De mo c ra zia e Sic ure zza – De mo c ra c y a nd Se c urity Re vie w
ISSN: 2239-804X
a nno VII, n.1, 2017
da ta di p ub b lic a zio ne : 31 ma g g io 2017
Sa g g i
Sic ure zza e lib e rtà : ma rg ini
e o rizzo nti d i (b uo n) se nso ,
c o n uno sg ua rd o c o mp a ra to
*
d i Ga b rie le Ma e stri **
1. Introduzione
Il rapporto tra sicurezza e libertà si pone di certo come decisamente de‐
licato – non a caso si è parlato, in modo autorevole, di «difficile conviven‐
za» (De Vergottini 2004) – quale che sia il punto di vista che si voglia adot‐
tare. A ben riflettere, infatti, sicurezza e libertà sono due valori – anche se,
Il presente contributo è la rielaborazione dell’intervento conclusivo della prima gior‐
nata del workshop internazionale Sicurezza e libertà: nuovi paradossi democratici nella lotta al
terrorismo internazionale (Palermo, 26‐27 settembre 2016). Contributo su invito. L’autore rin‐
grazia Raffaella Leonardi, educatrice interculturale di Guastalla (Re), per le sollecitazioni
fornite e l’instancabile confronto con ragazzi e ragazze (alcuni dei quali hanno indiretta‐
mente contribuito a questo testo) che si sono trovati in Italia quando avevano pochi anni e,
con il tempo e il proprio impegno, lavorano giorno per giorno per sentirla come Paese (an‐
che) loro, essendo a pieno titolo “con” gli altri senza che si debba essere “come” gli altri.
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Dottore di ricerca in Teoria dello Stato e Istituzioni politiche comparate; dottorando
in Scienze politiche – Studi di Genere presso l’Università degli Studi Roma Tre.
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sull’uso di questo termine, si troverebbe poco d’accordo Zagrebelsky
(1992), preferendo parlare piuttosto di «principî» – o, se si preferisce, due
concetti che hanno alla base esigenze profonde dell’essere umano.
Alla base della sicurezza c’è il desiderio di vedere la propria vita e la
propria “sfera personalissima” intatte, senza che siano compromesse o
subiscano intrusioni da parte di chiunque. Al fondo della libertà – intesa
in senso lato – c’è invece il bisogno di avere certezza di poter vivere il
quotidiano e agire indisturbati come persone, prima che come cittadini
(facendo prevalere, guardando alla nostra Costituzione, quanto è consa‐
crato dall’art. 2 rispetto a ciò che è sancito dall’art. 3, che sul precedente
si fonda: Occhiocupo 1995, 32 ss., spec. 75 ss.), senza che lo Stato o altre
forme di potere si ritengano in diritto d’intervenire indebitamente.
La delicatezza di questo rapporto aumenta e si fa più manifesta se so‐
lo si considera che sicurezza e libertà si ritrovano, in qualche modo, alla
base anche delle due più note e studiate dottrine filosofiche in ambito
giusnaturalista. Il fine dell’obbedienza degli individui‐sudditi al sovra‐
no, infatti, «è la protezione» per Hobbes (1989, 185 ‐ XXI), per cui alla
radice di ogni modello giuridico c’è almeno la «volontà […] degli indi‐
vidui (contrattuale) di conservare la vita» (Palombella 1996, 38), dunque
la sicurezza – intesa in senso etimologico, come mancanza di preoccupa‐
zioni (sine cura) o, se si vuole, «paura della paura» (Filoni 2014, 110; v.
anche Cavalletti 2005, 58 ss.) – sulla conservazione di tale “sfera perso‐
nalissima”. Per contro, il concetto di libertà è centrale nel pensiero di
Locke, per il quale le leggi che gli uomini si danno hanno il compito so‐
stanziale di “tradurre” le leggi naturali e sono da concepire come stru‐
mento per «preservare ed estendere la libertà» (Locke 1960, 348; cfr. Az‐
zariti 2010, 328 ss.), a partire ovviamente – volendo estendere il discorso
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– da tutte quelle che noi oggi chiamiamo libertà “negative” o “dallo Sta‐
to”.
Pensando anche solo a questi rapidi – e certamente incompleti – rife‐
rimenti giusfilosofici, risulta chiaro che è del tutto inappropriato un ap‐
proccio al binomio conflittuale sicurezza‐libertà che tenda solo (o soprat‐
tutto) alla semplificazione del quadro, del contesto in cui esso si colloca.
Semplificare, infatti, in fondo significa togliere elementi a una composi‐
zione complessa e dall’equilibrio precario: ogni informazione, ogni par‐
ticolare (vale a dire ogni esigenza, preoccupazione, istanza, bisogno, …)
che si toglie dalla composizione generale, anche volendolo fare con le
migliori intenzioni – quali, ad esempio, cercare di rendere più compren‐
sibile una situazione anche a chi non la conosce a fondo – rischia seria‐
mente di compromettere la stabilità di quello stesso quadro, potendo far
bruscamente (e magari immotivatamente) prevalere le ragioni di una o
dell’altra parte agli occhi di chi osserva, legge o ascolta e, magari, vor‐
rebbe semplicemente capire meglio e non essere convinto da una tesi.
La questione, già delicata di per sé, lo diventa ancora di più qualora
s’innesti quel binomio conflittuale in un contesto pluriculturale, in cui
dunque si moltiplicano i punti e i motivi di frazione: alcuni individui
possono sentire la propria sicurezza minacciata da credenze, comporta‐
menti e atteggiamenti di altri soggetti, i quali a loro volta vorrebbero po‐
ter manifestare tutto ciò (che faccia parte o meno della propria cultura)
in piena libertà. Si rifletterà più avanti su questo punto, dando alla que‐
stione un taglio tanto teorico quanto pratico, con uno sguardo anche ad
altre realtà nazionali.
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2. (Meglio) prevedere o non prevedere?
Poste queste premesse, è inevitabile che il binomio sicurezza‐libertà
venga studiato in chiave necessariamente concreta, soprattutto con ri‐
guardo a situazioni “limite” o che a esse si avvicinano. Situazioni, in
particolare, in cui uno o più eventi (o, volendo, determinate condizioni
di fondo) fanno sorgere o accentuare una sensazione d’insicurezza che
richiederebbe delle risposte, con la consapevolezza però che dette azioni
di risposta finirebbero inevitabilmente per comprimere o compromettere
una o più libertà individuali o collettive: per questo, la scelta sull’an e sul
quomodo dell’azione è inevitabilmente di natura politica (Battistelli 2016,
XI).
Si qualifica come scelta politica anche quella sull’opportunità di rego‐
lare o meno situazioni etichettabili, in senso lato, come “stato di emer‐
genza”. Con quest’espressione intendo riferirmi a condizioni chiaramen‐
te straordinarie – nel senso etimologico di “fuori della norma” (extra or‐
dinem) – nelle quali la sicurezza dello Stato e dei suoi cittadini è messa in
tutto o in parte a rischio da una minaccia, quale che sia la sua natura:
può trattarsi di atti terroristici (di matrice interna o esterna, ma pur
sempre con effetti entro i confini nazionali), di pericoli per la salute pub‐
blica, di disordini interni o di altri turbamenti alla sicurezza. A dispetto
della loro varietà, peraltro, queste ipotesi hanno in comune il fatto che la
loro (potenziale) risoluzione richiederebbe misure che finirebbero per
sospendere, ledere o comprimere diritti e libertà dei singoli o delle for‐
mazioni sociali.
La scelta di cui parlavo, in realtà, non è tanto tra il prendere o non
prendere certi provvedimenti “in fase acuta”, dopo che la minaccia si è
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fatta concreta e ha richiesto una (re)azione da parte dell’ordinamento.
Mi riferisco piuttosto all’opportunità di prevedere o non prevedere in anti‐
cipo –ben prima che determinati fatti si verifichino – quale possa o deb‐
ba essere la risposta di uno Stato in caso di minacce e situazioni non or‐
dinarie. Il problema, individuabile con un po’ di attenzione da ciascun
cittadino, per un giurista si traduce essenzialmente nel «dilemma» – ri‐
prendendo l’espressione utilizzata da Laura Lorello (2017) come spunto
introduttivo e fil rouge di questo workshop – tra scrivere o non scrivere le
norme che regolano, soprattutto in senso procedurale, la risposta di un
ordinamento in quei frangenti.
Ciascuna delle due opzioni, ovviamente, ha i suoi lati positivi e negati‐
vi. Non codificare in una disposizione scritta (e, a monte, non prevedere)
quale potrà essere la risposta dell’ordinamento in situazioni considerabili
“di emergenza” non mette a disposizione di chi detiene il potere in un de‐
terminato frangente uno strumento per compiere potenziali abusi a pro‐
prio favore e a danno di chi si trova in disaccordo. Si ha buon gioco a pen‐
sare alla discussione in seno all’Assemblea costituente italiana, quando
non si volle prevedere nulla in Costituzione circa la dichiarazione dello
stato di pericolo pubblico – permettendo a una parte significativa della
dottrina di ritenere che la sospensione dei diritti di libertà fosse in con‐
traddizione con il concetto di democrazia (Buscema 2017) – e questo, pro‐
babilmente, fu fatto anche per non preparare una “pistola carica”, a di‐
sposizione delle maggioranze uscite dalle urne nella nuova era repubbli‐
cana per accentrare ulteriore potere e reprimere il dissenso.
È altrettanto vero, tuttavia, che le situazioni extra ordinem – per quan‐
to indesiderabili – possono comunque capitare e occorre in qualche mo‐
do far fronte a esse: in quei casi, alla domanda di sicurezza le istituzioni,
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non disponendo di previsioni ad hoc, cercheranno di rispondere con gli
strumenti a loro disposizione, anche quando non sono del tutto adatti
allo scopo (al punto tale che rischiano di subire una torsione di significa‐
to, di finire snaturati) e anche se possono dimostrarsi particolarmente
invasivi sul terreno dei diritti e delle libertà1. Si pensi, in Italia, all’uso
per nulla limitato dei decreti‐legge a fini securitari (Trogu 2017) e alla di‐
scussione in dottrina sul possibile impiego della decretazione d’urgenza
(anche) per derogare alle disposizioni costituzionali in materia di diritti
(Buscema 2017). Proprio la possibilità per chi detiene il potere esecutivo
di emanare atti con forza di legge, magari dall’immediata entrata in vi‐
gore, può rappresentare l’occasione per cercare di limitare i diritti rico‐
nosciuti a livello costituzionale, andando magari oltre ciò che appare
strettamente indispensabile, sostenendo che invece si tratti di dare rispo‐
ste alle richieste di sicurezza dei cittadini: al fondo del ragionamento sta
il meccanismo, purtroppo ampiamente sperimentato, per cui «la paura
costante […] rende il cittadino disponibile a subire perdite di diritti che
riterrebbe diversamente odiose e, come tali, insostenibili» (De Minico
2016, 3), mascherando dunque col velo della necessità ciò che, in altre
condizioni, sarebbe percepito come un abuso2.
Per un’analisi in chiave comparata di queste “deroghe con strumenti ordinari”, si
veda il lavoro documentato di De Vergottini (2004, 1191 ss.).
1
Gemma (1997, 109‐113) mette però da tempo in guardia dall’idea che «il potere
pubblico – meglio statuale – [sia] il soggetto costituzionalmente più pericoloso, cioè [sia]
il maggiore fattore di lesione, di violazione dei diritti di libertà», per cui quei diritti si
garantiscono al meglio limitando al massimo la potestà coercitiva dello Stato. L’autore fa
le sue riflessioni soprattutto in ambito penalistico, essenzialmente per enunciare una
propria teoria relativamente alla criminalità organizzata (come soggetto assai più perico‐
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Una logica simile, peraltro, si è riprodotta a livello comunale dal 2008
per alcuni anni, dopo la riforma – attuata, guarda caso, mediante il c.d.
