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studi superiori / 944 critica letteraria e teoria della letteratura I lettori che desiderano informazioni sui volumi pubblicati dalla casa editrice possono rivolgersi direttamente a: Carocci editore Corso Vittorio Emanuele ii, 229 00186 Roma telefono 06 42 81 84 17 fax 06 42 74 79 31 Visitateci sul nostro sito Internet: http://www.carocci.it Valeria Cavalloro Leggere storie Introduzione all’analisi del testo narrativo C Carocci editore 1a edizione, luglio 2014 © copyright 2014 by Carocci editore S.p.A., Roma Finito di stampare nel luglio 2014 da Grafiche VD, Città di Castello (PG) isbn 978-88-430-7322-1 Riproduzione vietata ai sensi di legge (art. 171 della legge 22 aprile 1941, n. 633) Senza regolare autorizzazione, è vietato riprodurre questo volume anche parzialmente e con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche per uso interno o didattico. Indice 1. 1.1. Sull’evoluzione dei generi e dei concetti 11 Metodi di studio 11 1.1.1. Due possibilità / 1.1.2. La letteratura come contenuto: le discipline ermeneutiche / 1.1.3. La letteratura come forma: le discipline analitiche / 1.1.4. Analisi e interpretazione: considerazioni sul metodo 1.2. 2. 2.1. Tre epoche: uno sguardo a volo d’uccello sulla storia delle forme narrative 26 La trama 31 Che cosa si intende per “trama” 31 2.1.1. Cominciando dalla fine / 2.1.2. Storia e discorso / 2.1.3. Fabula e intreccio 2.2. Fenomeni di ordine: analessi 43 2.2.1. L’analessi e l’intreccio di rivelazione / 2.2.2. Portata e ampiezza delle anacronie / 2.2.3. Analessi tematizzata e non tematizzata 2.3. Fenomeni di ordine: prolessi 55 2.3.1. La prolessi e il problema della suspense / 2.3.2. L’anticipazione proemiale e l’intreccio di risoluzione / 2.3.3. Il finale svelato / 2.3.4. L’epifania del futuro 2.4. Durata e frequenza 68 2.4.1. Il tempo della storia e il tempo del racconto / 2.4.2. L’unità aristotelica / 2.4.3. Il senso della fine / 2.4.4. Fenomeni di durata: la scena e l’intreccio episodico / 2.4.5. Fenomeni di durata: il sommario / 2.4.6. Fenomeni di frequenza: racconti che si ripetono 2.5. 2.6. L’anomalia dell’intreccio unificato Altre proposte per classificare le trame 7 86 90 3. 3.1. Il personaggio 95 Homo Fictus 95 3.1.1. Sullo statuto ontologico del personaggio / 3.1.2. Personaggi come forme del discorso / 3.1.3. Personaggi come forme della realtà / 3.1.4. Un esempio di critica del personaggio: Erich Auerbach 3.2. La caratterizzazione attraverso le qualità 103 3.2.1. Prescrizioni aristoteliche / 3.2.2. Un modello di lunga durata: il charakter 3.3. La caratterizzazione attraverso i significati 109 3.3.1. Costruzioni allegoriche / 3.3.2. Sistemi dei personaggi 3.4. Il declino del personaggio-tipo 116 3.4.1. Un mutamento epocale / 3.4.2. L’epoca della prosa / 3.4.3. Spazio e tempo: personaggi che si evolvono 3.5. La caratterizzazione attraverso il pensiero 127 3.5.1. Un nuovo principium individuationis / 3.5.2. Gli spazi del pensiero nell’epoca antica / 3.5.3. Il modello agostiniano / 3.5.4. La psiconarrazione / 3.5.5. Il monologo citato / 3.5.6. Il monologo narrato 3.6. 3.7. L’uomo “tale e quale a noi” Individui e trame 148 152 4. Il narratore 157 4.1. 4.2. Narratore, autore Modo e voce 157 162 4.2.1. Il modo narrativo: la distanza / 4.2.2. Il modo narrativo: la prospettiva / 4.2.3. La voce 4.3. Narratori interni 173 4.3.1. Lo sdoppiamento autobiografico / 4.3.2. Il problema dell’attendibilità / 4.3.3. Il racconto tendenzioso / 4.3.4. La prospettiva ristretta 4.4. Narratori esterni 187 4.4.1. Il problema dell’autorità / 4.4.2. Il controllo del senso: prefazioni / 4.4.3. Il controllo del senso: intrusioni d’autore / 4.4.4. Il controllo del senso: dissonanze / 4.4.5. L’inaffidabilità inverificabile / 4.4.6. Lo skaz e il narratore “tra di noi” 8 4.5. Narratori multipli 211 4.5.1. Curatori convenzionali / 4.5.2. Curatori non convenzionali / 4.5.3. Polifonia e «zone dei personaggi» 4.6. 4.7. Parlare con il pubblico Narratori a confronto: valori e disvalori 219 223 Per concludere 225 Prospetto sintetico delle categorie genettiane 227 Bibliografia 229 Indice dei nomi e delle opere 239 Indice analitico 000 9 1 Sull’evoluzione dei generi e dei concetti Mi stupisce sempre sentir ripetere: sì, va bene in teoria, ma come sarà in pratica? Come se la teoria fosse fatta di belle parole, buone solo per la conversazione, ma non per servire da base a tutta la pratica, cioè a tutta l’attività. Ci deve essere stata nel mondo una quantità spaventosa di teorie stupide, se è potuto entrare nell’uso un ragionamento così incredibile. (Tolstoj, 1979, p. 154) 1.1 Metodi di studio 1.1.1. due possibilità «L’interpretazione» scriveva Fredric Jameson (1990, p. 15) nella prefazione all’Inconscio politico, «non è un atto isolato, ma ha luogo all’interno di un campo di battaglia omerico, dove schiere di scelte interpretative sono o apertamente o implicitamente in conflitto fra loro» e dove costantemente si combatte una difficile lotta per il primato fra modelli e storia, fra speculazione teorica e analisi testuale, in cui la prima cerca di trasformare la seconda in un gran numero di meri esempi, addotti a sostegno delle sue proposizioni astratte, mentre la seconda continua a lasciare intendere con insistenza che la teoria stessa non era altro che un’impalcatura metodologica, la quale può essere facilmente smantellata una volta che l’affare serio della pratica critica sia in fase di realizzazione. Quando si intraprende lo studio dei testi letterari ci si trova generalmente di fronte a due discipline che appaiono drammaticamente impermeabili l’una all’altra: la storia della letteratura e l’analisi testuale. La prima procede per grandi opere e grandi autori, tracciando attraverso le epoche una geografia di sentieri di lunga o lunghissima durata e di vasti deserti poco frequentati, con lo scopo di far emergere dalla massa 11 leggere storie muta dei testi le tracce di un percorso che sia possibile interpretare, cioè che sia capace di rivelare un significato generale, superiore ai significati delle singole parti che lo compongono. La seconda, viceversa, parte da un’osservazione formale completamente astorica e procede attraverso la riduzione progressiva del maggior numero possibile di testi al minor numero possibile di elementi primari e leggi di composizione, mirando a una sorta di meccanica della letteratura che possa spiegare i procedimenti con cui è possibile creare e far funzionare un’opera d’arte. «Si tratta di due generi diversi, che hanno regole, procedure e forme diverse, anche se i gradi intermedi sono frequenti e le sovrapposizioni numerose» (Luperini, 2006, p. 178). Ora, fare qui la