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DI FRONTE E ATTRAVERSO 976 Degli stessi Autori presso Jaca Book A. Giuliani (con J.P. Zbilut), L’ordine della complessità, 2009 C.M. Modonesi (con G. Tamino), a cura di, Biotecnocrazia. Informazione scientifica, agricoltura, decisione politica, 2007 –, Fast Science. La mercificazione della conoscenza scientifica e della comunicazione, 2008 –, Biodiversità e beni comuni, 2009 Alessandro Giuliani Carlo Modonesi SCIENZE DELLA NATURA E STREGONI DI PASSAGGIO © 2011 Editoriale Jaca Book SpA, Milano tutti i diritti riservati Prima edizione italiana giugno 2011 Copertina e grafica Ufficio grafico Jaca Book In copertina ??? Redazione e impaginazione CentroImmagine, Lucca ISBN 978-88-16-40976-7 Per informazioni sulle opere pubblicate e in programma ci si può rivolgere a Editoriale Jaca Book SpA, Servizio Lettori via Frua 11, 20146 Milano, tel. 02/48561520-29, fax 02/48193361 e-mail: serviziolettori@jacabook.it; internet: www.jacabook.it A Flaminia e Irene, che possano sempre tenere il cuore aperto alla bellezza AG A Monica, e al suo senso della natura CM INDICE Prefazione, di Ireneo Ferrari 9 Introduzione, di Alessandro Giuliani e Carlo Modonesi 15 1 Stregoni di passaggio 23 2 Il canone scientifico 35 3 Oltre il giardino: il bello e il brutto di quando la scienza «esce di casa» 41 1. Bella scienza: correlazioni, rischio e crisi, dalla fisiologia alla finanza 2. Brutta scienza: donne in preda a una crisi ormonale 4 Il Barcoding della biodiversità: un’innaturale tendenza delle scienze naturali 7 43 47 53 Indice 5 Verso un’ecologia della mente: scienze del destino e altre ideologie 63 6 Specie biologiche, cultura simbolica e gli specchi deformanti del postmodernismo 77 7 Zoofotocopie e tecnoassurdità: il lato oscuro della zoologia fantastica 89 8 Tirando le somme 103 9 Letture consigliate per il lettore curioso 109 8 PREFAZIONE Gli autori di questo libro, Alessandro Giuliani e Carlo Modonesi, sono scienziati impegnati da anni in settori strategici della ricerca naturalistica e biologica. Ma hanno anche un’abilità del tutto inusuale tra i cultori di queste materie: riescono a dilatare i contenuti e i problemi delle discipline di cui si occupano fuori dai corridoi stretti delle specializzazioni per incrociare nuclei di pensiero scientifico e filosofico di intenso e drammatico rilievo; ed estrarne suggestioni che investono questioni pressanti del nostro vivere civile, partendo dall’analisi dei fattori di distorsione e ripiegamento del ruolo culturale e sociale della scienza. Personalmente mi è parso di riconoscere l’asse tematico del libro nell’assunto della scienza come un’arena privilegiata in cui si gioca la partita culturale del nostro tempo e dunque il nostro futuro. Il quadro delle ombre, delle minacce e dei rischi è delineato con incisività. La scienza è ancora pervasa da impianti concettuali e pregiudizi ideologici che ne orientano l’attività entro angusti ambiti monodisciplinari e ne bloccano capacità di ideazione e prospettive di espansione e integrazione. Sono ancora prevalenti rappresentazioni deterministiche di eventi e dinamiche della natura e della società elaborate sull’idea di inattendibili sequenze di trasformazioni lineari, inevitabili e prevedibili. La cultura scientifica non appare, d’altra parte, particolarmente sensibile alla storia naturale, alla dimensione storica delle scienze della natura, all’inerente complessità e imprevedibilità dei processi evolutivi. E il successo delle tecnologie mirate al controllo e alla manipolazione dei 9 Prefazione fenomeni naturali, più che alla loro comprensione, sembra aver decretato una crisi irreversibile dell’idea stessa di natura, fino a determinare una disgiunzione di fatto dell’uomo dal suo mondo naturale. I venti di una globalizzazione disumanizzante esasperano queste tendenze e alimentano derive irrefrenabili nei settori della ricerca più permeabili alle logiche economiche e finanziarie dei mondi della produzione. Questa ricognizione delle «criticità» è presentata con argomentazioni incalzanti e toni polemici accesi, particolarmente aspri contro il negazionismo, che è parente stretto dello scientismo, «una caricatura de-problematizzata della scienza», e contro i fabbricanti di stregonerie o antiteorie, come le chiama Robert Laughlin, definendole «sistemi di pensiero che inibiscono l’indagine impedendo nuove scoperte». E tuttavia il libro è improntato a un robusto ottimismo pragmatico, se pure velato di inquietudine, che punta a un cambiamento di rotta verso comportamenti responsabili per «far scattare quella virata culturale necessaria a riempire di nuovi contenuti la civiltà del nostro tempo». Non riesco a trattenermi dal citare, tratta da un saggio di Marcello Cini, una concisa analisi dell’evoluzione recente del rapporto tra scienza e mercato, che dagli autori appare esplicitamente condivisa: «L’avvento dell’economia della conoscenza implica che ogni forma di conoscenza debba acquistare la forma della merce [...]. Anche la scienza diventa, da bene comune che era, un bene scarso da immettere sul mercato, di cui può fruire solo chi ha il denaro per acquistarlo [...]. Questa trasformazione della scienza penetra in profondità anche nella sfera dei contenuti e dei concetti utilizzati per rappresentare la realtà». Ma la citazione sollecita soprattutto una riflessione sulla sfida che gli autori ripropongono sull’agibilità di percorsi culturali che ci restituiscano una scienza intesa e praticata come bene comune. La sfida è ambiziosa: vi si oppongono resistenze colossali e raffinatissime insidie. Ma ci sono condizioni e risorse per vincerla: i frutti della ricerca della bellezza nella scienza, la riscoperta di un «canone» che alla ricerca associ la concretezza di una sapiente artigianalità, il valore della tradizione della storia naturale contro aporie meccanicistiche e finalistiche, la fertilità del pensiero scientifico dei maestri dell’evoluzionismo moderno, da Darwin a Mayr, a Lewontin, al nostro Cavalli Sforza, le sollecitazioni che ci vengono da intuizioni straordinarie di grandi artisti. Su questi fronti si dipana un racconto avvincente: Alessandro e Carlo hanno il dono di una scrittura efficace e di presa immediata anche nei passaggi tecnicamente più ostici. Il primo capitolo ci sprona 10 Prefazione all’amore per il concreto, a un rapporto diretto e nativo con la materia e la natura, che ci restituisca l’emozione, la curiosità e il realismo di un bambino, la sua capacità di far esplodere mille domande. Seguono poi pagine di buona musica scandite su uno spartito di idee che ci parlano di una bellezza coerente con la natura e della capacità della scienza di rispecchiarla, di un’unità della bellezza, che pure si disvela in forme molteplici e mutevoli, e di una sua condivisibilità. Sul fenomeno della consonanza è verificata un’affascinante ipotesi di oggettivazione, di fondazione naturale della bellezza. Si parte dalle intuizioni di Pitagora sulla natura dei suoni per passare alla teoria di Galileo sulla consonanza come rapporto semplice di frequenze e arrivare poi a una scala di gradevolezza basata sul giudizio di ascoltatori. Con gli indici di questa scala convergono pienamente i risultati dell’analisi delle ricorrenze delle forme d’onda corrispondenti ai diversi accordi. La gradevolezza ha una base fisica oggettiva, che trova un riscontro definitivo a livello biologico nella semplicità di relazioni spaziali tra le zone della coclea sensibili a differenti frequenze. La scienza può ricondurci dunque a un rapporto diretto e intenso con la bellezza. Ma la bellezza è essa stessa attributo e proprietà delle scienze della natura, se si pensa all’intreccio mirabilmente complesso di relazioni e vincoli tra i paesaggi incantevoli della fisica, della chimica e della biologia, che hanno sostenuto le evoluzioni del pianeta, a diverse scale di spazio e tempo e di organizzazione, fino all’evento straordinario dell’irruzione sulla scena della cultura simbolica portata dalla nostra specie. E se si guarda alla produzione scientifica corrente, tra molti lavori spazzatura che si connotano per rozzezza, inconsistenza e presunzione, c’è anche tanta bella scienza. La bella scienza è fertile di idee che si sviluppano da un tessuto conoscitivo forte e dischiudono alla conoscenza nuovi orizzonti. È quella che abbandona il proprio corridoio specialistico e cerca aria fresca fuori, in un rapporto di felice contaminazione con altri saperi, generando novità, apertura e integrazione e contribuendo a vivificare paesaggi disciplinari inariditi. È quella che si ribella ai condizionamenti di una cultura egemone che permea in misura esorbitante i mass media e alimenta la corsa ai risultati eclatanti e agli annunci di prodigiose ricadute applicative. Questa corsa ossessiva e la sua inarrestabile accelerazione si possono assumere come indicatori di brutta scienza o, e si vuole, di scienza cattiva. È il caso degli sviluppi recenti della tassonomia biologica, affidati alla scorciatoia del sistema di catalogazione del11 Prefazione le specie del Barcoding of Life, una procedura che consente di dar vita a un immenso archivio di dati biomolecolari di piante e animali. Gli studi di biodiversità (e di conservazione della biodiversità) condotti su questa base di informazioni sono destinati a prescindere da conoscenze fondamentali relative alle dimensioni di complessità e storicità della biologia ed ecologia delle specie. E a propiziare l’estinzione delle preziose competenze scientifiche e artigianali accumulate da generazioni di tassonomi naturalisti. Sono segnalate altre inquietanti deformazioni ideologiche, che percorrono approcci culturali e pratiche di sperimentazione nelle bioscienze e nelle biotecnologie. Alle idee farneticanti del destino degli organismi predeterminato geneticamente (fenotipo) e della predestinazione degli uomini a essere ricchi o poveri (il privilegio inteso come «dono di natura»), gli autori rispondono evocando la bella storia sul destino umano narrata nel film Ovosodo di Paolo Virzì. E alla pratica deprimente, e intellettualmente ed economicamente insostenibile, della clonazione animale contrappongono la splendente zoofania del Manuale di zoologia fantastica di Jorge Luis Borges. Pagine intense e tese sono dedicate all’evoluzione recente della «cultura simbolica», ai percorsi che hanno allentato e compromesso il legame con la dimensione biologica dell’esistenza e accelerato i processi di trasgressione dei vincoli imposti dalla natura fisica, chimica e biologica del pianeta. Sull’idea di una sostanziale inesistenza di questi vincoli, e dunque di una completa disponibilità e plasmabilità della natura, sono stati predisposti e attuati veri e propri programmi di autodistruzione, a partire dal disegno di uno sviluppo concepito come crescita continua. Di più: la cultura sembra essersi arresa alla globalizzazione, si è fatta merce, si è uniformata e banalizzata perdendo la sua diversità storica, è diventata pensiero unico, incapace di rapportarsi con altri pensieri e di ammettere «culture altre». Ma «la partita culturale» non è ancora persa. Si può ancora giocare. E carte vincenti sono l’esperienza della bella scienza, che sa interrogarsi, aprirsi, interagire ed evolvere conservando e innovando, e il mestiere antico della storia e delle scienze della natura, che sa assumere l’incertezza come risorsa cognitiva per l’analisi dei sistemi complessi. L’orizzonte non può che essere quello dello sviluppo di una scienza, di una cultura e di un’etica della sostenibilità; e, contestualmente, dello sviluppo di capacità inedite di analisi delle relazioni tra processi e funzioni della natura e della vita, e storie e dinamiche della società e dell’economia. 12 Prefazione Risorse decisive per uscire bene dalla sfida sono la passione e il disinteresse delle tante persone impegnate nell’educazione, nella formazione e nella comunicazione naturalistica e ambientale. A loro si rivolge il messaggio inquieto e insieme ottimistico che il libro lancia per un futuro possibile. Ma è il mondo della scuola nel suo insieme, con tutte le sue contraddizioni esplosive, sono gli studenti e gli insegnanti della nostra scuola i primi destinatari del messaggio. Se è vero che lo sviluppo sostenibile non può essere compreso e attuato che come processo di apprendimento sociale e sviluppo di una piena democrazia cognitiva. IRENEO FERRARI Professore Ordinario di Ecologia all’Università degli Studi di Parma Parma, 21 marzo 2011 13 INTRODUZIONE Qualche tempo fa scrivemmo un articolo a cui tentammo di dare un po’ di visibilità in Rete, senza in verità riscuotere troppo successo. L’articolo puntava a far luce sulla falsa immagine della scienza che era filtrata attraverso alcuni organi di informazione nel dare conto di una conquista scientifica definita «sensazionale»: la creazione della «vita artificiale» realizzata in laboratorio dal biologo statunitense Craig Venter insieme al suo team. Dopo avere letto l’articolo originale (Creation of a Bacterial Cell Controlled by a Chemically Synthesized Genome) pubblicato su «Science», da cui era stata tratta la notizia, ci parve immediatamente chiaro che l’unico aspetto davvero «artificiale» dell’intera vicenda era stata la costruzione dell’evento mediatico. Con una certa presunzione, ma anche animati da un sincero amore per la realtà dei fatti, mettemmo per iscritto poche e semplici idee che aiutassero a riportare il presunto miracolo di Venter sul piano della concretezza. Nonostante il titolo del lavoro originale di Venter e colleghi ruotasse, in modo francamente avventato, intorno al termine creation, i suoi contenuti raccontavano qualcosa di molto diverso. In esso si descriveva il trasferimento del genoma del microrganismo Mycoplasma mycoides all’interno di una cellula batterica precedentemente deprivata del suo proprio genoma, il tutto corredato da alcuni raffinati interventi prodotti in laboratorio. La procedura segnava certamente un avanzamento significativo nell’ambito delle pratiche biotecnologiche, ma non produceva alcunché né in termini di nuove conoscenze, né in ter15 Introduzione mini di nuove spiegazioni di fenomeni naturali. La «scienza della natura», insomma, non era avanzata di un passo. A onor del vero, va detto che la nostra iniziativa qualche piccolo effetto lo ottenne. Nel giro di qualche giorno, infatti, dal presidente di Jaca Book, ci arrivò la proposta di scrivere un volumetto di aggiornamento sul credito che sempre più spesso viene ottusamente accordato a «novità» della ricerca la cui reale portata scientifica è modesta, per non dire nulla. Onorati per la proposta dell’amico Sante Bagnoli, pensammo di andare oltre il problema delle iperboli linguistiche in voga sulla letteratura scientifica, e decidemmo di allargare il nostro ragionamento argomentando con esempi documentati che le falsità, le ambiguità e le manipolazioni della ricerca scientifica si rivelano essere quasi sempre casi di scienza di dubbia fattura (che in questo libro abbiamo chiamato «brutta scienza»). La cosa non dovrebbe stupire. Nonostante più di duecento anni spesi a convincerci della possibilità di un’estetica indipendente dalla «verità profonda» del contenuto, la realtà ha una sua coriacea resistenza che fa sì che, soffiata via la polvere delle ideologie, l’antichissima e indissolubile unione fra vera bellezza e verità riemerga in superficie. Lo vediamo nella musica, nella pittura, nell’architettura, o nella facile presa di coscienza della transizione avvenuta tra paesaggio «umanizzato» (per esempio, gli antichi borghi dell’Italia centrale) e paesaggio «disumanizzato» (per esempio, le moderne periferie industriali). Lasciarsi guidare dalla ricerca del bello nella scienza, dunque, era una pista troppo attraente, e la nostra ingenua scommessa è stata quella di andare esattamente in quella direzione, immaginando che, con un po’ di fortuna, questo ci avrebbe permesso di disvelare le brutture di certa tecnoscienza contemporanea in modo molto più convincente di qualsiasi dettato etico. Nella scienza dei grandi proclami mediatici, i modelli di spiegazione e i metodi di lavoro vengono piegati al punto che una procedura puramente tecnologica viene presentata come un traguardo epocale della civiltà. Ma la distorsione esagerata lascia indelebili tracce di bruttezza che inesorabilmente emergono anche dal di sotto degli strati di cerone più spesso. La natura è nei fatti molto più raffinata e imprevedibile delle tecnologie inventate dall’uomo e, per quanto molti scienziati siano legittimamente diventati abili promotori dei propri interessi mediatici ed 16 Introduzione economici, essa non si inchina tanto facilmente alle loro comode semplificazioni. Gran parte dei fenomeni che riguardano la nostra esistenza, come quelli a cui si dedica la ricerca sui tumori, o la ricerca ecologica, o, per altri versi, la ricerca sulle scelte dei consumatori, è l’effetto dell’organizzazione complessiva dei sistemi in cui quegli stessi fenomeni si verificano, di quell’insieme di «particolari impalpabili» che sono ciò che Pascal chiamava l’esprit de finesse, e non la conseguenza di leggi deterministiche definitivamente acquisite. Nonostante questo, convenzionalmente si ritiene che ciò che provoca gli eventi naturali e sociali debba precedere di poco, nello spazio e/o nel tempo, gli eventi stessi; si ha cioè una concezione rigidamente prossimale, oltre che meccanicistica, della causalità. Talvolta questo modo di spiegare i fatti che si osservano funziona bene, e la relazione esistente tra le cause e gli effetti è facilissima da dimostrare: se soffiamo su una candela accesa, la fiammella si spegnerà; se lanciamo un sasso contro una finestra, il vetro si romperà; se insultiamo il barista che ci sta servendo un caffè, costui si rifiuterà di servircelo. Ma nella stragrande maggioranza dei casi il nesso tra cause ed effetti è molto più sottile e difficile da evidenziare, perché gli eventi che concorrono a generare un fenomeno sono molti, non completamente determinabili, e soprattutto non direttamente associabili a effetti visibili nell’immediato. Questo perché le reazioni del sistema raramente sono reazioni dirette: nella maggioranza dei casi esse sono mediate nello spazio e nel tempo, dipendendo criticamente dal contesto e dallo stato del sistema. Anche nei casi di apparente «causazione semplice» descritti poco sopra, potremmo trovare un barista di buon carattere (o impaurito dalla nostra stazza) che ci serva il caffè nonostante gli insulti, riportando la previsione dell’evento alla sua reale dipendenza dal contesto e dallo stato del sistema. Con qualche altro esempio lievemente più articolato possiamo provare a chiarire in maniera più efficace l’importanza del contesto nello studio delle dinamiche semplici e lineari. Si immagini allora un’automobile che viaggia in discesa a una velocità di 50 Km/h lungo una strada di montagna resa sdrucciolevole dal ghiaccio. Su una curva l’auto sbanda ed esce dalla carreggiata per poi finire contro un piccolo larice cresciuto proprio sul ciglio della strada e che, provvidenzialmente, ha bloccato la fatale corsa del veicolo in una gola rocciosa. Si immagini che la vita delle persone intrappolate all’interno dell’abitacolo sia letteralmente appesa alla capacità dell’albero di resistere alla 17 Introduzione massa dell’automobile rimasta in qualche modo appoggiata al suo piccolo fusto. Alla fine, i soccorsi arrivano prima che l’albero si spezzi e le persone per fortuna si salvano. Ora, un abile imprenditore locale del settore della piantumazione potrebbe farsi tentare dall’idea di promuovere una campagna a favore della piantumazione di 100.000 alberi lungo le strade della valle, sostenendo che la causa della mortalità da incidenti automobilistici in montagna sia la mancanza di alberi sui bordi delle strade. A prima vista, in effetti, l’iniziativa dell’imprenditore potrebbe avere un senso: se la protezione fornita dalle piante sulle strade di montagna permettesse di ridurre davvero gli incidenti mortali per caduta nei burroni, la campagna avrebbe un’utilità pratica innegabile. Tuttavia, sul piano scientifico generale, la questione sarebbe priva di senso. La causa principale della mortalità per incidenti stradali, infatti, come documentato dalle più importanti statistiche internazionali, è l’alta velocità dei veicoli (50 Km/h sembra niente, ma su una strada scivolosa di montagna è una velocità altissima). Velocità, in questo caso, significa incapacità di governare la tecnologia in modo efficace, vale a dire in ogni possibile contesto prodotto dalle condizioni «esterne» (per esempio, il tempo atmosferico, la scivolosità dell’asfalto e la pendenza) e interne (per esempio, la buona funzionalità dell’auto, lo stato di usura dei suoi pneumatici, oppure la prontezza di riflessi e la concentrazione del guidatore). Naturalmente, ogni caso fa storia a sé, e non è difficile pensare che nei tanti incidenti che purtroppo si verificano sulle strade siano di volta in volta implicati fattori imprevedibili differenti, come per esempio la stanchezza del guidatore, la scarsa visibilità, la cattiva manutenzione stradale, e molti altri. Ma, anche dopo aver precisato tutto questo, il discorso non cambia, perché la velocità rimane il principale fattore responsabile (la «causa remota») degli incidenti stradali mortali. Dunque, la proposta dell’imprenditore della piantumazione sarebbe semplicemente un palliativo, e non un vero tentativo di risolvere alla radice il problema della mortalità automobilistica, per la semplice ragione che non interverrebbe sulle vere cause del problema (la velocità), ma soltanto sugli effetti (nella fattispecie, la caduta nei precipizi). Sempre attingendo alle esperienze di tutti i giorni, forse il ragionamento sulla fallacia del meccanicismo può diventare un po’ più nitido pensando per esempio al traffico urbano. Se tentiamo di dare una spiegazione meccanicistica delle regolarità del traffico automobilistico di una città, ci incamminiamo su una strada «scientifica» che rischia di 18 Introduzione essere improduttiva. Un approccio meccanicistico suggerirebbe come livello «fondamentale» di analisi le abitudini e i comportamenti dei singoli automobilisti, per arrivare a trarre delle conclusioni sul traffico che quotidianamente intasa le strade di molti centri urbani. Questo schema però si rivelerebbe subito fallimentare, perché ogni singolo individuo possiede orari, percorsi, consuetudini e altre peculiarità che attengono all’utilizzo personale dell’auto e che non coincidono con quelle degli altri. In linea di principio, i conducenti di auto che abbiamo osservato ieri potrebbero persino essere tutti diversi da quelli che osserviamo oggi, senza che il traffico nel suo complesso risulti in alcun modo differente o alterato. Ebbene, nei sistemi naturali si ha a che fare quasi sempre con dinamiche in cui l’intervento di «fattori accessori», «dipendenze dal contesto», «cause inizialmente trascurabili che alla fine prendono il sopravvento» si susseguono e si intrecciano in maniera ancora più imprevedibile di quanto descritto nei nostri piccoli esempi. E allora? Dovremmo forse limitarci a un’attonita descrizione di casi particolari, a una «collezione di francobolli» senza alcuna pretesa di generalità? Questo sarebbe molto deludente e non renderebbe giustizia alle «regolarità emergenti» da un tale groviglio inestricabile di cause. A ben vedere, se davanti a un coniglio (un sistema biologico incredibilmente complesso) battiamo all’improvviso le mani, questo fuggirà impaurito (un comportamento estremamente semplice) nel 100% dei casi, anche se la relazione fra le concentrazioni delle sue circa centomila specie proteiche (sicuramente meno complesse dell’animale che le ospita) prima e dopo lo stress sarà impossibile da spiegare. Qui siamo in una situazione molto simile a quella del traffico automobilistico accennata prima: come il livello delle motivazioni dei singoli automobilisti era irrilevante per la semplice previsione dei regolarissimi picchi di traffico nelle ore di punta, così il livello microscopico delle concentrazioni di proteine è irrilevante per la previsione del comportamento di fuga del coniglio. Ed è qui che entra in gioco il carattere artigiano della «bella scienza» che, rifiutando il rigido determinismo e l’obbligatorietà dell’indagine al livello «più microscopico possibile» (in quanto sede delle «spiegazioni ultime»), aggiusta la visuale laddove si trova la maggiore ricchezza di regolarità di strutture ordinate, di organizzazione percepibile. L’esprit de finesse è allora essenzialmente il cogliere la giusta distanza dal soggetto per metterne in luce la coerenza, e poi l’uso sapiente di 19 Introduzione una molteplicità di ferri del mestiere – dallo studio dei circuiti di retroazione alla statistica multidimensionale – che riescano a far risaltare l’ordine nascosto delle cose senza ridurre in mille pezzi il sistema studiato. Questo atteggiamento ci porta giocoforza ad essere più rispettosi della realtà dei fatti, più umili, e di conseguenza ci porta a riconsiderare il nostro rapporto con la conoscenza della «natura», che non è più qualcosa «da torturare per farle confessare i suoi segreti», come, all’alba della scienza moderna, affermava sir Francis Bacon, ma qualcosa da contemplare con delicatezza e attenzione. Forse può sembrare pretenzioso, ma da questo mutato atteggiamento noi speriamo che possa nascere un contributo forte per un ripensamento sui nostri modi di vivere. L’uso di tecnologie intrinsecamente pervasive e potenzialmente catastrofiche, sulle quali non possiamo avere un controllo soddisfacente perché fortemente condizionate dal contesto, ci porta a manifestare la necessità di una profonda revisione delle logiche interne alla scienza, così come di quelle esterne, e del loro rapporto con il mondo sociale. In tutto il libro abbiamo cercato di mantenere viva ed evidente la connessione tra certe scelte stilistiche del fare scienza e il conseguente atteggiamento nei confronti del mondo che ci circonda. Ovviamente non sappiamo se ci siamo riusciti, questo lo deciderà il lettore. Ci sia però consentita un’ultima avvertenza: chiaramente non esistono «scienze buone» e «scienze cattive», e men che meno esistono «metodologie buone» e «metodologie cattive». Si può insomma fare della bellissima scienza con metodologie strettamente lineari e deterministiche, e della pessima scienza condita da roboanti birignao su complessità e non-linearità. Il vero punto è un altro, è nel cuore e nella mente dello scienziato (stavamo per dire «dell’artista», ma all’ultimo ci siamo trattenuti), nel suo atteggiamento nei confronti di quello che descrive. Se egli è consapevole del carattere irriducibile del pezzo di natura che sta studiando (sia esso una proteina o un intero sistema ecologico poco importa), farà della bella scienza; ma, se in cuor suo ritiene che il suo oggetto di studio sia un «nient’altro che», molto probabilmente farà un disastro. Ed è sulla scorta di quest’ultima considerazione che preghiamo il lettore di giudicare i nostri esempi di bella e di brutta scienza. Tale infatti è la prospettiva che abbiamo adottato, forse ignari di avere fatto 20 Introduzione delle ingiustizie, ma sempre con la lucida consapevolezza che per fortuna il nostro punto di vista è un ben debole tribunale. In ogni caso, se anche solo una piccola parte di queste considerazioni catturasse l’interesse del lettore attraverso le idee e le argomentazioni esposte in Scienza della natura e stregoni di passaggio, allora la passione con cui l’abbiamo scritto avrà avuto un significato molto più importante della semplice soddisfazione intellettuale. Anche perché, a dirla tutta, alla fine, sia pur dopo varie peripezie, l’articolo sulla presunta «vita artificiale» siamo riusciti a «piazzarlo» ugualmente, e pure molto bene! ALESSANDRO GIULIANI e CARLO MODONESI 21 1 STREGONI DI PASSAGGIO «È vero, principe, che lei una volta ha detto che la ‘bellezza’ salverà il mondo? State a sentire, signori», esclamò con voce stentorea, rivolgendosi a tutti, «il principe sostiene che il mondo sarà salvato dalla bellezza! E io sostengo che questi pensieri gioiosi gli vengono in testa perché è innamorato. Signori, il principe è innamorato [...]