ISSN 1593-7305
LA NUOVA
GIURISPRUDENZA
CIVILE COMMENTATA
RIVISTA MENSILE
ANNO XXXII
a cura di
GUIDO ALPA E PAOLO ZATTI
Tariffa R.O.C.: Poste Italiane S.p.a. - Sped. in abb. post. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB Milano
La Rivista contribuisce a sostenere la ricerca
giusprivatistica nell’Università di Padova
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Cessione d'azienda e limitazione
della responsabilità del cessionario in danno
del creditore: un nuovo caso di abuso del diritto?
di Valerio Brizzolari
Sinergie Grafiche srl
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Parte prima Sentenze commentate
vessatorietà Gaggero, Trasparenza del contratto e rimedi di autotutela, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2013,
461 ss. Invoca l’intervento del legislatore o dell’IVASS
in materia Magni, La clausola claims made tra atipicità
del contratto, inesistenza del rischio e limitazione di respon-
sabilità, in Giur. it., 2011, 4, 842. Sulle prospettive de
iure condendo in ambito sanitario Bosa, Il contratto di
assicurazione professionale tra mercato e recenti normative,
in Nuove leggi civ. comm., 2015, 2, 267 ss.
n Azienda
TRIB. REGGIO EMILIA, 16.6.2015 – G. Un. Morlini – L.B. S.n.c. (avv.ti Ruffini) – F.A. (avv. Travaglini)
Azienda – Cessione d’azienda a società di nuova costituzione – Coincidenza della compagine
sociale – Credito nei confronti del cedente non risultante dalle scritture contabili – Esecuzione forzata nei confronti del cessionario – Limitazione della responsabilità del cessionario – Esclusione per esercizio abusivo del diritto (cod. civ., art. 2560; cod. proc. civ., artt. 111, 480,
615)
La cessione dell’azienda da parte di una società, successivamente posta in liquidazione, in favore di un’altra di
nuova costituzione, con compagine sociale del tutto o quasi coincidente con la prima, non può valere a rendere
inesigibili i crediti vantati dal terzo nei confronti del soggetto cedente, in quanto la pretesa del cessionario di
limitare la sua responsabilità relativamente al credito non risultante dalle scritture contabili, ai sensi dell’art.
2560, comma 2, cod. civ., configura un esercizio abusivo del suo diritto previsto dall’indicata disposizione
(nella specie è stata negata, pertanto, al cessionario la possibilità di opporsi al precetto basato su un titolo
giudiziale ottenuto dal terzo nei confronti del cedente).
dal testo:
Il fatto. Con la presente procedura, L.B. s.n.c. propone
opposizione avverso un precetto intimatole da A.F., sul presupposto che il titolo esecutivo alla base del precetto è stato
ottenuto nei confronti del diverso soggetto giuridico L.B.
s.r.l.; che L.B. s.n.c., prima della formazione del titolo esecutivo, ha acquistato l’azienda da L.B. s.r.l., ma, trattandosi
di cessione d’azienda e non già di successione nel diritto
controverso, il titolo esecutivo non può essere opposto alla
cessionaria ex art. 111 comma 4 c.p.c.; che parimenti inapplicabile è l’estensione di responsabilità a carico del cessionario prevista dall’articolo 2560 comma 2 c.c., atteso che il
debito non risulta dai libri contabili. Pertanto e sulla base di
tale narrativa, l’opponente domanda l’annullamento del
precetto. Costituendosi in giudizio, resiste A., deducendo
l’esistenza di un raggiro ai suoi danni ad opera di controparte
ed invocando, ex aliis, la tematica dell’abuso del diritto.
(Omissis)
I motivi. a) I fatti rilevanti ai fini della decisione, incontestati e provati per tabulas, sono i seguenti: a seguito di una
controversia giurisdizionale iniziata nel 2009, con sentenza
del 2013 il dottor A. ha ottenuto un titolo esecutivo giudiziale nei confronti di L.B. s.r.l. per il pagamento di compensi
professionali; nel corso della controversia, L.B. s.r.l. ha interamente ceduto la propria azienda, comprensiva di ogni
cespite ed attività, a L.B. s.n.c. di L.C.E. e S., società all’uopo costituita; appena operata la cessione, la s.r.l. è stata
posta in liquidazione, mentre la s.n.c. ha proseguito nella
medesima attività commerciale in precedenza esercitata dalla s.r.l.; le due società hanno compagine sociale quasi iden-
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tica e comunque sovrapponibile, atteso che la s.r.l. vedeva
come socie le tre sorelle L., S. e C.L.C., mentre la s.n.c. è
composta da L. e S.L.C.; ed atteso altresı̀ che L.L.C. era
amministratrice della s.r.l. e S.L.C. liquidatrice, mentre entrambe le sorelle sono poi divenute amministratrici della
s.n.c.
b) Sulla base di quanto sopra, deve darsi atto alla difesa di
parte opponente che non si è in presenza di una successione
a titolo particolare nel diritto controverso, bensı̀ di una
cessione d’azienda, di talché la sentenza pronunciata nei
confronti di L.B. s.r.l. non esplica in via diretta i suoi effetti
nei confronti di L.B. s.n.c. ai sensi dell’articolo 111 comma
4 c.p.c., norma appunto dettata in tema di successione nel
diritto e non già in tema di cessione d’azienda.
Parimenti, L.B. s.n.c. non può essere chiamata a rispondere in via diretta del debito del cedente ex art. 2560 comma 2 c.c., norma astrattamente applicabile alla cessione
d’azienda, ma in concreto inapplicabile poiché non risulta
integrato il necessario presupposto fattuale, e cioè che il
debito per cui è causa risulta dai libri contabili obbligatori.
c) Tuttavia, l’opponente L.B. s.n.c. deve comunque essere
chiamata a rispondere del debito contratto dalla cedente
L.B. s.r.l. nei confronti di A., sulla base della teorica dell’abuso del diritto, essendo stata posta in essere una operazione
societaria esclusivamente finalizzata all’elusione della pretesa creditoria di A. stesso.
Sul punto, deve innanzitutto osservarsi che il nostro codice civile, a differenza di altri sistemi codicistici europei,
non contiene una previsione generale di divieto di esercizio
del diritto in modo abusivo, ma solo specifiche disposizioni
in cui viene sanzionato l’abuso con riferimento all’esercizio
di determinate posizioni soggettive.
La principale di queste fattispecie è certamente quella del
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Sentenze commentate Parte prima
divieto di atti emulativi di cui all’art. 833 c.c., che la dottrina, estendendo il dato meramente letterale, riferisce non
solo alla proprietà, ma anche a tutti i diritti reali di godimento.
Pur se è la principale, quella dell’art. 833 c.c. non è l’unica
ipotesi inquadrata nella categoria del divieto di abuso del
diritto.
Altri casi sono infatti sicuramente quelli della minaccia di
far valere un diritto (art. 1438 c.c.), del divieto di concorrenza sleale (art. 2598 c.c.), del divieto per il proprietario
del suolo di impedire attività che si svolgano ad altezza o
profondità tali per le quali non vi è interesse ad escluderle
(art. 840, comma 3, c.c.), dell’obbligo di accettare immissioni che non eccedano la normale tollerabilità (art. 844,
comma 1, c.c.), dell’abuso dei poteri del genitore (art. 330
c.c.), dell’abuso dell’usufruttuario e del creditore pignoratizio (artt. 1015 e 2793 c.c.).
Inoltre, vi sono situazioni specificamente disciplinate che
rappresentano indici normativi per dimostrare la sensibilità
del diritto vigente al problema dell’abuso: art. 1447 c.c. sul
contratto concluso in stato di pericolo; art. 1448 c.c. sulla
rescissione per lesione; art. 1328 c.c. sulla revoca dell’accettazione nel caso di inizio in buona fede dell’esecuzione del
contratto; art. 81 c.c. sul risarcimento del danno seguente
alla rottura della promessa di matrimonio; art. 1341 c.c. sulle
clausole vessatorie.
