VALENTINA
e le altre
di Annalisa Di Nuzzo
IL CORPO
DELLE ALTRE
METAMORFOSI
La plasmazione culturale del gender
ha investito ancor più problematicamente gli attraversamen-
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ti di genere e i passing che, sempre più diffusamente, permeano le società post moderne e le visibilità identitarie/sessuali ad esse connesse. In tal senso il ricorso alla chirurgia estetica come strumento
per ottimizzare l’attraversamento di genere o per mantenerlo in una funambolica ambiguità e in
nuovo ermafroditismo appare assai complesso. Il transgender è il frutto di un lungo processo penitenziale che coniuga piacere e dolore, richiesta di legittima felicità, serenità e oscenità trasgressiva. Rito
penitenziale della post-modernità che attraverso tappe stabilite dalla propria soggettività sembra definire una sorta di nuova religiosità laica che costruisce qui e ora la propria identità, una violazione,
secondo alcuni un atto di ybris che “corregge” o “riscrive” ciò che natura ha fatto. Sembra per certi
versi lontanissimo quel 1958 quando l’artista nota come Coccinelle dichiara di essersi sottoposta ad
uno dei primi interventi chirurgici per cambiare sesso1. Il caso ebbe enorme risonanza e suscitò veementi proteste tanto che fino al 1978 nessun transessuale potè cambiare stato civile in Francia.
La corporeità dunque, come nuova dimora del sé forse sempre più liberata da due tradizionali
“catene” naturali che hanno sempre accompagnato il corpo nella storia, ovvero corpo di fatica, corpo
di riproduzione2 si offre ad altre forme di codici. Questi lavori in pelle, per riprendere una terminologia alla Blade Runner, rimescolano le carte, ancora una volta, tra natura e cultura, individuale e sociale, intimo ed esposto, una rivoluzione silenziosa che per dirla con Pierre Bourdieu “può fare del
corpo luogo di elaborazione implicita di un sapere non formalizzato e non formalizzabile, operando
come implicito creatore di preferenze e di valutazione che avvengono nella prassi quotidiana; il
corpo stesso è il risultato di questa elaborazione che è anche continua elaborazione sociale3”.
Si parte da forme lacerate fino a definire armonie ricostruite a ricomporre nuovi rapporti tra identità e gender. Judith Butler parla di corpi che contano4. La cultura occidentale ha sempre tentato di dividere sesso e gender, associando il sesso alla materia e il gender all’elemento culturale. In un orizzonte
postmoderno il risultato nuovo consiste in un contaminarsi delle identità che diventano e transitano
continuamente l’una nell’altra, problematizzandosi e sostenendosi a vicenda. La contrapposizione tra
sesso- materia, gender- cultura è un costrutto impresso sulla superficie della materia e non ha più la
stessa validità. Anche il sesso è costruito e non un già dato. I corpi contano se si “materializzano” ovvero contano e significano. La materialità del sesso è intesa come costruzione e dunque può essere rea-
lizzata attraverso la chirurgia estetica. Corpi che contano nella misura in cui la materia non è un dato
irriducibile ma ha una storia e il legame tra materialità e corpi che contano è indissolubile. Materia,
dunque, come matrix (utero nella traduzione da Seneca), matrice ovvero creatrice di senso e non più
sesso e natura forzatamente inscritti in un genere sessuato, stabilizzato in una dialettica dicotomica. La
chirurgia estetica sembra, invece che possa coniugare tre aspetti: la plasmazione, la ritualizzazione,
l’immaginazione. Le vicende che caratterizzano l’uso della chirurgia da parte dei transessuali (pur
nella loro forte caratterizzazione individuale), sono definite essenzialmente (così come mi riferisce
Giorgio Cuccio transgender, responsabile culturale dell’associazione nazionale Crisalide) da due
modalità: da una parte la totale negazione della corporeità data per approdare alla nuova corporeità
scelta,dall’altra una costruzione corporea mai definita e mai riconducibile alla polarizzazione femminile–maschile irriducibilmente determinata. Specialmente le nuove generazioni trangender vivono la
loro condizione come il sintomo ambivalente e complesso di nuovi percorsi identitari di nuove pratiche di utilizzo della medicalizzazione del corpo e della relazione tra medico e soggetto, non più
“paziente” ma consapevole interlocutore. I percorsi chirurgici sono fortemente personalizzati.