. Ma quale bellezza salverà il mondo?». Fëdor M. Dostoevskij, L’Idiota «Il bello è brutto, il brutto è bello»: così mormoravano le streghe di Macbeth attorno al loro pentolone, volendo indicare il sovvertimento di ogni ordine e armonia del mondo. La loro profezia si affermò in tutta Europa solo pochi secoli dopo, quando le orribili periferie industriali cominciarono la distruzione sistematica del paesaggio. Ora possiamo meditare sull’evidenza di come un contadino abruzzese o un marinaio ligure, fino a poco più di cento anni fa, quando costruivano le loro case, abbellivano il paesaggio e si inserivano naturalmente nell’armonia del mondo, laddove un costruttore odierno, più «colto» (nel senso esclusivo di numero di libri letti) ma certamente molto più povero di «cultura materiale», copre il territorio di orribili escrescenze di mattoni e cemento. Dal «lato alto» del costruire, gli architetti di punta innalzano le loro tronfie torri, dove nessuno si sognerebbe mai di andare ad abitare, su un panorama depauperato e punteggiato di abitazioni tristi e spersonalizzanti. Purtroppo questa malattia non solo ha pervaso le forme dell’abitare ma ha anche spento il nostro intelletto, convincendoci che il bello fosse tutt’al più un’opinione e comunque intercambiabile con il brutto. Eppure il nostro animo si ribella spontaneamente a tutto ciò: non c’è nessuno al mondo che preferisca una vista su Torvajanica al promontorio di Portofino, o che scelga come meta delle sue passeggiate la periferia industriale di Torino ai pendii delle Dolomiti o del Parco Nazionale d’Abruzzo. Se solo riuscissimo a superare i preconcetti e le ideologie che offuscano il nostro modo di osservare il mondo, e riu23 Scienze della natura e stregoni di passaggio scissimo a essere onesti con noi stessi e ad affrontare la sfida del concreto, potremmo immaginare di recuperare una bellezza perduta. E la scienza sarebbe certamente uno dei luoghi più propizi per provare a realizzare questa impresa. Così scriveva infatti nel suo saggio Lezione e Lectio Pavel Florenskij nel 1917: «Quanto alla fermentazione della psiche, essa consiste nel gusto per il concreto acquisito per contagio; consiste nella scienza di saper accogliere con venerazione il concreto, nella contemplazione amorosa del concreto. Del resto quest’ultimo, il concreto, è inteso qui nel senso dell’oggetto stesso della ricerca scientifica diretta, nel senso di fonte prima, che si tratti di una pietra o di una pianta [...]. Questa gioia del concreto, questo realismo si manifesta in negativo come insoddisfazione interiore (non formale) per qualsiasi opinione intermedia sull’oggetto, che congeli l’oggetto e cerchi in ogni modo di spingere l’oggetto lontano dal centro dell’attenzione per mettersi al suo posto. L’aspirazione a vedere con i propri occhi, a toccare con le proprie mani la fonte prima è ciò che fa nascere, appunto, l’atteggiamento scientifico, che è ben diverso dall’erudita dossografia, la descrizione delle opinioni altrui». Ci sono voluti i più recenti sviluppi dell’architettura organica per riscoprire la perfetta coibentazione e l’adattamento al territorio (il concreto di cui parla Florenskij) delle forme tradizionali di architettura spontanea. Opere che, lungi dall’applicare pedissequamente e senza alcuna relazione con il contesto idee astratte di «progettazione razionale» o di «macchine da abitazione», riuscivano a introdurre senza traumi, impiegando canoni antichissimi, le innovazioni che l’architettura «alta» produceva nel tempo. Tutto questo accadeva fino all’inizio dell’era moderna, quando la cesura illuminista ha separato nettamente il mondo dell’artigianato da quello dell’arte. Padre Pavel ci indica come l’atteggiamento scientifico sia essenzialmente «amore per il concreto», per la «materia», che si differenzia nettamente dalla «descrizione delle opinioni altrui»; e in effetti la scienza è stata per secoli la roccaforte di un «canone artigiano» raffinato di cui purtroppo si sono affievolite le orme. Quando Galilei si trovò a studiare le leggi del moto, per avere un piano inclinato il più possibile privo di attrito, si rivolse agli inimitabili maestri d’ascia dell’«Arsenal dei Viniziani», depositari di un canone arricchitosi nei secoli che permetteva loro di produrre piani di legno perfettamente lisci. Lo stesso si può dire per lo stretto rapporto tra la fisiologia e gli 24 Stregoni di passaggio orologiai svizzeri che, unici al mondo, potevano produrre sistemi di misura affidabili e di dimensioni ridottissime. Un amico di uno dei due autori di questo libro, ricercatore a Losanna, conosce molto bene uno degli ultimi «mastri orologiai» ancora attivo nel suo laboratorio svizzero del quale racconta spesso la perizia artigiana e l’arte come strumenti insostituibili per costruire sonde da inserire con precisione nei recessi più nascosti delle strutture biologiche. Non solo l’artigianato è da intendersi come «il solerte servitore» della scienza, ma anche come l’elemento che spesso ne anticipa gli esiti. Se Wilbur e Orville Wright, due abilissimi e oscuri costruttori di biciclette americani, all’inizio del secolo scorso si sono alzati in volo sulla spiaggia di Kitty Hawke con il loro apparecchio, certo non potevano dire grazie alla massa di fisici teorici che proprio in quell’epoca potevano dimostrare impeccabilmente l’impossibilità del volo a motore, salvo poi rincorrere a coprire di equazioni (più o meno inutili) il risultato dei due fratelli. Questo stretto rapporto con il reale, che è ben diverso dalla smania di «applicazione» dei risultati scientifici e riflette piuttosto l’esigenza di tradurre una formula, un principio biologico, una proprietà chimica in qualcosa che si possa toccare e vedere (e non per forza manipolare e controllare, ma su questo punto torneremo nel seguito, essendo il controllo a tutti i costi uno degli ingredienti tipici dei ricettari di streghe e stregoni), è esattamente ciò che ha sempre affascinato i veri scienziati. Il mestiere della scienza, quella vera, che porta a qualche effettivo avanzamento della conoscenza del mondo, è una sorta di estensione di quella strana pulsione che da bambini ci portava a passare ore su un formicaio in attività per osservare l’affaccendarsi degli insetti e godere nel profondo riconoscendo l’attività organizzata della colonia, oppure ad apprezzare come il sasso gettato in una pozza riverberasse in un’onda sinuosa e dolce che invadeva l’intero specchio d’acqua. La minoranza dei ricercatori che rimane affezionata a queste esperienze serbandole interiormente senza farsi troppo imbrogliare dai miraggi della «maturità» che le vorrebbe condannare all’irrilevanza, formerà la pattuglia degli scienziati della natura più acuti e creativi perché disposti a non smettere di coltivare il senso di stupore e meraviglia che scaturisce ogni volta che si scopre qualcosa di nuovo sul mondo. Per poter provare anche da adulti quel piacere provato da bambini, e renderlo una attività rispettabile, molti giovani si iscrivono a una 25 Scienze della natura e stregoni di passaggio facoltà scientifica. Chiaramente questo è un corridoio stretto e faticoso da percorrere, ma lo sforzo richiesto per arrivare salvi fino in fondo sta nel custodire sempre quella sensazione di gioia profonda che provavamo nell’osservare l’attività frenetica di un nido di insetti o le onde concentriche di una pozza allargarsi e, raggiunte le rive dello stagno, rimbalzare indietro i fronti d’onda ritardati. Il ricordare che stiamo sempre parlando di quello stagno quando dobbiamo risolvere un problema di dinamica oscillatoria, che a tutta prima ci appare solo come un arido insieme di simboli, o un problema di ricostruzione dei rapporti genealogici tra organismi diversi, è ciò che distingue un vero scienziato da coloro che sono rimasti imprigionati nell’angusto panorama del «corridoio» e hanno smarrito il senso della loro attività. Lo scientismo in fondo è una distorsione cognitiva tipica di chi è rimasto troppo tempo nel corridoio e si è scordato perché vi è entrato, e così adesso confonde il corridoio con il mondo. Dal centro del corridoio la scienza perde il suo legame con la realtà (è un errore di prospettiva considerare i bambini «poco realisti» quando invece lo sono al massimo grado) e si trasforma nel suo contrario, cioè si trasforma in «descrizione delle opinioni altrui» che, dotate di grande prestigio grazie alla potenza di coloro che si proclamano «depositari esclusivi» della scienza ufficiale (ricordiamo l’agghiacciante adagio scientia est potentia pronunciato da Francis Bacon in un ambiente molto vicino alle streghe del Macbeth…), diventano un crudele e onnivoro instrumentum regni. Ingenui e inossidabili ottimisti, noi continuiamo a credere che il diavolo faccia le pentole ma non i coperchi, e che quindi l’inganno, per quanto insidioso, possa essere svelato nel campo dell’estetica, laddove la parodia della scienza offerta attraverso i proclami dei «depositari esclusivi» non riuscirà a nascondere qualche brufolo, qualche imperfezione, uno sguardo obliquo, che ci permetteranno di svelarne la fallacia, l’inganno, la mancanza di concretezza, l’ambiguo rapporto con il reale. Nei prossimi capitoli proveremo a esaltare il contrasto mettendo a confronto esempi di bella e brutta scienza. Cominciamo fin d’ora con un piccolo esempio utile a chiarire come la scienza sia in grado di svelare la bellezza del mondo riconducendola alla sua origine naturale. L’espressione del bello forse più semplice da rendere nell’usuale discorso scientifico matematizzato è la musica, che non casualmente per secoli ha fatto parte delle «materie scientifiche». L’espressione 26 Stregoni di passaggio musicale ha da sempre attratto gli spiriti scientifici. Da Pitagora in poi, l’evidenza di rapporti fissi «gradevoli e giusti» all’udito ha dato origine a innumerevoli interpretazioni che, partendo da dati di fatto, hanno pervaso l’intera nostra visione del mondo, per cui noi parliamo di «armonia» e «consonanza» in campi ben lontani dall’ambito musicale, come per esempio nei rapporti interpersonali e nelle opinioni filosofiche e politiche. La bellezza di un pezzo musicale dipende da infinite sfumature, timbri, rimandi, alternarsi di musica e silenzi, ciò nonostante è possibile trovare, andando al livello più elementare del linguaggio musicale, il singolo suono puro, la singola nota, un legame profondo con la nostra fisiologia che la scienza riesce a cogliere e a mostrarci. L’intervallo di frequenze udibili dall’orecchio umano è piuttosto ampio e va da 20 a circa 20.000 Hz. Andando un pochino più a fondo nella fisiologia, questo significa che onde di compressione/decompressione di densità molecolare (generalmente nell’aria) oscillanti nel campo di frequenze dell’udibile, riescono ad attivare in maniera «efficace» le cellule ciliate della coclea (la parte interna dell’orecchio) che poi trasducono lo stimolo verso il cervello. La selettività della coclea alle differenti frequenze è straordinaria tanto che noi riusciamo, nella normale elaborazione del parlato, a distinguere sottilissime variazioni di intensità e timbro. Di tutte le innumerevoli combinazioni di frequenze prese a caso nell’intervallo dell’udibile, solo un numero estremamente ristretto ci appare «consonante», cioè viene da noi percepito come un «accordo» (facciamo caso alla valenza generale di questi termini nella lingua italiana). La definizione accettata di consonanza (dal latino «suonare insieme») indica un insieme di suoni di differente frequenza (note) prodotti insieme, tale che l’effetto sia gradevole e riposante. Questa «gradevolezza» associata a particolari combinazioni di suono è praticamente universale e attraversa tutte le culture e i periodi storici, e non a caso costituisce la base della cosiddetta musica tonale. Semplificando molto, possiamo definire tre «universali» della musica comuni a tutte le scale musicali adottate dalle differenti culture umane: 1) la presenza di 12 intervalli iterati in zone molto conservate dello spettro (ottave) che definiscono la cosiddetta scala cromatica (notare la relazione linguistica con i colori); 2) l’uso preferenziale nelle composizioni musicali di alcuni di questi intervalli (per esempio gli intervalli delle scale cosiddette diatoniche o pentatoniche); 3) lo stes27 Scienze della natura e stregoni di passaggio so «ordine di piacevolezza» delle combinazioni della scala cromatica (accordi) percepito da ascoltatori di differente cultura e cognizioni musicali. Constantine F. Malmberg, nel 1918 (The Perception of Consonance and Dissonance, «Psychological Monographs», 25, 1918, pp. 93-133) costruì, sulla base dei giudizi percettivi di un vasto insieme di ascoltatori, la scala di «gradevolezza» (consonanza) delle combinazioni di note ancora considerata come la più affidabile. Da dove derivano questi universali e, più nello specifico, da dove deriva questa comune sensazione di «bellezza» e «consonanza» che attraversa tempi e culture? Possiamo immaginare di cercare qui una «fondazione naturale della bellezza»? Galileo Galilei, nel suo trattato del 1638 Discorsi e dimostrazioni intorno a due nuove scienze, fornisce un’ipotesi molto chiara sul fenomeno della consonanza: l’idea di Galileo è che il grado di consonanza risulti inversamente proporzionale alla durata del suono complessivo derivante dalla combinazione di due suoni (il cosiddetto bicordo) e, analogamente, il grado di dissonanza risulti direttamente proporzionale a questa durata. L’orecchio, secondo Galileo, apprezza finemente la maggiore o minore regolarità del suono risultante. Se consideriamo che la durata del suono derivato sarà, in prima approssimazione, tanto minore quanto più il rapporto tra le frequenze fondamentali che costituiscono i due suoni sarà semplice, ossia espresso da una frazione intera con numeratore e denominatore non troppo grandi, ci rendiamo conto di come la posizione di Galileo si ricolleghi a un’antica sapienza e cioè alla concezione pitagorica del carattere «naturale» (e quindi sacro) dei numeri interi. Non a caso Pitagora aveva abbozzato una simile teoria dei suoni; tuttavia, mentre la teoria di Pitagora non poteva dirsi scientifica in quanto decisamente a priori, Galileo partiva da una precisa ipotesi fisica sulla generazione dei suoni intesi come «oscillatori» attraverso il ricorso a un’analogia meccanica: i due toni erano equiparati a due pendoli che oscillano simultaneamente e che raggiungono l’unisono (il massimo della consonanza) quando i due rispettivi periodi coincidono. Questa teoria galileiana è nota come «rapporto semplice di frequenze» ed è qualitativamente in grande accordo con i dati, anche se nei secoli si sono trovate varie eccezioni che però, come vedremo, sono facilmente superabili. Alcuni stregoni di passaggio, qualche decennio fa, avevano provato a raccontare che in realtà questa fosse solo un’illusione e che si po28 Stregoni di passaggio tesse fare musica senza tener conto di queste regole, ma l’evidente inascoltabilità dei loro prodotti ha stroncato sul nascere questo maleficio. Torniamo allora a Galileo e proviamo a immaginare un esperimento che elimini completamente la necessità di un ascoltatore, così da avere la «prova» di un carattere peculiare «intrinseco» agli accordi ben formati. Riuscirci significherebbe riconoscere la «natura intrinseca» dei suoni «consonanti», ci permetterebbe insomma di comprendere che cosa il nostro udito «sceglie» come gradevole. L’esperimento è riportato in L.L. Trulla, A. Giuliani, G. Zimatore, A. Colosimo, J.P. Zbilut, Non Linear Assessment of Musical Consonance («Electronic Journal of Theoretical Physics», 8, 2005, pp. 22-34, disponibile in rete all’indirizzo: http://www.ejtp.com/articles/ejtpv2i8p22.pdf). Senza entrare nei particolari fini dell’analisi, qui basti dire che si tratta di una versione moderna dell’ipotesi galileiana della gradevolezza come semplicità, trovare la correlazione tra gradevolezza (espressa dalla scala di Malmberg basata sui giudizi degli ascoltatori) e una scala oggettiva di semplicità delle forme d’onda corrispondenti ai diversi accordi è lo scopo del lavoro. La scala di semplicità adottata si è basata sull’intuitivo concetto di ricorrenza. Una ricorrenza (come il Natale, l’Epifania, la Festa del Lavoro) non è nient’altro che un evento che si ripete identico dopo un intervallo fisso di tempo. Se immaginiamo il suono nella sua espressione fisica, cioè come un’onda, una grandezza che assume diversi valori nel tempo, allora le ricorrenze non sono nient’altro che quei particolari tratti della forma d’onda che si ripetono identici dopo un certo periodo. Si usa rappresentare la distribuzione e il numero delle ricorrenze di un segnale nel tempo con il cosiddetto grafico delle ricorrenze (Recurrence Plot), che è una matrice quadrata avente sui due lati la posizione lungo l’asse dei tempi e al suo interno dei puntini anneriti in corrispondenza delle ricorrenze, delle ripetizioni cioè dello stesso profilo nella coppia di istanti di tempo corrispondente alle posizioni sulle due dimensioni della matrice. La Figura 1 ci mostra un esempio di questa tecnica. Nel pannello inferiore si riporta l’onda analizzata, nel pannello superiore la matrice di ricorrenza corrispondente, da cui si può apprezzare il senso della tecnica osservando ad esempio il tratto (fortemente ricorrente) tra il punto 60 e il punto 100, che sul segnale in 29 Scienze della natura e stregoni di passaggio 400 300 200 100 0 6 4 2 0 –2 –4 –6 –8 –10 –12 –14 0 0 100 100 200 200 300 300 400 400 Figura 1 basso corrisponde a un andamento molto monotono della curva e sulla matrice a un fitto addensamento di punti ricorrenti. La diagonale di «punti anneriti» che attraversa la matrice di ricorrenza corrisponde all’ovvia identità dei singoli valori del segnale con se stessi (identità temporale). La breve presentazione dell’analisi delle ricorrenze ci permette di apprezzare il carattere artigiano del fare scientifico; si tratta, né più né 30 Stregoni di passaggio A) Intervallo consonante (3/2) B) Intervallo dissonante (64/45) Figura 2 meno, di tradurre un concetto intuitivo in qualcosa di misurabile (i puntini si possono contare e localizzare nelle loro coordinate spaziali). Questo, in una situazione di buona scienza artigiana, avviene senza forzature e senza imporre alcun giudizio forzato: si potrebbe dire che la quantificazione emerga dalla pura contemplazione dei dati. Ora che abbiamo, almeno a grandi linee, compreso la tecnica delle ricorrenze, possiamo apprezzare la differenza tra un accordo consonante (a sinistra, matrice A) e uno dissonante (a destra, matrice B) (Fig. 2). È immediato notare come la disposizione delle ricorrenze, nel caso dell’intervallo consonante (rapporto di 3/2 tra le frequenze delle note che costituiscono l’accordo, il cosiddetto «intervallo di quinta»), sia molto più regolare che nel caso dell’intervallo dissonante. Attraverso una statistica su numero e disposizione delle ricorrenze nei grafici, gli autori ottengono un indice numerico che è agevole mettere in relazione con la scala di gradevolezza di Malmberg, ottenendo il risultato riportato nella Figura 3. Come si vede la gradevolezza degli accordi va insieme al loro grado di ricorrenza, alla semplicità (regolarità) della struttura temporale risultante. Insomma, Galileo aveva sostanzialmente ragione: la bellezza, se non altro nel suo grado molto iniziale di «gradevolezza dell’accordo», ha una base fisica indipendente dall’ascoltatore. Ma manca ancora un pezzo fondamentale del quadro, e cioè quello che ci dice come l’ascol31 Scienze della natura e stregoni di passaggio 40 P8 Ricorrenza 30 Ma6 Mi7 10 St 0 P5 P4 20 0 Ma7 2 Mi3 Tt Mi3 Mi6 MaT 4 6 8 Scala di Malmberg (piacevolezza degli intervalli) 10 12 Figura 3 tatore, indipendentemente dai suoi gusti personali, possa «riconoscere come piacevoli» certi «oggetti fisici» che si presentano al suo udito; in altre parole manca la parte «biologica». Il cerchio si chiude con l’articolo di Donald D. Greenwood del 1991 (Critical Bandwidth and Consonance in Relation to Cochlea Frequency-position Coordinates, «Hearing Research», 54, 2, 1991, pp. 164-208), che dimostra come nella coclea le zone corrispondenti alle frequenze costituenti una «giusta consonanza» siano posizionate a distanze uguali. La coclea è una sorta di «nastro» avvolto a spirale nell’orecchio interno. Se immaginiamo questa spirale «svolta» nel piano notiamo come le zone «sensibili» a differenti frequenze corrispondano a posizioni differenti lungo la coclea (questa proprietà è detta tono-tipicità), di conseguenza le cellule «deputate» al riconoscimento di un certo tono avranno una posizione caratteristica sulla coclea. Ebbene, toni che insieme «suonano bene» sono equi-spaziati lungo la coclea dando vita a rapporti posizionali SEMPLICI che corrispondono ai SEMPLICI rapporti dimostrati da Galileo per i suoni corrispondenti. Nella Figura 4 viene riportata la posizione, lungo la coclea, delle zone «sensibili» alle diverse frequenze dello spettro dell’udibile. Il cerchio iniziato dalla fisica si chiude con una struttura anatomica (diamo qui solo un accenno al fatto che l’avvolgimento della coclea segue la sezione aurea, che è alla base dell’ordine classico della bellezza architettonica). Un «bello perché coerente con la natura» sembra emergere prepotente. 32 Stregoni di passaggio 500 Hz 5.000 Hz 20 Hz 1.000 Hz 20.000 Hz Figura 4 Oltre a essere una «dimostrazione scientifica» della bellezza, questa iniziale esplorazione nei territori della scienza, ci fornisce una prima idea di una «bellezza scientifica» in atto, di come cioè la scienza possa rispecchiare la bellezza di ciò che studia. Siamo quindi pronti a definirne, anche se in maniera rozza e largamente metaforica, una sorta di canone. 33 2 IL CANONE SCIENTIFICO Haec autem ita fieri debent, ut habeatur ratio firmitatis, utilitatis, venustatis. In tutte queste cose che si hanno da fare devesi avere per scopo la solidità, l’utilità e la bellezza. Marco Vitruvio Pollione, De Architectura, liber I, 24 a.C. L’unica possibilità per tentare di discriminare il bello dal brutto senza essere insieme velleitari, insopportabilmente superbi e autoreferenziali è quella di riferirsi a un canone. Per canone si intende normalmente un insieme di regole accettato da una comunità come garanzia di un lavoro ben fatto, di una procedura corretta, di un’opera che rifletta criteri estetici e funzionali largamente accettati. Le procedure industriali di controllo di qualità sono un esempio di canone così come lo è il codice di procedura civile. Quando, in una descrizione di opere edili (come un capitolato), si richiede che una lavorazione venga «realizzata a regola d’arte» si fa riferimento proprio al fatto che prevedibilmente l’opera verrà fatta seguendo tutte le precauzioni, le regole e quindi le tecniche del buon costruire relative a quel particolare manufatto. Che si tratti di una trave in cemento armato, di un tramezzo, o della semplice ritinteggiatura di una vecchia parete non fa differenza. Queste regole sono codificate in un canone che permette di redimere le differenti liti che possono sorgere riguardo a un’opera. L’opera di Marco Vitruvio Pollione (o più semplicemente Vitruvio), citata all’inizio del capitolo, è il canone architettonico più antico (risale al I secolo a.C.) che ci sia pervenuto nella sua interezza e ha influenzato, a partire dal Rinascimento, tutta l’arte costruttiva occidentale. Esso riporta non solo un corpo di regole pratiche di costruzione, ma anche indicazioni «evolutive» sullo sviluppo del canone stesso, che viene sicuramente individuato dall’autore come il sedimentarsi progressivo di «buone pratiche» di costruzione sviluppate nel tempo. 35 Scienze della natura e stregoni di passaggio L’attività degli scienziati è strettamente regolata da un canone che, però, essendo largamente tacito e prendendo le forme di «diritto consuetudinario» piuttosto che di codice positivo, spesso viene misconosciuto o, peggio ancora, sbandierato in maniera arrogante come «metodo scientifico» per pretendere di avere comunque ragione. Il prodotto degli scienziati è costituito da articoli scientifici su periodici scientifici regolati dal sistema di peer review, o «revisione tra pari». Questo sistema prevede che, per essere pubblicato, un lavoro scientifico debba subire il vaglio critico di almeno due revisori indipendenti (quasi sempre anonimi) scelti tra scienziati che operano all’interno dello stesso campo di interesse degli autori. In linea di principio, solo l’esistenza di un canone condiviso può giustificare una tale procedura che altrimenti sarebbe esclusivamente un’odiosa censura preventiva delle idee. Scartando a priori tutti i casi in cui siamo effettivamente di fronte a odiose censure preventive – casi che purtroppo crescono di numero a mano a mano che la scienza aumenta la sua dipendenza da interessi economici e ideologici –, i criteri utilizzati dai revisori degli articoli scientifici sono analoghi a quelli usati nell’edilizia e hanno a che vedere con gli stessi concetti di base, di cui elenchiamo brevemente i punti chiave: 1) Robustezza delle strutture. In scienza questo si traduce nella richiesta che il particolare risultato osservato non sia strettamente dipendente da una particolare procedura utilizzata (sia essa un modello sperimentale o una metodologia di analisi dei dati) ma sostanzialmente indipendente dai dettagli e quindi riproducibile, almeno nelle sue linee essenziali, in differenti contesti sperimentali e di misura. 2) Semplicità. La via più semplice per spiegare un certo risultato è sicuramente la migliore; spiegazioni equivalenti ma coinvolgenti un maggior numero di ipotesi sono meno appetibili di spiegazioni più scarne e più svincolate da ipotesi non necessariamente giustificate. 3) Coerenza interna. Maggiore è il numero di risultati indipendenti che vengono spiegati con lo stesso costrutto (matematico o concettuale poco importa), maggiore è la plausibilità dell’ipotesi. 4) Validazione laterale. Questo è per così dire un criterio di tipo «urbanistico» e ha a che vedere con il modo con cui un nuovo «pezzo di conoscenza» si «accomoda» all’interno di un tessuto di conoscenze pregresse. È in qualche modo il punto più delicato per l’innovazione perché da esso si sviluppa la maggioranza dei problemi. 