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ISSN 1593-7305 LA NUOVA GIURISPRUDENZA CIVILE COMMENTATA RIVISTA MENSILE ANNO XXXII a cura di GUIDO ALPA E PAOLO ZATTI Tariffa R.O.C.: Poste Italiane S.p.a. - Sped. in abb. post. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB Milano La Rivista contribuisce a sostenere la ricerca giusprivatistica nell’Università di Padova 3/2016 edicolaprofessionale.com/NGCC Cessione d'azienda e limitazione della responsabilità del cessionario in danno del creditore: un nuovo caso di abuso del diritto? di Valerio Brizzolari Sinergie Grafiche srl n Parte prima Sentenze commentate vessatorietà Gaggero, Trasparenza del contratto e rimedi di autotutela, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2013, 461 ss. Invoca l’intervento del legislatore o dell’IVASS in materia Magni, La clausola claims made tra atipicità del contratto, inesistenza del rischio e limitazione di respon- sabilità, in Giur. it., 2011, 4, 842. Sulle prospettive de iure condendo in ambito sanitario Bosa, Il contratto di assicurazione professionale tra mercato e recenti normative, in Nuove leggi civ. comm., 2015, 2, 267 ss. n Azienda TRIB. REGGIO EMILIA, 16.6.2015 – G. Un. Morlini – L.B. S.n.c. (avv.ti Ruffini) – F.A. (avv. Travaglini) Azienda – Cessione d’azienda a società di nuova costituzione – Coincidenza della compagine sociale – Credito nei confronti del cedente non risultante dalle scritture contabili – Esecuzione forzata nei confronti del cessionario – Limitazione della responsabilità del cessionario – Esclusione per esercizio abusivo del diritto (cod. civ., art. 2560; cod. proc. civ., artt. 111, 480, 615) La cessione dell’azienda da parte di una società, successivamente posta in liquidazione, in favore di un’altra di nuova costituzione, con compagine sociale del tutto o quasi coincidente con la prima, non può valere a rendere inesigibili i crediti vantati dal terzo nei confronti del soggetto cedente, in quanto la pretesa del cessionario di limitare la sua responsabilità relativamente al credito non risultante dalle scritture contabili, ai sensi dell’art. 2560, comma 2, cod. civ., configura un esercizio abusivo del suo diritto previsto dall’indicata disposizione (nella specie è stata negata, pertanto, al cessionario la possibilità di opporsi al precetto basato su un titolo giudiziale ottenuto dal terzo nei confronti del cedente). dal testo: Il fatto. Con la presente procedura, L.B. s.n.c. propone opposizione avverso un precetto intimatole da A.F., sul presupposto che il titolo esecutivo alla base del precetto è stato ottenuto nei confronti del diverso soggetto giuridico L.B. s.r.l.; che L.B. s.n.c., prima della formazione del titolo esecutivo, ha acquistato l’azienda da L.B. s.r.l., ma, trattandosi di cessione d’azienda e non già di successione nel diritto controverso, il titolo esecutivo non può essere opposto alla cessionaria ex art. 111 comma 4 c.p.c.; che parimenti inapplicabile è l’estensione di responsabilità a carico del cessionario prevista dall’articolo 2560 comma 2 c.c., atteso che il debito non risulta dai libri contabili. Pertanto e sulla base di tale narrativa, l’opponente domanda l’annullamento del precetto. Costituendosi in giudizio, resiste A., deducendo l’esistenza di un raggiro ai suoi danni ad opera di controparte ed invocando, ex aliis, la tematica dell’abuso del diritto. (Omissis) I motivi. a) I fatti rilevanti ai fini della decisione, incontestati e provati per tabulas, sono i seguenti: a seguito di una controversia giurisdizionale iniziata nel 2009, con sentenza del 2013 il dottor A. ha ottenuto un titolo esecutivo giudiziale nei confronti di L.B. s.r.l. per il pagamento di compensi professionali; nel corso della controversia, L.B. s.r.l. ha interamente ceduto la propria azienda, comprensiva di ogni cespite ed attività, a L.B. s.n.c. di L.C.E. e S., società all’uopo costituita; appena operata la cessione, la s.r.l. è stata posta in liquidazione, mentre la s.n.c. ha proseguito nella medesima attività commerciale in precedenza esercitata dalla s.r.l.; le due società hanno compagine sociale quasi iden- 372 tica e comunque sovrapponibile, atteso che la s.r.l. vedeva come socie le tre sorelle L., S. e C.L.C., mentre la s.n.c. è composta da L. e S.L.C.; ed atteso altresı̀ che L.L.C. era amministratrice della s.r.l. e S.L.C. liquidatrice, mentre entrambe le sorelle sono poi divenute amministratrici della s.n.c. b) Sulla base di quanto sopra, deve darsi atto alla difesa di parte opponente che non si è in presenza di una successione a titolo particolare nel diritto controverso, bensı̀ di una cessione d’azienda, di talché la sentenza pronunciata nei confronti di L.B. s.r.l. non esplica in via diretta i suoi effetti nei confronti di L.B. s.n.c. ai sensi dell’articolo 111 comma 4 c.p.c., norma appunto dettata in tema di successione nel diritto e non già in tema di cessione d’azienda. Parimenti, L.B. s.n.c. non può essere chiamata a rispondere in via diretta del debito del cedente ex art. 2560 comma 2 c.c., norma astrattamente applicabile alla cessione d’azienda, ma in concreto inapplicabile poiché non risulta integrato il necessario presupposto fattuale, e cioè che il debito per cui è causa risulta dai libri contabili obbligatori. c) Tuttavia, l’opponente L.B. s.n.c. deve comunque essere chiamata a rispondere del debito contratto dalla cedente L.B. s.r.l. nei confronti di A., sulla base della teorica dell’abuso del diritto, essendo stata posta in essere una operazione societaria esclusivamente finalizzata all’elusione della pretesa creditoria di A. stesso. Sul punto, deve innanzitutto osservarsi che il nostro codice civile, a differenza di altri sistemi codicistici europei, non contiene una previsione generale di divieto di esercizio del diritto in modo abusivo, ma solo specifiche disposizioni in cui viene sanzionato l’abuso con riferimento all’esercizio di determinate posizioni soggettive. La principale di queste fattispecie è certamente quella del NGCC 3/2016 Sinergie Grafiche srl n Sentenze commentate Parte prima divieto di atti emulativi di cui all’art. 833 c.c., che la dottrina, estendendo il dato meramente letterale, riferisce non solo alla proprietà, ma anche a tutti i diritti reali di godimento. Pur se è la principale, quella dell’art. 833 c.c. non è l’unica ipotesi inquadrata nella categoria del divieto di abuso del diritto. Altri casi sono infatti sicuramente quelli della minaccia di far valere un diritto (art. 1438 c.c.), del divieto di concorrenza sleale (art. 2598 c.c.), del divieto per il proprietario del suolo di impedire attività che si svolgano ad altezza o profondità tali per le quali non vi è interesse ad escluderle (art. 840, comma 3, c.c.), dell’obbligo di accettare immissioni che non eccedano la normale tollerabilità (art. 844, comma 1, c.c.), dell’abuso dei poteri del genitore (art. 330 c.c.), dell’abuso dell’usufruttuario e del creditore pignoratizio (artt. 1015 e 2793 c.c.). Inoltre, vi sono situazioni specificamente disciplinate che rappresentano indici normativi per dimostrare la sensibilità del diritto vigente al problema dell’abuso: art. 1447 c.c. sul contratto concluso in stato di pericolo; art. 1448 c.c. sulla rescissione per lesione; art. 1328 c.c. sulla revoca dell’accettazione nel caso di inizio in buona fede dell’esecuzione del contratto; art. 81 c.c. sul risarcimento del danno seguente alla rottura della promessa di matrimonio; art. 1341 c.c. sulle clausole vessatorie. Ribadito allora che manca