storia dettagliata di queste due possibilità di approccio alla letteratura sarebbe impossibile e fuori luogo, ma visto che le categorie cambiano valore a seconda dei canoni su cui vengono misurate, è opportuno spiegare come questo valore possa mutare a seconda dell’impostazione concettuale all’interno della quale vengono usate, dell’influenza che «procedure di scrittura e stili diversi» (ibid.) possono avere sull’ampiezza e sulla direzione del loro significato, ed è quindi indispensabile dire due parole sui principi fondamentali che sostengono le rispettive discipline. C’è però da fare un chiarimento iniziale: questa bipartizione tra discipline analitiche e discipline ermeneutiche è la riduzione ai minimi termini di un campo di polarità che ha molti gradini intermedi, e presentarla così ha soprattutto un valore descrittivo, utile a fare chiarezza (anche se a colpi d’ascia) tra le numerose scuole critiche che hanno contribuito allo studio della letteratura. Si tratta peraltro di una separazione che ha una sua storia particolare, e che deriva dall’alternanza di due punti di vista che non si contrappongono solo su un piano puramente letterario o estetico, ma implicano interi sistemi filosofici dei quali accenneremo solo agli aspetti principali. 1.1.2. la letteratura come contenuto: le discipline ermeneutiche Nel senso in cui viene intesa oggi, la storia della letteratura è figlia di due profonde svolte epistemologiche. La prima è quella che scosse la cultura europea a cavallo tra il xviii e il xix secolo, e con la quale, non a caso, viene fatto coincidere l’inizio dell’età contemporanea. Responsabile di questa svolta fu la generazione romantica, ovvero quel gruppo di letterati, filosofi e scienziati, che avevano attraversato – sia 12 1. sull’evoluzione dei generi e dei concetti in senso anagrafico che culturale – il doppio trauma del passaggio di secolo: dapprima con lo strappo epocale della Rivoluzione francese e della parabola napoleonica, che avevano preteso di inaugurare un tempo radicalmente nuovo, staccato dalle oscure epoche precedenti, e poi con il tentativo di ricucitura del Congresso di Vienna, che aveva cercato di ricomporre una continuità storica ormai impossibile con il passato dell’Europa assolutista. Una situazione da cui gli intellettuali di questo tempo si ritrovarono investiti di un compito senza precedenti, quello di dovere, per la prima volta, «definire il presente rispetto a un passato percepito ormai come discontinuo» (Pozzi, 1996, p. 27), cioè di scoprire il senso della diversità e della dialettica tra le epoche, di superare la divisione tradizionale tra un presente vissuto come effimero momento di passaggio e le “sterminate antichità” di un passato uniforme e indifferenziato. In altre parole, il compito di pervenire alla moderna coscienza storica. Coscienza che, una volta acquisita, non tardò a investire tutti i campi del sapere, dando vita ad alcune discipline nuove, come la storiografia, e sconvolgendo molte discipline vecchie, a partire dall’estetica. Un primo importante tentativo di mettere in prospettiva storica il campo dei fenomeni linguistici e letterari, in realtà, era stato realizzato già molti anni prima della rivoluzione romantica, e lo si doveva a quell’opera per molti versi anticipatrice che è la Scienza nuova di Vico. Qui, pur se con presupposti talvolta decisamente premoderni (come la fiducia nella cronologia della storia umana riportata dalla Bibbia, o nella Provvidenza divina come motore razionale del progresso della civiltà), si inaugurava il gesto intellettuale – straordinariamente innovativo rispetto all’epoca in questione – di attribuire a ogni fase dell’evoluzione umana un preciso tipo di linguaggio, e soprattutto di pensare questa corrispondenza non come una mera coincidenza fattuale, ma come condizione che deriva dalla presenza di vincoli sostanziali tra stadi della civiltà e forme espressive. Un’idea tanto più rivoluzionaria se si considera che, per Vico, il rilevare questa corrispondenza non è un gesto confinato allo studio del passato, ma una postura filosofica che si riverbera anche sul presente, generando qualcosa di estremamente simile al nostro contemporaneo relativismo culturale, che non riguarda solo l’arte ma la conoscenza in generale: Se paragoniamo i nostri tempi con quelli antichi e soppesiamo i vantaggi e i danni rispettivi nel campo delle lettere, troviamo forse che la proporzione 13 leggere storie tra noi e loro è rimasta costante. Sono state da noi scoperte molte cose dagli antichi completamente ignorate, ma molto conosciute dagli antichi sono completamente ignorate da noi: abbiamo molte facoltà per avanzare in un certo genere letterario; essi ne avevano molte in qualche altro. Essi ritenevano di dover coltivare certe arti che noi quasi trascuriamo, noi riteniamo di doverne coltivare altre, che essi completamente disprezzarono. Essi univano insieme molte dottrine che noi distinguiamo, e noi ne uniamo altre che essi trattarono separatamente con poco vantaggio. Infine non poche arti hanno nel frattempo cambiato apparenza e nome (Vico, 1962, pp. 135-6). Il pensiero vichiano, tuttavia, forse proprio per il suo essere eccessivamente precoce, all’epoca della sua comparsa (tra il 1708, anno della dissertazione sull’Ordine degli studi nel nostro tempo, e il 1744, ultima edizione della Scienza nuova) non produsse quella risonanza ampiamente culturale che, un secolo più tardi, permise allo stesso progetto filosofico di imporsi nel pensiero collettivo grazie all’opera di un filosofo che probabilmente non seppe mai di aver avuto un tale precursore: Georg Wilhelm Friedrich Hegel. Infatti, a prescindere dai rispettivi meriti e dalle dispute sulla priorità (cfr. Hösle, 2012, p. 715), furono il prestigio e la capacità d’impatto del filosofo tedesco e delle sue teorie a permettere il definitivo affermarsi dell’idea che uno stretto legame di coerenza unisca le forme dell’arte alle epoche in cui esse compaiono, e che tale legame non si esaurisca in un mero rapporto di successione cronologica o causale, ma derivi dall’azione di leggi che permeano l’intera realtà e ne “unificano” i comportamenti profondi. Tale idea, che deriva naturalmente dai presupposti generali del sistema hegeliano (in particolare dalla teoria del divenire esposta nella Fenomenologia dello spirito) e compare quindi per accenni più o meno distesi in tutta la produzione di Hegel, trova la sua esposizione più completa in quella “storia filosofica dell’arte” che è l’Estetica. In questa monumentale opera postuma (realizzata dall’editore Heinrich Gustav Hotho raccogliendo gli appunti di lezione del filosofo, il che è tra l’altro indicativo della forza e della