Si sta riscrivendo un nuovo rapporto tra chirurgia estetica e travestitismo, una nuova grammatica
del pudore e dell’osceno nella percezione sociale. Una socialità che vede dilatati gli spazi e le occasioni che in tutte le culture circoscrivono l’osceno, ribadendo, ancora una volta, come sostiene
Scafoglio, che l’osceno è nell’occhio di chi lo vede5. Alessia Bellucci, laureata in antropologia trangender, mi racconta della sua vicenda personale, delle abili interdizioni sociali che le impediscono di
partecipare ad un dibattito in una scuola se non sono presenti anche uno psicologo, un sociologo e
un prete. Evidente necessità di oggettivazione di una corporeità reificata che esclude individualizzazioni e singolarità necessariamente inserite nella percezione sociale solo tra patologia e devianza.
Alessia vive una quotidianità che rivendica la parola sul suo corpo, sulla sua diversità che è “inclusiva” e non “esclusiva”. Continua a dirmi: “Per modificare lo stato civile e riconoscere l’identità sentita ci impongono questa modifica ai genitali, prassi chirurgiche imbrigliate in un rituale giudiziario
ovvero rituali di ratifica della differenza di genere, come a dire, mentre lavoro sul tuo corpo, cosa faccio, confermo il mio potere di darti un genere e di ricreare la differenza uomo donna; si tratta di atto
tecnico di perfezionamento avente lo scopo di inserire la persona nell’ordine naturale senza nulla di
storico, ti consacro uomo o donna e sei legittimato ad esistere, si esercita il diritto al controllo della
sfera genitale da parte dell’istituzione di agire in senso manipolatorio e chirurgico sugli individui. Lo
stato ti manda in tribunale, il tribunale è un istituto che serve a riparare un conflitto non più tra sinvalentina e le altre
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goli individui, ma tra la persona, il suo desiderio, ciò che deve essere e l’ordine sociale.” Continua: “
ma non si potrebbe fare con un procedimento civile, come il matrimonio.6” Per le trans non operate
soprattutto da uomo a donna, la presenza dell’organo genitale maschile è considerato elemento di
non pulizia di non chiarezza. La psichiatrizzazione attuale tende a definire il disagio dei trans come
disturbo di ansia da deprivazione della possibilità di esprimere il proprio genere. Il rischio, la riplasmazione
del piacere e il percorso di sofferenza costituiscono un viaggio nella soggettività che è di esclusiva
pertinenza del singolo o al massimo frutto di una contrattazione equilibrata. Mi confessa che molte
trans più giovani non riescono ad aspettare il tempo della trasformazione, anche perchè il tempo appartiene agli esperti, e così il tempo è uno dei motivi di sofferenza. I forti costi della chirurgia impediscono a molte di intraprendere il percorso e mi sottolinea come per lei il viso è il vero elemento corporeo che definisce agli altri la sua appartenenza di genere, un interfaccia sociale esposta.
I passaggi dell’attraversamento di genere sono, nella maggior parte dei casi, questi: il primo step
è (dopo un lungo periodo di latenza) il travestitismo, si impara a giustapporre i due modelli in
momenti diversi o ad andare avanti negli ambiti del lavoro, del contesto sociale ecc., ma per questo
ci vuole un modello identitario a cui riferirsi, un momento preciso in cui si dice a se stessi : “allora è
possibile”. Alessia ricorda di aver visto una trasmissione televisiva in cui c’era una famosa trans e di
aver pensato: “quella sono io” e aggiunge “io stessa ora sono un modello per altre”7. Il secondo
momento è quello della terapia ormonale che produce un effetto duplice. Per un verso determina dei
cambiamenti dolci nel corpo che si femminilizza, ma nella sfera del piacere produce un abbassamento della libido, per cui molte trans non continuano il percorso e tornano al travestitismo. Io stessa continua Alessia - fui presa dall’ansia di sentirmi privata della sessualità. Io volevo cambiare genere
non diventare priva di genere. Bisogna reimparare ad avvertire i segni della sessualità in maniera
diversa. Questa cosa è dura, ma io ce l’ho fatta. Le trasformazioni chirurgiche più diffuse sono quelle che con pochi ritocchi danno grandi risultati: le labbra gli zigomi gli occhi, il seno, mentre la chirurgia genitale finisce con l’essere praticata da pochi.