Ribadito allora che manca nell’ordinamento civilistico
una generale previsione normativa di divieto di abuso del
diritto, essendo disciplinate solo specifiche ipotesi di abuso,
sorge in tutta evidenza il problema di comprendere se da tali
singole ipotesi possa o meno enuclearsi una categoria generale che fondi il principio generale di divieto di esercizio del
diritto in modo abusivo e preveda che il diritto soggettivo
cessi di ricevere tutela, laddove sia esercitato per una finalità
che ecceda i limiti stabiliti dalla legge.
In sostanza, ci si chiede se possano essere colpiti quei
comportamenti che, pur integrando formalmente gli estremi
dell’esercizio di un diritto, sulla base di criteri non formali ed
alla luce di circostanze concrete, debbano ritenersi privi di
tutela o addirittura illeciti.
A tale quesito la Dottrina ormai nettamente maggioritaria
offre una risposta positiva.
Nessun diritto, si argomenta, può infatti considerarsi illimitato, ed occorre allora reprimere quei comportamenti che
sono abusivi pur non rientrando in precisi schemi normativi
esistenti, posto che non omne quod licet honestum est.
In sostanza, sin dalla fine degli anni Cinquanta, si è consolidato il passaggio della figura dell’abuso del diritto, dall’area del metagiuridico e sociale dei valori etico-morali,
all’area della vera e propria giuridicità.
Ciò si deve agli studi di insigni giuristi, i quali hanno
evidenziato come di abuso può parlarsi in tutti quei casi in
cui si verifica un’alterazione della funzione obbiettiva dell’atto rispetto al potere di autonomia che lo configura, o
perché si registra un’alterazione del fattore causale, o perché
si realizza una condotta contraria alla buona fede ovvero
comunque lesiva della buona fede altrui.
In sostanza, l’abuso del diritto è correlato o a un’alterazione, nel caso concreto, della funzione causale posta dall’ordinamento a presidio della fattispecie; o alla violazione del
dovere di buona fede.
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Analogamente, la giurisprudenza, collegando la tematica
dell’abuso a quella del dovere di agire secondo buona fede
oggettiva, riconosce oggi un principio generale di divieto di
abuso del diritto, non accordando tutela a quei comportamenti in contrasto con tale precetto (tra le più recenti, cfr.
Cass. n. 10568/2013, Cass. n. 17642/2012, Cass. n. 13208/
2010, Cass. n. 20106/2009), ritenendo che la fattispecie si
verifichi allorché ‘‘l’esercizio del diritto da parte del titolare
si esplicita attraverso l’uso abnorme delle relative facoltà ed
è indirizzato a un fine diverso da quello tutelato dalla norma’’ (massima consolidata sin da Cass. n. 9501/1995).
È infatti noto che il principio di buona fede permea tutta
la disciplina della materia contrattuale, tanto da essere definito in dottrina come un principio supernormativo, teso a
rettificare rapporti interprivatistici caratterizzati da irragionevolezza.
Intesa come requisito della condotta, la buona fede costituisce infatti uno dei cardini della disciplina legale delle
obbligazioni e forma oggetto di un vero e proprio dovere
giuridico: tale dovere viene violato non solo nel caso in cui
una delle parti abbia agito col proposito di recare pregiudizio
all’altra, ma anche per il solo fatto che il comportamento da
essa tenuto non sia risultato oggettivamente rispettoso della
posizione di controparte.
La buona fede assume in questo campo il significato oggettivo di correttezza e lealtà, divergendo quindi nettamente
dallo stato soggettivo di buona fede in materia di possesso, di
invalidità del contratto e di simulazione: qui si esprime il
dovere di comportarsi secondo correttezza e lealtà; là si indica lo stato soggettivo di ignoranza di ledere l’altrui diritto
(cfr. art. 1147 c.c.).
La funzione della buona fede contrattuale, come d’altronde quella della correttezza dell’art. 1175 c.c. (che vale per
tutte le obbligazioni e non solo per le obbligazioni da contratto), è allora quella di colmare le inevitabili lacune legislative che un sistema può avere e di funzionare quindi come
norma di chiusura del sistema stesso.
La legge prevede infatti solo le situazioni più frequenti, ed
i principi di buona fede e correttezza sono cosı̀ clausole
generali, inderogabili norme di ordine pubblico che consentono di identificare, nel caso concreto, nuovi divieti e nuovi
obblighi idonei a meglio connotare la situazione delle parti.
Pur se per anni la giurisprudenza ha utilizzato con cautela
il principio di buona fede, più di recente l’orientamento
appare mutato.
Spiega infatti la Suprema Corte (ex pluribus e solo tra le
più recenti, cfr. Cass. n. 22819/2010, Cass. n. 10182/2009,
Cass. n. 5348/2009, Cass. n. 1618/2009, Cass. n. 28056/
2008, Cass. n. 24733/2008, Cass. n. 21250/2008, Cass. n.
15476/2008) che si tratta di non disattendere quel dovere di
solidarietà costituzionalizzato dall’art. 2 Cost. che, applicato
ai contratti, ne determina integrativamente il contenuto
(art. 1374 c.c.), orienta l’interpretazione (art. 1366 c.c.) e
l’esecuzione (art. 1375 c.c.), nel rispetto del principio per il
quale ciascun contraente è tenuto a salvaguardare l’interesse
dell’altro se ciò non comporta un apprezzabile sacrificio del
proprio interesse.
Detto dell’intrinseco legame tra dovere di buona fede e
divieto di abuso del diritto, quest’ultima figura è stata in
particolare in giurisprudenza utilizzata, oltre che nella contrattualistica (cfr. Cass. n. 20106/2009 per un caso di abu-
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Parte prima Sentenze commentate
sivo recesso contrattuale ad nutum e Cass. n. 13208/2010
per l’abuso dell’azione di risoluzione per inadempimento),
soprattutto in materia societaria (ex pluribus, cfr. Cass. n.
13642/2013, Cass. n. 29776/2008, Cass. n. 27387/2005,
Cass. n. 9353/2003), bancaria, spesso con riferimento all’arbitrario recesso dal contratto di apertura del credito (Cass.
n. 18947/2005, Cass. n. 2642/2003, Cass. n. 9321/2000,
Cass. n. 4583/1997) e tributaria (tra le tante, cfr. Cass. n.
17965/2013, Cass. n. 6835/2013, Cass. n. 12249/2010, Cass.
Sez. Un. n. 15029/2009, Cass. Sez. Un. n. 30055-6-7/2008),
per colpire comportamenti abusivi, nel senso di comportamenti preordinati a raggiungere fini diversi ed ulteriori rispetto a quelli tutelati dall’ordinamento.
Un’interessante applicazione del principio è poi data anche da Cass. Sez. Un. n. 26617/2007 (conforme la successiva Cass. n. 17954/2008), secondo la quale, anche nelle
obbligazioni pecuniarie di importo inferiore ad euro
12.500 e nelle quali non è imposta per legge una modalità
di pagamento diversa dal contante, il pagamento in assegno
circolare, in deroga al principio nominalistico di cui all’art.
1277 c.c., può essere rifiutato dal creditore solo per giustificato motivo da valutare secondo la regola della correttezza e
della buona fede oggettiva. Gli elementi costitutivi dell’abuso sono allora tre: la titolarità di un diritto soggettivo, con
possibilità di un suo utilizzo secondo una pluralità di modalità non rigidamente predeterminate; l’esercizio concreto del
diritto in modo rispettoso della cornice attributiva, ma censurabile rispetto ad un criterio di valutazione giuridico od
extragiuridico; la verificazione, a causa di tale modalità di
utilizzo, di una sproporzione ingiustificata tra il beneficio del
titolare ed il sacrificio cui è costretta la controparte (Cass. n.
20106/2009).
Sotto questo profilo, l’abuso del diritto viene inteso come
un principio generale dell’ordinamento, in quanto ‘‘criterio
rivelatore della violazione dell’obbligo di buona fede oggettiva’’ (sempre Cass. n. 20106/2009).
d) Quanto sopra offre le coordinate per risolvere, in senso
favorevole all’opposto, il caso che qui occupa.