36 Il canone scientifico Cerchiamo di comprendere meglio il punto 4) tornando per un attimo all’arte del costruire: posizionare una cattedrale in un borgo medievale implicava una decisa rottura del tessuto edilizio circostante. Si pensi ad esempio alla cattedrale di Orvieto che è del tutto fuori scala rispetto ai bassi edifici che la circondano, o all’incredibile torrazzo di Cremona visibile da molti chilometri di distanza a qualsiasi viandante che attraversi la pianura Padana. La scelta di una tale cesura tra un’emergenza architettonica e lo spazio costruito circostante – che, tra l’altro, un tempo implicava uno sforzo economico mostruoso, si pensi ad esempio alla mastodontica e incompiuta facciata del duomo di Siena interrotta per la sopraggiunta sconfitta della città nel conflitto con Firenze – veniva fatta dalle amministrazioni cittadine con motivazioni molto forti di ordine politico, religioso e sociale. Spesso trascorrevano decenni dal progetto all’attuazione definitiva. Gli statuti comunali medievali ci dicono invece che una «normale» abitazione di un mercante da edificare in una via in cui esistevano già case molto simili a essa per cubatura, disposizione e orientamento, era di gran lunga meno problematica perché la disciplina di tali costruzioni si basava semplicemente su regole di «conformità» molto simili ai nostri piani regolatori. Torniamo alla scienza, e immaginiamo la decisione da prendere nei riguardi di un risultato rivoluzionario che, pur soddisfacendo il canone per quel che riguarda i primi tre punti, devasterebbe il «territorio circostante» di conoscenze assodate e coerenti, ponendosi su di un piano completamente differente. L’accomodamento all’interno del «tessuto scientifico» di tale nuova informazione incontrerebbe chiaramente molte più difficoltà di un risultato più ordinario, ossia in linea con la conoscenza pregressa: esattamente la stessa differenza che gli amministratori medievali incontravano al momento di prendere una decisione su una cattedrale o su una piccola casa. Una certa stolta visione modernista del «nuovo a tutti i costi» e del «premio all’innovazione comunque sia» spazzerebbe d’un colpo queste titubanze e farebbe propendere per la semplice eliminazione di questo vincolo in nome del progresso delle idee; le devastazioni provocate da questo atteggiamento nel tessuto urbano delle nostre città sono troppe e troppo dolorose per soffermarcisi ulteriormente, ma nella scienza sono altrettanto dannose. Scegliere per l’innovazione comunque sia, che grossomodo significa affermare il folle principio per cui «più vecchie credenze si distrug37 Scienze della natura e stregoni di passaggio gono meglio è», costituisce una strategia del tutto perdente sul piano evolutivo. Non è difficile capire il perché: se si ammette di operare in un contesto di sviluppo scientifico e quindi di un tendenziale (anche se sul lungo periodo) premio per le «buone idee» che si sono dimostrate foriere di nuovi sviluppi, allora questo significa che il «tessuto conoscitivo» in cui la «nuova idea» si vuole introdurre è sopravvissuto a una qualche forma di vaglio e sarà quindi formato (almeno in larga parte) da «buoni pezzi di scienza». La coerenza con il tessuto urbanistico circostante (validazione laterale) nella consuetudine scientifica corrisponde agli elenchi di referenze bibliografiche che gli scienziati appongono al termine dei loro lavori. Un pezzo scientifico che sia in linea con il tessuto delle conoscenze pregresse (richiamato dalle referenze bibliografiche) viene giustamente accolto di buon grado dai revisori. Gran parte delle proclamate «rivoluzioni epocali» non in linea con questo principio, invece, implicano necessariamente la distruzione del tessuto conoscitivo preesistente e si riveleranno quasi sempre dei fallimenti. Ciononostante, in una piccola proporzione di casi, qualcuno di questi «fuori scala» è effettivamente un avanzamento importante (anzi, quasi tutti gli avanzamenti importanti si presentano come fuori scala) e allora, analogamente a ciò che accadeva con la costruzione delle cattedrali, dovremo richiedere al suo proponente un enorme «supplemento di indagine». Questo atteggiamento moderatamente conservatore è quello che garantisce il miglior successo evolutivo, proprio come avviene nell’evoluzione biologica, dove i grandi cambiamenti si innestano su una sostanziale invarianza e resilienza delle caratteristiche biologiche fondamentali. D’altronde ogni tradizione efficiente (il canone presuppone un pensiero tradizionale) ha al proprio interno il concetto di trasmissione (tradere in latino) e quindi la possibilità che soluzioni antiche siano adattate ai tempi moderni senza snaturarne il senso, anzi mantenendolo vivo nelle mutate condizioni. Trasferendo il discorso sul piano dell’attualità scientifica, possiamo dire che un mondo (falsamente) competitivo che applichi le regole della finanza d’assalto alla scienza concepita come merce, e proclami incessantemente la realizzazione di «scoperte epocali», quando in realtà la vera strategia è quella di ostacolare ogni vero cambiamento, è di fatto un mondo che non vuole evolvere per difendere lo status quo. La patologia reale che opprime larga parte della scienza dei nostri 38 Il canone scientifico giorni, infatti, è quella dell’estremo conservatorismo ma, per dissimularla e quindi mantenerla in vita, si preferisce raccontare all’opinione pubblica che le nuove scoperte sono continue e stupefacenti. In due articoli notevoli pubblicati sulla prestigiosa «PLoS Medicine» (Why Most Published Research Findings are False, «PLoS Medicine», 2006, consultabile all’indirizzo http://www.plosmedicine.org/ article/info%3Adoi%2F10.1371%2Fjournal.pmed.0020124, e Why Current Publication Practices may distort Science, «PLos Medicine», 2008, in rete all’indirizzo http://www.plosmedicine.org/article/info %3Adoi%2F10.1371%2Fjournal.pmed.0050201) lo statistico greco John Ioannidis spiega come la scienza odierna sia preda del cosiddetto «effetto Proteo», che ne limita moltissimo le capacità di reale innovazione. Il sistema della «revisione tra pari» fa sì che i giudici di un certo «pezzo di scienza» siano persone che non solo fanno lo stesso mestiere dell’autore ma siano impegnate esattamente nello stesso tipo di ricerca. Ciò provoca una fortissima autoreferenzialità della (ridotta) comunità di valutatori, che, ferme restando le «basi fondamentali» o, se si preferisce, i «paradigmi» scientifici di base, che non vengono mai seriamente messi in discussione pena l’esclusione immediata dell’eventuale critico dalla comunità degli «scienziati seri», si innamora via via di risultati che appaiono come i «temi caldi del momento» perché propugnati da qualche gruppo di ricerca particolarmente influente. Tutti gli articoli che si inseriscono nella corrente del momento, propagandata come «risultato epocale», vengono accettati con pochi problemi, gli altri vengono ignorati. Ciò provoca un aspetto sempre cangiante dei vari campi (Proteo era una figura mitologica che cambiava continuamente forma) in cui nuove mode e temi si avvicendano a ritmi sempre più serrati ma senza alcun avanzamento reale, in quanto nella stragrande maggioranza dei casi si rivelano delle «false piste» che non riescono a incidere al di fuori del contesto largamente artificiale della sperimentazione di laboratorio. Questa continua «ricerca della novità» si traduce quindi in un sostanziale stallo della ricerca di base che non viene mai presa di petto. D’altronde non mettere mai in discussione i fondamenti è di importanza vitale per una tecno-scienza che si limiti agli aspetti tecnologici applicativi della scienza e che dall’accettazione acritica dei fondamenti ricava potenza e prestigio. L’attuale crisi delle ricadute applicative in moltissimi campi (si pensi ad esempio al fatto che dagli anni Ottanta il numero di farmaci realmente innovativi immessi sul mercato è crol39 Scienze della natura e stregoni di passaggio lato nonostante l’aumento esponenziale delle risorse impiegate nella ricerca) ci fa sperare (necessità fa virtù) in una ripresa seria della vitale critica rigorosa dei fondamenti, abbandonando il falso e frivolo «nuovo a tutti costi», per la ricerca di una sostanziale rifondazione delle basi conoscitive che necessariamente dovrà essere immaginata come una impresa di lunga durata. Questa opposizione tra vera e frivola novità verrà esemplificata nel capitolo successivo, dove vedremo affiancati un pezzo di bella e un pezzo di brutta scienza. Invitiamo il lettore a notare come la bella scienza generi «novità e apertura», fornendo agli studiosi piste inusitate e nuovi occhiali per guardare il mondo semplicemente suggerendo dei metodi di analisi che non si impongono sulla conoscenza pregressa rendendola in blocco inutile e obsoleta, ma, al contrario, offrendo una prospettiva nuova (in questo caso dei metodi di analisi statistica dei dati) con cui interpretare e valutare i fatti. Gli autori non si sognano neanche di dire quali siano i risultati importanti di ogni singolo campo di studi, così rispettando il pensiero autonomo dei differenti studiosi, ma propongono una nuova prospettiva con cui guardarli. Il secondo paragrafo è invece dedicato a un lampante esempio di brutta scienza, che a differenza della bella scienza entra a gamba tesa in un tessuto delicato di sapienza non solo imponendo con arroganza un solo punto di vista, ma implicitamente inibendo ogni contemporaneo discorso su altri toni. Tornando alla nostra metafora costruttiva, ciò corrisponde non solo a imporre un «fuori scala» ma a distruggere tutte le case attorno nel giro di un chilometro. Insomma si vuole far credere che una sola (nella fattispecie un supposto squilibrio ormonale che taglia fuori qualsiasi altra motivazione comportamentale) sia la prospettiva giusta da cui giudicare niente di meno che l’amore e l’attrazione tra gli esseri umani. Si noti ancora come la reale novità del pezzo di «bella scienza» si appoggi su un canone assodato ed efficiente (le tecniche di correlazione) mentre la «brutta scienza» inventi delle misure dal nulla, senza alcuna rilevante prova fattuale della loro congruenza e robustezza. 40 3 OLTRE IL GIARDINO: IL BELLO E IL BRUTTO DI QUANDO LA SCIENZA «ESCE DI CASA» Fintanto che le radici non sono recise, va tutto bene, e andrà tutto bene, nel giardino. Chance il giardiniere, interpretato da Peter Sellers, Oltre il giardino, 1979 Fornire idee che vadano oltre il particolare campo in cui una certa regolarità o un particolare fenomeno sono stati osservati, per trarne conseguenze generali o comunque suggestioni utili in altri campi del sapere e dell’esperienza umana, è propriamente ciò che chiamiamo cultura. Da un certo punto di vista quindi l’estrapolazione, nel senso proprio di «uscire dai confini», è insieme la pratica più pericolosa ma anche (come spesso accade per le pratiche pericolose) più affascinante del mestiere scientifico. Il problema generale dell’estrapolazione, intesa nel senso minimo di un modello che viene continuato oltre (extra) il campo di dati da cui proviene, è che nessuno ci assicura della validità delle condizioni latenti che garantiscono dell’esistenza della regolarità osservata. Un esempio molto semplice ci è fornito da un comune strumento di misura: il termometro che usiamo per controllare se abbiamo la febbre. La regolarità della natura che sfruttiamo per questa misura è l’allungamento termico dei materiali. Si tratta di una legge lineare molto semplice che può essere utilmente descritta come: ΔL = aΔT (1) La variabile ΔL corrisponde alla variazione di lunghezza provocata da una variazione di temperatura ΔT in una barretta costituita da un certo materiale. Il valore di a che lega la variazione di lunghezza alla variazione di temperatura dipende dal particolare materiale di cui è fat41 Scienze della natura e stregoni di passaggio ta la barretta. L’equazione (1) consente una immediata traduzione di un certo allungamento in millimetri (ad esempio millimetri di mercurio) in termini di temperatura corporea ed è appunto questa traduzione che leggiamo nel susseguirsi delle tacche del nostro termometro. L’equazione (1) deriva da esperimenti fatti molto tempo fa che, in un certo intervallo di temperatura, hanno dato risultati molto affidabili e del tutto ripetibili, a patto però che certe condizioni al contorno siano rispettate. Le più importanti di queste condizioni sono che la barretta in questione sia molto sottile, così che l’allungamento si possa considerare a tutti gli effetti un allungamento lineare (le altre due dimensioni essendo trascurabili) e che il materiale sia molto lontano da una transizione di fase, visto che i liquidi e i gas non seguono la legge (1), peculiare dei solidi. Fin tanto che ci muoviamo all’interno delle condizioni al contorno e quindi nell’intervallo di condizioni sperimentalmente provato, siamo nel campo dell’interpolazione, e non ci aspettiamo nessuna particolare sorpresa (e quindi nessun avanzamento conoscitivo), quando ne usciamo invece, per entrare nel terreno minato dell’estrapolazione, è il momento in cui iniziano i problemi (ma anche le scoperte). Nel caso del termometro siamo in una situazione così ben conosciuta da poter prevedere abbastanza bene l’errore che commetteremmo in questa uscita «fuori dal seminato»: piccole incongruenze appena fuori dal giardino e completa irrilevanza (oltre che termometri in mille pezzi) se avessimo la curiosità di immergere lo strumento nell’acqua bollente o di sottoporlo a pressioni inaudite. Ma che cosa possiamo dire di situazioni appena un po’ più complicate dove l’estrapolazione non è un capriccio accademico ma una necessità vitale per uscire dall’autoreferenzialità dell’esperimento in condizioni supercontrollate e dire qualcosa di rilevante sul mondo lì fuori? E ancora, che cosa potrebbe accadere se volessimo allargare la portata del risultato a un ambito che ha solo una «somiglianza di comportamento» ma non di contenuto con la sperimentazione originale? Cerchiamo di trarre qualche idea utile mettendo a confronto due pezzi di scienza molto differenti, ma che affrontano entrambi il tema dell’estrapolazione (anche molto vasta, come vedremo). Il primo affronta l’uscita dal giardino in maniera secondo noi corretta e fertile di idee e suggestioni: è insomma un bel pezzo di scienza; il secondo è invece un esempio incredibilmente vivido di arroganza e cattiva estrapolazione: è quindi «molto brutto». 42 Oltre il giardino: il bello e il brutto di quando la scienza «esce di casa» 1. Bella scienza: correlazioni, rischio e crisi, dalla fisiologia alla finanza Già il titolo dell’articolo che abbiamo tradotto letteralmente dall’originale (A.N. Gorban, E. Smirnova, T. Tyukina, Correlation, Risk and Crisis: from Physiology to Finance, «Physica A», 389, 2010, pp. 31933217) dichiara subito ambizioni molto vaste, addirittura di trattare un insieme di fenomeni che vanno dalla biologia all’economia. Lo schema è quello generale della meccanica statistica: derivare delle leggi «generali», o meglio, degli «universali», dal comportamento di sistemi molto differenti tra loro, unificati però da una situazione simile (in questo caso essere sottoposti a un forte stress dalle condizioni esterne, stress che in alcuni casi si risolve in una crisi irreversibile del sistema stesso) e dal fatto di essere costituiti da differenti parti interagenti. Gli autori insomma dichiarano esplicitamente la loro posizione all’interno del canone scientifico: qui si parla di meccanica statistica, di una branca della fisica dal forte sapore «fenomenologico» che ha l’ambizione di offrire delle soluzioni «generali» (universali nel linguaggio proprio di questa scienza), ma limitandosi al comportamento del sistema senza indagarne la natura delle cause. Con queste premesse, a ben vedere abbastanza minimali, gli autori raccontano più di vent’anni di sperimentazione del loro gruppo all’Università della Siberia, cercando un filo conduttore comune. I casi specifici presi in considerazione sono: 1) L’adattamento dell’attività enzimatica di leucociti (globuli bianchi) di individui provenienti da zone temperate nei primi giorni di permanenza nella Siberia settentrionale e, viceversa, di individui che dal Nord si trasferiscono nella zona temperata del Mar Nero. 2) L’effetto sul metabolismo di piante di conifera (Pinus sylvestris L.) comprese nella «lingua di emissione» di una centrale elettrica altamente inquinante per più di quarant’anni. 3) L’andamento di marcatori emodinamici ed enzimatici di pazienti infartuati. 4) Il comportamento sul mercato azionario di 100 aziende leader della Borsa di Londra prima della grande crisi del 2008. In tutti i casi presi in considerazione direttamente (e in altri, derivanti da altri gruppi e che sono stati rianalizzati con le stesse metodiche statistiche), gli autori hanno dimostrato lo stesso tipo di andamento tem43 Scienze della natura e stregoni di passaggio porale: prima di osservare variazioni significative nei valori effettivi delle variabili prese in considerazione, e quindi prima che lo stress porti alla crisi conclamata, i descrittori del sistema (attività dei differenti enzimi nel primo caso, concentrazioni di differenti metaboliti nel secondo caso, valori dei parametri emodinamici nel terzo e andamenti temporali delle fluttuazioni dei valori dei titoli nel quarto) mostrano un netto aumento delle loro mutue correlazioni. È come se, prima dell’esplodere della crisi, il sistema, sottoposto a stress (e quindi, con analogia meccanica, a un vero e proprio «stiramento»), fosse percorso da variazioni coordinate delle sue dimensioni che perdono la loro relativa indipendenza. Le dimensioni effettive corrispondono a quelli che in statistica vengono definiti gradi di libertà, che fanno sì che ogni elemento del sistema abbia una certa possibilità di «aggiustamento libero», un suo «gioco» che permette una dinamica parzialmente autonoma, insomma ciò che ci rende sicuri del fatto che, anche se il nostro organismo è un sistema altamente coerente e organizzato, il mio raffreddore non abbia alcuna rilevante influenza sulla solidità del mio apparato scheletrico. La tesi degli autori è che, in condizioni di stress, la prima risposta del sistema sia un aumento del livello di integrazione (correlazione) del sistema con conseguente perdita dei gradi di libertà, per cui dimensioni prima relativamente indipendenti tendono ad agire di concerto e a orientarsi lungo una direzione comune. Se lo stress si risolve, il sistema torna al suo comportamento normale, se invece la crisi degenera, questo orientamento, proprio come un elastico che, sottoposto a una forza a cui non può resistere, prima si stira e poi si spezza, viene meno e le variabili entrano in un regime di alta varianza (volatilità) perdendo i vincoli che le tenevano assieme nello stesso sistema. Questo comportamento viene descritto graficamente nella Figura 1. Notiamo intanto come le cose possano andare verso il «peggio» (worse) o verso il «meglio» (better) implicitamente indicando l’esistenza di uno stato di natura non perturbato. I parametri (variabili) descriventi il sistema corrispondono agli assi dei grafici (coordinate cartesiane), i simboli all’interno dei grafici indicano le differenti istanze (unità statistiche) del sistema in studio. A sinistra viene riportata la configurazione del sistema in condizioni normali; per semplicità viene descritta una situazione a sole due variabili, ma questa è solo un’esigenza grafica: la metodica di analisi 44 Oltre il giardino: il bello e il brutto di quando la scienza «esce di casa» «Worse» Parameters Comfort Stress Disadaptation (near death) «Better» Figura 1 proposta può infatti gestire un qualsiasi numero di descrittori indipendenti. La condizione normale corrisponde a una varianza abbastanza limitata (le unità statistiche si raccolgono in uno spazio ristretto) e a una sostanziale indipendenza tra i descrittori (variabili), infatti il collettivo studiato si dispone in maniera uniforme nello spazio bidimensionale. Il pannello di mezzo corrisponde a una situazione di stress (letteralmente stiramento) e, proprio come succede quando si mette in tensione un materiale elastico, i due parametri che prima erano sostanzialmente indipendenti sono ora correlati linearmente, come si nota dal fatto che le unità, invece di essere disposte casualmente nello spazio, si organizzano approssimativamente lungo una diagonale che tende a far corrispondere valori bassi (a sinistra del grafico) dell’asse X (ascissa) a valori bassi (quadrante inferiore del grafico) dell’asse Y (ordinata), e così per valori alti della X (a destra del grafico) che tenderanno ad andare insieme a valori alti della Y (quadrante superiore). L’entità di questo stiramento, e quindi il grado di correlazione imposto dallo stress al sistema, la sua tensione, può essere facilmente misurata dal coefficiente di correlazione di Pearson (un indice che viene insegnato in qualsiasi corso propedeutico di statistica), che permette di valutare in maniera quantitativa l’entità del legame tra due variabili. Nel caso di sistemi descritti da molte variabili, alcune semplici elaborazioni matematiche sui coefficienti di Pearson tra coppie di variabili permettono di avere un’immediata percezione quantitativa, quando confronta45 Scienze della natura e stregoni di passaggio ti con la situazione di «riposo», dell’entità dello stress avvertito dal sistema in uno spazio multidimensionale. Nel pannello di destra della Figura 1 è riportata la situazione a crisi avvenuta, molto vicina alla definitiva dissoluzione del sistema: in questo caso la correlazione scompare e l’entità di variazione delle variabili non è più sotto controllo, facendo occupare al sistema un campo di esistenza molto più vasto di quello normale. È importante notare come il processo dalla normalità alla crisi sia in linea di principio reversibile, come indicato dalle frecce in alto e in basso della Figura 1 che puntano verso «il meglio» o «il peggio». Questo tipo di dinamica mostra come l’aumento di correlazione sotto stress sia una risposta adattiva del sistema, che viene «cimentato» dalla perturbazione e risponde attivando i legami esistenti tra le sue parti che in condizioni di riposo rimanevano latenti. Il fatto che il ritorno dalla crisi implichi un ulteriore passaggio per la fase di massima correlazione ci dice come sia importante che le relazioni tra le parti del sistema siano ripristinate attraverso un «riallacciare i rapporti» che consenta di riportare il sistema nel campo di esistenza vincolato tipico della situazione di riposo. Riconoscere l’universalità di questo tipo di dinamica, e fornire i (semplici) strumenti matematici per osservare nei diversi campi di applicazione questo tipo di fenomeni e quindi anche poter intraprendere eventuali azioni correttive, è il notevole contributo scientifico di questo articolo. L’estrapolazione della dinamica osservata in pochi sistemi a tutte le possibili situazioni di stress e crisi non è fornita come una spiegazione delle «cause profonde» dei fenomeni osservati, che rimane programmaticamente al di fuori dell’orizzonte degli autori, ma come uno strumento di analisi e una razionalizzazione di un comportamento comune che consenta di passare da un livello discorsivo/qualitativo a una approfondita analisi quantitativa. Nella descrizione delle dinamiche di stress, adattamento e crisi, gli specialisti di differenti campi del sapere troveranno un’aria di famiglia con il loro campo di interesse. Il medico attento troverà nell’insorgere di correlazioni tra parametri altrimenti indipendenti il senso profondo del termine sindrome (dal greco «correre insieme», cioè essere correlati) e potrà avere delle suggestioni per immaginare un metodo di diagnosi precoce che individui sul nascere il flusso di correlazione prima che il sistema «esca dal campo vincolato». Chi si occupa di metallurgia vi troverà descritto il co46 Oltre il giardino: il bello e il brutto di quando la scienza «esce di casa» siddetto fenomeno della «stanchezza dei materiali», e magari lo storico si potrà interessare alla «messa in fase» di differenti aspetti della società in prossimità di grandi eventi epocali e transizioni storiche. Ognuno di questi specialisti dovrà «metterci del suo» nella scelta opportuna delle variabili rilevanti per evidenziare le dinamiche del sistema, per isolare i fenomeni di interesse reale dal rumore, per definire le corrette scale spaziali e temporali di analisi. La proposta degli autori del lavoro non entra in questi aspetti particolari, ma in qualche modo si «incultura» nei diversi campi fornendo a ognuno un contributo inestimabile e uno strumento coerente con i propri pensieri. Questo ruolo rispettoso delle scienze naturali, che vivificano dall’interno gli altri ambiti della conoscenza, è esattamente agli antipodi del temuto «fagocitamento» da parte del sapere scientifico di ogni altra possibile forma di sapere, di quello che molti autori temono come una totale riduzione e conseguente appiattimento di tutti i differenti saperi dell’uomo all’unica dimensione tecnico-scientifica. L’atteggiamento arrogante che, sprezzante della complessità dei fenomeni, tende a imporre una visione unica e dimentica ciò che Pascal chiamava esprit de finesse – cioè la sensibilità ai molteplici e singolarmente poco rilevanti particolari della scena, che tutti insieme ne formano tuttavia il sapore –, è il marchio di quella che secondo noi è «brutta scienza» e di cui un rappresentante tipico è l’articolo commentato nel prossimo paragrafo. 2. Brutta scienza: donne in preda a una crisi ormonale Come esempio di brutta scienza, agli antipodi del lavoro del gruppo russo descritto nel paragrafo precedente, analizzeremo il lavoro di A. Alvergne e V. Lummaa dal titolo Does the Contraceptive Pill alter Mate Choice in Humans?, apparso nella rivista «Trends in Ecology and Evolution» (25, 3, 2009, pp. 171-178). Nell’articolo, che, analogamente al lavoro precedente, ha la forma di rassegna (review) di evidenze fattuali differenti, si tenta di dimostrare che le donne che fanno uso della pillola contraccettiva, alterando le normali fasi del ciclo mestruale, mostrano differenti preferenze sessuali in termini di attrazione relativa verso modelli di partner con caratteristiche «maschili» più o meno accentuate. Questi differenti «parametri di giudizio» sono comple47 Scienze della natura e stregoni di passaggio 400 Dollars earned per shift 350 300 250 200 150 100 50 0 Menstrual Fertile Cycle phase Luteal Trends in Ecology & Evolution Figura 2 mentari alla «diversa attrattiva» che donne in diverse fasi del ciclo eserciterebbero sugli uomini. Le evidenze più importanti che gli autori portano a sostegno del loro assunto derivano da indicazioni indirette, dette in statistica proxy, cioè misure che approssimano o che comunque si suppone siano correlate con la variabile di interesse reale, che non è misurabile di per sé. Qui si tratta di misurare una variabile a dire il vero molto sfuggente come l’attrazione tra i sessi, e la scelta degli autori è, per quel che riguarda la diversa attrattiva esercitata dalle donne sugli uomini, di scegliere come proxy la correlazione tra fase del ciclo e dollari guadagnati per esibizione quali «offerte dei clienti» da danzatrici di lap dance che non fanno uso di pillola anticoncezionale (linea tratteggiata di Figura 2) rispetto a danzatrici che ne fanno uso (linea continua di Figura 2). I punti rappresentano il valore medio (l’insieme totale di danzatrici è di 18 unità), le barre verticali indicano l’intervallo di confidenza al 95% della stima. Le differenze (a dire il vero piccole, ma torneremo su questo punto più avanti) fra le due curve sono considerate dagli autori come una prova evidente della derivazione ormonale dell’entità del fascino esercitato dalle donne sugli uomini. L’alterata scelta femminile (l’altra metà dell’attrazione sessuale, insomma, ovvero quanto le donne trovino attraenti gli uomini) viene invece approssimata dalla risposta alla domanda: «tra queste due per48 Oltre il giardino: il bello e il brutto di quando la scienza «esce di casa» a) 50% feminized male composite 50% masculinized male composite b) Pill users Non-pill users 20 Feminity preferences (%) Feminity preferences (%) 20 15 10 5 0 Short-term relationship 15 10 5 0 Long-term relationship Short-term relationship Long-term relationship Trends in Ecology & Evolution Figura 3. A sinistra in alto la fotografia del modello «femminilizzato», a destra quella del modello più «mascolino». Gli istogrammi sotto le immagini dei due modelli indicano la preferenza relativa dei due gruppi di donne, che usano la pillola e che non la usano, per i due «modelli ideali» rispetto a una «relazione breve» (short-term) o per un impegno «più serio» (long-term). sone di cui ti mostro la foto, chi sceglieresti per una breve avventura (short-term relationship) e chi invece per un rapporto stabile (longterm relationship)?». Questa domanda viene posta a un insieme di 49 Scienze della natura e stregoni di passaggio 158 donne di età compresa tra 16 e 39 anni, anche qui divise in pill users e non-pill users. In Figura 3, pannello a), vengono riportate le due foto (definite dagli autori come meno mascolina quella di sinistra e più mascolina quella di destra), mentre nel pannello b) si fa vedere come le preferenze per i due modelli siano invertite nei due gruppi di donne. L’articolo tende a dimostrare, con spiegazioni che riecheggiano la teoria dell’evoluzione, quale sarebbe il senso di questi esperimenti. Per paura che le loro frasi vengano male interpretate e si salvi la politically correctness dell’articolo, non manca una raccomandazione finale che spiega come questa «diminuita naturalità della scelta» dovuta alla pillola sia compensata dai grandi benefici per la vita della donna portata dagli anticoncezionali orali. Il puro buon senso ci mette di fronte alla totale irrilevanza dei risultati, rimarcando sommessamente il ruolo puramente passivo degli uomini (che seguono imbambolati «l’odore di donna» delle ballerine di lap dance nel primo esperimento o fungono da immobili modelli nel secondo caso), più tutte le considerazioni sull’amore come materia di migliaia di anni di produzione artistica e letteraria: è quasi inutile immaginare il numero di possibili effetti confondenti e fallacie statistiche che potrebbero influire sui risultati. Proviamo comunque a elencare le aporie metodologiche che vengono per prime alla mente, lasciando al lettore arguto di immaginarne altre (e magari farcele conoscere). Caso 1 (lap dance): 1) Diciotto è un numero talmente basso di individui che ogni risultato è possibile. 2) L’effetto è comunque di minima entità. 3) Nessuno si è preso la briga di confrontare abilità e sensualità della danza, bellezza fisica delle ballerine nei diversi gruppi, né la disponibilità economica degli avventori. 4) Niente e nessuno ci assicura che il numero di dollari offerti a una ballerina sia proporzionale alla volontà degli uomini non solo di accoppiarsi, ma di procreare (ricordiamoci che in termini evolutivi ciò che conta è, oltre al sopravvivere abbastanza a lungo, cioè il disporre costantemente di cibo o di denaro per acquistarlo, il mettere al mondo nuova prole). 50 Oltre il giardino: il bello e il brutto di quando la scienza «esce di casa» 5) Qual è la variabilità naturale del numero di dollari offerti alla stessa ballerina? In questi casi il dato medio non ha alcun significato. Caso 2 (foto): 1) Scegliere con un dito e uno sguardo una foto non comporta impegno di alcun genere e non ha alcuna relazione immaginabile con lo sposarsi veramente (relazione lunga) o anche con l’avere uno sporadico rapporto sessuale (relazione breve). 2) Nella foto compare solo una parte minoritaria dei caratteri sessuali secondari (quelli del viso) su cui, nella logica di questo articolo, si baserebbe l’attrazione sessuale umana, ma, da uno stretto punto di vista di biologia del comportamento sessuale umano, i caratteri sessuali secondari più importanti degli uomini sono ubicati altrove, per esempio la grandezza complessiva del corpo, la muscolatura, la forma dei glutei, l’odore, il tono della voce... 3) Siamo sicuri che a sua volta la propensione verso rapporti brevi (o lunghi) in generale non sia correlata con l’uso della pillola indipendentemente dalle facce dei partners? 4) Quanto sono ripetibili i dati nel tempo? Lo scarso (o nullo) coinvolgimento dell’intervistata potrebbe far slittare con grande facilità verso una o l’altra foto la stessa persona intervistata in tempi differenti, rendendo totalmente irrilevante l’intervista. 