nell’ordinamento civilistico una generale previsione normativa di divieto di abuso del diritto, essendo disciplinate solo specifiche ipotesi di abuso, sorge in tutta evidenza il problema di comprendere se da tali singole ipotesi possa o meno enuclearsi una categoria generale che fondi il principio generale di divieto di esercizio del diritto in modo abusivo e preveda che il diritto soggettivo cessi di ricevere tutela, laddove sia esercitato per una finalità che ecceda i limiti stabiliti dalla legge. In sostanza, ci si chiede se possano essere colpiti quei comportamenti che, pur integrando formalmente gli estremi dell’esercizio di un diritto, sulla base di criteri non formali ed alla luce di circostanze concrete, debbano ritenersi privi di tutela o addirittura illeciti. A tale quesito la Dottrina ormai nettamente maggioritaria offre una risposta positiva. Nessun diritto, si argomenta, può infatti considerarsi illimitato, ed occorre allora reprimere quei comportamenti che sono abusivi pur non rientrando in precisi schemi normativi esistenti, posto che non omne quod licet honestum est. In sostanza, sin dalla fine degli anni Cinquanta, si è consolidato il passaggio della figura dell’abuso del diritto, dall’area del metagiuridico e sociale dei valori etico-morali, all’area della vera e propria giuridicità. Ciò si deve agli studi di insigni giuristi, i quali hanno evidenziato come di abuso può parlarsi in tutti quei casi in cui si verifica un’alterazione della funzione obbiettiva dell’atto rispetto al potere di autonomia che lo configura, o perché si registra un’alterazione del fattore causale, o perché si realizza una condotta contraria alla buona fede ovvero comunque lesiva della buona fede altrui. In sostanza, l’abuso del diritto è correlato o a un’alterazione, nel caso concreto, della funzione causale posta dall’ordinamento a presidio della fattispecie; o alla violazione del dovere di buona fede. NGCC 3/2016 Analogamente, la giurisprudenza, collegando la tematica dell’abuso a quella del dovere di agire secondo buona fede oggettiva, riconosce oggi un principio generale di divieto di abuso del diritto, non accordando tutela a quei comportamenti in contrasto con tale precetto (tra le più recenti, cfr. Cass. n. 10568/2013, Cass. n. 17642/2012, Cass. n. 13208/ 2010, Cass. n. 20106/2009), ritenendo che la fattispecie si verifichi allorché ‘‘l’esercizio del diritto da parte del titolare si esplicita attraverso l’uso abnorme delle relative facoltà ed è indirizzato a un fine diverso da quello tutelato dalla norma’’ (massima consolidata sin da Cass. n. 9501/1995). È infatti noto che il principio di buona fede permea tutta la disciplina della materia contrattuale, tanto da essere definito in dottrina come un principio supernormativo, teso a rettificare rapporti interprivatistici caratterizzati da irragionevolezza. Intesa come requisito della condotta, la buona fede costituisce infatti uno dei cardini della disciplina legale delle obbligazioni e forma oggetto di un vero e proprio dovere giuridico: tale dovere viene violato non solo nel caso in cui una delle parti abbia agito col proposito di recare pregiudizio all’altra, ma anche per il solo fatto che il comportamento da essa tenuto non sia risultato oggettivamente rispettoso della posizione di controparte. La buona fede assume in questo campo il significato oggettivo di correttezza e lealtà, divergendo quindi nettamente dallo stato soggettivo di buona fede in materia di possesso, di invalidità del contratto e di simulazione: qui si esprime il dovere di comportarsi secondo correttezza e lealtà; là si indica lo stato soggettivo di ignoranza di ledere l’altrui diritto (cfr. art. 1147 c.c.). La funzione della buona fede contrattuale, come d’altronde quella della correttezza dell’art. 1175 c.c. (che vale per tutte le obbligazioni e non solo per le obbligazioni da contratto), è allora quella di colmare le inevitabili lacune legislative che un sistema può avere e di funzionare quindi come norma di chiusura del sistema stesso. La legge prevede infatti solo le situazioni più frequenti, ed i principi di buona fede e correttezza sono cosı̀ clausole generali, inderogabili norme di ordine pubblico che consentono di identificare, nel caso concreto, nuovi divieti e nuovi obblighi idonei a meglio connotare la situazione delle parti. Pur se per anni la giurisprudenza ha utilizzato con cautela il principio di buona fede, più di recente l’orientamento appare mutato. Spiega infatti la Suprema Corte (ex pluribus e solo tra le più recenti, cfr. Cass. n. 22819/2010, Cass. n. 10182/2009, Cass. n. 5348/2009, Cass. n. 1618/2009, Cass. n. 28056/ 2008, Cass. n. 24733/2008, Cass. n. 21250/2008, Cass. n. 15476/2008) che si tratta di non disattendere quel dovere di solidarietà costituzionalizzato dall’art. 2 Cost. che, applicato ai contratti, ne determina integrativamente il contenuto (art. 1374 c.c.), orienta l’interpretazione (art. 1366 c.c.) e l’esecuzione (art. 1375 c.c.), nel rispetto del principio per il quale ciascun contraente è tenuto a salvaguardare l’interesse dell’altro se ciò non comporta un apprezzabile sacrificio del proprio interesse. Detto dell’intrinseco legame tra dovere di buona fede e divieto di abuso del diritto, quest’ultima figura è stata in particolare in giurisprudenza utilizzata, oltre che nella contrattualistica (cfr. Cass. n. 20106/2009 per un caso di abu- 373 Sinergie Grafiche srl n Parte prima Sentenze commentate sivo recesso contrattuale ad nutum e Cass. n. 13208/2010 per l’abuso dell’azione di risoluzione per inadempimento), soprattutto in materia societaria (ex pluribus, cfr. Cass. n. 13642/2013, Cass. n. 29776/2008, Cass. n. 27387/2005, Cass. n. 9353/2003), bancaria, spesso con riferimento all’arbitrario recesso dal contratto di apertura del credito (Cass. n. 18947/2005, Cass. n. 2642/2003, Cass. n. 9321/2000, Cass. n. 4583/1997) e tributaria (tra le tante, cfr. Cass. n. 17965/2013, Cass. n. 6835/2013, Cass. n. 12249/2010, Cass. Sez. Un. n. 15029/2009, Cass. Sez. Un. n. 30055-6-7/2008), per colpire comportamenti abusivi, nel senso di comportamenti preordinati a raggiungere fini diversi ed ulteriori rispetto a quelli tutelati dall’ordinamento. Un’interessante applicazione del principio è poi data anche da Cass. Sez. Un. n. 26617/2007 (conforme la successiva Cass. n. 17954/2008), secondo la quale, anche nelle obbligazioni pecuniarie di importo inferiore ad euro 12.500 e nelle quali non è imposta per legge una modalità di pagamento diversa dal contante, il pagamento in assegno circolare, in deroga al principio nominalistico di cui all’art. 1277 c.c., può essere rifiutato dal creditore solo per giustificato motivo da valutare secondo la regola della correttezza e della buona fede oggettiva. Gli elementi costitutivi dell’abuso sono allora tre: la titolarità di un diritto soggettivo, con possibilità di un suo utilizzo secondo una pluralità di modalità non rigidamente predeterminate; l’esercizio concreto del diritto in modo rispettoso della cornice attributiva, ma censurabile rispetto ad un criterio di valutazione giuridico od extragiuridico; la verificazione, a causa di tale modalità di utilizzo, di una sproporzione ingiustificata tra il beneficio del titolare ed il sacrificio cui è costretta la controparte (Cass. n. 20106/2009). Sotto questo profilo, l’abuso del diritto viene inteso come un principio generale dell’ordinamento, in quanto ‘‘criterio rivelatore della violazione dell’obbligo di buona fede oggettiva’’ (sempre