LORENZO BATTISTINI
Autobiografia e Rinascimento: il ‘clamoroso’ caso di Francesco Guicciardini
In
La letteratura italiana e le arti, Atti del XX Congresso
dell’ADI - Associazione degli Italianisti (Napoli, 7-10 settembre 2016),
a cura di L. Battistini, V. Caputo, M. De Blasi, G. A. Liberti,
P. Palomba, V. Panarella, A. Stabile,
Roma, Adi editore, 2018
Isbn: 9788890790553
Come citare:
Url = http://www.italianisti.it/Atti-diCongresso?pg=cms&ext=p&cms_codsec=14&cms_codcms=896
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La letteratura italiana e le arti
LORENZO BATTISTINI
Autobiografia e Rinascimento: il ‘clamoroso’ caso di Francesco Guicciardini
Dopo aver illustrato le principali posizioni critiche sul tema delle scritture autobiografiche e aver circoscritto il campo d’indagine al periodo che
segna il passaggio tra età media ed età moderna, mi propongo di mettere in evidenza come Francesco Guicciardini sfrutti diverse consuetudini
letterarie dell’epoca — dal libro di famiglia all’esame di coscienza, dalla retorica classica di tipo giudiziario e consolatorio alla brevitas della
forma-ricordo — per riflettere sulle propria esperienza di vita. La straordinaria novità dei Ricordi, un vero e proprio unicum nella storia
letteraria europea, appare così sotto una luce nuova, inconsueta, se si considera il testo come l’approdo di un articolato percorso volto a ricercare, da
parte dell’autore, una forma espressiva adeguata ai propri bisogni interiori.
Autobiografi(e)
Sebbene la parola ‘autobiografia’ presenti, almeno ad un primo sguardo, un significato assai chiaro, preciso e di
facile interpretazione —scrittura (graphía) della vita (bíos) raccontata da sé medesimo (il prefisso autós) —essa
costituisce uno dei temi più discussi dell’intero dibattito letterario. Generazioni di specialisti si sono in effetti
interrogate sull’origine e sul corpus delle scritture autobiografiche e copioso è il numero di studi ad esse
consacrati, tanto che già nel 1980 W. C. Spengemann, nel licenziare il suo Forms of Autobiography, poteva
affermare:
Se avessi trascritto queste pagine solo cinque anni fa, avrei dovuto cominciare lamentando l’incuria degli
studiosi per questa letteratura tanto degna di interesse. Ora debbo giustificare l’aggiunta di un altro manipolo
di pagine alla pila che sale velocemente.1
Decenni di studi non hanno però portato ad approdi universalmente condivisi sul problema
dell’autobiografia. All’interno di quella che si potrebbe definire una diatriba vera e propria, due rimangono in
sostanza le principali posizioni che ci appaiono, se non proprio inconciliabili, quantomeno distanti: da un lato
troviamo chi ha tentato di definire un canone più moderno e restrittivo di scritture autobiografiche, fortemente
legato alla nozione di ‘genere’, dall’altro invece chi ha preferito mantenere uno sguardo decisamente più ampio
nei confronti dell'argomento. Galeotto di tale profonda distinzione fu un seminario interamente consacrato al
tema dell’autobiografia, che ebbe luogo alla Sorbona nel gennaio del ’75. In quest’occasione due specialisti,
proponendo il proprio punto di vista, giunsero ad un vero e proprio scontro verbale, arrivando ad utilizzare toni
oltremodo accesi.
Il primo è Philippe Lejeune, uno dei massimi esperti viventi in materia di scritture autobiografiche, il quale
rifiutandosi di considerare l’autobiografia come un tipo di scrittura originario ne sottolinea la stretta derivazione
dal romanzo settecentesco. Anche il termine compare per la prima volta proprio in quegli anni, in un saggio di
Robert Southey del 1809, per indicare un particolare tipo di scrittura biografica che andava sempre più
diffondendosi in Europa. Per evitare quindi di cadere in quella che Lejeune riconosce come «l’illusion de
l’éternité»,2 l’autobiografia andrà collocata all’interno del contesto storico e sociale d’appartenenza.