pervasività che lo schema dialettico tesi-antitesi-sintesi aveva assunto nel pensiero del suo autore, anche al di fuori delle opere “pianificate”) si trova esposta, con tale ampiezza e sottigliezza di argomenti da rimanere tuttora un punto di riferimento obbligato per gli studi che si collocano nella sua scia, una tesi più o meno così riassumibile: le manifestazioni dell’arte, così come tutte le manifestazioni della realtà, sono estrinsecazioni del divenire dello Spirito, e il loro susseguirsi è 14 1. sull’evoluzione dei generi e dei concetti quindi sempre riconducibile a quel principio di razionalità che guida l’evolversi dell’intero universo. Nello specifico, l’idea di fondo è che ogni forma artistica, dall’architettura alla poesia, in ognuna delle sue espressioni particolari, dalla colonna dorica al romanzo borghese, si afferma e prospera in una certa epoca non in virtù di una mera successione casuale, o di una linea evolutiva individuale, ma perché l’insieme di caratteri da cui è costituita è l’unico a poter rispecchiare compiutamente la fase della Storia che quell’epoca rappresenta. La seconda svolta a cui la storia della letteratura moderna deve il suo carattere è quella, più recente, che ha segnato il passaggio di secolo tra Ottocento e Novecento, e che si usa identificare con la teoria del Prospettivismo (Perspectivism) elaborata da Nietzsche. Secondo questo principio, riassumibile nella massima per cui «non esistono fatti, ma solo interpretazioni» (Nietzsche, 1995, p. 271)1, ogni individuo o gruppo di individui filtra il sapere attraverso un’impalcatura di pregiudizi concettuali che non dipende solo dall’influenza generale del momento storico, ma anche dall’insieme degli infiniti elementi che compongono le “circostanze” nelle quali un certo soggetto compie le proprie osservazioni, circostanze intese in tutti i loro condizionamenti sociali, ideologici, politici, geografici. Anche in questo caso, l’idea non era del tutto nuova: una prima formulazione di principi simili si trovava già nell’opera, stavolta tutt’altro che misconosciuta, Per la critica dell’economia politica, pubblicata da Karl Marx nel 1859 e sorta di ideale “introduzione” al Capitale. Fin dalla prefazione l’autore (1969, p. 5) esponeva infatti il filo conduttore delle sue ricerche nei seguenti termini: «il modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita. Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, 1. Cfr. anche Nietzsche (2006, p. 306): «Le nostre azioni sono in fondo tutte quante incomparabilmente personali, uniche, sconfinatamente individuali, non c’è alcun dubbio; ma non appena le traduciamo nella coscienza, non sembra che lo siano più... Questo è il vero e proprio fenomenalismo e prospettivismo, come lo intendo io». La tesi del condizionamento contestuale delle interpretazioni è stata poi ripresa e affermata dall’ermeneutica marxista, e si può considerare incarnata dal metodo del metacommentario jamesoniano, «secondo cui il nostro oggetto di studio non è tanto il testo stesso quanto le interpretazioni attraverso le quali tentiamo di metterci dinanzi a esso e di appropriarcene. L’interpretazione è intesa qui come atto essenzialmente allegorico, che consiste nel riscrivere un certo testo secondo i termini di un particolare codice interpretativo primario» ( Jameson, 1990, pp. 9-10). 15 leggere storie il loro essere sociale che determina la loro coscienza». Il che, nonostante le grandi e ineliminabili differenze tra i due pensatori, accomuna questi «maestri del sospetto», come li ha chiamati Ricoeur, nel rifiuto della fiducia ingenua e inverificata nelle verità presentate come universali, sia che provengano dalla tradizione, sia che vengano offerte dalla scienza o dall’ideologia correnti, proprio perché viene negata la possibilità, per l’uomo intrappolato in un preciso spazio e tempo, di giungere a una conoscenza che sia valida per tutti. È grazie allo sdoganamento di tale consapevolezza – cresciuta peraltro con il susseguirsi dei grandi eventi storici e culturali che hanno sconvolto il xx secolo, distruggendo le tendenze universaliste che fino ad allora avevano percorso il pensiero occidentale – che si è potuti giungere oggi alle teorie sulla cosiddetta “conoscenza situata”: proposte di interpretazione dei sistemi di comprensione che indagano in che misura il nostro modo di pensare è condizionato dai nostri orizzonti particolari, in alcuni casi coinvolgendo persino i dati fisici e corporei (come nel caso degli studi sulla embodied cognition), ma più in generale rivelando la forza di interferenza che i confini della nostra conoscenza hanno sulla conoscenza stessa, nelle sue forme e nei suoi contenuti. Dati questi due ordini di relativismo – quello diacronico vichianohegeliano e quello sincronico marxiano-nietzschiano – ciò che caratterizza la storia della letteratura come disciplina è proprio il gesto teorico di mettere in luce le interferenze profonde di cui, epoca per epoca, le opere d’arte conservano le tracce, cercando, allo stesso tempo, di applicare la stessa attenzione nell’individuare le interferenze che determinano la propria epoca e il proprio punto di vista: se infatti è impossibile eliminare il margine di parzialità che esse comportano, è però possibile identificare e mappare i caratteri di questo margine, al fine di ridurre al minimo gli errori che la nostra inevitabile presbiopia può portarci a commettere. Una cautela di cui si può trovare un memorabile esempio nelle parole di Erich Auerbach, uno dei più importanti e consapevoli rappresentanti di questa disciplina, che commentando il proprio capolavoro teorico, Mimesis, dieci anni dopo la sua uscita, non mancò di indicarne lucidamente le radici e, implicitamente, i limiti: Il progresso delle scienze storiche umanistiche negli ultimi due secoli consiste, oltre che nello sfruttamento di nuovo materiale e in un grande affinamento dei metodi della ricerca singola, soprattutto nel formarsi di un giudizio in prospettiva, che permette di attribuire alle diverse epoche o culture i presup- 16 1. sull’evoluzione dei generi e dei concetti posti e i modi di vedere loro propri, di impegnarsi al massimo nella scoperta dei medesimi e di respingere come antistorico e dilettantesco ogni giudizio assoluto, recepito dall’esterno, sui fenomeni. [...] Ormai nessuno può contemplare questo contesto se non dal punto di vista dell’oggi, un oggi determinato da origine, storia, cultura personali dell’osservatore. È meglio essere legati al tempo coscientemente piuttosto che inconsapevolmente. In molti scritti eruditi s’incontra un genere di obiettività in cui, senza che l’autore ne abbia la minima coscienza, da ogni parola, da ogni