Cass. n. 20106/2009). d) Quanto sopra offre le coordinate per risolvere, in senso favorevole all’opposto, il caso che qui occupa. Va infatti evidenziato che l’operazione economico-giuridica posta in essere da L.B s.r.l. – id est la cessione dell’intera azienda ad una società di neo costituzione avente una com- pagine sociale quasi identica alla propria, con contestuale messa in liquidazione della cedente e prosecuzione della medesima attività da parte della cessionaria, il tutto nel corso di un processo che ha visto la cedente stessa essere condannata al pagamento di una somma a favore di A. – appare operazione oggettivamente e sostanzialmente volta a rendere concretamente inesigibile il credito di A. stesso, e ad eludere quindi le sue ragioni creditorie. Infatti, il titolo esecutivo del creditore è cosı̀ divenuto opponibile solo nei confronti di una società non più esistente e svuotata da ogni patrimonio; ed inopponibile invece alla società sostanzialmente avente causa dalla prima, che con il suo patrimonio ne ha continuato l’attività. Né può essere accolta l’obiezione di parte opponente, secondo la quale l’operazione era finalizzata ad una riduzione dei costi amministrativi e fiscali e ad una migliore economia di gestione societaria. Sul punto, è infatti facile replicare che il medesimo risultato sarebbe stato raggiunto con una trasformazione societaria ex art. 2500 sexies c.p.c.; ed anzi, il fatto di avere mantenuto esistenti due società sostanzialmente coincidenti, sia pure per il solo periodo necessario alla liquidazione della prima, ha comportato un aumento di costi fiscali e amministrativi, per un verso del tutto inutili e per un altro verso inspiegabili se riferiti alla dedotta volontà di riduzione dei costi. L’operazione eseguita di cessione dell’intero patrimonio ad una società neocostituita con compagine sociale sostanzialmente identica, si spiega quindi non già con la volontà di una trasformazione societaria, quanto piuttosto con la volontà di rendere la nuova società, in prosecuzione della precedente, impermeabile rispetto alla situazione debitoria pregressa. Trattasi quindi, in conclusione, di un caso di abuso del diritto, tenuto conto del fatto che, in violazione del principio di buona fede, la cessione d’azienda è stata effettuata per un fine diverso da quello tutelato dalla norma e quindi con violazione della causa concreta del negozio. Discende che non può essere accordata tutela al comportamento posto in essere, ciò che comporta l’infondatezza dell’opposizione. (Omissis) «Cessione d’azienda e limitazione della responsabilità del cessionario in danno del creditore: un nuovo caso di abuso del diritto?» di Valerio Brizzolari* Il Tribunale di Reggio Emilia propone l’applicazione del principio dell’abuso del diritto al caso della cessione d’azienda. La decisione si inserisce nel solco di quella giurisprudenza che sempre più spesso ricorre al divieto dell’abuso per sanzionare l’esercizio del diritto che, formalmente, appare conforme alla legge, ma, nel modo e nelle circostanze in cui viene fatto valere, si rivela ‘‘abusivo’’ e rivolto al raggiungimento di un fine diverso da quello per il quale è stato previsto. Il Tribunale ha cosı̀ ritenuto la cessione intercorsa tra due società, dietro le quali vi erano i medesimi individui, come avente una finalità elusiva del debito e, pertanto, ha concesso al creditore di procedere con l’esecuzione forzata verso l’acquirente, pur in assenza del requisito di cui all’art. 2560, comma 2, cod. civ. per l’estensione della responsabilità al cessionario. * Contributo pubblicato in base a referee. 374 NGCC 3/2016 Sinergie Grafiche srl n Sentenze commentate Parte prima I. Il caso Nel corso del giudizio intentato dal creditore per veder riconosciuto il proprio credito nei confronti di una S.r.l., quest’ultima ha ceduto interamente la propria azienda a una S.n.c. avente la stessa denominazione della cedente. Terminata la cessione, la prima società è stata posta immediatamente in liquidazione; la S.n.c. di nuova costituzione ha proseguito invece la medesima attività della cedente. Il creditore, che nel frattempo ha ottenuto un titolo esecutivo giudiziale, notifica un precetto alla S.n.c., la quale propone l’opposizione decisa con la sentenza in esame. La società ha sostenuto di non essere responsabile né ex art. 111, comma 4, cod. proc. civ., in quanto, a suo dire, tale disposizione riguarda l’ipotesi della successione nel diritto (mentre nel caso di specie si tratta di una cessione d’azienda), né ex art. 2560, comma 2, cod. civ., atteso che il debito non risultava dai libri contabili. Il creditore, da parte sua, ha argomentato che la descritta operazione fosse in realtà un tentativo per rendere il suo credito non recuperabile, atteso che la cessionaria presentava una compagine sociale quasi del tutto identica alla cedente. I soggetti componenti le società, secondo la ricostruzione dell’opposto, avrebbero ‘‘svuotato’’ la S.r.l. per trasferire l’intera azienda alla S.n.c., cambiando cosı̀ il ‘‘contenitore’’ ma lasciando sostanzialmente inalterato il ‘‘contenuto’’, riproposto sotto un’altra forma societaria. Il Tribunale riconosce inizialmente la correttezza delle ragioni della S.n.c., ammettendo che in una situazione normale – per cosı̀ dire – la stessa potrebbe a ragione opporsi all’atto di precetto. Tuttavia, perviene alla conclusione opposta e alla dichiarazione del diritto del creditore a procedere contro la cessionaria. Più precisamente, partendo dal presupposto che i fatti di causa erano incontestati, e le considerazioni che seguono si basano su questo, il giudicante ha ritenuto che l’operazione mediante la quale la S.r.l. ha ceduto l’azienda alla S.n.c. sia servita unicamente a vanificare la pretesa creditoria. Ciò poiché i soggetti che hanno agito tramite le società avrebbero ‘‘architettato’’ e ‘‘strumentalizzato’’ la cessione al solo fine di impedire al creditore di recuperare il credito, senza tuttavia ottenere dall’operazione alcun giovamento meritevole di tutela. Dalla lettura del provvedimento sembra che sia stato attribuito alla condotta delle società un intento emulativo e fraudolento, ritenendo l’operazione non solo non produttiva di alcun vantaggio, ma anzi addirittura sfavorevole sotto il profilo dei costi amministrativi e fiscali. Infatti, per un determinato periodo, la s.r.l e la S.n.c. sono state mantenute in vita, seppur per quanto necessario a liquidare la prima, in un’ipotesi in cui sarebbe stata preferibile la trasformazione di cui all’art. 2500sexies cod. civ. NGCC 3/2016 Il Tribunale emiliano si è pronunciato sul diritto del creditore di mettere in esecuzione nei confronti del cessionario il titolo esecutivo ottenuto contro il cedente, nonostante l’assenza del requisito della risultanza del debito dai libri contabili per l’estensione della responsabilità, cosı̀ come previsto dalle disposizioni in tema di trasferimento d’azienda; nel risolvere la questione ha fatto ricorso al principio dell’abuso del diritto che era stato invocato in giudizio dalla difesa dell’opposto. II. Le questioni 1. Abuso del diritto e sue precedenti applicazioni. La pronuncia in esame presenta aspetti innovativi relativamente all’utilizzo del principio dell’abuso, poiché vi fa ricorso per ‘‘sovvertire’’ la soluzione cui si sarebbe dovuti pervenire se la disciplina codicistica fosse stata applicata normalmente. Nel caso di specie, il Tribunale ha stabilito il diritto del creditore a procedere nei confronti del cessionario anche