Per queste ragioni Lejeune individua nelle Confessioni di Rousseau l’archetipo del genere autobiografico. Ne
consegue che tutte le scritture anteriori al testo del ginevrino, non possedendo gli adeguati requisiti, non
potranno entrare a far parte del canone ma costituiranno quella che il critico chiama polemicamente la «preistoria
dell’autobiografia».3 Il critico fa qui riferimento alla monumentale Geschichte der Autobiogaphie di Georg Misch,
un’opera in più volumi dove l’autore ripercorre la storia dell’autobiografia fin dalla civiltà egizia: «c’est làune
tentative idéologique et mythologique sans grande pertinence historique».4
1
W.C. SPENGEMANN, The Forms of Autobiography. Episodes in the history of a literary genre, New Haven and London, Yale
University Press, 1980, XI; traggo la citazione in traduzione da G. FOLENA, Premessa, «Quaderni di retorica e di poetica»
(1986), 1 (numero monografico su L’autobiografia, il vissuto e il narrato), 5-7: 5.
2 P. LEJEUNE, Autobiographie et histoire littéraire, «Revue d’histoire littéraire de la France», LXXV (1975), 6, 903-936: 905.
3 Ivi, 933.
4 Ivi, 906.
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Sempre nel 1975 Lejeune pubblica poi il suo Pacte Autobiographique, testo imprescindibile per chiunque decida
di avventurarsi nella fitta selva delle scritture autobiografiche. Facendo ordine all’interno del vasto e caotico
insieme testuale, egli riesce per primo ad offrire un approdo strutturalista al problema di genere e a proporre una
definizione precisa e minimale di autobiografia «destinata a diventare canonica e popolarissima»:5
Récit rétrospectif en prose qu’une personne réelle fait de sa propre existence, lorsqu’elle met l’accent sur sa
vie individuelle, en particulière sur l’histoire de sa personnalité. 6
A tutti i requisiti concentrati in questo denso periodo, va poi aggiunto il ‘patto’ vero e proprio stipulato tra il
lettore e l’autore, tramite il quale quest’ultimo si assume l’impegno di non tralasciare, omettere e soprattutto
modificare nessun evento passato; a dire insomma, tutta la verità, solo la verità, nient’altro che la verità.
Il filosofo Georges Gusdorf, un veterano degli studi sulle scritture autobiografiche, è il teorico che nel
gennaio del ’75 attacca aspramente i metodi e i contenuti della critica lejeuniana. Già nel 1948 egli presentò, sotto
la guida di Gaston Bachelard, una tesi di dottorato dal titolo La Découverte de Soi, dove analizzava gli approcci e le
tecniche della conoscenza di sé che si sono susseguiti nella storia. A questo lavoro seguirono nel giro di qualche
anno i due volumi di Mémoire et Personne —dove si sottolineava il ruolo formativo e creativo della memoria — e il
breve ma fondamentale saggio Conditions et limites de l’autobiographie, che ancora oggi rappresenta una pietra miliare
all’interno degli studi sull’autobiografia. In questo scritto il filosofo francese anticipa alcuni dei concetti che
verranno ripresi una ventina di dopo nella polemica col collega Lejeune:
Toute oeuvre d’art est projection du domaine intérieur dans l’espace extérieur, où il vient, en s’incarnant,
prendre conscience de soi-même. D’où la nécessité d’une critique seconde qui, au lieu de vérifier la correction
matérielle du récit ou de mettre en lumière sa valeur artistique, s’efforce d’en dégager la signification intime et
personnelle, en la considérant comme le symbole, en quelque sorte, ou la parabole, d’une conscience en quête
de sa propre vérité.7
Gusdorf si rifiuta categoricamente di rinchiudere l’autobiografia tout court in una provincia a sé stante e di
separarla dai filoni che la precedono. Egli sostiene che alla base di tutta la letteratura dell’io si celi un tentativo di
presa di possesso di sé da parte di chi redige i testi. Questi poi scandiscono l’evoluzione del rapporto che l’uomo
instaura con sé stesso. Il fatto di prendere come archetipo le Confessioni di Rousseau, liquidando le iniziative a lui
precedenti come la ‘preistoria’ di un genere che si sviluppa solo a partire dal XVIII secolo, fa sì che i caratteri
originari che accomunano le diverse tipologie di scritture dell’io vengano gettati nell’oscurità. Rousseau infatti
non rappresenta che una singola tappa, attraverso la quale l’autobiografia acquisisce i caratteri, anche sociologici,
del romanzo moderno:
Si paradoxal que cela puisse paraître, le rôle propre de Rousseau dans l’histoire de l’autobiographie pourrait
bien avoir consistéàajouter aux motivations traditionnelles deux raisons supplémentaires pour écrire une
œuvre de ce genre: le désir de devenir célèbre et le désir de gagner de l’argent.8
Gusdorf avrà poi modo di ritornare su questi argomenti in Les Écritures du Moi e in Auto-bio-graphie, i due
corposi volumi che costituiscono Lignes de Vie. I sedici anni di distanza che separano questi lavori dal convegno
sorboniano non smorzano minimamente i toni polemici contro i «sofisti»e i «retorici speculatori»della critica
moderna:
5 A. BATTISTINI, Diffrazioni dell’io. Le scritture autobiografiche nella critica di Marziano Guglielminetti, «Levia Gravia», XII (2010),
153-164: 154.