fiore retorico, da ogni giro di frase parlano moderni giudizi e pregiudizi (spesso neppure di oggi, bensì di ieri e di ierlaltro). [...] [Mimesis] è nato dai motivi e dai metodi della Geistesgeschichte e della filologia tedesca; non sarebbe collocabile in nessun’altra tradizione fuorché in quella del romanticismo tedesco e di Hegel; non sarebbe mai stato scritto senza gli influssi da me recepiti in gioventù in Germania (Auerbach, 1973, pp. 252-3 e 249). Peraltro, nonostante la cura di Auerbach nel rimarcare questi punti possa farlo pensare, non fu la parzialità della costruzione interpretativa di Mimesis a rappresentare l’aspetto più apertamente problematico dell’opera. A riscuotere la quantità maggiore di critiche e a suscitare i più accesi dibattiti fu piuttosto la scelta dei testi su cui i vari capitoli erano imperniati, e i giudizi di valore che da tale selezione, più o meno a ragione, si potevano ricavare sulla letteratura europea in generale: in altre parole, il problema del canone, il primo dei fronti sui quali ricade la soggettività dello studioso, e della cui parzialità è quindi necessario che egli cerchi di dare ragione. Infatti, come ogni lavoro veramente storiografico (un lavoro, cioè, che non si riduca a una mera registrazione di fenomeni messi in ordine cronologico) la storia della letteratura deve fare i conti con la necessità di scegliere i propri campioni, di costruire un paesaggio complesso nel quale la massa indiscriminata degli eventi sia distribuita su diversi livelli di importanza. Se non vuole essere un semplice compilatore di annali, lo storico deve farsi carico (esplicitamente, attraverso una presa di posizione autoriflessiva, o implicitamente, lasciando che la quantità e la qualità della sua trattazione parlino per lui) di una serie di gesti arbitrari: identificare e delimitare un certo movimento generale, promuovere gli episodi che, a suo modo di vedere, hanno avuto in esso un ruolo primario, e disporre tutti gli altri in secondo piano, tanto più lontano dal fuoco della sua attenzione quanto più inessenziali gli appaiono rispetto alla chiave di lettura che ha scelto di applicare, portare alla luce ordini di causalità solitamente 17 leggere storie invisibili, raccogliere significati complessivi. In un certo senso, si tratta di adottare il modo di procedere del narratore, operando da una parte una riduzione antropomorfica della complessità del reale, dall’altra una selezione esplicita fra le opere che lottano per essere ricordate e che sono gerarchicamente ordinate in base a criteri qualitativi e quantitativi: come si parla di un’opera (se di un testo ancora attuale o di un testo che viene nominato solo perché ha un’importanza storico-documentaria) e quanto si parla di un’opera (Mazzoni, 1997, p. 150). La differenza è che, diversamente dal narratore, il critico fa parte di un contesto scientifico nel quale il sapere deve essere articolato secondo criteri condivisi, ed è quindi tenuto a rendere conto concettualmente di ognuna delle sue scelte; compito tanto più arduo dal momento che, quando lo storico è uno storico della letteratura, le sue valutazioni non si basano solo su reperti materiali e quantificabili, ma su un apprezzamento individuale che non potrà mai essere razionalizzato fino in fondo. Situazione che determina peraltro quel perenne movimento che agita il campo della critica, dove “maggiori” e “minori” vengono instancabilmente comparati e cambiati di posto, in un caleidoscopico farsi e disfarsi di gerarchie. A tutti i criteri fin qui esposti (la coscienza della prospettiva storica, la localizzazione spazio-temporale del punto di vista osservante e la necessaria costruzione di un canone interpretativo) si aggiunge infine un presupposto filosofico che deriva dalla versione hegeliana dello storicismo ed è forse la principale eredità della sua estetica, vale a dire l’idea per cui «l’arte pare nascere da un impulso superiore e sembra dare soddisfazione a bisogni superiori, anzi talvolta ai bisogni supremi ed assoluti, in quanto essa è legata alle concezioni del mondo più generali ed agli interessi religiosi di intere epoche e popoli» (Hegel, 1997, p. 39, corsivo mio). Un presupposto che è giunto fino a noi anche grazie alla mediazione di uno dei più intelligenti lettori di Hegel del Novecento, György Lukács, che nelle sue opere – Teoria del romanzo sopra ogni altra – ha recuperato ed espresso con nuova forza l’idea che le forme dell’arte diano conto dello stato degli uomini di una certa epoca in modo più profondo e vero di qualunque altra manifestazione della civiltà. Un criterio estetico in senso ampio che sta alla base della storia della letteratura e ne giustifica l’operato, garantendo quella significatività ulteriore dell’arte che è necessaria per collegare in modo sostanziale le opere al loro spazio e tempo di ap18 1. sull’evoluzione dei generi e dei concetti partenenza, e per ordinare il campo dei fenomeni secondo quella varietà di rilevanza che conferisce all’indagine storica la forma di una trama. 1.1.3. la letteratura come forma: le discipline analitiche Dall’altra parte del campo critico si trova invece la schiera variegata dei rappresentanti dell’approccio analitico, che, pur con un ampio ventaglio di differenziazioni interne, si riconoscono nell’obiettivo comune del confronto diretto con il testo, volto a «riconoscerne caratteristiche interne, che permettano di individuare significati non palesi ed eventualmente formino una struttura evidenziabile», un’idea «legata alla rivoluzione della linguistica iniziata con Ferdinand de Saussure (18571913) [...] poi combinata con tendenze specifiche della filosofia e della scienza del secondo Novecento, che sono state catalogate sotto l’etichetta di strutturalismo» (Casadei, 2008, p. 91). Pur avendo radici storicamente più antiche della storia della letteratura, che affondano nel terreno dell’età moderna e si legano ai prototipi classici della stilistica e della retorica, l’analisi testuale nella sua forma attuale è una disciplina relativamente giovane, e la sua data di nascita si può convenzionalmente far coincidere con il 1916, anno in cui un gruppo di studiosi russi fondò a Leningrado l’Opojaz, ovvero la “Società per lo studio del linguaggio poetico”. Con tale organizzazione, durata fino al 1930, nacque ufficialmente (e più o meno coincise) l’esperienza del Formalismo, la prima scuola critica a basare il proprio programma di ricerca sul ritorno alla lettera dei testi, alla forma effettiva e concreta delle opere d’arte, proclamando che «la parola è una cosa, e cambia seguendo leggi proprie» (Šklovskij, 1966, p. 7) in diretta contrapposizione con le tendenze che dominavano la