4) Felice 1973, p. 5. 52 Atti Acc. Rov. Agiati, a. 266, 2016, ser. IX, vol. VI, A Fig. 1 - Pianta del villaggio di Cella di Ovaro (elaborazione graica di Sara Scalia, Università di Verona). F. Coden (a cura di): Minima medievalia 53 monianza è particolarmente importante, poiché conferma la presenza di due corpi aiancati, uno dei quali poteva misurare circa 180 cm, mentre l’altro si attestava a circa 160 cm; il medico ricorda di aver avuto pochi minuti di tempo per osservare la sepoltura e riferisce che, in seguito, le ossa sarebbero state sepolte accanto al muro perimetrale della chiesa; tuttavia non è stato possibile individuarne la collocazione esatta (5). Per quanto riguarda il sarcofago, la base e le lastre laterali furono recuperate integralmente, ma la copertura era stata gravemente danneggiata dall’azione dei mezzi meccanici e in buona parte asportata, tanto che se ne sono conservate soltanto poche porzioni (una delle quali fu raccolta da un abitante del villaggio, l’altra fu recuperata grazie all’intervento dei sacerdoti della Pieve di Gorto, mons. Lorenzo Dentesano e don Giuseppe Cargnello, dopo che il materiale del cantiere era stato trasferito in un’area di deposito inerti presso il ponte di San Martino). Le lastre furono conservate per diversi mesi nel cortile di Virgilio Grazioso, a pochi metri di distanza dal luogo del ritrovamento, quindi furono trasferite presso il Museo Archeologico Nazionale di Cividale del Friuli nel marzo 1974 (6). Inine, nel settembre 2003, il sarcofago è stato restaurato a cura del Centro Regionale di Catalogazione e Restauro dei Beni Culturali su progetto della ditta Esedra di Udine (7) e successivamente collocato entro la chiesa di San Martino di Ovaro, dove ancora oggi si trova (Fig. 2). Nel corso degli anni Ottanta, durante un lavoro di sistemazione del terreno all’esterno dell’abside della chiesa di Cella, Virgilio Grazioso raccolse alcuni frammenti di pluteo in calcare grigio e un frammento di capitello in dolomia cariata risalenti ai secoli VIII-IX (8), ora conservati entro il Museo della Pieve di Gorto e probabilmente appartenuti all’antica chiesa di Santo Stefano di Cella, così che pare logico porli in relazione con la presenza del sarcofago; alcuni anni più tardi, egli dispose di consegnare al sacerdote anche un calco in argilla di età moderna recante un’immagine sacra, ora conservato presso il Museo della Fornace di Cella, riferendo di averlo raccolto all’interno della sepoltura altomedievale. La chiesa di San Rocco di Cella, accanto alla quale è stato rinvenuto il sarcofago, oggi presenta una struttura tardo gotica, ma sin dal XIV se(5) A futura memoria del luogo della nuova sepoltura, in prossimità della cappella absidale, fu graita una croce sui conci dello zoccolo del tempio, la posizione della quale non è stato possibile recuperare, poiché negli ulteriori lavori di restauro seguiti al sisma del 1976 fu stesa una cortina uniforme di cemento sulle murature. (6) Calligaro 1996, p. 94, nota 34. (7) Archivio del Museo Archeologico Nazionale di Cividale, docc. 9 dicembre 2002 e 2 settembre 2003. (8) Calligaro 1996, p. 91. 54 Atti Acc. Rov. Agiati, a. 266, 2016, ser. IX, vol. VI, A Fig. 2 - Il sarcofago di Cella, vista generale. Fig. 3 - Il sarcofago di Cella, vista dei resti del coperchio. F. Coden (a cura di): Minima medievalia 55 colo risulta attestata la presenza di un ediicio più antico dedicato a Santo Stefano; più precisamente, va detto che la chiesa attuale fu consacrata il 22 ottobre 1497 nel nome di Santo Stefano Protomartire e di San Rocco Confessore, e che per alcuni secoli l’ediicio fu menzionato indiferentemente con l’uno o con l’altro titolo, inché nel corso dell’Ottocento prevalse quello del Confessore. A quel tempo questa era la chiesa degli abitanti del comune di Agrons e Cella, mentre Santa Fosca di Agrons era una semplice cappella privata della famiglia Rovis (9). L’abitato di Cella è una piccola frazione del comune di Ovaro (Ud), tra i monti della Carnia; si trova al fondo valle (494 m slm), sulla destra orograica del torrente Degano. Proprio come il vicino villaggio di Agrons, Cella oggi conta appena una cinquantina di abitanti. Tutto lascia supporre che questi villaggi avessero dimensioni assai modeste anche in età medievale, tuttavia bisogna osservare che nelle vicinanze vi erano due ediici religiosi di notevole importanza: circa 300 m a sud del paese, infatti, sorge il colle dell’antica pieve matrice di Santa Maria di Gorto, e a poco più di 1 km di distanza in direzione nord, presso la chiesetta tardo gotica di San Martino, recenti scavi archeologici hanno portato alla luce una basilica paleocristiana risalente alla prima metà del V secolo e una necropoli altomedievale (10). Il sepolcro e il suo contesto (11) La scoperta abbastanza recente della sepoltura e la posizione un po’ deilata