“decreto sicurezza”, d.l. n. 92/20083 – dell’art 54 del Testo unico degli en‐
ti locali che aveva notevolmente ampliato i poteri di ordinanza dei sin‐
daci: in particolare, era stato stabilito che costoro potessero adottare
«provvedimenti anche contingibili e urgenti nel rispetto dei principi ge‐
nerali dell’ordinamento, al fine di prevenire e di eliminare gravi pericoli
che minacciano lʹincolumità pubblica e la sicurezza urbana». Sono note
le polemiche seguite a tale innovazione normativa che attribuiva, di fat‐
to, ai primi cittadini un potere di ordinanza anche “ordinario” (oltre che
straordinario, com’era stato anche in passato) e che aveva prodotto nel
giro di poco tempo una «lunga serie di ordinanze sindacali» sui temi più
disparati, riconducibili in vario modo all’ambito della «sicurezza urba‐
na» (Pirozzoli 2011; Mondino 2015, spec. 84‐96; per le ordinanze viste
anche in chiave comparata v. Selmini 2013). È stato necessario
l’intervento della Corte costituzionale, con la nota sentenza n. 115/2011,
per rimuovere dalla disposizione la parola «anche» e riportare i poteri
dei sindaci nell’alveo ristretto dei provvedimenti realmente emergenzia‐
li e straordinari, nel pieno rispetto del principio di legalità e della riserva
di legge (Iacovone 2012; Bellavista 2013; Manfredi 2013; Giupponi 2013;
Bova 2013).
loso dello Stato e del suo potere per l’integrità e la sopravvivenza dei diritti); le stesse
argomentazioni, tuttavia, potrebbero ben essere estese anche ad altri ambiti.
A onor del vero, il riferimento alla possibilità di emettere provvedimenti «anche»
contingibili e urgenti fu aggiunto in sede di conversione del d.l. n. 92/2008, dunque nel
corso della discussione della futura legge n. 125/2008.
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Tornando alle due opzioni di cui si parlava prima, l’alternativa alla
mancata previsione di strumenti e percorsi d’azione in caso di situazioni
extra ordinem è appunto il prevedere in anticipo – e per iscritto – la rispo‐
sta dell’ordinamento a situazioni e minacce straordinarie. È vero che, in
quest’ipotesi, si finisce per legittimare una qualche forma non ordinaria
di intervento, che nei timori di qualcuno potrebbe anche “andare oltre” e
sbilanciare il rapporto tra sicurezza e libertà in modo decisamente favo‐
revole alla prima, per di più “con la benedizione” dell’ordinamento; a
limitare queste paure, tuttavia, dovrebbe provvedere il fatto che proprio
la previsione di strumenti stra‐ordinari finisce per porre dei limiti a que‐
sti, per arginarli e “incanalarli”, se non altro per la previsione di proce‐
dimenti ad hoc (con il necessario intervento dell’istituzione parlamenta‐
re‐rappresentativa) perché si arrivi a uno stato di eccezione. Di più, si è
sottolineato che la stessa dichiarazione di quello stato, come risultato fi‐
nale dei procedimenti ricordati, fungerebbe da «notifica ai soggetti che
in qualche modo potrebbero risentire del mutamento di regime interve‐
nuto» (De Vergottini 2004, 1189), dunque costituirebbe un ulteriore ele‐
mento di chiarezza, nella delicatezza della situazione.
Da questo punto di vista, rileva innanzitutto la presenza di clausole
di deroga previste all’interno dei trattati stipulati al fine di proteggere i
diritti umani: come messo significativamente in luce da Salerno (2017,
111), se quegli accordi internazionali riconoscono comunque la possibili‐
tà che in certe condizioni possa essere a rischio l’esistenza stessa di uno
Stato parte e in quei casi si ritenga giustificabile derogare alle previsioni
dei trattati, è cosa buona che si conosca in anticipo la possibilità di que‐
ste misure speciali in tempo di emergenza, stabilendo nel contempo dei
limiti invalicabili a queste azioni e sottoponendo gli Stati deroganti
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all’obbligo di giustificare quegli interventi ai fini della salvezza dello
Stato stesso e non per il perseguimento dei propri interessi.
Quanto alle realtà nazionali, il caso spagnolo, espressamente trattato
in questo workshop (Lo Presti 2017), rappresenta molto bene l’ipotesi di
previsione – con largo anticipo – degli “stati di eccezione” (globalmente
considerati) anche mediante norme costituzionali, considerando pure la
sostanziale “unicità” di disposizioni come quelle nel panorama costitu‐
zionale comparato (De Vergottini 2004, 1188). Gli artt. 116 (relativo agli
stati di allarme, eccezione e assedio, di portata generale) e 55 (la sospen‐
sione individualizzata di determinati diritti per persone legate a indagi‐
ni su bande armate ed elementi terroristi) della Costituzione spagnola
prevedono in astratto strumenti di chiara matrice extra ordinem, il cui
contenuto è inevitabilmente precisato da fonti di rango inferiore4, ma
che già nel testo costituzionale prevedono alcune indicazioni nette e in‐
derogabili sul procedimento, che coinvolge sempre l’istituzione parla‐
mentare (e, nel caso della sospensione di diritti, prevede anche «il neces‐
sario intervento giudiziario»).
Anche un’impostazione di questo tipo, naturalmente, può avere dei
punti deboli: sempre l’esempio spagnolo torna utile per notare che, co‐
me messo ben in luce da Lo Presti (2017, 136), di fatto parte della stessa
disciplina costituzionale, in particolare quella dedicata alla sospensione
dei diritti per fatti di terrorismo (e quella attuativa delle norme costitu‐
Il riferimento, in particolare, è alla legge organica n. 4/1981 (per quanto riguarda gli
stati d’allarme, eccezione e assedio) e alle numerose leggi organiche che dal 1978 al 1988
sono intervenute a regolare – per la verità in modo piuttosto frammentato – la sospen‐
sione individualizzata dei diritti per ragioni di terrorismo (Lo Presti 2017, 145).
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zionali) appare «“cucita” a misura di un soggetto ben preciso» (Eta in
questo caso). In casi come questi, anche la scelta di prevedere le risposte
dell’ordinamento può dimostrarsi poco efficace nel momento in cui gli
strumenti messi a disposizione appaiono inadeguati ad affrontare minac‐
ce diverse da quelle che hanno ispirato le norme in esame.
Anche l’approccio più diffuso – quello che sceglie di non prevedere e di
non formalizzare regimi eccezionali, derogatori alla Costituzione – non è
comunque esente da problemi: proprio l’assenza di strumenti ad hoc per
l’emergenza impone che ci si interroghi con una certa serietà – sperando,
ovviamente, che le riflessioni restino senza applicazioni – su come uno Sta‐
to potrebbe comunque affrontare un’emergenza con gli strumenti che ha,
avendo sempre come argini della sua azione le norme costituzionali. Indi‐
viduare soluzioni adeguate non è un’operazione banale e non è un caso che
la dottrina non appaia compatta nel trovare quella più accettabile5: diventa
5 Per esempio, ancora con riferimento all’esperienza italiana, Buscema (2017, 53 ss.) –
dopo aver rilevato che per autorevole dottrina la dichiarazione dello stato di guerra ri‐
chiede «il concorso dei tre organi costituzionali caratterizzanti il particolare assetto poli‐
tico/costituzionale di ispirazione democratica dell’ordinamento» e dunque è rispettoso
dei valori di fondo del costituzionalismo moderno, ma non è una strada percorribile
quando la minaccia alla sicurezza sia soltanto interna– si domanda se l’esigenza di reagi‐
re a un atto terroristico o a una catena di atti simili crei non solo le condizioni per
l’esercizio legittimo della decretazione d’urgenza (il che è sostanzialmente accettato da
tutti), ma possa consentire anche di dettare norme che contrastino con principi fissati in
Costituzione, di fatto sospendendoli per il tempo di durata dello stato di crisi. Finiscono
per non risultare pienamente convincenti né la tesi che ritiene sufficiente la legge ordina‐
ria di conversione per “sanare” tutto (creando una categoria, quella dei “decreti con for‐
za costituzionale”, non prevista nella Carta, ma giustificata da una fonte – la necessità –
che prevale sulla legge), né quella che richiede la conversione con legge costituzionale ex
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chiaro, a questo punto, che affidarsi a tutte le disposizioni scritte non basta
più e occorre andare oltre o, se si preferisce, a ciò che sta “a monte”.
3. Questioni di “margine” e di (buon) senso
Nello studio del binomio conflittuale sicurezza‐libertà, sembra partico‐
larmente appropriato richiamare il concetto di “margine”: il sostantivo, in
questo caso, è da intendersi con un doppio significato. Il primo è quello di
«parte estrema», assimilabile al confine: inteso in quel senso, il “margine” si
presenta particolarmente labile e delicato, proprio perché è difficile tracciar‐
lo in modo definitivo e stabile, è soggetto a sollecitazioni che portano a mo‐
dellarne il percorso e, nei casi extra ordinem di cui ci stiamo occupando, non
mancano eventi che improvvisamente ne mettono in discussione la posi‐
zione e la stessa sopravvivenza (con un’evidente spinta a dare maggiore
spazio alla sicurezza). Così, certi comportamenti o certe scelte dei gover‐
nanti possono facilmente essere identificati come “sul margine” (sarei tenta‐
to di dire borderline, se l’uso diverso che normalmente si fa di questa parola
non potesse produrre qualche equivoco di troppo), a rischio cioè di valicare
il confine tra tutela della sicurezza e tutela dei diritti e delle liberta.
Il secondo significato è però ancora più rilevante: mi riferisco al margine
come «spazio, àmbito disponibile per qualcosa» (così recita l’ultima defini‐
zione dello Zingarelli): dovendo tradurre il concetto nelle questioni di cui ci
art. 138 Cost. (un sistema formalmente e valorialmente ineccepibile, ma contrario allo
spirito dell’art. 77 Cost. e sacrificando la tempestività necessaria in caso di emergenza).
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stiamo occupando, potremmo indicarlo come spazio rimesso
all’apprezzamento e – non di rado – alla discrezionalità dei decisori. Pro‐
prio la mancanza di regole preordinate per far fronte a minacce e situazioni
extra ordinem provoca la necessità per i soggetti investiti del potere di pren‐
dere comunque posizione e scegliere quali strumenti – tra quelli comunque
disponibili – utilizzare. Quel margine di apprezzamento, peraltro, finisce
per coinvolgere anche studiosi e commentatori, non chiamati a decidere ma
certamente a dare la loro valutazione sulle soluzioni da adottare e su quelle
effettivamente adottate; il fatto che non esistano strategie univoche è alla
base della non omogeneità del giudizio della dottrina.
Vari degli argomenti trattati qui, a ben guardare, hanno chiamato in cau‐
sa il concetto di margine. È il caso, ad esempio, della giurisprudenza della
Corte Edu in materia di applicazione dell’art. 15 Cedu (Salerno 2017, 119).
Da una parte, infatti, i giudici riconoscono al singolo Stato parte un margine
di discrezionalità, tanto per valutare se esista uno stato di emergenza, quan‐
to per decidere quali siano le misure di risposta più adeguate (proportionate):
si tratta, a ben guardare, di una sorta di applicazione del principio di sussi‐
diarietà, ritenendo che gli Stati – dando per presupposto che questi siano
fondati su valori quali la democrazia e la tutela dei diritti – siano in una po‐
sizione migliore per compiere queste valutazioni rispetto a qualunque or‐
gano convenzionale, proprio perché conoscono più da vicino la situazione;
agli Stati, insomma, tocca garantire i diritti (a costo di dover sospendere al‐
cune disposizioni Cedu per arrivare a garantire la sopravvivenza dello Sta‐
to e il successivo ripristino di una situazione ottimale di tutela), mentre alla
Corte spetta un ruolo di vigilanza e supervisione sul rispetto della Cedu.