5) Le foto presentate derivano da uno stesso modello «femminilizzato» (a sinistra) o «mascolinizzato» (a destra): per quel minimo di esperienza di vita che tutti condividiamo, indipendentemente dai caratteri sessuali secondari ricordati al punto 2, sappiamo bene che la «femminilità» o la «mascolinità» hanno dimensioni comportamentali irriducibili alla semplice fisiologia. Globalmente questo lavoro scientifico lascia trasparire una concezione poverissima degli esseri umani che rende l’articolo addirittura sconcertante (ancora di più se si pensa che il lavoro è stato pubblicato nella prestigiosissima collana Cell-press), ma ciò che ci ha veramente indignato è l’uso raffazzonato della teoria dell’evoluzione, per cui si danno come fatti assodati ipotesi controverse o addirittura false (maggiore mascolinizzazione significherebbe maggiore testosterone e quindi maggiore resistenza alle malattie, cioè un tratto ereditabile e quindi un vantaggio evolutivo!). Questo è veramente ciò che le persone più accorte temono dello scientismo: una paurosa e disumanizzante roz51 Scienze della natura e stregoni di passaggio zezza (cancellate in un colpo tutte le considerazioni amorose che hanno dato anima allo sviluppo dell’arte, della scienza, dell’economia umane) che rende illusoria la libertà dell’uomo. Senza parlare del pessimo servizio che certe tautologie rendono allo studio (serio) dell’evoluzione biologica, che qui si trova degradata al livello di «storie-proprio-così» da giornaletto scandalistico. L’estrapolazione in questo caso è di tipo contenutistico e non metodologico, come nel caso dello studio della dinamica di correlazione di sistemi perturbati. Gli autori non si fermano rispettosi alla soglia dei diversi saperi offrendo un loro utile strumento, come nel caso del lavoro sul comportamento dopo stress, ma sfondano la porta imponendo la loro spiegazione con tutta l’arroganza e la sicumera data dal «prestigio» della scienza e dell’evoluzionismo. La prima estrapolazione allarga gli orizzonti, la seconda li restringe a un pensiero unico fortemente ideologizzato. Se il primo è un caso di «inculturazione della scienza» (si pensi a Matteo Ricci che nel XVII secolo diventa mandarino cinese e mette in proficua relazione pensiero occidentale e orientale), rimanendo dalle parti della Cina, il secondo caso è la «guerra dell’oppio» con le potenze coloniali occidentali, che decretano la rovina di una società imponendo la liberalizzazione della droga per i loro interessi economici. Un sintomo con cui i lettori potranno svelare gli esempi di «brutta scienza» che purtroppo ci vengono spesso propinati dai media (molto più reattivi alla scienza spazzatura che a quella di qualità, ma questo forse più che stupirci ci indigna) è quello del «riduzionismo esagerato», dell’ansia cioè di riportare un complesso insieme di eventi a una spiegazione unica, situata a un ben determinato (e unico) livello di spiegazione. Il prossimo capitolo discuterà proprio un caso di questo genere e ci porterà inevitabilmente a considerare in modo più diretto la natura di certe pratiche scientifiche odierne, nonché il ruolo sociale delle scienze. 52 4 IL BARCODING DELLA BIODIVERSITÀ: UN’INNATURALE TENDENZA DELLE SCIENZE NATURALI Noi viviamo in mezzo a lei, e le siamo estranei. Essa parla incessantemente con noi, e non ci confida il suo segreto. Noi operiamo costantemente su di essa, e tuttavia non abbiamo su di essa nessun potere. Pare che la natura tutto abbia indirizzato verso l’individualità, eppure non sa che farsene degl’individui. Johann W. Goethe, Frammento sulla Natura, 1792 Una delle più antiche aspirazioni della tassonomia biologica è quella di disporre di un sistema universale di dati che permetta di recuperare facilmente le informazioni sugli esseri viventi. È almeno dal Settecento che questa sfida mette alla prova le meningi dei naturalisti, o meglio, dei savants, come si chiamavano allora. E non sono poche le buone ragioni di coloro che tendono a retrodatare addirittura al IV secolo a.C. il tentativo più arcaico di archiviazione del mondo biologico, individuando in Aristotele il vero decano della classificazione della biodiversità. Il quale, pur con qualche comprensibile errore, nella sua Historia Animalium aveva posto il sigillo alla prima osservazione oggettiva della realtà naturale. Ma la pietra miliare del lungo cammino della sistematica biologica è senza dubbio il Systema Naturae di Carl Linnaeus, che a metà del XVIII secolo descrisse migliaia di specie animali e vegetali. Il grande botanico di Uppsala segnò lo spartiacque nella storia delle scienze naturali, tant’è che i fondamenti della tassonomia moderna, compresa l’istituzione della nomenclatura binomia delle specie, sono legati indissolubilmente al suo nome. Da allora molte cose sono cambiate. Oggi, cercare di mettere ordine nel grande disordine della natura non serve più soltanto a soddisfare il bisogno dell’uomo di dare una dignità linguistica a ciò che lo circonda, ma costituisce anche un imperativo dettato dalle sue responsabilità nei confronti della biodiversità e delle risorse biologiche che garantiranno un’esistenza serena alle generazioni future. All’alba della 53 Scienze della natura e stregoni di passaggio sesta estinzione biologica di massa, infatti, la possibilità di conoscere lo stato di conservazione delle risorse del pianeta è subordinata proprio alla scoperta-descrizione-registrazione delle specie ancora ignote, oltre che alla migliore comprensione e alla salvaguardia di quelle note. I biologi della conservazione sono tra i più ferventi sostenitori di questo punto vista, ma le loro speranze vengono disilluse, ogni giorno di più, dalla crudezza dei dati sulla condizione dell’ambiente. Veleni chimici, cambiamento climatico, frammentazione dell’habitat, cementificazione del territorio, deterioramento dei suoli, riduzione della qualità delle acque, erosione della biodiversità e altre perturbazioni ecologiche di origine antropica attualmente testimoniano una delle più grandi defaillances della storia ecologica della Terra. Il problema è che la grande «crisi della natura» è il riflesso di una concomitante e forse ancora più grave «crisi della cultura della natura», a cominciare dai segnali che provengono dalla comunità scientifica. Non è da oggi che si parla del tramonto della figura del naturalista, e in particolare del naturalista che si occupa specificamente di tassonomia biologica. La scienza della classificazione degli esseri viventi non affascina più, declassata com’è a hobby della domenica, ad attività per amanti delle scampagnate all’aria aperta o a vezzo da collezionisti incalliti. Del resto, in quest’epoca dominata dalle tecnologie biologiche più astruse, è credenza diffusa che i saperi importanti siano soltanto quelli che promettono il facile controllo dei fenomeni naturali attraverso la tecnologia. Salvo poi scoprire che una cosa è controllare una macchina progettata e costruita dall’uomo (controllo che già di per sé presenta larghi margini di incertezza), altro è controllare un sistema biologico; senza poi considerare che controllo e conoscenza non possono in nessun caso essere considerati sinonimi. La cultura scientifica odierna ha una scarsa attenzione per la dimensione storica delle discipline che si occupano della natura. Il successo ancora oggi accordato ad antichi princìpi deterministici applicati allo studio della vita – studio mirato alla previsione e al controllo dei meccanismi fini della biologia, prima ancora che alla loro comprensione – pare aver cancellato ogni interesse per la storia naturale, tradizionalmente più attenta alle trasformazioni della natura nel corso del tempo e nello spazio. Com’è stato ampiamente affermato a questo proposito da altri autori, le scienze dei processi evolutivi sono a pieno titolo delle scienze storiche, essendo dedite allo studio di fenomeni irripetibili e quindi in 54 Il Barcoding della biodiversità: un’innaturale tendenza delle scienze naturali grado di fornire unicamente ricostruzioni ipotetiche di successioni di eventi all’interno di contesti non più modificabili. Questo le rende, per una certa mentalità scientista, delle scienze di seconda categoria. Il risultato di questa concezione è che la natura vivente, con la sua storia strettamente intrecciata alle trasformazioni dell’ambiente fisico, viene appiattita di forza a semplici fattori strutturali. In altre parole, la vulgata scientista implica che sia sufficiente conoscere le più piccole unità costituenti un certo sistema e i tempi medi di variazione di tali unità costituenti, e il gioco è fatto: il «tutto» che caratterizza una storia diventa una semplice somma di unità che variano nel tempo. Ci preme sottolineare che questa è appunto una «vulgata scientista» e non «il pensiero scientifico» tout court. La scienza più accorta, in innumerevoli campi che vanno dalla meccanica statistica allo studio della dinamica di fenomeni come il ripiegamento nello spazio delle proteine (protein folding), ha da tempo acquisito la storicità (anche se talora si parla di «storie» che durano millisecondi) e quindi il carattere insieme contingente e statistico dei fenomeni. Fa una certa impressione allora notare come, proprio dove il loro ruolo dovrebbe essere più evidente, cioè nello studio dei sistemi ecologici e nell’evoluzione delle specie animali e vegetali, la complessità e le proprietà emergenti dei sistemi naturali siano aspetti a cui non si presta la dovuta attenzione. Solo una minoranza di studiosi guarda alla storia naturale con la consapevolezza che è nei passaggi dal microscopico al macroscopico che caratterizzano i molteplici livelli organizzativi del vivente, e nella fine dialettica tra ordine e disordine che con andamento top-down (dal livello alto a quello basso) o, viceversa, bottom-up (dal livello basso a quello alto), che va cercata la chiave dei cambiamenti evolutivi, ma anche della relativa stabilità dei sistemi ecologici. È così, dunque, che si arriva alla crisi dell’idea di natura a causa di un dogma che deprime il valore storico del patrimonio del pianeta per ridurlo, sul piano scientifico, alla sola dimensione attualistica, e sul piano pratico, al solo valore utilitaristico. Si tratta di un’ideologia molto rischiosa, perché spinge al completo distacco dell’uomo dal mondo naturale, e non riesce a comprendere che una natura senza storia può soltanto produrre una natura senza futuro. È nel quadro di questa cultura della natura che va interpretato il successo del cosiddetto Barcoding of Life, un nuovo sistema di catalogazione delle specie biologiche. L’implicita pretesa è quella di stabilire che la biodiversità degli eucarioti (organismi dotati di un nucleo 55 Scienze della natura e stregoni di passaggio cellulare ben definito e organizzato) può essere archiviata grazie a un nuovo metodo di diagnosi tassonomica. In particolare, il locus del DNA mitocondriale che presiede alla sintesi della citocromo C ossidasi I (COI) verrebbe adottato come indicatore di appartenenza a questa o a quella specie particolare. Dopodiché, per ognuna di queste, la sequenza del locus verrebbe registrata in un database elettronico tradotta nelle cifre di un codice a barre, lo stesso impiegato nei supermercati per marcare gli articoli presenti sugli scaffali. Il tutto per arrivare a elaborare un archivio di dati biomolecolari di animali e piante che dovrebbe compensare la scomparsa dei ricercatori di tassonomia, la cui attività ha caratterizzato la sistematica biologica fino a qualche tempo fa. L’idea è sostanzialmente quella di realizzare uno screening su ampia scala del gene COI allo scopo di: 1) assegnare esemplari animali e vegetali alle loro legittime specie biologiche (ciò che un tempo veniva indicata come diagnosi tassonomica); 2) contribuire alla scoperta di specie nuove. Stando ai propositi del progetto, ormai noto e ben avviato, i biologi di tutto il mondo potranno disporre di una libreria genetica a cui inviare i loro esemplari e ottenere a breve giro di posta la diagnosi tassonomica richiesta, inclusa la possibilità di un referto di «specie nuova». Costo previsto per ogni test, qualche sterlina o poco più: cifra certamente assai modica, che tuttavia rompe la tradizionale prassi dei naturalisti, di paesi e culture diverse, di scambiarsi osservazioni e pareri scientifici in modo del tutto gratuito. Il lettore probabilmente qui sentirà una qualche aria di famiglia con la pretesa di spiegare l’attrazione tra uomini e donne con il solo bilancio ormonale femminile che abbiamo descritto nel capitolo precedente. Cambia il contesto, ma identica rimane la smania di ridurre tutto a un solo fattore, ossia di far collassare la ricchezza di comportamenti e la diversità dei fenomeni a un unico «nucleo essenziale» eventualmente manipolabile; in sintesi, si tratta di dichiarare che ciò che della natura ci affascina e ci incuriosisce di più è solo apparenza. Il problema è che questi tentativi, magari dopo molto tempo, spesso si rivelano fallimentari e scientificamente fallaci nonostante le loro distorsioni fossero evidenti fin dal principio. La procedura del Barcoding, elaborata e descritta ufficialmente nel 2003 dal biologo canadese Paul Hebert (P.D. Hebert, A. Cywinska, S.L. Ball, J.R. deWaard, Biological identifications through DNA barcodes, 56 Il Barcoding della biodiversità: un’innaturale tendenza delle scienze naturali «Proc Biol Sci», 270 (2003), pp. 313-321), poggia sostanzialmente sul principio che la divergenza tra le specie sia non solo completamente deducibile dall’analisi del numero di mutazioni presenti negli acidi nucleici, ma che un elemento minuscolo dell’intero genoma (il gene COI, del DNA mitocondriale) possa fungere da «pietra filosofale» che racchiude tutto ciò che c’è di rilevante nelle differenze tra specie; in altri termini, si assume che una piccola stringa di basi sia abbastanza «unica» all’interno di una specie da poter essere considerata esclusiva. Sul piano concettuale non c’è nulla di nuovo. La possibilità di studiare gli alberi evolutivi degli organismi usando anche gli indizi forniti dalle macromolecole biologiche (proteine, RNA, DNA, ecc.) è nota da tempo. La vera singolarità sta piuttosto nella pretesa di offrire uno strumento esclusivo e «universale» per il riconoscimento e la classificazione dei viventi: il tutto impiegando soltanto i dati forniti da un unico gene del DNA mitocondriale. La puntualizzazione è importante perché, di fatto, è proprio questo aspetto che fa acqua nel Barcoding of Life. Molti studiosi hanno giustamente espresso i loro dubbi sulla logica del Barcoding, sostenendo che nella sistematica biologica l’enfatizzazione eccessiva del dato molecolare è una strategia esplorativa dal fiato corto: a maggior ragione se il carattere scelto per la diagnosi è limitato a un breve segmento del DNA mitocondriale. Le obiezioni evidentemente ruotano attorno al problema del limitato potere di risoluzione del metodo. Nel migliore dei casi, infatti, la sequenza del gene COI permetterà di assegnare singoli esemplari biologici alle relative specie di appartenenza, il che però non ha nulla a che vedere con la possibilità di ridisegnare «l’albero della vita». Il lavoro di ricostruzione delle linee filetiche su cui si basa la vera analisi macroevolutiva richiede ben altre strategie, soprattutto la selezione oculata dei marcatori di divergenza usati per esprimere le relazioni genealogiche tra gli organismi. Non bisogna trascurare tra l’altro che diagnosi tassonomica e scoperta di nuove specie non sono affatto sinonimi. Le aree sono entrambe di stretta pertinenza della biosistematica, ma si fondano su criteri e operazioni logiche molto diverse. La diagnosi tassonomica è il processo che consente di assegnare un determinato esemplare biologico all’insieme naturale a cui appartiene. Questo insieme è una specie già descritta e inserita nel sistema tassonomico esistente, e il suo riconoscimento viene effettuato dopo il riscontro di una serie di caratteri 57 Scienze della natura e stregoni di passaggio biologici che vanno da quelli più generali a quelli più particolari. Nella pratica ordinaria o in quella di carattere meramente amatoriale, per compiere questa operazione sono sufficienti un po’ di spirito di osservazione e una buona guida naturalistica in cui siano descritti i caratteri chiave utili per l’identificazione degli esemplari raccolti. La scoperta e la classificazione di una nuova specie è invece un’operazione del tutto diversa, perché richiede un lavoro ex novo di analisi, descrizione e caratterizzazione degli esemplari rinvenuti, il tutto corredato dall’attribuzione di un nome scientifico conforme alle regole della nomenclatura linneiana e dalla sua giusta collocazione nell’ordinamento naturale. Per quanto riguarda il primo obiettivo, ossia il riconoscimento di esemplari di specie note, l’uso della sequenza del gene COI può anche dare qualche buon risultato. Tuttavia la garanzia di un’identificazione accurata mediante tale procedura dipende dal grado di variazione nucleotidica degli organismi presente a livello intraspecifico e interspecifico. Il marcatore molecolare, in pratica, deve presentare un intervallo di cambiamento significativamente minore tra individui della stessa specie rispetto a quello che esiste tra specie diverse (per esempio, tra specie «affini» in senso evolutivo). In mancanza di questa proprietà, la possibilità di un’identificazione sicura viene inficiata. C’è quindi un problema di potere predittivo, perché il COI potrebbe rispondere bene alla diagnosi tassonomica di alcune specie, ma non rispondere affatto alla diagnosi di altre. Quanto all’obiettivo di scoprire nuovi taxa, vengono a galla problemi insormontabili. I marcatori genetici mitocondriali sembrano inadeguati a un lavoro così ambizioso. Essi non sono utili né necessari per ottenere informazioni sulla filogenesi delle specie perché non tengono conto della complessità dei fenomeni che l’accompagnano. Per esempio, non rilevano la ritenzione di polimorfismi ancestrali (variabilità delle sequenze, di nessuna rilevanza fenotipica, che si trasmette invariata a diverse specie attuali da un loro discendente comune), inoltre sono «ciechi» alla divergenza riscontrabile nel genoma nucleare: è il caso, per esempio, della speciazione per poliploidia (moltiplicazione del numero dei cromosomi spesso dovuta a incroci con specie affini, con successiva produzione di gameti in cui il corredo genetico non è dimezzato; questo fenomeno coinvolge il DNA del nucleo, ma non quello mitocondriale, che si duplica in maniera indipendente), molto diffusa nelle piante ma documentata anche negli animali. 58 Il Barcoding della biodiversità: un’innaturale tendenza delle scienze naturali Oltretutto i marcatori genetici mitocondriali non discriminano gli eventi di ibridazione né l’introgressione di geni (ossia il flusso e la fissazione di geni tra specie differenti ma non completamente isolate dal punto di vista riproduttivo), e non sono in grado di vedere la selezione sui fenotipi, o altre variabili importanti che possono verificarsi in concomitanza con le separazioni filetiche. Un’analisi così parziale, infine, è inadeguata a cogliere la maturità del processo di speciazione: i fenomeni di isolamento geografico, che possono indurre segregazione rapida tra popolazioni diverse di una stessa specie, portano all’isolamento riproduttivo e alla formazione di specie nuove, ma non possono essere estrapolati da un dato molecolare puntiforme. La plasticità morfologica, ecologica ed etologica di molti animali che – come insegna la biologia dello sviluppo più aggiornata – dipende sia da fattori genetici sia da fattori epigenetici e ambientali, è spesso fondamentale nell’occupazione di nicchie trofiche inconsuete o nell’espressione di comportamenti nuovi. Anche questo può provocare divergenze biologiche tra specie che il riscontro di un singolo marcatore mitocondriale non riesce a restituire. Il fenomeno «speciazione» spesso non dipende da singoli fattori scatenanti ma da complessi di fattori causali che implicano la conoscenza sistemica degli organismi nei loro habitat. Senza conoscenza dell’ecologia di una specie non può esserci conoscenza della sua biologia, e viceversa. La letteratura scientifica ha documentato molto bene tutti questi aspetti, ma la banca dati del Barcoding of Life è destinata fatalmente a trascurarli. Più in generale, bisogna ricordare che gli studi di genetica di popolazione hanno confermato le grandi potenzialità dei marcatori molecolari per la ricostruzione evolutiva, richiamando però l’attenzione sui rischi di un approccio unicamente improntato ad analisi di questo tipo. Tali studi hanno evidenziato che il semplice calcolo del numero di mutazioni rilevabili nel DNA come misura della divergenza tra popolazioni biologiche non corrisponde necessariamente al numero di passaggi evolutivi avvenuti nella realtà. Come ha sostenuto Luigi Luca Cavalli Sforza, i singoli nucleotidi potrebbero essere passati attraverso una serie di retromutazioni o cicli mutazionali più complessi: una differenza nucleotidica non significa necessariamente una sola mutazione, mentre l’assenza di differenze nucleotidiche non significa necessariamente assenza di mutazioni. In linea di principio la valutazione dei cambiamenti del genoma 59 Scienze della natura e stregoni di passaggio può essere una buona misura della speciazione, a patto che non sia usata in modo esclusivo. Per arrivare a conclusioni fondate, sono necessari altri tipi di analisi in grado di dare informazioni complementari, come quella morfologica (incluso lo studio dello sviluppo embrionale), ecologica, etologica, paleontologica, e perfino linguistica, come nel caso delle brillanti ricerche realizzate dallo stesso Cavalli Sforza sull’evoluzione umana. Il vero problema di un certo modo di affrontare la biologia evolutiva, e quindi la tassonomia, è una concezione che semplifica troppo e seziona con l’accetta ogni processo. Ci si dimentica che le specie non sono entità omogenee e stabili, ma insiemi naturali politipici e dai confini labili: ciò che gli studiosi di logica chiamano fuzzy sets (insiemi imprecisi). Le specie biologiche non sono riducibili a «essenze» platoniche, cioè a caratteristiche fisse e immutabili a cui ancorare i criteri per una classificazione universale, per la semplice ragione che sono entità dinamiche: esse possono modificarsi nel tempo, oltre che nello spazio. Ed è per questo che in tassonomia, grazie anche all’importantissimo lavoro di Ernst Mayr, è stata abbandonata la vecchia nozione tipologica di specie. Per la stessa ragione, gli antichi schemi descrittivi basati su rigidi tratti fisici sono stati sostituiti da criteri più complessi e variabili. La tassonomia moderna deve fare i conti con la necessità di trovare un compromesso tra adeguatezza e generalità. Un criterio descrittivo può essere dotato di buona adeguatezza per illustrare e identificare i membri di una specie (e nemmeno tutti), ma al contempo può mostrare scarsa generalità e quindi rivelarsi non applicabile ad altre specie. I padri dell’evoluzionismo più avanzato hanno evidenziato che la scienza delle specie è un settore scientifico molto importante, ma anche molto critico a causa delle trappole in cui può cadere una ricostruzione storico-biologica basata su principi essenzialisti e riduzionisti. La loro lezione dunque è stata dimenticata in fretta, così come lo è stata quella di Charles Darwin. Per esempio, la teoria dell’evoluzione per selezione naturale propone uno dei modelli più semplici di speciazione (anagenesi), ma questo modello di cambiamento viene troppo spesso frainteso. Esso è «variazionale», non «trasformazionale», nel senso che le specie evolvono non perché tutti i loro membri cambiano simultaneamente e in modo uniforme, ma perché gli individui sono diversi tra loro: la spe60 Il Barcoding della biodiversità: un’innaturale tendenza delle scienze naturali cie può essere grossomodo paragonata a un mosaico di varianti. Alcune di queste varianti vivono più a lungo di altre, aumentando così la loro probabilità di lasciare un maggior numero di discendenti. La conclusione allora è che la specie cambia perché nel corso delle generazioni (cioè nel tempo) cambiano le proporzioni delle diverse rappresentanze delle sue varianti. Alcune di queste possono essere portatrici di varianti geniche (alleli) di un certo tipo, mentre altre possono essere portatrici di alleli diversi pur appartenendo alla medesima specie (almeno fino a un determinato momento). È difficile valutare il momento esatto in cui due (o più) specie che hanno una comune derivazione biologica vanno considerate diverse, anche se in linea generale il raggiungimento dell’isolamento riproduttivo è un buon criterio per poterlo determinare. Di nuovo però bisogna fare i conti con un fenomeno multiforme, poiché l’interruzione del flusso genico tra specie giovani si presenta con meccanismi che agiscono in modo differenziale, impedendo a seconda dei casi l’accoppiamento, la fecondazione, lo sviluppo o la vitalità della prole. Un singolo gene mitocondriale, come del resto la maggior parte dei marcatori genetici o fenotipici che vengono usati in maniera decontestualizzata da tutto il resto, non può cogliere questa pluralità di aspetti. Il ragionamento aiuta a capire il motivo fondamentale per cui la ricostruzione evolutiva necessita, al pari di tutte le ricostruzioni storiche, del maggior numero di prove che si possono raccogliere. Non si dovrebbe mai economizzare nella ricerca delle prove. E non è un caso se nelle scienze storiografiche il metodo di indagine si basa sul confronto dei documenti e delle testimonianze per capire non solo l’andamento dei fatti ma anche il loro contesto. Anche se in biologia evolutiva si utilizza un gergo specialistico che non coincide con quello delle scienze di matrice umanistica (per esempio la linguistica), il concetto non cambia: si parla sempre di metodo comparativo. In altre parole, quando è impossibile assistere direttamente al verificarsi di un fatto (o di una serie di fatti), l’unico modo per indagarlo è simularlo a posteriori fondando le ipotesi su un buon numero di indizi indiretti che siano «confrontabili» e attendibili. Dovrebbe essere esattamente questo il modo di procedere indicato dalla teoria dell’evoluzione e dalle sue diverse interpretazioni. Ernst Mayr, tra i più grandi teorici della speciazione biologica di tutto il Novecento, durante la sua lunga carriera a Harvard ha prodotto e lasciato in eredità uno straordinario bagaglio di conoscenze scien61 Scienze della natura e stregoni di passaggio tifiche. Non solo questo però: egli ha anche messo in guardia i biologi e i naturalisti moderni dall’eccessiva pervasività dell’essenzialismo, del riduzionismo e del meccanicismo nelle scienze della vita. Il suo insegnamento dunque non attiene solo alle teorie e ai metodi utili per lo studio della natura, ma anche al valore della storia naturale nel pensiero scientifico. Questo patrimonio di cultura scientifica andrebbe conservato gelosamente, ma purtroppo una parte considerevole della biologia evoluzionistica odierna pare volersi nutrire soltanto di facili scorciatoie e banalizzazioni. Scorciatoie e banalizzazioni di cui proveremo a svelare il lato «stregonesco» nel prossimo capitolo, che ha a che vedere proprio con la specializzazione precipua di maghi e stregoni: la previsione del destino. 