6 P. LEJEUNE, Le Pacte Autobiographique, Paris, Éditions du Seuil, 1975, 14.
7 G. GUSDORF, Conditions et limites de l’autobiographie, in G. Reichenkron-E. Haase (a cura di), Formen der Selbstdarstellung.
Analekten zu einer Geschichte des literarischen Selbstportraits. Festgabe für Fritz Neubert, Berlin, Duncker und Humblot, 1956, 105123: 119.
8 G. GUSDORF, De l’autobiographie initiatique à l’autobiographie littéraire, «Revue d’histoire littéraire de la France», LXXV
(1975), 6, 957-994: 966.
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Les écritures du moi ne sont pas des exercices de style, des arabesques arbitraires, dessinées sur le papier par
un scripteur inconscient manipulant àsa fantaisie les signes du langage. […] Par les soins de virtuoses plus ou
moins doués, experts dans le maniement des figures de style et des spéculations rhétoriques, la parole des
hommes est vidée de sa substance de vie, réduite àl’état abstrait et décomposée en systèmes de signes qui ne
signifient rien.9
Sebbene non siano mancati tentativi di conciliazione tra queste due scuole di pensiero ad opera di qualche
studioso,10 i due approcci appena descritti viaggeranno per decenni su binari paralleli. La differenza tra i due
punti di vista, riassumendo, consiste sostanzialmente nella diversità di approccio nei riguardi del confine tra i
generi. Se Lejeune, dal canto suo, mira a giustificare e ad ispessire i muri che separano il genere autobiografico da
altri tipi attigui di scrittura —memorie, diari, lettere, romanzo autobiografico, etc. —questi limiti Gusdorf li
mette in discussione, scegliendo di indagare l’evoluzione del rapporto che gli individui instaurano con la propria
sfera intima nelle diverse epoche. Detto in altre parole, se quest’ultimo si mostra soprattutto attento «a
investigare la natura dell’io e la dinamica psicologica in vista di una teoria sulla conoscenza», l’altro predilige
invece un tipo d’approccio che mira «a far luce sui mezzi espressivi e sulle diverse tecniche narrative con cui si
parla di sé stessi».11
Restringimento di campo
Gli studi di Philippe Lejeune saranno in seguito quelli destinati a prevalere e contribuiranno ad un graduale
spostamento dell’interesse degli specialisti sulle distinzioni tra autobiografia, romanzo autobiografico e forme di
autofiction. Testi come L’autobiographie en France e Le pacte autobiographique, editi rispettivamente nel 1971 e nel 1975,
costituiranno un vero e proprio spartiacque all’interno della critica.
Lo stesso Lejeune, nel corso degli anni, ebbe modo di tornare a parlare di quegli scritti. Nel capitolo
introduttivo di Moi Aussi, dall’eloquente titolo Le pacte autobiographique (bis), egli si difende dalle numerose critiche
che le sue tesi gli avevano procurato. Pur ammettendo la rigiditàdi qualche suo assioma, Lejeune rivendica la
centralità dei propri studi sostenendo di aver aperto una breccia all’interno del dibattito autobiografico:
Dans mon esprit la définition était un point de départ pour lancer une déconstruction analytique des facteurs
qui entrent dans la perception du genre. […] Je ne me reconnaissais plus, mais je ne pouvais pas nier. […]
Mon point de départ se transformait en point d’arrivée. J’étais un nouveau Larousse, ou un nouveau La Palice
[…] Du coup, mes erreurs deviennent des faits àétudier: même si c’est sur un autre plan, on ne pourra pas
contourner ce que j’ai écrit.12
Effettivamente, numerosi sono stati gli studi nati in polemica con la rigide posizioni dell’autore del Pacte.