Non sfugge, peraltro, che rimettere la (prima) valutazione sull’esistenza di
condizioni di emergenza allo Stato significa affidarla a un soggetto che è
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“parte in causa” e, inevitabilmente, ha tutto l’interesse a difendere se stesso;
un controllo più obiettivo sull’effettiva rispondenza dell’azione statale a
quanto previsto dalla Convenzione, dunque, è rimandato a un momento
successivo (e certamente, anche in quell’occasione, lo Stato parte difenderà
la bontà delle proprie decisioni).
Un altro significativo margine di apprezzamento è stato richiamato di
nuovo con riguardo all’esperienza spagnola, in particolare a proposito della
fattispecie e del procedimento di ilegalización dei partiti politici, introdotta a
seguito della Ley Orgánica sui partiti 6/2002 (Lo Presti 2017, 150 ss.). Va
premesso che il margine e la discrezionalità avrebbero potuto essere deci‐
samente più marcati se fosse stato ricompreso nel controllo di democraticità
anche un giudizio di legittimità “in astratto” sui programmi o degli obietti‐
vi dei partiti stessi (opzione che poi il legislatore, sulla scorta di varie pole‐
miche, ha poi escluso); lo spatium decidendi è comunque significativo con ri‐
guardo alle attività e condotte che possono portare alla dichiarazione di il‐
legittimità – e al conseguente scioglimento, sia pure dopo un’apposita deci‐
sione del Tribunal Supremo – così come enumerate dall’art. 9, par. 2.
Benché in dottrina si sottolinei che lo scioglimento sia un intervento vol‐
to «a garantire il corretto svolgimento del processo democratico» (da ultimo
Bonfiglio 2015 a, 20) e lo stesso Tribunal constitucional, su ricorso del gover‐
no basco, abbia ritenuto – con la sentenza n. 48/2003 – la disposizione legit‐
tima, proprio perché la valutazione di tale “illecito costituzionale” poggia
sull’esame di condotte concrete e non di semplici finalità astratte (Buratti
2003), non sembrano essersi dissipate del tutto le perplessità della dottrina
nei confronti della previsione dell’art. 9, par. 3, che enumera le condotte la
cui ripetizione o accumulazione rivela un legame con organizzazioni terro‐
ristiche (Cherchi 2003, 872, pur se in senso dubitativo). Pur nel rispetto di
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quanto affermato dal Tribunale costituzionale, che ha sostanzialmente “sal‐
vato” la previsione dell’appoggio tacito al terrorismo sottolineando che non
c’è alcun riferimento a programmi o agli ideali seguiti dal singolo partito,
non può sfuggire la delicatezza di una fattispecie sostanzialmente omissiva:
non si è certo in ambito penalistico (nel qual caso, forse, la valutazione del
Tribunal constitucional avrebbe potuto avere segno diverso) e l’accertamento
della strumentalità tra attività del partito e attività terroristiche spetta co‐
munque a un collegio giudicante autorevole, ma è evidente che anche solo
la possibilità che il Governo o il Pubblico ministero promuovano un proce‐
dimento contro un partito, con un inevitabile effetto mediatico negativo,
sulla base di semplici condotte (peraltro con una certa confusione tra com‐
portamenti dei singoli e condotte del partito) dovrebbe indurre a valutare
l’ipotesi con una certa cautela.
Ora, al di là della specificità del caso spagnolo in materia di partiti politi‐
ci – visto che, come è stato detto e come è facile verificare, coloro che hanno
proposto e sostenuto la legge organica 6/2002 volevano chiaramente arriva‐
re piuttosto in fretta allo scioglimento di Batasuna e degli altri partiti da
tempo accusati di essere il “braccio politico” dell’organizzazione terroristica
Eta… e ci sono riusciti in tempi effettivamente ridotti – sembra il caso di ri‐
conoscere che proprio l’esistenza dei margini di cui si è detto fin qui impo‐
ne da parte di tutti un grande esercizio di buon senso. Un parametro che non
sta scritto nelle costituzioni e nelle leggi (e, forse, ci mancherebbe soltanto
questo…), ma che non dovrebbe essere assente nell’applicazione delle stes‐
se ai casi concreti; dovrebbe essere, anzi, di comune e pacifica accettazione,
molto più – per intendersi – del logoro e del tutto inattuale concetto della
«diligenza del buon padre di famiglia», dall’evidente matrice romanistica
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ma – anche a causa della traduzione – divenuto ormai antistorico e fastidio‐
samente rivolto al passato.
Occorre buon senso, si diceva, ogni volta che si prevede qualcosa in
astratto e si deve passare al livello concreto. Ciò, volendo, è implicito nel
momento in cui – come è ben noto anche ai giuristi meno appassionati alle
riflessioni teoriche – si viene educati a distinguere, fin dallo studio dell’art.
12 delle «Disposizioni sulla legge in generale», la disposizione (dunque il te‐
sto normativo) dalla norma (vale a dire la lettura, l’interpretazione che di
quel testo si dà): il buon senso è quello che emerge dall’articolo citato nel
dettare i criteri ermeneutici da seguire (quello letterale, che chiede di atte‐
nersi al «significato proprio delle parole secondo la connessione di esse» e
quello finalistico, che – in subordine – si appoggia alla «intenzione del legi‐
slatore»); volendo, il buon senso – unito a una grande dose di prudenza,
anzi, etimologicamente di prudentia – dovrebbe valere anche di più per
quanto previsto dall’art. 12, comma 2 delle preleggi, il quale prevede, in
mancanza di disposizioni in cui far rientrare un caso al centro di una con‐
troversia (nemmeno con un’interpretazione estensiva di un testo esistente),
lo strumento dell’applicazione analogica di «disposizioni che regolano casi
simili o materie analoghe» (analogia legis) o addirittura, in caso di ulteriori
dubbi, dell’applicazione dei «principi generali dell’ordinamento giuridico
dello Stato» (analogia iuris). Più ci si allontana dal testo scritto, insomma, più
in tutti gli interpreti e – in particolare – nei decisori occorrono prudentia e
buon senso, ammesso che questi non siano una sorta di endiadi, come due
facce di una stessa medaglia.
Non stupisce allora che – per riprendere gli esempi fatti sin qui – sia da
invocare il buon senso per chi si trova a dover far fronte a uno stato di crisi
o di emergenza senza che siano stati approntati preventivamente strumenti
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e procedimenti ad hoc, per chi deve scegliere se avvalersi di una deroga
esplicita alle disposizioni di un trattato sui diritti per assicurare la soprav‐
vivenza dello Stato (buon senso da utilizzare sia nel decidere se la situazio‐
ne rientri nella fattispecie in cui è ammessa la deroga, sia nel considerare
quali diritti sospendere) e per chi è chiamato a valutare se chiedere o sen‐
tenziare la messa fuorilegge di un partito sulla base di determinati compor‐
tamenti concreti.
L’esercizio del buon senso è richiesto anche per il fatto che, in situazioni
come queste, è chiaro il bilanciamento tra istanze (generali o particolari) di
sicurezza da considerare e diritti (individuali o collettivi) da tutelare. Il sa‐
crificio almeno parziale delle une o degli altri è pressoché inevitabile, ma
non può – rectius: non dovrebbe – mai trasformarsi in sacrificio irragionevo‐
le o, volendo utilizzare un parametro quasi numerico, sproporzionato. Pro‐
prio il concetto di ragionevolezza può essere una delle traduzioni giuridi‐
che più appropriate di quello che, nell’esperienza quotidiana – quella che
non di rado si presenta come “brodo di coltura” delle sensazioni di insicu‐
rezza e delle conseguenti domande di sicurezza – è chiamato “buon senso”.
4. Un caso pratico, tra veli e burkini: uno sguardo alla Francia (e a casa
nostra)
Parlare di “buon senso” in ambito giuridico, anche se per qualcuno può
apparire poco opportuno dare ingresso a un parametro “atecnico”, può es‐
sere utilmente provocatorio nel momento in cui, tra l’altro, si costringe
l’interprete di una disposizione a interrogarsi su quale sia il reale orizzonte di
senso (cioè a cosa tenda o debba tendere davvero) di una previsione norma‐
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tiva cui il legislatore dia un significato, ben diverso – se non addirittura con‐
fliggente – rispetto a quello attribuitole da chi se la vede applicare.
Un esempio recente, peraltro con una rilevante storia alle spalle, risulta
emblematico da questo punto di vista. Le pagine di cronaca dell’estate scor‐
sa sono state invase (infestate, sarei tentato di dire) da un profluvio di pezzi
dedicati all’uso del burkini, particolare tipo di costume da bagno che del
corpo lascia scoperti solo viso, mani e piedi. Capi di abbigliamento simili (e
con nomi diversi) sono comparsi da molto tempo, già dalla metà degli anni
’90 e, con più frequenza e diffusione, dall’inizio del secolo attuale; quello
che ora è noto come burkini o burqini – brevettato dalla stilista australiana di
madre libanese Aheda Zanetti – circola da almeno una decina d’anni.
Già nel 2009, a dire il vero, si era assistito all’emissione di alcune ordi‐
nanze – evidentemente successive alla ricordata riforma dell’art. 54 Tuel e
precedenti alla sentenza n. 115/2011 della Consulta – contrarie all’uso del
più noto burqa, e una che bandiva il porto del capo di balneazione sopra ri‐
cordato6: tali provvedimenti avevano già destato un certo scalpore, avvian‐
Merita di essere ricordato che il caso scoppiò a Varallo, comune della Valsesia, in
provincia di Vercelli: a emettere l’ordinanza fu il sindaco allora in carica, Gianluca Buo‐
nanno, in quel momento anche deputato della Lega Nord e non certo sconosciuto alle
cronache politiche (precedenti e soprattutto successive) per uscite e boutade decisamente
provocatorie. In quell’occasione il provvedimento fu dettato da «motivi di carattere igie‐
nico‐sanitario, nonché di decoro e di tutela della serenità dei bagnanti, soprattutto dei
più piccoli». In senso nettamente critico nei confronti dell’ordinanza si espresse l’Ufficio
nazionale antidiscriminazioni razziali (Unar): le osservazioni si possono leggere alla pa‐
gina http://www.unar.it/unar/portal/wp‐content/uploads/2013/11/Divieto_uso_del__Burkini__‐
_Ordinanza_n._992009_Comune_di_Varallo_Sesia.pdf.
6
Sulla vicenda si sarebbe poi espresso Trib. Torino, sez. I civ., (ord.) 14 aprile 2014; la
decisione ha un rilievo limitato, perché in corso di giudizio il comune aveva revocato
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do un primo dibattito di natura giuridica (Lorenzetti 2010), che aveva mes‐
so in luce fin da allora come quella decisione fosse discriminatoria, ledendo
tanto la libertà personale quanto quella religiosa, senza contare che provve‐
dimenti di quel tipo (comprese le ordinanze anti‐burqa) di fatto introduce‐
vano una discriminazione fondata sul genere.
Quasi del tutto dimentichi di quel precedente – rievocato sulla stampa a
tempo debito – gli italiani si sono puntualmente allarmati quando i media
hanno fatto sapere che i sindaci di alcune località balneari francesi, a partire
dal noto comune di Cannes, tra la fine di luglio e l’inizio di agosto avevano
emesso ordinanze in base alle quali indossare tenute da spiaggia che osten‐
tassero un’appartenenza religiosa sarebbe stato considerato potenzialmente
foriero di rischi di turbe dell’ordine pubblico, essendo in quel momento la
Francia e i suoi luoghi di culto «bersaglio di attacchi terroristici»: ciò era sta‐
to ritenuto sufficiente per impedire l’accesso alla spiaggia e il nuoto a chi
l’ordinanza n. 99/2009 sostituendola con un nuovo provvedimento ritenuto non discri‐
minatorio, ma il giudice ha comunque riconosciuto – al di là delle questioni processuali
legate alla legittimazione delle parti – che la prima ordinanza «discriminava l’utilizzo di
un costume da bagno, sostanzialmente corrispondente (tranne che per il materiale di
fabbricazione) ad una muta da subacqueo (certamente mai vietata nelle strutture finaliz‐
zate alla balneazione), adottato espressamente da alcune credenti di religione islamica» e
che i cartelli inizialmente affissi a norma di quell’ordinanza (in cui erano sbarrate con
una croce le raffigurazioni di donne con niqab e burqa, consentendosi invece l’hijab, e si
vietava anche l’attività «a “vu’ cumpra’” e mendicanti») «erano certamente (e fortemen‐
te) discriminatori perché il divieto che dal cartello promanava veniva radicato tramite la
focalizzazione del messaggio (tra l’altro, dai forti contenuti anche nelle immagini figura‐
tive) soprattutto sulle minoranze femminili ed islamiche; divieto reso ancor più tagliente
dall’utilizzo improprio del simbolo del divieto di sosta (riferito a tutte le condotte vieta‐
te) che l’art.158 del Codice della Strada prevede per i veicoli e non per gli esseri umani».