V ALENTINA
E
N APOLI. LI GIOCO
AMBIGUO DELLA SUA SESSUALIT¸
Vicenda singolare e tutta inscritta nella cultura napoletana è quella di Valentina e del fenomeno
televisivo, ad essa correlato, che ha evidenziato un significativo elemento di continuità/discontinuità nella cultura partenopea e nella definizioni di genere e transgenere. Valentina è stata, cantante di
grande successo, in area regionale-popolare, fino a qualche tempo fa, ora forse un po’ meno presente, visse una sovra esposizione mediatica e salì alla ribalta delle cronache cittadine e regionali, tanto
da essere segnalata anche da giornali di tiratura nazionale. Ha condotto per qualche anno un programma in una televisione privata napoletana di musica e dediche con un modulo ed una struttura
ormai collaudati in queste piccole emittenti. Bionda, napoletana, fisico da top-model, oggi poco più
che trentenne, voce di grande spessore melodico, transessuale. La sua transessualità tende a ricom-
porre la frattura determinatasi tra identità di genere e sesso anatomico. Il frutto, dunque, di una scelta precisa e perseguita attraverso una operazione di de-costruzione, ri-costruzione del proprio corpo:
seni, fianchi arrotondati, cosce affusolate, caduta dei peli, eliminazione della barba, iniezioni di
ormoni e di silicone, hanno dato vita ad una sessualità complessa ed ambigua.
Il dato che più colpisce, e che ha reso Valentina un transessuale atipico, è quello della giovanissima età della maggioranza del suo pubblico; bambini e preadolescenti sono i suoi fans più fedeli. La
trasmissione andava in onda ogni domenica nella fascia oraria del primo pomeriggio, legata ad una
utenza tipicamente familiare. Valentina interpreta il ruolo della conduttrice e della cantante servendosi di una sua personale strategia comunicativa e di un uso del mezzo televisivo che sono fortemente caratterizzati dalla sua complessa ambiguità sessuale. Lei stessa mi racconta del suo “incontro”
con la tv: ”Certo ero emozionata ed intimorita, ma solo nei primi momenti, poi, tutto è andato a posto
in un attimo, e con naturalezza, ho iniziato a parlare, muovermi, rispondere alle telefonate, del resto
era quello che volevo, che avevo cercato, perché lo spettacolo mi è sempre piaciuto.”8
La comunicazione corporea che stabilisce è diretta ed efficace costruita sull’elemento della rassicurazione a tutti i livelli,: sguardo allo stesso tempo dolce e ammiccante, i grandi occhi sapientemente
truccati, le labbra carnose, chiaramente siliconate, che spesso si atteggiano ad un bacio delicato, ma
pur sempre sensuale, Valentina-personaggio, ma anche persona, dunque, interpreta il suo copione e
costruisce la sua rappresentazione, prima di tutto avendo plasmato la scena del suo corpo, rendendo esplicitamente chiara una femminilità in potenza, costruendo un “ travestimento di sé” che è divenuto “disvelamento” di una parte di sé attraverso operazioni chirurgiche ed alchimie
biochimiche.Gli elementi si miscelano in maniera calibrata ed anche la parte femminile del pubblico,
solidarizza pienamente con lei. Una parte femminile che in genere non stabilisce relazioni positive
con il transessuale che può “minacciare” il monopolio seduttivo nei confronti del maschio. In questo
caso, invece, le donne riconoscono a Valentina i canoni di una bellezza ampiamente condivisa, fatta
di semplicità, senza eccessive ostentazioni, da brava figlia di famiglia. Valentina ribadisce la sua originalità, ma anche, la sua omologazione ad uno specifico della cultura napoletana che ha sempre stabilito una relazione particolare con l’ambiguità sessuale,il travestitismo, la transessualità.