in assenza del requisito della risultanza del debito dai libri obbligatori. Fin d’ora è opportuno rilevare che l’estensore della sentenza in commento è aduso alla teoria dell’abuso del diritto, utilizzata altresı̀ in un caso precedente relativo alle spese del precetto in rinnovazione: Trib. Reggio Emilia, 26.5.2014, infra, sez. III. Il principio in esame trova larga applicazione in molti ambiti (cfr. Rescigno, 240 ss., infra, sez. IV) e ciò emerge da numerose sentenze, sicuro indice di una diffusa conoscenza dell’abuso da parte della giurisprudenza. Nel caso di specie, il Tribunale richiama i presupposti della figura, cosı̀ come individuati dalla Cassazione (Cass., 18.9.2009, n. 20106, infra, sez. III): i) la titolarità di un diritto soggettivo e la possibilità di esercitarlo secondo modalità non rigidamente predeterminate; ii) il suo esercizio in modo rispettoso della cornice attributiva, ma censurabile rispetto ad un criterio di valutazione giuridico o extragiuridico; iii) una sproporzione ingiustificata tra il beneficio del titolare del diritto ed il sacrificio cui è soggetta la controparte. Inoltre, fa discendere il divieto dell’abuso dal dovere di buona fede oggettiva. La sentenza in commento propone un impiego del principio dell’abuso che, ad una prima lettura, sembrerebbe rispondere ad un’esigenza di giustizia sostanziale. Nel prosieguo, si cercherà di illustrare come probabilmente non era necessario ricorrervi, poiché vi sarebbero state vie alternative per il creditore, sia nel processo di opposizione al precetto, che al di fuori di esso. Al fine di verificare se tale l’impiego nel caso di specie sia in linea con le funzioni che gli vengono comunemente attribuite, è opportuno soffermarsi brevemente sulle posizioni della dottrina e le precedenti applicazioni del principio. 375 Sinergie Grafiche srl n Parte prima Sentenze commentate La configurabilità della figura dell’abuso del diritto non è pacifica. L’espressione di per sé già non depone a suo favore, in quanto è evidente che, cosı̀ formulata, contiene una contraddizione in termini; tuttavia, con essa si vuole indicare il fatto che il titolare utilizzi in modo improprio, eccessivo e pertanto illecito il diritto che gli compete (Sacco, 359, infra, sez. IV), pur esercitando una delle facoltà astrattamente riconosciute dalla legge. In breve, non si tratta della violazione di una norma vigente, bensı̀ di un impiego non previsto della stessa (Gualazzini, 163, infra, sez. IV), con il proposito di approfittarne in danno altrui. L’abuso del diritto è stato inquadrato richiamando il rapporto di corrispondenza tra l’autonomia conferita in generale ai singoli e l’atto mediante il quale costoro esercitano il loro potere. Si è detto, a questo proposito, che l’autonomia privata è volta alla cura d’interessi ed è meritevole di tutela nel momento in cui l’atto posto in essere corrisponde alla funzione per la quale quell’atto è previsto; sicché il non esercizio o l’esercizio secondo criteri diversi da quelli imposti dalla natura della funzione può considerarsi abuso in ordine a quel potere (Salv. Romano, 168 ss., infra, sez. IV). Taluno ha sostenuto l’inesistenza del principio in esame, argomentando che il diritto soggettivo sarebbe limitato dal principio della solidarietà. Ogni atto contrario alla buona fede oppure alla correttezza si porrebbe fuori dal contenuto del diritto, essendo piuttosto un eccesso dello stesso, che come tale è da intendersi illecito secondo le norme generali (Santoro-Passarelli, 77, infra, sez. IV); dunque, senza necessità di ricorrere a costruzioni ulteriori. Di qui la difficoltà a giustificare il principio in discorso, se non addirittura la sua superfluità. Altri hanno sostenuto, invece, l’impossibilità di trovare spazio prima logico e poi giuridico a una siffatta categoria, poiché o la condotta è conforme al diritto oppure non lo è, con la conseguenza che, rispettivamente, si produrranno gli effetti prestabiliti oppure no (Orlandi, 130, infra, sez. IV). Gli atti abusivi, inoltre, sarebbero in verità illeciti e, in quanto tali e lesivi dell’altrui interesse, rientrerebbero sotto il raggio d’azione della responsabilità aquiliana (Orlandi, 138). Le teorie che negano la configurabilità dell’abuso del diritto, sebbene autorevolmente sostenute, come si vedrà, non hanno trovato riscontro nella giurisprudenza; più complesso appare il discorso relativamente alla legislazione. Nel nostro ordinamento il divieto non è espressamente sancito, ma il problema fu preso in considerazione più di una volta prima dell’entrata in vigore dell’attuale codice civile. Il ‘‘Progetto di codice delle obbligazioni e dei contratti comune all’Italia e alla Francia’’, all’art. 74, stabiliva la responsabilità in capo a colui che avesse cagionato un danno a seguito dell’esercizio del suo diritto travalicando i limiti posti 376 dalla buona fede e dallo scopo per il quale il diritto medesimo era riconosciuto. Una previsione simile all’ultima parte di quella appena riportata fu inserita successivamente all’art. 7 del ‘‘Progetto definitivo sulla pubblicazione e l’applicazione della legge in generale’’. Nessuna delle due, com’è noto, ha mai visto la luce. La seconda, in particolare, fu osteggiata poiché sospettata di poter divenire uno strumento di ricognizione dell’autonomia privata, orientato alla funzione sociale del diritto, e lesiva del principio della certezza di quest’ultimo (Barcellona, 480, infra, sez. IV). La dottrina ha tentato di affermare comunque la sua esistenza in via interpretativa, attraverso un processo induttivo mediante il quale, movendo dalle disposizioni note, si potesse risalire al principio. In altri termini, ci si è chiesti se dalle numerose singole disposizioni che colpiscono l’esercizio abusivo di un diritto, fosse possibile ricavare una regola generale. Come già detto, il divieto inizialmente previsto nei suddetti progetti di codice fu soppresso, e ciò potrebbe costituire di per sé la prova che l’intenzione del legislatore fosse quella di non prevederlo. Una più approfondita indagine in verità dimostra che si preferı̀ rinviare ai singoli istituti la formulazione specifica del divieto (d’Amelio, 96, nt. 10, infra, sez. IV). Correttamente si è parlato, a questo proposito, di «decentramento» e «decostruzione» dell’abuso, per evitare l’ambiguità di una siffatta formula (Barcellona, 484), riconducibile a un problema di teoria generale del diritto difficilmente traducibile in termini precettivi (Salv. Romano, 166). Quanto precede, tuttavia, non conferma né smentisce la configurabilità di un divieto generale. In dottrina si registrano posizioni discordi. A sostegno dell’assenza del divieto si è insistito sulla diversità dei criteri fissati dalle singole disposizioni reprimenti l’abuso, che ne renderebbe impossibile la ricostruzione (S. Patti, 4, infra, sez. IV). Solo per citare alcune dalle quali generalmente si induce il divieto, si vedano l’art. 833 cod. civ., che colpisce l’inutile dannoso, oppure l’art. 1345 cod. civ., che riguarda l’illiceità dei motivi. Ciascuna di esse, in altri termini, secondo coloro che negano l’esistenza di un principio generale, ha un campo d’azione limitato e il loro insieme non può fondare un principio comune, poiché nulla hanno in comune tra loro (Sacco, 356 ss.). Alla medesima conclusione giunge, ma per altra via, chi ha sostenuto l’improduttività sotto il profilo operativo della categoria dell’abuso (sospettando anche che potesse essere fonte d’equivoci), pur riconoscendole