Frange di studiosi ‘eterodossi’ che, considerando l’autobiografia un genere spugnoso, dai contorni assai porosi, si
sono rifiutati di circoscriverla all’interno di confini così angusti. Non sono poi mancate critiche al metodo stesso
col quale Lejeune ha operato:
Spesso è lo stesso critico letterario che, dopo aver fornito una determinata definizione del genere, costruisce
poi artificialmente un corpus di testi corrispondenti a quella definizione, scartando, come eccezioni o casi
aberranti, quelli che invece la contraddicono. In tal modo l’operazione critica assume la perfetta coerenza, e la
perfetta inutilità, della tautologia.13
9
G. GUSDORF, Les Écritures du moi: lignes de vie 1, Paris, Éditions Odile Jacob, 1991, 9.
Si vedano ad esempio gli studi di Philippe Gasparini, in questo senso ambivalenti, in particolare: P. GASPARINI, Est-il
je? Roman autobiographique et autofiction, Paris, Éditions du Seuil, 2004 e ID., La tentation autobiographique: de l’antiquité à la
renaissance, Paris, Éditions du Seuil, 2013.
11 A. BATTISTINI, Lo specchio di Dedalo. Autobiografia e biografia, Bologna, Il Mulino, 1990, 167.
12 P. LEJEUNE, Moi aussi, Paris, Éditions du Seuil, 1986, 13-35.
13 A. CICCHETTI-R.MORDENTI, La scrittura dei libri di famiglia, in A. Asor Rosa (a cura di), Letteratura Italiana, v. II
Produzione e Consumo, Torino, Einaudi, 1983, 1117-1159: 1118.
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Nel suo Memoria e Scrittura, Marziano Guglielminetti prende come punto di partenza proprio le lacune
bibliografiche lasciate da Lejeune, soprattutto per quanto che riguarda il dominio italiano. Due sole, infatti, sono
le voci di autori italiani riportate in bibliografia dal francese, decisamente poche rispetto alle sei tedesche, alle
dieci inglesi e alle venticinque francesi. Il lavoro del critico torinese nasce dunque dal bisogno di mitigare i toni
perentori (e francocentrici) del collega d’oltralpe. Pur domandandosi se sia ancora legittimo tracciare una storia
dell’autobiografia,14 soprattutto se impostata con taglio nazionale, Guglielminetti sceglie di ripercorrere la storia
letteraria dell’Italia dal basso Medioevo fino al tardo Umanesimo. Egli mette in evidenza l’aspetto «larvale»15
dell’autobiografia, sottolineando come essa sia da considerarsi un genere camaleontico, capace di celarsi sotto
diverse forme di scrittura. Sebbene infatti i caratteri del romanzo settecentesco fossero estranei ad autori come
Dante, Petrarca, Boccaccio o Cellini, ciò non ha certamente impedito loro di trovare dei modi per scrivere di loro
stessi:
In controtendenza, non solo Marziano [Guglielminetti] si mostrava aggiornatissimo sugli studi intorno alle
scritture dell’io ma raccoglieva la sfida riduzionistica di Lejeune facendo vedere che il genere autobiografico è
stato molto più frequentato di quanto pensasse l’autore del Patto autobiografico, che lo aveva ristretto entro
una definizione troppo angusta. […] Questo forte senso della storicità ha consentito a Guglielminetti di
evitare che lungo la storia letteraria italiana soltanto l’autobiografia e la biografia potessero essere considerate
le uniche e legittime scritture dell’io.16
Guglielminetti pone al centro della propria indagine lo scarto che si crea, in chi sceglie di scrivere di sé, tra
l’esercizio della memoria e quello di scrittura. Tale scarto è condizionato dal rapporto che il soggetto instaura con
il proprio passato e dall’immagine che egli desidera lasciare di sé. Il critico torinese riprende inoltre il concetto di
«légitimité du je» teorizzato qualche anno prima da Starobinski17 per applicarlo ai testi degli autori da lui presi in
esame. Non è un caso, poi, che le ultime pagine siano consacrate proprio a Cellini: la sua Vita è infatti uno di
quei testi capace di far vacillare chi assume posizioni eccessivamente rigide, un’opera in grado di
mettere in questione, semplicemente con la propria esistenza schemi critico-interpretativi troppo asseverativi
e semplificatori, come quello che vorrebbe collocare nel Settecento (e in Francia) l’inizio di tutto. 18
Oltre a Guglielminetti, tra coloro che hanno rivendicato la possibilitàdi ripercorrere l’evoluzione
dell’autobiografia nella storia attraverso testi chiave, il periodo che in letteratura segna il passaggio tra età media e
moderna non ha mai cessato di destare un certo interesse. Vi è infatti chi ha riconosciuto in quest’epoca uno dei
momenti maggiormente fondativi della soggettività individuale, e chi addirittura ha affermato che l’origine stessa
dell’autobiografia vada collocata proprio nei secoli XIV e XV, in coincidenza con «la scoperta, che è peculiare di
una società borghese, dell’individualità vissuta con autocoscienza».19 Questa viene in particolar modo messa in
relazione con quei classici ‘scarcerati’, capaci di offrire nuovi strumenti ermeneutici:
I “barbari”non furono tali per aver ignorato i classici, ma per non averli compresi nella verità della loro
situazione storica. Gli umanisti scoprono i classici perché li distaccano da sé, tentando di definirli senza
confondere col proprio il loro latino. Perciò l’umanesimo ha veramente scoperto gli antichi […] onde non
può né deve distinguersi nell’umanesimo la scoperta del mondo antico e la scoperta dell’uomo, perché furon