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non fosse stato vestito «in modo adeguato, rispettoso del buon costume e
della laicità, delle regole d’igiene e della sicurezza dei bagnanti […]»7.
È probabile che una parte significativa degli italiani non fosse partico‐
larmente informata della situazione francese, improntata da molto tempo a
un modello assimilazionista, che richiede a tutti – cittadini e aspiranti tali –
l’adesione ai valori di fondo dell’ordinamento costituzionale, laicità in pri‐
mis; lo stesso approccio concepisce un unico modello astratto di “cittadino”,
privo di tratti identitari (se non, paradossalmente, l’essere francese) e di‐
stingue nettamente la sfera privata (in cui rientra pure il fenomeno religio‐
so) da quella pubblica (Cerrina Feroni 2015, 7‐8).
Proprio in quel contesto, già a partire dalla “legge sulla laicità” (n.
2004‐228) ispirata dall’allora presidente Jacque Chirac si era iniziato a discu‐
tere della questione del velo (inteso anche solo come hijab, quale uno dei
«segni o abiti con i quali gli alunni manifestano ostensibilmente
un’appartenenza religiosa», accanto ovviamente ad altri capi come la kippah
e, probabilmente, le croci molto vistose) proibito nelle scuole; si comprese
La citazione è tratta dall’arrêté del sindaco di Cannes David Lisnard, del 28 luglio
2016. Di seguito si riporta il testo diffuso dalle agenzie francesi: «Une tenue de plage
manifestant de manière ostentatoire une appartenance religieuse, alors que la France et
les lieux de culte religieux sont actuellement la cible d’attaques terroristes, est de nature
à créer des risques de troubles à l’ordre public (attroupements, échauffourées, etc.) qu’il
est nécessaire de prévenir. […] L’accès aux plages et à la baignade est interdit à compter
de la signature du présent arrêté jusqu’au 31 août 2016 à toute personne n’ayant pas une
tenue correcte, respectueuse des bonnes mœurs et de la laïcité, respectant les règles
d’hygiène et de sécurité des baignades adaptées au domaine public maritime. […] Le
port de vêtements pendant la baignade ayant une connotation contraire à ces principes
est également interdit. […] Toute infraction fera l’objet d’un procès‐verbal et sera punie
de l’amende de première catégorie, soit 38 euros».
7
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che era proprio il copricapo delle donne islamiche – anche nella meno inva‐
siva delle sue forme – l’obiettivo diretto non dichiarato ma ben identificato
dell’innovazione normativa, anche se al fondo ci sarebbe stato bisogno so‐
prattutto di spegnere e archiviare definitivamente la deriva comunitarista
che si era instaurata negli anni precedenti, caratterizzata da un processo di
progressiva “ghettizzazione” degli immigrati e delle loro seconde genera‐
zioni, ufficialmente composte da cittadini francesi ma con un’istanza identi‐
taria e religiosa molto forte a fronte di un’integrazione economico‐sociale
che la Francia non è stata (più) in grado di garantire.
Quello stesso fenomeno, a ben guardare, era la dimostrazione del falli‐
mento del modello assimilazionista, il cui destino non è stato più fortunato
di quello sperimentato dal multiculturalismo britannico (Maniscalco 2011,
65 ss.; Bonfiglio 2015 b, 27). La via della laicitè de combat fu comunque pro‐
seguita – all’Eliseo, nel frattempo, era arrivato Nicolas Sarkozy – con la leg‐
ge n. 2010‐1192, in base alla quale «nessuno può indossare negli spazi pub‐
blici capi di abbigliamento che nascondono il volto», così da renderlo sem‐
pre riconoscibile. In sede di controllo preventivo operato dal Conseil Consti‐
tutionnel, era emerso che il legislatore aveva ritenuto che il diffondersi delle
varie forme di velo (che rendano impossibile l’identificazione del volto) po‐
tesse «costituire un pericolo per la sicurezza pubblica», venendo ignorati «i
requisiti minimi della vita nella società», aggiungendo pure che la legge vo‐
leva essere una risposta alla «situazione di esclusione e di inferiorità mani‐
festamente incompatibile con i principi costituzionali di libertà e di ugua‐
glianza» in cui finivano per trovarsi le donne che nascondevano il volto;
l’organo, per parte sua, ritenne che il bilanciamento tra salvaguardia
dell’ordine pubblico e garanzia dei diritti costituzionali non fosse «manife‐
stamente sproporzionato», a patto che il bando del volto coperto in pubbli‐
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co non restringesse troppo l’esercizio della libertà religiosa nei luoghi di
culto aperti al pubblico (a pena di contravvenire eccessivamente all’art. 10
della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789)8.
A dispetto del pronunciamento del Conseil, quella legge continuò a esse‐
re avvertita come marcatamente anti‐islamica o comunque islamofobica.
Non stupisce dunque che questa sia finita all’attenzione della Corte Edu;
può sorprendere che quelle norme siano state considerate legittime, anche
se è decisamente importante leggere con cura le motivazioni riportate nella
sentenza per comprendere bene i ragionamenti del collegio, sebbene alcuni
passaggi dell’argomentazione continuino a risultare poco convincenti.
La Corte di Strasburgo9, in particolare, si era trovata a doversi esprimere
sulle doglianze della ricorrente, che – non potendo più girare interamente
velata (con il burqa o il niqab, indumenti che sosteneva di indossare per sua
scelta) – riteneva che la disciplina violasse gli artt. 3 (proibizione di tratta‐
menti inumani e degradanti), 8 (diritto al rispetto della vita privata e fami‐
liare), 9 (libertà di pensiero, coscienza e religione), 10 (libertà di espressio‐
ne), 11 (libertà di riunione e di associazione) e 14 Cedu (divieto di discrimi‐
Conseil Constitutionnel, décision n° 2010‐613 DC du 7 octobre 2010. Probabilmente
l’assenza, nella decisione, di riferimenti all’argomento legato alla discriminazione delle
donne velate ha indotto Abbondante (2015, 17) a concludere, acutamente, che «[l]a moti‐
vazione esclusivamente egualitaria non avrebbe reso compatibile la legge, secondo il
giudice costituzionale d’oltralpe, con i valori dell’ordinamento costituzionale». Sull’iter
travagliato della legge (emergente anche dalla sentenza della Corte Edu di cui si dirà),
con tanto di parere non proprio favorevole del Consiglio di Stato – che si era spinto an‐
che in un giudizio prognostico (negativo) sull’esame della legge da parte del Conseil Con‐
stitutionnel – per l’assenza d’una base giuridica chiara per il divieto, v. Bassetti (2012, 28).
8
9
Corte Edu, Grande Camera, 1° luglio 2014, ricorso n. 23835/11, S.A.S. c. Francia.
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nazione), quest’ultimo in combinato disposto con gli altri; costei rivendica‐
va il diritto a indossare quei capi di abbigliamento in base al proprio sentire
e a seconda delle circostanze, «per esprimere la propria credenza religiosa,
personale e culturale», non per «dare noia agli altri ma per sentirsi in pace
con se stessa», essendo peraltro pronta a mostrare il viso in caso di necessità
ai controlli di sicurezza.
Dichiarate inammissibili le censure relative agli artt. 3 e 11, la Corte ha
riconosciuto che la legge ha creato una limitazione o un’interferenza alla vi‐
ta priva e alla libertà di religione della ricorrente10. Pur ammettendo che la
tutela della “sicurezza pubblica” è uno dei motivi che consentono di dero‐
gare agli artt. 8 e 9 Cedu, i giudici di Strasburgo hanno rilevato che un di‐
vieto generalizzato di indossare in pubblico quel tipo di velo sarebbe stato
proporzionato solo in caso di una «generale minaccia alla sicurezza pubbli‐
ca», circostanza non dimostrata dal governo francese. Il collegio poi ha ne‐
gato che la seconda giustificazione allegata dalla Francia, ossia la legge co‐
me garanzia del «rispetto per l’insieme minimo di valori di una società
aperta e democratica», potesse avallare l’uso del perseguimento della parità
tra i generi come argomento valido: lì non si discuteva di un comportamen‐
to imposto alla donna quale segno di sottomissione della stessa, ma di una
pratica che la donna vuol difendere come esercizio di un suo diritto e che
uno Stato non dovrebbe bandire invocando la parità di genere11.
Successivamente, peraltro, la stessa Corte non ha riconosciuto alcuna violazione
dell’art. 14 (in combinato disposto con gli artt. 8 e 9), dunque nessuna discriminazione,
per lo meno che sia considerata priva di giustificazione (come si vedrà).
10
Si giustifica appunto con l’assenza di costrizione la distanza di questa pronuncia ri‐
spetto a due noti precedenti del 4 marzo 2009, Dogru c. Francia (ricorso n. 27058/05) e Ke‐
11
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E se per la Corte nemmeno il rispetto per la dignità umana può giustifi‐
care un bando tout court del velo integrale, perché quest’ultimo è espressio‐
ne di «un’identità culturale che contribuisce al pluralismo, connaturato alla
democrazia» e mancano evidenze sul fatto che le donne velate disprezzino
le altre persone o ne offendano la dignità, altrettanto non si può dire per il
fine di garantire il “vivere insieme” (vivre ensemble), come parte della «pro‐
tezione dei diritti e delle libertà altrui». Alla base della decisione – e del ri‐
getto del ricorso – è stato individuato il principio‐valore di fraternità, al qua‐
le gli Stati possono attribuire valore con una certa discrezionalità, fino a ri‐
tenere le relazioni e interazioni tra gli individui «di particolare peso» (come
espressione di pluralismo, ma pure di tolleranza e apertura mentale) e a
pensare che celare il viso in pubblico sia un vulnus a tutto ciò.
Quanto allo scrutinio di proporzionalità, pur riconoscendo che il bando
del velo integrale è afflittivo della situazione delle donne che desiderano
portarlo e tenendo conto degli allarmi di chi aveva paventato rischi di isla‐
mofobia fomentati proprio dalla legge del 2010, i giudici di Strasburgo han‐
no sottolineato che quell’intervento normativo non lede la libertà di vestire
qualunque altro capo (anche di matrice religiosa) che non travisi il volto e
che oggetto della proibizione non è la connotazione religiosa di capi come
burqa o il niqab, ma il loro nascondere il viso12; per il peso attribuito dal go‐
ravnci c. Francia (ricorso n. 31645/04). Sul punto v. Abbondante (2015, 18) e Vaccari (2015,
6), quest’ultimo anche con riguardo al caso Leyla Şahin c. Turchia (Grande Camera, 10 no‐
vembre 2005, ricorso n. 44774/98).
Nella valutazione favorevole alla legge del 2010 contribuirebbero anche le sanzioni
relativamente contenute (una multa con un massimo edittale di 150 euro, sostituibile con
l’obbligo di frequentare un corso di cittadinanza).
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verno francese al vivre ensemble, infine, ha ritenuto di dover riconoscere al
singolo Stato – come domestic policy‐maker – «un ampio margine di apprez‐
zamento» (riecco, nemmeno a farlo apposta, il concetto di “margine”…).