delle terre carniche rispetto ai principali centri di elaborazione dei linguaggi artistici altomedievali hanno fatalmente condizionato la fortuna storiograica di questo signiicativo e inconsueto manufatto: all’interno di sporadici e corsivi accenni, le ricerche si sono per lo più rivolte all’epigrafe, tralasciando nella maggior parte dei casi considerazioni più generali sull’opera. Indice primo di tale condizione sono proprio le alterne indicazioni relative alla cronologia, che viene attestata talvolta al IV secolo (12), fra la metà del VI e il VII (13), ino all’VIII, con qualche più precisa individuazione verso la metà del secolo (14), o più genericamente all’epoca altomedievale (15). (9) Lucchini & Roseano 2015. (10) Cagnana 2011 e Cagnana 2012. (11) Il secondo paragrafo di questo contributo è di Fabio Coden. (12) Bertone 2015, p. 12. (13) Rugo 1988, p. 402, seguito da Calligaro 1996, p. 91, e da Cagnana 2003, p. 220. (14) Sannazaro 2001, p. 260 e Cagnana 2011, p. 28. (15) Vannacci Lunazzi 1994, p. 56. 56 Atti Acc. Rov. Agiati, a. 266, 2016, ser. IX, vol. VI, A La mancanza di uno studio speciico su questo pregevole manufatto impone dunque di esordire con un esame puntuale di ogni parte che lo compone, al ine di orientare verso la conoscenza di alcuni aspetti del contesto culturale nel quale fu ideato, nonché di coadiuvare la ricostruzione virtuale della forma originaria, a propria volta passaggio obbligato verso l’identiicazione dei modelli di riferimento. Il sarcofago di Cella, a struttura di cassone con coperchio piano, si componeva in origine di sei grandi lastre monolitiche (16), delle quali quella del coperchio ebbe a subire i danni più consistenti a seguito del casuale rinvenimento negli anni Settanta del Novecento (17). Dopo essere stato frantumato dall’azione di una pala meccanica, molti dei suoi pezzi andarono dispersi poiché, assieme al materiale di risulta per la predisposizione della strada aperta sul ianco nord della chiesa di San Rocco, vennero trasportati in una discarica poco lontano dal luogo di rinvenimento (18): in questo modo andò smarrita oltre metà dell’unica parte decorata della tomba. Allo stato attuale, della tavola sommitale rimangono solamente quattro frammenti (19): tre sono di grandi dimensioni, perfettamente collimanti, e di certo riferibili ad una delle due testate; il quarto, di esigua misura, costituisce una piccola porzione di uno degli spigoli del lato opposto. Meno gravi furono i danni subiti dalle due lastre longitudinali, in entrambi i casi fratturate verticalmente, a metà circa della supericie; oltre a ciò si segnala qualche perdita di supporto negli spigoli e in prossimità delle rotture. Ciascuna tavola litica è tagliata in modo accurato nella parte superiore, mentre in basso mostra un grado di initura minore, ma le misure assai precise di ciascun pezzo confermano un sicuro impegno nella progettazione e una particolare cura nella realizzazione del manufatto (20) (Fig. 2). Già ad una sommaria valutazione, risulta evidente come, rispetto alle altre urne (16) Calligaro 1996, p. 91 e Sannazaro 2001, p. 259, contano otto lastre, forse poiché considerano integri i lati lunghi del manufatto. (17) Felice 1973, p. 5. (18) Al riguardo, vd. la prima parte dell’intervento. (19) Calligaro 1996, p. 91, del coperchio si conserverebbero solo due frammenti. (20) Per comodità d’identiicazione si è ritenuto di associare un codice univoco a ciascun elemento. Coperchio: 35 x 28 x 10,5 cm (C1, frammento con l’epigrafe orate); 48,5 x 45,5 x 10,5 cm (C2, frammento con la scritta deum); 69 x 56 x 10,5 cm (C3, frammento maggiore); 46 x 24 x 10,5 cm (C4, spigolo opposto), per uno sviluppo totale supposto di lungh. 200? x largh. 86 x sp. 10,5 cm. Lastra basamentale: lungh. 204 x largh. 89 x sp. 18 cm (B1). Fianco anteriore: largh. 184,5 x alt. 58 x sp. 12,5/9 cm (F1). Fianco posteriore: largh. 182 x alt. 58 x sp. 12,5/8,5 cm (F2). Testata sinistra: largh. 88 x alt. 58 x sp. 12,5/8,5 cm (T1). Testata destra: largh. 87 x alt. 58 x sp. 12,5/8,5 cm (T2). F. Coden (a cura di): Minima medievalia 57 altomedievali scoperte nella vallata (21), il volume del sarcofago manifesti una singolare maestosità (largh. 212 x prof. 88 x alt. 88 cm) (22), che prevede peraltro un vano sepolcrale interno altrettanto ampio (largh. 