62 5 VERSO UN’ECOLOGIA DELLA MENTE: SCIENZE DEL DESTINO E ALTRE IDEOLOGIE Si è spesso cercato di giustificare la schiavitù paragonando lo stato degli schiavi a quello dei nostri contadini più poveri; se la miseria dei nostri poveri non fosse causata dalle leggi della natura, ma dalle nostre istituzioni, la nostra colpa sarebbe grande, ma non so vedere come questo abbia rapporto con la schiavitù; sarebbe come difendere in un paese l’uso della vite per schiacciare le dita, dimostrando che in un altro gli uomini soffrono per qualche terribile malattia. Charles Darwin, Viaggio di un naturalista intorno al mondo, 1845 Che cos’è che guida il destino terreno di ciascuno di noi? A partire dall’epoca presocratica fino ad arrivare alle più recenti tendenze del pensiero postmoderno e della cosiddetta «cultura new age», si potrebbe sciorinare una lunga serie di pensatori, teologi, scrittori, scienziati – e, nel mucchio, anche più di un ciarlatano – che hanno almeno tentato di rispondere a questo interrogativo così intrigante e in verità non così astratto da essere relegato all’esclusiva sfera di influenza della riflessione filosofica. In questo capitolo vorremmo provare a staccarci da un ragionamento meramente speculativo per vedere se è possibile spostare il focus del quesito iniziale all’interno di un ambito a noi più congeniale, cioè quello dell’inquadramento scientifico di un problema. Per la precisione, vorremmo capire se è possibile parlare delle cause del destino individuale degli esseri umani e di tutti gli altri esseri viventi incanalando il discorso su un binario scientifico ed evitando le trappole della banalizzazione ideologica, mettendo chiaramente in conto che ogni discorso scientifico ha una particolare «scala di applicazione», per cui non ha alcun senso immaginare una predizione «infinitamente esatta» in ogni dettaglio; fin dal principio, infatti, avremmo la certezza che tale predizione sarebbe destinata al fallimento per ben noti limiti intrinseci al fare scientifico che danno a ogni nostra affermazione un carattere meramente probabilistico. Il nostro obiettivo è quindi semplicemente quello di arrivare a individuare un caso ben costruito di scienze della natura che abbia saputo trattare l’argomento con un approccio semplice ed efficace, mostrando che certi temi 63 Scienze della natura e stregoni di passaggio hanno una dimensione di concretezza che forse non avevamo immaginato. Questa scelta, se non altro, ci potrà indicare entro quali limiti di confidenza, vale a dire a che scala, si pone la nostra capacità previsionale. Può essere interessante allora incominciare con qualche considerazione di carattere generale su un bel film italiano che ha tutta l’aria di prestarsi al caso in questione: Ovosodo, di Paolo Virzì. Gli annali del cinema nazionale ne documentano l’ottimo successo di critica, benché a nostro modo di vedere l’opera avrebbe meritato una maggiore attenzione da parte del pubblico e soprattutto da parte degli studiosi di scienze naturali e sociali. Firmato e diretto nel 1997 dal regista toscano, Ovosodo narra la storia di un ragazzo nato nel 1974 da una famiglia operaia di Livorno che risiede nel quartiere popolare che dà il nome al film. Piero, il giovane protagonista, vive la transizione dall’adolescenza alla maturità passando attraverso le stesse avventure e disavventure di vita ordinaria che accomunano molti ragazzi della provincia italiana. La sua famiglia non è delle più fortunate e il suo universo sociale è abitato in prevalenza da personaggi «problematici» e da autentici infelici. Anche se conduce una vita scandita dai ritmi di un ambiente privo di grandi stimoli e dai limiti imposti dalla sua modesta condizione socio-economica, Piero è un ragazzo sveglio, intelligente, che non si abbatte al pensiero della sua monotona quotidianità; anzi, egli osserva gli eventi che gli accadono intorno con un raro e distaccato senso dell’ironia. A un certo punto il suo destino prende una piega inaspettata intrecciandosi con quello di Tommaso, un compagno del liceo in apparenza alquanto irrequieto e disinibito, certamente molto «alternativo» e sicuro di sé. Tommaso è caratterialmente diverso da Piero e forse, proprio per questo, l’intesa tra i due giovani si consolida al punto da prefigurare un’amicizia duratura e resistente allo scorrere del tempo. L’affiatamento con Tommaso comporta per Piero un cambiamento di registro totale, che gli permette di guardare il mondo con occhi diversi, di fare nuove esperienze e di intrecciare nuove relazioni. Tommaso è un rampollo dell’alta borghesia livornese, molto introdotto nei circuiti esclusivi e abituato ad amicizie della stessa posizione sociale. Tra l’altro, malgrado un curriculum scolastico non proprio brillante, la sua ricca famiglia ha messo in serbo per lui un futuro di successo negli Stati Uniti. Le strade di Piero e Tommaso, quindi, a un certo punto sono destinate a separarsi, e i loro contatti si fanno sempre più radi e casuali. La scena dell’ultimo incontro fortuito – sia64 Verso un’ecologia della mente: scienze del destino e altre ideologie mo ormai alle battute finali del film – è ben costruita e tutta incentrata sull’imbarazzo che i due amici avvertono nello scoprirsi, ora, così diversi. Il tempo ha raffreddato tutto, in particolare l’antica confidenza, e anche il corteo di aspirazioni e infatuazioni condivise negli anni del sodalizio è acqua passata. È come se, dopo quel periodo di grandi aspettative comuni, ciascuno fosse rientrato nei propri ranghi naturali. Piero ha messo su famiglia sposando una ragazza del suo quartiere e ha accettato un lavoro da operaio nell’impresa di proprietà della famiglia di Tommaso: la stessa impresa in cui aveva lavorato suo padre. In qualche modo, il destino di Piero sembra avere rispettato fedelmente le limitate promesse di realizzazione personale che le sue umili origini facevano presagire. Chiaramente parliamo sempre di «dimensione sociale» della realizzazione personale, infatti niente e nessuno ci potrebbe dire alcunché della felicità interiore di Piero o di chicchessia: una precisazione non così inutile, in quanto – posto che qui interessa la dimensione scientifica dei fatti narrati – non dobbiamo scordare che ogni pezzo di buona scienza deve ben esplicitare le «condizioni al contorno» dei suoi obiettivi. Anche per Tommaso, inoltre, tutto sembra essere andato secondo programma; un programma ovviamente molto più roseo rispetto a quello riservato a Piero. L’incontro tra i due amici si conclude con la ripresa forse più emblematica del film, nella quale Tommaso, dopo essersi congedato sorridente da Piero, si incammina con fierezza verso la sua nuova e lussuosissima decappottabile: un epilogo che sigilla il ristabilirsi della distanza tra esistenze differenti, segnate dalla nascita. Il nesso tra le questioni narrate nel film e le questioni di scienza, intendendo qui per «scienza» un qualsiasi criterio verificabile utile a spiegare la struttura organizzativa della realtà, potrebbe sembrare per nulla scontato, eppure c’è, ed è anche piuttosto evidente. In questo caso il regista suggerisce una visione deterministica del destino degli individui che si pone alla scala della classe sociale, sottolineando come la mobilità sociale sia una componente minore della nostra società, laddove, aldilà dell’apparente uniformità dei giovani, prima o poi il parametro d’ordine «classe di appartenenza» prende il sopravvento. Il modello non ha chiaramente l’ambizione di arrivare a prevedere i particolari degli eventi futuri o, come sottolineato sopra, la dimensione interiore di Piero e Tommaso; tuttavia esso riesce a cogliere un elemento causale fondamentale nel destino individuale, che è appunto rappresentato dalla struttura sociale nella quale vivono le persone. Il 65 Scienze della natura e stregoni di passaggio destino individuale, dunque, in questo caso può essere a buon diritto considerato una sorta di «fenotipo sociale» riferibile al ceto socio-economico di appartenenza. Il tema ha avuto un notevole peso nella storia del pensiero scientifico. Gli scienziati di qualche secolo fa, per esempio, sentivano il bisogno di fornire una descrizione dell’ordinamento naturale dei viventi a cui associare, su un piano differente, un ordinamento naturale degli esseri umani. In pratica si pensava che esistesse una sorta di gerarchia della natura in grado al tempo stesso di rendere ragione delle differenze di status osservabili nella società umana. La collocazione di ogni essere vivente in una certa categoria dell’ordinamento naturale, e di ogni essere umano in una certa categoria dell’ordinamento sociale, era rivelatrice del disegno trascendente sotteso allo stesso atto creativo della vita. E poiché tutto il creato era stato designato fin dal principio per essere immutabile – una tesi che oggi definiamo «fissismo» – ciò stava a significare che il destino di ciascuna creatura, esseri umani compresi, doveva essere imperturbabile a qualsiasi possibilità di cambiamento. Questo spiegava la natura delle differenze rilevabili tra tutti i viventi, fornendo de facto anche una giustificazione accettabile delle disuguaglianze sociali tra gli uomini. Vale la pena sottolineare che, ancorché permeate da una certa ipocrisia tipica dei ceti sociali dominanti, questo genere di spiegazioni, nel dare conto delle cause trascendenti del carattere immanente delle differenze individuali, poteva far leva su più di una buona ragione. In fin dei conti le scienze naturali erano ancora pesantemente influenzate da concezioni predarwiniane della natura, e in genere le teorie sul mondo vivente attribuivano molta più importanza alle differenze che alle somiglianze. Vere idee evoluzioniste non erano ancora state elaborate – il principio darwiniano della «discendenza con modificazioni» arriverà soltanto nella seconda metà del XIX secolo –, e dunque, la relazione tra somiglianze e differenze sia negli individui sia nelle genealogie di piante e animali era pressoché sconosciuta. In un tale contesto culturale la spiegazione creazionista dei viventi, anche se accentuata da elementi ideologici, era di gran lunga la più plausibile. Assai meno plausibile è ciò che si è verificato nella seconda metà del XX secolo, quando spiegazioni più moderne, spacciate come «scientifiche», hanno cambiato le parole utili a definire le cause delle differenze individuali, mantenendo tuttavia pressoché immutata la sostanza. Per esempio, secondo il modello esplicativo della cosiddetta 66 Verso un’ecologia della mente: scienze del destino e altre ideologie «biologia ultradarwinista», che ancora oggi si avvale di un vecchio apparato concettuale di tipo genocentrico, tutte le differenze rilevabili tra gli organismi, compresi gli individui appartenenti a una medesima specie, vanno ascritte ai geni; anzi, sono i geni stessi. In questo modo ciascun essere vivente sarebbe incatenato a un unico destino irreversibile imposto dal suo proprio «progetto di natura». Questa pretesa onnicomprensività, infatti, non lascia alcuno spazio esplicito a considerazioni «di scala» come quelle implicite nel film di Virzì. Esisterebbero dunque geni buoni e geni cattivi, in grado di controllare non solo lo sviluppo biologico, ma persino il percorso di vita delle persone, le loro capacità intellettive, la loro posizione professionale, il loro prestigio sociale, ecc. Come si vede, si torna a un’interpretazione rigidamente programmatica degli eventi che caratterizzano la vita degli individui. In questo caso però non si fa appello a un disegno divino e trascendente, ma a un progetto deterministico tutto inscritto in una frazione infinitesima della materia di cui gli organismi sono fatti, vale a dire il DNA, che viene così a rappresentare da un lato «l’essenza» platonica delle differenze tra tutti gli esseri viventi e dall’altro la causa primaria di tutti i fatti del mondo naturale e sociale. A ben vedere, il solito vecchio vizio di far «collassare» le molteplici e differenti dimensioni di un fenomeno a un unico «motore» immobile. Tornando a Ovosodo, uno dei meriti del film è quello di avere messo in scena in modo magistrale, e senza cadute retoriche, una bella storia sul destino umano, o meglio, sulle differenze dei destini individuali degli esseri umani, perfettamente coerente con una visione scientificamente avanzata del problema della causalità degli eventi naturali e sociali. Naturalmente il regista non parla di teorie biologiche, né allude minimamente a temi scientifici. Egli si limita a rappresentare un mondo in cui la piena realizzazione delle persone – per quel che riguarda la collocazione sociale, che è poi la dimensione presa in esame dal regista – è assai poco influenzata dalla volontà (e dai desideri) delle persone stesse, ma dipende per lo più dalle effettive opportunità di mobilità sociale dischiuse dal modello socio-economico vigente. Le implicazioni per un ragionamento di interesse scientifico a 360 gradi non mancano. Il film è un affresco antropologico in cui le storie più o meno felici dei singoli personaggi sono l’effetto primario del potere più o meno grande che ogni individuo è in grado di esercitare sulla propria sorte: un potere che però non viene conferito da un «dono di natura», ma dal contesto di regole e valori nel quale si costruisce la 67 Scienze della natura e stregoni di passaggio convivenza umana. Emerge dunque che è una struttura sociale rigidamente classista a produrre le disparità individuali, e che in realtà non esiste alcun destino programmato da una qualche entità naturale o sovrannaturale. Niente e nessuno ha stabilito chi è predestinato a essere povero e chi ricco, chi felice e chi triste, chi degno di successo e chi indegno, se non una concezione ideologica, come quella odierna, dell’organizzazione collettiva, che, per così dire, «favorisce» chi è già avvantaggiato. La pretesa, oggi piuttosto in voga, secondo cui il successo e il prestigio sociale dovrebbero riflettere inclinazioni naturali determinate da una qualche forma geneticamente ereditabile di vantaggio individuale è una grossolana invenzione antropologica, una sorta di modernariato ideologico che, facendo il verso al darwinismo sociale del filosofo inglese Herbert Spencer e ad altre farneticanti correnti del pensiero ottocentesco, arriva a contrabbandare come fatti di natura le nostre elucubrazioni mentali, le nostre costruzioni sociali e le nostre peggiori ideologie sull’organizzazione della realtà. Si tratta di una cultura retriva che mette al proprio servizio la scienza per legittimare una visione parziale e discutibile del mondo, arrogandosi da sola il privilegio di dire l’ultima parola su qualsiasi problema della condizione umana, dalla fame nei paesi poveri alla morale pubblica. Un effetto diretto particolarmente preoccupante è la legittimazione di espressioni di razzismo certamente diverse dalle atrocità che la storia ci ha fatto conoscere, ma per certi versi ancora più pericolose perché subdole e radicate in un pensiero «normale» che sta penetrando nelle regole e nei valori delle istituzioni a livello globale. C’è inoltre un effetto indotto a cui raramente si pensa, visibile per esempio nelle dinamiche nepotistiche che dilagano anche in molti settori professionali e della vita pubblica, come le università e gli enti di ricerca, dove il possedere lo zio, il cugino o qualsivoglia parente di turno ben inseriti nei circuiti baronali diventa il requisito d’elezione per accedere con facilità a carriere rapide e sontuose, con il nullaosta degli apparati burocratici. È ovvio che, in una qualche misura difficilmente quantificabile (come vedremo più avanti), le differenze soggettive in alcune capacità, come per esempio le abilità fisiche, mnemoniche, di apprendimento o di altro tipo, risentono anche di un’influenza genetica, ma le categorie mentali e le gerarchie di valori che vengono designate a tavolino per riconoscere e premiare alcune caratteristiche soggettive invece di altre non hanno nulla a che fare con le «cause biologiche» di quelle ca68 Verso un’ecologia della mente: scienze del destino e altre ideologie ratteristiche, e riflettono esclusivamente il modello di sviluppo sociale designato dalle istituzioni. Le scienze della vita purtroppo hanno attinto a piene mani a questa ideologia del successo individuale basato su proprietà innate, magari vincolate al possesso di «geni buoni» (per molti anni, e ancora oggi, la letteratura biologica ha usato esattamente l’espressione good genes). Il problema è che molti studiosi, soprattutto molti biologi, si sono completamente scordati di quelle straordinarie ricerche della genetica classica che fin dagli anni Cinquanta del secolo scorso hanno messo in luce la relazione non lineare che esiste tra geni e organismo (più tecnicamente, tra genotipo e fenotipo), evidenziando la sostanziale impossibilità di prevedere il fenotipo di un individuo a partire dai suoi geni; ricerche che ancora oggi ci aiutano a considerare il problema della causalità biologica un affare tutt’altro che semplice e risolto. Vale dunque la pena fare un rapido accenno a questi studi, perché, come anticipato nella premessa di questo capitolo, permettono di prendere in considerazione un nuovo ed emblematico caso di «scienza bella». Anzitutto bisogna precisare che tra le persone comuni, e spesso anche tra gli scienziati, è molto diffusa una concezione piuttosto ingenua dei fenomeni genetici, dovuta spesso agli equivoci del linguaggio e delle metafore scientifiche. Una prima questione da chiarire è che un gene, da solo, non può fare alcunché, né tanto meno può determinare un fenotipo. Qualsiasi fenotipo di qualsivoglia organismo è sempre l’effetto dell’interazione di molti geni e di una serie imprecisabile di altri agenti che normalmente vengono riuniti sotto il concetto ombrello di «ambiente». Anche lo sviluppo dei caratteri fisici più semplici, i cosiddetti caratteri monogenici, è il risultato dell’azione di una pluralità di fattori che non sono mai riducibili a un unico principio primo. Nella comunicazione tra colleghi, spesso i biologi amano affermare che un particolare fenotipo è determinato da un certo gene che è stato a sua volta individuato e isolato. Ma si tratta, appunto, di una licenza gergale che, a ben vedere, implica una manipolazione impropria dei concetti scientifici: dire che un certo carattere «è causato» da un certo gene trasmette una nozione scorretta degli eventi coinvolti nella morfogenesi. Nel caso dei semplici caratteri monogenici, dunque, può essere del tutto legittimo associare un fenotipo atipico (nel senso di diverso dalla norma) di un individuo a un certo allele, cioè la forma mutata di un gene «normale», ma solo a condizione di considerare immu69 Scienze della natura e stregoni di passaggio tati tutti gli altri fattori – genetici, biochimici, cellulari e ambientali – che partecipano allo sviluppo di quel particolare fenotipo. In genetica, per indicare il potere, ossia la «quantità di effetto», che un certo genotipo esercita sul fenotipo di un organismo, si parla di «espressività». L’espressività non è altro che il grado di espressione fenotipica (per esempio una certa gradazione della colorazione dei petali di un fiore) di un genotipo in un singolo individuo. Spesso, però, è molto più comodo chiamare in causa un secondo concetto – la «penetranza» –, lievemente differente dal primo ma forse un po’ più utile a chiarire ciò su cui vogliamo richiamare l’attenzione. La penetranza definisce la percentuale degli individui di una popolazione che avendo in comune un certo gene hanno in comune anche il fenotipo che normalmente viene associato a quello stesso gene. Per esempio, molti individui di una determinata specie di insetti che possiedono un certo gene potrebbero non esprimere il fenotipo che si sviluppa in associazione a quel gene – diciamo una particolare forma degli occhi –, nel qual caso si dice che il gene in questione è dotato di una bassa penetranza (vedere Figura 1). Ogni volta che si osserva un fenomeno di questo genere si ha la prova provata che i singoli geni, di per sé, non causano nulla, ma agiscono nell’organismo cooperando con altri geni e con fattori non genetici. Che valutazione dobbiamo trarre da tutto questo? Come si può capire, il significato del termine «causa» in genetica è decisamente incerto, eppure, malgrado questa aleatorietà di significato, lo studio della relazione tra gene e organismo ha fornito conoscenze di cui vale la pena dare conto. I risultati prodotti da questo tipo di indagine scientifica sono ancora di grandissima attualità, specialmente adesso che si parla molto della possibilità di controllare e persino di creare artificialmente la vita. Anche qui comunque occorre una piccola precisazione. Nelle scienze della vita esistono due problemi distinti in merito alla questione della causalità genetica. Un primo problema riguarda lo studio di quei fenotipi atipici rispetto a quelli normali che possono dipendere: 1) dalla possibilità che un organismo complesso (come una pianta o un animale) abbia ricevuto da entrambi i genitori una variante genica ad alta penetranza, non molto diffusa nella popolazione di appartenenza, a cui si associa un fenotipo deviante, oppure 2) dal fatto di possedere geni a bassa pe70 Verso un’ecologia della mente: scienze del destino e altre ideologie Penetranza variabile Espressività variabile Penetranza ed espressività variabili Figura 1. Espressività e penetranza nell’espressione del fenotipo (ogni cerchio rappresenta un individuo). In una popolazione, o in un gruppo, la penetranza è la percentuale di individui aventi uno stesso genotipo che esprimono il carattere a esso associato. L’espressività invece è il grado di espressione fenotipica di un determinato genotipo in ogni singolo individuo. Gli individui di ogni riga hanno lo stesso genotipo, il che fornisce a tutti la medesima potenzialità di sviluppare il fenotipo a esso associato. Tuttavia, come si vede, l’espressione fenotipica in ciascun individuo può essere modificata e/o modulata da altre influenze (genetiche e ambientali) fino a ottenere la variabilità mostrata in figura. netranza la cui interazione reciproca, tuttavia, produce lo stesso fenotipo deviante. In buona sostanza si tratta dell’antico problema di discriminare tra gli effetti fenotipici prodotti da un singolo gene ad alta penetranza e quelli prodotti da tanti geni a bassa penetranza. Un secondo problema invece riguarda la possibilità di separare in unità indipendenti un certo numero di fattori causali che normalmente interagiscono per produrre un unico risultato. Si tratta di un altro vecchio grattacapo della genetica classica, fondamentalmente diverso dal primo, dovuto alla difficoltà di dividere in componenti distinte il complesso di interazioni che si verificano tra geni e ambiente nella determinazione del fenotipo. In questo caso la difficoltà emerge nel momento in cui realizziamo che il fenotipo di ogni organismo individuale è il prodotto dei processi biochimici controllati dai geni all’interno di un’unica e irripetibile sequenza di ambienti e di eventi di sviluppo, 71 Scienze della natura e stregoni di passaggio i quali insieme condizionano e sono condizionati dall’azione dei geni. Andrebbe anche ricordato che non sempre tutto si svolge all’interno di un quadro nitido e pulito, perché in ogni processo biologico è presente anche rumore, ossia un insieme di fluttuazioni casuali che possono far deviare (il più delle volte lievemente) i processi di sviluppo, con il risultato che il fenotipo finale è in un certo senso «ancora meno prevedibile del previsto»; escludendo eventi inconsueti determinati da altri fattori, quest’ultima è la ragione principale per cui, per esempio, le due metà destra e sinistra che formano il nostro corpo non sono mai perfettamente uguali, ma presentano piccole variazioni che ci rendono organismi dotati di una simmetria bilaterale imperfetta. È evidente che qui non abbiamo a che fare con la semplice distinzione tra tipologie diverse di cause che agiscono sommando azioni indipendenti, ma abbiamo a che fare con la descrizione di cause che agiscono influenzandosi reciprocamente, con un’incognita aggiuntiva rappresentata dal rumore. Nella concezione tradizionale della genetica, concezione che ancora oggi viene erroneamente impiegata per spiegare l’espressione dei fenotipi – si veda per esempio l’uso distorto che l’ingegneria genetica fa del concetto di fenotipo nella produzione di piante geneticamente modificate – i due fattori causali (i geni e l’ambiente) potevano essere separati come gli addendi di un’addizione. Oggi invece sappiamo che il fenotipo non risulta da una somma di addendi separati, ma dipende dalla loro integrazione dinamica: in termini leggermente più tecnici, possiamo affermare che è funzione del loro continuo feedback. Dunque, è inutile fare previsioni, per esempio, su quale sarà il fenotipo «altezza» di una pianticella di pino mugo germinata in ambiente alpino di alta quota e poi trasferita in un ambiente più a valle. Allo stesso modo è inutile chiedersi quanti grammi del peso di un toporagno adulto sono determinati dai suoi geni, quanti dall’assunzione di nutrienti e quanti dalla sua spesa metabolica (respirazione, consumi muscolari, ecc.). Porsi questi problemi non ha alcun senso, perché le domande da cui nascono sono domande sbagliate proprio in quanto basate sull’impianto concettuale del fenotipo inteso come effetto somma. Per il tipo di scienza cartesiana a cui siamo abituati – che vorrebbe separare ogni problema in tanti problemi più piccoli dalle cui singole soluzioni è possibile risalire alla soluzione del problema iniziale – si tratta naturalmente di una conclusione che suona particolarmente frustrante. Ma sarebbe sciocco sprecare tempo ed energie nel cercare spiegazioni scientifiche insensate quando, di fatto, 72 Verso un’ecologia della mente: scienze del destino e altre ideologie basterebbe voler riconoscere gli errori commessi e ripartire dalle domande, ovvero dall’origine delle ipotesi e dai criteri da utilizzare per la loro validazione, per capire se si possono costruire modelli di spiegazione alternativi e più efficaci. I concetti e le idee descritte in questo capitolo sono un’elaborazione – del tutto arbitraria negli esempi scelti, come il film Ovosodo, ma rigorosa nella descrizione dei risultati – di un’eccellente prova di scienza: uno studio metodologico (The Analysis of Variance and the Analysis of Causes) pubblicato da Richard Lewontin nel 1974 nell’«American Journal of Human Genetics». In tale studio, lo scienziato di Harvard, uno dei più geniali studiosi di genetica di popolazioni e dei più intelligenti cultori del pensiero biologico, dimostrò come sia semplicemente impossibile attribuire un valore quantitativo alle singole cause di un processo biologico come lo sviluppo del fenotipo. L’articolo di Lewontin evidenziò che, in linea di principio, una volta scelto un organismo modello, per ogni singolo genotipo si possono provare a studiare i fenotipi possibili in relazione a ogni possibile ambiente di sviluppo. Questo tipo di esperimento è stato chiamato «norma di reazione». Il vero oggetto di studio delle norme di reazione è la relazione tra genotipo, fenotipo e ambiente, il che, dal punto di vista del protocollo sperimentale, si traduce nella messa a punto di una tabella di corrispondenze tra il fenotipo da una parte e le varie combinazioni genotipo-ambiente dall’altra. Gli studi sulle norme di reazione richiedono di poter disporre di un certo numero di individui appartenenti a organismi con riproduzione sessuale e dotati di genotipo identico; ciò perché l’analisi si basa su procedure sperimentali molto stringenti, vale a dire sulla possibilità di valutare lo sviluppo dei fenotipi individuali corrispondenti a ogni singolo genotipo in altrettanti ambienti differenti. Ai tempi del lavoro di Lewontin, in cui molte delle metodiche odierne impiegate in biologia molecolare non esistevano, questo genere di investigazioni rivestiva un grande interesse nell’ambito della genetica umana, ma ovviamente per ragioni sia pratiche che etiche le procedure sperimentali non potevano essere implementate utilizzando esseri umani. Si ripiegò quindi sull’uso piuttosto economico e decisamente molto pratico di piante (come le specie del genere Achillea) dotate di propagazione vegetativa. In altri casi si utilizzarono i moscerini delle specie Drosophila melanogaster e Drosophila pseudobscura, tradizionali modelli animali impiegati nelle ricerche di genetica evoluzionistica. 73 Scala del carattere Scienze della natura e stregoni di passaggio Estremo opposto Ambiente estremo Estremo opposto Scala del carattere Ambiente estremo Genotipo A Genotipo B Figura 2. Due diverse norme di reazione (simulate) molto semplici, in cui il confronto tra due genotipi A e B mostra come i relativi fenotipi (riferiti per esempio al carattere «altezza») possano distribuirsi in modo assai diverso e imprevedibile al variare degli ambienti di sviluppo. Tali ambienti sono qui indicati in termini di variabili ambientali che degradano tra estremi opposti (per esempio «temperatura bassa» e «temperatura alta»); lungo il tratto a metà dell’asse orizzontale sussistono quindi condizioni intermedie. Si noti come, nelle «zone intermedie» dei due grafici, le norme di reazione si incrocino producendo fenotipi identici. Il senso di questo fenomeno è il seguente: genotipi diversi, in condizioni ambientali identiche (stessa T), possono avere lo stesso fenotipo. Tra i due grafici tuttavia c’è una differenza sostanziale. Infatti, mentre nel grafico in alto i due genotipi presentano le stesse curve fenotipiche (gaussiane) nell’ambito di gradienti di T lievemente sfasati, nel grafico in basso i due genotipi presentano curve fenotipiche (grossomodo lineari) con andamento opposto via via che da T basse si passa a T alte. Il risultato è che in molti punti dei due grafici, come visto nei punti di incrocio delle curve (zone intermedie), i fenotipi risultanti dalle due coppie di genotipi coincidono, pur sussistendo condizioni ambientali diverse e persino opposte. Il senso di questi fenomeni è il seguente: genotipi diversi, in condizioni ambientali differenti o addirittura opposte, possono produrre fenotipi identici. 74 Verso un’ecologia della mente: scienze del destino e altre ideologie I risultati ottenuti da Lewontin nella sua rassegna mostrarono che le relazioni possibili tra genotipo e fenotipo sono molteplici e che nella stragrande maggioranza dei casi la genetica non evidenzia dinamiche lineari di causa-effetto. Infatti, anche un test statistico efficace come l’analisi della varianza è inadeguato a predire il fenotipo analizzando la co-variazione di variabili interdipendenti (i geni e l’ambiente). I risultati dello studio di Lewontin mostrarono quindi che un singolo genotipo può produrre molti fenotipi differenti, a seconda dell’ambiente, e, al tempo stesso, che un singolo fenotipo può essere prodotto da molti genotipi differenti, a seconda dell’ambiente. La risposta scientifica alla domanda espressa nell’incipit di questo capitolo è che la vera causa del fenotipo («il destino») di un organismo è l’organismo stesso. Complimenti al regista Paolo Virzì, il quale, probabilmente senza conoscere gli studi sulle norme di reazione, ha capito che l’unico modo per rendere prevedibile il destino di qualcuno è imbrigliarlo in un’ideologia rigida e immutabile, che spaccia il privilegio per qualità innata e il nepotismo per eredità naturale (genetica) del privilegio. Creare un contesto di fatti con il solo criterio dell’ideologia – una delle forze più invincibili del nostro tempo – e poi pretendere di averne provato scientificamente la «naturalità» è un procedimento ben poco scientifico. Siamo invece di fronte a una prova di «magia nera» che fonda le sue insidie sull’arma della tautologia: se decido a priori, per motivazioni del tutto estranee al procedere dell’impresa scientifica, quali debbono essere le situazioni e le attitudini da premiare, posso poi sempre dire che questo è il «materiale grezzo» fornitomi dalla natura (per esempio i geni) e dimostrare, facendo leva su un cortocircuito logico, che le cose non possono che stare così. Seguendo questa strada, non vi sarebbe alcuna difficoltà a trovare un’ineccepibile correlazione tra il genere femminile (e quindi il cromosoma X) e il lavoro a maglia o, al contrario, tra il genere maschile e l’attrazione per i videogiochi, e dunque arrivare ad affermare che esiste il gene per il lavoro a uncinetto o il gene per la playstation. Alla fine non sarebbe nemmeno troppo difficile cercare (e trovare) i finanziamenti per un programma di ricerca volto a confermare tale ipotesi bislacca. Con certe elucubrazioni mentali si possono scrivere infiniti copioni per una scienza e una filosofia ottime per i reality TV ma al tempo stesso pretenziose e bruttissime, oltre che prive di contenuto. Molto meglio, allora, la stucchevole mercanzia promanata da perizomi e reg75 Scienze della natura e stregoni di passaggio giseni sbattuta in faccia alla gente in prima serata. Come ci insegna l’attualità, il più delle volte persino la più tediosa carnalità che tracima da starlettes e machos iperanabolizzati offre uno spettacolo meno indecente di quello offerto da molti colletti bianchi, immancabilmente in abito da sera e sempre disponibili per una comparsata alla TV. Certe brutture materiali, in fondo, non sono altro che piccole gocce che si perdono in un mare di bruttezza assai più grande, come certe idee. Vi pare esagerato? Allora leggete il prossimo capitolo, poi ne riparliamo. 