Va infatti evidenziato che l’operazione economico-giuridica posta in essere da L.B s.r.l. – id est la cessione dell’intera
azienda ad una società di neo costituzione avente una com-
pagine sociale quasi identica alla propria, con contestuale
messa in liquidazione della cedente e prosecuzione della
medesima attività da parte della cessionaria, il tutto nel
corso di un processo che ha visto la cedente stessa essere
condannata al pagamento di una somma a favore di A. –
appare operazione oggettivamente e sostanzialmente volta a
rendere concretamente inesigibile il credito di A. stesso, e
ad eludere quindi le sue ragioni creditorie.
Infatti, il titolo esecutivo del creditore è cosı̀ divenuto
opponibile solo nei confronti di una società non più esistente e svuotata da ogni patrimonio; ed inopponibile invece
alla società sostanzialmente avente causa dalla prima, che
con il suo patrimonio ne ha continuato l’attività. Né può
essere accolta l’obiezione di parte opponente, secondo la
quale l’operazione era finalizzata ad una riduzione dei costi
amministrativi e fiscali e ad una migliore economia di gestione societaria.
Sul punto, è infatti facile replicare che il medesimo risultato sarebbe stato raggiunto con una trasformazione societaria ex art. 2500 sexies c.p.c.; ed anzi, il fatto di avere
mantenuto esistenti due società sostanzialmente coincidenti, sia pure per il solo periodo necessario alla liquidazione
della prima, ha comportato un aumento di costi fiscali e
amministrativi, per un verso del tutto inutili e per un altro
verso inspiegabili se riferiti alla dedotta volontà di riduzione
dei costi.
L’operazione eseguita di cessione dell’intero patrimonio ad
una società neocostituita con compagine sociale sostanzialmente identica, si spiega quindi non già con la volontà di
una trasformazione societaria, quanto piuttosto con la volontà di rendere la nuova società, in prosecuzione della
precedente, impermeabile rispetto alla situazione debitoria
pregressa.
Trattasi quindi, in conclusione, di un caso di abuso del
diritto, tenuto conto del fatto che, in violazione del principio di buona fede, la cessione d’azienda è stata effettuata per
un fine diverso da quello tutelato dalla norma e quindi con
violazione della causa concreta del negozio.
Discende che non può essere accordata tutela al comportamento posto in essere, ciò che comporta l’infondatezza
dell’opposizione. (Omissis)
«Cessione d’azienda e limitazione della responsabilità del cessionario in
danno del creditore: un nuovo caso di abuso del diritto?»
di Valerio Brizzolari*
Il Tribunale di Reggio Emilia propone l’applicazione del principio dell’abuso del diritto al caso della cessione
d’azienda. La decisione si inserisce nel solco di quella giurisprudenza che sempre più spesso ricorre al
divieto dell’abuso per sanzionare l’esercizio del diritto che, formalmente, appare conforme alla legge, ma,
nel modo e nelle circostanze in cui viene fatto valere, si rivela ‘‘abusivo’’ e rivolto al raggiungimento di un
fine diverso da quello per il quale è stato previsto. Il Tribunale ha cosı̀ ritenuto la cessione intercorsa tra
due società, dietro le quali vi erano i medesimi individui, come avente una finalità elusiva del debito e,
pertanto, ha concesso al creditore di procedere con l’esecuzione forzata verso l’acquirente, pur in assenza
del requisito di cui all’art. 2560, comma 2, cod. civ. per l’estensione della responsabilità al cessionario.
* Contributo pubblicato in base a referee.
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I. Il caso
Nel corso del giudizio intentato dal creditore per
veder riconosciuto il proprio credito nei confronti di
una S.r.l., quest’ultima ha ceduto interamente la propria azienda a una S.n.c. avente la stessa denominazione della cedente. Terminata la cessione, la prima società è stata posta immediatamente in liquidazione; la
S.n.c. di nuova costituzione ha proseguito invece la
medesima attività della cedente. Il creditore, che nel
frattempo ha ottenuto un titolo esecutivo giudiziale,
notifica un precetto alla S.n.c., la quale propone l’opposizione decisa con la sentenza in esame. La società
ha sostenuto di non essere responsabile né ex art. 111,
comma 4, cod. proc. civ., in quanto, a suo dire, tale
disposizione riguarda l’ipotesi della successione nel diritto (mentre nel caso di specie si tratta di una cessione
d’azienda), né ex art. 2560, comma 2, cod. civ., atteso
che il debito non risultava dai libri contabili. Il creditore, da parte sua, ha argomentato che la descritta
operazione fosse in realtà un tentativo per rendere il
suo credito non recuperabile, atteso che la cessionaria
presentava una compagine sociale quasi del tutto identica alla cedente. I soggetti componenti le società, secondo la ricostruzione dell’opposto, avrebbero ‘‘svuotato’’ la S.r.l. per trasferire l’intera azienda alla S.n.c.,
cambiando cosı̀ il ‘‘contenitore’’ ma lasciando sostanzialmente inalterato il ‘‘contenuto’’, riproposto sotto
un’altra forma societaria.
Il Tribunale riconosce inizialmente la correttezza delle ragioni della S.n.c., ammettendo che in una situazione normale – per cosı̀ dire – la stessa potrebbe a
ragione opporsi all’atto di precetto. Tuttavia, perviene
alla conclusione opposta e alla dichiarazione del diritto
del creditore a procedere contro la cessionaria. Più
precisamente, partendo dal presupposto che i fatti di
causa erano incontestati, e le considerazioni che seguono si basano su questo, il giudicante ha ritenuto che
l’operazione mediante la quale la S.r.l. ha ceduto l’azienda alla S.n.c. sia servita unicamente a vanificare la
pretesa creditoria. Ciò poiché i soggetti che hanno
agito tramite le società avrebbero ‘‘architettato’’ e
‘‘strumentalizzato’’ la cessione al solo fine di impedire
al creditore di recuperare il credito, senza tuttavia ottenere dall’operazione alcun giovamento meritevole di
tutela.
Dalla lettura del provvedimento sembra che sia stato
attribuito alla condotta delle società un intento emulativo e fraudolento, ritenendo l’operazione non solo
non produttiva di alcun vantaggio, ma anzi addirittura
sfavorevole sotto il profilo dei costi amministrativi e
fiscali. Infatti, per un determinato periodo, la s.r.l e la
S.n.c. sono state mantenute in vita, seppur per quanto
necessario a liquidare la prima, in un’ipotesi in cui
sarebbe stata preferibile la trasformazione di cui all’art.
2500sexies cod. civ.
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Il Tribunale emiliano si è pronunciato sul diritto del
creditore di mettere in esecuzione nei confronti del cessionario il titolo esecutivo ottenuto contro il cedente, nonostante l’assenza del requisito della risultanza del debito dai
libri contabili per l’estensione della responsabilità, cosı̀ come
previsto dalle disposizioni in tema di trasferimento d’azienda; nel risolvere la questione ha fatto ricorso al principio
dell’abuso del diritto che era stato invocato in giudizio
dalla difesa dell’opposto.
II. Le questioni
1. Abuso del diritto e sue precedenti applicazioni.
La pronuncia in esame presenta aspetti innovativi
relativamente all’utilizzo del principio dell’abuso, poiché vi fa ricorso per ‘‘sovvertire’’ la soluzione cui si
sarebbe dovuti pervenire se la disciplina codicistica
fosse stata applicata normalmente. Nel caso di specie,
il Tribunale ha stabilito il diritto del creditore a procedere nei confronti del cessionario anche in assenza
del requisito della risultanza del debito dai libri obbligatori. Fin d’ora è opportuno rilevare che l’estensore
della sentenza in commento è aduso alla teoria dell’abuso del diritto, utilizzata altresı̀ in un caso precedente
relativo alle spese del precetto in rinnovazione: Trib.
Reggio Emilia, 26.5.2014, infra, sez. III.
Il principio in esame trova larga applicazione in molti ambiti (cfr. Rescigno, 240 ss., infra, sez. IV) e ciò
emerge da numerose sentenze, sicuro indice di una
diffusa conoscenza dell’abuso da parte della giurisprudenza.