181,5 x prof. 59,5 x alt. 58 cm). Il grande lastrone inferiore, di davvero considerevole spessore, funge da base d’appoggio agli elementi che compongono il perimetrale della cassa, rispetto al quale però rimane un poco più arretrato: se i conci dei ianchi risultano perfettamente allineati al ilo esterno del basamento, le teste viceversa fuoriescono per circa metà del loro spessore. Le tavole che compongono i quattro lati sono inoltre assemblate in modo tale da non permettere in alcun caso il collasso della tomba: un accurato sistema d’incastri, formati da scansi praticati nella parte interna, in prossimità dello spigolo, per tutta l’altezza dei pannelli, a propria volta controbilanciato dalla spinta del terreno all’esterno del tumulo, impedisce che si veriichi qualche tipo di cedimento (23). Il coperchio, da quanto è stato possibile ricostruire, doveva in origine sporgere di circa 5 cm su tutti i lati. Il materiale che compone tutti i pezzi del sarcofago è calcare molto tenero, di colore rossiccio, localmente conosciuto come Tof di aga (tufo di acqua) (24), un litotipo di non particolare pregio, che si forma in un arco temporale abbastanza limitato, in stretta relazione con un corso d’acqua (25). Proprio lungo le rive del Degano, e segnatamente nelle vicinanze di Cella, sono documentati molti piccoli giacimenti di questa pietra, molto facile da estrarre e da lavorare. Non è escluso che proprio queste peculiarità, come pure il colore così caratteristico e fortemente evocativo, possano avere condizionato la scelta verso questa tipologia di roccia. Già ad un primo sguardo è possibile cogliere la consistente diferenza di lavorazione fra la parte inferiore delle lastre perimetrali, come pure della base, e la porzione superiore della cassa in prossimità del coperchio, sigillo compreso. In basso, il supporto litico appare malamente scolpito e la supericie, particolarmente scabra, riporta ancora chiaramente le tracce (21) Sull’argomento vd. soprattutto Cagnana 2008, pp. 448-449 e Cagnana 2011, passim. (22) Misure lievemente diferenti fornisce Calligaro 1996, p. 94, nota 34: largh. 212 x prof. 87, x alt. 76,5 cm. (23) Lo scanso è in tutti i casi di circa 6,5/8 x 1,5/3 cm. (24) Calligaro 1996, p. 91 e Sannazaro 2001, p. 259, interpretano la roccia come arenaria rosa, mentre per Cagnana 2011, p. 28, sarebbe breccia rossa d’incerta provenienza. (25) L’identiicazione del litotipo si deve a Paolo Marin di Comeglians, scalpellino della valle e profondo conoscitore delle tipologie rocciose presenti in zona, a seguito di un’accurata analisi del manufatto; egli ha inoltre cortesemente segnalato alcuni luoghi di estrazione di questo calcare sui ianchi della Val Degano. 58 Atti Acc. Rov. Agiati, a. 266, 2016, ser. IX, vol. VI, A degli utensili di cava e di lavorazione impiegati dallo scultore: sembra di scorgere talora le tracce dell’uso dell’ascia da taglio, anche se l’identiicazione di questo strumento potrebbe essere falsata dalla qualità della pietra; più sicuramente si distinguono i segni di grandi scalpelli appuntiti, soprattutto con andamento dall’alto verso il basso, che hanno lasciato solchi profondi e non sempre perfettamente rettilinei (Figg. 4-5). La porzione inferiore dell’arca è di sezione assai maggiore rispetto a quella in alto, la quale solo verso l’esterno corregge con una faccia lievemente inclinata le diferenze Fig. 4 - Il sarcofago di Cella, vista del ianco con i diferenti gradi di lavorazione della supericie. Fig. 5 - Il sarcofago di Cella, le tracce lasciate dagli strumenti di lavorazione della pietra. F. Coden (a cura di): Minima medievalia 59 di spessore ino al punto di appoggio del coperchio. Per circa 26/28 cm la cassa tutt’intorno si mostra inemente lavorata con una sistematica azione della gradina – s’individuano i segni di cinque o di sei denti piatti –, in special modo azionata in diagonale, che garantisce una initura omogenea della supericie. Metodologie analoghe di lavoro sono state rintracciate di recente nell’altare di Ratchis a Cividale, anche se in quel caso si sono dimostrate decisamente più articolate e scrupolose (26). Tutti gli spigoli, inoltre, perino quelli in basso, sono eseguiti con diligenza e altrettanto precisa è la lavorazione delle specchiature all’interno del loculo, di forma perfettamente parallelepipeda (27). La motivazione di tale diferente grado di preparazione potrebbe essere connessa alla primitiva sistemazione della tomba e quindi, nel contempo, alla sua fruibilità da parte dei fedeli della comunità locale: al riguardo viene il forte sospetto, infatti, che la parte sommitale, bene eseguita e lisciata, emergesse dal piano del terreno, mentre solo il settore più grossolanamente concepito fosse destinato a rimanere nascosto, poiché interrato. Questa ipotesi potrebbe trovare qualche conferma proprio nelle caratteristiche speciiche dell’apparato decorativo pensato per la faccia superiore del sigillo, nonché nel particolare tenore dell’iscrizione. Al riguardo, il solo elemento che si conserva quasi integralmente – e che rappresenta come detto l’unico aspetto considerato in sede critica – è una croce patente a bassorilievo (28), sistemata lungo la linea mediana della tavola, in prossimità della testa minore sinistra, sulla supericie della quale fu tracciata l’invocazione alla preghiera per il defunto: i quattro bracci aperti a coda di rondine – dei quali