un significato in prospettiva storica, nel senso che essa si inquadra nel più ampio fenomeno della progressiva estensione del controllo giudiziale sull’autonomia privata (Salvi, 5, infra, sez. IV). Sul versante opposto, si collocano coloro che fanno discendere il divieto in discorso direttamente dall’art. 2 NGCC 3/2016 Sinergie Grafiche srl n Sentenze commentate Parte prima Cost. (Gazzoni, 57, infra, sez. IV) e la gran parte della giurisprudenza. Il Tribunale richiama proprio numerosi precedenti di legittimità per giustificare l’ormai pacifica vigenza di un principio generale. Uno degli ambiti nei quali si è maggiormente fatto ricorso all’abuso del diritto è quello contrattuale. Nota è la questione che ha riguardato l’esercizio del recesso ad nutum da parte del costruttore di automobili nei confronti dei rivenditori (Cass., 18.9.2009, n. 20106, cit.). In quell’occasione la Cassazione ha ritenuto l’esercizio di tale diritto ‘‘abusivo’’, in quanto in contrasto con il comportamento precedente del produttore che, da un lato, aveva indotto le controparti a ritenere che la relazione contrattuale sarebbe proseguita e, dall’altro, ha improvvisamente azionato il recesso dall’accordo. Questo precedente ha sollevato numerose critiche da parte della dottrina, non tanto per la soluzione, quanto piuttosto per il percorso logico-argomentativo seguito dalla Corte. A quest’ultima è stato difatti rimproverato di essersi servita dell’abuso del diritto per censurare il comportamento del recedente, quando invece si sarebbero potute percorrere altre vie (Gentili, 359 ss.; Nigro, 2564, entrambi infra, sez. IV). Sembra di poter muovere il medesimo rilievo, mutatis mutandis, alla sentenza in commento, come si vedrà nel par. seguente. Altro ambito nel quale si è fatto ampiamente ricorso al divieto è quello tributario, poiché si pone frequentemente il caso del contribuente che tramite operazioni formalmente lecite riesce ad ottenere un vantaggio fiscale, in mancanza di ragioni economicamente apprezzabili che le giustifichino. Qui la Supr. Corte ha affermato la vigenza di un generale principio antielusivo, desumibile dal dettato costituzionale (Cass., 23.12.2008, n. 30055, infra, sez. III), secondo il quale il contribuente non può, appunto, ‘‘abusare’’ degli strumenti giuridici che l’ordinamento predispone, poiché previsti ovviamente per scopi diversi dall’ottenere un risparmio sulle imposte. È evidente però che in questo ambito un forte aiuto proviene dal legislatore che, all’art. 10 bis della l. n. 212/2000, ha definito abusive «una o più operazioni prive di sostanza economica che, pur nel rispetto formale delle norme fiscali, realizzano essenzialmente vantaggi fiscali indebiti». In ogni caso, non è mancato chi, a ragione, ha messo in luce le possibili ricadute di un siffatto principio, soprattutto in relazione alla compressione dell’autonomia privata (Corasantini, 222, infra, sez. IV). È proprio l’autonomia privata il punto di vista privilegiato dal quale osservare l’abuso, poiché se da un lato è ormai pacifico che l’assolutezza dei diritti non appartiene al nostro secolo, dall’altro si tratta di stabilire però quali e quanti siano i limiti di detta autonomia (Macario, 61 ss., infra, sez. IV). Ovvero, in quale misura è possibile tutelare l’agire privato, posto che nella vita di relazione è inimmaginabile che l’atto di NGCC 3/2016 qualcuno non si riverberi su qualcun altro. In definitiva, si tratta di ricercare il limite del diritto quando esso non è fissato dalla legge (d’Amelio, 96, nt. 10). Pare opportuno, a questo punto, passare ad illustrare, per quanto possibile, il rapporto tra la figura dell’abuso del diritto e gli altri princı̀pi ai quali tale figura è stata, anche dalla sentenza in commento, accostata. 2. Il rapporto tra l’abuso del diritto ed altre figure affini. Possibili soluzioni alternative nel caso di specie. Il Tribunale, innanzitutto, illustra il rapporto tra la buona fede oggettiva e l’abuso del diritto e definisce il legame tra le due figure «intrinseco», aderendo a una ricostruzione diffusa soprattutto in giurisprudenza (contra Restivo, 212 ss., infra, sez. IV, ma sul punto si tornerà tra poco). Successivamente, si sofferma sull’elemento causale della cessione d’azienda, nel momento in cui afferma che è stata «in violazione del principio di buona fede [...] effettuata [...] con violazione della causa concreta». Quest’ultimo passaggio, tuttavia, non risulta condivisibile, poiché la sua naturale conclusione dovrebbe essere necessariamente la nullità del contratto. Il trasferimento d’azienda, invece, è tutt’altro che nullo, in quanto altrimenti non avrebbe senso consentire al creditore di procedere nei confronti di un soggetto che ha acquistato in forza di un contratto affetto da tale vizio. Dunque, non è chiaro come sia possibile conciliare l’illustrata violazione con una decisione che invece presuppone la validità del negozio. Appropriato, nei limiti in cui si dirà, è il rimando alla buona fede. Il fondamento del divieto generale dell’abuso del diritto inizialmente era rintracciato nell’art. 833 cod. civ., con la conseguenza che i presupposti per aversi un abuso coincidevano con quelli previsti per gli atti emulativi (in breve, assenza di utilità e animus nocendi) (Viaro, 19 ss., infra, sez. IV). Successivamente, a causa delle problematiche create da questa ricostruzione, legate anche alla difficoltà di provare i suddetti requisiti, si è spostata l’attenzione su altre disposizioni che potessero giustificare il principio in discorso (Rescigno, 232 ss.). La ricerca di un nuovo fondamento del divieto è dipesa da almeno due ragioni. In primo luogo, il ruolo sempre maggiore che la buona fede ha assunto con il passare del tempo, sicché da un momento iniziale nel quale dottrina e giurisprudenza erano tendenzialmente restie all’utilizzo di tale regola di condotta (S. Patti, 6), si è passati al momento presente, in cui se ne fa larghissimo uso. In secondo luogo, probabilmente, l’esperienza tedesca ha influito sulla nostra. In Germania, difatti, il divieto dell’abuso è espressamente codificato al § 226 del BGB, il quale vieta l’esercizio del diritto se lo scopo è solamente quello di provocare danno ad altri (S. Patti, 2 ss.). Tuttavia, quando si è trattato di sanzionare un atto abusivo, si è fatto generalmente 377 Sinergie Grafiche srl n Parte prima Sentenze commentate ricorso al § 242, secondo il quale il debitore deve eseguire la prestazione come esige la buona fede con riguardo ai costumi del traffico, ponendo cosı̀ dei criteri tutto sommato oggettivi, o comunque meno evanescenti di quelli di cui al § 226, che richiede invece l’intenzione di nuocere. Il riferimento a quest’ultimo è stato abbandonato proprio a fronte della difficoltà di dimostrare tale animus, analogamente a quanto è avvenuto in Italia relativamente all’art. 833 cod. civ. Il principio dell’abuso del diritto cosı̀ è divenuto in Germania un metodo di controllo del giudice sull’esercizio dei diritti delle parti e sul bilanciamento dei loro contrapposti interessi (S. Patti, 3). In altri termini, uno strumento di controllo sulla loro autonomia (Ranieri, 330, infra, sez. IV). La giurisprudenza, da parte sua, ha indistintamente (e forse, alternativamente) fatto ricorso alla buona fede e all’abuso, quasi fossero un’endiadi, per sanzionare comportamenti che, impropriamente e per generalizzare, si potrebbero definire ‘‘scorretti’’. Prova ne è la sentenza in commento, ma anche altri precedenti di legittimità (Cass., 