M. GUGLIELMINETTI, Memoria e scrittura. L’autobiografia da Dante a Cellini, Torino, Einaudi, 1977, vii-xx.
F. D’INTINO, L’autobiografia moderna. Storie. Forme. Problemi, Roma, Bulzoni Editore, 1998, 17.
16 A. BATTISTINI, Diffrazioni dell’io…, 155.
17
J. STAROBINSKI, Le style de l’autobiographie, «Poétique», III (1970), 257-265 (trad. it. di G. Guglielmi, Lo stile
dell’autobiografia, in ID., L’occhio vivente, Torino, Einaudi, 1975, 204-216).
18 R. MORDENTI, Introduzione, in R. Caputo e M. Monaco (a cura di), Scrivere la propria vita: l’autobiografia come problema critico
e teorico, Roma, Bulzoni Editore, 1997, 9-24: 14.
19 G. RABITTI, Isotopie dell’io. Percorsi autobiografici, in P. Toffano (a cura di), La scrittura autobiografica fino all’epoca di Rousseau,
Fasano, Schena Editore, 1998, 11-56: 12.
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tutt’uno; perché scoprir l’antico come tale fu commisurare sé ad esso, e staccarsene, e porsi in rapporto con
esso.20
Sebbene Colin Morris inviti cautamente a separare il concetto di ‘umanesimo’ da quello di ‘individualismo’21
— in opposizione al celeberrimo studio di Jacob Burckhardt, che nel suo monumentale Die Kultur der Renaissance
in Italien salutava la figura del versatile umanista come il primo individuo pienamente cosciente della propria
soggettività ed unicità22 — con l’avvento della stagione umanistica l’ancestrale topica del nosce te ipsum comincia ad
assumere connotati diversi,23 grazie soprattutto ad un inedito connubio tra testi classici e cristiani. A quella che
Gusdorf riconosce come un’attitude di tipo dogmatique — quando l’individuo necessitava della presenza di
un’entità divina o trascendente per legittimare la propria domanda interiore — segue un approccio più diretto ed
immanente da parte dell’uomo nei riguardi della propria sfera intima. L’indagine individuale trova per la prima
volta un suo valore d’essere al di qua del confine con ciò che la trascende, permettendo così all’uomo di
addentrarsi negli oscuri spazi di quell’intimità che la spiritualità medievale riservava a Dio solo.24 Ha così origine
quella «riflessione sulla finitudine dell’uomo»25 che da Petrarca fino a Montaigne — «l’aube et le coucher de la
Renaissance»26 — costituirà uno dei denominatori comuni della conoscenza di sé:
Si Pétrarque, en ses exégèses sentimentales, fait figure d’initiateur àla conscience moderne de soi, Montaigne,
deux siècles plus tard, jalonne la désagrégation de la culture renaissante et l’avènement d’une anthropologie
positive, exploration de soi par soi, armée d’une lucidité plénière.27
Gusdorf infatti, pur consacrando al filosofo francese il primo capitolo di Les Écritures du moi —scelta di per sé
significativa anche perché rappresenta un’ennesima presa di posizione nei confronti del collega Lejeune, che
aveva appunto fatto coincidere con Rousseau la nascita della moderna autobiografia — riconosce al poeta
aretino di aver aperto una breccia nel rapporto tra l’uomo con sé stesso. Petrarca, quindi, come pioniere di
un’introspezione di tipo laico, antesignano delle moderne scritture autobiografiche, tesi che tra l’altro viene
sostenuta da altri autorevoli studiosi:
It is evident that the Secretum represents a mid-point between confession itself and autobiography written as a
literary genre.28
Il ‘clamoroso caso’ di Francesco Guicciardini
Da parte degli specialisti di scritture autobiografiche non vi è mai stata un’attenzione particolare per la figura di
Francesco Guicciardini. L’interesse per il lessico e per il pensiero politico hanno infatti di gran lunga soverchiato
altri aspetti dell’opera dello storico fiorentino.