Nel caso di specie, il Tribunale richiama i presupposti della figura, cosı̀ come individuati dalla Cassazione
(Cass., 18.9.2009, n. 20106, infra, sez. III): i) la titolarità di un diritto soggettivo e la possibilità di esercitarlo secondo modalità non rigidamente predeterminate; ii) il suo esercizio in modo rispettoso della cornice
attributiva, ma censurabile rispetto ad un criterio di
valutazione giuridico o extragiuridico; iii) una sproporzione ingiustificata tra il beneficio del titolare del diritto ed il sacrificio cui è soggetta la controparte. Inoltre, fa discendere il divieto dell’abuso dal dovere di
buona fede oggettiva.
La sentenza in commento propone un impiego del
principio dell’abuso che, ad una prima lettura, sembrerebbe rispondere ad un’esigenza di giustizia sostanziale.
Nel prosieguo, si cercherà di illustrare come probabilmente non era necessario ricorrervi, poiché vi sarebbero state vie alternative per il creditore, sia nel processo di opposizione al precetto, che al di fuori di esso.
Al fine di verificare se tale l’impiego nel caso di
specie sia in linea con le funzioni che gli vengono
comunemente attribuite, è opportuno soffermarsi brevemente sulle posizioni della dottrina e le precedenti
applicazioni del principio.
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Parte prima Sentenze commentate
La configurabilità della figura dell’abuso del diritto
non è pacifica. L’espressione di per sé già non depone a
suo favore, in quanto è evidente che, cosı̀ formulata,
contiene una contraddizione in termini; tuttavia, con
essa si vuole indicare il fatto che il titolare utilizzi in
modo improprio, eccessivo e pertanto illecito il diritto
che gli compete (Sacco, 359, infra, sez. IV), pur esercitando una delle facoltà astrattamente riconosciute
dalla legge. In breve, non si tratta della violazione di
una norma vigente, bensı̀ di un impiego non previsto
della stessa (Gualazzini, 163, infra, sez. IV), con il
proposito di approfittarne in danno altrui.
L’abuso del diritto è stato inquadrato richiamando il
rapporto di corrispondenza tra l’autonomia conferita in
generale ai singoli e l’atto mediante il quale costoro
esercitano il loro potere. Si è detto, a questo proposito,
che l’autonomia privata è volta alla cura d’interessi ed
è meritevole di tutela nel momento in cui l’atto posto
in essere corrisponde alla funzione per la quale quell’atto è previsto; sicché il non esercizio o l’esercizio
secondo criteri diversi da quelli imposti dalla natura
della funzione può considerarsi abuso in ordine a quel
potere (Salv. Romano, 168 ss., infra, sez. IV).
Taluno ha sostenuto l’inesistenza del principio in
esame, argomentando che il diritto soggettivo sarebbe
limitato dal principio della solidarietà. Ogni atto contrario alla buona fede oppure alla correttezza si porrebbe fuori dal contenuto del diritto, essendo piuttosto un
eccesso dello stesso, che come tale è da intendersi
illecito secondo le norme generali (Santoro-Passarelli, 77, infra, sez. IV); dunque, senza necessità di
ricorrere a costruzioni ulteriori. Di qui la difficoltà a
giustificare il principio in discorso, se non addirittura la
sua superfluità. Altri hanno sostenuto, invece, l’impossibilità di trovare spazio prima logico e poi giuridico a
una siffatta categoria, poiché o la condotta è conforme
al diritto oppure non lo è, con la conseguenza che,
rispettivamente, si produrranno gli effetti prestabiliti
oppure no (Orlandi, 130, infra, sez. IV). Gli atti
abusivi, inoltre, sarebbero in verità illeciti e, in quanto
tali e lesivi dell’altrui interesse, rientrerebbero sotto il
raggio d’azione della responsabilità aquiliana (Orlandi, 138).
Le teorie che negano la configurabilità dell’abuso del
diritto, sebbene autorevolmente sostenute, come si vedrà, non hanno trovato riscontro nella giurisprudenza;
più complesso appare il discorso relativamente alla legislazione.
Nel nostro ordinamento il divieto non è espressamente sancito, ma il problema fu preso in considerazione più di una volta prima dell’entrata in vigore
dell’attuale codice civile. Il ‘‘Progetto di codice delle
obbligazioni e dei contratti comune all’Italia e alla
Francia’’, all’art. 74, stabiliva la responsabilità in capo
a colui che avesse cagionato un danno a seguito dell’esercizio del suo diritto travalicando i limiti posti
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dalla buona fede e dallo scopo per il quale il diritto
medesimo era riconosciuto. Una previsione simile all’ultima parte di quella appena riportata fu inserita
successivamente all’art. 7 del ‘‘Progetto definitivo sulla
pubblicazione e l’applicazione della legge in generale’’.
Nessuna delle due, com’è noto, ha mai visto la luce. La
seconda, in particolare, fu osteggiata poiché sospettata
di poter divenire uno strumento di ricognizione dell’autonomia privata, orientato alla funzione sociale del
diritto, e lesiva del principio della certezza di quest’ultimo (Barcellona, 480, infra, sez. IV).
La dottrina ha tentato di affermare comunque la sua
esistenza in via interpretativa, attraverso un processo
induttivo mediante il quale, movendo dalle disposizioni note, si potesse risalire al principio. In altri termini,
ci si è chiesti se dalle numerose singole disposizioni che
colpiscono l’esercizio abusivo di un diritto, fosse possibile ricavare una regola generale.
Come già detto, il divieto inizialmente previsto nei
suddetti progetti di codice fu soppresso, e ciò potrebbe
costituire di per sé la prova che l’intenzione del legislatore fosse quella di non prevederlo. Una più approfondita indagine in verità dimostra che si preferı̀ rinviare ai singoli istituti la formulazione specifica del
divieto (d’Amelio, 96, nt. 10, infra, sez. IV). Correttamente si è parlato, a questo proposito, di «decentramento» e «decostruzione» dell’abuso, per evitare l’ambiguità di una siffatta formula (Barcellona, 484), riconducibile a un problema di teoria generale del diritto
difficilmente traducibile in termini precettivi (Salv.
Romano, 166). Quanto precede, tuttavia, non conferma né smentisce la configurabilità di un divieto
generale.
In dottrina si registrano posizioni discordi. A sostegno dell’assenza del divieto si è insistito sulla diversità
dei criteri fissati dalle singole disposizioni reprimenti
l’abuso, che ne renderebbe impossibile la ricostruzione
(S. Patti, 4, infra, sez. IV). Solo per citare alcune dalle
quali generalmente si induce il divieto, si vedano l’art.
833 cod. civ., che colpisce l’inutile dannoso, oppure
l’art. 1345 cod. civ., che riguarda l’illiceità dei motivi.
Ciascuna di esse, in altri termini, secondo coloro che
negano l’esistenza di un principio generale, ha un campo d’azione limitato e il loro insieme non può fondare
un principio comune, poiché nulla hanno in comune
tra loro (Sacco, 356 ss.). Alla medesima conclusione
giunge, ma per altra via, chi ha sostenuto l’improduttività sotto il profilo operativo della categoria dell’abuso (sospettando anche che potesse essere fonte d’equivoci), pur riconoscendole un significato in prospettiva
storica, nel senso che essa si inquadra nel più ampio
fenomeno della progressiva estensione del controllo
giudiziale sull’autonomia privata (Salvi, 5, infra, sez.
IV).
Sul versante opposto, si collocano coloro che fanno
discendere il divieto in discorso direttamente dall’art. 2
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Sentenze commentate Parte prima
Cost. (Gazzoni, 57, infra, sez. IV) e la gran parte della
giurisprudenza. Il Tribunale richiama proprio numerosi
precedenti di legittimità per giustificare l’ormai pacifica vigenza di un principio generale.
Uno degli ambiti nei quali si è maggiormente fatto
ricorso all’abuso del diritto è quello contrattuale. Nota
è la questione che ha riguardato l’esercizio del recesso
ad nutum da parte del costruttore di automobili nei
confronti dei rivenditori (Cass., 18.9.2009, n.