quello rivolto verso il centro della sepoltura è lievemente più corto, mentre gli altri tre presentano misure abbastanza coincidenti – si aprono in modo signiicativo solo in contiguità con la testa concava. Si osservi, per di più, che questa parte del coperchio era in origine credibilmente rivolta dall’altra parte, a destra, in quanto la corretta lettura del testo procede seguendo isicamente l’ordine del segno della croce: per tale motivo l’attuale braccio inferiore, con la richiesta orate, doveva trovarsi in alto. Uno stratagemma di questo tipo, tutt’altro che ignoto in epigraia, è documentato ad esempio nel sarcofago altomedievale di Barbola a Murano (29). Nondimeno, se si osserva con attenzione il frammento maggiore (C3) sarà possibile scorgere proprio vicino al margine di frattura – in special (26) Chinellato 2010, pp. 87, 357, igg. 73-74. (27) L’accurata lavorazione della pietra è sottolineata già da Cagnana 2011, p. 28. (28) Rugo 1988, p. 402; Sannazaro 2001, p. 260. (29) Calvelli 2014, pp. 28-29. Lo studioso cita inoltre altri casi, seppure di età più avanzata, a conferma di questa signiicativa impaginazione epigraica (Ivi, p. 29, nota 48.) 60 Atti Acc. Rov. Agiati, a. 266, 2016, ser. IX, vol. VI, A modo in condizioni di luce radente – i resti parecchio consunti dei bracci superiore e sinistro di un’altra croce, anch’essa sistemata lungo l’asse mediano della cassa e, a quanto si può ricostruire, identica per forma e misure a quella esistente (30). Di fatto, la distanza della croce 1 dallo spigolo sinistro del coperchio, l’intervallo fra le teste prospicienti dei due simboli cristologici a bassorilievo (31), nonché la grandezza dei bracci permettono di stabilire oltre ogni dubbio che quelli rintracciati sono gli esigui resti di una seconda igura (croce 2), originariamente sistemata proprio nel centro del coperchio. Resta da comprendere la ragione per cui si conservi così poco di quest’ulteriore motivo, nonostante la pietra intorno non mostri segni evidenti di consunzione, a parte la linea di frattura. Forse, a giudicare dall’aspetto scabro e ribassato di quanto resta dei due bracci, in un qualche momento non meglio precisabile la croce 2 fu intenzionalmente scalpellata per eliminare il contenuto della seconda parte dell’iscrizione, che è assai probabile riportasse il nome dell’ignoto personaggio per cui fu preparato in antico il sepolcro. In merito, è bene ricordare che all’atto della scoperta furono rinvenuti all’interno dell’avello ben due scheletri, integri e disposti in modo ordinato uno di ianco all’altro (32): quello di maggiori dimensioni si trovava a sud, mentre l’altro più piccolo era sistemato a nord, ma non fu possibile stabilire il sesso dei due defunti, né le cause della loro morte, per la fretta di sgomberare il sito e proseguire i lavori di preparazione della strada. La presenza di una sepoltura plurima è, nondimeno, in netta contraddizione con quanto viene precisato nella parte superstite dell’epigrafe, che ricorda di pregare Dio per questo suo “umile servo”. È destinata quindi a rimanere un enigma l’identità dei due occupanti individuati nel 1972: forse una delle due salme era efettivamente del più antico inquilino della tomba, ma non è pure escluso che entrambi i corpi appartenessero ad una fase di riutilizzo più avanzata, della quale il monile rintracciato e custodito ora presso il locale Museo della ceramica potrebbe suggerire una cronologia di (30) Di questo secondo elemento decorativo è possibile leggere abbastanza facilmente il proilo lievemente arcuato di due dei quattro bracci, dei quali quello rivolto verso la testa sinistra – ovvero verso la croce con la scritta – mostra chiaramente la testa concava, mentre dell’altro si intravvede invece solo una piccolissima porzione dello spigolo e uno degli apici della testa. La proiezione delle misure conferma la medesima grandezza dei bracci rispetto all’altro elemento conservato. (31) Dal punto più estremo della prima croce all’attacco di quella successiva, ci sono circa 51 cm. (32) La testimonianza oculare del dott. Covassi (vd. infra il contributo di G. Dell’Oste) conferma che all’interno del deposito i due cadaveri non erano mai stati coperti di terra, la quale fu introdotta nel vano unicamente a seguito dall’azione della ruspa. F. Coden (a cura di): Minima medievalia 61 piena età moderna (33). È credibile pertanto che possa essere stata proprio la necessità di riutilizzare il sepolcro ad indurre a cancellare deinitivamente l’iscrizione mediana, per evitare più o meno espliciti scambi di identità. Ritornando ora alla questione delle croci sul coperchio, è bene segnalare che, vista la presenza di un elemento su una testa (croce 1) e di uno esattamente al centro del coperchio (croce 2), è assai probabile ne esistesse un terzo dall’altra parte (croce 3, tabella epigraica, motivo decorativo?), vista la precisione quasi geometrica con cui furono organizzati i primi due elementi sulla supericie della tavola litica (Fig. 6). Ma è bene evidenziare che, seppure alcuni sarcofagi di epoca alta possano rendere plausibile questa ulteriore ipotesi, solo il ritrovamento delle parti mancanti del coperchio potrà togliere ogni dubbio in merito. Fig. 6 - Il sarcofago di Cella, restituzione della forma originaria (elaborazione graica di Sara Scalia, Università di Verona). (33) È intuizione di don Giuseppe Carniello che si tratti del calco di una delle tabelle di una croce argentea in uso alla pieve di Gorto. 