Sappiamo ormai che la maggior parte degli scritti guicciardiniani nasce col preciso scopo di rispondere a delle
esigenze personali, intime, contingenti. Oltre a costituire una pratica quotidiana, la scrittura è per lui «il mezzo
privilegiato con cui esaminare una situazione precisamente determinata»,29 un insostituibile strumento
E. GARIN, L’umanesimo italiano, Bari, Laterza, 1958, 16-17.
C. MORRIS, The discovery of the individual: 1050-1200, London, SPCK, 1972 (trad. it. di R. Magiar, A. Masturzo, La scoperta
dell’individuo: (1050-1200), Napoli, Liguori, 1985, 26).
22 J. BURCKHARDT, Die Kultur der Renaissance in Italien, Basel, Ein Versuch, 1860 (trad. it. di D. Valbusa, La civiltà del
Rinascimento in Italia, Firenze, Sansoni, 1943, 151-198).
23 P. HADOT, Exercices spirituels et philosophie antique, Paris, Études augustiniennes, 1981 (trad. it. di A.M. Marietti, Esercizi
spirituali e filosofia antica, Torino, Einaudi, 1988, 22).
24 G. GUSDORF, Les écritures du moi…, 200-202.
25 C. SENSI, Scrivere di sé: itinerari nell’autobiografia, «Levia Gravia», XII (2010), 1-144: 82.
26 M. TÉTEL, Présences italiennes dans les Essais de Montaigne, Paris, Librairie Honoré Champion, 1992, 29.
27 G. GUSDORF, Les Écritures du moi…, 200.
28 T.C. PRICE ZIMMERMANN, Confession and autobiography in the early Renaissance, in A. Molho e J.A. Tedeschi (a cura di),
Renaissance: studies in honor of Hans Baron, Firenze, Sansoni, 1971, 119-140: 134.
29 M. PALUMBO, Francesco Guicciardini, in F. Brioschi e C. Di Girolamo (a cura di), Manuale di letteratura italiana. Storia per
generi e problemi, vol. II Dal Cinquecento alla metà del Settecento, Torino, Bollati Boringhieri, 1994, 541-552: 541-542.
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d’osservazione e di conoscenza delle ‘cose del mondo’. Per questa ragione, in quello che Riccardo Scrivano ha
chiamato il «clamoroso caso di Francesco Guicciardini»,30 vita e opera dell’autore risultano unite da un legame
profondissimo tramite un peculiarissimo intreccio di politica ed autobiografismo:
Il est difficile de trouver un auteur dont la pensée soit plus intiment liée àson action et aux événements de son
temps que ne l’a étécelle de Guichardin.31
Lungo tutto l’arco della sua vita Guicciardini sceglie inoltre di cimentarsi in diversi generi testuali, che egli
riprende e rinnova spesso «con profonde modificazioni».32 Il vissuto dell’autore, posto alla base della
maggioranza dei suoi testi, e la sua spiccata «curiosità intellettuale»33 lo portano infatti a mettersi alla prova con
varie pratiche scrittorie, le cui norme sono sempre scrupolosamente rispettate, ma che vengono inevitabilmente
superate nel momento in cui cessano di risultare utili, funzionali per l’autore.
Inizialmente egli sceglie di affidarsi a un filone testuale a lui ben noto, quello dei ‘libri di famiglia’. Si tratta di
testi derivanti direttamente dai libri di conti e d’amministrazione dei mercanti, nei quali colui che scrive lo fa in
quanto facente parte di una dimensione più ampia, collettiva, famigliare, e si rivolge direttamente ai futuri
discendenti.
Guicciardini non apporta sostanziali novità a questo particolare genere scrittorio, se non per il fatto di
separare ulteriormente le sezioni interne del ‘libro di famiglia’, allargando gli interstizi tra un testo e l’altro fino a
farli diventare testi autonomi e non più appunto porzioni di una singola opera. Viene così a crearsi una sorta di
narrazione tripartita, costituita da: a) le Ricordanze, dove l’autore ripercorre le fasi più salienti della propria vita, i
propri studi, il proprio matrimonio, i primi incarichi svolti; b) le Memorie di famiglia, che consistono nella rassegna
di otto ritratti di avi da cui sarà possibile trarre insegnamenti utili per una propria futura condotta politica; c) le
Storie Fiorentine, prima prova storiografica di Guicciardini, dove vengono presi in esame fatti riguardanti la città
Firenze, soprattutto dopo la morte di Lorenzo de Medici, e dove l’autore allarga il campo di osservazione dalla
dimensione famigliare a quella municipale.