20106, cit.). In quell’occasione la Cassazione ha ritenuto l’esercizio di tale diritto ‘‘abusivo’’, in quanto in
contrasto con il comportamento precedente del produttore che, da un lato, aveva indotto le controparti a
ritenere che la relazione contrattuale sarebbe proseguita e, dall’altro, ha improvvisamente azionato il recesso
dall’accordo. Questo precedente ha sollevato numerose
critiche da parte della dottrina, non tanto per la soluzione, quanto piuttosto per il percorso logico-argomentativo seguito dalla Corte. A quest’ultima è stato difatti
rimproverato di essersi servita dell’abuso del diritto per
censurare il comportamento del recedente, quando invece si sarebbero potute percorrere altre vie (Gentili,
359 ss.; Nigro, 2564, entrambi infra, sez. IV). Sembra
di poter muovere il medesimo rilievo, mutatis mutandis,
alla sentenza in commento, come si vedrà nel par.
seguente.
Altro ambito nel quale si è fatto ampiamente ricorso
al divieto è quello tributario, poiché si pone frequentemente il caso del contribuente che tramite operazioni formalmente lecite riesce ad ottenere un vantaggio
fiscale, in mancanza di ragioni economicamente apprezzabili che le giustifichino. Qui la Supr. Corte ha
affermato la vigenza di un generale principio antielusivo, desumibile dal dettato costituzionale (Cass.,
23.12.2008, n. 30055, infra, sez. III), secondo il quale
il contribuente non può, appunto, ‘‘abusare’’ degli strumenti giuridici che l’ordinamento predispone, poiché
previsti ovviamente per scopi diversi dall’ottenere un
risparmio sulle imposte. È evidente però che in questo
ambito un forte aiuto proviene dal legislatore che, all’art. 10 bis della l. n. 212/2000, ha definito abusive
«una o più operazioni prive di sostanza economica che,
pur nel rispetto formale delle norme fiscali, realizzano
essenzialmente vantaggi fiscali indebiti». In ogni caso,
non è mancato chi, a ragione, ha messo in luce le
possibili ricadute di un siffatto principio, soprattutto
in relazione alla compressione dell’autonomia privata
(Corasantini, 222, infra, sez. IV).
È proprio l’autonomia privata il punto di vista privilegiato dal quale osservare l’abuso, poiché se da un lato
è ormai pacifico che l’assolutezza dei diritti non appartiene al nostro secolo, dall’altro si tratta di stabilire
però quali e quanti siano i limiti di detta autonomia
(Macario, 61 ss., infra, sez. IV). Ovvero, in quale
misura è possibile tutelare l’agire privato, posto che
nella vita di relazione è inimmaginabile che l’atto di
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qualcuno non si riverberi su qualcun altro. In definitiva, si tratta di ricercare il limite del diritto quando esso
non è fissato dalla legge (d’Amelio, 96, nt. 10).
Pare opportuno, a questo punto, passare ad illustrare,
per quanto possibile, il rapporto tra la figura dell’abuso
del diritto e gli altri princı̀pi ai quali tale figura è stata,
anche dalla sentenza in commento, accostata.
2. Il rapporto tra l’abuso del diritto ed altre figure affini.
Possibili soluzioni alternative nel caso di specie.
Il Tribunale, innanzitutto, illustra il rapporto tra la
buona fede oggettiva e l’abuso del diritto e definisce il
legame tra le due figure «intrinseco», aderendo a una
ricostruzione diffusa soprattutto in giurisprudenza (contra Restivo, 212 ss., infra, sez. IV, ma sul punto si
tornerà tra poco). Successivamente, si sofferma sull’elemento causale della cessione d’azienda, nel momento
in cui afferma che è stata «in violazione del principio di
buona fede [...] effettuata [...] con violazione della causa
concreta». Quest’ultimo passaggio, tuttavia, non risulta
condivisibile, poiché la sua naturale conclusione dovrebbe essere necessariamente la nullità del contratto.
Il trasferimento d’azienda, invece, è tutt’altro che nullo, in quanto altrimenti non avrebbe senso consentire
al creditore di procedere nei confronti di un soggetto
che ha acquistato in forza di un contratto affetto da
tale vizio. Dunque, non è chiaro come sia possibile
conciliare l’illustrata violazione con una decisione
che invece presuppone la validità del negozio.
Appropriato, nei limiti in cui si dirà, è il rimando alla
buona fede. Il fondamento del divieto generale dell’abuso del diritto inizialmente era rintracciato nell’art.
833 cod. civ., con la conseguenza che i presupposti per
aversi un abuso coincidevano con quelli previsti per gli
atti emulativi (in breve, assenza di utilità e animus
nocendi) (Viaro, 19 ss., infra, sez. IV). Successivamente, a causa delle problematiche create da questa ricostruzione, legate anche alla difficoltà di provare i suddetti requisiti, si è spostata l’attenzione su altre disposizioni che potessero giustificare il principio in discorso
(Rescigno, 232 ss.).
La ricerca di un nuovo fondamento del divieto è
dipesa da almeno due ragioni. In primo luogo, il ruolo
sempre maggiore che la buona fede ha assunto con il
passare del tempo, sicché da un momento iniziale nel
quale dottrina e giurisprudenza erano tendenzialmente
restie all’utilizzo di tale regola di condotta (S. Patti,
6), si è passati al momento presente, in cui se ne fa
larghissimo uso. In secondo luogo, probabilmente, l’esperienza tedesca ha influito sulla nostra. In Germania,
difatti, il divieto dell’abuso è espressamente codificato
al § 226 del BGB, il quale vieta l’esercizio del diritto se
lo scopo è solamente quello di provocare danno ad
altri (S. Patti, 2 ss.). Tuttavia, quando si è trattato
di sanzionare un atto abusivo, si è fatto generalmente
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Parte prima Sentenze commentate
ricorso al § 242, secondo il quale il debitore deve
eseguire la prestazione come esige la buona fede con
riguardo ai costumi del traffico, ponendo cosı̀ dei criteri tutto sommato oggettivi, o comunque meno evanescenti di quelli di cui al § 226, che richiede invece
l’intenzione di nuocere. Il riferimento a quest’ultimo è
stato abbandonato proprio a fronte della difficoltà di
dimostrare tale animus, analogamente a quanto è avvenuto in Italia relativamente all’art. 833 cod. civ. Il
principio dell’abuso del diritto cosı̀ è divenuto in Germania un metodo di controllo del giudice sull’esercizio
dei diritti delle parti e sul bilanciamento dei loro contrapposti interessi (S. Patti, 3). In altri termini, uno
strumento di controllo sulla loro autonomia (Ranieri,
330, infra, sez. IV).
La giurisprudenza, da parte sua, ha indistintamente
(e forse, alternativamente) fatto ricorso alla buona fede
e all’abuso, quasi fossero un’endiadi, per sanzionare
comportamenti che, impropriamente e per generalizzare, si potrebbero definire ‘‘scorretti’’. Prova ne è la
sentenza in commento, ma anche altri precedenti di
legittimità (Cass., 31.5.2010, n. 13208; Cass.,
16.10.2003, n. 15482, entrambe infra, sez. III). Ciò
ha provocato senz’altro l’inconveniente di cui si è già
detto a proposito del caso del recesso ad nutum deciso
dalla Cassazione, ossia l’utilizzo improprio dell’abuso
del diritto per sanzionare condotte che sarebbero state
sanzionabili sotto altri profili.
È possibile sostenere che il divieto dell’abuso trovi il
proprio fondamento nella buona fede, ma ciò non significa che i due elementi si possano sovrapporre o far
coincidere. L’accostamento operato dalla giurisprudenza tra le due figure, difatti, non è parso del tutto condivisibile per diverse ragioni. Senza richiamare l’annoso
dibattito che ha investito le diverse concezioni (e funzioni) del principio della buona fede oggettiva, è stato
affermato che la valutazione che il giudice deve compiere quando gli viene sottoposto un caso di abuso è
ben diversa da quella che deve operare nelle ipotesi in
cui si trovi a dover accertare la violazione di una regola
di correttezza. Nel primo caso, egli dovrà valutare la
conformità della condotta supposta abusiva con l’interesse sotteso all’ascrizione del diritto. In altri termini,
dovrà valutare la coerenza, la proporzionalità e la pertinenza della condotta con riferimento all’interesse cui
avrebbe dovuto essere orientata (Restivo, 250). Nel
secondo, invece, opererà un bilanciamento di interessi,
senza creare egli stesso una regola in base alla quale
risolvere il conflitto, ma realizzando nel caso concreto
l’assetto di interessi che a monte è stato già prefigurato
dal legislatore, individuando nella correttezza la misura
delle due sfere di libertà in antitesi (Restivo, 251 ss.).