La decisione, ampiamente discussa in dottrina13, aveva se non altro il
pregio di “disinnescare” anche per il futuro l’argomento della sicurezza
come potenziale passe‐par‐tout per superare i dubbi di legittimità relativi a
ogni tipo di misura limitativa o interferente con le libertà individuali o col‐
lettive, facendo inevitabilmente pendere la bilancia dal lato delle istanze se‐
curity assuring (o dichiarate come tali). Restava tuttavia – e comprensibil‐
mente – l’amarezza e, ancora di più, il disorientamento di fronte alla scelta
di ritenere accettabile un bando (incisivo e tutt’altro che pacificamente ac‐
cettato) sulla base di un argomento in apparenza più impalpabile e meno
“solido” come il “vivere insieme”, peraltro fatto discendere da un principio
costituzionale – quello di fraternità – ampio e storicamente caricato di ben
altri significati, destinati a non scolorare nemmeno dopo essere stati am‐
piamente schizzati di sangue14.
La decisione, al contrario, sembra piuttosto basata sulla «paura del fra‐
tello, o meglio della sorella, soprattutto se straniera e se veste, perché di ve‐
stire alla fin fine si tratta, in modo diverso da noi» (Ruggiu 2014, 3), mentre
ad altre paure – pur considerate – mostra di non dare sufficientemente pe‐
E anche all’interno dello stesso collegio, come dimostrano le due partly dissenting
opinion allegate alla sentenza.
13
Con questo intendo ricordare che la decisione della Corte Edu precede tanto le
stragi nella redazione di «Charlie Hebdo» e del supermercato «Hyper Cacher» (7‐9 gen‐
naio 2015), quanto l’attentato al Bataclan (13 novembre 2015), episodi che hanno colpito
Parigi e, con essa, l’intera Francia.
14
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so; quanto al modello del vivre ensemble, colpisce come un concetto così im‐
portante e pregnante possa essere interpretato come una sorta di “obbligo
di interagire” (un dovere dunque, non più soprattutto un diritto, come se la
sfera individuale, proprio in una delle sue patrie, non contasse più di tanto)
e, per giunta, come si finisca per sostenere che l’unica interazione che conta
passi (solo) attraverso il guardarsi in faccia, nemmeno solo negli occhi15.
Su questi precedenti, non stupisce che in Francia la comparsa – non è da‐
to sapere realmente se sporadica o ragionevolmente diffusa – del burkini e
la reazione dei sindaci che lo hanno bandito abbia riaperto ferite mai rimar‐
ginate. Era inevitabile, dunque, che anche in questo caso qualcuno sceglies‐
se di reagire alla decisione dei sindaci, ricorrendo in questo caso alla giusti‐
zia amministrativa.
Il primo ricorso contro l’arrêté municipal emesso dal primo cittadino del
comune di Villeneuve‐Loubet, almeno in via cautelare, era stato respinto16:
per il tribunale amministrativo di Nizza non era menomata la libertà di
movimento, risultando essa limitata solo in una parte del territorio e in un
limitato periodo dell’anno; di più, visto il clima non favorevole alla coesi‐
stenza delle religioni17, il porto di un capo d’abbigliamento di chiara matri‐
Su questo, oltre a Ruggiu (2014), v. soprattutto Vaccari (2015, 9), anche per le inte‐
ressantissime riflessioni di Martha Nussbaum citate.
15
Tribunal Administratif de Nice, n°s 1603508 et 1603523, ordonnance du 22 août
2016. I ricorsi erano stati presentati da aderenti alla Ligue des droits de l’homme e
dall’Association de défense des droits de l’homme ‐ collectif contre l’islamophobie en France.
16
Detta coesistenza sarebbe elemento costitutivo del principio di laicità, ma ad essa si
opporrebbe – come dimostrato, secondo i giudici, dall’assassinio di un sacerdote cattoli‐
co pochi giorni prima dell’emissione dell’ordinanza – il fondamentalismo islamico, la cui
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ce religiosa, interpretabile come segno di fondamentalismo, potrebbe ledere
le convinzioni (o l’assenza di convinzioni) delle altre persone in spiaggia o
addirittura apparire «una sfida o una provocazione» (in periodo di attenta‐
ti), così come potrebbe essere letto come una cancellazione o uno svilimento
del corpo che viene coperto. Sottolineava poi l’ordinanza dei giudici che la
spiaggia, in uno stato laico, non è un luogo adatto per ostentare le proprie
convinzioni religiose, dunque indossare il burkini in spiaggia «non può es‐
sere considerato un’espressione appropriata delle proprie convinzioni reli‐
giose»; a questo si aggiunge l’esigenza di non turbare ulteriormente l’ordine
pubblico – già messo a dura prova dopo l’attentato a Nizza del 14 luglio
2016 – tanto più nel bel mezzo di un’affollata stagione estiva, non ritenendo
si possa far carico alla polizia municipale anche la tutela dell’espressione
delle credenze religiose. Da ultimo, i giudici di prime (sommarie) cure evi‐
denziavano che non c’era violazione del principio di uguaglianza, né sul
piano religioso (visto che il bando si applicava a tutti i bagnanti, senza con‐
notazioni religiose e senza che si dovessero predeterminare i singoli capi
d’abbigliamento da proibire), né su quello del genere.
Se la decisione del Tribunale amministrativo di Nizza aveva deluso par‐
te della dottrina più attenta ai diritti18, ricevendo invece il favore dei sindaci
«pratica religiosa radicale» sarebbe « incompatibile con i valori essenziali della comunità
francese e con il principio della parità di genere».
Si veda, in particolare, l’intervista rilasciata a «Le Monde» da Stéphanie Hennette‐
Vauchez, professoressa di diritto pubblico all’Università di Paris ‐ Ouest‐Nanterre (Sel‐
lier 2016): «Avec cette ordonnance – osservava la giurista – il y a la conjugaison d’une
part de la crispation du débat sur la laïcité depuis une dizaine d’années et d’autre part
les effets de l’état d’urgence. Il y a une logique de l’urgence qui se dissémine partout
dans l’ordre juridique. La conjugaison de ces deux effets aboutit à un jugement qui me‐
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che avevano provveduto al bando – e che nei giorni precedenti avevano in‐
cassato la comprensione e il sostegno anche del primo ministro Manuel
Valls – altrettanto non può dirsi per la successiva ordinanza del Consiglio
di Stato19, che a distanza di pochi giorni ha sospeso l’efficacia del provve‐
dimento preso dal sindaco di Villeneuve‐Loubet, costituendo un preceden‐
te di rilievo per decisioni di segno analogo.
La pronuncia di seconde cure – decisamente più stringata rispetto a
quella emessa in prima istanza – riconosce innanzitutto al sindaco poteri (e
doveri) di polizia e mantenimento dell’ordine, della salute e della sicurezza
anche in spiaggia, ma questi si devono conciliare con il rispetto delle libertà
garantite per legge: devono pertanto essere adottate misure «adeguate, ne‐
cessarie e proporzionate alle sole esigenze di ordine pubblico», in base alle
circostanze di tempo e luogo e tenuto conto delle «esigenze derivanti dal
diritto di accesso alla riva, dalla balneazione sicura, nonché dall’igiene e dal
decoro sulla spiaggia».
Su questa base, in poche righe l’ordinanza del Conseil d’Etat fa a pezzi la
costruzione del Tribunale amministrativo di Nizza. Prima nega che sia stato
provato che una particolare tenuta da bagno abbia provocato rischi di tur‐
bamenti dell’ordine pubblico sulle spiagge di quel comune; mancando un
caso di “pericolo concreto”, l’inquietudine dovuta agli attentati terroristici
nace la liberté de tous et la liberté des femmes musulmanes en particulier». In più, «Dans
son ordonnance, le juge évoque “une liberté d’exprimer dans les formes appropriées ses
convictions religieuses”. Cela signifie qu’il revient aux autorités administratives, sous le
contrôle du juge, d’apprécier si la manière dont on exprime ses convictions religieuses
correspond à des “formes appropriées”. C’est problématique en termes de libertés indi‐
viduelles. Cela pose problème sur le principe même de laïcité».
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Conseil d’Etat, n°s. 402742 et 402777, ordonnance du 26 août 2016.
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anche recenti «non può essere sufficiente per giustificare la misura
d’interdizione contestata». Subito dopo, i giudici qualificano il bando (e il
conseguente divieto di accesso alla spiaggia a chi indossa quei capi da ba‐
gno) come eccedente i poteri di polizia, mancando un fondamento su «pro‐
vati pericoli di turbamento dell’ordine pubblico» e nemmeno «su ragioni
d’igiene o di decoro» (punti, questi ultimi, che anche l’ordinanza di prime
cure aveva trattato in modo piuttosto sbrigativo): il Consiglio di Stato, in‐
somma, nega di fatto che vi siano (valide) ragioni igieniche o di decoro alla
base del bando, che invece ha prodotto «una violazione grave e manifesta‐
mente illegittima alle libertà fondamentali» come quella di movimento, di
coscienza e alla libertà personale.
Al di là del tono che, va ammesso, è fin troppo apodittico (qualche riga
in più di spiegazione del perché le giustificazioni addotte dal comune non
siano state ritenute idonee a ritenere esistenti nemmeno «ragioni d’igiene o
di decoro» sarebbe stata auspicabile), l’ordinanza del Conseil d’Etat ha asse‐
stato un colpo robusto alla credibilità di un approccio che metta sempre la
sicurezza al primo posto, anche qualora la minaccia sia più teorica che pra‐
tica: un approccio che, come si è visto, può concretizzarsi anche in misure
decise «sotto un’evidente pressione emotiva» (Maniscalco 2016, 7), con poco
riguardo per il rispetto delle libertà, nonostante siano scritte da anni in do‐
cumenti di portata storica (il che per la Francia è particolarmente vero).
A livello più generale, credo che la vicenda del burkini abbia dimostrato
come, probabilmente, tanto una buona parte dei francesi, quanto la quasi
totalità degli italiani che hanno appreso delle ordinanze e della decisione
del Conseil d’Etat attraverso i media non avessero un minimo di preparazio‐
ne specifica in materia e, in troppi casi, nemmeno quel “buon senso” che ho
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più volte invocato prima, come dimostrato da svariati commenti che sono
puntualmente fioccati, sui social network e non solo.
Pensando alla polemica sorta nel nostro paese – anche grazie ad alcune
forze politiche che avevano accolto con favore l’iniziativa dei sindaci fran‐
cesi, auspicando che fosse replicata anche in Italia, dopo quell’isolato pre‐
cedente del 2009 citato in precedenza – è facile rilevare che ci si è accaniti a
lungo sulle ragioni di sicurezza e di salute pubblica che avrebbero dovuto
sostenere il bando del burkini, quando non è improbabile che alla base di
quei provvedimenti ce ne fossero altre, poco ideali e molto più concrete
(anche se, magari, potevano non essere troppo eleganti da ammettere)20.
Il fatto che al centro della discussione ci fosse un costume da bagno
(quindi un indumento disegnato con uno scopo innanzitutto pratico)
avrebbe dovuto portare a ragionamenti più “mirati”, che considerassero lo
specifico contesto d’uso del burkini. Innanzitutto, è facile negare che quel
capo non può portare realmente pericoli per la sicurezza: posto che non cela
il viso, quindi consente una certa individuabilità di chi lo indossa, certa‐
mente non è adatto a nascondere nulla al di sotto della propria superficie,
È difficile non pensare – pur in assenza di prove, beninteso – che alla base delle or‐
dinanze, al di là di fatti violenti (citati in Maniscalco 2016, 4) che avrebbero interessato
singole realtà, ci fosse un mero calcolo di convenienza: poiché il primo comune ad adot‐
tare il provvedimento è stato Cannes e tra quelli interessati c’era anche Nice, accanto ad
altre località turistico‐balneari più o meno note, non era impossibile che gli amministra‐
tori locali temessero di perdere turisti occidentali (soprattutto i più facoltosi), credendo
che la presenza di bagnanti abbigliate con il burkini instillasse loro un senso di insicurez‐
za e disagio. Se così fosse stato, si sarebbe dovuto dichiarare il fallimento anche di questa
misura: ad andarsene via – a favore, tra l’altro, anche delle vicine spiagge italiane – sono
state infatti le bagnanti islamiche con famiglia (magari facoltosa) al seguito…
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visto il materiale con cui è prodotto (molto simile a quello sintetico dei co‐
stumi da bagno diffusi sulle nostre spiagge e in piscina, dunque in grado di
mostrare se c’è qualcosa tra la pelle e il tessuto). Le stesse considerazioni sul
materiale impediscono di ritenere che il burkini possa costituire un pericolo
sul piano dell’igiene: nessuna differenza, infatti, si ha rispetto ai costumi di
comune utilizzo, da vari punti di vista21. Quanto alla “stranezza” di indos‐
sare un costume interamente coprente, è facile osservare che sono relativa‐
mente poche le differenze tra un burkini e, ad esempio, la muta usata dai
subacquei oppure – dopo che ci siamo abituati a vederli nelle immagini del‐
le gare internazionali – i costumi‐tuta integrali, diffusi negli ultimi anni tra
nuotatori e nuotatrici professionist* per ridurre l’attrito con l’acqua e mi‐
gliorare le prestazioni.