62 Atti Acc. Rov. Agiati, a. 266, 2016, ser. IX, vol. VI, A Fra i più illustri esempi di casse con tre croci sul coperchio è opportuno ricordare quelle nella basilica di Sant’Apollinare in Classe “dei dodici Apostoli”, “dei dodici agnelli”, dell’arcivescovo Teodoro, nonché quella di “san Barbaziano” nella cattedrale ursiana, anche se in questi casi, in verità, su un campo di fondo neutro si stagliano tre grandi chrismon o un monogramma aiancato da due croci (34). Rimanendo nel medesimo contesto, sempre nella basilica di Classe, più puntuali sembrano i nessi con la tomba dell’arcivescovo Grazioso (con croci di varie grandezze prive di decorazioni, ricavate sul coperchio semicilindrico di un’opera antica, riconigurata per il prelato (35)), come pure con quelle di datazione più avanzata del Museo Nazionale, di “San Vittore” (con tre croci sul ianco principale, intervallate da arbusti e bordate da una treccia viminea (36)) e di un ignoto personaggio (sempre con tre croci assai consunte terminanti a ricciolo (37)). Anche l’area alto adriatica conserva vari episodi con simboli cristologici, talvolta tracciati sulla cassa, altre sul coperchio, di recente analizzati nel dettaglio, fra cui merita citare soprattutto quello proveniente da Sant’Ilario (38). Inoltre, spingendosi ino alle Puglie, pare opportuno segnalare la tomba rinvenuta a Brindisi in via Casimiro, e attualmente al Museo provinciale della città, lievemente rastremata verso l’alto, e ornata con una croce a leggero aggetto, priva di decorazioni, in prossimità di ogni spigolo del coperchio e un’altra su una delle teste (39). Forte è la suggestione che questo sepolcro possa essere stato l’ultima dimora delle spoglie mortali di un prelato, credibilmente di rango elevato (40), come pare di intuire dai caratteri intrinseci dell’opera e dal tenore del messaggio epigraico. Alcune interessanti analogie sono riscontrabili con il testo tracciato sul coperchio del sarcofago di san Leo presbitero, a Voghenza, che ripete più volte l’invocazione alla preghiera, invero in modo un po’ scombinato, fra tre croci ricavate sui due spioventi del coperchio (41), come (34) Valenti Zucchini & Bucci 1968, pp. 35-36, n. e ig. 16 (metà del V secolo); Ivi, pp. 53-54, n. e ig. 47 (ine del VI secolo); Ivi, pp. 43-44, n. e ig. 24 (terzo quarto del V secolo); Ivi, pp. 36-37, n. e ig. 17 (metà del V secolo). Vd inoltre Lawrence 1970, pp. 6-8, 12-13, 22-24, 30-32, 34, 38, 44, igg. 2, 5, 6, 39-40, 67. (35) Valenti Zucchini & Bucci 1968, pp. 58-59, n. e ig. 61 (ine dell’VIII secolo); Lawrence 1970, pp. 3, 41, 48, ig. 71. (36) Valenti Zucchini & Bucci 1968, p. 60, n. e ig. 65 (VIII-IX secolo); Lawrence 1970, pp. 42, 48, ig. 72. (37) Ivi, p. 60, n. e ig. 66 (prima metà del IX secolo). (38) Agazzi 2005, pp. 566, 569, ig. 15. (39) Braccio 1987, pp. 65-66, n. 2, igg. 2-3 (VII secolo). (40) Cagnana 2011, p. 28. (41) Balboni 1968, pp. 15-20, part. p. 20. Sulla falda anteriore il testo riporta: sancs leo presb. hic peregrinus / dum vixi hoc amavi hoc dixi hoc scripsi / omnes dicamus F. Coden (a cura di): Minima medievalia 63 pure con l’epitaio di Leo da Santa Maria Podone di Milano (42). Più genericamente, croci con iscrizioni di vario genere sono bene attestate in epoca alta in vari depositi, come ad esempio in quelli di Savigliano (43), di Coli (44), di San Cassiano a Padenghe sul Garda (45), di San Vincenzo al Volturno46, ma altresì in contesti di diverso tipo, come sulla lastra da San Giovanni di Müstair (47) e sul timpano di Sant’Oreste al Sorate (48). Com’è stato speciicato sopra, la tomba fu rinvenuta lungo il ianco settentrionale di San Rocco (49), a circa -60/-80 cm dal piano di campagna degli anni Settanta del Novecento (50) (Fig. 7). La disposizione del sarcofago e quella della chiesa però non coincidevano, poiché se il primo risultava orientato con precisione ad est, l’ediicio scarta di ben 30° verso nord (51): evidentemente alla ine del Quattrocento qualche cosa di non gestibile nell’immediato condizionò pesantemente il progetto del nuovo tempio, obbligando a deviare di non poco il più consueto asse liturgico. Non sembrerebbe quindi sussistere una relazione diretta fra la sepoltura e la vicina San Rocco, anche se non è escluso