Sempre nel rilevare la differenza tra le due figure, si è
inoltre detto che l’abuso, a differenza della buona fede,
non consiste nell’imposizione di regole di condotta ulteriori a quelle che le parti si sono date o alle quali
378
debbono obbedienza in quanto previste dalla legge,
ma è soltanto un controllo sullo svolgimento della condotta medesima oltre l’osservanza formale della regola
(Salvi, 3). Ciò risulta condivisibile, poiché la buona
fede da sola non è in grado di spiegare tutte le ipotesi di
abuso. Per quanto sia possibile dilatare il suo campo
d’azione, vi saranno sempre casi nei quali la stessa
non potrà trovare evidentemente applicazione. Valgano alcuni esempi. Si pensi al caso (Cass., 5.6.2014, n.
12744, infra, sez. III) del soggetto che prima provochi la
prescrizione del reato mediante una strategia processuale dilatoria e poi proponga domanda di indennizzo per
irragionevole durata del processo. Domanda che ovviamente andrà rigettata, poiché cosı̀ prevede, ma solo dal
2012, l’art. 2 quinquies, lett. d), l. n. 89/2001. Ma anche
prima di tale data, la soluzione sarebbe stata comunque
la stessa per ovvie ragioni, che però non consistono nel
ricorso alla buona fede, almeno in senso codicistico.
Oppure, si pensi, ad esempio, all’esercizio delle libertà
fondamentali (Rescigno, 261 ss.) e più in generale
all’esercizio dei diritti all’infuori d’una relazione contrattuale. In definitiva, voler rintracciare il fondamento
dell’abuso unicamente nella buona fede, significa confinarne l’operatività ai soli rapporti obbligatori, il che
cosı̀ non è, poiché la casistica dimostra che esso ha
trovato larga applicazione in molti altri ambiti (perviene alla medesima conclusione, relativamente all’exceptio doli generalis, Meruzzi, 456, infra, sez. IV). Emerge
dunque l’opportunità di tenere distinte queste figure, se
non altro per evitare che si ricorra all’abuso indiscriminatamente, come fosse un surrogato della buona fede e
viceversa.
Nel caso di specie si ritiene che probabilmente si
sarebbe potuto evitare di ricorrere genericamente alla
figura dell’abuso per consentire al creditore di procedere con l’esecuzione. Da un lato, almeno da ciò che
risulta dalla lettura della sentenza, è fuor di dubbio che
l’operazione intercorsa tra la S.r.l. e la S.n.c. fosse volta
unicamente a rendere più difficile il recupero del credito; dall’altro, sembra che la scorrettezza e la malizia
dei soggetti che componevano le società sia consistita
nell’utilizzo appunto malizioso e scorretto dell’eccezione che hanno sollevato, ossia la non risultanza del
debito dai libri contabili.
Occorre tuttavia analizzare più da vicino le difese
spiegate dalla società opponente. Il Tribunale ne riconosce la correttezza in astratto e, relativamente all’argomento che richiama l’art. 111 cod. proc. civ., afferma che nella specie non vi sarebbe stata una successione nel diritto a titolo particolare. La pronuncia resa
nei confronti della S.r.l., stando alla sentenza in commento, non potrebbe dunque spiegare i propri effetti
verso la S.n.c. ai sensi del comma 4 della disposizione
da ultimo citata, poiché essa riguarda la successione nel
diritto e non il trasferimento d’azienda. Non è chiaro,
tuttavia, se questa affermazione abbia carattere genera-
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Sentenze commentate Parte prima
le o si riferisca solo al caso di specie, nel quale effettivamente la sentenza resa contro la cedente non avrebbe potuto spiegare i propri effetti verso la cessionaria,
ma per altri motivi. In ogni caso, la cessione d’azienda
costituisce proprio un’ipotesi di successione nel diritto
a titolo particolare, per cui la generalità dei rapporti
sorti prima del trasferimento passa al cessionario; tanto
è vero che la Cassazione ha ritenuto opponibile a quest’ultimo il titolo relativo a un rapporto dell’impresa
non del tutto esaurito ottenuto nei confronti del cedente, decidendo un caso simile a quello in esame
(Cass., 12.3.2013, n. 6107, infra, sez. III). Inoltre,
l’acquirente, proprio in quanto successore, è legittimato all’impugnazione della sentenza sfavorevole al venditore (Cass., 9.10.2013, n. 22918, infra, sez. III). Occorre tuttavia una precisazione: il regime fissato dall’art. 2560 cod. civ., con riferimento ai debiti dell’azienda ceduta, è destinato a trovare applicazione quando si tratti di debiti in sé soli considerati, e non anche
quando essi si ricolleghino a posizioni contrattuali non
ancora definite, in cui il cessionario sia subentrato a
norma dell’art. 2558 cod. civ. (Cass., 12.3.2013, n.
6107, cit.). Dunque, l’affermazione del Tribunale secondo la quale il trasferimento d’azienda non sarebbe
un caso di successione nel diritto a titolo particolare,
sebbene inserita come un obiter dictum, è contraria
all’indirizzo giurisprudenziale sul punto. Nel caso di
specie l’inopponibilità del titolo alla S.n.c. sarebbe
discesa semmai dalla mancanza del presupposto di cui
all’art. 2560, comma 2º, cod. civ., poiché si trattava di
un debito singolarmente considerato, relativo ad un
rapporto esaurito, non contemplato nella contabilità.
Con riferimento a quest’ultima disposizione, la Supr.
Corte ritiene che in caso di cessione d’azienda la risultanza del debito dai libri obbligatori non può essere
sostituita dalla prova che lo stesso era comunque conosciuto dall’acquirente (Cass., 10.11.2010, n. 22831,
infra, sez. III). Pare evidente, tuttavia, come tale principio non possa trovare applicazione nel caso in cui,
come nella specie, dietro il cedente e il cessionario vi
siano i medesimi individui. Dunque, forse sarebbe stato
sufficiente insistere sul profilo della conoscenza del
debito per avere il medesimo risultato.
La S.n.c. ha comunque eccepito la mancanza del
requisito di cui all’art. 2560, comma 2, cod. civ. A
questo punto il creditore avrebbe potuto sollevare l’exceptio doli generalis per vanificare tale difesa, poiché
quest’ultima costituisce il rimedio specifico contro l’abuso del diritto (Piraino, 409, infra, sez. IV). Come è
stato giustamente affermato, l’eccezione di dolo non
deve essere necessariamente esplicitata, ma può risultare anche dal complesso delle argomentazioni di parte
(Trib. Torino, 13.6.1983, infra, sez. III). Da un punto di vista sostanziale è vero che nulla sarebbe cambiato se fosse stata sollevata, ma si sarebbe potuto considerare l’eccezione di dolo come proposta, poiché v’e-
NGCC 3/2016
rano i presupposti per ritenerla tale, almeno da quanto
emerge dalla sentenza.
Tradizionalmente con l’exceptio si identifica il rimedio mediante il quale si porta all’attenzione del giudice
il fatto che il diritto, sebbene fondato, risulta, in concreto e nel momento stesso in cui viene fatto valere,
scorretto e doloso, ovverosia ripugnante al comune
giudizio con riferimento al dovere di lealtà nei rapporti
umani (Pellizzi, 1075, infra, sez. IV). Una definizione che senz’altro rimanda non poco a quella dell’abuso
del diritto. Non a caso, da più parti è stato evidenziato
il fondamento comune delle due figure, che sarebbe da
ravvisare, ancora una volta, nell’art. 1175 cod. civ.