76 6 SPECIE BIOLOGICHE, CULTURA SIMBOLICA E GLI SPECCHI DEFORMANTI DEL POSTMODERNISMO Quello che non sei guardalo, quello che non sei vivilo, quello che non sei rispettalo, quello che non sei non è diverso, è forse quello che sei quando non ti vedi. L’altro sei tu. L’incontro è vita. Proverbio africano Molti scienziati come l’antropologo Terrence Deacon affermano che Homo sapiens è una specie simbolica, anzi, l’unica specie simbolica attualmente vivente. Riteniamo l’affermazione del tutto ragionevole, ma abbiamo anche il dovere di dire che in materia non esistono prove inoppugnabili che le cose stiano esattamente così. Ci sono infatti due ordini di problemi. Il primo è che non riusciamo a formulare un criterio non arbitrario che descriva le proprietà interne (mentali?) che una specie dovrebbe possedere per poterle attribuire proprietà simboliche. Il secondo è che, anche ammettendo di individuare un criterio valido, non disponiamo di apparati percettivi e metodi di indagine standard in grado di accertare in modo inequivocabile la presenza di tali proprietà negli esseri non umani. I dubbi sono molteplici, e in un certo senso ruotano intorno a una serie di interrogativi ancora aperti che una scienza avveduta non dovrebbe eludere né banalizzare. Per esempio, possiamo escludere a priori che in certi fenomeni di mimetismo animale e vegetale sia implicita una qualche forma di comunicazione simbolica? Possiamo affermare con certezza che i displays di molti rituali sociali dei vertebrati siano privi di contenuti simbolici? Di che natura sono i processi interni che guidano le api (Apis mellifera) durante la nota «danza» che permette loro di scambiarsi informazioni sociali relative alla traiettoria e alla distanza di un campo fiorito? Siamo sicuri che la «mente» sia una caratteristica esclusivamente umana? Non potrebbe invece essere interpretata come una qualsiasi proprietà emergente che può manifestarsi in un’infinità di modi differen77 Scienze della natura e stregoni di passaggio ti – al limite, tanti quante sono le specie biologiche – per consentire agli organismi di generare variabilità di relazioni tra stimoli esterni e risposte interne a seconda del contesto? È praticamente impossibile fornire risposte chiare e universali a queste domande. Tanto più che anche sul concetto di segno simbolico non c’è un accordo unanime. Sicuramente un segnale stradale è un simbolo in quanto veicola, attraverso una convenzione accettata e verificata, una certa (e univoca) informazione. D’altro canto, però, un segnale stradale non accoglie in pieno l’impegnativo senso di simbolo nell’originale etimologia greca di «raccogliere insieme» (syn-ballo), che implica la polisemia del segno, come se fosse un concentrato di informazione che può poi essere spacchettato e interpretato a differenti livelli e con diversa profondità dal fruitore. In questo senso un simbolo è per esempio il ramo di palma, che nell’iconografia cristiana indica il martirio, ma anche l’entrata di Gesù al tempio e quindi su diversi piani gioia e dolore, sconfitta apparente e vittoria. In questo secondo caso non ci sarebbero dubbi sul carattere strettamente umano dell’attività simbolica, e tuttavia questa stessa breve digressione ci fa capire come, con alcuni fenomeni che si collocano all’incrocio tra biologia, cognizione e comunicazione, la scienza sia in grave difficoltà da sempre. E lo è anzitutto perché questo ambito dell’esplorazione scientifica è stato storicamente inficiato dal bias dell’antropomorfizzazione (non riusciamo proprio a immaginare una mente non umanizzata!); in secondo luogo, lo è perché qualsiasi approccio sperimentale classico è riuscito nella migliore delle ipotesi a cogliere aspetti solo parziali o marginali dei fenomeni a cui gli interrogativi sopra fanno riferimento. Ciò premesso, le scienze del comportamento animale offrono una letteratura molto ricca e dettagliata che documenta l’esistenza di sistemi di comunicazione specie-specifici che, a un’osservazione attenta, hanno poco da invidiare alla sofisticatezza del linguaggio simbolico umano. Per esempio, i celebri lavori sui cercopitechi africani (Cercopithecus aethiops) effettuati nei primi anni Ottanta da Robert Seyfarth, Dorothy Cheney e Peter Marler hanno evidenziato che tali primati presentano forme di segnalazione differenziale, chiamate alarm calls, che vengono messe in atto in particolari situazioni di pericolo. Questi cercopitechi sono in grado di avvertire i propri conspecifici che un predatore si sta avvicinando alla colonia, fornendo verosimilmente informazioni precise anche sul tipo di predatore. I compagni degli indi78 Specie biologiche, cultura simbolica e gli specchi deformanti del postmodernismo vidui avvertitori sono quindi in grado di reagire ai richiami di allarme con azioni mirate e pertinenti. Per esempio, se il richiamo corrisponde a un certo tipo di suono, allora significa che il pericolo in arrivo è un uccello rapace, come un’aquila; al che i cercopitechi della colonia si metteranno a scrutare il cielo per individuare il predatore e non farsi trovare impreparati in caso di attacco. Se il richiamo è costituito da un secondo tipo di vocalizzazione significa che il pericolo imminente è un leopardo, e i cercopitechi si precipiteranno nel folto della foresta per salire sugli alberi dove anche un felino così agile e forte non riesce a penetrare. Se il richiamo corrisponde a un terzo tipo di suono significa che il pericolo si identifica con un pitone, e i cercopitechi cominceranno a controllare tutto quello che si muove a livello del suolo per evitare di essere braccati dal serpente. Il comportamento dei soggetti avvertitori in presenza di un predatore, comunque, può mutare a seconda del particolare contesto ambientale e sociale che si è creato. Per esempio, se l’avvistamento del predatore avviene in un momento in cui non sono presenti conspecifici da avvertire, il potenziale soggetto avvertitore può non emettere segnali di allarme; oppure, se il predatore si è fatto troppo vicino al soggetto avvertitore, quest’ultimo può decidere di rimanere in silenzio per evitare di esporsi a un’attenzione «eccessiva» da parte del predatore. Come si può capire, è difficile dire se in tali interazioni entrino in gioco «processi mentali» – quindi invisibili alle nostre possibilità di esplorazione – che riconosciamo come tipici dei linguaggi simbolici. Certo è che si tratta di casi molto raffinati di comunicazione in cui non si può sottovalutare l’uso, non sappiamo quanto cosciente e intenzionale, di codici semantici e/o sintattici coerenti con ciò che comunemente definiamo «grammatica». Se ne deve dedurre che la possibilità di diversificare in modo imprevedibile gli scambi comunicativi all’interno di un quadro definito (specie-specifico) di vincoli semantici e sintattici è una pratica piuttosto diffusa in natura, forse persino tra organismi molto semplici, come i procarioti, che interagiscono esclusivamente per via chimica. Resta il fatto che l’argomento pone difficoltà insormontabili sotto il profilo metodologico, e qualsiasi valutazione che pretenda di tirare facilmente le somme su «chi» in natura può essere considerato a pieno titolo un essere dotato della capacità di usare simboli suona alquanto velleitaria. L’ipotesi più sensata che si può trarre da questo filone dell’investigazione scientifica suggerisce che tutti gli organismi 79 Scienze della natura e stregoni di passaggio dotati di funzioni che di volta in volta permettono di contestualizzare ecologicamente le reazioni interne agli stimoli esterni, di fatto mettono in atto processi utili a restare in vita. Gli eventi di natura apparentemente semiotica accennati sopra, allora, potrebbero a buon diritto far parte di sistemi di regolazione a feedback che consentono sia l’adattamento sia l’omeostasi degli esseri viventi. Un modo per andare oltre le comprensibili difficoltà connesse alla chiarificazione dei processi mentali – la «scatola nera» – sottesi ai linguaggi umani e non umani potrebbe essere quello di traslare il problema su un piano differente, quello cioè della cultura. In questo caso ci si muove su un terreno più agevole, che permette di osservare a un altro livello i comportamenti comunicativi degli esseri umani e non umani. Concentrandoci sulla cultura, infatti, non dobbiamo più occuparci di fatti che riguardano la scala degli individui, ma di fatti collettivi, o meglio, di popolazione. Il nostro sguardo può allora riconoscere come l’evoluzione umana abbia preso vie differenti rispetto all’evoluzione degli animali non umani. E in questo caso non dobbiamo avere paura di rilevare una discontinuità molto evidente alla quale possiamo cercare di attribuire un peso. In un senso molto generale, per cultura possiamo intendere il risultato della trasmissione non genetica di informazioni e di patterns di comportamento attraverso varie forme di apprendimento – per esempio l’apprendimento imitativo – in grado di produrre cambiamenti visibili a livello sociale. Negli avvicendamenti tra generazioni umane tali cambiamenti danno luogo a veri fenomeni di accumulazione: un modo per dire che il cambiamento culturale nel corso del tempo può essere inteso come una deposizione progressiva di «strati» (culturali) sovrapposti, qualcosa che in un senso figurato potrebbe assomigliare al profilo stratigrafico di un certo oggetto, per esempio una sezione di suolo o una porzione di torta meneghina. L’evoluzione biologica in questo caso avrebbe una rilevanza relativa, perché nella specie umana la cultura cambia via via più rapidamente, e in ogni caso molto più rapidamente della nostra biologia. Ciò non significa che la biologia non abbia un ruolo importante nel definire la natura dell’uomo. Se c’è un principio unificante valido per tutti i viventi è proprio il fatto che, a prescindere dalle grandi o piccole differenze osservabili tra le specie, apparteniamo tutti alla stessa grande comunità di organismi che sussiste nel tempo e nello spazio attuali. Quando asseriamo che l’uomo ha assunto un ruolo esclusivo 80 Specie biologiche, cultura simbolica e gli specchi deformanti del postmodernismo nella biosfera, non affermiamo un principio astratto assoluto o una visione antropocentrica della realtà, rileviamo semplicemente un dato di fatto. L’impatto di Homo sapiens sulla realtà naturale è tangibile e misurabile, ed è il risultato di due tratti tipici della nostra cultura simbolica, oggi altamente tecnologica: primo, la capacità di produrre nuove informazioni (non genetiche) e di modificarle continuamente all’interno di una stessa generazione; secondo, la possibilità di trasmettere tali modificazioni da una generazione a quelle successive a una velocità incomparabilmente superiore rispetto al tasso di cambiamento biologico delle popolazioni umane e di qualsiasi altro sistema vivente (compresi gli ecosistemi). Diversamente da quanto si pensa comunemente, tale esclusività della nostra specie non è dipesa unicamente dall’evoluzione del nostro cervello, ma probabilmente è dipesa dalla coevoluzione di una serie di fattori anatomici, fisiologici e psichici (di cui il cervello è una componente importante), insieme con una serie di fattori contingenti di tipo ambientale e sociale. Se è vero che non riusciamo a ricostruire in modo preciso quello che è accaduto ai nostri progenitori umani negli ultimi 50.000-100.000 anni, è vero anche che, allo stato delle conoscenze, abbiamo buone ragioni per escludere che da allora a oggi il cervello di Homo sapiens sia cambiato nelle sue proprietà morfologiche e organizzative fondamentali. Eppure dobbiamo convincerci del fatto che, se siamo ciò che siamo, è perché in quel lasso temporale si è verificata una imponente transizione nel nostro modo di produrre e diffondere cultura, e al tempo stesso nel modo in cui la cultura ci condiziona come individui, al punto che l’evoluzione culturale è diventata il principale motore dei cambiamenti della nostra specie. Possiamo affermare con assoluta ragionevolezza, e non senza un pizzico di preoccupazione, che soprattutto negli ultimi secoli l’evoluzione culturale ha accelerato il suo passo e ha ampiamente surclassato (in termini di velocità) l’evoluzione biologica. In un certo senso, l’uomo è lo stesso identico animale di 50.000 anni fa e, al contempo, è un animale completamente diverso: è solo in questa duplice dimensione della nostra esistenza che possiamo ritrovare la nostra «unità» e la nostra «unicità». E dobbiamo imparare ad accettarla come un tratto straordinario, non tanto perché ci renda migliori degli altri esseri con cui condividiamo il pianeta, quanto perché ci aiuta a cancellare alcuni sciocchi pregiudizi che ci dipingono o solo 81 Scienze della natura e stregoni di passaggio corpo o solo spirito. Solamente partendo da questa prospettiva, tra l’altro, abbiamo qualche probabilità di trovare le risposte scientifiche, culturali ed etiche a molti dei misteri che ci riguardano più da vicino. Su questo punto, dunque, vale la pena ribadire alcuni concetti molto importanti. La cultura umana è, ed è sempre stata, indissolubilmente vincolata alla biologia umana, al punto che non si può tracciare una linea netta di separazione tra le due dimensioni. La cultura simbolica è certamente ancorata alla grande plasticità biologica e di elaborazione delle aree corticali del cervello, ma è altrettanto importante sottolineare che le proprietà di questa formidabile struttura anatomica (il cervello) sono condizionate dal fatto che essa è integrata in un sistema biologico più grande e complesso di cui è parte. La considerazione suona scontatissima, ma di solito è proprio delle cose più scontate che perdiamo cognizione o ci dimentichiamo. Il cervello umano è inserito nel corpo di un animale a simmetria bilaterale che allatta e accudisce la prole, che è sostenuto da uno scheletro assiale formato da elementi metamerici più o meno specializzati, la cui altezza media (nell’adulto) è di 170 cm e il cui peso dopo la nascita oscilla (in relazione all’età e ad altri fattori) tra 1 kg e 100 kg, che è organizzato secondo una rete di segnaletiche biochimiche e di parametri morfo-fisiologici che producono un metabolismo da animale endotermo con temperatura interna che ruota intorno ai 37 °C. Il corpo di un animale il cui territorialismo è significativamente condizionato da una marcata propensione a formare gruppi sociali, che è provvisto di postura eretta e di locomozione bipede sugli arti posteriori, che usa le due appendici anteriori come se fossero macchine prensili efficientissime, che è cosparso di una serie di strutture sensoriali esterne e interne in grado di convogliare informazioni di varia natura nei distretti dell’architettura encefalica, e quant’altro. In qualche decina di migliaia di anni – un intervallo talmente breve che il potere di risoluzione temporale delle scienze della Terra non riesce nemmeno a concepire – questo sistema biologico ha evoluto un tratto specie-specifico che chiamiamo «cultura simbolica» (diamo qui per scontato il «senso forte» di simbolo necessariamente legato alla cultura umana, non il simbolo come semplice icona o convenzione), che ha a sua volta prodotto l’emancipazione da un’ecologia tipica da animale cacciatore-raccoglitore, e, a seguire, l’invenzione dell’agricoltura, dell’allevamento, dell’arte, della scrittura, della burocrazia, della filosofia, della scienza, della corrente elettrica, del treno, degli antibio82 Specie biologiche, cultura simbolica e gli specchi deformanti del postmodernismo tici, dell’energia nucleare e delle tecnologie elettroniche. La cultura simbolica, così, si è gradualmente formalizzata e si è trasformata in possibilità di narrare, di descrivere e di indagare il mondo naturale, ma anche di prevederlo, di controllarlo, e di modificarlo in una misura che, per quanto ne sappiamo, non ha precedenti nella storia biologica terrestre. Proprio per il fatto che un analogo processo di formalizzazione linguistica della cultura non è mai stato osservato in nessun’altra specie animale, oggi si tende a pensare che nel mondo degli animali non umani non esistano vere società simboliche. Si ammette cioè che negli animali non umani possano verificarsi interazioni semiotiche tra gli individui, ossia processi comunicativi basati su regole semantico-sintattiche simili a quelle che si possono rilevare in molti processi comunicativi umani. Ma non si ammette che si sia evoluta una vera cultura simbolica a cui ciascun individuo ha accesso per via indiretta, per esempio leggendo un libro o ascoltando un programma radiofonico, vale a dire senza dover passare attraverso esperienze e forme di apprendimento interindividuali. In altre parole, mentre nelle culture non umane la produzione e la diffusione di nuove informazioni e tradizioni è rigidamente vincolata all’esperienza concreta con l’ambiente naturale e sociale, nelle culture umane si sviluppano flussi comunicativi indipendenti dalle interazioni dirette. Tali flussi sono mediati e modulati da stringhe di caratteri (o fonemi, a seconda del mezzo di trasmissione) organizzate secondo regole formali (le grammatiche) che si basano su convenzioni socialmente condivise (le lingue). Tutto questo ha affrancato gli individui dal bisogno di misurarsi costantemente con l’esperienza sociale e ambientale; il che, sia detto per inciso, non sempre ha sortito effetti favorevoli, come vedremo più avanti. L’innovazione forse più rilevante dell’evoluzione della cultura umana è quindi da ricercare nel fatto che essa si forma, cambia e si trasmette attraverso pregiudizi, idee, conoscenze, generalizzazioni, valori: in una parola, attraverso narrazioni simboliche. I simboli diventano il mezzo attraverso cui la cultura si produce, si muove e si modifica. Ed è questa la ragione per cui il linguaggio, pur non essendo l’unico, è il principale strumento umano di ricostruzione simbolica della realtà. Il vero paradosso di tutto ciò è che, malgrado sia sostanzialmente un prodotto della storia naturale, la cultura simbolica di Homo sapiens si è evoluta seguendo percorsi che hanno fatalmente compromesso il 83 Scienze della natura e stregoni di passaggio legame con «la carne», ossia con la dimensione biologica dell’esistenza. Come rimarcato in modo più o meno esplicito in altri capitoli del libro, la nostra tesi è che si sia cristallizzata in tutto il «mondo avanzato» una consuetudine ideologica che ha indebitamente fagocitato gran parte della cultura di questo periodo storico. Come è già accaduto con le merci, anche la cultura simbolica si è globalizzata, perdendo la sua diversità storica determinata anzitutto da fattori bio-geografici, ecologici e antropologici. In questa sede non interessano le analisi politiche della globalizzazione: non è il compito che ci siamo dati né il nostro mestiere. In ogni caso, non ci possiamo esimere dal rilevare che la cultura simbolica dell’umanità è sempre più sotto il controllo di istituzioni globali che da tempo hanno scatenato una guerra «contro la ragione» e a favore della perdita totale del legame con la «carne». Non è un caso che questo fenomeno accada nell’era del trionfo della virtualità. Tornando al «senso forte» e polisemico di simbolo, questo provoca necessariamente una banalizzazione del simbolo stesso, che, diventando più astratto, perde molto della sua capacità evocativa, che è giocoforza locale e storica (e quindi indirettamente concreta, legata al luogo e quindi anche all’esistenza organica), laddove stimoli globalizzati, «ovunque fruibili», devono essere sfrondati da gran parte della loro molteplicità di livello. Questo è anche il motivo per cui lo scientismo, una caricatura deproblematizzata della scienza che ne banalizza metodi e contenuti, sembra essere perfettamente a suo agio come ideologia portante del mondo globalizzato, e quindi a sua volta deprivato della sua complessità. Siamo dunque nel pieno di una tempesta ideologica funzionale a occultare un solido edificio di appetiti e di interessi convergenti perseguiti da governi, banche, circuiti finanziari, partiti, mass media, istituzioni, imprese, intellettuali e persino scienziati. Probabilmente i costi di questo stato di cose saranno altissimi in vari ambiti della vita sociale, ma possiamo stare sicuri che sulla cultura, sull’ambiente e sulla salute – e sui cosiddetti commons in genere – si giocheranno alcune delle sfide più importanti per il futuro della «carne». Bisognerebbe mettere ordine al più presto in una serie di stati confusionali collettivi che vengono continuamente alimentati da convinzioni scientificamente sbagliate e socialmente esiziali. Persino esponenti di alto profilo del pensiero scientifico e filosofico hanno dato il loro contributo all’aggravarsi della situazione; e a nostro modo di vedere è proprio da una 84 Specie biologiche, cultura simbolica e gli specchi deformanti del postmodernismo sana riflessione scientifica e filosofica che si potrebbe ripartire per fare piazza pulita di una lunga lista di nefandezze culturali generate dai tanti «-ismi» che pervadono i nostri modi di vivere e di pensare. I castelli costruiti sulle ideologie del potere e del denaro partoriscono ovunque piccole ma robuste dépendances che funzionano come avamposti ideologici di un non meglio qualificato «pensiero postmodernista». È il caso di certe «teorie della realtà» che mirano a minimizzare, a banalizzare e persino a negare la grave malattia culturale di questo inizio di millennio, come quelle che emergono dalla cosiddetta riflessione decostruzionista, a cui vorremmo a questo punto dedicare qualche breve considerazione. Il decostruzionismo, nella sua espressione originaria, è una corrente della critica letteraria che mette al centro alcuni princìpi apparentemente ragionevoli inerenti alla cultura simbolica; è giusto peraltro precisare che nel merito di questi aspetti è tuttora in corso un dibattito molto acceso e irrisolto che non ci consente di addentrarci nello specifico; per arrivare alla vera questione che ci interessa, ci limiteremo dunque ad alcune considerazioni di ordine generale. Secondo la riflessione decostruzionista, ogni testo deve essere considerato il prodotto di un processo di negoziazione tra l’autore e il fruitore in cui il secondo gode sempre di un vantaggio di posizione sul primo. Il significato di un testo, quindi, non può essere «uno soltanto» perché stabilito aprioristicamente dall’autore, ma è destinato necessariamente a frammentarsi in forme interpretative diverse sulla scorta delle conoscenze, dei valori e del vissuto del fruitore. Il risultato è una decostruzione del significato primario del testo in un numero infinito di significati secondari, nessuno dei quali può essere ritenuto vero e definitivo. Fin qui potremmo dire che tutto fila bene; del resto, tutti noi possiamo sperimentare la «soggettività del senso» ogni qualvolta ci cimentiamo con testi e altri costrutti simbolici, per esempio quando guardiamo un film oppure quando leggiamo un libro o ammiriamo un quadro. Tuttavia, un’estensione della tesi decostruzionista alla filosofia e alla critica scientifica si è spinta molto oltre le sue prerogative iniziali, e ha argomentato che anche il «mondo naturale» – che fino a prova contraria esisterebbe indipendentemente non solo dalle nostre costruzioni simboliche, ma anche dalla nostra stessa presenza sul pianeta – può essere «decostruito» nello stesso modo in cui viene decostruito il significato di un best-seller «consumato» comodamente in poltrona. Il 85 Scienze della natura e stregoni di passaggio concetto di natura viene così a essere ridefinito non partendo da una sana esplorazione delle sue caratteristiche fisiche, chimiche e biologiche, magari all’interno di una cornice storico-evolutiva, ma prendendo le mosse da un processo di astrazione che dissolve i «manufatti simbolici» della cultura dell’uomo in altri manufatti simbolici. Scenario primario della nostra storia biologica e della nostra attualità ecologica, ossia quanto di più profondamente vitale ci lega alla realtà terrena, la natura viene cancellata in un istante da un pensiero che ignora sia le differenze sia le relazioni che esistono tra epistemologia e ontologia, cultura e natura, mente e corpo. In questo modo si schiudono nuovi alibi ideologici alla distruzione delle risorse naturali e della stessa vita umana, perché è evidente che con tale metro di giudizio si può arrivare a considerare l’olocausto, le pulizie etniche, la fame nel mondo e la perdita della biodiversità come mere illusioni cognitive. Ancor prima che un problema di contenuti, sembra affiorare un deficit di onestà intellettuale nei confronti della logica e persino del buon senso. Naturalmente siamo tutti pronti a spezzare una lancia a favore dell’innovazione delle idee, ma troppo spesso ci si scorda di controllare che cosa c’è, in molte idee, oltre all’originalità. Malgrado la loro originalità, non pare particolarmente conveniente accordare tanto interesse a certe decostruzioni nichiliste del mondo. Anche le teorie eugenetiche del nazismo, a loro modo, erano originali, ma partorirono soltanto orrore e sottocultura. La sensazione è che il «dogma universale» dei mass media, notoriamente incentrato sull’antica e proverbiale mistificazione per cui «i fatti non esistono nella realtà, ma esistono soltanto quando diventano ‘reali’ grazie alla stampa», sia diventata una sorta di passe-partout ideologico utile a dischiudere i cancelli della modernità. Allorché si rimane nel perimetro del marketing e della pubblicità, si può anche accettare che la cultura simbolica della tradizione umana ceda all’appeal delle ideologie più vuote e pericolose. Ma se tali ideologie diventano il volano della riflessione filosofica allora la faccenda si fa seria. Anche se ammantata da estrema sofisticazione, la banalizzazione della cultura simbolica che segue alla perdita del legame stretto con la natura, e quindi con ciò che ci unifica, oltre a provocare la nascita di un nuovo tipo di bruttezza (come descritto in altre parti del libro), rende arduo il rapportarsi con qualsiasi «cultura altra», che a quel punto può soltanto perire sepolta dalla forza preponderante della cultura egemone, o ridursi a tribalità e/o terrore. Chiaramente, se la 86 Specie biologiche, cultura simbolica e gli specchi deformanti del postmodernismo natura non esiste indipendentemente dalle nostre rappresentazioni, anche possibili catastrofi come il cambiamento climatico non sono vere catastrofi ma una versione affascinante di un «moderno» disastermovie. I mali peggiori, purtroppo, arrivano sempre in buona compagnia. Alla fine del capitolo precedente avevamo fatto al lettore una larvata minaccia relativa alla possibilità che le nostre amare conclusioni fossero esagerate; alla minaccia sono seguiti i fatti sotto forma del capitolo appena concluso. Rammentando al lettore il nostro atteggiamento ottimistico, se non altro per la semplice constatazione che la realtà ha una sua intrinseca resistenza a piegarsi alla stupidità umana (il diavolo fa le pentole ma non i coperchi!), passiamo al prossimo elenco di storture, che, in verità, si apre con un riferimento a un grande poeta e scrittore, e con il suo sguardo sul mondo foriero di bellezza e di speranza. 87 7 ZOOFOTOCOPIE E TECNOASSURDITÀ: IL LATO OSCURO DELLA ZOOLOGIA FANTASTICA Certe volte mi fa ridere quando s’affanna a starmi intorno, si struscia contro le mie gambe, e non vuole scostarsi da me. Come se d’essere gatto e agnello non gli bastasse, vuole anche essere cane. Una volta che ero – come a chiunque può succedere – in difficoltà economiche da cui non vedevo il modo di uscire, avrei voluto farla finita con tutto. In quest’idea mi andavo cullando, seduto nella mia stanza, con l’animale sulle ginocchia. Mi capitò di abbassare gli occhi, e vidi lagrime gocciolare sui suoi lunghi baffi. Erano sue o mie? Ha un orgoglio d’uomo, questo gatto dall’anima di agnello? Non ho ereditato molto da mio padre; ma questo è un lascito che vale la pena di tener da conto. Franz Kafka [in J.L. Borges, Manuale di zoologia fantastica, 1957] Nel 1957 Jorge Luis Borges pubblicò (con Margarita Guerrero) il Manuale di zoologia fantastica, una sorprendente raccolta di resoconti basata su «storie naturali» molto particolari. Non un saggio scientifico né una monografia di sistematica zoologica, ma una sorta di prontuario del creato che in pochissime pagine fa la più esauriente ricostruzione della vita allegorica e letteraria di animali veri, animali inventati, animali mescolati e non-animali (piante). Nelle pagine compaiono quindi il basilisco, la mandragora (una pianta che «confina col regno animale perché grida quando la svellono»), lo squonk, la salamandra («delle due vite che conduce, la più nota è la favolosa») e molti altri esseri nati o filtrati dalla fantasia umana. Purtroppo la zoologia fantastica del terzo millennio si avvale di altri autori e di ben altri resoconti che vengono pubblicati sulle riviste scientifiche. Spesso si raccontano storie relative a esseri altrettanto surreali e impossibili, ma in questo caso i filtri della fantasia e la qualità della letteratura non hanno trattenuto nulla dell’irripetibile Manuale dello scrittore argentino. Anzi, si può ben dire che la fantasia non c’entra, c’entrano invece le assurde pretese di una «biotecnoscienza» sempre più interessata al controllo forzato di ciò che in realtà nessuno potrà mai controllare con la forza, cioè la natura. 