L’intero blocco di queste scritture —i cui titoli sono editoriali, come del resto tutta la produzione
guicciardiniana —costituisce così una sorta di iniziazione, di riflessione preliminare finalizzata alla costruzione di
una propria identità politica. Questa viene generata dall’incontro tra due principali elementi: da una parte un forte
senso d’appartenenza alla casta degli ‘ottimati’, dall’altra l’osservazione diretta del complesso quadro politico del
tempo.
A seguito del fatidico 1527 e della definitiva disfatta della lega anti-imperiale, accade che lo sguardo
introspettivo di Guicciardini si intensifichi e che nel giro di tre anni egli scelga di impostare il proprio colloquio
interiore attraverso forme diverse. Dopo aver ripreso, in un primo momento, il proprio libro di famiglia, lo
scrittore decide di abbandonare tale genere testuale per redigere tre testi alquanto atipici rispetto a tutta la sua
precedente produzione. Si tratta della celebre «trilogia della sconfitta»34 composta da una consolatoria classica e
da due orazioni fittizie.
Nella Consolatoria — che Marziano Guglielminetti ha riconosciuto come il «primo esame interiore
autosufficiente»35 nella storia letteraria italiana — lo scarto con Boezio avviene fin dagli inizi del testo, quando
l’amico immaginario, rivolgendosi a Guicciardini stesso, afferma di non voler ricorrere ad argomentazioni
religiose o filosofiche:
30
R. SCRIVANO, Dalla memoria alla letteratura. Processi formativi e modelli di autobiografia del Cinquecento italiano, «Versants», VIII
(1985), 7-26: 11.
31 A. OTETEA, François Guichardin : sa vie publique et sa pensée politique, Paris, Picart, 1926, 4.
32 E. LUGNANI SCARANO, Guicciardini e il «classicismo dei moderni», in A.E. Baldini e M. Guglielminetti (a cura di), La
“riscoperta” di Guicciardini: atti del convegno internazionale di studi: Torino, 14-15 novembre 1997, Genova, Name, 2006, 29-43: 30.
33 E. CUTINELLI-RÈNDINA, Guicciardini, Roma, Salerno, 2009, 27.
34 E. CUTINELLI-RÈNDINA, I volti del desiderio in Francesco Guicciardini, in R. Ruggiero (a cura di), Lessico ed etica nella
tradizione italiana di primo Cinquecento, Lecce e Rovato, Pensa multimedia, 2016, 271-284: 282.
35 M. GUGLIELMINETTI, Memoria e scrittura…, 287.
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Sono queste cose verissime, e che se noi avessimo purgato gli animi, come ragionevolmente doverremo avere,
medicherebbono tutte le nostre infermità, e ci terrebbono sempre in questo mondo contenti e felici […]. Ma
ho anche per scusato chi dalla fragilità umana è impedito a levarsi tanto alto, e chi in ogni avversità che gli
sopravenga si ricorda e senta di essere uomo; e come io desidero che tu sia in questa perfezione, così
confesso io di esserne alieno: e però non volendo imitare certi medici che spesso danno allo infermo quelle
medicine che per sé non piglierebbono parlerò teco più bassamentee più secondo la natura degli uomini e del
mondo.36
Gli altri due testi, l’Accusatoria e la Defensoria, rappresentano invece un modello di scrittura bipartita che lo
scrittore aveva già utilizzato in precedenza per ‘fermare il punto’ su questioni politiche. Nel primo scritto l’autore
espone, mediante la voce di un immaginario accusatore, le diverse accuse che egli aveva subito dai propri
concittadini in quel medesimo periodo, per poi difendersene nello scritto successivo. La scrittura intima di
Guicciardini finisce così con l’assumere degli aspetti inediti: introspettivi e analitici nel primo scritto, apologeticobiografici negli altri due.