che proprio a seguito dell’ediicazione della nuova fabbrica si sia deciso di riutilizzare l’antico tumulo. deo gratias semper / deo gratias semper deo gratias semper / haec requies mea in saeculum saeculi / hic habitabo quoniam preelegi eam orate / orate dum semper orate dum semper. Su quella posteriore: sancte leo presbiter / ora pro serbo tuo / custantio et ora pro me / orate pro serbo tuo malo. (42) Forcella 1890, p. 45. (43) Casartelli Novelli 1974, pp. 160-163, n. 92, tavv. LXXII-LXXIII, igg. 92a-b; Aimone 2010, pp. 103, 105, 111, ig. 3 (seconda metà del VII secolo); peraltro la forma dei bracci della croce, priva dei riccioli alle estremità, è molto simile a quella di Cella. (44) Destefanis 2008, pp. 237-243 e a p. 239, ricorda pure la lastra di Cella. (45) Sannazaro 2001, p. 261. (46) Catalano 2008, pp. 44-48, 84-85. (47) De Rubeis 2009, p. 287. (48) Raspi Serra 1974, pp. 105-106, n. 114, tav. LXXIII, ig. 130 (seconda metà dell’VIII secolo). (49) Diferente provenienza è segnalata da Bertone 2015, p. 12, che probabilmente confonde quest’urna con l’altra conservata ugualmente in San Martino, ma di fronte, lungo il muro nord. (50) A seguito dell’apertura della nuova strada i livelli furono trasformati, abbassandoli alla quota verosimilmente prossima a quella dell’alto medioevo. Le testimonianze raccolte in sito confermano, infatti, la presenza di un piccolo cimitero sistemato attorno alla chiesa su di una sorta di piccolo pianoro, che giungeva all’incirca alla sommità dello zoccolo di San Rocco. Di fatto, fu proprio la necessità di rendere meno ripida la via verso il iume Degano che richiese lo sbancamento di questa piccola terrazza, portando alla scoperta della tomba. (51) Le testimonianze oculari raccolte sul luogo confermano che lo spigolo posteriore destro della cassa distava non meno di 20 cm dal ianco della fabbrica, mentre quello anteriore si trovava a 100 cm circa; quest’ultimo, inoltre, distava 430 cm dalla facciata. 64 Atti Acc. Rov. Agiati, a. 266, 2016, ser. IX, vol. VI, A Fig. 7 - Cella di Ovaro, pianta della chiesa di San Rocco con evidenziato il punto di rinvenimento del sarcofago (elaborazione graica di Sara Scalia, Università di Verona). La particolare conformazione di questa cassa, con lastre indipendenti perino di grandi dimensioni, che ne rendono diicoltoso il reimpiego fuori dal contesto primitivo, la più che credibile originaria esposizione della parte superiore con le epigrai che invocano la preghiera per il defunto e forse esibivano il suo nome, il rapporto spaziale incoerente con l’attuale cappella, parrebbero indicare un nesso più diretto con la fase precedente del tempio rispetto a quella gotica, la cui intitolazione a Santo Stefano ereditata da San Rocco, potrebbe essere un’evocazione di sicura antichità (52). A questa (52) Lucchini & Roseano 2015, p. 33. F. Coden (a cura di): Minima medievalia 65 primitiva fabbrica appartennero certamente i resti di arredo liturgico, ora conservati presso il vicino Museo della Pieve, rinvenuti casualmente dietro la chiesa (53): nove sono piccoli frammenti litici in calcare con la faccia decorata a cani correnti o con intrecci viminei – uno dei quali, assai interessante, riporta sul resto di un listello piatto le lettere ne, di un’ignota iscrizione – e il decimo è la porzione di una pigna di coronamento, plausibilmente di ciborio: tutte opere ascrivibili fra l’VIII e il IX secolo. Forse per questa tomba privilegiata – condizione acquisibile, come si è avuto modo di enunciare sopra, grazie a molteplici fattori – si potrebbe sospettare una relazione di dipendenza con un oratorio funerario, che col tempo mutò la propria vocazione ino a divenire l’organismo ecclesiale di riferimento del piccolo villaggio. Anche se casi di questo tipo sono ben documentati in età alta nel nord della penisola e nei territori alpini circostanti, non è possibile oggi svelare alcun rapporto fra la sepoltura e la supposta prima fase di Santo Stefano, per la mancanza di un’accurata indagine archeologica sull’area (54). La singolare sobrietà del sarcofago di Cella, i cui unici motivi ornamentali sono costituiti dalle croci a bassorilievo del coperchio, suggerisce una cronologia a cavallo fra le epoche tardo longobarda e proto carolingia, quel particolare momento storico in cui poterono per breve tempo coesistere sia i caratteri schiettamente liutprandei, o più segnatamente desideriani, notiicati dall’epigrafe, sia quella ricerca di essenzialità insita nel richiamo all’antico, rilanciato e ampliicato proprio dalla cultura franca. L’ iscrizione incisa sui bracci della croce (55) Sui bracci patenti della croce, scolpita a bassorilievo sul coperchio del sarcofago, compare un’iscrizione di particolare interesse sotto più aspetti (Fig. 8), che è stata già pubblicata, ma con letture non soddisfacenti (56). Le lettere, in una