Se poi, a considerazioni meramente tecniche, si vogliono aggiungere ri‐
flessioni “di costume” (mi si perdoni il bisticcio), dovremmo forse riprende‐
re qualche foto dell’inizio del ‘900 – e probabilmente anche un po’ più tardi
– per ricordare che allora le donne andavano in spiaggia frequentemente in
vestaglia e capitava, ammesso che si attentassero a entrare in acqua, che con
quella tenuta si bagnassero in mare: oggi, che troviamo un normale bikini
assolutamente ordinario se non addirittura “quasi casto”, abbiamo bisogno
di testimonianze visive di un’epoca nemmeno troppo lontana per renderci
conto di come fossimo prima che la secolarizzazione si compisse, cambian‐
L’igiene spesso dipende dalla pulizia del corpo: l’eventuale scarsa igiene personale
o eventuali atti di scarsa educazione in acqua (tutt’altro che sconosciuti, l’una e gli altri,
nel “civilissimo mondo occidentale”) non sono salutari per l’ambiente circostante e per
chi vi si trova, che si stia in bikini o in burkini. Quanto al contatto con la pelle del materia‐
le presente in acqua, probabilmente il burkini consente di evitarlo meglio.
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do di molto i nostri parametri; la stessa secolarizzazione che, invece, solo da
poco tempo sta toccando il mondo islamico ed è lenta nel produrre effetti
che da noi sono già radicati e scontati da tempo22. Senza chiamare assolu‐
tamente in causa fondamentalismi, integralismi e deviazioni simili, è facile
constatare con un semplice dialogo che il pudore per il proprio corpo diffu‐
so tra le donne di fede islamica è ancora decisamente marcato (più o meno
quanto lo era anche solo nella prima metà del ‘900 e anche un po’ oltre dalle
nostre parti): sono molte le donne che, per questa ragione, si vergognano ad
andare in spiaggia o in piscina o, al più, lo farebbero a patto di avere la cer‐
22 Ho già ricordato (Maestri 2014 b, 33‐34), all’indomani dell’attentato a «Charlie
Hebdo», che l’Islam ha almeno sei secoli di storia in meno rispetto alla religione cristia‐
na, tempo che dunque il mondo musulmano non ha avuto a disposizione per vedere
evolvere e mutare la propria fede. Sempre dopo i primi, tragici fatti di Parigi era interve‐
nuto, in modo ben più autorevole di me, il teologo laico Vito Mancuso (2015), del quale
riporto volentieri un lungo stralcio: «Noi non abbiamo nessun titolo per dare lezioni ai
musulmani, se non uno solo: che siamo più vecchi e abbiamo più storia. Oggi buona par‐
te dell’Islam, come l’Occidente cristiano nel passato, sta vivendo l’incontro con la secola‐
rizzazione sentendosi aggredito, nel senso che i processi di laicità e di modernità risulta‐
no per esso come dei virus infettivi a cui reagisce attaccando e facendo così venir meno
la tradizionale tolleranza che ha contraddistinto buona parte della sua storia. Dalla Rivo‐
luzione francese alla Seconda guerra mondiale, in un arco di oltre 150 anni, l’Occidente
ha vissuto la sua influenza con febbri altissime, imparando alla fine a usare quel metodo
della gestione della vita pubblica tra persone di diverso orientamento culturale e religio‐
so che si chiama democrazia (per quanto ancora in modo molto imperfetto). E noi questo
dobbiamo fare: esportare democrazia […] nel senso del rispetto delle idee e della vita
altrui, da cui si produce quello sguardo amichevole che è il solo vero metodo per suscita‐
re pace e lasciare una società migliore a chi verrà dopo di noi. Questo non significa che
non bisogna essere determinati nella lotta contro i terroristi islamici, significa solo che
occorre sempre saper distinguere l’organismo dalla malattia contratta. E in questa di‐
stinzione dovrà consistere la nostra lotta quotidiana a favore della pace del mondo».
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tezza di non essere viste da sconosciut* (specie se uomini); il burkini, in que‐
sto caso, potrebbe essere davvero una soluzione – forse nemmeno un com‐
promesso – accettabile per rendere accessibile a una donna di fede e cultura
islamica l’esperienza del bagno (in mare o in piscina), per gli “occidentali”
assolutamente ordinaria, ma magari non per lei. A questo, ovviamente, è
appena il caso di aggiungere che ciascuna persona, dunque anche ogni
donna (di qualunque origine e cultura), ha la piena libertà di vestirsi come
crede, come sviluppo della propria autonomia privata; poiché di certo il
burkini non è in alcun modo contrario all’ordine pubblico (per i motivi già
visti), né lo è al buon costume (non si vede davvero come potrebbe), non ci
sono ragioni valide perché quel capo d’abbigliamento sia interdetto23.
Oltre a ciò che si è detto appena sopra, in ogni caso, è utile affiancare
queste riflessioni a quanto più voci autorevoli da tempo argomentano a
proposito di uno dei capi d’abbigliamento più connotati religiosamente in
assoluto, il velo24. Occorre rendersi conto dall’inizio che il nostro punto di
vista, nel quale siamo immersi da sempre e finisce per indirizzare automa‐
ticamente i nostri pensieri in un determinato modo (anche se magari non ne
Diverso, ovviamente, sarebbe il caso di chi pretendesse di utilizzare in piscina un
costume simile ma tutto in materiale non adatto all’immersione in acqua o un esemplare
di burkini sporco (il discorso varrebbe per ogni costume, da uomo o da donna).
23
Parlando del velo, resta interessante – a dispetto del tempo trascorso – la lettura di
Vercellin (2000); tra le opere più recenti e utili va sicuramente annoverato il volume di
Pepicelli (2012) e il saggio di Mancini (2016). Tra le opere di stranieri, v. McGoldrick
(2006) e, per un approccio più complesso nel quale includere (anche) il velo, Salih (2008).
Per l’Italia, v. il parere (ottobre 2010) reso dal Comitato per l’Islam italiano su eventuali
nuove disposizioni che impediscano il porto di niqab e burqa: il testo si legge all’indirizzo
http://www1.interno.gov.it/mininterno/export/sites/default/it/assets/files/19/00036_Comi
tato_Islam_‐_relazione_Burqa_07_10.pdf.
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siamo consapevoli), è comunque parziale e può non comprendere a dovere
realtà diverse dalla nostra: l’osservazione sembra banale, ma la è molto me‐
no se solo si considera che il proprio approccio, anche se sostenuto in buona
fede, può finire per essere dannoso anche per le persone e le realtà cui si
vorrebbe giovare25. Dimostrarlo, in fondo, è facile.
Legare il velo a significati esclusivamente religiosi è profondamente sba‐
gliato: occorre ammettere che, una volta «innescato un antagonismo a base
culturale/religiosa, […] avviluppato nel gioco dialettico, il velo viene letto in
base alle differenze che esso veicola e non alle possibili continuità antropo‐
logiche dei suoi usi» (Ricca 2012, 1999): così non ci si rende conto che, prima
ancora che a dire qualcosa sulla religione che (forse) si pratica, il velo – al
pari di altri elementi più o meno riconoscibili – è innanzitutto «un mezzo di
certificazione dell’appartenenza e di riconoscimento reciproco all’interno
degli spazi pubblici» (Id., 198), uno strumento per avvicinarsi, instaurare un
dialogo senza passare per forza attraverso la ghettizzazione.
Se si parte da questo punto di vista, ci si rende conto – forse – che appli‐
care le nostre categorie, il nostro pensiero, i nostri strumenti culturali a real‐
tà che non ci appartengono, che non “conosciamo” (a fondo), è il primo er‐
rore, per quanto spontaneo e “naturale”, che possiamo compiere: quelle ca‐
tegorie e quegli strumenti culturali possono offrirci un’immagine distorta
È lucida la ricostruzione di Ricca (2013, 12): «[…] sono le persone a usare le culture,
e non le culture a usare le persone. Il problema, però, sta nel fatto che le persone spesso
non sanno di usare le culture, la propria cultura. Ancora peggio, non sanno di non saper‐
lo. L’esito di questa duplice ignoranza può essere fonte di innumerevoli problemi.
Quando gli altri non condividono la tua stessa cultura, le tue informazioni, allora i saperi
che si usano, senza sapere di usarli, rischiano di non produrre le conseguenze desidera‐
te».
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dell’oggetto o del comportamento che ci si presenta davanti. Per di più, il
tentativo di acquisire un approccio realmente multiculturale può far scopri‐
re che il nostro modello culturale è tuttora intriso, nelle sue strutture, di pa‐
triarcalismo (di recente v. Abbondante 2015, 37 ss.); lo stesso può dirsi per
varie strutture alla base del diritto (Pozzolo 2015, 23).
Raggiungere queste consapevolezze dovrebbe consigliare prudenza (o,
volendo, “buon senso”) nell’elaborare soluzioni o prendere decisioni. Po‐
trebbe accadere, infatti, di voler adottare una misura nei confronti di una
condotta per scoraggiarla (visto il valore negativo che assume agli occhi del
decisore e considerando il fine di proteggere chi sembrerebbe danneggiat*
da quel comportamento), salvo poi scoprire che, in realtà, quella misura è
leggibile come una sorta d’incriminazione di un messaggio che si discosta
dal paradigma culturale più diffuso (Masarone 2015, 106)26. Se – come av‐
verrebbe introducendo restrizioni o proibizioni circa l’uso del burkini, del
velo o di altro capo dal valore religioso – la sanzione nei confronti di un
comportamento culturalmente connotato non fosse dettata dalla volontà e
dalla necessità di tutelare un bene giuridico (penalmente rilevante), si sa‐
rebbe di fronte a una diversa reazione di fronte a espressioni simili che uti‐
lizzano un simbolo per trasmettere un proprio messaggio culturale e reli‐
gioso (Stradella 2008, 69 ss.).
L’autrice, in particolare, pensa all’inevitabile discriminazione che si percepirebbe
(circa i messaggi identitari apportati da ciascun oggetto) ove, in sede penale, l’uso del
burqa fosse sanzionato e il porto del velo cristiano – condotta equivalente alla prima –
non comportasse alcuna reazione dell’ordinamento.
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5. La via “meticcia” (e pedagogica) al bilanciamento tra sicurezza e li‐
bertà, superando la paura
Gli ultimi concetti espressi, peraltro, potrebbero scoraggiare chi fosse
(almeno tiepidamente) intenzionato a dare corpo a un presente, a un futuro
diverso, in cui alla paura e all’insicurezza si sostituisca il significato primi‐
genio di sicurezza, ossia la mancanza di preoccupazioni che consenta di
sentirsi e vivere nelle libertà che sono a noi connaturate e che ora molti do‐
cumenti riconoscono. Rendersi conto che non solo conoscere e approfondire
la cultura e la quotidianità altrui è difficile, ma addirittura gli strumenti di
cui “normalmente” disponiamo possono essere fallaci o comunque poco
affidabili certamente non è un incentivo a impegnarsi su questa via. Eppure
farlo non è opportuno: è necessario, se non addirittura vitale.