31.5.2010, n. 13208; Cass., 16.10.2003, n. 15482, entrambe infra, sez. III). Ciò ha provocato senz’altro l’inconveniente di cui si è già detto a proposito del caso del recesso ad nutum deciso dalla Cassazione, ossia l’utilizzo improprio dell’abuso del diritto per sanzionare condotte che sarebbero state sanzionabili sotto altri profili. È possibile sostenere che il divieto dell’abuso trovi il proprio fondamento nella buona fede, ma ciò non significa che i due elementi si possano sovrapporre o far coincidere. L’accostamento operato dalla giurisprudenza tra le due figure, difatti, non è parso del tutto condivisibile per diverse ragioni. Senza richiamare l’annoso dibattito che ha investito le diverse concezioni (e funzioni) del principio della buona fede oggettiva, è stato affermato che la valutazione che il giudice deve compiere quando gli viene sottoposto un caso di abuso è ben diversa da quella che deve operare nelle ipotesi in cui si trovi a dover accertare la violazione di una regola di correttezza. Nel primo caso, egli dovrà valutare la conformità della condotta supposta abusiva con l’interesse sotteso all’ascrizione del diritto. In altri termini, dovrà valutare la coerenza, la proporzionalità e la pertinenza della condotta con riferimento all’interesse cui avrebbe dovuto essere orientata (Restivo, 250). Nel secondo, invece, opererà un bilanciamento di interessi, senza creare egli stesso una regola in base alla quale risolvere il conflitto, ma realizzando nel caso concreto l’assetto di interessi che a monte è stato già prefigurato dal legislatore, individuando nella correttezza la misura delle due sfere di libertà in antitesi (Restivo, 251 ss.). Sempre nel rilevare la differenza tra le due figure, si è inoltre detto che l’abuso, a differenza della buona fede, non consiste nell’imposizione di regole di condotta ulteriori a quelle che le parti si sono date o alle quali 378 debbono obbedienza in quanto previste dalla legge, ma è soltanto un controllo sullo svolgimento della condotta medesima oltre l’osservanza formale della regola (Salvi, 3). Ciò risulta condivisibile, poiché la buona fede da sola non è in grado di spiegare tutte le ipotesi di abuso. Per quanto sia possibile dilatare il suo campo d’azione, vi saranno sempre casi nei quali la stessa non potrà trovare evidentemente applicazione. Valgano alcuni esempi. Si pensi al caso (Cass., 5.6.2014, n. 12744, infra, sez. III) del soggetto che prima provochi la prescrizione del reato mediante una strategia processuale dilatoria e poi proponga domanda di indennizzo per irragionevole durata del processo. Domanda che ovviamente andrà rigettata, poiché cosı̀ prevede, ma solo dal 2012, l’art. 2 quinquies, lett. d), l. n. 89/2001. Ma anche prima di tale data, la soluzione sarebbe stata comunque la stessa per ovvie ragioni, che però non consistono nel ricorso alla buona fede, almeno in senso codicistico. Oppure, si pensi, ad esempio, all’esercizio delle libertà fondamentali (Rescigno, 261 ss.) e più in generale all’esercizio dei diritti all’infuori d’una relazione contrattuale. In definitiva, voler rintracciare il fondamento dell’abuso unicamente nella buona fede, significa confinarne l’operatività ai soli rapporti obbligatori, il che cosı̀ non è, poiché la casistica dimostra che esso ha trovato larga applicazione in molti altri ambiti (perviene alla medesima conclusione, relativamente all’exceptio doli generalis, Meruzzi, 456, infra, sez. IV). Emerge dunque l’opportunità di tenere distinte queste figure, se non altro per evitare che si ricorra all’abuso indiscriminatamente, come fosse un surrogato della buona fede e viceversa. Nel caso di specie si ritiene che probabilmente si sarebbe potuto evitare di ricorrere genericamente alla figura dell’abuso per consentire al creditore di procedere con l’esecuzione. Da un lato, almeno da ciò che risulta dalla lettura della sentenza, è fuor di dubbio che l’operazione intercorsa tra la S.r.l. e la S.n.c. fosse volta unicamente a rendere più difficile il recupero del credito; dall’altro, sembra che la scorrettezza e la malizia dei soggetti che componevano le società sia consistita nell’utilizzo appunto malizioso e scorretto dell’eccezione che hanno sollevato, ossia la non risultanza del debito dai libri contabili. Occorre tuttavia analizzare più da vicino le difese spiegate dalla società opponente. Il Tribunale ne riconosce la correttezza in astratto e, relativamente all’argomento che richiama l’art. 111 cod. proc. civ., afferma che nella specie non vi sarebbe stata una successione nel diritto a titolo particolare. La pronuncia resa nei confronti della S.r.l., stando alla sentenza in commento, non potrebbe dunque spiegare i propri effetti verso la S.n.c. ai sensi del comma 4 della disposizione da ultimo citata, poiché essa riguarda la successione nel diritto e non il trasferimento d’azienda. Non è chiaro, tuttavia, se questa affermazione abbia carattere genera- NGCC 3/2016 Sinergie Grafiche srl n Sentenze commentate Parte prima le o si riferisca solo al caso di specie, nel quale effettivamente la sentenza resa contro la cedente non avrebbe potuto spiegare i propri effetti verso la cessionaria, ma per altri motivi. In ogni caso, la cessione d’azienda costituisce proprio un’ipotesi di successione nel diritto a titolo particolare, per cui la generalità dei rapporti sorti prima del trasferimento passa al cessionario; tanto è vero che la Cassazione ha ritenuto opponibile a quest’ultimo il titolo relativo a un rapporto dell’impresa non del tutto esaurito ottenuto nei confronti del cedente, decidendo un caso simile a quello in esame (Cass., 12.3.2013, n. 6107, infra, sez. III). Inoltre, l’acquirente, proprio in quanto successore, è legittimato all’impugnazione della sentenza sfavorevole al venditore (Cass., 9.10.2013, n. 22918, infra, sez. III). Occorre tuttavia una precisazione: il regime fissato dall’art. 2560 cod. civ., con riferimento ai debiti dell’azienda ceduta, è destinato a trovare applicazione quando si tratti di debiti in sé soli considerati, e non anche quando essi si ricolleghino a posizioni contrattuali non ancora definite, in cui il cessionario sia subentrato a norma dell’art. 2558 cod. civ. (Cass., 12.3.2013, n. 6107, cit.). Dunque, l’affermazione del Tribunale secondo la quale il trasferimento d’azienda non sarebbe un caso di successione nel diritto a titolo particolare, sebbene inserita come un obiter dictum, è contraria all’indirizzo giurisprudenziale sul punto. Nel caso di specie l’inopponibilità del titolo alla S.n.c. sarebbe discesa semmai dalla mancanza del presupposto di cui all’art. 2560, comma 2º, cod. civ., poiché si trattava di un debito singolarmente considerato, relativo ad un rapporto esaurito, non contemplato nella contabilità. Con riferimento a quest’ultima disposizione, la Supr. Corte ritiene che in caso di cessione d’azienda la risultanza del debito dai libri obbligatori non può essere sostituita dalla prova che lo stesso era comunque conosciuto dall’acquirente (Cass., 10.11.2010, n. 22831, infra, sez. III). Pare evidente, tuttavia, come tale principio non possa trovare applicazione nel caso in cui, come nella specie, dietro il cedente e il cessionario vi siano i medesimi individui. Dunque, forse sarebbe stato sufficiente insistere sul profilo della conoscenza del debito per avere il medesimo risultato. La S.n.c. ha comunque eccepito la mancanza del requisito di cui all’art. 2560, comma 2, cod. civ. A questo punto il creditore avrebbe potuto sollevare