scrittura posata, tipizzata e di prevalente impiego funerario, che è stata deinita “capitale longobarda” (57), alte cm 2,3 in r. 1, cm 3 in rr. (53) Sette dei dieci frammenti sono catalogati da Calligaro 1996, pp. 91-92, ig. 5, mentre tutti compaiono nel volume di Bertone 2015, pp. 42-45, nn. 3.12-3.20, seppure l’interpretazione appaia a volte non del tutto condivisibile. (54) L’inquadramento generale del fenomeno è dato da Brogiolo 2002, pp. 9-31. Per l’area svizzera meridionale vd. Andreetta 2016, part. pp. 121-125. (55) Il terzo paragrafo di questo contributo è di Alfredo Buonopane. (56) Rugo 1988, p. 402, ig. 2, n. 12; Calligaro 1996, p. 91, ig. 4 a p. 90; Sannazaro 2001, pp. 259-260, tav. I. (57) De Rubeis 2003, pp. 481-506, 487; Ead., 2008, pp. 405-407; Ead. 2011, pp. 7-15; Ead. 2013, p. 57. 66 Atti Acc. Rov. Agiati, a. 266, 2016, ser. IX, vol. VI, A Fig. 8 - Il sarcofago di Cella, vista della croce con l’epigrafe posta per l’humilis servus. F. Coden (a cura di): Minima medievalia 67 2 e 3 (la seconda I, nana, è di cm 1,9), sono state incise profondamente e con molta regolarità e presentano marcate apicature. Alcune di esse, come la a e la d di r. 1, la r e la o di r. 2, la s e la r di r. 3, sono interessate da profonde scheggiature, mentre la linea di frattura interessa soprattutto la r e la o di r. 2. Sotto l’aspetto paleograico si segnala la forma delle e con i due bracci e il tratto intermedio di uguale lunghezza, della m con il vertice delle due aste oblique convergenti verso il basso posto nell’interlinea, delle o di forma romboidale, e della s, caratterizzata inferiormente (la parte superiore è perduta), da un ampio semicerchio. La forma delle lettere (58), in particolare delle o, suggerisce, anche sulla base di alcuni confronti (59), una collocazione cronologica nell’VIII secolo d.C. (60). Questa la trascrizione orate pr[o] devm hvmili servo che leggo Orate Deum pr[o] humili servo 1-2 pro evm Rugo, Sannazaro, ma prima della e vi è un ampio spazio, dove rimangono tracce evidenti di una d; orate pro [-]leoni Calligaro, lettura assolutamente non giustiicabile e che, inoltre, è singolarmente in contrasto con il disegno, molto preciso, pubblicato a p. 90, fig. 4. 2. Della r sopravvive una porzione dell’occhiello. 3. hvm(i)l(i) Sannazaro, ma della prima i, anche se interessata da una profonda scheggiatura, si intravedono porzioni dell’asta, mentre la seconda è incisa con modulo ridotto nella parte superiore della riga, fra la l e la s; hum[.]l’ Calligaro. Come accennavo poc’anzi, i motivi d’interesse sono più d’uno: in primo luogo il fatto che l’iscrizione sia stata incisa sui bracci della croce sembra essere un caso raro, perché di questa pratica sono riuscito a trovare pochi confronti signiicativi, fra cui merita citare il sarcofago rinvenuto in località (58) Gray 1948, pp. 59-85; Kloos 1980a, pp. 169-182, tavv. I-III. (59) Come, a esempio, in area friulana, un frammento di coronamento di ciborio, rinvenuto nell’abbazia di Santa Maria in Sylvis a Sesto al Reghena (Pordenone): Lambert 1999, p. 91, ig. 33; si vedano, inoltre, i numerosi esempi riportati da Sannazaro 2001, p. 260, nota 27. (60) Kloos 1980b, pp. 114-119, in particolare la tavola 6 a p. 116; Id. 1980a, p. 178; Rugo 1988, ig. 2, nn. 9, 12; Sannazaro 2001, p. 260. 68 Atti Acc. Rov. Agiati, a. 266, 2016, ser. IX, vol. VI, A San Cassiano, presso Padenghe del Garda (Brescia) (61). In secondo luogo colpisce la circostanza che il lapicida (62), trovatosi nell’oggettiva diicoltà di distribuire armonicamente cinque parole nei quattro spazi disponibili sui bracci della croce, abbia optato per una soluzione graicamente originale e molto eicace, incidendo due parole per ogni braccio e inserendo, come in un castone, la preposizione pro nel punto d’intersezione dei bracci. Si tratta di una scelta che dimostra notevoli capacità di adattare il testo da incidere alla supericie disponibile e che testimonia, dunque, rilevanti e mature competenze oicinali, frutto di una lunga consuetudine a preparare e incidere sulla pietra epigrai destinate a soddisfare le richieste di una committenza elitaria (63). A tutto ciò si deve aggiungere che questa epigrafe, che è indubbiamente un’iscrizione “secondaria”, in quanto presuppone la presenza su qualche altra parte del sarcofago di un testo principale, contenente almeno l’onomastica del defunto, che ovviamente non poteva mancare, appartiene al novero delle iscrizioni “parlanti” o, meglio, “interpellanti” (64). Si tratta di iscrizioni che sono rivolte a un “fruitore, individuale o collettivo, interpellato allocutivamente come TU (o come VOS) e invitato illocutivamente a compiere determinate azioni” (65): nel nostro caso, il defunto, attraverso l’iscrizione, si rivolge al lettore invitandolo a pregare Dio per il suo umile servo (66). E proprio l’espressione humilis