A parte i casi nei quali l’abuso consiste nell’esercizio
di una facoltà connessa al godimento di un bene (vedi
gli atti emulativi), si è detto che l’exceptio è in grado di
coprire la gran parte di tutte le altre ipotesi di abuso
(Pellizzi, 1077). Di qui la tendenziale sovrapposizione delle due figure secondo alcuni (Conforti, 973;
Dolmetta, 5; Romeo, 981; Venosta, 530, tutti infra, sez. IV) e secondo la giurisprudenza (Cass.,
11.12.2000, n. 15592, infra, sez. III). Tuttavia, bisogna
dare atto della posizione di coloro che hanno tentato
di illustrare diversamente il rapporto tra l’abuso del
diritto e l’eccezione di dolo. In primo luogo, quest’ultima ha un ambito di applicazione più ristretto rispetto
all’abuso, dato che opera evidentemente solo sul piano
processuale (Venosta, 529; Ranieri, 326, nt. 91). In
secondo luogo, il divieto dell’abuso è sicuramente uno
strumento di sindacato più flessibile rispetto all’eccezione di dolo, senza contare le numerose ulteriori differenze sotto il profilo dell’origine storica degli istituti
in discorso (Meruzzi, 457 ss.).
Pare allora che buona fede, abuso del diritto ed exceptio siano da distinguere, anche se condividono la
medesima ratio, che consiste nell’attribuzione al giudice di un potere di controllo sul concreto esercizio dei
diritti soggettivi, volto a verificarne la congruità sia
con i valori fondamentali espressi dall’ordinamento
che con le finalità insite nel loro normale esercizio
(Meruzzi, 460).
Ancora una volta, si ritiene che si sarebbe potuto
evitare di ricorrere genericamente all’abuso del diritto
e che l’utilizzo indiscriminato di tale figura abbia fatto
sı̀ che la stessa oramai sia diventata una mera formula
verbale (D’Angelo, La buona fede e l’esecuzione del
contratto, 795, infra, sez. IV). A voler essere rigorosi,
si dovrebbe anche rilevare che nel caso di specie il
creditore avrebbe potuto agire nei confronti dei soci
e dei liquidatori ex art. 2495, comma 2º, cod. civ.,
poiché la s.r.l cedente è stata posta in liquidazione
(e, si suppone, successivamente cancellata: Cass.,
12.3.2013, n. 6070, infra, sez. III); avrebbe poi potuto,
in ipotesi, tentare la revoca della cessione d’azienda ex
art. 2901 cod. civ. in separato giudizio, oppure domandare il fallimento della società cedente. Tuttavia, non
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Parte prima Sentenze commentate
è dato sapere se tali strade sono state intraprese o erano
percorribili.
Dalla vicenda emerge cosı̀ che il principio dell’abuso
del diritto può trovare posto nel nostro ordinamento,
poiché vive nelle soluzioni giurisprudenziali e tale conclusione è stata avanzata anche relativamente agli ordinamenti di common law (Panzani, 715; Perillo, 38
ss., entrambi infra, sez. IV), nei quali tradizionalmente
si ritiene che la categoria dell’abuso sia inesistente.
Sono però necessari alcuni avvertimenti. In primo
luogo, la necessità di considerarlo un ‘‘rimedio’’ residuale, e questa esigenza è condivisa anche all’estero, ad
esempio in Francia (Borghetti, 861, infra, sez. IV).
L’esperienza dimostra infatti che la gran parte dei comportamenti ‘‘abusivi’’ può essere in verità sanzionata
sotto altri profili. D’altra parte, taluno aveva già a
suo tempo rilevato come occorresse «guardarsi dall’abuso dell’‘‘abuso del diritto’’» (d’Amelio, 96, nt. 10;
Cataudella, 753, infra, sez. IV).
In secondo luogo, con riferimento alla sentenza in
commento, devesi rilevare che l’abusività non ha riguardato la cessione d’azienda in sé e per sé, poiché altrimenti non sarebbe possibile spiegare come la stessa sia,
al contempo, efficace e ‘‘abusiva’’. Piuttosto, l’abuso è
consistito nel predisporre il tutto al solo fine di sfruttare
la limitazione della responsabilità e poi nell’invocare in
giudizio tale limitazione. In altri termini, nel voler utilizzare a proprio vantaggio uno degli effetti della cessione a fronte della non risultanza del debito dai libri
obbligatori, ossia l’impermeabilità della cessionaria alla
situazione debitoria della cedente. Nella sostanza, il Tribunale, nell’ambito di una cessione perfettamente valida, ha escluso, con un intento sanzionatorio, se si vuole,
che tale effetto si potesse produrre, consentendo al creditore di agire nei confronti dell’acquirente.
Da un punto di vista strettamente formale, tuttavia,
non si può non notare come rimanga un problema
irrisolto, ossia l’aver fatto ricadere le conseguenze del
comportamento ‘‘abusivo’’ su di un soggetto (la S.n.c.)
formalmente diverso dal debitore originario (la S.r.l.)
in assenza del requisito di cui all’art. 2560, comma 2,
cod. civ. Tra l’altro, si rileva inoltre che, al postutto,
autori dell’abuso non sono le società in questione, ma
chi se n’è avvalso per eludere il debito della cedente.
Dunque, la sentenza in commento rischia, sia consentita l’espressione, di non rendere giustizia all’abuso
del diritto, poiché, da una prima lettura, sembra potersi
ricavare dalla stessa un principio in base al quale il
giudice può ‘‘scardinare’’ qualsivoglia regola in nome
di una figura dai contorni evanescenti per esigenze di
giustizia sostanziale; ma cosı̀ non pare ad una più attenta analisi. Ci si limita solamente a rilevare, in conclusione, come probabilmente si sarebbe giunti al medesimo risultato anche in assenza del ricorso, con tutti i
rischi che ciò comporta, alla figura tanto tormentata
dell’abuso del diritto, senza contare, inoltre, tutte le
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altre tutele di cui si è già detto a disposizione dell’iniziativa creditore.
III. I precedenti
1. Abuso del diritto e sue precedenti applicazioni.
La giurisprudenza ha fatto ricorso al divieto dell’abuso del diritto in molti ambiti; la casistica è vasta e
pertanto si riportano solo alcuni precedenti significativi. Per un precedente nello stesso ambito dell’opposizione al precetto, si veda Trib. Reggio Emilia,
26.5.2014, in DeJure.
La nota vicenda del recesso ad nutum esercitato dal
costruttore di automobili nei confronti dei concessionari, nell’ambito della quale sono stati individuati i
presupposti dell’abuso del diritto, è stata decisa da
Cass., 18.9.2009, n. 20106, in Foro it., 2010, I, 85,
con nota di Palmieri e Pardolesi. Quest’ultima è
stata poi ripresa relativamente ad un caso di recesso dal
contratto di agenzia da Cass., 7.5.2013, n. 10568, in
Lav. e giur., 2014, 269, con nota di Sangiovanni.
Nel diritto delle società la giurisprudenza discorre di
abuso di potere della maggioranza nei confronti della
minoranza: Cass., 24.2.2014, n. 4388, in Rep. Foro it.,
2014, voce «Società», n. 633. Si registrano tuttavia
anche casi inversi, in cui il socio di minoranza, tramite
il proprio voto, provoca un blocco del principio maggioritario con il solo scopo di nuocere agli altri soci o
alla società medesima: Trib. Milano, 28.11.2014, in
Giur. it., 2015, 1442, con nota di Monteverde.
Frequente è il ricorso al principio dell’abuso anche in
relazione all’agire in giudizio, ossia il c.d. abuso del
processo. La Supr. Corte ha stabilito, ad esempio,
che non è possibile frazionare il credito derivante da
un unico rapporto obbligatorio in plurime richieste
giudiziali: Cass., 15.11.2007, n. 23726, in Foro it.,
2008, I, 1514, con nota di Palmieri e Pardolesi.
Infine, è nel diritto tributario che il principio dell’abuso è stato utilizzato per rendere inopponibili all’Amministrazione finanziaria negozi e operazioni che avessero l’unico scopo di ottenere un vantaggio fiscale.