Il gioco ambiguo di una sessualità ermafrodita resta come elemento atavico ed allo stesso tempo
attuale, come “attraversamento” trans-sessuale in una realtà urbana complessa ed in una
cultura,come quella napoletana, che ha sempre condiviso questa dimensione. Valentina continua a
fornire altri elementi: l’abbigliamento è orientato verso una personificazione di ragazza perbene,
quasi di classe e alla moda, ma che non rinuncia ad alcune sottolineature della sua femminilità, pantaloni estremamente aderenti, così come i top, che evidenziano un seno abbondante ma mai volgarmente ostentato. Quando ci siamo incontrate mi ha confessato di non voler essere come Pamela Prati
che può sicuramente piacere agli uomini ma, poi, solo ed esclusivamente a questi ultimi, mentre
Valentina vuole piacere a tutti, il suo modo di incontrare gli altri è trasversale; non le piace essere solo
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la bambola erotica di oscuri ed inconfessabili desideri, ma la donna amata ed accettata da tutti. C’è
un desiderio forte di chiarezza e di accettazione di sé che è percepibile e che coinvolge immediatamente anche nel contatto personale. In questo travestimento-disvelamento di sé le mani sono elemento rivelatore, segnalano l’irriducibilità di un’origine maschile che definisce una diversità problematica. Tutto questo è, chiaramente, percepito dal pubblico che accoglie come naturale sia la prorompente sensualità, sia, e più ancora, la rassicurante femminilità espressa da Valentina. Il gioco della sovrapposizione dei ruoli e del travestitismo è continuo e comune a tutta la tradizione culturale napoletana.
In molti testi della tradizione napoletana, nonostante sia norma che gli uomini recitassero parti femminili fino al Settecento, ruoli femminili sono affidati ad attori in un’immagine di donna, di femminilità e di seduzione legata alla seducente ambiguità del travestitismo. Il richiamo a radici più antiche diventa naturale ed ineludibile. Sia i testi letterari, teatrali, sia i miti originari, rimandano a quell’invisibile confine tra ermafroditismo, omosessualità e travestitismo, che sono costitutivi di molte
culture. Questo gioco di sovrapposizione continua ad essere ridefinito e riproposto in molti testi contemporanei: nel film di Lina Wertmuller del 1986, Un complicato intrigo di donne, vicoli, delitti, seppure, su di una trama, debole, e sostanzialmente, legata ad una modulazione a tratti pittoresca e di
maniera, la Napoli dell’emarginazione e del vicolo è delineata anche attraverso una significativa presenza dell’omosessuale e del travestito. Nella vicenda la stretta complicità tra prostitute redente e
femminielli è costante ed è legata alla difesa dei valori antichi del vicolo, ad una “guapparia” che non
può cedere alle nuove regole dei mercati illeciti internazionali e che deve salvaguardare una particolare forma di onestà e di difesa della famiglia e della prole. La Wertmuller, così, conferma nel testo filmico, nonostante diversi stereotipi, la parte significativa che la città assegna all’ambiguità liminare
costituita da una sessualità polimorfa come quella del travestito-femminiello, che agisce ed opera
nella teatralità napoletana come attore e protagonista, con un’autonomia di valori propositiva, che
entra in relazione, non solo con gli altri aspetti culturali marginali, ma con la realtà tutta. Il copione
è, mirabilmente, ripreso nello struggente testo di Annibale Ruccello, Le cinque rose di Jennifer, in cui
il/la protagonista, in un monologo alla Cocteau, ripercorre i temi della solitudine, dei quartieri periferici della città, della solidarietà, talvolta beffarda, del vicinato, dell’amore, anche attraverso lo specchio, luogo privilegiato del corpo femminile, dove l’ambiguità del travestitismo riproduce una sorta
di rovesciamento ermeneutico della realtà; una scena nella scena, che riprende ancora una volta il
tema di una dialettica che continuamente si avvolge su se stessa tra identità-alterità e che, continuamente, contribuisce a ridefinizioni di senso.”Jennifer ha un moto di piacere. Canticchiando la canzone ed imitando Mina dispone davanti lo specchio il suo “buticasa.” Con molta femminilità e sempre
cantando estrae gli strumenti per farsi la barba. Si insapona il viso. Dopo aver fatto la barba inizia a
vestirsi mentre la radio trasmette “ quattro vestiti”. Alla fine della canzone è pronta. Si siede composta vicino al telefono, guarda l’orologio, poi compone un numero telefonico.”9 Nella definizione scenica riportata due sono gli elementi che continuamente agiscono per segnalare il carattere di muta-
mento culturale del /della protagonista: il telefono e la radio locale. Simboli e strumenti di una società post-moderna cercano di attivare incontri senza più luoghi, in un labirinto dell’etere che rassicura
senza fornire più senso. Quella ricerca di senso che fa sostenere ad autori teatrali come Moscato,
Silvestri, ed ad un profetico Ruccello, come la “diversità” è definibile solo attraverso il testo, la parola, il linguaggio che veicola un vissuto cui si condensano spostamenti dalla campagna alla città, dalla
periferia alla metropoli, deliri di verbalità fondati su contaminazioni e alterazioni del linguaggio.