89 Scienze della natura e stregoni di passaggio Secondo un pregiudizio ancora profondamente radicato nel modo di pensare e di vivere delle società occidentali, il mondo naturale sarebbe un puzzle di elementi fondamentali in cui lo stato di ogni singolo elemento prescinde da quello degli altri. Tali elementi esisterebbero in una sorta di bolla statica e a-storica, cioè in una condizione di isolamento garantita da proprietà fisse e indipendenti; e le differenze tra i diversi elementi sarebbero da ascrivere a semplici difformità di dosaggio delle unità più elementari della materia, o sub-elementi. Una volta riuniti insieme a formare strutture più grandi, gli elementi fondamentali darebbero alle proprietà di tali strutture un contributo pari alla sommatoria di tutte le singole proprietà che ciascun elemento può fornire. Potremmo attribuire a questa immagine così riduttiva del mondo naturale un significato volutamente esoterico, per la sua improbabile pretesa di rappresentare la conoscenza della natura come una strada rettilinea verso la «meta ultima»: la definitiva scoperta della verità. Non è un caso che illustri decani dello scientismo internazionale spesso celebrino in pubblico la loro visione trascendente dell’impresa scientifica con proclami ameni del tipo: «Se conosci il microscopico, il macroscopico sarà un libro aperto!». Tra i suoi compiti principali, dunque, la scienza avrebbe quello di verificare gli effetti prodotti dall’unione di diversi elementi fondamentali sulle proprietà di strutture composite. Dinamiche stocastiche e deviazioni dalla presunta «linearità» dei fenomeni naturali sarebbero fluttuazioni spurie generate dalla realtà imperfetta in cui operano le forze ideali della natura. Nelle pagine di questo libro abbiamo tentato di far vedere come questo modo di considerare la scienza, e in particolare la bioscienza, sia una pura invenzione della fantasia (una fantasia opposta alla fantasia zoologica proposta da Borges che, al contrario dello scientismo, celebra la molteplicità del vivente e lo stupore della sua contemplazione) e necessiti di una revisione radicale dei suoi presupposti e dei suoi metodi. Proveremo ora a proseguire in questo cammino cercando di documentare come anche la biotecnologia abbia preso la stessa strada riduzionista e poco promettente della bioscienza, al punto che tra le due branche, ormai, è addirittura impossibile tracciare un confine. Come premessa a questo ulteriore aspetto, vale la pena ribadire che la scienza si occupa di sondare, con strumenti ed elaborazioni tipicamente umani, il mondo reale di cui tutti noi (più o meno consapevolmente) facciamo esperienza nella vita quotidiana. Se mondi ideali 90 Zoofotocopie e tecnoassurdità: il lato oscuro della zoologia fantastica e fantasiosi esistono, come quelli raccontati per esempio dagli scrittori e dai poeti, non è certo impiegando i criteri di verifica delle scienze empiriche che si può pretendere di comprenderli. È evidente, allora, che prima di avventurarsi in un ragionamento che metta al centro la descrizione del mondo, è sempre necessario chiarire qual è il piano su cui si intende portare il discorso. Se si decide che il piano è quello della spiegazione razionale dei fenomeni naturali, allora si deve anche accettare la condizione di passare attraverso un processo di controllo del potere predittivo della spiegazione. Come caso esemplificativo, prenderemo in considerazione la clonazione animale in zootecnia. L’argomento è molto delicato e meriterebbe di essere sottoposto a una pubblica discussione, perché la manipolazione degli animali non umani, spesso molto vicini (in senso evolutivo) alla nostra specie, determina inquietudini che vanno oltre la già complessa riflessione scientifica sugli usi tecnologici dei viventi. Del resto, con i cosiddetti «animali superiori», oltre alle motivazioni che sono alla base di un ampio conflitto sociale e politico dovuto all’uso di alcune biotecnologie – si pensi all’introduzione in agricoltura delle piante geneticamente modificate –, entrano in gioco anche altre motivazioni che, come tali, sollevano dubbi e perplessità del tutto inaspettati. La palese riluttanza della biotecnologia a prestare più attenzione a certe forme di sfruttamento economico degli animali tradisce un disinteresse ingiustificabile per la loro natura biologica, etologica e cognitiva; un fatto che già da sé avrebbe tutte le carte in regola per mettere in crisi un paradigma barcollante culturalmente e inaccettabile moralmente. Per necessità di sintesi, le questioni qui toccate si limitano agli aspetti più strettamente scientifici della clonazione animale, pur nella consapevolezza che esse potrebbero (e dovrebbero) essere affrontate anche secondo altri punti di vista. In pratica, si è scelto di non entrare nel merito di molti problemi che qui verranno solo accennati o deliberatamente omessi. La clonazione animale è uno di quei temi intorno ai quali aleggia la confusione più totale. In primis c’è da chiarire un nodo terminologico, dipendente dal fatto che in qualche caso con il termine «clonazione» vengono descritte procedure di laboratorio decisamente differenti. La vera clonazione animale consiste nel far partire lo sviluppo di un nuovo animale trasferendo il nucleo di una cellula somatica di un individuo all’interno di una cellula uovo precedentemente denucleata di un 91 Scienze della natura e stregoni di passaggio altro individuo (da cui l’acronimo SCNT, Somatic Cell Nuclear Transfer). Tale procedura in sé ha ben poco di innovativo, dal momento che già negli anni Cinquanta del secolo scorso venne collaudata dagli embriologi sperimentali per studiare la stabilità funzionale del genoma di cellule somatiche, soprattutto di anfibi anuri (rane e rospi). Negli anni Sessanta furono i pesci a vestire i panni del «modello sperimentale» per questo tipo di manipolazioni, ma a parte il cambiamento nella tipologia del sistema biologico impiegato, per almeno trent’anni la clonazione ha rappresentato una tecnica utile e interessante al servizio della ricerca biologica di base. In linea di principio con la SCNT ci si aspetta di far sviluppare un embrione che, per arrivare a completarsi, necessita di essere impiantato nell’utero di una madre surrogata, che normalmente coincide con la donatrice del gamete femminile. Il percorso di laboratorio della clonazione, quindi, consiste di due fasi: una prima fase che si compie in vitro e produce il clone embrionale artificiale, e una seconda fase che si realizza in vivo e favorisce i processi di sviluppo del clone medesimo. Questo genere di sperimentazione viene dunque oggi recuperato con l’obiettivo di generare artificialmente copie di animali geneticamente identici tra loro e al tempo stesso a un individuo «genitore» (con il termine «genitore», in questo caso specifico si deve intendere l’animale donatore del nucleo della cellula somatica, senza la minima allusione alla vera accezione biologica del termine, che implica processi di riproduzione sessuale). Le due cose infatti – identità tra figli e identità tra genitori e figli – non vanno necessariamente insieme, e la confusione terminologica ricordata sopra nasce proprio dal fatto che talvolta sono etichettate come «clonazione» biotecnologie caratterizzate da presupposti e metodi di lavoro molto diversi dalla SCNT. Per esempio, con la separazione in vitro dei blastomeri di un embrione (embryo splitting) nelle primissime fasi di sviluppo, è possibile ottenere individui uguali tra loro. Grazie a tale procedura, in sostanza, viene artificialmente replicato un fenomeno biologico analogo a quello che nella specie umana porta alla nascita di gemelli identici (monovulari), per cui dallo stesso ovocita fecondato si originano due (o più) embrioni. La ragione per cui l’embryo splitting non può essere considerato una vera tecnica di clonazione è che gli individui che si ottengono in questo modo sono sì geneticamente identici tra loro, ma non lo sono nei confronti di nessuno dei due genitori. Ogni individuo 92 Zoofotocopie e tecnoassurdità: il lato oscuro della zoologia fantastica figlio, infatti, eredita metà del patrimonio genetico di ciascun individuo parentale, per cui il suo patrimonio genetico non può essere davvero identico né al fornitore del gamete maschile né al fornitore del gamete femminile. La SCNT permette in sostanza di riprodurre copie geneticamente e (almeno in via teorica) fenotipicamente uguali di nuovi individui, eludendo il fenomeno biologico della riproduzione sessuale. Ma qui occorre già una precisazione. In base agli assunti della clonazione animale mediante SCNT, facendo sviluppare embrioni animali dotati dello stesso patrimonio genetico (quello della cellula somatica di partenza), alla fine si dovrebbero ottenere individui fenotipicamente identici al donatore. Tuttavia la cautela sarebbe d’obbligo, poiché il fenotipo intrattiene con il genotipo rapporti complessi e a tutt’oggi poco chiari, come già osservato e discusso nel capitolo 5 di questo libro. Di fatto il fenotipo non si afferma per un effetto di «autodeterminazione» del genoma, ma dinamicamente, nel tempo, sotto l’effetto delle altrettanto importanti influenze ambientali che incanalano le possibilità di sviluppo di un individuo verso esiti differenti e imprevedibili. Influenze ambientali che sono molteplici a partire proprio da quelle stabilite dall’ambiente intracellulare dell’ovocita in cui il nucleo della cellula somatica viene a trovarsi dopo la SCNT. A ciò si aggiunga che il genoma mitocondriale dell’embrione non deriva dalla cellula somatica di partenza, come quello nucleare, ma dall’ovocita, il che non fa altro che introdurre nella SCNT ulteriori elementi di imprevedibilità. In ogni caso, forzando un po’ il linguaggio della biomedicina, si potrebbe dire che la SCNT è una variante «asessuata» delle tecniche di riproduzione assistita, poiché basata su meccanismi indotti artificialmente che eliminano la necessità di ricorrere a procedure naturali o artificiali di inseminazione e fecondazione. Essa allora non è altro che un espediente biotecnologico per tentare di conferire agli animali superiori la proprietà di generare individui uguali tra loro conservando inalterate le caratteristiche biologiche dell’individuo «genitore». Il suo presupposto è quello di produrre animali il cui genotipo e, almeno in prima approssimazione, il cui fenotipo siano non solo identici, ma anche prevedibili, ossia noti in partenza, evitando il carico di variazioni che invece sono implicate nei normali meccanismi della sessualità. In linea generale, con le piante le cose funzionano in modo assai più semplice, perché sfruttando le loro assai più accentuate proprietà 93 Scienze della natura e stregoni di passaggio di rigenerazione, si possono produrre molti individui identici a un individuo parentale. Così, laddove una nuova pianta possiede caratteristiche vantaggiose per finalità economiche (o di altro tipo), è possibile disporre di altre piante con caratteristiche identiche ricorrendo a tecniche che sfruttano la naturale predisposizione di molti vegetali a riprodursi per via asessuata, e da questo punto di vista l’esempio della «talea» è semplice e calzante (non a caso, il termine greco klon significa giustappunto germoglio, piccola pianta). A questo punto però, per capire se la previsione delle caratteristiche dell’animale «prodotto» è rispettata, è necessario passare dal puro piano speculativo al risultato sperimentale. La letteratura scientifica sulla clonazione dei vertebrati evidenzia che le previsioni – o meglio, le «speranze del biotecnologo animale» – di avere multipli identici di uno stesso animale «genitore» sono smentite in una larghissima percentuale di casi. Il problema è che, soprattutto se si lavora con i mammiferi, la riprogrammazione «epigenetica» (dipendente da fattori non genetici) di un nucleo trasferito in un ovocita avviene con maggiore probabilità nei casi in cui la cellula donatrice è totipotente, ossia ancora immatura e indifferenziata: caratteristiche che si trovano soltanto in cellule prelevate da embrioni a stadi di sviluppo molto precoci (la blastocisti nei mammiferi, corrispondente alla blastula degli altri vertebrati). È evidente, tuttavia, che un embrione appena formato, ottenuto per fecondazione, quindi soggetto al potenziale di variabilità implicito nella riproduzione sessuale, non permette di conoscere nel dettaglio quelle che saranno le sue caratteristiche future, cioè le caratteristiche dell’individuo interamente formato. In pratica, prelevando cellule a uno stadio così immaturo si procede «alla cieca». La SCNT, infatti, mostrerà i suoi risultati soltanto a sviluppo embrionale concluso, quando l’animale sarà completamente formato, ammesso e non concesso che sopravviva fino a quel momento. L’utilità di una SCNT praticata secondo queste modalità, vale a dire impiegando nuclei di cellule embrionali, è di natura più teorica che pratica, in quanto le valutazioni fenotipiche che si possono azzardare allo stadio di blastula riguardano essenzialmente la conformità «a monte» del processo morfogenetico di un vertebrato: in altre parole, l’indagine può dire se il piano organizzativo dell’embrione viene conservato e riflette quello assai più generale della categoria tassonomica a cui esso appartiene (per esempio quello dei mammiferi); ma certamente non vi è alcuna possibilità di sapere se l’animale adulto pro94 Zoofotocopie e tecnoassurdità: il lato oscuro della zoologia fantastica durrà molto latte, se sarà di dimensioni maggiori o minori rispetto alla norma, e quant’altro. E anche lavorando con embrioni che si trovano a stadi di sviluppo più avanzati, l’esame delle caratteristiche fenotipiche non offre informazioni granché migliori, senza contare il fatto che via via che il differenziamento cellulare dell’embrione procede, diminuisce la possibilità di prelevare cellule il cui nucleo sia riprogrammabile mediante SCNT. È quindi evidente che dal punto di vista dell’allevamento industriale, una simile procedura non riveste interesse economico, poiché non consente previsioni sull’effettiva rispondenza del «prodotto» (l’animale finito) agli obiettivi di mercato fissati, per esempio produrre «linee di animali» in grado di sviluppare una biomassa commestibile significativamente superiore alla media. Perché la tecnologia abbia un valore economico è necessario lavorare con animali di cui si possano conoscere in anticipo le caratteristiche interessanti dal punto di vista produttivo. E ciò si può fare soltanto se gli animali da utilizzare come possibili «capostipiti» sono individui adulti, o comunque già nati e completamente formati. Il passo successivo è clonare questi animali mediante SCNT con la speranza di ottenerne perfette «fotocopie», anche se, come abbiamo visto, la probabilità di vedere realizzato il secondo tipo di previsione (quella riguardante il fenotipo) presenta enormi margini di incertezza. Il problema è che quando si ha a che fare con animali «fatti e finiti» si lavora con cellule somatiche adulte, e la riprogrammazione corretta del nucleo cellulare ha bassissime probabilità di andare in porto. La testimonianza di questa difficoltà ci viene mostrata dall’altissima percentuale di insuccessi e di mortalità rilevabili quando la SCNT viene effettuata usando cellule adulte (nelle specie di mammiferi è abbondantemente oltre il 90%). La casistica qualitativa di ciò che si osserva è grosso modo la seguente: gli embrioni in vitro non si sviluppano affatto; gli embrioni in vitro che si sviluppano muoiono prima di essere trasferiti in vivo (cioè nell’utero della madre surrogata); gli embrioni vengono traslocati in utero ma sono abortiti nelle prime fasi della gestazione; gli embrioni non arrivano al termine della gestazione; i neonati muoiono poco tempo dopo il parto; i giovani muoiono prematuramente; gli adulti si ammalano più facilmente. Pochissimi, alla fine, saranno gli individui clonati con un’aspettativa di vita analoga a quella degli animali sviluppati da ovociti normalmente fecondati (per via naturale o artificiale). In pratica, accade che nella stra95 Scienze della natura e stregoni di passaggio grande maggioranza dei casi molti fenomeni (epigenetici e genetici) imprevedibili e deleteri, si sovrappongono ai pochi fenomeni prevedibili, vanificando i pronostici e le «speranze del biotecnologo animale». Nei taxa animali meglio conosciuti, i cambiamenti morfologici dell’embrione sono stati codificati secondo una serie di tappe standardizzate – definite «stadi normali» – che scandiscono i tempi delle principali transizioni dello sviluppo. Ma questo genere di ricerca descrittiva, ritenuto in passato fondamentale per l’embriologia comparata, è stato successivamente abbandonato per lasciare posto ad approcci di tipo diverso, purtroppo non sempre forieri degli stessi risultati interessanti. Il primo caso di vera clonazione animale risale al 1963, quando il biologo cinese Tong Dizhou riuscì a far sviluppare un uovo di carpa impiegando una tecnica affine alla SCNT; e benché nel corso degli anni i tentativi siano stati molti, bisogna dire che per alcune specie come il macaco reso la via seguita è stata quella dell’embryo splitting, che, come abbiamo visto sopra, non può essere considerata al pari della SCNT. Soltanto poco più di un decennio fa si è pensato che la SCNT potesse trasformarsi in una procedura di interesse industriale. Non è un caso che dal 1996 a oggi siano stati clonati mediante SCNT la pecora, la mucca, il maiale, la capra e il coniglio. Nel frattempo sono stati clonati anche il topo, il ratto, il cavallo, il gatto, il cane e il furetto (la variante domestica della puzzola), destinati tuttavia a settori commerciali diversi da quello alimentare. I roditori, per esempio, vengono clonati per garantire modelli sperimentali da utilizzare nella ricerca farmacologica e biomedica. I primi animali clonati per essere destinati a filiere industriali extrafarmaceutiche sono stati i bovini. E si può ben dire che molta della recente attenzione che la clonazione ha polarizzato nel settore zootecnico si è concentrata proprio sulla fauna domestica da reddito, e segnatamente su quella di grandi dimensioni. Il caso ancora oggi più noto – anche perché è stato il primo a essere documentato su una rivista scientifica – resta quello della pecora Dolly, clonata quindici anni fa in Scozia a partire da una cellula dell’epitelio ghiandolare-mammario di una femmina di razza Finn Dorset (la donatrice, ossia il vero «genitore») e da un ovocita denucleato di una femmina di razza Scottish Blackface (la ricevente). La seconda pecora partorì Dolly dopo cinque mesi di gestazione, previo impianto in utero dell’embrione clonato. È importante notare che 96 Zoofotocopie e tecnoassurdità: il lato oscuro della zoologia fantastica per arrivare a produrre Dolly furono utilizzati circa 300 ovociti, e che degli embrioni così ottenuti soltanto 29 sopravvissero in vitro per qualche giorno. Di questi, solo 13 furono impiantati nell’utero di altrettante madri surrogate, e alla fine una soltanto diede alla luce un animale vivo, ossia Dolly, deceduta poi prematuramente all’età di 6 anni (una pecora vive in media 12 anni). Sulle cause della morte della prima pecora clonata esiste ormai una vasta letteratura più o meno attendibile, tante sono le interpretazioni che ne sono state date; e, in verità, anche sulle modalità della sua vera nascita gli scienziati hanno nutrito più di un dubbio. Secondo la versione più diffusa, comunque, Dolly sarebbe stata sottoposta a eutanasia in giovane età per risparmiarle le sofferenze dovute a una serie di problemi di salute che la affliggevano, compresa una forma tumorale. Oltretutto, è noto che dopo la nascita Dolly non è mai stata confrontata con la vera «madre» biologica (la donatrice della cellula somatica) per verificarne la perfetta identità fenotipica. A questo proposito vale la pena di fare una piccola precisazione. Mentre possiamo immaginare una somiglianza genotipica avvalorata da protocolli piuttosto sicuri (come la PCR o l’analisi del genoma con enzimi di restrizione), il concetto di «perfetta identità fenotipica» è assolutamente sfuggente, in quanto non esiste un elenco finito di tutti i possibili caratteri biologici che formano il cosiddetto «fenotipo». Più semplicemente, allora, si dice che l’animale «assomiglia fisicamente» a un altro animale, oppure che fa più o meno la stessa quantità di latte, e usiamo questo concetto debole e arbitrario come misura di «identità fenotipica». A questo punto, ossia dopo avere esaminato lo scarso, per non dire nullo, potere previsionale della spiegazione su cui si basa la procedura di clonazione animale, è possibile cominciare a fare qualche valutazione di carattere generale ed economico. Quando il business biotecnologico e agro-zootecnico parla delle grandi promesse della clonazione, non sempre si capisce di che cosa stia parlando, né si comprendono le ragioni per cui ne parla. È plausibile sospettare che alcuni aspetti poco chiari della sorprendente attenzione che in alcuni momenti è stata riservata alla clonazione degli animali da reddito siano legati alle logiche economiche e finanziarie del mondo produttivo (concorrenza industriale, brevetti biotecnologici, speculazione sui futures, ecc.). Alcuni autori hanno ampiamente argomentato che i casi di SCNT fino a oggi riusciti non offrono alcuna indicazione ragionevole per ritenere che 97 Scienze della natura e stregoni di passaggio questa tecnologia abbia spazio in un settore produttivo come quello agro-alimentare. Come confermato dai dati pubblicati nel 2007 sulla rivista «Nature», il numero degli animali clonati vitali che si ottengono è bassissimo (mediamente poche unità su migliaia di tentativi), senza contare che il dato non dice nulla sul loro stato di salute alla nascita, e quindi sulla loro aspettativa di vita (solitamente altrettanto bassa). Gran parte degli animali che riescono a vedere la luce con la SCNT, infatti, muore prima di diventare adulta, e quasi sempre chi sopravvive è sterile e non gode di buona salute. La domanda che sorge spontanea allora è: che senso ha tutto questo se la condizione irrinunciabile per produrre alimenti di origine animale è che gli animali utilizzati siano sani e si possano ottenere in modo facile e non troppo costoso su scala industriale? Come già notato sopra, il pregiudizio che ancora oggi crea immagini deformate del mondo naturale è il risultato di un’inossidabile tendenza riduzionista-meccanicista della scienza. Si tratta di una tendenza che nelle cosiddette «società avanzate» si sposa con una folle concezione dell’organizzazione sociale, dell’economia e del benessere. Questo pregiudizio fornisce un comodo alibi per rendere socialmente accettabili stili di vita e «innovazioni» tecnologiche che sono chiaramente privi di fondamento scientifico e vuoti di qualsiasi altro significato. Il fatto è che la scienza di oggi è tutt’altro che indipendente, per via del cospicuo potere di condizionamento esercitato dall’apparato tecnocratico globale. Conoscenze superate, mezzi tecnologici discutibili e pregiudizi ideologici si mescolano con i grandi interessi del mercato, con la speculazione sui futures, e con le normative brevettuali di mezzo mondo appositamente studiate perché la scienza si trasformi in uno strumento finanziario del tutto passivo, ossia a completa disposizione di capitali utili unicamente a produrre altri capitali. Ed è così che interi reparti di ricerca e sviluppo vengono assoggettati alla progettazione di ritrovati – come appunto i cosiddetti «animali fotocopia» – contrabbandati come la frontiera più avanzata della ricerca scientifica, quando in realtà il loro contenuto tecnologico e i modelli di spiegazione scientifica su cui essi si basano sono frutto di idee e conoscenze vecchie di mezzo secolo. Una scienza che risponde prevalentemente a questo genere di «stimoli culturali» è una scienza in crisi, ferma al palo, assuefatta a considerare la realtà come un insieme di fermo-immagine indipendenti l’uno dall’altro; una scienza che ha smarrito il senso dell’innovazione e che si 98 Zoofotocopie e tecnoassurdità: il lato oscuro della zoologia fantastica accontenta di produrre assurdità tecnologiche (spacciate per innovazioni) come le improbabili «zoofotocopie» di cui abbiamo dato conto. Avendo perduto il senso dei propri contenuti e delle proprie scelte, e soprattutto la consapevolezza del proprio ruolo, una scienza di questo tipo ha anche perduto qualsiasi cognizione della storicità e della stocasticità dei processi. Termini come «regola» ed «eccezione» vengono utilizzati come sinonimi di «normalità» e «anormalità», ossia per indicare un’incompatibilità tra alternative diverse non solo dal punto di vista logico, ma anche dal punto di vista valoriale («o l’una o l’altra», dove l’una non è soltanto diversa ma anche migliore dell’altra). Ma nella cultura scientifica più avanzata, regola ed eccezione sono le due facce di un’unica medaglia, termini interconnessi e inscindibili per la spiegazione della natura. Gli eventi naturali denotano sempre il duplice carattere della regolarità e dell’eccezionalità, laddove la prima riflette i vincoli intrinseci del reale, come la forza di gravità o i fenomeni termodinamici, mentre la seconda rende ragione dell’estrema variabilità di eventi che si possono generare all’interno dei limiti stabiliti da quei vincoli. Un esempio molto chiaro e istruttivo viene proprio dalla biologia. L’unità funzionale di tutti gli esseri viventi è la cellula. Ciò evidentemente è un vincolo ineludibile imposto dalle caratteristiche organizzative della vita, che su un pianeta come la Terra può svilupparsi soltanto se «incarnata» in quei microscopici sistemi dinamici che qualifichiamo come «cellule». È altrettanto vero però che, nell’ambito dei rigori imposti dall’organizzazione cellulare, la vita può assumere una miriade di forme, dimensioni e caratteristiche diverse, come dimostrato dal fatto che sulla Terra coesistono organismi semplici e invisibili come i batteri, e organismi sofisticati e monumentali come le sequoie californiane. La natura ci fa vedere che, usando «strumenti» irrinunciabili come le cellule, può dare libero sfogo alla sua creatività producendo un’infinità di «oggetti» diversi e imprevedibili, ossia la diversità biologica che caratterizza la biosfera. Ma noi continuiamo a far finta di non vedere ciò che ci viene mostrato dalla natura e ci condanniamo a non capire che la diversità biologica è il prodotto del gioco continuo tra regola ed eccezione che ha accompagnato il corso della storia naturale negli ultimi 3,5 miliardi di anni. Per futili motivi partoriti esclusivamente dall’ideologia del denaro e del potere, la nostra conoscenza resta imprigionata nei rigidi schematismi designati da Cartesio. 99 Scienze della natura e stregoni di passaggio Benché negli ultimi tre secoli si sia dovuta misurare con problemi sempre più complessi e richiedenti una visione interdisciplinare, la scienza moderna continua di fatto a mantenere un robustissimo apparato concettuale monodisciplinare e riduzionista. Per questo tipo di scienza, qualsiasi evento naturale, sociale ed economico è il risultato di trasformazioni lineari e inevitabili. Si faccia attenzione all’associazione di questi due attributi (lineari e inevitabili), perché, pur nella loro neutralità di significato se presi singolarmente, essi celano un significato assai meno neutrale se presi insieme. Un cambiamento lineare e inevitabile dà l’idea di un processo che si verifica spontaneamente con modalità precise ed esclusive, cioè senza possibilità che si verifichi secondo patterns differenti. Tale concezione è alla base di una serie infinita di equivoci che permeano le scienze naturali, ma anche la società, la cultura e l’economia. Un’importante implicazione è la diffusa convinzione che l’unica via per produrre benessere sia quella dello sviluppo inteso come «crescita continua dell’economia», a prescindere dalla sua stretta dipendenza da risorse «intrinsecamente finite». In buona sostanza, si dà per scontato che la crescita economica debba essere realizzata affermando il principio secondo cui «il mondo funziona esattamente come deve funzionare». Ma in realtà si affermano due falsità. La prima è una falsità fattuale, svelata dalla semplice constatazione che il mondo «non funziona esattamente» in alcun modo, come ampiamente documentato in questo libro. La seconda è una falsità di tipo concettuale, dipendente dal fatto che l’affermazione non è scientifica ma ideologica; anzi, per essere più espliciti, è un’affermazione ideologica travestita da affermazione scientifica. Chiaramente non ci sono formule magiche per il ritorno a un modo di vivere e di pensare più sobrio e dignitoso. Ma quella zoologia fantastica di Borges qualcosa di importante da trasmettere ce l’ha. Fin da piccoli siamo addestrati a sospettare che le favole non siano soltanto favole; certo, sono storie fantastiche come la zoologia di Borges, ma come nella zoologia di Borges dentro vi troviamo fatti o esseri allegorici che ci veicolano un insegnamento, una forma, un modello: in una parola, un’educazione. Educazione viene dal latino e-ducere, che significa «tirare fuori», «far emergere». Allora, anche da adulti, come da bambini non ancora scolarizzati, potremmo cominciare a e-ducarci a pensare che non tutto ciò che a noi sembra a portata di mano sia davvero e necessariamente a portata di mano. Del resto, come umil100 Zoofotocopie e tecnoassurdità: il lato oscuro della zoologia fantastica mente ammette lo stesso Borges, «la zoologia dei sogni è più povera di quella di Dio». Ciascuno si senta un bimbo zoologo libero di intendere il Dio di Borges come meglio crede: anche noi ci atterremo a questa raccomandazione. Ma il suo invito andrebbe tenuto da conto come «il lascito di un padre». 