È inutile nascondere che, attualmente, la gran parte delle preoccupazioni
legare alla sicurezza (alla sopravvivenza?) dei cd. “occidentali” e delle loro
strutture sociali e politiche è legata al mondo islamico. Si tratta oggettiva‐
mente di una realtà complessa, anche e soprattutto perché in essa “politico”
e “religioso” sono incredibilmente e profondamente fusi, senza che sia pos‐
sibile tracciare una storia dell’Islam che non sia anche una storia politica27.
Proprio in questo caso, tuttavia, appare evidente la necessità di uno sforzo
maggiore di conoscenza da parte nostra; di più, quello sforzo – a costo di
non essere compresi o approvati da chi condivide la nostra cultura – va fat‐
to per primi, augurandosi di ricevere lo stesso in cambio, senza però pre‐
Su questo piano, è utile farsi guidare dalla notevole esperienza e accuratezza di
uno storico dei paesi islamici come Massimo Campanini (2008, 2015, 2017).
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tenderlo. Conoscere meglio quel mondo che sentiamo così lontano, senza
leggerlo attraverso gli occhiali della nostra cultura (dopo esserci resi conto
che li indossiamo e che possiamo anche toglierli) è il solo modo per com‐
prendere la ratio di determinati comportamenti: non significa ovviamente
accettarli, ma prenderne atto e tenerne conto nel momento in cui ci si rela‐
ziona. E proprio attraverso un dialogo consapevole, assistito da una prepa‐
razione adeguata, si possono magari gettare i semi perché quei comporta‐
menti a lungo andare si modifichino (come si vedrà) a partire “dal basso”.
Una reazione diversa, rigida e muscolare, fatta di barriere e di forza re‐
spingente, non produrrebbe effetti positivi. Le notizie che ogni giorno infe‐
stano giornali, tv e la Rete confermano sempre di più come non bastino
«leggi e mura» (fisiche e materiali, aggiunte a quelle – assai più frequenti –
psicologiche e immateriali, ma non per questo meno “palpabili”) per «te‐
ne[re] fuori la paura», dalle nostre città (Filoni 2014, 125) come dalle nostre
vite. Se così è, occorre tentare (o riprendere) con convinzione altre strade.
Farlo, è indubbio, costa fatica, come avviene per ogni operazione che in‐
tenda lavorare seriamente sulla cultura: finora, ad esempio, pur con gli
sforzi di decenni compiuti a livello istituzionale e non solo, non si è riusciti
a costruire neppure un’Unione culturale europea, vista la disomogeneità al
suo interno che si riflette anche sul piano giuridico (Ricca 2015). È facile ri‐
scontrare che a lungo anche uno dei primi percorsi di dialogo avviati, quel‐
lo interreligioso (nato all’inizio del ‘900 sotto le forme dell’ecumenismo tra
Chiese cristiane e poi, soprattutto dopo il concilio Vaticano II, esteso anche
alle altre fedi), è apparso in difficoltà, impantanato nelle sconfortanti crona‐
che quotidiane e ostacolato da contraddizioni più o meno evidenti (com‐
preso, probabilmente, un deficit di chiarezza in determinate posizioni). Ep‐
pure l’incontro, lo scambio – quello quotidiano tra persone, partendo «dal
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basso e dal concreto» (Budelli 2012, 43), oltre e prima che quello tra rappre‐
sentanti “ufficiali” delle fedi – è probabilmente la via più “disponibile” e su
cui, procedendo con uno sguardo sufficientemente ampio, occorre investire
energie, a costo di «intraprendere l’impossibile e accettare il provvisorio»
(Salvarani 2011, 116), per creare via via un clima più favorevole alla circola‐
zione di fiducia: gli sforzi compiuti da papa Francesco dall’inizio del suo
pontificato vanno in quest’auspicabile direzione (Salvarani 2016).
Certo, il terreno in cui ci troviamo appare tutt’altro che fertile: è difficile,
infatti, ragionare (verbo già di scarso appeal per alcuni) di dialogo, scambio
e conoscenza reciproca, magari come base per una regolazione che sia am‐
piamente accettata e non avvertita come discriminatoria. Nell’Italia più re‐
cente il legislatore, dopo aver creato per anni un “diritto criminale migrato‐
rio” con cui perseguire «obiettivi, tutto sommato, contingenti e mai struttu‐
rali, funzionali a intercettare, nell’immediato, le simpatie della collettività
per aver posto, in qualche modo, il fenomeno sotto controllo» (Lo Monte
2013, 137), ancora fatica terribilmente a liberarsi di una cultura del sospetto
e della paura, in parte perché effettivamente appartiene a parte della classe
dirigente, in parte perché elettoralmente – purtroppo – paga: l’ostinata so‐
pravvivenza del reato di immigrazione clandestina (Maestri 2014 a), che
punisce non tanto un’azione ma uno status personale perché già solo quello
è avvertito come fonte di insicurezza (o, volendo usare le parole del gover‐
no, perché gli «interessi coinvolti» dal reato di clandestinità denotano un
«carattere particolarmente sensibile»: Ruggiero 2017), è un perfetto – e avvi‐
lente – esempio di come stiano le cose.
Le migrazioni globalmente intese sono, appunto, uno dei punti nevralgi‐
ci del binomio conflittuale sicurezza/libertà, non solo per tutto ciò che viene
“dopo”, in termini di convivenza avvertita come rischiosa (e dalla quale si
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cerca di “immunizzarsi”: Borrello 2015, 43‐45), ma anche perché già il mo‐
mento in cui i migranti arrivano nelle nostre terre è percepito come fonte
d’insicurezza (Ceccorulli 2014, 164‐165): una costruzione avviata e alimen‐
tata dagli stessi media, nel momento in cui rappresentano per la maggior
parte i migranti e le migrazioni come un rischio o, meglio, come una minac‐
cia per la società ricevente, facendo quasi passare sotto silenzio il fatto che
anche per chi si è messo in viaggio in condizioni proibitive il migrare è
davvero un rischio, come i numerosi morti in mare – e non solo – dimostra‐
no (Battistelli, Farruggia et al. 2016, 90 ss.)28. Una volta arrivati, poi, gli stra‐
nieri possono addirittura diventare oggetto di forme di «razzismo istituzio‐
nale» (Bartoli 2012), finendo come obiettivo dichiarato o implicito (ma ben
identificabile) di certe ordinanze sindacali (Mondino 2015, 100‐103).
In quest’orizzonte di xenofobia perdurante, alimentata da ogni nuovo
attentato terroristico anche solo in apparenza di matrice islamica o da qua‐
lunque fatto di cronaca nera che abbia una persona di origine straniera co‐
me protagonista in negativo (come se non ci fossero episodi in cui persone
di origine straniera hanno un ruolo attivo e positivo), pare quasi fuori luo‐
go, fuori tempo parlare di «grammatica dell’incontro con l’estraneo», di
«cerimoniale dell’ospitalità» necessitato dalla «consapevolezza dello spo‐
stamento quale aspetto comune della condizione umana (Ricca 2011)29. Ep‐
Gli autori si premurano di distinguere i pericoli (in cui si combinano l’assenza
d’intenzionalità e gli esiti negativi e normalmente si riconducono a eventi naturali), i ri‐
schi (in cui a un’intenzionalità positiva di un attore non ostile si accompagnano esiti di
volta in volta positivi o negativi) e le minacce (che uniscono un’intenzionalità negativa di
un attore ostile e, ovviamente, degli esiti negativi).
28
In quest’opera l’autore reinterpreta in chiave antropologico‐semiotica del canto IX
dell’Odissea. La storia di Ulisse è riletta come una sorta di “enciclopedia dellʹospitalità”;
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pure questo approccio coglie nel segno: la dinamica dell’ospitalità,
dell’incontro (ovviamente quando sono genuini e non accettati per mero in‐
teresse) prevede e assicura il coinvolgimento attivo di entrambi gli attori –
soggetto ospitante e soggetto ospitato30 – spingendoli via via a una maggio‐
re interazione, a una conoscenza sempre più approfondita e, dunque, a una
progressiva riduzione delle distanze che all’inizio inevitabilmente esistono.
La distanza tra le persone, peraltro, sembra essere inversamente propor‐
zionale alla lunghezza del “percorso” che si è disposti a fare per compren‐
l’episodio che vede protagonisti il re di Itaca e Polifemo rappresenta soprattutto il lato
deteriore, quello della mancanza, di tradimento dell’ospitalità da parte dell’ospitante,
con tanto di masso posto all’uscita dell’antro, metafora drammaticamente contempora‐
nea della frontiera, del muro. «Polifemo – sottolinea Ricca (2011, 98‐99) – non è diverso
dai legislatori di ogni tempo, anche da quelli odierni, posti a guida delle comunità na‐
zionali. Al pari dei colonizzatori, in una sorta di recita rovesciata della scenografia stori‐
ca, essi creano subalternità a carico degli Altri. Anzi, proclamano, con il loro agire politi‐
co, una sorta di sinonimia tra Alterità e subalternità. Eppure, dopo aver disseminato
questo veleno lungo i campi del quotidiano, reprimono ogni reazione stigmatizzandola
con un’altra equivalenza: straniero uguale pericolo, minaccia per la sicurezza pubblica. Il
club degli uguali è esclusivo. Dentro l’antro della nazione è così, e basta.» Il finale della
vicenda è inevitabile: la mancanza di ospitalità, la presunzione di poter trattare l’Altro,
lo sconosciuto, come Nessuno può avere solo un epilogo tragico e catastrofico.
È ovvio che anche all’ospite è richiesto di «sapersi comportare», dovendo egli «ri‐
spettare la liturgia dell’ospitalità, la prudenza e la distanza necessarie a consentire i tem‐
pi della traduzione, della decodifica»: rientra in questo, per esempio, «il donare, come
corredo dell’ospitalità», poiché il dono «è un veicolo per infrangere il muro di ostilità,
per inaugurare il processo di traduzione. […] Presentare un dono è un modo di intro‐
durre se stessi nel recinto dell’Alterità, un tentativo di anticiparla, di trovare un viatico
capace di rendere familiare, accettabile, riconoscibile il proprio fardello di estraneità»
(Ricca 2011, 17‐18). Certo, la logica e la liturgia rischia di essere messa in crisi quando ai
nostri occhi pare che il singolo ospite proprio non “sappia comportarsi”; questo, tuttavia,
non toglie valore al modello dell’ospitalità e all’importanza di praticarlo e rispettarlo.
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dere le regole e dare loro forza. La vera sfida e scommessa per il futuro è
dotarsi di un «diritto errante» (Ricca 2014), cioè di un diritto – e, di conse‐
guenza, di interpreti giuridici – in grado di viaggiare oltre i confini, co‐
gliendo le informazioni necessarie per operare una corretta “tradizione in‐
terculturale” delle azioni dell’Altro: deve farlo proprio per non “errare”,
per non commettere ingiustizie (dannose per chi le riceve ma, alla lunga,
pure per chi le compie) a causa di interpretazioni dei fatti del tutto sbaglia‐
te31.