Testi in cui i ruoli femminili sono affidati ad attori in un’immagine di donna, di femminilità e di seduzione legata alla seducente ambiguità del travestitismo. Le culture popolari, seppure con momenti e
complessità qui appena intraviste, conservano in maniera sotterranea questa percezione della sessualità, schiacciata da secoli di sessuofobica cultura cristiano-cattolica, che emerge, ancora una volta in
riti, figure popolari, maschere, testi letterari, travestimenti. Anche nella dimensione teatrale il senso
di questo possibile “attraversamento” continuo tra maschile e femminile è dato da un travestitismo
che assegna i ruoli femminili ad uomini, tanto che “a Napoli il travestitismo non è considerato conseguenza del camuffamento della virilità, ma la condizione di una realtà presente integrata e pienamente riconosciuta."10 Queste manifestazioni hanno tute le caratteristiche di quelle normali e sono
condivise da tutto il quartiere, producendo un annullamento dei ruoli sessuali.”11
Primi esempi significativi sono in farse carnevalesche del 600, rappresentate ancora oggi, quali la
Canzone di Zeza, nella quale i personaggi di Zeza e Vincenzella, cioè moglie e figlia di Pulcinella,
sono sempre interpretati da uomini. Pulcinella stesso richiama ad un concetto “di sacro come di anomalia e di eccesso fondamento di tutta la sua figura.”12 L’ambiguità sessuale di Pulcinella, la sua
androginia, è ”iscritta nel suo stesso corpo, rigonfiamenti del petto, accentuate pieghe della camicia,
voce stridula e rotta di castrato; così come nei testi teatrali in cui l’ambivalenza sessuale si articola
nel gioco dei travestimenti, si può dire che Pulcinella abbia indossato vesti femminili con frequenza
ossessiva, lungo tutto l’arco della sua vita teatrale”13. La commedia dell’arte aveva sfruttato le possibilità del travestimento femminile, come sostiene Scafoglio, per consentire a due uomini di fare
l’amore rendendo rappresentabile l’omosessualità sotto la copertura dell’equivoco e del comico.
Nella necessità di una possibile e nuova definizione di genere, Valentina utilizza il suo “transgenere”, soprattutto, per parlare con i bambini e stabilire con loro un rapporto privilegiato, coinvolgente, lasciando intravedere il senso di una maternità assai complessa e ricca di profonde implicazioni.