l’exceptio doli generalis per vanificare tale difesa, poiché quest’ultima costituisce il rimedio specifico contro l’abuso del diritto (Piraino, 409, infra, sez. IV). Come è stato giustamente affermato, l’eccezione di dolo non deve essere necessariamente esplicitata, ma può risultare anche dal complesso delle argomentazioni di parte (Trib. Torino, 13.6.1983, infra, sez. III). Da un punto di vista sostanziale è vero che nulla sarebbe cambiato se fosse stata sollevata, ma si sarebbe potuto considerare l’eccezione di dolo come proposta, poiché v’e- NGCC 3/2016 rano i presupposti per ritenerla tale, almeno da quanto emerge dalla sentenza. Tradizionalmente con l’exceptio si identifica il rimedio mediante il quale si porta all’attenzione del giudice il fatto che il diritto, sebbene fondato, risulta, in concreto e nel momento stesso in cui viene fatto valere, scorretto e doloso, ovverosia ripugnante al comune giudizio con riferimento al dovere di lealtà nei rapporti umani (Pellizzi, 1075, infra, sez. IV). Una definizione che senz’altro rimanda non poco a quella dell’abuso del diritto. Non a caso, da più parti è stato evidenziato il fondamento comune delle due figure, che sarebbe da ravvisare, ancora una volta, nell’art. 1175 cod. civ. A parte i casi nei quali l’abuso consiste nell’esercizio di una facoltà connessa al godimento di un bene (vedi gli atti emulativi), si è detto che l’exceptio è in grado di coprire la gran parte di tutte le altre ipotesi di abuso (Pellizzi, 1077). Di qui la tendenziale sovrapposizione delle due figure secondo alcuni (Conforti, 973; Dolmetta, 5; Romeo, 981; Venosta, 530, tutti infra, sez. IV) e secondo la giurisprudenza (Cass., 11.12.2000, n. 15592, infra, sez. III). Tuttavia, bisogna dare atto della posizione di coloro che hanno tentato di illustrare diversamente il rapporto tra l’abuso del diritto e l’eccezione di dolo. In primo luogo, quest’ultima ha un ambito di applicazione più ristretto rispetto all’abuso, dato che opera evidentemente solo sul piano processuale (Venosta, 529; Ranieri, 326, nt. 91). In secondo luogo, il divieto dell’abuso è sicuramente uno strumento di sindacato più flessibile rispetto all’eccezione di dolo, senza contare le numerose ulteriori differenze sotto il profilo dell’origine storica degli istituti in discorso (Meruzzi, 457 ss.). Pare allora che buona fede, abuso del diritto ed exceptio siano da distinguere, anche se condividono la medesima ratio, che consiste nell’attribuzione al giudice di un potere di controllo sul concreto esercizio dei diritti soggettivi, volto a verificarne la congruità sia con i valori fondamentali espressi dall’ordinamento che con le finalità insite nel loro normale esercizio (Meruzzi, 460). Ancora una volta, si ritiene che si sarebbe potuto evitare di ricorrere genericamente all’abuso del diritto e che l’utilizzo indiscriminato di tale figura abbia fatto sı̀ che la stessa oramai sia diventata una mera formula verbale (D’Angelo, La buona fede e l’esecuzione del contratto, 795, infra, sez. IV). A voler essere rigorosi, si dovrebbe anche rilevare che nel caso di specie il creditore avrebbe potuto agire nei confronti dei soci e dei liquidatori ex art. 2495, comma 2º, cod. civ., poiché la s.r.l cedente è stata posta in liquidazione (e, si suppone, successivamente cancellata: Cass., 12.3.2013, n. 6070, infra, sez. III); avrebbe poi potuto, in ipotesi, tentare la revoca della cessione d’azienda ex art. 2901 cod. civ. in separato giudizio, oppure domandare il fallimento della società cedente. Tuttavia, non 379 Sinergie Grafiche srl n Parte prima Sentenze commentate è dato sapere se tali strade sono state intraprese o erano percorribili. Dalla vicenda emerge cosı̀ che il principio dell’abuso del diritto può trovare posto nel nostro ordinamento, poiché vive nelle soluzioni giurisprudenziali e tale conclusione è stata avanzata anche relativamente agli ordinamenti di common law (Panzani, 715; Perillo, 38 ss., entrambi infra, sez. IV), nei quali tradizionalmente si ritiene che la categoria dell’abuso sia inesistente. Sono però necessari alcuni avvertimenti. In primo luogo, la necessità di considerarlo un ‘‘rimedio’’ residuale, e questa esigenza è condivisa anche all’estero, ad esempio in Francia (Borghetti, 861, infra, sez. IV). L’esperienza dimostra infatti che la gran parte dei comportamenti ‘‘abusivi’’ può essere in verità sanzionata sotto altri profili. D’altra parte, taluno aveva già a suo tempo rilevato come occorresse «guardarsi dall’abuso dell’‘‘abuso del diritto’’» (d’Amelio, 96, nt. 10; Cataudella, 753, infra, sez. IV). In secondo luogo, con riferimento alla sentenza in commento, devesi rilevare che l’abusività non ha riguardato la cessione d’azienda in sé e per sé, poiché altrimenti non sarebbe possibile spiegare come la stessa sia, al contempo, efficace e ‘‘abusiva’’. Piuttosto, l’abuso è consistito nel predisporre il tutto al solo fine di sfruttare la limitazione della responsabilità e poi nell’invocare in giudizio tale limitazione. In altri termini, nel voler utilizzare a proprio vantaggio uno degli effetti della cessione a fronte della non risultanza del debito dai libri obbligatori, ossia l’impermeabilità della cessionaria alla situazione debitoria della cedente. Nella sostanza, il Tribunale, nell’ambito di una cessione perfettamente valida, ha escluso, con un intento sanzionatorio, se si vuole, che tale effetto si potesse produrre, consentendo al creditore di agire nei confronti dell’acquirente. Da un punto di vista strettamente formale, tuttavia, non si può non notare come rimanga un problema irrisolto, ossia l’aver fatto ricadere le conseguenze del comportamento ‘‘abusivo’’ su di un soggetto (la S.n.c.) formalmente diverso dal debitore originario (la S.r.l.) in assenza del requisito di cui all’art. 2560, comma 2, cod. civ. Tra l’altro, si rileva inoltre che, al postutto, autori dell’abuso non sono le società in questione, ma chi se n’è avvalso per eludere il debito della cedente. Dunque, la sentenza in commento rischia, sia consentita l’espressione, di non rendere giustizia all’abuso del diritto, poiché, da una prima lettura, sembra potersi ricavare dalla stessa un principio in base al quale il giudice può ‘‘scardinare’’ qualsivoglia regola in nome di una figura dai contorni evanescenti per esigenze di giustizia sostanziale; ma cosı̀ non pare ad una più attenta analisi. Ci si limita solamente a rilevare, in conclusione, come probabilmente si sarebbe giunti al medesimo risultato anche in assenza del ricorso, con tutti i rischi che ciò comporta, alla figura tanto tormentata dell’abuso del diritto, senza contare, inoltre, tutte le 380 altre tutele di cui si è già detto a disposizione dell’iniziativa creditore. III. I precedenti 1. Abuso del diritto e sue precedenti applicazioni. La giurisprudenza ha fatto ricorso al divieto dell’abuso del diritto in molti ambiti; la casistica è vasta e pertanto si riportano solo alcuni precedenti significativi. Per un precedente nello stesso ambito dell’opposizione al precetto, si veda Trib. Reggio Emilia, 26.5.2014, in DeJure. La nota vicenda del recesso ad nutum esercitato dal costruttore di automobili nei confronti dei concessionari, nell’ambito della quale sono stati individuati i presupposti dell’abuso del diritto, è stata decisa da Cass., 18.9.2009, n. 20106, in Foro it., 2010, I, 85, con nota di Palmieri e Pardolesi. Quest’ultima è stata poi ripresa relativamente ad un caso di recesso dal contratto di agenzia da Cass., 7.5.2013, n. 10568, in Lav. e