Anche in questo caso però l’autore abbandona prematuramente questi modelli per passare ad altro. La
Defensoria rimane infatti incompiuta e qualche mese più tardi, nella primavera del 1528, lo scrittore raccoglie — in
quella che sarà poi battezzata redazione B dalla critica novecentesca — tutti i ricordi scritti lungo la sua carriera
politica, lasciandoli più o meno nel medesimo ordine di scrittura, sostanzialmente immutati. Guicciardini si affida
dunque alla forma-ricordo per tentare di far fronte all’immensa complessità del reale. L’io dell’autore, sito spesso
sotto la superficie della prosa, là dove si cela la parte più sostanziosa del ragionamento, commenta e giudica idee
ed opinioni alla luce della propria esperienza individuale e politica.
Dopo aver rimesso assieme i ‘cocci’ redatti nell’ultimo quindicennio — dall’esperienza di Spagna nel 1512 agli
anni della luogotenenza — Guicciardini pare accorgersi che quei tasselli, nel loro insieme, non lo rappresentano
più. Due anni dopo accade infatti che lo scrittore riprenda daccapo la sua opera, riscrivendola, come ormai
sappiamo, senza avere con sé le precedenti redazioni:
Ai ricordi Guicciardini tornò due anni dopo, con grande e rinnovato impegno: segno che quella raccolta del
1528 non lo aveva soddisfatto e che era necessario un ripensamento complessivo. 37
Dalla raccolta, dunque, si passa così ad un’opera vera e propria, pienamente autonoma rispetto ai passaggi
precedenti. I pensieri della redazione B appartengono infatti a un periodo andato, superato, precedente alla
catastrofe: Guicciardini decide così di riscrivere ex novo il suo intero impianto teorico con sostanziali cambiamenti
ed evoluzioni. Egli rilegge la propria esperienza alla luce della disfatta, andando così a creare un nuovo modello
che «fagocita»38 diversi tipi di forme brevi.
Il senso di disincanto che pervade l’ultima redazione dei Ricordi aprirà poi la strada alla monumentale Storia
d’Italia. Nei progetti iniziali dell’autore l’opera doveva narrare esclusivamente gli anni della propria luogotenenza,
sul modello dei Commentarii di Cesare. Guicciardini viene però persuaso dall’amico Iacopo Nardi a scrivere
l’opera che conosciamo «per fuggire l’invidia quando havesse trattato di se medesimo».39 Egli decide quindi di
allargare gli orizzonti narrativi del suo scritto e di dipingere un’epoca chiave della storia europea in quanto
testimone privilegiato dei fatti narrati. L’opera acquista così il sapore di una «revanche sur l’histoire»,40 tipica delle
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F. GUICCIARDINI, Consolatoria, in Opere, a cura di E. Lugnani Scarano, vol. I, Torino, UTET, 1970-1981, 487-512: 491-
492.
37 T. ZANATO, Qualche messa a punto dei Ricordi di Guicciardini, «Giornale storico della letteratura italiana», CLXXXVI (2009),
352-429: 397.
38 E. LUGNANI SCARANO, Guicciardini e il «classicismo dei moderni»…, 30.
39 R. NANNINI, La vita di M. Francesco Guicciardini, in La Historia d’Italia di m. Francesco Guicciardini gentil’huomo fiorentino
nuouamente con somma diligenza ristampata, & da molti errori ricorretta. Con l’aggiunta de’ sommarij a libro per libro: & con le annotationi in
margine delle cose piu notabili. Fatte dal reverendo padre Remigio Fiorentino. Ove s’E messa ancora una copiosissima tavola per maggior
commodita de’lettori, Venezia, Nicolò Bevilacqua, 1568, 4v.
40 G. GUSDORF, Conditions et limites de l’autobiographie…, 113.
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La letteratura italiana e le arti
autobiografie degli uomini di Stato, le quali possiedono spesso una componente di propaganda postuma volta a
fornire una verità personale sulle proprie azioni politiche.
Osservando i vari passaggi che abbiamo appena descritto, viene da chiedersi «se i prodotti migliori
dell’intelligenza guicciardiniana non nascano proprio dalla necessità di superare i limiti angusti della cultura di
famiglia».41 Oltre a costituire una pietra miliare del pensiero politico, il corpus guicciardiniano jalonne, per utilizzare
un verbo caro a Gusdorf, l’evoluzione delle scritture dell’io mezzo secolo prima del saggismo di Montaigne. La
sua opera può dunque essere considerata, alla pari di quella del francese, come uno dei «vangeli dell’interiorità
moderna».42
41 A. CICCHETTI-R.MORDENTI, I libri di famiglia in Italia, vol. I. Filologia e storiografia letteraria, Roma, Edizioni di storia e
letteratura, 1985, 82.
42 G. GUSDORF, Conditions et limites de l’autobiographie…, 110 (trad. mia).
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