Durante la trasmissione le numerose telefonate tra la cantante e questa particolare fascia di pubblico, sono contraddistinte da un’empatia ricca di serenità, di dolcezza e dalla capacità di Valentina di
accedere all’universo infantile con grande naturalezza, e condivisione. Così parla dei giocattoli, delle
amicizie infantili, delle abitudini dei piccoli, dell’importanza dei genitori e specialmente della
mamma. Talvolta frammenti del suo vissuto emergono, contribuendo ad un ulteriore definizione del
suo personaggio-persona. Valentina viene da Fuorigrotta, da una famiglia dai ruoli standardizzati
della tradizione napoletana; quella tradizione che continuamente è ribadita durante la trasmissione
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ma, anche in tutte le interviste che ha rilasciato. Il suo stesso rapporto con i genitori è contraddistinto da una grande serenità e da una condivisione della sua ambigua identità. In alcune interviste rilasciate alla RAI sono significative le dichiarazioni sia del padre, che della madre. Il padre dice di averla accettata - un figlio non si lascia mai -, non si abbandona, così come fa la madre, che sostiene la naturalità di quella condizione a differenza di tanti “uomini” che la reprimono e la nascondono. Dunque,
la famiglia ha costituito e costituisce per Valentina un punto di ancoraggio, sia nella vita privata sia
per il suo personaggio; una famiglia che condivide antichi valori e nuovi elementi di vissuto metropolitano. Paradosso e scandalo sembrano dialetticamente ricomporsi in elementi rassicuranti e i giovani fans di Valentina accedono alle meraviglie del mondo televisivo seppure di provincia.
Valentina sottolinea, continuamente, un tentativo di esplicitare un sentimento da sempre presente,
quello della maternità, biologicamente impossibile, ma culturalmente desiderato dal maschile, che è
più, acutamente avvertito nel suo desiderio di affermazione di femminilità acquisita. La maternità
impossibile si ritualizza come nella cultura più tradizionale della città, in cui, il parto, il battesimo sono
alcune manifestazioni fondamentali della vita sociale dei travestiti di Napoli. “A nove mesi dal “matrimonio” e dopo un finto parto svoltosi segretamente alla presenza di pochi intimi esclusivamente femminielli, c’è la prima uscita: un figlio, sempre di sesso maschile, da mostrare con un rito tipico del battesimo “normale.“ Significativa la partecipazione collettiva che scaturisce al rito ed il meccanismo
rituale della finzione (evidentemente non esiste nessun figlio reale) che sublima un’esigenza altrimenti irrealizzabile. Queste manifestazioni hanno tute le caratteristiche di quelle normali e sono condivise
da tutto il quartiere, producendo un annullamento dei ruoli sessuali.”14 Finzione che ritorna, nel teatro contemporaneo, nella Jennifer di Ruccello, quando in un dialogo-delirio tra travestiti, il/la protagonista risponde ad una paradossale domanda sull’avere dei figli: “ Si... Ruie... Un maschietto ed una
femminuccia... Il primo sta con il padre... la seconda invece l’ho messa in collegio... sta dalle dorotee a
Roma... Un bel collegio...” La finzione continua in tutta la scena successiva in cui sono affrontati tutti
gli aspetti della femminilità: dall’educazione dei figli, al ricordo del ciclo mestruale, ad un’operazione
per l’asportazione dell’utero in un’appropriazione di genere atopica ed atemporale, in una negazione
del sé originario per acquisire una femminilità dolorosa e schizoide. Continua Jennifer: Mah... L’unica
cosa che sono contenta... è che non tengo più il disturbo delle mestruazioni... Madonna, mi ricordo era
una dannazione... In quei giorni... il mio carattere, cambiavo da così a così... Pazza addiventavo...
pazza... Nervosa con i bambini... Con mio marito... intrattabile... Vomito... sempre sonno... e quel sangue che usciva... quel sangue... mi ha fatto sempre schifo... Forse pure perché da bambina ebbi un trauma... Perché mia madre... sapete i tempi, non mi aveva spiegato niente... Mah sono proprio contenta di
non tenerlo più questo disturbo...” Una femminilità-maternità esclusivamente culturale, acquisita,
piena di luoghi comuni e stereotipi, problematizzata fino alla pazzia di questi personaggi femminili,
comunque legati alla loro prima dimensione biologica maschile, ma che ribadiscono violentemente, il
valore di ciò che è culturalmente acquisito. Questo nuovo teatro napoletano continua a definire ruoli
femminili che sono poi, in genere, affidati ad attori o agli stessi autori del testo. In Francesco Silvestri
questa maternità è schizoide e cupamente ambigua come nella “Ballata di Pupella dei gatti” e in
“Alba” in cui la definizione della maternità sconfina sempre nella schizofrenia per il desiderio irrealizzabile di una concreta maternità. Nella figura di Alba la maternità è vissuta, anche e fortemente, nell’abisso di un gioco ancora morbosamente ambiguo tra sessualità e seduzione; la prostituta “gioca”
drammaticamente con un giovane che potrebbe essere figlio-amante, tra il rinnegare la maternità e il
disperato ricordo di una morte in culla di quell’unico figlio non desiderato, ma poi tanto amato e prematuramente perduto. “Oggi, chillu criaturo tenesse più o meno l’età tua. E..., come te..., somiglierebbe al padre… (Il ragazzo fa per alzarsi) Bravo... Viè... Cucchete ccà... Nun avè paura... Nun tu non faccio niente. ( La donna gli indica il proprio grembo. Il giovane dapprima titubante, si accoccola in modo
che le labbra sfiorino il seno di Alba) ed ancora: ci sono altri rimedi. Facili, facili... Ci stavano! Primma!