giur., 2014, 269, con nota di Sangiovanni. Nel diritto delle società la giurisprudenza discorre di abuso di potere della maggioranza nei confronti della minoranza: Cass., 24.2.2014, n. 4388, in Rep. Foro it., 2014, voce «Società», n. 633. Si registrano tuttavia anche casi inversi, in cui il socio di minoranza, tramite il proprio voto, provoca un blocco del principio maggioritario con il solo scopo di nuocere agli altri soci o alla società medesima: Trib. Milano, 28.11.2014, in Giur. it., 2015, 1442, con nota di Monteverde. Frequente è il ricorso al principio dell’abuso anche in relazione all’agire in giudizio, ossia il c.d. abuso del processo. La Supr. Corte ha stabilito, ad esempio, che non è possibile frazionare il credito derivante da un unico rapporto obbligatorio in plurime richieste giudiziali: Cass., 15.11.2007, n. 23726, in Foro it., 2008, I, 1514, con nota di Palmieri e Pardolesi. Infine, è nel diritto tributario che il principio dell’abuso è stato utilizzato per rendere inopponibili all’Amministrazione finanziaria negozi e operazioni che avessero l’unico scopo di ottenere un vantaggio fiscale. Cosı̀ Cass., 23.12.2008, n. 30055, in Rep. Foro it., 2008, voce «Tributi in genere», n. 1745, ha affermato la vigenza, desumibile dal dettato costituzionale, di un generale principio antielusivo. In questo senso è stato deciso inoltre che l’interposizione del trust costituisce un abuso del diritto se non è giustificata da ragioni ulteriori rispetto al mero vantaggio tributario: Cass., 19.11.2012, n. 20254, in Rep. Foro it., voce «Tributi in genere», n. 1030. 2. Il rapporto tra l’abuso del diritto ed altre figure affini. Possibili soluzioni alternative nel caso di specie. Fanno discendere il divieto dell’abuso del diritto dai doveri di buona fede e correttezza: Cass., 31.5.2010, n. NGCC 3/2016 Sinergie Grafiche srl n Sentenze commentate Parte prima 13208, in Giust. civ., 2011, I, 2925; e Cass., 16.10.2003, n. 15482, in questa Rivista, 2004, I, 305, con nota di Grondona. Sul collegamento tra abuso ed exceptio doli generalis, si veda invece Cass., 11.12.2000, n. 15592, in Giust. civ., 2001, I, 2439, con nota di Costanza; e Trib. Torino, 13.6.1983, in Resp. civ. e prev., 1983, 815, con nota di Gambaro. Configurano il trasferimento d’azienda come un’ipotesi di successione nel diritto a titolo particolare: Cass., 9.10.2013, n. 22918, in Rep. Foro it., 2013, voce «Impugnazioni civili», n. 34; e Cass., 12.3.2013, n. 6107, ibidem, voce «Azienda», n. 9. Sull’irrilevanza della conoscenza aliunde dei debiti dell’azienda ceduta si veda Cass., 10.11.2010, n. 22831, ivi, 2010, voce «Azienda», n. 17. Invece, sulla richiesta d’indennizzo per irragionevole durata del processo provocata dalla parte medesima a seguito di una strategia difensiva dilatoria, Cass., 5.6.2014, n. 12744, in Resp. civ. e prev., 2014, 1356. Sulla responsabilità residua dei soci successivamente alla cancellazione della società, si veda Cass., 12.3.2013, n. 6070, in Foro it., 2014, I, 228, con nota di Proto Pisani. IV. La dottrina 1. Abuso del diritto e sue precedenti applicazioni. La letteratura in tema di abuso del diritto è vastissima. Non si può prescindere dal contributo di Rescigno, L’abuso del diritto, in Riv. dir. civ., 1965, I, 205 ss., dal quale sono tratte le citazioni (ora Id., L’abuso del diritto, Il mulino, 1998). Si vedano poi i seguenti contributi: Gazzoni, Manuale di diritto privato, Edizioni Scientifiche Italiane, 2015; M. Barcellona, L’abuso del diritto: dalla funzione sociale alla regolazione teleologicamente orientata del traffico giuridico, in Riv. dir. civ., 2014, 467 ss.; Galgano, Qui suo iure abutitur neminem laedit?, in Contr. e impr., 2011, 311 ss.; Nigro, Brevi note in tema di abuso del diritto (anche per un tentativo di emancipazione dalla buona fede), in Giust. civ., 2010, 11, I, 2547 ss.; Orlandi, Contro l’abuso del diritto (in margine a Cass., 18.9.2009, n. 20106), in questa Rivista, 2010, II, 129 ss.; Gentili, Abuso del diritto e uso dell’argomentazione, in Resp. civ. e prev., 2010, 2, 345 ss.; Corasantini, Sul generale divieto di abuso del diritto nell’ordinamento tributario, in Obbl. e contr., 2009, 3, 212 ss.; Restivo, Contributo ad una teoria dell’abuso del diritto, Giuffrè, 2007; Salvi, voce «Abuso del diritto, I) Diritto civile», in Enc. giur. Treccani, I, Ed. Enc. It., 2007, 1 ss.; D’Angelo, La buona fede, nel Trattato di diritto privato, diretto da Bessone, XIII, 4, Giappichelli, 2004; Sacco, L’abuso del diritto, in Sacco-De Nova, Il diritto soggettivo, nel Trattato di diritto civile, diretto da Sacco, Utet, 2001, 309 ss.; S. Patti, voce «Abuso del diritto», nel Digesto NGCC 3/2016 IV ed., Disc. priv., sez. civ., I, Utet, 1994, 1 ss.; F. Santoro-Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, Jovene, 1983; d’Amelio, voce «Abuso del diritto», nel Noviss. Digesto it., I, Utet, 1968, 95 ss.; Gualazzini, voce «Abuso del diritto, b) Diritto intermedio», in Enc. del dir., I, Giuffrè, 1958, 163 ss.; Salv. Romano, voce «Abuso del diritto, c) Diritto attuale», ibidem, 166 ss. Per un’analisi comparatistica: Panzani, Abuso del diritto. Profili di diritto comparato con particolare riferimento alla disciplina dell’insolvenza transfrontaliera, in Giust. civ., 2014, 3, 693 ss.; Gambaro, Abuse of rights in civil law tradition, in Eur. Rev. Private Law, 1995, 561 ss.; Gambaro, voce «Abuso del diritto, II) Diritto comparato e straniero», in Enc. giur. Treccani, I, Ed. Enc. It, 1988, 1 ss. Sull’abuso del diritto nella letteratura francese si veda senz’altro Josserand, De l’abus des droits, A. Rousseau (Parigi), 1905; e Borghetti, L’abuso del diritto in Francia, in Contr. e impr., 2015, 847 ss. Per una panoramica sull’esperienza statunitense si veda Perillo, Abuse of Rights: A Pervasive Legal Concept, in Pacific Law Journal, 1995, 27, 37 ss. Con riferimento ai rapporti tra autonomia privata e principi costituzionali, v. Macario, voce «Autonomia privata (Profili costituzionali)», in Enc. del dir., Annali, VIII, Giuffrè, 2015, 61 ss. 2. Il rapporto tra l’abuso del diritto ed altre figure affini. Possibili soluzioni alternative nel caso di specie. L’abuso del diritto è stato studiato spesso assieme ad altri princı̀pi con i quali si ritiene abbia diverse affinità. Per l’approfondimento dei suoi rapporti con la buona fede e l’exceptio doli generalis si vedano: Piraino, La buona fede in senso oggettivo,Giappichelli, 2015, 343 ss.; Meruzzi, L’Exceptio doli dal diritto civile al diritto commerciale, Cedam, 2005, 323 ss.; Conforti, Fraus omnia corrumpit, in I Contratti, 2014, 11, 969 ss.; Cataudella, L’uso abusivo di princı̀pi, in Riv. dir. civ., 2014, 4, 747 ss.; Romeo, Exceptio doli generalis ed exceptio doli specialis, in Contratti, 2007, 11, 980 ss.; Viaro, Abuso del diritto ed eccezione di dolo generale, in L’eccezione di dolo generale. Applicazioni giurisprudenziali e teoriche dottrinali, a cura di Garofalo, Cedam, 2006; Dolmetta, voce «Exceptio doli generalis», in Enc. giur. Treccani, XV, Ed. Enc. it, 1997, 1 ss.; F. Ranieri, voce «Eccezione di dolo generale», nel Digesto IV ed., Disc. priv. sez. civ., VII, Utet, 1994, 311 ss.; D’Angelo, La buona fede e l’esecuzione del contratto, in I contratti in generale, diretto da Alpa e Bessone, nella Giurisprudenza Bigiavi, IV, 2, Utet, 1991, 759 ss.; Venosta, Note sull’exceptio doli generalis, in Banca, borsa e tit. cred., 1989, 525 ss.; Pellizzi, voce «Exceptio doli (diritto civile)», nel Noviss. Digesto it., VI, Utet, 1968, 1074 ss. 381