101 8 TIRANDO LE SOMME Lo scienziato non studia la natura perché è utile, ma perché ne prova piacere e ne prova piacere perché è bella. Se la natura non fosse bella, non varrebbe la pena studiarla e la vita non varrebbe la pena di essere vissuta. Henry Poincaré, Discorso all’Académie Française, 1904 Così si esprimeva uno dei più grandi matematici di tutti i tempi e insieme il definitivo demolitore del mito del controllo totale sul mondo da parte della scienza, che nei capitoli precedenti abbiamo visto sopravvivere come ideologia e instrumentum regni grazie a ciò che abbiamo definito quale «brutta scienza». Questo libro si fonda sulla tesi – e queste battute finali sono il momento per mettere le cose ulteriormente in chiaro – che la scienza guidata dalla ricerca della bellezza e dalla conseguente contemplazione della natura abbia sempre portato come esito non cercato, ma incontrato lungo la via, a strumenti e metodi utili per il nostro benessere, laddove la smania di controllo totale sulla natura è foriera di disastri. Questo avviene per lo stesso motivo per cui un bambino che cerca le conchiglie sulla sabbia, affascinato dalla loro bellezza e purezza di forme, ha più probabilità di trovare un tesoro (qualsiasi tesoro) di chi se ne sta seduto sotto l’ombrellone accontentandosi della lettura del giornalino. Abbiamo anche cercato di far capire che cosa si intende per bellezza condivisa, compito che appare forse anacronistico, ma che sicuramente non lo è, se non altro per semplici considerazioni che ciascuno può fare anche solo a partire dal fatto che una casa con vista sul Golfo del Tigullio è universalmente più ambita (e purtroppo anche più cara!) di una casa con vista sulla Tangenziale Est di Milano. La bellezza è una: per i credenti essa è l’immagine del volto di Dio, mentre per chi non condivide questa prospettiva è ciò che rasserena lo spirito e lo fa essere in pace con l’ambiente che ci circonda. Anche se 103 Scienze della natura e stregoni di passaggio la bellezza è una, le forme attraverso cui a noi si mostra sono molteplici e cangianti. La bellezza della fisica e della biologia va ricercata nel loro essere scienze «estreme» in un asse ideale che va dalla semplicità alla complessità, dalla ricerca del generale alla frammentazione in miriadi di piccole storie. Dal lato della fisica ammiriamo la stupefacente concisione delle leggi della dinamica di Newton che, come lo scrigno di una favola persiana, svelano una favolosa molteplicità di applicazioni, dalla dinamica molecolare delle proteine al moto dei corpi celesti. Dal lato della biologia, siamo affascinati dalla delicatezza impalpabile delle modulazioni fini che si integrano nella regolazione del battito cardiaco, senza che nessuna prenda il sopravvento sull’altra, mantenendo l’attività del cuore insieme stabilissima (una pompa che pulsa approssimativamente una volta al secondo senza interruzioni per novanta e più anni) e imprevedibile (la durata di ogni singolo battito è una variabile stocastica). Se la biologia e la fisica fossero dei paesaggi naturali sarebbero rispettivamente una scogliera a picco sul mare e una vetta altissima: Capri e Bressanone, due estremi appunto. La chimica sarebbe invece il dolce paesaggio collinare delle Marche o della Toscana, e la bellezza non si presenterebbe qui nelle forme più estreme ma in quelle dell’armonia e della perfetta compenetrazione delle parti. L’opera che forse esplicita più chiaramente la peculiare bellezza della chimica è la Tavola Periodica degli Elementi, che non a caso ha un’origine squisitamente musicale (Dmitrij Mendeleev era in stretto contatto con i musicisti più ispirati della sua epoca, il «gruppo dei cinque», un cui membro, Aleksandr Borodin, era addirittura un suo collaboratore all’Università di San Pietroburgo) volta alla ricerca di una «classificazione armoniosa e conseguente» di una molteplicità di elementi che non sono né in un numero potenzialmente infinito di specie (biologia) né due o tre princìpi chiave (fisica), ma, appunto, un numero intermedio e finito, come le note in una scala cromatica. E a collegare questi diversi paesaggi ci sarebbe la storia naturale, cioè quello strano ma fortunatissimo intreccio di eventi avvenuti nello spazio, nel corso del tempo profondo, che ci permette di ricostruire i patterns di cambiamento della natura del pianeta. La comprensione di questi patterns di cambiamento ci insegna che la fisica, la chimica e la biologia della Terra hanno da sempre mantenuto tra loro un rapporto circolare e ricorsivo, e che è impossibile comprendere l’evoluzione 104 Tirando le somme della natura se prima non si fissano dei criteri di scala spazio-temporale e di organizzazione. Dunque, non si può parlare di «una» evoluzione biologica – se non per riferirsi a un generico settore disciplinare dai confini piuttosto evanescenti che pone al centro del proprio interesse il cambiamento storico delle forme e delle relazioni del mondo vivente – ma di molteplici livelli di evoluzione biologica, a loro volta collegati ad altri tipi di cambiamento. È esattamente in questo intreccio di paesaggi tenuti insieme dalla contingenza storica, di scale spazio-temporali e di livelli organizzativi, che a un certo punto si inserisce anche la storia della nostra specie; una specie che nell’arco di poche decine di migliaia di anni ha sgrossato i limiti (fisici, chimici, biologici) del proprio rapporto con l’ambiente grazie all’«invenzione» della cultura simbolica e della tecnologia. Ma in troppi casi l’evoluzione culturale di questa nuova specie ha trasgredito i vincoli imposti dalla natura fisica, chimica e biologica del pianeta, generando nuovi assetti del mondo materiale e scompaginando letteralmente le condizioni esistenti prima della sua comparsa. Deve essere chiaro che la trasgressione dei vincoli non è avvenuta a costo zero, ma a spese di una impressionante decomplessificazione dell’organizzazione della natura e della scomparsa di un’infinità di forme e di relazioni biologiche che esistevano da milioni di anni, il che ha inevitabilmente alterato i processi di cambiamento ecologico ed evolutivo del pianeta. La prova è chiara e inequivocabile: le specie stanno scomparendo a una velocità 1.000 volte superiore alla velocità naturale (estinzione di sfondo). Se in futuro non si porrà un freno a questa tendenza, possiamo solo immaginare quale sarà l’entità dell’esito finale. La «guerra» che la nostra hybris ha scatenato contro la fisica, la chimica e la biologia del pianeta è anzitutto una guerra contro noi stessi, un vero programma di autodistruzione innescato dall’assurda pretesa che quella invenzione in principio così straordinaria – la cultura simbolica – potesse essere usata per assecondare gli appetiti più oscuri della condizione umana, e quindi per affrancare totalmente la nostra esistenza da quegli stessi vincoli nel contesto dei quali la cultura simbolica si è evoluta. Ovviamente, se le cose andassero male, la Terra, nel suo complesso e alla sua scala, non correrebbe alcun rischio. Superata l’ennesima crisi del sistema planetario – la prima a essere causata esclusivamente da una specie biologica, ma certamente non la prima – e smaltita la gigantesca montagna di spazzatura culturale e 105 Scienze della natura e stregoni di passaggio tecnologica lasciata da Homo sapiens, i suoi sottosistemi riprenderebbero a fare quello che hanno sempre fatto e tornerebbero a funzionare come accadeva prima dell’avvento dell’umanità. Nelle pagine precedenti abbiamo cercato tracce e rimandi di bellezza nella scienza dei nostri giorni e lo abbiamo fatto affannosamente, come inseguiti da un drappello di barbari, come preoccupati di salvare e catalogare delle opere preziose prima che scompaiano. Ma lo abbiamo fatto anche con la segreta convinzione che questi reperti saranno tirati fuori un giorno, quando i nostri tempi strambi e disattenti saranno solo un brutto ricordo, e con la speranza che quel giorno non sia poi così lontano da non riuscire a vederlo. Strano a dirsi, ma la frase che meglio sintetizza la nostra posizione è apparsa recentemente nello slogan di una finanziaria che recita: «Il presente cambia troppo velocemente per stargli dietro: stagli davanti!». Lo slogan appare sui cartelloni pubblicitari insieme a un geniale anacronismo grafico, un vaso greco decorato dall’immagine di un surfista. In questo simbolo incredibilmente ricco di significato – correre di fronte all’onda, riferirsi all’antico per non annegare nella falsa prospettiva del contemporaneo – ci piace pensare che siano racchiusi un importante segreto e al tempo stesso le nostre motivazioni più importanti. Cercare la bellezza nella scienza risponde a due esigenze fondamentali, la prima di ordine pratico, la seconda di ordine politico-filosofico. Quella di ordine pratico è presto detta: il lavoro scientifico, quello vero, ha ancora necessità (e l’avrà sempre) di un onesto mestiere artigiano – noi lo abbiamo chiamato «canone» – che è quello che garantisce la bellezza degli artefatti. Chiunque sia stato per un po’ di tempo in un laboratorio, abbia eseguito delle ricerche sul campo o abbia avuto la necessità di organizzare un’analisi statistica dei risultati di una sperimentazione, sa bene che ciò che distingue un lavoro ben fatto da una «pecionata inguardabile» è una sapiente miscela di attenzione ai particolari, intuito, applicazione contestuale di regole fini che si può imparare solo dalla pratica e dall’amore per l’oggetto studiato. La teoria, la conoscenza formale, l’esame della letteratura sono tutte cose che vengono dopo e sono molto meno importanti per la «costruzione del manufatto». L’arte contemporanea ha cominciato a morire e a lasciare spazio alla dilagante bruttezza che opprime le nostre città proprio quando a qualche «spirito innovatore» è venuto in mente di cian106 Tirando le somme ciare di «arte pura» programmaticamente separata dall’artigianato. L’odierna tendenza a relegare la sezione «Materiali e Metodi» alla fine degli articoli scientifici, o addirittura a ometterla quando la scienza appare sui media generalisti, è un preoccupante segno della stessa malattia che ha afflitto l’arte e che, se non contrastata, esita nella autoreferenzialità e quindi nell’irrilevanza. Nella scienza insomma c’è ancora spazio per rintracciare il «mestiere onesto» e quindi foriero di bellezza, a patto di avere voglia di cercare. Da un punto di vista politico-filosofico c’è da dire che la scienza è ormai diventata il terreno su cui tutte (o quasi) le nostre convinzioni sul mondo vengono sottoposte a vaglio e verifica, e dunque l’arena esclusiva in cui si gioca la «partita culturale» del nostro tempo. Questa non è assolutamente una situazione rassicurante, ma è ciò che ci viene offerto da un mondo che ha preso la piega che ha preso. Il problema ora è giocare questo gioco, in attesa di cambiarne le regole, cercando cioè di rendere la scienza un luogo di promozione di ciò che riteniamo più peculiarmente «umanizzante». La posta in gioco, non sembri eccessivo, è il nostro futuro. Non un futuro più o meno florido, ma proprio la stessa esistenza di un qualsivoglia futuro per il genere umano. Se prenderà piede l’idea perniciosa di una completa disponibilità e plasmabilità della natura, in quanto, tutto sommato, essa non è nient’altro che «un costrutto sociale» e quindi modificabile a piacere, la fine è assicurata, sia per noi come esseri viventi sia per tutto ciò che di buono abbiamo «costruito» durante la nostra brevissima (in termini geologici) esistenza sulla Terra. Continuare a valutare il successo delle nostre decisioni politiche sulla base dell’aumento del PIL in un mondo di risorse finite non è niente di più e niente di meno che un coerente suicidio che si cerca di rendere accettabile facendo serpeggiare l’idea di una sostanziale inesistenza di vincoli fisici, chimici e biologici posti dalla natura. Non è un caso che un tratto distintivo di tutti i totalitarismi del XX secolo fosse la «completa plasmabilità dell’uomo» – da ottenere anche con milioni di morti nelle purghe e nelle «carestie indotte» dei regimi comunisti o nell’eliminazione degli «individui inferiori» in nome di una razza pura nel nazismo – che andava di pari passo con la «completa plasmabilità della natura» evocata dalle grandi opere di industrializzazione che questi stessi regimi operavano. Nonostante tutto, non possiamo che essere ottimisti. Sia chiaro, non si tratta di un ottimismo irresponsabile e corrotto, il classico at107 Scienze della natura e stregoni di passaggio teggiamento di spregiudicata fiducia che oggi si assume quando si vuole negare l’esistenza di un problema perché non ci si vuole far carico della responsabilità di riconoscerlo e di affrontarlo. Si tratta piuttosto di un ottimismo pragmatico, che non solo invita, ma, se può servire, sollecita con calci metaforici nel didietro i negazionisti, gli scettici e i venditori di fumo a prendere atto della insidiosa situazione antropologica ed ecologica in cui la civiltà è andata a cacciarsi. Senza dimenticarci (non sarebbe giusto!) che come individui non tutti abbiamo avuto le stesse responsabilità nel determinare la gravità della situazione in atto, ora che occorre un radicale cambiamento di rotta dobbiamo comunque farci carico di una responsabilità comune che chiama in causa tutti, nessuno escluso. A nulla valgono gli indigesti predicozzi che già ci vengono dispensati in dosi equine e con puntuale scadenza in concomitanza degli appuntamenti elettorali, della promozione di nuovi ritrovati miracolosi e delle sciccosissime tribune dei salvatori dell’umanità; ma a questo punto non possiamo sottrarci alla tentazione di sussurrare che ciò di cui c’è più bisogno è un lungo bagno di umiltà collettivo, in grado di far scattare quella virata culturale necessaria a riempire di nuovi significati la civiltà del nostro tempo. L’odierno totalitarismo è infinitamente più subdolo di quelli del passato, in quanto si maschera del suo esatto contrario – un mondo di infinite libertà e possibilità senza alcun limite – che però, a conti fatti, si trasforma in feroce individualismo e in controllo spietato della debordante tristezza attraverso il consumo di merci, di antidepressivi e di altre false panacee. Opporsi a questa prospettiva di morte aiuta a vivere per il semplice fatto che opporsi alla morte è un segno di vitalità per nulla disprezzabile. E noi speriamo che aiuti anche a determinare velocemente un cambiamento di rotta. E se la gravità della situazione richiede che si prenda il toro per le corna fin da adesso, la speranza che i primi risultati si facciano vedere molto presto è più fondata di quanto possa apparire a prima vista. 108 9 LETTURE CONSIGLIATE PER IL LETTORE CURIOSO Dobbiamo dire la verità, arrivati alla fine della stesura del libro, l’idea di inserire un circostanziato apparato di fonti bibliografiche ci ha messi in crisi. Da una parte volevamo attenerci alla tradizione del vero saggio scientifico, che impone di corroborare le affermazioni messe per iscritto con un puntuale e autorevole pacchetto di letteratura specialistica. Dall’altra preferivamo essere coerenti con la scelta stilistica che avevamo fatto in partenza, ossia ridurre al minimo indispensabile i rimandi ai lavori di altri autori. Convinti che nessuna di queste due alternative «estreme» fosse quella appropriata, abbiamo optato per una soluzione a metà strada tra le due. Abbiamo infatti l’ardire di pensare che il lettore paziente che sia arrivato alla fine del libro possa avere la curiosità di «andare oltre» e farsi un’idea più approfondita dei temi trattati. Al tempo stesso, desideriamo rispettare il nostro intento iniziale di non appesantire troppo il lavoro segnalando tutte le opere e gli articoli scientifici a noi noti che mostrino una qualche pertinenza con le tematiche discusse. Alla fine, quindi, le citazioni bibliografiche richiamate in modo circostanziato (cioè con titolo, autore/i, rivista scientifica, ecc.) nel testo sono pochissime, e la loro segnalazione è motivata unicamente dal fatto che alcuni contenuti del libro si riferiscono deliberatamente ad articoli scientifici ai quali abbiamo voluto dare un rilievo particolare. Per tranquillizzare il lettore più esigente, comunque, desideriamo precisare che le fonti che in maniera più o meno esplicita sono collegate con le idee e con gli argomenti che abbiamo illustrato sono dav109 Scienze della natura e stregoni di passaggio vero molte. Il che – inutile nasconderlo – suscita in noi la frustrazione di non poter affermare che tutto ciò che abbiamo scritto è farina del nostro sacco. Tra l’altro, deve essere chiarito che le nostre opinioni in merito a «ciò che è» e a «ciò che non è» l’impresa scientifica non sono riconducibili sempre e facilmente ad altri lavori, e questo per due ragioni sostanziali. La prima è che la nostra memoria comincia a fare qualche strano scherzo di funzionamento, e anche quando riusciamo a ricordare nei dettagli i contenuti di un lavoro scientifico che abbiamo letto con interesse, sia esso un articolo o una monografia, non è detto che ci ricordiamo anche del suo titolo, della fonte su cui è stato pubblicato e del suo autore (o dei suoi autori). La seconda è che anche l’attività scientifica più strettamente collegata allo studio della letteratura, almeno dopo una certa età, diventa giocoforza parte di un processo mentale in cui apprendimento e interpretazione critica si intrecciano fino a non essere più perfettamente distinguibili; ne segue che ogni fonte bibliografica consultata viene «digerita e assorbita» entrando a far parte di un corpo di informazioni molto soggettivo, filtrato cioè da esperienze, idee e valori indiscutibilmente personali. Insomma, quella di «non tirare troppo per le lunghe» con la stesura di un apparato bibliografico è stata in parte una scelta dettata da valutazioni puramente editoriali (che ci rendiamo conto essere assolutamente discutibili), in parte una necessità dettata dalle priorità e dai limiti del nostro modo di lavorare, pensare e ricordare (su cui invece riteniamo che vi sia poco da discutere). Ciò chiarito, ci limiteremo a fornire una sintesi ragionata delle letture che ci hanno maggiormente ispirato in questa impresa, con la consapevolezza che il lettore più attento e motivato potrà rintracciarvi agilmente alcuni argomenti esposti negli otto capitoli precedenti... e magari accorgersi che qualche granello di farina proviene soltanto dal «nostro sacco». 1. Pavel Florenskij, Ai miei figli, Mondadori, Milano 2006 (ed. orig. 1923) Pavel Florenskij è stato uno dei pensatori più originali del XX secolo: matematico, teologo, critico d’arte, ingegnere, naturalista, chimico, martire delle purghe staliniane nel 1937 (sacrificò la sua vita per salvare alcuni suoi compagni di prigionia), ci fornisce in questo libro una vibrante testimonianza personale, di altissimo livello letterario, della 110 Letture consigliate per il lettore curioso natura del vero spirito scientifico basato sull’amore per la natura contrapposto all’ideologia scientista. 2. Robert Laughlin, Un universo diverso. Reinventare la fisica da cima a fondo, Codice Edizioni, Torino 2005 Il premio Nobel per la fisica del 1998 ci offre un panorama sorprendente della fisica moderna, in cui i temi delle proprietà emergenti, delle leggi proprie dell’organizzazione e dei cambiamenti di scala assumono un carattere completamente nuovo rispetto a quello a cui eravamo abituati. Una riapertura delle frontiere della scienza al nuovo e all’inaspettato, una feroce critica alla tecno-scienza, un rigoroso appello alla necessità di ripartire dai fondamenti, a cominciare da un amore profondo per i «territori incontaminati»: uno degli aspetti più affascinanti dello spirito e dei valori tipicamente americani «della frontiera». 3. Ignazio Licata, La logica aperta della mente, Codice Edizioni, Torino 2008 Il nostro amico Ignazio, fisico matematico di grande levatura, ci regala un bellissimo racconto sulle scienze cognitive che riesce a coniugare un grande rigore scientifico e un legame stretto con la realtà. Una salutare lezione di umiltà e di «scienza artigiana», in cui la dimostrazione della sostanziale vacuità di ridurre la cognizione umana al funzionamento di una «macchina per pensare» va a braccetto con la descrizione delle «aperture» che individuano nella fisica quantistica alcuni promettenti criteri per avvicinarsi alle neuroscienze. 4. Claudio Ronchi, L’albero della conoscenza. Luci e ombre della scienza, Jaca Book, Milano 2010 Claudio è un altro amico da cui abbiamo imparato molte cose. Fisico nucleare di livello internazionale e dotato di una profonda cultura umanistica, in questo libro egli ci offre una sintesi efficacissima della storia della cultura scientifica (e non solo) degli ultimi tre millenni, riuscendo a dipanare lo stesso filo conduttore che, in maniera assai più rozza, abbiamo cercato di ricostruire nel nostro libro: la lotta della scienza bella, concreta e rispettosa, contro una scienza tanto brutta e arrogante quanto astratta e vorace. Un libro di una chiarezza esemplare e di una completezza stupefacente. 111 Scienze della natura e stregoni di passaggio 5. Ernst Mayr, Storia del pensiero biologico. Diversità, evoluzione, identità, Bollati Boringhieri, Torino 1990 (ed. orig. 1982) Grande zoologo della Harvard University morto nel 2005 all’età di 100 anni, Ernst Mayr è stato tra i fondatori dell’evoluzionismo novecentesco, vale a dire quella corrente del pensiero darwiniano emersa dalla cosiddetta Sintesi moderna. Scienziato di tradizione tedesca, e quindi attentissimo alle implicazioni epistemologiche delle scienze naturali, con la sua formazione eclettica si è spesso avventurato a considerare la biologia in modo eterodosso. Con questo libro, a tutt’oggi uno dei migliori saggi di storia della biologia, Mayr fa un’operazione che pochissimi filosofi della biologia sono stati in grado di fare: riportare le scienze della vita all’interno di un percorso storico fondato più sui profondi cambiamenti che i concetti biologici hanno subìto nel tempo che sulle grandi scoperte. 6. Richard Lewontin, Gene, organismo e ambiente. I rapporti causa-effetto in biologia, Laterza, Roma-Bari 1998 Richard Lewontin non ha bisogno di presentazioni, è stato ed è tuttora un genetista di rara intelligenza, nonché strenuo difensore di un approccio «dialettico» allo studio della vita. Sagace e pungente, questo suo libro mostra come un uso poco avveduto delle metafore abbia condizionato l’immagine del mondo che la scienza ha costruito. Orologi e altre «macchine», infatti, restano ancora le vere icone del funzionamento dei viventi generando una gran confusione tra ciò che è artificiale, e dunque necessariamente «progettato» per un fine, e ciò che è naturale, e quindi prodotto dalla storia della vita. Il volume offre una panoramica elegante della vera natura degli organismi, condita da una critica serratissima al determinismo genetico. 7. Stephen J. Gould, Elisabeth S. Vrba, Exaptation. Il bricolage dell’evoluzione, Bollati Boringhieri, Torino 2008 (ed. orig. 1982) Due tra i più prestigiosi rappresentanti del pensiero «puntuazionista» spiegano alcuni importanti fraintendimenti della biologia evoluzionistica. Quando la scienza non riesce a riconoscere un fenomeno o un processo naturale, crea una barriera mentale e linguistica che impedisce di cambiare punto di osservazione e guardare il mondo in maniera diversa. Un saggio acuto e di grande originalità, ricavato dalla traduzione italiana di due vecchi articoli pubblicati sulla rivista «Paleobiology». Gould, morto nel 2002 all’età di 60 anni, è stato uno degli 112 Letture consigliate per il lettore curioso scienziati più influenti nella messa in discussione del darwinismo ortodosso. 8. Terrence Deacon, La specie simbolica. Coevoluzione di linguaggio e cervello, Fioriti Editore, Roma 2001 (ed. orig. 1997) Difficile dire se si tratti del lavoro di un antropologo o di un neuroscienziato (non a caso Deacon è entrambe le cose), questo libro ha il pregio di rompere con gli schemi della tradizione riduzionista che concepisce l’evoluzione del linguaggio come il risultato di cambiamenti avvenuti esclusivamente nell’organizzazione del cervello. Per apprezzare questa lettura non è necessario condividere tutte le tesi dell’autore, il vero punto forte dell’opera infatti è l’orientamento interdisciplinare che ne è alla base. 9. Paolo Vineis, Nel crepuscolo della probabilità. La medicina tra scienza ed etica, Einaudi, Torino 1999 Uno dei più prestigiosi epidemiologi italiani alle prese con il problema della scienza che si guarda allo specchio. Tematiche epistemologiche, etiche, metodologiche e filosofiche si incontrano su un terreno comune e inconsueto, la biomedicina; e quelle che potevano sembrare barriere (disciplinari) che separano, si trasformano in porte aperte. La «cultura della scienza» non è solo una possibilità, ma anche una realtà. 10. Jorge Luis Borges, Margarita Guerrero, Manuale di zoologia fantastica, Einaudi, Torino 1979 (ed. orig. 1957) Un libro straordinario, che riesce a conciliare il fantastico e il reale creando immagini forti che durano un attimo. Un attimo dopo, infatti, il fantastico e il reale si scambiano di posto e diventa quasi impossibile distinguere dov’è l’uno e dov’è l’altro. Solo un genio come Borges poteva concepire una simile «disamina» del mondo naturale filtrata dal suo corrispettivo simbolico-culturale. Un’opera giocata sul potere evocativo della sua capacità visionaria, con il contributo di altri «grandi» (come Franz Kafka). Un piccolo capolavoro per scienziati della natura, amanti degli animali e semplici cultori di mondi fantastici. 11. Paolo Virzì, Ovosodo, 1997 Paolo Virzì è «soltanto» un regista, forse neppure tra i più amati dall’establishment. Ma a nostro modo di vedere, a differenza di molti 113 Scienze della natura e stregoni di passaggio suoi colleghi, ha lo spirito del vero naturalista, nel senso che è dotato di una rara capacità di «osservare» il mondo. Tra le tante cose che ha dimostrato di saper raccontare magnificamente, alcune sono molto vicine ai nostri interessi scientifici e culturali. E, a ben vedere, è proprio questo che chiediamo ai bravi narratori: raccontare storie che siano in grado di intercettare in un qualche punto il nostro vissuto. Non siamo parenti di Virzì, non abbiamo mai avuto il piacere di conoscerlo, non riceviamo royalties dagli incassi dei suoi film, e non ci risulta che la casa di produzione con la quale lavora abbia bisogno del nostro aiuto per promuoverli. Ma «quella specie di ovosodo dentro che non va né in su né in giù» ci ha davvero «stregati». 114 Dal catalogo Jaca Book L’evoluzione dell’universo R. SCOSSIROLI, I primi passi della genetica, 1987 G. MINELLI, All’origine della biologia moderna, 1987 N.H. HOROVITZ, Utopia e ritorno, 1987 S.L. JAKI, La strada della scienza e le vie verso Dio, 1988, 19942 F. SELLERI, La causalità impossibile, 1988 C. ALLÈGRE, I furori della Terra, 1988 R. COHEN-TANNOUDJI e M. SPIRO, La materia-spazio-tempo, 1988 E. SCHATZMAN, Il messaggio del fotone viaggiatore, 1989 H. ARP, La contesa sulle distanze cosmiche e le quasar, 1989 F. SELLERI (a cura di), Che cos’è la realtà. Dibattito nella fisica contemporanea, 1990 P. KARLI, L’uomo aggressivo, 1990 V. WEISSKOPF, La rivoluzione dei quanti. Una nuova era nella storia della fisica, 1990 F.T. ARECCHI, J. JACOPINI ARECCHI, I simboli e la realtà. Temi e metodi della scienza, 1990 A. KOESTLER, I sonnambuli. Storia delle concezioni dell’universo, 1982, 20103 (nuova ed. nella collana Biblioteca Permanente Jaca) L. DE BROGLIE, E. SCHRÖDINGER, W. HEISENBERG, Onde e particelle in armonia, a cura di S. Boffi, 1991 P. GASCAR, La strada di Pasteur. Storia di una rivoluzione scientifica, 1991 F.L. WHIPLLE, Il mistero delle comete, 1991 H. ARP, Seeing Red. L’universo non si espande. Redshift, cosmologia e scienza accademica, 2009 F. AYALA, L’evoluzione. Lo sguardo della biologia, 2009 J.P. ZBILUT, A. GIULIANI, L’ordine della complessità, 2009 R. MASSA, Il pappagallo dal ventre arancio, 2009 C. RONCHI, L’albero della conoscenza. Luci e ombre della scienza, 2010 É. KLEIN, Galileo e gli Indiani. Per non liquidare la scienza a causa di un cattivo uso del mondo, 2010 J. NARBY, Intelligenza in natura. Saggio sulla conoscenza, 2010 R. MASSA, Gli animali domestici. Origini, storia, filosofia ed evoluzione, 2011 A. GIULIANI, C.M. MODONESI, Scienze della natura e stregoni di passaggio, 2011 Stampa e confezione Grafiche Flaminia, Foligno (Perugia) maggio 2011