Ma mo è nato, nun se po’ fa cchiù niente! Nooo... ci stanno ancora... ci stanno! ( Pausa ) Si! È ‘overo,
piccirillo mio... Ci stanno ancora! Mangia ‘o latte ‘e mamma toia. Stringi forte... Zuca... zuca che fa
bene... Mangia... mangia... mangia... ( Soffoca il giovane portandolo al seno. Poi lo allontana. La loro
posa è del tutto identica alla pietà di Michelangelo). Non piangevi più. Ti alzai piano piano e ti misi
nella culletta. Ma non col pancino sotto comme se mettono’e creature addoppo che hanno mangiato
pe’ fa’ ‘o ruttillo, no. Con la faccia in alto... lo chiamano “ soffocamento per rigurgito”. E più oltre:” Ero
inesperta, sola... Poco più che una bambina. E che potevo tenè? Diciotto, massimo... Nisciuno tenette o
curaggio e me dicere niente. (Senza alcuna enfasi)”15. Silvestri ripercorre in tratti rapidissimi, attraverso la sua stessa complessa personalità e sensibilità, le componenti di una femminilità che lui stesso
ricerca e riconosce con la scarna e tagliente lucidità che lo contraddistingue.
Valentina, al contrario, non attribuisce consapevolmente una problematicità teoretica al suo personaggio, lo vive, lo crea “ in diretta” è lei stessa a ribadirmelo più di una volta, pur avendo in se una
doppia sedimentazione del senso materno: quello fortemente desiderato ma negato dalla sua originaria condizione maschile, e quello acquisito ma mai compiutamente realizzato, dalla sua nuova
natura femminile. Una doppia alterità che, invece, Malaparte ha evocato, in un’atmosfera di bieca e
calda sensualità, appesantita dalle note vicende della seconda guerra mondiale, nel romanzo La Pelle
(romanzo scandalo del 1949) in cui la descrizione di una “figliata” ci presenta un “femminiello”, sintesi di queste contraddizioni, attraverso ostentate evocazioni di femminilità (doglie, ecc.) e rudi significazioni maschili (i baffi, le mani forti, il corpo nerboruto, e incredibilmente giovane). “ Nel viso bruciato dal sole e dal vento splendevano gli occhi grandi e scuri. Aveva la bocca larga, dalle labbra rosse
ombreggiate da un paio di baffetti neri. Si lamentava cantando a bocca aperta, e dondolava la testa
qua e là sul guanciale, agitava fuor dei lenzuoli le braccia muscolose strette nelle maniche di una femminile camicia da notte, come se non potesse più sostenere il morso di una qualche sua crudele
doglia, e ogni tanto si toccava con ambe le mani... il ventre stranamente gonfio, proprio il ventre di
una donna incinta.” Ed ancora: ”Ad un tratto la vecchia si mise a tirare a sé con ambe le mani qualvalentina e le altre
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cosa fuori dal ventre di Cicillo, e finalmente mostrò a tutti una specie di mostriciattolo di colore
scuro, dal viso grinzoso sparso di macchie rosse... Stappato alle unghie della vecchia, e passando di
mano in mano, il neonato giunse finalmente al capezzale di Cicillo che, drizzandosi a sedere sul letto,
il bel viso maschio e baffuto illuminato da un dolcissimo sorriso materno, apriva le muscolose braccia al frutto delle sue viscere... e afferrato il mostriciattolo se lo strinse al seno, se lo strofinò contro il
villoso petto, gli coprì il viso di baci, se lo cullò a lungo fra le braccia.”16
Valentina continua a costruire il suo percorso identitario, facendo domande sul vissuto quotidiano, specialmente dei pre-adolescenti. In una trasmissione su Rai Due, ha più volte dichiarato la sua
particolare attenzione verso i pre-adolescenti di cui si definisce la confidente. Di quei ragazzi tra i