critica accademica del tempo, e spesso in brusca polemica con esse. In effetti, la prima cosa che colpisce nel leggere gli scritti più noti dei formalisti – a partire dall’Arte come procedimento (1917) di Šklovskij, generalmente considerato il testo fondatore delle teorie del gruppo – è che tendono a contenere affermazioni brutalmente categoriche, che richiedono di essere contestualizzate: alcune memorabili prese di posizione (talvolta tali da oscurare la presentazione stessa degli obiettivi teorici della scuola), che sono state poi usate, in Europa, come giustificazione dei più estremi fondamentalismi metodologici, in realtà dovevano il loro tono al clima di bellicosa innovazione che contraddistinse gli anni die19 leggere storie ci in Russia2, e non alla propria impostazione teorica. A ogni modo, a prescindere dalla natura accessoria di questa aggressività, i formalisti – che per il resto costituirono un gruppo estremamente eterogeneo – di fatto emersero e si riunirono in contrapposizione a un comune “nemico”: l’ermeneutica universitaria che aveva dominato gran parte del secolo precedente, «che in genere non si occupava di problemi teorici e si serviva svogliatamente di logori ‘assiomi’ estetici, psicologici e storici» (Ejchenbaum, 1968, p. 143), interpretando le opere d’arte prevalentemente – quando non esclusivamente – in base al modello biografico e psicologico che aveva desunto dai Portraits littéraires di Sainte-Beuve. Fu proprio in contrasto a questa abitudine che la ricerca formalista elesse come proprio principio fondamentale il concetto di literaturnost’, parola intraducibile che si può approssimativamente rendere con “specificità letteraria”, e che simboleggia l’apporto principale della scuola nell’ambito della teoria letteraria moderna, cioè l’idea di interpretare le opere letterarie iuxta propria principia, senza filtrarle attraverso le impalcature concettuali delle discipline limitrofe. Oggetto della scienza della letteratura non è la letteratura, ma la letterarietà (literaturnost’). Invece finora gli storici della letteratura hanno soprattutto scimmiottato la polizia che, quando deve arrestare una determinata persona, agguanta per ogni eventualità chiunque e qualsiasi cosa si trovi nell’appartamento e anche chi per caso si trovi a passare nella strada accanto. Così anche per gli storici della letteratura tutto faceva brodo: costume, psicologia, politica, filosofia. Invece della scienza della letteratura si ebbe un conglomerato di discipline rudimentali. Pareva che ci si dimenticasse che queste rientrano, ognuna, nella scienza corrispondente, storia della filosofia, storia della cultura, psicologia ecc., e che queste ultime possono naturalmente utilizzare anche i monumenti letterari come documenti difettosi, di seconda scelta ( Jakobson, 1973, p. 15). 2. Basti pensare alla violenza stilistica del manifesto del Futurismo, Schiaffo al gusto corrente, firmato da Burljuk, Krjučenych, Majakovskij e Chlebnikov nel 1912: «Il passato ci soffoca. L’Accademia e Puškin sono più incomprensibili dei geroglifici. Gettare Puškin, Dostoevskij, Tolstoj, ecc. ecc. dal Vapore Modernità. […] Lavatevi le mani insozzate dal sozzo muco dei libri scritti da questi innumerevoli Leonid Andreev. Tutti questi Gor’kij, Kuprin, Blok, Sologub, Remizov, Averčenko, Černyj, Kuz’min, Bunin ecc. hanno solo bisogno di una villetta in riva al fiume. È la ricompensa che il destino riserva ai buoni sarti. Noi contempliamo la loro infinita pochezza dall’alto dei grattacieli!... Noi ordiniamo che si rispetti il diritto dei poeti…» (Vitale, 1979, p. 26). 20 1. sull’evoluzione dei generi e dei concetti Questo importante movimento critico iniziò a esaurirsi, sia per motivi politici (molti dei suoi membri per poter continuare il proprio lavoro dovettero dedicarsi a ricerche più vicine agli interessi ufficiali dell’amministrazione sovietica) che interni (con il tempo le particolarità individuali dei singoli rappresentanti si trasformarono in discordanze insanabili che portarono a una serie progressiva di rotture), già durante gli anni trenta. Tuttavia la sua eredità teorica, abbandonata dagli accademici dell’età staliniana, trovò il modo di riemergere e di svilupparsi ulteriormente grazie alla mediazione di Roman Jakobson, a cui si deve, più ancora che l’elaborazione di fondamentali teorie linguistiche, l’esportazione delle dottrine formaliste in Europa e particolarmente in Francia, dove si assunse come testo di riferimento la Morfologia della fiaba, in cui Vladimir Propp (2000, p. 3) sosteneva la possibilità di «esaminare le forme della favola con la stessa precisione con cui si studia la morfologia delle formazioni organiche», e che era destinato a incontrare il favore dei tempi. Nel campo delle scienze esatte erano state fatte scoperte di importanza estrema e a renderle possibili era stato l’impiego di nuovi metodi sempre più esatti di ricerca e di calcolo. L’aspirazione a valersi di metodi esatti si estese anche alle scienze umanistiche. Comparve la linguistica strutturale e matematica e ad essa seguirono altre discipline. Una di queste è la poetica teorica. Risultò allora che la concezione dell’arte come sistema segnico, il procedimento di formalizzazione e modellazione, la possibilità dell’impiego di calcoli matematici, erano già anticipati in quest’opera, anche se al tempo in cui essa fu elaborata non esistevano ancora quell’insieme di concetti e quella terminologia coi quali oggi operano le scienze (ivi, p. 204). L’influenza delle conquiste compiute dalla fisica e dalla matematica nella prima metà del Novecento veicolò in Europa anche gli insegnamenti di un’altra scuola critica che, dall’altra parte dell’oceano, aveva incentrato la propria ricerca sullo studio analitico e sul ritorno al testo come entità autonoma: il New Criticism. Questa corrente interpretativa, che operava a partire dagli anni trenta (anche se fu battezzata solo nel 1941 dal titolo di un saggio di John Crowe Ransom) e annoverava tra i suoi maggiori rappresentanti Thomas Stearns Eliot, era basata su due idee fondamentali: che l’opera d’arte fosse una forma organica legata non tanto all’arbitrio dell’autore quanto all’azione delle leggi oggettive proprie dell’arte stessa, e che tali leggi attraversassero la storia 21 leggere storie codificate in una tradizione inconsapevole che garantiva la sostanziale unità della cultura umana, a prescindere dai cambiamenti provocati dal passare delle epoche. Quello che ne derivava era sostanzialmente la convinzione che lo studio della letteratura potesse conquistare una sua oggettività basandosi sul confronto sistematico e diretto tra la costruzione interna delle singole opere, da un