servus fa supporre che il defunto fosse un uomo di chiesa (67); se questa ipotesi cogliesse nel vero sarebbe un’ulteriore conferma di quel fenomeno di “ecclesializzazione della scrittura funeraria” che si difonde, secondo Armando Petrucci, dal VII-VIII secolo d.C. (68). (61) Qui, sul braccio orizzontale di una croce scolpita sul coperchio, compare l’iscrizione ((crux)) Crus (!) Chr(is)ti alere peccator(em): Sannazaro 2001, pp. 261-262, tav. II. (62) O, più probabilmente, in casi come questo, che denotano grande accuratezza e professionalità, dall’addetto (ordinator) alla preparazione l’impaginazione prima dell’incisione, che poteva, tuttavia, essere anche colui che poi eseguiva materialmente l’iscrizione: Di Stefano Manzella 1987, pp. 126-128. (63) Sull’impaginazione delle iscrizioni longobarde di committenza elitaria: De Rubeis 2013, pp. 57-64. (64) Sulle caratteristiche generali delle “iscrizioni parlanti” si vedano, anche se riferite a un’epoca anteriore, le considerazioni di Agostiniani 1982, pp. 21-44, 269-282, mentre di notevole interesse per l’epigraia medievale, pur se limitato alle testimonianze provenienti da Padova, è quanto scrivono Benucci & Foladore 2008, pp. 56-133. (65) Benucci & Foladore 2008, p. 75. (66) Per un confronto attestato a Padova e attribuito all’VIII-IX secolo: Benucci & Foladore 2008, pp. 78 n. 10a, 83, 92, 98, 99, 101. 107-108, 119. (67) Vd. ad esempio, Diehl 1970, I, pp. 364, 458, nn. 1851, 2364; Ivi, II, p. 182, n. 3343A (169). (68) Petrucci 1995, p. 50. F. Coden (a cura di): Minima medievalia 123 Bibliografia Agazzi M., 2005 - Sarcofagi altomedioevali nel territorio del dogado veneziano, in Medioevo: immagini e ideologie, atti del convegno internazionale di studi (Parma, 23-27 settembre 2002), a cura di A.C. Quintavalle, Milano, pp. 565-575. Agostiniani L., 1982 - Le ‘ iscrizioni parlanti’ dell’Italia antica, Firenze. Aimone M., 2010 - Note di epigraia altomedievale piemontese: un’ iscrizione carolingia poco nota dalle antiche cattedrali di Torino, in «Quaderni della Soprintendenza Archeologica del Piemonte», 25, pp. 103-117. 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VI, A Classe di Scienze umane Classe di Lettere ed Arti Accademia Roveretana degli Agiati edizioniosiride © 2016 Accademia Roveretana degli Agiati Palazzo Fondazione Cassa di Risparmio di Trento e Rovereto Piazza Rosmini 5, I-38068 Rovereto (TN) tel. +39 (0)464 43 66 63 - fax +39 (0)464 48 76 72 www.agiati.it segreteria@agiati.it © 2016 Edizioni Osiride Via Pasqui 10, I-38068 Rovereto (TN) tel. +39 0464 42 23 72 - fax +39 0464 48 98 54 www.osiride.it osiride@osiride.it Copertina, impaginazione e stampa: Osiride - Rovereto ISSN: 1122-6064 Tutti i diritti sono riservati. Non è concessa nessuna duplicazione di quanto pubblicato se non con permesso scritto degli Editori Direttore responsabile degli Atti Accademici: Giovanni Battista Faustini. 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Direttore degli Atti: Stefano Ferrari Pubblicazione realizzata con il contributo della Provincia Autonoma di Trento e con il patrocinio di: Comune di Rovereto Associato all’USPI - Unione Stampa Periodica Italiana Autorizzazione del Tribunale di Rovereto n. 36 del 7.7.1956 INDICE Cristina Benussi: Identità, conlitto e attraversamento: Chiara Ingrao e Nelida Milani sulla guerra (in Bosnia) ................ pag. 7 Paolo Bertelli: Giulia Gonzaga (1513-1566): l’immagine di una signora del Rinascimento un approccio iconograico ... » 25 Fabio Coden (a cura di): Minima medievalia ....................... » 49 Paolo Dalla Torre: lettere inedite di Ambrogio Rosmini all’abate Baldassare Martini ............................................. » 133 Paolo Driussi: Ungheria 1919: Béla Kun vola via ................ » 147 Ezio Filippi: Tre viaggi sul Nilo verso la metà dell’Ottocento » 167 Claudio Gallo & Giuseppe Bonomi: L’Avventura oltre l’Avventura. Emilio Salgari alchimista .................................... » 195 Giorgio Mario Manzini: Appunti sul gergo dei ragazzi lustrascarpe a Esmeraldas (Ecuador) ................................... » 215 Roberto Pancheri: hea Casalbore Rasini (1893-1939): una scultrice milanese tra verismo e simbolismo ..................... » 225 ATTI ISTITUZIONALI Consiglio accademico per gli anni 2014-2018 ...................... pag. 259 Collegio dei Probiviri e Collegio dei Revisori dei conti ........ » 260 Albo dei Soci ........................................................................ » 261 Relazione del Presidente ...................................................... » 267 Relazione del Segretario ....................................................... » 273 Cronaca accademica .............................................................. » 277 Finito di stampare nel mese di maggio 2017 dalle Edizioni Osiride - Rovereto (TN) Printed in Italy