dodici e i tredici anni che vivono drammaticamente la loro crisi puberale, specialmente, quando riconoscono una sessualità diversa da quella del loro sesso anatomico. L’aiuto di una persona come
Valentina può essere determinante per ritrovare, come lei stessa dice, quel coraggio necessario per
essere ciò che si è, per affermarsi a dispetto di tutto, ma “con l’aiuto del Signore”, senza colpi di testa,
senza svendersi. La definizione del personaggio continua, l’affermazione di valori positivi, famiglia,
religione, maternità (Valentina abita con i suoi genitori) da trasmettere alle nuove generazioni è totale, seppure attraverso quel paradosso che è il suo genere. Diventa così naturale per Valentina la
richiesta alla stessa RAI di poter condurre un programma per bambini (richiesta accolta dai vertici
RAI, ma naufragata per le critiche violente del resto dell’Italia cui risultava scandalosa e incomprensibile una trasmissione del genere):"Soprattutto perché mi farebbe piacere far capire alla gente che
sono un trans. un po’ diverso: non sono di quelle che portano scandalo in televisione, che fanno leva
sulla bellezza, sul corpo. Io sono un’artista, con una propria sensibilità , e se così non fosse, le
mamme non farebbero vedere miei programmi ai bambini”.17
A LCUNE
RIFLESSIONI
CONCLUSIVE
Il rapporto, dunque tra chirurgia estetica e transgender è oggi assai articolato si configura attraverso un nuovo modo anche di intendere il rapporto con il chirurgo. Sempre meno legato ad una omologazione stereotipata al sesso desiderato, il corpo, come ci dice Nadia Nardacchione (visagista trasnsgender) cerca di superare la logica della dualità e si configura includente come qeeer (diverso)
ossia sintesi di elementi maschili e femminili. Ogni identità - lesbica, gay, bisessuale, transessuale,
persino eterosessuale - può fondersi in una generale qeerness, che non produce un ambiguo vortice
caotico, ma un riconoscimento reciproco con relativi percorsi di definizione sociale, non segnati da
steccati pre-costituiti. La sfida della qeerness verte sulla messa in discussione ininterrotta dell’unità
stabilita delle identità sessuali e di genere, comunque esse vengono usate e assunte18. Il femminismo post-moderno, superando le radicalizzazioni delle sue prime stagioni, ha contribuito a definire
questa complessità sessuata, che la chirurgia inscrive e che il soggetto richiede. Se è vero che ogni cultura esprime o ha già espresso queste nuove esigenze di definizione del sé, Valentina ha coniugato e
interpretato una diversità nella diversità, un percorso di visibilità e di possibile accoglienza della
diversità. In una Napoli, che conferma ancora una volta, il suo carattere di città-soglia, ultima città
europea, prima città mediterranea, una città nella quale nulla avanza secondo linee nette, rotture,
dove la cultura è trasversalmente condivisa. Ed allora sembra quasi naturale il successo di Valentina
mentre la sua presenza sulle reti televisive nazionali ha suscitato tanto scalpore e polemiche in tanta
parte dell’opinione pubblica e del clero.
Un percorso che le Altre e gli Altri stanno vivendo a partire da un inserimento dei vissuti nelle realtà quotidiane non solo nello spettacolo, o purtroppo, nella prostituzione, ma in scenari di visibilità
più opachi ma di più significativa trasformazione in atto.
Identità che richiedono diritti, riconoscimenti, tutele, ovvero ancora una volta di elaborazione flessibile, ma non evanescente.
Bibliografia
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valentina e le altre
Annalisa Di Nuzzo
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