lato, e il paesaggio sovrapersonale dei codici strutturali tradizionali, dall’altro. Il che non solo sgombrava il campo da ogni tentativo di interpretazione ideologica o sociologica, ma di fatto eliminava dal numero dei dati utili alla comprensione del testo tutto ciò che riguardava il contesto storico e la genesi dell’opera, compresa la figura dello scrittore, aprendo la strada, ad esempio, alle letture cosiddette reader-oriented, sviluppate dalla semiotica a partire dagli anni sessanta, e basate sull’idea che un testo sia «una catena di artifici espressivi che debbono essere attualizzati», un «meccanismo pigro (o economico) che vive sul plusvalore di senso introdottovi dal destinatario» (Eco, 1979, pp. 50 e 52). Quando, intorno alla metà del secolo scorso, gli insegnamenti del Formalismo e del New Criticism confluirono con la tradizione francese dell’explication des textes e soprattutto con l’eredità della linguistica saussuriana, in Europa, e particolarmente in Francia, venne a costituirsi uno dei più variegati e complessi indirizzi metodologici del Novecento, lo Strutturalismo, un ampio movimento che è stato terreno di sviluppo di numerose correnti interne, e, per quanto riguarda la letteratura, soprattutto di una: la narratologia. Il motivo per cui alla narratologia spetta un posto di rilievo rispetto alle altre discipline sorte in ambito strutturalista, che pure annoverano nelle loro file alcuni critici e teorici letterari di prima importanza, è essenzialmente di ordine pratico: non c’è stata corrente, infatti, per quanto prestigiosa, che abbia avuto una ricaduta paragonabile a quella narratologica su ciò che potremmo chiamare “cultura letteraria media”. Una fortuna che deriva soprattutto dalla straordinaria capacità di questo metodo di adattarsi alle forme dell’insegnamento scolastico, e più precisamente dalla tendenza a studiare le opere letterarie attraverso l’isolamento e l’analisi dettagliata di singoli costituenti, con risultati che si prestano a essere facilmente ridotti in nozioni. Qualunque studente delle scuole superiori ha presente, almeno in generale, concetti come la focalizzazione, il flashback, o il famigerato “narratore eterodiegetico”, anche se può non avere idea della ricerca complessiva di cui fanno parte. 22 1. sull’evoluzione dei generi e dei concetti Nel suo Dizionario di narratologia, Prince (1990, pp. 84-5) dà due definizioni di “narratologia”: 1. Teoria del racconto (derivata dallo strutturalismo). La narratologia studia la natura, la forma, e il funzionamento del racconto (indipendentemente dal medium di rappresentazione) e cerca di descrivere la competenza narrativa. Più in particolare, essa esamina ciò che è comune a tutti i racconti (al livello della storia, del narrare, e delle loro relazioni) e ciò che li differenzia l’uno dall’altro, e cerca di spiegare la capacità di produrli e di comprenderli. – Il termine è stato proposto da Todorov. 2. Studio del racconto come modo verbale di rappresentare situazioni ed eventi ordinati temporalmente (Genette). In questa accezione ristretta, la narratologia non si cura del livello della storia in quanto tale (ad esempio, non cerca di elaborare una grammatica delle storie o dei plots) e si concentra invece sulle possibili relazioni fra storia e testo narrativo, fra narrare e testo narrativo, e fra storia e narrare. Più specificamente, la narratologia studia i problemi del tempo [tense], del modo [mood] e della voce. Mentre nella prima accezione si manifesta esplicitamente il debito che la disciplina ha nei confronti dell’innovazione formalista e in particolare di Propp, nella seconda è riassunta la specificità del suo contributo alla teoria letteraria: contributo che si deve in primo luogo alle ricerche che Gérard Genette ha raccolto nella serie di saggi Figure, e particolarmente nel più memorabile di essi, Discorso del racconto, nel quale viene avanzata la proposta di sistematizzare lo studio del racconto attraverso la distribuzione dei suoi nuclei problematici in cinque campi di indagine (ordine, durata, frequenza, modo e voce). Tuttavia, questo tentativo di dare un assetto ordinato all’analisi testuale, in apparenza abbastanza neutrale, incorre fin dalle prime mosse in una serie di problemi metodologici, a partire senz’altro dalla difficoltà di impostare una relazione scientificamente appropriata tra l’analisi dei dati particolari e l’elaborazione di conclusioni generali: una relazione cioè in cui sia garantito, da un lato, che le categorie usate per analizzare i testi mantengano la stabilità minima indispensabile a rendere effettivamente confrontabili opere diverse, e, dall’altro, che le astrazioni elaborate sulla base dei risultati ottenuti non finiscano per annullare o sovvertire il significato particolare dei singoli elementi di partenza. Una difficoltà, questa, che pone la narratologia in una situazione di ambiguità rispetto alla propria posizione nel campo degli studi letterari e della direzione interna del suo stesso procedere, cosa della quale Genette, in questo testo inau23 leggere storie gurale – non a caso sottotitolato Saggio di metodo – si dimostrava già profondamente, e drammaticamente, consapevole. Potrei giustificare e chiarire tale ambigua situazione in due modi diversissimi: sia mettendo francamente (come è stato fatto in altri casi) l’oggetto specifico in subordine alla teoria (in tal caso la Recherche diventa qui solo un pretesto, serbatoio di esempi e luogo d’illustrazione per una poetica narrativa in cui le sue caratteristiche specifiche sono destinate a perdersi nella trascendenza delle «leggi del genere»); sia subordinando, al contrario, la poetica alla critica, e facendo di concetti, classificazioni e procedimenti esposti qui altrettanti strumenti ad hoc esclusivamente destinati a permettere una descrizione più esatta o più precisa del racconto proustiano nella sua singolarità, la deviazione «teorica» essendo a ogni occasione imposta dalle necessità di una messa a punto metodologica. Confesso la mia ripugnanza, o incapacità, nella scelta fra i due sistemi di difesa, apparentemente incompatibili (Genette, 1976, p. 70). Anche se Genette rinuncia a fornire un’indicazione risolutiva tra le due opzioni (così recisamente, in effetti, da dare l’impressione di considerare il problema irrisolvibile, se non del tutto illegittimo), e anche se, in linea di principio, l’inventario degli studi narratologici rappresenta entrambe le possibilità, rivelando il perdurare di questa indecisione nella distribuzione delle priorità, di fatto la disciplina sembra aver nettamente scelto la propria strada preferita. È chiaro, infatti, che a prevalere è stata la tendenza all’uso delle opere