In tal senso, diventa fondamentale il ruolo dello studioso del diritto
pubblico in chiave comparata, vista la sua naturale propensione a guardare
“oltre i confini”, verso altri sistemi di valori e regole. Sua priorità, però, non
dovrebbe essere più (solo) studiare le soluzioni giuridiche adottate nei vari
31 «Per comprendere quel che fa, pensa e vuole una persona proveniente da un altro
stato o appartenente a un differente circuito culturale si renderà necessario compiere una
sorta di viaggio “altrove”. Lì, bisognerà andare in cerca degli indici semantici e conte‐
stuali in grado di far emergere le radici di senso di quel che è fatto e detto nel qui e
nell’ora o che comunque è “attualmente” soggetto a interpretazione in seno a uno spazio
d’esperienza. […] Non compiere il viaggio oltre‐confine, non tenere conto delle autotra‐
sformazioni culturali vissute e gestite dalle persone, equivarrebbe a comprendere in mo‐
do monco, difettivo, gli estremi della situazione posta sotto la lente della qualificazione
giuridica. Sennonché una erronea qualificazione del fatto si tramuterebbe in una qualifi‐
cazione giuridica non corrispondente alla reale situazione da disciplinare, la stessa che
funge da mezzo per la realizzazione dei fini incorporati nelle norme selezionate per
l’applicazione. In altre parole, un deficit nella configurazione interculturale della c.d. fat‐
tispecie concreta darebbe luogo a una sorta di eterogenesi dei fini nell’attuazione delle
normative statali. Non riuscire a rintracciare la corologia soggiacente al vissuto delle
persone di volta in volta attratte nel circuito di applicazione delle singole norme si risol‐
verebbe insomma in una falsa rappresentazione del fatto, quindi in un radicale eccesso
di potere da parte degli operatori del diritto e delle istituzioni […]» (Ricca 2014, 77‐78).
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ordinamenti e compararle; lo sguardo dovrebbe farsi ancora più attento alle
contaminazioni culturali e istituzionali, per tentare di costruire un linguag‐
gio giuridico che aspiri a essere universale, dopo aver individuato princìpi
generali condivisi e presenti nelle varie esperienze costituzionali concrete.
Questo approccio, definibile come «costituzionalismo meticcio» (Bonfi‐
glio 2016), dovrebbe essere decisivo nell’aiutare il dialogo tra culture diver‐
se, proprio perché è frutto di una circolazione e di una contaminazione di
modelli e di istituti, così come sono stati messi in opera dalle varie comunità
nazionali. L’ultimo dettaglio è importante: i principi elaborati dal costitu‐
zionalismo meticcio non sono teorici, ma sono frutto dell’osservazione con‐
creta dei problemi e delle relazioni tra soggetti che sorgono nei diversi con‐
testi; se in un primo tempo le relazioni facilmente hanno la forma dello
scontro, il contatto può essere l’occasione per una maggiore conoscenza,
possibile premessa di un adattamento delle posizioni iniziali. Proprio in un
contesto simile si può iniziare a parlare di un’evoluzione della forma di sta‐
to democratico‐liberale in «Stato multiculturale», caratterizzata da un note‐
vole pluralismo di formazioni sociali (e di fonti dell’ordinamento) e, soprat‐
tutto, dal reciproco riconoscimento delle alterità culturali corroborato dal
dialogo costruttivo tra individui e comunità (Amirante 2014, 28 e 135).
In un’ottica simile si può considerare la figura del giudice “antropologo”
rilevata e auspicata da Ruggiu (2012) nell’ambito dei conflitti a carattere
multiculturale. Essere chiamati a giudicare – soprattutto in vicende delicate
di natura penale – e trovarsi di fronte un caso in cui ci si rende conto che la
cultura potrebbe aver giocato un ruolo decisivo nella determinazione dei
fatti, dovrebbe portare quasi inevitabilmente ad approfondire la conoscenza
di quel contesto culturale, per valutare in modo corretto i comportamenti al
centro della causa. Questo in vari casi è già avvenuto: è lecito sperare che la
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prassi si diffonda ulteriormente, magari attraverso l’impiego di strumenti
(più o meno formalizzati) che, a monte, quasi obblighino il giudice a tener
conto della connotazione culturale delle condotte relative a un caso e, in se‐
guito, lo guidino nell’approfondimento antropologico, ovviamente lascian‐
do in primo piano le valutazioni di natura giuridica32 e senza che chi è
chiamato a giudicare si senta in “dovere” di accettare una certa pratica, do‐
po averne riscontrato l’effettivo fondamento culturale33.
E se tutto ciò spaventa, se parlare di una via “meticcia” che consenta di
inquadrare i conflitti multiculturali e lo stesso il binomio conflittuale sicu‐
rezza‐libertà su cui si è incentrato questo lavoro sembra azzardato, fuori
dalla nostra portata, è bene ricordare che a essere “meticcia” è tutta la no‐
stra storia di italiani (invasione dopo invasione), com’è “meticcia”, per chi si
ritiene credente, la storia del cristianesimo (la religione più praticata e in‐
fluente in Italia), a partire dalla sua figura centrale, l’uomo chiamato Gesù34.
In questo senso, è da guardare con interesse la proposta di Ruggiu (2012, 285 ss.) di
un test culturale, articolato in dodici domande, attraverso le quali cercare di riconoscere
sul piano oggettivo l’esistenza di una pratica culturalmente rilevante (nella prospettiva
della persona che la attua), per valutare in seguito prima il livello di aderenza del sogget‐
to al modello di pratica culturale considerato, poi la sostenibilità della pratica stessa in
una chiave relazionale (ossia all’interno della società “ospitante”).
32
Quel giudice è di certo laico: nella cornice di una società pluralista, egli «arbitra […]
i conflitti ideologici, religiosi e più largamente culturali tra i gruppi che vivono sotto la
sua sovranità, ma non per questo rinuncia a valutazioni di pregevolezza o di indesidera‐
bilità delle loro manifestazioni esteriori» (Prisco 2009, 144).
33
Nessuno probabilmente è in grado di trasmettere l’importanza di questa consape‐
volezza quanto Erri De Luca. Mi affido dunque alle sue parole contenute nel libro Le san‐
te dello scandalo (2011, Firenze: Giuntina), che commentano la presenza, all’interno della
genealogia di Gesù riportata all’inizio del Vangelo di Matteo (1, 1‐17), di «cinque nomi di
donne, piantati dentro una discendenza maschile»: «Nel più prezioso ceppo familiare
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Se noi “meticci” lo siamo per natura, di certo non si nasce “pronti a esse‐
re meticci”. Anche questo, come quasi ogni altra cosa, si deve imparare. A
rigore non esistono autodidatti: non si può imparare da soli ciò che, per na‐
tura, nasce dall’incontro, dallo scontro, dal confronto. Almeno l’impulso è
sempre a più voci (magari non proprio intonate); lo sviluppo, fatto di lettu‐
re, visioni, osservazioni e incontri, può proseguire in autonomia. Lo sforzo
e la fatica sono minori – o, da un altro punto di vista, si possono avere risul‐
tati più consistenti – se si ha la fortuna di iniziare presto questo cammino di
apprendimento e di farlo durare il più possibile (ovviamente avendo al
proprio fianco vari “compagni di viaggio”). Naturalmente, se «per ogni co‐
sa cʹè il suo momento, il suo tempo per ogni faccenda sotto il cielo» (Qoelet,
3, 1), bambini e bambine possono iniziare da qualcosa di semplice, scritto
apposta per loro35: se dalle prime letture, riusciranno a capire che non si de‐
ebraico, quello del messia, sono inserite e sottolineate delle donne straniere. Apparten‐
gono a popoli presenti nella terra promessa prima della conquista e mai estirpati. Non è
sgombera e vergine la terra promessa. Non è unʹisola deserta, non è il mondo vuoto do‐
po il diluvio. Al contrario brulica di popoli e di idoli. Proprio in mezzo a loro irrompe la
divinità che si dichiara unica. […] Ecco che nella preziosa discendenza del messia sono
innestate donne e grembi di popoli diversi. Con le loro trasfusioni di sangue misto, la
storia ebraica allontana da sé lo scettro e lo spettro della purezza di sangue, del pedigree.
Pure il messia è meticcio. È una lezione grandiosa, poco risaputa e poco ripetuta».
Si consenta di prendere spunto da due autori che più di altri si son fatti carico di
trasmettere la visione pedagogica di una diversità che si percepisce ictu oculi, ma si erode
a mano a mano che si va oltre ciò che appare (che sia la nazionalità, il colore della pelle,
il culto religioso o altro) e si scava nell’intimo delle singole persone, dei loro sentimenti.
35
Tra i capisaldi della letteratura per bambini (destinata innanzitutto, ça va sans dire,
agli adulti che dovrebbero capire quelle storie, prima di leggerle) si può scegliere una
delle Favole al telefono (1962, Torino: Einaudi) di Gianni Rodari: Uno e sette narra di «un
bambino che era sette bambini», diversi per nomi, famiglie, lingue e carnagioni, ma era‐
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ve aver paura dell’altro (a partire dal compagno di scuola di origine stranie‐
ra), solo perché ai loro occhi appare sconosciuto o, comunque, “diverso”,
avranno iniziato il cammino col piede giusto e verrà loro naturale conti‐
nuarlo. Magari col nostro aiuto.
no «lo stesso bambino che aveva otto anni, sapeva già leggere e scrivere e andava in bici‐
cletta senza appoggiare le mani sul manubrio»; quei bimbi, una volta cresciuti, «non po‐
tranno più farsi la guerra, perché tutti e sette sono un solo uomo». All’inizio il bambino
pensa «Una persona non può stare in sette posti», ma a fine lettura subentra la consape‐
volezza che le persone sono diverse, ma la natura è la medesima: combattere altri esseri
umani equivale a combattere se stessi (e a distruggersi); allontanare qualcuno per le dif‐
ferenze percepite significa perdere una parte di sé, destinarsi all’incompletezza.
Se per qualcuno è troppo “basso” leggere un classico della letteratura per l’infanzia,
risulta forse più stimolante la lezione di Umberto Eco, semiologo, filosofo e romanziere,
ma autore anche di racconti per bambini e ragazzi, trasformati in veicolo d’impegno e
valori socialmente rilevanti. Uno di questi è I tre cosmonauti (1966, Milano: Bompiani),
storia di tre astronauti – un americano, un russo e un cinese, che non si amavano tra loro
perché, parlando lingue e cantando musiche differenti, «non si capivano e si credevano
diversi» – partiti coi loro razzi verso Marte e arrivati insieme in un «paesaggio meravi‐
glioso e inquietante». Accorgendosi di aver invocato contemporaneamente la madre, pur
se in lingue diverse, si avvicinano e imparano a conoscersi. L’arrivo di un marziano, or‐
ribile a vedersi, li fa coalizzare («Di fronte a quel mostro le piccole differenze scompari‐
vano. Che importava se parlavano un linguaggio diverso?») per distruggerlo, ma
l’improvvisa comparsa di un uccellino marziano, spaventato e tremante, fa commuovere
sia i tre cosmonauti sia il marziano: «non basta che due creature siano diverse perché
debbano essere nemiche», finiscono per pensare i terrestri, ipotizzando col marziano che
sarebbe bello fondare «una grande repubblica spaziale in cui tutti andassero d’amore e
d’accordo». Utopia, certo, ma prima di arrivare allo spazio, basterebbe iniziare dalla Ter‐
ra, magari da una sua piccola parte per poi allargarsi…
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Ab stra c t
Security and Freedom: Margins and Horizons of (Common) Sense
Security and freedom are often in conflict (this can be observed also
comparing the first contractual theories of natural law, proposed by
Hobbes and Locke): this happens more frequently in a multicultural so‐
ciety. This paper focuses on some aspects related to this conflict. First of
all, positive and negative consequences of establishing or not establish‐
ing (written) rules about declaring states of emergency are analyzed.
Then the role of the concepts of “margin” (as a border or as a margin of
appreciation) and “common sense” is investigated, taking into consider‐
ation some different national experiences (state of emergency not pro‐
vided by Italian Constitution, rules about declaring states of emergency
and banning political parties associated with terrorism in Spain). Partic‐
ular attention is paid to conflicts between security and freedom about
the use of cultural and religious symbols, like Muslim veils and the bur‐
qini, the swimming costume worn by some Muslim women and sub‐
stantially banned (July‐August 2016) by some French mayors, but then
the Conseil d’Etat suspended the ban. The last part of the paper tries to
suggest a way to overcome fear of foreigners – even in these bloody pe‐
riods because of many terrorist attacks – through a correct intercultural
and dialogic approach, in order to avoid serious misunderstandings.
Keywords: Burqini, cross‐cultural constitutionalism, freedom, security,
veil.
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