Cosı̀ Cass., 23.12.2008, n. 30055, in Rep. Foro it.,
2008, voce «Tributi in genere», n. 1745, ha affermato
la vigenza, desumibile dal dettato costituzionale, di un
generale principio antielusivo. In questo senso è stato
deciso inoltre che l’interposizione del trust costituisce
un abuso del diritto se non è giustificata da ragioni
ulteriori rispetto al mero vantaggio tributario: Cass.,
19.11.2012, n. 20254, in Rep. Foro it., voce «Tributi in
genere», n. 1030.
2. Il rapporto tra l’abuso del diritto ed altre figure affini.
Possibili soluzioni alternative nel caso di specie.
Fanno discendere il divieto dell’abuso del diritto dai
doveri di buona fede e correttezza: Cass., 31.5.2010, n.
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Sentenze commentate Parte prima
13208, in Giust. civ., 2011, I, 2925; e Cass.,
16.10.2003, n. 15482, in questa Rivista, 2004, I,
305, con nota di Grondona. Sul collegamento tra
abuso ed exceptio doli generalis, si veda invece Cass.,
11.12.2000, n. 15592, in Giust. civ., 2001, I, 2439, con
nota di Costanza; e Trib. Torino, 13.6.1983, in
Resp. civ. e prev., 1983, 815, con nota di Gambaro.
Configurano il trasferimento d’azienda come un’ipotesi di successione nel diritto a titolo particolare:
Cass., 9.10.2013, n. 22918, in Rep. Foro it., 2013,
voce «Impugnazioni civili», n. 34; e Cass.,
12.3.2013, n. 6107, ibidem, voce «Azienda», n. 9. Sull’irrilevanza della conoscenza aliunde dei debiti dell’azienda ceduta si veda Cass., 10.11.2010, n. 22831, ivi,
2010, voce «Azienda», n. 17.
Invece, sulla richiesta d’indennizzo per irragionevole
durata del processo provocata dalla parte medesima a
seguito di una strategia difensiva dilatoria, Cass.,
5.6.2014, n. 12744, in Resp. civ. e prev., 2014, 1356.
Sulla responsabilità residua dei soci successivamente
alla cancellazione della società, si veda Cass.,
12.3.2013, n. 6070, in Foro it., 2014, I, 228, con nota
di Proto Pisani.
IV. La dottrina
1. Abuso del diritto e sue precedenti applicazioni.
La letteratura in tema di abuso del diritto è vastissima. Non si può prescindere dal contributo di Rescigno, L’abuso del diritto, in Riv. dir. civ., 1965, I, 205
ss., dal quale sono tratte le citazioni (ora Id., L’abuso
del diritto, Il mulino, 1998). Si vedano poi i seguenti
contributi: Gazzoni, Manuale di diritto privato, Edizioni Scientifiche Italiane, 2015; M. Barcellona, L’abuso del diritto: dalla funzione sociale alla regolazione teleologicamente orientata del traffico giuridico, in Riv. dir.
civ., 2014, 467 ss.; Galgano, Qui suo iure abutitur
neminem laedit?, in Contr. e impr., 2011, 311 ss.; Nigro, Brevi note in tema di abuso del diritto (anche per un
tentativo di emancipazione dalla buona fede), in Giust.
civ., 2010, 11, I, 2547 ss.; Orlandi, Contro l’abuso
del diritto (in margine a Cass., 18.9.2009, n. 20106),
in questa Rivista, 2010, II, 129 ss.; Gentili, Abuso del
diritto e uso dell’argomentazione, in Resp. civ. e prev.,
2010, 2, 345 ss.; Corasantini, Sul generale divieto di
abuso del diritto nell’ordinamento tributario, in Obbl. e
contr., 2009, 3, 212 ss.; Restivo, Contributo ad una
teoria dell’abuso del diritto, Giuffrè, 2007; Salvi, voce
«Abuso del diritto, I) Diritto civile», in Enc. giur.
Treccani, I, Ed. Enc. It., 2007, 1 ss.; D’Angelo, La
buona fede, nel Trattato di diritto privato, diretto da
Bessone, XIII, 4, Giappichelli, 2004; Sacco, L’abuso
del diritto, in Sacco-De Nova, Il diritto soggettivo, nel
Trattato di diritto civile, diretto da Sacco, Utet, 2001,
309 ss.; S. Patti, voce «Abuso del diritto», nel Digesto
NGCC 3/2016
IV ed., Disc. priv., sez. civ., I, Utet, 1994, 1 ss.; F.
Santoro-Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, Jovene, 1983; d’Amelio, voce «Abuso del diritto»,
nel Noviss. Digesto it., I, Utet, 1968, 95 ss.; Gualazzini, voce «Abuso del diritto, b) Diritto intermedio»,
in Enc. del dir., I, Giuffrè, 1958, 163 ss.; Salv. Romano, voce «Abuso del diritto, c) Diritto attuale», ibidem, 166 ss.
Per un’analisi comparatistica: Panzani, Abuso del
diritto. Profili di diritto comparato con particolare riferimento alla disciplina dell’insolvenza transfrontaliera, in
Giust. civ., 2014, 3, 693 ss.; Gambaro, Abuse of rights
in civil law tradition, in Eur. Rev. Private Law, 1995, 561
ss.; Gambaro, voce «Abuso del diritto, II) Diritto
comparato e straniero», in Enc. giur. Treccani, I, Ed.
Enc. It, 1988, 1 ss.
Sull’abuso del diritto nella letteratura francese si veda senz’altro Josserand, De l’abus des droits, A. Rousseau (Parigi), 1905; e Borghetti, L’abuso del diritto in
Francia, in Contr. e impr., 2015, 847 ss. Per una panoramica sull’esperienza statunitense si veda Perillo,
Abuse of Rights: A Pervasive Legal Concept, in Pacific
Law Journal, 1995, 27, 37 ss.
Con riferimento ai rapporti tra autonomia privata e
principi costituzionali, v. Macario, voce «Autonomia privata (Profili costituzionali)», in Enc. del dir.,
Annali, VIII, Giuffrè, 2015, 61 ss.
2. Il rapporto tra l’abuso del diritto ed altre figure affini.
Possibili soluzioni alternative nel caso di specie.
L’abuso del diritto è stato studiato spesso assieme ad
altri princı̀pi con i quali si ritiene abbia diverse affinità.
Per l’approfondimento dei suoi rapporti con la buona
fede e l’exceptio doli generalis si vedano: Piraino, La
buona fede in senso oggettivo,Giappichelli, 2015, 343 ss.;
Meruzzi, L’Exceptio doli dal diritto civile al diritto commerciale, Cedam, 2005, 323 ss.; Conforti, Fraus omnia corrumpit, in I Contratti, 2014, 11, 969 ss.; Cataudella, L’uso abusivo di princı̀pi, in Riv. dir. civ.,
2014, 4, 747 ss.; Romeo, Exceptio doli generalis ed
exceptio doli specialis, in Contratti, 2007, 11, 980 ss.;
Viaro, Abuso del diritto ed eccezione di dolo generale, in
L’eccezione di dolo generale. Applicazioni giurisprudenziali
e teoriche dottrinali, a cura di Garofalo, Cedam, 2006;
Dolmetta, voce «Exceptio doli generalis», in Enc. giur.
Treccani, XV, Ed. Enc. it, 1997, 1 ss.; F. Ranieri, voce
«Eccezione di dolo generale», nel Digesto IV ed., Disc.
priv. sez. civ., VII, Utet, 1994, 311 ss.; D’Angelo, La
buona fede e l’esecuzione del contratto, in I contratti in
generale, diretto da Alpa e Bessone, nella Giurisprudenza Bigiavi, IV, 2, Utet, 1991, 759 ss.; Venosta,
Note sull’exceptio doli generalis, in Banca, borsa e tit.
cred., 1989, 525 ss.; Pellizzi, voce «Exceptio doli (diritto civile)», nel Noviss. Digesto it., VI, Utet, 1968,
1074 ss.
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