come materiale documentario al servizio di costruzioni formali astratte, sempre più simili ai modelli delle scienze esatte, e con una marcata propensione a irrigidirsi, sacrificando la precisione delle analisi a favore della coerenza con le strutture teoriche ipotizzate. Il che è come dire che una parte della narratologia ha assunto la posizione delle scienze deduttive, come la matematica o la fisica teorica, dove i dati si lasciano raccogliere in insiemi precisi e omogenei, le conclusioni sono tratte dall’elaborazione, per via logica e del tutto astratta, di leggi e principi ritenuti certi, e le regole a cui si perviene non contemplano sbavature né sfumature. Una posizione difficile da sostenere con profitto (o almeno senza danni) di fronte al campo magmatico della letteratura, e che, infatti, quanto più ha tentato di imporsi, tanto più ha prodotto contraddizioni e paradossi, portando lo stesso Genette a commentare, rispondendo agli oppositori del suo metodo (ma rivolgendosi anche, e forse più, ai suoi colleghi): «non vedo perché la narratologia dovrebbe diventare 24 1. sull’evoluzione dei generi e dei concetti un catechismo, con una risposta da spuntare con un sì o con un no ad ogni domanda, mentre spesso la risposta buona sarebbe: dipende dai giorni, dal contesto e dalla velocità del vento» (Genette, 1987, p. 62). 1.1.4. analisi e interpretazione: considerazioni sul metodo Inutile dire che gli storici della letteratura non hanno mancato di rimarcare questa deriva e di accusare la narratologia di proliferare su operazioni inutilmente chirurgiche, spesso più attente ai propri schemi che alla verità dei testi, incapaci di cogliere i veri nuclei di valore delle opere. E del resto, che inseguendo un assoluto rigore scientifico e rifiutando di assumere una dimensione storica l’analisi testuale lasciasse troppi fronti scoperti e potesse anche finire per sabotare sé stessa era un fatto di cui già i primi formalisti si erano resi conto («La teoria letteraria rivaleggia ostinatamente con la matematica in definizioni statiche, compatte e sicure, dimenticando che la matematica è costruita sulle definizioni, mentre nella teoria letteraria esse non solo non formano la base ma sono delle conseguenze continuamente modificate dal fatto letterario che evolve», Tynjanov, 1968, p. 23), ma a cui, nonostante questa volenterosa consapevolezza, si era rivelato estremamente difficile trovare una soluzione compatibile con i presupposti analitici del Formalismo, per i quali prima di intraprendere qualsiasi ricerca storica, è necessario studiare lo stile individuale dello scrittore come sistema particolare, compiuto e chiuso, di mezzi linguistici con una propria organizzazione estetica, prescindendo dai suoi legami con la tradizione. Senza una preliminare, esauriente descrizione delle forme stilistiche e delle loro funzioni, senza una classificazione delle componenti dello stile dell’autore in esame, ben poco si può dire sui suoi rapporti con le tradizioni letterarie antecedenti (Vinogradov, 2003, p. 111). Ma se, da un lato, è vero che il tentativo di fondere descrizione sincronica e prospettiva diacronica ha semplicemente aggiunto un ulteriore circolo vizioso ai problemi metodologici dell’analisi testuale, ed è stato – forse a ragione – totalmente abbandonato dai suoi esponenti, dall’altro è non meno vero (e grave) che la storia della letteratura, sbandierati il proprio relativismo e la propria consapevolezza della parzialità delle interpretazioni, è talvolta arrivata a trascurare la materialità concreta 25 leggere storie delle opere e a costruire a sua volta grandi schemi ideali, che spesso sono diventati autonomi e fini a sé stessi. Basta pensare alle letture psicanalitiche in voga all’inizio del Novecento, o ad alcune interpretazioni della scuola marxista, nelle quali capita di vedere che il senso generale, invece di emergere dai caratteri dei testi scelti, sembra essere stato stabilito a priori e sovrascritto a opere e autori, con una sicurezza che talvolta ricorda l’hegeliano «tanto peggio per i dati di fatto». Il punto è che ogni campo del sapere, se vuole produrre una vera conoscenza, ha bisogno di un gesto di scomposizione analitica e di ordinamento, che non può essere realizzato se non sacrificando le particolarità individuali a favore dei tratti comuni, e in questo senso la narratologia e gli strumenti categoriali da essa proposti (anche se non tutti, e non tutti allo stesso titolo) sono stati fondamentali nello sviluppo di molti discorsi sulla letteratura. D’altra parte, il semplice moltiplicarsi di definizioni e schemi sempre più sofisticati ma inesorabilmente statici non potrà mai esaurire il ruolo della teoria letteraria, che nel confronto con la tradizione cerca le tracce di significati generalmente umani, impossibili da trovare sul piano degli elementi primari e delle regole di composizione. Il problema – in entrambi i casi – sorge quando si cade nella pretesa che solo il proprio metodo possa accedere alla “verità” della letteratura, che sia attraverso una presunta oggettività o grazie a percorsi evolutivi idealmente capaci di dare un senso ulteriore alle singole entità che comprendono. Sta al critico comprendere gli obiettivi e le potenzialità dell’uno e dell’altro metodo, e individuare di volta in volta gli strumenti più adeguati per portare avanti la propria particolare ricerca, ora spiegando ora comprendendo, senza lasciarsi limitare dalle barriere ideali che schieramenti e scuole tentano di porre attorno a sé. 1.2 Tre epoche: uno sguardo a volo d’uccello sulla storia delle forme narrative Tra tutti i concetti di cui la critica letteraria fa uso, il genere letterario è forse il primo in assoluto con cui entriamo in contatto, ed è anche, in particolare, una di quelle categorie per le quali le definizioni teoriche proliferano ma i confini materiali latitano. In linea di principio, qua26 1. sull’evoluzione dei generi e dei concetti lunque persona mediamente istruita sa che cos’è un genere: come tutte le nozioni che la cultura occidentale ritiene “di base”, questo concetto compare sporadicamente lungo il percorso scolastico primario e secondario, e sebbene solitamente non sia oggetto di particolari approfondimenti, e venga liquidato con definizioni standard come “particolare forma di composizione letteraria”, “particolare maniera di scrivere”, “particolare tipologia stilistica e/o testuale”, le sue coordinate generali sono più o meno chiare a chiunque. Per contro, proprio come tutte le nozioni che la cultura occidentale ritiene “di base”, questa comune sensazione di familiarità con l’idea di genere dipende in effetti da una semplificazione, sedimentata nel senso comune fino a diventare un’astrazione e a sganciarsi completamente dall’esperienza della lettura. Uno dei dogmi dell’insegnamento scolastico della letteratura è: in principio era il mito, uno e indivisibile. Dal che deriva irreparabilmente il formarsi dell’idea che più una cultura procede nella storia, più diventa cavillosa nei confronti dei propri prodotti, e che il bisogno di distinguere un racconto da una novella sia in fin dei conti qualcosa di accademico e inautentico. All’inizio del secolo scorso, l’antropologo Bronislaw Malinowski, studiando la cultura degli indigeni della Nuova Guinea, si rese conto che le narrazioni orali che stava registrando venivano divise, da coloro che le producevano, in diversi sottogruppi ben definiti: il racconto inventato (fairy tail), inteso esclusivamente a intrattenere il pubblico, la leggenda (legend), che racconta eventi considerati storicamente veri, e il mito vero e proprio (myth), che «non è invenzione, come potrebbe essere un romanzo, ma è realtà vivente, che si crede accaduta in tempi primordiali, e che perdura tanto da influenzare il mondo e i destini umani [...] è l’espressione, la valorizzazione, la codificazione di un credo; difende e rinforza la moralità; garantisce l’efficacia del rito, e contiene pratiche che guidano l’uomo» (Malinowski, 1976, pp. 9-10)3. Ora, a prescindere dal merito delle interpretazioni, l’esistenza di 3. Come è stato giustamente notato, l’uso di myth, legend e fairy tail per identificare le varie classi di racconti riscontrate da Malinowski è solo parzialmente appropriato: «Si è certo potuto credere di trovare in alcune categorizzazioni esotiche delle narrazioni la conferma della vulgata triadica elaborata dagli Europei. Tuttavia, l’equivalenza è sempre stabilita a prezzo o di un’evidente forzatura, oppure dopo una serie di excusationes relative all’indeterminatezza che contraddistingue sempre la definizione di categorie indigene» (Calame, 1999, p. 32). 27 leggere storie questa tripartizione è rivelatrice. Oggi in antropologia (e nelle scienze umane in generale) l’idea che le popolazioni indigene rappresentino una fase arretrata delle culture occidentali, e possano quindi fornire materiale per comprendere gli stadi più antichi della nostra civiltà, è abbondantemente superata; tuttavia il semplice fatto di riscontrare, in una cultura che non condivide la nostra articolazione accademica del sapere, una così chiara e consapevole sensibilità al valore delle forme letterarie (dove «letterarie» è in questo caso da intendersi in senso lato) è una prova del fatto che questo sfuggente concetto di genere ha una sua vita reale ed esiste al di fuori delle scuole e di qualunque speculazione teorica. La storia e l’articolazione critico-teorica del concetto di genere sono talmente vaste, e hanno coinvolto talmente tanti ambiti, da quelli più prettamente letterari a quelli filosofici e cognitivi, che anche solo tentare di darne qui un rapido riassunto sarebbe impossibile. Quello che possiamo dire in questa sede è che, riducendo la questione ai suoi minimi termini, il valore dei generi consiste nella loro capacità di moltiplicare le nostre possibilità espressive: le forme dell’arte, in generale, non sono infinite, e le forme dell’arte che ogni epoca ha a disposizione – cioè quelle che in un dato tempo i produttori di opere d’arte considerano utilizzabili – sono un numero decisamente limitato. Tuttavia, la mente umana ha la capacità di attribuire a una singola forma significati diversi in base al contesto in cui essa si trova, e in tal modo supplisce a una carenza di quantità con una moltiplicazione di qualità: una forma di compensazione che è possibile comprendere solo attraverso lo studio di questo differenziale qualitativo, sia in sincronia, attraverso il confronto delle modalità con cui una certa tecnica artistica si manifesta in una data epoca, sia in diacronia, osservando la linea evolutiva che, per successive imitazioni o per successivi contrasti, ha condotto questa tecnica ad attuarsi in modi via via differenti. È per questo, in ultima analisi, che lo studio dei generi ci permette di conoscere meglio non solo la storia della letteratura, ma anche la storia della cultura in generale, e in un certo senso la storia di quelle che Wittgenstein ha chiamato forme di vita: grandi accordi collettivi sui significati generali della realtà e dell’esistenza, raggiunti grazie alla mediazione del linguaggio, spesso impliciti o inconsapevoli, il cui variare segna in modo più profondo di qualunque evento esteriore l’avvicendarsi delle fasi dell’evoluzione umana (cfr. Wittgenstein, 2009). In Anatomia della critica, Northrop Frye (1969) raccoglieva i possi28 1. sull’evoluzione dei generi e dei concetti bili tipi di rappresentazione letteraria in tre modi principali: a un’estremità il mito, che tratta di realtà soprannaturali, lontane dall’esperienza umana, all’altra il realismo, che si basa sulla descrizione fedele della vita umana quotidiana, e nella vasta area intermedia il romance, che consiste nel tentativo di fondere la dimensione fantastica del mito con la dimensione umana, creando storie ambientate in questo mondo, ma costruite secondo modelli che tendono a indirizzarle su forme idealizzate. Benché da un punto di vista prettamente storiografico questa ripartizione non possa che apparire grossolana, dal punto di vista dello studio delle forme di vita essa coglie perfettamente le fasi della storia del pensiero umano. Di conseguenza, visto che l’obiettivo primario delle pagine che seguono è di presentare gli strumenti dell’analisi narrativa in relazione all’idea che ogni aspetto dell’arte, e nel nostro caso specifico della letteratura narrativa, sia profondamente legato all’epoca in cui è nato e, nelle sue trasformazioni, alle epoche che ha attraversato, si farà riferimento a uno schema storico tripartito, che sul modello di quello di Frye si dividerà principalmente in tre momenti: l’epoca antica, caratterizzata da quelle che Lukács (2004) ha definito «civiltà conchiuse», sistemi culturali in cui gli individui avevano piena fiducia nella verità assoluta delle loro credenze, e si sentivano rappresentati dai miti e dalle opere che raccontavano la fondazione di queste credenze; l’epoca premoderna, chiusa tra i traumi del Medioevo barbarico e della Rivoluzione francese, e caratterizzata dal predominio delle strutture morali e pedagogiche cristiane e dall’ansia di pervenire a forme artistiche perfette, capaci di raccogliere l’eredità del mondo antico riproducendone i modelli; e infine l’epoca moderna, segnata dal trionfo dell’ordine sociale borghese e del realismo come forma espressiva capace di dare voce a tale condizione. 29